La misura dell'umano. Ontoteologia e differenza in Jean-Luc Marion 9788857516776


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La misura dell'umano. Ontoteologia e differenza in Jean-Luc Marion
 9788857516776

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FILOSOFIE N. 330 Collana diretta da Pierre Dalla Vigna (Università “Insubria”, Varese) e Luca Taddio (Università degli Studi di Udine) COMITATO SCIENTIFICO

Paolo Bellini (Università degli Studi dell’Insubria, Varese-Como) Claudio Bonvecchio (Università degli Studi dell’Insubria, Varese-Como) Mauro Carbone (Université Jean-Moulin, Lyon 3) Morris L. Ghezzi (Università degli Studi di Milano) Giuseppe Di Giacomo (Università di Roma La Sapienza) Enrica Lisciani-Petrini (Università degli Studi di Salerno) Antonio Panaino (Università degli Studi di Bologna, sede di Ravenna) Paolo Perticari (Università degli Studi di Bergamo) Susan Petrilli (Università degli Studi di Bari) Augusto Ponzio (Università degli Studi di Bari) Luca Taddio (Università degli Studi di Udine) Valentina Tirloni (Université Nice Sophia Antipolis) Antonio Valentini (Università di Roma La Sapienza) Jean-Jacques Wunemburger (Université Jean-Moulin Lyon 3)

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GRAZIANO PETTINARI

LA MISURA DELL’UMANO Ontoteologia e differenza in Jean-Luc Marion

MIMESIS Filosofie

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© 2014 – MIMESIS EDIZIONI (Milano – Udine) Collana, Filosofie, n. 330 Isbn 9788857516776 www.mimesisedizioni.it Via Risorgimento, 33 – 20099 Sesto San Giovanni (MI) Telefono +39 02 24861657 / 24416383 Fax: +39 02 89403935 E-mail: [email protected]

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INDICE

PREMESSA INTRODUZIONE 1. La questione della metafisica 2. Marion e Nietzsche 3. Nonostante Heidegger, con Heidegger I. LA DISTANZA E LA MORTE DI DIO 1. La distanza: dalla «morte di Dio» alla donazione 2. La «morte di Dio» come manifestazione paradossale di Dio 3. L’idolo e l’icona 4. L’idolo, il concetto di «Dio» e la costituzione ontoteologica della metafisica 5. Dall’idolo all’icona: una teologia non ontoteologica 6. Ai confini dell’ontoteologia: Nietzsche, Hölderlin e Dionigi l’Areopagita 7. La distanza e l’Essere II. OLTRE LA METAFISICA E L’ONTOLOGIA 1. Evitare i malintesi 2. Una fenomenologia dell’idolo 3. Una fenomenologia dell’icona 4. Idolo estetico e idolo concettuale 5. Una reinterpretazione della «morte di Dio» 6. La prima idolatria 7. La difficile liberazione dall’idolo 8. Liberare «Dio» dalle virgolette 9. La seconda idolatria 10. Un’ulteriore conferma: Heidegger e la teologia

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III. DIFFERENZA E DONAZIONE 1. L’inosservanza della differenza ontologica 2. L’icona concettuale 3. L’impensabile e l’amore 4. La messa fuori gioco della differenza ontologica 5. Il rovesciamento (Lévinas) della differenza ontologica 6. Marginalizzazione (Derrida) della differenza ontologica 7. Il dono 8. La donazione

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INCROCI I. E. Lévinas II. J. Derrida III. L. Pareyson

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TAVOLA DELLE SIGLE E DELLE EDIZIONI CITATE

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PREMESSA

La misura dell’umano e, conseguentemente, la dismisura del divino s’impongono in questo lavoro come i termini, antitetici eppure convergenti, attraverso i quali ripercorrere la filosofia di Jean-Luc Marion quale è esposta in alcuni suoi primi scritti come L’idolo e la distanza del 1977 e Dio senza essere del 1982. Si tratta di un Marion che non è ancora approdato ad un esito della questione della metafisica e della sua fine come successivamente avverrà grazie alla riscoperta husserliana della fenomenologia come filosofia prima. Tale maturazione avverrà in seguito. Réduction e donation sarà infatti pubblicato solo successivamente, nel 1989. Invece, in quei due testi, scritti a cavallo del 1980, il filosofo francese indaga piuttosto la questione della metafisica e della sua fine attraverso il problema della morte di Dio di nietzschiana memoria e lo Schritt zurück heideggeriano come meditazione della differenza ontologica lasciata impensata dalla metafisica. E tale indagine avviene sotto il segno della possibilità di una teologia, di un discorso su Dio in grado di emanciparlo dai limiti e dalle condizioni proprie di un pensiero che lo riduce a concetto o a definizione, in ogni caso a un «Dio» circoscritto da quelle virgolette che sono la cifra visibile, nel corpo del testo scritto, della misura dell’umano. Liberare dunque Dio dalle virgolette, emanciparlo dai limiti del pensiero metafisico e ontoteologico che ne impediscono la rivelazione così che vi sia il manifestarsi della dismisura del divino sono dunque gli obiettivi che Marion persegue a partire da L’idolo e la distanza. Ma la ricerca del pensatore francese perviene a porre in luce come non sia solo la metafisica in quanto oblio dell’Essere, ma anche il pensiero heideggeriano dell’Essere, posto in opera dallo Schritt zurück, a mancare quell’emancipazione e a rinnovare anzi, per altra via, la misura stessa dell’umano come unica possibilità di accesso al divino. La differenza ontologica (pensata) determina cioè un altro nuovo e inatteso ostacolo per la rivelazione, dopo quello costituito dall’ontoteologia propria della metafisica. Unica via, per aggirarli, sarà un pensiero del dono come messa fuori gioco della differenza ontologica. È la rivelazione stessa che dischiude

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La misura dell’umano

infatti una modalità di darsi degli enti indifferente alla differenza ontologica come tale. Tale modalità è appunto la donazione, non ancora indagata propriamente nella sua accezione fenomenologica (Gegebenheit), ma interpretata come una dismisura del divino che sconcerta iconicamente la misura idolatrica dell’umano. Nel quadro di un’indagine sulla fine della metafisica intesa come ontoteologia, nel ricercarne un superamento da intendersi come una liberazione di Dio dalle ristrettezze della causa sui e della differenza ontologica, Marion perverrà dunque al tema della donazione. La messa tra parentesi delle pretese di una misura dell’umano costituisce in questo senso, dapprima, il tentativo di una riduzione della pretesa del soggetto metafisico di nominare «Dio» e, successivamente, quello di una messa tra parentesi della presunzione da parte di un io trascendentale a porsi come istanza anteriore alla fenomenalità dei fenomeni1. Due considerazioni, brevemente, si imporrebbero. La prima: rispetto a D. Janicaud, Marion non attuerebbe una svolta della fenomenologia in senso teologico2, bensì, se proprio i termini della questione devono essere questi, semmai l’inverso. Precisando, tuttavia, che l’esigenza speculativa del pensatore francese ruota intorno alla fine della metafisica e non allo statuto proprio della teologia in quanto tale. Infatti è dalla questione della metafisica e della sua fine, indagate nel senso di una teo-logia tesa a liberare la dismisura del divino che egli perviene al tema della donazione declinata, successivamente, in chiave fenomenologica3. Il ruolo giocato dalla 1

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«Laddove il trascendentale fissa la misura, la donazione eccede senza misura, in modo che l’eventuale soggetto non possa riferirvisi che attraverso un’essenziale dismisura; essa lo istituisce meno di quanto non lo destituisca, lo confonde più che confondersi con esso» (ED 89; 73). Per una sintesi del dibattito sulla svolta teologica della fenomenologia francese avviato da D. Janicaud (Le tournant théologique de la phénoménologie française, L’Éclat, Combas 1990, ora raccolto in La phénoménologie dans tous ses états, Gallimard, Paris 2009) si veda V. Perego, La fenomenologia francese tra metafisica e teologia, Vita e Pensiero, Milano 2004, pp. 3-10. Marion risponde alle tesi avanzate da Janicaud nel § 7 di ED. È significativo che Janicaud liquidi in un solo passaggio del suo Le tournant théologique de la phénoménologie française i due testi di Marion che questo lavoro prende in considerazione L’idolo e la distanza e Dio senza essere. In questo passo, Janicaud ritiene che essi siano la prosecuzione del rovesciamento del rapporto tra metafisica razionale e teologia avviato, secondo lui, da Heidegger e declinato da Marion in direzione di una teologia non ontologica dell’amore: «Alors que la métaphysique rationnelle a joué, jusque chez Wolff et encore dans le néothomisme, le rôle d’une propédeutique à la théologie, sa portée a été inversée par Heidegger: l’accès au “Dieu plus divin” dépend d’un dégagement par rapport au mode métaphysique de penser. Dans L’idole et la distance et Dieu sans l’être, Marion a

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Premessa

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misura dell’umano aiuta certamente a comprenderlo e soprattutto il punto di vista filosofico (non necessariamente teologico) adottato, come dimostrano le pagine dei primi scritti dedicate alla morte di Dio di Nietzsche, all’idolo e all’icona, alla differenza ontologica ecc. che dimostrano come Marion sia interessato a porre in luce i limiti della metafisica e del suo discorso (onto)teologico piuttosto che a edificare una teologia in senso stretto. Ruolo della filosofia è quello di sondare la possibilità della rivelazione, mentre quello proprio della teologia sarebbe di coglierla nella sua «effettività storica», come Marion stesso preciserà in seguito4. In ogni caso, la successiva declinazione della donazione in chiave fenomenologica non presuppone secondo il filosofo francese alcuna premessa teologica5. E ciò perché la fenomenologia della donazione mira a superare la misura del soggetto metafisico e trascendentale. La seconda considerazione, in fondo, lo dimostrerebbe. È la donazione, come messa fuori gioco della differenza ontologica, che sospende e riduce (uso l’accezione fenomenologica) la misura dell’umano a favore della dismisura del divino mettendo fuori gioco il Dio dell’ontoteologia e la dimensione del sacro cara a M. Heidegger. Ma tale assunto - la sospensione della misura dell’umano - costituirà anche la tesi centrale della fenomenologia della donazione, non certo in relazione al divino, che verrà posto fuori circuito6, ma a quella della dismisura dei fenomeni d(on)ati come

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repris ce renversement heideggérien à son compte dans le sens d’une théologie non ontologique, non représentative de l’amour christique» (D. Janicaud, La phénoménologie dans tous ses états, cit., p. 85). Non vi compare alcun accenno all’emergere del tema della donazione come tentativo di una messa fuori gioco della differenza ontologica. Di diverso avviso è invece E. Lévinas che coglie proprio nella «distanza dalla differenza ontologica» il nucleo speculativo stesso di IeD: «È sufficiente richiamare il sottile e profondo saggio di Jean-Luc Marion sulla divinità di Dio. Tentativo coraggioso di apertura, tentativo, ancora isolato, presso i filosofi, di non concepire più Dio a partire primordialmente dall’essere. Pur riconoscendo il proprio debito verso Heidegger e fissando il proprio itinerario lungo la ricerca aperta dalle vie heideggeriane, l’autore si pone finalmente […] “a distanza dalla differenza ontologica”» (E. Lévinas, De Dieu qui vient à l’idée, Vrin, Paris 1982, tr. it. Di Dio che viene all’idea, Jaca Book, Milano 2007, p. 153). Cfr. Ver 97; 88. «Ciò che stupisce in queste approssimazioni è evidentemente il fatto che la critica ignora che la nozione di donazione non ha nessun bisogno, a partire dalla lezione di Husserl, di un qualunque supplemento teologico per intervenire in fenomenologia: essa vi gioca immediatamente a pieno titolo, in pianta stabile e come a casa propria» (Ed 104-105; 87). «Così, si tratta ormai di definire la donazione in se stessa e a partire da se sola» (Ed 60; 46).

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La misura dell’umano

messa fuori gioco del soggetto metafisico e trascendentale. Mi riferisco soprattutto al tema del superamento di E. Husserl sul piano di una radicale diminuzione, se non di annullamento, del ruolo svolto dall’intenzionalità della coscienza7. Più ancora, alludo al conseguente orientamento empirico della fenomenologia di Marion8. Scopo di questo libro è dunque quello di ricostruire di nuovo quell’indagine, sebbene sia già nota a partire dagli anni Ottanta. Il fine, non lo nascondo, è quello di rintracciare ancora una volta la possibilità, tuttora attuale per la filosofia, di confrontarsi con la rivelazione, non da un punto di vista teologico, ma filosofico, come indagine legittima che il pensiero deve muovere circa le pretese del suo esprimersi su un Dio che rischia di rimanere, nel contesto filosofico, un puro ens rationis, il Dio (morto) dei filosofi radicalmente altro rispetto al Dio (vivo) della rivelazione: «La rivelazione (nei nostri termini, l’icona), non può essere confusa e sottomessa al pensiero filosofico di “Dio” come ente (nei nostri termini, idolo)» (Dse 80; 75). Per questa ragione, in conclusione, sarà anche necessario incrociare la donazione come messa fuori gioco della differenza ontologica di Marion con l’ontologia della libertà di L. Pareyson. G.P.

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«La donazione del fenomeno a partire da sé ad un Io, può, in ogni istante, modificarsi nel senso di una costituzione del fenomeno attraverso e a partire dall’Io. L’egologia metafisica (nel fatto cartesiana) resta sempre un paradigma ossessivo per l’Io anche ridotto, anche fenomenologico, perché può lasciare la sua costituzione derivare dal riconoscimento di un senso che il fenomeno si sarebbe innanzitutto auto-conferito (Sinngebung) in direzione di una semplice sintesi, attraverso la coscienza dei suoi vissuti secondo un’intenzione d’oggetto» (Ed 262; 230). «La fenomenologia condivide con l’empirismo il ricorso privilegiato al fatto, anche se essa se ne separa, rifiutando di limitare i fatti alla sola empiricità sensibile» (Ed 169; 146). E ancora: «La fenomenologia va oltre la metafisica nella misura in cui rinuncia al progetto trascendentale per far spazio a un empirismo finalmente radicale – finalmente radicale perché non si limita più all’intuizione sensibile, ma ammette un’intuizione originariamente donatrice» (Ver 86-87; 78). Si tratta, come è risaputo, della cosiddetta prima riduzione alla quale Marion oppone la terza riduzione. Cfr. Red 304-305.

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INTRODUZIONE

1. La questione della metafisica In quella che a buon diritto può essere considerata una vera e propria Selbstdarstellung, come è stato già scritto1, J.-L. Marion individua nella questione della metafisica, della sua definizione e della sua messa in crisi, il punto di partenza della propria indagine filosofica: «In un certo senso tali questioni non possono essere affrontate se non riconoscendo quelle che sono le tappe essenziali del mio percorso e che possono essere riassunte in tre grandi momenti: 1. la questione della metafisica; 2. la questione della fenomenologia vista in particolare sotto la figura della donazione; 3. la scoperta di quell’ambito molto particolare che è il fenomeno del dono» (Dca 15). È M. Heidegger ad inaugurarla, come si sa, ponendo soprattutto l’accento su quella crisi interna della metafisica così da non poterne ridurre la questione ad un semplicistico dibattito esteriore ed ideologico. In questo senso, scrive Marion, «[…] la crisi della metafisica non proviene da obiezioni esterne alla questione metafisica. Fa parte del dibattito abituale credere che si tratti invece di obiezioni esterne. In realtà le difficoltà della metafisica derivano dal progetto stesso della metafisica e questo, in fin dei conti, è Heidegger ad averlo mostrato»2 (Dca 19). Il merito del filosofo tedesco consiste nella scoperta di quella contraddizione profonda che anima la metafisica. Essa pretende di porsi da Aristotele, e non solo, come una scienza o un sapere dell’essere in quanto essere, ma finisce per pensare soltanto l’ente al punto da lasciare impensato 1

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Ci riferiamo a Dca. C. Canullo osserva: «Il volume curato da Perone, infatti, come già nell’intento del suo ideatore e direttore di scuola, è un’interessantissima Selbstdarstellung, utile introduzione al pensiero del filosofo francese» (C. Canullo, a cura di, Jean-Luc Marion, un dibattito italiano, Simple, Macerata 2010, p. 6, nota n. 8). Per una contestualizzazione della ricezione del pensiero di Heidegger negli anni Sessanta in Francia, ai quali Marion si riferisce, rinviamo a D. Janicaud, Heidegger en France, Hachette, Paris 2005, vol. 1. In particolare ai capitoli intitolati Polémiques renouvelées, déplacements inédits e Dissémination ou recomposition?.

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La misura dell’umano

l’essere stesso. Di qui la sua crisi: «Una delle più radicali obiezioni che nascono dall’interno della metafisica stessa è la seguente: la metafisica non pensa ciò che dice di pensare. Non è una obiezione che viene di fuori. È un fatto che la metafisica trascura la questione: cos’è l’essere?» (Dca 19). La domanda sull’essere rimane una possibilità impensata dalla metafisica, ecco la contraddizione e, parimenti, l’affiorare stesso del suo punto critico. Ma il pensatore tedesco ha anche un altro merito. Consiste nell’aver compreso quell’inesorabile intrico che sussiste tra la metafisica e l’ontoteologia3. Marion l’osserva con nitidezza. Alla questione cos’è l’essere? la metafisica moderna ribatte con Dio. L’essere è Dio. Ma, poiché impensato dalla metafisica, quando la metafisica afferma l’essere, non intende che l’ente. Così Dio, è, in realtà, un ente. Una conseguenza della metafisica è dunque l’ontoteologia alla quale Heidegger si dedica in Identità e differenza4: «Cos’è l’essere? L’essere è la definizione di Dio. Ma l’ontoteolo3

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Prima di essere discusso in Identità e differenza, il concetto di ontoteologia già compare ne L’introduzione a: “Che cosa è metafisica?”: «In quanto porta a rappresentazione l’ente in quanto ente, la metafisica è in sé, in modo ad un tempo duplice e unitario, la verità dell’ente nella sua universalità e nella sua espressione suprema» (M. Heidegger, Wegmarken, V. Klostermann, Frankfurt a.M. 1976, tr. it., Segnavia, Adelphi, Milano 1987, p. 330). Il termine era già stato utilizzato da Immanuel Kant. È presente nella Critica della ragion pura: «Il nome di teologia trascendentale spetta o a quella che si propone di ricavare l’esistenza dell’essere originario da un’esperienza in generale […], ed è detta cosmoteologia, oppure a quella che presume di conoscere la sua esistenza in virtù di semplici concetti, senza far ricorso ad alcuna esperienza, ed è detta ontoteologia» (I. Kant, Critica della ragion pura, Utet, Torino 1967, pp. 501-502). Ricorre inoltre anche nelle Lezioni di filosofia della religione: «Nell’ontoteologia consideriamo Dio come l’essere sommo, o per lo meno in essa poniamo in prima istanza questo concetto come fondamento» (Immanuel Kants Vorlesungen über die philosophische Religionslehre, Herausgegebn von Karl Heirich Ludwig Pölitz, Verlag der Taubert’schen Buchhandlung, Leipzig 1830, tr. it. I. Kant, Lezioni di filosofia della religione, Bibliopolis, Napoli 1988, p. 130). Per una rapida definizione cfr. P. De Vitiis, Il problema religioso in Heidegger, Bulzoni, Roma 1995, p. 38. Ne La struttura onto-teo-logica della metafisica, che costituisce la seconda conferenza del 1957 contenuta in Identità e differenza, Heidegger tematizza come è noto, rispetto alla metafisica che lascia impensata la differenza ontologica, il cosiddetto passo indietro (Schritt zurück) come movimento che risale dalla dimenticanza della differenza ontologica a ciò che è «da-pensare»: «Il passo indietro va dal non pensato, cioè la differenza in quanto tale, a ciò che è da-pensare, cioè la dimenticanza (Vergessenheit) della differenza» (M. Heidegger, Identität und Differenz, Neske, Pfullingen 1957, tr. it. Identità e differenza, Adelphi, Milano 2009, p. 64). Ciò è anche occasione per delineare la struttura onto-teo-logica della metafisica. Nella Scienza della Logica hegeliana, Heidegger constata come l’inizio della scienza (che è metafisica) sia contemporaneamente una dottrina dell’essere e una teologia. Dunque, l’inizio della scienza è secondo Hegel tanto una ontologia (essere) quanto

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Introduzione

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gia consiste nel rispondere alla domanda sull’essere mediante una risposta sull’ente» (Dca 19). Secondo Marion, quell’esito anima già la metafisica di Cartesio. È questo il contesto in cui inserire l’interesse del pensatore francese per la filosofia cartesiana alla quale ebbe modo di dedicare alcuni testi tra il 1975 e il 1986. Ci riferiamo a Sur l’ontologie grise de Descartes5 del 1975, a Sur la théologie blanche de Descartes6 del 1981 e, in ultimo, a Sur le prisme métaphysique de Descartes7 del 1986. La lettura marioniana della filosofia di Cartesio si articola attraverso un’analisi dell’ontologia e della teologia cartesiane fino a fissare i limiti stessi della sua metafisica e, per estensione, di quella moderna: «[…] da una parte ho studiato la forma dell’ente in generale in Descartes – ciò che ha messo capo al libro Sur l’ontologie grise de Descartes – e poi la scienza dell’ente privilegiato cioè la teologia – ciò che ha prodotto Sur la théologie blanche de Descartes. E infine ho posto la questione dei limiti della costruzione metafisica in Descartes in un libro che si è chiamato Sur le prisme métaphysique de Descartes» (Dca 20). L’esito ultimo di tale indagine permette al filosofo francese di giungere ad una conclusione netta: la metafisica è finita e limitata. E ciò perché alla

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una teologia (Dio). Tale constatazione permette ad Heidegger di introdurre la tesi per la quale «la metafisica è onto-teo-logia» (M. Heidegger, Identità e differenza, cit., p. 70). Infatti la metafisica è il pensiero che pensa l’ente, obliati e impensati l’essere e la differenza ontologica. Essa domanda dunque dell’essere (impensato come tale) dell’ente, ma finisce per indagare l’ente come tale «sia nella fondante unità di ciò che è più generale […], sia nella fondante unità di ciò che è universale, ossia di ciò che, in quanto supremo, si pone al di sopra di tutto» (M. Heidegger, Identità e differenza, cit., p. 75). L’ente come tale è così pensato come fondamento: «l’ente in quanto tale, cioè l’essere, il quale si mostra nella modalità essenziale del fondamento». È il fondamento come causa prima e originaria (Ur-sache), in ultimo come causa sui: «l’essere dell’ente è rappresentato, nel senso del fondamento, fondamentalmente come causa sui». La metafisica giunge così alla causa sui, il nome che essa dà a Dio: «Con ciò si intende il concetto metafisico di Dio» (M. Heidegger, Identità e differenza, cit., p. 77). In questo modo, la metafisica diviene teologia, poiché è «nella filosofia che il dio fa la sua comparsa» (M. Heidegger, Identità e differenza, cit., p. 71) come causa sui. Di qui, la tesi heideggeriana per la quale «la metafisica è onto-teo-logia» (M. Heidegger, Identità e differenza, cit., p. 93). J.-L. Marion, Sur l’ontologie grise de Descartes. Science cartésienne et savoir aristotélicien dans les Regulae, Vrin, Paris 1975. J.-L. Marion, Sur la théologie blanche de Descartes. Analogie, création des vérités éternelles, fondement, P.U.F., Paris 1981. J.-L. Marion, Sur le prisme métaphysique de Descartes. Constitution et limites de l’onto-théo-logie cartésienne, P.U.F., Paris 1986, tr. it. Il prisma metafisico di Descartes. Costituzione e limiti dell’onto-teo-logia nel pensiero cartesiano, Guerini e associati, Milano 1998.

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La misura dell’umano

domanda cos’è l’essere? Cartesio risponde che esso è il cogitabile, ciò che è cogitabile dall’ego cogito. Se la metafisica è sapere dell’essere, essa è dunque limitata poiché il suo fondamento è il cogito, per sua natura finito. Ed è questa interpretazione dell’ens come cogitabile, anzi, a gettare le basi stesse della metafisica moderna. Se si accetta questa tesi emerge allora con urgenza una questione inderogabile. La questione della metafisica pone quella del Dio della metafisica in relazione alla sua costituzione ontoteologica. È, infatti, il cogito, finito e limitato, a nominare Dio come causa sui, «e, a ben vedere, Descartes è il primo a definire Dio proprio come causa sui» (Dca 25). A Dio (infinito) è attribuito così un nome finito. Gli è data una definizione che, per sua essenza e struttura, è finita. Ma Dio è infinito. Può Dio (infinito), diremmo vivente, sottostare a una determinazione concettuale il cui criterio ultimo è il cogito? Secondo Marion non sono la metafisica o il cogito a poter decidere ciò che Dio è, il suo nome o la sua definizione: «La metafisica può dire: se Dio accetta di essere definito come causa sui, sarà il primo principio dell’ontoteologia; la metafisica può dire: se Dio si lascia dire, pensare, definire come causa sui, allora Dio sarà fondamento del mondo e si avrà una metafisica infinita. Ma la metafisica non può affatto decidere se Dio accetta o meno il nome di causa sui. Insisto: essa viene soltanto a dirci che accetta Dio come primo principio dell’ontoteologia, se Dio prende il nome di causa sui. Ed è tutto da vedere se egli può prendere il nome di causa sui» (Dca 28). Ecco l’elemento ontoteologico della metafisica. È insito nell’ambizione di nominare Dio come causa sui. Ma un tale Dio, come scrive Heidegger in Identità e differenza, non si può né adorare né pregare. La questione della metafisica apre allora, al di là del Dio della metafisica, alla possibilità di un Dio non metafisico. È tale eventualità che Marion sonda ne L’idolo e la distanza del 1977 e in Dio senza essere del 1982 fino a trovare nei Prolégomènes à la charité8 del 1986 un ideale punto di approdo. 2. Marion e Nietzsche Oltre ad Heidegger, c’è F. Nietzsche9. E non potrebbe essere diversamente dato che la questione della metafisica muta in quella del Dio dell’on8 9

J.-L. Marion, Prolégomènes à la charité, Éditions de la Différence, Paris 1986. È ben vero che non ci sono solo Heidegger e Nietzsche a costituire un costante paradigma di confronto nell’elaborazione della filosofia marioniana da L’idolo e la distanza fino a Dio senza essere, come si avrà modo di esporre oltre. Ed è altrettanto vero che essa si richiama anche a modelli teologici precisi come osserva

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Introduzione

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toteologia. L’interesse del filosofo francese per il pensatore del Crepuscolo degli idoli si appunta infatti sul problema della morte di Dio, annunciata nell’aforisma 125 della Gaia scienza, ampliando la gamma semantica di rinvii tra la l’idolo del titolo del libro del 1977, la figura nietzschiana dell’idolo che tramonta con il suo crepuscolo e l’uccisione di Dio annunciata dall’uomo folle al mercato. Ciò che interessa a Marion è mettere alla prova la portata di quella morte, interrogare quale possibilità dischiuda effettivamente quel crepuscolo. Il tema, peraltro già discusso a lungo, è di nuovo quello di comprendere quale Dio muoia nella speranza che a svanire, sotto i colpi del martello di Nietzsche - metafora autoconsapevole della filosofia moderna giunta a compimento-, sia un idolo metafisico, il Dio dell’ontoteologia10. In breve, si tratta di comprendere se la sentenza nietzschiana sulla giustamente O. Aime: «La provenienza teologica non è più un titolo di disonore, da quando lo stesso M. Heidegger vi accenna per autocomprendersi nel suo cammino di pensiero. In quella di Marion, e qui occorre rifarsi soprattutto all’opera prima, L’idole et la distance, senza trascurare il successivo Dieu sans l’être-, rintracciamo una doppia fonte: la teologia dei nomi divini inaugurata da Dionigi l’Aeropagita con rifrazione su Massimo il confessore – al di là o al di qua di ogni teologia affermativa o negativa contaminate o anche solo influenzate dalla metafisica – e la nozione di rivelazione, che ha il suo centro ispiratore nell’opera di Giovanni l’apostolo e in Hans Urs von Balthasar il dispiegamento teologico geniale e sistematico» (O. Aime, La piega e la dissonanza, in C. Canullo, (a cura di), Jean-Luc Marion, un dibattito italiano, cit., p.136). Da aggiungere sarebbe anche la teologia di San Tommaso con la quale Marion dialoga in molte pagine di quei testi. Ma tali modelli teologici saranno presi in considerazione quando e solo laddove necessario, al fine di intendere la filosofia di Marion, piuttosto che la sua teologia. 10 Che si tratti di una vecchia discussione è risaputo. Ci limitiamo a qualche accenno. Per H. De Lubac, il Dio di cui Nietzsche annuncia la morte non è quello della metafisica, ma proprio il Dio del cristianesimo. Così H. de Lubac: “Il Dio di cui egli annuncia e vuole la morte, non è solo il Dio della metafisica, ma invece molto precisamente il Dio del cristianesimo” (H. de Lubac, Le drame de l’humanisme athée, Éditions Spes, Paris 1945, tr. it., Il dramma dell’umanesimo ateo, Morcelliana, Brescia 1988, p. 94). Di tutt’altro avviso sono, ad esempio, K. Jaspers, M. Heidegger e P. Ricoeur. Così Jaspers: «Quando si rivolge a Nietzsche il rimprovero di ateismo e si rimanda al suo Anticristo, in verità l’ateismo di Nietzsche non è affatto una negazione di Dio univoca e piatta, e non è neppure l’indifferenza di una lontananza da Dio, secondo la quale Dio non esiste perché non lo si cerca affatto. Già il modo in cui Nietzsche nella sua epoca stabilisce che “Dio è morto”, sta ad esprimere il suo turbamento» (K. Jaspers, Nietzsche. Einführung in das Verständnis seines Philosophierens, Walter de Gruyter & Co., Berlin-New York 1974, tr. it., Nietzsche. Introduzione alla comprensione del suo filosofare, Mursia, Milano 1996, p. 390). E ancora: «Se la direzione fondamentale e dominante nel pensiero di Nietzsche è quella di giungere senza Dio alla massima elevazione dell’uomo nella realtà stessa, d’altra parte, in modo ancor più deciso, egli mostra inintenzionalmen-

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morte di Dio oltrepassi o meno la metafisica e l’ontoteologia, permetta di istituire una nuova dimensione o un sito nei quali il Dio non metafisico e non ontoteologico abbia il suo avvento, venuta meno l’ultima ratio, la causa prima. Molte pagine de L’idolo e la distanza e di Dio senza essere hanno per fulcro l’esame della posizione nietzschiana su questo punto. Ammesso che Nietzsche, a giudizio di Marion, intenda con la morte di Dio quella di un idolo concettuale la cui forma ultima è il Dio morale di I. Kant, si può conseguentemente affermare che il suo crepuscolo si accompagni effettivamente alla «liberazione di un nuovo spazio, libero per un’eventuale apprensione, non idolatrica, di Dio» (Dse 59; 57). Eppure la posizione nietzschiana, pur liberando il divino, non lo emancipa dall’idolo concettuale, ma soltanto da una delle sue figure, quella storicamente determinata dalla filosofia kantiana. Il crepuscolo dell’idolo non elude che un idolo concettuale fra altri, rimane impigliato nel paradosso di una liberazione che non libera, di un’emancipazione che invece di affrancarsi dal dominio dell’idolatria lo mette in crisi, ma solo apparentemente per rinnovarlo sottovoce. È il richiamo ai nuovi dèi a dimostrarlo, ma soprattutto l’istanza ancora idolatrica alla quale il divino deve ancora sottostare apertosi quello spazio, venuto meno il Dio metafisico. Marion lo sottolinea con insistenza, soprattutto in Dio senza essere, come si avrà modo di leggere oltre. Morto Dio, il divino che avanzerà, i nuovi dèi che si faranno innanzi accompagnati da Dioniso, rimarranno sotto la condizione della volontà di potenza. Come a dire che la morte di Dio, l’ateismo concettuale che l’anima, lasceranno il posto ad un teismo speculare che consisterà in una nuova affermazione dell’idolatria. Dal crepuscolo di un idolo all’alba di un altro,

te e inconsapevolmente che l’uomo, in quanto esserci infinito, non può compiersi senza trascendenza. Il ripudio della trascendenza la fa subito risorgere” (K. Jaspers, op. cit., p. 386). Scrive Heidegger, sul quale avremo modo di tornare: «“Dio è morto”. Cioè: il “Dio cristiano” ha perduto il suo potere sull’ente e sulla destinazione dell’uomo. Il “Dio cristiano” è al tempo stesso la rappresentazione-guida che sta per il “soprasensibile” in generale e per le sue diverse interpretazioni, per gli ideali e le norme, per i principi e le regole, per i fini e i valori instaurati “sopra” l’ente per dare all’ente nel suo insieme uno scopo, un ordine e -come in breve si dice- per dargli un senso” (M. Heidegger, Nietzsche, Neske, Pfullingen 1961, tr. it., Nietzsche, Adelphi, Milano 1994, p. 564). In ultimo, Ricoeur: «Quale dio è morto? Possiamo ora rispondere: il dio della metafisica e anche quello della teologia, nella misura in cui la teologia riposa sulla metafisica della causa prima, dell’essere necessario, del motore primo concepito come l’origine dei valori e come il bene assoluto; diciamo che è il dio dell’onto-teologia, per impiegare il termine forgiato da Heidegger, dopo Kant» (P. Ricoeur, Le conflit des interprétations, Seuil, Paris 1969, tr. it, Il conflitto delle interpretazioni, Jaca Book, Milano 1999, p. 460).

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dalla negazione del Dio morale si passerebbe cioè all’affermazione di quei nuovi dèi forgiati dalla volontà di potenza. Non soltanto, allora, Nietzsche rimarrebbe entro quell’idolatria che contribuisce a oltrepassare, ma verrebbe anche meno la peculiarità stessa della sentenza sulla morte di Dio che, a questo punto, non rivestirebbe più alcuna centralità. Di qui, anzi, la possibilità di una reinterpretazione del pensiero nietzschiano ove la morte di Dio è pensabile a partire dalla volontà di potenza insieme alla possibilità di rileggere il metodo genealogico stesso come una vera e propria riduzione fenomenologica avant la lettre. Scrive infatti il filosofo francese: «La specificità di Nietzsche non consiste tanto nel proclamare la “morte di Dio”, quanto piuttosto nel pensarlo a partire dalla volontà di potenza: naturalmente, dobbiamo continuare ad ammettere ciò che viene considerato come “Dio”, ma lo si dovrà considerare un effetto di uno stato (reattivo) della volontà di potenza» (Dse 88; 83). E ancora: «Nessuno ha saputo mettere in luce questo fatto meglio di Nietzsche che, con una specie di riduzione fenomenologica ante-litteram, riconduce genealogicamente gli “dèi” – tutti gli “dèi,” senza eccezione alcuna – alla volontà di potenza»11 (Dse 89; 84). 3. Nonostante Heidegger, con Heidegger Ma, ancora una volta, è di nuovo Heidegger a suggerire al filosofo francese quella «reduplicazione dell’idolatria» che si perpetuerebbe in Nietzsche: «Questa reduplicazione dell’idolatria, cui neppure Nietzsche può sfuggire, con Heidegger può essere sospettata in maniera ancora più ampia e quindi più pericolosa di quanto possa esserlo con l’attesa nietzscheana» (Dse 60; 58). Detto altrimenti, Nietzsche rimarrebbe ancora irretito nella metafisica e nell’ontoteologia, un assunto che il pensatore tedesco esprime nel suo Nietzsche12 e che, evidentemente, Marion sottoscrive. Se ne L’idolo e la di11 In effetti, qui, Marion anticipa un tema, quello del possibile accostamento tra Nietzsche e Husserl che sarà svolto successivamente in Red. Cfr. Red p. 7 e pp. 31-33. 12 È Heidegger a suggerire la nota tesi per la quale Nietzsche è il pensatore che porta a compimento e fine la metafisica, ma proprio perciò ne rimane ancora irretito: «La filosofia di Nietzsche è la fine della metafisica in quanto ritorna all’inizio del pensiero greco, a suo modo lo riprende e chiude così l’anello formato dal corso del domandare dell’ente in quanto tale del suo ente» (M. Heidegger, Nietzsche, cit., p. 385). Ciò perché la volontà di potenza e l’eterno ritorno uniscono le determinazioni dell’essere che sono all’origine della filosofia greca, l’ente come divenire e stabilità: «Nel suo pensiero più essenziale dell’eterno ritorno dell’uguale, Nietzsche fonde in una le due determinazioni dell’essere ricavate dall’inizio della filosofia occidentale –

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stanza questa consapevolezza chiama in causa la teologia negativa di Dionigi l’Aeropagita nella ricerca di una teologia della distance, in Dio senza l’ente come divenire e l’ente come stabilità» (M. Heidegger, Nietzsche, cit., p. 388). Infatti la volontà di potenza è «dare al divenire la forma dell’ente in modo che, in quanto diveniente, venga mantenuto e abbia consistenza, cioè sia» (M. Heidegger, Nietzsche, cit., p. 387), cioè eterno ritorno: «La trasformazione del diveniente in ente – la volontà di potenza nella sua forma suprema – è, nella sua essenza più profonda, istantaneità, cioè eterno ritorno dell’uguale» (M. Heidegger, Nietzsche, cit., p. 387). La volontà di potenza è dunque eterno ritorno: «La volontà di potenza è, nell’essenza e secondo la sua intima possibilità, eterno ritorno dell’uguale» (M. Heidegger, Nietzsche, cit., p. 387). Il divino a venire, Dioniso, sottostanno al pensiero dell’eterno ritorno: «Ciò che le parole “Dioniso” e “dionisiaco” nominano viene inteso e compreso soltanto se è pensato l’ “eterno ritorno dell’uguale”» (M. Heidegger, Nietzsche, cit., p. 388). Proprio perché porta a compimento la metafisica, Nietzsche resta anche l’ultimo metafisico: «Nel pensiero della volontà di potenza si compie anzitutto il pensiero metafisico stesso. Nietzsche, il pensatore del pensiero della volontà di potenza, è l’ultimo metafisico dell’Occidente» (M. Heidegger, Nietzsche, cit., p. 398, cfr. anche p. 537 e pp. 692-693). In questo senso, si comprende il radicamento di Nietzsche nella metafisica a partire da una sua contestualizzazione entro la storia stessa della metafisica: «Tutto dipende dal capire la filosofia di Nietzsche come metafisica, cioè nel contesto essenziale della storia della metafisica» (M. Heidegger, Nietzsche, cit., p. 682). In particolare, importante è il confronto con Cartesio: «Nietzsche riconduce l’ego cogito a un ego volo e interpreta il velle come volere nel senso della volontà di potenza, che egli pensa come il carattere fondamentale dell’ente nel suo insieme» (M. Heidegger, Nietzsche, cit., p. 684). Di qui la rinomata tesi heideggeriana per la quale Nietzsche non esce dalla metafisica, ma ne è anzi il compimento in quanto la rovescia soltanto, non uscendo al di fuori di un platonismo rovesciato: «Ma che cosa vuol dire allora “fine della metafisica”? Risposta: l’attimo storico nel quale sono esaurite le possibilità essenziali della metafisica. L’ultima di queste possibilità deve essere quella forma della metafisica nella quale la sua essenza viene rovesciata» (M. Heidegger, Nietzsche, cit., p. 699). Centrale è infatti la ridefinizione della metafisica come nichilismo autentico. Nietzsche resta all’interno della metafisica, che è oblio dell’essere a favore dell’ente, poiché si attarda ancora sull’ente e non scorge la questione dell’essere come tale: «L’essere viene determinato come valore e viene quindi spiegato partendo dall’ente come una condizione posta dalla volontà di potenza, dall’ “ente” in quanto tale. L’essere non è riconosciuto come l’essere» (M. Heidegger, Nietzsche, cit., p. 811). Se la metafisica, in quanto dimenticanza dell’essere ridotto a niente, è il nichilismo autentico, - «l’essenza del nichilismo è la storia nella quale dell’essere stesso non ne è niente» (M. Heidegger, Nietzsche, cit., p. 812) -, Nietzsche resta nella metafisica poiché non supera il nichilismo che ne è l’essenza: «La metafisica di Nietzsche non è di conseguenza un superamento del nichilismo. È l’ultimo irretimento nel nichilismo» (M. Heidegger, Nietzsche, cit., p. 814). E ancora: «La metafisica è in quanto metafisica il nichilismo autentico. L’essenza del nichilismo è storicamente la metafisica: la metafisica di Platone non è meno nichilista della metafisica di Nietzsche» (M. Heidegger, Nietzsche, cit., p. 816). Poiché la metafisica è anche

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essere obbliga il filosofo francese ad un serrato confronto con Heidegger, scandito dal ritmo del cammino speculativo del pensatore tedesco, ma con l’intenzione di intraprendere altri sentieri, allontanandosi soprattutto da quelle questioni, l’ontologia e la differenza ontologica, che subordinano ogni tentativo di pensare Dio. Se la figura heideggeriana del divino come causa sui corrisponde alle fattezze dell’idolo di Marion, anche il sospetto che Nietzsche non esca dalla metafisica, cioè dall’idolatria, accomuna dunque i due filosofi. In Heidegger ciò risulta chiaro a partire dal nesso che viene ad istituirsi tra la morte di Dio, l’avvento della nichilismo e il dispiegarsi della tecnica con l’imposizione (Gestell13), manifestazione compiuta della metafisica nella sua dimenticanza dell’essere e della differenza ontologica. È in questo frangente del pensiero heideggeriano che affiora l’opportunità di un nuovo inizio del pensiero, nel punto stesso in cui riecheggia il verso poetico di F. Hölderlin, «ma dove è il pericolo, cresce anche ciò che salva»14. Si tratta dell’inaugurazione di una fenditura nella storia della metafisica e la conseguente possibilità di un pensiero che pensi finalmente l’essere e la differenza ontologica prima impensati; è l’insinuarsi di una fessura nella costituzione dell’ontoteologia e, forse, la successiva opportunità di pensare Dio come tale e non come causa sui. Proprio quest’ultima è in fondo davvero importante per il filosofo di Dio senza essere: «Concludendo: il “nuovo cominciamento”, fattosi carico dell’Essere come Essere, tenta di accostare il dio in quanto dio» (Dse 61; 59). Perciò non sorprende l’interrogazione puntuale alla quale egli sottopone il testo heideggeriano per valutare l’effettiva o illusoria svolta che comporterebbe circa la questione di Dio. Nel contesto dei suggerimenti di Identità e differenza, Marion salta dalla Lettera sull’umanismo a J. Beaufret del 1946 alla conferenza Fenomenologia e teologia del 1927, dal seminario di Zurigo del 1951 a Essere e tempo, ed in particolare al § 3 significativamente intitolato Il primato ontologico del problema dell’essere15. Ma il risultato di questa indagine sarà per ontoteologia, Nietzsche sarà anche il compimento di essa, perpetuandone ancora le strutture. Cfr. M. Heidegger, Nietzsche, cit., p. 820. 13 Sulla traduzione italiana di Gestell, cfr. la nota di G. Vattimo in M. Heidegger, Vorträge und Aufsätze, Neske, Pfullingen 1954, tr. it. Saggi e discorsi, Mursia, Milano 1985, p. 14. Anche Pietro Chiodi, L’ultimo Heidegger, Taylor, Torino 1969, p. 71. 14 F. Hölderlin, Poesie, Einaudi, Torino 1958, p. 156. Cfr. il commento di Heidegger in Saggi e discorsi, cit., p. 22. 15 Ciò che sembra non essere discussa, forse per ragioni di ricezione francese di Heidegger, è la figura dell’ultimo Dio così come Heidegger l’affronta nei celebri Contributi alla filosofia (M. Heidegger, Beiträge zur Philosophie, V. Klostermann, Frankfurt Am Main 1994, tr. it. Contributi alla filosofia, Adelphi, Milano 2007,

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alcuni versi davvero desolante. La tesi di fondo che sembra animare molti passi di quei testi nega che il nuovo cominciamento permetta di «accostare il dio in quanto dio». Marion lo rimarca in più pagine. Quel nuovo inizio apre certamente ad una dimensione del sacro (dèi, Geviert, possibilità di Dio) che sottostà però al pensiero dell’essere; inaugura perciò non tanto il sopraggiungere di un Dio non metafisico quanto l’avvento dell’essere nella sua differenza (pensata) dall’ente. Avvia una nuova e inattesa idolatria. Anche Heidegger, come Nietzsche, reduplica quindi l’idolatria, è un idolatra. Così, insomma, Marion si inseriva nel dibattito aperto nel 1980 dalla pubblicazione di Heidegger et la question de Dieu16. Sono allora l’essere, l’ontologia e la differenza ontologica le nuove figure di quell’idolo che, misura dell’umano, impediscono l’avvento dell’eccesso e della dismisura di un Dio non metafisico. A suffragarlo intervengono anche alcuni precisi corollari che si aggiungono a quella tesi di fondo, come l’ateismo metodologico della ricerca heideggeriana, la teologia come una scienza ontica, la dimensione solamente teiologica della filosofia, «la non-pertinenza del termine essere in teologia» (Dse 93; 87) che confluirebbero in quell’accenno di Identità e differenza alla necessità del silenzio e del tacere su Dio: «Chi ha conosciuto la teologia nella sua forma più matura – sia quella della fede cristiana, sia quella della filosofia – preferisce

pp. 397-408), con tutte le difficoltà che solleva: «Nella concezione dei Contributi, l’ultimo Dio come Dio divino non è il Dio della rivelazione dell’Antico e Nuovo Testamento, liberato e tenuto libero dalle determinazioni metafisiche, ma l’interamente altro. Per il pensiero appartenente alla storia dell’essere, il Dio ebreo-cristiano rientra nel cerchio della domanda metafisica sull’essere, la cui propria verità storica viene sì sottolineata, che però non è la domanda sull’essere appartenente alla storia dell’essere, al cui interno il Dio divino è l’interamente altro, il Dio della verità dell’essere qua evento e non il Dio dell’enticità» (F.-W. von Herrmann, La Metafisica nel pensiero di Heidegger, Urbiana University Press, Roma 2004, pp. 35-36). Ci limitiamo a segnalare, inoltre, i saggi di U. Regina (L’ultimo Dio di Martin Heidegger), C. Esposito (L’essere (di) Dio nei Beiträge zur Philosophie di Martin Heidegger) e G. Moretti (I Venturi e l’ultimo dio. Poesia e sacro nei Beiträge) in H. Ott – G. Penzo (a cura di), Heidegger e la teologia, Morcelliana, Brescia 1995; L. Pareyson, Heidegger: la libertà e il nulla, ESI, Napoli 1990 poi ripubblicato con il titolo Il nulla e la libertà come inizio in Ontologia della libertà, Einaudi, Torino 1995; il capitolo La tematica del sacro in P. De Vitiis, op. cit. 16 Il secondo capitolo di Dio senza essere, intitolato La doppia idolatria, era già apparso in Heidegger et la question de Dieu, Grasset, Paris 1980. È una raccolta di saggi curata da R. Kearney e J. Stephen O’Leary nel quale prende forma il dibattito sui rapporti tra Heidegger, la fede e la teologia. Cfr. D. Janicaud, Heidegger en France, cit., p. 478 e seguenti.

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oggi tacere su Dio nell’ambito del pensiero»17. E proprio su questo invito, così simile a quello di Wittgenstein - «Su ciò, di cui non si può parlare, si deve tacere» -, che Marion avrà modo di riflettere18. Così la differenza ontologica, il pensare l’essere come tale, divengono i limiti oggettivi che Heidegger impone ad un pensiero che voglia andare al di là del Dio dell’ontoteologia. Poiché quella differenza, se trasgredita, impedisce ogni pensiero. L’idolatria del pensiero dell’essere ha infatti la forma stessa di un’aporia. Se si ammette l’essere nella sua differenza dall’ente, il pensare Dio rimane vincolato a quell’ammissione. Se, invece, è trasgredito il pensiero dell’essere, il pensiero non è più possibile: «Bisogna dunque riconoscere che l’impossibilità, o per lo meno l’estrema difficoltà di pensare al di fuori della differenza ontologica potrebbe in qualche modo convenire all’impossibilità – indiscutibile e definitiva, questa – di pensare Dio come tale» (Dse 71; 67). Superare l’idolatria heideggeriana, significa allora mettere in discussione l’ontologia, la differenza ontologica. Detto altrimenti, si tratta di andare al di là dell’essere e dell’ontologia, di procedere ad una deformazione della differenza ontologica per giungere, al di là di Heidegger, a un Dio senza essere. Il superamento di quell’aporia è infatti possibile. Una direzione è già stata tracciata da E. Lévinas e da J. Derrida. La differenza ontologica non può essere abolita, ma può essere manomessa, dislocata diversamente. Nella forma di un rovesciamento, ad esempio. Totalità e infinito è una profonda critica all’ontologia di Heidegger, vera e propria filosofia del Neutro che si può invertire capovolgendo la differenza ontologica in nome dell’Altro. Oppure in quella di una sua relativizzazione. Margini della filosofia, marginalizza la differenza ontologica, anteponendole un’altra, più antica, différance. Marion non è tanto interessato però al contenuto in sé della proposta speculativa dei due pensatori, che d’altronde sottoporrà a critica, quanto più alla sfida lanciata ad Heidegger, all’indicazione del cammino da seguire. Ciò che interessa al filosofo francese è, insomma, il metodo adottato, la promessa di un superamento della differenza ontologica non attraverso una sua abolizione, altrimenti non vi sarebbe pensiero, ma tramite una sua deformazione. In Marion essa assumerà la forma di un pensiero del dono (don) radicato nell’orizzonte teologico neotestamentario: il donare come messa fuori gioco della differenza ontologica, intervento di quel

17 M. Heidegger, Identità e differenza, cit., p. 70. 18 L. Wittgenstein, Tractatus logico-philosophicus, Routledge and Kegan, London 1961, tr. it. Tractatus logico-philosophicus e quaderni 1914-1916, Einaudi, Torino 1995, p. 109. Cfr. Dse 81; 77.

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Dio non metafisico, barrato con la croce di Sant’Andrea, che si rivela nel Nuovo Testamento come ἀγάπη (1 Gv 4,8). Eppure, il pensiero del dono marioniano sarà ancora una volta, l’ultima, debitore verso Heidegger, in particolare verso quella dottrina del donare (Geben) e dell’es gibt esposte nella conferenza Tempo ed essere, a lungo meditata dal filosofo francese, nella quale il pensatore tedesco approfondisce il pensiero dell’essere nella sua differenza dall’ente in direzione dell’Ereignis. Nonostante Heidegger, con Heidegger. D’altronde, osserverà Marion, non si è mai trattato di condannarlo19.

19 Cfr. Dse 79; 74.

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CAPITOLO PRIMO LA DISTANZA E LA MORTE DI DIO

1. La distanza: dalla «morte di Dio» alla donazione Delle cinque parti che costituiscono L’idolo e la distanza del 1977 quelle centrali sono dedicate rispettivamente a F. Nietzsche, a F. Hölderlin e a Dionigi l’Areopagita. Per Marion non si tratta di un semplice esercizio esegetico. I tre studi assolvono, piuttosto, all’esigenza di conquistare un pensiero in grado di confrontarsi con una serie di questioni circoscritte dalla morte di Dio e dalla differenza ontologica di Heidegger. Detto altrimenti, si tratta del problema dell’uscita dalla metafisica o del suo superamento, della possibilità di un discorso su Dio che prescinda dai limiti dell’ontoteologia. Al centro della riflessione marioniana si pone innanzi tutto la distanza (distance). Questa si radica nel contesto di un pensiero che sottopone ad indagine serrata la possibilità di una lettura della morte di Dio in chiave trinitaria. La distanza prende forma proprio attraverso l’idea che la morte di Dio, lungi dall’essere una banale dichiarazione di compiuto e superficiale ateismo, rimandi invece ad un contesto nel quale risultano centrali il deserto, l’assenza e la fuga del divino nel quadro della morte del Figlio, del Venerdì Santo. Al centro della ricerca di Marion, si pone dunque la necessità di una profonda riflessione sulla presunta «morte di Dio» tale da dischiudere la tematica della distanza, capace di arricchirsi di significato nell’ambito della questione heideggeriana della metafisica e della differenza ontologica. La questione centrale resta quella di chiarire in che senso la sentenza di morte coinvolga Dio: di quale Dio si annuncia la morte, se ne dà, si pronuncia la sentenza di morte? Ciò che agisce in profondità nell’articolarsi della riflessione marioniana è in fondo l’ormai classico contesto dell’ontoteologia e l’idea che il Dio morente sul finire dell’Ottocento sia il Dio della filosofia o della metafisica, che dire si voglia. La sentenza di morte riguarderebbe perciò il Dio dei filosofi, il Dio metafisico, il divino inteso come ente supremo (causa sui, ens necessarium ecc.), fondamento e garanzia ultima del reale.

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Questo assunto consente a Marion un’altra possibile concettualizzazione della distanza ponendola in dialettica con la differenza ontologica heideggeriana. La distanza si contestualizza e prende forma richiamandosi anche alla filosofia di Heidegger. In che senso vi sarebbe infatti una relazione tra la «morte di Dio» e la differenza ontologica? Lungi dall’essere professione banale di ateismo, la «morte di Dio» sentenzia la sola morte del Dio della metafisica attestando il fallimento o l’impossibilità di confondere Dio con un ente, sebbene supremo. La differenza ontologica, dal canto suo, diviene con Heidegger proprio il luogo di differenziazione tra l’essere e l’ente, lo spazio di affermazione di una distanza tra l’essere dell’ente e l’ente stesso finora impensata dalla metafisica. La differenza ontologica chiama in causa la metafisica, l’oblio dell’essere e la pensabilità (possibilità) di un suo superamento. La «morte di Dio» e la differenza ontologica rimandano dunque alla differenza tra l’essere e l’ente. Marion acquisisce tale prospettiva. La declina però in maniera teologica, distanziandosi così dall’ontologia heideggeriana. La questione centrale diviene quella della possibilità di pensare la differenza come differenza tra il Dio della metafisica (ens) e Dio, problematizzando anzi la relazione tra Dio e l’essere pensato dalla metafisica. Interrogarsi sulla metafisica dopo la «morte di Dio» significa infatti domandarsi anche quale sia il rapporto tra Dio e l’Essere, assodato che Dio non è un ente: Nell’orizzonte contemporaneo la distanza è immediatamente legata, con diversa evidenza, del tutto problematica alla differenza. In particolare a quella differenza ontologica per la quale Heidegger, a viva forza, ha conquistato il luogo in cui essa diventa pensabile a prezzo e in previsione di una uscita dalla metafisica. Ma allora lo spiegamento di cui si è fatto credito alla distanza non trasporrebbe solo -semplice, arbitraria e vana ricalcatura- il dispiegarsi del dispiego? No, senza dubbio, purché si determini più esattamente ciò che è in gioco nella controversia: che ne è del rapporto che Dio (quale appare nel discorso di lode) ha con l’Essere; e l’Essere, quale lo presenta la metafisica, o anche quale un “nuovo inizio” fosse capace di liberarlo per un altro soggiorno divino? Se si dà per assodato che la distanza resta radicalmente diversa dal problema dell’Essere (di una diversità essa stessa ancora impensata), essa si trova, per un istante, alleata con la doppia istanza critica che E. Lévinas (con l’Altro) e J. Derrida (con la differenza) innestano sulla differenza ontologica. Per un istante solo poiché la distanza esige più di un rovesciamento o di una banalizzazione della differenza ontologica. Resta allora da prendere sul serio la ripresa cui proprio Heidegger, alla fine, aveva sottoposto (in Zeit und Sein) la differenza, comprendendola a partire alla donazione (anonima?) del dono1 (Ied 12; 6). 1

Marion traduce il tedesco Zwiefalt con il francese pli, reso dal traduttore italiano de L’idolo e la distanza e di Dio senza essere con il termine «di-spiego», piuttosto che con «duplicità» (Cfr. M. Heidegger, Segnavia, cit., p. 522) oppure, seguendo in

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La distanza e la morte di Dio

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La distanza si radica così nella differenza ontologica, la problematizza. Ma proprio perciò Marion sarà costretto a confrontarsi anche con il pensiero di quanti si sono radicati nella medesima differenza come E. Lévinas con l’Altro e J. Derrida con la différance. Tale confronto aiuterà a precisare meglio in che senso la distanza abbia relazione con la differenza ontologica. Ciò consentirà di considerare seriamente, come avrebbe fatto Heidegger nella conferenza Tempo ed essere, la differenza ontologica in relazione alla donazione (Geben). La distanza, attraversato il deserto della «morte di Dio», problematizzata la differenza ontologica, conquisterà allora un pensiero del dono. Si tratterà, tuttavia, di un lungo tragitto, scandito in effetti dalle intuizioni iniziali de L’idolo e la distanza e poi dalle rigorose argomentazioni di Dio senza essere, fino alle pagine centrali di quest’opera, più precisamente al capitolo L’in-crocio dell’Essere, dove la discussione sulla differenza ontologica o, meglio, la sua messa fuori gioco consentiranno effettivamente al pensatore francese di conseguire in maniera definitiva il tema della donazione e di inaugurare, attraverso il successivo Réduction e donation e la traduzione della Gegebenheit husserliana con il francese donation, la sua fenomenologia. Non resta che ripercorrere allora i momenti centrali di acquisizione della distanza. 2. La «morte di Dio» come manifestazione paradossale di Dio La sentenza circa la «morte di Dio» è, secondo Marion, un enunciato contraddittorio. Esso infatti affermerebbe che ciò che per definizione non muore mai («Dio») sarebbe morto. La contraddizione appare nel momento in cui si afferma che ciò che non muore sarebbe già morto o starebbe per morire. Ma se si ribalta questa contraddizione, ossia che sarebbe morto «Dio», ciò che per definizione non muore, si ottiene qualcos’altro. Questo «Dio», se muore, non è in realtà «Dio»: «Ciò significa che la “morte di Dio” enuncia una contraddizione: chi muore non ha nessun diritto a pretendere, anche quando viveva, di essere “Dio”» (Ied 18; 13). Posta così la questione, si avrebbe però a che fare solo con un sofisma incapace di cogliere la profondità di ciò che la sentenza dice. Prova ne è che quel sofisma non soddisfa assolutamente, non pone termine alla necesmodo letterale il filosofo francese, «piega»: «La différence ne marque pas tant un antagonisme entre l’Etre et l’étant, qu’elle n’approfondit définitivement leur irréductible Pli (Zwiefalt) pour les concilier ainsi plus intimement» (Ied 258).

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sità, avvertita da chiunque, di meditare ciò che essa dice. Occorre allora ripensare ciò che è detto nella sentenza. La nuova via da intraprendere consiste, secondo il filosofo francese, nel provare a considerare la «morte di Dio» come la sentenza conclusiva di un ateismo concettuale. La «morte di Dio» diviene qui la conclusione di un ragionamento dimostrativo ipotetico, capace di negare l’esistenza di un essere supremo. Tale dimostrazione dovrebbe partire da un determinato concetto di «Dio», perno o appoggio dell’argomentazione dimostrativa. Dato tale concetto di «Dio», la dimostrazione dovrebbe articolarsi in vari passaggi: se «Dio» è x, poiché x è y (ove y toglie valore a ciò che connota), allora «Dio» è y («Dio» non ha valore, «Dio» è morto)2. Ma che cosa ha davvero concluso o dedotto l’ateismo concettuale? In realtà ha di certo argomentato in maniera rigorosa, ma solo in relazione a quel concetto di «Dio» posto da premessa. Ne derivano alcune conseguenze. In primo luogo, la «morte di Dio» è solamente la negazione di quel concetto dal quale la dimostrazione partiva. Dunque è negato (morto) quel concetto x di «Dio» che entrava nella dimostrazione. Su ciò Marion non ha dubbi. La negazione confuta soltanto il concetto di «Dio» ammesso all’inizio della dimostrazione, mentre resta escluso dalla conclusione Dio come altro da quel concetto definitorio, un Dio da concepire in maniera assoluta, indefinibile, incondizionata. La «morte di Dio» non coinvolge Dio come l’Ab-soluto (Ab-solu), l’incondizionato, ciò che etimologicamente (absolvere) risulta sciolto e libero da ogni definizione: Se dunque “Dio” copre un certo terreno semantico, la negazione non eliminerà Dio assolutamente, ma il senso di Dio che il suo “Dio” iniziale mette in discussione. Per negare assolutamente l’Assoluto, occorrerebbe, come d’altra parte per dimostrare una non esistenza in generale, enumerare esaustivamente tutti i possibili concetti di “Dio”, per partire da loro fino a negarli tutti (Ied 19; 14).

L’ateismo concettuale, proprio perché nega un concetto determinato di «Dio» dal quale procede, non mette in crisi l’esistenza dell’Ab-soluto. In questo senso, anzi, tale ateismo e il suo modo di argomentare possono divenire anche strumento per il credente, quando questi si trovi nell’esigenza di purificare il suo Dio da falsi concetti. 2

«Il ragionamento di un ateismo concettuale, il solo che sia stringente, procede ipoteticamente: se “Dio” è x, siccome x è y (contraddittorio, chimerico, pericoloso, insano, alienante ecc.), allora “Dio” è y; dunque se y basta a togliere valore a ciò che connota (e lo si ammette), “Dio è morto”» (Ied 18; 14).

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In secondo luogo, la dimostrazione rigorosa che si è portata a conclusione dimostra soltanto che il concetto di «Dio» dal quale si è partiti non è servito a molto. Quel «Dio» può morire, ma allora emerge chiaramente che il concetto di «Dio» non è Dio. All’inizio della dimostrazione si assicurerebbe che quel concetto di «Dio» è Dio, ma alla fine la conclusione lo smentirebbe: […] La dimostrazione conclusa priva di ogni utilità il concetto iniziale di “Dio” (“Dio è morto”); così, retroattivamente, la svalutazione finale rimbalza sul punto d’appoggio originario; se si è dimostrato che “Dio” non regge, in che cosa si è raggiunto Dio? Infatti il ragionamento deve distruggere il suo punto d’appoggio per arrivare a una conclusione; ma allora non conclude nulla, se non che il punto d’appoggio iniziale non garantiva, di fatto, alcun appoggio alla dimostrazione. Il rigore della conclusione è pari al rigore della condizione: “Dio” è morto solo se “Dio” può morire, cioè solo se, di primo acchito, nella dimostrazione non si tratta di Dio (Ied 19; 15).

Anche la via dell’ateismo concettuale non aiuta, insomma, a comprendere la contraddizione della «morte di Dio». Essa resta, nonostante la dimostrazione rigorosa, impensata e contraddittoria. Infatti l’ateismo concettuale conclude con la «morte di Dio», ma a morire è solo un concetto ristretto e regionale di «Dio» e non Dio in quanto Ab-soluto. Quale cammino intraprendere per dare conto della contraddizione insita nella «morte di Dio»? La sola via che resta è quella dell’abbandono del concetto, delle virgolette, per pensare la morte e la contraddizione a partire da Dio e non da «Dio». Si tratta di interrogare la contraddizione in Dio piuttosto che in «Dio». Occorre riconoscere che a morire è un concetto di «Dio» e di prendere atto che ciò dischiude allora la possibilità di interrogare Dio stesso: Che si rinunci alla sicurezza definita delle virgolette: che invece di darsi un concetto-oggetto di “Dio”, su cui operare una negazione senza altro rischio che il suicidio, si ammetta che Dio, indefinibile per definizione, resta tanto problematico da far sì che nessun concetto, neppure quelli di morte, di contraddizione e di “Dio”, sia sufficiente a riformarlo come incapace di sostenerli o reinvestirli (Ied 20; 15).

Problematizzare Dio. Pensare Dio come problema. Ciò significa rovesciare, attraverso l’attenzione rivolta a Dio senza virgolette, il senso della «morte di Dio». Il significato di quell’enunciato non consisterebbe tanto nella negazione dell’esistenza di Dio, quanto nella manifestazione di un paradosso che riguarda il Dio senza virgolette. La «morte di Dio» non

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avrebbe per significato la morte come negazione dell’esistenza. Assumerebbe invece il significato di una negazione del concetto di «Dio» che apre alla manifestazione paradossale di Dio. Detto altrimenti la «morte di Dio» assume diverse sfaccettature che ne colgono il significato a un livello sempre più profondo. La «morte di Dio» è, dapprima, semplice dichiarazione di ateismo, credenza nell’inesistenza di Dio, morte come negazione dell’esistenza di Dio. La «morte di Dio» è, poi, constatazione dell’inesistenza di un concetto di «Dio» che non compromette Dio senza virgolette, morte come negazione dell’esistenza di «Dio», di un concetto che lascia invece fuori di sé Dio come ciò che non è pensabile attraverso definizioni. In ultimo la «morte di Dio» è pensata attraverso l’abbandono delle virgolette stesse, in un movimento di pensiero che va dalla «morte di Dio» alla morte di Dio. La «morte di Dio» come morte di Dio rivela al pensiero l’impensabile, il contraddittorio, il paradosso: Dio che muore. Ecco dunque il senso della contraddizione che si accompagna alla «morte di Dio». La sentenza che la annuncia è, certo, una contraddizione, ma nel senso del paradosso e dello scandalo paolini: è la morte di croce del Figlio (1 Cor 1, 18-26). La «morte di Dio», come morte di Dio, diviene manifestazione radicale del divino come l’hanno pensata tutti coloro che non l’hanno ingenuamente confusa né con una professione di ateismo banale né con una professione di ateismo concettuale o di «crepuscolo degli idoli»: Dio come un problema? Forse. Tanto più che chi ha meditato più decisamente sulla “morte di Dio”, Hegel, Hölderlin, Nietzsche, Heidegger, e alcuni altri (tra i quali, certo, non è Feuerbach), hanno letto in questo enunciato ben altro che non una negazione (dell’esistenza) di Dio. Essi vi hanno riconosciuto la manifestazione paradossale, ma radicale, del divino. Potremo seguirli “da lontano” (Lc 22, 54) solo a patto innanzitutto di non confondere la “morte di Dio” con il problema di Dio, o più esattamente, la “morte di Dio” con il “crepuscolo degli idoli” (Ied 21; 16).

3. L’idolo e l’icona La morte di Dio è dunque manifestazione del paradosso paolino del Dio che muore, tutt’altro rispetto alla «morte di Dio» intesa come ateismo concettuale, morte di un concetto di «Dio». Tuttavia l’ateismo concettuale rimanda anche, nel passo riportato sopra, al «crepuscolo degli idoli» nietzschiano. Ciò consente a Marion di introdurre la tematica dell’idolo e della sua differenza dall’icona. Il paradosso rimane ora come sullo sfondo,

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mentre la possibilità di pensare il concetto di «Dio» nel senso dell’idolo permetterà di approfondire la nozione di distanza e il ruolo occupato dalla metafisica e dall’ontoteologia. Innanzi tutto occorre soffermarsi sull’idolo. Se vi è il «crepuscolo degli idoli», occorre chiarire, secondo Marion, su che cosa esattamente si distenda questo crepuscolo: che cosa è l’idolo? La natura dell’idolo (εἴδωλον) è quella di essere un artefatto dell’uomo. L’uomo produce l’idolo nel quale dà forma e immagine al divino affinché possa essere veduto: L’idolo non personifica il dio, e quindi non inganna l’adoratore che non vi vede il dio in persona. Tutto al contrario, l’adoratore sa di essere l’artigiano che ha lavorato metallo, legno o pietra per dare al dio un’immagine da vedere (eidolon) perché acconsenta a prendervi volto. Il divino non produce, e non si produce come un idolo. L’adoratore ha la perfetta coscienza che il dio non coincide con l’idolo. Cosa adora in esso, allora? Il volto nel quale vuole trovare il dio, o meglio il divino (Ied 22; 16).

È importante sottolineare che nella relazione religiosa di tipo idolatrico, l’accento è tutto posto sull’uomo che imprime nella materia la sua esperienza del divino producendo un’immagine da vedere, sperando e pregando il divino stesso di soggiornare in essa: Nell’idolo l’esperienza umana del divino precede il volto che lo stesso divino vi assume. […] L’esperienza umana del divino precede il volto idolatrico. Il volto idolatrico elaborato dall’uomo precede la sua assunzione da parte del dio. Nell’idolo il divino assume senza alcun dubbio il volto effettivo di un dio. Ma questo dio deriva la propria forma dai tratti che gli abbiamo modellato, in conformità a ciò che proviamo effettivamente circa il divino. […] L’idolo ci restituisce, nel volto di un dio, la nostra esperienza del divino (Ied 22; 17).

La funzione assolta dall’idolo non consiste allora nell’identificare l’uomo o la natura con il divino. Non si tratta di produrre un’immagine del divino somigliante a noi. Si tratta invece di produrre un’immagine della nostra esperienza del divino, di ciò che l’uomo prova del divino. L’esperienza che l’uomo ha nei confronti del divino consiste, infatti, tanto nel timore verso ciò che è sconosciuto, senza volto, quanto in quello di essere abbandonati dalla divinità, privati di rapporto o di relazione con essa. Si tratta, dunque, del timore verso il divino in quanto senza volto, minaccioso e oscuro pericolo, che all’uomo si manifesta anche come destino. E del timore provocato dall’assenza di rapporto con questo divino, tetro e ignoto, più precisamente della paura di essere abbandonati dalla divinità, ossia

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ateismo, secondo Marion, nel senso etimologico di «essere abbandonati dagli dei»3 (Ied 46; 34). La funzione dell’idolo è proprio quella rassicurante di una garanzia, di un addomesticamento o di una familiarità che eviti il pericolo e il disagio dell’uomo nei confronti della divinità4. Il divino in quanto destino, benevolo o terrificante, che l’uomo avverte e del quale ha esperienza, può avere il volto di un idolo, quello di un Dio o di una famiglia di dèi che divengono figure vicine all’uomo, familiari e non più pericolose: «L’idolo non inganna, ma si fa garante del divino. Si fa garante del divino, e, anche quando fa paura, rassicura identificando il divino nel volto di un Dio» (Ied 23; 17). L’idolo familiarizza il divino, ma in realtà lo snatura. La garanzia finisce per ridurre la distanza che vige tra la divinità e l’uomo. Il divino è, infatti, alterità, scarto, irriducibilità all’immagine da vedere. La sua manifestazione consiste nell’assenza e nel ritiro. Ogni tentativo di afferrare il divino, ne perde la distanza. Ecco il limite dell’idolo. Rendendo disponibile il divino in un volto, l’idolo diviene amuleto che lo snatura: […] L’idolo cerca di far riassorbire proprio lo scarto e il ritiro del divino: ma stabilendo una simile disponibilità del divino nel volto fissato, se non immobilizzato, del dio, non si elimina, subdolamente ma radicalmente, l’irruzione altera e l’alterità irrecusabile che, in proprio, attestano il divino? Sovvenendo all’assenza del divino, l’idolo mette a disposizione il divino, se ne fa garante e, alla fine, lo snatura (Ied 24; 18).

L’idolo perde la distanza. L’icona (εἰκών), invece, non la perde. La coppia formata dall’idolo e dall’icona diviene così decisiva. E contribuisce a delineare il senso della distanza. Infatti la differenza tra l’idolo e l’icona si gioca tutta sulla relazione che intrattengono con la distanza. L’idolo l’abolisce, l’icona, invece, la salvaguarda. Ma solo in chiave trinitaria l’icona riesce a conservare la distanza. L’icona mostra, infatti, le fattezze del Cristo, del Figlio che assume un volto visibile nella profondità del quale manifesta

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Marion interpreta l’ateismo come l’essere senza dei, alla luce di San Paolo: «l’athéisme (au sens originel: être déserté par les dieux)» (Ied 24). In nota Marion rimanda a Paolo (Ef 2, 12). «L’idolo non presuppone né l’inganno del sacerdote né la stupidità della folla (come ripetono concordemente alcuni autori biblici, ma anche, oltre ai Padri, Agostino compreso, Bayle, Fontenelle e Voltaire» (Ied 23; 17). Significativo è il rimando al Fontenelle dei Dialogues des morts da parte di Nietzsche in Umano, troppo umano e nella Gaia Scienza. Cfr. N. Frola, Une iconoclastie sans fureur. Les Nouveaux Dialogues des Morts de Fontenelle, Champion, Paris 2001, pp. 102-103.

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l’invisibilità del Padre. L’icona consente una «visibilità dell’invisibilità» (Ied 25; 19): Di che offre il volto l’icona? “Icona del Dio invisibile” (Col 1,15), dice del Cristo san Paolo. Figura, non di un Dio che in questa figura perderebbe la propria invisibilità per diventarci familiare fino alla familiarità, ma di un Padre che tanto più irradia una definitiva ed irriducibile trascendenza quanto più la offre senza riserve nella figura del Figlio. La profondità del volto visibile del Figlio dà in visione la invisibilità del Padre come tale (Ied 25; 19).

La distanza non viene dunque abolita, ma preservata. Al riflettersi sull’idolo dell’esperienza umana del divino, si oppone l’invisibilità che dà visibilità ad ogni cosa. Allo specchio si contrappone il prisma, che non riflette direttamente la luce ma la scompone in diversi colori: Alla topologia dello specchio, in cui l’idolo ci rinviava l’immagine autentica, ma chiusa della nostra esperienza del divino, succede la topica del prisma: […] la luce cosiddetta bianca, che non lo è, dato che resta invisibile nel momento stesso in cui rende ogni cosa visibile. […] L’icona sostituisce un tipo negativo di teofania: la figura resta autenticamente insuperabile (norma, autoriferimento) solo se si apre in profondità su un’invisibilità di cui non abolisce, ma rivela, la distanza (Ied 26; 19).

Chiarito il rapporto tra l’idolo e l’icona, Marion può affrontare un problema decisivo, grazie al quale la tematica dell’idolo e della distanza incontrano l’ontoteologia e il problema di un’uscita dalla metafisica. La questione è se si possa o meno stabilire un rapporto tra l’ateismo, il concetto di «Dio» dal quale procede, da un lato, e l’idolo, dall’altro. Il concetto e l’idolo avrebbero, infatti, in comune l’abolizione della distanza intesa come estraneità del divino. Se l’idolo ci restituisce la nostra esperienza del divino, il concetto ne riflette invece il nostro pensiero. In entrambi i casi il divino assume pur sempre un volto familiare e non minaccioso. Allora il concetto di «Dio» funzionerebbe esattamente come un idolo al punto da annullare ogni distanza nel tentativo di rendere familiare il divino: […] La dialettica dell’ateismo, e del concetto che lo fonda ma lo squalifica, può avere un rapporto decisivo con l’idolo? Il concetto, come l’idolo, dispone una presenza senza distanza del divino, in un dio che ci rinvia la nostra esperienza o pensiero, in modo così familiare che ne possiamo governare il funzionamento. Si tratta sempre di mantenere fuori gioco l’estraneità del divino, col filtro idolatrico del concetto, o con la concezione visiva di un idolo. Si tratta adesso di precisare questa funzione del concetto di Dio (Ied 27; 20).

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Resterebbe tuttavia in gioco anche un’altra possibilità. Quella di considerare l’eventualità che il concetto, invece di assolvere alla funzione dell’idolo, possa svolgere quella dell’icona. Questa possibilità resta tuttavia come una domanda sospesa, inesplorata, priva di risposta fino a Dio senza essere. 4. L’idolo, il concetto di «Dio» e la costituzione ontoteologica della metafisica L’idolo riflette la nostra esperienza del divino. Il concetto di «Dio» riflette, invece, il nostro pensiero della divinità. L’idolo e il concetto di «Dio» svolgono la medesima funzione, ma si resta fermi ad una topologia dello specchio. All’uomo sono restituiti, riflessi nell’idolo e nel concetto di «Dio», la sua esperienza e il suo pensiero del divino. Perciò il ruolo svolto dall’adoratore che plasma un materiale (legno, pietra ecc.) per forgiare un idolo da vedere è analogo a quello del filosofo o del metafisico. La metafisica assegna, infatti, un volto al divino coll’attribuirgli un nome, un concetto. Il filosofo conferisce nomi diversi al divino, elabora differenti concetti di «Dio». L’hanno fatto Platone, Aristotele e lo stesso Plotino fino a Kant: Il filosofo, o, meglio, il metafisico dà nome al divino: lo fissa come idea tou agathou (Platone), come noeseos noesis (Aristotele), come Uno (Plotino). Introduce tra il divino, o più tardi tra il Dio di Gesù Cristo, e una definizione un segno di equivalenza, semplice, banale – terribile, parlerà, per esempio, come Kant, della “esistenza di un fondamento morale del mondo, cioè di Dio” (Ied 27; 20).

La metafisica stabilisce un’equivalenza tra il concetto di «Dio» che ha formulato e il Dio ebraico-cristiano. Ma resta un problema di fondo, non irrilevante circa la pretesa della fondazione di quella equivalenza. In che modo si conclude che Dio sia quel dato concetto di «Dio» pensato dal filosofo o dal metafisico? Anche la metafisica, come l’ateismo concettuale, esige il rigore di un’argomentazione stringente. In entrambi i casi il ragionamento fa leva sul concetto di «Dio». Ma la metafisica chiama quell’argomentazione un prova dell’esistenza di Dio. Con essa la metafisica assicura l’equivalenza posta tra il Dio della Scrittura e un concetto di «Dio». Si assicura, cioè, che il concetto di «Dio» sia il Dio della fede. Ma come avviene tale assicurazione? In realtà, osserva il filosofo francese, solo Dio potrebbe assicurare che un dato concetto di «Dio» sia lui stesso. Più in generale, l’assicurazione di una equivalenza, una qualunque prova dell’esistenza di Dio, richiedono sempre una «istanza esterna alla prova» (Ied 29; 21):

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Se poi al termine della dimostrazione, una volta che si sia identificato rigorosamente il divino in questo concetto (una volta conclusa la “prova dell’esistenza di Dio”, come si dice, o si diceva), il filosofo furtivamente, ma anche evidentemente e facilmente, identifica questo concetto del divino con qualcosa, o qualcuno cui attribuisce il nome di Dio – questa identificazione potrebbe essere confermata solo se Dio stesso la ratificasse (Ied 28; 20).

L’«istanza esterna alla prova» ha assunto, nel corso della metafisica, forme diverse. Si va dal consensus generale, ciò che è ammesso da tutti, fino ai significati fondati dall’io inteso come la soggettività stessa del filosofo. In San Tommaso l’«istanza esterna alla prova» è il consensus di tutti grazie al quale si può concludere che l’ente individuato razionalmente come motore primo, causa efficiente, ente necessario, ecc. è Dio, il Dio della Scrittura. La conclusione, osserva Marion, consiste in San Tommaso proprio nel riferirsi al fatto che tutti ammettono che questo ente colto razionalmente sia il Dio della Scrittura. La «prova» si basa su ciò che tutti ammetterebbero. In età moderna il «tutti» sembra divenire un «io». Ad ammettere è solo il filosofo. L’«istanza esterna» all’argomentazione è l’ego di Cartesio o di Spinosa a partire dal quale è stabilito ciò che vale come Dio. L’equivalenza tra il concetto di «Dio» e Dio è stabilita dal filosofo che definisce a suo modo - «io intendo per» - Dio come un ente che assume perfezione, infinità, ecc. La metafisica finisce dunque per appropriarsi di «Dio», costringendolo entro i limiti angusti di un verbalismo che, come l’idolo, familiarizza il divino snaturandolo. Il concetto di «Dio», esattamente come l’idolo, perde la distanza con il divino. Tutti i tentativi di rendere prossimo all’uomo il divino, di rispondere al timore dell’ateismo, nel senso etimologico di essere abbandonati dalla divinità, ottengono come risultato la perdita della distanza. Il pensiero, costruiti concetti di «Dio» e prove razionali della sua esistenza, si scopre alla fine ateo, ossia senza Dio, abbandonato dal divino. Come l’idolo, anche la metafisica perde la distanza: La prossimità dell’idolo maschera e smaschera la fuga del divino, e dello scarto che lo autentica. Appropriandosi troppo di “Dio” con delle prove, il pensiero si allontana dallo scarto, perde la distanza e si trova, un bel mattino, circondato da idoli, da concetti e da prove, ma abbandonato dal divino, ateo (Ied 30; 22).

L’esito della metafisica non può che essere ateo. Il movimento di essa è idolatrico. Il metafisico, come l’artigiano dell’idolo di pietra o di legno, tenta di rendere prossimo il divino nel timore di non aver rapporto con

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esso. Ma il concetto di «Dio», come l’idolo, rende troppo familiare il divino che finisce per sottrarsi. Lo scarto e la distanza vengono meno. L’invisibile svanisce e si annienta dietro una visibilità accecante. Queste tematiche, ossia la metafisica come tentativo di identificare un concetto di «Dio» con Dio, il suo risvolto conclusivo ateo, la perdita della distanza come fuga del divino, tradiscono un’evidente prossimità con il pensiero di Heidegger, della quale lo stesso Marion dà peraltro conto. Il pensatore francese ritiene infatti imprescindibili due nozioni della filosofia heideggeriana che si vanno necessariamente a inserire nel discorso sulla metafisica e sulla distanza svolti finora. Si tratta della costituzione ontoteologica della metafisica e della differenza ontologica: La metafisica pensa l’Essere ma a suo modo. Non smette di pensarlo, ma solo a partire dall’ente che l’Essere antepone e in cui si mette in gioco. Così l’Essere, che non coincide con nessun ente (differenza ontologica) si offre però al pensiero solo grazie ad un ente. […] La metafisica finisce con l’intendere a modo suo, cioè con il non intendere più come tale, ciò che così Heidegger designa come dispiegamento, ripiegamento, di-spiego; così essa vi privilegia l’ente nel suo Essere, più che l’Essere che non può essere deificato da nessun ente e che però istituisce ogni ente (Ied 31; 23).

L’oblio dell’essere è il primato dell’ente e della presenza la cui fondazione rinvia ad un ente supremo. Qui la metafisica, come discorso sull’essere degli enti, e la teologia, come discorso su un ente supremo, si incontrano come ontoteologia. Essa, tuttavia, deriva dal darsi dell’ente nella presenza. Heidegger invita, cioè, a pensare l’ontoteologia come costitutiva della metafisica. Dato che l’essere si oblia, l’ente nella presenza richiede un ente supremo che lo garantisca. Tale ente supremo diviene l’ultima ratio degli enti, il loro fondamento (fondamento del fondato), e lo può essere solo nella forma della causa sui. Il concetto di causa sui esprime il concetto con cui la metafisica pensa il concetto di «Dio»: Dio è causa sui, l’ente supremo dell’ontoteologia. Queste considerazioni sull’ontoteologia, così come sono esposte da Heidegger soprattutto in Identità e differenza, vengono assunte da Marion come indicazioni con le quali necessariamente confrontarsi. E ciò per varie ragioni. In primo luogo, risulta chiara l’identificazione della causa sui con l’idolo. Il Dio dell’ontoteologia (causa sui) è un idolo concettuale e, come tale, in esso non prende soggiorno il Dio invisibile che si dà nella visibilità iconica del Figlio. In secondo luogo, ritorna decisiva la «morte di Dio». Essa si situa nella consapevolezza che il Dio dell’ontoteologia non è Dio, è un «Dio» morto. Anzi, la morte del Dio filosofico (causa sui) lascia aperta

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la possibilità di pensare il «dio divino». Così scrive Heidegger in Identità e differenza: «Di conseguenza, il pensiero senza-dio (das gott-lose Denken), che deve rinunciare al dio della filosofia – cioè al dio come causa sui-, è forse più vicino al dio divino»5. Dov’è senz’altro significativa l’interpretazione paolina di quel gott-lose da parte di Marion6. 5. Dall’idolo all’icona: una teologia non ontoteologica Marion è ritornato così al punto dal quale il discorso sulla distanza si era inizialmente mosso, la «morte di Dio». Ma le prospettive su di essa e il confronto sul tema dell’uscita dalla metafisica si sono arricchite di una concezione trinitaria e paolina della «morte di Dio» che individua un’altra via di uscita dall’ontoteologia rispetto a quella proposta da Heidegger. Questi si limiterebbe infatti ad indicare una possibilità aperta dalla rinuncia al Dio filosofico (causa sui) per tentare una prossimità al «dio divino». Ma Heidegger, secondo Marion, «non indica qui come attuare l’uscita dall’idolo verso l’icona» (Ied 37; 27), anche se il filosofo francese continua a meditarne spunti e indicazioni testuali a partire da Identità e differenza. Dall’idolo occorre procedere verso l’icona. Ecco il percorso che si può tentare. L’uscita dall’idolo diviene infatti anche un percorso di uscita dall’ontoteologia o un tentativo di rovesciare la metafisica. Marion lo ammette ridefinendo il senso del procedere dall’idolo all’icona: «Non si tratta, come tutti, di “superare la metafisica”, ma di porre almeno correttamente questa domanda: l’idolo onto-teologico, trionfante o sconfitto (qui non importa) preclude ogni accesso all’icona di Dio come “icona del Dio invisibile”?» (Ied 37; 27). Procedere dall’idolo all’icona significa, innanzi tutto, recuperare un discorso (λόγος) diverso che metta a rischio la filosofia, accettando che essa sia silenzio e follia, un tacere e una assurdità. L’uscita dall’ontoteologia (idolo) è possibile solo a partire da un silenzio su Dio che metta a tacere tutti i verbalismi e le costruzioni grammaticali che tentano una definizione o un concetto di Dio intendendolo come ente supremo. Il silenzio su Dio, però, è anche invito a un logos diverso. Il tacere, in questo senso, non è radicale negazione del dire, ma accesso a un dire diverso. Questo logos, nella sua ambivalenza di

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M. Heidegger, Identità e differenza, cit., p. 95. Citando questo passo di Heidegger, Marion precisa tra parentesi quadra: «gott-lose, au sens paulinien» (Ied 35). Ateismo come un essere senza dèi, alla luce di San Paolo: «l’athéisme (au sens originel: être déserté par les dieux)» (Ied 24) .

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discorso e ragione, sarebbe un logos folle perché differente da quello ontoteologico e metafisico, qualificabile come un dire raziocinante e sistematico. Si tratta del Logos paolino, del Verbum Crucis, di quella contraddizione e scandalo razionale della morte di Dio in croce che nel paradosso rivela però Dio: […] Alla pazzia che si deve considerare corrisponde un logos estraneo a quello onto-teo-logico, il logos tou staurou, quello della croce, della croce sulla quale fu crocifisso il Verbo. Sulla croce il Verbo ha taciuto ma così si è manifestato, in una luce assolutamente paradossale, un discorso diverso. Forse bisognerebbe tentare di rinnovare con questo discorso, a partire dal nostro luogo, l’onto-teologia (Ied 37; 27).

In secondo luogo, procedere dall’idolo all’icona significa anche essere consapevoli che l’ontoteologia non può essere abbandonata. Non vi è una fuoriuscita dall’ontoteologia, l’eventualità del suo radicale e possibile abbandono come se essa non fosse mai stata. Si tratta, invece, di percorrere l’ontoteologia lungo i suoi confini, o, come è stato tradotto nell’edizione italiana de L’idolo e la differenza, lungo le sue «marche», meglio ancora come preferiremmo, lungo i suoi margini (marges), le sue zone di confine. La metafisica e l’ontoteologia non possono essere radicalmente oltrepassate, sebbene simili tentativi vi siano stati. Alcuni di essi sono da ritenersi solamente esteriori. Vi è stato poi il tentativo di un’uscita quale quello operato da Heidegger che rimane però chiuso nell’ambito della filosofia e sul quale Marion tornerà nel corso dell’opera. A simili tentativi, Marion contrappone il proprio, basato sull’idea di un percorso che segua i margini della metafisica stagliati tra l’ontoteologia, da una parte, e una «teologia non onto-teologica» tutta da elaborare, dall’altra. Dall’idolo all’icona, appunto, attestandosi sul margine che questo tragitto prospetta. In esso il «“Dio” dell’onto-teologia è rigorosamente un idolo, quello offertoci dall’Essere dell’ente metafisicamente pensato» (Ied 37; 27). Ma la sua morte diviene «manifestazione paradossale, ma radicale, del divino», rivela la profondità di Dio che solo la follia paolina può percorrere, tendendo all’icona. Quella profondità svela la dimensione propria della distanza. Divengono allora importanti Nietzsche, Hölderlin e Dionigi. Il loro pensiero li situa inesorabilmente ai confini dell’ontoteologia. È la dimensione della distanza a caratterizzarli. L’assenza e il sottrarsi del divino diviene inesorabile interrogazione: Tutti si accordano […] a farci pensare che la “morte di Dio”, lungi dall’implicare la svalutazione del problema di Dio, o del divino, restaura nella sua ur-

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genza quello del loro affronto panico, immediato, a viso aperto. La scomparsa dell’idolo onto-teologico provoca, di concerto, la ricerca frenetica di un corpo a corpo, che si spera possa essere nuziale, con il divino, nel disperato smarrimento di una sadica insignificanza (Ied 42; 31).

Il confronto con essi può contribuire a riflettere sulla distanza poiché alla morte dell’idolo subentra un ritiro. Ma il ritrarsi consente l’accesso alla distanza. Il ritiro si rivela come modalità dell’avvento. La possibilità dell’avvento manifesta insieme anche l’insufficienza del dire e del discorso, qualora si sia usciti dall’ontoteologia e dal suo linguaggio. Nietzsche e Hölderlin aiutano, allora, a comprendere la distanza, mentre Dionigi aiuta a delineare la possibilità di un discorso diverso capace di dire la distanza, oltre i limiti e i verbalismi del linguaggio metafisico. Più dettagliatamente, in Nietzsche risulterà centrale l’evento stesso della «morte di Dio» da intendere come estinzione del Dio ontoteologico. In Hölderlin sarà centrale, invece, la distanza prodotta dal ritrarsi del Padre, l’esperienza della fuga del divino che ne è però massima rivelazione. Dionigi e la sua teologia negativa dischiuderanno la possibilità di un linguaggio della distanza inteso come discorso di lode. 6. Ai confini dell’ontoteologia: Nietzsche, Hölderlin e Dionigi l’Areopagita Nietzsche, è per Marion, una figura decisiva. L’annuncio della «morte di Dio», del quale il suo pensiero si fa carico7, è un evento preciso, quello del «crepuscolo degli idoli». Ciò che muore è chiaramente un idolo, un Dio tra virgolette, il «Dio» prodotto dalla morale e dalla metafisica che è platonismo: «[…] La “morte di Dio” resta un evento seriamente pensabile solo racchiudendo tra virgolette il “Dio” che vi muore. Essa conserva la propria potenza solo su un idolo vano di ciò che Dio, se “è”, non è. Il crepuscolo cala irrimediabilmente solo su un idolo» (Ied 55; 43). Ciò che Nietzsche mette in luce è proprio la «struttura onto-teologica della metafisica». Così si può intendere l’uso che il filosofo tedesco fa del termine «platonismo», interpretabile come la riduzione di Dio a un ruolo idolatrico, quello di ente supremo a garanzia dell’ordine degli enti: “Dio” vi è convocato – non solo invocato – come l’ente supremo che, in occasione di un discorso sull’essere dell’ente (ontologia, metaphysica genera7

Cfr. aforisma 125 della Gaia Scienza.

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lis), assolve ad un tempo il compito di concentrarne la perfezione esemplare (ens realissimum, causa sui, ipsum esse, ecc.) e di garantirne casualmente la coerenza di un mondo. Preso secondo questa metaphysica specialis (theologia, se si vuole), il “Dio” risponde solo al nome che gli si dà: “…id quod omnes nominant Deum” […]. Tra la conclusione delle prove o definizioni dell’ente supremo e il suo battesimo come “Dio”, lo hiatus, che non è ridotto da nessun rigore dimostrativo ma ne è piuttosto sottolineato, resta completamente aperto (Ied 58; 45).

Ma Nietzsche esce fuori dell’ontoteologia? In realtà la risposta è negativa. Egli rimane entro quella stessa struttura che contribuisce a svelare. La «morte di Dio» ha solo lo scopo di rivelarne il funzionamento. Nietzsche non affronta lo spazio aperto o dischiuso da quella morte, non si situa in esso per fronteggiare «a viso aperto, il divino che, misteriosamente, frequenta questi luoghi». Ciò che continua invece ad aleggiare è un fantasma del «Dio» morto, un nuovo idolo. Nietzsche resta insomma un idolatra perché alla «morte di Dio» risponde con una nuova metafisica, quella dell’eterno ritorno e della volontà di potenza che fondano, nuovamente, l’essere dell’ente, pensato sempre come presenza: Nietzsche resta idolatra perché metafisico: la “morte di Dio”, sperimentata e genialmente smontata, enuncia la morte del Dio metafisico (“Dio morale”). Ma, poiché resta la struttura onto-teologica della metafisica (volontà di potenza/Eterno Ritorno), il divino, un altro divino riappare in una forma ancora metafisica (Ied 100; 75).

Dio è ancora esperito come «Dio». Ciò equivale a dire che Dio è pensato ancora sempre in termini ontoteologici: Dio come essere/ente. Si tratta, da parte di Marion, di iniziare allora a problematizzare gli esiti del pensiero nietzschiano. Nietzsche non esce dall’ontoteologia, perché ancora si muove in una dimensione metafisica che lega inesorabilmente Dio all’Essere. Ma è possibile superare questa impostazione? “Dio” è sempre pensato a partire dal nome dell’Essere, senza che possa esplodere alla superficie del discorso un’altra domanda: e se Dio fosse proprio al di qua del problema dell’Essere, quale che ne sia l’enunciazione (ivi compresa la volontà di potenza/Eterno Ritorno)? (Ied 101; 76).

Dio che non è Essere è Dio che si ritira, che prende distanza nell’abisso che si apre con la «morte di Dio». Non si tratta, per Marion, di tentare un superamento di Nietzsche. Questi non si muove, infatti, nello spazio aperto e nell’abisso nascosto da quella morte. Si tratta però di riconoscere che

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Nietzsche ci aiuta a porre il problema di ciò che la «morte di Dio» implica: la questione della distanza. La «morte di Dio» infatti «tradisce (rivela e nasconde), cioè la distanza di Dio, che ha uno scarto infinito nei confronti della posizione metafisica dell’essere, e che, dall’abisso più vicino, ci assilla» (Ied 101; 76). Attraverso Nietzsche emerge la distanza. Egli la elude. Rimane, anzi, idolatra e perciò indugia nell’ambito della metafisica perché non la coglie: «Nietzsche resta idolatra perché, ultimo metafisico, non entra nella distanza» (Ied 103; 77). Ma proprio perché la elude, essa diviene invece pensabile. In che termini? Cosa implica tale distanza? Anzitutto «la distanza di Dio» è la distanza che Dio ha dall’Essere della metafisica, sancisce l’impossibilità di un’identificazione di Dio con un idolo ontoteologico. Detto altrimenti, Dio non è l’Essere, poiché c’è distanza: «Solo lo scarto, che prescinde dalla idea metafisica dell’ente nel suo Essere, può aprire l’ambito in cui Dio non diventa idolo-figura epocale nell’onto-teologia» (Ied 103; 77). Secondariamente, «la distanza di Dio» ci suggerisce qualcosa su Dio. Egli è distante nel senso di «inaccessibile», tanto che nessun idolo ci può esprimere qualcosa di lui. Infatti, perduta la distanza, Dio e l’idolo non si distinguono più. Ma tale distanza e inaccessibilità sono il solo modo in cui Dio è vicino e prossimo all’uomo: «Senza la distanza non tanto non si riesce a distinguere gli idoli da Dio, ma soprattutto non si può sopportare il rapporto con il divino. Solo l’infinito scarto della distanza garantisce la permanenza nell’infinita vicinanza di Dio» (Ied 105; 79). Il tema della prossimità di Dio nella distanza è, dopotutto, proprio il filo conduttore delle pagine che Marion dedica a Hölderlin. Il poeta tedesco diviene, così, un nuovo interlocutore che aiuta a cogliere il ritiro di Dio nella distanza non come abbandono dell’uomo a se stesso, ma come sua intimità al divino stesso. Hölderlin pensa il paradosso nella distanza. Coglie in essa la prossimità e, nel ritiro di Dio, la sua rivelazione: «L’intimità dell’uomo con il divino cresce con lo scarto che lo contraddistingue da esso, invece di diminuirlo. Il ritiro di Dio costituirebbe forse il suo ultimo modo di rivelazione. Con il termine distanza cerchiamo proprio di delineare i contorni di questo fatto» (Ied 114; 86). Nella parola poetica di Hölderlin prende forma il reciproco rapporto del divino con l’uomo. Al centro vi è l’idea che il ritiro sia «il modo più radicale di presenza per Dio» (Ied 123; 95). L’evidenza di Dio si confonde con il ritiro fino a pensare questo ritiro nel cuore stesso del divino come kenosi (κένωσις) secondo Fil 2, 6-11. Il rapporto del divino con l’uomo richiede, infatti, la misura, l’imitazione della distanza che consente il rapporto stesso. Quando l’uomo perde la

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«misura», ossia la distanza con il divino, cade nella ὕβρις, nella tracotanza, si rapporta alla divinità perdendone la distanza. In Hölderlin, secondo Marion, ritroviamo la modulazione del rapporto divino-uomo attraverso il confronto tra i Greci e gli Esperidi. I Greci ebbero come situazione originaria quella di un rapporto immediato con il divino: la confusione tra dèi e uomini, cielo e terra. Si tratta di una condizione originaria di sovrabbondanza come dono naturale che, però, da Omero, attraverso Eschilo e Sofocle, i Greci iniziarono a perdere iniziando a distinguere e a differenziare dèi (cielo) e uomini (terra). Essi fecero, cioè, un’esperienza di tipo culturale della distinzione e della differenziazione mediante la tragedia. Introdussero la distanza attraverso la cultura. Gli Esperidi che, come nota il filosofo francese, saremmo noi, partono invece da una condizione differente. La condizione dei moderni è la distinzione tra il divino e gli uomini che i Greci, invece, originariamente non possedevano. Gli Esperidi sono il contrario dei Greci. Tentano di abolire e di annichilire la distanza che è la loro condizione o «misura» iniziale. Greci e Esperidi condividono, così, il destino di allontanarsi dalla loro situazione primigenia e originaria, ma secondo un movimento di opposta direzione. I Greci procedono a differenziare nella cultura ciò che era unito. Gli Esperidi, al contrario, mirano a unire ciò che era differenziato, ossia a perdere la misura e la distanza. L’Edipo stesso diviene narrazione del destino degli Esperidi. Edipo è l’emblema dell’Esperide che abolisce la distanza, perde la «misura»: L’occhio che annulla per Edipo la distanza, lo proietta, senza riparo né ritiro, nel dramma di un rapporto con il divino, in cui viene meno qualsiasi formazione di immagine ed ogni serena distinzione. In questo, Esperide, Edipo si forzerà per sempre nel senso stesso dell’accecamento che lo fa, per la sua sofferenza, immediatamente figlio di dei. […] La presenza divina investe così violentemente l’uomo che al limite ogni immagine, compresa la sua, scompare poiché è scompara ogni distanza che avrebbe potuto accoglierla (Ied 134; 103).

Senza distanza, l’uomo subisce l’irruzione e l’assalto del divino. Ma la sofferenza provata al contatto senza mediazione del divino ristabilisce una distanza. Il dolore dello schianto, nel rapporto diretto con il divino, diviene ritiro, ristabilimento della «misura». Ciò di cui Edipo fa esperienza è una sovrabbondanza del divino che si accompagna al dolore: La sovrabbondanza del divino sperimentata da Edipo, come una disgrazia con la quale gli dei lo schiacciano, non deve nascondere che per il dono divino il dono stesso è sempre più essenziale del dolore. Ciò che è più doloroso non è tanto il dolore dato dagli dei, ma piuttosto il dono divino stesso. La sovrabbondanza stessa diventa dolorosa da portarsi. […] Il compito proprio di Edipo, e la

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sua sofferenza, consistono appunto in questo: sopportare l’assenza di misura, sopravvivere alla sua trasgressione, lavorare per il suo ristabilimento (Ied 136; 105).

Ciò che si realizza è, comunque, un’unione indifferenziata dell’uomo con il divino, priva di distanza. Dio è troppo vicino all’uomo, l’umano si lascia invasare dal divino. Il Dio con il quale l’uomo ha a che fare nella tragedia è un «Dio immediato», ben diverso dal «Dio apostolico». Il «Dio immediato» è il Dio che, privo di mediazione, viene a contatto diretto con l’umano, senza misura e senza distanza. Il Dio dell’apostolo, invece, non le smarrisce, mantiene una mediazione nella figura del Cristo inviato dal Padre: Il Dio apostolico dunque non farebbe mai scomparire, la misura, perché la sua apparizione resterebbe nella distanza, quindi resterebbe, semplicemente, un’apparizione visibile in un’immagine. L’apostolicità indica, teologicamente, che l’avvento di Dio nella sua intimità si attua solo tramite la mediazione di un inviato, così che, nel Cristo, la miseria dell’inviato e lo splendore di chi lo invia prendono corpo nella stessa figura (Ied 138; 106).

Hölderlin sembra avere compreso chiaramente la centralità della distanza e della dialettica pericolo-salvezza che essa comporta. Quanto più l’uomo la elimina cercando di impossessarsi del divino, tanto più cresce il pericolo per l’uomo di un «Dio immediato» che annulla e confonde i limiti con l’umano. Ma dove è il pericolo, è anche la salvezza: «ma dove è il pericolo, cresce anche ciò che salva»8. L’immediatezza del divino, la sua prossimità invadente sono il segno della necessità di un ristabilimento della distanza e della «misura» che si offrono, ora, in maniera salvifica. La nozione di «dono» dispiega il senso salvifico di quella dialettica. La prossimità e la vicinanza del divino non valgono nulla se sono l’esito di uno sforzo e di un’ansia di possesso dell’uomo. La vicinanza di Dio è, piuttosto, un dono (don) che Dio offre nella distanza: Quando il dio diviene troppo vicino, allora vogliamo dominarlo, ed il pericolo, più ancora della difficoltà, ci abbatte. Quello che ci salva cresce insieme al pericolo stesso: la prossimità più intima con Dio ci insegna che allontanarsene – prendere le distanze – è consentito solo dalla più alta fedeltà. […] Più la prossimità si fa insistente, fino alla promiscuità del divino, più cresce il pericolo, più comincia anche a spuntare il salvifico: la prossimità forse non è qualcosa di cui ci si deve impadronire allo stesso modo in cui si tesaurizza un bene, ma 8

F. Hölderlin, op. cit., p. 156.

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deve essere ricevuta, come un dono in cui la distanza rimane irriducibile quanto la presenza che vi si offre per sempre (Ied 139; 107).

La sovrabbondanza del divino e il suo accoglimento da parte dell’umanità possono dare quindi luogo a separazione o a confusione. Oppure possono tradursi l’una nell’altra nell’Incarnazione. L’irruzione del divino nell’umano si manifesta allora in Cristo: Cristo sopporta l’irruzione del divino nella carne e insieme ne mantiene la distinzione, la differenza. Egli è quindi incarnazione della distanza. Ciò è da intendersi nel senso della distanza filiale e della kenosi. Innanzi tutto come distanza filiale. Cristo è il Figlio di un Padre. Dio ammette allora in sé la distanza, il rinvio del Figlio al Padre e viceversa. Inoltre la distanza è kenosi. Il Figlio annienta se stesso e prende forma d’uomo spogliandosi della divinità fino a morire in croce. Il Figlio si abbandona al Padre, rinuncia alla divinità e rinvia a Lui la fonte di ogni divinità fino a riceverne gloria e trionfo. La distanza rinvia così all’abbandono e al dono. Abbandono del Figlio che rimanda al Padre e il dono attraverso cui il Padre conferisce tutto al Figlio: Abbandonarsi al Padre significa, designandoLo nella distanza, ricevere nel gesto stesso del rinvio, un’alterità irriducibile: rimanere, in quanto povero, quello che, solo allora, diventa il valido interlocutore di ogni sovrabbondanza. Solo il Figlio è abbastanza povero per essere l’altro del Padre. Quindi solo il Figlio può, nell’alterità consentitagli dalla distanza, ricevere tutto da Dio (Ied 148;114).

La distanza tra il Padre e il Figlio è distanza interna al divino stesso. Ma è anche quella tra Dio e l’uomo. Come osserva Marion, continuando il commento dell’inno Patmo, la distanza comporta anche il ritiro di Cristo, il suo farsi desiderare dai discepoli che non si avvedono che nel ritiro della croce e della morte e resurrezione si realizzano l’incontro, il trionfo e la gloria. Il ritiro del Cristo è percepito come un pericolo, quello della perdita di un rapporto immediato con la divinità. Ma ciò a cui i discepoli danno così forma è un «amore carnale», fisico che annienta la distanza e il senso del ritiro: […] L’attaccamento dei discepoli alla presenza immediatamente fisica del Cristo resta un “amore carnale”, che tenta di impossessarsene, con l’infantile frenesia di un desiderio irritato, inquieto e impotente. Accostandosi così al Cristo, l’ “amore carnale” elimina il ritiro e non percepisce la testimonianza del ritiro filiale (Ied 151; 116).

Il desiderio di un rapporto immediato con Cristo, l’amore fisico per il volto di Gesù in carne e ossa, eliminano la possibilità di raggiungere il Pa-

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La distanza e la morte di Dio

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dre attraverso il Figlio, non considerano il rapporto con il Padre attraverso la mediazione di Cristo. L’«amore carnale» affossa quello «spirituale», elimina la distanza nella speranza di un ritorno fisico e immediato del divino. Tuttavia ciò che si realizza nel pericolo è la salvezza. Il ritiro e la distanza del Cristo dischiudono la «morte del sole» (Ied 155; 119). Senza il sole, ossia la possibilità di un rapporto immediato con il divino, cessa il pericolo stesso di venerare fisicamente il volto di Gesù come idolo. Ciò significa l’impossibilità di un rapporto immediato con il divino. Lo spegnimento del sole è allora l’inizio delle tenebre che seguono alla morte di Gesù. La dipartita di Gesù significa l’impossibilità di un rapporto immediato con esso, ma anche con il Padre, al quale il Figlio rinviava. Questo il senso del verso di Hölderlin: «E perfino l’Altissimo/ Lassù volta la faccia»9. L’Altissimo, ossia il Padre, sembra distogliere il suo volto. Gli uomini, senza rapporto immediato con il divino, si consolano in un atteggiamento superficiale che considera il doppio ritiro di Cristo e del Padre, l’assenza o la fuga del divino, come indifferenza verso gli uomini. Ma tutto ciò è anche l’inizio della «notte» nella quale si possono osservare con gioia «gli abissi della sapienza» (Ied 156; 120). È l’inizio del paradosso. Quello di considerare «il ritiro del fondamento come sola fondazione» (Ied 159; 121). Quell’assenza e quella mancanza di Dio sono, in realtà, la distanza: «La “mano indulgente” del Dio sfiora l’uomo solo rispettandone la natura, cioè ritirandosi nel gesto stesso del dono, perché possa instaurarsi la misura» (Ied 159; 122). Il ritiro del divino è così anche giudizio sugli uomini. È separazione tra coloro che lo concepiscono come assenza e indifferenza e quanti, invece, che lo sopportano imitando il Figlio. La mancanza e l’assenza, allora, chiamano fuori dall’ignoranza e dalla stoltezza. Il deserto è, in realtà, annientamento di ogni idolo: non assenza, ma presenza e luogo del divino. Il ritiro è richiamo ad imitare il Figlio e ad accettare il paradosso della distanza. È questo, a giudizio di Marion, l’assunto principale che Hölderlin ci consegna, la «permanenza della distanza, come massima rivelazione e manifestazione del divino nella figura del Padre» (Ied 166; 127). È questo paradosso della distanza che, posto in relazione alla «morte di Dio», ancora oggi si deve esperire. Il problema resta quello della pretesa di un rapporto immediato con il divino anche e soprattutto sul piano del linguaggio. Il Dio che si ritira può essere oggetto di discorso? Si può dare nome al Dio che si rivela nella distanza? 9

F. Hölderlin, op. cit., p. 160.

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La misura dell’umano

È corretto nominare il divino? Nominare, potremmo anche dire predicare, o formulare degli enunciati categorici, presupporre un oggetto di modo che il linguaggio lo enunci correttamente, cioè ne renda la misura esaustiva in un linguaggio formalizzato e assiomatizzato. Ma questo Dio, il cui ritiro manifesta la figura paterna, può offrirsi nell’immediatezza, banale o aorgica, poco importa, con la quale diverrebbe oggetto di discorso, senza dissolversi in quanto Dio del ritiro? (Ied 168; 128).

Se Dio diviene oggetto di discorso si darebbe nell’immediatezza che annulla la distanza. Non è corretto dare nomi. Nel predicare consisterebbe la pretesa di un’inclusione di Dio nel discorso che ne detterebbe il rapporto all’umano in modo immediato. Occorre allora tacere. È meglio il silenzio: è preferibile alla pretesa di dire o di nominare Dio. Se non devo «nominare» Dio per non annullarne la distanza, posso però, invece, «cantarlo». Al nome che tenta di definire, annientare la distanza avvicinando Dio come oggetto, è preferibile la parola poetica: Nella parola poetica, il linguaggio sfugge allo statuto di un “linguaggiooggetto”, come alla schiavitù di un mezzo di comunicazione. Signorilmente, esso conserva le sue distanze, o meglio salvaguarda la distanza: non attuando nessuna presa di possesso della cosa da parte dell’uomo, consente alla cosa e all’uomo un dialogo intimamente e silenziosamente accordato (Ied 125; 96).

Il problema del «nominare» Dio conduce Marion dalla parola poetica di Hölderlin a Dionigi l’Areopagita. Grazie a Dionigi risulta chiaro che la parola poetica che canta Dio offre la possibilità di pensare un logos su Dio inteso come canto, quindi come «lode». Ciò permette, nel quadro della teologia negativa, una ripresa della possibilità di dare «nomi» a Dio quando il «nominare» avvenga entro un discorso di lode. I nomi di Dio valgono solo nel discorso di lode. Perciò Dionigi diviene un interlocutore importante. Quale linguaggio può dire, infatti, la distanza? Non si tratta di dire l’Ente supremo, in una predicazione di cui esso sarebbe l’oggetto. Né di lasciargli pronunciare, come soggetto assoluto una predicazione di sé. Si tratta di designare il nostro incontro con un ritiro. Nessun ente, neppure supremo, può darci questo incontro, poiché qui il dono supera quello che ciascun ente potrebbe dare (Ied 184; 147).

Un linguaggio di tipo metafisico non può dire la distanza, poiché ridurrebbe Dio a ente supremo, ingabbiandolo entro la struttura ontoteologica dell’idolo che annulla, e perciò tace, la distanza. Ma, allo stesso modo, risulta inadeguato il modello della scienza linguistica che fonda il significato

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La distanza e la morte di Dio

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come riferimento all’oggetto o all’ente. Nella distanza prevalgono, infatti, il ritiro e l’assenza. Ma non vi è alcun referente del discorso poiché Dio non è un ente o un oggetto presente. Dio, nella distanza, si offre come nonente o non-oggetto. Il discorso risulterebbe perciò impossibile. Delle due, infatti, l’una. O Dio si dà come oggetto di un riferimento del discorso, ma allora Dio è ridotto a ente. Oppure, se non vi è un riferimento del discorso, il discorso resta chiuso o impossibile. La scienza linguistica impone o che Dio si riduca a ente o che non se ne possa dire nulla. La conclusione, ovvia, sarebbe che non si può dire la distanza nella quale Dio stesso si ritira e si sottrae: Non è corretto trincerarsi dietro l’impossibilità, in cui si trova tutta una parte della scienza linguistica, di mantenere un rapporto con il referente, per svalutare il discorso della distanza: infatti la distanza attira l’attenzione su un nonreferente, la cui indubitabile resistenza presuppone il ritiro, cioè volgarmente, l’assenza. Se si preferisce, la distanza, impedendo radicalmente di considerare Dio alla stregua di un oggetto, o dell’ente supremo, sfugge all’estremo contrattempo di un linguaggio dell’oggetto – la chiusura del discorso e la scomparsa del riferimento. […] La chiusura del discorso e il riferimento all’ente supremo hanno un identico risultato che la distanza non accetta: trattare Dio al pari di un ente (raggiungibile o meno). La distanza ha il suo pregio innanzitutto nel fatto che impedisce di rivolgersi, a proposito di Dio, ad un discorso ontico (Ied 184; 147).

Dunque la conclusione sembrerebbe essere che non si possa né pensare né dire la distanza. Il ritiro di Dio sfugge, infatti, all’enunciazione. È impensabile e indicibile. Ma più che una conclusione, ciò si rivelerà un suggerimento. L’impensabile si può pensare solo come impensabile. Qui non conta il nostro pensiero dell’impensabile, ma l’impensabile stesso che si dà come «ciò per mezzo del quale si pensa l’impensabile»10. L’accento non cade sull’uomo che pensa l’impensabile, ma sull’impensabile stesso, indipendente dall’uomo e dal suo pensiero, l’impensabile come «ab-soluto», etimologicamente sciolto e libero da ogni legame e tentativo di pensarlo. L’impensabile come ciò che si slega da ogni rapporto pensabile: 10 Qui Marion, nell’edizione francese, rinvia esplicitamente a Cartesio: «Si “l’incompréhensibilité est la raison formelle de l’infini” (Descartes) […]» (Ied 185; 148). Questo riferimento a Cartesio (Cfr. Cartesio, Opere, Laterza, Bari 1967, vol. 1, p. 534) per pensare l’impensabile è evidentemente in debito con l’interpretazione lévinasiana dell’idea cartesiana dell’infinito, che svolgerà in Dse un ruolo importante, come si avrà modo di leggere oltre.

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La misura dell’umano

Con questo ci avviciniamo al punto di vista dell’assoluto. Non attribuendogli frettolosamente lo statuto di soggetto, inteso ad immagine del nostro ego e univocamente metaforizzato, ma ammettendolo come ab-soluto: liberato da ogni rapporto, quindi anche da ogni rapporto pensabile, che lo legherebbe ad un assurdo “altro da sé”. L’ab-soluto spezza il legame che lo lega al nostro pensiero (Ied 185; 148).

L’impensabile è tale perché è «ab-soluto», libero dal pensiero umano. Ecco perché rifugge da ogni condizione di pensabilità. Ma tale libertà dell’«ab-soluto» è, per contro, la sconfitta dell’uomo. La libertà dell’impensabile è la sconfitta del suo tentativo di pensarlo, rappresentarlo o comprenderlo. L’«ab-soluto» gli sfugge. Tale sconfitta non attesta solo quella libertà. Attesta, anche, un’esperienza reale con ciò che è impensabile. Dal punto di vista dell’uomo che tenta di pensarlo, egli esperisce una disfatta che attesta invece l’assoluto. Non può concludere con un’impossibilità del discorso relativamente all’impensabile. È proprio quell’esperienza che gli impedisce di chiuderne il discorso. È vero che l’impensabile non è inscrivibile nella teoria del significatoreferente della scienza linguistica e che, dunque, si dovrebbe concludere all’impossibilità teorica di pensare l’impensabile e, conseguentemente, alla necessità di dichiarare chiuso il discorso. Ma è anche vero che, in questo caso, non si può chiudere il discorso se non dopo aver fatto l’esperienza di un fallimento dovuto alla libertà dell’impensabile. Non resta, allora, che considerare la sconfitta e la libertà dell’impensabile come un invito a continuare a pensarlo. Infatti, esse attuano e danno senso alla distanza fra il pensiero e l’impensabile: L’impossibilità, praticamente e teoricamente inevitabile, di pensare l’ab-solutamente impensabile lungi dal porre fine al tentativo di pensarlo, lo autentica e, in un certo senso lo inaugura. La verifica sperimentale che l’impensabile non è chimerico, sta proprio nel fatto che il pensiero non riesce a pensarlo. Il pensiero si rafforza non adempiendo il proprio compito di fronte l’impensabile. Questa inadempienza costituisce la sua prima ricchezza, ed un nuovo incitamento. Affermiamo quindi: non solo bisogna dire la distanza, ma l’impossibilità di dirla alla maniera di altre enunciazioni la garantisce come tale, e persino, la realizza (Ied 185; 148).

Ciò che viene inaugurato è un rovesciamento del rapporto tra il pensiero e l’impensabile. Non è il pensiero a tentare di pensare (comprendere) l’impensabile, ma piuttosto è l’impensabile a rivelarsi come dono e ricchezza che l’uomo riceve. Detto altrimenti, quando il pensiero prende atto della sconfitta, rinuncia ad ogni tentativo di pensare e di comprendere l’impensabile: è

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La distanza e la morte di Dio

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l’impensabile stesso (Dio) a offrirsi o donarsi all’uomo. Così è da intendere il detto di Dionigi: «bisogna pensare divinamente le cose divine». L’impensabile è pensabile solo lasciando ad esso la rivelazione di sé al pensiero. Un esempio di tale situazione si rinviene, secondo Marion, nella questione del «nome» di Dio così come è impostato nel passo in cui Dio rivela il proprio Nome a Mosé (Es 3,14). Il Sum qui sum è il dono del proprio Nome che l’impensabile offre all’uomo: Il Nome che dà la distanza non è il prodotto di una predicazione che un essere umano – dotato o fortunato – potrebbe tentare di pronunciare con successo. Il Nome di Dio non gli è dato da nessuno, ma è Dio stesso che lo rivela (Ied 187; 149).

Occorre allora lasciare che sia Dio, l’impensabile, a rivelare le «cose divine»: Il Nome ci viene incontro come impensabile nel pensabile, perché l’impensabile in persona ce lo rivela, come un poema perfetto, ignoto, anonimo, svela tutto il poeta e lo nasconde infinitamente. Tocca alla distanza pronunciare il discorso che l’identifica. L’impensabile parla addirittura prima che noi si possa pensare di ascoltarlo, la distanza anteriore pronuncia un discorso che precede la nostra predicazione e la rovescia. Più essenziale della predicazione che noi (non) possiamo pronunciare sull’impensabile, appare il dono del Nome, dono concessoci dall’impensabile silenziosamente e con sovrabbondanza, preservando la distanza (Ied 187; 150).

Il rovesciamento al quale Marion allude è chiaro. Non è l’uomo a predicare un nome dell’impensabile, ma è l’impensabile stesso a donare un nome in un discorso che precede quello dell’uomo. È Dio a parlare prima ancora che l’uomo l’ascolti. All’uomo è concesso allora solo il silenzio. Si tratta però di un silenzio che prelude al Nome: Supponendo che si ammetta questo rovesciamento, per lo meno temerario, come concepire allora la lingua necessaria alla donazione del Nome, originaria e muta? Insomma quale statuto può acquisire il nostro discorso? Dionigi accenna ad un “onorare l’indicibile con un sobrio silenzio”. Ma questo silenzio parla ancora, o piuttosto corona un discorso che si sublima nel silenzio (Ied 188; 150).

L’uomo accetta il silenzio e la rinuncia ad una predicazione. Il suo dire cessa, termina nella negazione e muore. Ma questa condizione di morte e di

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La misura dell’umano

abbandono, analogo alla morte e alla resurrezione del Figlio, prepara l’accoglimento del dono del Nome, la «proclamazione», la possibilità di un dire omologo al Nome donato o, come vorrebbe Dionigi, di un «dire divinamente»: Per essere chiari: il discorso umano deve ricevere il Nome, come il Cristo ha ricevuto il Nome dal Padre. Il riceverlo impone la rinunzia, e l’abbandono fino alla morte. Allo stesso modo il discorso è portato fino alla negazione e al silenzio. Ma, come la morte declinata secondo la giustezza dell’amore, matura fino alla resurrezione, il silenzio nutre l’infinita proclamazione. Il discorso muore infatti se rinuncia ad una predicazione dell’impensabile, ma questa aporia lo prepara violentemente ad un diverso modo di ricevere: parlare in omologia con il Nome (Ied 189; 151).

Il silenzio allude a un nuovo parlare, a un dire nuovo. Si tratta del «parlare in omologia con il Nome». Questo modello di discorso implica che il senso non sia imposto dal parlante, ma che, invece, il parlante lo riceva per omologia. Un dire che, come si vedrà, è prossimo alla preghiera: «Passare da un modello del discorso, in cui si attua una presa di possesso del senso da parte di chi parla, ad un modello in cui chi parla riceve il senso, con il Nome, per omologia: “… dire divinamente”» (Ied 189; 151). Un simile modello di discorso nel quale il senso sia ricevuto soggiace alla teologia negativa di Dionigi. Correttamente intesa, tale teologia costituirebbe una risposta all’ammonimento di Paolo (1 Cor 8, 1-3) contro le pretese della scienza a favore dell’apertura alla carità e all’amore di Dio. Il cuore della teologia negativa consiste nella negazione della predicazione di tipo categoriale. Predicare i nomi di Dio significa cadere infatti nell’idolatria. La negazione riguarda i nomi tratti tanto dal sensibile (idolatria ingenua), quanto dall’intelligibile (idolatria di secondo grado): Il risalire coincide con la negazione degli attributi. Bisogna sottolineare che le negazioni riguardano tanto i nomi tratti dal sensibile, corporeo, raffigurabile, misurabile, variabile ecc. quanto quelli intelligibili, ivi compresi quelli più conformi secondo il neo-platonismo: “…né Uno, né Unità, né Divinità, né Bontà”. Il nome più conforme non si trova quindi nell’Uno plotiniano più di quanto si trovi nell’idolo sensibile più grossolano. Così la via negativa ha una duplice funzione: innanzitutto negando di Dio ciò che non ne può evidentemente essere affermato (i nomi tratti dal sensibile, infinitamente lontani e non conformi), elimina la prima idolatria. Poi e soprattutto, nega di Dio ciò che se ne può, sembra legittimamente, affermare (i nomi tratti dall’intelliggibile) (Ied 191; 152).

Il valore della negazione consiste nell’eliminare ogni idolatria. In ciò consiste la sua importanza. Eppure il senso di tale negazione è più profondo

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La distanza e la morte di Dio

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di quello che ingenuamente sembrerebbe imporsi. Occorre osservare che l’assunzione della sola negazione dei nomi di Dio in maniera superficiale potrebbe giungere a una doppia conclusione sbagliata. Da un lato, potrebbe concludere a una chiusura del discorso. La negazione attesterebbe, cioè, che Dio è impensabile e indicibile. Dall’altro lato, la negazione si rivelerebbe soltanto per quello che è, ossia un rovesciamento delle pretese della predicazione categoriale. Pretenderebbe sempre di dire qualcosa su Dio a partire da ciò che Dio non è. Negare significherebbe, comunque, affermare qualcosa di Dio. Dio non è x. La negazione sarebbe ripetizione del tentativo di cogliere Dio, non per via affermativa (Dio è…) ma negativa (Dio non è…). Tra una teologia affermativa, costruita sulla predicazione, e una teologia negativa non vi sarebbe alcuna differenza, se non per il segno positivo o negativo che la pretesa di cogliere l’essenza di Dio assumerebbe. La teologia negativa terminerebbe in una nuova idolatria costruita sulla negazione dei nomi di Dio. Ma Dio è oltre la predicazione o la negazione della predicazione: La negazione [non costituisce] l’ultima parola del discorso su Dio. Perché considerata alla stregua di un’affermazione rovesciata, manterrebbe la sua pretesa categorica. Semplicemente invece di dire ciò che Dio è, direbbe quello che Dio non è. Ciascuno vede che in entrambi i casi c’è l’identica intenzione di raggiungere l’essenza di Dio, come se egli si organizzasse attorno ad un’essenza qualsiasi. La negazione, se vuole essere categorica, è idolatria. Quando dunque, a forza di negazioni, dissolve proprio quello cui queste negazioni apparentemente tendono, ed elimina l’Assoluto, raggiunge solo un’idolatria – quella della “teologia negativa”. In questo senso non c’è alcun dubbio: “la teologia negativa è negazione di ogni teologia. La sua verità è l’ateismo”. La negazione diventa non conoscenza, perché lo spirito vi sperimenta solo un’inversione della categoria, su uno sfondo di ingenuità idolatria. La negazione crede solo di rovesciare la predicazione su un oggetto dato. In questo caso, l’oggetto si svuota poco a poco. Ma la negatività resta vana quanto la positività. Infatti essa non raggiunge quello che essa sola potrebbe permettere di intravedere: qualcosa che sta al di là dei due valori di verità della predicazione categorica (Ied 192; 153).

Il senso della teologia negativa di Dionigi va inteso, dunque, più in profondità: «Ciò che si chiama un po’ sbrigativamente “teologia negativa”, non ha nulla di negativo, ma consente un discorso modulato secondo la lode» (Ied 182; 143). Non si tratta né di dichiarare la chiusura del discorso su Dio, assodata la sua indicibilità e impensabilità, né di mantenere il senso della negazione entro la predicazione, opponendola all’affermazione. Così intesa la negazione non sarebbe che l’opposto dell’affermazione sempre nel contesto della predicazione.

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La misura dell’umano

La negazione, in realtà, non chiude il discorso su Dio dichiarandone l’impensabilità e l’indicibilità né rovescia soltanto l’affermazione. Piuttosto, apre il discorso, libera Dio dagli attributi dell’enunciazione e dalla predicazione. La negazione (Dio non è x) è in realtà un’apertura. Non significa che si deve tacere su Dio, sebbene indicibile e impensabile. Si tratta di una scoperta. Dio è altro da x, ossia è indicibile e impensabile nel senso che è l’impensabile a donarsi al pensiero. È Dio a parlare, mentre l’uomo ascolta. La negazione serve allora a conoscere ancora di più Dio, al di fuori delle parole o delle idee. Si tratta della presa d’atto che Dio non dipende dall’uomo, né dal suo dire o dalla sua predicazione né dal suo pensare in quanto lo ridurrebbero a idolo. Dio è indicibile e impensabile. Ciò significa che Dio è libero, indipendente dall’uomo: è l’Ab-soluto. Dio non è raggiunto dalla denominazione che afferma o nega qualcosa, perciò resta indicibile e impensabile. Ciò che Marion sottolinea in Dionigi è proprio il fallimento della predicazione rispetto alla trascendenza di Dio. Essa s’impone allora come postulato (αἰτία) entro un discorso che non predica nulla di Dio, ma lo loda postulandolo. Alla predicazione categorica occorre allora sostituire la lode: «Dionigi tende a sostituire al dire del linguaggio predicativo, un altro verbo, hymnein, lodare»11 (Ied 232; 183). Dio è Aἰτία. Ma occorre distinguere tra l’αἰτία nel senso della causa e l’αἰτία in quello del postulato. Nella predicazione, Dio è αἰτία significa che Dio è causa metafisica nel senso della dottrina delle quattro cause di Aristotele. Nella lode, invece, si celebra e si onora Dio come Postulato (Aἰτία, Réquisit) nel senso che Dio risponde all’abbandono umano di ogni pretesa predicativa offrendosi e donandosi come trascendenza. Il senso di questa offerta o donazione dell’impensabile sono racchiusi anche nell’altro nome con il quale, secondo Dionigi, il Postulato (Aἰτία) può essere onorato nella lode: la Bontà. L’impensabile, ossia il postulato, sfugge alla predicazione e al pensiero dell’uomo che, piuttosto che pensarlo o comprenderlo, può solo riceverlo. È il tema della distanza dell’Ab-soluto: Se la causa/aitia resta impensabile, se toglie valore ad ogni denominazione di Dio e se la trascendenza sfugge alla comprensione enunciante, forse si può ammettere che la causa non deve essere pensata, ma piuttosto ricevuta. O ancora: l’inconcepibile rimane irriducibile, ed eccede ogni concezione. La distanza dell’Ab-soluto precede ogni enunciato ed ogni enunciazione con una

11 Cfr. la nota n. 65 di Ied 249; 198.

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anteriorità che non potrà mai annullare. La distanza anteriore sfugge ad ogni concezione (Ied 198; 158).

L’uomo non deve pensare, ma ricevere. Ecco il senso per cui la causa/ αἰτία è anche Bontà. La distanza stessa dell’Ab-soluto è Bontà: La distanza impensabile, in quanto causa, manifesta la Bontà, o meglio si manifesta come Bontà. La Bontà in sé si manifesta, e da sé si manifesta come trascendenza estatica. […] L’impensabile in sé della distanza costituisce il segno e il sigillo dell’amore che, per noi, è “disceso dal cielo” (Gv 6, 50). L’impensabile come distanza di Bontà si dà – non per essere compreso ma per essere ricevuto (Ied 200; 159).

La Bontà è amore (ἀγάπη). L’impensabile è amore. Dionigi sembra seguire l’idea paolina per la quale l’uomo non può comprendere Dio, che è amore, se non con l’amore (1 Cor 8, 2-3). L’amore, infatti, non può essere pensato o compreso: ecco la distanza di Dio. Ma l’amore può essere accolto e ricevuto dall’amore. L’uomo può solo accogliere l’impensabile come dono nella distanza, cioè nel ritiro di Dio. Secondo Marion, Dionigi e Hölderlin in ciò s’incontrano: Si partecipa all’impensabile per conoscerlo, riconoscerlo come tale – come impensabile quindi. Ciò che deve essere ricevuto come dono di Dio coincide perfettamente con il ritiro della distanza (Hölderlin). La rivelazione comunica proprio il carattere fondamentale di Dio – la distanza di Dio (Ied 202; 161).

L’amore riesce laddove il pensiero viene sconfitto. La pretesa di ridurre Dio entro una teologia affermativa, strutturata sul linguaggio del dire predicativo, abolisce la distanza e non comprende che Dio (l’impensabile) è amore. Solo quando la metafisica ammutolisce, l’amore può accogliere l’amore: La distanza anteriore e offerta si rivela, nella discrezione del suo ritiro, come amore; qui la metafisica non ha più nulla da dire; e l’amore, che si offre solo per farsi ricevere, invoca a sua volta l’amore. La comunione di due amori diventa l’ultimo attraversamento della distanza che, lungi dall’abolirla, per essere corretti la consacra (Ied 207; 164).

Marion concentra la propria attenzione sull’amore, legato al dono che l’impensabile fa di sé, e, successivamente, sul tema dell’attraversamento della distanza nella preghiera e nella lode. Il senso dell’amore donato consiste, per chi lo riceve, nel donarlo a sua volta. Si tratta della ridondanza del dono (redondance du don): «[…] Ogni

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membro riceve il dono solo per donarlo, così che questo dono, con lo stesso gesto, restituisce in ridondanza il dono. […] Il dono è ricevuto solo per essere, nuovamente, donato» (Ied 211; 167). Ricevuto il dono, l’uomo deve donarlo a sua volta. Non è altruismo, ma il senso proprio della donazione la quale richiede che il dono continui a donare se stesso. Il dono non consiste in un «contenuto». L’impensabile, che è amore, non può essere compreso. Il dono non è qualcosa che passi da una mano all’altra. Il dono è un atto, più precisamente, un «atto donatore» col quale il beneficiario lo accoglie e, nell’accoglierlo, lo dona a propria volta. Il riferimento è al movimento cenotico di abbassamento che risulta omologo alla kenosi del Figlio. Ciò che è donato è se stessi. L’amore è donazione di sé. Il dono consiste nell’amore, nell’offerta di sé. Come il Figlio ha donato se stesso in un corpo, così chi lo accoglie deve ripetere il medesimo atto. Vi è, dunque, coincidenza tra l’apertura al dono e il donare se stessi. Accoglienza del dono e donazione di sé coincidono. Non vi è l’una senza l’altra: «Chi ha ricevuto il dono lo media ridondandolo per ridondanza: non riceve solo per donare ancora, ma accoglie solo aprendosi al dono, cioè proprio donando(si)» (Ied 216; 171). Se l’impensabile, che è amore, dona se stesso, l’uomo può accogliere quel dono solo con amore, donando(si) a propria volta. Quest’accoglienza pone in luce due possibilità. Da un lato la possibilità di una trasmissione del dono, una propagazione dell’amore. Dall’altro, la possibilità di trasformare la relazione con l’altro scoprendolo come il mio prossimo. Accogliere il dono significa così ripetere l’amore che dona se stessi all’altro. Si tratta, però, di una possibilità. Il dono può anche non essere accolto, può essere rifiutato. In questo caso la condizione è quella del peccato, della chiusura rispetto al dono così disatteso. Invece di ripetere la donazione di sé, grazie alla quale l’altro diviene il mio prossimo e di propagare e trasmettere l’amore, si cerca un «contenuto» per impossessarsene. Il dono o il rifiuto di esso come peccato pongono sempre l’uomo in relazione al prossimo, responsabile di fronte a lui: Qui, ciascuno diventa rigorosamente tributario dell’altro, poiché il dono di grazia gli è fatto solo per ridondanza. L’altro torna ad essere il mio prossimo, perché la grazia gli è data solo nella misura in cui essa può, grazie a me e, per così dire, come me, raggiungerlo o non raggiungerlo. Ogni uomo diventa, per l’altro, sacramento del Cristo, o della sua assenza. Ciascuno diventa ineluttabilmente responsabile del suo prossimo, e mostra sul proprio volto l’unica visione di Dio che il suo prossimo, forse, potrà mai avere. “Dov’è Abele tuo fratello?” (Gn 4,7) (Ied 215; 170).

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La distanza e la morte di Dio

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Trovano così modo di esprimersi le nozioni di transitività del dono (transitivité du don) e di mediazione immediata (médiation immédiate). L’amore trova, nella ridondanza del dono, la possibilità di trasmettersi e di propagarsi. L’immediatezza trova mediazione nella trasmissione del dono, nella sua transitività. La mediazione immediata è la possibilità che l’immediatezza si riveli nella mediazione, la trasmissione del dono è l’offerta stessa del dono in quanto esso non ha un «contenuto», ma è infinita ripetizione del dono di se stessi: Il momento della mediazione (ridondanza del dono) non nasconde l’immediatezza, ma offre il dono (che assorbe ogni “contenuto”) in un’attualità senza dissimulazione. Il dono stesso sta tutto nell’unico atto di ricevere/donare, ed in nessun altro “contenuto”; l’immediatezza non può offrire nient’altro se non questo atto unico ed infinitamente ripreso; di più ancora, solo la mediazione, ripetendo l’unico atto (ridondanza), offre ciò che deve essere consegnato nella maggior prossimità possibile – il dono accolto in quanto donato (Ied 216; 171).

La mediazione rivela l’immediatezza e diviene, perciò, «testimone della distanza» (Ied 217; 172). Centrale è allora Cristo che realizza perfettamente quella mediazione immediata. Cristo è il mediatore immediato. È il Postulato che viene in mezzo agli uomini, è il Logos che assume un corpo. Ma è anche il Logos che ci affida i logia, le Scritture (Bibbia), icone della distanza, come Dionigi ci suggerisce, secondo Marion: Il Logos, dando se stesso, ci affida i logia. Noi traduciamo con “Scritture”, ma sarebbe meglio intenderli con “detti” che comprendono innanzitutto la vita, la morte e i miracoli, le res gestae del Logos. Tra le innumerevoli icone che la distanza ci permette di attribuire al Postulato, scopriamo così i logia (Ied 227; 179).

Nei logia il Logos stesso si è cenoticamente abbassato. I logia sono, dunque, doni da ricevere poiché nel testo delle Scritture il Postulato ha donato se stesso. Il riferimento ai logia diviene allora rilevante poiché permette di approfondire la problematica relativa al discorso e al dire su Dio e di riprendere quella dell’attraversamento della distanza nella lode. Dionigi, riferendosi alla centralità dei logia, rimarca che solo a partire da essi è possibile il discorso su Dio. L’impensabile, a partire dai logia, non è più indicibile poiché essi sono un dono grazie al quale è possibile un discorso su Dio. Il Postulato dona, nella distanza, la possibilità del dire. Marion semplifica quest’idea di Dionigi affermando che un enunciato su Dio è possibile a partire dagli enunciati delle Scritture. Il fondamento di un discorso su Dio è nel linguaggio delle Scritture. Questo non significa co-

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La misura dell’umano

piare la terminologia o le espressioni della Bibbia. Vuol dire che è possibile attraversare la distanza consapevoli che un passo o un verso dei logia sono «il luogo naturalmente soprannaturale in cui la parola è resa autentica» (Ied 229; 181). Infatti, non è il testo della Bibbia, ben definito o definibile, in quanto tale a interessare; piuttosto ha importanza l’irruzione del senso che sorge improvviso ad enunciare e a testimoniare la parola, la trasparenza eventuale del «Logos non testuale», instabile e imprevista come il «dono dell’ultimo istante», sulla quale il teologo può poggiare e avanzare: Il luogo dal quale parliamo non può essere, se parliamo del divino, che i logia in cui parla, ma in cui si incarna il Logos. Infatti, ciò che noi troviamo nei logia non consiste innanzitutto in un corpus testuale definito, né in un “pensiero”, ma nel Logos non testuale che vi si enuncia e vi si lascia denunciare. Ad ogni passo, per non farlo nel vuoto, il teologo, o chi ne fa le funzioni, deve garantirsi un suolo che si rivela, ogni volta, come il dono dell’ultimo istante (Ied 229; 181).

I logia costituiscono, allora, il fondamento o il suolo sui quali il discorso su Dio trova la propria possibilità. Il riferimento ai logia è imprescindibile quando si esprimono proposizioni di tipo teologico. Una corretta formulazione teologica richiede, infatti, un fondamento che è identificabile solo nelle Scritture. Tale consapevolezza è di premessa a una critica rivolta alle conclusioni sul linguaggio alle quali giungono l’empirismo logico e la sua teoria del referente. Ammessa infatti la centralità dei logia, fondamento del discorso su Dio, appare evidente che essi svolgono la funzione propria dell’icona. I logia, anzi, sono icona. Come l’icona, infatti, le Scritture mostrano il volto profondo del Figlio dietro il quale si cela l’invisibilità del Padre, consentono una «visibilità dell’invisibilità» (Ied 25; 19). I logia salvaguardano perciò la distanza. Il linguaggio che regge le Scritture non vale quindi per sé, ma in quanto dice, visibilmente, l’invisibile. Il linguaggio dice, cioè, l’indicibile e a partire dai logia è possibile un discorso su Dio. Tuttavia l’idea che il linguaggio dei logia alluda all’impensabile e all’indicibile pone il problema della validità e dei limiti della teoria del linguaggio basata sul riferimento all’oggetto. Un enunciato ha un significato quando vi è riferimento a un oggetto. La proposizione: x è y (predicazione) vale se vi sono i referenti x e y. Il significato annulla qui la distanza in due sensi. Da un alto, adegua, attraverso il riferimento, l’enunciato allo stato presente e oggettuale di x e y. Dall’altro, predicando y di x si annulla la distanza tra x e y. L’empirismo logico disconosce quindi la distanza, la abolisce giungendo a due esiti, entrambi incapaci di coglierla. O un enunciato ha riferi-

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mento all’oggetto, e allora è vero, oppure, se non vi è referente, il discorso deve essere chiuso. Quindi il discorso su Dio, per la teoria del referente, ha solo un esito possibile, la chiusura del discorso, il tacere su ciò che non può essere detto. Il rimando è, ovviamente, al Tractatus di Wittgenstein12. Ma la questione centrale per Marion non consiste tanto nel dichiarare l’impossibilita di predicare qualcosa su Dio sulla base della teoria del riferimento o su quella dell’impossibilità di cercare referenti che rendano vere le proposizioni, quanto nel fatto che la predicazione, in quanto tale, annulla la distanza di Dio. Ogni tentativo di predicazione, annullando la distanza, ha per esito l’idolatria. Il dire, come il predicare, qualcosa di Dio è abolire la distanza: L’essenziale non sta dunque nell’impossibilità, per altro tanto spesso sottolineata, di predicare rigorosamente qualcosa di Dio, né di raggiungerlo in qualità di referente capace di verificare o infirmare una proposizione ben costruita. La predicazione sarebbe inaccettabile per quel che riguarda il Postulato, se non fosse innanzitutto impossibile. Soltanto la sua impossibilità (nel senso del rigore del linguaggio predicativo) ci pone al riparo da un’idolatria – supporre che sia concepibile questa stessa predicazione. Ci si può servire del linguaggio attraversando la distanza e persino attraversarla? Dal punto di vista di un linguaggio predicativo, l’impossibilità sembra radicale (Ied 231; 182).

Per chiarezza, l’empirismo logico e Marion sembrano, in realtà, concordare su un punto: è impossibile predicare qualcosa su Dio. Ma la divergenza tra le due posizioni è davvero un’antitesi. L’empirismo logico non ritiene impossibile la predicazione, ma gli enunciati su Dio poiché essi, non essendoci referente, non avrebbero significato. Proprio perché priva di significato, la predicazione dovrebbe cedere al silenzio con una chiusura del discorso in quanto, nel caso di Dio, non riesce a svolgere con rigore quella funzione svolta con successo, invece, in altri ambiti. Non è la predicazione, il problema, ma Dio. Per Marion, invece, è impossibile predicare qualcosa su Dio, poiché è la predicazione, in quanto tale, a non funzionare. Essa, infatti, abolisce la distanza. Non è Dio, il problema, ma la predicazione come tale, l’adeguazione del concetto o della proposizione all’oggetto. Allora non vale la conclusione della chiusura del discorso o del tacere. Il discorso non deve essere chiuso perché non si può svolgere secondo il rigore proprio del linguaggio predicativo. Il discorso su Dio deve restare aperto, ma occorre abbandonare la predicazione se non si vuole avere per esito l’idolatria. 12 «Su ciò, di cui non si può parlare, si deve tacere» (L. Wittgenstein, op. cit., p. 109).

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Occorre un altro modello di discorso non predicativo, capace di non annullare la distanza. Si tratta allora di definirne i caratteri. Un indicazione fondamentale, a giudizio di Marion, l’ha data Dionigi, quando «al dire del linguaggio predicativo» sostituisce «un altro verbo, hymnein, lodare» (Ied 232; 183). Un’altra indicazione proviene dal De interpretazione di Aristotele. Aristotele afferma che la preghiera è un discorso (λόγος) che non pretende di essere né vero né falso13. Sostituire, allora, al dire del linguaggio predicativo, il lodare, equivale a sostituire la preghiera al discorso vero o falso. Si delinea allora in essa il modello di un discorso, né vero né falso, che non predica, ma loda e soprattutto non annulla la distanza. Tale modello di discorso consente di non tacere su ciò che non può essere detto. Il filosofo francese definisce un simile discorso il «discorso di lode». Marion si sofferma, quindi, a precisare alcuni altri suoi elementi fondamentali. Il linguaggio di lode non utilizza le operazioni logiche di affermazione o di negazione, ma ricorre all’uso dell’attribuzione della lode attraverso il «come». Sebbene mostri analogie con l’uso performativo del linguaggio, Marion precisa che il linguaggio di lode non è riducibile ad un modello performativo che si rivela in fondo troppo semplicistico. Il linguaggio di lode presenta tuttavia affinità con i «giochi linguistici» trattati da Wittgenstein: Il linguaggio di lode ammette taluni di quei caratteri che hanno consentito a Wittgenstein di stabilire dei “giochi linguistici”. Per esempio il significato non si determina in un semplice rapporto del concetto con l’oggetto, né con una proposizione elementare, ma con l’insieme degli altri significati, dei valori semantici e degli effetti di senso di un linguaggio omogeneo; così che delle proposizioni possano funzionare correttamente senza che nessuno dei loro significati sia attestato da una verifica (empirica o semi-empirica). […] Il linguaggio di lode utilizza dei significati inverificabili, ma, attraverso l’intenzione e la “forma di vita”, origina un senso intelligibile e, di fatto, inteso: l’uso della lode linguistica non è fondato da un’assurda verifica empirica del Postulato, ma dalla “forma di vita” quasi liturgica che l’instaura nella distanza (Ied 240; 189).

13 «Ogni discorso è poi significativo, non già alla maniera di uno strumento naturale, bensì, secondo quanto si è detto, per convenzione. Dichiarativi sono, però, non già tutti i discorsi, ma quelli in cui sussiste un’enunciazione vera oppure falsa. Tale enunciazione non sussiste certo in tutti: la preghiera, ad esempio, è un discorso, ma non risulta né vera né falsa» (Aristotele, Organon, Einaudi, Torino 1955, p. 60).

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Wittgenstein stesso, d’altronde, inserisce la preghiera religiosa tra i giochi linguistici. L’affinità, tuttavia, tra il linguaggio di lode e il gioco linguistico resta però tale, solamente una vicinanza o una somiglianza. Il discorso di lode, infatti, non si identifica con il gioco linguistico. La ragione è semplice. Il rischio è quello di ridurre il contesto del linguaggio di lode, ossia la teologia, a semplice linguaggio o «grammatica», quando è piuttosto corretto l’inverso. Sono il linguaggio e la «grammatica» a radicarsi nella teologia e nella distanza di Dio. In questo senso, il linguaggio è un dono nella distanza. Perciò non è il linguaggio di lode a ridursi a un gioco linguistico, ma sono i giochi linguistici a dipendere, in ultimo, dal discorso di lode: […] Non bisogna parlare soltanto di “teologia come grammatica”, ma al contrario di una grammatica fondata nella teologia. […] L’essenza del linguaggio, che ci comprende e ci precede per eccesso, è per noi, nella distanza, come un fatto – cioè un dato, un dono. […] Così non si deve soltanto riconoscere nel linguaggio di lode uno degli innumerevoli giochi linguistici; probabilmente si dovrebbe ancora inscrivere il gioco che polverizza il linguaggio in giochi linguistici nella distanza che ci disappropria proprio del linguaggio, del suo dominio e della sua singolarità. Questa piena disappropriazione rimanda allora al discorso di lode, che vi fa valere il privilegio di far agire, esemplarmente la distanza. In questo senso, i giochi linguistici dipendono dal linguaggio di lode (Ied 242; 190).

7. La distanza e l’Essere I tre studi su Nietzsche, Hölderlin e Dionigi hanno dimostrato che si può mettere in gioco la distanza. Sorgono però vari problemi relativamente ad essa. La distanza entra in gioco ma, a sua volta, si presenta come anteriore ed esteriore a qualunque concettualizzazione. In breve, la distanza sfugge al concetto e perciò alla definizione. La distanza non può ricadere, perciò, sotto la logica o la dialettica. La logica la ridurrebbe a una relazione di tipo formale, la dialettica vedrebbe in essa solo un momento di alterità del sé, il per sé hegeliano, trasformandola in un momento della dottrina del concetto. Resta aperto, inoltre, un problema decisivo, quello del rapporto che la distanza intrattiene con la metafisica e con l’Essere: Si deve ancora, quindi, mettere alla prova la distanza confrontandola con il problema dell’Essere, e con quello che, metafisicamente, ha potuto derivarne. L’inserzione della distanza nel problema dell’Essere, o la sua liberazione da

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questo stesso problema, riproduce quindi il problema iniziale – quello delle marche della metafisica (Ied 252; 202).

Il problema è quello di chiarire se la distanza abbia o meno rapporto con l’Essere, se la sua posizione resta quella di essere «di fronte», ossia inserita entro il problema dell’Essere, o «fuori dall’Essere», ossia libera dall’Essere, perciò fuori della metafisica. Per questo motivo, prima dell’inclusione della distanza o della sua liberazione dal problema dell’Essere, occorre valutare quello del «superamento della metafisica»: Ma è assodato che per parlare di fronte o fuori dell’Essere (se si può osare di esprimersi così), la distanza dovrà a sua volta rendere conto di se stessa a quello che è stato definito il “superamento della metafisica”. In questo confronto, bisognerà però tendere ad un’altra cosa, infinitamente più delicata: mettere la distanza di fronte all’Essere (Ied 253; 202).

Per chiarire, dunque, la posizione della distanza nei confronti dell’Essere non resta che iniziare a porre la distanza «di fronte» all’Essere. La questione iniziale è, come già accennato, la definibilità o meno della distanza. In questo senso, della distanza si può dare una definizione. Ad esempio, la distanza rinvia al ritiro di Dio. Ma per ogni definizione che se ne dà, ve ne sono innumerevoli altre che le sono collegate. La definizione della distanza è, a sua volta, sempre indefinita o indefinibile. Resta sempre aperta a ulteriori definizioni senza che nessuna di esse riesca mai a esaurirne il concetto. La distanza sfugge, cioè, a una definizione ultima e esaustiva: La distanza può allora mostrare il proprio rigore, fino a una definizione. E proprio per questo bisogna riconoscere che è indefinibile, o, piuttosto, indefinita. Infatti è fonte di una serie indefinita di definizioni, che si legano le une alle altre, senza che una parola definitiva possa mai esaurire il soggetto. Né soggetto di discorso, né oggetto di scienza, la distanza si sottrae per definizione alla definizione (Ied 256; 206).

La sottrazione alla definizione propria della distanza è data dal suo unire o mettere in comunione i due termini tra i quali essa si pone come scarto. Ecco perché vi è sempre una definizione indefinita di essa: la definizione di distanza prende in considerazione uno di quei due termini, mentre l’altro resta, invece, sullo sfondo, indefinibile e indefinito. Ciò permetterebbe di parlare di una «asimmetria della distanza» tra i due poli o termini che essa mette in comunione. Tentare una definizione della distanza significa mettere in rilievo uno dei due poli, mentre l’altro svanisce nell’indefinitezza.

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Riprendendo Lévinas, Marion sostiene quindi che non vi è nessun Neutro che riesca a dire i due poli insieme: Così si potrebbe parlare di un’asimmetria della distanza: la sua definizione riguarda due poli, o meglio li fa sorgere e i sostiene. Ma questa definizione viene pronunciata a partire da uno solo di questi due poli – il nostro umanamente (de-)finito. E perciò lo scarto che mette in comunione tanto più costringerà l’altro termine all’indefinitezza in quanto, appunto, questa indefinitezza nella distanza, costituisce il carattere essenziale dell’intima alterità dei termini. Non esiste nessun terzo polo neutro (Lévinas) e depotenziato che sia in grado di dire la distanza in modo imparziale (Ied 257; 206).

Non vi è modo di dire la distanza a partire da una situazione imparziale o neutra che astragga dai due poli. Una definizione, sebbene indefinita, della distanza è possibile sempre e solo a partire dall’orizzonte o dalla prospettiva di uno dei due; e mai da un punto di vista neutro che li ricomprenda: […] La distanza può essere scoperta solo nello stesso modo con cui ci si apre una strada, partendo da un punto preciso, e non invece nel modo con cui si legge un itinerario su una carta, nell’indifferenza di una rappresentazione neutralizzata (Ied 257; 206).

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CAPITOLO SECONDO OLTRE LA METAFISICA E L’ONTOLOGIA

1. Evitare i malintesi La pubblicazione di Dio senza essere nel 1982 non fu esente da malintesi e da equivoci. Marion li riassume e vi risponde brevemente. Il primo equivoco riguarda il titolo Dio senza essere. Infatti leggerezza e approssimazione potrebbero indurre a pensare che Marion voglia concludere all’inesistenza di Dio. Se Dio non ha essere, Dio non esiste. Il «senza essere» alluderebbe ad una privazione o ad una negazione in virtù delle quali Dio non sarebbe. Ovviamente non è di ateismo che Marion vuole trattare nel suo saggio. In gioco è infatti il senso in cui viene utilizzato il verbo essere. Intendere l’espressione «Dio senza essere» come affermazione di ateismo significherebbe attribuire al verbo essere un senso esistenziale. Il senso da attribuire a quel verbo sarebbe piuttosto quello predicativo. Marion non intende affermare che Dio in quanto sans l’être non sia, cioè non esista. Il filosofo francese si domanda, piuttosto, se l’«essere» sia uno dei nomi di Dio e, soprattutto, se sia quello più elevato. Il contesto nel quale Dio senza essere si inserisce è chiaramente costituito dalle pagine de L’idolo e la distanza dedicate alla teologia negativa di Dionigi e alla superiorità della lode sulla predicazione. Sull’eventualità di fraintendere il titolo del saggio con una professione di ateismo Marion prende chiaramente distanza nell’Avvertenza all’edizione italiana: Primo equivoco: si intende forse insinuare, con il titolo Dio senza essere, che Dio non sia, non esista? Assolutamente no: Dio è, esiste. Il problema non concerne la capacità divina di attingere l’essere, ma viceversa la capacità dell’essere di attingere la dignità di Dio: di Dio si deve soprattutto e innanzitutto dire che esso è? Essere costituisce il primo e il più alto fra i nomi divini. […] Non si tratta di contestare qualsiasi relazione tra Dio e l’essere, ma di mettere in discussione che l’unica o più alta relazione possibile (o auspicabile) consista nella loro identificazione (Dse 11).

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Dio è, ossia esiste. Non è di questo che Marion vuole occuparsi. Dio «senza essere» è, invece, la messa in discussione della necessità di predicare l’essere a Dio. Il secondo equivoco riguarda la relazione tra l’inessenziale attribuzione dell’essere a Dio e il rischio che ciò sottenda una critica al tomismo. Secondo Marion, le tesi espresse dal suo discorso teologico non costituiscono nei fatti, neppure nelle sue intenzioni, una messa in discussione della teologia di San Tommaso. La questione nasce piuttosto dagli errori che sorgono a motivo dell’abbandono delle tesi tomiste. La distanza di Dio dalla metafisica e dall’essere pare infatti un distacco dalle tesi di San Tommaso. Ma non si tratta di un distacco né di una deviazione dall’autorità del santo e della chiesa. Marion constata come quella distanza, intesa come scarto tra Dio e l’essere, possa appellarsi ai testi stessi di Tommaso, in particolare al In Boethium De Trinitate oltre che alla Summa theologiae. L’inclusione di Dio entro la metafisica non può tralasciare, infatti, l’anteriorità di Dio (creatore) rispetto ad ogni predicazione (esse), o, che è lo stesso, la preminenza di Dio rispetto all’ens in quanto suo principio. Marion considera, anzi, tali tesi del tomismo come premessa e contesto stesso del proprio discorso teologico: La metafisica entra in contatto con Dio solo indirettamente, perché Dio entra in contatto con l’ens in quantum ens solo indirettamente, come suo principio (e creatore). Questa distinzione di Tommaso d’Aquino traccia esattamente la via seguita da Dio senza essere (Dse 12).

Il terzo e ultimo malinteso chiama in causa la metafisica stessa e le conseguenze del suo abbandono. Abbandonare la metafisica non significa infatti esporsi all’impossibilità di pensare, quasi che il pensiero tragga possibilità e legittimità esclusivamente a partire da una metafisica intesa come «logica dell’essere». Marion ha così l’occasione di sottolineare due elementi fondamentali del suo discorso. In primo luogo, si tratta della definizione stessa di metafisica; in secondo luogo, della possibilità di pensare speculativamente Dio senza il rigore e le categorie proprie della metafisica. Per metafisica, infatti, il pensatore francese non intende il pensiero speculativo in generale. Il termine «metafisica» non ha un senso ampio, ma piuttosto ristretto al valore attribuitole da Heidegger. La metafisica è «il pensiero della differenza ontologica a favore dell’ente, nella sua presenza ininterrogata» (Dse 13). Abbandonare la metafisica, sancirne dunque la fine, non significa cadere nell’impossibilità del pensiero o nel nichilismo. Ha il senso, piuttosto, di riconoscere la necessità di un discorso su Dio che abbandoni i nomi e i concetti costruiti da quella

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metafisica che ormai, come ha colto Heidegger, è giunta al termine. È il tentativo già intrapreso da altri. Marion pensa ad esempio a Lévinas. Lo sforzo è quello di occuparsi di Dio senza il sostegno della metafisica, di «superare il crepuscolo dei concetti tradizionali, non di accelerarlo e neppure di sancirlo» (Dse 13). Si tratta, anche, del modo con il quale un pensiero cristiano si deve rapportare con quella fine e con il nuovo inizio che essa comporta. La questione è certamente se la fine della metafisica implichi di necessità la morte di Dio. Marion ritiene che la discussione sull’essere travolgerebbe anche Dio se e solo se i suoi nomi fossero quelli della metafisica. Ma Dio è al di là di qualunque nome: […] Liberare Dio dal pensiero metafisico non porta direttamente e di fatto all’impossibilità di pensare e, quindi, a una sorta di “nichilismo”? […] “Metafisica”, nel nostro discorso, non ha mai l’accezione ampia di pensiero speculativo, ma sempre l’accezione stretta e precisa che le dà Heidegger […]. Noi cerchiamo, fortunatamente dopo molti altri (si pensi in particolare a Emmanuel Lévinas), di pensare speculativamente Dio, nonostante la “fine della metafisica”, e quindi anche senza i concetti che hanno in ultima analisi portato a questo esito. […] Un pensiero cristiano non deve entrare nella “fine della metafisica” e nel “nuovo cominciamento” di spalle, ma di fronte (Dse 13).

Ciò che Dio senza essere mira a problematizzare è dunque l’ammissione che Dio abbia da essere, sulla quale a giudizio del filosofo francese si trovano assolutamente concordi tanto i filosofi radicati nel pensiero metafisico quanto i teologi neotomisti. Metafisica e teologia concordano cioè sul fatto che l’essere e Dio hanno un rapporto privilegiato. Per la teologia, l’essere è il primo nome di Dio. Per la metafisica, Dio è il primo degli enti. La domanda che guida la ricerca di Marion intende investigare proprio quel rapporto che si ritiene tanto decisivo: «Ma davvero l’essere ha un rapporto privilegiato con Dio? Davvero Dio ci guadagna qualcosa a essere?» (Dse 11; 18). L’indagine, a partire dall’antagonismo tra l’idolo e l’icona, perverrà gradualmente a vari risultati. In primo luogo, sarà svelato l’essere come un idolo che svia dalla distanza e dallo sguardo dell’icona. In secondo luogo, conseguentemente, verrà affermata la necessità di una sospensione dell’essere in quanto idolo. In terzo luogo, senza essere, il pensiero di Marion si concentrerà sull’orizzonte dischiuso dall’abbandono dell’essere e riempito positivamente dalla donazione e dalla caritas: L’orizzonte che l’essere spalanca con il suo ritrarsi si apre sul dono o, negativamente, sulla vanità. La questione suprema diverrebbe a questo punto l’amore o, ciò che è lo stesso, la carità. Questione che continuerà a fissarci a lungo, ininterrogata e temibile (Dse 12; 19).

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2. Una fenomenologia dell’idolo Di nuovo, come già ne L’idolo e la distanza, la coppia idolo e icona diviene il punto di partenza di una indagine che però adesso mira soprattutto a interrogarsi sulla validità o meno della definizione ontologica di Dio piuttosto che a cogliere la distanza come luogo di incontro e di abbandono tra Dio e l’uomo. Non si tratta di opporre l’idolo all’icona sotto il segno di una distanza del divino taciuta o manifestata. Marion è piuttosto interessato a porre in luce come il conflitto tra εἴδωλον e εἰκών, pur nella dimensione della storicità caratterizzata dalla luminosità polisemica del mondo greco e poi dall’unicità del pensiero cristiano bizantino, non si possa esaurire nella contrapposizione tra due diversi modelli di arte pagana o cristiana. L’idolo e l’icona non si oppongono sul piano dell’arte, quanto più su quello che vede contrapposte due diverse fenomenologie. Da questo punto di vista, nuova acquisizione rispetto a L’idolo e la distanza, l’idolo e l’icona indicano una diversa modalità di essere degli enti. Gli enti, in questo caso statue o nomi, sono caratterizzati da due elementi. In primo luogo, esigono o, comunque, suscitano venerazione in chi li vede. In secondo luogo, sono signum del divino. La differenza tra idolo e icona non è rintracciabile allora nel loro indicare un ente particolare, il vero Dio opposto ai falsi dèi. E neppure coglierebbe nel segno il distinguerli in virtù del loro indicare classi di enti differenti, poiché gli enti da idolo possono divenire icone e viceversa. La caratteristica fondamentale che consente di differenziarli è invece nel loro essere entrambi signa del divino. In quanto tali, è nella loro modalità di far segno che è rintracciabile la loro diversità. Che idolo e icona abbiano una caratteristica comune nel loro essere signum è più volte sottolineato dal pensatore francese: Signa: il termine latino è in questo caso estremamente ricco: possono pretendere agli statuti contraddittori di idoli e/o icona solo quelle opere che l’arte ha foggiato in modo tale da non limitare la loro visibilità a se stesse […] e che, in quanto tali e restando così assolutamente immanenti a se stesse, fanno indissolubilmente segno verso un altro termine, ancora indeterminato (Dse 16;22).

Ma a partire da questo riconoscimento è possibile indagare i signa sulla base delle differenti modalità di essere segno verso qualcos’altro. Idolo e icona, signa del divino, lo sono cioè in maniera diversa. Si servono diversamente della visibilità: «Bisognerebbe quindi interrogare i signa sul loro modo di far segno, venendo con ciò a supporre che l’idolo e l’icona si distinguono solo in quanto fanno segno in maniera diversa, cioè si servono della loro visibilità ciascuno a modo suo» (Dse 17; 23).

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Il tema della visibilità del divino e della differente modalità di essa diviene così la premessa di una vera e propria «fenomenologia comparata dell’idolo e dell’icona», capace di delimitare due diversi modi di apprensione del divino nel visibile. Se infatti il divino si manifesta nella visibilità di un ente (statua, nome ecc), questa stessa visibilità presenta modalità diverse che rinviano a modi differenti di apprensione del divino stesso: […] Il divino entra in gioco solo con il supporto della visibilità; ma la visibilità, relativamente al divino, si dice in diversi modi; o meglio, le variazioni del modo di visibilità indicano delle variazioni del modo di apprensione del divino stesso. […] Abbozzando una fenomenologia comparata dell’idolo e dell’icona, si tratta dunque di precisare non una qualche questione di estetica o di storia dell’arte, ma i due modi di apprensione del divino nella visibilità (Dse 17; 23).

Marion esamina perciò innanzi tutto la visibilità e l’entrata in gioco del divino in relazione all’idolo. L’idolo è ciò che si lascia vedere allo sguardo, εἴδωλον (εἴδομαι, video). Ciò che lo caratterizza non è l’esser un artefatto, qualcosa che è stato costruito o fabbricato, prodotto o realizzato. Ciò che lo istituisce come tale è il suo ergersi a uno sguardo che così viene colmato e riempito dalla visibilità. È propriamente lo sguardo a istituire l’idolo in quanto lo precede. In termini fenomenologici, c’è anzi una precisa relazione tra quella visibilità e l’intenzione dello sguardo. Lo sguardo, la cui intenzione si dirige al divino, mira nel campo della visione le cose scorrendole o, meglio, oltrepassandole tutte, fino a quando si ferma sul bagliore di una di esse, arrestandosi su questa prima visibilità che lo cattura, riempiendolo. Ecco il «primo visibile», la visibilità dell’idolo esibita allo sguardo: Lo sguardo fa l’idolo e non l’idolo lo sguardo: il che significa che l’idolo colma con la propria visibilità l’intenzione dello sguardo, che vuole appunto soltanto questo, vedere. […] L’intenzione prima mira al divino, e lo sguardo si tende in previsione di vedere il divino, di vederlo prendendolo dunque nel campo del guardabile. Più la mira si dispiega con potenza, più a lungo si fissa e più ricco, possente e sontuoso apparirà l’idolo sul quale fermerà il proprio sguardo (Dse 19; 24).

Chiarito ciò, occorre tuttavia analizzare l’entrata in gioco del divino in questa visibilità. Per farlo, Marion si sofferma a precisare come l’idolo costituisca di fatto un «punto di caduta dello sguardo». L’intenzione dello sguardo dissolve e trapassa tutte le cose visibili in quanto prima dell’idolo mira al divino. Ma apparso l’idolo, lo sguardo si ferma, rimane catturato

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e trattenuto, non procede più oltre. Resta fisso sul visibile che l’ha imprigionato: A voler essere rigorosi, lo sguardo non vedeva il visibile, poiché continuava a trapassarlo, a trapassarlo con uno sguardo penetrante. […] Ma a questo punto interviene l’idolo. […] Lo sguardo si lascia colmare: invece di oltrepassare il visibile, di non vederlo e di renderlo invisibile, si scopre oltrepassato, contenuto, trattenuto dal visibile. Il visibile gli diventa finalmente visibile perché, sempre per essere esatti, gli riempie gli occhi (Dse 20; 25).

In quanto «primo visibile» (premier visible), l’idolo ferma lo sguardo e gli impone un limite, trattenendolo. Perciò, l’idolo riflette lo sguardo, svolge cioè il ruolo di uno specchio che riverbera lo sguardo su se stesso poiché esso non trapassa più oltre, non dissolve più il visibile nella mira dell’invisibile. L’idolo, secondo Marion, oltre che «primo visibile» ha quindi, secondariamente, vero e proprio statuto di «specchio». Nell’idolo, lo sguardo specchia se stesso. Poiché ciò non si manifesta primariamente, in quanto la visibilità è ciò che colma lo sguardo, il ruolo di specchio dell’idolo resta come invisibile. Lo sguardo, cioè, nell’idolo non vede primariamente se stesso, specchiandosi, ma l’idolo come «primo visibile». «Primo visibile», l’idolo è per ciò anche «specchio invisibile» (miroir invisible). La conseguenza è dunque che lo sguardo si rapprende. La sua mira volta in direzione del divino si ferma e si deposita, un po’ come si deposita il vino, non brucia più oltre il visibile in vista dell’invisibile. Nell’esaurimento della mira dello sguardo, l’oltre del visibile svanisce. Ciò che così si dilegua è il «non-mirato». Si tratta del riposo di un’intenzione volta al divino impegnativa e spossante che, colmata dallo splendore di un «primo visibile», prende fiato, trova quiete smettendo di mirare al divino. Lo sguardo che istituisce l’idolo non deriva dunque da una «scelta etica», ma piuttosto rinvia ad una «fatica essenziale»: Quando lo sguardo si rapprende, la sua mira si deposita (nel senso in cui si dice che un vino maturo deposita), e quindi il non-mirato scompare. Se lo sguardo idolatrico non guarda criticamente al proprio idolo, ciò dipende dal fatto che non ha più i mezzi per farlo: la sua mira culmina su una posizione che è immediatamente occupata dall’idolo, e nella quale si esaurisce ogni mira. Ma ciò che rende idolatrico uno sguardo non può, per lo meno di primo acchito, dipendere da una scelta etica: rivela piuttosto una fatica essenziale (Dse 22; 27).

Poiché lo sguardo idolatrico si ferma al visibile, il «non-mirato» sparisce e si dilegua. «L’idolo non ammette alcun invisibile». Non solo l’idolo è «primo visibile» e «specchio invisibile», ma anche «contrassegno del

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non-mirabile» (marque de l’invisable). Anzi, proprio in quanto specchio sul quale lo sguardo finisce per riflettere solamente se stesso, l’idolo sancisce l’insufficienza e la mancanza di una mira che revoca e abolisce ciò che non ha mirato1. Questo abbozzo di fenomenologia consente allora di stabilire in conclusione l’importanza e le limitazioni proprie dell’idolo. Nell’idolo il divino si rende effettivamente visibile. Ma tale visibilità è lo splendore di una cosa sensibile su cui lo sguardo umano si rapprende e si raggruma. Il divino, cioè, si dà alla condizione e alla misura dello sguardo dell’uomo. Il limite dell’idolo è qui: «L’idolo si commisura al templum che, di volta in volta, lo sguardo dell’uomo delimita nel cielo commisurandolo a sé» (Dse 23; 28). Dunque, sul piano estetico, l’idolo restituisce nella materia lavorata dall’artista ciò che egli ha veduto. E tale restituzione è quella di un «primo visibile» che, dopo aver rappreso lo sguardo dell’artista, riempie di splendore lo sguardo di tutti gli altri uomini che guarderanno quell’idolo: «L’idolo, nel proprio materiale, consegna e conserva lo splendore sul quale si è rappreso uno sguardo, nell’attesa che altri sguardi riconoscano lo splendore di un primo visibile che sappia rapprenderli nella loro ultima portata» (Dse 24; 29). 3. Una fenomenologia dell’icona L’icona e la sua fenomenologia costituiscono un’altra modalità di apprensione del divino nella visibilità. Ciò che caratterizza l’icona, fenomenologicamente, è un netto rovesciamento o capovolgimento dei momenti costituenti l’idolo, primo fra tutti, del carattere di «primo visibile». Infatti, l’icona inverte in maniera nitida la relazione tra il visibile e l’invisibile in modo tale che il «non-mirato», lungi dallo scomparire dietro la visibilità, proceda invece proprio a partire da essa. La visibilità diviene così il luogo stesso da cui avanza l’invisibile, poiché esso ora appare nel visibile: «L’invisibile sembra, appare in una sembianza (eiko/eoika) che però non lo riduce mai all’acqua stagnante del visibile» (Dse 28; 32). Tale inversione caratterizza dunque l’icona come capovolgimento dei momenti costitutivi dell’idolo: «primo visibile», «specchio invisibile» e «contrassegno del non-mirato». Essi non hanno più ragione d’essere, poiché l’invisibile non scompare più dietro la misura di uno sguardo umano. 1

«Lo specchio invisibile contrassegna così, negativamente, la carenza della mira, cioè, propriamente, il non-mirabile, il non-intenzionabile» (Dse 23; 28).

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Anzi, ciò che l’icona realizza è proprio il contrario. L’invisibile, invece di sottostare alla misura della mira dell’uomo, diviene orizzonte entro cui la stessa visibilità appare: O ancora, non è il visibile a stagliare ciò che è suo da ciò che è dell’invisibile, così da ritagliarsi quest’ultimo a propria misura e da ridurlo quindi a sé, ma è l’invisibile a far sì che il visibile si stagli, così da dedurlo da sé e da farne il luogo della propria comparsa (Dse 28; 33).

Il criterio per comprendere l’icona come immagine dell’invisibile è secondo Marion la formula paolina di Cristo come εἰκών del Dio invisibile2 (Col 1, 15) che già aveva utilizzato ne L’idolo e la distanza. Affermare tuttavia l’icona come icona dell’invisibile non è sufficiente a distinguerla dall’idolo nella misura in cui in ogni caso l’invisibile resta comunque invisibile. Tanto nell’idolo quanto nell’icona l’invisibile come tale è e resta tale, cioè invisibile. A giudizio del filosofo francese occorre tuttavia evidenziare il senso di tale invisibilità. Nell’idolo, infatti, l’invisibile è ciò che scompare dietro lo sguardo colmato dalla visibilità. È il «non-mirato», il «non-intenzionabile». L’intenzione dello sguardo mira il divino, ma quando lo sguardo è riempito dallo splendore del visibile quell’intenzione e quella mira cadono, si depositano e si esauriscono. Nel depositarsi dell’intenzione, l’ulteriorità della mira scompare. L’invisibile non è più poiché non è più mirato. L’icona, invece, mantiene viva la mira in un continuo rinvio del visibile all’invisibile. Non sono dunque decisivi l’intenzione e la mira di uno sguardo umano. All’opposto, secondo l’inversione che l’icona pone in essere rispetto all’idolo, il visibile differisce continuamente verso altro da sé in un movimento incessante che debilita la misura dello sguardo impedendogli di rapprendersi. Il visibile rinvia continuamente all’invisibile attraverso un processo infinito che impedisce alla sguardo di fermarsi su una cosa sensibile: Essa è un continuo mostrare che incessantemente si (ri)presenta allo sguardo, cioè una sua continua correzione perché quest’ultimo rimonti di visibile in visibile sino al fondo dell’infinito e sino a trovarvi qualcosa di nuovo. L’icona chiama lo sguardo a superarsi e a non rapprendersi mai in un visibile, poiché in questo caso il visibile non si presenta se non in vista dell’invisibile. Guardando un’icona lo sguardo non può mai riposarsi né posar(si) ma deve sempre, in un certo senso, rimbalzare sul visibile, per risalire il corso infinito dell’invisibile (Dse 29; 34).

2

Dse 28, 33. Cfr. Ied 25, 19.

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Si tratta allora di chiarire in che senso sul piano iconico l’invisibile appaia nella visibilità. L’invisibile, cioè il divino, procede a partire dall’icona. Ciò rinvia tuttavia alla necessità di precisare lo statuto di questo invisibile. Se esso è inteso nell’ambito della metafisica come οὐσία, il divino come tale resta nell’incertezza di tale invisibilità poiché necessariamente deve rendersi visibile. L’icona (icona dell’invisibile) poco consente di far rimbalzare lo sguardo dal visibile all’invisibile in un processo infinito se il divino è però inteso come οὐσία. Rispetto all’ambito metafisico quello teologico consente invece di individuare nel divino che appare nell’icona non l’οὐσία della metafisica, ma l’ipostasi (ὑπόστασις, persona). Teologicamente l’icona delimita e racchiude l’ipostasi il cui viso è ritratto in essa. L’ipostasi è dunque presente nell’icona attraverso ciò che meglio distingue la sua persona, cioè lo sguardo, «la mira di un’intenzione (stokhasma) che è messa in opera da uno sguardo». Dal punto di vista fattuale, l’icona allora attraverso la materia di cui è composta accorda l’apparire di uno sguardo che incede a partire da essa. Sempre di uno sguardo si tratta. Ma lo sguardo che concerne l’icona accompagna il capovolgimento che essa opera nei confronti dell’idolo. Se l’idolo comporta l’intenzione di uno sguardo umano, l’icona implica invece lo sguardo dell’invisibile (divino) che, persona, mi guarda. Il rovesciamento dell’idolo è dunque il sovvertimento di una prospettiva e lo sviamento della visione dell’uomo. È lo sguardo dell’uomo che guarda il volto dell’idolo. È invece uno sguardo infinito che traspare dal volto dell’icona che guarda il volto dell’uomo: Se l’uomo, con il proprio sguardo, rende possibile l’idolo, nella contemplazione riverente dell’icona, al contrario è lo sguardo dell’invisibile, in persona, a mirare l’uomo. L’icona ci guarda: ci concerne, in quanto lascia che l’intenzione dell’invisibile venga visibilmente. E ancora, se è tipico dello sguardo dell’uomo guardare-in-volto la faccia cieca del primo visibile, o del suo deposito materiale, nell’icona, chi la vede, vede in essa un volto la cui intenzione invisibile lo guarda-in-volto (Dse 31; 35).

Se dunque è lo sguardo dell’uomo a istituire l’idolo, è lo sguardo dell’invisibile che mi guarda a costituire invece l’icona. Il rovesciamento rilevato da Marion capovolge così inevitabilmente i momenti costitutivi dell’idolo. Il «primo visibile» non apre più ad un’indefinibile viso muto misurato dalla mira di un’intenzione dello sguardo umano che si riflette in esso. Al posto dello «specchio invisibile», nell’icona vi è un volto che ci guarda (le visage envisage): «[…] Invece dello specchio invisibile, che rinviava lo sguardo umano solo a se stesso, e censurava il non-mirabile, l’icona si apre in un

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volto che guarda i nostri sguardi per chiamarli alla sua profondità» (Dse 31; 35). Lo sguardo umano, lungi dal riflettersi, diviene allora a sua volta lo «specchio visibile» di uno sguardo invisibile. È di nuovo San Paolo (2 Cor 3,18) a costituire la norma di questa inversione di rapporto tra specchio e sguardo. È il nostro viso adesso lo specchio (visibile) sul quale si riflette l’invisibile. Resta in ultimo da considerare l’inversione del carattere di «contrassegno del non-mirato» proprio dell’idolo. Se esso è infatti il «contrassegno del non-mirato», del «non-intenzionabile» che scompare e si dissolve dietro lo schermo finito dello specchio (invisibile), con l’intenzione di uno sguardo infinito che mi guarda l’icona manifesta invece un’origine e una profondità infinite. L’invisibile non si attesta come il non-visto dalla misura di uno sguardo umano, ma come la mira del divino che mi guarda. L’invisibile si dà come origine, profondità: Mentre l’idolo si determina sempre come un riflesso, che lo fa venire da un punto preso, a partire da un originale dal quale, fondamentalmente, esso si diparte (l’idolo come un dipartito: Gespenst, infatti ben si attaglia a certi usi del termine eidolon), l’icona è definita da un’origine senza originale: un’origine essa stessa infinita, che si riversa o si dona per tutta l’infinita profondità dell’icona (Dse 33; 36).

Mentre l’idolo corrisponde alla misura della sensazione di uno sguardo umano, l’icona è piuttosto la rivelazione di un’intenzione e di uno sguardo infiniti che, come tali, debordano il limite e la condizione dell’umano. Proprio l’origine e la profondità infinite impediscono una semplice considerazione estetica dell’icona. La misura dell’αἴσθησις commisura a sé l’idolo. Ma tale misura non regge alla sovrabbondanza di uno sguardo divino. L’icona attesta dunque una sostituzione. È il passaggio dalla norma della sensazione alla rivelazione dell’invisibile che si dona. L’invisibile, oltre che origine e profondità infinite, è così «infinita dismisura» (infinie démesure): L’icona, invece, si misura solo a partire dalla profondità infinita del volto; in questo senso, l’intenzione che guarda-in-volto dipende solo da se stessa, all’aisthesis si sostituisce un’apocalisse […]. L’icona non si riconosce altra misura se non la propria e infinita dismisura; mentre l’idolo commisura il divino alla capacità dello sguardo di quello che poi lo modellerà, l’icona dispensa nel visibile solo un volto il cui invisibile tanto più si lascia guardare-in-volto quanto più la sua rivelazione offre un abisso che gli occhi umani non potranno mai sondare fino in fondo (Dse 33; 37).

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4. Idolo estetico e idolo concettuale Comparati l’idolo e l’icona, Marion si sofferma ancora sull’idolo. Secondo il pensatore francese è necessario infatti discuterne ancora a partire dalla considerazione che esso presupponga uno sguardo capace di lasciarsi abbagliare dallo splendore del «primo visibile». Si tratta di stabilire se si dia però ancora un simile sguardo, se cioè vi sia ancora un’intenzione dello sguardo che, nella mira del divino, si rapprenda e si depositi sull’idolo istituendolo. La risposta del filosofo francese è negativa. L’esperienza alla quale Marion allude è, in fondo, la totale estraneità e spaesamento che un uomo moderno prova davanti ai visi muti di quelle statue antiche che ha occasione di guardare ad esempio in un museo o durante la visita di un tempio greco. Il carattere di una simile situazione è quello di uno sguardo ormai incapace di rapprendersi in un «primo visibile», inidoneo dunque a istituire l’idolo in una statua che gli si erge di fronte. La dimensione estetica entro la quale lo sguardo dell’uomo greco era colmato dallo splendore del divino non sembra appartenerci più. Certo non è l’arte a fondare l’idolo. È infatti lo sguardo a farlo. Ma questa intenzione dello sguardo dei Greci, innanzi tutto dell’artista greco, si rapprendeva nella dimensione della sensazione in un materiale (legno, pietra, marmo ecc.) quindi in un’opera (statua ecc.) davanti alla quale anche lo sguardo del fedele era abbagliato dal divino. Marion prende atto di come ormai non vi sia più la capacità di un tale guardare. Non è dunque nella dimensione sensibile e nell’arte la possibilità di individuare nella modernità la presenza dell’idolo: Il fatto che gli idoli non coincidano con le loro pure e semplici statue è provato dalla facilità con la quale disertiamo l’idolatria durante certe visite a templi o musei, quando il nostro sguardo se ne va in giro come uno scioperato, tanto è assente in queste visite quella mira la cui attesa potrebbe lasciarvisi colmare e quindi rapprendere, e tanto i segni di pietra e i tratti di colore attendono, con sguardi muti, di essere raggiunti da sguardi vivi che si lascino nuovamente abbagliare dallo splendore che essi hanno conservato. Spesso non abbiamo, o non abbiamo più, i mezzi per una così stupenda idolatria (Dse 26; 30).

L’idolo è dunque muto per il moderno. Dai Greci ereditiamo idoli che non assolvono più alla funzione di signua del divino. Il nostro sguardo li sorvola come disinteressato, non vede in essi che opere dell’arte. La responsabilità di tale situazione non è ascrivibile certamente ai Greci poiché anzi davanti a un dato materiale essi provavano una esperienza effettiva del divino. Piuttosto è da addebitare allo scarto che ci differenzia da loro e ci consegna a un’esperienze del divino differente. D’altronde, la distanza

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La misura dell’umano

dai Greci è segnata dall’avvento della metafisica e dalla questione della sua fine. Poiché non siamo Greci, il nostro sguardo non istituisce più l’idolo a partire dalla misura del loro sguardo: Infatti, se gli idoli forgiati dai Greci non ci fanno più vedere il divino, la colpa (se di colpa si deve parlare) non è né del divino né dei Greci. Tutto dipende semplicemente dal fatto che tra di noi non ci sono più quei Greci che sarebbero i soli ai quali queste figure di pietra potrebbero suscitare con il loro specchio invisibile una riflessione dell’invisibile, la cui magra visibile corrisponde proprio a quell’esperienza particolare del divino a cui solo i Greci seppero giungere. Gli idoli dei Greci tradiscono, silenziosamente e incomprensibilmente, un’esperienza del divino che è totalmente effettiva ma che si realizzò solo per loro (Dse 41; 43).

Secondo Marion, tutto ciò riconferma che l’idolo assolve comunque e sempre a una funzione divina nell’uomo. Il Dasein come tale ha un’esperienza del divino. Mira ad esso ma non lo coglie, gli sfugge nell’idolo che, mentre attesta quel mirare, non si riduce però mai a un’illusione fallace poiché, semmai, testimonia di un’esperienza effettiva del divino. Ma questa esperienza idolatrica è anche determinata storicamente. Essa rimarca che in ogni epoca il Dasein ha fissato la sua mira del divino riflettendola in un idolo. E in ogni epoca essa però differisce. Questa è la ragione per cui a noi l’idolo dei Greci appare muto e non ci indica il divino. Noi non abbiamo la medesima esperienza del divino del Greco. Il fatto che gli idoli dei Greci tacciano, non significa però la fine dell’idolatria. Il Dasein nella modernità continua a riflettere la sua mira del divino in idoli nuovi e diversi da quelli precedenti. L’uomo moderno non si differenzia dunque dai Greci per un’esperienza radicalmente differente del divino. Gli idoli ricompaiano, ma assumono nuove forme poiché sono mutate epoca e intenzione. L’idolo, come tale, al di là delle differenze storiche, continua ad assolvere ad una precisa e comune funzione nella mira al divino che l’intenzione del Dasein esercita. Si tratta allora di chiarire lo scarto intervenuto tra i Greci e noi. Esso è nella differenza che s’impone tra arte (αἴσθησις) e concetto, intenzione dello sguardo e intenzione del pensiero, in ultimo tra idolo estetico e idolo concettuale. In questo senso, scrive Marion, noi non abbiamo più modi estetici con i quali l’idolo antico possa ancora sorprenderci. Disponiamo invece del concetto, nel tempo della metafisica e della sua fine: «Se noi occidentali, datati (e dotati) dalla fine della metafisica, siamo privi dei mezzi estetici per cogliere l’idolo, abbiamo però altri mezzi, e altri ancora si stanno sviluppando. Il concetto, ad esempio» (Dse 26; 31).

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Effettivamente il concetto può anch’esso assolvere alla funzione di un signum nel quale è (com)preso insieme, con-segnato e rappresentato il divino. Altro signum del divino, il concetto lo indica dunque in una concezione che riempie il pensiero di una nuova esperienza della divinità. Ne consegue, allora, che un tale concetto opera precisamente come un idolo. Quando il pensiero definisce un concetto di «Dio», ci troviamo di nuovo innanzi all’idolatria: Il concetto consegna in un segno ciò che lo spirito ha compreso (concipere, capere) con lui; ma questa comprensione non si commisura tanto all’ampiezza del divino quanto alla portata di una capacitas che prende il divino in un concetto, quale esso sia, solo nel momento in cui una concezione del divino la colma e, quindi, l’appaga, la ferma, la rapprende (Dse 26; 31).

Che il concetto sia idolo risulta anche da un’altra constatazione. L’idolo come tale è una immagine che il Dasein si fa del divino. Usando un’espressione simile, come ad esempio farsi un’idea di qualcosa, si può constatare la similitudine tra il farsi un’immagine (idolo) del divino e il farsi un’idea (se faire une idée) di Dio (idolo concettuale): L’idolo: l’immagine che il Dasein si fa del divino e dunque qualcosa che è tanto meno Dio quanto più realmente è figura del divino. Farsi un’immagine del divino? Di solito si preferisce l’espressione: “farsi un’idea di…”; vorrà forse dire che l’idolo perfetto, per eccellenza, è l’idea? (Dse 44; 45).

Se funge esattamente come un idolo, il concetto o l’idea di «Dio» operano allora come un «primo visibile», uno «specchio invisibile» e un «contrassegno del non-mirato». Effettivamente, nota Marion, essi impediscono la mira del divino dietro a un’intenzione che riflette se stessa, sospendendo e radiando così il «non-mirato». Laddove il pensiero si addensa e si coagula su un concetto o un’idea di «Dio», rapprendendosi, siamo in presenza dell’idolo: Quando un pensiero filosofico enuncia un concetto di quello che esso chiama in quel caso “Dio”, questo concetto funziona esattamente come un idolo: si dà a vedere ma in questo modo si dissinula ancor più profondamente come lo specchio in cui il pensiero, invisibilmente, riceve la localizzazione della propria avanzata, così che il non-mirato viene a trovarsi, con una mira sospesa dal concetto preso, squalificato e abbandonato; il pensiero si rapprende, e appare il concetto idolatrico di “Dio”, concetto nel quale questo pensiero, più che Dio, giudica se stesso (Dse 26; 37).

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La misura dell’umano

Tuttavia all’intenzione dello sguardo che caratterizzava l’idolo estetico, subentra ora l’intenzione del pensiero. La situazione del Dasein rimane come invariata quanto a intenzione e mira. Ciò che muta è che ora la dimensione sensibile (αἴσθησις) cede però alla riflessione del pensiero. Se l’idolo estetico era istituito da uno sguardo, l’idolo concettuale è istituito dal pensiero. C’è mira del divino, ma nell’intenzione del pensiero. Come a dire che, a partire dalla propria mira, il Dasein nell’età della metafisica pensa il divino piuttosto che guardarlo. La mira è perciò ora interrotta non dallo splendore di una cosa visibile, ma dalla riflessione con la quale il divino è rappreso in un nuovo «specchio invisibile»: In questo senso, il concetto ripete a modo suo i caratteri essenziali dell’idolo “estetico”: in quanto apprende il divino a partire dal Dasein, lo misura come una funzione di quest’ultimo; i limiti dell’esperienza divina del Dasein provocano una riflessione che lo distoglie dal mirare, oltre, l’invisibile, e lo costringono a rapprendere il divino in un concetto, specchio invisibile (Dse 44; 45).

L’invisibile scompare nuovamente, rimane non veduto dietro il concetto che definisce Dio. Il concetto, come idolo, costringe a riconoscere che il divino così definito è istituito a misura del Dasein. Se la misura era prima dello sguardo, ora è quella del pensiero. Ma se è così, non è del divino come tale che si tratta poiché esso rimane piuttosto sullo sfondo fino a eclissarsi, a non essere più né visto né mirato dietro all’idea o al concetto che se ne è fatto il pensiero umano. Per questo ciò che è indicato come divino dal pensiero va posto, ribadisce Marion, tra virgolette: «In questo senso, dunque, a ciò che viene designato come Dio si devono aggiungere delle virgolette – “Dio”-» (Dse 45; 46). Lungi dall’indicare e fare verso al divino come tale, le virgolette in «Dio» indicano la delimitazione concettuale posta in opera dalla misura di un pensiero che pretende di nominare Dio a partire dalla mira della sua intenzione. Due questioni s’impongono a questo punto al pensiero di Marion. Innanzi tutto occorre stabilire lo statuto di questi idoli concettuali, le nuove figure idolatriche con le quali il Dasein pensa il divino. In secondo luogo, occorre anche legittimare il passaggio effettuato dall’idolo estetico a quello concettuale nel senso di individuare un sostegno che permetta di autorizzarlo. Riguardo alla prima questione, il pensatore francese non ha dubbi. Gli idoli concettuali, in quanto idee di «Dio», sono i vari concetti filosofici di «Dio» che si sono succeduti nella storia della metafisica. Rifacendosi all’Heidegger di Identità e differenza, Marion può essere ancora più chiaro.

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Oltre la metafisica e l’ontologia

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L’idolo concettuale è la figura del divino pensata dall’ontoteologia come causa sui che soggiace ai diversi concetti filosofici di «Dio» che si sono alternati nel corso stesso della metafisica: Gli idoli concettuali della metafisica culminano nella causa sui (come fa notare Heidegger) solo nella misura in cui tutte le figure dell’onto-teologia si sono messe a consegnare in un concetto l’ultima magra della loro avanzata verso il divino (Platone, Aristotele), dopo il Dio cristiano (Dse 26; 31).

La seconda questione chiama in causa Nietzsche. È infatti il filosofo tedesco a legittimare il passaggio stesso dall’idolo estetico a quello concettuale, nel senso di ribadire come l’idolo in quanto tale sia da intendere effettivamente nel senso del concetto. Marion, in particolare, rileva come Nietzsche non solo identifichi l’idolo nel senso dell’ideale, ma rimandi esplicitamente ad esso nel suo Crepuscolo degli idoli. Gli idoli sono assimilati ai «grandi errori», ossia ai concetti della metafisica. In tale contesto risulta allora imprescindibile, a giudizio di Marion, la questione del crepuscolo dell’idolo (concettuale) che fa tutt’uno con quella della «morte di Dio»3. 5. Una reinterpretazione della «morte di Dio» Se gli idoli concettuali non sono altro che le varie figure dell’ontotelogia, allora la «morte di Dio» annunciata dall’aforisma della Gaia scienza di Nietzsche sancisce il tramonto di un idolo. L’incrocio delle tesi di Heidegger sull’ontoteologia e sulla causa sui con quella della «morte di Dio» di Nietzsche pare effettivamente stabilire una volta per tutte che a venire meno sarebbe un concetto metafisico di «Dio». È lo stesso Heidegger a interpretare d’altronde in tal modo la «morte di Dio». L’idolo che giunge al suo tramonto è allora niente meno che un’altra figura, forse conclusiva, della causa sui dell’ontoteologia che Nietzsche identifica con il «Dio morale» (moralischer Gott). Marion lo rileva testualmente in Nietzsche attraverso un passo dei frammenti postumi e de La volontà di potenza. In esso il filosofo tedesco ribadisce che ad essere oltrepassato è propriamente il «Dio morale»4. Anche Heidegger in un passo del suo Nietzsche prende atto 3 4

Cfr. la nota n.4 in Dse 44; 45. Il passo individuato da Marion è il seguente: «Allora si capisce che qui si aspira a un’antitesi del panteismo: perché il “tutto perfetto, divino, eterno” costringe del pari a credere all’ “eterno ritorno”. Domanda: assieme alla morale viene resa impossibile anche questa posizione affermativa panteistica rispetto a tutte le cose?

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La misura dell’umano

dell’identificazione tra il «Dio» che muore e il «Dio morale»: «Dio quindi non è morto? Sì e no! Sì – è morto. Ma quale Dio? Il “Dio morale”»5. Detto altrimenti, la «morte di Dio» è il tramonto del «Dio morale» (Nietzsche). Ma il «Dio morale» è un’ennesima figura del divino inteso come causa sui, secondo la tesi per cui la metafisica è ontoteologia (Heidegger)6. Dunque, si può ritradurre la «morte di Dio» come il crollo di un idolo concettuale (Marion). In questo senso, la fenomenologia dell’idolo e il passaggio dall’idolo estetico all’idolo concettuale dischiudono il contesto per un rinnovato confronto con Nietzsche e una reinterpretazione della «morte di Dio»: Bisognerebbe partire, evidentemente, da un dialogo con Nietzsche, e con il pazzo della Fröhliche Wissenschaft, e quindi, innanzitutto, da un concetto più essenziale di idolo. Questo concetto più essenziale dell’idolo, a ben vedere, deve esplicarsi in maniera tale da poter accogliere a pieno titolo la rappresentazione intellettuale del divino, e da offrire così il quadro per un’interpretazione, o meglio per una reinterpretazione, della “morte di Dio” (Dse 39; 41).

Su questo piano, il filosofo francese può così iniziare ad osservare che tanto l’istituzione dell’idolo concettuale quanto la sua negazione dipendono dall’apprensione tutta umana del divino. Tanto nell’affermazione quanto nella negazione è sempre l’umano (sguardo, pensiero) a fungere da misura del divino. Il teismo e l’ateismo, l’apologia e il disconoscimento rinviano così alla medesima istanza: «In entrambi i casi, in quello del teismo come in quello del sedicente “ateismo”, la misura del concetto non viene da Dio ma dalla mira dello sguardo» (Dse 27; 31). Il concetto è sempre la norma del darsi stesso dell’invisibile. Di qui la lucida presa d’atto di L. Feuerbach e il suo totale ripiegamento sul versante dell’idolatria; il riconoscimento che il segreto della teologia è l’antropologia: «Anche in questo caso, così, vale fino in fondo il giudizio di Feuerbach: “è l’uomo stesso ad essere il modello originario del suo idolo”» (Dse 27; 32). Si tratta di un tema, quello della sostanziale convergenza tra il teismo e l’ateismo concettuale, che Marion aveva già affrontato ne L’idolo e la distanza. Su di esso tornerà ancora. Per il momento tale assunto svolge so-

5 6

In fondo solo il Dio morale è infatti superato» (F. Nietzsche, Frammenti postumi 1885-1887, Adelphi, Milano 1974, p. 202). Questo passo compare anche ne La volontà di potenza al § 55 (cfr. F. Nietzsche, La volontà di potenza, Bompiani, Milano 1995, p. 36). M. Heidegger, Nietzsche, cit., p. 271. M. Heidegger, Identità e differenza, cit., p. 70.

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prattutto il compito di evidenziare come il discorso ontoteologico e la sua destrutturazione costituiscano l’orizzonte entro il quale ricondurre la tematica nietzschiana della «morte di Dio». L’idolo, cioè, e il suo crepuscolo costituiscono una duplicità inestricabile: «Sotto questa luce si potrà forse intuire perché sia coessenziale all’idolo il fatto che lui stesso si prepari il proprio crepuscolo» (Dse 27; 32). L’idolo e il suo tramonto sono una diade posta sotto la misura dell’umano. Riletto attraverso questo assunto, però, il crepuscolo dell’idolo non si limita, sembrerebbe alludere Marion, ad un solo e unico evento storico determinato dalla «morte di Dio» nietzschiana. Prima di questo crepuscolo, infatti, vi sarebbe stato quello dell’idolo estetico. Il passaggio dall’idolo estetico a quello concettuale avrebbe cioè comportato già il tramonto di una precedente apprensione del divino nella visibilità. Il Greco, con lo sguardo, ha istituito l’idolo sul piano dell’αἴσθησις. Ma l’idolo estetico non ha retto a lungo. Il suo crepuscolo è iniziato quando all’intenzione dello sguardo è subentrata quella del pensiero. L’idolo estetico è divenuto improvvisamente muto, è venuto meno di fronte allo «splendore dei Lumi». Lo spaesamento del Dasein davanti alle statue degli antichi testimonia di una nuova intenzione, nella costante mira del divino. Non si è trattato più dell’esigenza di vederlo, ma di pensarlo. Il concetto ha iniziato così a svolgere quella funzione di misura precedentemente assolta dallo sguardo. L’idolo è divenuto così un idolo concettuale. È in questa successione che va allora situata la «morte di Dio». Con Nietzsche sopraggiunge infine anche il crepuscolo dell’idolo concettuale: Questo crepuscolo potremmo averlo già vissuto due volte: in un primo tempo, esteticamente, quando gli oracoli si erano ormai zittiti, nella stagione in cui lo splendore dei Lumi offuscò quello dei signa forgiati dalla mano; e poi, oggi, sotto il sole nero del nichilismo (Dse 27; 32).

Che si tratti della morte di un idolo, che cioè le virgolette della «morte di Dio» rimandino a un «Dio» (concetto, idolo concettuale), delimitato sempre dalle medesime, è chiaro. Il crepuscolo, il tramonto o il crollo alludono dunque a un determinato concetto che il Dasein ha pensato e ha nominato «Dio». L’affermazione del suo venire meno, cioè l’ateismo concettuale, concerne un concetto ben determinato di «Dio». Il suo volto è, stando ai passi di Nietzsche e di Heidegger sopra menzionati, quello del «Dio morale»: il concetto, nominato come «Dio», cui Nietzsche si riferisce è il «Dio morale». Marion si sofferma perciò su tale figura in quanto il «Dio morale» deve essere inteso come un idolo concettuale. Tale possibilità permette anzi di dischiuderne carica e genesi:

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Questa condizione di possibilità presuppone, evidentemente, l’equivalenza tra Dio e un idolo (concetto regionale), che in questo caso è il “Dio morale”. Donde una duplice domanda: (a) che portata riconoscere a questo idolo? (b) che origine attribuirgli? (Dse 47; 47).

Ciò che il «Dio morale» comporta, tenuto conto che l’idolo e il suo crepuscolo sono inscindibili, è che il suo tramonto non prevede necessariamente la conclusione di una mira del divino da parte del Dasein. Il crepuscolo sembra svelare e fare scaturire un nuovo avvento del divino. Ciò risulta dal pensiero stesso di Nietzsche. Non è scartata dunque la «venuta di “nuovi dèi”»: Quanto alla portata, per il momento, possiamo fissarla in riferimento a ciò che essa non esclude: la “morte di Dio” come “Dio morale” non inficia, o meglio apre e provoca, la venuta di “nuovi dèi”, la cui funzione affermativa sostiene questo mondo, che diventa l’unico (Dse 47; 47).

La questione centrale sarà ovviamente quella di stabilire se questo avvento dischiuderà la venuta di un nuovo idolo concettuale, vincolato a nuove istanze o condizioni, oppure l’arrivo di un divino finalmente liberato dalle virgolette, l’apparizione di Dio in quanto tale, il sopraggiungere di una dismisura anteriore a ogni parametro dello sguardo e antecedente ad ogni condizione del pensiero. Più semplice è invece, secondo Marion, ricostruire la genesi del «Dio morale». L’origine di questo idolo concettuale è rintracciabile a partire Feuerbach. Questi, effettivamente, svela che la religione è idolatria7. L’intento di Feuerbach è quello di prenderne atto in nome di una fuoriuscita da essa. La consapevolezza che «Dio» è un prodotto dall’uomo, è un idolo, ha per esito la soddisfazione compiaciuta di una piena, a suo giudizio ormai indiscutibile, affermazione dell’ateismo. L’idolo creato dall’uomo è secondo Feuerbach proprio «Dio» inteso in senso morale:

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Come osserva Kierkegaard, Feuerbach svela infatti l’antropologia nascosta dietro la teologia, il decadere del cristianesimo nella cristianità. L’analisi è corretta, l’esito di essa non lo porta però all’adesione al cristianesimo bensì all’ateismo: «Feuerbach ha compreso l’esigenza, ma non potendo assoggettarvisi, rinuncia ad essere cristiano. Perché è falso, quando la cristianità attuale dice che Feuerbach attacca il Cristianesimo. Non è vero! Egli attacca i cristiani, mostrando che la loro vita non corrisponde alla dottrina del Cristianesimo» (S. Kierkegaard, Diario 1849-1850, Morcelliana, Brescia 1981, vol. VI, p. 210).

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[…] Feuerbach, costruendo l’insieme della filosofia della religione come un’idolatria, non per cogliervi un fallimento, ma appunto per consacrarvi un’appropriazione finalmente legittima, osserva che l’idolatria esercita tutto il suo rigore pensando “Dio” come morale: “In tutte le religioni, e in particolare in quella cristiana, il primo degli attributi di Dio è quello di perfezione morale. Ma Dio concepito quale essere moralmente perfetto null’altro è che l’idea di moralità realizzata, che la legge morale personificata (…). Il Dio morale pone all’uomo l’esigenza di essere quale egli stesso è (Dse 47; 48).

Il riferimento alla moralità e alla legge morale è inequivocabile. Secondo Marion è chiaro che Feuerbach tiene dietro alla traccia kantiana. Il «Dio morale» è il «Dio» pensato da Kant come «autore morale del mondo», ulteriormente ridotto poi da Fichte a semplice «ordine morale»: «Ma, anche in questo caso, come spesso succede del resto, Feuerbach non fa che da ripetitore a Kant che pensa esplicitamente Dio come “un autore morale del mondo”» (Dse 47; 48). Marion rimanda al § 87 della Critica del Giudizio, ove Kant definisce effettivamente Dio «un autore morale del mondo»8. In che senso, tuttavia, si tratterebbe qui di un idolo concettuale? Secondo il pensatore francese la definizione kantiana corrisponderebbe ad una precisa apprensione del divino secondo le modalità tipiche dell’idolo in quanto a «un’esperienza effettiva di Dio» propria del Dasein farebbe riscontro però «una determinazione finita di “Dio”»: […] L’apprensione di “Dio” come autore morale del mondo presuppone un’esperienza effettiva di Dio (chi si arrischierebbe a dubitare dell’autenticità religiosa della filosofia pratica di Kant?), ma sullo sfondo di una determinazione finita di “Dio” (dal solo punto di vista pratico), a partire non dalla natura – se pure ce n’è una – ma appunto dall’esperienza che ne fa il Dasein umano […] (Dse 48, 49).

La finitezza della definizione kantiana è data certamente dall’anteriorità della dimensione pratica a partire dalla quale si realizzerebbe l’apprensione del divino. A sostegno della tesi marioniana si potrebbero addurre vari assunti della filosofia pratica di Kant riscontrabili nella Critica della ragion pratica: l’esistenza di Dio come un postulato della ragione pura pratica, la legge morale come anteriore alla religione ecc. In questo contesto, è sufficiente il rinvio alla sintetica prefazione alla prima edizione de La religione nei limiti della semplice ragione del 1793, ove già il titolo allude all’anteriorità della misura del pensiero umano rispetto al divino. 8

Cfr. anche la nota n. 8 di Dse 48, 48.

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Qui, opponendo autonomia a eteronomia morale, Kant ribadisce che la morale non necessita della religione o di un essere supremo come fondamento dei doveri di un essere razionale libero: «La morale, in quanto si fonda sul concetto dell’uomo come un essere libero, ma che si sottomette appunto perché tale, per propria convinzione razionale, a leggi incondizionate, non ha bisogno né dell’idea di un altro essere superiore all’uomo affinché questi conosca il suo dovere, né di un motivo diverso dalla legge stessa affinché egli la osservi. […] Essa, quindi, non ha bisogno affatto, per suo sostegno della religione […]; ma basta a se stessa, grazie alla ragion pura pratica»9. La morale, dunque, ha per fondamento la sola legge morale: «Così per la morale non c’è bisogno, è vero, di alcun fine per agire bene, ma le basta la legge, che contiene la condizione formale dell’uso della libertà in generale»10. Solo secondariamente la morale incontra la religione, «si eleva all’idea d’un Legislatore morale onnipotente, fuori dell’uomo»11, nel momento in cui l’idea di Sommo Bene richiede che si ammetta un «Essere supremo morale, santissimo e onnipotente»12. Da questi semplici passi kantiani, senza scomodare la Critica del Giudizio, risulta evidente che la dimensione pratica funge da istanza che condiziona in Kant l’apprensione del divino fino a ridurlo a un concetto di «Dio». È la norma razionale di una legge morale che istituisce e nomina il divino come «Legislatore morale» o «Essere supremo morale», cioè un «Dio morale» (idolo concettuale) il cui crepuscolo e morte sono proclamati da Nietzsche. Che infatti, a giudizio di Marion, la «morte di Dio» nietzschiana si riferisca proprio all’idolo concettuale kantiano è evidente, pena la forzatura di trasformarne l’annuncio in un vago e non meno imprecisato proclama dal sapore elusivo: […] O Nietzsche non mira a nulla di preciso, e il suo discorso regredisce dal rigore concettuale sino a perdersi in un pathos che definiamo “poetico”, 9 10 11 12

I. Kant, Scritti di filosofia della religione, Mursia, Milano 1989, p. 67. I. Kant, Scritti di filosofia della religione, cit., p. 68. I. Kant, Scritti di filosofia della religione, cit., p. 69. I. Kant, Scritti di filosofia della religione, cit., p. 68. Così anche nelle Lezioni di filosofia della religione: «Dio non si rivela mediante leggi morali? Certo! L’uomo vede che la legge morale non è un mezzo per favorire le sue inclinazioni in questo mondo, bensì consiste di prescrizioni che noi dobbiamo seguire, a prescindere dal fatto se essa possa renderci felici. Noi dobbiamo considerarla non come una regola della prudenza, bensì come dovere. Il dovere e la legge morale presuppongono un legislatore, e questi è un essere morale, dotato insieme della somma potenza, bontà, giustizia ecc.» (I. Kant, Lezioni di filosofia della religione, cit., p. 273, in nota. Corsivo mio).

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per evitare di ricorrere a epiteti più ambigui, oppure denuncia come un idolo crepuscolare l’identificazione kantiana (e per ciò stesso “platonica”) di Dio con il “Dio morale” (Dse 49; 49).

6. La prima idolatria Se il «Dio morale» è un idolo concettuale, allora non è che un’altra figura dell’ontoteologia, al pari della causa sui della metafisica. In quanto concetto di «Dio», il «Dio morale» è perciò un ennesimo nome col quale la metafisica, in quanto ontoteologia, designa il divino a partire dalla misura del pensiero: La metafisica, infatti, non ha alcun bisogno della teologia della fede per enunciare dei nomi divini: “Dio” come fondamento ultimo, per Leibniz; “Dio” come “Dio morale”, con Kant, Fichte e Nietzsche; “Dio”, infine e soprattutto, come causa sui, con Descartes, Spinoza e sostanzialmente tutta la metafisica. Questi concetti di “Dio” dipendono strettamente dalla metafisica, e in base alla sola esigenza dell’onto-teo-logia (Dse 97, 90).

Tale consapevolezza consente a Marion di reinterpretare la metafisica e l’ontoteologia alla luce dell’idolo concettuale. Qualunque concetto filosofico di «Dio» è infatti riconducibile alla causa sui dell’ontoteologia, al «Dio» della metafisica (Heidegger) in quanto è idolo concettuale (Marion). Ne consegue allora che la metafisica, che è ontoteologia, è anche idolatria. Si tratta di una «prima idolatria» (première idolâtrie) che, effettivamente, la riflessione marioniana incontra. In ogni caso, la tesi avanzata è decisiva. La metafisica è idolatria, in quanto l’idolo assolve qui a vera e propria «chiave universale». La perentorietà delle tesi avanzate richiede tuttavia una loro argomentazione che merita di essere ripercorsa. Marion precisa che, assunta nella rigorosa accezione heideggeriana, la metafisica è pensiero che lascia impensata la differenza ontologica: «La prima idolatria può stabilirsi rigorosamente a partire dalla metafisica, nella misura in cui la sua essenza dipende dalla differenza ontologica, ma “non pensata in quanto tale”, come dice Heidegger» (Dse 51; 51). Ciò che caratterizza, dunque, la metafisica è la preminenza della differenza ontologica come sfera ove l’Essere si rapporta agli enti e viceversa. Ancora di più, soprattutto, l’altra peculiarità della metafisica è la dimenticanza e l’oblio stesso di essa che segnano inevitabilmente il pensiero metafisico. Si tratta, allora, di assumere e ritenere valide entrambe le tesi heideggeriane.

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La misura dell’umano

Accetteremo dunque, senza discuterla e in questo caso anche senza esporla, l’anteriorità radicale della differenza ontologica come ciò attraverso cui e come ciò in cui il Geschick dell’/come Essere dispiega gli enti, in un ritiro che comunque conserva e dispone una prossimità ritirata. Ammetteremo anche che la differenza ontologica entra in gioco nel pensiero metafisico soltanto sotto la figura obliosa di un pensiero dell’Essere (pensiero chiamato a e attraverso l’Essere) che, ogni volta, continua a non mantenere (Dse 52; 52).

La metafisica lascia quindi impensati la differenza ontologica e perciò l’Essere stesso. Pensando l’ente, il pensiero metafisico si pone tuttavia il problema del fondamento. Lo risolve identificandolo in un ens supremum col quale appunto resta ulteriormente impensata la domanda sull’Essere: «In questo senso, ancora, l’entità finisce per trasportare anche la questione dell’Essere in una questione concernente l’ens supremum, intesa e posta essa stessa a partire dall’esigenza, decisiva per l’ente, del fondamento» (Dse 52; 52). L’ontoteologia decide dunque la questione del fondamento dell’ente attraverso l’ens supremum. Ma allora è proprio la costituzione ontoteologica della metafisica a decidere anche del divino e ciò in due sensi. In primo luogo, il divino resta sotto la misura di una differenza ontologica che lascia impensato l’Essere ma esige un fondamento dell’ente. È il divino ad assolvere alla funzione di un fondamento: «Il divino, così, non appare se non nella differenza ontologica impensata in quanto tale, e quindi anche nella figura del fondo fondatore, postulato per mettere al sicuro l’ente, fondo che deve mettersi al sicuro, e quindi fondare» (Dse 53; 52). In secondo luogo, l’ontoteologia dischiude un ambito di accesso per il divino decidendone funzione (fondamento) e luogo (metafisica) nel senso che Dio entra nella filosofia solo in qualità di ens supremum: L’onto-teologia attiva, per conto suo, una funzione, e quindi un luogo, per ogni intervento del divino che voglia costituirsi come metafisico: il polo teologico della metafisica determina, sin dalla messa in opera del cominciamento greco, un sito per quello che più tardi sarà chiamato “Dio” (Dse 53; 52).

In entrambi i sensi, è la metafisica che decide del divino, gli assegna una funzione in base alle proprie esigenze. Tale decisione impedisce però l’avvento di un Dio. Il sopraggiungere di Dio non proviene infatti a partire da sé, ma scaturisce, viceversa, dalla costituzione ontoteologica della metafisica che lo introduce per assolvere a ben definiti ruoli e per soddisfare precise necessità:

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L’avvento di qualcosa come “Dio” in filosofia, dunque, più che dipendere da Dio stesso, dipende dalla metafisica, in quanto figura destinale del pensiero dell’Essere. “Dio” si determina a partire e a vantaggio di ciò che la metafisica può potere, ammettere e sostenere. Quest’istanza anteriore – che determina l’esperienza del divino a partire da una condizione che si presuppone ineludibile – pone in evidenza un primo carattere dell’idolatria (Dse 53; 53).

La metafisica e il discorso su Dio dell’ontoteologia divengono così la misura stessa dell’apparire del divino e, perciò, idolatria. «Prima idolatria» della quale occorre, secondo Marion, mettere in luce i caratteri. Il primo carattere consiste nella peculiarità dell’esperienza stessa che del divino ha la metafisica. L’esperienza effettiva del divino è infatti stabilita a partire da un’intenzione del pensiero che nella mira del divino lo costituisce a partire da determinate condizioni esecutive che l’ontoteologia ordina e dispone (funzione, luogo). Il divino appare dunque, idolatricamente, rappreso in un concetto di «Dio». Il secondo carattere è analizzato da Marion a partire dalla domanda circa la carica effettivamente dispiegata da quel concetto di «Dio» nella metafisica. Al di là, cioè, dei vari concetti filosofici (metafisici) di «Dio», Heidegger in Identità e differenza individuava chiaramente che la metafisica pensa «Dio» come causa sui. Il concetto metafisico di «Dio» è la causa sui. Marion ritiene di dover seguire Heidegger anche su quest’ultimo punto: Quest’istanza anteriore – che determina l’esperienza del divino a partire da una condizione che si presuppone ineludibile – pone in evidenza un primo carattere dell’idolatria. Tale carattere però non basta ancora a interpretare il discorso teologico dell’onto-teologia come un’idolatria. Infatti si deve anche determinare la portata, limitata ma positiva, del concetto che l’idolatria considera equivalente a “Dio”. A questo scopo ammetteremo con Heidegger, ma anche come storici della filosofia, che questo concetto trovi una sua formulazione compiuta, nella modernità (Descartes, Spinoza, Leibniz, ma anche Hegel), con la causa sui (Dse 53; 53).

La metafisica è dunque idolatria poiché il divino resta condizionato da un’intenzione del pensiero che lo rapprende in un concetto di «Dio» (primo carattere della «prima idolatria»). E, inoltre, poiché tale concetto metafisico di «Dio» è la causa sui (secondo carattere della «prima idolatria»), la figura in cui consiste l’apprensione che del divino ha l’ontoteologia. È proprio la causa sui a mettere in gioco soprattutto il carattere idolatrico della metafisica. «Dio» come causa sui, infatti, è l’idolo concettuale per eccellenza. Lo evidenzia anche l’impossibilità, già rilevata peraltro dal

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medesimo Heidegger13, che esso possa svolgere, al di là delle funzioni ontoteologiche, un senso per il culto e la preghiera che si dovrebbero tributare a un Dio in quanto tale: «La causa sui sa offrirci soltanto un idolo di “Dio”, un idolo così limitato che non può né pretendere un culto e un’adorazione, né tanto meno sostenerli, senza tradire nello stesso tempo la propria insufficienza» (Dse 55; 54). Dio diviene attraverso la metafisica «Dio», un concetto che svolge la funzione di causa sui. La metafisica, perciò, è idolatria e il concetto metafisico per eccellenza di «Dio» è idolo concettuale. Marion può così precisare ancora più in dettaglio, grazie alla traccia segnata da Heidegger, la sua fenomenologia dell’idolo. Senza ombra di dubbio, l’idolo concettuale possiede un «sito» (site), una «funzione» (fonction) e una «definizione» (définition). Ciò significa che esso permette di inscrivere l’idolatria entro il corso stesso della metafisica come oblio dell’Essere, col risultato di ancorarla ad un destino che la sottrae alle derive nebulose di argomentazioni imprecise o incerte: L’idolo concettuale ha un sito, la metafisica, una funzione, la teo-logia nell’onto-teo-logia, e una definizione, causa sui. L’idolatria concettuale non resta un sospetto universalmente vago, ma s’inscrive nella strategia complessiva del pensiero considerato nella sua figura metafisica (Dse 56; 55).

Questa constatazione prelude certamente alla riflessione sulla fuoriuscita, possibile o meno, dall’idolo concettuale. Occorre esaminare, cioè, se la «morte di Dio» costituisca l’occasione di un effettivo crepuscolo dell’idolo che dischiuda la radicale novità di un avvento di Dio in quanto tale, quindi, in termini heideggeriani, l’eventualità di un oltrepassamento della metafisica e dell’ontoteologia. La questione è dunque se il crepuscolo dell’idolo prospetti conseguentemente una definitiva liberazione dall’idolatria. 7. La difficile liberazione dall’idolo La possibilità di una liberazione dall’idolo concettuale è inscritta innanzi tutto entro l’annuncio nietzschiano della «morte di Dio». Il crepuscolo dell’idolo, il venir meno del «Dio morale» potrebbero effettivamente al13 «Quest’ultima è la causa (Ursache) intesa come causa sui. È questo il nome appropriato per il dio della filosofia. A un dio simile l’uomo non può rivolgere preghiere né può offrire sacrifici» (M. Heidegger, Identità e differenza, cit., p. 95). Il passo è citato in Dse 54; 54.

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ludere allo schiudersi di un avvento radicale e incondizionato del divino. Quanto meno, l’annuncio di Nietzsche pone tale questione nella sua urgenza, già solo per il fatto che un idolo concettuale, inteso moralmente, viene genealogicamente smascherato nella sua inconsistenza. In questo senso, quell’annuncio vale come affermazione di un ateismo concettuale che azzera le pretese di un idolo concettuale, e perciò, forse, di ogni idolatria del pensiero. Ma è proprio questa probabilità, se cioè la «morte di Dio» valga o meno come liberazione dall’idolatria concettuale, a dover essere esaminata. Marion si domanda, infatti, se, innanzi tutto, l’ateismo concettuale possa essere inteso come emancipazione dall’idolo, svolga la sua funzione in direzione di una liberazione effettiva del divino (libération du divin) e, secondariamente, se si tratti di una liberazione «autentica», tale cioè da non ricadere nei suoi esiti in nuove forme di idolatria: […] È inevitabile che l’idolo crepuscolare, con la propria scomparsa, liberi lo spazio per un nuovo avvento del divino diverso da quello della figura morale. In questo caso l’ateismo concettuale, proprio in quanto la sua disposizione idolatrica gli dà una validità strettamente regionale, svolge piuttosto la funzione di una liberazione del divino. Il vero problema, a proposito di Nietzsche, non riguarda il suo preteso (e triviale) ateismo; consiste piuttosto nel chiedersi se la liberazione del divino da lui tentata acceda a una liberazione autentica, o si perda per strada (Dse 50; 50).

Centrale è dunque lo stabilire in che misura lo schiudersi di un nuovo spazio, inaugurato dal dileguarsi del «Dio morale», renda possibile un’apprensione di Dio non più idolatrica: La “morte di Dio”, come morte del “Dio morale”, constata il crepuscolo di un idolo; ma, appunto perché si tratta di un idolo, il crollo porta con sé, più essenzialmente ancora che non una distruzione, la liberazione di un nuovo spazio, libero per un’eventuale apprensione, non idolatrica, di Dio (Dse 59; 57).

Che vi sia il dischiudersi di un ambito nuovo, morto il «Dio morale, e che, dunque, si aprano inattese possibilità, sembra ammetterlo Nietzsche stesso. Effettivamente, l’ateismo concettuale sembra prospettare l’avvento di un nuovo divino. Nietzsche, in particolare, invoca l’arrivo di «nuovi dèi». La possibilità, tuttavia, che essi corrispondano a un divino non soggetto alla misura dell’idolo, resta tutta da esaminare e, alla fine, risulterà inammissibile. Marion constata, infatti, che l’avvento di «nuovi dèi» resta pur sempre condizionato dalla volontà di potenza. L’apprensione del divino, dischiusa dalla «morte di Dio», in realtà resta ancora entro i confini dell’idolatria

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La misura dell’umano

poiché rimane ancora una istanza anteriore capace di sottoporre a restrizione la venuta stesso del divino. Tale istanza è, per Nietzsche, la volontà di potenza di cui anzi il divino, ogni divino (il «Dio morale», i «nuovi dèi»), sono funzione: Ma questi nuovi dèi non potranno mai rendersi visibili se la loro apprensione non si sottomette alla volontà di potenza, che determina l’orizzonte di ogni ente, come entità dell’ente: “höchste Macht – das Genügt!”; gli dèi, liberati dall’idolatria morale, restano però soggetti ad altre istanze, a un’altra unica istanza di cui essi sono funzione, la volontà di potenza; essi, infatti, non sono altro che dei suoi puri e semplici stati o figure (Dse 59; 57).

Da ciò, l’ulteriore constatazione che all’apprensione idolatrica del «Dio morale» non consegua una fuoriuscita dall’idolatria, ma piuttosto una sua «reduplicazione», una reiterazione dell’idolo poiché inalterata resta la realtà di una condizione che delimita pur sempre il manifestarsi di Dio. Poco importa, allora, se il vincolo consista dapprima in un’istanza morale che rapprende il divino in un «Dio morale», o successivamente, in una figura della volontà di potenza, poiché in entrambi i casi la liberazione dall’idolo è illusoria e l’emancipazione dell’invisibile dalle restrizioni della misura è resa vana: «Così, a un’apprensione idolatrica succede un’altra apprensione idolatrica: la manifestazione del divino non fa che passare da una condizione (morale) a un’altra (Wille zur Macht), senza che il divino possa mai liberarsi in quanto tale» (Dse 59; 58). Nietzsche costringe così a riconoscere che non è sufficiente superare un idolo per trarsi fuori dall’idolatria. Il crepuscolo di un idolo non è condizione sufficiente per l’avvento di Dio in quanto tale: «Non basta, infatti, oltre-passare un idolo per sottrarsi all’idolatria» (Dse 60; 58). In questo contesto, Nietzsche costituisce anzi un’ulteriore e, probabilmente, definitiva prova della convergenza tra il teismo e l’ateismo concettuale. Tanto il teismo quanto l’ateismo concettuale rinviano infatti all’idolo pur nella contrarietà degli intenti (affermazione, negazione). Idolo da negare, innanzi tutto. Il crepuscolo dell’idolo, in Nietzsche, è l’esito di uno smascheramento della funzione assolta da un «Dio morale», la negazione della sua efficacia idolatrica. Ciò che effettivamente scopre la genealogia del filosofo tedesco è il ressentiment, il no alla vita e lo spirito di vendetta che fungono da condizioni di accesso al divino tali da restringerne l’apprensione in un «Dio» che odia la vita e il divenire: «In effetti, il “Dio morale” funziona come un idolo, e riflette indiscutibilmente lo sguardo con il quale l’uomo del risentimento si volge al divino, appunto perché non riesce assolutamente a raggiungere il polo assoluto» (Dse 87; 83).

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Ma, secondariamente, la negazione stessa si rovescia in una nuova affermazione. L’idolo negato riappare sotto nuova figura. I «nuovi dèi» sono infatti lo sbocco di una nuova apprensione idolatrica del divino vincolata, questa volta, alla volontà di potenza che esercita la sua attività nuovamente circoscrivendo la mira del divino. Nietzsche, allora, conferma definitivamente il sospetto che qualunque discorso che l’uomo enuncia su Dio, tanto affermativo quanto negativo, si risolva in idolatria. L’idolo è tanto l’esito della filosofia di Kant, quanto la conclusione del filosofo che ne ha annunciato il crepuscolo. Teismo e ateismo non fanno altro che erigere e abbattere idoli. Il teismo vuole giudicare di Dio affermativamente. E sentenzia la sua esistenza in maniera apologetica, attraverso la prova razionale. Ma ciò a cui giunge l’argomento che decide dell’esistenza di Dio è solamente un concetto di «Dio», un idolo. Ne L’idolo e la distanza, Marion precisava: Il filosofo, o, meglio, il metafisico dà nome al divino: lo fissa come idea tou agathou (Platone), come noeseos noesis (Aristotele), come Uno (Plotino). Introduce tra il divino, o più tardi tra il Dio di Gesù Cristo, e una definizione un segno di equivalenza, semplice, banale – terribile, parlerà, per esempio, come Kant, della “esistenza di un fondamento morale del mondo, cioè di Dio”. Non fa difficoltà che un concetto simile sia posto dal filosofo come fondamento o principio del divino; o, se fa difficoltà, questa riguarda solo il filosofo e il suo sforzo di pensiero. Se poi al termine della dimostrazione, una volta che si sia identificato rigorosamente il divino in questo concetto (una volta conclusa la “prova dell’esistenza di Dio”, come si dice, o si diceva), il filosofo furtivamente, ma anche evidentemente e facilmente, identifica questo concetto del divino con qualcosa, o qualcuno cui attribuisce il nome di Dio – questa identificazione potrebbe essere confermata solo se Dio la ratificasse (Ied 27; 20).

L’ateismo concettuale pretende, viceversa, di giudicare negativamente dell’esistenza di Dio, ma in realtà resta ugualmente impigliato nelle trame concettuali e nelle virgolette di un «Dio»: La prova utilizza positivamente un’idolatria che l’ateismo concettuale utilizza negativamente: in entrambi i casi, l’equivalenza con un concetto trasforma Dio in un “Dio”, in uno di quei “cosiddetti dèi” che sono infinitamente ripetibili; in entrambi i casi, il discorso umano decide di Dio (Dse 51; 51).

Sullo sfondo, resta il Dasein, presupposto dell’idolatria stessa, sia di quella apologetica quanto di quella denigratoria. È egli infatti che, nella sua mira del divino, lo riduce alla misura di un’intenzione di pensiero, tanto per affermarlo, quanto per negarlo:

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[…] Il Dasein umano può, concettualmente, raggiungere Dio, e può quindi costruire concettualmente qualcosa che si farà carico di chiamare “Dio”, per ammetterlo o dimetterlo. L’idolo è una chiave universale, sia per la negazione sia per la prova (Dse 51; 51).

Resta ancora da chiarire nel pensiero di Nietzsche la funzione idolatrica svolta dalla volontà di potenza e in che senso questo filosofo non sia, in fondo, così diverso da Kant. Secondo Marion, infatti, tanto il pensatore della «morte di Dio», quanto il pensatore della legge morale restano sotto il segno dell’idolatria. In entrambi, l’apprensione del divino soggiace a una condizione precisa che preclude la possibilità dell’avvento di un Dio in quanto tale. In Kant tale istanza anteriore è la moralità, la legge morale che orienta l’intenzione del pensiero su un idolo morale, il «Dio morale». In Nietzsche, l’istanza in questione è, invece, la volontà di potenza che, in quanto vincolo stesso anteposto alla mira del divino, soggiace e plasma tanto il «Dio morale» di Kant e, all’indietro il Dio del cristianesimo in quanto platonico, quanto i prossimi e venturi «nuovi dèi». Il passaggio dal «Dio» che muore ai «nuovi dèi» è dunque nientemeno che il passaggio da una figura della volontà di potenza ad un’altra. Il «Dio morale», in questo senso, è infatti l’espressione di una volontà di potenza, indebolita e depotenziata dal ressentiment e dalla malattia di un no alla vita, al punto da plasmare nella forma di un idolo lo sguardo verso il divino di una umanità animata dallo spirito di vendetta: «In effetti, il “Dio morale” funziona come un idolo, e riflette indiscutibilmente lo sguardo con il quale l’uomo del risentimento si volge al divino, appunto perché non riesce assolutamente a raggiungere il polo assoluto» (Dse 87; 83). I «nuovi dèi» sono invece l’espressione di una volontà di potenza attiva e forte, gioiosa nel suo sì alla vita e al divenire, che rapprende in quelle nuove forme del divino lo sguardo di una nuova umanità redenta dallo spirito di vendetta: I “nuovi dèi” ricevono la loro giustificazione, la loro esistenza e il loro senso unicamente dalla volontà di potenza, cui essi offrono mille volti, mille volti che indefinitamente vengono rifiutati e indefinitamente rinascono, mille idoli senza crepuscolo perché senza eternità, se non quella di una nascita eternamente ripresa (Dse 89; 83).

Ma ciò che diviene, al di sotto e dietro il susseguirsi degli idoli e della loro distruzione, è l’instancabile agitarsi della medesima volontà di potenza che innalza un «Dio», imprimendo l’essere al divenire, per poi abbatterlo in un’instancabile gioco innocente, al di là del bene e del male, che

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ricalca con una visione estetica, non morale, il flusso incessante delle cose. La medesima volontà di potenza che è dietro al «Dio morale» e ai «nuovi dèi», soggiace anche all’affermazione (teismo) e alla negazione (ateismo), all’idolo e al suo crepuscolo e poi nuovamente all’idolo. È un movimento continuo e istintuale14 al quale si deve commisurare ogni manifestazione possibile del divino. La volontà di potenza manifesta in tal modo il suo essere condizione, metro e norma di qualunque apprensione del divino: O ancora: perché certi idoli si estinguono crepuscolarmente, mentre altri si aprono all’aurora? Esclusivamente perché gli uni traggono origine da una figura della volontà di potenza più attiva e affermativa, mentre gli altri la traggono da una figura meno affermativa e più reattiva. Tra gli “dei” morti e quelli futuri, la distinzione resta una distinzione esclusivamente di grado. […] Unica a mettersi in luce, sul volto del “Dio morale” come su quello dei “nuovi dèi” è la volontà di potenza (Dse 89; 84).

Nietzsche resta dunque, al pari di Kant, impigliato nell’idolatria. Ciò equivale ad affermare che il filosofo della «morte di Dio» non si emancipa né dalla metafisica né dall’ontoteologia. Ne L’idolo e la distanza, Marion lo chiariva con precisione. La «morte di Dio», infatti, è il dileguarsi del Dio cristiano e platonico, il Dio della metafisica. Nietzsche smaschera il platonismo poiché scorge come il concetto di «Dio» assolva a una precisa funzione ontoteologica, in quanto è ente supremo, accentra ogni perfezione e salvaguarda la coesione della totalità dell’ente: […] Ciò che Nietzsche chiama “platonismo”, ma che si può forse interpretare come struttura onto-teo-logica della metafisica. “Dio” vi è convocato – e non solo invocato – come l’ente supremo che, in occasione di un discorso sull’essere dell’ente (ontologia, metaphysica generalis), assolve ad un tempo il compito di concentrarne la perfezione esemplare (ens realissimum, causa sui, ipsum esse, ecc.), e di garantire causalmente la coerenza di un mondo (Ied 58; 45).

Ma nonostante il filosofo tedesco proclami la morte del Dio della metafisica, finisce per restare entro i confini dell’ontoteologia e delle sue nuove strutture, la volontà di potenza innanzi tutto. Marion pare così ripetere 14 “[…] Quando si pone sull’altro versante del proprio pensiero del divino e apre l’orizzonte di manifestazione dei «nuovi dèi», Nietzsche li deduce sempre dalla volontà di potenza: «E quanti nuovi dèi sono ancora possibili! Anche a me stesso, dove vuole a volte ravvisarsi l’istinto religioso cioè l’istinto plasmatore di dèi (gottbildende): come diversamente, come variamente mi si è ogni volta rivelato il divino»” (Dse 88; 83).

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quanto Heidegger già precisava nel suo Nietzsche. Volontà di potenza ed eterno ritorno sono cioè strutture ontoteologiche che esauriscono l’ontoteologia nel contesto di una ontologia che riduce l’ente a volontà di potenza e di una teologia che, preso atto della morte di Dio, afferma l’eterno ritorno: «Anche la metafisica di Nietzsche, in quanto ontologia, benché sia apparentemente lontana dalla metafisica della scuola leibniziano-wolffiana, è al tempo stesso teologia. L’ontologia dell’ente in quanto tale pensa la essentia come volontà di potenza. Questa ontologia pensa la existentia dell’ente in quanto tale nel suo insieme, teologicamente, come l’eterno ritorno dell’uguale. Questa teologia metafisica è tuttavia una teologia negativa di tipo particolare. La sua negatività si manifesta nella sentenza: Dio è morto. Non è la sentenza dell’ateismo, ma la sentenza dell’ontoteologia di quella metafisica nella quale si compie il nichilismo autentico»15. Nietzsche resta dunque entro la metafisica, poiché non si libera dall’idolatria: Nietzsche resta idolatra perché metafisico: la “morte di Dio”, sperimentata e genialmente smontata, enuncia la morte del Dio metafisico (“Dio morale”). Ma, poiché resta la struttura onto-teologica della metafisica (volontà di potenza, Eterno Ritorno), il divino, un altro divino riappare in una forma ancora metafisica (Ied 100; 75).

Questa conclusione imporrebbe allora un approccio ermeneutico al pensiero di Nietzsche differente dagli orientamenti tutto sommato condivisi che lo individuano soprattutto come il filosofo della «morte di Dio». La sua peculiarità, osserva infatti Marion, non consisterebbe tanto in quell’annuncio poiché di fatto egli non fuoriesce dalla metafisica e dalle sue strutture ontoteologiche. Non vi è alcuna morte di «Dio», in Nietzsche, poiché un «Dio» permane in ogni caso come espressione di una apprensione del divino condizionata dalla volontà di potenza, istanza anteriore ad ogni visibilità del divino al punto da plasmarla in una molteplicità di forme differenti e in contrasto tra loro («Dio» platonico e cristiano, «Dio morale», «nuovi dèi», Dioniso ecc.) attraverso un continuo gioco di affermazione e di negazione che, in ultimo, attesta solamente l’incessante attività della volontà di potenza. Da questo punto di vista, sarebbe preferibile scorgere la prerogativa di Nietzsche nella sua genealogia, vera e propria anticipazione della riduzione fenomenologica, con la quale le molteplici manifestazioni del divino sono ridotte alla volontà di potenza: «Nessuno ha saputo mettere in luce questo fatto meglio di Nietzsche che, con una specie di riduzione 15 M. Heidegger, Nietzsche, cit., p. 820.

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fenomenologica ante-litteram, riconduce genealogicamente gli “dèi” – tutti gli “dèi,” senza eccezione alcuna – alla volontà di potenza» (Dse 89; 84). Meglio ancora sarebbe pensare Nietzsche come il filosofo della volontà di potenza e di «Dio» inteso a partire da essa: La specificità di Nietzsche non consiste tanto nel proclamare la “morte di Dio”, quanto piuttosto nel pensarlo a partire dalla volontà di potenza: naturalmente, dobbiamo continuare ad ammettere ciò che viene considerato come “Dio”, ma lo si dovrà considerare un effetto di uno stato (reattivo) della volontà di potenza (Dse 88; 83).

8. Liberare «Dio» dalle virgolette Il crepuscolo dell’idolo ne ripropone l’aurora. L’apertura di uno spazio che dovrebbe liberare l’avvento del divino in quanto tale, affranca soltanto l’umanità dal ressentiment, ma non dall’affermazione di una volontà di potenza, felice e vitale, che plasma nuovi idoli. La possibilità implicita nella «morte di Dio» manca la promessa di un’uscita dal pensiero idolatrico come tale: a venire meno è soltanto un concetto di «Dio», non la mira del divino in un’intenzione del pensiero. Occorre allora oltrepassare Nietzsche, prendere atto che egli rimane ancora entro la metafisica e l’ontoteologia. Il suo ateismo concettuale non libera il divino, piuttosto si rivela come l’altra faccia del teismo, elemento antitetico che necessita del suo contrario. Negazione e affermazione costituiscono una duplicità che caratterizza l’idolatria stessa. Rimane però ancora più urgente la domanda circa la liberazione di «Dio» dalle sue virgolette, la richiesta di un’uscita dall’idolatria (prima), in definitiva, la pretesa di emancipazione da un pensiero idolatrico in direzione di un pensiero non idolatrico tale da lasciare spazio all’avvento di Dio. Secondo Marion, la liberazione di «Dio» dalle virgolette è allora possibile solo come uscita dalla metafisica e dalle sue strutture ontoteologiche. Un pensiero non idolatrico sarebbe possibile solo come un pensiero capace di abbandonare la metafisica. Si tratterebbe di un pensiero capace di rinunciare a qualunque istanza o condizione determinanti l’apprensione del divino, idoneo a pensare Dio senza rapprenderlo in un idolo: Per guadagnare un pensiero non idolatrico di Dio, il solo che sia capace di liberare “Dio” dalle virgolette emancipando la sua apprensione dalle condizioni poste dall’onto-teo-logia, bisognerebbe dunque arrivare a pensare Dio al di fuori della metafisica, per lo meno nella misura in cui quest’ultima, con

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la bestemmia (la prova), conduce immancabilmente al crepuscolo degli idoli (ateismo concettuale) (Dse 57; 56).

Si tratta di prendere atto della necessità di andare oltre la metafisica e l’ontoteologia, preso atto che la filosofia di Nietzsche si radica ancora in esse. Chi ha tracciato una via in questa direzione è Heidegger, non solo accorgendosi che Nietzsche porta a compimento la metafisica, ma soprattutto ponendo le questioni dell’Essere e della differenza ontologica. È allora ad Heidegger, ritiene Marion, che occorre rivolgere l’attenzione al fine di mantenere aperta la possibilità di una liberazione di «Dio» dalle virgolette. D’altronde, è in Identità e differenza che il filosofo tedesco mentre mette in luce la struttura ontoteologica della metafisica, asserisce conseguentemente la necessità di un suo superamento. Un pensiero non metafisico non avrebbe più a che fare con un Dio filosofico nella misura in cui il divino non sarebbe più condizionato dalla causa sui, la cui insufficienza sul piano religioso è peraltro sancita dall’impossibilità per l’uomo di rendergli culto. Heidegger così allude a «un pensiero senza-dio», situato oltre la metafisica, portata a compimento da Nietzsche, opportunità e varco verso un «dio divino». Scrive infatti Heidegger: «Questa è la causa (Ursache) intesa come causa sui. È questo il nome appropriato per il dio nella filosofia. A un dio simile l’uomo non può rivolgere preghiere né può offrire sacrifici. Dinanzi alla causa sui l’uomo non può cadere devotamente in ginocchio né può suonare e danzare. Di conseguenza, il pensiero senza-dio (das gott-lose Denken), che deve rinunciare al dio della filosofia – cioè al dio come causa sui -, è forse più vicino al dio divino. Il che, in questo caso, significa soltanto: questo pensiero è libero per un tale dio più di quanto la onto-teologica non sia disposta ad ammettere»16. La fine della metafisica può così rilanciare l’eventualità di emancipare anche Dio da qualsiasi struttura ontoteologica. Abbandonata la causa sui, il pensiero potrebbe liberare il divino dai lacci della rappresentazione metafisica, idolatrica secondo Marion, e dunque avvicinarsi a un «dio divino». Il filosofo francese è consapevole che la questione dell’idolo si intreccia con quella heideggeriana dell’ontoteologia. Ma l’esigenza di approfondire la dimensione idolatrica per individuarne un oltrepassamento, comporta altresì l’inevitabilità di un confronto con il pensiero dell’Essere come tale e della differenza ontologica: Appunto, ciò che dobbiamo fare ora è sottolineare come la problematica dell’idolatria, lungi dal cadere qui in desuetudine, trova il terreno per un dibat16 M. Heidegger, Identità e differenza, cit., p. 95. Marion cita il passo in questione in Dse 54; 54.

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tito veramente radicale proprio quando si imbatte nel tentativo di un pensiero dell’Essere in quanto Essere (Dse 58; 57).

Heidegger diviene perciò decisivo. Secondo Marion occorre, infatti, «guadagnare un pensiero non idolatrico di Dio, il solo che sia capace di liberare “Dio” dalle virgolette emancipando la sua apprensione dalle condizioni poste dall’ontoteologia». Un tale pensiero non idolatrico, se la metafisica è «prima idolatria», sarà necessariamente un pensiero che si spinge a pensare Dio oltre la metafisica. «Bisognerebbe dunque arrivare a pensare Dio al di fuori della metafisica» insieme ad Heidegger? Il filosofo francese se lo domanda esplicitamente. Se la fuoriuscita dalla metafisica è l’heideggeriano Schritt zurück, occorre, per liberare «Dio» dalle virgolette, cioè dall’idolatria, seguire e ripetere quel cammino che conduce all’indietro verso il tentativo di pensare l’Essere come tale attraverso un ripensamento della differenza ontologica? Ma un tale pensiero dell’Essere è poi davvero vicino, in quanto «pensiero senza-dio», al «dio divino»? Ammesso, si chiede Marion, che davvero ripensando la differenza ontologica, si fuoriesca dalla metafisica, si sarà davvero liberato il divino dall’idolatria? O dovremo attenderci qualche nuovo idolo, forse meno evidente perché più ambiguo? Scrive il pensatore francese: Il superamento dell’idolo ci invita, forse, a regredire dalla metafisica nel senso in cui Sein und Zeit cerca di compiere un passo indietro verso l’Essere come tale, attraverso la meditazione della sua temporalità essenziale? Regredire dalla metafisica: anche supponendo che il pensiero consacrato all’Essere in quanto Essere possa riuscirvi, basta per liberare Dio dall’idolatria – visto che l’idolatria culmina nella causa sui – o non si dovrà riconoscere piuttosto che l’idolatria della causa sui rinvia, solo come indizio, a un’altra idolatria, più discreta, più pressante e quindi tanto più minacciosa? (Dse 58; 56).

9. La seconda idolatria Un pregio di Heidegger consiste certamente nell’aver colto in Nietzsche il carattere di «reduplicazione» dell’idolatria. Il crepuscolo dell’idolo ne svela infatti una nuova aurora, la morte del «Dio morale» prelude a «nuovi dèi» che si limitano però a sostituire un idolo con nuove figure idolatriche. Quando Heidegger, infatti, interpreta il pensiero di Nietzsche come il compimento della metafisica, ne individua ancora la portata ontoteologica. E questo vale in due sensi. Innanzi tutto la volontà di potenza e l’eterno ritorno costituiscono ancora istanze anteriori alla possibilità di visibilità

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e di apprensione del divino, fungono cioè da strutture ancora metafisiche. Secondariamente, definito il nichilismo «autentico» come oblio dell’Essere e dimenticanza della differenza ontologica, Heidegger può constatare che Nietzsche non si emancipa dal nichilismo in quanto si attarda ancora sull’ente (volontà di potenza, eterno ritorno) e non pone la questione decisiva che domanda dell’Essere. In questo senso, scrive Heidegger: «L’essere viene determinato come valore e viene quindi spiegato partendo dall’ente come una condizione posta dalla volontà di potenza, dall’ “ente” in quanto tale. L’essere non è riconosciuto come l’essere»17. Così Nietzsche resta ancora impigliato nel pensiero metafisico che riduce l’essere a niente, in una parola nel nichilismo: «l’essenza del nichilismo è la storia nella quale dell’essere stesso non ne è niente»18. Perciò egli rimane entro la metafisica, la rovescia, ma non ne esce: «La metafisica di Nietzsche non è di conseguenza un superamento del nichilismo. È l’ultimo irretimento nel nichilismo»19. Ciò significa che per Heidegger l’esito della «morte di Dio» è il nichilismo, in quanto perpetuarsi ulteriore della metafisica, o, meglio, come crescente manifestazione della sua intima essenza: sempre più estrema dimenticanza dell’essere e sua riduzione a niente. Come nota Marion, è proprio questo nichilismo l’ambito stesso entro il quale la volontà di potenza plasma le figure di sempre nuovi idoli: «La “morte di Dio” si apre per Nietzsche nel nichilismo, ed è appunto attraverso la passione del nichilismo che la volontà di potenza accede a una produzione figurativa di nuovi dèi» (Dse 60; 58). Il compimento della metafisica, cioè il nichilismo, culmina secondo Heidegger nella tecnica la cui essenza si dispiega come imposizione (Gestell). Se la «morte di Dio» inaugura il nichilismo, esso si compie nella tecnica. Ma questo compimento diviene anche l’estremo limite ed esaurimento della metafisica, giunti ai quali si dà una possibilità di salvezza. Infatti la tecnica esaurisce fin nelle sue ultime potenzialità la riduzione dell’essere dell’ente a semplice presenza (Anwesenheit) e svuota definitivamente la differenza ontologica lasciandola compiutamente impensata. Ma è qui che il pericolo si capovolge in salvezza secondo il noto verso di Hölderlin. La semplice presenza e l’impensato della differenza ontologica suscitano la domanda per eccellenza della filosofia heideggeriana. La via per la salvezza è così indicata. Si tratta di pensare l’impensato, dunque di 17 M. Heidegger, Nietzsche, cit., p. 811. 18 M. Heidegger, Nietzsche, cit., p. 812. 19 M. Heidegger, Nietzsche, cit., p. 814.

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domandare dell’essere dell’ente e della differenza ontologica, rimasta a lungo disattesa. Marion riassume così la questione: L’essenza della tecnica, che culmina nell’Im-posizione (Gestell), compie il nichilismo, ma in maniera tale che il nichilismo si apre allora alla possibilità di una salvezza; in effetti, portando sino al suo limite insuperabile l’interpretazione dell’Essere dell’ente come presente e presenzialità (Anwesenheit), consacrando quindi il privilegio sulla sua entità, e dimenticando perciò che, nella differenza ontologica, ciò che continua sempre a dimenticarsi è appunto l’Essere, l’Im-posizione porta al culmine la differenza ontologica, manifestandola tanto più chiaramente in quanto non la pensa come tale. Là dove più grande si fa il pericolo, più grande diventa anche la salvezza (Dse 60; 58).

Quello a cui Heidegger allora pensa, è un inizio diverso, un «nuovo cominciamento». Questo nuovo inizio, come «passo indietro», è il movimento che risale dalla metafisica che lascia non pensata la differenza ontologica a ciò che è propriamente «da-pensare»: «Il passo indietro va dal non pensato, cioè la differenza in quanto tale, a ciò che è da-pensare, cioè la dimenticanza (Vergessenheit) della differenza»20. Come osserva Marion, il «nuovo cominciamento» è il «passo indietro» come il pensiero della differenza ontologica da pensare e, perciò, dell’Essere come tale: «L’altro cominciamento cerca di pensare la differenza ontologica come tale, e di pensare quindi l’essere come Essere» (Dse 61; 59). All’opera è qui una precisa analogia tra il nichilismo e la tecnica. Come il nichilismo apre alla possibilità di «nuovi dèi», la tecnica dischiude la possibilità di un nuovo inizio. Se il venir meno di Dio sembra rovesciarsi in una nuova apprensione del divino, la chiusura di qualunque rinvio all’essere e alla differenza, posto in opera dalla tecnica, sembra invertire il pensiero che ora, a partire dalla distinzione ontica, pone invece come compito quello di pensare ontologicamente la differenza. Il pensiero della differenza ontologica, meditata con il «nuovo cominciamento», chiarisce perciò l’importanza che la filosofia di Heidegger può assumere nel quadro di una liberazione del divino. Già in Identità e differenza, infatti, il filosofo tedesco precisava che il pensiero che realizza il «passo indietro» è un pensiero che si affranca dalla metafisica, e perciò dalla stessa ontoteologia. Detto altrimenti, il nuovo inizio potrebbe emancipare il divino dalla causa sui. Il pensiero che pensa la differenza ontologica e l’Essere si manifesterebbe come un «pensiero senza-dio», privo cioè di strutture ontoteologiche, e perciò vicino al «dio divino». Tale è la possibilità che interessa a Marion. 20 M. Heidegger, Identità e differenza, cit., p. 64.

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Per superare il pensiero idolatrico, sarebbe dunque da accogliere la filosofia di Heidegger nel quadro di una rottura con la metafisica e dunque con il Dio della filosofia (ontoteologia, causa sui): In questo senso, il “nuovo cominciamento”, che rompe con la differenza ontologica non pensata e quindi con la causa sui dell’onto-teologia, inizia a concepire il “dio divino” o per lo meno non si chiude a questa possibilità, o meglio la apre. Concludendo: il “nuovo cominciamento”, fattosi carico dell’Essere come Essere, tenta di accostare il dio in quanto dio (Dse 61; 59).

Il pensiero della differenza ontologica sembrerebbe così non precludere la possibilità di una liberazione dalla «prima idolatria», strutturandosi come apertura alla pensabilità di Dio. Non Nietzsche, dunque, ma Heidegger sembrerebbe suggerire l’uscita dall’idolo. Secondo Marion, occorre verificare se davvero, però, vi sia o meno in Heidegger un simile spiraglio. L’esito ultimo di tale indagine risulterà negativo. Secondo il filosofo francese, Heidegger, come già Nietzsche, non fuoriesce dall’idolatria ed anzi vi ricade. Ciò che il passo indietro inaugura è certamente un pensiero che non lascia impensati l’Essere e la differenza, ma non realizza quella possibilità di apertura su un Dio in quanto tale, poiché si limita a dischiudere la dimensione del sacro, posteriore al pensiero dell’Essere, ma anteriore al «dio divino». Lo chiarisce in maniera risolutiva, secondo il pensatore francese, un passo tratto dalla Lettera sull’umanismo. In esso, precisato che il pensiero che pensa l’essere, pone una questione anteriore alla metafisica che non lo pensa, Heidegger scrive: «Solo a partire dalla verità dell’essere si può pensare l’essenza del sacro. Solo a partire dall’essenza del sacro si può pensare l’essenza della divinità. Solo alla luce dell’essenza della divinità si può pensare e dire che cosa debba nominare la parola “Dio”. O non dobbiamo forse prima di tutto sapere intendere e ascoltare con cura tutte queste parole, affinché ci sia consentito esperire come uomini, cioè come e-sistenti, un riferimento di Dio all’uomo? Ma come può l’uomo dell’attuale storia del mondo riuscire anche solo a domandarsi in modo serio e rigoroso se Dio si avvicini o si sottragga, quando proprio quest’uomo tralascia di pensare anzitutto in quella dimensione in cui solamente quella domanda può esser posta? Ma questa è la dimensione del sacro, che rimane chiusa persino come dimensione, se l’apertura dell’essere non è diradata e, nella sua radura, non è vicina all’uomo»21. Il commento di Marion mira a evidenziare come di fatto venga chiusa la possibilità che possa essere Heidegger a tracciare una via d’uscita effettiva 21 M. Heidegger, Segnavia, cit., p. 303.

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dall’idolatria. Il filosofo francese, infatti, riscontra come a mantenere Dio ancora sotto la misura del pensiero sia il cadenzarsi di tutta una serie di condizioni. Nel passo in questione, infatti, la possibilità di nominare Dio è l’esito conclusivo di un graduale rischiaramento della dimensione dell’Essere, anteriore però al divino in quanto tale. Si legge che il pensiero che pensa l’Essere ne schiude la verità. Ma essa è la condizione per pensare il sacro. Ma il sacro è condizione per pensare la divinità a partire dalla quale, solamente, avrebbe senso chiedersi cosa nomina la parola «Dio». Marion rinviene anche in altri testi del filosofo tedesco il medesimo incrociarsi di condizioni anteriori al divino come tale22: «Ciascuno di questi testi obbedisce a una sovrapposizione, rigorosamente determinata, di condizioni che si implicano e si embricano reciprocamente» (Dse 62; 60). Tutte queste condizioni e il loro reciproco rimando dimostrano che il «passo indietro» inaugura un «nuovo cominciamento» che non coincide con l’avvento di Dio in quanto tale. Il pensiero dell’Essere e della differenza ontologica (pensata) apre alla dimensione del sacro. Solo entro tale dimensione, prende senso il divino che ha per volto quello degli dèi. E solo a partire da tale divino si può interrogare eventualmente il manifestarsi del Dio della rivelazione cristiana: L’essere determina così, con l’apertura del suo ritiro, gli enti; la sporgenza degli enti, che l’Essere (das Heile) mantiene intatti, incorona a sua volta quelli che tra loro sono i più protetti con la gloria del sacro che può garantire l’apertura di qualcosa come un ente divino (das Göttliche); ed è sempre e soltanto la virtù del divino che può noleggiare e sostenere il peso di enti così insigni che sui loro visi si è costretti a riconoscere il volto degli dèi (die Gotter); da ultimo, solo la tribù degli dèi può preparare e garantire un soggiorno sufficientemente divino perché qualcuno come il Dio del cristianesimo o un altro (l’unico vero problema in questo caso è la pretesa all’unicità) abbia la possibilità di rendersi manifesto (Dse 62; 61).

Il reciproco richiamo di queste condizioni è l’intreccio del Geviert. È la Quadratura alla quale, come nota Marion, Heidegger accenna in altri testi23, a partire dalla conferenza del 1950 intitolata La cosa: Tutte queste condizioni embricate si riuniscono per altro nel gioco di ciò che altrove (nella strana conferenza su La cosa) Heidegger chiama Quadratura o Quadrato (Geviert), le cui quattro istanze, la Terra e il Cielo, i mortali e il di22 È da notare che Marion cita molti altri passi, presenti nelle opere del filoso tedesco, che ribadiscono la medesima tesi. Cfr. nota n. 26 di Dse 62; 60. 23 Cfr. la nota 27 di Dse 64; 61.

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La misura dell’umano

vino, si rinforzano come un arco di spinta, cioè si confermano e si respingono, in una immobile e palpitante tensione nella quale ciascuno non deve ad altro il suo avvento se non alla lotta degli altri, e nella quale le loro lotte reciproche non devono ad altro l’armonioso equilibrio della loro mischia-contesa se non all’Essere che le richiede, le fa scattare e le mantiene24 (Dse 63; 61).

Nel groviglio di queste istanze accavallate non c’è allora spazio per la questione di Dio, se non al margine e sul confine di un ambito circoscritto e delimitato da quei presupposti. La conseguenza è dunque inequivocabile. Il pensiero dell’Essere, che inverte la sua mira in direzione dell’uscita dalla metafisica meditando la differenza ontologica, non apre a Dio. Marion prende dunque atto che la questione dell’esistenza di Dio nel pensiero dell’Essere è perciò «imprecisa» (imprécise), «affrettata» (hâtive) e «fuori posto» (déplacée) (Dse 64; 62). È «imprecisa» poiché una questione riguardante l’esistenza rinvia innanzi tutto all’Essere, prima che a Dio. È «affrettata» perché non si può saltare la questione dell’Essere come tale per arrivare subito e direttamente a Dio, scavalcando il sacro e gli dèi. È «fuori posto» perché la questione di Dio è intempestiva e sconveniente rispetto a quella dell’Essere, posta la quale è dato accesso alla verità e al pensiero. Ci permettiamo, a sostegno della tesi di Marion, di sottolineare come Heidegger ritenga effettivamente improponibile interrogarsi su Dio, e quindi prima ancora domandare in generale, se prima non si sia conquistata quella dimensione dell’Essere che è unica e sola condizione del pensiero stesso, e dalla quale perciò deriva la possibilità stessa di ogni interrogare: «Ma come può l’uomo dell’attuale storia del mondo riuscire anche solo a domandarsi in modo serio e rigoroso se Dio si avvicini o si sottragga, quando proprio quest’uomo tralascia di pensare anzitutto in quella dimensione in cui solamente quella domanda può esser posta?»25. La conclusione è che vi sia un presupposto che resta anteriore alla questione di Dio al punto da vincolarla e ridurla a una dimensione ontica. L’inizio non è avvento di Dio, ma dell’Essere: La questione di Dio deve ammettere un preliminare, sia pure sotto la forma di una questione preliminare. Al cominciamento e in principio non avviene né Dio, né un dio e neppure il logos, ma l’avvento stesso, l’Essere, con un’anteriorità che è tanto meno condivisa in quanto divide tutto il resto (Dse 65; 62).

24 Cfr. Ied 269; 215. 25 M. Heidegger, Segnavia, cit., p. 303.

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Dio rimane allora, ancora una volta, sotto una condizione che ne limita la manifestazione. Detto altrimenti, l’Essere è la condizione di ogni teofania: «Da che cosa dipende il fatto che l’Essere si trovi a essere considerato, in maniera indiscussa, come il tempio aperto (o chiuso) già in partenza a ogni teofania passata o futura?» (Dse 69; 66). La domanda che Marion si pone ha una sola risposta. Il primato dell’ontologia rispetto alla questione di Dio ridotta a problema ontico è l’apparire di una nuova idolatria «più discreta, più pressante e quindi tanto più minacciosa» (Dse 58; 57). È un’altra idolatria, meno evidente della «prima idolatria», che pervade ora il pensiero dell’Essere. Marion può così affermare l’esistenza di due idolatrie. La «prima idolatria», propria della metafisica e dell’ontoteologia, rapprende il divino in un idolo, il concetto di «Dio» inteso come causa sui. Ma vi è anche una (seconda) idolatria, propria del pensiero che attua lo Schritt zurück fino a rapprendere Dio in un nuovo idolo: l’Essere come condizione stessa del pensiero e di ogni interrogare. Scrive il pensatore francese: Possiamo dunque affermare che anche in questo caso, per la seconda volta, e al di là dell’idolatria propria della metafisica, è all’opera un’altra idolatria, propria al pensiero dell’Essere in quanto tale. Quest’affermazione, per brutale che possa sembrare, discende però direttamente dall’anteriorità, indiscutibile e essenziale, della questione ontologica rispetto alla questione ontica di “Dio”. Quest’anteriorità è sufficiente a stabilire l’idolatria26 (Dse 63; 63).

A conferma, Marion analizza due convinzioni di Heidegger che sono ricollegabili all’idolo. In primo luogo, l’idolo rinvia alla mira del divino in una intenzione. Tale intenzione o è l’intenzione di uno sguardo dell’uomo (idolo estetico) o è l’intenzione del pensiero del Dasein (idolo concettuale). Ciò che caratterizza l’idolatria è la pretesa, in ogni caso, di anteporre la norma dello sguardo 26 Cosi ne L’idolo e la distanza: «E il fatto che questo sia inteso metafisicamente o no, non modifica la decisione di fondo: come l’onto-teologia produce un idolo di “Dio” sotto la forma di causa sui, così un pensiero del “nuovo inizio” accoglierà il “Dio” solo per quello che gli sarà consentito dal “soggiorno divino” (Aufenhalt, nel senso in cui la Lettera sull’umanismo commenta l’ethos eracliteo) che sarà stato in grado di preparare. Lo scarto tra un pensiero metafisico e un pensiero non metafisico del divino è qui meno importante della loro totale convergenza nel pensare idolatricamente Dio come questo ente divino che è fondato dalla dignità divina dell’Essere: ad ogni istante, più radicale in “Dio” di “Dio”, appare l’Essere che vi attesta la sua dignità divina come un ente tra tanti altri. “Dio” diventa l’idolo luminoso nel quale l’Essere ci offre, nella Quadratura, la sua divinità» (Ied 270; 216).

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La misura dell’umano

o del pensiero alla visibilità del divino e, perciò, all’apprensione di esso. L’umano è così misura dell’apparire del divino. Proprio tale tesi si rinviene in Heidegger, a partire dall’analitica del Dasein e dall’interpretazione della fenomenologia che egli formula già negli anni Venti del Novecento. Si tratta di acquisizioni anteriori alla Kehre che, secondo Marion, condizioneranno a lungo anche la ricerca filosofica posteriore. È il problema del carattere ateo che deve caratterizzare la ricerca filosofica secondo il pensatore tedesco. Occorre ripercorrerne brevemente la genesi, prima di esaminarne il giudizio di Marion. Il pensiero di Heidegger anteriore a Essere e tempo si configura come un ripensamento della fenomenologia di E. Husserl nel segno di una ermeneutica della vita effettiva, l’analitica esistenziale di Essere e tempo, orientata dal principio husserliano dell’assenza di presupposti. Nel periodo di Friburgo (1919-1923) e successivamente durante l’insegnamento a Marburgo (1924-1928), a partire dal corso universitario L’idea della filosofia del 1919, Heidegger tenta una ridefinizione della filosofia tale da sottrarla all’identificazione con il modello di ricerca della verità proprio delle scienze, tipico del positivismo27. Contro tale impostazione, Heidegger sottolinea che le scienze presuppongono un atteggiamento teoretico, definito come un porsi fuori dalla vita o dal mondo-ambiente (Umwelt) per realizzare l’ideale di un’osservazione distaccata e oggettiva del mondo e delle cose che sradica, secondo il filosofo, l’io storico dal suo mondo-ambiente. In questo senso, l’atteggiamento teoretico è definito come un collocarsi fuori dalla vita da parte di un io teoretico: «Nel comportamento teoretico sono indirizzato verso qualcosa, ma io non vivo (come io storico) per questo o quest’altro elemento mondano»28. Heidegger definisce così la filosofia come una scienza pre-teoretica, scienza anteriore (Urwissenschaft) e preliminare (Vorwissenschaft) alle scienze teoretiche e oggettivanti tra le quali vi è anche la filosofia come disciplina sistematica e tradizionale, interessata non al 27 «La possibilità di accedere ai concetti filosofici è del tutto diversa dalla possibilità di accedere ai concetti scientifici. La filosofia non dispone di un contesto reale obiettivamente configurato entro cui i suoi concetti possano essere inseriti per ottenere la loro determinazione. Tra scienza e filosofia c’è una differenza di principio. […] Si potrebbe pensare che il comportamento della filosofia sia altrettanto razionale e conoscitivo di quello scientifico. Ne deriva l’idea del “principio in generale”, del “concetto in generale”, e così via. Questa concezione non è però esente dal pregiudizio di una filosofia intesa come scienza» (M. Heidegger, Phänomenologie des religiösen Lebens, V. Klostermann, Frankfurt am Main 1995, tr. it. Fenomenologia della vita religiosa, Adelphi, Milano 2003, pp. 35-36). 28 M. Heidegger, Zur Bestimmung der Philosophie, V. Klostermann, 1999 Frankfurt am Main, tr. it. Per la determinazione della filosofia, Guida, Napoli 2002, p. 71.

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che cosa ma al come l’uomo si relaziona alle cose. Nel momento in cui delimita ulteriormente tale scienza pre-teoretica, Heidegger la immedesima con la fenomenologia husserliana, a patto però di correggerne la portata. Se la fenomenologia di Husserl è intesa come una descrizione oggettiva, grava su di essa il pregiudizio positivistico dell’atteggiamento teoretico. Ma se la fenomenologia è invece riportata al principio dei principi della fenomenologia husserliana, allora secondo Heidegger, se ne coglie il significato autentico. Si tratta del famoso «principio di tutti i principi» espresso da Husserl nelle Idee per una fenomenologia pura e per una filosofia fenomenologica: «Ma basta con le teorie assurde. Nessuna teoria concepibile può indurci in errore se ci atteniamo al principio di tutti i principi: cioè che ogni intuizione originalmente offerente è una sorgente legittima di conoscenza, che tutto ciò che si dà originalmente nell’ “intuizione” [Intuition] (per così dire in carne e ossa) è da assumere come esso si dà, ma anche soltanto nei limiti in cui si dà»29. In base a tale principio, infatti, la fenomenologia non sarebbe pensabile secondo Heidegger come una descrizione oggettiva e teoretica, ma come una intuizione (ermeneutica), un «vedere» fenomenologico che nulla ha dell’atteggiamento teoretico, in quanto è invece un atteggiamento filosofico originario: «Esso è l’intenzione originaria della vita verace, l’atteggiamento originario dell’esperienza vissuta e della vita come tali, l’assoluta simpatia della vita, identica con la stessa esperienza»30. La filosofia (scienza pre-teoretica, fenomenologia) così intesa, priva di atteggiamento teoretico, si può allora occupare di un fenomeno ben preciso, l’esperienza effettiva della vita (faktische Lebenserfahrung)31, la vita effettiva (faktisches Leben) o Esserci (Da-sein)32. Questo programma filosofico si declina nel 1923 come un’ermeneutica della vita effettiva (Hermeneutik 29 E. Husserl, Ideen zu einer reinen Phänomenologie und phänomenologischen Philosophie in Allgemeine Einführung in die reine Phänomenologie, Husserliana, Kluwer Academic Publishers, Den Haag 1976, tr. it. Idee per una fenomenologia pura e per una filosofia fenomenologica, Einaudi, Torino 2002, Vol. I, p. 52. 30 M. Heidegger, Per la determinazione della filosofia, cit., p. 103. 31 «Se lo si concepisce in termini radicali, ci si accorge che la filosofia scaturisce (entspringt) dall’esperienza effettiva della vita (faktische Lebenserfahrung), per poi farvi ritorno rimbalzando (zurückspringen) al suo interno. Il concetto di esperienza effettiva della vita è fondamentale» (M. Heidegger, Fenomenologia della vita religiosa, cit., p. 40). 32 «L’oggetto della ricerca filosofica è l’esserci umano, da essa interrogato nel suo carattere d’essere» (M. Heidegger, Phänomenologische Interpretationem zu Aristoteles. Ausarbeitung für die Marburger und die Göttinger Fakultät (1922), Neumann, Stuttgart 2003, tr. it. Interpretazioni fenomenologiche di Aristotele, Guida, Napoli 2005, p. 12).

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La misura dell’umano

der Faktizität) e poi nel 1927, in Essere e tempo, come una analitica esistenziale dell’Esserci in quanto avvio al problema del senso dell’essere che, infatti, «richiede l’adeguata esposizione preliminare di un ente (l’Esserci) nei riguardi del suo essere»33 che solo quell’analitica può svolgere. Il programma ermeneutico di uno studio della vita effettiva o dell’Esserci deriva però dalla fenomenologia di Husserl anche un altro principio, decisivo non solo nella riflessione filosofica anteriore a Essere e tempo. Si tratta del principio, già espresso da Husserl nelle Ricerche logiche, in base al quale l’indagine fenomenologica non deve presupporre nulla prima di sé: «Questa chiarificazione si compie nel quadro di una fenomenologia della conoscenza, di una fenomenologia che, come abbiamo visto, è rivolta alle strutture essenziali dei “puri” vissuti e delle loro componenti di senso. Fin dall’inizio ed in tutti i suoi successivi sviluppi, essa non contiene in tutte le sue rilevazioni scientifiche la minima asserzione sull’esistenza reale; pertanto, nessuna asserzione metafisica, o scientifico-naturalistica o, in particolare, psicologica, può fungere in essa da premessa»34. Heidegger accetta questo principio dell’assenza di presupposti già nel 1919-1920 come si desume dalla sua recensione alla Psicologia delle visioni del mondo di K. Jaspers35. Tale principio era stato esteso da Husserl anche su Dio. Nelle Idee per una fenomenologia pura e per una filosofia fenomenologica è evidenziato come durante la riduzione fenomenologica occorra metterne fuori circuito anche la trascendenza: «A questo “assoluto” e “trascendente” noi estendiamo naturalmente la riduzione fenomenologica. Esso deve rimanere fuori circuito rispetto al nostro campo di ricerca, nella misura in cui questo deve essere il campo della coscienza pura»36. Anche questo assunto husserliano è fatto proprio da Heidegger. All’interno del suo programma fenomenologico-ermeneutico, il principio fenomenologico dell’assenza di presupposti diviene infatti un’affermazione di ateismo, non esistenziale, che vale come principio metodologico e di impostazione stessa della ricerca filosofica37. La tesi per la quale l’indagine filosofica sulla 33 M. Heidegger, Sein und Zeit, Niemeyer, Tübingen 1927, tr. it. Essere e tempo, Utet, Torino 1986, p. 60. 34 E. Husserl, Logiche Untersuchungen, Halle 1901, tr. it. Ricerche Logiche, Il Saggiatore, Milano 2001, vol. I, p. 285. 35 «La critica è una critica fenomenologica nel vero senso della parola; essa è “senza presupposti” […]» (M. Heidegger, Segnavia, cit., p. 434). 36 E. Husserl, Idee per una fenomenologia pura e per una filosofia fenomenologica, cit., vol. I, p. 145. 37 Così scrive F.-W. von Herrmann: «L’ermeneutica fenomenologica della vita effettiva e dell’esser-ci opera momentaneamente – per la sua esecuzione – un’epoché teologica, un’astensione di fronte alla domanda su Dio. Perciò Heidegger, nelle prime

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vita effettiva (Esserci) non deve presupporre nulla, ripropone la messa fuori circuito husserliana della trascendenza di Dio. Così inteso, il carattere ateo dell’indagine fenomenologico-ermeneutica sull’essere dell’Esserci è infatti precisato da Heidegger in più di uno degli scritti anteriori a Essere e tempo. Nel cosiddetto Natorp-Bericht del 1922 si legge: «la filosofia è fondamentalmente atea»38; e in nota Heidegger precisa: «“Atea” non nel senso di una teoria del materialismo o qualcosa di simile. Ogni filosofia, che si vuole comprendere nella sua essenza, ovverosia come modo effettivo dell’interpretazione della vita, proprio se ha un’ “idea” di dio, deve sapere che lo strappare della vita a se stessa, da essa compiuto, è, parlando in termini religiosi, un alzare la mano contro dio. Solo in questo modo, essa però sta, in modo autentico, e cioè in modo conforme alle possibilità che le sono disponibili, dinanzi a dio; “ateo” significa qui: mantenersi lontano da preoccupazioni tentatrici che inducono semplicemente religiosità. Non è l’idea di una filosofia religione una vera e propria contraddizione, soprattutto se fa i suoi conti senza l’effettività dell’uomo?»39. Ne Il concetto di tempo, conferenza del 1924 tenuta davanti ai teologi di Marburgo, Heidegger ribadisce la medesima tesi: «il filosofo non ha fede»40, premettendola alla delineazione della filosofia intesa come scienza preliminare che indaga l’Esserci. L’assunto ricompare ancora nei Prolegomeni alla storia del concetto di tempo, nel quadro di precisazioni relative alla fenomenologia: «La ricerca filosofica è e rimane ateismo, e proprio perciò essa può procurarsi la “presunzione del pensiero”»41. Premesso ciò, si può ora intendere come per Marion proprio la tesi dell’ateismo della ricerca filosofica costituisca una convinzione fondamentale radicata nella filosofia heideggeriana al punto da rivelarne altresì l’idolatria. L’idolo è certamente determinato dalla misura di uno sguardo, cioè la questione di «Dio» è decisa dall’intenzione (anteriore) del Dasein. La tesi dell’ateismo in Heidegger attesta proprio questa situazione. Secondo

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lezioni di Friburgo e nelle lezioni di Marburgo, parla dell’a-teismo della filosofia dell’esser-ci effettivo. Ma scrivendo la parola “a-teistico” con trattino, l’a-teismo ermeneutico è tenuto lontano da tutte le teorie ateistiche in cui viene affermato il non-essere di Dio» (F.-W. von Herrmann, op. cit., pp. 31-32). M. Heidegger, Interpretazioni fenomenologiche di Aristotele, cit., p. 31. M. Heidegger, Interpretazioni fenomenologiche di Aristotele, cit., p. 31. M. Heidegger, Der Begriff der Zeit, Niemeyer, Tübingen 1989, tr. it. Il concetto di tempo, Adelphi, Milano 1998, p. 24. M. Heidegger, Prolegomena zur Geschichte des Zeitbegriffs, V. Klostermann, Franfurt am Main 1975, tr. it. Prolegomeni alla storia del concetto di tempo, Il melangolo, Genova 1999, p. 100.

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il filosofo francese, infatti, il Dasein gode di un privilegio fenomenologico che consiste nella sospensione dell’essere di Dio: Resta il fatto che, presa nella sua definizione fenomenologica, e quindi come Kategorienforschung, “la ricerca filosofica è e resta un ateismo”; ateismo, in questo caso, più che una negazione indica una sospensione; ma una sospensione simile – fenomenologicamente inevitabile – implica – teologicamente – un’istanza anteriore a “Dio”, e quindi ciò a partire da cui l’idolatria potrebbe sorgere (Dse 67; 64).

In secondo luogo, ed è la seconda convinzione di Heidegger, il pensiero dell’Essere in quanto tale è apertura a partire dalla quale vi sono enti: «Il pensiero che pensa l’Essere come tale non può e non deve apprendere nulla se non degli enti, che offrono il cammino o meglio il campo di una meditazione dell’essere» (Dse 68; 65). Se è così, argomenta Marion, l’accesso a ogni questione è condizionata da un’intenzione del pensiero che mira all’Essere. Ciò vale anche per la questione di «Dio». Ciò significa che nella mira all’Essere, il pensiero superata la metafisica e la differenza ontologica (impensata) accede a «Dio» determinandolo, nella sua mira, soltanto e sempre a partire dal primato dell’Essere come un ente: Ogni accesso a qualcosa come “Dio” dovrà, per il fatto stesso della mira dell’Essere come tale, determinarlo in partenza come un ente. La precomprensione di “Dio” come ente va da sé, sino a esaurire in partenza “Dio” come questione (Dse 68; 65).

Marion rintraccia nuovamente nei testi del filosofo tedesco questa convinzione42. Un pensiero che pensa l’Essere in quanto tale, può accedere a «Dio» solo all’interno di un contesto inaugurato da quell’apertura. Porre allora «Dio» vuol dire innanzi tutto affermarne l’essere. Nuovamente la questione del divino rimane sotto la misura di una istanza anteriore. Solo a partire dall’Essere si pone la questione di «Dio». Si verificano allora anche in questa situazione, le medesime considerazioni emerse a proposito dell’istituzione dell’idolo a partire dallo sguardo. Marion aveva precisato che lo sguardo istituisce l’idolo in quanto nella sua mira al divino, trapassa tutte le cose visibili sino a fermarsi, colmato da un «primo visibile» sul quale lo sguardo riflette se stesso come in un «specchio invisibile». Ora, anche in Heidegger avviene la medesima situazione che apre all’idolatria (seconda). 42 Cfr. la nota n. 34 di Dse 69; 66.

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Oltre la metafisica e l’ontologia

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Infatti, anche il pensiero dell’Essere come tale ha mira e intenzione. Nella mira verso l’Essere, l’intenzione del pensiero è dunque colmata da un idolo, «primo visibile» e «specchio invisibile». «Primo visibile» è «Dio» come ente, come a dire che se «Dio» è, avviene solo se aperta la questione dell’Essere ed è perciò ente. Quel «primo visibile» satura e colma l’intenzione nella sua mira al punto da rapprenderla in un idolo che la riflette e la rispecchia: Insomma, «Dio» diventa originariamente visibile come ente solo perché in questo modo colma – per lo meno in un senso – e rinvia riflessivamente (specchio invisibile) a se stessa una mira che si indirizza innanzitutto e decisamente all’Essere (Dse 69; 65).

La conclusione viene da sé. L’asserzione «Dio è un ente» è una nuova figura dell’idolo poiché decide anteriormente che qualunque mira verso «Dio» vi accede a partire da un requisito preliminare, che sia. Scrive, infatti, il pensatore francese: In altre parole, la proposizione “Dio è un ente” appare essa stessa come idolo, poiché non fa altro che determinare una torsione della mira che, in partenza, decide che ogni “Dio” possibile, presente o assente, in un modo o nell’altro, ha da essere (Dse 69; 66).

Ma è proprio a partire da questa constatazione che si può affermare, secondo Marion, che si è qui in presenza di una nuova idolatria, l’«idolatria seconda» (seconde idolâtrie). Se la prima idolatria identificava Dio con il «Dio» della metafisica (causa sui), la seconda idolatria antepone l’Essere a un «dio divino» che certamente non ha più strutture ontoteologiche a limitarlo, ma che ugualmente subisce una limitazione tale da esserne impedita l’eventuale manifestazione. La clausola è ora che abbia da essere. Su questo punto, Marion si domanda se tuttavia tale vincolo sia davvero legittimo. Infatti se «Dio» è un ente, la questione del divino patisce quella dell’Essere. Nella direzione di una liberazione di «Dio» dalle virgolette, il problema è se Dio abbia propriamente da essere: È certo che se “Dio” è, è un ente; ma Dio ha veramente da essere? Per non rischiare di sfuggire a questa domanda e dato che ci sembra incontestabile che i testi di Heidegger la sfuggono, diremo che in questo senso rigoroso si deve parlare di un’idolatria seconda. […] In base a che cosa si potrà introdurre un’equivalenza tra Dio e l’Essere, nella quale egli avrebbe ancora il ruolo di un ente, ed essere sicuri che sarà più legittima di quella tra Dio e il “Dio” causa sui della metafisica? (Dse 70; 66).

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La misura dell’umano

Ciò obbliga parimenti Marion a ridefinire il significato di una liberazione di «Dio» dalle virgolette. Oltre a un’idolatria propria della metafisica e dell’ontoteologia, ve ne è infatti un’altra. Dunque, la «doppia idolatria» rinvia anche a un doppio tentativo di liberazione da essa. Rispetto alla prima idolatria, Marion ha constatato come non sia la «morte di Dio» di Nietzsche a potersi proporre come via d’uscita poiché il crepuscolo dell’idolo prelude alla sua rinascita. È piuttosto il pensiero dell’Essere in quanto tale e della differenza ontologica (pensata) che, invece, può indicare una varco in quanto pensa proprio ciò che la metafisica lascia impensato. La prima idolatria, dunque, è effettivamente superata da Heidegger. Dopo Identità e differenza, ogni pretesa ontoteologica della metafisica è destituita di fondamento. Ma il pensiero dell’Essere e della differenza ontologica è una nuova e seconda idolatria, poiché l’Essere diviene condizione di ogni teofania di Dio. Se la filosofia di Heidegger libera «Dio» dalle secche dell’idolatria (prima), non garantisce assolutamente la salvezza dall’idolatria in quanto tale, al punto da inaugurare un’idolatria (seconda). È in questa prospettiva che Marion, come unica soluzione possibile, individua la necessità di un serrato confronto con Heidegger. A cominciare dalla domanda se Dio abbia da essere. Si tratta di accertare, allora, in che misura il pensiero dell’Essere e della differenza ontologica possa essere superato in vista dell’apertura di un accesso al divino come tale, non compromesso da alcuna limitazione. Oltrepassare l’idolatria (seconda), cioè in fondo l’idolatria stessa in quanto «più discreta, più pressante e quindi tanto più minacciosa», sarà possibile solo a partire dalla domanda se Dio abbia da essere declinata in due direzioni. Si tratterà di superare il pensiero dell’Essere e, successivamente, di abbandonare la differenza ontologica come tale, impensata dalla metafisica o pensata da Heidegger poco importerà a Marion.

10. Un’ulteriore conferma: Heidegger e la teologia Secondo Marion, sarebbe lo stesso Heidegger a suggerire la necessità di una emancipazione di Dio dall’Essere. Si tratta allora di provare a seguire questo suggerimento per verificare se, anche in questo caso, come già a proposito del superamento della prima idolatria, Heidegger possa comunque contribuire ad aiutare il filosofo francese nel proposito di liberare la questione di «Dio» da quella dell’Essere, oltrepassando la seconda idolatria: «In un certo senso nessuno più di Heidegger ha saputo insinuare il sospetto che si debba liberare “Dio” dalla questione su/dell’Essere, ricono-

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scendo, tuttavia, che questa liberazione è tale da contravvenire alle leggi del pensiero» (Dse 91; 86). Certamente Marion riconosce che la liberazione di «Dio» dall’Essere pone un problema non indifferente sul piano del pensiero, in quanto l’Essere come tale è la condizione stessa della pensabilità anche del divino. L’intento di liberare dunque «Dio» dall’Essere rischia di diventare il tentativo di qualcosa di impossibile e di contradditorio sul piano del pensiero. In ogni caso, Marion ritiene necessario provare a seguire la via tracciata dal filosofo tedesco poiché «“Dio” incrocia l’Essere», ben consapevole, tuttavia, che «questo incrocio stesso può essere inteso secondo accezioni differenti» (Dse 92; 86). Ciò che Heidegger suggerisce è che la teologia non necessita dell’Essere. La via indicata da Heidegger sarebbe l’idea in base alla quale un discorso su Dio non dovrebbe rinviare alla questione dell’Essere. È proprio ciò che interessa a Marion, in direzione di una liberazione di «Dio» dall’Essere: «Heidegger con un’opzione iniziale poi costantemente mantenuta sin negli ultimi testi, pone uno stacco nettissimo tra la teologia e la questione, o meglio, il termine essere» (Dse 92; 86). È in particolare un passo tratto da un seminario tenuto da Heidegger a Zurigo nel 1951, citato da Marion, a testimoniare come per il filosofo tedesco «Dio» e Essere non dovrebbero incrociarsi. L’assunto heideggeriano declinerebbe tre tesi decisive. In primo luogo non si dovrebbe pensare Dio attraverso l’Essere poiché non identici. In secondo luogo, una teologia non dovrebbe nominare la parola essere. In terzo luogo, la fede non richiede, anzi, esclude un pensiero dell’essere. Heidegger si pronuncia infatti così nel 1951: «Dio ed essere non sono identici. […] Essere e Dio non sono identici, e io non tenterei mai di pensare l’essenza di Dio mediante l’essere. Alcuni sanno forse che io provengo dalla teologia, che ho conservato nei suoi confronti un antico amore e che me ne intendo un po’. Se dovessi scrivere una teologia, cosa che talvolta sono tentato di fare, la parola “essere” non dovrebbe in alcun caso comparirvi. La fede non ha bisogno di pensare l’essere. Se avesse bisogno di farlo, già non sarebbe più fede. Lutero l’ha compreso. Perfino nella sua stessa Chiesa sembra che lo si dimentichi. Ho molte riserve a ritenere che l’essere sia adatto per pensare teologicamente l’essenza di Dio. Con l’essere, in questo caso, non si può ottenere nulla. Io credo che l’essere non possa mai essere pensato come fondamento ed essenza di Dio, ma che tuttavia l’esperienza di Dio e della sua rivelazione (in quanto essa incontra l’uomo) avviene nella dimensione dell’essere, il che non significa mai che l’essere possa valere come predicato possibile di Dio»43. 43 M. Heidegger, Vier Seminare, V. Klostermann, Frankfurt am Main 1977, tr. it. Seminari, Adelphi, Milano 1992, pp. 206-207.

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Così Marion sintetizza le tesi espresse in questo passo, sottolineando come sia la tesi della «non-pertinenza del termine essere in teologia» la più interessante per il suo proposito: «Questo testo complesso coniuga diverse tesi che è bene non confondere: (a) la non-identità di Dio e dell’Essere, (b) la non-pertinenza del termine essere in teologia, (c) la pertinenza della dimensione dell’Essere per sperimentare “Dio”» (Dse 93; 87). La tesi in base alla quale il termine essere non ha pertinenza nella teologia viene giustificata, secondo Marion, da un’altra convinzione precisa di Heidegger. È la distinzione tra manifestazione (Offenbarkeit) e rivelazione (Offenbarung). Mentre la filosofia si riferisce all’essere che non si rivela, ma si manifesta al pensiero, la teologia si riferisce a Dio che non si manifesta, ma si rivela alla fede del credente. Il termine essere non sarebbe pertinente in teologia, dunque, poiché rinvierebbe al suo manifestarsi e non alla sua rivelazione al pensiero. Il mistero della rivelazione non può darsi al pensiero del filosofo, ma solo rivelarsi alla fede del credente. A partire da quella distinzione, deriva così quella tra filosofia e teologia, pensatore e credente, ragione e fede, ricerca della sapienza e follia della croce di paolina memoria: La cesura è chiara: il pensiero, la filosofia in questo caso, si concentra sulla manifestazione aperta (Offenbarkeit) dell’Essere, la teologia si riferisce alla rivelazione (Offenbarung) di “Dio”; la pietà dell’una dipende dal rigore delle sue problematizzazioni, la pietà dell’altra dal rigore della fede (Dse 94; 88).

«Dio» e essere non dovrebbero dunque incrociarsi, in quanto teologia e filosofia non condividono nulla. La filosofia è infatti la sapienza di questo mondo che la follia della fede sconvolge. Secondo Heidegger, anzi, la teologia dovrebbe partire proprio dall’assunzione della decisione della fede, non cercando alcun fondamento nella filosofia e rimarcando la propria irriducibile diversità da essa. È la famosa affermazione per la quale qualunque tentativo di incrociare filosofia e cristianesimo dà luogo a qualcosa di contradditorio in sé. Una filosofia cristiana, cioè il tentativo di incrociare due logiche irrimediabilmente diverse come lo sono il λόγος della filosofia che dipende dall’Essere e il Logos divino di Giovanni, non può sussistere, sarebbe come un cerchio quadrato. La fede cristiana, a partire dalla sua diversità radicale dalla filosofia, non dovrebbe cercare dunque un fondamento nell’Essere: Follia indica che due logiche vengono applicate in maniera irriducibile, in una solitudine che nessuna mediazione potrà mai attenuare; o meglio, dato che dipende proprio dall’Essere, la logica non riesce a investire il campo di rivelazione aperto alla fede dal Logos giovanneo (Dse 95; 89).

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Marion si accorge così che la tesi della «non-pertinenza del termine essere in teologia», in realtà, non contribuisce in alcun modo al proposito di una liberazione di «Dio» dalla questione dell’Essere, anche se apparentemente sembrava alludervi. E ciò per varie ragioni. Innanzi tutto, ciò che quella tesi stabilisce è una distinzione di tipo disciplinare tra la teologia e la filosofia. Essa funge da criterio di demarcazione tra le due discipline. Secondariamente, essa è funzionale al discorso filosofico heideggeriano nella misura in cui non viene costruita a partire da essa una teologia della fede, ma un discorso filosofico su «Dio». Ciò che Marion tiene a precisare è che Heidegger fornisce con quella tesi solo un suggerimento, quello della «non-pertinenza del termine essere in teologia», al fine di ribadire perché la teologia sia assente dalla sua ricerca filosofica: Questa disposizione delle discipline, però, non basta ancora a realizzare il nostro progetto iniziale: liberare “Dio” dalla questione dell’Essere. In primo luogo, perché Heidegger, in assoluta coerenza con i propri intendimenti, non pone in atto le modalità di un discorso autenticamente religioso, dato appunto che tale discorso gli resta per ipotesi estraneo. […] In secondo luogo, perché la distinzione delle discipline libera immediatamente la possibilità di un discorso non-teologico su “Dio” (Dse 95; 89).

La ripartizione disciplinare tra filosofia e teologia consente ad Heidegger di legittimare rispetto al Dio della rivelazione, un discorso filosofico su «Dio» che ammette come unica condizione l’Essere. La filosofia, cioè, poiché abissalmente diversa dalla fede, ammette un «Dio» che non necessita il rinvio al Dio della rivelazione. Ciò vale tanto per metafisica quanto per un pensiero che ne tenti l’oltrepassamento. Nel primo caso, la metafisica si pronuncia su «Dio» in chiave ontoteologica. Nel secondo caso, il pensiero tenta di oltrepassare la costituzione ontoteologica della metafisica col meditare un «dio divino» che inevitabilmente rimane sotto la condizione dell’Essere. In filosofia, l’anteriorità dell’ontologia non permetterebbe una teologia, ma una teielogia. Marion cita un preciso passo di Heidegger tratto da Il concetto hegeliano di esperienza contenuto in Sentieri interrotti. Il filosofo tedesco precisa in riferimento ad Aristotele che la filosofia (prima) in quanto ontologia perviene a pensare l’ente a fondamento della totalità degli enti, ossia l’ente supremo. Tale ente è il divino (τὸ θεῖον). Dunque, la filosofia (prima) si costituisce in quanto ontologia, anche come una teologia che per precisione sarebbe da chiamare teiologia: «A questa scienza che considera l’ente in quanto ente Aristotele dà un nome da lui stesso escogitato: filosofia prima. Questa però non si limita a considerare l’ente nella sua entità, ma considera anche quell’ente che corrisponde con purez-

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za all’entità, l’ente supremo. Questo ente, τὸ θεῖον, il divino, viene anche detto, con una strana ambiguità l’ “essere”. La filosofia prima, in quanto ontologia, è, ad un tempo, teologia dell’ente che veramente è. Per essere più esatti, bisognerebbe darle il nome di teiologia. La scienza dell’ente come tale è in se stessa onto-teologia»44. Evidentemente, Heidegger ribadisce qui che la metafisica, in questo caso specifico la filosofia prima di Aristotele, è ontoteologia. La filosofia parte dall’Essere, è ontologia, salvo poi dimenticarlo nell’ente. L’ente è poi pensato come ente supremo, ossia l’ontologia è anche una teologia, che però, a rigore, è piuttosto un discorso sul divino, una teiologia. A Marion interessa soprattutto evidenziare come, secondo Heidegger, la filosofia sia in ogni caso una ontologia, parta appunto da una manifestazione dell’Essere e si accompagni necessariamente a una teiologia. Ciò marca la distanza della filosofia dalla teologia della fede, la manifestazione (Offenbarkeit) dell’Essere al pensiero dalla rivelazione (Offenbarung) di Dio alla fede, che alla filosofia non interessa; diversamente, la irriducibile separazione tra un pensiero che pensa il divino (τὸ θεῖον) e la fede che si rapporta a Dio (ὁ θεός). La teiologia, osserva Marion, si pone allora come una «scienza strettamente filosofica del divino» che rimarrebbe al di qua dell’abisso inconciliabile che separa filosofia e teologia: L’aggiunta di una i che trasforma teologia in teiologia non indica poco: il logos concerne ormai, più essenzialmente che non “Dio”/ o theos, l’istanza che sola lo definisce nella sua esemplarietà, il divino stesso/ to theion. L’ente si dice nel proprio Essere secondo la doppia dimensione dell’ente in generale e dell’ente per eccellenza; quest’ultimo definisce la possibilità di una scienza strettamente filosofica del divino, la teiologia (Dse 96; 89).

La filosofia, dunque, ha diritto di pronunciarsi su «Dio», a partire dalla istanza ontologica che costituisce la premessa di ogni discorso stesso. Posto l’Essere, è anche posta la doppia piega che il pensiero può assumere nei confronti del divino. Nel caso della metafisica, come dimenticanza dell’Essere, il divino (τὸ θεῖον) è «Dio» inteso come ente per eccellenza, connotato dai diversi nomi che l’ontoteologia gli attribuisce, in assoluta indipendenza dai nomi che gli sono invece attribuiti dalla rivelazione: La metafisica, infatti, non ha alcun bisogno della teologia della fede per enunciare dei nomi divini: “Dio” come fondamento ultimo, con Leibniz; “Dio” 44 M. Heidegger, Holzwege, V. Klostermann, Frankfurt am Main 1950, tr. it. Sentieri interrotti, La Nuova Italia, p. 177.

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come “Dio morale” con Kant, Fichte, e Nietzsche; “Dio”, infine e soprattutto, come causa sui, con Descartes, Spinoza e sostanzialmente tutta la metafisica (Dse 97; 90).

Nel caso, invece, di un pensiero che oltrepassa la metafisica per meditare l’Essere, il divino (τὸ θεῖον) si approssima come un «dio divino» che avviene a partire dalla negazione dell’ontoteologia, ma sempre entro un inizio o istanza che consentono il discorso e il pensiero, cioè l’Essere e l’ontologia. In ogni caso, il discorso sul divino (teiologia) sottostà a un discorso inaugurato dall’Essere (ontologia), ed entrambi sono radicalmente altro rispetto al discorso sul Dio che si rivela (teologia): E più ancora, se il pensiero che vuole “distruggere” l’ontologia della metafisica cerca di innalzarsi a un “dio più divino”, anche questa ricerca continua sempre ad appartenere alla meditazione dell’Essere – il cui ente è investito dalla teologia – ed è invece senza alcun rapporto con la teologia che è investita dalla fede (Dse 97; 90).

Secondo Marion, occorre allora anche esaminare ciò che Heidegger pensa circa lo statuto proprio della teologia della fede. Chiarito, infatti, che la filosofia ha il suo diritto legittimo di pronunciarsi su «Dio» in quanto teiologia, indipendentemente dalla teologia e dalla rivelazione, bisogna anche soffermarsi sull’idea che di quelle ha il pensatore tedesco: «Questo problema può essere riproposto in altra maniera, e in questo caso ci si chiederà: se la teologia non ha in “Dio” un oggetto formale esclusivo, come potrà definirsi rispetto alla teiologia?» (Dse 98; 91). Su questo punto, Heidegger ha un’idea precisa rinvenibile a partire da alcuni passi dei suoi testi45, in particolare modo nel § 3 di Essere e tempo, significativamente intitolato Il primato ontologico del problema dell’essere: «La teologia è alla ricerca di una più originaria interpretazione dell’essere dell’uomo rispetto a Dio, prescritta dal senso stesso della fede e interna ad essa. Pian piano essa incomincia a capire di nuovo l’idea di Lutero secondo cui la sua sistematica dogmatica riposa su un “fondamento” che non è scaturito da una ricerca in cui la fede è primaria, e il cui apparato concettuale non solo non è adeguato alla problematica teologica, ma la nasconde e la distorce»46. Marion osserva come la teologia, secondo Heidegger, non riguardi «Dio», ma più precisamente la fede del credente nel fatto della Croce e, perciò, il senso che quella fede esercita nell’azione (πρᾶξις) del 45 Cfr. nota n. 33 di Dse 98; 91. 46 M. Heidegger, Essere e tempo, cit., p. 63.

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credente. Di qui l’estrema importanza di Lutero. La teologia non si deve occupare di pensare «Dio», ma piuttosto dovrebbe essere interpretazione (Auslegung) del modo di essere dell’uomo credente, del comportamento dell’uomo che ha fede nel Crocifisso. Commenta Marion: La teologia, dunque, non concerne “Dio”, quale che sia il senso secondo il quale lo si intende. Essa concerne il fatto (Faktum/Positivität) della fede nel Crocifisso, fatto che solo la fede recepisce e concepisce: essa conquista la propria scientificità solo fissandosi sul fatto positivo della fede, e cioè sul rapporto dell’uomo credente con il Crocifisso. La teologia non pone in atto la scienza di “Dio”, ma la scienza della fede (Dse 98; 91).

La netta delimitazione di filosofia (teiologia) e teologia non assolve allora a semplice demarcazione di ambiti differenti. Marion osserva come essa in realtà sia l’esito di una critica più profonda che Heidegger muove alla teologia in quanto tale. Dal punto di vista storico, secondo il filosofo tedesco, la teologia infatti non si sarebbe concepita a partire dall’ambito che le è proprio, ossia come una «scienza della fede» che riguarda il comportamento del credente in rapporto al «Dio» della fede. Essa avrebbe preteso di essere qualcosa di più, scavalcando il limite che la differenziava dalla filosofia: E tuttavia questa distinzione tra scienze resterebbe strettamente epistemologica (prendendo l’espressione con tutta la dovuta insignificanza), se di fatto la teologia cristiana non avesse storicamente misconosciuto la propria definizione; agli occhi di Heidegger, infatti, essa non ha mai smesso di porsi con la pretesa di essere una scienza non della fede, e in questo senso soltanto dell’uomo credente e poi del “Dio” della fede, ma piuttosto una scienza, attraverso la fede, dell’uomo e anche di Dio (Dse 99; 92).

La pretesa storica della teologia sarebbe stata quella di uscire fuori dal suo ambito, costituito dalla fede e dell’uomo credente, per costituirsi in una scienza dell’uomo e di Dio. Posta così, secondo il § 3 di Essere e tempo, la teologia risente della stessa crisi dei fondamenti che attraversa secondo il filosofo tedesco l’atteggiamento scientifico come tale. Il passo riguardante la teologia, infatti, appare nel contesto della crisi che attraversano le varie scienze come la matematica, la fisica, la biologia, le scienze storiche e che, alla fine, travolge le pretese stesse della teologia concepita come scienza47. Ma c’è di più. Il passo in questione esprime soprattutto l’esito di un con47 Cfr. ad esempio il § 1 dei Prolegomeni alla storia del concetto di tempo, in M. Heidegger, Prolegomeni alla storia del concetto di tempo, cit., pp. 9-11.

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fronto con la teologia che parte da più lontano e che, chiarito definitivamente in Essere e tempo e in Fenomenologia e teologia, scandisce anche dopo la Kehre il rapporto tra teiologia e teologia. Il riferimento in quel passo a Lutero ne sarebbe sicuramente indice. Negli anni Venti, Heidegger denunciava infatti come la pretesa della teologia di uscire dalla propria sfera producesse una inconcepibile confusione tra l’analitica dell’Esserci e una antropologia cristiana. O meglio, la pretesa della teologia di anteporsi come una antropologia cristiana a una analitica dell’Esserci testimoniava quella confusione e svelava quell’ambizione. Scrive infatti Marion: Non dobbiamo dimenticare, infatti, che dieci anni prima che Heidegger denunciasse la confusione tra teiologia e teologia, Sein und Zeit denunciava innanzitutto e per eccellenza la confusione tra l’analitica (fenomenologica) del Dasein e l’ “antropologia paleo-cristiana” che, sostituendosi ad essa, ne mascherava l’urgenza e ne precludeva l’accesso (Dse 99; 92).

Secondo Heidegger, la teologia invece di restare nel proprio ambito e di porsi come «una più originaria interpretazione dell’essere dell’uomo rispetto a Dio»48 esige di essere una interpretazione originaria del Dasein, sottraendo posizione e funzione all’analitica esistenziale che prepara la Seinsfrage: La teologia perde il proprio statuto autenticamente teologico usurpando, con la qualifica di antropologia, il compito strettamente fenomenologico (e quindi filosofico) di un’analitica del Dasein. La teologia stessa finisce per perdersi sin dal primo istante, quando pretende di occuparsi semplicemente (schlechthin/ überhaupt) del Dasein e non, come scienza della fede, del Dasein in quanto credente (Dse 100; 92).

La critica alla teologia ha per scopo quello di riportarla al proprio posto e alla propria funzione, rispetto alla filosofia. Prima di interrogarsi sul Dasein in quanto credente, che sarebbe compito della teologia, occorre porre la domanda sul Dasein come tale. Ma la teologia, ponendosi come antropologia, ignora l’anteriorità dell’indagine filosofica (fenomenologica) sull’Esserci come tale e si arroga una precedenza per Heidegger inammissibile: Insomma, bisogna relativizzare la teologia e, quindi, rimetterla al suo posto, appunto perché essa non mantiene il proprio posto e misconosce lo scarto tra il Dasein in quanto tale e il Dasein in quanto credente. La teologia, con uno stes48 M. Heidegger, Essere e tempo, cit., p. 63.

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so e unico movimento falso, misconosce la scientificità che le è garantita dalla fede e rende impossibile, con la propria antropologia fuori luogo, l’analitica del Dasein (Dse 100; 93).

Questa critica alla teologia si chiarisce ulteriormente, osserva Marion, in Fenomenologia e teologia del 1927. Filosofia e teologia sono nettamente distinte in quanto l’una è scienza ontologica, l’altra è scienza ontica. Come a dire che la filosofia che si interroga sull’essere parte da una analitica dell’Esserci, l’ente che si pone la domanda sull’Essere, ed è anteriore, poiché scienza ontologica, alla teologia. La teologia è invece scienza ontica poiché non ha diritto ad alcuna anteriorità rispetto alla filosofia poiché il suo oggetto di studio è solo una fra le varie modalità di esistere dell’Esserci (la fede, il credere). Essa resta perciò soggetta all’analitica dell’Esserci che lo indaga, viceversa, non in una delle sue modalità di esistenza, ma nella sua esistenza in quanto tale: «La fede introduce un “modus” del Dasein che può essere colto sino in fondo solo con la misura dello scarto che la sua variante credente impone al Dasein, e quindi soltanto in riferimento all’analitica ontologica del Dasein»49 (Dse 102; 94). La teologia è scienza ontica subalterna alla filosofia. In tale tesi è dunque all’opera, secondo Marion, l’idea di «una riduzione fenomenologica dell’uomo al Dasein» (Dse 102; 95) che sospende anche l’uomo credente. Ciò ha per premessa il principio husserliano della messa fuori circuito della trascendenza di Dio formulato negli anni Venti nell’assunto dell’ateismo della filosofia, della «ricerca filosofica» che «è e resta ateismo». La teologia, perciò, è esterna all’analitica esistenziale, poiché quest’ultima metodologicamente è atea. E lo è, poiché essa indaga l’Esserci come tale e non in una delle sue varianti ontiche, in questo caso quella della fede e del comportamento dell’uomo credente nel Crocifisso. Tutto ciò allora precisa ancora meglio la tesi della «non-pertinenza del termine essere in teologia». La teologia non può usare il termine essere, poiché non vi ha reale accesso. Solo la filosofia accede all’Essere. In Essere e tempo, infatti, l’accesso all’ente che si interroga sull’Essere non è determinato dall’antropologia teologica, ma solo da una riduzione fenomenologica che, messa tra parentesi la trascendenza di Dio, sospende l’uomo, perciò il credente ed anche ogni dimensione e variante ontiche, assicurandosi come inizio sul piano ontologico il Dasein. In seguito alla Kehre, l’Essere diviene condizione anteriore al manifestarsi del divino, perciò meno che mai un suo predicato: «Io credo che l’essere non possa mai essere pensato 49 Cfr. Ied 267; 214.

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come fondamento ed essenza di Dio, ma che tuttavia l’esperienza di Dio e della sua rivelazione (in quanto essa incontra l’uomo) avviene nella dimensione dell’essere, il che non significa mai che l’essere possa valere come predicato possibile di Dio»50. Marion conclude così questa indagine sul modo di intendere la teologia in Heidegger. Alla conclusione si accompagna la presa d’atto che il pensatore tedesco non dichiara la «non-pertinenza del termine essere in teologia» per liberare Dio dall’Essere, ma piuttosto per ribadirne la subalternità, ulteriore conferma di una idolatria seconda: È certo che essa non deve utilizzare il termine essere, ma se non deve farlo è proprio per difetto e non per eccesso: la teologia rinvia a qualcosa che la supera, all’analitica del Dasein, e più tardi al pensiero del Seyn. La teologia della fede deve evitare di dire il termine essere, perché l’Essere si dice in maniera ancora più essenziale di quanto la teologia riuscirà mai a immaginare, ed è appunto per questo che ogni teologia resta soggetta alla questione dell’Essere, così come ogni variante ontica del Dasein rinvia al Dasein stesso nella sua nudità (Dse 103; 95).

La questione di «Dio» non riesce a liberarsi da quella dell’Essere. In un modo o nell’altro Dio ha da essere. Heidegger lo dimostra chiaramente, secondo Marion, attuando una definitiva riduzione fenomenologica che riporta «Dio» all’Essere, tanto in metafisica quanto nel suo oltrepassamento: «Mi pare che la questione di “Dio” non abbia mai subito una riduzione così radicale alla questione dell’Essere come in questa operazione fenomenologica» (Dse 104; 96). Ciò significa che una liberazione di Dio dall’Essere non è possibile, poiché nella prospettiva heideggeriana oltrepassare la metafisica significa certamente dischiudere la possibilità di pensare un Dio diverso dalla causa sui, ma pur sempre sotto una condizione anteriore che lo determini. Le premesse qui sono sempre il Dasein e la sua mira. Marion evidenzia infatti come un Dio diverso dalla causa sui rimanga comunque l’esito di una mira anteriore alla fede e alla teologia della fede poiché l’analitica esistenziale è anteriore al comportamento dell’uomo credente. L’Esserci, in quanto «ha quella possibilità d’essere che consiste nel porre il problema […] del senso dell’essere»51, ha la possibilità di mirare a un Dio altro rispetto alla causa sui, ma pur sempre sotto il vincolo che sia. A quella mira il «Dio divino» dà risposta, ma solo a condizione di essere: 50 M. Heidegger, Seminari, cit., p. 207. 51 M. Heidegger, Essere e tempo, cit., p. 60.

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[…] Si può e si deve prendere in considerazione la possibilità di un “Dio” diverso dalla causa sui; ma questo prendere in considerazione, se il termine deve avere un senso fenomenologico, implica una mira, e quindi una mira del Dasein. Questa mira non può essere definita dalla fede, che resta una determinazione fattuale e ontica del Dasein; deve quindi essere intesa a partire dal Dasein come tale, come l’ente in cui ne va del suo essere, o meglio, dell’Essere stesso. […] Ciò che risponder-à(ebbe) alla mira di “Dio”, e poco importa qui precisare chi debba essere, sar-à(ebbe) “Dio” solo a patto di essere (Dse 105; 97).

L’Essere, perciò, funge da vera e propria «ipoteca», garanzia originaria dell’apparire del divino in quanto tale. L’Essere è dunque vero e proprio «schermo» dove solamente «Dio» appare: Ogni possibilità non-metafisica di “Dio” si trova a essere governata già in partenza dalla tesi (ipotesi, ipoteca?) dell’Essere che non l’accoglierà se non come un ente. Se ci deve essere un “Dio” al di fuori della metafisica, ciò sarà possibile solo se esso è – in qualità di ente dispiegato nel suo essere, e quindi secondo l’Essere. L’Essere ci offre già in partenza lo schermo sul quale verrebbe a proiettarsi e ad apparire ogni “Dio” che voglia costituirsi (Dse 105; 97).

Non è allora insostenibile concludere che l’Essere nella filosofia di Heidegger ricopra il ruolo dell’idolo: «Schermo dell’Essere […] implica che l’Essere stesso funzioni come un idolo» (Dse 127; 115). La liberazione di «Dio» secondo Marion costringe allora ad un superamento tanto dell’idolatria prima (la metafisica), quanto dell’idolatria seconda (Heidegger). L’uscita dalla metafisica (ontoteologia) è resa possibile dalla meditazione dell’Essere, intesa come pensiero della differenza ontologica prima impensata. Ma il pensiero dell’Essere, come differenza ontologica pensata, pesa come una «ipoteca» che grava sul «dio divino», sgomberato lo spazio dall’ontoteologia. In fondo ciò suggerisce che sia la differenza ontologica in quanto tale, impensata nella metafisica o pensata nella meditazione dell’Essere poco importa, l’origine dell’idolatria stessa, prima o seconda. Se la differenza ontologica è impensata, l’Essere si oblia nell’ente e la metafisica pensa «Dio» come ente per eccellenza con i nomi che l’ontoteologia gli conferisce. Ma se la differenza ontologica è pensata, l’Essere rimane anteriore a «Dio», ipotecandolo. In entrambi i casi, «Dio» rimane un ente, o causa sui nella dimenticanza dell’Essere oppure vincolato alla necessità di essere. La soluzione in vista di una liberazione di «Dio» chiama dunque in causa la stessa differenza ontologica. La via da seguire, secondo Marion, è allora quella di tentare un superamento della differenza ontologica. Tale possibilità leverebbe ad un tempo i due ostacoli dell’ontoteologia e dello «schermo» dell’Essere:

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Oltre la metafisica e l’ontologia

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O ancora, la ricerca di un “dio più divino”, più che un superamento dell’onto-teo-logia, non impone anche un superamento della differenza ontologica, non impone insomma di non tentare più di pensare Dio in vista di un ente, dato che si sarà rinunciato in partenza a pensarlo a partire dall’Essere? Pensare Dio senza alcuna condizione, compresa quella dell’Essere, e dunque pensare Dio senza pretendere di inscriverlo o di descriverlo come un ente (Dse 70; 67).

Si tratterebbe di avventurarsi in un «pensiero di Dio senza e al di fuori della differenza ontologica» (Dse 70; 67).

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CAPITOLO TERZO DIFFERENZA E DONAZIONE

1. L’inosservanza della differenza ontologica Il proposito di liberare «Dio» dall’idolatria chiama in causa la differenza ontologica. Il tentativo marioniano di indagarne la portata ha rivelato l’idolatria della causa sui che, estesa fino al «Dio morale» e, ancora oltre, fino al suo crepuscolo nella figura dei «nuovi dèi» plasmati dalla volontà di potenza, si rinnova in una forma nuova in quel pensiero che inverte il suo movimento (Schritt zurück) a partire dalla metafisica e dall’ontoteologia. Certamente, l’Essere meditato da Heidegger non ha nulla della causa sui in apparenza, eppure ne condivide invece la natura di idolo di fondo. Tanto la causa sui, quanto l’Essere sono un idolo. Metafisica e ontoteologia, da un lato, e pensiero dell’Essere che medita ciò che la metafisica lascia impensato, dall’altro, sono nella loro reciproca diversità idolatria. Il perché è chiaro e, secondo Marion, rinvia proprio alla differenza ontologica e alla sua duplice possibilità, quella di rimanere impensata o di essere pensata. Se impensata, infatti, l’Essere è dimenticato nell’ente. Se pensata, viceversa, impone l’Essere come condizione stessa del pensiero al punto da anteporre l’ontologia a qualunque altro discorso ontico, teologia compresa. Ne l’Idolo e la distanza, è la nozione di distanza che chiama in causa la differenza ontologica. Poiché la distanza non può essere rappresentata, potrebbe rimandare alla differenza ontologica al punto da suscitare la domanda se non siano la medesima cosa: Di-stanza che non può essere mostrata da nessuna rappresentazione: questa doppia caratteristica della distanza ha una risonanza. Una risonanza nella differenza ontologica, quale è delineata da Heidegger. Sembra persino inevitabile porre una domanda forse un po’ troppo immediata – la distanza, nella sua essenza e a parte qualche precisazione (da ricercarsi solo in un secondo tempo), non si riduce alla differenza ontologica? (Ied 257; 207).

Ma la risposta sarà negativa. Vi è infatti un preciso scarto tra la distanza e la differenza ontologica che obbliga all’inosservanza di quest’ultima. La

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La misura dell’umano

radicale diversità emerge innanzi tutto in riferimento alla rappresentazione stessa. La distanza schiva ogni tentativo di definizione, e in apparenza la differenza ontologica pare respingere la rappresentazione e il pensiero rappresentativo: La distanza si definisce solo sottraendosi […] ad ogni definizione che pretenda di darne un’intelligibilità neutra e di rappresentarla come un oggetto alla mano. Ora la differenza ontologica rifiuta, da parte sua, la rappresentazione chiara e distinta sia di ciò che in essa è in gioco sia del proprio gioco (Ied 259; 208).

Ma questa affinità nasconde invece una netta diversità di fondo. Come nota Marion, la differenza ontologica, mentre si trae fuori dal pensiero rappresentativo, ne costituisce anteriormente il fondamento. È a partire dall’Essere che il pensiero come tale è possibile: La differenza, che è “già sempre lì”, precede la sua rappresentazione, perché nessuna oggettività, nessuna rappresentazione, nessun intelletto può entrare in campo se non a partire dall’Essere dell’ente, conciliato con l’ente nel suo Essere. La differenza, che mette in atto (“dispiega”) il rapporto tra l’Essere e l’ente, determina fin dall’inizio ogni pensiero […] (Ied 262; 210).

La distanza, come tale, non ha invece alcun riferimento alla rappresentazione, meno che mai poi nel senso di esserne a fondamento: Ancora, la distanza […] è al di là di qualsiasi rappresentazione, poiché ogni oggetto rappresentabile, come ogni soggetto rappresentatore, dipende già in partenza da una distanza definitivamente anteriore. Più profondamente ancora, l’orizzonte paterno della distanza si sottrae, per definizione, a ogni inquisizione che pretenda di oggettivarlo (Ied 262; 211).

Tale constatazione divarica ulteriormente la diversità tra distanza e differenza. Se la differenza ontologica è fondamento del pensiero, essa è contemporaneamente la condizione di un pensiero dell’Essere e quella di un pensiero che lo oblia1. È la differenza ontologica a determinare e a produrre la metafisica come pensiero rappresentativo che non la pensa: La differenza ontologica, radicalmente ordinata al proprio oblio, produce continuamente la metafisica, in quanto ne alimenta l’essenza. […] Metafisica, o

1

«La differenza ontologica mette chiaramente in luce che l’Essere si contraddistingue dall’ente, ma questa distinzione, appunto, non pone il problema dell’Essere come Essere» (Ied 264; 211).

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Differenza e donazione

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differenza non pensata, in quanto rifiutata ad esclusivo beneficio dell’ente il cui presente esser manifesto nasconde la manifestazione stessa e il ritiro – Essere - che lo sostiene (Ied 264; 212).

Ma la differenza è allora anche la condizione di un pensiero che, nel dimenticare l’Essere, mira all’ente sino a concepirlo nella sua preminenza come causa sui. La differenza ontologica è così la condizione stessa dell’ontoteologia: La differenza, mostrandosi, metafisicamente, proprio nell’oblio di ciò che in essa differisce, produce e sostiene la costituzione onto-teologica della metafisica. Più, dunque, il pensiero metafisico si installa nella differenza ontologica impensata, e più esso (si) costituisce (secondo) l’onto-teologia (Ied 266; 213).

Tra la distanza e la differenza ontologica non ci potrebbe essere allora diversità più radicale. Mentre quest’ultima dà luogo all’ontoteologia e all’idolo della causa sui, la distanza mira a annichilire l’idolatria in ogni sua figura: «La distanza si oppone con tutte le sue forze all’idolo, anche se supremo» (Ied 266; 213). Lungi dal poter ridurre l’una nell’altra fino a confonderle, differenza e distanza si diversificano definitivamente a partire da istanza opposte. Se la differenza ontologica permette il costituirsi dell’ontoteologia e dell’idolatria, la distanza le esclude radicalmente. Se la differenza ontologica pensa o non pensa il divino a partire dall’Essere riducendolo a «Dio», la distanza obbliga ad accettare che «forse bisogna rinunciare a pensare Dio a partire dall’Essere» (Ied 271; 216): […] Le loro istanze si oppongono radicalmente, a due profondità diverse: innanzitutto per il fatto che l’una lascia che si consolidi l’idolo della causa sui, mentre l’altra lo squalifica continuamente in forza del Postulato (aitia). In secondo luogo e soprattutto perché a fondamento di questa opposizione se ne intravede già un’altra: la differenza pensa “Dio” a partire dal problema dell’Essere (metafisicamente pensato, o no, non importa, forse), mentre la distanza, proprio con un passo indietro dal problema dell’Essere, pretende di pensare l’impensabile in maniera ancor più desertica, e quindi più originaria (Ied 266; 213).

La distanza implica allora una presa di distanza dalla differenza ontologica, la sua inosservanza: «La distanza prende le distanze dalla differenza ontologica e dall’Essere che essa gestisce» (Ied 274; 219). Infatti l’Essere e la differenza appaiono ora inadeguati a pensare Dio. Qui si misura, in fondo, il passaggio dalla differenza alla distanza, in breve da L’idolo e la distanza a Dio senza essere: «La stessa differenza ontologica, e quindi anche l’Essere, diventano troppo angusti […] per pretendere di offrire la

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La misura dell’umano

dimensione, e ancor meno il “soggiorno divino”, nel quale Dio potrebbe diventare pensabile» (Dse 71, 67). In Dio senza essere la messa in discussione della differenza ontologica è un effettivo tentativo di liberare «Dio» dall’idolo tanto metafisico quanto ontologico, cioè liberarlo da un discorso che rinvii comunque e sempre all’Essere dell’ente: Per liberare il silenzio dal suo disonore idolatrico non si potrà non liberare la parola “Dio” dall’Essere dell’ente. Ma si può pensare al di fuori dell’Essere? E per sfuggire all’idolatria e togliere le sue virgolette è davvero sufficiente limitarsi a non scriverle più? (Dse 91; 86).

Con queste domande Marion sottolinea le difficoltà che un pensare «Dio senza e al di fuori della differenza ontologica» obiettivamente pone. Un simile tentativo, in quanto trasgressione della differenza ontologica, dà luogo a due fondamentali obiezioni che il pensatore francese non esita a prendere in considerazione. In primo luogo, un pensiero che libera Dio dall’Essere deve confrontarsi con la rivelazione biblica e in particolare con il Sum qui sum di Es 3,14. La rivelazione biblica contravverrebbe al tentativo di liberare «Dio» dall’Essere, in quanto questo nome lo avrebbe scelto il Dio biblico in persona per rivelarsi. L’identità tra Dio e Essere sarebbe perciò fondata a partire dalla stessa parola di Dio. Eppure il filosofo francese constata come quell’identità non abbia in sé alcun fondamento. Il riferimento al nome «Essere» non va inteso nel contesto della differenza ontologica. Il Sum qui sum non vuole, cioè, dichiarare l’equivalenza tra Dio e Essere, ma piuttosto mira a negare qualunque possibilità di individuazione del divino. È una vuota generalità, una tautologia tese ad indicare l’impossibilità di una sua definizione finita: «L’Essere non dice nulla di Dio che non possa immediatamente rifiutare. L’Essere, anche e soprattutto in Esodo 3,14 non dice nulla di Dio; o non ne dice nulla di determinante» (Dse 71; 67). Inoltre è evidente che il latino Sum qui sum è il calco del greco ἐγώ εἰμι ὁ ὤν con il quale i Settanta dotti tradussero l’ebraico ‘ehjeh ‘asher ‘ehjeh. Il riferimento all’Essere, come nome divino, tenderebbe dunque a ridurre la distanza tra il testo biblico e la metafisica greca, producendo concordanze terminologiche, e perciò concettuali: La formula ebraica ‘ehjeh ‘asher ‘ehjeh può essere intesa come un’enunciazione positiva, del tipo “Io sono colui che è”, ma è più probabile che si debba intendere innanzitutto come un rifiuto di precisare ulteriormente di quale “essere” si tratti, come un enunciato del tipo “Io sono chi sono”; lo stesso Gilson

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Differenza e donazione

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ha riconosciuto che, preso alla lettera, Esodo 3,14 ci dà “l’unica formula che non dica assolutamente nulla e che dica assolutamente tutto (Dse 109; 101).

In secondo luogo, la violazione della differenza ontologica aprirebbe all’impossibilità stessa del pensiero. L’inosservanza si accompagnerebbe all’abbandono della condizione di un’apertura entro la quale soltanto il pensiero si può radicare: «Pensare al di fuori della differenza ontologica, infatti, condanna al rischio di non poter più pensare» (Dse 71; 67). Questa radicale obiezione pare effettivamente manifestare un limite davvero invalicabile. Al di fuori della differenza ontologica, infatti, sembrerebbe impossibile il pensiero. Ma il pensatore francese ritiene che l’impossibile come tale, ostacolo e intralcio al pensiero, si tramuti in vero e proprio varco. Marion anticipa qui una convinzione che diverrà metodo nella sua fenomenologia della donazione: «L’aporia diventa varco» (Ed 116; 98)2. L’impedimento diviene ponte. La contraddizione, sancita dalla differenza ontologica, e i limiti da essa imposti si evolvono in un’apertura così da illuminare nuove possibilità oltre l’impossibile e il contraddittorio. Il pensiero metafisico e quello della differenza ontologica (pensata) delimitano e circoscrivono con l’aporia, la contraddizione e l’impossibilità della dimensione entro la quale il pensiero ha spazio. Ma se pensare al di fuori della metafisica e della differenza ontologica è vietato, poiché si condanna il pensiero alla sconfitta, è legittimo affermare che tale fallimento sia dichiarato in virtù della misura stabilita dalla differenza ontologica stessa. Come a dire che, se si fuoriesce da essa, essa non può più valere come norma e divieto di ciò che essa giudica come trasgressione. L’inosservanza della differenza ontologica non condanna il pensiero all’impensabile, poiché, inosservata, non è più criterio e norma del pensiero. Il pensiero si apre all’impensato 2

Già in Ied si leggeva: «Per altro, bisogna riconoscere un’aporia: ma nei pensatori, l’aporia equivale al bene più prezioso. Infatti una risposta può sempre deludere o dimostrarsi erronea. Invece una domanda, quando si garantisca una irriducibilità, diventa il punto fermo in cui il pensiero dà prova, più che della sua forza, della legittimità e di ciò che è in gioco nel pensiero» (Ied 279; 223). La fenomenologia (della donazione) capovolge l’aporia (metafisica), dichiarazione di resa e di sconfitta del pensiero, in un ponte attraverso cui si manifesta l’eccesso del pensiero: «Il metodo non provoca tanto l’apparizione di ciò che si manifesta, esso sgombera, piuttosto, gli ostacoli che l’offuscherebbero» (Ed 16-17; 6-7). E ancora: «Ogni fenomeno, in quanto dato, conserva, infatti, come uno strapiombo su ciò che lo riceve: per quanto pienamente liberato esso sia, il suo esilio fuori dall’ουjσία e il suo deficit di causa lo consegnano alla fine come ineguale rispetto alla conoscenza inadeguata. Ma questa disuguaglianza non significa tanto una disfatta del pensiero, quanto l’eccesso del pensabile» (Ed 224; 196). Tale eccesso rinvia chiaramente al fenomeno saturo cfr. Ed 275-280; 242-246.

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La misura dell’umano

che irrompe infrangendo i limiti della misura. Cosa o, meglio, chi sia l’impensato che, imprevisto, travolge ogni misura e sconvolge il pensiero è chiaro. Si tratta, secondo Marion, di Dio liberato dall’idolatria della misura dell’umano, di ciò che appunto non può essere pensato come tale: Pensare al di fuori della differenza ontologica, infatti, condanna al rischio di non poter più pensare. Ma appunto, quando si tratta di Dio, il non poter più pensare non sta ad indicare né qualcosa di assurdo né qualcosa di sconveniente, dal momento che Dio stesso, per essere pensato, deve essere pensato come “id quo majus cogitari nequit”, cioè come ciò che oltrepassa, sconcerta e rende folle ogni pensiero, anche quello non rappresentativo (Dse 71; 67).

Al di fuori della differenza ontologica, cioè della misura del pensiero, Dio si dà come una dismisura che la eccede: «Per definizione e decisione, Dio, se deve essere pensato, non può incontrare alcuno spazio teorico che si adatti alla sua misura, dato che ai nostri occhi la sua misura si esplica come una dismisura» (Dse 71; 67). Per questo motivo, il divieto di pensare al di fuori della differenza ontologica diviene varco. L’impossibilità di pensare si addice alla dismisura del divino come tale: Bisogna dunque riconoscere che l’impossibilità, o per lo meno l’estrema difficoltà di pensare al di fuori della differenza ontologica potrebbe in qualche modo convenire direttamente all’impossibilità - indiscutibile e definitiva, questa – di pensare Dio come tale (Dse 71; 67).

E per la medesima ragione, la differenza ontologica, «ultimo idolo», da ostacolo diviene ponte verso un pensiero di Dio che, liberato dalle virgolette e definitivamente dall’idolatria, ha il volto dell’impensabile: La differenza ontologica, quasi indispensabile a ogni pensiero, si offre così come una propedeutica negativa al pensiero impensabile di Dio. Ultimo idolo, il più pericoloso, ma anche il più educativo e, a suo modo, il più proficuo, dato che si offre come un ostacolo che, abbattuto o calpestato, diventa come l’ultimo ponte – scabellum pedibus tuis – senza entrare nell’impensabile, l’indispensabile impensabile (Dse 71; 67).

2. L’icona concettuale Il tema della dismisura, qui, rinvia in maniera inequivocabile all’icona. È la coppia costituita dall’idolo e dall’icona a tracciare una via per cogliere

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Differenza e donazione

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quella dismisura che scompagina il pensiero. L’idolo è infatti istituito dallo sguardo. Sussiste dunque a partire dalla misura di un’αἴσθησις che gli dà forma e lo plasma. L’invisibile è così delimitato dal visibile, forgiato da uno sguardo e, infine, sospeso. Ma l’icona capovolge l’idolo. Essa attesta nel visibile il sopraggiungere dell’invisibile che ci guarda. Il visibile, dunque, non circoscrive più l’invisibile fino a farlo scomparire in quanto non mirato. Il visibile diviene luogo stesso di una apocalisse con la quale l’invisibile appare come una dismisura e una profondità infinite: È appunto per questo che la profondità dell’icona la sottrae a qualsiasi estetica: solo l’idolo può e deve essere appreso, perché solo l’idolo viene dallo sguardo umano e presuppone quindi un’ aisthesis che gli impone la propria misura. L’icona, invece, si misura solo a partire dalla profondità infinita del volto; in questo senso, l’intenzione che guarda-in-volto dipende solo da se stessa, all’aisthesis si sostituisce un’apocalisse (Dse 33; 37).

Ma l’icona suggerisce molto di più. Se vi è infatti un idolo concettuale prodotto da un’intenzione del pensiero nella sua mira verso il divino, occorrerebbe anche ammettere un icona concettuale. Marion vi accenna nelle pagine iniziali di Dio senza essere, quasi nella forma di una domanda che sorge inevitabile una volta ammesso l’idolo concettuale. Considerata nella dimensione del pensiero e del concetto, l’icona sembrerebbe alludere alla possibilità di un vero e proprio capovolgimento dell’idolo concettuale. Se l’icona è capovolgimento dell’idolo, un’icona concettuale ripeterebbe allora il medesimo sovvertimento di un idolo, questa volta, sul piano del concetto. Sarebbe dunque la potenzialità insita in un’icona concettuale a dischiudere la possibilità stessa di una messa in discussione risolutiva dell’idolo concettuale in generale, al di là delle sue varie figure assunte nel pensiero (causa sui, Essere, differenza ontologica ecc.). Il problema è, tuttavia, quale tipo di pensiero e quale statuto concettuale possa pretendere l’icona. Per rispondervi, Marion segue la via della comparazione a partire dall’idolo concettuale: Ma, come l’idolo può esercitare la propria misura nel divino attraverso un concetto, dato appunto che lo sguardo può riflettere invisibilmente la propria mira e congedarvi il non-intenzionabile, così anche l’icona può procedere concettualmente, per lo meno a patto che il concetto rinuncia a comprendere l’incomprensibile, per tentare di concepirlo, e quindi di recepirlo secondo la dismisura che gli è propria (Dse 35; 39).

L’icona come concetto non pretenderebbe allora di afferrare e di circoscrivere la dismisura a partire dalla misura del pensiero, ma viceversa

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La misura dell’umano

l’accoglierebbe proprio in quanto sovrabbondanza e smisuratezza. Stabilito ciò, resta ancora il problema se si diano però concetti di questo tipo: «Il problema è se simili concetti si possano concepire» (Dse 35; 39). Marion precisa ulteriormente che un simile concetto dovrebbe accettare e conformarsi al sopraggiungere nella visibilità dell’invisibile. Invece di imporre la misura all’invisibile finendo per sospenderlo nella riflessione finita del pensiero, dovrebbe riceverlo e accoglierlo a partire dalla quella profondità infinita così da proferirne lo sguardo, «un concetto quindi che di per sé dica e prometta di dire questa profondità infinita nella quale il visibile e l’invisibile diventano familiari» (Dse 35; 39). La possibilità di capire un simile concetto ci è indicata, secondo Marion, dall’idea di infinito quale è pensata da Cartesio e, aggiungeremmo, dall’interpretazione che ne ha dato Lévinas3. Quando Cartesio nella terza delle sue Meditationes de prima 3

Come è noto, nel contesto di un confronto con la fenomenologia di Husserl, Lévinas rinvia all’idea cartesiana di infinito in più scritti anteriori a Totalità e infinito. Ne Dalla descrizione all’esistenza, l’idea di perfezione è usata per sottolineare la differenza tra l’analisi del conoscere tipica della filosofia classica da quella propria della fenomenologia. Nella filosofia classica, «l’idea di perfezione attribuita al filosofo permetteva la descrizione della finitezza» (E. Lévinas, En découvrant l’existence avec Husserl et Heidegger, Vrin, Paris 1967, tr. it. Scoprire l’esistenza con Husserl e Heidegger, Raffaello Cortina editore, Milano 1998, p. 105), nell’ideale di rischiarare ed eliminare ogni imperfezione del fenomeno, che, viceversa, in fenomenologia è costitutivo del fenomeno stesso: «Ogni volta che la filosofia classica insiste sull’imperfezione di un fenomeno di conoscenza, la fenomenologia non si accontenta della negazione implicita in tale imperfezione, ma pone tale negazione come costitutiva del fenomeno stesso»» (E. Lévinas, Scoprire l’esistenza con Husserl e Heidegger, cit., p. 105). In questo senso, la filosofia classica è un idealismo fondato su una ragione che mira a porre l’uomo fuori di sé (corpo, passioni ecc.) col risultato che l’uomo non conosce più se stesso, sebbene conosca il mondo: «Lo scienziato si colloca, infatti, al di fuori della realtà che studia» (E. Lévinas, Scoprire l’esistenza con Husserl e Heidegger, cit., p. 109). In tale idealismo, l’uomo trova misura solo nell’idea di perfezione «la quale, pur trovandosi nell’uomo, pur avendo un significato per lui, gli permette di uscire dall’immanenza del suo significato. Compreso in tal modo, l’argomento ontologico definisce la trascendenza e rimane la pietra angolare dell’idealismo» (E. Lévinas, Scoprire l’esistenza con Husserl e Heidegger, cit., p. 109). Nelle Riflessioni sulla “tecnica” fenomenologica, è ribadito che l’idea di perfezione e di infinito servono dunque all’idealismo e alla ragione per caratterizzare la coscienza finita, ma alla fenomenologia non servono poiché essa parte e resta nel finito: «Così, in Descartes, la descrizione del cogito – nella sua imperfezione di dubbio – ammette, in fin dei conti, il suo riferimento all’idea dell’infinito e della perfezione: l’idea della perfezione, data anticipatamente, rende possibile la descrizione della finitezza. La descrizione fenomenologica cerca il significato del finito nel finito stesso» (E. Lévinas, Scoprire l’esistenza con Husserl e Heidegger, cit., pp. 127-128). Perciò, «la fenomenologia è il parados-

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Differenza e donazione

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philosophia discute dell’idea della sostanza infinita come di un’idea che «non avrei […], se essa non fosse stata messa in me da qualche sostanza veramente infinita»4, inaugura una riflessione utile al fine di stabilire uno statuto di pensabilità dell’icona concettuale: Quando Descartes stabilisce che l’idea Dei dovrebbe dirsi idea infiniti, e che questa “ut sit vera nullo modo debet comprehendi, quoniam ipsa incomprehensibilitas in ratione formali infiniti continetur”, ci indica un cammino che, per lo meno, ci è vicino5 (Dse 36; 39).

L’idea di infinito implica il rinvio a qualcosa che il finito riceve proprio in quanto non comprensibile. L’infinito non è reso comprensibile a partire dal finito per essere inteso e concepito come sua negazione. È da ammettere come incomprensibile. Il finito deve accettare l’incomprensibilità dell’infinito come tale, proprio poiché non può comprenderlo in quanto finito: «E questo non cessa di essere vero, sebbene io non comprenda l’infinito, e benché si trovi in Dio un’infinità di cose che non posso comprendere, e forse neppur attingere in alcun modo col pensiero: perché è della

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so di un idealismo senza ragione» (E. Lévinas, Scoprire l’esistenza con Husserl e Heidegger, cit., p. 129). L’idea di infinito non serve allora a fondare la coscienza finita e a misurarne l’imperfezione, ma, viceversa, diviene apertura a una radicale trascendenza, rapporto con l’Altro, eteronomia. Ciò è evidente ne La filosofia e l’idea di infinito del 1957, testo che anticipa Totalità e infinito: «Il testo intitolato “La filosofia e l’idea di finito” ha potuto, dopo il 1957, esprimersi sotto forma di libro» (E. Lévinas, Scoprire l’esistenza con Husserl e Heidegger, cit., p. XI). Contro Heidegger e la sua filosofia del Neutro, contro l’Essere che esprime lo Stesso e sfocia nell’impossibilità filosofica di un’uscita da una singolarità finita (Dasein), priva di rapporto con l’idea di infinito e il cui esito sono la morte e il nulla, Lévinas rivendica una tradizione filosofica che è apertura all’Altro e non riduzione allo Stesso (il Bene al di sopra dell’essere di Platone, l’idea di infinito di Cartesio). In questo senso, l’io che pensa l’infinito è apertura all’Altro, l’intenzionalità diviene transitività, poiché l’io «intenziona ciò che non può abbracciare» (E. Lévinas, Scoprire l’esistenza con Husserl e Heidegger, cit., p. 197). Così, l’idea di infinito esprime la realtà radicalmente altra e trascendente che l’io non può ridurre a sé in quanto lo eccede: «Pensando l’infinito, l’io pensa immediatamente più di quanto non pensi» (E. Lévinas, Scoprire l’esistenza con Husserl e Heidegger, cit., p. 197). Si veda anche in particolare E. Lévinas, Totalité et infini, Nijhoff, La Haye 1961, tr. it. Totalità e infinito, Jaca Book, Milano 1990, pp. 40-50. Anche E. Lévinas, Di Dio che viene all’idea, cit., p. 85 e seguenti. Cfr. anche il paragrafo La struttura formale paradossale dell’idea di infinito in G. Ferretti, La filosofia di Levinas. Alterità e trascendenza, Rosenberg & Sellier, Torino 1996, pp. 114-117. Cartesio, Opere, cit., vol. 1, p. 225. La citazione cartesiana era già presente in Ied 185; 148. Cfr. Cartesio, Opere, cit., vol. 1, p. 534.

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La misura dell’umano

natura dell’infinito che la mia natura, che è finita e limitata, non lo possa comprendere»6. Per questa ragione, Marion afferma che l’idea di infinito «indica un cammino» vicino al tentativo di pensare un’icona concettuale. Come l’idea di infinito della filosofia di Cartesio, l’icona concettuale rinvia al sopraggiungere di una dismisura infinita che non può essere come tale compresa, afferrata e delimitata attraverso la misura di un pensiero umano. Ma il pensiero, abbandonata la pretesa di misurare l’incommensurabile, vi si può riferire concettualmente per accoglierne l’irruzione. Il concetto non svolgerebbe la funzione di determinare l’essenza della dismisura poiché ciò sarebbe impossibile, ma quella di cogliere ermeneuticamente l’intenzione dell’avanzata dell’invisibile nel visibile: L’icona costringe il concetto a ricevere il percorso della profondità infinita; evidentemente questo percorso vale solo come infinito, e quindi è indeterminabile attraverso un concetto; e tuttavia non si tratta di determinare attraverso un concetto un’essenza, ma un’intenzione, quella dell’invisibile che si avanza nel visibile, e vi si inscrive proprio imponendo il rinvio da questo visibile all’invisibile (Dse 36; 39).

Il riferimento è a un pensiero ermeneutico che colga nella visibilità l’intenzione dell’invisibile che si manifesta a partire da una profondità infinita. L’icona concettuale rimanda a una ermeneutica dell’icona (herméneutique de l’icône): «Ermeneutica dell’icona voleva dire: il visibile diventa la visibilità dell’invisibile solo se ne riceve l’intenzione, in breve se rinvia, quanto all’intenzione, all’invisibile» (Dse 36; 39). Ma l’icona concettuale rimette anche in gioco la nozione di distanza, proprio perché il pensiero in questo caso non annulla l’invisibile nella visibilità, ma risale dalla visibilità all’intenzione dell’invisibile che vi si manifesta. Il pensiero, cioè, non oppone visibilità e invisibilità, ma li coglie insieme nella distanza di una profondità infinita. Non solo allora lo statuto di un’icona concettuale è pensabile, a partire dalla filosofia di Cartesio e dalla sua idea infiniti, ma, più ancora, è possibile che un concetto, come può svolgere la funzione di idolo, possa fungere quella di icona. Un concetto può valere come icona: Vale come icona il concetto o l’insieme dei concetti che rafforza contemporaneamente sia la distinzione sia l’unione del visibile, e tanto più fa crescere l’una quanto più sottolinea l’altra. Qualsiasi pretesa a un sapere assoluto è dunque idolatria (Dse 36; 40).

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Cartesio, Opere, cit., vol. 1, p. 226.

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Differenza e donazione

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L’icona concettuale sembrerebbe allora concepibile secondo tre modalità che ne attestano la pensabilità. Il concetto come icona è, negativamente, un concetto che abbandona la pretesa di essere misura di ciò che è incomprensibile. Affermativamente, si tratta di un concetto che intende l’incomprensibile accettandone la dismisura. In generale, è un pensiero che si apre all’impensabile come tale, non come ciò che il pensiero lascia indeterminato a partire da sé, ma come ciò che sopraggiunge contemporaneamente a saturarlo (saturer) e a cancellarne (raturer) la misura7. «Pensare al di fuori della differenza ontologica» significa allora pensare l’impensabile. Detto altrimenti, significa pensare Dio nella figura dell’impensabile (figure de l’impensable): A proposito di Dio, noi ammettiamo chiaramente che non possiamo pensarlo se non sotto la figura dell’impensabile, ma di un impensabile che oltrepassa nella stessa misura sia ciò che non possiamo pensare sia ciò che possiamo pensare; ciò che non posso pensare, infatti, dipende ancora dal mio pensiero, e mi resta quindi pensabile (Dse 72; 68).

Alla figura dell’impensabile Marion approdava già ne L’idolo e la distanza. La nozione di distanza, infatti, implica l’impossibilità della definizione e dell’oggettivazione da parte di uno dei poli che la costituiscono rispetto all’altro (uomo, Dio; figlio, Padre). In questo senso, l’altro polo della distanza è definibile solo attraverso il suo non essere definito: «L’altro, intimamente estraneo, scompare nell’atto stesso della sua apparizione, è definito proprio dall’indefinito» (Ied 256; 206). L’altro è perciò l’impensabile, ciò che è al di là di qualunque idolo (immagine o concetto) e non appare dalla loro negazione: «Nessuna immagine, nessun concetto, e neanche nessuna negazione di immagini o di concetti può essere adatta all’impensabile, o può rivelarlo» (Ied 257; 206). Ciò perché tanto l’idolo quanto la sua negazione dipendono pur sempre da una misura umana. L’impensabile, dunque, non è la negazione della misura (concetto o negazione del concetto che dipende da esso) ma propriamente ciò che è al di là anche della negazione stessa: «Qui infatti si tratta appunto dell’in-oggettivabile dell’impensabile che è al di là della negazione stessa dei pensabili, dell’ir-rapresentabile che sfugge anche alla negazione del rappresentabile» (Ied 263; 211). Di qui, la radicale diversità tra la distanza e la differenza. Se la differenza ontologica produce in ogni caso un «Dio», impensato oppure pensato l’Essere non importa, la distanza pretende invece, al di fuori dell’Essere e della differenza 7

Cfr. la nota n.37 del traduttore italiano sul gioco di parole tra saturer e raturer in Dse 68.

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ontologica, di porsi in ascolto dell’impensabile. Ciò significa che l’Essere non è un nome di Dio. Come vuole Dionigi si tratta del fatto «che l’Essere (ma anche, sottolineamolo, l’Uno, o la Bontà, o la Verità) non costituisce affatto un nome essenziale di Dio, e quindi che Dio diventa pensabile solo dopo che si sia ammesso l’impensabile come luogo, condizione e misura dell’Ab-soluto» (Ied 271; 217). La fuoriuscita dalla differenza ontologica è così possibile. Due questioni saranno allora decisive. Innanzi tutto, si tratterà di pensare «Dio senza e al di fuori della differenza ontologica», superare davvero la differenza ontologica in direzione di un pensiero che pensa l’impensabile, Dio senza essere. Questo pensiero dell’impensabile incontrerà l’amore, (ἀγάπη, caritas). Secondariamente, si tratterà di pensare «senza e al di fuori della differenza ontologica», di attuare effettivamente l’uscita dalla differenza ontologica col metterla davvero fuori gioco. Emergerà così il gioco del dono e della donazione.

3. L’impensabile e l’amore La differenza ontologica è secondo Marion un ultimo idolo da superare. Come tale essa è un ostacolo, ma, insieme, anche un varco verso il pensiero dell’impensabile. È un ostacolo poiché sancisce un divieto vero e proprio per il pensiero, poiché stabilisce che al di fuori di essa non si può pensare. Ma proprio per questo motivo, l’ostacolo diviene un ponte. Al di fuori della differenza, Dio non si può pensare propriamente in quanto impensabile. La differenza diviene una propedeutica (negativa) alla liberazione di Dio dall’Essere e da ogni pensiero che lo riduce a idolo: «La differenza ontologica, quasi indispensabile a ogni pensiero, si offre così come una propedeutica negativa al pensiero impensabile di Dio» (Dse 71; 67). Al di fuori della differenza, Dio è l’impensabile, non come ciò che il mio pensiero non può pensare, ma come ciò che sfugge alla mia misura poiché non dipende da me, ma da Dio stesso. Questo impensabile è così «l’aura del suo avvento, la gloria della sua insistenza, lo splendore del suo ritiro» (Dse 72; 68). L’impensabile non è dunque ciò che è al di là della misura del concetto, quindi ciò che non è delimitato o definito a partire dal concetto che pretende di essere norma e paradigma. Ma esso è, piuttosto, l’irruzione stessa della dismisura che colma e infrange la misura con la sua sovrabbondanza. Poiché abolisce ogni limite che la definizione impone, l’impensabile estingue ogni figura dell’idolo e ogni idolatria in generale al punto da ripristinare la distanza. Solo a partire dall’impensabile termina

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l’idolatria. «Dio» può trovare liberazione dalle virgolette. Marion propone allora di eliminarle e di sostituirle con la croce di Sant’Andrea. Mentre l’impensabile elimina ogni idolo, perciò ogni delimitazione concettuale di Dio emancipandolo dalle ristrettezze testuali delle virgolette, impone anche di sbarrare Dio con la croce di Sant’Andrea onde evitare ogni ricaduta nell’idolatria: L’impensabile ci obbliga a sostituire le virgolette idolatriche di “Dio” con il Dio che nessun plagio conoscitivo può plagiare; e, per dirlo, cancelliamo Dio con una croce, di Sant’Andrea per il momento, che mostra i loro limiti alle tentazioni, consce o inconsce, di bestemmiare l’impensabile con un idolo (Dse 72; 68).

Barrare Dio con una croce non significa annullarlo e neppure dichiararne l’inesistenza. Il senso della croce di Sant’Andrea sta piuttosto a indicare che Dio è altro dall’idolo e dalla misura dell’umano. Né vuoto concetto, né congettura, l’impensabile sbarra il pensiero umano, lo abroga nella sua pretesa di ergersi a criterio del divino poiché lo colma con la sua eccedenza. Non è il concetto umano a definire Dio, ma è l’impensabile stesso a sottrarsi a qualunque definizione finita, abolendola con la sua irruzione. Ciò che, in definitiva, con la croce è dichiarato nullo è il concetto perché l’enormità e la sproporzione del divino ne infrangono i confini. Barrare Dio con un croce, osserva Marion, serve a rammentare che Dio invalida il pensiero poiché lo colma in eccesso: La croce non sta a indicare che Dio dovrebbe scomparire come concetto, o che non dovrebbe più entrare in campo se non come ipotesi in attesa di conferma, ma che l’impensabile entra nel campo del nostro pensiero solo rendendovisi impensabile, per eccesso, cioè criticandolo: cancellare Dio, di fatto, indica e ricorda che Dio cancella il nostro pensiero perché lo satura […]. Cancelliamo il nome di Dio solo per rendere chiaro, a noi stessi innanzitutto, che il suo impensabile satura il nostro pensiero, dal principio e per sempre (Dse 72; 68).

Resta, tuttavia, ancora da chiarire il volto di quell’impensabile. È possibile cioè indicare, nominare pensare, ancora Dio? Marion ne è sicuro. L’impensabile, al di fuori della differenza ontologica, il Dio barrato con la croce di Sant’Andrea è ἀγάπη. Ciò che è al di fuori del pensiero regolato dalla differenza ontologica, è l’impensabile come amore. Il progetto di un’ermeneutica dell’icona trova in tale modo un esito conseguente. L’icona, infatti, è ἀποκάλυψις, rivelazione di un’intenzione e di uno sguardo che percorrono la distanza a partire da una profondità infinita. Solo un concetto che valga come icona può accoglierli e, ermeneuticamente,

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rendere manifesta quella rivelazione. Detto altrimenti, rispetto alla misura del pensiero concettuale che nomina Dio come idolo, solo un pensiero ermeneutico che, iconicamente, accolga quella rivelazione può nominare quell’eccesso nell’ascolto. Si tratta di un pensiero, perciò di una filosofia, non chiusi in maniera esclusiva su loro stessi, ma che, all’inverso, cedono a quella dismisura, a ciò che si sottrae nella distanza a qualunque pretesa di definizione idolatrica. Ciò che in tale senso si sottrae alle pretese fondative del pensiero, consegnandosi invece ad una tensione ermeneutica è l’amore (ἀγάπη). Quello che allora si rivela come impensabile è Dio come ἀγάπη, il Dio della rivelazione. Che vi sia infatti, secondo Marion, una corrispondenza tra il Dio della rivelazione e l’icona, da un lato, e il Dio dei filosofi e l’idolo, dall’altro, è chiaro: «La rivelazione (nei nostri termini, l’icona), non può essere confusa e sottomessa al pensiero filosofico di “Dio” come ente (nei nostri termini, idolo)» (Dse 80; 75). L’impensabile, al di fuori della differenza ontologica, il Dio barrato con la croce di Sant’Andrea è il Dio rivelato di Giovanni (1 Gv 4,8). Dio è ἀγάπη. Secondo Marion, proprio l’amore è ciò che il pensiero lascia infatti impensato. La metafisica, lo stesso Heidegger non lo pensano. È una via di ricerca rimasta di fatto inesplorata. Provare a seguirla, secondo Marion, porterebbe non solo la filosofia e il concetto a pensare l’amore, ma soprattutto li costringerebbe a limitare, se non ad annullare, le proprie pretese fondative. Il concetto si troverebbe nella necessità di ripensarsi attraverso l’amore. Una simile ricerca potrebbe sprigionare smisurate potenzialità grazie all’amore, a cominciare dalla liberazione di «Dio» dalle virgolette e dall’idolatria seconda: Perché l’amore? Perché questo termine, che Heidegger, come d’altronde tutta la metafisica, anche se in maniera diversa, continua a mantenere in uno stato derivato e secondario, resta ancora, paradossalmente, tanto impensato da poter, un giorno per lo meno, liberare il pensiero di Dio dall’idolatria seconda. Questo compito, immenso e, in un certo senso, mai intrapreso sino ad oggi, richiede che si elabori concettualmente l’amore (e quindi, di rimando, che si elabori il concetto attraverso l’amore), sino al punto da poterne dispiegare completamente la potenza speculativa (Dse 73; 69).

Il vantaggio di una elaborazione concettuale dell’amore è duplice in relazione alla liberazione di «Dio». In primo luogo, l’impensabile come ἀγάπη non soddisfa alcuna condizione. Rinvia piuttosto a una precisa assenza di condizioni e di istanze anteriori: «L’amore ama senza condizioni» (Dse 74; 69). Quello che in altri ambiti potrebbe essere un difetto, in questo caso si presenta come beneficio. L’amore è un «d(on)arsi» che non si inscrive in una trama tale da contestualizzarlo e neppure la esige: «il dono non ha

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bisogno né di un interlocutore che lo riceva, né di un luogo in cui soggiornare che lo accolga, né di una condizione che lo garantisca o lo confermi» (Dse 73; 69). L’impensabile, Dio come ἀγάπη, contravvengono così alla possibilità stessa di ogni idolatria che impone condizioni e istanze anteriori che misurano, dal punto di vista umano (sguardo, pensiero), l’accesso al divino. Soprattutto, l’amore disattende l’idolatria seconda e la pretesa per la quale il pensiero dell’Essere e la differenza ontologica siano condizioni di accesso a «Dio». Se l’amore è «senza condizioni», Dio (ἀγάπη) è senza essere, «non ha da essere, ma ama […] senza limiti e restrizioni» (Dse 74; 69). Ogni idolatria è così lasciata alle spalle. L’uomo non può misurare la dismisura dell’amore, può solo esporvisi, accettarla o rifiutarla. L’intenzione dello sguardo oppure quella del pensiero non possono più decidere l’accesso al divino nella loro mira, poiché l’amore si può solo accogliere o respingere: «In questo senso, non c’è più alcuna mira che intervenga a decidere idolatricamente della possibilità e dell’impossibilità di un accesso a e di “Dio”» (Dse 74; 70). In secondo luogo, l’amore capovolge il concetto. Il concetto, infatti, mira a unificare e a raccogliere sotto di sé ciò che così è compreso. L’intenzione che soggiace alla comprensione tramite il concetto è dunque quella di prendere e di afferrare. Nel caso della mira del divino, l’esito è necessariamente un idolo, specchio nel quale quell’intenzione si riflette. L’amore, viceversa, non mira a comprende, non tende a prendere perché, piuttosto, mira a dare. La sua intenzione è quella di donare: Perché, al contrario del concetto che, per la definizione stessa di concezione, riunisce ciò che comprende e che, per questo fatto stesso, culmina quasi inevitabilmente in un idolo, l’amore (anche e soprattutto se giunge a far pensare e, in sovrappiù, a dar da pensare) non pretende di comprendere, dato che non ha la benché minima intenzione di prendere (Dse 74; 70).

Allora l’amore è capovolgimento dell’idolo, «l’amore esclude l’idolo o, meglio, lo include sovvertendolo» (Dse 75; 70). Il superamento dell’idolatria è così attuabile. Pensare Dio significherà, allora, accogliere il suo «d(on)arsi». Pensare cioè a partire dall’esigenza della dismisura che è l’amore, piuttosto che a partire da quella del concetto: «L’idolatria seconda, così, può essere superata solo lasciando che Dio sia pensato a partire dalla sua pura e semplice esigenza» (Dse 75; 70). Dio come Bonum, ἀγαθόν, non come ens8. In conclusione, il pensiero può porsi nei confronti di Dio,

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Cfr. la ricostruzione della disputa sui nomi divini tra Dionigi e San Tommaso nel § 3 del capitolo L’in-crocio dell’Essere di Dse.

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senza cadere nell’idolatria, solamente accettandolo come dono che «si dà da pensare», inaugurando un pensiero del dono (pensée du don): Dio può darsi da pensare senza idolatria soltanto a partire da se stesso, darsi da pensare come amore e quindi come dono; darsi da pensare come un pensiero del dono. O meglio, come un dono per il pensiero, come un dono che si dà da pensare (Dse 75; 71).

4. La messa fuori gioco della differenza ontologica Pensare «Dio senza e al di fuori della differenza ontologica», significa dunque pensare l’impensabile, l’amore, senza che il pensiero stesso (differenza ontologica, Essere) sia loro condizione. Ciò non significa rinunciare al pensiero, ma pensare «senza e al di fuori della differenza ontologica», procedere effettivamente oltre la differenza ontologica, realizzarne la fuoriuscita, metterla davvero fuori gioco. L’esigenza che si accompagna al pensiero di un Dio senza essere, sollecita infatti una domanda fondamentale. Si tratta di chiedersi, secondo Marion, se sia davvero sufficiente togliere le virgolette a «Dio» e assegnargli il nome di ἀγάπη per liberarlo effettivamente dall’idolatria o se, viceversa, non sia invece necessario garantire quell’emancipazione attraverso una radicale messa in discussione della differenza ontologica stessa. Si può pensare «Dio senza e al di fuori della differenza ontologica» come ἀγάπη, solo a partire da un pensiero «senza e al di fuori della differenza ontologica»: Per liberare Dio dall’Essere, infatti, non basta invocare, con un ritorno a… tanto sospetto quanto insufficiente, un altro nome divino, ad esempio la bontà. Oltre a ciò è necessario che si mostri concretamente come sia possibile che il Dio che si dona come agape metta in evidenza in tal modo il proprio scarto rispetto all’Essere, e quindi, innanzitutto rispetto ai giochi dell’ente in quanto tale (Dse 123; 112).

Non è dunque sufficiente nominare Dio come ἀγάπη. Occorre invece portare alla luce la distanza, lo scarto rispetto all’Essere. Occorre, rispetto all’Essere, conquistare un sito tale da evitare la caduta in nuove posizioni metafisiche. La liberazione non può ridursi ad una semplice astrazione, revoca o sottrazione. Lo scarto rispetto all’Essere non può, in primo luogo, consistere nell’astrarre da esso poiché si ricadrebbe nella metafisica. La pretesa di liberarsi dall’Essere si accompagnerebbe all’oblio di esso a favore dell’ente tipico della metafisica. Che si astragga dall’Essere o che lo si dimentichi, l’e-

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sito è lo stesso. L’Essere finirebbe per svanire nell’affermazione dell’ente. In secondo luogo, neppure pensare la liberazione dell’Essere come un sottrarsi ad esso permette l’emergere di uno scarto poiché la sottrazione, come tale, resterebbe impigliata in una negazione che rovescia solamente i termini della questione. Un sottrarsi rinvierebbe a un non-ente comunque e sempre entro il contesto insuperato dell’Essere dell’ente. In terzo luogo, nemmeno una revoca o una critica dell’Essere consentirebbe di attuare uno scarto dall’Essere poiché revocarlo o comunque porlo in discussione rinvierebbe ancora ad una razionalità capace di argomentare solo a partire dall’Essere stesso: Liberarsi dell’Essere non significa affatto astrarre da esso – appunto perché l’astrazione rende possibile proprio uno dei modi metafisici dell’Essere dell’ente, il concetto oggettivo di ens. Il liberarsi dell’Essere non significa neppure disfarsi di esso e sottrarsi a esso – dato che proprio questo tirarsi indietro pare sul non-ente, e resta quindi nella sfera d’influenza dell’Essere dell’ente. Il liberarsi dell’Essere non significa, da ultimo, che si pretenda di criticarlo o di revocarlo – questo discorso, infatti, presuppone ancora un logos e un luogo a partire dal quale lo si possa mettere in opera, e presuppone quindi delle prerogative che sono dell’Essere (Dse 124; 113).

Marion non nasconde quindi che una liberazione così intesa pare forse inverosimile e azzardata. Essa non dovrebbe consistere né in un’astrazione, né in una sottrazione e tanto meno in una critica. Difficile allora intenderla. Una soluzione consisterebbe, secondo il filosofo francese, nel pensare la liberazione dall’Essere come una liberazione dell’Essere stesso grazie alla doppia sfumatura che ha l’espressione francese la libération de l’Être9. Una liberazione dall’essere sarebbe allora possibile se intesa come una liberazione dell’Essere. Non si tratterebbe inizialmente di pensare un’emancipazione dall’Essere, ma di un accordare libertà all’Essere, così da svincolarlo dalla sua continua e ondivaga relazione all’ente. Liberare l’Essere significherebbe riscattarlo dal ruolo di «specchio invisibile» sul quale l’ente si riflette. E, più in generale, significherebbe affrancarlo dal porsi come condizione stessa che regge implicitamente o meno l’ente stesso. Così slegato dalla necessità della sua relazione con l’ente, l’Essere potrebbe «guardarsi-in-volto» (s’envisager) per se stesso, a partire da una distanza non più abolita dalla riflessione: Liberare l’Essere, così che, passando da un volo frenato a un volo libero, esso possa liberare il proprio gioco, si liberi come un giocatore che lascia final-

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Cfr. la nota n. 68 nella traduzione italiana di Dse.

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mente liberi i propri gesti, liberi di compiersi istintivamente con una precisione imprevedibile e meticolosa; insomma, come un giocatore che si abbandona a se stesso. E tuttavia, perché l’Essere stesso possa così liberarsi, è assolutamente necessario che possa guardarsi-in-volto; non guardarsi-in-volto a partire da un ente (privilegiato o meno, qui poco importa), e quindi sempre a partire da, attraverso e per se stesso, sotto il peso del gioco con il quale il mondo rende mondani gli enti; ma guardare-in-volto l’Essere (dell’ente) in certi suoi tratti, così tipicamente suoi che lui stesso non potrebbe discernerli in alcuno specchio invisibile, e che solo una vista posta a e in una certa distanza potrebbero rivelargli (Dse 124; 113).

La liberazione dell’Essere sarebbe allora anche una liberazione dall’Essere10; poiché esso non svolgerebbe più le sue prerogative e perderebbe il proprio ruolo. In questo senso, la liberazione dall’Essere non significherebbe infatti annullarlo o abolirlo (astrazione, sottrazione o critica), ma piuttosto sollevarlo da quelle prerogative e dal ruolo che esso occupava. Detto altrimenti, liberare l’Essere è metterlo fuori gioco (déjouer): «mettere in fuori gioco l’Essere, facendogli giocare un ruolo diverso dal suo» (Dse 125; 114). Ma mettere fuori gioco l’Essere, ha un significato ulteriore. Liberato l’Essere, sono trasgredite le regole stesse del suo gioco o, meglio, l’Essere non può più imporre le regole del gioco fissate precedentemente. La messa fuori gioco dell’Essere è la messa fuori gioco delle regole con le quali il gioco era stato condotto. La regola per eccellenza che viene così ad essere messa fuori gioco, trasgredita e inosservata, è perciò la differenza ontologica impensata nella metafisica o pensata dallo Schritt zurück heideggeriano: Il gioco dell’Essere (e anche quello dell’Essere dell’ente) si gioca appunto secondo la differenza ontologica, pensata o impensata come tale, e quindi nello scarto tre l’ente e l’Essere, o, per lo meno, nell’inclusione degli enti all’interno di un’ontologia, all’interno, persino, di una scienza dell’on; l’on, preso come ente, in questo gioco si dice solo secondo una differenza che lo riconduce, in quanto ente, all’on, preso come Essere; di modo che l’ente non guarda-in-volto se non l’Essere che, per suo tramite, si guarda in volto (Dse 125; 114).

Evidentemente, Marion allude a quei passi di Identità e differenza circa la differenza ontologica, così come era pensata da Heidegger, peraltro già precedentemente commentati ne L’idolo e la distanza nel quadro di un 10 «[…] À moins que ces mots la libération de l’Être ne doivent d’abord s’entendre non d’un affranchissement à l’égard de l’Être (affranchissement qui confirme son auteur dans le statut d’un étant), mais de la liberté rendue à l’Être» (Dse 124; 113).

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confronto tra la distanza e la differenza11. In Identità e differenza Heidegger esprime la necessità di liberare la differenza ontologica dalla dimenticanza e dall’oblio in direzione di ciò che è da pensare: «Senza mai perdere di vista la differenza, ma al tempo stesso già liberandola, tramite il passo indietro, in ciò che è da-pensare, possiamo dire: “Essere dell’ente” significa “essere, il quale è l’ente”»12. Il pensiero può iniziare così a cogliere una transitività con la quale l’Essere attua il suo passaggio all’ente. L’«Essere dell’ente» indica l’«essere, il quale è l’ente», ove l’«è» è da intendere in maniera transitiva come un «passare»: «Lo “è” parla qui in modo transitivo, che indica il “passare” (übergehen)»13. Perciò, la differenza ontologica, pensata, rinvia a una precisa relazione tra Essere e ente, a un «passaggio»: «Qui dunque l’essere è essenzialmente nella modalità di un passaggio (Übergang) all’ente»14. Tale passaggio non è pensabile come rinuncia a un luogo da parte dell’Essere a favore di un suo dislocamento nell’ente che così ne viene compenetrato: «Tuttavia non è che l’essere, abbandonando il suo luogo, si trasferisca nell’ente, come se l’ente, dapprima privo di essere, potesse in un secondo momento esserne investito»15. A evitare tale confusione, intervengono nella meditazione heideggeriana, due termini decisivi: tramandamento (Überkommnis) e avvento (Ankunft). Il passaggio dall’Essere all’ente è così, nel tramandamento, l’avvento di una svelatezza: «L’essere passa-verso (qualcosa), si tramanda, svelando, a (qualcosa) – un qualcosa che solo grazie a tale tramandamento (Überkommnis) adviene (ankommt) in quanto alcunché di svelato a partire da se stesso. Avvento (Ankunft) significa: celarsi-salvarsi nella svelatezza (sich bergen in Unverborgenheit), presentarsi durevolmente come celati-salvati – essere enti»16. La differenza tra l’Essere e l’ente è allora pensabile come differenza tra tramandamento e avvento: «L’essere si mostra come il tramandamento che svela. L’ente in quanto tale appare nella modalità dell’avvento che si cela-salva nella svelatezza»17. Perciò la differenza ontologica implica che l’Essere e l’ente siano tra loro distinti, come lo sono tramandamento e avvento, ma, insieme, si dirigano l’uno verso l’altro: «È solo tale differenza che anzitutto assegna e tiene distinto il “frammezzo” in cui tramandamento e avvento sono

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Cfr. il § 17 intitolato Distanza, differenza di Ied. M. Heidegger, Identità e differenza, cit., p. 83. M. Heidegger, Identità e differenza, cit., p. 83. M. Heidegger, Identità e differenza, cit., p. 83. M. Heidegger, Identità e differenza, cit., p. 83. M. Heidegger, Identità e differenza, cit., pp. 83-84. M. Heidegger, Identità e differenza, cit., pp. 84.

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mantenuti l’uno di fronte all’altro e a volgersi l’uno verso l’altro»18. Heidegger può così indicare la differenza ontologica, differenza tra l’Essere e l’ente, tra il tramandamento e l’avvento, come «di-vergenza» (Austrag19): «In quanto differenza tra tramandamento e avvento, la differenza di essere e ente è la svelante-celante-salvante di-vergenza (der entbergend-bergende Austrag) di entrambi»20. Il pensiero ha così conquistato la differenza ontologica come «di-vergenza»: «Ciò vale soprattutto per il nostro tentativo di ripensare – compiendo il passo indietro dalla dimenticanza della differenza come tale – alla differenza in quanto di-vergenza fra tramandamento svelante e avvento che si cela-salva»21. Essa implica dunque una precisa relazione tra l’Essere e l’ente. Indicata dapprima come passaggio (Übergang) e poi come «di-vergenza» (Austrag), la differenza è anche un «volgersi l’uno verso l’altro» dell’Essere e dell’ente, un vero e proprio «movimento circolare» in base al quale l’Essere e l’ente si differenziano e si distanziano e, al contempo, si richiamano e convergono: «Detto a partire dalla differenza, ciò significa: la di-vergenza è un movimento circolare (ein Kreisen), ovvero il ruotare l’uno intorno all’altro (umeinanderkreisen) di essere e ente»22. Proprio questa circolarità o gioco, inteso come il «volgersi l’uno verso l’altro» dell’Essere e dell’ente o il loro «ruotare l’uno intorno all’altro», 18 M. Heidegger, Identità e differenza, cit., pp. 84. 19 Il termine Austrag è tradotto nell’edizione italiana di Ied con il termine «diporto» (cfr. la traduzione italiana di Ied, p. 34, nota n. 12 e ancora p. 250, nota n. 1) conformemente alla traduzione italiana di Identità e differenza in «Teoresi», 1-2, 3-4, 1966-1967, circolante sul finire degli anni Sessanta. Heidegger usa il termine Austrag come un calco del greco διαφορα (cfr. M. Heidegger, Segnavia, cit. p. 487), termine greco che è discusso nel contesto della differenza (Unter-Schied) ne In cammino verso il linguaggio (M. Heidegger, Unterwegs zur Sprache, Neske, Pfullingen 1959, tr. it. In cammino verso il linguaggio, Mursia, Milano 1988, p. 37). Diverse traduzioni italiane di Austrag sono state proposte. G. Vattimo propone di tradurlo con «diaferenza»: «Scelgo “diaferenza” per Austrag, perché ritengo che il termine vada accostato, se pure non identificato, a quello di Differenz, centrale nel pensiero heideggeriano» (M. Heidegger, Saggi e discorsi, cit. p. 151, nota n. 2). U. M. Ugazio, nella sua traduzione di Identità e differenza, preferisce tradurlo con «deferimento», giustificandolo con una lunga nota (cfr. «Aut-Aut», 187-188, 1982, p. 31, nota n. 18). Nella più recente traduzione italiana di Identità e differenza, pubblicata da Adelphi a cura di G. Gurisatti, Austrang è tradotto con «divergenza». Tale preferenza è argomentata in un’altra lunga nota nella quale essa è giustificata dal rinvio al latino devergere (cfr. M. Heidegger, Identità e differenza, cit., pp. 8485, nota n. 1). 20 M. Heidegger, Identità e differenza, cit., p. 84. Il passo in questione, nella sua interezza, è commentato da Marion in Ied 258-259; 207-208. 21 M. Heidegger, Identità e differenza, cit., pp. 88-89. 22 M. Heidegger, Identità e differenza, cit., pp. 92.

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interessano a Marion. Heidegger, cioè, con la differenza non indicherebbe tanto un contrasto tra l’Essere e l’ente, ma attraverso la loro piega o dispiego (Zwiefalt, pli), tenderebbe a capire meglio la loro conciliazione più profonda. Il pensatore francese lo precisava ne L’idolo e la distanza: «La differenza non segna un antagonismo tra l’Essere e l’ente più di quanto non approfondisca definitivamente il loro irriducibile Di-spiego (Zwiefalt) per conciliarli così più intimamente. […] La sostanza della differenza sta, più che nell’antagonismo, nell’equilibrio delle spinte» (Ied 258-259; 208). Per questo motivo, ritiene Marion, la differenza ontologica si svela come Austrag al pensiero che attua il passo indietro: «[…] la differenza ontologica si rivela come un di-porto (re-port, Aus-trag, dif-ferenza) che concilia l’Essere e l’ente più radicalmente di quanto non li opponga polemicamente […]» (Ied 259; 208). La conciliazione è data proprio dal gioco che, nella differenza, l’Essere e l’ente giocano rinviando l’uno all’altro, nel senso che sono il sottrarsi e il ritrarsi dell’Essere ad accordare apparizione all’ente. È l’entrata dell’Essere nell’invisibilità fino a farsi niente a permettere la visibilità dell’ente. La differenza concilia così rappresentabile e irrappresentabile: «[…] l’Essere – puro niente d’ente – scompare nella misura in cui appare l’ente, che per altro appare solo per quello che gli è consentito dal ritiro dell’Essere. L’essere appare soltanto nel ritiro che è reso (in-)visibile da quell’ente che è a sua volta visibile. Asimmetrica, la differenza concilia l’assillante sporgenza dell’ente con il rassicurante ritiro dell’Essere, e cioè il rappresentabile con l’irrappresentabile» (Ied 260; 208-209). Se il ritrarsi dell’Essere permette la visibilità dell’ente, allora, viceversa, è solo a partire dall’ente che quel ritirarsi è indicato: «L’essere appare soltanto nel ritiro che è reso (in-)visibile da quell’ente che è a sua volta visibile». La conseguenza di ciò investe allora l’oblio e la dimenticanza (Vergessenheit) stessi della differenza ontologica. L’oblio della differenza, infatti, non è qualcosa di esterno alla differenza ontologica che quindi accada contrariamente ad essa. La dimenticanza è piuttosto una componente della differenza, un esito conseguente poiché inscritto in quella relazione tra l’Essere e l’ente che soggiace al loro volgersi l’uno verso l’altro: «L’oblio non dipende da una distrazione psicologica, e ancor meno da un errore collettivo: deriva costitutivamente proprio dalla differenza ontologica, che fa vedere l’Essere solo a partire dall’ente, come l’Essere (irrappresentabile) dell’ente (rappresentabile)» (Ied 260; 209). A conferma di ciò, Marion cita un preciso passo di Identità e differenza nel quale Heidegger spiega che la «dimenticanza appartiene alla differenza, poiché la differenza pertiene alla dimenticanza», perciò la «dimenticanza non è qualcosa che sopravviene alla differenza soltanto in un secondo momento, come conseguenza di una smemoratezza del

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pensiero umano»23. Poiché allora la differenza include la dimenticanza, è accaduto quell’oblio dell’Essere nell’ente che ha originato la dimenticanza stessa della differenza, rimasta così impensata: «L’oblio non si aggiunge insomma alla differenza ontologica, ma ne costituisce il rovescio: la decisione epocale di pensare l’Essere come Essere dell’ente produce l’oblio della differenza, dato che, in fondo, la stessa differenza apriva la via all’oblio dell’Essere» (Ied 260-261; 209). Il senso è chiaro. Detto altrimenti, la differenza ontologica è la condizione stessa del prodursi della metafisica, poiché è proprio della differenza obliarsi insieme all’Essere. Marion può così definire la propria posizione di pensiero in un movimento che, dall’insufficienza della differenza ontologica, pone in luce come essa produca ontoteologia, cioè idolatria, e richieda perciò di essere abbandonata o superata, insieme al problema dell’Essere. L’insufficienza della differenza ontologica, innanzi tutto. Marion constata come il pensiero che compie il passo indietro ponga la differenza tra l’Essere e l’ente, ma non ponga il problema dell’Essere come tale, poiché esso rinvia continuamente all’ente: «La differenza ontologica mette chiaramente in luce che l’Essere si contraddistingue dall’ente, ma da questa distinzione, appunto, non pone il problema dell’Essere come Essere. E quindi, ancora, la differenza continua a obliare l’Essere man mano che, con insistenza, lo interroga a partire dall’ente» (Ied 264; 211-212). Ontoteologia, cioè idolatria, secondariamente. Secondo Marion, è pur sempre la differenza, impensata nella metafisica, a reggere la preminenza dell’ente, obliato l’Essere, fino a concepire l’ente supremo, l’ente a fondamento della totalità degli enti: «[…] in quanto metafisicamente impensata, la differenza sostiene dunque il primato dell’ente nel problema dell’Essere (dell’ente), e porta quindi altrettanto necessariamente a privilegiare l’entità dell’ente sino ad arrivare alla sua forma più perfetta, l’ente più ente, l’ente supremo» (Ied 265; 213). È dunque la differenza, anche se impensata, a sorreggere l’ontoteologia e l’identificazione del «Dio» dei filosofi con la causa sui. Ciò significa che la differenza ontologica è all’origine dell’idolo concettuale: «E con questo l’idolatria di Dio è metafisicamente compiuta. La differenza ontologica, impensata, permette così che si elabori un idolo concettuale e rappresentabile di Dio, concepito a partire dall’ente che rivela (accuse) l’Essere, e come l’ente supremo che consacra l’oblio» (Ied 266; 213). Abbandono o superamento della distanza, in ultimo. Marion rivendica allora l’esigenza di abbandonare la differenza come tale, di compiere un 23 M. Heidegger, Identità e differenza, cit., pp. 64-65.

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secondo e più radicale passo indietro dalla differenza poiché, pensata o impensata che sia, essa non rompe il gioco dell’Essere con l’ente. Per questo motivo, essa resta comunque condizione di «Dio». Se impensata, lo riduce a causa sui. Se pensata, lo indica sempre a partire dall’Essere: «[…] la differenza pensa “Dio” a partire dal problema dell’Essere (metafisicamente pensato, o no, non importa, forse), mentre la distanza, proprio con un passo indietro fuori dal problema dell’Essere, pretende di pensare l’impensabile in maniera ancor più desertica, e quindi più originaria» (Ied 266; 213). Ne L’idolo e la distanza, Marion abbandonava la differenza, ne fuoriusciva opponendole la distanza. In Dio senza essere, l’abbandono diviene, invece, effettivo superamento, messa in fuori gioco della differenza. Se Heidegger mirava a liberare la differenza ontologica dall’oblio della metafisica, giungendo a pensarla come «di-vergenza» (Austrag), gioco dell’Essere e dell’ente, Marion è intenzionato, invece, a liberare dapprima l’Essere dal circolo che lo lega all’ente (liberazione dell’Essere), per liberarsi dell’Essere (liberazione dall’Essere), e in definitiva, liberarsi così del gioco stesso, della regola che lo gioca, ossia della differenza ontologica come tale: «Il gioco dell’Essere (e anche quello dell’Essere dell’ente) si gioca appunto secondo la differenza ontologica, pensata o impensata come tale». Si deve allora chiarire in che senso il gioco dell’Essere possa essere messo fuori gioco: «Se il gioco si gioca in questo modo, che cosa implicherà allora il fatto che lo si metta fuori gioco?» (Dse 125; 114). Se il gioco dell’Essere è giocato secondo la differenza ontologica, sarà posto fuori gioco quando sarà giocato non secondo la differenza stessa: «implicherà sicuramente che lo si giochi senza la differenza ontologica». Tuttavia, questo giocare «senza la differenza ontologica» non deve essere frainteso. Pensare il gioco dell’Essere senza differenza ontologica, non significa tuttavia lasciarla impensata poiché altrimenti si ricadrebbe nella metafisica che, appunto, lascia non pensata la differenza. In questo caso, infatti, la differenza non sarebbe messa fuori gioco, ma continuerebbe, in quanto impensata, a giocare la sua parte, a presidiare la sua posizione: Implicherà sicuramente che lo si giochi senza la differenza ontologica; questo gioco senza la differenza ontologica non coincide, bisogna sottolinearlo, con il non-pensiero metafisico della differenza ontologica; infatti, pensare nella differenza ontologica senza pensarla, alla maniera della metafisica, implica evidentemente che si pensi sempre a partire da essa (Dse 125; 114).

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Non si tratta allora di lasciare impensata la differenza. Si tratta, piuttosto, di eluderla al fine di «giocare l’Essere senza la differenza ontologica, per metterlo in fuori gioco» e ciò «richiede che lo si scacci dalla differenza ontologica» (Dse 125; 114). La difficoltà, in fondo, è tutta qui: occorre pensare il gioco dell’Essere «senza la differenza ontologica». La via indicata da Marion consiste nel rimarcare l’esigenza di non sostare nella differenza stessa. Ciò significa che per mettere in fuori gioco, è sufficiente cambiare la regola del gioco stesso. Mettere in fuori gioco l’Essere, significa allora cambiare la regola del suo gioco che è la differenza ontologica. Occorre cioè riconoscerne un’altra tale da regolare in altra maniera il gioco, infatti «non si può mettere in fuori gioco il gioco se non trovando un’altra regola» (Dse 126; 114). In questo senso, Marion afferma chiaramente che per mettere in fuori gioco l’Essere, occorre mettere fuori gioco la regola con la quale esso gioca, cioè la differenza ontologica. Ma ciò non significa né semplicemente eliminarla, poiché si ricadrebbe nel pensiero metafisico che la oblia, né sostituirla con qualcosa di simile. Trovare un’altra regola, non equivale perciò ad abolirla con «un’altra differenza»: «Mettere in fuori gioco l’Essere, dunque, esigerebbe qualcosa di più che non il semplice revocare la differenza ontologica a favore di un’altra differenza» (Dse 126; 114). Come chiarisce il filosofo francese in una nota24, il riferimento è qui a Lévinas e a Derrida, i quali avrebbero cercato di superare la differenza ontologica finendo, tuttavia, per sostituirla con una differenza differente, col risultato o di rovesciarla o di marginalizzarla, in ogni caso di conservarla e di farla giocare ancora. È ne L’idolo e la distanza che Marion discute il tentativo di un superamento della differenza ontologica operato dai due filosofi francesi. L’interesse si concentra su un’iniziativa che inevitabilmente attrae Marion. Quella di superare la differenza ontologica è infatti un’«impresa che, sin dall’inizio soprattutto ci attira» (Ied 286; 228). I due filosofi francesi sembrano anticipare la medesima esigenza di Marion. 5. Il rovesciamento (Lévinas) della differenza ontologica L’attenzione è dapprima rivolta a Lévinas. La sua filosofia, così come è presente in particolare in Totalità e infinito, denuncia il pericolo che si accompagna al primato dell’ontologia sostenuto da Heidegger. Poiché autoreferenziale, l’ontologia finisce per svuotare di senso qualunque alterità. 24 Cfr. la nota n. 64 (n. 70 nella traduzione italiana) di Dse 126; 115.

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Col riconoscere il merito di quella accusa, Marion mira a evidenziare soprattutto una affinità di fondo che lo lega a Lévinas. Per entrambi sono, infatti, l’ontologia e il pensiero dell’Essere heideggeriano, a neutralizzare ogni alterità. A partire dall’Essere, infatti, ogni altro è solo come ente, riferito e riportato all’istanza dell’Essere. In breve, per citare Lévinas, l’«Essere, senza lo spessore dell’ente, è la luce nella quale gli enti divengono intelligibili»25. Se per Marion a essere neutralizzata dall’ontologia è l’alterità di Dio che dovrebbe darsi al di fuori dell’Essere e di ogni discorso ontologico, ed è ridotta, viceversa, a idolo - «l’Essere qui neutralizza Dio in “Dio”» (Ied 275; 220)-, in Lévinas si tratta, invece, dell’alterità dell’Altro (Autre) che l’Essere, come Neutro, riduce a sé: «L’Altro può apparire come tale solo se nessuna istanza intermedia contrassegna lo scarto insondato che lo rende possibile; l’ontologia, che intende fin dal principio ogni evento come un ente, impedisce con ciò stesso il riconoscimento dell’Altro come tale» (Ied 275; 220). Lévinas, in breve, anticipa quella necessità di una rottura con Heidegger e con l’ontologia alla quale approda anche Marion nella sua esigenza speculativa. Il tema in Lévinas è quello dell’opposizione tra la metafisica e l’ontologia. La metafisica è il «desiderio dell’assolutamente Altro», essa «intende l’allontanamento, l’alterità e l’esteriorità dell’Altro»26. L’Altro è così «alterità, inadeguata all’idea»; perciò è anche l’«Altissimo» in quanto è ciò che si staglia nella «dimensione stessa dell’altezza», o l’«Invisibile»27 poiché è oltre il cielo stesso. Questo desiderio dell’Altro è quindi trascendenza, in un movimento infinito che percorre la distanza dell’alterità. Anche in Lévinas ricorre il tema della distanza, intesa come «separazione radicale» che non annulla l’alterità e impedisce, così, l’emergere della totalità: «La trascendenza con la quale il metafisico lo designa va sottolineata per il fatto che la distanza che essa esprime – a differenza di ogni distanza – entra nel modo di esistere dell’essere esteriore. La sua caratteristica formale – essere altro – ne è il contenuto. Così il metafisico e l’Altro non si totalizzano. Il metafisico è assolutamente separato»28. È proprio la distanza a custodire la separazione tra il metafisico e l’Altro, oppure tra il Medesimo e l’Altro. Essa determina tra i due termini una relazione o una corrispondenza che non può mai essere reversibile. L’irreversibilità, la non corrispondenza di un movimento dall’uno all’altro, impediscono il sistema, preservano la

25 26 27 28

E. Lévinas, Totalità e infinito, cit., p. 40. E. Lévinas, Totalità e infinito, cit., p. 33. E. Lévinas, Totalità e infinito, cit., p. 33. E. Lévinas, Totalità e infinito, cit., pp. 33-34.

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trascendenza e contrastano l’eventualità che la distanza tra i due termini sia percorsa in maniera esaustiva: «È una eventualità che non deve essere presa in considerazione: la separazione radicale tra il Medesimo e l’Altro, significa appunto che è impossibile situarsi al di fuori della correlazione del Medesimo e dell’Altro per registrare la corrispondenza o la non-corrispondenza di questa andata e di questo ritorno. In caso contrario, il Medesimo e l’Altro verrebbero ad essere riuniti sotto uno sguardo comune e la distanza assoluta che li separa sarebbe colmata»29. Eppure, la possibilità di colmarla sussiste, secondo Lévinas, come inscritta nel dimorare stesso dell’io nel mondo. A ben guardare, infatti, l’io si relaziona concretamente al mondo riducendolo a sé. La relazione tra io e mondo dovrebbe porsi come affermazione dell’alterità del mondo rispetto all’io: «Bisogna partire dalla relazione concreta tra un io e un mondo. Questo, estraneo e ostile, dovrebbe, logicamente, alterare l’io»30. Ma non è questa la relazione originaria tra l’io e il mondo. L’io si manifesta come il Medesimo proprio in quanto abita il mondo al fine di disporre di ogni cosa, al punto da percorrere la distanza con l’altro fino ad annullarla e a porre tutto sotto di sé: «Ora, la loro vera e originaria relazione, nella quale appunto l’io si rivela come il Medesimo per eccellenza, si produce come soggiorno nel mondo. Il modo dell’Io contro l’ “altro” del mondo consiste nel soggiornare, nell’identificarsi esistendo in esso come a casa propria»31. L’alterità del mondo è affermazione e identità di sé. Centrali, nella costruzione del Medesimo, divengono infatti il possesso e l’egoismo: «Tutto è qui, tutto mi appartiene»32. Ma tale possesso, col quale è annullata l’alterità, è anche possibilità di ridurre l’Altro a sé, com-prendendolo: «tutto è preso sin dal principio con la presa originaria di posizione, tutto è com-preso»33. Il Medesimo, egoismo che possiede l’alterità, dissolve l’Altro nella rappresentazione: «Per dirla correttamente, la relazione metafisica non potrebbe essere una rappresentazione, infatti l’Altro vi si dissolverebbe nel Medesimo: ogni rappresentazione si lascia essenzialmente interpretare come costituzione trascendentale»34. Qui si radica, perduta la distanza tra il Medesimo e l’Altro, un rapporto conoscitivo che inevitabilmente oppone il conoscente e il conosciuto fino a disperdere quest’ultimo. Il Medesimo non pensa o non conosce l’Altro, ma continua a riflettere se stesso. Nell’Altro il Medesimo pensa o conosce solamente sé. 29 30 31 32 33 34

E. Lévinas, Totalità e infinito, cit., p. 34. E. Lévinas, Totalità e infinito, cit., p. 34. E. Lévinas, Totalità e infinito, cit., p. 35. E. Lévinas, Totalità e infinito, cit., p. 36. E. Lévinas, Totalità e infinito, cit., p. 36. E. Lévinas, Totalità e infinito, cit., p. 36.

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La teoria, in questo caso, non è un sapere dell’Altro. È, invece, «intelligenza – logos dell’essere», una maniera di conoscere che annulla ogni alterità: «Ma teoria significa anche intelligenza – logos dell’essere – cioè un modo tale di affrontare l’essere conosciuto che la sua alterità rispetto all’essere conoscente svanisce»35. L’interesse di Lévinas è diretto a porre in luce la struttura che consente al Medesimo di ridurre a sé l’Altro. Essa ruota sempre intorno a un terzo termine tra l’essere conoscente e l’essere conosciuto che, per usare un linguaggio marioniano, è intenzionato nella mira verso l’essere conosciuto. Si tratta di un «termine neutro», che permette all’essere conoscente di relazionarsi all’essere conosciuto, col risultato però di vanificarlo: «Questo modo di privare l’essere conosciuto della sua alterità può attuarsi solo se è intenzionato attraverso un terzo termine – termine neutro – che a sua volta non è un essere»36. Tale termine medio o neutro risulta necessario all’io per mitigare l’impatto che esso ha nell’incontro con l’alterità: «In esso finirebbe con l’attutirsi lo choc dell’incontro tra il Medesimo e l’Altro»37. Mediazione e neutralità sono ciò a cui mirano le varie figure che nella filosofia - «La filosofia è un’egologia»38 - il terzo termine ha assunto: il «concetto pensato», come generalità alla quale è subordinata l’individualità che così risulta pensabile; la «sensazione» che confonde affezione e proprietà oggettiva dei corpi; in ultimo, come «essere distinto dall’ente». In breve, l’Essere come un terzo termine che rinvia, in qualità di «luce nella quale gli enti divengono intelligibili», alla teoria come «intelligenza – logos dell’essere», e, più in generale, all’ontologia: «Alla teoria come intelligenza degli esseri conviene il titolo generale di ontologia»39. Non solamente un’«egologia», la filosofia è stata nel suo corso storico niente di meno che un’ontologia: «La filosofia occidentale è stata per lo più un’ontologia: una riduzione dell’Altro al Medesimo, in forza dell’interposizione di un termine medio e neutro che garantisce l’intelligenza dell’essere»40. L’opposizione tra metafisica e ontologia è chiara. Mentre la metafisica, desiderio dell’Altro, informa di sé una relazione con l’alterità in virtù della quale «l’essere conoscente lascia che l’essere conosciuto si manifesti rispettando la sua alterità»41, l’ontologia afferma invece la libertà del 35 36 37 38 39 40 41

E. Lévinas, Totalità e infinito, cit., p. 40. E. Lévinas, Totalità e infinito, cit., p. 40. E. Lévinas, Totalità e infinito, cit., p. 40. E. Lévinas, Totalità e infinito, cit., p. 42. E. Lévinas, Totalità e infinito, cit., p. 42. E. Lévinas, Totalità e infinito, cit., p. 41. E. Lévinas, Totalità e infinito, cit., p. 40.

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La misura dell’umano

Medesimo a ridurre a sé e a neutralizzare l’Altro, imboccando una via «che rinuncia al Desiderio metafisico, alla meraviglia dell’esteriorità, di cui vive questo Desiderio»42. Ma l’opposizione implica scelta e perciò affermazione dell’una o dell’altra. Poiché la metafisica «mette in questione l’esercizio del Medesimo», è, anzi, messa «in questione del Medesimo da parte dell’Altro», Lévinas non ha alcun dubbio circa il primato da accordare alla metafisica: «E come la critica precede il dogmatismo, la metafisica precede l’ontologia»43. È in questo contesto che si consumano la critica e l’opposizione ad Heidegger. La filosofia di Heidegger è affermazione del primato dell’ontologia. L’Essere ha priorità sull’ente, è orizzonte che illumina l’ente: «Già in partenza, Heidegger pone questo sfondo dell’essere come orizzonte in cui sorge ogni ente»44. Prima della relazione con l’ente (altro, alterità), è posta la relazione con l’Essere, rapporto impersonale garantito da un neutro che rende possibili il possesso, la riduzione e la neutralizzazione dell’alterità: «Affermare la priorità dell’essere rispetto all’ente significa già pronunciarsi sull’essenza della filosofia, subordinare la relazione con qualcuno che è un ente (la relazione etica) a una relazione con l’essere dell’ente che, impersonale, consente il possesso, il dominio dell’ente (a una relazione di sapere), subordina la libertà alla giustizia»45. Poiché l’ontologia ha primato, essa è in Heidegger «filosofia prima» come «filosofia della potenza», che accorda preminenza al potere e al possesso. L’anteriorità del rapporto con l’Essere mira a vanificare l’ente per impadronirsene: «La relazione con l’essere, che si esplica come ontologia, consiste nel neutralizzare l’ente per comprenderlo o impossessarsene. Non è quindi una relazione con l’altro in quanto tale, ma la riduzione dell’Altro al Medesimo»46. Filosofia che non critica né il Medesimo né l’esercizio del suo potere, l’ontologia come «filosofia prima» non è solamente «filosofia della potenza», ma anche una «filosofia dell’ingiustizia», affermazione della libertà del Medesimo che subordina gli altri e infrange la giustizia: «L’essere prima dell’ente, l’ontologia prima della metafisica – cioè la libertà […] prima della giustizia. È un movimento nel Medesimo prima dell’obbligo nei confronti dell’Altro»47. Contro il primato dell’ontologia che Heidegger 42 43 44 45 46 47

E. Lévinas, Totalità e infinito, cit., p. 40. E. Lévinas, Totalità e infinito, cit., p. 41. E. Lévinas, Totalità e infinito, cit., p. 66. E. Lévinas, Totalità e infinito, cit., p. 43. E. Lévinas, Totalità e infinito, cit., p. 43. E. Lévinas, Totalità e infinito, cit., p. 43. È qui sottintesa una profonda critica alla ragione totalitaria: «La critica alla linea di fondo della filosofia occidentale si pre-

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afferma, Lévinas rivendica allora l’esigenza (etica) di una presa di distanza da una filosofia che neutralizza l’Altro. L’opposizione diviene radicale: «Ci opponiamo dunque radicalmente anche ad Heidegger che subordina all’ontologia il rapporto con Altri […], invece di vedere nella giustizia e nell’ingiustizia una via d’accesso originale ad Altri, al di là di qualsiasi ontologia»48. Più in generale si tratta soprattutto dell’opposizione a una filosofia che nell’Essere individua quel Neutro impersonale, senza volto, che neutralizza l’alterità, blocca e vanifica ogni Desiderio metafisico di trascendenza al punto da annientarlo nel materialismo. Esso, infatti, non consiste nell’egemonia del sensibile, ma in quella del Neutro: «Il materialismo non sta nella scoperta della funzione primordiale della sensibilità, ma nel primato del Neutro»49. Per questo la filosofia di Heidegger è un «materialismo vergognoso» poiché antepone l’Essere all’ente: «Situare il Neutro dell’essere al di sopra dell’ente che questo essere determinerebbe in qualche modo a sua insaputa, situare i fatti essenziali all’insaputa degli enti – significa professare il materialismo. L’ultima filosofia di Heidegger diventa questo materialismo vergognoso»50. L’opposizione ad Heidegger si traduce allora nella necessità di un ribaltamento dell’ontologia e della filosofia del Neutro che essa implica. Il rapporto con la filosofia di Heidegger si inscrive così nell’inversione stessa della relazione tra la metafisica e l’ontologia. Detto altrimenti, se «la metafisica precede l’ontologia», si deve far valere contro Heidegger un rovesciamento (inversion) tra il Medesimo e l’Altro. «Si devono invertire i termini»51 a partire dalla loro distanza. Non vi è primato dell’Essere sull’ente. Semmai l’ente è anteriore all’Essere: «La relazione con un essere infinitamente distante – cioè che va al di là della sua idea – è tale che la sua autorità di ente è già invocata in ogni problema che noi possiamo porci sul

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senta quindi, in quest’opera, soprattutto come critica all’idea di totalità, acquisendo una portata non solo ontologico-gnoseologica, ma storico-politica. La ragione totalitaria finisce infatti – ad avviso di Levinas – per concretarsi nella elevazione della storia universale a giudizio inappellabile dell’operato dei singoli, nella considerazione della guerra come strumento risolutivo del confronto politico, ed infine nella giustificazione di tutti i regimi totalitari» (G. Ferretti, op. cit., pp. 102-103). E. Lévinas, Totalità e infinito, cit., p. 88. E. Lévinas, Totalità e infinito, cit., p. 307. E. Lévinas, Totalità e infinito, cit., p. 307. Cfr. il commento in nota di Marion a questo passo: «Definire, però, “materialismo” il pensiero heideggeriano sembra tanto più sorprendente in quanto Heidegger determina l’essenza del materialismo a partire dalla metafisica» (Ied 317; 252, nota n. 17). E. Lévinas, Totalità e infinito, cit., p. 45.

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La misura dell’umano

significato del suo essere»52. Ciò significa «l’anteriorità filosofica dell’ente sull’essere»53, che «la relazione con un ente – precede ogni ontologia»54. Secondo Marion, Lévinas ha il merito di individuare nell’ontologia la neutralizzazione dell’Altro (Autrui). L’Essere come Neutro, infatti, neutralizza l’Altro in due sensi. Innanzi tutto, l’Altro non si relaziona a me direttamente, ma attraverso l’Essere, perciò mi si rivolge in qualità di ente. Scrive, infatti, Marion: «[…] L’Altro non mi chiama più standomi di fronte, ma è come se fosse a lato, mi mostra solo la sua relazione con l’Essere» (Ied 276; 220). Secondariamente, l’Altro, in quanto si è riferito all’Essere, mi è di fronte come oggetto di conoscenza. Invece di incontrarmi, è l’oggetto del mio conoscere: «Poi l’Altro, riconsiderato nella sua relazione che si è incurvata verso l’Essere, diventa un oggetto della mia conoscenza, nella misura in cui entra in relazione con il Neutro stesso (l’Essere): invece di invitarmi ad un incontro, subisce l’invito a essere conosciuto che gli posso rivolgere» (Ied 276; 220-221). Ciò che dunque viene a mancare è un’apertura all’Altro. Marion constata come sia proprio la necessità di questa apertura a rivendicare la relazione etica. Qui entra in gioco la distanza, nozione che Marion ritrova in Lévinas: «E. Lévinas chiama talora, correttamente, questa apertura, distanza» (Ied 276; 221). È la distanza che permette di svincolarsi dal possesso manifestando la possibilità di instaurare una relazione diversa con l’Altro. Ciò che dunque essa concede è una relazione con l’Altro, al di là dell’ontologia e della differenza ontologica: «La distanza apre l’accesso senza condizioni né riserve all’Altro, a Dio al di là da ogni ontologia» (Ied 277; 221). In quanto apertura all’Altro, la distanza è liberazione dalla differenza ontologica, fuoriuscita dal potere e dall’egoismo del Medesimo, in ultimo, ripristino dell’etica: «Così la distanza si libererebbe dalla differenza ontologica, e l’ingiunzione etica avrebbe la meglio sulla cura dell’Essere» (Ied 277; 221). Il problema è tuttavia quello di chiarire il senso che il superamento della differenza ontologica assume nel pensiero lévinasiano. Lévinas allude chiaramente alla differenza ontologica, quando la identifica con il termine neutro attraverso il quale l’io e l’Altro si devono relazionare. Il terzo termine tra l’essere conoscente e l’essere conosciuto, scrive Lévinas, si manifesta «come l’essere distinto dall’ente»55. L’ontologia differenzia l’Essere, in quanto orizzonte, dall’ente. Perciò mi obbliga a relazionarmi all’Altro attraverso l’Esse-

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E. Lévinas, Totalità e infinito, cit., p. 45. E. Lévinas, Totalità e infinito, cit., p. 49. E. Lévinas, Totalità e infinito, cit., p. 45. E. Lévinas, Totalità e infinito, cit., p. 40.

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re (Neutro) così da ridurlo a ente entro una disponibilità grazie alla quale il Medesimo può affermare il suo potere. Entro la differenza, il primato è tutto dell’Essere al quale continuamente l’ente rinvia. Sebbene Lévinas colga correttamente il gioco dell’Essere e dell’ente, secondo Marion però non vi fuoriesce. Se la relazione tra me e l’Altro si incurva continuamente sull’Essere, la distanza, come apertura all’Altro, non ne abolisce la differenza come tale per andarne al di là. Si limita soltanto a rovesciare o invertire il primato di uno dei due termini che la costituiscono. Se l’ontologia pone l’Essere prima dell’ente, allora «si devono invertire i termini»56, scrive infatti Lévinas. Più che una messa fuori gioco della differenza, Lévinas opererebbe un sovvertimento del gioco, un contro movimento che la lascia formalmente inalterata limitandosi a invertire il primato dei termini che la compongono. La questione non sarebbe la differenza in sé, come tale, ma il primato dell’Essere (Neutro) sull’ente. Il problema per Lévinas è allora quello di rovesciare la relazione tra ontologia e metafisica, tra libertà e giustizia, tra Essere e ente per continuare ad affermare però il primato di un termine sull’altro. Non è posta come tale l’esigenza di rinunciare a un primato, a una «filosofia prima», ma quella di abolire la «filosofia del Neutro», annullare il rinvio all’impersonalità, la curvatura all’Essere senza volto. Il superamento della differenza ontologica si attua rovesciando la relazione tra Essere e ente. Se nell’ontologia l’Essere è prima dell’ente, la metafisica è invece il primato dell’ente sull’Essere. La precedenza nel rapporto tra ontologia e metafisica condiziona così quella del rapporto (differenza) tra Essere e ente. Così, se «l’ontologia presuppone la metafisica»57, «l’anteriorità filosofica» deve essere «dell’ente sull’essere»58. Lévinas dunque non supera la differenza ontologica, ma la rovescia. Scrive infatti Marion: «Evidentemente, il privilegio, passando dall’Essere all’ente, consacra la preminenza di questo, come Altro, solo rovesciando la differenza ontologica, quindi consacrandola» (Ied 278; 222). Ciò significa che Lévinas non rompe davvero con l’ontologia e con l’Essere. Il rischio è allora duplice. Innanzi tutto, la rivendicazione dell’ente a discapito dell’Essere non esime dal rischio di ricadere nell’ontoteologia. L’Essere come condizione dell’apparire dell’Altro (Dio) non viene definitivamente oltrepassato e abbandonato, ma resta sullo sfondo, potenzialmente dannoso, sebbene subalterno all’affermazione dell’ente. Si tratta di una ambiguità perniciosa: «[…] la condizione che l’Essere impone al divino/Altro non scompare se per controbatterla ci si appoggia semplicemente a un ente 56 E .Lévinas, Totalità e infinito, cit., p. 45. 57 E. Lévinas, Totalità e infinito, cit., p. 45. 58 E. Lévinas, Totalità e infinito, cit., p. 49.

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simile» (Ied 278; 222). Secondariamente, la denominazione stessa dell’Altro è inficiata dal linguaggio stesso dell’ontologia, l’Altro è ente. Il tentativo di apertura verso l’alterità rischia di chiudersi su se stesso e di ruotare sul Medesimo. Il mantenimento del linguaggio dell’ontologia è evidente indice del suo mancato superamento. Lévinas, insomma, resta all’interno di quella differenza ontologica che vorrebbe superare. Invece di andare al di là dell’Essere e dell’ente, pone in atto un loro ribaltamento che rinvia ancora al gioco proprio della differenza, a quell’Austrag, divergenza o deferimento, che secondo Heidegger costituisce la sostanza della differenza come tale. Il rinvio all’Altro, il privilegio che il Desiderio gli accorda, restano allora ancora sotto la condizione della differenza e del suo gioco, poiché l’Altro è ente, nonostante abbia primato sull’Essere. Ma in questo senso, nota Marion, è ben difficile sbarazzarsi dell’ontologia. Lévinas non si accorge che «l’ente non sfugge mai così poco al diporto dell’Essere come quando pretende di disfarsene con un ultimo salto» (Ied 279; 222). Perciò non è con il rovesciare i termini della differenza che si fuoriesce dall’ontologia: «In una parola, la sporgenza dell’ente sull’essere non basta assolutamente a portarsi dall’ontologia verso l’Altro, perché questa sporgenza presuppone, ancora e a suo modo, la differenza ontologica» (Ied 278; 222). Posto in evidenza ciò, Marion può marcare la propria posizione rispetto a Lévinas sul tema della differenza. L’esito del pensiero di Lévinas sulla differenza è l’aporia. Essa si manifesta nella contemporaneità di un’esigenza, quella di superarla, e del suo (apparente) fallimento. Apparente, poiché, secondo Marion, dietro alla lettera dello scritto di Lévinas, alla messa in discussione dell’ontologia e della filosofia di Heidegger, in filigrana, ad alimentarne la controversia, vi è lo spirito della rivelazione ebraica di Gerusalemme che rinnova così la sua antica disputa con Atene. Tuttavia la tensione di un superamento della differenza si rovescia in quel testo nel suo mantenimento. Lungi dall’essere risultato negativo di un’indagine, l’aporia, soprattutto in questo caso, dischiude però nuove possibilità di pensiero. L’aporia, cioè, obbliga il pensiero, mentre la ristruttura e la ripercorre, a domandare ancora e diversamente. L’aporia sprona a ripercorrere la traccia seguita, a riformulare il percorso seguito, guida il pensiero consapevole dell’esito irrisolto cui è approdato nel corso della ricerca. Nel caso della differenza ontologica nel pensiero di Lévinas, Marion riformula, attraverso più domande, l’aporia in questione. Innanzi tutto, l’aporia consiste nel fatto che l’Altro è sì ente, ma il suo primato rispetto all’Essere trova significato in una dimensione etica che, appunto, eccede l’ontologia: «l’ente non dipende uniformemente dall’Essere, in quanto l’Altro e la sua giustizia etica trascendono il Neutro ontologico;

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non si tratta però di rovesciare la differenza ontologica a beneficio di un primato dell’ente sull’Essere» (Ied 279; 223). Secondariamente, l’aporia consiste anche nel rapporto che la distanza (apertura) intrattiene con la differenza ontologica. La distanza, come tale, non è la differenza, eppure sembra non negarla: «O ancora: la distanza non si confonde con la differenza ontologica, ma non la confuta, né, infine, la rifiuta» (Ied 279; 223). 6. Marginalizzazione (Derrida) della differenza ontologica Il domandare, suscitato dall’aporia, indica allora l’impossibilità di uscire dalla differenza rovesciando i termini che la costituiscono (Lévinas), più in generale l’impossibilità di uscirne privilegiando l’uno all’altro. Con ciò, l’aporia in questione precisa che la differenza sarà oltrepassata non attraverso un ribaltamento dei suoi elementi, ma innanzi tutto del loro gioco, del suo stesso gioco. Si tratta, allora, di sconfinare dai limiti, anche linguistici, che essa impone. Liberarsi dalla differenza ontologica significherebbe abbandonare i suoi stessi termini non accordando loro alcun privilegio. La differenza ontologica rimarrebbe, ma come oltrepassata a partire da un altro «piano di differenza», ove altre differenze finirebbero per relativizzare e condizionare l’Essere e l’ente. Essa perderebbe così il suo stesso primato e la sua anteriorità, col risultato di apparire come una delle tante differenze che orientano il pensiero, senza però esserne l’unica e originaria condizione: «Avremmo sempre la differenza ontologica, ma come trascesa» (Ied 280; 223). Si tratterebbe di un vero e proprio «passo indietro» con il quale la differenza ontologica perderebbe la propria preminenza a favore di un’altra differenza, anteriore ad essa e tale da relativizzarla. Un tale movimento, secondo Marion, è quello che ha compiuto proprio Derrida rendendosi conto che nella differenza ontologica «differisce un’altra differenza» (Ied 280; 223). Si tratta della différance59, discussa da Derrida nella celebre conferenza del 27 gennaio del 1968 presso la Società francese di filosofia60. 59 Come osserva M. Vergani, Derrida in quell’occasione introdusse così il neologismo più noto della sua filosofia, «la différance o “dif-ferenza”; parola intraducibile perché intende appunto far riferimento alla disseminazione costitutiva del senso» (M. Vergani, Jacques Derrida, Bruno Mondadori, Milano 2000, p. 37). Sulla scelta di tradurre in italiano différance con «dif-ferenza» nelle traduzioni italiane, cfr. M. Vergani, op. cit., p. 37, nota n. 29. 60 È la celebre conferenza La différance in J. Derrida, Marges de la philosophie, Éditions de Minuit, Paris 1972, tr. it Margini della filosofia, Einaudi, Torino 1997.

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La misura dell’umano

Come è noto, in quell’occasione Derrida avvia la sua indagine su ciò che chiama différance, che non è «alla lettera, né una parola né un concetto»61, poiché è, piuttosto, una «differenza grafica» con la quale si sostituisce alla lettera e del francese différence, la lettera a, che in quanto sfugge alla dimensione della voce, «rimane silenziosa, segreta e discreta come una tomba»62. La differenza tra la a e la e si sottrae perciò all’ascolto, alla dimensione sensibile. Essa rinvia allora a un assetto diverso dal sensibile che non conviene però neppure all’intellegibile e rimanda, invece, a un «ordine che resiste all’opposizione fondativa della filosofia, tra il sensibile e l’intellegibile». Si tratta di un ordine che «si annuncia in un movimento di différance (con la a) tra due differenze o tra due lettere, différance che non appartiene né alla voce né alla scrittura»63. Certo, ammette Derrida, trattare della différance, o meglio della sua lettera a, non è semplice. Non è possibile, infatti, una «esposizione» della dif-ferenza, poiché essa né si manifesta né si mostra, non è cioè presenza poiché, all’inverso, se essa «rende possibile la presentazione dell’essente presente», «non si presenta mai come tale»64. In questo senso, la dif-ferenza «non è, non esiste, non è un essente-presente (on), quale che sia»65. Sotto questo profilo, osserva Derrida, il discorso sulla différance potrebbe essere simile a quello della teologia negativa proprio perché pare che essa «non ricade [relève] sotto nessuna categoria dell’ente, sia esso presente o assente»66. Ma si tratta soltanto di una somiglianza, poiché il discorso sulla différance non ha nelle intenzioni di Derrida pretese teologiche. Una teologia negativa, infatti, mira pur sempre ad affermare Dio attraverso la negazione di ogni enunciazione finita. L’ineffabilità del divino è indice della superiorità dell’infinito sul finito. Non gli possono essere attribuiti predicati, poiché infinito, cioè riconosciuto come al di sopra dell’essere (finito). Ma, osserva Derrida, tale tesi rimane ancora nell’ambito di una ontologia e di una teologia. La teologia negativa, insomma, «si è sempre, come è noto, sforzata di aprire il varco ad una sopra-essenzialità oltre le categorie finite dell’essenza e dell’esistenza, cioè della presenza, e s’affretta sempre a ricordare che se il predicato dell’esistenza è rifiutato a Dio, ciò avviene per riconoscergli un modo d’essere superiore, inconcepibile, ineffabile»67. Il discorso sulla 61 62 63 64 65 66 67

J. Derrida, Margini della filosofia, cit., pp. 29-30. J. Derrida, Margini della filosofia, cit., p. 30. J. Derrida, Margini della filosofia, cit., p. 32. J. Derrida, Margini della filosofia, cit., p. 32. J. Derrida, Margini della filosofia, cit., p. 32. J. Derrida, Margini della filosofia, cit., p. 32. J. Derrida, Margini della filosofia, cit., pp. 32-33.

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Differenza e donazione

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différance, dunque, può solo assomigliare a una teologia negativa, ma ne è profondamente diverso. Ciò perché la différance, piuttosto che ricascare nell’ontologia e nella teologia (ontoteologia), rinvia a un ordine che «resiste all’opposizione fondativa della filosofia, tra il sensibile e l’intellegibile», annunciandosi «in un movimento» che inaugura lo spazio e la storia della filosofia: «La différance è non solo irriducibile a ogni riappropriazione ontologica o teologica – onto-teologica – ma, aprendo anzi lo spazio nel quale l’onto-teologica – la filosofia – produce il suo sistema e la sua storia, essa la comprende, la inscrive e la eccede una volta per tutte»68. Ciò significa, allora, che il discorso sulla dif-ferenza non può pretendere legittimità a partire da un principio (ἀρχή) dal quale deduttivamente si possa fondare l’argomentazione, come se la différance fosse inscritta entro il discorso filosofico, poiché invece essa lo inaugura e lo eccede: «la problematica della scrittura si apre con la messa in questione del valore di arché. Ciò che proporrò qui non si svilupperà dunque semplicemente come un discorso filosofico, che opera a partire da un principio, da dei postulati, degli assiomi o delle definizioni e si svolge secondo la linearità discorsiva di un ordine di ragioni»69. Ma ciò non costituisce un rovesciamento del discorso filosofico a favore di un una posizione di tipo empirico: «Se c’è una certa erranza nel tracciamento della différance, essa non segue la linea del discorso filosofico-logico più di quella del suo rovescio simmetrico e solidale, il discorso empirico-logico»70. Il discorso sarà, invece, «strategico e avventuroso», a indicare, da un lato, l’assenza di una qualsivoglia «verità trascendente» che imponga unità teologica al tutto, e, dall’altro, la mancanza di qualsiasi finalità. Poiché «strategico e avventuroso», il discorso sarà dunque una vera e propria strategia finalmente senza «finalità, si potrebbe chiamarla tattica cieca, erranza empirica»71. Più che all’opposizione logico/empirico, il discorso sulla différance, la strategia e l’avventura, l’erramento e la tattica, alludono al gioco che «sta al di là di questa opposizione, esso annuncia, alla vigilia [veille] della filosofia e al di là di essa, l’unità del caso e della necessità in un calcolo senza fine»72. Sebbene la dif-ferenza non sia «né una parola né un concetto», Derrida ne tenta comunque una analisi di tipo semantico. La strategia, qui, è quella di iniziare «strategicamente, dal luogo e dal tempo in cui “noi” siamo»73. Il 68 69 70 71 72 73

J. Derrida, Margini della filosofia, cit., p. 33. J. Derrida, Margini della filosofia, cit., p. 33. J. Derrida, Margini della filosofia, cit., p. 33. J. Derrida, Margini della filosofia, cit., p. 33. J. Derrida, Margini della filosofia, cit., p. 33. J. Derrida, Margini della filosofia, cit., p. 34.

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La misura dell’umano

verbo francese différer (differire) rinvia al latino differre (rinviare, distinguersi) che, secondo Derrida, non è il semplice calco del greco διαφέρειν. Quest’ultimo, infatti, manca di uno dei due sensi propri del differre latino. Si tratta del differire come rinviare, rimandare ad altro tempo, più in generale a quei concetti che si possono, secondo Derrida, inscrivere nel termine «temporeggiamento» (temporisation): «Differire, in questo senso, è temporeggiamento, è ricorrere, coscientemente o incoscientemente, alla mediazione temporale e temporeggiatrice di una deviazione che sospende il compimento o il riempimento del “desiderio” o della “volontà”, e che parimenti li effettua in un modo che ne annulla o tempera l’effetto»74. Poi vi è l’altro senso del differire, inteso come il «non essere identico, essere altro». In questo caso il differire, osserva Derrida, giocando con l’omofonia tra différent e différend (dissidio, opposizione, disaccordo), produce dei différent(t)(d)s, differenti che sono dissidi, opposti in disaccordo, elementi di una contesa che rinviano al dissidio stesso come πόλεμος. Qui la différance è piuttosto «spaziamento» (espacement): «bisogna comunque che, attivamente, dinamicamente, e con una certa perseveranza nella ripetizione, tra gli elementi altri si produca intervallo, distanza, spaziamento»75. Secondo Derrida, allora, la différance è il tentativo di mantenere questi sensi che sono perduti nella parola différence. Essa, infatti, «non ha mai potuto rinviare né al differire come temporeggiamento né al dissidio [différend] come polemos»76. La dif-ferenza è dunque «irriducibilmente polisemica». Anche perché la sua a deriva dal participio presente différant, conservandone l’attività. Ciò significa che la a della différance rinvia a quell’«azione del differire nel corso del suo svolgimento» che produce successivamente differenti e differenze, un differire come un tenere-a-distanza77. Da questo punto di vista, se si usasse un linguaggio metafisico, la différance nominerebbe «la causalità costituente, produttrice e originaria, il processo di scissione e di divisione di cui i differenti o le differenze sarebbero i prodotti o gli effetti costituiti»78. Tuttavia, il linguaggio metafisico resta fuorviante. In ogni caso, l’analisi semantica della différance permette di coglierla come temporeggiamento e come spaziamento. Si tratta allora di individuare proprio il loro collegamento. Esso rimanda, secondo Derrida, alla «pro74 75 76 77

J. Derrida, Margini della filosofia, cit., p. 34. J. Derrida, Margini della filosofia, cit., p. 35. J. Derrida, Margini della filosofia, cit., p. 34. Cfr. C. Sini, Identità e differenza nella filosofia francese contemporanea, in V. Melchiorre (a cura di), La differenza e l’origine, Vita e Pensiero, Milano 1987, p. 380. 78 J. Derrida, Margini della filosofia, cit., p. 35.

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Differenza e donazione

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blematica semiologica», alla semiologia di Saussure. Ma prima Derrida si sofferma a precisare il rapporto tra segno e différance e le sue implicazioni. Il segno, come tale, stat pro aliquo, «si mette al posto della cosa stessa, della cosa presente»79, quando essa non è presente. «Quando non possiamo prendere o mostrare la cosa, cioè il presente, l’essente-presente», con il segno noi rappresentiamo quella presenza nella sua assenza: «il segno sarebbe dunque la presenza differita»80. La semiologia classica pensa la significazione come un differire la presenza. Certo la différance si darebbe come temporeggiamento, ma sotto il primato della presenza stessa, condizione di partenza e di arrivo del movimento stesso del differire: «Ciò che descrivo qui per definire, nella banalità dei suoi tratti, la significazione come différance di temporeggiamento, è la struttura del segno determinata in modo classico: essa presuppone che il segno, differendo la presenza, non sia pensabile che a partire dalla presenza che esso differisce e in vista della presenza differita di cui si mira a riappropriarsi»81. In tal caso, cioè, la différance sarebbe solo il movimento del differire circoscritto dalla presenza, nel quadro di una priorità della cosa, dell’«essente-presente», che rendono la significazione e il segno sempre secondari e provvisori. Ora, secondo Derrida, si tratterebbe proprio di mettere in discussione questa subalternità della différance al segno inteso classicamente come «rappresentazione di una presenza», «costituito in un sistema (pensiero o lingua) regolato a partire e in vista della presenza»82. Soprattutto, sarebbe problematizzata la presenza stessa e posta in discussione la costrizione di indagare «il senso dell’essere» a partire dall’ente come presenza: «Si interroga così il limite che ci ha sempre costretti, che sempre ci costringe – costringe noi, gli abitanti di una lingua e di un sistema di pensiero – a formare il senso dell’essere in generale come presenza o assenza, nelle categorie dell’ente o dell’enticità (ousia)»83. Derrida riconosce così che la différance, proprio in quanto mette in questione la presenza, riconduce a Heidegger. Sicuramente al tema del «dominio tradizionale e metafisico del presente» e, solamente in apparenza, alla differenza ontologica: «Appare già che il tipo di questione a cui siamo ricondotti è, diciamo, quello heideggeriano, e la différance sembra riportarci alla differenza ontologica»84. Prima di affrontare il rapporto con Heidegger e la differenza ontologica, Derrida 79 80 81 82 83 84

J. Derrida, Margini della filosofia, cit., p. 36. J. Derrida, Margini della filosofia, cit., p. 36. J. Derrida, Margini della filosofia, cit., p. 36. J. Derrida, Margini della filosofia, cit., p. 36. J. Derrida, Margini della filosofia, cit., p. 37. J. Derrida, Margini della filosofia, cit., p. 37.

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La misura dell’umano

torna sulla semiologia di Saussure, poiché resta ancora da cogliere il collegamento tra temporeggiamento e spaziamento. Ciò che del fondatore della semiologia interessa a Derrida sono soprattutto due caratteri fondamentali del segno, quello arbitrario e quello differenziale: «Ora Saussure è innanzi tutto colui che ha posto l’arbitrarietà del segno e il carattere differenziale del segno a fondamento della semiologia generale, in particolare della linguistica»85. Il segno, come tale, è arbitrario, cioè, scriveva Saussure: «il legame che unisce il significante al significato è arbitrario, o ancora, poiché intendiamo con segno il totale risultante dall’associazione di un significante a un significato, possiamo dire più semplicemente: il segno linguistico è arbitrario»86. La conseguenza dell’arbitrarietà del segno è anche il suo carattere differenziale, poiché se c’è arbitrarietà, se non vi sono idee o concetti positivi, «dati preliminarmente»87, che le parole devono riprodurre, la significazione emerge dal rapporto e dalla differenza che il segno, il significato e il significante hanno con gli altri segni, significati e significanti88. La 85 J. Derrida, Margini della filosofia, cit., p. 37. Derrida discute soprattutto il capitolo quarto della seconda parte del Corso di linguistica generale di Saussure. 86 F. de Saussure, Cours de linguistique générale, Payot, Paris 1962, tr. it Corso di linguistica generale, Laterza, Bari 1968, pp. 85-86. 87 «Se le parole fossero incaricate di rappresentare dei concetti dati preliminarmente, ciascuna avrebbe, da una lingua all’altra, dei corrispondenti esatti per il senso; ma non è affatto così» (F. de Saussure, Corso di linguistica generale, cit., p. 141). 88 «In tutti questi casi scopriamo, dunque, non idee date preliminarmente, ma valori promananti dal sistema. Quando si dice che essi corrispondono a dei concetti, si sottintende che questi sono puramente differenziali, definiti non positivamente mediante il loro contenuto, ma negativamente, mediante il loro rapporto con gli altri termini del sistema. La loro più esatta caratteristica è di essere ciò che gli altri non sono» (F. de Saussure, Corso di linguistica generale, cit., p. 142). Saussure, qualche pagina prima, aveva precisato che il ruolo della lingua non è appunto quello di dare una materialità che esprima un’idea, ma piuttosto quello di delimitare e decomporre unità di pensiero e suono: «Il ruolo caratteristico della lingua di fronte al pensiero non è creare un mezzo fisico materiale per l’espressione delle idee, ma servire da intermediario tra pensiero e suono, in condizioni tali che la loro unione sbocchi necessariamente in delimitazioni reciproche di unità. Il pensiero, caotico per sua natura, è forzato a precisarsi decomponendosi» (F. de Saussure, Corso di linguistica generale, cit., p. 137). Per esprimere tale idea, Saussure faceva riferimento all’analogia del foglio di carta: «La lingua è paragonabile a un foglio di carta; il pensiero è il recto ed il suono è il verso; non si può ritagliare il recto senza ritagliare nello stesso tempo il verso; similmente nella lingua, non si potrebbe isolare né il suono dal pensiero né il pensiero dal suono; non vi si potrebbe giungere che per un’astrazione il cui risultato sarebbe fare della psicologia pura o fonologia pura» (F. de Saussure, Corso di linguistica generale, cit., p. 137). Da cui la differenza, secondo R. Barthes, tra la significazione, processo che unendo un significato e un significante produce un segno, e il valore: «Per rendere conto del

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conclusione saussuriana, peraltro citata da Derrida, è chiara: «nella lingua non vi sono se non differenze. Di più: una differenza suppone in generale dei termini positivi tra i quali si stabilisce; ma nella lingua non vi sono che differenze senza termini positivi. Si prenda il significante o il significato, la lingua non comporta né delle idee né dei suoni che preesistano al sistema linguistico, ma soltanto delle differenze concettuali e delle differenze foniche uscite da questo sistema. Ciò che vi è di idea o di materia fonica in un segno importa meno di ciò che vi è intorno ad esso negli altri segni»89. A ciò occorrerebbe aggiungere, di passaggio, anche la constatazione saussuriana per la quale, se non vi sono che differenze, «la lingua è una forma e non una sostanza»90. Ma è altrettanto chiara la conclusione che ne trae Derrida. Se nella lingua non vi sono che differenze e forma, il significato (concetto) non può rimandare a se stesso, «non è mai presente a se stesso», ma è inserito in una serie entro la quale rinvia sempre ad altri concetti «per gioco sistematico di differenze»91. E non è dunque possibile che si dia, inoltre, un concetto (significato) indipendente da un significante, un «concetto significato in se stesso, nella sua semplice presenza al pensiero, nella sua indipendenza rispetto alla lingua, e cioè rispetto a un sistema di significanti»92. Un concetto siffatto sarebbe quello che Derrida chiama «significato trascendentale»93. La differenza di Saussure non è dunque un concetto, poiché essa è piuttosto la condizione (il gioco, la forma) del sistema stesso. Ma neppure può essere parola presente. Se essa non è dunque «né un concetto né una parola fra le altre»94, altrettanto e ancora di più si deve affermare della différance. E se «nel sistema della lingua, non ci sono che differenze», che giocano e

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duplice fenomeno di significazione e di valore, Saussure ricorreva all’immagine di un foglio di carta: tagliandola si ottengono da un alto diversi pezzi (A, B, C), ciascuno dei quali ha un valore in rapporto a quelli vicini, e dall’altro lato ciascuno di questi pezzi ha un recto e un verso, che sono stati tagliati nello stesso tempo (AA’, B-B’, C-C’): è la significazione» (R. Barthes, Elementi di semiologia, Einaudi, Torino 1966, p. 51-52). F. de Saussure, Corso di linguistica generale, cit., p. 145. F. de Saussure, Corso di linguistica generale, cit., pp. 147-148. J. Derrida, Margini della filosofia, cit., p. 38. J. Derrida, Positions, Éditions de Minuit, Paris 1972, tr. it. Posizioni, Bertani, Verona 1975, p. 57. «Un significato che, di per sé, nella sua essenza, non rinvia ad alcun significante, eccede la catena dei segni e, a un certo momento, non funziona più esso stesso da significante» (J. Derrida, Posizioni, cit., p. 57). Un tale «significato trascendentale» è ciò che ammette Husserl nella prima delle sue Ricerche Logiche, un significato indipendente dall’espressione (significante). J. Derrida, Margini della filosofia, cit., p. 38.

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producono degli effetti, ciò «a fortiori […] si può dire della différance». Come la differenza di Saussure non è né concetto né parola e produce differenze ed «effetti di differenze», così è la différance: «Ciò che si scrive différance sarà dunque il movimento di gioco che “produce”, per mezzo di quello che non è semplicemente un’attività, queste differenze, questi effetti di differenza»95. Derrida è tuttavia attento a precisare che con ciò non si intende dire che la différance sia origine (ἀρχή) delle differenze, quasi fosse una presenza anteriore ad esse: «Ciò non vuol dire che la différance che produce le differenze sia prima di esse, in un presente semplice e in sé immodificato, in-differente. La différance è l’ “origine” non-piena, non semplice, l’origine strutturata e differente [différant] delle differenze. Il nome di “origine” non le si confà dunque più»96. Allo stesso modo, le differenze, come effetti prodotti, non possono rinviare a una causa, a un soggetto o a una sostanza, più in generale a «un ente presente da qualche parte e che sfugga, per quanto lo riguarda, al gioco della différance»97. È a questo punto che si coglie la différance come temporeggiamento e spaziamento. La différance permette «il movimento della significazione» a patto che il presente «si rapporti a qualcosa di altro da sé», non a un passato e a un futuro intesi come «presenti modificati». Il presente, come «effetto senza causa» e «traccia»98, deve serbare «in sé il marchio dell’elemento passato» e farsi «solcare dal marchio del suo rapporto all’elemento futuro». Solo così il presente sarebbe se stesso, osserva Derrida, ossia solo se vi fosse un «intervallo» che lo separi e lo differenzi da ciò che non è. Proprio questo intervallo, che separa e differenzia, è spaziamento o temporeggiamento: «Dato che questo intervallo si costituisce, si divide dinamicamente, esso è ciò che si può chiamare spaziamento, divenir-spazio del tempo o divenir-tempo dello spazio (temporeggiamento)»99. Qualche anno dopo, in un colloquio con Julia Kristeva, Derrida chiarirà che la différance è dunque «gioco sistematico delle differenze, delle tracce di differenze, della spaziatura (espacement) mediante cui gli elementi si rapportano gli uni agli altri. Questa spaziatura è la produzione, nello stesso tempo attiva e passiva (la 95 96 97 98

J. Derrida, Margini della filosofia, cit., p. 39. J. Derrida, Margini della filosofia, cit., p. 39. J. Derrida, Margini della filosofia, cit., p. 39. «Se il concetto di causa in generale implicasse, nel modo più classico del mondo, tale presenza, bisognerebbe allora parlare di effetto senza causa, ciò che condurrebbe assai rapidamente a non parlare più di effetto. Ho tentato di indicare una direzione d’uscita dalla chiusura di questo schema attraverso la “traccia”» (J. Derrida, Margini della filosofia, cit., p. 39). 99 J. Derrida, Margini della filosofia, cit., p. 40.

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a di différance indica proprio questa indecisione rispetto all’attività e alla passività: indica ciò che non si lascia ancora comandare e distribuire da tale opposizione), degli intervalli senza cui i termini “pieni” non significherebbero, non funzionerebbero. È, anche, il divenir-spazio della catena parlata – che è stata definita temporale e lineare -: divenir-spazio che, solo, rende possibili la scrittura e qualunque corrispondenza fra parola e scrittura, qualunque passaggio dall’una all’altra»100. Derrida è così giunto a poter sottolineare come la différance, o meglio la sua a, producano un movimento, un gioco di differenze che sono effetti senza causa, non valendo infatti la dif-ferenza come principio di causalità: «Le differenze sono dunque “prodotte” – differite – dalla différance»101. Il principio della differenza (semiologica) di Saussure consente tuttavia di procedere ancora oltre. Ammesso che la «nella lingua non vi sono se non differenze», occorre anche ammettere con Saussure che la «lingua non è una funzione del soggetto parlante: è il prodotto che l’individuo registra passivamente»102. Questo significa che il soggetto che parla, che è cosciente, la coscienza, sottostanno al sistema e al gioco delle differenze. Il soggetto è cioè «inscritto nella lingua», «non diviene soggetto parlante che conformando la sua parola, anche nella cosiddetta “creazione”, anche nella cosiddetta “trasgressione”, al sistema di prescrizioni della lingua come sistema di differenze»103. Derrida mette perciò in questione la possibilità che si possa dare un soggetto anteriore alla parola e alla lingua, al sistema delle differenze. Questi sarebbe un soggetto presente a se stesso, identico a sé senza rinvio ad altro, identità che non differisce e non è differita in quanto soggiace ai suoi giudizi e ai suoi atti linguistici, presenza (permanenza) nel mutare, in due parole il soggetto presente a sé che la metafisica definisce attraverso la sostanza (ὑποκείμενον, οὐσία) e la coscienza (parlante, presenza) di sé. Il sistema delle differenza mette cioè in crisi la «presenza di 100 J. Derrida, Posizioni, cit., pp. 62-63. Questo passo, evidentemente, non è privo di relazioni con il principio saussuriano della linearità del significante. Il significante, come tale, si svolge secondo una linea nel tempo (acustici/voce) o nello spazio (grafici/scrittura): «In opposizione ai significanti visivi (segnali marittimi ecc.) che possono offrire complicazioni simultanee su più dimensioni, i significanti acustici non dispongono che della linea del tempo: i loro elementi si presentano l’uno dopo l’altro; formano una catena. Tale carattere appare immediatamente non appena li si rappresenti con la scrittura e si sostituisca la linea spaziale dei segni grafici alla successione del tempo» (F. de Saussure, Corso di linguistica generale, cit., p. 88). 101 J. Derrida, Margini della filosofia, cit., p. 42. 102 F. de Saussure, Corso di linguistica generale, cit., p. 23. 103 J. Derrida, Margini della filosofia, cit., p. 43.

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un presente (sotto forma, per esempio, dell’identità del soggetto, presente a tutte le sue operazioni, presente sotto tutti i suoi accidenti o eventi, presente a sé nella sua “parola viva”, nei suoi enunciati o nelle sue enunciazioni, nei suoi oggetti e negli atti presenti del suo linguaggio ecc.)»104. Ammettere la presenza di un soggetto, al di fuori della lingua/sistema delle differenze, richiederebbe infatti di intenderlo come «una presenza a sé del soggetto in un coscienza silenziosa e intuitiva»105, più in generale occorrerebbe ammettere la «coscienza»: «Una questione di questo genere suppone dunque che prima del segno e fuori di esso, escludendo ogni traccia e ogni différance, sia possibile qualcosa come la coscienza»106. Ma tale situazione contraddice il principio (semiologico) della differenza, contravviene all’attività o produttività della stessa a della différance, che gioca differenze. Essa cioè, come spaziamento e soprattutto come temporeggiamento, differisce continuamente il presente ad altro, «a un altro elemento passato o futuro, in un’economia delle tracce»107. Perciò, anche la coscienza, risponde al sistema delle differenze, non è presenza a sé, ma, anzi, si costituisce entro quel sistema e quell’economia, infatti «il soggetto, e anzitutto il soggetto cosciente e parlante, dipende dal sistema delle differenze e dal movimento della dif/ferenza, non già è presente né soprattutto presente a sé prima della dif/ferenza, e vi si costituisce solo dividendosi, spaziandosi, “temporeggiandosi”, “dif/ferendosi”»108. Ma se la différance mette in questione la «coscienza» (parlante, presente), mette allora in crisi più in generale la presenza stessa e il suo sistema. Se si concede primato alla coscienza, al di fuori del sistema delle differenze, si concede il primato alla presenza: «il privilegio accordato alla coscienza significa dunque il privilegio accordato al presente»109. Ciò perché pensare la coscienza come presenza è ricorrere alle categorie metafisiche di soggetto, sostanza che indicano presenza al di là del divenire, permanenza: «Come la categoria del soggetto non può e non ha mai potuto pensarsi senza il riferimento alla presenza come upokeimenon o come ousia, ecc., così il soggetto come coscienza non ha mai potuto annunciarsi altrimenti che come presenza a sé». Detto altrimenti, mettere in discussione la coscienza (presenza) è mettere in discussione il sistema della presenza, cioè proprio la metafisica. 104 105 106 107 108 109

J. Derrida, Posizioni, cit., p. 64. J. Derrida, Margini della filosofia, cit., p. 44. J. Derrida, Margini della filosofia, cit., p. 44. J. Derrida, Posizioni, cit., p. 64. J. Derrida, Posizioni, cit., p. 64. J. Derrida, Margini della filosofia, cit., p. 44.

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La controprova, d’altronde, consiste secondo Derrida nel fatto che il soggetto non è anteriore al sistema delle differenze, anzi, ne è piuttosto un effetto: «La soggettività – come l’oggettività – è un effetto di dif/ferenza, un effetto inscritto in un sistema di dif/ferenza»110. La metafisica, quindi, pretenderebbe di anteporre alla dif-ferenza la «presenza di un presente», presenza di un senso («significato trascendentale»), indipendente da ogni differenza e chiuso in sé, sostanza o soggetto, che precede il movimento della dif-ferenza dando origine a tutte le classiche opposizioni e antitesi della metafisica (sensibile/intellegibile, passività/attività, corpo/anima; spazio/tempo ecc.): «Esse infatti finiscono, prima o poi, per subordinare il movimento della dif/ferenza alla presenza di un valore o di un senso anteriore alla dif/ferenza stessa, più originario, che la eccederebbe e, in ultima istanza, la comanderebbe. Tale presenza è la presenza di ciò che prima chiamavamo “significato trascendentale”»111. Ma l’irruzione della différance non rende più pertinenti tutte quelle opposizioni, poiché inscrive quel senso, che si vorrebbe anteriore e indipendente al movimento della dif-ferenza, entro il suo sistema. O meglio, la différance, riporta quel senso (soggetto, sostanza) entro il sistema delle differenze, sicché anteriore ad esso non c’è niente: «Niente – nessun essente presente e in/differente – precede dunque la dif/ferenza e la spaziatura. Non esiste un soggetto che sia agente, autore e signore della dif/ferenza e a cui questa capiti (surviendrait) eventualmente ed empiricamente»112. In ogni caso, Derrida coglie come il primato accordato alla coscienza non sia altro che la preminenza concessa al presente dalla metafisica, cioè il privilegio che essa accorda al pensiero «irretito nella lingua della metafisica»113. Occorre allora infrangere quell’irretimento, quella chiusura (clôture). E ciò significa «sollecitare» (sollicitare, smuovere, scuotere) la presenza che è alla base della metafisica. Derrida riconosce qui il suo debito verso Heidegger: «Non si può delimitare tale chiusura che sollecitando oggi quel valore di presenza che Heidegger ha mostrato essere la determinazione onto-teologica dell’essere»114. Si tratta così di «mettere in questione precisamente quella determinazione maggiore del senso dell’essere come presenza in cui Heidegger ha riconosciuto il destino della filosofia»115. «Sollecitare» la metafisica è così mettere in questione il pri110 111 112 113 114 115

J. Derrida, Posizioni, cit., p. 64. J. Derrida, Posizioni, cit., p. 64. J. Derrida, Posizioni, cit., p. 64. J. Derrida, Margini della filosofia, cit., p. 44. J. Derrida, Margini della filosofia, cit., p. 44. J. Derrida, Posizioni, cit., p. 46.

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La misura dell’umano

mato che essa assegna alla presenza, e dunque, secondo Derrida, alla stessa «coscienza come voler-dire nella presenza di sé»116. Tale possibilità consiste nel fatto che la presenza e la coscienza non possono più essere considerate come fondamento dell’essere poiché sono, invece, effetto (senza causa) della différance, trovano collocazione entro un sistema di differenze, non entro quello della presenza: «Si viene dunque a porre la presenza – e particolarmente la coscienza, l’essere presso di sé della coscienza – non più come la forma-matrice assoluta dell’essere ma come una “determinazione” e come un “effetto”. Determinazione o effetto all’interno di un sistema che non è più quello della presenza ma quello della différance, e che non tollera più l’opposizione di attività e passività, non più che quello di causa ed effetto o di indeterminazione e determinazione ecc.»117. La coscienza è così messa radicalmente in questione nelle sue pretese. Derrida osserva come questo «gesto» sia già tutto rintracciabile in Nietzsche e in S. Freud, prima ancora di radicalizzarsi in Heidegger come contestazione stessa dell’essere come presenza. Tanto Nietzsche, quanto Freud infatti «hanno messo in questione la coscienza nella sua certezza infallibile di sé»118, e, più decisivo ancora, lo avrebbero fatto a partire dalla différance. Ma Derrida sottolinea anche il suo debito verso Lévinas. Questi, infatti, giunge a cogliere nel «volto», che è «epifania dell’assolutamente altro»119, ciò che propriamente pone in questione la coscienza (io, egoismo, Medesimo): «Il volto mette in questione la coscienza»120. È in questo contesto che in Lévinas diviene centrale la nozione di «traccia»: «L’al di là da cui viene il volto significa in quanto traccia. Il volto si trova nella traccia dell’Assente assolutamente tale, assolutamente passato, mai abbastanza passato, ritirato in ciò che Paul Valery chiama il “tempo passato, mai abbastanza passato” e che nessuna introspezione può scoprire in Sé»121. Secondo Derrida, Lévinas non co116 117 118 119

J. Derrida, Margini della filosofia, cit., p. 44. J. Derrida, Margini della filosofia, cit., pp. 44-45. J. Derrida, Margini della filosofia, cit., p. 45. E. Lévinas, Scoprire l’esistenza con Husserl e Heidegger, cit., p. 225. Centrale è La traccia dell’Altro, contenuto in Scoprire l’esistenza con Husserl e Heidegger, cit., dal quale qui citiamo. Sulla formazione della nozione di volto e della sua fenomenologia in Levinas rimandiamo alla nota n. 109 di G. Ferretti, op. cit., p. 119. Sulla traccia vale quanto scritto sempre da Ferretti: «In sintesi, la “traccia” è il concetto che Levinas elabora per indicare lo specialissimo modo di significare dell’al-di-là da cui proviene il volto» (G. Ferretti, op. cit., p. 179). L’origine della nozione di traccia in Lévinas rinvia a Plotino (Enneadi V, 5, 5). Cfr. la nota n. 154 di G. Ferretti, op. cit., p. 180. 120 E. Lévinas, Scoprire l’esistenza con Husserl e Heidegger, cit., p. 224. 121 E. Lévinas, Scoprire l’esistenza con Husserl e Heidegger, cit., p. 224.

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glie solo l’incommensurabilità della traccia, che non può essere ritenzione, ma quel «passato che non è mai stato presente» che mette radicalmente in questione la coscienza come sintesi «originaria» del passato e del futuro a partire dal presente, riducendoli a modificazioni del presente: «Il concetto di traccia è dunque incommensurabile rispetto a quello di ritenzione, di divenir-passato di ciò che è stato presente. Non si può pensare la traccia – e dunque la différance – a partire dal presente, o dalla presenza del presente. Un passato che non è mai stato presente, questa formula è quella con la quale Emmanuel Lévinas, […], qualifica la traccia e l’enigma dell’alterità assoluta: l’altro»122. Il tema della traccia circoscrive così una affinità di fondo tra i due pensatori francesi, nel senso che «il pensiero della différance – scrive Derrida – implica tutta la critica dell’ontologia classica intrapresa da Lévinas». Ma ciò che più interessa a Derrida è che la différance, già all’opera in Nietzsche e in Freud, e la traccia di Lévinas sono momenti che scuotono l’ontologia della presenza, e anticipano, in questo senso il pensiero derridiano che prosegue nel solco della sollecitazione operata da Heidegger: «Ovunque, è il predominio dell’ente che la différance viene a sollecitare, nel senso latino in cui sollicitare significa, nel latino antico, far vacillare nel suo insieme, far tremare nelle sua totalità»123. La messa in questione della coscienza diviene perciò messa in questione dell’essere come presenza. Il pensiero della différance è interrogazione dell’essere come presenza, della riduzione cioè, dell’essere a ente: «È la determinazione dell’essere come presenza o come entiticità che è dunque interrogata dal pensiero della différance»124. Ciò significa che la messa in questione della coscienza, divenuta sollecitazione dell’essere come presenza, è, in ultimo, messa in questione della riduzione dell’essere stesso a presenza. Interrogare la determinazione dell’essere come presenza, farla vacillare, significa allora aprire la differenza tra l’essere e l’ente, al di là della chiusura dell’essere nell’ente: «Una domanda di questo genere non potrebbe sorgere e farsi comprendere senza che da qualche parte si apra la differenza dell’essere dall’ente»125. 122 J. Derrida, Margini della filosofia, cit., pp. 49-50. Qui si consuma il distacco da Husserl e dalla sua fenomenologia della coscienza del tempo: «Il privilegio accordato alla coscienza significa dunque il privilegio accordato al presente; e, anche se si descrive, alla profondità a cui lo fa Husserl, la temporalità trascendentale della coscienza, è al “presente vivente” che si accorda il potere di sintesi e di raccolta incessante delle tracce» (J. Derrida, Margini della filosofia, cit., p. 44). 123 J. Derrida, Margini della filosofia, cit., p. 50. 124 J. Derrida, Margini della filosofia, cit., p. 50. 125 J. Derrida, Margini della filosofia, cit., p. 50.

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Il pensiero della différance di Derrida incontra così la differenza ontologica di Heidegger. Occorre, finalmente, porre in luce il rapporto che Derrida istituisce tra la différance e la differenza ontologica heideggeriana. In primo luogo, proprio perché il pensiero della différance interroga l’essere come presenza, aprendo così la differenza tra l’essere e l’ente, la différance non è ente, non ne possiede i caratteri: «Prima conseguenza: la différance non è. Essa non è un essente-presente, per quanto eccellente, unico, dotato del rango di principio o trascendente lo si possa desiderare. Essa non comanda nulla, non regna su nulla e non esercita da nessuna parte alcuna autorità»126. In secondo luogo, allora, si potrebbe pensare che la différance possa sostituire o meglio «occupare lo scarto» della differenza ontologica: «Allora la différance va ad occupare lo scarto della differenza ontologica, così come essa si pensa, così come in essa si pensa l’ “epoca”, in particolare “attraverso”, se è ancora possibile usare questo termine, l’inaggirabile meditazione heideggeriana?»127. Ma su questo punto, Derrida soprassiede. Tale possibilità resta una domanda alla quale non c’è una ovvia risposta: «Non c’è una risposta semplice a una tale questione»128. Resta il fatto che il pensiero della différance sollecita l’essere ridotto a presenza (ente), è apertura della differenza tra essere e ente, evidenzia che la différance è il «dispiegamento storico ed epocale dell’essere o della differenza ontologica. La a della différance marca il movimento di questo dispiegamento»129. Detto altrimenti, la dif-ferenza smuove la presenza, sollecita e fa vacillare l’essere, il suo senso che si vuole ridotto alla presenza (ente), e apre perciò alla differenza ontologica stessa. Il rapporto tra différance e differenza ontologica è così allora tracciato. La différance, in quanto smuove e apre differenze, è più «vecchia» (vieille) tanto della questione del senso dell’essere, quanto della differenza ontologica. Si misura così la posizione di Derrida non rispetto ad Heidegger, del quale condivide la messa in questione di quel «valore di presenza» che il filosofo tedesco «ha mostrato essere la determinazione onto-teologica dell’essere», ma propriamente rispetto alla differenza ontologica: «Poiché l’essere non ha mai avuto “senso”, non è mai stato pensato o detto come tale se non dissimulandosi nell’ente, la différance, in una certa e assai strana maniera (è) più “vecchia” della differenza ontologica o della verità dell’essere»130. In Ousia e grammé, Derrida 126 127 128 129 130

J. Derrida, Margini della filosofia, cit., p. 50. J. Derrida, Margini della filosofia, cit., p. 50. J. Derrida, Margini della filosofia, cit., p. 50. J. Derrida, Margini della filosofia, cit., p. 50. J. Derrida, Margini della filosofia, cit., p. 51. Come è noto, è il colloquio del 1967 tra H. Ronse e Derrida uno dei testi decisivi per ricostruire il debito che il

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precisa: «Se l’essere, secondo quell’oblio greco che sarebbe stata la forma stessa del suo avvento, non ha mai voluto dire che l’ente, allora la differenza è forse più vecchia dell’essere stesso. Vi sarebbe una differenza ancora più impensata della differenza tra l’essere e l’ente. Senza dubbio non si dà maggior possibilità di nominarla come tale nella nostra lingua. Al di là dell’essere e dell’ente, questa differenza, differendo(si) incessantemente, (si) traccerebbe (da se stessa), questa différance sarebbe la prima o l’ultima traccia se ancora si potesse parlare qui di origine e di fine»131. Se «le differenze sono dunque “prodotte” – differite – dalla différance»132, come il principio della differenza semiologica di Saussure suggeriva, la differenza non è «una “specie” del genere differenza ontologica»133, ma, viceversa, «gioco della traccia» giocato in una età anteriore al senso dell’essere e della differenza ontologica: «È a questa età che la si può chiamare gioco della traccia. Di una traccia che non appartiene più all’orizzonte dell’essere ma il cui gioco sostiene e forma il bordo del senso dell’essere: gioco della traccia o della différance che non ha senso e che non è»134. Si tratta di quel gioco, che in un’età più vecchia (vieille), «sta al di là di questa opposizione» e «annuncia, alla vigilia [veille] della filosofia e al di là di essa,

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filosofo francese ha nei confronti di Heidegger, ma anche la sua presa di distanza dal pensatore tedesco. Cfr. J. Derrida, Posizioni, cit., pp. 48-50. È vero che «in breve, Heidegger agli occhi di Derrida, non è soltanto colui che si è interrogato sul senso della presenza, ma anche il primo filosofo a mostrare che continuare a porre in un certo modo il problema della presenza - senza porre la domanda sulle sue condizioni di possibilità - vuol dire rimanere chiusi nel sistema onto-teologico della metafisica» (M. Telmon, La differenza praticata. Saggio su Derrida, Jaca Book, Milano 1997, p. 30). Tuttavia è anche altrettanto vero che Derrida cerca di rintracciare nel testo heideggeriano «i segni che lo mostrano appartenere ancora alla metafisica o a ciò che esso chiama onto-teologia» (J. Derrida, Posizioni, cit., p. 48). Il punto è che la «pretesa di determinare la differenza, di ricondurla al senso dell’essere e di indicarne la verità, riconduce la filosofia heideggeriana in un prospettiva metafisica, benché per altre vie Heidegger metterà in discussione proprio le nozioni di essere e di verità» (M. Vergani, op. cit., p. 43). J. Derrida, Margini della filosofia, cit., pp. 103-104. J. Derrida, Margini della filosofia, cit., p. 42. J. Derrida, Margini della filosofia, cit., p. 55, nota n. 12. J. Derrida, Margini della filosofia, cit., p. 51. Scrive M. Vergani: «Le differenze sono prodotto del differimento, ma ciò che differisce non si dà, lascia traccia in altro e tuttavia non è altrove. Per essa non c’è nome, né essenza, né essere; lo stesso nome différance è, consapevolmente, sempre troppo metafisico. È solo nell’infinito differire, nelle infinite sostituzioni e alterazioni del senso che ne sono l’effetto, che la differenza si nomina, differendo la propria nominazione, e nomina il senso, la possibilità stessa della nominazione» (M. Vergani, op. cit., p. 44).

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La misura dell’umano

l’unità del caso e della necessità in un calcolo senza fine»135. È il gioco che regge il senso dell’essere, «scacchiera senza fondo in cui l’essere è messo in gioco»136. Come nota Marion, la différance derridiana ha dunque una relazione con la differenza ontologica. Si tratta di una relazione precisa. La dif-ferenza è «più “vecchia” della differenza ontologica o della verità dell’essere», perciò, scrive Marion, qui «differisce un’altra differenza». Il merito di Derrida consisterebbe allora tutto in questa sottrazione dal linguaggio e dalle proprietà (ontologiche) della differenza heideggeriana. Il pensiero di Derrida compie perciò un movimento che va all’indietro della differenza ontologica stessa, la anticipa al punto da porla al margine di un discorso che la inscrive in un gioco nel quale essa gioca solo come l’effetto (senza causa) di una dif-ferenza anteriore. Eppure Marion non si esime dal valutare criticamente la portata di quel movimento. Merito di Derrida è, a giudizio di Marion, quello di essere andato oltre l’ontoteologia e al di là dell’ambito dell’Essere e dell’ente, poiché la differenza, più «vecchia» di quella ontologica, si differisce in essa al punto da privarla di qualsivoglia primato: «Al di là dell’onto-teologia e dell’Essere/ ente (on), la differenza (si) differisce indifferentemente (nel) la loro differenza, senza doverle riconoscere il benché minimo privilegio, e soprattutto non quello che rifiuta a se stessa» (Ied 285; 227). Dunque, la differenza tra l’Essere e l’ente si riduce così a un caso particolare della dif-ferenza: «La differenza ontologica sarebbe allora solo un caso particolare di una differenza che, prima ed intorno ad essa, differisce in un incrocio indefinito, insignificante e senza fondo» (Ied 285; 227). L’esito in questione non consiste solamente nella perdita di priorità della differenza ontologica, ma anche nella definitiva relativizzazione di ogni riferimento all’Essere e all’ente che, appunto, finiscono per ridursi a uno dei tanti e diversi poli generati dal differimento della dif-ferenza: «L’Essere/ente è così scoperto come uno dei centri possibili, alla pari con tutti gli altri nella rete differente, la cui indefinitezza può ammettere, in ogni punto, un altro centro» (Ied 286; 228). L’Essere e l’ente, la loro differenza non costituiscono più un unico punto di riferimento, ma perdono quell’unicità nel quadro di una dif-ferenza che ne delimita il gioco al punto da renderlo marginale. Detto diversamente, la dif-ferenza, più «vecchia» di quella ontologica, la marginalizza. Invece di un rovesciamento (Lévinas), si tratta qui di una marginalizzazione della differenza ontologica. Mentre il suo rovesciamento in fondo ne mantiene i 135 J. Derrida, Margini della filosofia, cit., p. 33. 136 J. Derrida, Margini della filosofia, cit., p. 51.

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Differenza e donazione

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termini, la marginalizzazione della differenza opera in modo tale da ridurli a poli di una differenza nel contesto di tanti altri poli di tante altre differenze nella quali la dif-ferenza si differisce. L’Essere e l’ente, la loro differenza, sono così oltrepassati, non rovesciati: «Così la dif-ferenza può offrire alla distanza i tratti che essa stessa intendeva concettualizzare: oltrepassare l’Essere dell’ente, non soltanto rovesciando la differenza ontologica, ma marginalizzandola a vantaggio di una dif-ferenza più “ontica”» (Ied 286; 228). Derrida, dunque, con la sua dif-ferenza sembrerebbe offrire al pensiero stesso i concetti per pensare la distanza. Eppure, secondo Marion, occorre esaminare più attentamente il superamento della differenza ontologica posto in opera da Derrida con la différance o, meglio, interrogare la portata stessa di questo superamento. È da notare soprattutto come il superamento della differenza ontologica posto in atto dalla différance consista in realtà in un «trasferimento di proprietà» tra le due differenze: «Ora questo superamento che rifiuta procede attraverso un trasferimento di proprietà» (Ied 286; 228). Questo significa che la dif-ferenza assume i tratti della differenza ontologica e si presenta con le peculiarità con le quali Heidegger pensava la differenza tra l’Essere e l’ente. In ciò consisterebbe dopotutto la marginalizzazione della differenza ontologica ad opera di una dif-ferenza che le sottrarrebbe il primato. La dif-ferenza, proprio in quanto «non ricade [relève] - scrive Derrida- sotto nessuna categoria dell’ente, sia esso presente o assente»137, ripete allora la condizione di oblio e di impensabilità propria della differenza ontologica come nascondimento, rimarcata da Heidegger in un passo di Identità e differenza: «Il passo indietro va dal non-pensato, cioè la differenza in quanto tale, a ciò che è da-pensare, cioè la dimenticanza (Vergessenheit) della differenza»138. Secondo Marion, la dif-ferenza ripete allora la non rappresentabilità della differenza ontologica: «Più in generale, la dif-ferenza, non avendo né essenza propria, né concetto, né definizione, riprende su di sé l’impossibilità costitutiva di una rappresentazione della differenza ontologica» (Ied 283; 228). Ma, secondo il pensatore francese, questo «trasferimento di proprietà» col quale si realizza la marginalizzazione della differenza tra l’Essere e l’ente a favore della différance, ha precise conseguenze. Può infatti la différance assumere i caratteri della differenza ontologica, che rinviano all’Essere e all’ente, e nonostante ciò essere posta come anteriore ad essa? L’irrapresentabilità della differenza ontologica si giustificava in base alla relazione stessa tra l’Essere e l’ente, 137 J. Derrida, Margini della filosofia, cit., p. 32. 138 M. Heidegger, Identità e differenza, cit., p. 64.

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La misura dell’umano

quel di-spiego (pli) per il quale «l’Essere appare soltanto nel ritiro che è reso (in-) visibile da quell’ente che è a sua volta visibile» (Ied 260; 208), «come l’Essere (irrappresentabile) dell’ente (rappresentabile)» (Ied 260; 209). Se è così, l’irrapresentabilità della différance rinvia ancora in realtà alla differenza ontologica, proprio in quanto ne assume i tratti. Marion constata infatti come i termini stessi usati da Derrida non eccedano la relazione o il di-spiego (pli) dell’Essere e dell’ente: «Si possono conservare i termini (senza dubbio, non concettuali) di traccia, oblio e differenza fuori dall’Essere dell’ente in cui, originariamente, appaiono?» (Ied 287; 229). Il punto è, secondo Marion, proprio questo: il superamento della differenza ontologica è soltanto un trasferimento delle sue proprietà, ben radicate nella piega o nel di-spiego dell’Essere e dell’ente, a quella différance che pretenderebbe di possederle al di fuori del di-spiego stesso. Scrive infatti Marion: «Se, al contrario, si cerca di far giocare la traccia o l’oblio fuori dal di-spiego, e quindi dalla differenza ontologica, quale riparo potrà ancor consentire alla traccia di valere sempre come traccia nell’istante della sua eclisse?» (Ied 288; 229). In fondo, al di là dei suoi meriti, Derrida ha il torto di non essersi confrontato con Identità e differenza dove emergeva proprio il tema del di-spiego (pli), e, soprattutto, una tesi di Heidegger che in Derrida resta evidentemente elusa. Questi infatti non cita mai nel testo de La différance quello scritto di Heidegger. Questo particolare Marion non se lo lascia sfuggire: «Abbastanza rivelatore ci pare il silenzio completo de La Différance (e di altri testi) a proposito di ciò a cui per altro non si può smettere di pensare, leggendoli: Identität und Differenz, appunto» (Ied 318; 253)139. Ma questo significa soprattutto che così Derrida elude e non si confronta con un’assunto fondamentale del pensatore tedesco. Notiamo, infatti, che per Heidegger la differenza come tale non sussiste al di fuori della differenza tra l’Essere e l’ente. Solo il pensiero rappresentativo potrebbe pensare questa differenza tra Essere e ente come una relazione estrinseca, ma si tratterebbe in realtà di una distinzione (Distinktion), confusa con la differenza come tale (Differenz). Scriveva infatti il filosofo tedesco: «Se però tentiamo di rappresentarla ci troviamo subito indotti a concepire la differenza come una relazione che il nostro rappresentare ha aggiunto sia all’essere che all’ente. È così che la differenza (Differenz) viene ridotta a una distinzione (Distinktion), cioè a un artificio del nostro intelletto»140. Heidegger, cioè, ravvisava il pericolo di pensare la differenza al di fuori 139 Cfr. la nota n.37 di Ied 318; 253. 140 M. Heidegger, Identità e differenza, cit., p. 83.

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Differenza e donazione

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della differenza ontologica, avvertendo come un simile tentativo la riduca in realtà ad un oggetto del pensiero rappresentativo, a un’aggiunta esteriore posta da un pensiero metafisico tra l’Essere e l’ente poiché incapace di pensarla, invece, come «di-vergenza» (Austrag), differenza tra tramandamento e avvento: «In quanto differenza tra tramandamento e avvento, la differenza di essere e ente è la svelante-celante-salvante di-vergenza (der entbergend-bergende Austrag) di entrambi»141. Marion rileva allora come l’attribuzione delle proprietà alla differenza ontologica, la sua irrappresentabilità appunto, ad una dif-ferenza più «vecchia» e la conseguente marginalizzazione della prima costituiscano di fatto la pretesa della différance di porsi al di fuori di quella differenza tra l’Essere e l’ente a partire dalla quale però l’irrapresentabilità si reggeva. Non vi sarebbe, cioè, differenza possibile al di fuori del di-spiego (pli) come tale dell’Essere e dell’ente. Sarebbe quindi inaccettabile la tesi di Derrida secondo la quale la dif-ferenza non è «una “specie” del genere differenza ontologica»142, perché non vi sarebbe una differenza precedente o più «vecchia» del gioco (Zwiefalt, Austrag ecc.) dell’Essere e dell’ente: «La differenza ontologica si inscrive, con un’equivalenza precisa, in una polisemia indefinita di differenze: potrebbe farlo se non si ammettesse in partenza che la dif-ferenza si specifica in differenze paragonabili, tra le quali la differenza ontologica; e così non ci si espone alla dimostrazione critica che Identität und Differenz opponeva fin dal principio – e cioè che la differenza non precede, come il genere la specie, delle differenze possibili, tra le quali la differenza ontologica, ma che invece l’Essere/ente produce “già sempre” la differenza; in una sola parola, si può differire senza e prima del Di-spiego dell’Essere/ente?» (Ied 288; 229). Se l’esito del rovesciamento della differenza è aporetico (Lévinas), l’esito della sua marginalizzazione è invece paradossale. Derrida perviene cioè ad un paradosso: priva delle sue caratteristiche e del suo primato la differenza ontologica per attribuirle a un’istanza che le ricalca fedelmente. Vero e proprio paradosso che contravviene al tentativo stesso di porre al margine e di destituire la differenza ontologica: «Paradosso, cioè un’aporia prodotta dal sistema stesso: rifiutare l’originarietà o il primato della differenza ontologica, presuppone comunque sempre che si attribuisca alla nuova istanza le spoglie caratteristiche della precedente, di più, che il gesto di instaurazione riproduca, a parte naturalmente un certo scarto, l’istanza destituita» (Ied 289; 230). 141 M. Heidegger, Identità e differenza, cit., p. 84. 142 J. Derrida, Margini della filosofia, cit., p. 55, nota n. 12.

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La misura dell’umano

Unica via possibile per evitare questo paradosso, constata Marion, sarebbe quello di affermare che la différance come tale non abbia alcun rapporto con la differenza ontologica. Così non si potrebbe discutere né di un «trasferimento di proprietà», né di un’origine dell’una dall’altra. Posta in tale modo la questione, si potrebbe infatti riportare la dif-ferenza non alla differenza ontologica, rompendo dunque ogni rapporto tra le due, bensì alla semiologia di Saussure e alla sua nozione di differenza, al principio che recita «nella lingua non vi sono se non differenze»143. Ma la questione si complicherebbe ulteriormente invece di sciogliersi, poiché la differenza semiologica renderebbe più complesso il tentativo di definire la dif-ferenza. La linguistica rinvia infatti a una precisa metodologia scientifica che assume il suo oggetto, lo definisce, ne ricostruisce oggettivamente i nessi ecc. Più in generale, il richiamo a Saussure, invece di consentire un superamento della differenza ontologica con il ricorso a una dif-ferenza modellata sul piano della differenza (semiologica), lo complicherebbe inevitabilmente soprattutto perché la scienza linguistica assume la definizione stessa di segno come riferimento alla cosa in un contesto che richiama la dimensione teoretica del sapere scientifico e quella della tecnica, esito compiuto della metafisica che lascia impensata proprio la differenza ontologica: «Perciò il ricorso a Saussure, lungi dal superare la differenza ontologica con un apporto inaudito, rivela al destino epocale che essa rende possibile un nuovo materiale […]. Senza alcun dubbio, la definizione puramente tassinomica e differenziale del segno, come la relazione arbitraria del segno con la cosa costituisce un momento dell’im-posizione (Gestell=Arraisonement), quindi dell’essenza della tecnica, quindi del destino epocale della metafisica, quindi, infine, della differenza ontologica stessa» (Ied 290; 231). Ultimo tema discusso dal filosofo francese riguardo alla différance derridiana è quello della teologia negativa alla quale Derrida si riferiva negando che la dif-ferenza vi potesse alludere in qualche modo144. Il discorso sulla différance sembra solo in apparenza somigliare al discorso negativo di quella teologia che nega qualsiasi attributo a Dio, poiché della dif-ferenza si deve dire appunto che «non è». Ciò non significa secondo Derrida che la différance abbia qualcosa di teologico: «E tuttavia ciò che si rimarca così della différance non è teologico, nemmeno dell’ordine più negativo della teologia negativa, poiché quest’ultima si è sempre, come è noto, sforzata di aprire il varco ad una sopra-essenzialità oltre le categorie finite dell’essenza e dell’esistenza, cioè della presenza, 143 F. de Saussure, Corso di linguistica generale, cit., p. 145. 144 Cfr. J. Derrida, Margini della filosofia, cit., pp. 32-33.

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Differenza e donazione

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e s’affretta sempre a ricordare che se il predicato dell’esistenza è rifiutato a Dio, ciò avviene per riconoscergli un modo d’essere superiore, inconcepibile, ineffabile»145. Nel rimarcare una differenza, Derrida esprime tuttavia un’idea precisa di ciò che è la teologia negativa, inscrivendola di fatto entro l’ontoteologia nel senso che il movimento di negare qualunque predicato a Dio rimane comunque e sempre entro il contesto stesso della metafisica della presenza. Rimarcare l’assenza di predicati è movimento speculare alla predicazione della loro presenza. Marion non si lascia sfuggire il significato di tale posizione. Se non ha nulla di ontologico e di teologico, la dif-ferenza è al di là di ogni discorso su Dio o su «Dio», va al di là non solo dell’anteriorità della differenza ontologica rispetto a ogni teologia – se Dio è, ha da essere ente –, ma anche della postulazione stessa dell’Altro come ente che rovescia l’Essere: «la dif-ferenza rifiuta ogni Dio/”Dio”, sia di fronte al “Dio” della differenza ontologica sia di fronte al primato ontico dell’Altro» (Ied 292; 232). La conseguenza è così duplice. Da un lato, infatti, la dif-ferenza supera l’ontoteologia, non lascia alcuno spazio alla riduzione di Dio all’Essere e all’ente, a «Dio». Ma, dall’altro, il prezzo di tale superamento è quello di non lasciare spazio neppure a una teologia non ontoteologica, al Dio altro dall’Essere. Detto diversamente, la dif-ferenza annulla la differenza ontologica e con essa anche la possibilità di una rivelazione, dunque annulla quella stessa distanza che Marion si sforza di pensare ne L’idolo e la distanza. Perciò se la dif-ferenza supera il residuo di idolatria della differenza ontologica ancora presente in Lévinas e nel suo rovesciamento, è altrettanto vero che essa stessa rimane ancora idolatrica sebbene in negativo: «Un’idolatria residua è ancora presente nell’Altro. Invece la dif-ferenza elimina questo residuo cercando di superare la differenza ontologica in quanto tale. Certamente anch’essa resta ancora idolatra, ma negativamente, rifiutando con il vocabolo indefinito di “teologia negativa” la possibilità di ogni teologia non onto-teologica» (Ied 292; 233). In conclusione, l’epilogo del «superamento della differenza ontologica, impresa che, sin dall’inizio soprattutto ci attira», tentato da Lévinas e da Derrida è chiaro. Entrambi vi si cimentano, ma non riescono in fondo a sfuggirle. L’uno, infatti, la rovescia, mentre l’altro la pone al margine rispetto alla différance. In ogni caso, il superamento non ha davvero esito: «Forse, alla differenza ontologica non si sfugge con la dif-ferenza più di quanto non ci si riesca con l’Altro» (Ied 291; 231). 145 J. Derrida, Margini della filosofia, cit., pp. 32-33. Questo tema sarà discusso soprattutto nell’ultima parte di questo lavoro.

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La misura dell’umano

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7. Il dono L’intento marioniano di una messa fuori gioco della differenza ontologica si ridefinisce così in Dio senza essere attraverso il confronto ne L’idolo e la distanza con il pensiero di Lévinas e con quello di Derrida. Questi due pensatori, infatti, pongono la medesima esigenza avvertita da Marion. Ma il loro tentativo di revocare la differenza ontologica coincide in entrambi i casi con il suo mantenimento. Si tratta perciò di cammini rispetto ai quali Marion prende distanza. La liberazione dall’Essere può avvenire solo come una liberazione dell’Essere, ossia come uno scardinamento o una sollecitazione, nel senso derridiano, del ruolo privilegiato che l’Essere ha rispetto all’ente. In questa prospettiva, liberare l’Essere significa buttare all’aria il gioco che esso impone, a cominciare dal rinvio circolare che instaura con l’ente stesso e nel quale consisterebbe la differenza ontologica così come Heidegger la pensava in Identità e differenza. L’Essere, infatti, rinvia all’ente e viceversa in molteplici sensi: nel senso del di-spiego (pli); poi in quello della di-vergenza (Austrag); più in generale nei modi di darsi della differenza ontologica al pensiero intrapreso lo Schritt zurück. Ma la differenza ontologica, che sia pensata o impensata non importa, impone comunque la condizione e il privilegio dell’Essere. Impensati, la differenza e l’Essere cadono nella dimenticanza a favore dell’Essere dell’ente fino alla causa sui dell’ontoteologia. Pensati, la differenza e l’Essere restano istanze anteriori e condizioni di quel pensiero che tenta di aprirsi a un Dio al di là della metafisica. La necessità di superare la differenza e l’Essere come istanze privilegiate conducono perciò Marion a ritenere che occorrano due precisi movimenti: a) si tratta di scardinare il privilegio dell’Essere; b) così facendo si scombinerà il gioco che intrattiene con l’ente. È proprio questa esigenza, sottesa a quei movimenti, ad incrociare il pensiero del filosofo francese con quelli di Lévinas e di Derrida. Soltanto che proprio da loro egli apprende innanzi tutto come quel gioco non si possa né rovesciare a favore dell’ente, né ridurre e marginalizzare a partire da un gioco più vecchio che lo regolerebbe senza alcuna causa. Entrambi i tentativi di superamento della differenza sono giudicati in Dio senza essere come una semplice revoca che non oltrepassa, ma conserva la differenza stessa: «Mettere in fuori gioco l’Essere, dunque, esigerebbe qualcosa di più che non il semplice revocare la differenza ontologica a favore di un’altra differenza» (Dse 126; 115). Più ancora che di una revoca, allora, si tratterebbe qui della necessità di deformare (gauchir) la differenza ontologica così da modificarne il gioco in modo tale che l’ente giochi secondo una nuova regola. In questione sarebbe perciò la possibilità di una sospensione del reciproco rinvio dell’ente

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Differenza e donazione

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all’Essere. Questa regola dovrebbe quindi adeguarsi a una differenza che, invece di costituire l’ordito stesso del rinvio, lo interrompa: Si tratta dunque di far sì che l’ente giochi secondo una regola tale che le sue differenze non rinviino affatto all’Essere; o ancora, che l’ente si disponga e si interpreti secondo una differenza tale da impedire all’Essere di riprendersi nell’ente e all’ente di ricondursi all’Essere, così che il gioco dell’ente sfugga all’Essere, che cesserebbe in tal modo di apparire in esso e che non vi si presenterebbe più neppure sotto la figura del ritiro o dell’impensato (Dse 126; 115).

Ciò a cui Marion pensa è ad una «differenza indifferente alla differenza ontologica», capace di rimandare all’ente arrestandone però al contempo il gioco con l’Essere che, a questo punto, non troverebbe più sponda e visibilità nell’ente stesso: Con questa differenza indifferente alla differenza ontologica, ma comunque sia non all’ente, si dovrebbe sviare da sé il gioco dell’ente con l’Essere, così che l’Essere (dell’ente) cominci a presentarsi con dei tratti tali da non poterli offrire ad alcuno specchio invisibile e tali quindi che neppure lui stesso saprebbe vedere o dire (Dse 126; 115).

La deformazione della differenza ontologica, la possibilità stessa di sospendere il reciproco rinvio dell’ente all’Essere rimanderebbero allora ad una «differenza indifferente». Quest’ultima deformerebbe il gioco dell’ente e dell’Essere in quanto con essa dovrebbe intervenire un’altra istanza in grado di porre fuori gioco l’Essere stesso, non attraverso una negazione, bensì tramite una sollecitazione in grado di smuoverlo e di scalzarlo dal suo luogo privilegiato. In tal modo l’ente non rinvierebbe più all’Essere, perché rimanderebbe piuttosto a questa nuova istanza. Deformazione e «differenza indifferente» realizzerebbero in maniera definitiva il progetto marioniano di una liberazione dell’Essere/dall’Essere. Secondo il pensatore francese, occorre rintracciare però quale sia questa istanza che, sebbene non costituisca una rinuncia all’ente, sia in grado di nominarlo senza alcun riferimento all’Essere: Del liberarsi dell’Essere abbiamo così tracciato il piano che ne guiderà la costruzione, ma si tratta pur sempre di un piano. Per metterlo in opera concretamente sarebbe necessaria l’entrata in campo di un’istanza tanto pensabile quanto aliena dalla differenza ontologica, pensata o impensata (Dse 127; 116).

Una simile istanza, «pensabile» eppure «aliena dalla differenza ontologica», può essere, a giudizio di Marion, la rivelazione biblica. La ragione

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La misura dell’umano

è semplice. La rivelazione, come vuole Paolo, è sapienza di Dio che si oppone a quella umana ricercata dai Greci. Sul solco della prima lettera ai Corinzi, Marion fa valere così la rivelazione come una sapienza che non solo non intraprende la via ontologica della filosofia (prima) nel ricercare la causa dell’ente/Essere, ma si dimostra anzi indifferente ad essa. Il riferimento, esplicito d’altronde, è alla metafisica (πρώτη φιλοσοφία) di Aristotele come ricerca (ontoteologica) della sapienza che qui viene opposta alla sapienza propria di Dio e della rivelazione ebraico-cristiana. Marion non nasconde che si tratta in questo caso di una precisa suggestione heideggeriana tratta da un passo dell’Introduzione a: «Che cos’è metafisica?»146. In esso Heidegger, dopo aver precisato che la metafisica è secondo Aristotele una ontoteologia, ne riesamina il rapporto con la teologia cristiana. Contro l’opinione che la teologia cristiana abbia considerato l’ontologia dei Greci come sua eredità, secondo il filosofo tedesco, emergerebbe piuttosto il contrario. La teologia cristiana finì per incrociare la metafisica greca poiché contravvenne all’incitamento di Paolo di considerare la filosofia dei Greci una follia: «Dov’è il sapiente? Dov’è il dotto? Dove mai il sottile ragionatore di questo mondo? Non ha forse Dio dimostrato stolta la sapienza di questo mondo?» (1 Cor 1, 20). Quale prezzo abbia pagato in tal modo la teologia cristiana, Heidegger sembra non volerlo valutare nel passo in questione. Tuttavia l’esortazione è inequivocabile: «Vorrà la teologia cristiana ridecidersi a prendere sul serio la parola dell’Apostolo e quindi la filosofia come una follia?»147. Questa volta la critica heideggeriana alla teologia cristiana delimita la possibilità effettiva di una sapienza che può fungere da istanza indifferente all’ontoteologia e all’Essere: «E mentre i Giudei chiedono i miracoli e i Greci cercano la sapienza, noi predichiamo Cristo crocifisso, scandalo per i Giudei, stoltezza per i pagani; ma per coloro che sono chiamati, sia Giudei che Greci, predichiamo Cristo potenza di Dio e sapienza di Dio» (1 Cor 1, 22-24). Marion non se la lascia sfuggire148. Scrive infatti in riferimento a quella nuova istanza che potrebbe entrare in gioco: Ed è ovvio che per ricoprire questo ruolo potremmo pensare immediatamente alla rivelazione biblica, perché essa oppone alla “sapienza cercata dai Greci” (e quindi all’on che costituisce l’eterno oggetto di ricerca di Aristotele), “la sapienza di Dio” (1 Cor 1, 22 e 24) (Dse 127; 116). 146 Cfr. la nota n. 72 della traduzione italiana di Dse 127; 116 ove però il numero di pagina di Segnavia da cui è tratto il passo in questione è p. 330 e non p. 300. 147 M. Heidegger, Segnavia, cit., p. 331. 148 Cfr. il § 3 di Ied.

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Differenza e donazione

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Vi sarebbe tuttavia una obiezione plausibile contro l’opposizione tra le due sapienze. Marion l’anticipa. Si potrebbe infatti negare che quell’opposizione sia sufficiente a sbaragliare il mutuo rinvio dell’ente all’Essere poiché la rivelazione non proferisce parola sull’Essere. Detto altrimenti, la sapienza di Dio non potrebbe valere come istanza diversa, rispetto al primato dell’Essere, poiché resterebbe in silenzio non esprimendosi né sull’Essere, né dunque tantomeno sull’ente al quale, peraltro, non bisogna abdicare. L’obiezione minerebbe allora la plausibilità di un’istanza in grado di sollecitare il ruolo privilegiato dell’Essere. La rivelazione, insomma, tacerebbe sull’Essere e sull’ente, perciò non potrebbe corrispondere all’istanza in grado di deformarne la differenza: «Ma l’opposizione delle due sapienze non basta per mettere in fuori gioco il gioco dell’Essere dell’ente, dato che – e l’evidenza di questo fatto sembra non essere contestata da nessuno – la rivelazione biblica non dice una sola parola intorno all’Essere. […] Ma il problema è proprio se questo silenzio sfugga veramente a ogni interrogazione» (Dse 127; 116).

Secondo il filosofo francese, si tratta di verificare davvero e in quale misura la rivelazione rimanga silenziosa circa l’Essere. Da un lato, infatti, è evidente che essa non condivide alcunché con la sapienza dei Greci. La rivelazione biblica non è interrogazione sull’Essere. Né metafisica, né ontologia, essa è indifferente alla differenza ontologica. Si tratta di un dato innegabile: «La rivelazione biblica ignora la differenza ontologica, la scienza dell’Essere/ente in quanto tale, e quindi la questione dell’Essere, e questo è un fatto incontestabile» (Dse 127; 116). Dall’altro, sarebbe però fuorviante usare questo presupposto per asserire che la rivelazione non si pronunci sull’ente. In realtà, nota il pensatore francese, la rivelazione biblica si esprime sull’ente e sul non-ente, sebbene sia indifferente all’Essere e alla differenza ontologica. La prova di ciò è costituita da tre testi del Nuovo Testamento nei quali compaiono precisi riferimenti all’ente, scritto in greco, con un’affinità con il linguaggio filosofico dei Greci soltanto apparente. I testi in questione sono due passi di Paolo (Rm 4, 17; 1 Cor 1, 28) ed uno di Luca (Lc 15, 12-32), commentato il quale Marion approderà al tema del dono e della donazione. L’esame di essi non solo può dimostrare che la rivelazione non tace sull’ente, ma soprattutto che è possibile una «differenza indifferente alla differenza ontologica» in grado di interrompere il gioco dell’ente con l’Essere:

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La misura dell’umano

Ma pretendere che essa non dica una sola parola sull’ente, sul non-ente e sull’entità è quanto di meno esatto ci possa essere. Ci imbatteremo fra qualche istante in tre testi che concernono tre parole dell’ente, dette in greco e in conformità per lo meno con il lessico dei filosofi greci. Quest’omonimia (se non si tratta di qualcosa di più) farà sì che ci si possa rendere conto concretamente di come una differenza indifferente alla differenza ontologica possa, comunque, cercare di mettere in fuori gioco il gioco dell’ente con l’Essere (Dse 128; 116).

Nel primo passo, preso in considerazione dal filosofo francese, Paolo scrive in riferimento ad Abramo: «Infatti sta scritto: Ti ho costituito padre di molti popoli; (è nostro padre) davanti al Dio nel quale credette, che dà vita ai morti e chiama all’esistenza le cose che ancora non esistono» (Rm 4, 17). Marion constata come in questo passo Paolo ripeta due volte una precisa formula kerigmatica. Come Abramo, il cristiano crede nel Dio che dà vita ai morti e, quasi per precisare ciò, Paolo puntualizza che il ridare loro vita è interpellare «all’esistenza le cose che ancora non esistono». Paolo sembra usare qui un lessico filosofico greco, scrive di cose (enti) che non sono e che Dio chiama all’esistenza, καλοῦντος τὰ μὴ ὄντα ὡς ὄντα. Proprio un tale linguaggio, attira l’attenzione di Marion: Ora, ed è proprio a partire da questo punto che il testo comincia a stupirci, l’enunciazione kerigmatica viene ripetuta con una seconda formula, costruita evidentemente sullo schema della prima, ma con un lessico nuovo e persino strano: Paolo, come i filosofi, vi parla di un passaggio tra ta me onta e (ta) onta, i non-enti e gli enti (Dse 128-129; 117).

Evidentemente questo passaggio dal non-ente all’ente non è pensabile a partire dal contesto della metafisica greca, sebbene il lessico in apparenza la richiami. Non si tratta, insomma, della generazione e della corruzione così come sono studiate da Aristotele. Ciò che conta è che il passaggio dal non-ente all’ente rinvia ad una istanza esterna ad essi, a quel Dio che chiama i non-enti all’esistenza. In gioco sarebbe qui, secondo il pensatore francese, una precisa differenza tra non-ente ed ente (differenza ontica) rispetto alla quale Dio mostra una totale indifferenza: Egli fa appello alla propria indifferenza contro la differenza tra ente e nonente. Egli fa appello alla propria chiamata-che-è-un-appello. E il suo appello fa giocare questa indifferenza in modo che la chiamata-che-è-un-appello non solo chiama i non-ente a divenire enti (os onta può avere qui questo senso consecutivo o/e finale), ma chiama, proprio i non enti, come se fossero degli enti (Dse 130; 118).

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Differenza e donazione

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Dunque opererebbe qui una indifferenza alla differenza ontica. La differenza, come tale, è presente. Eppure, nonostante la sua presenza, essa non rinvia più ad un contesto metafisico o ontologico perché piuttosto rimanda alla fede e al Dio di Abramo: Tirando le fila: la differenza ontica tra l’ente e il non-ente entra certo in campo, assisa all’ombra del kerigma; e tuttavia essa non funziona più secondo le norme dell’ente, ma secondo degli operatori (fede, chiamata-che-è-un-appello, come se) che, lungi dal reintrodurre in questa differenza ontica, la fanno apparire indifferente, pur lasciandola intatta (Dse 131; 119).

Questo passo di Paolo attesta una indifferenza alla differenza ontica. La necessità di esaminare un nuovo passo sorge inevitabilmente rispetto alla possibilità di una indifferenza alla differenza non soltanto ontica, ma ontologica. Marion prende in considerazione, sempre di Paolo, il passo seguente: «Dio ha scelto ciò che nel mondo è ignobile e disprezzato e ciò che è nulla per ridurre a nulla le cose che sono» (1 Cor 1, 28). La scelta è significativa. Si tratta, infatti, di un passo che è parte di quel capitolo ritenuto anche da Heidegger esemplare in quanto Paolo vi sostiene l’opposizione tra la sapienza di Dio e quella del mondo. Anche qui ricompare, in ogni caso, l’indifferenza alla differenza ontica già apparsa in Rm 4, 17, anche se ora non si tratta della chiamata di Dio all’esistenza dei non-enti, ma della sua scelta di ridurre gli enti a non-enti. In generale, secondo Marion, Paolo qui accenna a un doppio movimento tra ente e non-ente, rispetto al quale Dio è indifferente: Così, mentre Romani 4,17 metteva in luce una sola forma dell’indifferenza alla differenza ontica (quella che va dal non-ente all’ente), questo testo la fa vedere simultaneamente in entrambe le direzioni: dal non-ente, dall’ente al non-ente; l’indifferenza stabilisce così la propria indifferenza nei confronti delle due trasgressioni possibili della differenza ontica (la generazione assoluta e la corruzione assoluta); essa attesta quindi la propria coerenza e il proprio rigore (Dse 133; 120).

L’indifferenza è chiaramente trasgressione dei processi di generazione e di corruzione, del passaggio dal non-ente all’ente e di quello dall’ente al non-ente che sempre hanno interessato la filosofia greca. Più in generale, quella trasgressione è una vera e propria inosservanza nel senso che la sapienza di Dio si rivela indifferente alle differenze (ontica, ontologica) proprie della sapienza umana, non ne segue le distinzioni (ente/non-ente, generazione/corruzione ecc.) e non vi si adegua, non le usa e perciò si disinteressa, in ultimo, alla ricerca delle cause e dei principi della realtà.

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La misura dell’umano

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Finisce così per metterle radicalmente in questione fino a rendere stolta «la sapienza di questo mondo»: […] il “disegno sapiente di Dio” (1, 21), definito successivamente “la sapienza venuta a noi per opera di Dio” (1, 30), contraddice “la sapienza di questo mondo”, e la “rende folle”, la fa impazzire (1, 20), come una calamita fa impazzire una bussola, privandola di un qualsiasi riferimento a un polo fisso (Dse 133; 121).

L’analogia della calamita e della bussola è qui chiara. La sapienza di Dio sconvolge le direzioni indicate dalla bussola come una calamita che la rende inutilizzabile. La sapienza umana non può più orientarsi da sé. L’orizzonte non ha più punti di riferimento, il passo è indeciso, tutto si confonde, impazzisce. Sul fatto che questa sapienza resa folle sia la filosofia dei Greci non ci sono dubbi. Come giustamente rammenta Marion, seguendo Heidegger, quella sapienza umana non è altro che la filosofia greca così come Aristotele ce la presenta149, vale a dire indagine sull’ente e sulla sostanza. Il filosofo greco lo chiarisce nel libro VII della Metafisica: «E in verità, ciò che dai tempi antichi, così come ora e sempre costituisce l’eterno oggetto di ricerca e l’eterno problema: “che cos’è l’essere”, equivale a questo: “che cos’è la sostanza” […]»150. La follia della sapienza umana è allora l’insensatezza in cui cadono la ricerca sull’ente e l’indagine sulla sostanza, vale a dire sull’Essere se, come vuole Aristotele, «l’essere primo, ossia non un particolare essere, ma l’essere per eccellenza, è la sostanza»151. Insensata, la sapienza umana lo è poiché la sapienza di Dio interviene davvero come istanza che la scombussola. I filosofi orientano la loro ricerca guidati dalle domande sull’ente e sull’Essere alle quali anche Aristotele uniforma la sua indagine. Sono l’ente e l’Essere, dunque, a conferire unitarietà d’indagine e senso a quel domandare. Ma la sapienza di Dio, secondo Paolo, opera come se ente e Essere, il loro gioco e il loro rinvio, non fossero, indifferente alla differenza stessa tra ente e non-ente, tra ente e Essere. In maniera più incisiva, la sapienza di Dio è in realtà indifferente alla ricerca stessa sull’ente, alla medesima filosofia e al suo domandare che non sono altro che sapienza di questo mondo. 149 Così infatti Heidegger: «Ma la σοφίαν τοῦ κόσμου è ciò che, come lì si dice (loc. cit., 1, 22), gli Ἕλληνες ζητοῦσιν, i Greci cercano. Aristotele chiama addirittura espressamente ζητουμένη (quella cercata) la πρώτη φιλοσοφία (la filosofia in senso proprio» (M. Heidegger, Segnavia, cit., p. 331). Cfr. la nota n. 66 (n. 72 della traduzione italiana) di Dse 127; 116. 150 Aristotele, Metafisica, Rusconi, Milano 1989, p. 297. 151 Aristotele, Metafisica, cit., p. 296.

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Differenza e donazione

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La sapienza di Dio è allora indifferente non soltanto alla differenza ontica, ma anche a quella ontologica. Ciò si constata, secondo Marion, considerando la maniera con la quale questa istanza rende folle la sapienza dei filosofi. L’indifferenza di Dio verso l’ente come tale lo destituisce di ogni senso. Con ciò priva contemporaneamente di ogni significato anche il domandare stesso dei filosofi greci. Insensato, l’ente non ne può più dirigere l’interrogare. Incapace di guidare ogni ricerca poiché destituito di significato, l’ente rende perciò folle anche l’amore per la sapienza: […] l’amore della sapienza (di questo mondo) diventa folle perché, prima di ogni altra cosa e più di ogni altra cosa, diventa folle, impazzisce l’indice che la guida, l’on. Impazzire: diventare folle, come una ruota o una puleggia che diventa folle, girando a vuoto, quando viene liberata da ogni punto effettivo di contatto con l’asse: folle, e quindi fuori asse. L’ente diventa folle perché invece di sottolineare il senso, diviene lui stesso libero da ogni senso, insensato, alienato a e da un senso non solo sconosciuto, ma soprattutto inconcepibile, impensabile (Dse 134; 122).

Ciò che in tal modo è così deformato è il di-spiego (pli) dell’Essere e dell’ente, il loro reciproco rinvio, la differenza ontologica stessa. L’ente, folle e alienato, lo diviene poiché fuori centro rispetto alla relazione con l’Essere che lo costituiva come tale. Non più in relazione con l’Essere, l’ente non è più. La liberazione dell’Essere è, in breve, liberazione dall’Essere che non svolge più alcuna funzione costitutiva nei confronti dell’ente. La sapienza di Dio rivela così la stoltezza della sapienza di questo mondo. Liberatosi dall’Essere, sospesa la piega, esautorato il di-spiego, l’ente riluce senza il rimando alla differenza ontologica, ora deformata e verso la quale vige l’indifferenza: La follia della “sapienza di questo mondo” (filosofia) denunciata dalla “sapienza di Dio” si compie attraverso una deformazione del dispiego dell’ente/ Essere, che determina l’ente senza ricorrere all’Essere: indifferenza alla differenza ontica, ma anche alla differenza ontologica (Dse 135; 122).

Non sono allora né la differenza ontologica né il di-spiego (pli) a decidere e a determinare l’ente come tale. L’entità non dipende dalla sapienza di questo mondo. Secondo Marion è ciò che i passi di Paolo, presi in considerazione, pongono in luce. La decisione tra ciò che è ente e ciò che non lo è (differenza ontica), posta in essere dal mondo, non interessa a Dio. Egli infatti «chiama all’esistenza le cose che ancora non esistono» (Rm 4, 17). Inoltre Dio sovverte la sapienza del mondo, la sua misura e il suo giudizio, preferendo proprio ciò che per essa è più basso e vilipeso; predilige infatti

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La misura dell’umano

«ciò che nel mondo è ignobile e disprezzato e ciò che è nulla per ridurre a nulla le cose che sono» (1 Cor 1, 28). Il domandare mondano (la filosofia), sostenuto e guidato dall’Essere, resta indifferente a Dio che a quell’interrogare non corrisponde se non sovvertendolo con l’eccesso e la dismisura. Marion precisa, in realtà, che Dio non annichilisce né il mondo né la sua sapienza, ma si limita a revocarne il giudizio. All’opera è qui l’incrociarsi di due linee, quella di una differenza (ontica, ontologica) che differenzia, giudica e misura gli enti secondo una misura mondana (umana) e quella di un ristabilimento della relazione tra gli enti illuminati dalla dismisura divina. Questo incrocio (croisement) deforma la differenza ontologica, produce una croce che la pone fuori gioco, questa volta definitivamente: L’incrocio di queste due linee deforma profondamente il gioco dell’ente sottraendolo all’Essere, mettendo l’ente in fuori gioco rispetto a quella che è la regola dell’Essere. Questo incrocio traccia una croce sulla differenza ontologica, una croce che la abolisce senza decostruirla, la oltrepassa senza superarla, l’annulla senza annientarla, la deforma senza contestarne i diritti (Dse 140; 126).

È in Paolo, dunque, e, più in generale, nella rivelazione cristiana assunta come istanza, tale da porre fuori gioco l’Essere, che il filosofo francese rinviene la deformazione o l’indifferenza verso la differenza ontologica: «Ora constatiamo, dunque, che l’ente e il non-ente possono suddividersi secondo un’istanza diversa dall’Essere» (Dse 140; 126). Che ne è, tuttavia, dell’ente se non è, una volta deformata la differenza, cioè posta fuori gioco la regola stessa dell’Essere? È, in fondo, questo problema che Marion affronta con l’esame dell’ultimo passo del Nuovo Testamento (Lc 15, 12-32) dei tre indicati precedentemente. Ed è in questo contesto che il pensatore francese incontra i temi del dono (don) e della donazione, declinati sul piano della rivelazione, dunque non ancora su quello fenomenologico, ma in dialogo piuttosto con l’heideggeriano es gibt di Tempo ed essere. Nel passo evangelico in questione, ossia la parabola del figlio ritrovato, l’attenzione di Marion è tutta attratta nuovamente dalla presenza nel testo del termine classico della metafisica greca, οὐσία, presente già nei primi due versetti: «Il più giovane disse al padre: Padre, dammi la parte del patrimonio [οὐσίας, substantiae] che mi spetta. E il padre divise tra loro le sostanze. Dopo non molti giorni, il figlio più giovane, raccolte le cose sue, partì per un paese lontano e là sperperò le sue sostanze [οὐσίαν] vivendo da dissoluto» (Lc 15, 12-13). Nel passo scelto dal filosofo francese, il termine οὐσία, sostanza, compare per ben due volte ma, decisivo, esso non ha qui alcuna valenza filosofica. Il termine rinvierebbe semmai ad una

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Differenza e donazione

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accezione anteriore alla stessa filosofia aristotelica, prossima, come nota Marion, a quella rintracciata già da Heidegger ne I problemi fondamentali della fenomenologia: «Nell’età di Aristotele, quando ormai era fissato il significato filosofico-teoretico di questo termine, esso indicava ancora un avere, un possesso, un patrimonio. Il vero significato prefilosofico di οὐσία resisteva ancora. Perciò ente significa qualcosa che sussiste come disponibile a portata di mano (vorhandenes Verfügbares)»152. L’οὐσία, dunque, non ha qui senso aristotelico, ma un significato pre-filosofico - «un avere, un possesso, un patrimonio» -, esattamente come le traduzioni del passo di Luca restituiscono: «Padre, dammi la parte del patrimonio che mi spetta». Marion ne ricava, dunque, due conseguenze. Innanzi tutto, è riconfermato nuovamente come nel Nuovo Testamento siano presenti termini della tradizione filosofica greca, sebbene nel contesto della rivelazione essi non corrispondano assolutamente all’ontologia greca. Secondariamente, come già per Paolo, si tratta anche ora di mettere in luce, nel passo in questione, il senso non filosofico che il termine οὐσία acquista nell’economia della rivelazione. L’intento ermeneutico di Marion ruota proprio intorno all’accezione più semplice di οὐσία come di qualcosa disponibile, alla mano, da possedere. In effetti, il pensatore francese sottolinea come in quella parabola sia in gioco il possesso: […] La nostra lettura non richiederà niente di più di questa interpretazione debole di ousia: il bene disponibile per un possesso e un potere. In questo caso, infatti, per quel che concerne l’ousia, ne va soltanto del possesso; la parabola si occupa esclusivamente di questo punto: l’entrata dell’ousia nella logica del possesso, o più esattamente del possesso come modo principale di mettere a disposizione un bene (Dse 141-142; 128).

Ma Marion ritiene decisivo soprattutto il diverso sguardo che i figli, rispetto al padre, dirigono sull’οὐσία. Il figlio minore esige infatti la sua parte di patrimonio. In questa pretesa è da leggervi, secondo il filosofo francese, non il godimento di qualcosa di cui egli di fatto già gode in quanto figlio, ma il diritto di goderne senza riferimento al padre, di esercitare un dominio e un controllo assoluti e indipendenti sulla sua parte di patrimonio. La richiesta al padre di divisione dei beni comuni è dunque il rifiuto del patrimonio comune condiviso col padre, la pretesa di definire un pro152 M. Heidegger, Die Grundprobleme der Phänomenologie, V. Klostermann, Frankfurt am Main 1975, tr. it. I problemi fondamentali della fenomenologia, Melangolo, Genova 1999, p. 103.

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La misura dell’umano

prio possedimento. Il possesso, dunque, e non l’οὐσία come tale interessa al figlio, affinché possa goderne da sé, indipendentemente dal padre, non considerandola una concessione o un dono paterno: «[…] Più che l’ousia egli reclama “la parte di ousia che gli spetta” in piena e assoluta proprietà, non l’ousia ma il possesso dell’ousia» (Dse 142; 128). Ciò che il figlio rivendica è la disponibilità, il possesso dell’οὐσία al di fuori della relazione con il padre che implica invece la concessione gratuita, la disponibilità e il godimento in comune di ciò che egli esige, viceversa, unicamente per sé. In questo senso emerge già qui il tema del dono, ma come rovesciato, nella figura del suo rifiuto e della sua negazione. Ciò che il figlio rivendica è il possesso dell’οὐσία al di fuori di ogni concessione, il dominio della sua parte di patrimonio da non considerare più come un dono del padre. Ciò che egli impone è così di non stimare più l’οὐσία come dono e gratuità. Il rifiuto del dono del padre caratterizza perciò la pretesa del figlio: Chiede che gli si doni di non dover più ricevere doni, e più precisamente di non dover più ricevere l’ousia come un dono: chiede di possederla, di disporne, di goderne senza dover passare attraverso il dono e l’accoglienza del dono. Il figlio non vuole dover nulla a suo padre, e soprattutto non gli vuole dovere un dono; chiede di non avere più un padre. L’ousia senza padre e senza dono (Dse 143; 129).

Il possesso rivendicato invalida la relazione col padre, revoca il dono dell’οὐσία. Posseduta, attraverso la negazione e il rifiuto, essa è abbandonata al di fuori del contesto proprio del dono paterno, perduta nello spreco e nello sperpero. Qui Marion mette in luce il doppio destino tanto dell’οὐσία, rifiutata come dono paterno, quanto del figlio, una volta annullata la relazione con il padre. Il destino di abbandono dell’οὐσία nel consumo e nella dissipazione, una volta trasformata in denaro, è analogo a quello del figlio che, dissipandola, perde ogni dignità e finanche l’umanità: «Quando ebbe speso tutto, in quel paese venne una grande carestia ed egli cominciò a trovarsi nel bisogno. Allora andò e si mise a servizio di uno degli abitanti di quella regione, che lo mandò nei campi a pascolare i porci. Avrebbe voluto saziarsi con le carrube che mangiavano i porci; ma nessuno gliene dava» (Lc 15, 14-16). Ma al destino del figlio risponde nuovamente il padre. Qui è la figura del perdono, secondo Marion, a chiarire la restituzione della dignità di figlio e della sua stessa umanità: E arriva alla fine il momento del perdono; il padre riconosce da lontano il proprio figlio, lo abbraccia e lo raccoglie; che cosa dice, dona e perdona il pa-

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dre? Egli restituisce senz’altro l’umanità (lavando, rivestendo), ma soprattutto restituisce la dignità di figlio: “Perché questo mio figlio era morto ed è tornato in vita” (versetto 24) (Dse 144; 130).

Il padre perdona, atto che suscita l’immediata protesta dell’altro figlio, il maggiore, anche lui incapace di comprende il dono paterno. Perché il padre perdona? Qual è il motivo? È qui che emerge il tema del dono nella sua pienezza. Dopo aver posto in luce il dono nella figura del rifiuto, Marion approda al dono nella sua interezza. Il padre perdona perché è estraneo alla logica del possesso. Ad essa non oppone niente, né un’altra logica né altre condizioni. Ad essa antepone il gioco stesso del dono che deborda ogni possesso (mio/tuo). Secondo Marion, il padre non vede infatti l’οὐσία come disponibilità o possesso. Tale è il vedere dei figli che così disconoscono nell’οὐσία il dono. Il padre, invece, vi ha visto da sempre quel dono che, nel perdono, è eventualmente donato ancora: Il padre non vede l’ousia come la vedono i suoi figli. Costoro vi leggono, secondo il desiderio, l’oggetto di un possesso senza concessione che abbandona qualsiasi traccia di un dono paterno. Il padre vi vede il dono continuamente sempre ri-donato (eventualmente nel perdono) (Dse 145; 131).

Il vedere del padre è dunque diverso da quello dei figli. Ritornano qui l’idolo e l’icona. Lo sguardo dei figli si rapprende sull’οὐσία a partire dal desiderio che li anima fino a specchiarsi idolatricamente in un patrimonio (idolo) che trasformano in denaro, in consumo. Idolo muto che occlude ogni altra provenienza. È il loro sguardo, infatti, a istituire l’οὐσία come idolo. L’intenzione del loro sguardo non mira al dono, ma si ferma sull’οὐσία che lo colma e lo satura, abbagliandolo, nella forma di un patrimonio da possedere fino a rapprendersi in un «primo visibile» che cancella l’invisibile, il non-mirato, il dono stesso. Lo sguardo del padre, invece, non si rapprende sull’οὐσία. Iconicamente la vede proprio come un dono, come ciò che è donato: O meglio, il padre non vi vede l’ousia, e del resto il termine appare solo nel discorso dei figli; il padre non lascia che il suo sguardo si rapprenda in un termine transitorio, idolo se poi non svanisce interamente nello scambio di cui costituisce soltanto il supporto, il segno, e persino il residuo; il padre non si lascia prendere nell’ousia, perché trapassa con lo sguardo tutto ciò che non si inscrive nel rigore di un dono, che dona, che è ricevuto, che è d(on)ato (Dse 145; 131).

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La misura dell’umano

Qui non c’è più né possesso né idolo, poiché quello sguardo non vede neppure l’οὐσία come tale, ma soltanto un dono che, nell’assenza di possesso (mio/tuo), mette furori circuito ogni logica di scambio, perciò ogni logica di possesso, aprendo al gioco del dono: Sotto lo sguardo idolatricamente saturo dei figli, la moneta di scambio offusca lo scambio; per il profondo sguardo iconico del padre, l’ousia non ferma mai né la mira dello scambio né la circolazione del dono. Tutto ciò che è mio è tuo: nulla diventa ousia (Dse 145; 131).

All’opera, secondo il pensatore francese, sarebbe qui allora il medesimo rovesciamento presente nei passi di Paolo. Da un lato, vi sarebbero infatti il giudizio del mondo che distingue tra enti e non-enti, il figlio che rapprende lo sguardo su una οὐσία ridotta a patrimonio da possedere annullando la propria relazione con il padre. Dall’altro, invece, vi sarebbero la sapienza di Dio che resta indifferente alla sapienza del mondo e rovescia il rapporto tra enti e non-enti da essa fondata, il padre indifferente all’οὐσία e a qualunque desiderio di possesso poiché in quella vi vede semplicemente un dono. E come τὰ ὄντα e τὰ μὴ ὄντα, enti e non-enti, non dipendono dalla sapienza (filosofica) del mondo e non rispondono né alla differenza ontologica né all’Essere poiché «la parola della croce infatti è stoltezza per quelli che vanno in perdizione, ma per quelli che si salvano, per noi, è potenza di Dio» (1 Cor 1, 18), così anche dell’οὐσία si deve affermare lo stesso, ossia che essa si sottrae, almeno nel passo di Luca e nell’ambito della rivelazione, al gioco dell’Essere e dell’ente, non rinvia ad alcuna differenza ontologica né rimanda all’Essere come istanza e condizione. Ciò che vale per l’ente, vale anche per l’οὐσία: «Ora constatiamo, dunque, che l’ente e il non-ente possono suddividersi secondo un’istanza diversa dall’Essere» (Dse 140; 126). Ma il passo di Luca e la tematica sulla logica del possesso recano qualcosa in più all’argomentazione marioniana. L’esame dei passi di Paolo conduce alla constatazione di «un’istanza diversa dall’Essere», ma non ne svela però ancora il gioco. Una volta messa fuori gioco la differenza ontologica insieme all’istanza dell’Essere, rimane infatti indeterminato il gioco giocato dall’ente: «La domanda, a questo punto, diventa: a che gioco gioca l’ente quando mette in fuori gioco la differenza che lo inscrive nell’Essere?» (Dse 140; 126). Il passo di Luca risponde a questa domanda. Rivela come l’οὐσία, perciò anche τὰ ὄντα e τὰ μὴ ὄντα, si iscrivano nel gioco del dono. Non solo dunque giocano nel loro caso un gioco indifferente all’Essere, ma questo stesso gioco si rivela essere quello del dono:

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Differenza e donazione

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Si dovrà allora concludere che l’ousia, al pari dei (me)onta, si scopre ripresa in un gioco radicalmente estraneo all’Essere? Certo. E sin da ora si può cominciare a delineare più da vicino il gioco che, indifferente alla differenza ontologica, mette in fuori gioco l’ente dell’Essere: il suo nome è dono (Dse 146; 132).

Trova qui conclusione la ricerca marioniana di una deformazione della differenza ontologica tale da non ricadere nel suo mantenimento tanto nella forma di un suo rovesciamento (Lévinas), quanto in quella di una sua marginalizzazione (Derrida). La differenza ontologica è deformata poiché è deformato innanzi tutto il gioco (rinvio, rimando) dell’ente all’Essere quale istanza privilegiata che regola il gioco stesso. E la deformazione in questione riguarda proprio quest’ultimo che non funge più da istanza e regola del gioco stesso, come compare nei passi di Paolo, poiché ne interviene un’altra a sollecitarlo. Tale istanza si rivela essere il dono come pone in luce l’ermeneutica marioniana della parabola del figlio ritrovato. Il dono è quell’istanza che incalzando il privilegio dell’Essere (lo) libera (dal)l’ente, deforma la differenza ontologica. Su ciò il filosofo francese è esplicito: Ciò che conta, in questo caso, è fermare l’attenzione su questo unico punto fermo: la rivelazione biblica fa affiorare, in qualche raro testo, l’idea di una certa indifferenza dell’ente rispetto all’Essere; l’ente così non si gioca dell’Essere se non mettendo in fuori gioco la differenza ontologica; e la mette in fuori gioco solo nella misura in cui è innanzitutto deformato da un’altra istanza, il dono (Dse 147; 133).

Ciò significa che il dono «in-crocia» (croise) l’ente/Essere, ossia si smarca dalla differenza e dal privilegio dell’Essere poiché interviene a deformare il loro rinvio. La deformazione assume così il significato di scombussolare il rinvio stesso, disfacendone il di-spiego (pli), scombinandone la «con-giunzione» (ajointement). L’ente stesso e l’οὐσία non ottengono più senso a partire dall’Essere poiché si trovano all’interno di un gioco nel quale il loro statuto muta nel segno di ciò che è donato. L’οὐσία non può più reggere il senso guida del domandare metafisico, come in Aristotele, poiché il dono ne distorce la presenza e la disponibilità, il suo essere alla mano, deforma quello sguardo idolatrico che ne preclude ogni altra provenienza, il suo essere dono. L’ente, reso folle dall’assenza di quello sguardo che lo riduce ad un idolo sul quale l’Essere si rifletteva nel gioco della loro differenza (ontica, ontologica) che li intratteneva, si scopre così donato.

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La misura dell’umano

Il dono, in conclusione, «in-crocia» l’ente e l’Essere, ne deforma il rinvio e, insieme, lo appiana ponendosi al cuore stesso del loro incrociarsi e dipartirsi: «Il dono in-crocia l’Essere/ente: lo incontra, lo cancella con un segno, e infine lo apre, come apre un incrocio, su un’istanza che resta indicibile in base al linguaggio dell’Essere – supponendo poi che se ne possa concepire un altro» (Dse 147; 133). Ma allora non è il dono ad essere marcato o segnato dalla differenza ontologica, piuttosto l’inverso, nel senso di una anteriorità (non metafisica!) del dono rispetto all’ente e all’Essere. Ciò significa che l’ente e l’Essere, la loro differenza, sono essi stessi donati, è il dono che li «rilascia» (délivre): «Implica, in altre parole, che il dono non sia affatto esposto secondo l’Essere/ente, ma che l’Essere/ente sia d(on)ato secondo il dono. Il dono rilascia l’Essere/ente» (Dse 147; 133). È questo rilasciare del dono che libera effettivamente l’ente dall’Essere. In quanto istanza che scuote il privilegio dell’Essere, il dono disfa il di-spiego (pli) dell’Essere/ente, ne scombina la «con-giunzione» (ajointement), al punto che l’ente si scopre libero dall’Essere, «folle» (folle), «messo fuori asse rispetto all’Essere come una ruota libera gira in folle attorno al proprio asse»153 (Dse 148; 133). Istanza liberatrice, il dono non è tuttavia istanza prima. Icona che dischiude una provenienza ulteriore, il dono allude alla distanza dalla quale la dismisura irrompe come carità (charité): «Il dono, infatti, non si libera se non esplicandosi a partire e in nome di ciò che, più grande di lui, viene dietro di lui – ciò che si dona come dono, la carità stessa. La carità rilascia l’Essere/ente» (Dse 148; 133). 8. La donazione Rimane un’ultima obiezione, secondo Marion, «ineludibile», «estremamente pertinente oltretutto» (Dse 148; 134). Risponderle consente al pensatore francese di differenziare o, meglio, di distanziare la propria concezione della donazione dalle suggestioni esercitate dall’es gibt154 heideggeriano 153 «[…] Bref en défaisant l’ajointement Être/étant: le pli défait son dépli, l’étant joue librement, désaxé de l’Être comme une roue libre tourne folle autour de son axe; l’Être/étant s’affole du don qui le précède et qui ne lui abandonne la différence ontologique qu’en ce que d’abord il l’annule» (Dse 148; 133). 154 Il tedesco es gibt è traducibile con «c’è», «si dà». Cfr. M. Heidegger, Segnavia, cit., p. 496. È anche da notare la funzione neutra e impersonale assolta dallo es: «Il tedesco es gibt, che significa c’è, si dà, vale alla lettera: “esso (es = neutro imper-

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Differenza e donazione

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trattato soprattutto nella conferenza intitolata Tempo ed essere del 1962, successiva a quelle del 1957 raccolte in Identità e differenza. Argomentarla contribuisce inoltre ad evidenziare il debito che Marion ha nei confronti del filosofo tedesco e il contributo di questi alla genesi originaria del tema della donazione nel filosofo francese, anche tenuto conto dell’andamento del pensiero che medita la differenza ontologica e del suo procedere quasi analogo a quello apofatico della teologia negativa di Dionigi l’Aeropagita, come si avrà modo di leggere. Debito e contributo, peraltro, confermati dallo stesso Marion, il cui itinerario speculativo aderisce, nella distanza che deforma l’ontologia rivelatasi idolatrica, a quello heideggeriano nel cammino che va dall’impensato della metafisica di Identità e differenza fino al dono (Gabe) e alla donazione (Geben) di Tempo ed essere: «Così il pensiero che cerca di pensare l’Essere nella sua essenza finisce con il lasciare a lato la differenza ontologica in quanto tale, per riprenderne ciò che è in gioco sotto l’altra formulazione del dono» (Ied 294; 234). E ancora: «Resta allora da prendere sul serio la ripresa cui proprio Heidegger, alla fine, aveva sottoposto (in Zeit und Sein) la differenza, comprendendola a partire dalla donazione (anonima?) del dono» (Ied 13; 6). Vi è in effetti una continuità di fondo tra Identità e differenza e Tempo ed essere. Il tema intorno al quale le conferenze di Heidegger si articolano è costituito dallo Schritt zurück, discusso in Identità e differenza come movimento che risale dalla differenza ontologica verso ciò che nella metafisica rimane impensato, l’Essere stesso. L’inizio di Tempo ed essere non tradisce questo intento: «Si tratta di dire qualcosa del tentativo che pensa l’essere senza riguardo a una fondazione dell’essere a partire dall’essente»155. Come verrà precisato nel protocollo seminariale che accompagnò la conferenza del 1962, ciò denota il fatto che «non bisogna pensare l’essere alla maniera della metafisica»156. Si tratta perciò di «pensare propriamente l’essere per se stesso»157. È in questa prospettiva che, dal pensiero della differenza ontologica impensata dalla metafisica, Heidegger approda al dono

sonale) dà”» (M. Heidegger, Zur Sache des Denkens, Niemeyer, Tübingen 1969, tr. it Tempo ed essere, Guida, Napoli 1988, p. 105, nota n. 5). Sulla possibilità o meno di tradurre lo es gibt con il francese Il y a, Heidegger si era soffermato nella Lettera sull’«umanismo», cfr. M. Heidegger, Segnavia, cit., p. 287. Sul rapporto tra es gibt, es ist e il francese Il y a, nonché l’uso che ne fanno i poeti come G. Trakl e A. Rimbaud si sofferma il protocollo seminariale che accompagnò la conferenza del 1962. Cfr. M. Heidegger, Tempo ed essere, cit., pp. 149-150. 155 M. Heidegger, Tempo ed essere, cit., p. 102. 156 M. Heidegger, Tempo ed essere, cit., p. 142. 157 M. Heidegger, Tempo ed essere, cit., p. 106.

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La misura dell’umano

(Gabe) ed al donare (Geben)158. «Pensare propriamente l’essere per se stesso» è possibile a patto che non si concepisca più metafisicamente l’Essere come fondamento dell’ente, ma come una donazione che chiama in causa lo es gibt: «Pensare propriamente l’essere esige che si abbandoni l’essere come il fondamento dell’essente a favore del dare che gioca nascosto nel disvelamento, cioè a favore dello “Es gibt”»159. A partire dalla donazione, l’Essere - ma anche il tempo -, non è ma si dà, in un consegnarsi nel quale rimane però celato lo Es gibt stesso: «L’essere non è (ist). Essere si dà (gibt Es) in quanto disvelamento di un ostendersi dell’essere nella presenza»160. C’è qui un movimento di occultamento/disvelamento che non soggiace alla donazione in quanto piuttosto la dispiega al punto da inaugurare un pensiero della storia dell’Essere come destino (Geschick161) nel quale è inscritto il suo oblio e quello stesso della differenza ontologica. Il filosofo tedesco precisa infatti che lo es gibt si sottrae favorendo la donazione dell’Essere che rimane pensato in riferimento all’ente, sin dall’inizio, alle origini stesse 158 È da notare che nel testo tedesco della conferenza del 1962 non compare mai il termine (fenomenologico) Gegebenheit. È dunque una svista dell’edizione italiana di Dse tradurre un passo di Tempo ed essere (GA 14, p. 24), reso in francese a p. 149 di Dse così «à partir du genre de donation qui lui appartient: donation (Geben) comme rassemblement de la destination, donation comme porrection éclaircissante, das Geben als Geschick, das Geben als lichtendes Reichen» con questa traduzione a p. 135: «a partire dal genere di donazione che gli appartiene: donazione (Gegebenheit) come destino ecc.». Singolare è che nella prima edizione italiana di Dio senza essere si leggesse invece correttamente a p. 131 «a partire dal genere di donazione che gli appartiene: donazione (Geben) come destino ecc.». Distinguere tra donazione come Geben e donazione come Gegebenheit non è semplice questione di traduzione poiché a partire dalla possibilità della loro identificazione Marion costruirà la sua fenomenologia della donazione a cominciare da Red. Si tratta di una mediazione sulla quale Derrida avanzerà le proprie riserve con le quali argomenterà nel 1997 il suo disaccordo con Marion proprio anche su questo punto: «Je ne suis pas convaincu qu’il y ait une continuité sémantique entre l’usage de la Gegebenheit en phénoménologie et le problème du don que nous nous apprêtons à discuter. Husserl, il est vrai, renvoie largement et constamment à ce qui est donné à l’intuition mais je ne suis pas sûr que cette Gegebenheit entretienne une relation évidente et intelligible avec le don, avec le fait d’être donné comme un don. […] Par ailleurs, la façon dont vous réalisez la médiation ou la transition entre la Gegebenheit et le es gibt chez Heidegger m’apparaît également problématique» (Sur le don. Une discussion entre Jacques Derrida et Jean-Luc Marion in Fdp 193). 159 M. Heidegger, Tempo ed essere, cit., p. 107. 160 M. Heidegger, Tempo ed essere, cit., p. 107. 161 Sulla traduzione di Geschick con il termine «destino» e il suo significato in Heidegger in relazione non alla necessità (metafisica), ma al dono si veda la nota di G. Vattimo in M. Heidegger, Saggi e discorsi, cit., p. 18, nota n. 3.

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Differenza e donazione

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della filosofia: «All’inizio del pensiero occidentale viene pensato l’essere, ma non lo “Es gibt” come tale. Questo si ritrae (sich entzieht) a favore della donazione (Gabe), che Es gibt, che grazie allo Es si dà – la quale donazione in avvenire viene pensata, e così portata al concetto esclusivamente come essere in riferimento all’essente»162. La donazione implica quindi un destino poiché nel movimento stesso del dare è sottintesa, sottaciuta, una sottrazione: «Storia dell’essere significa “destino” dell’essere […], nelle cui destinazioni (Schickungen) tanto il destinare (das Schicken) quanto anche Quello (das Es) che destina (schickt) sospendono, trattenendosene, la loro manifestazione. Sospendere, trattenersi (an sich halten) si dice in greco ἐποχή. Da qui l’espressione “epoche della storia dell’essere”»163. Da qui, inoltre, l’identificazione stessa tra donazione e destino: «Questo dare (Geben) si è mostrato come destinare (Schicken)»164. Assodato ciò, l’interrogazione di Heidegger prosegue per cercare di delucidare meglio lo es dell’es gibt: «Ma cosa significa questo “Es”?»165. Heidegger non nasconde le difficoltà che questa domanda solleva. Ad esempio, questo Es non può intendersi come l’Essere stesso altrimenti Es gibt Sein significherebbe Sein gibt Sein, «essere dà essere»166 o «l’essere è» contravvenendo a quanto già stabilito e precisamente che «L’essere non è (ist). Essere si dà (gibt Es)»167. Più in generale, es gibt Sein non può considerarsi neppure come un semplice enunciato, come una proposizione logico-grammaticale dalla struttura predicativa poiché un enunciato è un giudizio sull’ente mentre es gibt Sein non pretende di enunciare niente su di esso; infatti «quando si dice “Es gibt Sein”, “Es gibt Zeit” non si tratta di enunciazioni sull’essente, e però la struttura proposizionale degli enunciati è stata tramandata dai grammatici greco-romani esclusivamente nella prospettiva di enunciazioni circa l’essente»168. Si tratta di una difficoltà non da poco. Il pensiero che 162 M. Heidegger, Tempo ed essere, cit., p. 110. 163 M. Heidegger, Tempo ed essere, cit., p. 111. Già ne Il detto di Anassimandro del 1946 Heidegger chiariva a proposito dell’ἐποχή: «L’essere si sottrae mentre si scopre nell’ente. […] Questo illuminante mantenersi in sé con la verità della propria essenza, possiamo chiamarlo l’ἐποχή dell’essere. Questo termine, di origine stoica, non significa qui, come in Husserl, il metodo della sospensione dell’atto tetico della coscienza nell’oggettivazione. L’ “epoca” dell’essere appartiene all’essere stesso. Essa è pensata a partire dall’oblio dell’essere» (M. Heidegger, Sentieri interrotti, cit., p. 314). 164 M. Heidegger, Tempo ed essere, cit., p. 112. 165 M. Heidegger, Tempo ed essere, cit., p. 123. 166 M. Heidegger, Tempo ed essere, cit., p. 123. 167 M. Heidegger, Tempo ed essere, cit., p. 107. 168 M. Heidegger, Tempo ed essere, cit., pp. 123-124.

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La misura dell’umano

procede all’indietro in direzione dell’essere sembrerebbe adottare un procedimento quasi simile al metodo apofatico della teologia negativa. Ma è solo un’apparenza169. L’unica maniera di pensare lo es rinvia alla donazione stessa, al darsi che è un destino: «Ma come dobbiamo considerare altrimenti lo “Es” pronunciato dicendo: Es gibt Sein, Es gibt Zeit? Semplicemente pensando lo “Es” a partire dal modo del dare che gli appartiene: il dare come il raccogliersi in un destino di ciò che è destinato, il dare come arrecare che libera nella radura dell’Aperto»170. Pensare in tal modo lo es, significa per Heidegger pensarlo come Ereignis: «In conseguenza di ciò lo “Es”, che dà nello “Es gibt Sein”, “Es gibt Zeit”, si attesta come l’Ereignis»171. Attraverso lo es gibt e successivamente tramite la discussione sullo es, il filosofo tedesco perviene così ad un pensiero capace di «pensare propriamente l’essere per se stesso» come Ereignis: «Se un oltrepassamento resta necessario, allora esso concerne quel pensiero, che si impegna (sich einlässt) espressamente nell’Ereignis al fine di dirlo a partire e in vista di esso»172. Il protocollo 169 Su questo si soffermava, infatti, anche il protocollo seminariale: «La maniera di procede di questo pensiero potrebbe così essere vista in analogia al metodo di una teologia negativa. Questa si mostrerebbe anche nel fatto che, e come, i modelli ontici dati nel linguaggio sono usati fino all’esaurimento delle loro possibilità. Eclatante, per esempio, in questo senso l’uso di verbi come “arrecare” (reichen), “destinare” (schicken), “ritenere” (vorenthalten), “appropriare” (ereignen), che presentano, come verbi, non solo – in generale – una forma verbale, ma, oltre a questo, un espresso senso temporale per qualcosa, che non è niente di temporale» (M. Heidegger, Tempo ed essere, cit., p. 158). Come osserva P. De Vitiis: «Ci si potrebbe poi chiedere anche se con l’insistere sulla differenza ontologica Heidegger non si avvicini alla tradizione della teologia negativa e quindi del neoplatonismo, sia cristiano che pagano, in cui si trova la nozione di un essere soprasostanziale (υπερουσιος in Dionigi Aeropagita, überseiend in Meister Eckhart)» (F.-W. von Herrmann, op. cit., p. 49). La posizione di F.-W. von Herrmann è chiara: «Apparentemente (ma non “manifestamente”) il pensiero, che retrocede dal venire alla presenza al lasciar venire alla presenza, allo svelare e al darsi, procede in analogia al metodo della teologia negativa; in verità, però, si muove in un ambito (l’evento) che non è comparabile con quello della teologia negativa» (F.-W. von Herrmann, op. cit., p. 53). 170 M. Heidegger, Tempo ed essere, cit., p. 124. 171 M. Heidegger, Tempo ed essere, cit., p. 125. Come è precisato nel protocollo seminariale che accompagnò la conferenza del 1962, Heidegger aveva già trattato dell’Ereignis in alcuni scritti anteriori a Tempo ed essere. Cfr. M. Heidegger, Tempo ed essere, cit., pp. 145-146. Sulla traduzione di Ereignis in italiano con il termine «evento» si veda la nota di G. Vattimo in M. Heidegger, Saggi e discorsi, cit., p. 45, nota n. 1. 172 M. Heidegger, Tempo ed essere, cit., p. 131.

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Differenza e donazione

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seminariale che accompagnò la conferenza del 1962 conferma il cammino speculativo seguito dal filosofo tedesco in Tempo ed essere, vale a dire l’indagine in direzione dell’Essere «per se stesso» che si snoda attraverso l’es gibt, l’es fino all’Ereignis: «La conferenza intitolata Tempo ed essere pone innanzi tutto la questione su ciò che è proprio dell’essere, poi su ciò che è proprio del tempo. Vi si mostra, così, che tanto essere che tempo non sono (sind). In tal modo si guadagna l’accesso allo Es gibt, al “si dà”. Lo Es gibt viene dapprima chiarito riguardo al dare (das Geben), poi allo Es, che dà. Questo è interpretato come l’evento appropriante im-propriante (das Ereignis)»173. L’obiezione «ineludibile», «estremamente pertinente oltretutto», alla quale il pensatore francese si riferisce riguarda proprio l’es gibt heideggeriano che sovvertirebbe la tesi marioniana del dono come istanza capace di scuotere ogni privilegio dell’Essere. Quanto precisato in Tempo ed essere impedirebbe infatti al dono di disfare il di-spiego (pli) dell’Essere/ente, di scombinarne la «con-giunzione» (ajointement) deformandone la differenza. La donazione infatti, nel sottrarsi dell’es gibt, inaugurerebbe l’Essere pensato in riferimento all’ente stesso già ai primordi della filosofia. In questo senso, la donazione non scompaginerebbe la differenza ontologica e non potrebbe sollecitare l’Essere perché, piuttosto, li inscriverebbe entro se stessa fino alla loro reciproca coincidenza. Marion ne prende atto. Innanzi tutto ribadisce l’esito sul dono al quale è pervenuto, il dono come ciò che deforma la differenza: «Infatti, abbiamo appena finito di fermare la nostra attenzione sull’eccellenza del dono come se, necessariamente, esso oltrepassasse l’Essere/ente, lo rilasciasse e lo deformasse» (Dse 148; 134). Ma tale assunto rischia di essere vanificato proprio dall’es gibt di Heidegger e dall’identificazione tra donazione (donation) e Essere/ente: Ma non si dovrà invece concepire l’ipotesi che il dono dispieghi proprio l’Essere/ente come tale? […]. Il fatto che il dono possa coincidere con l’Essere/ ente, più da qualsiasi altro è stato suggerito da Heidegger e dal suo prendere alla lettera il tedesco es gibt, nel quale ci sono tracce del francese il y a […]. È l’Essere stesso che si rilascia nel modo della donazione – da un’estremità all’altra del proprio itinerario speculativo, da Sein und Zeit, dal 1927 al 1962 Heidegger non ha mai smesso di meditare questa equivalenza (Dse 148; 134).

A questo punto, nel caso Heidegger abbia ragione, l’obiezione prenderebbe addirittura la forma fatale di un inganno: «Non ci inganniamo, dun173 M. Heidegger, Tempo ed essere, cit., p. 135.

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La misura dell’umano

que, quando pretendiamo di scoprire nel dono un’istanza anteriore all’Essere/ente, che sarebbe in grado di deformare la differenza ontologica?» (Dse 149; 134). La risposta a questa obiezione assume invece la forma di un’ulteriore presa di distanza da Heidegger. L’aderenza al cammino speculativo heideggeriano, pur nella distanza dall’ontologia scopertasi idolatria, termina qui. Il merito di Identità e differenza è il suo alludere alla necessità di superare la metafisica, ma ogni tentativo di superare l’ontoteologia s’incaglia, secondo Marion, nell’idolatria della differenza ontologica e del pensiero dell’Essere. Il pregio di Tempo ed essere è invece quello di procedere lateralmente alla differenza ontologica in vista del dono, così da dischiudere la possibilità di un pensiero della donazione, ma in realtà li sottomette entrambi – il dono, la donazione - alla neutralità ontologica dell’es e all’anonimato dell’Ereignis. La necessaria ridefinizione marioniana del senso stesso della donazione sancisce così il definitivo distacco dal filosofo tedesco e matura, nella riflessione del filosofo francese, un pensiero del dono. Occorre prendere atto, infatti, della possibilità di intendere il dono in due maniere differenti: «Il dono, infatti, può essere inteso secondo due accezioni a tal punto diverse che, nel nostro contesto, sarà sufficiente darne anche un puro e semplice abbozzo» (Dse 149; 134). In un primo significato, quello heideggeriano, il dono si inscrive nella donazione dell’es gibt, col suo rinviare a un es neutro e impersonale, al punto da non essere in alcun modo identificabile. Dono e donazione mancano così il donatore che rimane come destituito e rimosso. Il dono, senza donatore, è ridotto a semplice accadere, destino (Geschick) dell’Essere, evento (Ereignis) anonimo che appropria al punto da ridurre la distanza fino ad annullarla. Qui la donazione è semplicemente un dare, un accadere, un appropriarsi dell’ente da parte dell’Essere, mai un donare poiché l’ente, piuttosto che dono, è in relazione all’Ereignis, all’«evento appropriante im-propriante»174: «Il dono si concepisce come donazione e non innanzi tutto a partire da un donatore non meglio identificato; la donazione, a sua volta, deve essere intesa come invio destinale» (Dse 150; 135). Ma il dono si può inscrivere anche, - ed è il secondo significato, quello marioniano -, in una donazione a partire dal donatore che non rimane perciò come sospeso o celato. In tale prospettiva, la donazione è pensabile non semplicemente come un darsi neutrale e anonimo, ma secondo un donare che esige il donatore invece di esautorarlo: «Seconda accezione: il dono si intende a partire dalla donazione – per lo meno dalla donazione quale è 174 M. Heidegger, Tempo ed essere, cit., p. 135.

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Differenza e donazione

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compiuta dal donatore. La donazione deve essere intesa attraverso un rinvio al donatore» (Dse 151; 136). Il dono, per essere tale, richiede che vi sia il donatore. Senza donatore, infatti, non vi sarebbe la distanza, luogo di scambio del dono, «scarto intimo del donatore nel dono, in modo che sul dono si legga l’essere portato del donatore nel dono, per il fatto stesso che quest’ultimo va in modo assoluto verso il donatore» (Dse 151; 136). Naturalmente, secondo quest’ultimo significato di donazione, il dono può essere pensato davvero come quell’istanza in grado di deformare la differenza ontologica: «Quest’altro modello del dono, dato che unisce solo nella misura in cui distingue, può, appunto, deformare l’Essere/ente disappropriandovi ciò che l’Ereignis appropria» (Dse 152; 137). È questo modello di donazione, distanza e non appropriazione, a porre in fuori gioco il privilegio dell’Essere e della differenza ontologica, ancorando il dono al contesto trinitario della rivelazione. Trova così conclusione il percorso speculativo annunciato nell’introduzione de L’idolo e la distanza: Se si dà per assodato che la distanza resta radicalmente diversa dal problema dell’Essere (di una diversità essa stessa ancora impensata), essa si trova, per un istante, alleata con la doppia istanza critica che E. Lévinas (con l’Altro) e J. Derrida (con la differenza) innestano sulla differenza ontologica. Per un istante solo poiché la distanza esige più di un rovesciamento o di una banalizzazione della differenza ontologica. Resta allora da prendere sul serio la ripresa cui proprio Heidegger, alla fine, aveva sottoposto (in Zeit und Sein) la differenza, comprendendola a partire alla donazione (anonima?) del dono (Ied 13; 6).

La donazione dà senso alla distanza e deforma la differenza ontologica a patto che non sia anonima. L’anonimità del donatore che l’ontologia heideggeriana comporta, quella dell’es nell’es gibt, cede infatti alla rivelazione. Il donatore è il Padre, prefigurato da quello della parabola del figlio ritrovato che nell’οὐσία non vede il possesso dell’ente, ma un dono che d(on)a ai figli. Non donazione anonima, dunque, e neppure un Neutro che dona, ma donazione che rinvia a un donatore che si rivela come Dio, barrato con la croce di Sant’Andrea, poiché è questo Dio (ἀγάπη, caritas) che d(on)a e «in-crocia l’Essere/ente se non sottomettendosi per primo alla croce da cui è contrassegnata l’agape iperbolica “che sorpassa ogni conoscenza” (Ef 3, 19)» (Dse 153; 138).

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INCROCI

I. E. Lévinas A Lévinas non sfuggirono le pagine de L’idolo e la distanza nelle quali Marion avanzava l’obiezione di essersi limitato a rovesciare la differenza ontologica. Scriveva infatti Marion, come si è avuto già modo di rilevare nel terzo capitolo di questo lavoro: «Evidentemente, il privilegio, passando dall’Essere all’ente, consacra la preminenza di questo, come Altro, solo rovesciando la differenza ontologica, quindi consacrandola» (Ied 278; 222). L’anno successivo alla pubblicazione de L’idolo e la distanza, nella prefazione alla seconda edizione (1978) di Dall’esistenza all’esistente, Lévinas precisava puntualmente il proprio pensiero, anche in relazione a Marion, riferendosi a due fasi distinte, eppure assolutamente conseguenti, della sua filosofia. Si trattava della risposta ad una obiezione. Il rovesciamento tra l’Essere e l’ente a vantaggio dell’«essente umano» («étant humain»), andrebbe interpretato, nelle intenzioni di Lévinas, come la fase preparatoria di un cammino teso all’abbandono definitivo della differenza ontologica. Egli ammetteva, cioè, l’idea che in Totalità e infinito la differenza fosse stata soltanto rovesciata, ma rivendicava, nel passaggio da Totalità a infinito a Altrimenti che essere, l’effettivo distacco da ogni presupposto ontologico inclusa la netta presa di distanza, oltre che dal linguaggio heideggeriano, dalla differenza ontologica. Merita lasciare spazio alle parole stesse di Lévinas: «Scorgere nell’ “esistente”, nell’essente umano, e in ciò che Heidegger definirà l’ “essentità dell’essente”, non un occultamento o una “dissimulazione” dell’essere, ma una tappa verso il Bene e verso la relazione con Dio, e, nel rapporto tra gli essenti, qualcosa di diverso dalla “fine della metafisica”, non significa limitarsi ad invertire i termini della famosa differenza heideggeriana privilegiando l’ente a discapito dell’essere. Questo capovolgimento sarà il primo passo di un movimento che, aprendosi su un’etica più antica dell’ontologia, permetterà delle significazioni che vanno al di là della differenza ontologica, il che senza dubbio coincide, infine,

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con la significazione stessa dell’Infinito. È questo il cammino filosofico che va da Totalità e infinito a Altrimenti che essere»1. In nota Lévinas rinviava esplicitamente a Marion e alla sua «ragguardevole opera L’idole et la distance»2. Questa risposta apparve subito come una conferma della tesi marioniana3. Lévinas sembra dare ragione, quindi, alla tesi del rovesciamento della differenza ontologica, anche se nel quadro di un movimento di pensiero che l’oltrepassa, abbandonandola: un itinerario che a Marion sarebbe sfuggito nel formulare la sua obiezione. Di qui due considerazioni. La prima: si può sottolineare come Marion volesse cogliere in Lévinas non tanto l’esitazione a superare la differenza, nel limitarsi a capovolgerla, quanto più un’aporia, figura che soggiace alla statura del vero filosofo4. Occorre cioè rilevare in quel rovesciamento non tanto la perplessità a superare la differenza ontologica, ma il movimento stesso di trascendimento nell’Altro e nella giustizia etica. Ecco l’aporia: mantenimento e trascendimento della differenza ontologica, appunto. La seconda è che la precisazione di Lévinas, nel passo in questione, permette una periodizzazione nello svolgimento della sua filosofia che si esprimerebbe nel passaggio stesso da Totalità e infinito, il cui linguaggio resta ancora nonostante tutto metafisico e heideggeriano, per via dei riferi-

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E. Lévinas, De l’existence à l’existant, Vrin, Paris 1984, tr. it. Dall’esistenza all’esistente, Marietti, Casale Monferrato 1986, p. 7. E. Lévinas, Dall’esistenza all’esistente, cit., p. 7 nota n.2. Il giudizio su Ied rimarrà invariato: «È sufficiente richiamare il sottile e profondo saggio di Jean-Luc Marion sulla divinità di Dio. Tentativo coraggioso di apertura, tentativo, ancora isolato, presso i filosofi, di non concepire più Dio a partire primordialmente dall’essere. Pur riconoscendo il proprio debito verso Heidegger e fissando il proprio itinerario lungo la ricerca aperta dalle vie heideggeriane, l’autore si pone finalmente […] “a distanza dalla differenza ontologica”» (E. Lévinas, Di Dio che viene all’idea, cit., p. 153). Il passo in questione, la risposta a Marion non sfuggirono a S. Petrosino, nel suo La verità nomade. Introduzione a Emmanuel Lévinas, Jaca Book, Milano 1983. Questo libro, tradotto e curato in francese da J. Rolland, fu poi pubblicato in Francia l’anno successivo (S. Petrosino, J. Rolland, La vérité nomade. Introduction à Emmanuel Lévinas, La Découverte, Paris 1984). Così infatti scrive Petrosino a proposito del passo di Dall’esistenza all’esistente: «Formulation qui semble finalement donner raison à Marion» (S. Petrosino, J. Rolland, op. cit., cit., p. 101). «Le cas n’est cependant pas complètement entendu car Marion, fin lecteur, voit dans cette insuffisance de Totalité et Infini, moins un flottement ou une faiblesse purement négative qu’une aporie, c’est-à-dire ce qui “chez les penseurs, vaut comme le bien le plus précieux» (S. Petrosino, J. Rolland, op. cit., p. 101).

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menti all’ente e alla differenza ontologica, ad Altrimenti che essere, dove ogni riferimento al linguaggio di Heidegger è di fatto abbandonato5. Come riassume Silvano Petrosino, le critiche di Marion sono «pertinenti dunque, al punto che trovano d’accordo lo stesso Lévinas, ma pertinenti solo nella misura in cui riguardano T.I. [Totalità e infinito] e trascurano invece A.E. [Altrimenti che essere], trascurano il passaggio da T.I. [Totalità e infinito] ad A.E. [Altrimenti che essere]»6. Marion stesso condivide d’altronde le analisi di Petrosino, che contribuirono anzi a chiarire già negli anni Ottanta i termini stessi di questo dibattito tra i due filosofi7. La risposta di Lévinas e la conseguente possibilità di una periodizzazione costituiscono per il pensatore francese non soltanto un dato obiettivo, ma soprattutto concludono positivamente la discussione. «Reste, évidemment, à apprécier cette réponse» (Fdp 60), scrive Marion negli anni Novanta. Ricostruendo quel dibattito, il filosofo francese farà di più. Oltre a riconoscere il proprio debito nei confronti di Lévinas, giudicherà l’obiezione stessa avanzata ne L’idolo e la distanza come una caduta, una svista tipiche di un lettore mediocre8. E avanzerà l’intento di difendere e di chiarire quel passaggio da Totalità e infinito a Altrimenti che essere, cioè il cammino verso il completo abbandono della differenza ontologica, che Lévinas rivendicava in risposta alla sua obiezione. La ricostruzione di

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Si tratterebbe in realtà di una terzo momento nella periodizzazione dell’opera lévinasiana: «La troisième commencerait avec des écrits immédiatement postérieurs à la publication de Totalité et Infini et pour la plupart repris dans la partie finale de En découvrant l’existence […] et s’achèverait avec Autrement qu’être où “le langage ontologique dont use encore Totalité et Infini […] est désormais évité. Et les analyses, elles-mêmes, renvoient non pas à l’expérience où toujours un sujet thématise ce qu’il égale, mais à la transcendence où il repond de ce que ses intentions n’ont pas mesuré”» (S. Petrosino, J. Rolland, op. cit., p. 154, nota n. 29). Sul problema del linguaggio da Totalità e infinito a Altrimenti che essere, osserva G. Ferretti: «Levinas è alla ricerca di una “scrittura” più adeguata a ciò che intende esprimere. Donde l’uso, in quest’opera, di un linguaggio in parte nuovo, certo più controllato» (G. Ferretti, op. cit., p. 39). Alla base della questione del linguaggio si poneva la critica di Derrida avanzata in Violenza e metafisica: «Allo stesso modo che doveva implicitamente richiamarsi ad evidenze fenomenologiche contro la fenomenologia, Levinas deve quindi presupporre e praticare continuamente il pensiero o la pre-comprensione dell’essere nel suo discorso, anche quando lo rivolge contro l’ “ontologia”» (J. Derrida, La scrittura e la differenza, cit., p. 189). E. Lévinas, Autrement qu’être ou au-delà de l’essence, Nijhoff, La Haye 1974, tr. it Altrimenti che essere o al di là dell’essenza, Jaca Book, Milano 1995, p. XIV, nota n. 12. Si veda anche la nota n. 69 di G. Ferretti, op. cit., p. 78. Cfr. Note sur l’indifférence ontologique de Levinas, in Fdp. Cfr. Fdp 60. In particolare la nota n. 2.

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quel dibattito si conclude così con la difesa della posizione di Lévinas, con un’ermeneutica di Altrimenti che essere che mira a chiarire come in quel testo la differenza ontologica sia effettivamente superata dall’etica9. La lettura marioniana, in particolare, si concentra sulla nozione di anfibologia che sostituirebbe quella di differenza ontologica10 nel contesto del rapporto tra il Dire e il Detto11. Come si legge infatti in Altrimenti che essere: «Comunque sia, questo dire pre-originale si muta in un linguaggio in cui dire e detto sono correlativi l’uno dell’altro; dove il dire si sottomette al suo tema. Si può mostrare che perfino la distinzione fra essere e ente è sorretta dall’anfibologia del detto, senza che questa distinzione né questa anfibologia si riducano per questo ad artifici verbali»12. Resta da domandarsi la ragione di questa difesa, di questa illustrazione del pensiero di Lévinas da parte di Marion. Si tratta forse di leggere qui il loro incrocio nella figura di un incontro. A partire da un simmetrica equidistanza da Heidegger e dall’ontologia, il rispettivo pensiero dei due filosofi si attesta sul margine di una prossimità che tuttavia non elude assolutamente la differente posizione filosofica e l’orizzonte anche religioso di appartenenza13. Ma permette di intravedere anche il debito di Marion nei confronti di Lévinas. Una simmetrica equidistanza da Heidegger, innanzi tutto, che li accomuna nell’avvertire il pericolo di idolatria insito nella metafisica e nell’ontologia. Come scrive Derrida, «Non si è lungi dal sottintendere che l’ontologia è una idolatria sottile e perversa, come sentiremo dire, in modo analogo e differente, per voce di Lévinas o di Jean-Luc Marion»14. E a partire dalla percezione di questo pericolo, i due filosofi saranno accomunati dal medesimo tentativo di «intendere un Dio non contaminato dall’essere»15, progetto che anima 9 Cfr. Fdp 61. 10 Cfr. Fdp 61. 11 Cfr. il paragrafo Il Dire e il Detto in E. Lévinas, Altrimenti che essere o al di là dell’essenza, cit., e il commento di S. Petrosino, J. Rolland, op. cit., p. 45 e seguenti. Cfr. anche G. Ferretti, op. cit., pp. 213-215. 12 E. Lévinas, Altrimenti che essere o al di là dell’essenza, cit., p. 9. Corsivo mio. 13 Su questo punto ripetiamo il giudizio di S. Petrosino. Cfr. S. Petrosino, J. Rolland, op. cit., p.159, nota n. 6. 14 J. Derrida, Psyché. Inventions de l’autre, Galilée, Paris 1987, tr. it J. Derrida, Psyché. Invenzioni dell’altro, Jaca Book, 2009 Milano, vol. 2, p. 172. 15 E. Lévinas, Altrimenti che essere o al di là dell’essenza, cit., p. 2. Lévinas prosegue: «è una possibilità umana non meno importante e non meno precaria di quella di trarre l’essere dall’oblio in cui sarebbe caduto nella metafisica e nell’ontoteologia». Così commenta G. Ferretti: «Per Levinas invece, e qui sta la radicalità della sua nuova posizione, la trascendenza può essere pensata solo se la si libera da ogni

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Altrimenti che essere (1978), prima, e Dio senza essere (1982), successivamente, come dimostra anche testualmente quell’«autrement qu’être» col quale Marion indica il pensiero del dono conquistato nella parte finale del capitolo L’in-crocio dell’Essere16. Ma, secondariamente, l’equidistanza da Heidegger non è sovrapponibile, è simmetrica nel senso che mantiene sottotraccia il solco di quella differenza di fondo che è principalmente la diversità di orizzonte, di tradizione religiosa, in base alla quale se il riferimento comune è alla rivelazione biblica, diverso, appunto per appartenenza, è invece il rinvio alla Sacra Scrittura, ebraico e talmudico per Lévinas, neotestamentario e paolino per Marion. Ma, in ultimo, l’incrociarsi delle due filosofie non può tralasciare l’influsso che la filosofia lévinasiana ha comunque esercitato su quella di Marion. Ne limitiamo, brevemente, il riferimento ad alcuni temi. Quello platonico e neoplatonico dell’idea di Bene (ἰδέα τοῦ ἀγαθοῦ), che non è essere, ma è «al di sopra dell’essere»17 (ἐπέκεινα τῆς οὐσίας) e l’idea cartesiana di infinito18 che indicano in Lévinas la trascendenza, l’autrement “contaminazione” con l’essere, ovvero ponendola decisamente “oltre” l’essere. Nella nota preliminare di Altrimenti che essere, il programma che ora Levinas si propone è espresso in modo quanto mai netto, proprio in alternativa all’intento chiave dell’ontologia heideggeriana» (G. Ferretti, op. cit., p. 172). E ancora: «Ciò che interessa principalmente Levinas, non è l’essere (da trarre dall’oblio), come in Heidegger, bensì Colui che si può intendere correttamente solo se si va al-di-là dell’essere» (G. Ferretti, op. cit., p. 41). 16 Cfr. Dse 149; 135. 17 Platone, Tutti gli scritti, Bompiani, Milano 2000, p. 1235. Come è noto, l’ ἐπέκεινα τῆς οὐσίας ritorna con l’Uno di Plotino che commenta in Enneadi V, 5, 6: «Pertanto, se tutte le cose trovano posto nel generato, dirai che anche l’Uno è una di queste? Non solo non è una di queste, ma potresti definirlo al di sopra di queste; e siccome tali cose costituiscono gli esseri e l’Essere in generale, l’Uno è anche al di sopra dell’essere» (Plotino, Enneadi, Mondadori, Milano 2002, p. 1291). 18 Al Bene platonico e all’idea cartesiana di infinito, al loro valore di eteronomia, Lévinas si riferisce quando scrive in un passo di La filosofia e l’idea di infinito del 1957: «Contro gli heideggeriani e i neohegeliani, per i quali la filosofia prende inizio dall’ateismo, bisogna dire che la tradizione dell’Altro non è necessariamente religiosa, che è anche filosofica. Platone si situa al suo interno allorché pone il Bene al di sopra dell’essere e quando nel Fedro definisce il vero discorso come un discorso con gli dèi. […] In Descartes, l’io che pensa è in relazione con l’Infinito. Ma questa relazione non è né quella che collega il contenente al contenuto, poiché l’io non può contenere l’Infinito, né quella che collega il contenuto al contenente, poiché l’io è separato dall’Infinito. Descritta negativamente, tale relazione è l’idea di infinito in noi» (E. Lévinas, Scoprire l’esistenza con Husserl e Heidegger, cit., pp. 196-197). Merita leggerne il commento in S. Petrosino, J. Rolland, op. cit., pp. 65-66. Sul tema della ἐπέκεινα τῆς οὐσία scrive G. Ferretti: «Alla tradizione

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qu’être, la messa fuori circuito dell’ontologia e della filosofia dell’Essere, ma che ritorna nella teologia negativa di Dionigi alla quale Marion dedica molta attenzione, a partire da L’idolo e la distanza, al punto da apprendere così quella via (negativa? eminentiae?19) con la quale dire in Dio senza essere quell’«al di sopra dell’essere» come ἀγάπη. Sull’importanza dell’idea cartesiana di infinito per la definizione di icona concettuale si è già scritto nel terzo capitolo. Vi è poi il tema della distanza stessa, che occupa l’intero itinerario speculativo de L’idolo e la distanza fino ad approdare a Dio senza essere, riconosciuto dallo stesso Marion come principalmente lévinasiano attraverso una dichiarazione, forse tardiva, ma che in ogni caso rende onore al debito contratto con Lévinas20. Vi sarebbe poi, in conclusione, la contiguità tra l’epifania del volto e la fenomenologia dell’icona21, più in generale, l’importanza dell’esotismo alla base di quella dimensione estetica che soggiace alla filosofia di Marion22.

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filosofica occidentale dell’ontologia totalitaria, Levinas contrapporrà invece, rimanendo sul piano filosofico, un’altra tradizione filosofica occidentale, “altrettanto antica” benché minoritaria e quasi sommersa. Si tratta di quella tradizione filosofica che affiora, a suo avviso, già in Platone, il quale nella Repubblica pone il Bene al di sopra dell’essere e nel Fedro definisce il discorso vero come un discorso con gli dei; che traspare nella concezione aristotelica dell’intelletto agente che viene all’anima “dall’esterno”; che trova la sua formulazione più rigorosa nella concezione cartesiana dell’ “idea di infinito”, ad un tempo in noi e rinviante oltre di noi, non potendo essere contenuta nel nostro essere finito. In saggi successivi, egli citerà anche l’Uno platonico della prima ipotesi del Parmenide; l’Uno plotiniano posto al di là dell’essere; la teologia degli attributi analogici medioevali, […]; l’imperativo categorico di Kant, significante indipendente dalle prove dell’esistenza di Dio e dell’immortalità; la “durata” bergsoniana come sgorgare incessante di novità» (G. Ferretti, op. cit., pp. 103-104). Cfr. Fdp 122. Ci riferiamo alla nota n.1 di Note sur l’indifférence ontologique de Levinas in Fdp 60. Cfr. Fdp 82. Tuttavia volto e icona non si sovrappongono: «In termini teologici si dovrà quindi dire che il volto non è l’immagine-icona di Dio, bensì che il volto è “a immagine di Dio”, nel senso che “si trova nella sua traccia”» (G. Ferretti, op. cit., p. 182). Come mette in luce C. Canullo, che sottolinea come «la prospettiva estetica di Bonfand è molto prossima alla fenomenologia di Marion». (C. Canullo, La complessione della donazione, in C. Canullo, a cura di, Jean-Luc Marion, un dibattito italiano, cit., p. 7, nota n. 10). E ancora: «se quando si parla della “fenomenologia della donazione” non va mai dimenticato che il termine francese donation traduce la Gegebenheit husserliana, non va neppure tralasciato il fatto che il termine – prima di individuare nella fenomenologia quel metodo già trovato da Marion per parlare di Dio al di fuori della metafisica – nasce in un contesto extrafenomenologico, estetico» (C. Canullo, a cura di, Jean-Luc Marion, un dibattito italiano, cit., p. 7).

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II. J. Derrida Derrida ebbe modo di discutere il pensiero di Marion in più di un’occasione. Prenderemo in considerazione alcune note che accompagnano il testo di Come non parlare. Denegazioni23, conferenza tenuta a Gerusalemme nel 1986, e, solo marginalmente poiché incentrata soprattutto sullo sviluppo della fenomenologia della donazione a partire da Réduction et donation, la discussione sul dono che Derrida ebbe con Marion nel settembre del 199724. I temi intorno ai quali Derrida discute il pensiero di Marion sono la teologia negativa e il problema del dono. In realtà si tratta di due tematiche che per Derrida, come per lo stesso Marion25, sottintendono un profondo legame. In una nota di Come non parlare, la numero diciotto, Derrida ammette che non aveva ancora letto L’idolo e la distanza, nemmeno al momento di preparare la conferenza di Gerusalemme, sebbene Marion gliene avesse inviato «amichevolmente» una copia ben dieci anni prima26. La ragione di ciò, spiega Derrida, sarebbe da ricercare in un certo risentimento che egli nutrì verso quella che ai suoi occhi era apparsa come un’incomprensione di fondo da parte di Marion nei confronti della sua filosofia: «Scoraggiato o irritato da certi segni di incomprensione riduttiva o di ingiustizia che, di primo acchito, avevo creduto di ravvisarvi nei miei riguardi, ho avuto il torto di non procedere nella lettura, lasciando così che questo aspetto abbastanza secondario (cioè il suo rapporto con il mio lavoro) mi distogliesse da un’opera di cui ora, dopo la rilettura di Dionigi e la preparazione di queste

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Mi permetto, inoltre, di rinviare anche all’esotismo così come Lévinas ne tratta ne Dall’esistenza all’esistente: «L’esotismo fa intervenire una modificazione nella stessa contemplazione. […] Il movimento dell’arte consiste nell’abbandonare la percezione per riabilitare la sensazione stessa, ed è proprio questo smarrimento nella sensazione, nell’aisthesis, ciò che produce l’effetto estetico. Non è la via che conduce all’oggetto, ma l’ostacolo che allontana da esso; e non appartiene nemmeno all’ordine soggettivo. La sensazione non è la materia della percezione, nell’arte essa emerge come un nuovo elemento; anzi, ritorna all’impersonalità dell’elemento» (E. Lévinas, Dall’esistenza all’esistente, cit., pp. 45-46). Conferenza tenuta originariamente in inglese, How to avoid speaking è contenuta in J. Derrida, Psyché. Invenzioni dell’altro, cit., vol. 2. La trascrizione in inglese di questa discussione sul dono fu inizialmente pubblicata in J.D. Caputo, God, the Gift, and the Post modernism, Indiana University Press, Bloomington 1999. Tradotta in francese, Sur le don. Une discussion entre Jacques Derrida et Jean-Luc Marion è ora disponibile in Fdp. Cfr. Fdp 123. Sui rapporti personali tra Marion e Derrida cfr. Fdp 117-118 e ancora Fdp 193.

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conferenza, meglio apprezzo la forza e la necessità»27. Certo Marion non si era limitato in quell’opera a considerare la différance come una semplice marginalizzazione della differenza ontologica. Nelle primissime pagine de L’idolo e la distanza, alludeva alla différance come a una «banalizzazione della differenza ontologica» (Ied 12; 6). Forse basterebbe questo a giustificare il sentimento di incomprensione che Derrida sembrò ravvisare inizialmente in Marion. Ma è in un’altra nota, la numero cinque, che Derrida imposta il luogo della discussione e del confronto che intraprende con Marion. Si tratta della teologia negativa. Derrida, infatti, in Come non parlare decide di affrontare e di rispondere ad una obiezione che da tempo, a suo giudizio, era mossa contro il suo pensiero, quella di adottare il discorso, i procedimenti e il metodo apofatico tipici della teologia negativa: «Da una parte, sono stato molto per tempo accusato, più che lodato, di rimasticare, in un paesaggio che si crede di conoscere bene, i procedimenti della teologia negativa»28. In realtà, Derrida stesso aveva già precedentemente precisato ne La différance che il suo discorso poteva apparire simile a quello della teologia negativa per via delle negazioni che la différance comporterebbe: «Tanto che le deviazioni, i periodi, la sintassi ai quali dovrò spesso ricorrere, somiglieranno, a volte al punto da confondersi con essi, a quelli della teologia negativa. Già si è dovuto affermare che la différance non è, non esiste, non è un essente-presente (on), quale che sia; e saremo anche portati a rimarcare tutto ciò che essa non è, cioè tutto; e di conseguenza che essa non ha né esistenza né essenza. Essa non ricade [relève] sotto nessuna categoria dell’ente, sia esso presente o assente»29. Ma precisava anche, subito dopo, che si trattava di una semplice e apparente somiglianza poiché il discorso sulla différance non aveva nulla in comune con una teologia, tantomeno negativa. Ciò perché, scriveva Derrida ne La différance, la teologia negativa, pure nel suo procedere apofatico, tenderebbe comunque ad una sopra-essenzialità (supra-essentialité) tale da ricondurla entro il contesto di quella metafisica della presenza che, invece, proprio il discorso sulla différance mirava a decostruire30. 27 28 29 30

J. Derrida, Psyché. Invenzioni dell’altro, cit., pp. 211-212. J. Derrida, Psyché. Invenzioni dell’altro, cit., p. 175. J. Derrida, Margini della filosofia, cit., p. 32. «E tuttavia ciò che si rimarca così della différance non è teologico, nemmeno dell’ordine più negativo della teologia negativa, poiché quest’ultima si è sempre, come è noto, sforzata di aprire il varco ad una sopra-essenzialità oltre le categorie finite dell’essenza e dell’esistenza, cioè della presenza, e s’affretta sempre a ricordare che se il predicato dell’esistenza è rifiutato a Dio, ciò avviene per riconoscergli

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Nonostante queste precisazioni risalenti al 1968, Derrida prende comunque atto delle accuse, avanzategli dai suoi detrattori, di adottare i procedimenti della teologia negativa che, in Come non parlare, egli stesso enumera: «Lei preferisce negare, lei non afferma nulla, lei è fondamentalmente un nichilista […]. Lei abusa di una tecnica facile, basta ripetere: “X non è questo, e neppure quello”, “X sembra eccedere qualsiasi discorso o qualsiasi predicazione, ecc»31. Deciso a rispondere finalmente in maniera esaustiva a questa obiezione, in quanto riconosce che fino ad allora la sua confutazione su questo punto era stata «breve, ellittica e dilatatoria»32, Derrida inizia quindi a problematizzare il concetto stesso di teologia negativa. In primo luogo, osserva Derrida, non esisterebbe qualcosa come «la» teologia negativa. Attestato che con «il titolo molto generico di “teologia negativa” […] si designa per lo più una certa forma di linguaggio, con la sua messa in scena, i suoi modi retorici, grammaticali, logici, le sue procedure dimostrative»33, resterebbe aperta la questione se si sia mai data davvero «una teologia negativa, la teologia negativa», cioè l’organizzazione di un discorso teologico che, adottando una determinata pratica di scrittura, sia attribuibile con certezza a un pensatore o a un teologo ben precisi: «Si potrebbe cercare di ordinarla attorno ad alcuni tentativi considerati esemplari o espliciti, come quello dei Nomi divini di Dionigi l’Aeropagita (il cosiddetto Pseudo-Dionigi). Ma non si è mai certi, per ragioni di natura essenziale, come vedremo, di poter attribuire a chicchessia un progetto di teologia negativa come tale»34. Da questo punto di vista Derrida si riconosce in quanto Marion affermava a proposito di Dionigi35. In secondo luogo, ne deriverebbe perciò l’uso tutto sommato incerto e impreciso della denominazione di «teologia negativa», tale da essere per questo facilmente ascrivibile a molteplici discorsi filosofici o teologici, tan-

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un modo d’essere superiore, inconcepibile, ineffabile» (J. Derrida, Margini della filosofia, cit., pp. 32-33). J. Derrida, Psyché. Invenzioni dell’altro, cit., pp. 173-174. J. Derrida, Psyché. Invenzioni dell’altro, cit., p. 176. J. Derrida, Psyché. Invenzioni dell’altro, cit., p. 171. J. Derrida, Psyché. Invenzioni dell’altro, cit., pp. 171-172. Così infatti Derrida, in nota: «Chi si è mai assunto come tale, rivendicandolo esplicitamente con questo nome, al singolare, il progetto della teologia negativa, senza sottometterlo e subordinarlo, senza almeno pluralizzarlo? A proposito di questo titolo, la teologia negativa, si può far qualcosa d’altro che negare? Jean-Luc Marion contesta la legittimità di questo titolo non solo per l’insieme dell’opera di Dionigi, ovviamente, ma anche per il luoghi ove si tratta di “teologie negative” al plurale» (J. Derrida, Psyché. Invenzioni dell’altro, cit., p. 172, nota n.2). Cfr. Ied 189; 151 e ancora la nota n. 6 di Ied 244; 192.

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to del passato quanto della modernità come quelli di Platone, del neoplatonismo, di Dionigi, delle famose proposizioni del Tractatus di Wittgenstein, fino al discorso derridiano sulla différance ecc. Stabilito grossomodo che la teologia negativa consista nell’idea in base alla quale qualunque linguaggio predicativo sia insufficiente a dire l’ineffabile, è possibile attribuirne il titolo, per approssimazione e analogia, a chiunque esprima la tesi dell’impossibilità della predicazione: «Supponiamo, per ipotesi approssimativa, che la teologia negativa consista nel ritenere che qualsiasi predicato, e anche qualsiasi linguaggio predicativo, resti inadeguato all’essenza, in realtà alla ipersostanzialità di Dio e che, di conseguenza, solo un’attribuzione negativa (“apofatica”) possa pretendere di accostarsi a Dio, di prepararci a un’intuizione silenziosa di Dio; ed ecco che, per un’analogia più o meno sostenibile, si riconosceranno alcuni tratti, l’aria di famiglia della teologia negativa, in ogni discorso che paia ricorrere con insistenza e regolarità alla retorica della determinazione negativa, moltiplicando incessantemente le messe in guardia e le avvertenze apofatiche»36. Dunque chi ritiene che il discorso sulla différance sia qualcosa di simile alla teologia negativa non fa altro che accordare alla decostruzione, con approssimazione e superficialità, una dottrina vaga, nient’altro che uno «stereotipo», qualcosa che si crede di conoscere, ma che, in realtà, non si conosce affatto. Su ciò Derrida è chiaro: «sono stato molto per tempo accusato, più che lodato, di rimasticare, in un paesaggio che si crede di conoscere bene, i procedimenti della teologia negativa»37. D’altronde «l’appellativo generale di “teologia negativa” nasconde forse confusioni e talora dà luogo a interpretazioni sommarie»38. Dato che questo stereotipo non merita altra attenzione, Derrida prende in considerazione invece quella che ritiene essere davvero un’obiezione contro il suo discorso, «un’obiezione che ha il merito di non essere uno stereotipo»39. È qui che, nella quinta nota di Come non parlare, entra in gioco Marion. Questi non è annoverato tra i detrattori della decostruzione, accomunati dal ritenere che il discorso derridiano adotti il procedere apofatico della teologia negativa. Marion muove un’altra obiezione, precisa e circostanziata, che, pur trattando sempre della teologia negativa, incide su un altro aspetto della concezione derridiana di essa, quello emerso chiaramente nel passo già citato de La différance, riguardante la sopra-essenzia-

36 37 38 39

J. Derrida, Psyché. Invenzioni dell’altro, cit., p. 172. J. Derrida, Psyché. Invenzioni dell’altro, cit., p. 175. Corsivo mio. J. Derrida, Psyché. Invenzioni dell’altro, cit., p. 182. J. Derrida, Psyché. Invenzioni dell’altro, cit., p. 176.

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lità. Merita perciò citarlo nuovamente: «E tuttavia ciò che si rimarca così della différance non è teologico, nemmeno dell’ordine più negativo della teologia negativa, poiché quest’ultima si è sempre, come è noto, sforzata di aprire il varco ad una sopra-essenzialità oltre le categorie finite dell’essenza e dell’esistenza, cioè della presenza, e s’affretta sempre a ricordare che se il predicato dell’esistenza è rifiutato a Dio, ciò avviene per riconoscergli un modo d’essere superiore, inconcepibile, ineffabile»40. L’obiezione in questione può essere così sintetizzata: non è vero che la teologia negativa aspiri a ristabilire una sovra-essenzialità. Marion la formulava ne L’idolo e la distanza in forma di contestazione, non lasciava correre quel «è noto» (on sait), presente nel testo derridiano, messo lì come a suffragare e a dare per scontata l’idea di una tensione della teologia negativa ad una sopra-essenzialità, poiché se così fosse stato non avrebbe senso il movimento apofatico stesso, la determinazione negativa che mira ad abbandonare ogni riferimento all’essere. Scriveva infatti Marion, in una nota, dopo aver citato quel passo di Derrida: «Che significa qui “si sa”? Abbiamo appunto visto che la teologia detta negativa, al fondo, non cerca di ristabilire una “sovraessenzialità”, in quanto non si occupa né della predicazione né dell’Essere; a fortiori, come si potrebbe trattare di esistenza e di essenza in Dionigi, che parla ancora un greco così classico da non averne né l’idea, né l’uso?» (Ied 318-253)41. Senza entrare nel merito, puntuale e particolareggiato, della risposta a questo passo marioniano, vale la pena di considerare invece la replica di Derrida che, più in generale, anima le pagine di Come non parlare. Secondo Derrida, Marion già nel titolo stesso di Dio senza essere, titolo che egli giudica «magnifico»42, si allinea al tentativo lévinasiano di pensare Dio senza alcuna contaminazione con l’essere. Dieu sans l’être, oppure, come Lévinas, Autrement qu’être: «Non dimentichiamo ciò che questi due libri, tutto sommato abbastanza recenti, danno da pensare ([…] cercando, in un modo certo assai differente, di evitare ciò che Lévinas chiama la contaminazione con l’essere, per “intendere Dio non contaminato dall’essere” per esempio)»43. Marion e Lévinas condividerebbero quindi la medesima idea circa l’ontologia: «Non si è lungi dal sottintendere che l’ontologia è una idolatria 40 J. Derrida, Margini della filosofia, cit., pp. 32-33. Corsivo mio. 41 Cfr. nota n. 39 e nella traduzione italiana di Ied la nota n. 40. 42 Derrida lo ribadisce anche nella discussione sul dono del 1997, insieme alla constatazione della difficoltà di una sua traduzione al di fuori del francese: «Jean-Luc Marion a le génie des titres» (Fdp 194). 43 J. Derrida, Psyché. Invenzioni dell’altro, cit., p. 177.

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sottile e perversa, come sentiremo dire, in modo analogo e differente, per voce di Lévinas o di Jean-Luc Marion»44. Ma Marion pretenderebbe di evitare ogni contaminazione idolatrica con l’Essere attraverso la teologia negativa, in particolare attraverso Dionigi. Essa indicherebbe con chiarezza come giungere a Dio senza essere. L’obiezione marioniana a Derrida lo sottintenderebbe: non è vero che la teologia negativa aspiri a ristabilire una sovra-essenzialità, perché, all’inverso, la teologia negativa e Dionigi indicano una via che porta al di là dell’essere, attestano la distanza. Eppure l’ipersostanzialità di Dio indicherebbe, viceversa per Derrida, che la teologia negativa, lungi dal liberarlo dall’essere, resterebbe ancora nell’ambito dell’ontoteologia. Proprio questo è ciò che marca la differenza, a questo punto irriducibile, tra i due. A differenza di Marion, per Derrida, Dio, al di là dell’essere, rimane ancora un essere. La teologia negativa rimane una ontoteologia. La via negativa perviene cioè pur sempre, al di là o senza l’essere, a un Dio ipersostanziale (hyperessentiel) o supersostanziale (suressentiel): «E poi nella misura in cui essa pare tenere in serbo, al di là di ogni predicazione positiva, al di là di ogni negazione, al di là anche dell’essere, una qualche soprasostanzialità, un essere al di là dell’essere. È la parola che Dionigi usa tanto spesso nei Nomi divini: hyperousios, -ôs, hyperousiotes. Ecco che Dio come essere al di là dell’essere o anche Dio senza essere sembra debordare l’alternativa di un teismo o di un ateismo che si contrappongono in merito a quella che si dice, talora ingenuamente, l’esistenza di Dio»45. Proprio per questa ragione, anzi, Derrida ritiene che il suo discorso non possa essere messo in relazione con la teologia negativa per via dell’assenza in esso di ciò che la caratterizza, ossia del «gioco al rialzo ontologico dell’ipersostanzialità che troviamo all’opera tanto in Dionigi quanto, per esempio in Meister Eckhart»46. Come in risposta anche a Marion e non solo ai detrattori della decostruzione, Derrida reputa dunque che sia giunto il momento di affrontare una volta per tutte il tema della teologia negativa, ipotizzando che vi sia una teologia negativa: «un giorno bisognerà tentare di spiegarsi in modo diretto sul tema e parlare finalmente della “teologia negativa” stessa, supponendo che esista una cosa del genere. Questo giorno è venuto? Altrimenti detto: come non parlare della teologia negativa?»47.

44 45 46 47

J. Derrida, Psyché. Invenzioni dell’altro, cit., p. 172. J. Derrida, Psyché. Invenzioni dell’altro, cit., p. 177. J. Derrida, Psyché. Invenzioni dell’altro, cit., p. 178. J. Derrida, Psyché. Invenzioni dell’altro, cit., p. 182.

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Supposto allora che si dia una teologia negativa, Derrida ne mette in luce i caratteri e il paradigma greco (platonico) di riferimento. Per approssimazione, la teologia negativa ritiene «che qualsiasi predicato, e anche qualsiasi linguaggio predicativo, resti inadeguato all’essenza, in realtà alla ipersostanzialità di Dio e che, di conseguenza, solo un’attribuzione negativa (“apofatica”) possa pretendere di accostarsi a Dio, di prepararci a un’intuizione silenziosa di Dio»48. Tra i suoi caratteri Derrida individua dunque soprattutto l’appartenenza «allo spazio predicativo o giudicativo del discorso»49, il già citato rinvio all’ipersostanzialità e, in ultimo, l’esperienza dell’ineffabile. Innanzi tutto, la teologia negativa si muove sempre all’interno di un discorso predicativo o giudicativo, nel senso che rimane all’interno della logica (aristotelica) e della grammatica metafisica poiché rinvia a una struttura proposizionale costituita da soggetto e predicato, «privilegia non solo l’unità indistruttibile della parola ma anche l’autorità del nome, altrettanti assiomi che una “decostruzione” deve cominciare a riconsiderare»50. Apofasi (ἀπόφασις), d’altronde, è termine della logica aristotelica per indicare la negazione. Apofatico è dunque il giudizio che nega l’appartenenza di un predicato ad un soggetto, li separa51. La teologia negativa rimane dunque «nell’elemento della logica e della grammatica onto-teologiche»52. Che infatti la teologia negativa sia ontoteologia è provato, secondariamente, dal tema dell’ipersostanzialità. La teologia negativa, infatti, «al di là di ogni predicazione positiva, al di là di ogni negazione, al di là anche dell’essere» rimanda a «una qualche soprasostanzialità, un essere al di là dell’essere». Dio, al di là dell’essere, resta comunque un ente supremo del quale non è predicabile niente: «l’ipersostanzialità è precisamente questo, un ente supremo che resta incommensurabile all’essere di tutto ciò che è, che non è nulla, né presente né assente, ecc.»53. Ed è ente supremo poiché «Dio (è) al di là dell’essere, ma in ciò più (essere)

48 49 50 51

J. Derrida, Psyché. Invenzioni dell’altro, cit., p. 172. J. Derrida, Psyché. Invenzioni dell’altro, cit., pp. 176-177. J. Derrida, Psyché. Invenzioni dell’altro, cit., p. 177. Come si legge, ad esempio, nel Dell’espressione: «L’affermazione è il giudizio, che attribuisce qualcosa a qualcosa. La negazione è invece il giudizio che separa qualcosa da qualcosa» (Aristotele, Organon, cit., p. 61). Oppure negli Analitici secondi: «La contraddizione, poi è un’antitesi che per sé esclude ogni elementi intermedio; infine, la parte della contraddizione, che collega qualcosa a qualcosa, è l’affermazione, mentre la parte, che separa qualcosa da qualcosa, è la negazione» (Aristotele, Organon, cit., p. 281). 52 J. Derrida, Psyché. Invenzioni dell’altro, cit., p. 179. 53 J. Derrida, Psyché. Invenzioni dell’altro, cit., p. 179.

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dell’essere»54. Vi è poi in ultimo l’esperienza dell’ineffabile. Essa si configura come una unione, silenziosa e mistica, con Dio nella forma dell’intuizione o della visione. Nella teologia negativa, Dio come ipersostanzialità è promessa di un incontro alla sua presenza. Tramite il movimento apofatico si giunge all’esperienza di una intuizione o di una visione che è l’esperienza della rivelazione stessa di Dio: «La promessa di una simile presenza accompagna spesso la traversata apofatica. Visione di una luce tenebrosa, certo, intuizione di quella “Caligine più che luminosa” (hypérphoton), certo, ma sempre l’immediatezza di una presenza. Fino all’unione con Dio»55. Si tratta di una vera e propria «unione mistica» con Dio, di una visione, detto altrimenti, di una vera e propria conoscenza alla quale si giunge negando ogni conoscenza: «Questa unione mistica, questo atto di in conoscenza è anche “una vera visione e una vera conoscenza”»56. Derrida individua anche altri caratteri, come ad esempio la gerarchia o il segreto57. Ma in ogni caso, tutti questi non sfuggono ad un paradigma di riferimento preciso costituito dal Platone della Repubblica [VI 506 C – 509 D]. Il riferimento è alla celebre analogia tra il Bene e il sole, che anticipa e dà significato alla metafora della linea e al mito della caverna successivi. Più in particolare, si tratta del noto passaggio ove è detto che l’idea di Bene (ἰδέα τοῦ ἀγαθοῦ), il divino, non è essere, ma è «al di sopra dell’essere»58 (ἐπέκεινα τῆς οὐσίας), ipersostanzialità o soprasostanzialità, appunto. Derrida è soprattutto interessato alla funzione che assolve qui la negazione: «Ma questo non essere [ne-pas-etre] non è un non-essere [nonetre]»59. Dire che il Bene non è essere è da intendersi nel senso che è «al di sopra dell’essere». Dunque questa negazione non annulla, piuttosto, attraverso la figura dell’iperbole, precisa un di più dell’essere stesso. La negazione asseconda un preciso movimento di «iperbolizzazione» verso ciò che è «al di sopra dell’essere», serve a marcare un eccesso: «La negatività serve il movimento in hypér che la produce, l’attira o la conduce. Certo, il Bene non è, nel senso che non è l’essere o l’ente, e ogni grammatica ontologica deve prendere al suo riguardo una forma negativa. Ma che non è neutra. Non oscilla tra il né questo-né quello. Essa obbedisce anzitutto a una logica del sopra, dello hypér, che annuncia tutti i soprasostanzialismi 54 55 56 57 58

J. Derrida, Psyché. Invenzioni dell’altro, cit., p. 190. J. Derrida, Psyché. Invenzioni dell’altro, cit., p. 179. J. Derrida, Psyché. Invenzioni dell’altro, cit., p. 180. Cfr. J. Derrida, Psyché. Invenzioni dell’altro, cit., pp. 188 e seguenti. Platone, Tutti gli scritti, cit, p. 1235. Sull’interpretazione che dell’ἐπέκεινα τῆς οὐσίας dà Heidegger si veda, ad esempio, il suo Nietzsche, cit., pp. 717-718. 59 J. Derrida, Psyché. Invenzioni dell’altro, cit., p. 202.

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delle apofasi cristiane e tutti i dibattiti che al proposito si sviluppano»60. La negazione va così inscritta entro la figura dell’iperbole, garantisce la possibilità dell’analogia e della metafora per dire comunque il Bene, «al di sopra dell’essere», come sole, luce ecc. Detto altrimenti, la negazione non nega l’ontologia che apparentemente: «Il discorso negativo su ciò che sta al di là dell’essere e apparentemente non sopporta più i predicati ontologici non interrompe questa continuità analogica. In realtà la presuppone, si lascia anzi guidare da essa. L’ontologia resta possibile e necessaria»61. Come osserva Derrida, è aperta così un tradizione che conduce a Dionigi e all’apofasi cristiana: «Il movimento che, nella Repubblica, conduce epékeina tès ousías, al di là dell’essere […], apre certamente un’immensa tradizione. Di cui si possono seguire i tragitti, le deviazioni e le surdeterminazioni fin in quello che, di qui a poco, sarà il secondo paradigma, le apofasi cristiane, quelle di Dionigi in particolare»62. La teologia negativa cristiana, debitrice di quel paradigma platonico, istituisce nelle sue linee di fondo un secondo paradigma. L’ipersostanzialità, l’essere «al di sopra dell’essere» incontra la rivelazione, lo schema trinitario, la preghiera. La negazione e l’iperbole con il cristianesimo sono infatti subordinate all’evento stesso della rivelazione che è promessa: «l’apofasi si mette in movimento, si inizia, nel senso dell’iniziativa e dell’iniziazione, a partire dall’evento di una rivelazione che è anche una promessa»63. Dio, al di là dell’essere, si rivela in quell’esperienza dell’ineffabile, intuizione, visione o unione mistica della quale si è già scritto. Si tratta «di una rivelazione, di un ordine e di una promessa, di una antropoteologizzazione che, nonostante l’estremo rigore dell’iperbole negativa, sembra di nuovo dominare»64. Il contesto è quello dello schema trinitario che determina la via apofatica come via erotica che conduce a Dio attraverso l’amore - ἔρως o ἀγάπη valgono qui uguale65, secondo Derrida -, e sostituisce la preghiera al dire inadeguato della predicazione. Sulla preghiera sono interessanti due aspetti sui quali si sofferma il pensatore francese. Innanzi tutto, assume rilievo importante la trasformazione 60 61 62 63 64 65

J. Derrida, Psyché. Invenzioni dell’altro, cit., p. 202. J. Derrida, Psyché. Invenzioni dell’altro, cit., p. 203. J. Derrida, Psyché. Invenzioni dell’altro, cit., p. 201. J. Derrida, Psyché. Invenzioni dell’altro, cit., p. 220. J. Derrida, Psyché. Invenzioni dell’altro, cit., p. 209. Così infatti Derrida: «I santi teologi attribuiscono il medesimo valore, la medesima potenza di unificazione e di raccoglimento a éros e ad agápe, cosa che la folla stenta a capire, assegnando il desiderio al corpo, alla divisione, al frazionamento» (J. Derrida, Psyché. Invenzioni dell’altro, cit., p. 210).

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della scena platonica operata dalla teologia apofatica. La preghiera, infatti, prende il posto dell’esclamazione di Glaucone a Apollo66, che segue immediatamente al passo sul Bene che è ἐπέκεινα τῆς οὐσίας. Dove però è da notare, secondo Derrida, il tono leggero, «un po’ divertito (geloîos) come per scandire la scena con una pausa di respiro», tipico della «retorica teatrale» piuttosto che della seriosità di una preghiera: «Ma lo faccio rilevare per ragioni che emergeranno tra poco, allorché la necessità, per ogni teologia apofatica, di cominciare rivolgendosi a Dio diverrà tutt’altra cosa che una retorica teatrale: avrà la serietà di una preghiera»67. Secondariamente, il tema della preghiera vale anche come un’ulteriore presa di distanza da Marion. Derrida osserva infatti che questi, ne L’idolo e la distanza, tende a identificare la preghiera, come superamento della predicazione, con la lode68 al punto da lasciare «troppo sbrigativamente intendere che il passaggio alla lode è il passaggio stesso alla preghiera, o che tra le due l’implicazione sia immediata, necessaria e in qualche modo analitica»69. Premesso che la lode, inscritta nello schema trinitario, rimanda pur sempre ad una sopraessenzialità, essa non è secondo Derrida assimilabile alla preghiera poiché se la prima parla di Colui che è al di sopra dell’essere, la seconda parla a Lui: «Senza dubbio la lode, come fa giustamente notare Jean-Luc Marion, non è “né vera né falsa, e neppure contraddittoria”, ma dice qualcosa della tearchia, del Bene e dell’analogia; e se le sue attribuzioni o le sue nominazioni non dipendono dal valore ordinario della verità, ma piuttosto da una sopra-verità regolata da una soprasostanzialità, non per questo si confonde con il movimento proprio della preghiera che non parla di ma a»70. Oltre al tema della teologia negativa, Derrida in Come non parlare tocca anche quello del dono e della donazione con il quale si misura anzi un’ulteriore divario tra i due filosofi. Secondo Derrida il dono è implicito al movimento apofatico stesso della teologia negativa. Di qui lo stretto legame che unisce teologia negativa e pensiero del dono. È l’ipersostanzialità, d’altronde, a dettarne il gioco. La donazione è infatti già inscritta entro quella promessa di rivelazione che si 66 «Apollo! – esclamò – Che divina superiorità!» (Platone, op. cit., p. 1235). È da evidenziare la traduzione più letterale di Derrida riguardante, non solo γελοίως, ma anche δαιμονίας ὑπερβολῆς: «“o Apollo, quale iperbole divina” (daimónias hyperbolés: quale eccesso demoniaco o soprannaturale» (J. Derrida, Psyché. Invenzioni dell’altro, cit., p. 203). 67 J. Derrida, Psyché. Invenzioni dell’altro, cit., pp. 203-204. 68 Cfr. il § 16 di Ied. 69 J. Derrida, Psyché. Invenzioni dell’altro, cit., p. 212. 70 J. Derrida, Psyché. Invenzioni dell’altro, cit., p. 213.

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accompagna all’elevazione verso Dio fino a trovare compimento nell’esperienza stessa dell’ineffabile: «La rivelazione è propiziata da una elevazione: verso quel contatto o quella visione, quella intuizione pura dell’ineffabile, quella unione silenziosa con ciò che resta inaccessibile alla parola»71. Questa esperienza rinvia al dono nella misura in cui vi è un’origine anteriore, una premessa antecedente ad ogni possibilità di parola che concede – quindi dona -, il parlare stesso. Questo significa che «il linguaggio ha cominciato senza di noi, in noi prima di noi. È ciò che la teologia chiama Dio e si deve, si sarà dovuto parlare»72. La teologia negativa incontra il dono in quanto «ciò significa che il potere di parlare e di parlare bene di Dio procede già da Dio […]. Un tale potere è un dono e un effetto di Dio»73, di una Causa che è al contempo donatrice e promessa, referente stesso (l’Altro) del discorso che essa stessa causa: «l’Altro come referente di un legein che non è altro che la sua Causa»74. La teologia negativa, dunque, identifica la Causa che si situa al di là dell’essere, oltre ogni negazione o affermazione del linguaggio predicativo, con la Causa che dona e concede. Derrida cita lo stesso Dionigi quando si riferisce a Dio come «a Colui che è la causa di ogni bene, che concede il potere di parlare, per prima cosa, e quindi di parlare bene»75. È qui il legame profondo tra teologia negativa e pensiero del dono. Ma anche rispetto al dono, così come è pensato nella teologia negativa, Derrida avanza le sue riserve. Il problema, che coinvolge Marion da vicino, è se davvero la rivelazione e lo schema trinitario (Padre/Figlio) consentano un pensiero del dono o, detto altrimenti, se debbano necessariamente sostenerlo. L’ultima nota da prendere in considerazione, la dodicesima, è su questo punto esplicita: «[…] E quindi a riguardo dello schema trinitario o paterno che fa da sostegno a un pensiero del dono che non lo esige necessariamente o che trova qui forse una strana e abissale economia o, detto altrimenti, un limite affascinante»76. Derrida ritiene qui che la teologia negativa, incrociata la rivelazione e lo schema trinitario con il Bene platonico al di là dell’essere, dia un fondamento ed un orientamento inequivocabili alla donazione così da riportarla ad una precisa economia o circolarità che, invece, annullerebbero il dono come tale. Nella nota in questione, il filoso-

71 72 73 74 75 76

J. Derrida, Psyché. Invenzioni dell’altro, cit., p. 180. J. Derrida, Psyché. Invenzioni dell’altro, cit., p. 199. J. Derrida, Psyché. Invenzioni dell’altro, cit., p. 198. J. Derrida, Psyché. Invenzioni dell’altro, cit., p. 198. J. Derrida, Psyché. Invenzioni dell’altro, cit., p. 198. J. Derrida, Psyché. Invenzioni dell’altro, cit., p. 192, nota n. 12.

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fo francese fa un preciso riferimento a quella aneconomia del dono77, già presa in considerazione sul finire degli anni Settanta78 e che troverà modo di essere esposta esaurientemente in Donare il tempo: «Debbo interrompere a questo punto la nota troppo lunga su un’ an-economia o un anarchia del dono che mi occupa da molto tempo in altra sede. A questo proposito sento il pensiero di Marion vicinissimo ed estremamente distante, altri direbbero opposto»79. Si inaugura così quella discussione sul dono che accompagnerà lo sviluppo della fenomenologia della donazione marioniana80. A giudizio di Derrida, è dopotutto il modello platonico del Bene ἐπέκεινα τῆς οὐσίας, l’origine di una tradizione, platonica e neoplatonica, che confluirà nella teologia negativa caratterizzata però anche dalla subordinazione del pensiero del dono allo schema trinitario, suo sostegno e fondamento. Il pensiero della différance può in realtà eludere quel discorso sulla negatività e risalire ad un altro discorso sull’«al di là (epékeina) del limite» presente ancora in Platone. In questo senso, scrive il pensatore francese sono distinguibili in Platone ben due «tropiche della negatività»: «Nel testo platonico e nella tradizione che esso marca, si dovrebbe distinguere, mi pare, tra due movimenti o due tropiche della negatività. Due strutture sarebbero radicalmente eterogenee»81. Uno è, appunto, il movimento del Bene al di là dell’essere, presente nella Repubblica. L’altro è invece quello costituito da quell’altro «al di là (epékeina) del limite» che è la χώρα del Timeo. Essa è spaziatura fuori del tempo: «Al momento, se si può dire così, in cui il demiurgo organizza il cosmo ritagliando, introducendo, imprimendo le immagini del paradigmi “nella” chóra, quest’ultima doveva esserci già, come il “ci”, fuori del tempo o

77 «Il dono, se ce n’è, si rapporterebbe senza dubbio all’economia. […] Ma il dono, se ce n’è, non è proprio ciò che interrompe l’economia? Proprio ciò che, sospendendo il calcolo economico, non dà più luogo a scambio? […] Se c’è dono, il donato del dono (ciò che si dona, ciò che è donato, il dono come cosa donata o come atto di donazione) non deve tornare al donante (non diciamo ancora al soggetto, al donatore o alla donatrice). Non deve circolare, non deve scambiarsi, non deve in ogni caso essere esaurito, in quanto dono, dal processo dello scambio, dal movimento della circolazione del circolo nella forma del ritorno al punto di partenza. Se la figura del circolo è essenziale all’economico, il dono deve rimanere anaeconomico» (J. Derrida, Donner le temps, Galilée, Paris 1991, tr. it. Donare il tempo. La moneta falsa, Raffaello Cortina editore, Milano 1996, p. 8). 78 Cfr. l’Avvertenza posta all’inizio di J. Derrida, Donare il tempo. La moneta falsa, cit., p. 1. 79 J. Derrida, Psyché. Invenzioni dell’altro, cit., p. 192, nota n. 12. 80 Cfr. in particolare i § 7 e 8 del secondo libro di Ed. 81 J. Derrida, Psyché. Invenzioni dell’altro, cit., p. 202.

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comunque del divenire, in un fuori-tempo senza termine di paragone con l’eternità delle idee e con il divenire delle cose sensibili»82. La χώρα platonica apre un’altra tradizione, prefigura, se ci si riporta a La différance, «il gioco della traccia o della différance che non ha senso e che non è»83, la «scacchiera senza fondo in cui l’essere è messo in gioco»84. Derrida sottolinea alcuni caratteri della χώρα a partire dal testo platonico del Timeo. Essa è indifferenza, amorfa, impassibile. Indifferenza perché «per ricevere tutto e per lasciarsi marcare o essere affetta da ciò che si inscrive in essa, bisogna che resti senza forma e senza determinazione propria»85. Proprio perché «senza forma e senza determinazione propria» è amorfa, ma «ciò non significa né mancanza né privazione», ossia «niente di negativo né niente di positivo»86. «Né passiva né attiva», la χώρα è perciò impassibile. Allora anche il dire o il parlare di essa è, in realtà, difficile: «Di questo luogo assolutamente necessario, di ciò “in cui” nascono i mimemi degli esseri eterni imprimendovisi (typothénta), di questo portaimpronte (ekmageîon) per tutti i tipi e tutti gli schemi, è difficile parlare. È difficile adattargli un lógos vero o stabile»87. Infatti della χώρα non si può dire né che è né che non è. In quanto impassibile, né positiva né negativa, non è né bene né male. E poiché non è bene, non può identificarsi neppure con il Bene ἐπέκεινα τῆς οὐσίας: «Platone lo dice quindi a suo modo: si deve evitare di parlare di chóra come di “qualcosa” che è o non è, che sarebbe presente o assente, intellegibile, sensibile o le due cose insieme, attivo o passivo, il Bene (epékeina tès ousías) o il Male, Dio o l’uomo, il vivente o il non-vivente. Si dovrebbe quindi evitare qualsiasi schema teomorfico o antropomorfico»88. Non ha relazione con l’es gibt: «Radicalmente a-umana e a-teologica, non si può nemmeno dire che essa dà luogo o che c’è [il y a] la chóra. Lo es gibt, così tradotto, annuncia o richiama ancora troppo la dispensazione di Dio, dell’uomo o anche quella dell’essere di cui parlano alcuni testi di Heidegger (es gibt Sein)»89. E non è neppure lo es dell’es gibt, l’Ereignis: «Chóra non è nemmeno ça, lo es del dare prima di ogni soggettività. Non dà luogo come di darebbe

82 83 84 85 86 87 88 89

J. Derrida, Psyché. Invenzioni dell’altro, cit., p. 205. J. Derrida, Margini della filosofia, cit., p. 51. J. Derrida, Margini della filosofia, cit., p. 51. J. Derrida, Psyché. Invenzioni dell’altro, cit., p. 207. J. Derrida, Psyché. Invenzioni dell’altro, cit., p. 207. J. Derrida, Psyché. Invenzioni dell’altro, cit., p. 205. J. Derrida, Psyché. Invenzioni dell’altro, cit., p. 207. J. Derrida, Psyché. Invenzioni dell’altro, cit., p. 207.

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qualcosa, qualcosa che sia, non crea né produce nulla, neppure un evento in quanto ha luogo»90. Altra tropica, il discorso platonico sulla χώρα è dunque un altro, eterogeneo o alternativo, discorso sulla negatività e sul limite, rispetto a quello da cui scaturisce la teologia negativa91. Ciò si misura anche rispetto al dono. La sua anaeconomia va infatti di pari passo con la χώρα. Essa, infatti, non dona nulla: «La tipografia e la tropica cui la chóra dà luogo, senza dare nulla, sono del resto esplicitamente marcati nel Timeo (50 bc)»92. Derrida marca così la differenza tra i due discorsi sulla negatività e sul limite. L’esperienza della χώρα rinvia ad un discorso negativo, ma altro rispetto a quello della teologia negativa. Infatti esso non rinvia ad alcuna elevazione verso una sopraessenzialità (Bene, Dio) che è promessa, evento e dono: «Il passaggio per la via negativa del discorso a proposito della chóra non è né un’ultima parola né la mediazione al servizio di una dialettica, di un’elevazione verso un senso positivo o proprio, un Bene o un Dio. Non si tratta qui di teologia negativa, non c’è riferimento né a un evento né a un dono, né a un ordine, né a una promessa, anche se, come ho appena sottolineato, l’assenza di promessa o di ordine, il carattere desertico, radicalmente aumano e a-teologico di questo “luogo” ci obbliga a parlare, a riferirci ad esso in una certa e unica maniera, come a quel tutto-altro che non sarebbe nemmeno trascendente, assolutamente lontano, né d’altra parte immanente o prossimo»93. Si scriveva, all’inizio, che la discussione sul dono del 1997 resta un po’ al margine rispetto a Come non parlare per via del fatto che il confronto tra i due filosofi sui temi del dono, della religione e della rivelazione, rimane come impigliato a quello della legittimità o meno di una fenomenologia della donazione. Quindi, in quel colloquio, il riferimento è soprattutto ad una fase successiva a quella segnata dal pensiero della distanza che va da L’idolo e la distanza a Dio senza essere. Di fatto, l’anaeconomia del dono esclude anche la possibilità di una sua descrizione fenomenologica. Il dibattito è tutto giocato sull’impossibilità, secondo Derrida, di rendere conto fenomenologicamente del dono: «Mais je doute qu’une phénoménologie 90 J. Derrida, Psyché. Invenzioni dell’altro, cit., p. 207. 91 Ovviamente il discorso di Derrida sulla χώρα non mira a esplicitarne il concetto platonico, vale piuttosto come un’interpretazione diretta contro il filosofo greco: «Bien que je m’intéresse à la khôra, je tente d’atteindre une structure qui n’est pas la khôra telle que Platon l’interprète mais telle que je l’interprète contre Platon» (Fdp 209). 92 J. Derrida, Psyché. Invenzioni dell’altro, cit., p. 207. 93 J. Derrida, Psyché. Invenzioni dell’altro, cit., pp. 208-209.

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du don soit possible» (Fdp 196). E ciò perché, ritiene il filosofo francese, non ci sarebbe alcuna continuità tra la Gegebenheit e il problema del dono94. La Gegebenheit in fenomenologia indica infatti solo il momento passivo dell’intuizione. Affermare che una cosa è data (all’intuizione) sarebbe quindi qualcosa di diverso dal dire che è donata95 nel senso del dono e dell’orizzonte teologico che esso implica. D’altronde la fenomenologia è il famoso «principio di tutti i principi» cioè intuizione96. Ed essa delimita necessariamente il fenomeno come tale, che non può dunque essere altro rispetto all’oggetto o all’ente, come invece è il dono secondo Marion. Detto altrimenti, non è chiaro come un eccesso di intuizione possa essere descritto fenomenologicamente, «il m’est difficile – afferma Derrida - de comprendre comment un excès d’intuition peut être décrit phénoménologiquement» (Fdp 207). Risulta in ogni caso interessante una proposta di Marion. Questi afferma, in quella discussione, di preferire all’espressione «teologia negativa», quella di «teologia mistica»97 (théologie mystique), intento che vorrebbe forse eludere le obiezioni avanzate sulla teologia negativa in Come non parlare. Si tratta di una sottolineatura, di una presa di distanza dalla decostruzione. L’accento non dovrebbe ricadere tanto sulla negatività, sull’impossibilità del concetto a comprendere e a dire l’al di là dell’essere, quanto più sulla dismisura stessa che l’esperienza religiosa implica, quell’eccesso di intuizione rispetto a ogni concetto o significazione del quale il discorso teologico deve farsi carico. Ma è proprio questo eccesso, appunto, e la pretesa marioniana di descriverlo con la fenomenologia a segnare l’incrocio dei due filosofi francesi nella figura irriducibile di un dipartirsi98.

94 Cfr. Fdp 193. È evidente qui anche il problema stesso della traduzione marioniana di Gegebenheit con il francese donation. Cfr. il § 6, Libro I, di Ed. 95 Cfr. Fdp 193. 96 Cfr. Fdp 207. Derrida allude ovviamente al «principio di tutti i principi» formulato da Husserl nelle Idee per una fenomenologia pura e per una filosofia fenomenologica del 1913. Scrive Husserl: «Ma basta con le teorie assurde. Nessuna teoria concepibile può indurci in errore se ci atteniamo al principio di tutti i principi: cioè che ogni intuizione originalmente offerente è una sorgente legittima di conoscenza, che tutto ciò che si dà originalmente nell’ “intuizione” [Intuition] (per così dire in carne e ossa) è da assumere come esso si dà, ma anche soltanto nei limiti in cui si dà» (E. Husserl, Idee per una fenomenologia pura e per una filosofia fenomenologica, cit., p. 52.) 97 Cfr. Fdp 123. 98 Marion torna a confrontare la propria posizione rispetto a Derrida in In the Name. How to avoid speaking of «Negative Theology» pubblicato in J.D. Caputo, M. Sclanon, God, the Gift and the Postmodernism, Indiana University Press, Indianapolis

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III. L. Pareyson Ciò che maggiormente colpisce nelle opere di Marion prese qui in considerazione è la quasi assenza di riferimenti a F. W. J. Schelling. Vi sono, certamente, dei rimandi, ma occorre riconoscere che sono davvero esigui e modesti. Ne L’idolo e la distanza Schelling è citato di passaggio, insieme a San Tommaso, a Cartesio e a Kant, come un pensatore che, se interpretato non in senso metafisico, può contribuire a percorrere la direzione aperta dalla distance: Non c’è alcun dubbio, per esempio, che san Tommaso (a patto che lo si interpreti a partire dalla teoria dell’analogia, vista alla luce dei nomi divini), Cartesio (letto secondo l’idea dell’infinito), Kant (inteso secondo l’immaginazione trascendentale, ma anche l’ “apparenza della ragione”), Schelling (secondo ciò che è in gioco nella soggeti-vi-tà) e qualche altro, permettono di fare molti passi in avanti in ciò che è indicato dalla distanza (Ied 15; 8).

Ma nelle pagine successive quel contributo risulta di fatto assente. In Dio senza essere, più in particolare nelle pagine iniziali, Marion ammette invece l’importanza assunta dall’ultima filosofia di Schelling come tentativo di pensare Dio senza l’Essere. Si tratta del riconoscimento di un diverso sforzo che mira al medesimo esito: Con il titolo Dio senza essere non intendiamo insinuare che Dio non sia, o che Dio non sia veramente Dio. Tentiamo di meditare quella che Schelling definiva “la libertà di Dio nei confronti della propria esistenza (Dse 10, 18).

Però, anche in questo caso, il filosofo francese si limita ad accennare ad una prossimità che in Dio senza essere non viene di fatto ulteriormente sondata. Tralasciando un semplice riferimento a Schelling solo in quanto rappresentante dell’idealismo99, del filosofo tedesco verrà poi citato un passo tratto dalle Ricerche filosofiche sull’essenza della libertà. È l’ultima citazione schellinghiana presente in Dio senza essere la cui presenza risulta peraltro funzionale al rafforzamento dell’idea che Dio sia qualcosa di più del Dio morale kantiano e fichtiano: E, in questo senso, se, come dice Schelling, “Dio è qualcosa di molto più reale che non un semplice ordine morale del mondo”, è inevitabile che l’idolo 1999 (cfr. Dse 8; 10); poi in L’impossible et le don, intervento presente in Derrida, la tradition philosophique, Galilée, Paris 2008, ripubblicato in Fdp. 99 Dse 16; 22.

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crepuscolare, con la propria scomparsa, liberi lo spazio per un avvento del divino diverso da quello della figura morale (Dse 49; 50).

Sebbene vi sia l’ammissione di una vicinanza con l’ultima filosofia di Schelling, la meditazione marioniana sembra però non arricchirsene, scorrerle parallela. Le ragioni di ciò sono forse da rintracciare in un problema, innanzi tutto, e poi in un pregiudizio, secondariamente. Anzitutto, un problema. L’ultima filosofia di Schelling nel passaggio dalla filosofia dell’identità a quella della libertà, si pone già come presa d’atto lucida e disincantata del problema del male avvertito in tutta la sua emergenza storica, esistenziale, prima ancora che metafisica100. Ma tale problema rimane come eluso dalla riflessione marioniana, messo sullo sfondo di un discorso filosofico nel quale l’ἀγάπη neotestamentaria assolve il ruolo di una sovrabbondanza, di una iperbole che sconfessa l’idolatria concettuale piuttosto che perdonare il torto subito, diradare la tenebra non tanto del male morale e dell’egoismo quanto quella dell’intelletto e del concetto a favore della lode. L’amore incrocia così il pensiero, ma non sembra perdonare e vincere il male. Come già notava Derrida, il modello offerto dalla teologia negativa elude nell’elogio erotico dell’eccesso, indicibile e impredicabile, la realtà del male confinandolo nell’assenza di luce neoplatonica: «Questa erotica conduce e riconduce quindi al Bene, circolarmente, cioè verso ciò che “sarà collocato molto al di sopra di ciò che è semplicemente e di ciò che non è […]. Quanto al male esso “non sarà né nelle cose che non sono né in quelle che non sono, ma sarà distante ed estraneo al Bene e meno sostanziale che il non essere” […]. Qual è il più di questo rispetto a ciò che è già senza essenza? Il male è ancor più senza essenza del Bene»101. Ma in tal modo l’elusione della realtà del male e quella della sua forza nientificante corrono il rischio di perdere il Dio vivente, la libertà divina e quella umana102. Si tratta di una verità che Schelling nelle sue Conferenze di Erlangen riscontrava già dietro alla sovradivinità 100 Così X. Tilliette: «Mais les Recherches ont abandonné la négativité du fini existant, et pris au sérieux la réalité humaine historique» (X. Tilliette, Schelling. Une philosophie en devenir, Vrin, Paris 1970, vol. I, p. 522). 101 J. Derrida, Psyché. Invenzioni dell’altro, cit., p. 210. 102 «D’autre part, le Mal – péché et mort – est nécessaire à la manifestation du Bien, il est inéluctablement lié à la vie de Dieu et à la révélation positive. La contradiction est la loi de la vie; renoncer à la force du mal, c’est renoncer au Dieu vivant» (X. Tilliette, op. cit., vol. I, p. 530). Sulla forza nientificante del male cfr. Karl Barth, Dio e il niente, Morcellliana, Brescia 2000, pp. 30-31. Mi permetto di rinviare anche al mio precedente G. Pettinari, Come se Dio non fosse. La questione dell’ateismo, il nichilismo e la realtà del male, Trauben, Torino 2005, pp. 129-132.

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(Übergottheit) determinata attraverso la negazione, a Dio che non è Dio: «Quindi, noi sappiamo propriamente ciò che quel soggetto non è, ma non ciò ch’esso è. Ma non per questo rinunciamo, bensì ci sforziamo con tutti i mezzi di ottenerne il concetto positivo»103. E tale concetto positivo era da intendersi, appunto, come libertà: «[…] la libertà è l’essenza del soggetto, ossia esso stesso non è altro che l’eterna libertà»104. Un pregiudizio ermeneutico, tutto heideggeriano, secondariamente. Nella ricerca marioniana di un superamento della metafisica fino alla messa in discussione della stessa differenza ontologica rea d’idolatria, la fedeltà al cammino heideggeriano prevale forse sull’esigenza d’infedeltà e di distacco dal filosofo tedesco al punto da condizionare lo stesso giudizio sull’ultima filosofia schellinghiana. Essa rimane in tal modo prossima e parallela, ma di fatto impraticata. Il pregiudizio ermeneutico marioniano, se c’è, non farebbe altro che ripetere la tesi heideggeriana su Schelling espressa, tra l’altro, proprio nel seminario di Zurigo citato nelle pagine marioniane. In quell’occasione, alla domanda se Schelling non avesse già pensato la differenza ontologica, fuoriuscendo in tal modo dalla metafisica, Heidegger rispondeva negativamente: «Dove mai è nominata la differenza ontologica? Schelling parla di “non-fondamento” (Ungrund). Nel suo ultimo periodo egli introduce la differenza tra la filosofia positiva e negativa. Ma decisivo

103 F. W. J. Schelling, Scritti sulla filosofia, la religione, la libertà, Mursia, Milano 1987, p. 204. 104 F. W. J. Schelling, Scritti sulla filosofia, la religione, la libertà, cit., p. 205. E ancora: «Il soggetto è sì infatti l’eterna libertà, ma non la è in modo da non poter anche non esserla, e ciò proprio mediante il passaggio in un’altra forma; e qui appunto vediamo donde viene propriamente al soggetto quella duplicità dell’essere e del non essere, quella sua natura anceps: dal fatto, appunto, ch’esso è la pura ed assoluta libertà stessa» (F. W. J. Schelling, Scritti sulla filosofia, la religione, la libertà, cit., p. 205). Cfr. X Tilliette, op. cit., vol. II, pag. 139. Come osserva L. Pareyson in nota, il concetto di Übergottheit rinvia a Angelo Silesio e, all’indietro, fino alla ὑπερθειότης di Dionigi l’Aeropagita (F. W. J. Schelling, Scritti sulla filosofia, la religione, la libertà, cit., p. 226, nota n. 2), sulla base dell’indicazione già fornita da X. Tilliette (X. Tilliette, op. cit., vol. II, p. 146, nota n. 35). Sul tema della teologia negativa seguiamo qui l’interpretazione che anima la pagina pareysoniana: «Schelling in fondo vuol evitare sia l’ontologia negativa mistica sia l’ontologia esplicata hegeliana, sia la definizione dell’essere mediante la sua inaccessibilità, cioè la cessazione totale della parola e del pensiero, la ἀλογία παντελῆ καὶ ἀνοησία di cui parla Dionigi, sia il dispiegamento completo dell’essere, cioè l’identità di essere e pensiero come risultato […]» (L. Pareyson, Verità e interpretazione, cit., p. 164). Sul medesimo tema cfr. F. Tomatis, Kenosis del Logos. Ragione e rivelazione nell’ultimo Schelling, Città Nuova, Roma 1994, pp. 51-52.

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è che egli non vede come tale il problema della connessione e dell’unità, oppure il fondamento di questa differenza tra ciò che chiama positivo e negativo. Egli compie la distinzione. […] La differenza intesa da Schelling, quella tra fondamento ed esistenza, riguarda soltanto la determinazione di ogni “essere”, cioè di ogni ente in quanto tale. Essa si muove all’interno della differenza, appunto non pensata, tra essere e ente»105. Come a dire che Schelling rimane comunque entro la metafisica, poiché è impensata nel suo pensiero la differenza ontologica106. La sua filosofia si attesta perciò ancora entro l’ontoteologia: «La filosofia è ontoteologia. Quanto più originariamente essa riunisce questa dualità, tanto più autenticamente è filosofia. E il trattato di Schelling è una delle opere più profonde della filosofia, perché esso è, in senso eminente, ontologico e insieme teologico»107 . Così la fuoriuscita dall’idolo concettuale e la deformazione della differenza ontologica marioniane mancano, in realtà, il confronto con l’ultimo Schelling e, più ancora, con l’assunto fondamentale della sua ultima filosofia: Dio come sovraesistente (Ueberseyende), signore dell’essere (der Herr des Seyns)108. Da esso infatti deriverebbe l’oltrepassamento schellinghiano 105 M. Heidegger, Seminari, cit., pp. 205-206. 106 Nel Nietzsche, Heidegger sottolineava che la distinzione tra esistenza e fondamento dell’esistenza era da considerarsi solo una distinzione (Unter-scheidung) da non riferire alla differenza ontologica: «La “distinzione” schellinghiana vuol dire una reciproca opposizione (lotta) che governa e struttura tutto l’essere essenzialmente presente (l’ente nella sua enticità), e tutto ciò sul fondamento della soggettività» (M. Heidegger, Nietzsche, cit., p. 928). Cfr. P. De Vitis, op. cit., pp. 122-125. 107 M. Heidegger, Schellings Abhandlung über das Wesen der menschlichen Freiheit (1809), Niemeyer, Tübingen 1971, tr. it. Schelling. Il trattato del 1809 sull’essenza della libertà umana, Guida, Napoli 1994, p.103. 108 L’assunto in questione attraversa la parabola speculativa stessa dell’ultima filosofia di Schelling. Ad esempio si legge nelle Ricerche filosofiche del 1809: «Dio ha in sé un fondamento intimo della sua esistenza che, in quanto tale, lo precede come esistente; ma Dio è a sua volta il Prius del fondamento, in quanto il fondamento, anche come tale, non potrebbe essere, se Dio non esistesse actu» (F. W. J. Schelling, Scritti sulla filosofia, la religione, la libertà, cit., p. 96). Nelle Lezioni di Stoccarda si legge: «Dunque, se Dio si è diviso in se stesso, egli si è diviso come essente dal suo essere; […]. Allo stesso modo, se Dio restasse avvinghiato al suo essere, non vi sarebbe né vita né accrescimento alcuno» (F. W. J. Schelling, Scritti sulla filosofia, la religione, la libertà, cit., p. 155). Ne Le età del mondo Schelling è più esplicito su Dio come libertà dall’essere: «È, dunque, ciò che in sé non è né essente né nonessente, ma soltanto l’eterna libertà di essere. […] Un sentimento profondo ci dice che la vera, l’eterna libertà dimora al di sopra dell’essere» (F. W. J. Schelling, Die Weltalter in Sämmtliche Werke, Cotta, Stuttgart 1861, vol. VIII, tr. it. Le età del mondo, Guida, Napoli 1991, p. 74). Dio è, dunque, Ueberseyende: «[…] è la dottrina più antica ad insegnare che Dio è il Sopra-reale, il Super-essente (τὸ ὑπερόν),

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dell’ontoteologia data l’impossibilità di identificare Dio e essere, in quanto Dio è propriamente signore dell’essere, libertà al di sopra dell’essere. E, allo stesso tempo, Schelling oltrepasserebbe anche la differenza ontologica (Heidegger) poiché la riporterebbe in Dio stesso, libero rispetto all’essere e, perciò, all’ente ed alla loro stessa differenza, impensata o pensata che sia: «Schelling […] pensa la differenza ontologica di essere e essente in Dio stesso, e conosce Dio come la omni-realtà e nello stesso tempo come il personalmente libero»109. Parallela all’ultimo Schelling, la riflessione di Marion non sembra scorgervi un pensatore postheideggeriano poiché di fatto non scandaglia questa possibilità alternativa, a differenza di L. Pareyson che già nell’elaborazione di un’ontologia dell’inesauribile in Verità e interpretazione coglieva invece tutta l’attualità dell’ultimo Schelling nel suo confronto con l’ontologia negativa heideggeriana: «Ognuno vede, da questo accenno sommario, quanta ricchezza di suggerimenti e di conferme si potrebbero attualmente derivare da Schelling inteso non solo come pensatore posthegeliano, quale realmente fu, anche se così spesso e così volentieri lo si dimentica, ma anche come pensatore postheideggeriano, quale potrebbe oggi diventare, anche se da parte troppo interessata lo si è voluto diffamare come un tipico “distruttore della ragione”»110. Tesi importante, occasione di approfondimento e spunto di riflessione costante, ribadite da Pareyson puntualmente anche e e quindi elevato al di sopra dell’essere e del non-essere» (F. W. J. Schelling, Le età del mondo, cit., p. 78). Nella Filosofia della Rivelazione, oltre all’Ueberseyende (cfr. F. W. J. Schelling, Sämmtliche Werke, Cotta, Stuttgart 1861, vol. XIII, tr. it., Filosofia della Rivelazione, Rusconi, Milano 1977, p. 219) si legge: «Se Dio ha il suo prius nell’actus, egli avrà la sua Divinità nella potenza, nel fatto che egli è la potentia universalis, e, in quanto tale, il sovraesistente, il Signore dell’essere» (F. W. J. Schelling, Filosofia della Rivelazione, cit., p. 265). D’altronde, come osserva X. Tilliette, la rivelazione non conosce altra nozione di Dio che quella di Signore (X. Tilliette, op. cit., vol. II, p. 189). Scrive G. Riconda: «Appunto perché Dio è l’essere compiuto, l’essere che nella sua sovranità non può venir spinto da alcun impulso all’agire, egli è il Signore dell’Essere, dalla cui libertà soltanto dipende il far emergere le potenze dell’essere, attuandole o trattenendole. Dio non è prigioniero dell’essere come nei sistemi della necessità, ma può liberamente disporre dell’essere, non deve preoccuparsi di sé, sui securus, può aprirsi all’altro» (G. Riconda, Tradizione e avventura, Sei, Torino 2001, p. 142). 109 W. Kasper, Das absolute in der Geschichte, Verlag, Mainz 1965, tr. it., L’Assoluto nella storia nell’ultima filosofia di Schelling, Jaca Book, Milano 1986, p. 163. Per un confronto tra Heidegger e Schelling cfr. W. Kasper, op. cit., p. 161-164; e il capitolo Onto-teologia, mito e religione fra Schelling e Heidegger in P. De Vitis, op. cit. 110 L. Pareyson, Verità e interpretazione, Mursia, Milano 1987, p. 164.

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soprattutto negli scritti successivi a Verità e interpretazione animati da una speculazione condotta sotto il segno della libertà e della realtà del male fino a tradursi nella sua ontologia della libertà: «Ed è qui che può trovare conferma l’idea da me espressa altrove e da tempo proposta di Schelling come pensatore postheideggeriano, nel senso che proprio dallo strettissimo legame sotterraneo che connette Heidegger con Schelling possiamo derivare fruttuosi suggerimenti sul nesso fra nulla e libertà, nesso assolutamente fondamentale, a parer mio, giacché si può fare della libertà un problema autentico solo se la si rapporta al nulla»111. Ne discende, allora, anche la possibilità di una prossimità tra Marion e Pareyson, quella di un loro incrociarsi sul margine dell’ultima filosofia di Schelling, della speculazione schellinghiana sul male e sulla libertà, invalicato per l’uno, ma congeniale per l’altro. Senza pretendere di approfondire ulteriormente questo tema che non è oggetto di questo lavoro112, ci limitiamo soltanto a considerare in questo senso il pensiero del dono in Pareyson così da tentare di misurare quella prossimità e la portata di questo incrocio. Ne Dal personalismo esistenziale all’ontologia della libertà, Pareyson chiariva come già in Esistenza e persona fosse presente nel suo pensiero il tema del dono e come esso anticipasse per alcuni versi la sua filosofia della libertà successiva: «Parlare di dono, come ho fatto in questo libro negli anni Cinquanta, era, per quel tempo, dire la stessa cosa che ho sostenuto nelle Rettifiche, che solo la libertà precede la libertà […]»113. Precisando che la filosofia, secondo Pareyson, non può trattare di Dio quale concetto 111 L. Pareyson, Ontologia della libertà, cit., p. 450. 112 Tralasciamo così di proposito l’esposizione dei molti spunti concettuali che contemporaneamente portano Marion e Pareyson a convergere e, insieme, a divergere. Li elenchiamo sommariamente: il diverso rilievo assunto dalla fenomenologia nei due filosofi, la critica all’esistenzialismo sartriano, quella ad Heidegger, il comune radicamento del loro pensiero nel cristianesimo, ottimista per l’uno, tragico per l’altro. E ancora: l’ermeneutica dell’icona o l’ermeneutica del mito che è tautegorico, l’impensabile che satura il pensiero o l’estasi della ragione, la libération de l’Être o l’essere come libertà, la filosofia come un sondare la possibilità della rivelazione o la filosofia come ermeneutica dell’esperienza religiosa ecc. Più in particolare, un confronto tra i due filosofi dovrebbe poi soffermarsi sul tema della teologia negativa (cfr. ad esempio L. Pareyson, Ontologia della libertà, cit., p. 112) e sulla differente interpretazione di Es 3,14 (cfr. L. Pareyson, Ontologia della libertà, cit., p. 119 e p. 123). 113 L. Pareyson, Esistenza e persona, Melangolo, Genova 1985, p. 26. Dal personalismo esistenziale all’ontologia della libertà comparve in «Giornale di Metafisica», 6, 1984 e venne aggiunto come introduzione all’edizione di Esistenza e persona del 1985 dalla quale qui citiamo.

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filosofico, ma solo quale oggetto di un’esperienza religiosa che ha nel mito il linguaggio appropriato per dire quella trascendenza114, sicché la «riflessione filosofica sull’esperienza religiosa, allora, non è altro che interpretazione del mito, il quale già per conto suo è interpretazione della verità»115. In Esistenza e persona Pareyson in effetti discute del dono soprattutto in relazione all’irrelatività di Dio ch’è fondamento di relatività. Dio nell’esperienza religiosa è irrelatività: «L’irrelatività di Dio porta con sé, invece, un monismo: Dio solo, signore assoluto del campo […]. Dall’altro è la divina signoria: unicità di Dio: unità e assolutezza»116. Ma questa irrelatività istituisce anche la relazione e il rapporto con l’uomo: «Ma l’irrelatività di Dio è, come s’è visto, il fondamento della sua relatività. E come la relatività divina si fonda sulla divina irrelatività, così il dualismo si fonda sul monismo»117. L’irrelatività, l’assolutezza e la totalità di Dio, fondano la relazione con l’essere umano poiché la pienezza divina, nella sua gratuità, si dà all’uomo. La sovrabbondanza è qui il fondamento della relazione. È il darsi d’una trascendenza che resta irrelativa nella relazione. È il dono che fonda quel rapporto: «Questo straripare della pienezza divina non ha nulla di quella necessità che certa metafisica, la quale irrigidisce l’esperienza religiosa, rinviene nella processione del mondo da Dio. È, invece, un’abbondanza puramente gratuita, che si dà e dandosi costituisce l’altro termine ponendosi nel rapporto. Il dono è la costituzione della relazione e della dualità. La pienezza dell’essere, nella quale consiste l’irrelatività di Dio, è un puro darsi, e il darsi si pone come interiore a quel rapporto ch’esso stesso costituisce. L’essenza del rapporto è, dunque, il dono»118. A partire da quell’irrelatività, il dono chiama in causa anche la libertà umana come iniziativa iniziata e consenso. L’uomo stesso è libertà poiché il suo esistere rinvia a quella sovrabbondanza: «Esistere significa allora aver acconsentito a quel dono: l’uomo è libertà proprio perché alla base della sua esistenza v’è una gratuità originaria»119. Oltre alla passività e alla necessità, vi sono nell’accettazione di quella gratuità da parte dell’uomo, il suo agire e la sua libertà, i caratteri del suo rapporto ontologico con l’essere: «S’intende ora perché la passività e la necessità che stanno alla base dell’iniziativa possono convertirsi in attività e libertà: esse sono in sé stesse 114 115 116 117 118 119

Cfr. L. Pareyson, Ontologia della libertà, cit., pp. 22-23. L. Pareyson, Ontologia della libertà, cit., p. 144 e ancora p. 161. L. Pareyson, Esistenza e persona, cit., p. 169. L. Pareyson, Esistenza e persona, cit., pp. 169-170. L. Pareyson, Esistenza e persona, cit., p. 170. L. Pareyson, Esistenza e persona, cit., p. 238. Cfr. L. Pareyson, Ontologia della libertà, cit., pp. 15-19.

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un rapporto con l’essere, cioè l’attestazione di un dono gratuito che si tratta di accogliere con un libero autonomo consenso»120. Il dono, allora, rinvia alla «libertà che precede la libertà», alla libertà umana che ha nella libertà divina il suo inizio, come Pareyson scrive ne Dal personalismo esistenziale all’ontologia della libertà e ribadisce nelle Lezioni di Napoli del 1988: «La libertà umana presuppone quella originaria, non derivandone limitazione alcuna»121. L’essere dell’uomo è esso stesso libertà: «l’uomo non ha, ma è rapporto con l’essere»122. Vi è allora, secondo Pareyson, una solidarietà originaria che esclude ogni possibilità di definizione dell’essere. Di qui la sua inoggettivibilità, il suo arretramento, il suo sottrarsi alla metafisica. L’essere non è fondamento (Grund), ma non-fondamento (Ungrund). E poiché non può assolvere ad alcuna funzione di causa o di principio di ragione, esso è, più ancora, un abisso senza fondo (Abgrund), poiché esso è libertà stessa. È qui il superamento della metafisica e della causa sui da parte di una filosofia della libertà: «All’essere necessario, appiattito su sé stesso come causa sui, è sostituita la libertà col suo empito creativo e innovatore, la libertà ch’è alla base del reale in quanto è anzitutto alla base di sé stessa»123. Ed è qui che la scoperta dell’infondatezza della realtà, nell’assenza di causa ultima, dà luogo alla meraviglia o allo sgomento, al consenso o al rifiuto: «La libertà è una fessura nella compattezza della realtà, è una breccia, una crepa, una spaccatura nella continuità dell’universo. L’inizio assoluto è il nulla della libertà ed ecco perché è sorpresa, prodigio, suscita stupore; ecco perché questo nulla ha qualcosa di vertiginoso, è un abisso che suscita angoscia, sgomento»124. La realtà, infatti, può apparire all’uomo nella sua gratuità suscitando così stupore e meraviglia. Oppure può generare orrore ed angoscia. La realtà, dunque, appare come il campo di un contrasto tra la vittoria sul nulla o il cedimento alla sua seduzione: «La realtà non può presentarsi se non come il regno della lotta sempre incerta fra il male e il bene, e persino come la sede del trionfo del male, col greve carico di sofferenze e di menzogne che ne consegue»125. E ciò perché la realtà è infondata, ambigua come lo sono l’uomo e la stessa libertà originaria, Dio stesso: «Parlare di una ambiguità originaria è come attribuire l’ambiguità a Dio, così come 120 121 122 123

L. Pareyson, Esistenza e persona, cit., p. 239. L. Pareyson, Ontologia della libertà, cit., p. 39. L. Pareyson, Esistenza e persona, cit., p. 16. L. Pareyson, Esistenza e persona, cit., p. 29. Cfr. L. Pareyson, Ontologia della libertà, cit., p. 36. 124 L. Pareyson, Ontologia della libertà, cit., p. 32. 125 L. Pareyson, Esistenza e persona, cit., p. 30.

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parlare della libertà originaria è come dire che Dio è, essenzialmente, libertà: Dio è la libertà, e, come tale, è natura sua ambiguità»126. Il dono, allora, presuppone questa ambiguità originaria. Rinvia, dunque, al «discorso temerario» del male in Dio, già da sempre sconfitto. Il bene, infatti, non è fondamento. Ne risulterebbe che il male sarebbe solo privatio boni, perdendo la sua realtà: «Il male non è assenza di essere, privazione di bene, mancanza di realtà, ma è realtà, più precisamente realtà positiva nella sua negatività. Esso risulta da un positivo atto di negazione: da un atto consapevole e intenzionale di trasgressione e rivolta, di rifiuto e rinnegamento […]. Il male va dunque preso nel significato più intenso della ribellione e della distruzione»127. Dio non è dunque il bene, ma la scelta del bene e dell’essere: «Egli non è il bene, ma il bene scelto, cioè il bene anteposto al male, affermato con la negazione e il rifiuto del male. Egli è la scelta del bene, cioè la vittoria sul male»128. E Dio è tale scelta innanzi tutto perché è libero rispetto all’essere, è libertà stessa: «Dire Dio significa dire: sono stati scelti per sempre l’essere e il bene, cioè il male e il nulla sono stati per sempre vinti. L’atto della libertà è stato atto di libertà positiva: la libertà s’è decisa per il bene, la sua opzione è stata per l’essere. Dio ha voluto esistere, ciò che ha fatto vincendo il negativo, cioè il nulla»129.

126 L. Pareyson, Esistenza e persona, cit., p. 34. E ancora: «In secondo luogo affermare la presenza del male in Dio significa alludere […] all’ambiguità divina, ch’è poi la duplicità della libertà, sempre al tempo positiva e negativa, donde l’inseparabilità degli opposti e quindi una dialettica originaria, diversa da quella heideggeriana, nel cuore della realtà. […] Si coglie all’origine il carattere ancipite della realtà ch’è sempre oggetto di stupore e orrore al tempo stesso […]; si penetra fino in fondo la terribile e insieme mirabile apparizione dei due volti di Dio; si ravvisa la suprema dialettica divina nel fatto che Dio è sempre insieme positività e negatività, affermazione e negazione, cioè collera e grazia, ira e misericordia inseparabilmente, mai esclusivamente corrucciato né unicamente benevolo» (L. Pareyson, Ontologia della libertà, cit., p. 181). 127 L. Pareyson, Ontologia della libertà, cit., pp. 167-168. 128 L. Pareyson, Ontologia della libertà, cit., p. 178. 129 L. Pareyson, Ontologia della libertà, cit., p. 177. È sufficiente questo passo per misurare l’importanza dell’ultimo Schelling nell’ontologia della libertà pareysoniana. E ancora: «Dio è libero non solo rispetto all’essere in generale – come è evidente – perché quello è una sua creazione, ma anzitutto rispetto al suo essere, al punto che non si può dire che Dio è libero, ma che solo Dio è libertà. […] È un atto assoluto di libertà illimitata e arbitraria, col quale Dio si fa e si dice al tempo stesso padrone del proprio essere e dell’essere in generale» (L. Pareyson, Ontologia della libertà, cit., p. 36). Inutile sottolineare qui la presenza schellinghiana del Dio signore dell’essere (Herr des Seyns), peraltro esplicitamente affermata dallo stesso Pareyson: «In tal senso egli è signore dell’essere, Herr des Seyns, in quanto

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Il dono è allora questa positività di Dio, la sua vittoria sul nulla e sul male. E l’uomo può acconsentire ad esso o rifiutarlo, fino a ridestare con la sua libertà negativa l’alternativa trascurata e messa da parte da Dio, al punto da dare realtà al male, riattivarlo attraverso l’atto di una rivolta contro la scelta divina che ha istituito il bene: «È dunque l’uomo il rimestatore del male»130. Ne va allora, in ultimo, anche dell’ateismo, oltre che della libertà e della realtà del male. Se per Marion, l’ateismo non è altro che idolatria, negazione di Dio nella chiacchiera di un proliferare ciarliero di idoli che affollano il nostro tempo al quale non è sufficiente opporre un silenzio (Wittgenstein, Heidegger) che non preluda alla lode e alla preghiera131, per Pareyson è da ravvisarvi invece l’esercizio di una libertà negativa, di una possibilità di rivolta che è inscritta in quella stessa ambiguità, in quella natura ancipite che è la libertà umana: «La scelta fra l’esistenza e l’inesistenza di Dio è un atto esistenziale di accettazione o ripudio, in cui il singolo uomo decide a suo rischio se per lui la vita ha un senso oppure è assurda, giacché a questa opzione si riduce in fondo e senza residuo quel dilemma»132.

è anzitutto signore del proprio essere, anzi sembra esistere solo per essere signore dell’essere» (L. Pareyson, Ontologia della libertà, cit., p. 139). 130 L. Pareyson, Ontologia della libertà, cit., p. 59. 131 Cfr. Dse (81-91; 77- 86). 132 L. Pareyson, Ontologia della libertà, cit., p. 147.

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TAVOLA DELLE SIGLE E DELLE EDIZIONI CITATE

Opere di J.-L. Marion citate Ied Dse Red Ed Dca Ver Fdp

L’idole et la distance. Cinq études, Grasset, Paris 1977; tr. it. di A. Dell’Asta, L’idolo e la distanza, Jaca Book, Milano 1979. Dieu sans l’être. Hors texte, Puf, Paris 1991; nuova ed. it. a cura di C. Canullo, Dio senza essere, Jaca Book, Milano 2008. Réduction et donation. Recherches sur Husserl, Heidegger et la phénoménologie, Puf, Paris 1989. Étant donné. Essai d’une phénoménologie de la donation, Puf, Paris 1997; tr. it. di R. Caldarone, Dato che. Saggio per una fenomenologia della donazione, SEI, Torino 2001. Dialogo con l’amore, a cura di U. Perone, Rosenberg & Sellier, Torino 2007. Le Visible et le révélé, Cerf, Paris 2010; tr. it. di C. Canullo, Il visibile e il rivelato, Jaca Book, Milano 2007. Figures de phénoménologie. Husserl, Heidegger, Levinas, Henry, Derrida, Vrin, Paris 2012.

Le sigle delle opere di Marion che accompagnano le citazioni, poste tra parentesi, sono seguite dal numero di pagina dell’edizione francese e, separato da un punto e virgola, dall’eventuale numero di pagina della traduzione italiana. Per quanto riguarda una bibliografia degli scritti su Jean-Luc Marion, ci permettiamo di rinviare al testo curato da Carla Canullo, a cura di, JeanLuc Marion, un dibattito italiano, Simple, Macerata 2010. Ove si è ritenuto necessario si è fatto anche riferimento, con la sigla GA seguita dal numero del volume, alla Gesamtausgabe delle opere di Martin Heidegger, curata da Friedrich-Wilhelm von Herrmann, pubblicata presso V. Klostermann, Frankfurt a.M.

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FILOSOFIE Collana diretta da Pierre Dalla Vigna e Luca Taddio 1. 2. 3. 4. 5. 6. 7. 8. 9. 10. 11. 12. 13. 14. 15. 16. 17. 18. 19. 20. 21. 22. 23. 24. 25. 26. 27. 28. 29.

Deborah Ardilli, Prima della virtù. Esperienza, conoscenza e innocenza nella filosofia di Stuart Hampshire Francesco Borgia, L’uomo senza immagine. La filosofia della natura di Hans Jonas Antonino Trusso, L’uomo allo specchio Fulvio Carmagnola, Il desiderio non è una cosa semplice. Figure di agalma Giovanni Chimirri, Filosofia e teologia della storia. L’esistenza umana in divenire Pietro D’Oriano, Draga Rocchi (a cura di), Il male e l’essere. Atti del convegno internazionale di studi Girolamo Fracastoro, Della Torre ovvero l’Intellezione Giovanni Invitto, Fra Sartre e Wojtyla. Saggi su fenomenologie ed esistenze Mauro La Forgia, Morfogenesi dell’identità Giovanni Leghissa, Incorporare l’antico. Filologia classica e invenzione Giovanni Carlo Leone, Marx dopo Heidegger. La rivoluzione senza soggetto, Stefano Mancini (a cura di), Sguardi sulla scienza del giardino dei pensieri Julia Ponzio, Filippo Silvestri, Itinerari nel pensiero filosofico di Giuseppe Semerari Giovanni Rossetti, Le radici estetiche dell’etica in Gregory Bateson Stefania Tarantino, La libertà in formazione. Studio su Jeanne Hersch e Maria Zambrano Bruno Accarino (a cura di), Espressività e stile. La filosofia dei sensi e dell’espressione in Helmuth Plessner Angela Ales Bello, Patrizia Manganaro (a cura di), Le religioni del Mediterraneo. Filosofia, Religione, Cultura Roberto Armigliati, Responsabilità illimitata. “Per una nuova era di responsabilità” Mimmo Pesare, Abitare ed esistenza. Paideia dello spazio antropologico Francesco Borgia, Appartenenza e alterità. Il concetto di storicità nella filosofia di Martin Heidegger Adriano Bugliani, Contro di sé. Potere e misconoscimento Damiano Cantone, Cinema, tempo e soggetto. Il Sublime kantiano secondo Deleuze Silvia Capodivacca, Danzare in catene. Saggio su Nietzsche Giovanni Chimirri, L’arte spiegata a tutti. Il senso spirituale della bellezza in dieci lezioni Maria Lucia Colì, La natura e l’ontologia in alcuni inediti dell’ultimo MerleauPonty Vincenzo Cuomo, Figure della singolarità. Adorno, Kracauer, Lacan, Artaud, Bene Daniela De Leo, La relazione percettiva. Merleau-Ponty e la musica Gaia De Pascale, Qui non si canta al modo delle rane. La città nelle poetiche futuriste Giovanni Di Benedetto, L’ecologia della mente nell’etica di Spinoza. Amore della natura e coscienza globale sulla via della complessità

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30. 31. 32. 33. 34. 35. 36. 37. 38. 39. 40. 41. 42. 43. 44. 45. 46. 47. 48. 49. 50. 51. 52. 53. 54. 55. 56. 57. 58. 59. 60. 61. 62. 63. 64.

Josef Dietzgen, L’essenza del lavoro mentale umano e altri scritti Roberto Fai, Genealogie della globalizzazione. L’Europa a venire Fabio Farrotti, Il concetto dionisiaco della vita. Uno studio sul nichilismo Sergio Franzese, Darwinismo e pragmatismo e altri studi su William James Giacomo Fronzi, Etica ed estetica della relazione Giuliano Glauco, L’immagine del tempo in Henry Corbin. Verso un’idiochronia angelomorfica Cristina Guarnieri, Il linguaggio allo specchio. Walter Benjamin e il primo romanticismo tedesco Federico Italiano, Tra miele e pietra. Aspetti di geopoetica in Montale e Celan Michael Konrad, Amore e amicizia: un percorso attraverso la storia dell’etica Vanna Gessa Kurotschka, Chiara De Luzenberger (a cura di), Immaginazione etica interculturalità Riccardo Lazzari, Massimo Mezzanzanica, Erasmo Silvio Storace (a cura di), Vita, concettualizzazione, libertà. Studi in onore di Alfredo Marini Stefano Marino, Ermeneutica filosofica e crisi della modernità. Un itinerario nel pensiero di Hans-Georg Gadamer Markus Ophälders, Filosofia arte estetica. Incontri e conflitti Riccardo Pozzo, Marco Sgarbi (a cura di), I filosofi e l’Europa Vincenzo Rosito, Espressione e normatività. Soggettività e intersoggettività in Theodor W. Adorno Barbara Scapolo, Esercizi di de-fascinazione. Saggio su E. M. Cioran Friedrich Wilhelm Joseph Schelling, Sui miti. Le saghe storiche e i filosofemi del mondo antichissimo Renato Troncon, Estetica e antropologia filosofica Francesco Valagussa, Individuo e stato. Itinerari kantiani ed hegeliani, Roberta Cavicchioli, Breve storia di un’ingratitudine. Victor Cousin nell’album di famiglia della scuola repubblicana Leonardo Tomasetta, Destra e sinistra. I due corni del dilemma borghese Dario Sacchi (a cura di), Passioni e ragione fra etica ed estetica Mario Alcaro (a cura di), L’oblio del corpo e del mondo nella filosofia contemporanea Luciano Arcella, L’innocenza di Zarathustra. Considerazioni sul I libro di Così parlò Zarathustra di F. Nietzsche Tiziana Carena, La pneumatologia teologico-estetica di Vincenzo Gioberti, Susi Pietri, L’opera inaugurale. Gli scrittori-lettori della Comédie Humaine I Antonio Rainone, Il doppio mondo dell’occhio e dell’orecchio Francesco Giacomantonio, Introduzione al pensiero politico di Habermas. Il dialogo della ragione dilagante Emanuele Profumi, L’autonomia possibile. Introduzione a Castoriadis Fabio Vander, Essere e non-essere. La Scienza della logica e i suoi critici Gianluca Verrucci, Ragion pratica e normatività. Il costruttivismo kantiano di Rawls, Korsgaard e O’Neill Emanuele Mariani, Kierkegaard e Nietzsche. Il Cristo e l’Anticristo Viviana Meschesi, Sistema e trasgressione. Logica e analogia in F. Rosenzweig, W. Benjamin ed E. Levinas Giorgio Brianese, L’arco e il destino. Interpretazione di Michelstaedter Mario Cingoli, Marxismo, empirismo, materialismo

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65. 66. 67. 68. 69. 70. 71. 72. 73. 74. 75. 76. 77. 78. 79. 80. 81. 82. 83. 84. 85. 86. 87. 88. 89. 90. 91. 92. 93. 94. 95. 96.

Nicola Magliulo, Cacciari e Severino. Quaestiones disputatae René Scheu, Il soggetto debole. Sul pensiero di Aldo Rovatti Andrea Amato, Agli esordi dell’esserci. Ancor privi del senso del bene e del male Franco Manti (a cura di), Res publica Luca Marchetti, Oltre l’immagine Giuseppe Di Giacomo (a cura di), Ripensare le immagini Rossella Bonito Oliva, Labirinti e costellazioni. Un percorso ai margini di Hegel Luca Gasparri, Filosofia dell’illusione. Lineamenti di glottologia e di critica concettuale Julia Ponzio, Giuseppe Mininni, Augusto Ponzio, Maria Solimini, Susan Petrilli, Luciano Ponzio, Roland Barthes. La visione ottusa Ornella Crotti, La bellezza del bene. Il debito di Hannah Arendt nei confronti di Immanuel Kant Stefano Zampieri, Introduzione alla vita filosofica. Consulenza filosofica e vita quotidiana Vincenzo Comerci, Filosofia e mondo. Il confronto di Carlo Sini Felice Accame, Mario Valentino Bramè, La strana copia. Carteggio fra due avversari su natura e funzione della filosofia con documentazione a sostegno di entrambi Carlo Burelli, E fu lo stato. Hobbes e il dilemma che imprigiona Antonio Di Chiro, La notte del mondo. Luoghi del senso, luoghi del divino Claudio Lucchini, Il bene come possibile processo concreto. Natura e ontologia sociale Manuel Cruz, La memoria si dice in molti modi. La priorità della politica sulla storia Giovanni Invitto, Marleau-Ponty par lui-même. Una pratica filosofica della narrazione di sé Valentina Tirloni, L’enigma del colore. Un approccio fenomenologico e simbolico Giacomo Fronzi, Contaminazioni. Esperienze estetiche nella contemporaneità Alessia Cervini, La ricerca del metodo. Antropologia e storia delle forme in S. M. Ejzenštejn Luciano Ponzio, L’iconauta e l’artesto. Configurazioni della scrittura iconica Chimirri Giovanni, Siamo tutti filosofi (basta volerlo) Bordoni Giorgia, I nomi di Dio. Religione e teologia in Jacques Derrida German A. Duarte, La scomparsa dell’orologio universale. Peter Watkins e i mass media audiovisivi Filippo Silvestri, Segni significati intuizioni. Sul problema del linguaggio nella fenomenologia di Husserl Romeo Bufalo, Giuseppe Cantarano, Pio Colonnello (a cura di), Natura storia società. Studi in onore di Mario Alcaro Stefano Bracaletti, Individualismo metodologico, riduzionismo, microfondazione. Problematiche e sviluppi del paradigma individualista nelle scienze sociali Giovanni Invitto, La lanterna di Diogene e la lampada di Aladino Andrea Camparsi, Irene Angela Bianchi, L’autocoscienza e la prospettiva sul mondo Veronica Santini, Il filosofo e il mare. Immagini marine e nautiche nella Repubblica di Platone Jean-Pierre Vernant, L’immagine e il suo doppio. Dall’era dell’idolo all’alba dell’arte

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97. 98. 99. 100. 101. 102. 103. 104. 105. 106. 107. 108. 109. 110. 111. 112. 113. 114. 115. 116. 117. 118. 119. 120. 121. 122. 123. 124. 125. 126. 127. 128. 129. 130.

Barbara Chitussi, Immagine e mito. Un carteggio tra Benjamin e Adorno Marco Jacobsson, Heidegger e Dilthey. Vita, morte e storia Lorenzo Bernini, Mauro Farnesi Camellone, Nicola Marcucci, La sovranità scomposta. Sull’attualità del Leviatano Francesco Barba, Il persecutore di Dio. San Paolo nella filosofia di Nietzsche Augusto Mazzone, Il gioco delle forme sonore. Studi su Kant, Hanslick, Nietzsche e Stravinskij Raniero Fontana, Avodah Zarah, un’introduzione al discorso rabbinico sull’idolatria Victorino Pérez Prieto, Oltre la frammentazione del sapere e la vita: Raimon Panikkar Fabio Martelli, Un libertino nel “Plenilunio delle monarchie” Angelica Polverini, L’inganno dei sensi. La percezione sinestetica tra vista e tatto dall’antichità all’arte del Cinquecento Federica Negri, Ti temo vicina ti amo lontana. Nietzsche, il femminile e le donne Maieron Mario Augusto, Alla ricerca dell’isola che non c’è. Ragionamenti sulla mente Casini Leonardo, Corporeità. La corporeità nelle Ergänzungen al Die Welt di Schopenhauer e altri scritti Giuseppe Campesi, Soggetto, disciplina, governo. Michel Foucault e le tecnologie politiche moderne Bertolini Mara Meletti (a cura di), Ragion pratica e immaginazione. Percorsi etici tra logica, psicologia ed estetica Cattaneo Francesco, Domandare con Gadamer Pantano Alessandra, Dislocazione. Introduzione alla fenomenologia asoggettiva di Jan Patočka Luisetti Federico, Una vita. Pensiero selvaggio e filosofia dell’intensità Fichte Johann Gottlieb, Lezioni sulla destinazione del dotto (1811). La Dottrina della Scienza, esposta nel suo profilo generale (1810) Marcello Ghilardi, Il visibile differente. Sguardo e relazione in Derrida Farotti Fabio, Ex Deo-ex nihilo. Sull’impossibilità di creare/annientare Paolo Aldo Rossi, Paolo Vignola (a cura di), Il clamore della filosofia. Sulla filosofia francese contemporanea Vallori Rasini (a cura di), Aggressività. Un’indagine polifonica Francesco Paparella, Imago e verbum. Filosofia dellʼimmagine nellʼalto Medioevo Gaspare Polizzi, Giacomo Leopardi: la concezione dell’umano tra utopia e disincanto F. Mazzocchio, Le vie del logos argomentativo. Intersoggettività e fondazione in K.-O. Apel Soardo Andrea, Accade l’accadere Antonio Martone, Le radici della disuguaglianza. La potenza dei moderni Pierre Macherey, Jules Verne o il racconto in difetto Elena Irrera, Il bello come causalità in Aristotele Alessandro Amato, L’etica oltre lo Stato. Filosofia e politica in Giovanni Gentile Carlo Chiurco, Etica e sacro. Il Bene e l’Autentico oltre l’Occidente Auguro Ponzio, In altre parole Grigenti Fabio, Giacomini Bruna, Sanò Laura (a cura di), La passione del pensare. In dialogo con Umberto Curi Scoto Eriugena Giovanni, Il cammino di ritorno a Dio. Il Periphyseon, a cura di Vittorio Chietti

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131. Di Bernardo Mirko, I sentieri evolutivi della complessità biologica nell’opera di S. A. Kauffman 132. Marrone Pierpaolo, Etica, utilità, contratto 133. Marsili Marco, Libertà di pensiero. Genesi ed evoluzione della libertà di manifestazione del pensiero negli ordinamenti politici dal V sec. A.C. 134. Cortella Lucio, Mora Francesco, Testa Italo (a cura di), La socialità della ragione. Scritti in onore di Luigi Ruggiu 135. Cavarra Berenice e Rasini Vallori (a cura di), Passaggi. Pianta, animale, uomo, in preparazione 136. Elio Matassi, Il giovane Lukács. Saggio e sistema 137. Giacomo Fronzi, Theodor W. Adorno, Pensiero critico e musica 138. Emma Palese, Ex Corpore. Antologia Filosofica sul Corpo 139. Andrea Campucci, Nietzsche: la fine della ragion pura 140. Umberto Lodovici, Religione e politica. Il contributo di Jacques Maritain 141. Tonino Infranca, Lavoro, Individuo, Storia 142 Matteo G. Brega, L’estetizzazione del quotidiano. Dall’Arts and Crafts all’Art Design 143. Romolo Capuano (a cura di), Bizzarre illusioni. Lo strano mondo della Pereidolia e dei suoi segreti 144. Bruno Accarino, Ostilità. Il mosaico del conflitto 145. Nicoletta Cusano, Capire Severino. La risoluzione dell’aporetica del nulla 146. Marianna Esposito, Oikonomia. Una genealogia della comunità. Tönnies, Durkheim, Mauss 147. Georgia Zeami Francesca Presti, Daimonicità del lógos. Socrate nel Protagora e nel Gorgia 148 Marcello Barison, Sulla soglia del nulla. Mark Rothko: l’immagine oltre lo spazio, 2011 149. Fabio Vander, Relatività e Fondamento. Filosofia di Aristotele 150. Giorgio Cesarale, Hegel nella filosofia pratico-politica anglosassone dal secondo dopoguerra ai giorni nostri 151. Francesco Valagussa (a cura di), Immanuel Kant. Prima introduzione alla Critica della capacità di giudizio 152. Marcello Ghilardi, Arte e pensiero in Giappone. Corpo, immagine, gesto 153. Pietro Piro, La peste emozionale, l’uomo-massa e l’orizzonte totalitario della tecnica. Un Seminario, alcuni saggi e materiali per uno schizo-umanesimo 154. Rosa Marafioti, Il ritorno a Kant di Heidegger. La questione dell’essere e dell’uomo 155. Giancarlo Lacchi, Ludwin Klages Coscienza e immagine. Studio di storia dell’estetica 156. Maurizio Guerri, Necessità dell’estetica e potenza dell’arte 157. Susan Petrillo, Augusto Ponzio, Luciano Ponzio, Interferenze 158. Anna Castelli, Lo sguardo di Kafka. Dispositivi di visione e immagine nello spazio della letteratura 159. Silvia Capodivacca, Sul tragico. Tra Nietzsche e Freud 160. Maurizio Guerri, La mobilitazione globale. Tecnica, violenza, libertà in Ernst Jünger 161. Natascia Mattucci e Gianluca Vagnarelli (a cura di), Medicalizzazione, sorveglianza e biopolitica. A partire da Michel Foucault 162. Alfio Fantinel, Tracce di assoluto. Agonia dell’infinito in Giordano Bruno 163. Lisa De Luigi, Animalia. Teoria e fatti della macchina antropogenica

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164. 165. 166. 167. 168. 169. 170. 171. 172. 173. 174. 175. 176. 177. 178. 179. 180. 181. 182. 183. 184. 185. 186. 187. 188. 189. 190. 191. 192. 193. 194. 195. 196. 197. 198.

Massimo Canepa, Friedrich Nietzsche. L’arte della trasfigurazione Ginette Michaud, Veglianti. Verso tre immagini di Jacques Derrida Paulo Barone, Utopia del presente Giuseppe Bonvegna, Politica, religione, Risorgimento. L’eredità di Antonio Rosmini in Svizzera Luca Caddeo, L’Operaio di Ernst Jünger. Una visione metafisica della tecnica, 2012 Simona Bertolini, Eugen Fink e il problema del mondo: tra ontologia, idealismo e fenomenologia Enrico Mastropierro, Il corpo e l’evento. Sullo Spinoza di Deleuze Giuseppe Di Giacomo (a cura di), Volti della memoria Domenica Bruni, Politici sfigurati. La comunicazione politica e la scienza cognitiva Emanuele Mariani, Risonanze impolitiche. Riflessioni filosofiche tra ragioni e fedi Giovanni Chimirri, Teologia del nichilismo. I vuoti dell’uomo e la fondazione metafisica dei valori Angelo Bruno, L’ermeneutica della testimonianza in Paul Ricoeur Maria Grazia Turri, Biologicamente sociali, culturalmente individualisti Leonardo Caffo, La possibilità di cambiare. Azioni umane e libertà mora Francesco Vitale, Mitografie. Jacques Derrida e la scrittura dello spazio Andrea Velardi, La barba di Platone. Quale ontologia per gli oggetti materiali? Davide Gianluca Bianchi, Dare un volto al potere. Gianfranco Miglio fra scienza e politica. In Appendice il carteggio Schmitt-Miglio Riccardo Corsi, Incroci simbolici Francesco Valagussa, L’arte del genio. Note sulla terza critica Vinicio Busacchi, Tra ragione e fede. Interventi buddisti Giuseppe Di Giacomo, Narrazione e testimonianza. Quattro scrittori italiani del Novecento Daniela De Leo, Una convergenza armonica. Beethoven nei manoscritti di Michelstaedter e Merleau-Ponty Stefano Bracaletti, Microfondazione. Problematiche della spiegazione individualista nelle scienze sociali Giorgio Palumbo, Finitezza e crisi del senso. La nostra insecuritas e il richiamo dell’assenza Mario Augusto Maieron, C’era una volta un re...! Intorno alla mente (Περί ψυχῆς) tra neuroscienze, filosofia, arte e letteratura Tiziano Boaretti, La via mistica. Itinerario filosofico in quindici stazioni. Massimo Frana, Il segreto dei fratelli del libero spirito Enzo Cocco, La melanconia nell’età dei lumi José Ortega y Gasset, Appunti per un commento al Convivio di Platone, a cura di Pietro Piro Antonio Coratti, Karl Löwith e il discorso del cristianesimo Sarah F. Maclaren, Magnificenza e mondo classico Jean Soldini, A testa in giù. Per un’ontologia della vita in comune Matteo G. Brega, Multimedialità digitale e fruizione parcellizzata. Estetica e forme d’arte del Novecento Francesca Marelli, Fisica dell’anima. Estetica e antropologia in J.G. Herder Mario Cingoli, Hegel. Lezioni preliminari

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199. 200. 201. 202. 203. 204. 205. 206. 207. 208. 209. 210. 211. 212. 213. 214. 215. 216. 217. 218. 219. 220. 221. 222. 223. 224. 225. 226. 227. 228. 229. 230. 231. 232. 233. 234. 235. 236.

Tommaso Ariemma, Estetica dell’evento. Saggio su Alain Badiou Gianfranco Mormino, Spazio, Corpo e moto nella Filosofia naturale del Seicento Maria Teresa Costa, Filosofie della traduzione Giuseppe Zuccarino, Il farsi della scrittura S. Fontana, E. Mignosi (a cura di), Segnare, parlare, intendersi: modalità e forme Giovanni Invitto, La misura di sé, tra virtù e malafede. Lessici e materiali per un discorso in frammenti Enrica Lisciani Petrini, Charis. Saggio su Jankélévitch Anthony Molino, Soggetti al bivio. Incroci tra psicoanalisi e antropologia Franco Rella, Susan Mati, Thomas Mann, mito e pensiero J. D. Caputo e M. J. Scanlon, Dio, il dono e il postmoderno. Fenomenologia e religione Friedrich W.J. Schelling, Esposizione del Processo della Natura Stefano Poggi (a cura di), Il realismo della ragione. Kant dai Lumi alla filosofia contemporanea Ruggero D’Alessandro, Le messaggere epistolari femminili attraverso il ‘900. Virginia Woolf, Hannah Arendt, Sylvia Plath Giovanni Invitto, Il diario e l’amica. L’esistenza come autonarrazione Luca Mori, Tra la materia e la mente Alberto Giacomelli, Simbolica per tutti e per nessuno Paulo Butti, Un’archeologia della politica. Letture della Repubblica platonica Erasmo Storace, Ergografie. Studi sulla struttura dell’essere Francesco Maria Tedesco, Eccedenza sovrana Marco Vanzulli (a cura di), Razionalità e modernità in Vico Marcello Barison, Estetica della produzione. Saggi da Heidegger Elio Matassi (a cura di), Percorsi della conoscenza Mirko di Bernardo, Danilo Saccoccioni, Caos, ordine e incertezza in epistemologia e nelle scienze naturali Liliana Nobile, Democrazie senza futuro Giacomo Fronzi (a cura di), John Cage. Una rivoluzione lunga cent’anni, con unʼintervista inedita Paolo Taroni, Filosofie del tempo. Il concetto di tempo nella storia del pensiero occidentale Roberto Diodato, L’invisibile sensibile. Itinerari di ontologia estetica Bruno Moroncini, Il lavoro del lutto, Materialismo, politica e rivoluzione in Walter Benjamin Antonio Valentini, Il silenzio delle sirene: mito e letteratura in Franz Kafka Giuseppe Maccaroni, Sociologia Stato Democrazia Damiano Cantone (a cura di), Estetica e realtà, Arte Segno e Immagine Marino Centrone, Rocco Corriero, Stefano Daprile, Antonio Florio, Marco Sergio (a cura di), Percorsi nellʼepistemologia e nella logica del Novecento Pierdaniele Giaretta (a cura di), Le classificazioni nelle scienze Luca Grion, Persi nel labirinto. Etica e antropologia alla prova del naturalismo Marco Piazza, Il fantasma dell’interiorità. Breve storia di un concetto controverso Emilio Mazza, La peste in fondo al pozzo. L’anatomia astrusa di David Hume Luca Marchetti, Il corpo dell’immagine. Percezione e rappresentazione in Wittgenstein e Wollheim Monica Musolino, New Towns post catastrofe. Dalle utopie urbane alla crisi delle identità

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237. Barbara Troncarelli, Complessità dilemmatica, Logica, scienza e società in Giovanni Gentile 238. Emanuele Arielli, La mente estetica. Introduzione alla psicologia dell’arte 239. Emanuele Arielli, Wittgenstein e l’arte. L’estetica come problema linguistico ed epistemologico 240. Giuseppe Fornari, Gianfranco Mormino (a cura di), René Girard e la filosofia 241. Erasmo Storace, Genografie 242. Erasmo Storace, Tanotagrafie 243. Erasmo Storace, Poietografie 244. Erasmo Storace, Il poeta e la morte 245. Lucia Maria Grazia Parente, Segreti mutamenti 246. María Lida Mollo, Xavier Zubiri: il reale e l’irreale 247. Susan Petrilli, Altrove e altrimenti. Filosofia del linguaggio, critica letteraria e teoria della traduzione in, intorno e a partire da Bachtin 248. Pietro Piro, Le occasioni dell’uomo ladro. Saggi, polemiche e interventi tra Oriente e Occidente 249. Giorgio Cesarale, Marcello Mustè e Stefano Petrucciani (a cura di), Filosofia e politica. Saggi in onore di Mario Reale 250. Silvia Bevilacqua e Pierpaolo Casarin (a cura di), Disattendere i poteri. Pratiche filosofiche in movimento 251. Franco Maria Fontana, Immagini del disastro prima e dopo Auschwitz. Il “verdetto” di Adorno e la risposta di Celan 252. Antonello Sciacchitano, Il tempo di sapere 253. Gabriele Scardovi, L’intuizionismo morale di George Edward Moore 254. Fabio Vander, Il sistema Leopardi. Teoria e critica della modernità 255. Riccardo Motti, La mistificazione di massa. Estetica dell’industria cultura 256. Francesco Gusmano, Naturalismo e filosofia 257. Gemmo Iocco, Profili e densità temporali 258. Marco Sgarbi, Kant e l’irrazionale 259. Amato, Fulco, Geraci, Gorgone, Saffioti, Surace, Terranova, L’evento dell’ospitalità tra etica, politica e geofilosofia. Per Caterina Resta 260. Luca Serafini, Inoperosità. Heidegger nel dibattito francese contemporaneo 261. Renato Calligaro, Le pagine del tempo. Scritti sull’Arte 262. Paolo Scolari, Nietzsche fenomenologo del quotidiano 263. Fabio Ciaramelli, Ugo Maria Olivieri, Il fascino dell’obbedienza. Servitù volontaria e società depressa 264. Giovanni Invitto, Lanx satura. Asterischi filosofici su soggetti, temi ed eventi dell’esistenza 265. Vinicio Busacchi, Itinerari buddisti. La sfida del male 266. Plotino, Enneadi. I-II e vita di Plotino di Porfirio 267. Luca M. Possati, La ripetizione creatrice. Melandri, Derrida e lo spazio dell’analogia 268. A. Lavazza, V. Possenti (a cura di), Perché essere realisti. Una sfida filosofica 269. Mattia Geretto e Antonio Martin (a cura di), Teologia della follia 270. Vittorio Pavoncello, Il serpente nel Big Bang 271. Afonso Mário Ucuassapi, Dalle indipendenze alle libertà. Futurismo e utopia nella filosofia di Severino Elias Ngoenha 272. Roberto Fai, Frammento e sistema. Nove istantanee sulla contemporaneità

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273. Francesco Giacomantonio (a cura di), La filosofia politica nell’età globale (1970-2010) 274. Alberto Romele, L’esperienza del verbum in corde. Ovvero l’ineffettività dell’ermeneutica 275. John Burnet, I primi filosofi greci, a cura di Alessandro Medri 276. Giovanni Basile, Il mito. Uno strumento per la conoscenza del mondo. Saggio introduttivo attorno all’ermeneutica mitica 277. Andrea Dezi, Potenza e realtà. Il sovrarrealismo ontologico nel pensiero di F.W.J. Schelling 278. Vincenzo Cuomo, Leonardo V. Distaso (a cura di ), La ricerca di John Cage. Il caso, il silenzio, la natura 279. Augusto Ponzio, Fuori luogo. L’esorbitante nella riproduzione dell’identico 280. Alessandra Luciano, L’estasi della scrittura Emily L. di Marguerite Duras 281. Enrico Giorgio, Esercizi fenomenologici. Edmund Husserl 282. Sara Matetich, In no time. Forme di vita, tempo e verità in Virginia Woolf 283. Marco Fortunato, La protesta e l’impossibile. Cinque saggi su Michelstaedter 284. Antonio De Simone, Alchimia del segno. Rousseau e le metamorfosi del soggetto moderno 285. Francesco Giacomantonio, Ruggero D’Alessandro, Nostalgie francofortesi. Ripensando Horkheimer, Adorno, Marcuse e Habermas 286. Fortunato Cacciatore, Isonomia/Isogonia. Percorsi storico-filosofici 287. Vallori Rasini, L’eccentrico. Filosofia della natura e antropologia in Helmuth Plessner 288. Enzo Cocco, Le vie della felicità in Voltaire 289. Rodolphe Gasché, Dietro lo specchio. Derrida e la filosofia della riflessione, traduzione e cura di Francesco Vitale e Mauro Senatore 290. Andrea C. Bertino, “Noi buoni Europei”. Herder, Nietzsche e le risorse del senso storico 291. Franco Ricordi, Pasolini filosofo della libertà. Il cedimento dell’essere e l’apologia dell’apparire 292. Viviana Meschesi, Passaggi al limite. Linguaggio ed etica nei periodi di crisi 293. Franco Sarcinelli, Paul Ricœur filosofo del ’900. Una lettura critica delle opere 294. Federica Ceranovi, Dal giogo dell’idea alla festa del pensiero. I sentieri della ἀλήθεια nel saggio L’origine dell’opera d’arte di Martin Heidegger 295. Augusto Ponzio, Il linguaggio e le lingue. Introduzione alla linguistica generale 296. Augustin Cochin, Astrazione rivoluzionaria e altri scritti 297. Pierfrancesco Stagi, Di Dio e dell’essere. Un secolo di Heidegger 298. L.E.J. Brouwer, Lettere scelte, a cura di Miriam Franchella 299. Franco Aurelio Meschini, Materiali per una storia della medicina cartesiana. Dottrine, testi, contesti e lessico 300. Roberto Gilodi, Origini della critica letteraria. Herder, Moritz, Fr. Schlegel e Schleiermacher 301. Fiorella Bassan, Antonin Artaud. Scritti sull’arte 302. Rossella Spinaci, Razionalità discorsiva e verità 303. Marcella d’Abbiero (a cura di), Passioni nere 304. Umberto Curi e Luca Taddio (a cura di), Pensare il tempo. Tra scienza e filosofia 305. Lucia Parente, Ortega y Gasset e la “vital curiosidad” filosofica 306. Gabriella Pelloni, Genealogia della cultura. La costruzione poetica del sè nello Zarathustra di Nietzsche

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Cosimo Quarta (a cura di), Per un manifesto della «Nuova Utopia» Mario Augusto Maieron, Il matto dei tarocchi, Alice e il Piccolo Principe Antonio De Luca, Annamaria Pezzella (a cura di), Con i tuoi occhi Francesca Michelini, Jonathan Davies, Frontiere della biologia. prospettive filosofiche sulle scienze della vita Andrea Velardi, La vita delle idee. Il problema dell’astrazione nella teoria della conoscenza Annamaria Lossi, L’io postumo. Autobiografia e narrazione filosofica del sé in Friedrich Nietzsche Didier Contadini (a cura di), Menzogna e politica Antonio De Simone, Machiavelli. Il conflitto e il potere. La persistenza del classico Andrea Amato, Il bambino che sono, l’uomo che divento. Genealogia dell’io e narrazione della sua trasmutazione Alessandra Violi, Il corpo nell’immaginario letterario Pietro Greco (a cura di), ArmonicaMente. Arte e scienza a confronto Robert L. Trivers, L’evoluzione dell’altruismo reciproco Matteo Pietropaoli, Ontologia fondamentale e metaontologia. Una interpretazione di Heidegger a partire dal Kantbuch Damiano Bondi, La persona e l’Occidente. Filosofia, religione e politica in Denis de Rougemont G.W.F. Hegel, Il bisogno di filosofia (1801-1804) Leonardo V. Distaso - Ruggero Taradel, Musica per l’abisso. La via di Terezín: un’indagine storica ed estetica 1933-1945 Raniero Fontana, Sulle labbra e nel cuore. Il buon uso delle parole nel Talmud e nellʼebraismo Pilo Albertelli, Il problema morale nella filosofia di Platone Gli Eleati, a cura di Pilo Albertelli, 2014, Daniela De Leo (a cura di), Pensare il senso. Perchè la filosofia. Scritti in onore di Giovanni Invitto Susan Petrilli, Riflessioni sulla teoria del linguaggio e dei segni Antonio Romano, Seduzione dell’opera aperta. Una introduzione Gian Andrea Franchi, Una disperata speranza. Un profilo biografico di Carlo Michelstaedter

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Finito di stampare aprile 2014 da Digital Team - Fano (Pu)

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