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Italian Pages 338 Year 2013
ESTETICA/MENTE/LINGUAGGI n. 1
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Collana diretta da Fabrizio Desideri COMITATO SCIENTIFICO Roberto Diodato (Università Cattolica del Sacro Cuore, Milano) Filippo Fimiani (Università di Salerno) José Jiménez (Universidad Autónoma de Madrid) Jerrold Levinson (University of Maryland) Giovanni Matteucci (Università di Bologna) Jean-Marie Schaeffer (CRAL-EHESS, Paris) Kathleen Stock (University of Sussex) Alberto Voltolini (Università di Torino)
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FABRIZIO DESIDERI
LA MISURA DEL SENTIRE
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Per una riconfigurazione dell’estetica
MIMESIS Estetica / Mente / Linguaggi
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© 2013 – Mimesis Edizioni (Milano – Udine) Collana Estetica / Mente / Linguaggi n. 1 Isbn: 9788857517834 www.mimesisedizioni.it Via Risorgimento, 33 – 20099 Sesto San Giovanni (MI) Telefono +39 02 24861657 / 02 24416383 Fax: +39 02 89403935 E-mail: [email protected]
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INDICE
PREMESSA
7 PARTE PRIMA
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LA MISURA DELLA MENTE I. METAFILOSOFIA E ONTOLOGIA DELL’ATTUALITÀ I. Quattro tentativi di dire la verità II. La misura della mente. Discorso sulla fine della koiné ermeneutica dal punto di vista dell’Idiota III. Thinking for nothing. Il nichilismo come ontologia non competitiva IV. Uno sguardo sul presente: relativismo, pluralismo e identità umana
15 25 31 41
II. MENTE E COSCIENZA I. II. III. IV.
Il “flusso” come rappresentazione della coscienza Empatia e distanza. Un frammento L’occhio dell’anima. Mistica e coscienza di sé Algos. Il dolore del senso e la radice del bene
69 85 97 109
III. ESTETICA E META–ESTETICA I.
Del senso dell’estetica (e della sua non identità con la filosofia dell’arte) II. No aesthetics without meta-aesthetics III. Hotspot. Estetica e biodiversità IV. L’opera d’arte tra vincoli percettivi e unità di senso
121 129 143 155
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PARTE SECONDA
LO SPAZIO DEL SENTIRE (SCORCI E SCHIZZI) IV. DALLA CONFUTAZIONE DELL’IDEALISMO ALLA SINTESI ROMANTICA: KANT, SCHILLER, GOETHE, NOVALIS
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I.
Spazialità. Senso interno e senso esterno nella critica kantiana dell’idealismo cartesiano II. “Freiheit in der Erscheinung”: spazio estetico e genesi della coscienza in Schiller III. Laocoonte classico e romantico: Goethe e Novalis IV. Guerra e pace: “voluttà della sintesi” e “malinconia bacchica” in Novalis
169 185 197 207
V. VITA DELLE FORME E DIALETTICA DELL’IMMAGINE: SIMMEL, BENJAMIN, ADORNO, THOMAS MANN I.
Il confine delle forme. Georg Simmel: dalla Filosofia del denaro all’Intuizione della vita II. Tendere l’arco dell’immagine. Sull’ultimo Benjamin: immagine dialettica e Fiat Iustitia III. Bioscopia: un capitolo trascurato dell’estetizzazione della politica (Cinema, arte e temporalità nella Montagna incantata di Thomas Mann) IV. Filosofia atematica e nominalismo estetico: Adorno e Benjamin
221 237
249 263
VI. “ESTESICA” E LINGUAGGI DELL’ARTE: VALÉRY, WITTGENSTEIN, BLUMENBERG, CELAN I.
Sulla polarità tra “estesica” e “poietica”: intorno al Discorso sull’estetica di Paul Valéry II. Affinità del comprendere: Wittgenstein su musica e linguaggio III. Una filosofia in contro-luce. Glosse su teoria e metafora in Hans Blumenberg IV. Il Meridiano di Paul Celan e la croce della poesia
279 301 315 331
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PREMESSA
Raccolgo qui, nella forma di sei quartetti distribuiti in due parti, alcuni dei lavori pubblicati nel corso degli ultimi anni. Tutti i saggi sono stati rivisti, corretti e talvolta ampiamente riscritti. Tranne quello su Simmel nel Capitolo V, quello su Blumenberg nel Capitolo VI e quello sulla verità che apre il volume (usciti rispettivamente nel 1993, nel 1999 e nel 1997), sono tutti lavori apparsi in questo primo scorcio di secolo. Molti di questi saggi hanno preparato, favorito, ritardato o seguito alcuni miei libri. Per quanto riguarda i testi che compongono la prima parte del volume (“La misura della mente”), i libri di riferimento sono: L’ascolto della coscienza. Una ricerca filosofica (Milano 1998), Forme dell’estetica (Roma-Bari 2004 e ss.), La percezione riflessa. Estetica e filosofia della mente (Milano 2011); per quanto riguarda la seconda parte (“Lo spazio del sentire.”), i libri di riferimento sono: Il fantasma dell’opera. Benjamin, Adorno e le aporie dell’arte contemporanea (Genova 2002 e s), Il passaggio estetico. Saggi kantiani (Genova 2003), Storia dell’estetica occidentale. Da Omero alle neuroscienze (scritto con Chiara Cantelli, Roma 2008 e s.), Benjamin (scritto insieme a Massimo Baldi, Roma 2010). A differenza di diversi altri lavori pubblicati nello stesso periodo e in qualche modo ricompresi nei libri ora citati quanto alle prospettive che suggeriscono e alle tesi che sviluppano, i saggi di questo volume mantegono una loro autonomia di sguardo. Pur in dialogico e tematico intreccio con i testi prima citati, i saggi qui raccoti prospettano (talvolta isolatamente talaltra in connessione con altri) sentieri di ricerca ancora da esplorare, motivi degni di essere ripresi, idee da saggiare ulteriormente, confronti e suggestioni da approfondire. Mentre nella prima parte il tenore degli scritti è prevalentemente teorico, seguendo una scansione logico-tematica che dalla metafilosofia giunge all’estetica passando per la teoria della mente e della coscienza, nella seconda il tenore è quello del dialogo con i classici (da Kant a Wittgenstein, da Novalis a Benjamin, da Adorno a Valéry), cercando di contemperare, in una rispettosa sintesi, urgenza teoretica e ricognizione analitico-testuale. Più che in una chiave tematica l’unità del libro,
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La misura del sentire
nelle due parti o tempi di cui si compone, è da intendersi in una chiave musicale: nel ritmo inconcluso del ricercare un modus del pensiero e della sua espressione. Il titolo a questo allude. Al fatto, cioè, che la misura della mente (il modus di cui la mente è filosoficamente in cerca) non è né può essere un criterio puramente interno. Lo spazio del sentire, che la mente deve misurare in quanto è in esso e attraverso di esso che si forma e si dispiega in forme plurime la compagine del senso, implica di per sé la dimensione dell’esteriorità e con essa quella della societas e della communitas. A partire dall’estetico, sul cui terreno sorge, il sensus – inteso sia dal punto di vista della sua validità sia da quello della sua genesi – deve, perciò, ancora essere pensato come communis: un compito e un problema nel medesimo tempo. A far chiarezza su entrambi questo libro vuole in tutta modestia contribuire. All’incertezza circa il risultato fa da argine, in ogni caso, la convinzione che tanto meno il contributo risulterà vano, quanto più esso concorrerà ad una radicale riconfigurazione del terreno concettuale dell’estetica e della sua interna relazione con la ricerca filosofica in genere. Chi volesse individuare la radice o, meglio, la condizione di possibilità di questo discorso e della stessa prospettiva filosofica cui ho cercato di dar analiticamente corpo con La percezione riflessa, la troverebbe, nel Capitolo IV, nel saggio qui intitolato Spazialità e dedicato alla kantiana Confutazione dell’idealismo. Nell’idea di una misura del sentire si affaccia anche la questione dell’espressivismo e del suo tenore necessariamente ontologico. Come ho cercato di sostenere nelle recenti Otto tesi per una riconcezione dell’estetica (e due conclusioni meta-estetiche), apparse in «Aisthesis», vol. 5 (2012), Special issue – Riconcepire l’estetica, pp. 5-7, la questione dell’espressivismo, e del consguente intreccio tra uno spazio estetico delle espressioni e uno spazio logico delle ragioni, non esige solo che venga oltrepassata l’astratta scissione tra interiorità ed esteriorità (insieme alle loro pur diverse mitologie), ma che venga abbandonata anche la retorica del “without ontology”. Seppur potesse implausibilmente valere per un discorso relativo all’etica, il “senza ontologia” non potrebbe valere per un discorso sull’estetica che non volesse ricadere in ermeneutiche dissoluzioni o in improbabili trionfi del prospettivismo. Si tratta, naturalmente, di estendere il senso stesso di un’ontologia, anche alla luce del suo necessario intreccio con la grammatica. Un intreccio pensabile sia sullo sfondo del pensiero di Wittgenstein (in particolare relativamente all’immagine del “meccanismo” grammaticale e dei gradi di libertà ad esso immanenti) sia, arretrando (e in qualche modo insistendo sullo stesso luogo), sullo sfondo del Sofista di Platone.
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Premessa
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In diversa misura hanno concorso alla buona riuscita di questo libro Massimo Baldi e Lorenzo Bartalesi (al quale va il merito di una prima cura redazionale del testo). A loro e a tutti gli amici della Direzione e della Redazione di «Aisthesis» va tutta la mia gratitudine. Con questo libro s’inaugura una Collana legata a questa esperienza.
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Firenze, 3 febbraio 2013
Fonti Indico qui, seguendo l’ordine cronologico della prima pubblicazione, i libri collettanei e le riviste in cui sono originariamente apparsi i ventiquattro saggi che compongono il libro; alla fine di ogni voce viene segnalato il capitolo del presente libro in cui il saggio compare. 1) Il confine delle forme. Dalla Philosophie des Geldes alla Lebensanschauung. «Aut Aut», vol. 257 (1993), pp. 105-119: Capitolo V, 1, (con titolo lievemente diverso); 2) Quattro tentativi di dire la verità, «Paradosso», vol. 2-3 (1997), pp. 3948: Capitolo I, 1; 3) Una filosofia in controluce. Glosse su teoria e metafora in Hans Blumenberg, in A. Borsari (a cura di), Hans Blumenberg. Mito, metafora, modernità, il Mulino, Bologna 1999, pp. 47-63; Capitolo VI, 3; 4) La misura della mente. Discorso sulla fine della koiné ermeneutica dal punto di vista dell’Idiota, «Fenomenologia e società», vol. 1 (2000), a. XXIII, pp. 100-107: Capitolo I, 2; 5) Il “flusso” come rappresentazione della coscienza, «Intersezioni», vol. 3 (2001), a. XXI, pp. 427-440: Capitolo II, 1; 6) L’occhio dell’anima. Mistica e coscienza di sé, in M. Vannini (a cura di), Mistica d’Oriente e Occidente oggi, Edizioni Paoline, Milano 2001, pp. 126-139: Capitolo II, 3; 7) Laocoonte classico e romantico: Goethe e Novalis, «Cultura Tedesca», vol. 21 (2002), pp. 171-180: Capitolo IV, 3; 8) Empatia e distanza. Un frammento, «Atque», vol. 25/26 (2002), pp. 7-23: Capitolo II, 2; 9) Algos. Il dolore del senso e la radice del bene, «Itinerari», vol.1/2 (2003), pp. 167-176: Capitolo II, 4; 10) Guerra e pace: «voluttà della sintesi» e «maliconia bacchica» in Novalis, in G. Rametta (a cura di), Filosofia e guerra nell’età dell’idealismo tedesco, Franco Angeli, Milano 2003, pp. 151-162: Capitolo IV, 4; 11) Del senso dell’estetica (e della sua non identità con la filosofia dell’arte, in A. Di Bartolo, F. Forcignanò (a cura di), Estetica e filosofia dell’arte. Un’identità difficile, Albo Versorio, Milano 2005, pp. 13-19: Capitolo III, 1; 12) Filosofia atematica e nominalismo estetico. Adorno e Benjamin, in M. Ferrari, A. Venturelli (a cura di), Theodor Wiesengrund Adorno. La ricezione di un maestro conteso, Leo S. Olschki Editore, Firenze 2005, pp. 119-134: Capitolo V, 4; 13) Senso interno e senso esterno nella critica kantiana all’idealismo cartesiano, in G. Vescovini Federici, V. Sorge, C. Vinti (a cura di), Corpo e anima, sensi interni e intelletto dai secoli XIII-XIV ai post-cartesiani e spinoziani, Brepols, Turnhout 2005, pp. 521-538: Capitolo IV, 1 (con titolo diverso); 14) L’unità di senso dell’opera
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La misura del sentire
d’arte: tra funzione simbolica e vincoli percettivi, in F. Desideri, G. Matteucci (a cura di), Dall’oggetto estetico all’oggetto artistico, Firenze University Press, Firenze pp. 87-96: Capitolo III, 4 (con titolo diverso); 15) “Thinking for nothing”. Il nichilismo come ontologia non competitiva, «Iride», vol. 47 (2006), pp. 59-68: Capitolo I, 3; 16) 2006). «Freiheit in der Erscheinung»: spazio estetico e genesi della coscienza in Schiller, in G. Pinna, P. Montani, A. Ardovino (a cura di), Schiller e il progetto della modernità, Carocci, Roma 2006, pp. 43-55: Capitolo IV, 2 (con titolo lievemente diverso); 17) Uno sguardo sul presente: relativismo, pluralismo e identità umana, «Atque», vol. 3/4 (2008), n.s., pp. 69-98: Capitolo I, 4; 18) Il Meridiano e la croce della poesia, in F. Desideri, M. Baldi (a cura di), Paul Celan. La poesia come frontiera filosofica, Firenze University Press, Firenze 2008, pp. 6976: Capitolo VI, 4; 19) Affinità del comprendere: Wittgenstein su musica e linguaggio, in C. Tatasciore (a cura di), Filosofia e musica, Bruno Mondadori, Milano 2008, pp. 133-147: Capitolo VI, 2; 20) No aesthetics without meta-aesthetics, «Aesthetica Pre-Print», vol. 25 (2010), pp. 63-74: Capitolo III, 2; 21) Hotspot. Estetica e biodiversità, «RI-VISTA. Ricerche per la progettazione del paesaggio», vol. 15/16 (2011), pp. 57-63: Capitolo III, 3; 22) Tendere l’arco dell’immagine. Sull’ultimo Benjamin: immagine dialettica e Fiat iustitia, in D. Guastini, D. Cecchi, A. Campo (a cura di), Alla fine delle cose. Contributi a una storia critica delle immagini, VoLo publisher, Firenze 2011, pp. 101-108: Capitolo V, 2 (con titolo diverso); 23) Bioscopia: un capitolo trascurato dell’estetizzazione della politica (Cinema, arte e temporalità nella Montagna incantata di Th. Mann), in G. Cantillo, D. Conte, A. Donise (a cura di), Thomas Mann tra etica e politica, il Mulino, Bologna 2011, pp. 263-278: Capitolo V, 3 (con titolo lievemente diverso); 24) Sulla polarità tra “estesica” e “poietica”: intorno al Discorso sull’estetica di Paul Valéry, «Atque», vol. 8/9, n. s., pp. 121-144: Capitolo VI, 1.
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LA MISURA DELLA MENTE
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I METAFILOSOFIA E ONTOLOGIA DELL’ATTUALITÀ
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I QUATTRO TENTATIVI DI DIRE LA VERITÀ
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Quaestio Nel titolo è già implicita se non una tesi, almeno un passo che determina il modo d’intendere la questione. Un passo verso di essa. E qui muovere un passo, incamminarsi verso... già dice molto circa il nostro rapporto con la verità. Dice che questo è un rapporto anzitutto tentativo: peirastico. Il punto di partenza, perciò, non è un inizio che ha i caratteri dell’assolutezza (un incominciare libero da presupposti), bensì un inizio nel suo senso più proprio: quell’atto dell’in-ire, del far ingresso che presuppone, appunto, l’essere già in cammino. Per dirla con una formula: presuppone l’esperienza, il suo carattere di medium intrascendibile come ambito stesso della tentatività: del non poter fare altro che provare, non aver altra risorsa che il cimento. Così l’esperienza può esser anche detta, preliminarmente, la prima risorsa antropologica nei confronti del problema della verità. Essa indica che nei suoi confronti siamo in cammino. Ma il passo che si muove, che si è mosso nel titolo, appare necessariamente determinato: mostra già un senso dell’andare. È un senso che già orienta la nostra sensibilità. Senza un pur minimo senso dell’orientamento (e appunto perché di un ‘senso’ si tratta, non c’è bisogno qui di sapere cos’è “Oriente” per orientarsi...), il nostro andare non sarebbe più un camminare verso..., ma un puro errare. Il senso che accompagna i nostri passi consiste nell’assunzione preliminare secondo la quale la questione del “che cos’è la verità?” e dunque “come posso pensarla?” appare indisgiungibile dal “come posso dirla?”. Provo a spiegarmi meglio: chiedersi cosa sia la verità significa, insieme, interrogarsi sulla possibilità di esprimerla, di attestarla. Verità e testimonianza vanno di pari passo. Quando contraddico qualcuno obiettando: “Ma questo non è vero!”, lo faccio perché intendo opporre una diversa versione del come stanno le cose. E questo vale in tutti casi. Non vale solo in quello apparentemente ovvio in cui si contraddica un’asserzione empirica del tipo “oggi piove!”, quando sappiamo che non è vero. Vale anche in quello, ap-
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La misura del sentire
parentemente più problematico, in cui si ritenga di poter contraddire (con tutte le cautele del caso) l’auto-attribuzione di un sentimento da parte di un amico (quello che si presenta come odio, pensiamo che in verità sia amore e cose del genere...). Pure a quest’ultimo proposito noi presupponiamo che la verità sia una diversa connessione tra un qualcosa, il pensiero di essa e la sua espressione. Diversa, non soltanto rispetto a quel che appare, ma pure rispetto a quel che viene ritenuto per vero che appaia. E di questa diversità – prendendo distanza da quanto appare o meglio da quanto viene preteso che appaia – intendiamo (o almeno ci ripromettiamo di...) offrire testimonianza (il che è un po’ di più e, insieme, un po’ di meno dell’esibire una prova). Il nostro attestare la verità – il nostro provare ad esserne testimoni – non è, così, in alcun modo qualcosa di estrinseco ad essa: qualcosa che vi si possa aggiungere. Si tratta, bensì, di una qualità intrinseca alla sua stessa pensabilità: un carattere che si deve necessariamente presupporre come interno alla sua definizione. È questo, se si vuole, il minimum etico richiesto da ogni possibile teoria della verità: l’intenzione di dirla ‘davvero’, la sincerità. Secondo questa presupposizione, al “che cosa” della verità sarebbe intrinseco il discorso ad essa relativo ossia: tanto il pensiero del “che cosa” quanto la sua espressione. Anticipando con qualche approssimazione la nostra tesi: verità è il nesso che si stabilisce tra questi tre livelli: la cosa, il pensiero che la pensa e il dire che la dice. Se la verità è dunque pensabile come un “qualcosa”, allora è pure esprimibile discorsivamente e cioè nell’unità che inter-corre (e dunque nell’unità dinamica) tra il pensare ed il dire. Anche qualora il discorso stesso – ogni discorso possibile – sia espressivamente negativo nei confronti della verità. Pur nell’ipotesi-limite, che potrebbe anche rivelarsi come quella giusta (ma non è qui il problema), di un accesso puramente intuitivo alla verità (non importa se intuitivo-sensibile oppure intuitivo-intellettuale: ne vedremo in seguito il motivo), tra il “che cosa” in essa implicata ed il discorso intorno (rivolto) ad essa deve pur esservi un nesso necessario. Capire in cosa consista questo nesso (di che tipo sia la sua necessità) – provare a dirlo (il che è quasi lo stesso): in ciò consiste la questione stessa della verità, quella questione che coincide con il suo “qualcosa”. Un “qualcosa” eminentemente critico, a quanto pare. Nel senso, appunto, che qui la “qualità” della relazione decide della cosa stessa. E dunque un “qualcosa” caratterizzato da una sottile ma decisiva distanza sia nella sua relazione verso l’esterno (verso l’errore o l’apparenza) sia nella sua relazione verso l’interno (verso e tra i tre livelli che solo nell’attualità della loro correlazione lo costituiscono come il “che” in cui consiste il “che cosa” stesso della verità). Questo “qual-cosa”, nell’unità
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Quattro tentativi di dire la verità
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della sua perfezione, è un quarto rispetto alla correlazione tra cosa, pensiero e dire. Il qualcosa della verità, in quanto unità attuale del “che” e del “che cosa”, può quindi esser anche definito come un quartetto mai composto innanzi: un quartetto che si può provare a comporre soltanto nel mentre che lo si esegue. In cammino.
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Cogitatio Anche la verità, come l’essere aristotelico, si dice in molti modi. Come si sa, il modo di sottrarre il molteplice significare dell’ “essere” alla pura equivocità, consisteva – oltre allo strutturare il molteplice semantico, tendenzialmente infinito, in un molteplice categoriale (metasemantico) finito – nell’individuare nel “questo qui” sostantivo un punto d’arresto ancor più decisivo al plurisignificare ontologico. Consisteva, detto altrimenti, nel trovare quel termine del termine stesso – l’ “essere” – che fosse capace di definirlo. Per cui l’essere stesso si può dire in molti modi (tanti possono essere i suoi usi categoriali), in quanto vi è un modello che soggiace ad ognuno di essi: un modello reale e dunque un modello intrinsecamente vero o meglio: un modello che sta in una relazione necessaria con quanto s’intende per vero. A questo punto, però, l’analogia tra essere e verità non può spingersi oltre. A meno di non supporre una naturale coappartenenza dei due piani: un naturalismo della verità che la identifichi con l’essere stesso. Tale identificazione oggi ci appare terribilmente ingenua in quanto (in virtù di un risolutivo appello alla realtà che potrebbe anche tradursi in un appello alla cosa stessa) parrebbe privilegiare la dimensione sostantiva della verità a scapito di quella procedurale ossia di un “discorso sul metodo” che si è chiarito sempre più nella forma di un ‘metodo del discorso’. Mentre il nostro problema, come si sarà capito, è proprio quello di provare a dire la verità nell’unità delle due dimensioni. Se non temessimo di ridestare echi che in questo brevissimo contesto avrebbero un effetto inevitabilmente indeterministico sulla nostra esposizione, potremmo anche dire: una buona teoria della verità sarebbe quella che armonizzasse la dimensione sostantiva e quella procedurale del suo carattere di relazione necessaria. Semplificare una tale armonia continuando ad identificare la verità con la sfera dell’essere e quindi come un “qualcosa” che si tratta soltanto di (ri) conoscere perché internamente sottratta (e dunque sempre in salvo in quanto, appunto, “è”) alla necessità discorsiva, significherebbe perdere di vista l’aspetto eminentemente critico-relazionale della verità. Quell’aspetto che consiste nell’attiva armonizzazione (nella connessione ‘liberamente’ ne-
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La misura del sentire
cessaria) tra dimensione sostantiva e dimensione procedurale. Un aspetto, la cui perdita implicherebbe l’impossibilità di una teoria dell’errore nel cuore stesso della verità (ossia nella funzione iperconnettiva della sua stessa teoria). Chiudere il discorso a questo punto e sotto questo riguardo (ossia dal punto di vista del metodo, senza togliere la possibilità di prolungare ed estenuare infinitamente questa chiusura metodica tanto in senso storico-ermeneutico come in senso poetico-esistenziale, tanto in senso decostruttivo come in senso logico-analitico), sarebbe un errore; se non altro perché cancellerebbe la possibilità di intendere il vero nella sua ‘crisi’ dal falso. Saremmo, insomma, ancora di fronte ad un naturalismo ontologico della verità (in cui la teoria di quest’ultima viene sempre tendenzialmente identificata con un’ontologia) che non avrebbe più nemmeno i pregi della positività descrittiva di quello classico. Un naturalismo ontologico seppur negativo è anche quello che sopravvive in tutti i modi per così dire ‘abissali’ di intendere la questione della verità. In questo caso la verità si sottrae all’evidenza discorsiva del suo carattere relazionale (si sottrae al giudizio) nella stessa misura in cui l’Essere si sottrae agli enti. Il modello che influenza questo modo di intendere la questione della verità è senza dubbio quello soggiacente a tutto il pensiero di Heidegger ed emergente in particolare sia nella sua Destruktion della storia della metafisica come oblio della differenza ontologica sia nel pensiero stesso dell’Ereignis e nell’interpretazione dell’aletheia greca. Eppure non c’è bisogno di scomodare Heidegger per vedere all’opera la “differenza ontologica” e vederla all’opera con esiti nient’affatto nichilistici. Basterebbe richiamare il De Veritate di Tommaso d’Aquino, dove la convenienza di essere e verità suppone la distinzione già di Boezio tra l’esse e il “quod est” della res. Tommaso, però, può sviluppare una teoria eminentemente relazionale (la convenientia di intellectus e res) della verità non solo grazie alla risorsa teologica di una concezione creaturale degli enti, quanto – e ancor più decisamente – grazie a quella strettamente logico-filosofica del principio dell’analogia entis (che prevede, certo, una rete di sicurezza ontoteologica: l’Ipsum esse subsistens proprio di Dio). Perché questo principio sussista è comunque necessario (ancor prima della distinzione tra essere in senso formale ed essere in sé sussistente) che la verità dell’essere non sia travolta in una dialettica originaria tra l’essere ed il nulla. Se la verità dell’essere stesso è il nulla (se il nulla non viene lasciato a se stesso), ogni logica analogica non potrà che essere radicalmente negativa proprio riguardo alla verità stessa degli enti.
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Quattro tentativi di dire la verità
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Il negativismo rispetto alla questione della verità, come si sa, corre in parallelo alla soluzione aristotelico-tomistica ed è almeno collocabile nella insidiosa omologia strutturale che vige in Plotino tra la negatività dell’Uno e quella della materia. Questa omologia ha come destino di sviluppo quello di rivelare la verità dell’Essere stesso (la sua origine) come un Nulla e, quindi, conduce ad un radicale apofatismo nei confronti della verità (conduce al suo carattere ineffabile: ‘sostanzialmente’ ineffabile). La conseguenza più macroscopica di un approccio apofatico alla verità consiste, però, nel riprodurre una frattura tra la verità ritiratasi in sé (nella propria cosa) e lo spirito che circola nel discorso: una frattura tra la verità e il molteplice possibile-reale delle sue espressioni. Una frattura che appare destinata sia a declinarsi in molti modi (come, per esempio, nella scissione tra trascendentale ed empirico, oppure tra intuitivo e discorsivo, tra parola poetica e parola normale, e così via) sia a prevedere un qualche ponte d’eccezione che la superi. Ora, una cosa – credo – non ci possiamo permettere riguardo alla questione della verità e cioè una risposta che valga solo in certe situazioni discorsive (ad esempio valga dal punto di vista trascendentale e non da quello empirico, valga per il pensare poetico e non per quello scientifico, valga in un contesto morale e non valga in un contesto giuridico). Per questo, stabilita l’insufficienza non solo metodologica di un qualsiasi naturalismo che identifichi essere e verità, bisogna individuare un punto d’arresto al suo dirsi in molti modi.
Meditatio Il punto di arresto che cerchiamo, per i motivi anzidetti, non può certo essere offerto da una qualche versione o traduzione dell’esteriorità sostantiva. In pari misura non si presenta come una buona strada nemmeno quella di praticare una via puramente interna. Al fondo di un percorso tutto interno all’interiorità soggettiva c’è ancora Nulla – “ho guardato dentro di me e non ho visto nulla”, diceva qualcuno... – oppure vi sono le aporie dell’autoriflessività soggettiva. Lo sviluppo nudamente logico-filosofico dell’intimior intimo meo agostiniano e, con esso, del carattere radicalmente ‘intimo’ della verità, forse, non è altro che lo spirito assoluto hegeliano. Lo spirito assoluto come un ritorno in sé del soggetto-sostanza del tutto paradossale (nell’estrema indifferenza ad ogni fuori di sé) che ha appunto come destino quello di dissolversi radicalmente: lo spirito, in altri termini, sarebbe veramente assoluto solo in quanto libero finalmente dalla sua stessa figura. Se il pensiero della verità qui rag-
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La misura del sentire
giunge veramente il suo interno: l’intimità del vero, allora ogni sub-stantia non può che dissolversi a favore della verità dello spirito e dunque, in ultima istanza, a favore della verità del discorso. In quanto totalmente in-spirata, la verità come spirito non può che ek-spirare. Solo se ogni substantia veritatis si dissolve (si fa letteralmente soggetto e dunque logica di un processo), si può anche dire che lo spirito della verità spira dove vuole (i.e. absoluta mente) Ma è poi così? Non resta ancora da pensare un modello di verità che oltrepassi la dicotomia tra esterno ed interno o almeno che riesca ad attestarsi sulla linea che li congiunge? Una domanda del genere, se non altro, fa da freno a qualsiasi deriva storicistica (non importa qui se debole o forte), ermeneutica o decostruzionista (con tutte le possibili ibridazioni e prevedibili sottovarianti del caso) della figura dello spirito assoluto come figura estrema della verità. Un post-nietzscheano potrebbe obiettare a questo proposito che una domanda del genere – ossia quella che continua a porsi il problema di un modello ‘reale’ di verità dopo quella “Morte di Dio” che si è presentata come liquidazione di tutti i modelli possibili – assomiglia tanto al dito del bambino nella crepa della diga. L’unica vera via d’uscita sarebbe quella fornita dal riconoscere che ogni modello di vero è niente più che una favola: la verità del vero starebbe nella contingenza dell’inventio. Il vero come un fictum: nietzscheani e costruttivisti, romantici e convenzionalisti qui vanno a scuola da Vico e vedono una chance per l’idea di verità solo nella libera invenzione: poiesis pura e semplice. Ma in Vico è ben presente la sottolineatura dell’esperienza mimetica nella quale ha la sua genesi antropologica la stessa fantasia poetica. Quello che vale per l’esperienza del bambino o per il fare tecnico-artistico (da quello del Demiurgo sommo a quello del demiurgo ordinario fino alla figura ibrida, atopica – quasi-demiurgica – dell’artista in senso moderno) ossia che non c’è poiesis che non implichi mimesis, vale però in misura maggiore per il ‘fare’ (il costruire o il libero generare) la verità. Soltanto serbando in sé l’istanza mimetica (verrebbe quasi da dire il desiderio della mimesis – desiderio di una natura che non è ancora essere? – nel fabbrile costruttivismo della poiesis), un modello di relazione tra il pensiero e la cosa può aspirare ad attestarsi come vero. Esso in fondo convince rimandando a ‘qualcosa’ che il suo discorso attesta e dunque nel presupposto di una qualche seppur ‘ideale’ autonomia ed esternità della res (si potrebbe, a questo proposito, fare un uso molto libero e spregiudicato della nozione di “realismo interno” coniata da Putnam). Convince, in quanto esprime una con-venientia: né assoluta produzione né mera registrazione (è ovvio che a questo proposito ritengo che il senso ultimo di tale con-vinzio-
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ne non possa consistere in puro convenzionalismo: nel mito della stipulazione...). A ben vedere la riflessione di Tommaso nel De Veritate si poteva già intendere oltre l’opposizione tra un modello sostanzialistico ed un modello proceduralistico di verità. Verum è il nome che esprime la convenientia dell’ente all’intelletto. In questo cum-venire l’intelletto misura la cosa (pone in luce la sua ratio: produce il suo concetto, direbbe Kant) nel mentre che ne è in qualche modo misurato. Difficile è intendere l’esser misurato – il ricevere da parte di una facoltà che può essere pensata soltanto come attiva. Qui si aprono due questioni. Da un lato, vi è la necessità di interrogare la natura stessa dell’intelletto e con essa lo stesso rapporto tra ipseità e alterità nella forma della coscienza. Una questione squisitamente trascendentale (che qui non possiamo nemmeno sfiorare) posta da Tommaso prima ancora che da Kant: l’intelletto che conosce la verità è appunto “quod supra seipsum reflectitur”. Dall’altro, bisogna pensare l’unità di intellectus practicus e di intellectus speculativus nella figura stessa della ratio come relazione di scambio tra res ed intellectus: loro adaequatio che suppone la distinzione tra i due termini (“aequalitas est diversorum...”) e con essa la propria autonomia; un’autonomia, quella della ratio, dinamicamente prodotta in quel reciproco adeguarsi (in quel con-temperarsi) tra la cosa e il pensiero che si esplica discorsivamente per arrestarsi nella difficile misura del giudizio. Basta intendere che la verità del giudizio sta nel riferimento ‘adeguato’ a qualcosa di esterno ad esso (“quod est extra in re...”) e dunque che il giudizio non può mai costituirsi come assolutamente determinante.
Contemplatio A questo scopo bisogna tornare ad esaminare l’idea di verità come relazione liberamente necessaria, espressa nel giudizio, tra cosa, pensiero e discorso. Non è, insomma, soltanto il pensiero che deve corrispondere alla cosa, perché questa sia pensata veramente. Quest’accordo – tale corrispondenza – se c’è, deve stare in un rapporto non estrinseco con il discorso che l’esprime. È a questo punto che l’espressivismo ‘poetico’ ricorda una dimensione della verità che quella giudiziale rischia di far dimenticare. Ma entrambe le dimensioni non esauriscono il senso stesso dell’accordo che coincide con quello della sua uni-vocità. Solo in relazione a questa univocità si possono contemperare, a loro volta, la pluralità semantica dell’espressivismo poetico e la coerenza logica del giudizio come due modalità del discorso della verità. Rispetto ad esse ed al molteplice discorsivo che queste due modali-
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tà tipiche rappresentano, la verità stessa non può che porsi uni-vocamente. Con questo non si afferma che la verità in genere o la verità in particolare (la verità di un processo fisico, la verità di una passione, la verità di un oggetto, la verità di un’immagine e così via...) siano comunque qualcosa che è prima del pensarla e dell’esprimerla discorsivamente. No, le cose non stanno e non possono stare così. Se così fosse, la verità sarebbe la cosa stessa e dunque la cosa in sé ovvero quel qualcosa che non potremmo mai pensare e cercare di dire se non in questa chiusura. Ma assolutamente chiusa in sé, la verità della cosa svincolerebbe a tal punto da sé ogni pensiero ed ogni discorso, da non ammettere nemmeno la risorsa analitica della tautologia. Non potremmo, insomma, dire nemmeno “questa tazza è una tazza”, anzi non potremmo dire nemmeno “tazza” e addirittura non potremmo nemmeno indicarla in qualche modo, se non fosse implicito in questo nostro dire (o nel nostro pensare l’immagine mentale di quella tal cosa: una tazza ad esempio...) un qualche vincolo (una qualche connessione mimetica) in cui consista la stessa verità della cosa. Se non implicassimo la verità come un vincolo necessario al nostro pensare e al nostro dire non ci potremmo, dunque, mai sbagliare. E un tale vincolo si stabilisce come un circolo di relazioni mimeticamente biunivoche tra la “cosa”, il pensarla ed il dirla. Intesa nella biunivocità mimetica di queste relazioni, la verità può parteciparsi uni-vocamente. Con la precisazione che prima di tale uni-voca partecipazione la verità non è affatto o, almeno, è soltanto una “cosa” senza qualità. Se c’è un “che cosa” della verità, questo può forse esprimersi, infine, come l’uni-vocità di relazioni mimetiche tra cosa, pensiero e discorso. Generi differenti (di qui la necessità della mimesis) che si debbono appunto accordare. Il senso stesso di tale uni-vocità è l’adaequatio dei termini che sono implicati in una relazione di verità. Solo in virtù del senso bi-univoco dell’aequalitas, nello spazio linguistico-discorsivo ci si può anche fraintendere e il pensiero come il discorso possono cadere in errore: divenire falsi. Poiché qui, oltre alla cosa (alla res) e al pensiero (all’intellectus), è implicato pure il discorso (necessaria espressione del cogitare), c’è un tratto per cui l’adaequatio, come contemperarsi degli elementi compositivi della singolare semplicità del vero, confina con la stessa discorsività. Confina, ma non vi si risolve. Se nella discorsività si rappresenta il carattere attivopassivo della ratio in cui res e intellectus si misurano (si adeguano: convengono), la verità stessa del discorso non è e non può essere il discorso stesso. Il momento critico in cui questo confine emerge all’interno dell’ordine stesso della discorsività è, però, ancora il giudizio. La questione veritativa qui si fa cogente ad una molteplicità di livelli che non è possibile esa-
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Quattro tentativi di dire la verità
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minare. In ognuno di essi, però, si può dire che il discorso stesso si espone ad una crisi: si decide rispetto al suo altro. Nel discorso – anche, ma non solo, attraverso la modalità critica del giudizio – la verità trova la possibilità di venire attestata. Nel discorso possiamo pensare un modo di offrirsi paradossalmente intuitivo della verità stessa. Attraverso questa esibizione discorsiva della verità – questa possibilità ad essa intrinseca di testimoniarla – si supera la stessa frattura tra intuizione sensibile e intuizione intellettuale. Come pure si supera, e sarà un poco più difficile spiegarsi in proposito (ma non lo possiamo fare qui...), la stessa antitesi tra trascendentale ed empirico, tra interiore ed esteriore, tra noetico e linguistico. Si supera almeno simbolicamente, nel senso che nel discorso si esibisce una modalità paradossalmente intuitiva di quella adaequatio rei et intellectus in cui – secondo la frase di Isacco d’Israele citata da Tommaso – consiste la stessa veritas. Alla frase di Isacco, l’Aquinate ne faceva seguire una di Anselmo: veritas est rectitudo sola mente percepibilis. Se con “rectitudo” è inteso il carattere univoco della verità come adaequatio, nel sola mente percepibilis si indica il quarto in cui trova limite ogni discorsività: la necessitas di una relazione tra il Discorso ed il suo Altro come persistenza di una istanza mimetica verso cui ogni libera inventio si curva. L’errore starebbe nel pensare un accesso intuitivo della verità oltre la necessità di questa stessa relazione. L’univocità del vero, in breve, si dispiega solo come un quartetto. Solo come un quartetto è percepibile sola mente il senso stesso della verità (la sua rectitudo: il suo carattere univoco) come adaequatio. Un quartetto che ha il suo ‘cuore’ critico in una teoria del giudizio come vera con–tingenza di intelletto speculativo ed intelletto pratico. Una contingenza che trova la sua forma esemplare e feconda nel giudizio estetico: nel suo anticipare espressivamente, nella forma ludica del ‘quasi’, del ‘come se’, il vincolo logico della conoscenza e quello etico dell’agire. Esprimendo una quasi-necessità logica, che anticipa il conoscere, e l’esigenza di un accordo, che anticipa una vita buona, il giudizio estetico prefigura il quartetto della verità dal punto di vista del confinare e convergere, quanto al vero, del bello e del bene. Ciò che con esso si attesta è uno spazio espressivo dei sentimenti da sempre intrecciato con quello logico delle ragioni. Anche di questo intreccio vive il discorso intorno alla verità.
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II LA MISURA DELLA MENTE. DISCORSO SULLA FINE DELLA KOINÉ ERMENEUTICA DAL PUNTO DI VISTA DELL’IDIOTA
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Il confine del problema Considerando quanto avrei dovuto o potuto dire a quest’incontro1 mi sono posto anche il problema che – se tutto andava come previsto – avrei preso la parola per ultimo. Non intendo attribuire alla cosa nessun significato oltre quello del tutto empirico e contingente che esso ha: un membro di una serie numerica virtualmente infinita è comunque elemento di essa, al di là della posizione che vi assume. Chi parla per ultimo non per questo ha l’ultima parola. L’ultima parola è una parola che chiude: è capace di conclusione in quanto in qualche modo si appella al principio stesso del discorso, cerca di testimoniarlo. In virtù della testimonianza già offerta dal semplice fatto che una ricerca del genere venga almeno tentata, ogni parola, indifferentemente dal tempo in cui viene presa (dal posto che assume nella serie), può dirsi l’ultima. Ultima, in quanto cerca di dire il principio e dunque l’archè ovvero quella potenza che governa il discorso come un origine che permane nel suo fluire. Vi permane come una forza – una dynamis – alla quale soltanto è affidata la sovrana potestà della sospensione di questo stesso fluire. In altri termini: intendere l’ultima parola nella comunità che ogni discors o presuppone significherebbe interrogarsi nel linguaggio sulla sua stessa condizione di possibilità. Ed usando il verbo “intendere” mantengo qui la felice duplicità semantica del termine: una duplicità che, almeno nella nostra lingua, implica sia il gesto intenzionale del tendereverso sia quello disposizionale del puro capire (dell’accogliere ascoltando o addirittura del ‘semplice’ afferrare percettivo). Abbreviando di molto il corso di questi pensieri iniziali – solo apparentemente extra-vaganti rispetto al nostro comune tema: al tema che ci acco1
Il riferimento è al Convegno dedicato alla domanda «Fine della koiné ermeneutica?», organizzato a Milano dalla rivista «Fenomenologia e società» nel maggio 1999.
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muna – lo sintetizzerei in questi termini: la parola veramente ultima nella comunità di un qualsiasi discorso è quella che intende-interroga il suo principio afferrandone il senso nell’ascolto. Principio e senso non sono altro che la cosa stessa al quale ogni nostro segno vorrebbe appendersi con la forza prensile di un gancio. Vorrebbe, ma non può. Per il motivo che ogni segno o sistema di segni al quale ci si illude di ridurre il linguaggio resta inevitabilmente in sospeso nei confronti della propria origine-principio e del proprio stesso senso. Tanto che alla domanda di Wittgenstein “dov’è che il segno si riallaccia al mondo?”2 non si può che rispondere con un rinvio. Rinviando con lo stesso Wittgenstein allo spazio che contiene la connessione stessa. e dunque ad uno spazio che non può essere né quello ‘reale’ del mondo né quello ‘virtuale’ del segno (o del sistema dei segni): uno spazio al confine tra il linguaggio e il mondo che impedisce ogni tipo di corrispondenza pittografica tra il primo ed il secondo (tra una qualsiasi proposizione e lo stato di cose che essa afferma). Questo spazio confinario – niente più di un limite se si potesse assumere il punto di vista del mondo o quello del segno (del linguaggio nella sua autonomia) – si dilata nella misura della mente, nel senso che solo la mente può misurarlo. Ma lo misura appunto in quanto tale spazio – come spazio del principio e del senso – già c’è e solo presupponendolo-interrogandolo come la cosa stessa lo si può misurare. Nessun costruttivismo assoluto, dunque. La nozione stessa di misura reclama per sé una necessaria modestia, quella del puro ricercare: del tentare un modo e con esso un metodo del misurare. È in questa ricerca della misura che la mente si scopre. È nell’indagine del principio del suo mero discorrere, nel metodico domandare riguardo al senso di quest’ultimo, che la mente trova se stessa (quasi inventandosi, potremmo dire). E in questo trovarsi che tenta di misurare lo spazio delle cose stesse (lo spazio della loro connessione), la mente attinge se stessa e si conosce. Come, osservando la parentela etimologica (l’affinitas) tra mens e mensura ci ricorda il Cusano nel De mente: “Mi meraviglio – sostiene qui il Philosophus – che la mente, chiamandosi così come tu dici, o idiota, dalla misura, si spinga a misurare le cose così avidamente”. E l’idiota risponde: “[Lo fa] per attingere la misura di se stessa. Infatti la mente è la misura viva che, misurando le altre cose, coglie la propria capacità. Tutto fa per conoscersi [Nam mens est
2
Cfr. L. Wittgenstein, Philosophische Bemerkungen, a cura di R. Rhees, Basil Blackwell, Oxford 1964, tr. it. di M. Rosso, Osservazioni filosofiche, Einaudi, Torino 1999, p. 21.
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viva mensura quae mensurando alia sui capacitatem attingit. Omnia enim agit, ut se cognoscat.]”.3
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Sulla fine della koinè ermeneutica e sul suo fantasma A questo punto è bene che il filo del discorso si interrompa per riavvolgersi intorno al tema che ci riguarda e per il quale siamo qua. Quanto detto sinora fa segno più verso una koinè filosofica e dunque una qualche forma di communitas avvenire piuttosto che verso una koinè intorno alla cui fine qui ci siamo interrogati e continuiamo ad interrogarci. Il fatto è che per me interrogarsi intorno a questa fine è come vegliare un sepolcro vuoto. Nel mentre che c’interroghiamo – un “mentre” lungo anni, per quello che mi riguarda (tanto che credo di aver usato il termine ermeneutica non più di due o tre volte, smettendo di usarlo non appena mi sono accorto che stava caricandosi di troppi significati) – l’idea di questa koinè è già dileguata e la sua morte non ci ha restituito altro che un fantasma. La nostra domanda, a questo punto, si dovrebbe raffinare e rivolgersi alla consistenza di verità di questo stesso fantasma chiedendo se la sua esistenza abbia mai conosciuto la gioia e la pena del corpo vivente. Noi che interrogandoci vegliamo ormai niente più che il sepolcro della koinè ermeneutica, siamo insomma poi sicuri che si sia trattato di qualcosa di più di un fantasma? Ma, per quanto ci è possibile, basta con le metafore. Siamo sicuri che una koinè ermeneutica sia mai esistita e dunque che vi sia stata veramente un’epoca – diciamo gli anni ’80 – in qualche regione della nostra terra (forse anche nelle sue regioni più culturalmente significative e influenti) in cui i filosofi (e non solo essi) abbiano riconosciuto nella techne dell’interpretazione il linguaggio comune nel quale potevano finalmente intendersi e non più fraintendersi? Concediamo che così sia stato, concediamo alla koinè ermeneutica la dignità di aver offerto l’espressione più pertinente ad un mondo (non certo il mondo) che si autorappresentava post-conflittuale, post-metafisico, felicemente al di là del soggetto e postmoderno; quanto ci resta comunque da constatare è che una tale koinè non aveva alcun futuro. Da un lato perché troppo generica – e dunque buona tutt’al più a suggerire una sorta di lingua franca utile allo scambio intellettuale nei convegni internazionali; dall’altro, perché troppo ristretta dai co3
Nicola Cusano, Idiota -- De Mente, in Opera omnia. Iussu et auctoritate Academiae Litterarum Heidelbergensis ad codicum fidem editam, Meiner, Leipzig 1933 e sgg., Vol. V, p. 89.
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rollari teorici che dovevano corroborare la sua estrema vaghezza. Questi asserivano come fatti da assumere indiscutibilmente o come ovvi presupposti proprio quegli aspetti che più meritavano di essere problematizzati. Ad esempio, 1) che la nostra epoca fosse quella del nichilismo, anzi del nichilismo compiuto; 2) che la filosofia capace di pensare tale epoca nella sua verità fosse quella di Heidegger; 3) che, di conseguenza, la stessa storia della filosofia nei suoi momenti essenziali dovesse venir intesa come una storia dell’essere alla maniera di Heidegger. Dopo questi determinanti corollari – tesi a sottrarre ad ogni ingenua o metodica genericità la nozione di koinè ermeneutica – non restava altro al pensiero filosofico che mostrarsi consapevole della sua storicità, prendere più o meno eroicamente atto del dissolversi-dileguarsi dell’essere, consumando nella migliore maniera possibile la stessa interpretazione della fine della metafisica così da impegnarsi in un dialogo a più voci con la tradizione. Quanto qui riassunto è chiarissimo nel saggio con cui Vattimo, nel 1987, parlava di ermeneutica come di una nuova koinè filosofica,4 caratterizzata non secondariamente da una forma ‘leggera’ di neostoricismo e dalla dimissione da ogni “impegno trascendentale”. La tesi è nota e su di essa abbiamo discusso già a lungo. Quanto allo storicismo mi limito ad osservare che almeno nella sua versione di continuum post-moderno di un’epoca senza più conflitti è stato ampiamente confutato dagli eventi. Non è, però, a questo proposito che merita pronunciare l’ultima parola. Essa semmai concerne il fatto che la koinè ermeneutica – nel senso or ora ricordato – è finita proprio perché non prevedeva, già nella remissione di qualsiasi impegno trascendentale, quella che all’inizio del nostro discorso abbiamo cercato di definire come l’ultima parola: quella parola che nella sua modestia, nella sua debolezza se volete (del resto, “en astheneia dynamis teleitai”), ha l’autorità di sospendere il discorso, interrogandolo quanto al suo stesso principio. In quanto comunità che non si cura dell’archè, in quanto comunità che s’intende anarchica, la koinè ermeneutica dimentica il peso che la tradizione filosofica assegna al termine cui si affida per costituirsi in comunità dei mortali, nella communitas di coloro che riconoscono il proprio nella loro stessa fine. In questo riconoscimento, la mens presupposta dalla koinè ermeneutica è come costretta. Lo spazio che misura la sua anamnesi è angusto: non è altro che quello liminare del puro esistere. Ed è per questo che non diviene più un problema come il segno possa connettersi al mondo. 4
Cfr. G. Vattimo, Ermeneutica nuova koinè, in “Aut Aut”, 217-8, gennaio-aprile 1987.
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Mondo e segno collassano nel limite mortale che li unifica, divengono quel limite stesso e la filosofia che si è risolta in tecnica dell’interpretare diviene un sapere dello scambio illusorio tra mondo e linguaggio. Uno scambio perfetto che si celebrerebbe nello spazio immaginalmente riflesso del simulacro, se non vi fosse quel limite a ricordare un’antica frattura. Proprio ciò da cui fugge – l’altro che ogni senso del limite nasconde come il suo rovescio – è quanto la koinè ermeneutica deve rammemorare nel momento che è quasi condotta a riconoscersi come un fantasma.
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Per una koinè filosofica Quasi. Perché per riconoscersi veramente come tale, questo pensiero della koinè trascorsa insieme al senso del limite, e dell’alterità che implica, dovrebbe rammemorare anche il senso che Platone assegna a quest’arte o funzione tutelata da Hermes: innanzitutto quella di curare il commercio – di farsi interpres – tra i mortale e gli dèi. Sono le pagine in cui Diotima, nel Simposio, chiarisce a Socrate la natura erotica della filosofia e quella filosofica dell’eros. In questo chiasmo demonico tra eros e filosofia – in questo gesto veramente ermeneutico – la mente riconosce se stessa e riconoscendosi si libera dall’angustia dell’abitare il puro limite, si libera dall’angoscia. Si libera ancora una volta fuggendo. Ma qui la fuga ha più a che fare con il nodo che si stringe tra coscienza e verità che con la dialettica tra illusione e disillusione. Qui fuga significa appunto “rendersi simili a Dio secondo le proprie possibilità” (e rendersi simili a Dio significa diventare giusti e santi, e insieme sapienti)5. Niente di più modesto di questo gesto e, insieme di meno illusorio. Perché questo gesto può tradursi anche in un esercizio del logos come “ermeneia” – interpretazione della differenza (diaphorà) peculiare a ciascuna cosa e, insieme, del comune (del koinòn) che lega in un’unica generazione le cose tra loro.6 E però tanto il senso della differenza quanto quello del koinòn che ogni koinè filosofica suppone non possono nascondere il problema del loro principio, dell’archè in cui comunità e differenza possono venire ad essere. Il loro venire ad essere – il venire ad essere della comunità del differire – è quello che Lévinas avrebbe chiamato un “venire all’Idea”. Ma questo veni5 6
Platone, Teeteto, 176b. Per le citazioni delle opere di Platone utilizziamo (salvo diverso avviso) l’edizione di Tutti gli scritti a cura di G. Reale (Rusconi, Milano, 1991). Ivi, 208e–209a.
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re non dobbiamo pensarlo unicamente come un venire allo sguardo. La lezione che ci viene da due autori così differenti come Natorp e Florenskij (entrambi grandi interpreti di Kant) è quella di pensare il carattere autonomamente attivo dell’Idea, anzitutto nella forma di uno sguardo che rivolge alla nostra mente e al nostro sentire. Solo in quanto l’idea è sguardo, la cosa stessa può esser misurata. D’altra parte, è solo in quanto attende dall’idea la misura della sua misura che la mente può attingersi. Si attinge nella passività dell’esser misurata. E dunque in un esercizio di misurata pazienza si fa attenzione alla cosa stessa. La mente in questo esercizio acquista distanza rispetto a sé e in questa distanza può ascoltarsi. Nell’ascolto la misura è colma, colma di qualcosa che non può contenere. Ancora con Benjamin potremmo concludere che la filosofia è essenzialmente ascolto delle idee che si offrono nei nomi. Al limite del linguaggio – teso verso la pura esteriorità – il nome diviene la figura paradossale che dice il sottrarsi ad ogni soggettivismo dello scambio essenziale tra sguardo e idea.
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THINKING FOR NOTHING. IL NICHILISMO COME ONTOLOGIA NON COMPETITIVA
La prima parte del titolo, come qualcuno avrà capito, è una non innocente variazione di uno straordinario pezzo dei Dire Straits: Money for Nothing (quello con l’assolo iniziale di Sting, per intendersi). Il tema è il prezzo che si paga per l’illusione: si canta di uno scambio, di un commercio dove l’acquisto è niente. Non compri la cosa, ma l’illusione che promette. La lettera di questo scambio, che identifica il niente come illusione – bagliore dell’apparenza e poi, e poi… nulla – potrebbe già rinviare al luogo filosofico per eccellenza in cui si decide, per la prima volta, in una forma per così dire a priori o trascendentale, la questione del nichilismo. Questo luogo è, come vedremo, il Sofista platonico. Prima di dire qualcosa intorno a questo dialogo, vediamo però cosa pensa Nietzsche dei sofisti all’epoca del progetto di un libro sulla volontà di potenza, proprio quando il suo pensiero si concentra sul tema del nichilismo. I sofisti non sono altro che dei realisti: essi elevano i valori e le pratiche a tutti comuni al rango dei valori – hanno il coraggio che hanno tutti gli spiriti forti di ammettere la loro immoralità… […] I sofisti erano Greci: quando Socrate e Platone abbracciarono il partito della virtù e della giustizia, essi furono Ebrei o non so che cosa. […] il loro [dei sofisti] onore fu di non mentire servendosi di grandi parole e virtù…1
Quest’affermazione non è affatto marginale riguardo alla questione del nichilismo come problema ontologico. Sostenendo che il contenuto dei loro logoi è niente e che attraverso la potenza della parola – questa sottile e potente signora – si acquista nient’altro che illusione, i sofisti per Nietzsche sono gli unici a non mentire: non mentono, infatti, elevando la 1
F. Nietzsche, Frammenti postumi 1888–1889, Vol. VIII, tomo III delle “Opere di Friedrich Nietzsche” sul testo critico stabilito da G. Colli e M. Montinari, Adelphi, Milano 1974, pp. 120–121.
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fictio a paradigma del pensare. Convenzionalismo radicale, nominalismo assoluto: Elena come nome dell’inganno, cifra di un nulla eppure capace di abbagliare, di sedurre sguardo e menti. La volontà di potenza come arte, l’amore per la superficie può trovare anche qui la sua genealogia filosofica. I sofisti custodiscono la verità del nichilismo: dicono il vero quanto alla menzogna come principio ontologico2; essi rappresentano, per Nietzsche, l’altra estremità rispetto a Parmenide: “ciò che si può pensare, dev’essere certamente fittizio”3. Dall’assunzione che fittizio coincide con “ciò che non è” (assunzione tutta da verificare, se non altro perché una finzione assoluta è letteralmente impossibile e lo è per motivi internamente semantici oltre che per motivi esternamente ontologici) alla più famosa asserzione che non ci sono altro che interpretazioni il passo è breve. È un passo verso quell’anything goes, che ha come sottofondo la favola del divenire, il gioco delle maschere, la morte del soggetto, la svalutazione di tutti i valori, l’Occidente come declinante destino e come risorsa… un dionisismo anche a buon mercato. Una favola che per essere creduta abbisogna di un disincanto iniziale che Nietzsche conosceva fin troppo bene: Noi che ci rifugiamo nella felicità; noi che abbiamo bisogno di ogni specie di sud e di indomabile pienezza di sole, e che ci mettiamo in strada verso là dove la vita procede come un ebbro corteo mascherato…; non sembra che possediamo un sapere del quale abbiamo paura? […] La nostra giocondità – non è la fuga da qualche insanabile certezza? […] Noi siamo seri, conosciamo l’abisso e per questo ci difendiamo da ogni serietà.4
Rispetto al disincanto di questo dissimulato sapere, cuore nichilista di ogni sofistica (ovvero effetto sofistico – per dirla con Barbara Cassin5 – di ogni nichilismo), ogni altro pensiero – da Platone a Kant – non sarebbe al fondo se non autoinganno inconsapevole, nichilismo passivo ossessivamente incantato da un’unica fabula, quella di un mondo vero da contrapporsi ad un mondo apparente. Il problema è che una tale contrapposizione non è ipotizzabile se non in una caricatura del pensiero di Platone (per ta2 3 4 5
Della funzione ontologica della menzogna parla Carlo Gentili in Id, Nietzsche, il Mulino, Bologna 2001, p. 322, riprendendo e criticando l’accusa di estetismo che Benjamin muove a Nietzsche. F. Nietzsche, Frammenti postumi 1888–1889, cit., p. 121. F. Nietzsche, Frammenti postumi 1885–1887, Vol. VIII, tomo I delle “Opere di Friedrich Nietzsche” sul testo critico stabilito da G. Colli e M. Montinari, Adelphi, Milano 1975, pp. 68-69. Cfr. in proposito B. Cassin, L’effetto sofistico. Per un’altra storia della filosofia, Prefazione di G. Dalmasso, tr. it. di C. Rognoni, Jaca Book, Milano 2002.
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Thinking for nothing. Il nichilismo come ontologia non competitiva
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cere del Cristianesimo e della filosofia che ne deriva), dove non si tratta di un ingenuo dualismo, ma semmai di pensare come ‘dire’ ed ‘essere’ possano accordarsi nell’apparenza in quanto intreccio di opinione e sensazione e dunque spazio dell’oscillazione tra ente e non-ente. Rispetto alla durezza e complessità di questo problema eminentemente ontologico, la glorificazione nietzschiana dell’apparenza rappresenta soltanto una terribile semplificazione: è più reattiva che rivelativa nei confronti del nichilismo. Quella che in Nietzsche appare come una tragedia del pensiero che non riesce a render coerente la propria diagnosi epocale (il tempo del nichilismo come conseguenza della cultura platonico-cristiana) ed i presupposti che la guidano (fino a dover ammettere negli ultima verba che Dioniso è il Crocefisso), nei suoi maggiori interpreti – in quegli interpreti che acconsentono alla diagnosi di Nietzsche, ponendone la filosofia al culmine dell’intera storia della metafisica – si trasforma in definizione di un’essenza. Nella condivisione di una comune posizione essenzialista – di una definizione essenziale di che cos’è nichilismo – le interpretazioni di Heidegger e Severino, pur contrapponendosi polarmente per le motivazioni che le alimentano, convergono nel radicalizzare la diagnosi nietzschiana, conferendogli la forma di un’imputazione. Essere è tempo, nel caso di Heidegger, l’Essere come identità indefettibile (negazione radicale del divenire), nel caso di Severino, sono i punti di vista (punti di vista che ovviamente debbono negare il loro carattere prospettico per poter valere) che alternativamente rammemorano quanto è stato obliato o svelano quanto è rimasto inconscio nella tradizione di pensiero che comincia con Socrate-Platone e addirittura con l’inizio stesso della filosofia. Trascuriamo in questa sede il comune assumere – da parte di Heidegger, di Severino e di troppi altri – a corollario dell’imputazione il dominio della tecnica quale carattere fondamentale del nichilismo, effigie ultimamente metafisica dell’epoca, suo compimento in una finis philosophiae. Lo trascuriamo, perché al fondo non decisivo rispetto al discorso sull’essenza del nichilismo: ne è comunque una conseguenza e non il principio. Partire da qui, dalla questione della tecnica, sarebbe forse fino troppo facile e la confutazione mancherebbe il bersaglio principale. Anche facendo a meno di questo corollario – un corollario, che a me sembra così poco epocalmente evidente, visto che né il cosiddetto apparato tecno-scientifico alimenta un fantomatico ‘pensiero unico’ né il dominio della tecnica può dirsi all’origine dei conflitti e dei dolori del presente – resta intatta la necessità di saggiare la validità dell’imputazione. Un’imputazione, secondo la quale – almeno in munere philosophico – nichilisti sono sempre gli altri, anche quando i punti di vista che sostengono divergono
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nella lettera e nello spirito da un’ontologia nichilista, da un’ontologia – stando alle premesse iniziali – che ha come principio la menzogna e, con essa, la tesi (il sapere sofistico) della propria impossibilità. È una storia antica questa, che ricorda perlomeno un altro caso di imputazione di nichilismo a pensieri che non ne facevano affatto professione: quella di Jacobi nei confronti di Kant e di Fichte. Ma la filosofia di Jacobi non era dotata della macchina da guerra concettuale di uno Heidegger e di un Severino ed è bastato un saggio giovanile di Hegel per farne quello che è: un buon oggetto di indagine storico-filosofica, ma non una riserva di argomenti per mettere in questione tutta la storia della metafisica nel segno di una inconsapevole corsa verso il nulla (ma, come ci ha mostrato Cordero in un libro magistrale, le “favole d’entropia”6 sono altre). Forse l’essenza del nichilismo consiste nel non prendere sul serio la domanda del Niente. In effetti la si lascia inesplicata, si rimane cocciutamente fermi allo schema interrogativo di un aut-aut da tempo abituale. Nell’approvazione generale si dice: o il Niente «è» «qualcosa» senz’altro nullo oppure deve essere un «ente».7
Così Heidegger nelle pagine del Nietzsche dedicate al nichilismo europeo, per concludere: Il nichilismo sarebbe allora, esperito e concepito in modo più originario e essenziale, quella storia della metafisica che spinge a una posizione metafisica di fondo nella quale il Niente, nella sua essenza, non solo non può essere compreso, ma non vuole più nemmeno essere capito.8
Tralasciamo il “non vuole” e verifichiamo il “non può”. La prima cosa che ci dobbiamo chiedere è se ciò sia vero. O se quest’ultimo termine (“vero”) apparisse desueto ed eccessivamente compromissorio nell’epoca del panprospettivismo ermeneutico, ci dovremmo chiedere almeno se funziona davvero lo schema heideggeriano che dispone in un unico vettore direzionale l’idea platonica, il cogito cartesiano, la perceptio leibniziana, la rappresentazione kantiana, lo spirito hegeliano nel comune oblio della differenza ontologica, della differenza tra essere ed ente. Non c’è soltanto tut-
6 7 8
Il riferimento, qui, è a F. Cordero, Fiabe d’entropia. L’uomo, Dio, il diavolo, Garzanti, Milano 2005. M. Heidegger, Il nichilismo europeo, a cura di F. Volpi, Adelphi, Milano 2003, pp. 55-56. Ivi, p. 56.
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ta la tradizione neoplatonica a scompigliare – come ricorda Beierwaltes in pagine assai limpide di Identità e differenza 9 – e a rendere insostenibile la tesi dell’oblio dell’essere a favore della “rappresentazione dell’ente in quanto ente” (e, del resto, assimilare l’Uno plotiniano o il Superesse di Eriugena al nulla del nichilismo sarebbe tarda sofistica: cattiva dialettica). Già in Platone, nel Platone del Sofista, ma naturalmente non solo in questo, si critica per così dire in anticipo la riduzione del problema dell’essere alla stabilità dell’idea. Ousia, nella lettura di Heidegger, è pura presenza in quanto idea: quanto si offre allo sguardo del conoscere (con tutto quel ne consegue in senso storico-metafisico). Ma già questa lettura rende poco ricettivo l’orecchio heideggeriano (fin dentro i Beiträge) a recepire l’epekeina tes ousias del to agathòn come un invito a pensare l’idea stessa come un’attiva relazione anziché come pura presenza nel senso della stabilità (del resto: se l’idea suprema è “al di là dell’ousia”, non dovrebbe essere anche al di là della presenza – seguendo almeno il filo della tesi heideggeriana)? Per poter pensare la relazione in maniera che non dissolva l’essere stesso delle idee (la loro ingenerata identità) è necessario, però, pensare seriamente il senso della differenza, anche nella sua versione più radicale: come differire dall’essere stesso, come niente. È anche, se non soprattutto, per rispondere a tale problema che Platone accetta la sfida del Sofista, giocando per così dire una partita interamente fuori casa. L’ospite più inquietante non bussa alla porte, dunque, solo al compimento del nichilismo, ma anche nel momento in cui se ne profilerebbe la premessa essenziale. Ma la mossa di Platone, la posta essenziale in gioco nel dialogo, sta nel mostrare la possibilità di un’altra storia (che forse è proprio la nostra), identificando quasi a priori la verità del nichilismo come sofistica. È quest’ultima, infatti, la posizione da battere, catturando la figura del Sofista nella rete del pensiero per mostrare che l’origine del nichilismo è da sempre anche la sua fine e che, senza essere fino in fondo platonici, si può aprire lo spazio dell’ontologia nel cuore della doxa. Così la partita si mostra doppia sin dall’inizio: si gioca su due fronti, riguardando da un lato il Sofista dall’altro Parmenide. Come sappiamo, in questo sommo dialogo il pensiero accetta il commercio col niente, lo cerca fino a determinarlo come un passaggio decisivo per la stessa possibilità del suo esplicarsi dialettico e, dunque, per il suo emergere come logos ovvero come pensare che non espunge da sé il discorso, separando semantica e ontologia. Secondo quanto avviene, invece, 9
Cfr. per questo W. Beierwaltes, Identità e differenza, Introduzione di A. Bausola, tr. it. di S. Sani, Vita e Pensiero, Milano 1989, in particolare pp. 365-378.
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nel padre del problema stesso: in Parmenide. Pensare ed essere per l’Eleate sono il medesimo. Il gioco, lo scambio tra pensare ed essere, qui è a somma zero. Pensare significa essere e, viceversa, “ciò che è” – nella differenza sottolineata da Colli10 tra il valore di to on e quello di einai per il Poema parmenideo – fa segno al pensiero. Allo scambio di un segno sempre convertibile in identità, revocando la sua natura segnica (il suo puro semainein), si contrappone l’ambito della doxa dove non risuonano che meri nomi11. Qui domina il dire che continuamente si contraddice, affermando che qualcosa è e non è nel medesimo tempo. Il guadagno dell’ontologia parmenidea sta nell’espungere radicalmente il non essere (e con esso la contraddizione) dal circolo virtuoso tra essere e pensare. Il prezzo che paga consiste, però, nella separazione radicale di ontologia e semantica, di essere e discorso. Se c’è pensiero, questo non può essere che pensiero dell’identico: pura affermazione. Pensare è segno coerente di affermatività, indice di essere. Tra essere e pensare vi è contiguità effettiva, nel senso di Peirce (non iconica somiglianza né simbolizzazione). Ma lo spazio che divide i due termini non può essere eluso. O non c’è, e allora non c’è nemmeno il problema di separare l’identità dalla contraddizione, oppure c’è, e bisogna in qualche modo distinguere il pensare dal pensato, presupponendo in qualche modo un intervallo che paradossalmente non potrà mai essere attraversato. I paradossi di Zenone, se pensati nella loro radicalità (rivolti dunque verso la radice dell’identità e non più verso il cangiante fogliame dell’evidenza sensibile), qui potrebbero rivolgersi contro il maestro: l’Achille del pensiero non raggiungerà mai la tartaruga dell’essere perché per fare questo dovrebbe dimenticare l’intervallo (logico) oppure riconoscerne l’esistenza e con essa la loro diversità. Una diversità che, posta così la questione, non potrebbe essere altro che niente: un minaccioso niente. Il parricidio cui invita lo Straniero nel Sofista sembra allora l’unica via per connettere (senza arrestarsi alla pura separazione, che è soltanto una connessione imperfetta) il principio dell’identità tra essere e pensiero e lo spazio della doxa come spazio dei nomi e delle differenze che esprimono: l’unica via, dunque, per non dissolvere l’apparenza in illusione e il discorso che nell’apparenza si sviluppa in inganno. Sullo sfondo sta una tesi già enunciata nel Fedro: la possibilità della menzogna presuppone l’impossibilità dell’autoinganno, del mentire radicalmente e seriamente (intenzional10 11
Cfr. in proposito G. Colli, Gorgia e Parmenide, Adelphi, Milano 2003, pp. 155169. Sulla differenza in Parmenide tra “segni” e “nomi” si veda U. Eco, Segno e inferenza in Id., Semiotica e filosofia del linguaggio, Einaudi, Torino 1984.
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mente) a se stessi. Ci si può illudere – illudersi è cosa di tutti i giorni – ma non si può essere persuasi di essere illusi. Nel momento in cui lo siamo davvero, non lo siamo più. Sappiamo che l’illusione è niente e che “ciò che è” è diverso da questo niente. Ma l’illusione è niente solo in un senso relativo: solo in rapporto a ciò che è in un senso proprio: in virtù di sé, si potrebbe dire. In relazione a quanto è in un senso proprio, a ciò che ha di per sé la forza di essere, respingendo ogni negazione, l’illusione è pure qualcosa: “è” in un senso più debole. Ha un grado di essere simile a quello dell’immagine, dell’immagine che vive nell’istante quando qualcosa si riflette in uno specchio o sulla superficie non torbida di uno stagno oppure dell’immagine prodotta da una techne mimetikè “fantastica”. Anche l’immagine è, seppur nella forma di un nonnulla. Questo passo speculativo nella determinazione ontologica dell’illusione non basta certo a risolvere il problema. Basta, però, ad indicare il luogo di una sua rigorosa definizione, vale a dire lo spazio dell’ontologia come quello spazio logico (quello spazio del logos) in cui si ha il compito non solo di pensare ciò che è e ciò che non è, ma anche quello di ri-conoscere la potenza di essere degli enti. La definizione di tutto ciò che è come dynamis, enunciata dallo Straniero,12 non può certo essere trascurata, in quanto rimanda alla potenza stessa dell’intelletto capace di articolare questo riconoscimento13. Quest’ultima potenza (quella della dianoia), come evinciamo dal passo del Cratilo intorno all’origine del termine to kalòn, è una potenza nominativa: ciò che è bello, kalòs, è detto tale, perché in ciò si riconosce il potere di dar nome alle cose da parte dell’intelletto. Bello per questo sembra una denominazione della stessa dianoia, dello stesso intelletto: “Bello” è l’intelletto perché è, per ciascun ente, “la causa dell’esser denominato”.14 Quella che qui può apparire una diversione è piuttosto il cuore stesso del problema del Sofista e, quindi, del nichilismo (come sommamente sapeva la grande skepsis leopardiana riflettendo sulla bellezza platonica come chimera). Secondo quanto nota Gennaro Sasso in conclusione al suo importante libro sul Sofista15, la definizione più chiara che Platone dà dell’essere delle idee la si trova, infatti, nelle parole che Diotima dedica alla bellezza: “autò kat’autò meth’autou monoeidés aei on”: qualcosa che “si manifeste-
12 13 14 15
Platone, Sofista, 248 e6. Su questo aspetto del Sofista insiste giustamente Gianni Carchia nel suo La favola dell’essere. Commento al Sofista, Quodlibet, Macerata 1997. Platone, Cratilo, 416 b-e. Cfr. G. Sasso, L’essere e le differenze. Sul ‘Sofista’ di Platone, il Mulino, Bologna 1991.
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rà in sé stesso, per se stesso, con sé stesso, come forma unica che sempre è”. Il problema a questo punto è se tale affermazione, il cui contenuto sta nel rimando ad un puro manifestarsi (ad una potenza automanifestativa), ha un effetto nientificante sul mondo dei fenomeni e sulla dimensione doxastica in cui se ne ha percettiva esperienza. Tutto lo sforzo del Sofista, si potrebbe dire, pare teso a non chiudere l’autopredicatività delle idee in una ontologia senza semantica, scavando uno hyatus insormontabile tra aletheia e doxa. L’istanza eleatica permane, ma a prezzo di una sua radicale riforma, capace di evitare (uso le parole di Sasso, senza seguirne le conclusioni) “l’abisso del più crudo dualismo”. Perché è appunto in questo dualismo che avrebbe buon gioco il sofista. Il prezzo e il guadagno di tale riforma sta nel mettere in tensione l’essere delle idee con l’essere che partecipa della symplokè dei generi: nel pensare insieme (nel connettere), allora, l’autopredicatività dell’essere dell’idea e la sua predicabilità. Ma – come ha con forza sottolineato Gianni Carchia nel suo memorabile libro sul Sofista – la condizione per tale connessione: la condizione perché questo pensare insieme sia possibile senza dissolversi in autocontraddizione, sta nel tener ferma la differenza tra l’essere come sfondo di ogni ontologia (come presupposto in qualche modo più forte di ogni ipotesi, nella fedeltà al to òn parmenideo) e l’essere come dynamis. Tale differenza, però, se ha il senso di rendere effettivo il “passaggio” tra i due ‘sensi’ dell’essere non può configurarsi né come “sfondo” né come “dynamis”. In qualche modo non può essere nel senso più eminente dell’espressione: deve infatti porsi come l’altro da ciò che è in senso proprio: come non-ente (niente). Questa è, come è stato notato da più parti, una mossa altamente rischiosa, esposta al duplice fallimento di far slittare una drammatica relazione (quella tra idea e fenomeni) in puro relativismo o di rendere di nuovo impartecipabile, nel più puro spirito eleatico, il pensiero di ciò che è indefettibilmente, di ciò che è puramente per sé, con la sfera dell’esser-per-altro e, quindi, con il mondo della doxa. In entrambi i casi il destro sarebbe offerto al sofista. La rischiosità di tale mossa sta nel fatto che essa deve venire seriamente intesa come un passaggio: come un passaggio, che per essere tale deve svolgersi tutto sul crinale della differenza pensandone la pur inquieta identità: sul crinale della differenza, in breve, come qualcosa che è e non è nel medesimo tempo. La difficoltà sta tutta qui: nel non rimanere incantati da una statica alternativa tra essere e non essere, come fossero due punti di vista assoluti, che bloccherebbe il passaggio in pura contraddizione, ne impedirebbe il movimento. Il simul indica, piuttosto, la relatività delle determinazioni dell’essere e del non essere di cui il passaggio deve partecipare
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per poter confermare la sua irriducibile ed in qualche modo indeducibile identità: il suo configurarsi appunto come nient’altro che “diverso”. Se così non fosse o se così non si potesse pensare (e qui l’essere vale in forza del poterlo pensare), non solo non sarebbe pensabile alcun passaggio, ma non si potrebbe nemmeno dire al parmenideo che almeno per un verso l’essere “non è” e al sofista che anche il niente, e quindi il falso, “è”. Pensando il niente come diverso, pensandolo nella coimplicazione o koinonia dei generi che rende possibile ogni discorso, Platone non cattura soltanto il sofista, ma affronta anche la questione del nichilismo. L’affronta come una questione che va decisa una volta per tutte: una volta per tutte e, naturalmente, sempre da capo. Va decisa kantianamente: il diverso dall’essere, il suo “altro”, è “cosa del pensiero”: ens rationis ed in questa misura è essenzialmente cosa del discorso. Detto in questi termini il parricidio non è un tradimento. L’istanza parmenidea resta salva al prezzo di includere il niente nel serio gioco del pensiero. Thinking for nothing: il gioco in tal caso non è più a somma zero. E per questo il guadagno è effettivo: non solo l’essere può essere detto, in quanto il medesimo è essere e pensare, ma può essere anche chiamato con i suoi nomi e questi nomi riguardano non solo ciò che qualcosa è, ma anche ciò che non è più e ciò che non è ancora: riguardano il differire come condizione dell’identità e il movimento dall’identico al diverso. ‘Decisa’ non significa assolutamente superata in una qualche improbabile Aufhebung o in un catastrofico capovolgimento. La logica del superamento, del resto, vale soltanto come il pendant eroico del ritornello con cui si sono stancamente ripetute le imputazioni di nichilismo formulate dai suoi maggiori interpreti. Decisione significa krisis: vaglio, discernimento e, quindi, risoluzione del problema nella possibilità del discorso. Perché, come appunto ricorda lo Straniero, “per noi il discorso è uno dei generi degli enti”.16 Così, “slegare ogni cosa da tutte le altre” sarebbe il “più completo annientamento di ogni discorso” e con essa la possibilità stessa di una connessione tra l’identità logica di essere e pensiero e il mondo percettivo della doxa. C’è chi, come Sasso in conclusione al suo libro, ha sostenuto a questo proposito che, alla fine, il grandioso tentativo platonico di congedarsi dal nulla assoluto sarebbe fallito (insieme al fallimento della dimostrazione della eteròtes: della pura differenza o diversità). E con esso sarebbe fallito ancora il tentativo di congedarsi dall’ “essere assoluto”. Ma il fallimento, forse, appare tale solo se si considera la partita platonica come tutta giocata nel terreno paterno (dove appunto il nulla assoluto resterebbe 16
Platone, Sofista, 260 a7.
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comunque ancora impensabile, respingendo da sé ogni identificante determinazione, confermandosi ancora il carattere non competitivo del nichilismo come meontologia). Come abbiamo già accennato, però, questa partita si gioca fuori. E per questo è un tentativo di pensare seriamente – oltre ogni ingenua e folle evidenza, come ritiene Severino – l’epamphoterizein17 proprio della doxa, ovvero il suo carattere “incerto, indeciso, oscillante”, come uno stato di sovrapposizione tra l’essere e il niente, dal quale non si può inferire affatto, come invece vuole Severino,18 la libertà dell’ente. Lo si può bensì intendere come una contesa, ma solo nel momento che si vincola tale stato di mera sovrapposizione all’intreccio dei generi, nel guadagno del niente al pensiero. Solo a tale condizione l’epamphoterizein si trasforma in una contesa, che si decide in una drammatica dello sguardo, o in un chiaroscuro, che si discerne nell’energetica del discorso. Del resto, quando Platone – nella Repubblica – accenna all’epamphoterizein, non sta parlando ancora del problema del bello?
17 18
Platone, Repubblica, 479c. “In quanto indecisione (epamphoterizein) tra l’essere e il niente, l’ente in quanto ente è libertà”. E. Severino, Destino della Necessità. Katà tò chreòn, Adelphi, Milano 1980, p. 30. Su questo testo di Severino alcune osservazioni critiche sono contenute in F. Desideri, Immagini del nichilismo, in “Il Centauro”, 4, gennaiomarzo 1982, pp. 169-174.
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IV UNO SGUARDO SUL PRESENTE: RELATIVISMO, PLURALISMO E IDENTITÀ UMANA
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Il presente anteriore del mondo Obiettivo delle nostre riflessioni non sarà il presente psicologico: il presente della coscienza che definisce l’attualità di ogni esperienza, l’essere in atto di un qualsiasi commercio tra sé e il mondo. Un tale senso del presente è certamente primario per la costituzione di ogni soggettività, se non altro per il fatto che l’esser coscienti implica necessariamente essere, in qualche modo e misura, presenti a se stessi. La sua primarietà, però, non può dirsi ‘assoluta’ ossia puramente originaria. Può dirsi tale dal punto di vista fenomenologico, a patto di intenderla nello stesso tempo come derivata o, comunque, come ‘seconda’ rispetto a un altro senso del presente: a un presente ontologicamente anteriore. Prima del senso psichico del presente, come modalità temporale che coinvolge e struttura il rapporto con il passato e con il futuro, dobbiamo dunque presupporne un altro, che sarebbe limitante identificare come storico. Nella sua anteriorità, sia rispetto alla dimensione psichica sia rispetto a quella strettamente storico-culturale, questo senso del presente esprime il mondo come qualcosa che c’è prima di divenire “nostro”. Nei confronti dell’attualità dell’esperienza, misurata dal presente della coscienza, quella del mondo è dunque in qualche modo anteriore: è pura presenza. E il mondo nella sua presenza – nella stabilità mutevole del suo presente1 – può essere il nostro mondo solo nella misura in cui noi gli apparteniamo e, appartenendogli, ne siamo semplicemente parte. Proprio per questo il “nostro” mondo, con cui il tempo psichico si accorda e nel quale conosce uno svi1
Questo aspetto è colto assai bene da Niklas Luhmann: il presente del mondo come unità-differenza di tutti i sistemi di senso, come orizzonte che esclude un’idea di inizio o di fine, è un tempo neutrale rispetto alla differenza presente/assente propria del rapporto tra passato/presente/futuro; cfr. in merito N. Luhmann, Sistemi sociali, Fondamenti di una teoria generale, tr. it. di A. Febbrajo e R. Schmidt, il Mulino, Bologna, 1990, pp. 166-167.
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luppo nella direzione memoriale del passato e in quella previsionale del futuro, non esaurirà mai il mondo come presenza anteriore. Il nostro esser parte, pur minuscola, di questo presente del mondo ha però la virtù di porsi al suo confine, per così dire dal suo interno, e di pensarlo. Oggetto delle nostre riflessioni sarà dunque il presente mondano come condizione necessaria ma non sufficiente di ogni presente psichico: un presente, dunque, che non può essere semplicemente sentito, ma deve essere anzitutto pensato. Nei termini di Hegel, si tratta di capire se siamo ancora in grado di pensare il tempo (il ‘nostro’ tempo) come concetto, di comprendere quindi il mondo nella sua attualità. Il fatto che la nostra si presenti come l’epoca della globalizzazione, dell’unificazione sistemica del mondo, dovrebbe legittimare di nuovo tale pretesa. Nello stesso tempo, però, sembra alle nostre spalle la possibilità di stabilire un’equazione lineare tra il concetto di presente che riusciamo ad afferrare col pensiero (e questo è appunto il senso hegeliano del Be-griff), e la sua totalità. In questo, come sappiamo, consisteva il programma filosofico di Hegel: nell’elevare il concetto di tempo al punto di vista della totalità, vale a dire, letteralmente, nel togliere il prospettivismo del punto di vista in una sorta di autocomprensione del tutto. Solo a queste condizioni il pensiero avrebbe afferrato il tempo nella sua verità o, se si vuole, nella figura attuale della verità. La crisi del progetto filosofico hegeliano non lascia però spazio soltanto al bricolage di frammenti della ragione post-moderna. Pensare dopo Hegel solo in chiave di crisi delle grande narrazioni può produrre al più una filosofia della letteratura, un elogio delle storie come surrogato della rinuncia a tentare di fornire ragioni esplicative del presente. E le storie – come si sa – possono contenere talvolta ragioni, ma non le possono mai fornire. Fornire ragioni è compito di quella che ancora oggi si può chiamare teoria. Nutrire questa consapevolezza non significa certo misconoscere la difficoltà del compito. Una difficoltà che sarebbe un passo affrettato convertire in pura e semplice aporia. Dove sta la difficoltà principale che ci si erge per così dire innanzi? Forse proprio nel fatto che l’unificazione sistemica del mondo ha messo a giorno modi irriducibilmente diversi di intendere il ‘nostro’ presente: una pluralità irriducibile di versioni del mondo e di prospettive di senso. Versioni, prospettive, modi di stare nell’attualità del mondo che, in maniera inedita rispetto al passato, si mostrano reciprocamente prossimi e distanti nel medesimo tempo. Comunque stanno in relazione, sono in qualche modo costretti a comunicare, a inter-relarsi – talvolta violentemente, talvolta solo polemicamente, talvolta in forma puramente discorsiva. Ignoranza e reci-
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Uno sguardo sul presente: relativismo, pluralismo e identità umana
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proca indifferenza, comunque, non sono più concesse.2 Per questo il ‘nostro’ presente si offre nella forma di un nodo, di un intreccio, dove i fili che si stringono più o meno robustamente, restano comunque distinti. Se nel globalismo può essere colto l’aspetto più macroscopicamente visibile del presente, questo non si traduce – come vedremo – in una radicale omogeneizzazione del paesaggio umano. Il globalismo, che corre sul filo immateriale-concreto del sapere tecnologico-informatico e su quello materiale-astratto dell’economia finanziaria, unifica il mondo ovvero i mondi vitali e di senso, di cui il mondo costituisce l’unità differenziale (il presupposto necessario, “momentaneamente indubitabile”),3 anzitutto sul piano dei processi comunicativi. Fino a poter sostenere che è la sfera comunicativa (caratterizzata dalla velocità e dall’ubiquità dei processi di produzione e di accesso all’informazione) a fungere attualmente da vettore di ogni altro processo e di ogni altra trasformazione.4 Con la precisazione che l’attuale pervasività della sfera comunicativa non produce identità, ma rivela differenze. Differenze non solo contigue, ma anche reciprocamente alternative (in quanto versioni globali del mondo: modi di organizzarne il senso e di intendere quindi il rapporto con il suo passato e il suo futuro) e dunque in conflitto. Una prima maniera di rispondere a questo conflitto starebbe – ed effettivamente sta – nell’intendere ogni prospettiva di senso (ogni versione del mondo) relativa al contesto storico-sociale in cui sorge. 2 3
4
Se non in un senso direttamente conoscitivo (l’ignoranza) e limitatamente morale (l’indifferenza). “[…] il mondo – scrive Luhmann – è più della semplice somma di tutte le possibilità di ricostruire rimandi di senso. Non è solo la somma, ma è l’unità di queste possibilità. Questo significa anzitutto che l’orizzonte mondano garantisce a tutte le differenze la sua stessa unità come differenza, superando così anche le differenze fra singole prospettive epistemiche, in quanto per ciascun sistema il mondo è l’unità della specifica differenza fra sistema e ambiente. Nelle singole realizzazioni determinate, il mondo funge sempre da ‘mondo vitale’, ed è così al tempo stesso qualcosa di momentaneamente indubitabile e di preventivamente sottinteso: una serena certezza di fondo, una metacertezza portante dove il mondo rappresenta in qualche modo il momento di convergenza di tutte le dissolvenze e di tutte le introduzioni di differenze” (N. Luhmann, Sistemi sociali, Fondamenti di una teoria generale, op. cit., pp. 158-159). Per una lettura della globalizzazione come fenomeno peculiare della civiltà occidentale cfr. Peter Sloterdijk, L’ultima sfera. Breve storia filosofica della globalizzazione, tr. it. di B. Agnese, Carocci, Roma 2002; per la tesi secondo cui la globalizzazione attuale è caratterizzata dall’affermarsi di uno “spazio del sapere” ovvero di un cyberspazio che coinvolge e trasforma gli spazi tradizionali: quello della terra, quello del territorio e quello delle merci, cfr. Pierre Lévy, L’intelligenza collettiva. Per un antropologia del cyberspazio, tr. it. di M. Colò, D. Feroldi e R. Scelsi, Feltrinelli, Milano 1996.
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L’altra faccia del globalismo, in cui si esprime l’intreccio attuale tra versioni del mondo, sarebbe così il relativismo. Si tratta ora di capire se il relativismo costituisca effettivamente una buona categoria per pensare il presente come tempo globale. Se, insomma, non sia proprio questa la versione del mondo vincente, sia in senso epistemico, in quanto capace di non escludere punti di vista differenti, sia in senso etico-politico, in quanto capace di preservare il conflitto dal trasformarsi tout court in guerra.
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Dell’apparente solidarietà tra relativismo e nichilismo Il carattere per così dire vincente del relativismo non può riguardare solo il suo nucleo normativo, deve anche valere descrittivamente. Se accettiamo questo passo, i termini della questione inevitabilmente si spostano. Al punto che la domanda potrebbe così configurarsi: la nozione di relativismo risulta effettivamente adatta a descrivere in maniera efficace, se non la verità del tempo attuale, almeno quanto prevale nella sfera della doxa, costituendo un’opinione generalizzata, un pensiero dominante tale da informare quello che una volta si sarebbe chiamato lo Zeitgeist? Una risposta affermativa a tale questione è contenuta nell’ormai famosa omelia Pro eligendo pontefice pronunciata il 18 aprile 2005 dall’allora Cardinale Ratzinger. Qui il relativismo è inteso quasi come un’ultima ideologia,5 capace di riassumere e risucchiare in sé una pluralità di correnti di pensiero e mode intellettuali (dal marxismo al liberalismo, dall’ateismo ad un vago misticismo) dalle cui onde è stato agitato il pensiero dei cristiani nel corso del ’900. Nelle parole di Ratzinger il relativismo, ovvero “il lasciarsi portare qua e là da qualsiasi vento di dottrina”, appare come un’ultima sfida per la fede cristiana, presentandosi come “unico atteggiamento all’altezza dei tempi moderni”. Un atteggiamento capace di mostrare un potere di seduzione non solo nei confronti dell’indifferente o dell’incredulo, ma anche del cristiano, tentato forse di adattare il nucleo dogmatico della propria fede alle esigenze del tempo, alle contingenze di culture e forme di vita tra loro assai differenti.
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In un testo precedente Ratzinger aveva addirittura sostenuto che “il relativismo in certo qual modo è diventato la vera e propria religione dell’uomo moderno.” J. Ratzinger, Fede, verità, tolleranza. Il cristianesimo e le religioni del mondo, tr. it. di G. Colombi, Ed. Cantagalli, Siena, 2003, p. 87.
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Il primo senso del concetto di relativismo – cui Ratzinger oppone l’“altra misura” della fede cristiana, il Figlio di Dio come il “vero uomo” – è dunque prevalentemente culturale, sembrando consistere nell’affermare la relatività ovvero il carattere storicamente contingente di ogni valore e principio: di ogni misura capace di ispirare l’agire. Se c’è una verità – sembra sostenere il relativismo cui il pensiero di Ratzinger si oppone – questa è solo una verità nel contesto (relativa a una cultura e a una forma di vita). Essere all’altezza dei tempi significherebbe perciò adeguarsi, nel pensiero e nei comportamenti, al fatto (o alla tesi) che non c’è una misura sovratemporale e oggettiva capace di costituire il fondamento certo di valori e principi fatti valere e difesi da individui, gruppi sociali, comunità e culture. La loro validità è radicalmente storica e relativa al contesto culturale. Ma, come noto, la critica di Ratzinger si spinge oltre un’interpretazione del relativismo come relativismo culturale. O meglio, di questa posizione filosofica intende mettere a nudo la radice etica. Quella del relativismo – agli occhi di Ratzinger – più che una pur influente tendenza teorica tra le altre, è una vera e propria “dittatura” che si va costituendo. E lo fa, appunto, non riconoscendo niente di definitivo, così da lasciare “come ultima misura solo il proprio io e le sue voglie”. In conclusione, seguendo la tesi di Ratzinger, se il relativismo è una dittatura (dunque la negazione di ogni pluralismo delle teorie, delle culture e delle forme di vita) lo è in quanto dittatura dell’Io e non dell’Io razionale (dell’Io, cioè, che l’idealismo tedesco aveva pensato a mettere sul trono), ma dell’Io più miserabile, quello schiavo dell’anima concupiscibile, incapace di accordare desiderio e razionalità (come aveva già auspicato Aristotele). Tralasciamo per il momento la radice etica di questa tesi (l’ultima misura di un Io voglioso come cuore segreto della dittatura del relativismo) e limitiamoci a riassumere il senso filosofico-culturale del termine relativismo, al quale Ratzinger fa in prima istanza riferimento, in una teoria e/o in una credenza in base alla quale ogni valore (ogni criterio o principio che ispira l’agire di qualcuno e dà senso alla sua esistenza) è del tutto equivalente ad altri che gli si oppongono o semplicemente differiscono da esso. Ma, in quanto equivalente ad altri, il valore perde la sua specificità, quella appunto di valere, trascendendo l’orizzonte della fattualità (del “così è” o “così comunque vanno le cose” rispetto a cui il valore costituisce l’istanza del “così dovrebbe essere”). Il motivo di tutto ciò, lo si capisce, starebbe nel fatto che valori, principi e criteri sono senza fondamento alcuno: soffrono la contingenza di porsi come scelte puramente soggettive, prive di un metro, se non quello dettato dall’occasione o da un arbitrio che sconfina nel capriccio.
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La misura del sentire
Bene, se il relativismo dovesse consistere in questa tesi, e spesso così viene inteso ben al di là dell’autorevolissima voce di Ratzinger,6 la mia tesi è che non offre affatto una categoria capace di descrivere efficacemente il presente. Non la offre né rispetto a un sapere implicitamente diffuso né rispetto a teorie esplicite dominanti o influenti. Il concetto di relativismo, così inteso, non spiega nulla del presente nella stessa misura in cui non spiega nulla il concetto di nichilismo, ovvero la tesi secondo cui tutto sarebbe destinato ad annientarsi (a ridursi a nulla) e quindi non vi sarebbe niente di vero o di buono per cui impegnarsi, per cui sperare, in cui credere. Relativismo (nella sua accezione negativa) e nichilismo sono solitamente fatti derivare dal venir meno di ogni pensiero forte capace di ancorarsi a un fondamento certo, ab-soluto (sciolto) da ogni contingenza. Secondo questa diagnosi il relativismo potrebbe essere anche considerato come una conseguenza, sia pur culturalmente debole (quasi un epifenomeno), del nichilismo. Ma prima ancora che il passaggio alla conseguenza è la diagnosi che la produce a non funzionare. Questa diagnosi, proprio per il suo carattere imputativo (spesso giocato tra il pensiero di Nietzsche e quello di Heidegger),7 dispone tutta la storia del pensiero occidentale (tutta la storia della metafisica) in una parabola discendente che si conclude in maniera inesorabile con il dominio della tecnica. Il pensiero incorporato nei dispositivi della tecnica (nella sua stessa forma di razionalità puramente procedurale) sarebbe così la vera substantia (talvolta tradotta nel mitologema di un fantomatico pensiero unico) che nasconde il relativismo con la sua equivalenza dei valori e dei principi. La debolezza di questa tesi diagnostica sta, come si è detto, nell’imputatività che precede e rende possibile ogni sua valenza descrittiva. Quest’ultima, insomma, può funzionare nei confronti sia del dominio della tecnica sia del correlato relativismo etico-filosofico solo in quanto è preliminarmente 6
7
Il ventaglio degli oppositori al relativismo così inteso, limitandosi al panorama italiano, è ampio e variegato. Da posizioni in pressoché totale sintonia con quella di Ratzinger – è il caso di Marcello Pera – a posizioni per certi aspetti antitetiche, come quella di Giovanni Jervis, che in Contro il relativismo (Laterza, Roma-Bari 2005), attacca il relativismo come filosofia e come ideologia proprio perché si oppone all’eredità razionalista dell’illuminismo e in particolare perché non crede nella scienza e nelle competenze dei saperi specialistici. In ultima istanza anche per Jervis, però, quella relativista è “un’ideologia che non ha al suo centro la parola ‘pluralismo’, ma piuttosto la parola ‘soggettivismo’”. Ivi, p. 128. Si veda per questo quanto sostenuto, Thinking for nothing. Il nichilismo come ontologia non competitiva, in questo stesso libro (originariamente in “Iride”, a. XIX, n. 47, aprile 2006, pp. 59–68).
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Uno sguardo sul presente: relativismo, pluralismo e identità umana
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assegnata a ogni pensiero la conseguenza del nichilismo, nonostante quanto esso letteralmente professi: nonostante quanto effettivamente pensi. Ma lasciamo stare i filosofi. Mutatis mutandis l’imputazione vale anche nel gesto intellettuale di riassumere lo spirito del tempo nella forma alquanto paradossale di una “dittatura del relativismo” (avendo già stabilito che il nucleo sostanziale di quest’ultimo consiste nel mero ‘soggettivismo’). Proprio di questa espressione si potrebbe, però, mostrare l’inconsistenza descrittiva, qualora si invitasse un qualsiasi comune mortale a esplicitare in qualche modo i motivi che ispirano la sua esistenza, le sue quotidiane fatiche, le sue piccole o grandi speranze. Nessuno (o pochissimi, credo: forse, solo dei cattivi filosofi) sosterrebbe che ciò per cui s’impegna è qualcosa di relativo nel senso di equivalente a qualsiasi altro e, dunque, di privo al fondo di un intrinseco valore. Per sostenere ciò bisognerebbe condividere la tesi che il relativismo è la maschera del nichilismo. Ma questa è proprio l’ipotesi che non riteniamo praticabile, nella convinzione che il senso del relativismo sia del tutto svincolabile da quello del nichilismo e che proprio in virtù della separazione tra i due concetti si possa intendere in maniera seriamente positiva il pluralismo di valori, di scelte e di versioni del mondo che il relativismo sottende. Solo così possiamo sostenere, infatti, che il nesso pluralismo/relativismo non si traduce affatto in una mera equivalenza e dunque nella necessaria rinuncia a ogni impegno cognitivo ed etico nei confronti della verità. Praticare questa diversa ipotesi significherà – come vedremo – istituire un diverso rapporto tra l’idea di relativismo e il nostro presente.
Efficacia descrittiva del relativismo La prima cosa da fare è dunque quella di cambiare il nostro atteggiamento nei confronti della nozione di relativismo, togliendolo a una negatività per lo più retoricamente affermata, piuttosto che ragionevolmente indagata. Ciò può avvenire se lo si intende in maniera critica ossia se lo si pensa davvero nelle sue condizioni, implicazioni e conseguenze, anziché assumerlo in maniera ingenuamente metafisica (come la negazione di ogni verità o, peggio, come l’affermazione che l’unica verità è la compossibilità di verità relative, avvolgendosi in prevedibilissime contraddizioni) o genericamente etica (come equivalenza di tutti i valori, negando la validità di ognuno di essi). Il primo passo in questa direzione sta nel ricordare il debito concettuale che il termine relativismo ha con la categoria di relazione. A condizione di intenderlo come un’enfatizzazione della decisività della nozione di relazione per la nostra conoscenza del mondo e di noi stessi, la categoria di relati-
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vismo acquista efficacia descrittiva. Anzitutto in una direzione genericamente epistemica, riassumibile nella tesi di ispirazione leibniziana secondo la quale ogni entità e il mondo stesso sono essenzialmente comprensibili come un nesso relazionale, anzi come un insieme dinamico di nessi relazionali tra realtà individuali irriducibili e reciprocamente impenetrabili, comunicanti solo in virtù della loro essenziale attività rappresentativa. Non c’è bisogno di mantenere la cornice della metafisica leibniziana, con il suo corredo di monadi e di migliore dei mondi possibili, per mantenere questa tesi. In Leibniz il relazionismo universale va di pari passo con il prospettivismo monadico e l’unità stessa del mondo è salvata dal carattere essenzialmente rappresentativo dell’attività delle monadi. L’intreccio relazionale qui è perfetto e, proprio per questo, il suo essere consiste in una molteplicità di forme e livelli di rappresentazione che hanno dei gradi di minore o maggiore chiarezza, ma senza mai cessare di rappresentare il tutto nella sua unità. Rispetto a questo modo metafisicamente orientato (verso una teoria del Tutto) di sottolineare la centralità ontologico-epistemica della relazione c’è anche un’altra possibilità. Quella di limitarsi a intendere il mondo (in tutti i suoi aspetti e dimensioni) non come una collezione di oggetti, di entità primitive o sostanze definibili per se stesse, ma – alla Wittgenstein (il Wittgenstein della proposizione 1.1 del Tractatus) – come una “totalità di fatti” e dunque come un complesso dinamico di interazioni e rapporti in cui ogni identità si definisce relazionalmente, sia in senso locale sia in senso globale. Si definisce relazionalmente e tuttavia in maniera necessariamente e costitutivamente imperfetta. A farci capire quest’ultimo passaggio ci è, però, più utile il Wittgenstein delle Ricerche filosofiche che quello del Tractatus. Mentre quest’ultimo ritiene ancora pensabile la forma logica dei fatti del mondo in quanto struttura, irrappresentabile linguisticamente, delle proposizioni che ne costituiscono l’immagine (e per far questo deve pensare l’Io come punto di vista esterno alla fattualità mondana: come il suo, pur immanente, confine per così dire ‘oculare’), il Wittgenstein delle Ricerche e dei travagliati anni che conducono a questa grande opera incompiuta rovescia il rapporto tra ontologia e semantica (tra mondo e linguaggio), trasformando l’unità del linguaggio (definita nel Tractatus dalla forma logica come essenza della proposizione) in una pluralità di giochi linguistici che si incarnano in una molteplicità di forme di vita. Con questo passaggio l’Io non costituisce più il limite metafisico del mondo: è dentro il mondo come un factum plurale che si presenta in molti modi, ma mai in maniera ‘originaria’ e assoluta. Perdendo il suo carattere metafisico, l’Io assume la funzione unificante di un corpo vivente dotato di
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intenzionalità e dunque capace di azioni, di affetti, di pensieri e di abitudini in relazione a una storia determinata (a una trama di esperienze) e sempre nel presupposto di un “noi”, di una dimensione comunitaria che s’incarna in forme di vita determinate. Anche per la grammatica dell’Io vale, dunque, che non è più pensabile come l’indice di un’essenza capace di sottendere e trascendere il gioco delle relazioni, ma come l’unità pragmatico-funzionale di una molteplicità di giochi linguistici tra cui intercorre una qualche aria di famiglia, ad esempio quella relativa a ciò che sentiamo e facciamo (in relazione con gli altri e con noi stessi) quando parliamo in prima persona. Una nient’affatto trascurabile conseguenza che si può trarre dal Wittgenstein delle Ricerche (anziché da quello del Tractatus) è, insomma, che il mondo non è solo un insieme di fatti come rapporti tra oggetti, ma anche un insieme di fatti come rapporti tra soggetti o, meglio, di pratiche, e che le due dimensioni non corrono affatto in parallelo, ma sono tra loro intrecciate in varie maniere. E il modo stesso di esistere di questo intreccio (la sua effettività anteriore alla stessa distinzione tra i due livelli che contiene) si esprime appunto in una pluralità di giochi linguistici che si affermano in quella provvisoria stabilizzazione della prassi che è l’uso, incarnandosi in forme di vita e sedimentandosi in istituzioni e tradizioni. Ciò ovviamente non vuol dire che i giochi linguistici e le relative forme di vita siano il mondo. In quanto intreccio tra fattualità e pratiche – ed a questa condizione: factum – il mondo è quanto i giochi linguistici organizzano: sono per così dire la condizione interna dell’esistenza dell’intreccio (di quel factum come totalità di fatti e pratiche che il mondo è) come un intreccio sensato. Fermo restando che sia il manifestarsi di questi giochi come prassi sia il senso stesso di questa prassi non può che essere plurale, relativo a contesti vitali e storico-culturali. Non vi è insomma un super– senso dell’intreccio né un punto di vista esterno a esso che lo possa descrivere come un tutto limitato. Tentare di descriverlo sarebbe un gioco linguistico come un altro. Potrebbe anche avere l’ambizione di porsi come un gioco riflessivo, a patto di non avere la pretesa di convertire questa riflessività in autocoscienza dell’intreccio ovvero in un sapersi che è sapere del tutto, dove i punti di vista di volta in volta emergenti abbandonano la loro parzialità e sono finalmente compresi nella loro verità.
Relativismo e modernità Quanto si tratta di capire adesso è come questa irriducibile pluralità dei giochi linguistici e delle forme di vita non si traduca affatto in equi-
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valenza delle prospettive e quindi dei modi di organizzare sensatamente il mondo, e come tra essi possa esser pensata la relazione. A questo fine s’impone un secondo passo, quello di sottolineare il valore storicamente determinato di questo senso del relativismo, il suo carattere irrimediabilmente moderno. È un passo necessario per coglierne la valenza descrittiva rispetto alla situazione storica che ancora oggi ci riguarda, senza per questo doversi impegnare in una sua fondazione metafisica (come appunto avviene in Leibniz). Il relativismo può emergere come idea tipica dell’epoca moderna appunto perché questa si caratterizza per la crisi di una cornice metafisicoreligiosa unitaria della vita sociale e delle forme politico-istituzionali che ne esprimono l’effettività storica. Ciò significa almeno il dissolvimento dei legami tra contingenza storica e Assoluto a partire dal dissolvimento della forma politica che li tiene insieme non solo nell’unità di un simbolo (il monarca), ma soprattutto nell’effettività di una forma di governo e di comando. La crisi dell’assolutismo, in questa prospettiva, non riveste solo un valore storico-politico, ma acquisisce anche il valore di un paradigma filosofico configurabile nel rapporto tra l’eclissi di una concezione fondazionalistica della verità e, più, in generale dell’intera metafisica, e l’affermazione dell’autonomia della ragione umana. È proprio a partire dalla crisi effettiva del suo significato politico che il termine stesso di assolutismo non ha modernamente alcuna legittimità in ambito filosofico, in quanto significherebbe la pretesa di guardare al mondo, ai suoi valori e alle sue scelte con l’occhio di Dio. In ambito filosofico una posizione assolutista sarebbe l’equivalente caricaturale di una dittatura in ambito politico, trascurando il diritto e la possibilità degli altri di usare la ragione, di pensare con la propria testa. Autonomia della ragione e autoaffermazione dell’epoca moderna in un certo senso vanno di pari passo. Leggere però questo come un rapporto privo di problemi che si libera a coronamento di un processo linearmente trionfale sarebbe ingenuo. Si tratta piuttosto di un processo critico, caratterizzato da resistenze, cesure, ritorni, restaurazioni e, quindi, da una dialettica continua tra la dimensione storico-politica (l’effettualità di questa crisi nella vita delle società e degli individui) e la dimensione filosofico-metafisica. Se rispetto a questa crisi, la filosofia di Leibniz contiene l’istanza di un passaggio nella continuità: un passaggio senza cesure (la possibilità di un continuum tra assolutismo in senso metafisico e relativismo), la funzione di cesura è solitamente assegnata all’illuminismo francese ed europeo in ge-
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nere. Il tratto saliente dell’illuminismo ‘classico’8 più che la difesa del relativismo delle culture è, però, l’affermazione dell’unità della ragione umana nella sua autonomia (nella sua libertà senza fondamenti) e dunque del suo conseguente universalismo, che ha per corollario l’idea dell’eguaglianza, dei diritti di ciascuno e così via. Per avere un’acuta percezione teorica del nesso tra relativismo e modernità in rapporto alla crisi dell’universalismo sette-ottocentesco bisogna rivolgersi alle grandi analisi del pensiero sociologico del primo novecento capaci di metabolizzare la critica nietzscheana alle illusioni della ratio illuministica. Penso in particolare all’opera di Max Weber e Georg Simmel. In entrambi risulta chiaro che la Modernità proprio mentre afferma la sua epocale autonomia9 genera conflitti e produce crisi: non solo tra ciò che dissolve (e inevitabilmente resiste, e si oppone, a tale dissolvimento) e il nuovo, ma anche al proprio interno (tra gli stessi attori che assumono in maniera più o meno consapevolmente eroica il suo processo). Mentre in Weber tali conflitti si giocano nella tragica staticità del nesso tra il disincanto del mondo prodotto dalla scienza moderna e il “politeismo dei valori” che caratterizza il relativismo politico delle democrazie moderne, in Simmel il conflitto riguarda essenzialmente la dinamica dell’opposizione tra la forma (le forme), in cui si condensano i processi di razionalizzazione tecnico-scientifica ed economico-sociale, e la vita, come termine in cui si concentrano simbolicamente storie, aspettative, speranze singole e collettive. Per questo Simmel è senz’altro, nel panorama novecentesco, l’autore che lega più strettamente la valenza epistemica e ontologica del relativismo con quella di categoria storicamente descrittiva della modernità. Ne è un’acuta testimonianza quanto Simmel stesso scrive in una sua incompiuta Selbstdarstellung (auto-presentazione) del 1898: Mi sembra che l’attuale dissolvimento di tutto ciò che è sostanziale, assoluto ed eterno nel flusso delle cose, nella possibilità storica di un mutamento, nella realtà puramente psicologica possa essere garantito contro un soggettivismo e uno scetticismo sfrenati, soltanto se si colloca al posto di quei valori stabili e 8
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Hilary Putnam definisce l’illuminismo ‘classico’ (quello con la “I” maiuscola), il secondo genere di illuminismo, tra quello socratico-platonico e quello pragmatista (ispirato a Dewey) che egli stesso difende come capace di rispondere al problema del rapporto tra relativismo e pluralismo in maniera, allo stesso tempo, fallibile e anti-scettica. Cfr. in proposito H. Putnam, Etica senza ontologia, tr. it. di E. Carli, prefazione di L. Perissinotto, Bruno Mondatori, Milano 2005, pp. 135–161. A questo proposito, oltre che l’analisi simmeliana, seguiamo la tesi sostenuta da Hans Blumenberg, soprattutto nel suo fondamentale La legittimità dell’età moderna, tr. it. di C. Marelli, Marietti, Genova 1992.
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La misura del sentire
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sostanziali l’interattività vitale di elementi che a loro volta soggiacciono allo stesso dissolvimento all’infinito. I concetti centrali di valore, di oggettività, ecc. mi apparvero allora come realtà interattive, come contenuti di un relativismo che ora non significava più la distruzione scettica di ogni elemento solido, ma al contrario la garanzia contro tale distruzione mediante un nuovo concetto di solidità.10
In questo passo Simmel coglie perfettamente il senso moderno del Relativismus: non solo la vitale interattività in cui si costituisce ogni aspetto della realtà, ma anche il senso provvisorio di ogni configurazione e identità. Ma dalla tesi dell’universale stare in relazione, mobile e inquietamente dinamico, di ogni aspetto e soggetto della modernità e dalla percezione acuta dei conflitti inediti, che tale universale Relativismus genera, Simmel non fa in alcun modo derivare la conseguenza di un rassegnato o eroico scetticismo e ancor meno quella di un indifferentismo nei confronti della verità e della dimensione etica dell’agire. Per Simmel si tratta piuttosto di pensare concetti centrali della tradizione filosofica quali quelli di verità, di oggettività e di valore proprio a partire dalle relazioni vitali che li costituiscono e dai conflitti che ne contraddistinguono la facies moderna. Ciò vale in particolare per quanto riguarda l’orizzonte della vita etica, dove l’istanza universale della ragione pratica kantiana (l’obbedienza ad un “Tu devi!” che scaturisce dalla ragione stessa, sottraendosi a ogni ipoteca storica e ad ogni contingente ipoteticità) ha da coniugarsi con il senso goethiano e poi nietzscheano dell’unicità individuale: dell’impulso alla differenziazione che muove l’individuum nella vita sociale. Nonostante la lucidità con cui la nozione di relativismo è assunta da Simmel nella sua valenza epocale e quindi nelle sue conseguenze conflittuali storicamente specifiche, queste si sviluppano ancora in una forma classica: verticalmente, tra le istanze universalistiche della razionalità e del valore e quelle proprie della vita individuale, orizzontalmente, tra la cristallizzazione delle forme storiche e il puro divenire, il carattere di flusso della vita. Il Relativismus, nella prospettiva simmeliana, non coinvolge ancora la problematizzazione dell’universalismo a partire dalla pluralità (reciproca10
G. Simmel, Anfang einer unvollendeten Selbstdarstellung (1898), in K. Gassen, M. Landmann (a cura di), Buch des Dankes an Georg Simmel. Briefe, Erinnerungen, Bibliographie, Duncker & Humblot, Berlin 1958, p. 9. Su Simmel e il relativismo oltre che al classico saggio di A. Banfi, Il relativismo critico e l’intuizione filosofica della vita nel pensiero di G. Simmel, in G. Simmel, I problemi fondamentali della filosofia, Isedi, Milano 1972, pp. 3-31, rimando al volume di Gianluca Valle La vita individuale. L’estetica sociologica di Georg Simmel, Firenze University Press, Firenze 2008.
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Uno sguardo sul presente: relativismo, pluralismo e identità umana
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mente alternativa) di modi di organizzare e dar senso al mondo e a se stessi. Rispondere non scetticamente all’universale relativismo è agli occhi di Simmel un problema dell’individuum, risolvibile in una strategia che gravita attorno alla nozione di “legge individuale”.
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Aporie del globalismo: solitudine dell’individuum e ritorno della communitas Alla tesi simmeliana, che si è brevemente ricordata, si potrebbe obiettare che è destinata a essere smentita, nei fatti prima ancora che dalla teoria, dalle stesse dinamiche della modernizzazione. Nell’arco di pochi decenni, ovvero nel periodo che unisce la società tardo-industriale degli anni ’60 del ’900 all’attuale epoca della globalizzazione, si assisterebbe, infatti, a un progressivo livellamento delle differenze individuali a favore di un’omogeneità di comportamenti standardizzati indotti dal fatto che ogni identità si riduce a quella di consumatori (fin nella sfera dell’immaginario: delle aspirazioni e delle pulsioni). Più che la diagnosi simmeliana circa il conflitto della cultura moderna varrebbe qui quella di Adorno, che vede costretta la storicità del conflitto (e finanche le sue implicazioni metafisiche) nella camicia di Nesso di un mondo amministrato che lascia alla coscienza solo il margine di una dialettica negativa che può trovare un residuo spazio simbolico nella grande arte novecentesca. Un’epoca segnata da un individualismo di massa sancirebbe, così, il capovolgimento del nesso simmeliano tra relativismo e differenziazione, che aveva il suo (pur problematico) nucleo di solidità nella nozione di individuum, in un’effettiva solidarietà tra relativismo e standardizzazione della soggettività, la cui “aura” andrebbe incontro a un inarrestabile declino. La nostra, vale a dire l’epoca della globalizzazione, sarebbe – come ha sostenuto Baumann in numerosi lavori11 – una “modernità liquida”, dove le parole chiave sono divenute “mobilità”, “flessibilità”, “precarietà”. E ciò non solo per quanto riguarda il lavoro e la prospettiva sempre meno realistica di ancorare il corso della propria esistenza a un ruolo sociale determinato, ma anche per quanto riguarda il rapporto con gli altri e con sé e, quindi, il senso stesso della propria identità.
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Cfr. ad esempio Zygmunt Baumann, Modernità liquida, tr. it. di M. Cupellaro, Laterza, Roma-Bari 2002.
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La misura del sentire
La fluidificazione delle identità tradizionali, la precarizzazione dei rapporti intersoggettivi, la labilità delle appartenenze spinge oggi, in maniera inedita e assai diffusa, a trasformare e ridurre il problema dell’identità personale in quello della propria autenticità (dell’essere proprio se stessi, oltre il punto di vista degli altri incarnato nei ruoli e nelle maschere sociali che di volta in volta assumiamo e indossiamo). A una globalizzazione delle relazioni economico-sociali e genericamente umane, oscillante tra standardizzazione e minacciosa mescolanza di forme di vita e culture, si oppone così la pura autenticità personale, l’essere sé in quanto individuum come il valore da perseguire prima e oltre ogni etica norma. Ma pensare di risolvere il problema dell’identità come autenticità dell’essere proprio e solo se stessi12 al di qua o al di là di ogni effettiva relazione (a prescindere dalla dimensione etica della nostra vita e, più in generale, da quell’intreccio di vincoli e legami affettivi, sociali e politici che comunque ci caratterizzano), genera facilmente nevrosi: un senso di disagio verso l’effettività del proprio “Sé” fino all’estraneità. Venute meno le reti di sicurezza dei dispositivi identitari tradizionali (funzionanti fino a qualche generazione fa) rimane la solitudine del cittadino globale: la “fatica di essere se stessi”13, il dovere di essere autentici come un peso che ricade unicamente sulle nostre spalle. E spesso l’insostenibilità di tale peso si risolve in una vera e propria idolatria dello psichismo, come espressione di una patologia della coscienza contemporanea che s’immagina un’identità umana (una natura autentica del sé) non solo anteriore al dominio della tecnica, ma anche immune dal nodo relazionale con l’alterità. Quanto qui accennato costituisce, però, solo un polo di quel globalismo che caratterizza il nostro presente nella forma di un’unificazione sistemica. Intendere la nostra come una pura e semplice società d’individui sarebbe una semplificazione illusoria: la cristallizzazione mitica di tendenze pur significative, se non di vere e proprie manifestazioni patologiche. All’estremo di un individualismo ipertrofico, animato dalla pulsione di liberarsi di tutti i vincoli nell’ansiosa ricerca di una ‘pura’ autenticità, corrisponde in speculare simmetria il bisogno e insieme l’affermazione (talvolta anche violenta) di una dimensione comunitaria dell’identità, dove forte è l’intreccio tra l’appartenenza locale (anche nel senso di luoghi puramente virtuali 12 13
Su questo tema si veda l’acuto libro di Charles Larmore, Pratiche dell’io, tr. it. di M. Piras, Meltemi, Roma 2006. Cfr. in proposito Alain Ehrenberg, La fatica di essere se stessi. Depressione e società, tr. it. di S. Arecco, prefazione di E. Borgna, Einaudi, Torino 1999.
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e geograficamente trasversali) e la difesa di retaggi tradizionali insidiati dalle dinamiche dissolventi-omologanti della modernizzazione. Ci si trova, così, di fronte a conflitti più complessi di quello tra vita e forma in cui Simmel riassumeva il senso della civiltà moderna. L’epoca della globalizzazione è anche l’epoca in cui noi occidentali, eredi della tradizione platonico-cristiana e dell’illuminismo europeo, siamo impotenti (e spesso complici) spettatori di guerre identitarie etniche ed etnico-religiose. Smentendo la diagnosi weberiana circa il disincanto del mondo, la nostra ipermodernità segna, quindi, anche il ritorno in grande stile delle religioni tradizionali come istanza direttamente politica, spesso in polemica e talvolta in mortale inimicizia con il relativismo politico-culturale proprio del gioco democratico. Se non altro per il motivo che quest’ultimo implica come vincolo necessario alla sua esistenza che nessuna parte può pretendere di assumere un punto di vista assoluto, imponendo alle altre parti valori, opzioni etiche, credenze. Nel ‘gioco democratico’ che contraddistingue l’Occidente globalizzato ogni posizione di valore e la forma di vita da cui scaturisce sono costretti al confronto con i valori e le forme di vita degli altri. Dal timore che il confronto agisca in senso solo neutralizzante e come livellamento delle differenze, e quindi dall’insoddisfazione per il carattere puramente formale del gioco democratico è scaturita la tesi comunitarista. Anche nella sua forma più debole e politicamente corretta il comunitarismo non rappresenta, però, una risposta a quella relatività delle prospettive di vita e di opzioni etiche implicata nel termine di pluralismo. A differenza del pluralismo, esso antepone la communitas come unità organica di relazioni, caratterizzata da un’unità di senso, all’effettività anche confliggente delle relazioni stesse. Quale che sia la comunità in gioco, dalla comunità di fede alla comunità di tifosi, questa è sempre caratterizzata da un vincolo etico più o meno forte, ma comunque denso di contenuti determinati e quindi da un’unità valoriale. Di qui l’intrinseca difficoltà di proiettare quest’unità di senso sul piano della forma politica, come antidoto al formalismo (alla vuotezza di contenuti) della democrazia liberale. In termini antropologico-politici il comunitarismo rappresenta pur sempre una cultura determinata che aspira a esprimere il suo senso o a realizzare l’unità dell’umano in qualche situazione storico-politica, trascurando che l’umanità, una volta che tale nozione sia depurata dall’identificarsi con una qualche sua astrazione ideale, si presenta in ogni contingenza socio-storica come una fittissima struttura reticolare, dove vi sono certamente nodi (nodi identitari), senza però che nessuno possa dirsi fondamentale, ovvero capace di contenere l’umano nella sua totalità.
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Virtù e limiti del naturalismo Sia nella solitudine dell’individuum che si contrappone nevroticamente alla società globalizzata, sia nel calore identitario della communitas memore o artefice di legami tradizionali, non si esce, però dal relativismo differenziante delle prospettive di senso, che riguardano le modalità stesse di identificarsi e di stare in relazione con gli altri. Se l’orizzonte delle differenze è quanto rivela proprio il globalismo del tempo presente, resta da chiedersi come esso possa conciliarsi con una forma pur minimale di universalismo e ancor prima con il senso di un’identità umana che l’universalismo necessariamente presuppone. Non è questo certamente un problema nuovo. Un’esigenza per certi versi analoga era stata fatta valere dalla cultura primo-romantica nei confronti della ragione illuministica. Da un lato l’idea dell’autonomia delle differenti culture, il radicamento dell’identità umana nel proprio linguaggio, il senso comunitario delle differenti tradizioni,14 dall’altra l’idea di un’unità, da realizzare e da presupporre nello stesso tempo, tra natura e cultura, tra natura e spirito, pensando – è il caso di Novalis – a una naturalizzazione di tutte le forme dello spirito e, insieme, a una spiritualizzazione (o poeticizzazione) di tutte le forme della natura.15 Mentre il programma filosofico romantico conteneva l’idea di abbattere il dualismo tra natura e cultura, senza perdere però l’orizzonte delle differenze (così da pluralizzare l’idea stessa di natura), quello implicito nel naturalismo contemporaneo pare aver abbandonato questa utopia. Se nelle sue versioni più radicali il naturalismo mira piuttosto a un’annessione scientista dell’orizzonte culturale in quello della natura (quasi ne costituisse un epifenomeno), in quelle più moderate lascia intatto il dualismo tra natura e cultura. In quest’ultimo caso può sostenere l’identità di una natura umana anteriore o comunque soggiacente al relativismo differenziale delle culture. Ma così trascura il fatto che l’identità umana gioca la sua partita 14
15
Si veda in proposito il fondamentale libro di Isaiah Berlin, Le radici del romanticismo, tr. it. di G. Farinata degli Uberti, Adelphi, Milano 2001, il quale fa giustamente risalire il movimento romantico ad autori come Herder e Hamann, ma anche a figure critiche del razionalismo illuminista, come Montesquieu e Hume. Attento al problema della continuità/discontinuità tra illuminismo e romanticismo a tale riguardo è anche il libro di Charles Larmore, L’eredità romantica, tr. it. di G. Bettini, Feltrinelli, Milano 2000. Per questa dimensione ‘programmatica’ della filosofia proto-romantica (in particolare di Novalis e Friedrich Schlegel) rimando a F. Desideri, Il velo di Iside. Coscienza, messianismo e natura nella filosofia romantica, Pendragon, Bologna 1997, pp. 69-94.
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decisiva sul piano simbolico del senso, in particolare per quanto riguarda un impegno non ‘regionale’ nei confronti della verità e del valore. Se la virtù del naturalismo, ad esempio nella prospettiva cognitivista, è di ricordare che la natura umana non si dissolve nella varietà dei prodotti e dei sistemi simbolici in quanto i meccanismi profondi dei processi cognitivi sono caratteristici della specie, il suo limite è di non venire a capo della frattura tra uomo biologico e uomo culturale.16 Non da ultimo per il fatto che la tesi del naturalismo, spesso improntata a un radicale artificialismo costruttivista (non è questo ovviamente il caso delle neuroscienze: esemplare per equilibrio è la posizione di Edelman) trascura di riconoscere che lo stesso dualismo tra natura e cultura scaturisce proprio dalla tradizione del razionalismo europeo,17 da cui questa stessa tesi deriva.
Pluralismo, relativismo e gioco democratico Senza trascurare le acquisizioni comunque contenute nella sfida che il naturalismo significa per la filosofia contemporanea, possiamo riprendere le fila del nostro problema, là dove parevano essersi interrotte. A ben vedere, l’individuo nel suo isolamento e la comunità a vincolo etico-culturale (un vincolo in cui la tradizione gioca sempre un ruolo decisivo) rimandano, nel loro contrapporsi, a due strategie possibili nel definire la propria identità nell’orizzonte del globalismo contemporaneo: quella riflessiva e quella narrativa. Spesso le due strategie si intrecciano nello stes16
17
Cfr. in proposito le pagine molto equilibrate di Diego Marconi in Filosofia e scienza cognitiva, Laterza, Roma-Bari 2001, in particolare pp. 124–139. Qui Marconi sottolinea che i modelli proposti dalla scienza cognitiva sono modelli astratti “ugualmente realizzabili da un essere umano e da un sistema artificiale” (ivi, p. 134). È quanto mette in luce l’antropologo Philippe Descola nel suo fondamentale libro, Par-delà nature et culture, Gallimard, Paris 2005. Muovendosi in una prospettiva comparatista, profondamente debitrice alla lezione strutturalista del suo maestro Lévi-Strauss, l’autore mostra come questa scissione tipica della cultura occidentale sia estranea ad altre ontologie, tuttora vigenti in diverse regioni e popolazioni del nostro pianeta, quali il totemismo, l’animismo e l’analogismo. A questo proposito la ricerca di Descola evita un doppio errore: sia quello di esaltare questi macrosistemi ontologico-culturali come più autentici o naturali del nostro, sia quello di assumere nei loro confronti un punto di vista inglobante e annessionistico. Consapevole che la matrice ideale della sua ricerca è comunque l’universalismo, Descola, proprio nel confronto con sistemi radicalmente alternativi, lo definisce come “relativo”, appunto nel senso del “pronome relativo”: qualcosa “che si rapporta ad una relazione” (ivi, p. 418).
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so individuo e/o nella stessa comunità. Ma possono anche polarizzarsi conflittualmente, fino a configurare non solo sensi diversi dell’identità, ma anche modalità divergenti di affermarla e difenderla. Ciò rende ancora più difficile sfuggire all’impressione che il relativismo delle culture e delle opzioni etico-identitarie possa tradursi in una paralizzante equivalenza, che solo la logica maggioritaria del consenso sarebbe capace di sbloccare. Questa è certo una possibilità immanente al rapporto tra pluralismo e democrazia (una possibilità che ha mostrato tutti i suoi limiti storico-politici). Intendo quella possibilità che assegna alla forma democratico-costituzionale la funzione di neutralizzare a priori, in quanto puramente relativa, ogni istanza che trascenda il suo formalismo. Secondo questa possibilità vi è per così dire un’equazione statica tra pluralismo e democrazia, con la conseguenza che l’unico punto di vista universale assumibile è quello di una scetticismo radicale nei confronti della verità e dell’etica. Questa possibilità, quest’idea del rapporto tra pluralismo umano e forma democratica, è specularmene complementare all’idea che esalta utopicamente le differenze, la pluralità di linguaggi, culture e forme di vita, trascurando l’effettività del loro confliggere. Anche qui vige un’equazione statica tra pluralismo e democrazia, con la differenza che tale equazione è declinata al futuro (alla realizzazione di una sostanza democratica come Stato o addirittura come non-Stato: comunità anarchica, pura moltitudine dove tutte le differenze comunicano e si integrano reciprocamente senza perdere la propria identità differenziale). Che tra queste due possibilità vi sia un tertium datur politico-filosofico, ha delle conseguenze (come vedremo) anche per la nostra concezione del rapporto tra globalismo e relativismo, e, quindi, tra pluralismo e identità umana. Tale possibilità presuppone di ripensare radicalmente il senso stesso dell’umano nella pluralità di nodi identitari che lo manifestano. Nessuno di questi nodi è per così dire stretto per sempre. Ma questo non può coincidere con l’affermare che non sia stretto e quindi che la sua effettività non abbia delle conseguenze, costituendo dei vincoli per un qualsiasi confronto. Per evitare due errori tra loro simmetricamente complementari è forse necessario oltrepassare l’alternativa tra una strategia puramente narrativa nei confronti dell’identità umana, che include i vincoli tradizionali e gli habitus culturali (i nodi identitari già esistenti), e una strategia puramente riflessiva, che presuppone la distanza da ruoli, tradizioni e appartenenze mirando a costituire un nuovo senso dell’identità, ad esempio quella che in termini habermasiani si potrebbe chiamare un’identità della costituzione. Oltre e prima di queste due strategie sta, però, la necessità di una dialettica del riconoscimento. Come ci ha insegnato Hegel il riconoscimento in-
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clude senz’altro il conflitto, senza però che quest’ultimo ne costituisca il senso. Anzi, se c’è un senso proprio della dialettica intrinseca al riconoscersi (alla sua reciprocità), esso sta nel fatto che senza tale dialettica è difficile pensare a un qualsiasi livello di autoconsapevolezza: di coscienza della propria identità. Ciò ha a che fare con la questione del relativismo e del pluralismo più di quanto potrebbe sembrare a prima vista. Nessun senso dell’identità, individuale e comunitaria, può costituirsi o affermarsi illudendosi di evitare il nodo dell’alterità, includendo in tale nodo non solo il rapporto con ciò che è altro da me in senso generico, ma anche e soprattutto con modi differenti di organizzare questo stesso rapporto e darvi senso. Perché è proprio in quest’ultimo caso che la mia posizione si rivela come intrinsecamente relativa e, quindi, implicata in un intreccio di relazioni per certi versi anteriore alla sua stessa posizione. Dentro tale intreccio, nel quale ogni prospettiva di senso e ogni forma di vita sta, non si demitizza, infatti, solo la separatezza dell’identità, ma anche quella dell’alterità. Non c’è, insomma un’identità radicale (né tradizional-narrativa né razional-riflessiva) nella stessa misura in cui non c’è nemmeno un’alterità radicale. Il nodo che globalismo e relativismo stringono, come volti complementari di uno stesso presente del mondo, rivela piuttosto un radicale intreccio tra identità e alterità, facendo emergere la decisività della categorie della relazione. Tale intreccio va certamente pensato anche come un intreccio tra giochi linguistici e forme di vita, per riprendere la terminologia di Wittgenstein. E qui bisogna avanzare un’ipotesi, fare un passo teorico che in Wittgenstein è forse più implicito che esplicito, generando qualche ambiguità circa la sua concezione del rapporto tra forme di vita, giochi linguistici e identità umana. Tale ipotesi riguarda la fattualità dell’intreccio tra distinzione e coappartenenza delle differenti forme di vita, dei differenti modi di identificazione e di relazione con il mondo. E fattualità qui implica esperienza (esperienza di sé, degli altri, del mondo): l’esperienza di un intreccio come sfondo di ogni distinzione, uno sfondo mai definitivamente sciolto o risolto da quest’ultima. Il punto di vista nei confronti di tale intreccio è necessariamente un punto di vista dall’interno di una forma di vita e di giochi linguistici determinati: mai un punto di vista esterno capace di contemplare l’intreccio ‘umano’ dall’alto o da fuori. Da qui non discende, però, che lo stesso punto di vista, nella sua determinatezza e, quindi, nella sua vincolante contingenza, non sia capace di esercitare quella che Putnam chiama una “trascendenza riflessiva”18 nei confronti dei propri giochi linguistici e della propria forma di vita. Innan18
Cfr. H. Putnam, Etica senza ontologia, cit., p. 138 e passim.
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zitutto, perché la connessione tra forma di vita e gioco linguistico non è rigida, nella stessa misura in cui non sono rigide le regole che governano quest’ultimo. Secondariamente, perché ogni forma di vita è un’emergenza di quel flusso che è la vita stessa: è un modo pratico e concettuale di organizzarlo sensatamente,19 in cui si riflette l’intreccio con altri modi, con altre forme di vita. Quanto Wittgenstein afferma delle parole negli Ultimi scritti sulla filosofia della psicologia ossia che esse hanno significato solo “nella corrente della vita” (e questo vale anche per ciò “che accade all’interno”)20 va esteso, in qualche misura, alla stessa nozione di “forma di vita”: ogni forma suppone il flusso della vita come lo sfondo da cui emerge e che in-determina il suo senso, lo rende costitutivamente imperfetto. Dal punto di vista della forma emersa, con tutto ciò che essa implica, il flusso appare, però, come una trama di cui è intessuta ogni esperienza umana:21 come un intreccio senza il quale le forme di vita, in cui ogni esperienza si organizza identitariamente e relazionalmente, sarebbero impensabili. Nel presupposto di questo intreccio implicato in qualsiasi nodo identitario, nessuna forma di vita e famiglia di giochi linguistici definisce mai compiutamente l’identità umana: di quest’ultima è propria una costitutiva apertura o se si vuole una nativa indeterminatezza di senso che impedisce di risolvere in binari rigidi il rapporto tra la contingenza dell’intreccio (il presente del mondo), le forme di vita e i giochi linguistici. Tale apertura non nega certo i vincoli disposizionali (naturalmente umani) e quelli storico-culturali che la definiscono, semmai ne rappresenta il lato indeterminato della potenza: non semplicemente ciò che potrebbe essere, ma ciò che in una certa misura ‘è’ proprio in virtù di tale indeterminatezza. D’altra parte il senso individuale o comunitario di ogni identità umana è declinabile solo dall’interno del modo di stare nell’intreccio. E questo costituisce certamente il vincolo immanente a ogni senso dell’apertura. La comprensione dell’intreccio che costituisce il mondo come nesso contingente e instabile di relazioni è possibile solo dall’interno di un modo sensato di organizzarlo, di una pratica linguistico-culturale al quale, con maggiore o minore distanza riflessiva, appartengo. La relatività di ogni gioco linguistico, di ogni 19 20 21
Cfr. a questo proposito quanto osservato da M. Messeri nel capitolo “Giochi linguistici e forme di vita” in D. Marconi (a cura di), Wittgenstein, Laterza, RomaBari 1997, pp. 189–191. Cfr. L. Wittgenstein, Ultimi scritti. La filosofia della psicologia, introduzione di A.G. Gargani, tr. it. di B. Agnese, Laterza, Roma-Bari p. 144 e 186. A questo proposito rimando a F. Desideri, Forme dell’estetica. Dall’esperienza del bello al problema dell’arte, Laterza, Roma-Bari 20062, in particolare alle pp. 5–20 e passim.
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pratica di organizzazione concettuale del mondo e il conseguente relativismo di ogni punto di vista o di comprensione scaturiscono da qui. Ma come si è cercato di dire fino ad adesso, il relativismo non funziona più come un assioma di chiusura, bensì di apertura verso quella intrecciata pluralità di altre pratiche e altre forme di vita che ogni identità suppone e implica per così dire internamente. Ciò suggerisce di ripensare il rapporto del relativismo concettuale (la pluralità che implica) con la nozione epistemica di verità e quella etica di valore. A questo proposito Putnam ha osservato giustamente come in entrambi i casi si ponga lo stesso problema: dal rovesciamento del rapporto tra semantica concettuale e ontologia non deriva né l’inabissarsi della nozione di oggettività né la dissoluzione soggettivistica del valore etico. È vero che a questo proposito il senso del ‘noi’ (ognuno di noi: un noi indeterminato, ma non per questo astrattamente trascendentale) è sospeso tra la costitutiva imperfezione (la relatività) della misura interna (interna al suo linguaggio-mondo) di cui dispone e l’impossibilità di una misura esterna (assoluta rispetto a ogni contingenza, tradizione e linguaggio). Ciò che affermiamo come ‘oggettivamente’ vero nei nostri giudizi epistemici o che difendiamo come valore nei nostri giudizi etici e nel nostro agire si presenta, perciò, come privo di un fondamento (di una ragione o misura ultima, ad esso esterna, capace di sottrarlo alla contingenza: all’orizzonte della fallibilità e del dubbio). L’errore sta, però, nel ritenere che questo sia un limite. L’assenza di un fondamento, di una misura unica capace di togliere alle nostre proposizioni e ai nostri atteggiamenti intorno a verità e valore il velo della contingenza e il soffio della relativismo, è piuttosto una garanzia di libertà per il nostro impegno etico nei confronti del bene e per il nostro impegno epistemico nei confronti della verità. Una garanzia di libertà e, insieme, un vincolo al confronto. L’assenza di un fondamento (la sua letterale ou-topicità) apre lo spazio argomentativo della giustificazione (e della prova) nei confronti della verità22 e quello espressivo della testimonianza (e, quindi, ancora, della prova) nei confronti del valore. Se inteso in questa cornice teorica, il pluralismo si presenta come un aspetto decisivo di quella che Putnam chiama la “fioritura umana”. Un aspetto, che non può prescindere da quello che abbiamo chiamato il gioco 22
A questo riguardo traggo liberamente spunto da Michael Dummett, Verità e passato, a cura di E. Paganini, Cortina, Milano 2006. Qui Dummett sostiene la tesi che nei confronti di proposizioni riguardanti il passato e il futuro la posizione giustificazionista (alternativa a quella vero-condizionale) debba fare delle concessioni in direzione del realismo, senza identificarsi con esso.
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democratico e che, nello stesso tempo, sta in permanente tensione nei suoi confronti. Ma non vi sta in tensione come un’anomalia da superare (nell’utopia di un accordo definitivo o comunque di un accordo puramente razionale), bensì come un ineliminabile presupposto e, nello stesso tempo, come un bene di cui aver cura. Un presupposto a cui la figura dinamica della relazione (e la dialettica del riconoscimento e quindi della reciproca traduzione tra linguaggi-mondo) assicura vitalità e, con essa, la possibilità di intenderlo come non estrinseco al rapporto stesso con la verità e con il bene. Da ciò non deriva affatto la conseguenza – sostenuta da Rorty – che la validità di ciò che diciamo giusto o sbagliato sia limitata a un certo tempo e luogo e che dunque norme e criteri, pur mantenendo la loro validità storica, siano del tutto svincolati dall’esser veri, a meno di ridurre la verità ad “una pretenziosa banalità priva di conseguenze sia per i nostri criteri di asseribilità garantita che per qualsiasi altro aspetto della nostra pratica”.23 La posizione di Rorty trascura forse che la contingenza riguarda il modo dell’intreccio tra forme di vita e giochi linguistici (detto altrimenti: tra pratiche identitarie e modi di porsi in relazioni con gli altri), ma non riguarda il senso di ciò che ciascuna pratica umana, all’interno di questo intreccio e del gioco linguistico che lo esprime peculiarmente, afferma e difende come vero e buono.24 Né la pluralità di queste pratiche né il fatto stesso che si pongano come versioni alternative significano di per sé che l’idea di valore e quella di verità siano qualcosa di contingente. L’ironico liberale dovrà pur riconoscere che la sua è una posizione ben determinata nel confronto tra versioni del mondo e che sarebbe una variante debole di hegelismo attendersi che la verità di ogni posizione sia giungere a questo grado di ironica consapevolezza (magari senza conflitti!). Rispetto al normativismo nascosto della soluzione rortyana del rapporto tra relativismo, pluralismo e contingenza, il normativismo esplicito della soluzione di Habermas si alimenta dell’aspettativa che i soggetti in relazione nel gioco democratico vi partecipino in una modalità essenzialmente argomentativa. Anche questa è una posizione che conta troppo su una logica del Sollen: del dover essere razionale del discorso interumano. L’etica habermasiana del discorso presuppone, infatti, non solo che gli attori del confronto siano liberi soggetti razionali diversamente orientati quanto al valore e alla verità, partecipando a linguaggi-mondo 23 24
Cfr. R. Rorty, Verità e progresso. Scritti filosofici, introduzione di A. G. Gargani tr. it. di G. Rigamonti, Feltrinelli, Milano 2003, p. 57. Anche in questo caso si tratta di fare delle concessioni in direzione del realismo (il realismo dell’intreccio fatto/valore) senza identificarsi con una posizione realista.
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e a mondi-di-vita differenti, ma prevede anche che il confronto e il rapporto tra questi soggetti sia quello tipico di una situazione discorsiva, dove l’accordo è cercato nella pura forza degli argomenti usati. Il fatto è che prevedere questo è prevedere troppo dal punto di vista dell’effettività e, nello stesso tempo, troppo poco dal punto di vista etico.25 L’idea di identificare il gioco democratico con una situazione discorsiva ideale trascura che lo spazio della relazione tra prospettive culturali, etiche e religiose oltre che uno spazio dell’argomentazione è uno spazio dell’espressività. Intendo dire con ciò che ogni punto di vista vale e si afferma nella misura dell’impegno con cui è sostenuto: sia sul piano espressivo della testimonianza identitaria sia su quello argomentativo del confronto ‘politico’ con punti di vista differenti e talvolta alternativi. Credere che questi due piani (quello della testimonianza espressiva e quello dell’argomentazione riflessiva) siano perfettamente separabili è forse un’illusione razionalista (evitabile solo a patto di intendere la separabilità come effetto costruttivo di una politica nei confronti della verità e del valore). Non solo per il motivo che ogni catena argomentativa trova un punto in cui la vanga si piega, per dirla ancora con Wittgenstein, ma anche per il fatto che questo ‘punto’, oltre a non essere fissato una volta per tutte,26 non ha solo il senso di una rocciosa fattualità (la nostra forma di vita, la nostra prassi ecc.) sotto il terreno delle argomentazioni. Proprio l’insistenza di Putnam sull’effettività dell’intreccio tra fatti e valori, ci induce a sostenere che il punto in cui la vanga si piega ha anche il valore di una presupposizione27 – di quello che Kant definiva un tener25
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27
Obiezioni molto sensate a quest’ultimo riguardo sono mosse alla posizione habermasiana da Hilary Putnam in Fatto/valore. Fine di una dicotomia, introduzione di M. De Caro, tr. it. di G. Pellegrino, Fazi Editore, Roma 2004, pp. 124–148. La massima stessa “di impegnarsi nell’agire comunicativo” – sostiene Putnam – non può funzionare da sola: il suo imperativo ne implica altri, ad esempio quelli contenuti nell’etica kantiana. Questa tesi è acutamente sostenuta da Putnam: “Riconoscere che vi sono situazioni in cui la vanga si piega; riconoscere, con Wittgenstein, che vi sono situazioni in cui le nostre spiegazioni ci mancano, non vuol dire che ogni luogo è permanentemente destinato a essere ‘roccia’, o che ogni credenza particolare è destinata a essere per sempre immune da critiche. Questo è il luogo in cui ora si piega la mia vanga. Questo è il luogo dove ora si fermano le mie giustificazioni e le mie spiegazioni”. H. Putnam, La sfida del realismo, tr. it. di N. Guicciardini, Garzanti, Milano 1991, pp. 155–116. Ed una presupposizione indica appunto dove, dal punto di vista concettuale, si ferma la catena delle argomentazioni. In tal senso una presupposizione come tale non ha il valore di una spiegazione. Quando lo assume, allora cessa di essere tale (almeno nel suo senso provvisoriamente ‘ultimo’).
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per-vero e che più semplicemente potremmo tradurre in un ‘credere’28 – che agisce potentemente sia all’interno di ogni argomentazione sia di ogni pratica. Detto in termini sia platonici sia kantiani, ma senza dover condividere né un rigido platonismo né un puro trascendentalismo, tale presupposizione riguarda sia il bene sia il vero come un’unità di senso29 che orienta le nostre vite: come un intreccio sensato che dall’interno delle nostre forme di vita, dall’interno della nostra esperienza, conosce solo un accesso ipotetico: una relazione fallibile e tuttavia, non per questo, condannata allo scetticismo. ‘Condannata’ in un certo senso al gioco democratico, al suo carattere di processo di apprendimento dell’esperienza umana, dove ciò che fino ad adesso appariva saldamente intrecciato, può anche sciogliersi, per annodarsi in maniera diversa. Ciò, appunto, in virtù del fatto/valore che il bene non può essere qui inteso come un fondamento sul quale edificare le nostre costruzioni e in forza del quale giustificare i nostri impegni. In questa prospettiva l’idea platonica di un bene in sé30 che trascende ogni fenomeno e contingenza mondana, non si pone più in alternativa alla tesi aristotelica che vi sono molti modi di realizzare una vita buona. Nella stessa misura, l’imperativo categorico kantiano implica necessariamente una dialettica plurale del riconoscimento, dove è una necessità e un valore la capacità di mettersi in relazione con altre prospettive etiche. Il pluralismo si mostra intrinseco a questa prospettiva, così come si mostra intrinseco a un orizzonte della verità che vale effettivamente nella misura del nostro impegno epistemico alla giustificazione e alla prova. Un pluralismo che si gioca nell’effettività dell’attuale intreccio tra globalismo e 28 29
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Per questo decisivo tema in Kant rimando a F. Desideri, Il passaggio estetico. Saggi kantiani, il Melangolo, Genova 2003, in particolare pp. 19-66. Tale unità di senso non è affatto identificabile come un’oggettivazione metafisica. Di essa noi facciamo comunque esperienza: un’esperienza estetica, la quale – con i giudizi che gli sono propri – configura proprio l’unità tra di due significati costitutivi del termine “senso”, quello relativo alla sfera della sensibilità e quello relativo alla sfera della intelligenza. Se questa tesi è giusta (per una sua argomentazione rimando a F. Desideri, Forme dell’estetica, cit., pp. 21-80), l’intreccio tra la dimensione emotiva e cognitiva che ne deriva, riguarda direttamente anche la sfera etica e quella epistemica della nostra esperienza. Nella sua trascendenza tale idea di bene non può coincidere ovviamente con la nozione di un “bene comune” adeguato al presente. Quest’ultimo, da un lato deve condividere la contingenza del gioco democratico, dall’altro non può essere indifferente nei confronti della trascendenza del primo. Infatti esso si pone in una configurazione/evoluzione politica del gioco democratico: nell’intersezione tra una dimensione costruttivamente artificiale e la quasi-natura delle forme di vita.
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relativismo,31 nel presupposto che può essere comunque scoperta un’aria di famiglia tra i giochi linguistici più diversi. Un’aria di famiglia che, senza bisogno di ricorrere a un essenzialismo naturalistico o a un causalismo storicistico, riguarda il limite interno a ogni linguaggio come limite del ‘mio’ mondo, dal momento che esso non esaurisce né il mondo né la nostra umana identità. Si potrebbe obiettare che anche il discorso tentato finora è un discorso del tutto interno a una determinata tradizione filosofica che sinteticamente potremmo definire platonico-cristiana, senza trascurare di precisare che molteplici sono i fili che proprio in questa tradizione si intrecciano (dal pensiero ebraico alla grande filosofia araba, solo per citarne alcuni). Nessuna difficoltà a rispondere affermativamente a questa obiezione. Quanto si è cercato fin qui di sostenere deve alla tradizione ebraico-cristiana più di quanto lasci letteralmente trasparire. Dopotutto, come afferma Novalis, proprio la religione cristiana è “il germe di ogni democraticismo”.32 E se s’intende il termine nella prospettiva che si è fin qui cercato di difendere, essa è anche il germe di ogni “relativismo”.33 Per capire in che senso, si do31
32 33
A tale proposito Giacomo Marramao nel libro, Passaggio a Occidente. Filosofia e globalizzazione, Bollati Boringhieri, Torino 2003, vede la necessità di “obbedire a una doppia ingiunzione: disponendoci a scrivere con una mano la parola universalismo, con l’altra la parola differenza” (ivi, p. 77). Forse l’effettività dell’intreccio sul quale si è qui insistito rende inadeguata la coppia concettuale universalismo/differenze (ancora ancorata a una visione ‘classica’ del problema). Forse si tratta soltanto di una differenza terminologica, che comunque ha il suo peso. La questione, almeno per il momento, rimane aperta. Novalis, Opera filosofica, II, a cura di F. Desideri, Einaudi, Torino 1993, p. 739. In un’omelia per il XXV anniversario di episcopato, pronunciata dal Cardinale Carlo Maria Martini nel Duomo di Milano l’8 maggio 2005 possiamo tra l’altro ascoltare anche queste parole: “Si dice giustamente che nel mondo c’è molto relativismo, che tutte le cose sono prese quasi valessero come tutte le altre, ma c’è pure un “relativismo cristiano”, che è il leggere tutte le cose in relazione al momento nel quale la storia sarà palesemente giudicata. E allora appariranno le opere degli uomini nel loro vero valore, il Signore sarà giudice dei cuori, ciascuno avrà la sua lode da Dio, non saremo più soltanto in ascolto degli applausi e dei fischi, delle approvazioni o delle disapprovazioni, sarà il Signore a darci il criterio ultimo, definitivo delle realtà di questo mondo. Si compirà il giudizio sulla storia, si vedrà chi aveva ragione, tante cose si chiariranno, si illumineranno, si pacificheranno anche per coloro che in questa storia ancora soffrono, ancora sono avvolti nell’oscurità, ancora non capiscono il senso di ciò che sta loro accadendo.” Ringrazio Padre Saverio Cannistrà per aver richiamato la mia attenzione su questa Omelia, in occasione dell’incontro: “Relazione e relativismo: termini e problemi” tenutosi presso il Monastero Santa Croce del Corvo (Bocca di Magra) il 10 giugno 2006.
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vrà ancora ammettere che molteplici sono i giochi linguistici intorno a una medesima parola. Molteplici, dunque, e di diverso valore sono anche i modi di porsi in relazione al mondo: di guardare al ‘nostro’ presente.
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MENTE E COSCIENZA
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I IL “FLUSSO” COME RAPPRESENTAZIONE DELLA COSCIENZA
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Il “flusso” come metafora della coscienza e la problematicità della rappresentazione Nell’epoca delle neuroscienze e delle ricerche sull’intelligenza artificiale l’esigenza di ripensare da capo la nozione di coscienza mette inevitabilmente in questione molte delle immagini che ce ne hanno reso intuitivamente familiare il concetto e la realtà. Tra queste può annoverarsi pure l’immagine del flusso, forse la metafora più influente attraverso cui, a partire dalla svolta tra XIX e XX secolo, si è rappresentata la vita ‘interna’ della coscienza. Così dicendo, si adombra già, ovviamente, una prima tesi: nei confronti della pensabilità della coscienza l’immagine del ‘flusso’ va intesa nei limiti di una ‘rappresentazione’. Prima di chiedersi quanto tale rappresentazione sia lecita, e dunque in che misura sia espressiva rispetto all’essere della coscienza stessa, è opportuno, però, precisare i sensi del termine ‘rappresentazione’ che saranno impiegati nel nostro discorso. Possiamo ridurli essenzialmente a due: un senso ‘oggettivo-esternalistico’ ed uno ‘soggettivo-internalistico’ (per comodità, diciamo che potremmo rendere questi due sensi della rappresentazione con i termini tedeschi di Darstellung e di Vorstellung). Nel primo caso ‘rappresentazione’ ha il senso di una esibizione ‘drammatica’, significa la messa in scena di un’azione. Il ‘rappresentante’ qui mostra di essere anzitutto un attore. Il suo agire, l’agire rappresentativo, seppur sia da considerarsi un agire alla seconda potenza (nel senso di presupporre una scena primaria dell’azione imitata-rappresentata), non perde certo le qualità connotanti ogni agire. I ‘rappresentanti’, in questa prospettiva, debbono essere considerati come gli attori di un dramma e anche se agiscono presupponendo uno spettatore (singolo o multiplo) esterno alla scena della rappresentazione, il loro agire ha un carattere ed un senso esteriormente oggettivo che prescinde da tale presupposizione.1 1
Nel caso sempre possibile di una cancellazione del limite scenico si perderebbe ovviamente la distinzione di ruoli tra attore e spettatore e il senso primario dello spettatore sarebbe pur sempre quello dell’azione.
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Nel secondo caso, la ‘rappresentazione’ in quanto Vor-stellung – il termine indica il contenuto interno ad un atto mentale. La rappresentazione qui coincide, però, solo parzialmente con tale atto e, dunque, con l’attore (con il soggetto) cui appartiene. Seppur nel modo paradossale e sfuggente ad ogni esibizione esternamente sensibile concesso dal suo carattere interno, il contenuto rappresentato sta in qualche modo di fronte al soggetto rappresentante, ne differisce. La funzione del soggetto della rappresentazione può così anche identificarsi con il ruolo dello spettatore. Ciò non comporta, ovviamente, che il suo modo di essere si traduca in una perfetta passività. Non solo per il motivo che lo spettatore osserva attivamente, non registra semplicemente il visto. C’è piuttosto anche un aspetto sinteticamente formativo della rappresentazione stessa, inerente al suo carattere interno. Ciò rende intrinsecamente mobile la misura del rapporto tra attività e passività nelle diverse modalità della rappresentazione. Questa misura può pendere sia verso l’estremo sintetico-formativo di un atto intellettuale sia verso quello quasi passivo che connota la ricettività della sensazione. Ma può anche, come per lo più effettivamente avviene, oscillare in una banda intermedia della dimensione rappresentativa, nella quale attività e passività si compenetrano. Proprio in questa seconda accezione (essenzialmente interna e traducibile come Vorstellung) la rappresentazione svolge, ad esempio, un ruolo amplissimo e ricco di ambiguità in tutta la filosofia kantiana, fino al punto che la stessa “facoltà rappresentativa” (Vorstellungskraft) è definita nel § 15 della Critica della ragione pura come comprensiva della distinzione tra la forma dell’intuizione e quella dell’intelletto. Bisogna anche dire che Kant non tarderà ad accorgersi come in questa estensione della nozione di rappresentazione si annidasse un’ambiguità di fondo suscettibile di spingere il senso della sua impresa critico-trascendentale verso una interpretazione puramente intracoscienziale.2 Si tratta, come si sarà capito, di quella interpretazione che, vivente Kant, comincia con il suo discepolo Reinhold, conosce una torsione nettamente idealistica con Fichte e viene esaltata ad un punto estremo di tensione nella massima opera di Schopenhauer. Ci si potrebbe chiedere, a questo punto, se in merito alla centralità della rappresentazione come Vorstellung non dovesse venir menzionato il nome di Leibniz prima ancora che quello di Kant. La risposta può esser positiva solo con una precisazione e cioè che per la filosofia di Leibniz il ruolo della rappre2
Cfr. per tale questione il saggio di G. Gigliotti, “Vermögen” e “Kraft”. Una rilettura del concetto di “sintesi” nella Critica della ragion pura, in “Rivista di storia della filosofia”, n. 2, 1995, pp. 255-275 ed in particolare pp. 263 e ss.
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sentazione come attività essenziale della monade è connotabile in entrambi i due sensi prima indicati e non esclusivamente nel secondo. Detto in breve, per Leibniz – nel rapporto ‘rappresentativo’ che si stringe tra la Monade delle monadi ed ogni singola monade – la rappresentazione, pur intesa nella modalità di un contenuto interno al rappresentante (ossia ad ogni monade), è nello stesso tempo ontologicamente informativa (esprime, insomma, il porsi in essere energetico delle monadi e dei loro aggregati come produzione del mondo fenomenico).3 Nell’accezione leibniziana del termine rappresentazione vi è, dunque, una perfetta integrazione tra il punto di vista dell’attore e il punto di vista dello spettatore (tra psicologia e ontologia) che oltrepassa la biforcazione iniziale all’interno del concetto di rappresentazione. La metafora del flusso come “rappresentazione della coscienza” riguarda, perciò, sia i due sensi della rappresentazione sia – in taluni casi – la tensione ad unificarli. Ciò non toglie che il punto di partenza problematico debba tener ferma la distinzione tra le due prospettive e i due diversi sensi del flusso come rappresentazione della coscienza. La questione dell’unificazione del senso della rappresentazione – come messa in scena della coscienza (suo attivo porsi in essere fino al culmine dell’autocostituzione) e come suo contenuto (prodotto della sua vis repraesentativa) – presuppone, piuttosto che precedere, la distinzione iniziale. Metodologicamente dobbiamo, perciò, partire da qui ovvero dall’iniziale distribuzione dell’immagine metaforica del flusso in uno dei due sensi della rappresentazione. Che il termine “flusso” stia per qualcos’altro, rinviando al “che cos’è” della coscienza e, quindi, che il suo valore più che nell’immediata descrittività consista nel grado di riflessione che tale immagine è capace di suscitare intorno a qualcosa di essenzialmente noumenico (del quale esternamente non possediamo altro che segni): tutto ciò risulta chiarissimo sin dall’emergenza filosofica di tale metafora nei Principles of Psychology di William James. Quel che risulta problematicamente ambiguo in James è piuttosto il preteso naturalismo della metafora e, con esso, la sua intuitiva immediatezza: La coscienza […] non appare a se stessa spezzettata. Termini come ‘concatenazione’ o ‘sequenza’ non descrivono adeguatamente il modo in cui si presenta a se stessa in prima istanza. Essa non ha giunture; scorre. ‘Fiume’ o ‘corrente’ sono le metafore con cui la si descrive nel modo più naturale. Parlando
3
Sulla questione del tipo di impegno ontologico implicato nella teoria leibniziana delle monadi cfr. M. Mugnai, Introduzione alla filosofia di Leibniz, Einaudi, Torino 2001, pp. 152-163 e passim.
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di essa d’ora in poi, la chiameremo corrente di pensiero, di coscienza o di vita soggettiva.4
La metafora, in questo passo, è presentata con la forza di una descrizione adeguata del modo in cui la coscienza appare a se stessa e, dunque, si conosce. Proprio il fatto che in tal caso la descrizione venga sostituita dall’immediatezza di un’intuizione sensibile è forse all’origine del trapassare della relazione metaforica tra flusso e coscienza in acquisizione del senso comune; un trapasso nel quale ha certamente giocato un ruolo decisivo la trasformazione e il consolidamento della metafora in un dispositivo narratologico. La constatazione che di un dispositivo si tratta e che, come tale, esso deve la sua genesi ad una talvolta geniale artificialità – il flusso interiore come modo della narrazione – non ci può esentare dall’interrogarci sul senso stesso dell’emergenza di questa metafora e sulla sua intrinseca potenza e validità. Così si finisce inevitabilmente per problematizzare il senso dell’intuizione, impedendo che un’immagine surroghi la funzione descrittiva della definizione concettuale. Nei confronti della coscienza vale insomma quanto sostenuto da Plotino rispetto all’anima ossia che la soglia della metaforizzazione è inaggirabile. Il problema non sta, allora, nell’uso della metafora: nell’inevitabilità del dover attraversare la sua soglia. Non è solo il caso di James a confermarlo. Pure un pensatore assai sofisticato e orientato in senso natural-riduzionistico come Daniel Dennett parlando della sua teoria delle versioni multiple, in quanto sostitutiva dell’immagine del teatro cartesiano, ammette tranquillamente di aver sostituito un gruppo di metafore ad un altro.5 Il problema anche per Dennett non consiste, dunque, nella necessità di metaforizzare il ‘fatto’ della coscienza, bensì nella maggiore o minore bontà o, se vogliamo, nella maggiore o minore potenza esplicativa delle metafore impiegate. A questo riguardo è certo che la decisione valutativa non si gioca più sul terreno metaforico, ma su quello delle relazioni concettuali che può generare (ovvero del corpo di intuizioni e di riflessioni virtualmente implicito in esso). La nostra domanda, in conclusione, potrebbe assumere questo tenore: “A quale esigenza teorico-concettuale corrisponde l’introduzione dell’immagine-nozione di flusso come rappresentazione della coscienza? Perché, 4 5
W. James, Il flusso di coscienza. I principi di psicologia Capitoli IX e X, a cura di L. De Martis tr. it di A. Civita, Bruno Mondatori, Milano 1998, p. 53. Cfr. D.C. Dennett, Coscienza. Che cosa è, tr. it. di L. Colasanti, Rizzoli, Milano 1993, pp. 507-508.
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ad un certo punto, si ritiene che tale immagine sia più pertinente di altre ad identificare la struttura della coscienza come proprietà di tutti gli animali capaci di logos?”. Prima di cercare di rispondere a tali quesiti, passando poi a delineare assai schematicamente i tre modelli influenti di flusso della coscienza di cui intendiamo occuparci (quello di James, quello di Bergson e quello di Husserl), occorre una precisazione. Se l’immagine del flusso in relazione alla coscienza è un’immagine tipicamente moderna che si può datare nel passaggio cruciale tra Otto e Novecento, non lo è certamente se riferita direttamente al pensiero. Di ciò James, Bergson ed Husserl risultano ovviamente ben consapevoli, pur limitandosi a citare in proposito il nome di Eraclito e a parlare con sfumature diverse, ma sempre in maniera abbastanza convenzionale, di flusso eracliteo e di cose del genere. Con tale richiamo lasciano intendere, ovviamente, la necessità di sottrarre la nozione di coscienza e del soggetto che la sopporta ad una sostanziale intemporalità, evitando nel contempo la sua riduzione ad un disunificante associazionismo. L’immagine del flusso risponderebbe, così, all’esigenza di definire un continuum stabilmente dinamico capace di saldare nella figura della coscienza sia il modo della permanenza sia quello del movimento: sia l’istanza dell’identità sia quella del mutamento. Come l’unità tra queste due istanze si sviluppi diversamente in ciascun modello di flusso della coscienza e come questo differente sviluppo dipenda, in ultima analisi, dalla diversa relazione che esso intrattiene con la biforcazione all’interno del concetto di rappresentazione da cui siamo partiti, lo vedremo tra breve. Prima è opportuno richiamare l’attenzione su un topos interpretativo comune ai tre i filosofi ai quali i tre modelli sono riconducibili. Tutti sembrano trascurare che quello di Eraclito non è solo un pensiero dell’incessante divenire di tutte le cose e, quindi, dell’universale fluire, ma è anche e forse soprattutto un pensiero della connessione, dello xynon (appunto nel senso per cui il sentire-pensare: to phronein “è ciò in cui si concatenano tutte le cose”6 (xynon esti pasi). In questa interpretazione, si potrebbe obiettare, i nostri filosofi sarebbero legittimati da un’antichissima tradizione storiografica che si può far risalire fino a Platone. È lo stesso Platone, infatti, che nel Cratilo7, avendo in mente piuttosto l’eraclitismo 6 7
Seguiamo qui la traduzione di G. Colli al quale va il merito di aver insistito su questo aspetto del pensiero di Eraclito, cfr. G. Colli, La sapienza greca, III, Eraclito, Adelphi, Milano, 1980 p. 31 (si tratta del frammento Diels-Kranz 22B113). Cfr. Platone, Cratilo, 402a.
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che Eraclito, gli attribuisce la dottrina secondo la quale panta chorei, “tutto fluisce” (è in movimento) e niente permane. Proprio in quest’opera il termine greco che indica il flusso: roé e i suoi derivati sostantivali e verbali, viene sottoposto ad una suggestiva indagine filosofico-semantica, di cui non va mai dimenticato il tono ironico del virtuosismo speculativo con cui è condotta. Tra tutte le variazioni platoniche intorno ai derivati e ai composti di roé ci interessa qui il modo con cui Platone scioglie il termine phronesis, ossia come phora kai rou noesis e cioè pensiero, intellezione (intuizione intelligente) “del moto e del flusso”. Spiegazione, questa, strettamente connessa a quella di sophrosyne – da sciogliersi in salvezza (soteria) della phronesis e dunque in capacità di tenere in salvo (integro) “il pensiero del moto e del flusso”. L’accenno al Cratilo platonico, come si sarà capito, non ha lo scopo di soddisfare una mera curiositas storiografica. La noesis come atto del nous, dell’intelletto – e dunque dello sguardo capace di sopportare la vista di quelle entità acromatiche ed aschematiche che sono gli eide –, ci indica direttamente l’origine di quell’osservatore-rappresentante che sta di fronte ad ogni rappresentazione, nel secondo dei significati specificati all’inizio. Ai suoi occhi il flusso è trattenuto-salvato non tanto dal fluire, quanto piuttosto dall’indistinzione. La phronesis, in questa direzione interpretativa, potrebbe essere intesa anche come virtù di rendere intimamente discreto il continuum psichico, governandone dialogicamente la molteplice fluidità.8 Certo, per Platone tutto questo è possibile in quanto il nous sta, non fluisce. Qualcosa del genere potrebbe dirsi (con le differenze del caso) anche per la mens cartesiana e così pure per un certo modo frettoloso di intendere quell’unità dell’intelletto kantiano che trova una rappresentazione nell’ “Io penso” (quale correlato necessario, nella sua analiticità, della sintesi originaria dell’appercezione). Bene, è proprio questa linea – questo modo di intendere la tradizione filosofica relativa al soggetto e al principio (intellettuale) della coscienza – che pone in questione l’emergenza della metafora del flusso.
8
È anche per questo motivo che in L’ascolto della coscienza. Una ricerca filosofica (Feltrinelli, Milano 1998) ho sostenuto la convergenza tra il problema di pensare la coscienza e quello di definire il senso di sophrosyne come quel sapere che ha cura di sé, che nel Carmide platonico anticipa la tematica moderna della coscienza e dell’autocoscienza.
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Tre modelli di “flusso di coscienza”: W. James, H. Bergson, E. Husserl Se un generico anti-sostanzialismo relativamente alla nozione di soggettività è il tratto unificante i nostri tre modelli di flusso di coscienza, una sommaria analisi non potrà fare a meno di rilevarne le irriducibili peculiarità concettuali. Già sin d’ora possiamo enunciarle schematicamente. Il primo (quello di James) è un modello essenzialmente psicologico, nel quale l’ipotesi del flusso non coinvolge – almeno nella sua prima formulazione – l’esterno (il mondo dei dati sensoriali). Nel secondo (quello di Bergson), la tensione ad implicare la ritmica stessa dell’Universo nella struttura eterogeneamente multipla della durée è evidente sin da Materia e memoria e conduce a caratterizzare questo modello in un senso immediatamente ontologico-evolutivo. Il terzo (quello di Husserl) ha un carattere eidetico-trascendentale; muovendo dall’epoché, dalla messa tra parentesi del mondo fenomenico, esso riguarda un’analisi puramente interna dei contenuti puri della coscienza e, nella radicalità della sua interrogazione, si spinge fino alla nozione di Urfluß, di “flusso originario”.
James: consciousness e mitologia del Sé L’ipotesi di James, improntata ad un forte eraclitismo, si qualifica come una rappresentazione puramente interna della vita della coscienza che può essere articolata nei seguenti punti tra loro strettamente connessi: 1. è acquisita in maniera introspettiva; 2. si presenta come una espressione simbolica nel generale presupposto che “nulla in natura corrisponde alle nostre parole” e che, dunque, “una ‘idea’ o Vorstellung, che esiste permanentemente e che fa a intervalli periodici la sua apparizione sul palcoscenico della coscienza, è un’entità mitologica quanto il Fante di Quadri”;9 3. identifica tout-court la coscienza con il continuum di una corrente di pensiero ovvero di “vita soggettiva” dove la discretezza dei pensieri è segnata da una radicale transitatività (per cui “la transizione tra il pensiero di un oggetto e quello di un altro” non costituisce un’interruzione “più di quanto un nodo di bambù non è una rottura del legno”); 4. questa identificazione si sorregge a sua volta sulla tesi circa la continuità dei mutamenti cerebrali e sul ruolo decisivo che hanno i dispositivi sensoriali nel tradurre in perce-
9
Cfr. W. James, Il flusso di coscienza. I principi di psicologia Capitoli IX e X, cit., p. 48 e ss.
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zioni, e quindi in pensieri, le informazioni che provengono dal “brulicante continuum” indifferenziato e privo di rilievo della realtà in sé. Il risultato di questi passaggi argomentativi è la piena coincidenza tra l’immagine di un flusso di pensiero e la struttura stessa della coscienza. Ma come pensare la riflessività e più genericamente la possibilità di una dimensione epistemica di controllo dall’interno di tale flusso? A tale problema – ossia all’esigenza di salvare l’istanza della connessione (e con essa quella stessa della consapevolezza) all’interno della struttura fluido-dinamica della coscienza – James risponde con il ruolo selettivo attribuito a quelle che chiama “frange” o “ipertoni”,10 ossia a rilevanze di affinità che si determinano tra gli elementi sostantivi del pensiero. A tali rilevanze è assegnato il ruolo di produrre relazioni e selezioni all’interno del flusso e, dunque, di originare in tal modo il carattere consapevole della coscienza. Se si prescinde da quest’ultimo aspetto, quello della funzione di ritaglio di consapevolezza generato dagli iperoni all’interno del flusso psichico, la corrente di pensiero più che una corrente di con-scientia, di con-sciousness, dovrebbe venire più propriamente chiamata una pura corrente di Sciousness, di Scienza il cui soggetto sarebbe un generico Pensante (Thinker)11. Così sostenendo James, però, non fa altro che separare la dimensione riflessiva dell’autoriferimento da quella ‘epistemica’ del puro pensare ed ipotizza una realtà del flusso di pensiero in cui il soggetto è neutro e tende a sciogliersi nel flusso stesso. L’identità del Sé e, con essa, la stessa emergenza dell’Io come indice consapevole di tale identità, costituirebbe, perciò, soltanto uno dei ritagli possibili all’interno di tale corrente (essenzialmente non differente da ogni altro ritaglio fenomenico-percettivo). Voler stabilire, a questo punto, se il nucleo centrale del Sé sia una “sostanza spirituale” o solo una “parola ingannevole” sarebbe un falso problema. Tutte le volte – osserva James – che il mio sguardo introspettivo riesce ad afferrare la manifestazione di una qualche spontaneità soggettiva, quanto riesce a percepire distintamente non è altro che un processo corporeo “che ha luogo perlopiù dentro la testa”. Per questo – così suona la sua conclusione – “il Sé dei Sé, quando attentamente esaminato, risulta consistere principalmente nell’insieme di [questi] peculiari movimenti nella testa o tra la testa e la gola”.12 Tralasciando di analizzare come proprio le tesi contenute nel capitolo X dei Principles of Psychology siano all’origine della teoria jamesiana dell’universo pluralistico, del Pluriverso, merita almeno 10 11 12
Cfr. ivi, p. 74 e ss. Cfr. ivi, p. 131. Ivi, p. 129.
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puntualizzare come tale conseguenza teorica passi necessariamente attraverso una nozione di percezione, nella quale il contenuto di realtà (puramente interno) e quello di realtà (caratterizzato da un riferimento esterno) si equivalgono.13 Se il concepire ed il percepire sono posti sullo stesso piano, inevitabilmente il sistema di James si configura come un sistema “senza fondo”, bottomless, secondo quanto egli stesso scrive in una lettera a François Pillon, e dunque “troppo romantico”. Questo non vuol dire, però, che James neghi l’autonoma sussistenza del mondo degli oggetti: ad essere differenti nella loro appartenenza ad un pluriverso di correnti di pensiero sono solo le percezioni, mentre la cosa là fuori resta la stessa.
Bergson: il flusso come durée Il modello bergsoniano di continuum della coscienza si declina, com’è noto, nella nozione di durée in quanto unità fluida di una eterogeneità qualitativa. L’assoluta fluidità è conferita alla durée dal tempo puramente interno, memoriale, che la caratterizza come radicalmente opposta al tempo spazializzato ed omogeneo della realtà fisica (oggetto di scienza). Mentre nella durée si esprime l’essere attivo del vivente come memoria protesa in avanti, nel temps-espace vige unicamente il punto di vista pragmatico della coscienza scientifica. Nonostante le molte assonanze con il modello di James ed il dialogo che si instaura tra i due, quello di Bergson costituisce in qualche modo un simmetrico rovesciamento del modello jamesiano. Il flusso bergsoniano è, infatti, un flusso strutturato e bidirezionale generato dalla memoria come unità virtuale, intrinsecamente fluida e dinamica, di coesistenza e successione. La forma che tale flusso assume nella coscienza è così pensata da Bergson come quella di un cono il cui vertice è costituito dal presente della percezione (dalla sua attualità corporea caratterizzata dall’attivazione dei meccanismi senso-motori) e le cui possibili sezioni 13
Su questo problema ha scritto un saggio illuminante Hilary Putnam (La teoria della percezione di James in Id., Realismo dal volto umano, tr. it. di E. Sacchi, il Mulino, Bologna 1995, pp. 407-434), tutto giocato sulla connessione tra immediatezza e incorreggibilità e sullo svincolo di tale connessione dalla necessità di un riferimento esterno. A questo proposito Putnam nota la parentela tra la teoria della percezione di James e la nozione kantiana di rappresentazione, in base alla quale tutte le rappresentazioni si dispongono sullo stesso piano ed anche la sensazione può esser pensata come una sorta di rappresentazione, pur se di livello più basso.
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rappresentano il passato inquietamente accumulato nella memoria. In queste sezioni il passato non ha cessato di esistere, ha cessato – dice Bergson – semplicemente di essere. E appunto per il motivo che il movimento tra la base ed il vertice è bidirezionale, ogni virtuale elemento o dimensione del passato può essere ridestata percettivamente. La nozione di virtualità appare dunque a Bergson più potente di quella di attualità. Ciò deriva direttamente dalla tesi relativa al carattere essenzialmente temporale dell’essere: l’essere è tempo puro e la genuinità del tempo, il suo carattere proprio, viene appunto pensato nella nozione di durée, come una nozione del tutto coestensiva a quelle di memoria, di coscienza e di libertà. Tutto ciò ha varie e importanti conseguenze. Innanzitutto origina un’idea di rappresentazione del tutto svincolata da un rapporto causale con il corpo e con il mondo fisico. La rappresentazione, per Bergson, sorge piuttosto dall’autonoma potenza dell’immagine: dal suo esistere in sé come qualcosa di generato incessantemente dalla originaria dinamica della memoria. È questo il modo in virtù del quale egli può sostenere sia il dualismo tensionale tra spirito e materia sia la loro unità, in quanto poli nel senso della massima contrazione qualitativa (lo spirito come memoria: essenza attiva del vivente) e in quello della massima estensione quantitativa (la pura omogeneità della materia). Delle due istanze del pluralismo e del monismo, e insieme della loro intrinseca dialettica, la durée, già a partire da Materia e memoria, rappresenta così una sintesi dinamica che ne supera l’opposizione a favore di un’istanza virtual-rappresentativa14 da pensarsi come anteriore alla distinzione tra spirito e materia. Ed è qui che si produce la decisa trasformazione della nozione di flusso di coscienza da una valenza puramente psicologica (quale riveste in James) ad una valenza pienamente ontologica. Proprio a tale riguardo Deleuze15 parla di una pluralità di “durate” e perfino di una poliritmia intrinseca ad ognuna di esse, sostenendo pro domo sua che l’ontologia bergsoniana è un’ontologia della differenza radicale. In proposito non bisogna però dimenticare che la pluralità ontologia costitutiva della durée viene unificata in ultima istanza nel Macro-Flusso o, se si vuole, nel Macro-Cono della évolution créatrice, che per Bergson costituisce esplicitamente la coniuga-
14 15
Cfr. in proposito G. Deleuze, Le bergsonisme, tr. it. di F. Sossi, Feltrinelli, Milano 1983. Il riferimento qui è, oltre che al citato Le bergsonisme, a G. Deleuze, La conception de la différence chez Bergson in “Les études bergsoniennes”, v. IV, Paris 1956, pp. 79–112 (tr. it. di F. Sossi in «aut aut», n. 204, nov.-dic. 1984, pp. 42– 65).
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Il “flusso” come rappresentazione della coscienza
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zione dell’Anima Mundi neoplatonica con il moderno principio della diversificazione evolutiva (quanto fosse stato importante Spencer per la formazione del pensiero bergsoniano non c’è bisogno di ricordarlo). Se il motore del movimento è nello spirito, se la memoria, con il suo modo di essere in quanto produttiva di immagini, non è una funzione cerebrale ed è distinta essenzialmente dalla percezione, allora lo stato virtuale del ricordo puro (ovvero l’immagine) si configura come ontologicamente più significativo della percezione attuale e della cosa materiale (del corpo) con cui sta in rapporto. Oltre la bidirezionalità tra spirito e materia, tra percezione e ricordo, tra vertice e basi del flusso conoidale c’è, però, un senso del movimento che conduce Bergson ad affermare (nel saggio del 1920 su Le possible et le réel)16 che è il reale che diventa possibile – e non viceversa. Solo in virtù di questa premessa, potremmo dire, la durata acquisisce la forza dello slancio. L’identità del soggetto bergsoniano della coscienza – l’identità dell’Io – sta allora, come osserva Hyppolite,17 proprio nello slancio: in quello slancio che esprime, insomma, la vitalità creatrice della memoria stessa (il suo carattere di coesione-connessione virtuale, intrinsecamente fluida e dinamica). La modalità auto-conoscitiva della coscienza consiste, perciò, nell’intuizione piuttosto che nella riflessione. E dunque non in un ripiegarsi verso un’immagine atemporale di Sé (del Sé), bensì in una tensione a coglierlo (a cogliersi) sempre di nuovo nella sua (nella propria) costitutiva libertà. L’intuizione, si potrebbe dire, significa per Bergson l’ascolto-afferramento dell’unità universale del flusso come unità melodica. Nella valenza ontologico-evolutiva che acquisisce la nozione di durée in quanto coesistenza virtuale, il modello bergsoniano di flusso assume – in una maniera assai più radicale di quanto non accada in James – il senso di una meta-rappresentazione come messa in scena della coscienza capace di generare in sé il proprio contenuto. La tensione peculiare del modello bergsoniano appare, in conclusione, quella di superare la virtuale opposizione tra i due sensi della rappresentazione a favore del tenore originariamente creativo dell’attività
16 17
Cfr. H. Bergson, Le possible et le réel in Id., La pensée et le mouvant, Œuvres, PUF, Paris 1970, pp. 1331–1345 (ne esiste una tr. it. di M. Protti in «aut aut», n. 204, nov.-dic. 1984, pp. 3–26). Cfr. J. Hyppolite, Aspects divers de la Mémoire chez Bergson (1949) in Id., Figures de la pensée philosophique, PUF, Paris 1971, pp. 468–488 (tr. it. di F. Sossi in «aut aut», n. 204, nov.-dic. 1984, pp. 27–41).
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La misura del sentire
contemplativa dell’intuizione.18 Se la “durata implica dunque coscienza”,19 l’unità di essa si dà unicamente nel cogliersi intuitivo che unifica sempre di nuovo memoria e slancio.
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Husserl: il “flusso originario” e l’eremologia della coscienza Veniamo ora al nostro ultimo modello, quello husserliano. Il problema del flusso sorge, per Husserl, nel momento in cui la sua indagine eideticofenomenologica si concentra sulla temporalità intima alla coscienza. Quasi superfluo precisare a questo proposito che il terreno della rappresentazione è quello inteso come contenuto della coscienza. È il soggetto della coscienza pura che qui si indaga, cercando di cogliere il modo stesso del suo interno costituirsi come coscienza. Anche in tal caso l’internità non è da intendersi assolutamente. Il punto di partenza dell’analisi husserliana è offerto a tale riguardo dall’originarietà della sensazione. Dalla puntuale novitas della sensazione, dal suo carattere di urto si origina l’apparire del singolo flusso di coscienza. Tale flusso si presenta, quindi, come formato dalla continuità con il deflusso di sensazioni originarie anteriori e con le ritenzioni delle successive modificazioni originate dal punto-ora della sensazione attuale. Ciò non vuol certo dire che il flusso, quanto alla sua struttura, dipenda dalla sensazione. Ciò che lo costituisce è piuttosto quella che Husserl chiama la “doppia intenzionalità della ritenzione” ossia la virtù della coscienza sia di ritenere come ricordo l’insieme delle modificazioni vissute sia di collegarle tra di loro in un pre-insieme, ritenendo così in un certo senso l’insieme delle ritenzioni temporali. Come ha ben visto Blumenberg,20 la nozione duplice di ritenzione gioca un ruolo decisivo nell’idea husserliana di coscienza e nella possibilità stessa della fenomeno18 19
20
Non considerando la profonda differenza tra la nozione di rappresentazione e quella di intuizione, si potrebbe anche sostenere una certa qual consonanza tra la prospettiva di Bergson e quella di Leibniz. H. Bergson, Durée et simultanéité (à propos de la théorie d’Einstein) (1922), tr. it. a cura di Paolo Taroni, Pitagora Editrice, Bologna 1997, p. 43; sul tema del rapporto tra Bergson e la fisica moderna si veda almeno M. Čapek, Bergson and Modern Physics, D. Reidel Publishing Co., Dordrecht 1971; su Bergson e il moderno pensiero scientifico in generale si veda, invece, A.C. Papanicolau, P.A.Y. Gunter (a cura di), Bergson and modern thought. Towards a unified science, Harwood Academic Publishers, Chur London Paris New York Melbourne 1987. H. Blumenberg, Tempo della vita e tempo del mondo, tr. it. B. Argenton, a cura di G. Carchia, il Mulino, Bologna 1996 e passim.
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Il “flusso” come rappresentazione della coscienza
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logia come analisi eidetica dei vissuti (o datità della coscienza). La possibilità della riflessione, della rammemorazione e – in una certa misura – dell’attenzione stessa scaturiscono da qui. Non è possibile a questo punto scandagliare ulteriormente il tema husserliano del rapporto tra intenzionalità e ritenzione. Il compito richiederebbe troppo tempo e ci allontanerebbe dai limiti imposti al nostro saggio. Merita semmai soffermarsi su quello che ad Husserl si presenta come una questione ulteriore. Com’è possibile che dalla molteplicità di serie di flussi (ritenzionali) originate da una irriducibile molteplicità di sensazioni scaturisca l’unità della coscienza e, dunque, del flusso temporale unitario che distingue la sua assoluta soggettività? La risposta di Husserl mira ad individuare nella temporalità del flusso stesso il costituirsi della sua unità.21 Il flusso della coscienza si auto-costituisce: costituisce la sua unità auto-manifestandosi. Ma per questo lo strato di ogni flussione in quanto contenuto della coscienza deve poter coincidere con la sua stessa forma, che è appunto quella di un flusso originario assoluto ed auto-costituentesi. È a questo punto che per Husserl si chiarisce drammaticamente come la datità assoluta della cogitatio non significa “cogito, sum” e non significa neppure “esistenza del cosiddetto fenomeno psichico nel senso della psicologia”. Qui le immagini e i nomi vengono meno. Come al Mosé di Schönberg, ad Husserl a questo proposito manca la parola. Nella essenziale solitudine dell’auto-costituirsi del flusso come emergenza dell’identità tra soggettività e coscienza pura la fenomenologia non trapassa, però, in monologia bensì in eremologia. Qui il pensiero si mostra irrimediabilmente solo, eremos: solo, ma anche intimamente mancante, quasi assente da sé. Il carattere intimamente difettivo della “soggettività assoluta” della fenomenologia non riguarda unicamente quella sua carenza di mondo sulla quale ha insistito giustamente Blumenberg,22 ma coinvolge pure l’evidenza del suo carattere originario e, con essa, la sua stessa legittimità. A questa altezza 21 22
Cfr. E. Husserl, Per la fenomenologia della coscienza interna del tempo, a cura di R. Boehm, ed. it. a cura di A. Marini, Franco Angeli, Milano 1981, § 39, pp. 106-109. “Anche la soggettività assoluta (che Husserl ha scoperto attraverso l’unità dell’Io penso, che è un’evidenza assoluta) resterebbe bloccata in una specie di «immaturità», se non fosse capace di obiettivazione: il pensiero che pensa se stesso, quest’egotista autarchico sarà anche stato, a partire da Aristotele, il dio della filosofia – quello della fenomenologia non poteva più restarlo. Proprio in quanto assoluta, la soggettività assoluta non è sufficiente a se stessa; essa richiede con stringente evidenza un mondo che può procurarsi e portare all’oggettività solo attraverso la soggettività trascendentale.” H. Blumenberg, Tempo della vita e tempo del mondo, cit., p. 339.
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problematica, dove la metafora della “vita” come “corrente” cede il passo alla metafora assoluta della “fondazione originaria”,23 il passo scettico del dubbio appare irrinunciabile. La figura che lo manifesta è appunto quella di un “flusso originario” che trascende ogni flusso determinato. Proprio con questo passo l’immagine è spinta al limite dell’immaginabilità. Ma ciò ha delle notevoli conseguenze sulla possibilità stessa di chiudere la coscienza nella sfera della rappresentazione. Un Flusso assoluto, l’Urfluß al quale il pensiero riconduce ogni flussione, si mostra infatti pensabile unicamente come un paradossale flusso senza sponde, rispetto al quale non è affatto ipotizzabile un pur spettrale spettatore che lo consideri dalla riva. L’originarietà del flusso e quindi la sua assolutezza costringe a pensarlo come una “auto-manifestazione”: spontaneità pura che non sopporta l’ipotesi di un secondo flusso. Ma come si rappresenta la coscienza nei confronti di questa originarietà? L’ipotesi di una coscienza ultima – osserva Husserl in una drammatica pagina delle Lezioni – che regni al disopra di ogni coscienza del flusso, dovrebbe necessariamente configurarla come una pura contraddizione, più che come un paradosso e dunque come “una coscienza inconscia”: ein unbewusstes Bewusstsein. Riguardo al problema della coscienza (e della possibilità di pensarla) con quest’ultima espressione ad essere sfiorato non è, però, solo il limite della rappresentazione, ma quello del suo stesso concetto.
Oltre la rappresentazione Come uscire dall’impasse cui conduce il modello husserliano del flusso di coscienza – un modello senza dubbio capace di mettere a nudo le aporie implicite negli altri due modelli – non può essere svolto qui. Osserviamo solo come una via d’uscita perfettamente critica non possa fare a meno di partire da una teoria dell’intelletto come principio della coscienza.24 Un ottimo spunto in questa direzione è offerto dalla considerazione del passaggio tra il § 15 e il § 16 della Critica della ragion pura (quello dedicato 23
24
Cfr. ivi pp. 349-414. All’origine di questo esito in cui termina la ricerca di Blumenberg intorno alla nozione di “mondo della vita” in Husserl, vi è un’osservazione contenuta in una nota del primo capitolo (cfr. ivi, p. 24, nota 5): “il collegamento, sempre più insistente della «vita» con la metafora della «corrente» favorisce l’apertura del concetto in «idea» ed è appunto questa apertura a spingere il platonismo husserliano della coscienza pura verso le aporie della «fondazione originaria»”. Cfr. per questo F. Desideri, L’ascolto della coscienza, cit., pp. 211-247.
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Il “flusso” come rappresentazione della coscienza
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all’Io penso e alla sintesi originaria dell’appercezione trascendentale). In questo passaggio Kant osserva che se da una parte l’intelletto deve esser pensato come sintesi, come facoltà dell’unificazione secondo la sua struttura categoriale, d’altra parte la sua unità (l’unità dell’intelletto) non può venire intesa come risultato di una qualsiasi unificazione: come prodotto della propria originaria attività sintetica. L’unità deve quindi esser presupposta e, perciò, non può essere pensata nemmeno come una delle categorie (ossia come la prima categoria della Quantità). L’unità dell’intelletto, osserva Kant, è piuttosto da pensarsi come qualitativa e, sotto questo riguardo, assomiglia a quell’unità di elementi eterogenei della quale abbiamo esperienza quando comprendiamo il senso unitario di un dramma o di una melodia. L’appercezione originaria in cui dinamicamente si manifesta l’unità dell’intelletto potrebbe così anche venire tradotta come un comprendersi che ha la forma dell’ascolto. Così si sfiora inevitabilmente la questione dell’alterità intima alla possibilità stessa della coscienza. Ma qui, appunto, comincia veramente un altro discorso che, interrogando il problema del principio meta-fenomenologico della coscienza, palesa il limite dell’immagine del flusso come sua rappresentazione. Merito del modello husserliano è stato proprio quello di costringere tale l’immagine verso l’aporia della negatività del concetto evocato dalla sua intuizione. La figura dello spettatore e quella dell’attore (presupposti nei due sensi del flusso come rappresentazione della coscienza) sono spinti entrambi verso la soglia critica del confine tra attività e passività: su questa soglia si gioca il problema della autocostituzione della coscienza a partire dal suo principio.
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II EMPATIA E DISTANZA. UN FRAMMENTO Et animus meus animal est et ego animal sum, duo tamen non sumus Seneca, Lettere a Lucilio, XIX.113.5
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Empathès psychè Come sottrarsi alla retorica che connota oggi il discorso sull’empatia? Anzitutto ricordando che la discussione intorno al problema significato con tale termine è relativamente recente (se per recente si possono intendere circa 130-140 anni). Si potrebbe anche sostenere non troppo scherzosamente che l’empatia è tutto sommato un’invenzione moderna, nella quale non può essere trascurato il ruolo decisivo che vi svolge la traduzione del termine tedesco Einfühlung. Da Einfühlung (il cui primo uso è fatto risalire ad Herder) ad empathy (ad opera di Edward Titchener, un allievo inglese di Wilhelm Wundt) fino all’italiano empatia. I dizionari a questo punto riconducono il lemma alla sua origine greca: empatia non sarebbe altro che il calco di empatheia. Mai come in questo caso, però, la somiglianza fonetica cela un abisso semantico. La genealogia concettuale qui è del tutto estrinseca. Nell’accezione moderna e contemporanea l’en-patia, l’Ein-fühlung, indica generalmente un atto di partecipazione emotiva e d’immedesimante comprensione nei confronti di un altro soggetto umano. Tale atto è definibile come un moto psichico ‘da…verso’: dalla madre verso il figlio, dall’amante verso l’amato, da me, un me senza nome eppure incarnato, verso un altro Io altrettanto anomimo. Talvolta questo moto unidirezionale in direzione dell’altro si converte addirittura in una simmetria d’affetti: in un circolo simpatetico. Questa conversione non è per niente necessaria. Il paradigma dell’esperienza empatica resta il caso estremo dove non è possibile reciprocità alcuna: il caso del ‘sentire in’ e, dunque, del co-sentire la sofferenza dell’estraneo, che non vuole o non può corrispondermi. Nel senso greco dell’empatheia, un termine che si afferma sporadicamente solo in epoca tardo-ellenistica (prima abbiamo solo aggettivi e sostantivazioni aggettivali a partire dalla radice composta en-path*), il movimento risulta opposto a quello implicato nel significato attuale; è un
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La misura del sentire
movimento dall’esterno dell’anima verso il suo interno. Per questo la particella “en”, qui, non sta in riferimento dinamico ad un altro Sé, non ha un senso proiettivo o fusionale nei confronti dell’anima altrui; significa piuttosto un rafforzativo della dimensione patetica che caratterizza la sensibilità psichica.1 L’altro che irrompe è l’altro rispetto all’anima; è un altro non psichico al cui contatto l’anima viene alterata. Così to empathès può venire usato da Plutarco, in un endiadi con l’alogon platonico,2 per indicare l’anima passionale e irrazionale che i Pitagorici incantavano e curavano con il suono della lira. Il tema è ripreso da Plotino in un passo del nono trattato della V Enneade:3 l’ “empathès psychè” l’anima empatica, è la psiche soggetta al patire. Qui Plotino, insieme a quello del platonismo, ricorda forse anche il senso galenico dell’empatheia: quello dell’essere affetti: dell’affezione della carne, ad esempio.4 In quanto essenzialmente suscettibile di affetti, l’anima patisce il mutamento: è passiva. Se a questo si riducesse la vita dell’anima, ad un’intrinseca passività: ad un continuo patire l’altro con cui viene in contatto, questa vita sarebbe tutta e solo patologica. Nella patologia che la segna, l’anima troverebbe il motivo della sua mortalità. È per questo, continua Plotino, che non bisogna porre l’anima come termine primo. C’è qualcosa di “diverso” e di “migliore” da cui iniziare, qualcosa che l’anima non genera al culmine di una maturazione; qualcosa che deve presupporre come principio: come primo per natura, anche rispetto a se stessa. Privata di questo principio, senza l’intelligenza del nous, l’anima non consisterebbe in sé: movimento e passione coinciderebbero. L’anima sarebbe solo tempo, forma del puro patire. Perciò, pur nell’empatia che la caratterizza, bisogna pensare nell’anima “ti apathès”, qualcosa di impassibile, che necessariamente la precede nel suo essere. Senza questa differenza tra anima e nous, l’anima non sarebbe nemmeno se stessa. Volgendosi all’intelletto essa scopre il principio della propria unità: il suo vero Sé. Questo volgersi significa anzitutto distacco: distacco dal Sé esteriore, dalla vita patetica dell’anima, dalla dimensione in cui essa è pura sensibilità e, dunque, dispersa nell’apparenza, anche in quella degli affetti. Ciò ha delle conseguenze nei confronti dell’atteggiamento da assumere verso
1 2 3 4
Cfr. in proposito le osservazioni di M.F. Basch, Empathic Understanding: a Review of the Concept and some Theoretical Considerations in “Journal of the American Psychoanalytic Association”, 31, 1983, pp. 101-26. Cfr. Plutarco, De Iside et Osiride, 384, a 4. Cfr. Plotino, Enneadi, V, 9, 4. Cfr. Galeno, In Hippocratis librum de articulis, I, 18a, 447, 16.
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Empatia e distanza. Un frammento
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il sé esteriore degli altri, ad esempio nel caso del loro soffrire. Pure in questo caso s’impone un distacco che non coincide con l’indifferenza stoica. È piuttosto un prendersi cura dell’inferiore (la vita sensibile) da parte del superiore; un prendersi cura indicando la via della spoliazione da ogni apparenza fenomenica del Sé, anche quella relativa all’interiorità patetica. La via verso l’interno indicata da Plotino non trascura, però, la dimensione emotiva. Ne auspica piuttosto una conversione in quella dell’intelletto. Tale conversione può avvenire nella maniera più evidente nell’esperienza estetica del bello. Qui si tratta di risalire dal bello sensibile al bello intelligibile, cogliendo l’affinità tra l’intimo non patetico dell’anima e la pura bellezza della forma ideale, che risplende fenomenicamente. In questo movimento, la verità dell’empatia mostra in generale di consistere nell’accogliere l’alterità dell’intelletto rispetto al suo mero patire. Accoglierlo, riconoscendolo come il principio della sua vera attualità: come il principio del Sé dell’anima. Nel riconoscimento della principiale precedenza dell’intelletto, l’anima si conosce e conoscendosi scopre quella sua essenziale attività, che precede e trascende ogni empatica passività. Chiaro è qui il riferimento di Plotino, nella polemica con gli Stoici quanto alla possibilità di intendere geneticamente l’intelletto, alla dottrina aristotelica dell’intelletto attivo. Notevole è, invece, la distanza rispetto alla dottrina dell’anima dello Stagirita. Già nella vita dell’aisthesis, che contraddistingue la natura genericamente animale, Aristotele coglie un principio autonomo di attività. Il punto di partenza è analogo a quello plotiniano: l’aisthesis significa anzitutto un subire, un paschein, l’essere soggetti ad un’alterazione nel contatto con altro. Ma in ciò non si esaurisce la sua vitalità: nell’alterazione qualcosa si conserva. La vita estetica dell’animale non si riduce quindi a patologia. Ogni sentire, che accoglie il sentito modificandosi, è anche un’attività: un atto simile a quello dell’intelletto, seppur nel modo dell’imperfezione. In quest’attività del sentire, un ruolo decisivo è giocato per Aristotele dall’immaginazione. Senza immaginazione, l’anima dell’animale genericamente inteso non solo non potrebbe accogliere il sentito (nel senso, appunto, in cui la vista accoglie il colore), ma non potrebbe nemmeno muoversi, scegliendo di fuggire da un pericolo o di avventarsi su una preda. All’immaginazione va dunque ascritto il ruolo di conservare il sentito oltre la sua presenza: come immagine. L’immagine di ciò che ha affetto, alterato l’anima può continuare insomma ad agire. Così, ad esempio, Aristotele spiega i sogni. Qui l’immaginazione dilata, modifica e trasforma la traccia originaria dell’affezione sensibile. Ed è appunto in questo contesto tematico, quello della vita onirica dell’anima, che Aristotele accenna all’empatico
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La misura del sentire
come a colui che più di ogni altro subisce questo lavoro dell’immaginazione, trasformando e confondendo le tracce sensibili, gli oggetti della percezione, in immagini affettive sia positive sia negative. Così basta una piccola e lontana somiglianza perché il vigliacco veda i nemici o l’amante veda l’amata. Proprio l’empatico, il più disposto a subire gli influssi della passione, lasciandosi ingannare dall’immaginazione attesta, allora, che in noi la parte “dirigente” e quella immaginante non sono un’unica facoltà.5 Questo non toglie alla sensibilità, e dunque all’immaginazione, la loro autonomia, ma le dispone in un ordine gerarchico, dove la funzione di governo spetta al nous. L’identità dell’anima umana, dell’animale che ha il logos (pensiero e linguaggio in uno), deve partire da qui: dal problema di unificare armonicamente sensibilità e intelletto. Pur con due differenti teorie dell’anima Aristotele e Plotino concordano, comunque, nell’assegnare l’empatia ad una dimensione inferiore della vita psichica. Si potrebbe obiettare che con la definizione della tragedia come imitazione d’azioni capaci di suscitare il timore e la pietà Aristotele formula in nuce una teoria dell’empatia. Ma sarebbe un fraintendimento. Al di là della questione se Aristotele intenda la catarsi come un’eliminazione o una purificazione di affetti quali la pietà o il timore, essa ha luogo in un processo psichico nel quale piacere e conoscenza si congiungono. È vero che questa congiunzione si dà all’interno di uno spazio emotivo, ma nello stesso tempo questo spazio va inteso nella distanza da ogni immediatezza psicologistica. Non solo perché l’anima della tragedia è l’intreccio dell’agire (il mythos) e non i caratteri degli agenti (il che rende del tutto secondaria ogni identificazione entropatica con questi ultimi), ma soprattutto per il motivo che, in virtù della drammatizzazione mimetica di azioni umane, le passioni suscitate nello spettatore e nel lettore sono messe a distanza ed in questa messa a distanza sono trasformate. Quello che ne risulta è, alla fine, una libera contemplazione intellettuale di possibilità etiche. Potendosi così sostenere che per Aristotele il valore cognitivo delle emozioni lo si consegue solo prendendo distanza dall’empatia nel senso attuale. Anche in questo caso, come in quello di Plotino, la dimensione intrinsecamente passiva del pathos vale solo nella misura in cui è penetrata dall’attività dell’intelligenza. Quest’ultima è l’altro, to eteron (per Aristotele, qualcosa di “separato” che sopraggiunge all’anima “da fuori”; per Plotino, il principio che precede l’essere dell’anima stessa), rispetto a cui sta problematicamente quella dimensione della psiche che potremmo riassumere con il nome di empatheia. 5
Cfr. Aristotele, Dei sogni, 460b, 1-16.
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Empatia e distanza. Un frammento
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Einfühlung Massima è dunque la distanza di questo senso dell’empatia dalla moderna Einfühlung. Un’esperienza psico-estetica tutta sotto il segno della passività e tendenzialmente patologica si è trasformata in un atteggiamento intenzionale estetico-psichico: nella disposizione a comprendere l’altro per una via intra-emozionale. L’empatia è così venuta a significare, ben al di là dell’ambito delle discussioni specialistiche tra filosofi e psicologi, un modello di rapporto umano: la possibilità di una comprensione affettiva necessaria a certi tipi di rapporti sociali, ad esempio quelli tra il medico o l’analista con i loro pazienti. Se nel primo caso, quello della relazione medicale, l’empatia indicherebbe genericamente l’esigenza di un’umanizzazione del rapporto con il paziente reagendo all’eccessiva settorializzazione specialistica nel trattamento della malattia, nel secondo (quello della relazione analitica) la questione è più complessa. In ambito psicoanalitico si vede nell’empatia una condizione necessaria alla possibilità di comprendere la psiche altrui. Solo nella partecipazione emotiva che consiste nel rivivere dall’interno il vissuto del paziente, l’analista giungerebbe a quell’effettiva comprensione che è indispensabile al trattamento terapeutico. Secondo alcune scuole psicoanalitiche (ad esempio quelle d’ascendenza kohutiana), la relazione empatica analista-paziente non preparerebbe semplicemente alla cura, ma addirittura la sostituirebbe. A parte quest’ultimo caso, c’è comunque da sottolineare che così sono date per ovvie tutta una serie di questioni che ovvie non sono. La prima, e l’unica cui qui accennerò, è quella del mito dell’accesso privilegiato alla propria esperienza interna. Un mito che si alimenta spesso della confusione tra la dimensione noumenale della coscienza e quella fenomenicamente emotiva e che trascura proprio la differenza, necessaria alla definizione di Sé, tra la paticità dell’anima e il carattere principiale dell’intelletto. A ben vedere, è proprio sul mito di un’identità del Sé psichico con la dimensione estetico-emozionale che poggia assai fragilmente ogni teoria forte della possibilità di una relazione empatica come immedesimazione nel sentire dell’altro. Appunto in quanto ho comprensione diretta e immediata certezza solo del mio stato interno, dei miei sentimenti, quelli altrui posso comprenderli nella misura in cui li sento dall’interno e, dunque, li rivivo. Non c’è bisogno, a questo punto, di mettere in attrito questo paradigma con una teoria dell’identità psichica che faccia perno sulla differenza tra coscienza estetica e coscienza intellettuale. Esso trascura comunque la natura mimetico-proiettiva che agli occhi del primo teorico dell’Einfühlung,
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La misura del sentire
Theodor Lipps, configurava la prestazione empatica. Sulla scia di Robert Vischer e di Volkelt, Lipps intendeva l’Einfühlung come impulso a trasferire nell’oggetto, in particolare in quello artistico, le proprie emozioni. Per questo, nell’orizzonte lippsiano la tematizzazione dell’Einfühlung conduce anzitutto ad una teoria dell’esperienza estetico-artistica tutta interna alla soggettività egoica per dilatarsi, in seguito, in modello della comprensione interpsichica. Il passaggio da una teoria estetico-psicologica ad una teoria generale della modalità comprendente propria delle scienze dello spirito avviene con Dilthey. Qui l’Einfühlung denota la penetrazione del contenuto psichico di un altro soggetto: è, dunque, un ritrovarsi dell’Io nel Tu. Che Dilthey sviluppasse una teoria dell’Einfühlung soprattutto in rapporto ad una comprensione del passato umano e, più in generale, della cultura come oggettivazione dello spirito, qui per noi non è decisivo. Quel che c’interessa, è che tale comprensione si legittimava, agli occhi di Dilthey, a livello di rapporto tra contenuti psichici immersi nel flusso della vita coscienziale. Einfühlung significava, insomma, l’accesso all’Erlebnis, al vissuto di un altro soggetto, e diveniva un rivivere quel vissuto: un Nacherleben. Tra i contemporanei di Dilthey solo Georg Simmel, tra coloro che vengono solitamente ascritti all’orizzonte della Lebensphilosophie, mostra una certa diffidenza verso la facilità di questo passaggio. Già in Simmel, ad esempio nei problemi inerenti alla comprensione storica, la questione dell’Einfühlung quale fusione inter-psichica è epistemologicamente complicata e problematizzata non solo dalla distinzione tra Leben, Mehr Leben e Mehr-Als-Leben (una distinzione necessaria a definire la specificità dell’oggettivazione culturale), ma anche dall’abisso che separa l’io dal non-io. Quella che in Simmel appare come una problematizzazione epistemologica, con Husserl acquisisce una dimensione rigorosamente trascendentale. Ciononostante Husserl accetta il timbro semantico conferito all’Einfühlung nella tradizione che da Lipps giunge a Dilthey. Per quest’aspetto, Husserl parla ancora il linguaggio dell’epoca della sua formazione (intenso è il suo confronto con Lipps), ma lo parla spingendolo ad una crisi radicale. Pur mantenendo all’empatia il carattere di una prestazione psichica inerente all’intenzionalità della coscienza, Husserl la sottrae all’oscillazione tra proiezione mimetico-estetica e fusione psico-spirituale. Così la tematizzazione dell’Einfühlung non ha più per lui la funzione di coprire o di risolvere le aporie inerenti al rapporto con l’alterità, bensì quella di farle emergere in tutta la loro asprezza filosofica. Con tali aporie, al cui centro sta il problema di pensare fino in fondo il rapporto tra Einfühlung e al-
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Empatia e distanza. Un frammento
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terità, Husserl non lotta soltanto nella Logica formale e trascendentale e nelle Meditazioni cartesiane. Questo problema attraversa, com’è noto, i volumi XIII, XIV e XV degli Husserliana intitolati Zur Phänomenologie der Intersubjektivität e riguardanti un arco temporale che dal 1905 giunge fino al 1935 (dunque ben oltre la soluzione offerta nella quinta Meditazione cartesiana).
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Dell’estraneo Se quanto prima osservato vale ad attestare l’insoddisfazione di Husserl circa la soluzione tentata nella quinta Meditazione, è comunque da qui che bisogna partire, in quanto rappresenta comunque lo sviluppo più coerente del problema che ci interessa. Al suo centro vi è la questione di pensare fenomenologicamente la questione dell’altro all’interno della coscienza pura, nella forma cioè dell’ego “trascendentalmente ridotto”. L’assolutezza di quest’ultimo coincide necessariamente con la struttura monologica del solus ipse? Come evitare che la riduzione fenomenologica abbia come esito il solipsismo? È nella necessità di rispondere a questa sfida che entra in scena l’Einfühlung: nella “cosiddetta empatia” c’è il tema, decisivo e drammatico, della “teoria trascendentale dell’esperienza dell’estraneo”. L’estraneo cui pensa Husserl è l’alter ego; non ancora l’altro uomo, l’autrui lévinasiano che si presenta con un volto, ma l’altra coscienza, l’altra intenzionalità. Ebbene, a questa alterità non c’è, a livello della coscienza pura, alcun passaggio immediato: “se il caso fosse questo, se cioè il proprio essenziale dell’altro si potesse attingere in maniera immediata e diretta, egli allora non sarebbe che un momento della mia propria essenza e in conclusione egli stesso e io saremmo un’unica cosa”.6 Si tratta, perciò, di approfondire la sfera originale dell’ego, quella che costituisce il suo proprio, lasciando emergere la complessità di sintesi in essa implicate. Vale ancora la necessità di astrarre da tutti i riferimenti ad una “intenzionalità riferita mediatamente o immediatamente alla soggettività estranea”.7 In tale astrazione, essenziale per a definire la sfera originaria del proprio, “io rimango solo”. Questa solitudine, però, non è acosmicamente perfetta.
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E. Husserl, Meditazioni cartesiane con l’aggiunta dei Discorsi Parigini, a cura di F. Costa, Bompiani, Milano 1989, p. 129. Ivi, p. 116.
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La misura del sentire
Saltando tutta una serie di passaggi assai sofisticati, si può affermare sinteticamente che la struttura monadica dell’Io non è senza finestre;8 è caratterizzata da un’apertura estetica, da una originaria relazione percettiva con il mondo, che non può venire espunta dall’esperienza costitutiva della soggettività cosciente. Rimane, dunque, nella sfera del proprio uno strato del mondo “unitario e coerente”, dove l’oggettività, come correlato dell’intenzionalità della coscienza, è irriducibile. Qui, nella trama fisica del mondo oggettivo, l’ego trova il proprio corpo come qualcosa di trascendente la pura oggettività fisica: è il “mio corpo” (Leib – corpo organico – piuttosto che mero Körper), quello in cui “io direttamente governo e impero” e, nello stesso tempo, quello a cui ascrivo ogni mia esperienza estetica percettiva. In virtù di questa apertura, di questa inclusione del mondo oggettivo nella sfera originale dell’ego, esso s’incarna spazio-temporalmente e solo così può essere pensato come soggetto di “vissuti”. Il flusso degli Erlebnisse suppone, insomma, una circolarità tra l’ego trascendentale della coscienza pura e l’uomo-io (l’io psicofisico); quella circolarità che inscrive un’autoappercezione mondanizzante nella coscienza eidetica. Solo a questo punto è possibile il passaggio all’altro, ma – come si sa già – non è un passaggio diretto. È un passaggio che muove dalla percezione di un corpo irriducibile a pura fisicità, nel quale appercepisco una relazione analoga a quella che vige tra me e il mio corpo. Trascendentalmente, l’esperienza dell’estraneo ha, allora, il carattere di una “appercezione analogica”. Qui diviene decisiva l’esperienza dell’Einfühlung. In proposito Husserl condivide la critica di Lipps ad una analogia per inferenza relativamente al sentire dell’altro. Ciò nondimeno tiene fermo il carattere indiretto di questa relazione. L’appercezione analogica può quindi essere tradotta con “appresentazione”, un termine che per Husserl indica il rendere com-presente qualcosa di assente. L’Erlebnis dell’Einfühlung – come Husserl osserva in una pagina precedente di qualche anno alla stesura delle Meditazioni – significa vivere in un presente, ma nel modo di un Quasi-Leben, di un quasi vivere: l’Io, trasponendosi nel vissuto dell’altro, è “per così dire” vivente in lui.9 Nella forma di questo “quasi” – di questo quam si: come se – l’io viene comunque modificato, affetto. Bisogna perciò distinguere l’appresentazione dalla co-
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Cfr. Husserliana, E. Husserl, Gesammelte Werke, Martinus Nijhoff, Deen Haag – Dordrecht/Boston/Lancaster, XIII, Zur Phänomenologie der Intersubjektivität, I. Teil: 1905-1920, a cura di I. Kern, 1973, pp. 470-75. Cfr. ivi, p. 456.
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Empatia e distanza. Un frammento
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scienza d’immagine.10 L’Einfühlung è un’affezione nella forma della coscienza pura, un’affezione indiziaria: “il corpo che appare nella mia sfera monadica nel modo del “là” costituisce l’indizio dello stesso corpo, ma nel modo del “qui” come lo esperisce l’altro nella sua sfera monadica”.11 Si tratta certo, ancora, di una modificazione intenzionale, pertinente alla coscienza egoica, ma in una guisa tale che l’intenzionalità è qui spinta al suo limite, essendo priva di un correlato noematico oggettivo. In un appunto del 1919 Husserl afferma che ogni appresentazione si compie originariamente come Leerintention: come intenzione vuota.12 Coerentemente con questo assunto, nell’Einfühlung come esperienza dell’alter ego la struttura intenzionale della coscienza pura è spinta alla sua soglia critica. La soglia del riconoscimento. Quel che io effettivamente vedo “non è un segno né un mero analogo, un’immagine […], ma l’altro stesso”.13 Lo vedo, però, nella presupposizione tacita (appercettiva, non logica) che via sia un altro “punto di vista”, un ‘altro’ sguardo intenzionale della coscienza, altrettanto originario ed accessibile a me solo in maniera derivata. Attraverso questa soglia, la riflessione husserliana ha per esito la costituzione a priori di un’intersoggettività trascendentale: un’originaria interrelazione tra ego incarnati, tra monadi, che costituisce l’oggettività del mondo. Il pathos condiviso da questa comunità intermonadica è un pathos riflesso. È il pathos, interno ad ogni ego, da cui sorge trascendentalmente l’appresentazione dell’altro. È il pathos che suppone ancora il punto di vista ultimo della coscienza costituente di un ego assoluto, per il quale l’originalità dell’altro resta “irraggiungibile”.14 Ciò che è raggiunto, nel senso di una conferma dell’appresentazione, è soltanto il “comportamento esteriore”, l’espressione come indizio di contenuti psichici. Questo significa che la soglia del riconoscimento non si traduce in un’originaria reciprocità di sguardi. Originaria è la coimplicazione di corpi, che fa parlare ad Husserl di “corpo intersoggettivo”, dove però il soggetto dominante è quello di un ego “uno e unico”. Un ego assoluto che costituisce in sé l’Io stesso e l’altro Io, la propria e l’altra vita.15 10 11 12 13 14 15
Cfr. le osservazioni contenute in un appunto del gennaio-febbraio 1927 e siglate con “Importante riflessione!” in Husserliana, cit., XIV, Zur Phänomenologie der Intersubjektivität, II. Teil: 1921-1928, a cura di I. Kern, 1973, p. 486-87. E. Husserl, Meditazioni cartesiane, cit., p. 137. Husserliana, cit., XIII, p. 225. E. Husserl, Meditazioni cartesiane, cit., p. 143. Ivi, p. 134. Cfr. Husserliana, cit., XV, Zur Phänomenologie der Intersubjektivität, III. Teil: 1929-1935, a cura di I. Kern, 1973, p. 640.
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La misura del sentire
A ben vedere Husserl fa risuonare più d’ogni altro nell’analisi dell’esperienza dell’Einfühlung il timbro semantico dell’antica empatheia. Il “sentire in” è un “sentire dentro (l’altro)” solo nel modo del “come se”. La sua effettività è piuttosto quella di una traccia interna alla soggettività egoica: una modificazione nella coscienza che conduce l’intenzionalità ad una soglia critica, quella del rapporto tra attività e passività.16 Assimilando l’appresentazione in cui consiste l’Einfühlung ad una intenzione dell’attesa (nel suo senso più ampio)17 – e dunque ad una delle modalità dell’esperienza analizzate nelle Lezioni sulla sintesi passiva – Husserl indica che questo è il vero problema. Su questo punto la sua analisi non può che resistere. L’Einfühlung riferita ad animali, bambini e folli è esperienza di un’alterità anomala, seppur di un’anomalia che tuttavia appartiene al mondo normale.18 Da queste anomalie non è permesso di risalire a monadi egologiche nel senso fenomenologicamente costitutivo del termine. Solo intendendo in un senso più radicale l’alterità che commuove e origina l’esperienza empatica, il confine tra anomalia e norma può venire ridisegnato. Non certo a favore di una tesi che colloca l’empatia prima di ogni coscienza e qualifica il suo sentire come un sentire inconscio. Giustamente Sini sostiene che l’empatia segna l’inizio di ogni comprensione.19 Ciò la sottrae, però, non solo alla sfera dell’eccezionale, ma anche a quella dell’intenzionale. L’inizio che essa indica è quello dell’istituirsi di un rapporto tra coscienza e senso che non coincide con la sfera dell’intenzionalità. In questo rapporto la dimensione “estetica” della coscienza si mostra irriducibile a quella intellettuale.20 Ciò non significa identificare coscienza e sentire. La fragile unità della coscienza implica, piuttosto, il problema dell’unificazione di questi due livelli strutturali. Proprio in questo caso si tratta, perciò, di pensare l’unificazione nel senso dell’originarietà di 16
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Su questo tema si veda il saggio di Thomas M. Seebohm, Intentionalität und passive Synthesis. Gedanken zu einer nichttranszendentalen Konzeption von Intentionalität in H.M. Gerlach, Hans Rainer Sepp (a cura di), Husserl in Halle. Spurensuche im Anfang der Phänomenologie, Peter Lang, Frankfurt/M. 1994, pp. 63-84 e il volume di R. Kühn, Husserls Begriff der Passivität. Zur Kritik der passiven Synthesis in der Genetischen Phänomenologie, Alber Verlag, Freiburg 1998. Cfr. Husserliana, cit., XIII, p. 225. Cfr. E. Husserl, Meditazioni cartesiane, cit., pp. 144-145 e Husserliana, cit., XIV, p. 120. C. Sini, Empatia e comprensione, in “Atque”, 25/26, giugno 2002/maggio 2003, pp. 73-80. Per tutta questa tematica rimando a F. Desideri, L’ascolto della coscienza, cit. e al successivo saggio, Dell’affinità tra coscienza estetica e sapere pratico, in “Paradigmi, a. XIX, n. 57, n.s., settembre/dicembre 2001, pp. 393-415.
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Empatia e distanza. Un frammento
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una relazione. Nel costituirsi di tale relazione, l’empatia ha un ruolo decisivo solo se intesa radicalmente ovvero come un’esperienza aintenzionale in cui il sentire si spinge fino al grado zero del puro accogliere. La passività che accoglie il patire, l’essere affetti dall’affetto altrui può in conclusione sottrarsi all’alternativa tra proiezione e fusione soltanto nella misura in cui l’alterità che accoglie, precedendo ogni ego, è traccia dell’animalità dell’anima. In quest’accezione l’esperienza empatica è anche memoria di quella che Nietzsche chiama la “grande ragione del corpo”. Proprio nel timbro di questa memoria il respiro dell’empatia vive nella distanza. E allora, paradossalmente, proprio perché distante da ogni Erlebnis, dal mito che in ciò l’Io possa consistere, essa non riguarda più solo il sentire (la vita sensibile-sentimentale), ma riguarda la vitalità stessa dell’intelligenza. È empatheia dell’intelletto che accoglie il proprio principio come origine di ogni identità psichica. Nell’empatia, ormai da intendersi come un sentire il sentire, si stringe il nodo dell’alterità del senso che solo l’intelligenza può intendere, senza avere la pretesa di sciogliere.
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L’OCCHIO DELL’ANIMA. MISTICA E COSCIENZA DI SÉ
SOCRATE – E poi, abbiamo convenuto che ci si deve curare dell’anima e mirare a questo. ALCIBIADE – È chiaro. SOCRATE – Invece, la cura del corpo e delle ricchezze deve essere lasciata ad altri. ALCIBIADE – Come no? SOCRATE – In che modo, dunque, si potrebbe cogliere questa verità il più chiaramente possibile? Perché mi sembra che, comprendendola, conosceremo anche noi stessi. Forse, tuttavia, per gli dèi, non comprendiamo bene il giusto precetto di Delfi, appena ricordato? ALCIBIADE – Che cosa intendi con queste parole, o Socrate? [D] SOCRATE – Ti esporrò le mie supposizioni su quello che tale precetto vuole dire e consigliare. È, infatti, probabile che di questo non si trovino altri esempi, se non nella vista. ALCIBIADE – Che cosa intendi dire? SOCRATE – Rifletti anche tu. Se, essa, nel consigliare il nostro occhio come se fosse un uomo, dicesse: «guarda te stesso», come dovremmo intendere tale esortazione? Non sarebbe nel senso di mirare a ciò in cui l’occhio, guardando, vedrebbe se stesso? ALCIBIADE – È chiaro. SOCRATE – Ebbene, consideriamo quale sia l’oggetto, volgendoci al quale [E] possiamo vedere insieme sia lui, sia noi stessi. ALCIBIADE – È chiaro, Socrate, che si tratta degli specchi e di oggetti di tale specie. SOCRATE – Dici il vero. Ma forse, anche nell’occhio con cui vediamo, non vi è qualcosa di simile? ALCIBIADE – Senz’altro. SOCRATE – Non hai notato, allora, che il volto di chi guarda [133A] nell’occhio appare riflesso, come in uno specchio, nella parte dell’occhio di chi si trova di fronte, che chiamiamo anche pupilla, dato che è un’immagine di colui che osserva? ALCIBIADE – Ciò che dici è vero. SOCRATE – Pertanto, se un occhio ne contempla un altro e guarda dentro la sua parte migliore, con cui anche vede, può osservare se stesso? ALCIBIADE – Mi sembra di sì. SOCRATE – Se, invece, osserva un’altra parte dell’uomo o degli esseri, fatta eccezione per quella che gli è simile, non vedrà se stesso. [B] ALCIBIADE – È vero. SOCRATE – Se, dunque, l’occhio vuole vedere se stesso, deve guardare nell’occhio e in quella parte in cui nasce la forza visiva, che è la vista?
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La misura del sentire
ALCIBIADE – È così. SOCRATE – Ma allora, caro Alcibiade, anche l’anima, se vuole conoscere se stessa, deve guardare nell’anima e soprattutto in quella parte in cui sorge la virtù dell’anima, la sapienza, e in altro a cui questa assomigli? ALCIBIADE – Mi sembra di sì, Socrate. [C] SOCRATE – Possiamo, perciò, dire che vi sia una parte dell’anima più divina di quella in cui hanno sede il conoscere e il pensare? ALCIBIADE – Non è possibile. SOCRATE – Ebbene, questa parte è simile al dio, e chi la contempla e conosce tutto ciò che è divino, dio ed il pensiero, giunge a conoscere anche se stesso il più possibile. ALCIBIADE – Sembra. SOCRATE – Ma allora, come gli specchi sono più chiari di quello che si trova nel nostro occhio e più puri e luminosi, così anche il dio è più puro e luminoso della parte migliore della nostra anima? ALCIBIADE – È naturale, Socrate. SOCRATE – Perciò, guardando al dio e, tra le cose umane, alla virtù dell’anima, ci serviremo dello specchio più bello, e così potremo vedere e conoscere noi stessi il più possibile. ALCIBIADE – Sì.1
Non c’è introduzione migliore al problema d’interrogare filosoficamente il rapporto tra mistica e psicologia, di questo passo platonico tratto dall’Alcibiade I. Questo passo suona come conferma di una tesi sostenuta da Simon Weil in un saggio di assoluta chiarezza del 1940, Dio in Platone.2 Secondo questa tesi, Platone non solo va considerato come un autentico mistico, ma addirittura come il padre della mistica occidentale. Ciò, ovviamente, a condizione di considerare il mistico al di fuori di ogni patologizzazione del termine, al di fuori di ogni sua riduzione a caso o a fenomeno psicologico, e quindi al di fuori di ogni sua riduzione a stato d’animo particolare o se volete addirittura a stato celebrale, perché anche questo a volte si indaga, per vedere le sinapsi che si attivano nell’esperienza mistica. A questa sola condizione, prendendo cioè una netta distanza dall’accezione volgare del termine mistico (solitamente inteso come una pura curiosità che accade nella psiche più o meno patologicamente inclinata di qualcuno), possiamo cercare di intendere quel fondo di universalità implicito nell’esperienza che sottende. In tale esperienza si manifesta in altri termini un problema che riguarda tutti noi, semplicemente in quanto animali pensanti. Al di là di tutte le possibili differenze e delle possibili declinazioni della 1 2
Platone, Alcibiade maggiore, 131C -133D. Cfr. S. Weil, La Grecia e le intuizioni precristiane, tr. it. di M. Harwell Pieracci e C. Campo, Rusconi, Milano 1974, pp. 45-119.
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L’occhio dell’anima. Mistica e coscienza di sé
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mistica nelle religioni storiche, nei vari tipi di monoteismo che riguardano la nostra cultura e la cultura che con essa confina, quella dell’oriente, il problema che essa pone può tradursi in quello di capire non solo cosa significhi per l’uomo conoscersi, ma nello stesso tempo come questa conoscenza di sé possa coincidere per l’uomo con la capacità, la dynamis, di mantenersi uno, di tenersi salvo, integro, appunto in virtù di quel principio, di quella potenza del pensare che lo contraddistingue tra tutti i viventi. Giungere a sé, intuire il senso del Sé in cui consiste la psiche di ognuno, è il telos stesso del cammino mistico. In questo cammino, nella fenomenologia di un percorso iniziatico che sempre configura l’esperienza mistica, si può addirittura riassumere il senso di quest’ultima al di là della stessa divisione tra grande mistica speculativa (esperienza del pensiero) e umile mistica dell’affettività e del sentire. È proprio per questo che in Platone possiamo cogliere la questione mistica nel suo punto sorgivo ovvero nel suo costitutivo contatto con la questione stessa di una psico-logia: di una conoscenzadefinizione dell’anima. Attraverso la voce di Socrate Platone, nell’Alcibiade I, pone innanzitutto il problema di come possa pensarsi l’identità dell’uomo. In cosa consiste, si chiede Socrate, il proprio dell’uomo, cos’è l’uomo in se stesso dal momento che, come ogni vivente, ha cura di sé? Una volta ammesso che l’uomo è un ‘vivente’ che ha cura di sé, il nostro problema, dice Socrate ad Alcibiade, è capire cosa sia questo sé: autò t’autò. Questa diviene la domanda cruciale. E proprio a questo proposito Platone compie un gesto filosofico decisivo di incalcolabile importanza per ogni filosofia futura, e lo compie approfondendo la lezione ‘ironica’ del suo maestro, sempre che per ironia si intenda in primis la capacità di porre domande e di farle emergere come inaggirabili dalla interna vitalità del dialogo. Il gesto consiste nell’identificare nell’anima il sé dell’uomo ossia quanto definisce il suo stesso essere. In questo passaggio l’anima non appare solo come un generico principio vitale, come il soffio che muove internamente un corpo, ma come ciò in cui si raccoglie l’unità stessa del vivente e il principio del comando che governa il suo automovimento. Con questo gesto Platone unifica così quello che in Omero e in Esiodo appare ancora diviso: da un lato l’anima in quanto psychè ossia come semplice vita, come soffio vitale che permea tutto il corpo ma ha sede perlopiù nella testa, dall’altro l’anima in quanto coinvolta nella percezione, nella sensazione, nel pensiero e dunque in quanto thymòs: ciò che abita il petto localizzandosi nel diaframma o nel cuore. Quelle nozioni che noi siamo soliti definire come vita e coscienza si fondono per Platone nella nozione stessa di anima, ora concepita come una singola entità che riassume le funzioni prima divise della psychè e del
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La misura del sentire
thymòs. Conoscere il sé dell’anima e dunque la ricerca (la skepsis) di cosa sia “questo sé” si chiarisce pertanto come una auto-skepsis, come un’indagine interna al carattere di principio-comando e cioè di archè proprio della psychè. Interrogare il sé in cui l’uomo consiste diviene allora necessariamente interrogarsi, obbedire ad un comando che proviene dall’interno di quel sé che è l’anima stessa. “L’anima dunque ci ordina di conoscere colui che comanda di conoscere sé stesso”3: in base a questa affermazione possiamo tranquillamente affermare che il comando in cui Socrate riassume e traduce il motto delfico (“Conosci te stesso!”) si presenta come caratterizzato da una struttura ricorsiva; si presenta, cioè, come curvato in sé stesso ed è proprio in quest’essere curvato in sé stesso del comando del conoscersi che l’anima rischia di dividersi di nuovo. Rischia, in altri termini, di persistere senza via d’uscita, aporeticamente, in quell’intervallo che, secondo Wittgenstein, sussiste sempre tra il comando e l’esecuzione.4 A questo proposito lo stesso Wittgenstein osserva come tale intervallo, tale abisso, possa essere colmato soltanto dalla comprensione. Quest’ultimo termine può essere reso con il greco synesis che già in Omero indica quel capire che innanzitutto nasce dall’ascolto di un comando. Ed è lo stesso Platone che, nel Cratilo, spiega la synesis (traducibile sia con “comprensione” che con “coscienza”) come un procedere dell’anima insieme con la cosa stessa ossia come un sapere, un’epistéme, che non è esterno al suo oggetto, facendosi in qualche modo uno, unificandosi, con esso.5 Ma questo è proprio il caso dell’anima che cerca di conoscersi, di attingere il proprio sé. Qui l’ingiunzione a conoscere e l’oggetto della conoscenza coincidono, anzi il comando è interno alla cosa stessa e, perciò, a tale riguardo il gesto della synesis può tradursi in un procedere insieme con il proprio oggetto fino ad unificarsi, a farsi uno con esso in un senso eminente e decisivo. In un senso eminente e decisivo al punto che il sé dell’anima, la sua ipseità, non è pensabile al di fuori di questa ricerca: di questa auto-skepsis dove la ricerca coincide con l’invenzione/scoperta di sé. E questo per il motivo che la ricerca di sé, la capacità di interrogarsi si rivela come la proprietà più intima di quel sé che si cerca, stando in uno con la sua scoperta. Risulta forse chiaro, adesso, perché la ricerca del sé, di cui ogni psicologia che corrisponda al proprio termine deve aver cura, abbia il senso di un 3 4 5
Cfr. Platone, Alcibiade I, 130e. Cfr. L. Wittgenstein, Ricerche filosofiche, a cura di M. Trinchero, Einaudi, Torino 1974, § 431, p. 168. Cfr. Platone, Cratilo, 412a-c.
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L’occhio dell’anima. Mistica e coscienza di sé
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viaggio, di un percorso. Un percorso che subito, però, ci appare paradossale, in quanto si tratta di un percorso in sé: un percorso nel sé dell’anima dal cui interno viene il comando di conoscersi. Il non iniziato a questo percorso – come Socrate chiarisce espressamente nel Teeteto6 – e cioè colui che non è introdotto ai Misteri (il non iniziato alla conoscenza di sé come anima) è allora colui che crede che la sensazione sia epistéme, conoscenza vera, e quindi ritiene che nel sentire, nel percepire, l’apparenza percettiva coincida con l’essenza ossia col suo essere in senso proprio. Ora se questo vale per la conoscenza in genere, vale in una misura ancora più radicale per quella conoscenza, per quel sapere di sé che possiamo in parte tradurre nella nostra nozione di coscienza. È una tesi che non troviamo esposta solo in Platone. Alle stesse conclusioni giunge il Kant della Critica della ragion pura, il quale chiarisce in maniera per così dire definitiva come l’unità e l’identità dell’anima non possa mai essere oggetto di conoscenza fenomenica. E questo ci porta a concludere che sentire e percepire ciò che si dà, ciò che ci colpisce, sono sì espressioni della vita dell’anima, ma non possono certo esaurirla in sé, né tanto meno possono rivelare in sé l’anima come principio. Qui s’innesta certamente quel tema della purificazione del/dal sensibile che costituisce il primo passo di ogni percorso mistico, un percorso teso a dissigillare il secretum dell’anima, a decifrare il suo ‘sigillo’. Ma ciò non può affatto voler dire che l’anima, in questo stesso percorso, possa far radicale secessione da quella dimensione del sentire in cui si manifesta la sua stessa vitalità (e questo oltre che Platone ce l’insegna l’Aristotele del De anima). Anche nella misura della rinuncia, nella necessaria misura della purificazione ascetica come liberazione del Sé dall’intrico delle apparenze percettivo-sentimentali fino a quella noche del sentido di cui parla Juan de la Cruz, si tratta pur sempre di corrispondere a quel pathos, a quel puro sentire dell’anima, a quella sua passività – è sempre Socrate a ricordarcelo nel Teeteto – in cui si fa esperienza della meraviglia. Con questo intendo dire che dall’inizio di quel percorso alla ricerca di sé in cui consiste l’esperienza mistica non è cancellabile l’affettività: quell’essere colpiti, scossi, stupiti da cui sorge ogni domandare. Ciò non significa affatto ridurre la mistica a sentimentalismo, significa semmai il problema di come si debba intendere al suo interno la dimensione del sentire e, con essa, quella della sensibilità. Se non altro, perché è appunto il tutto dell’anima che si tratta di salvare, di ricondurre ad uno nel gesto del conoscersi. D’altra parte, il pathos del thaumazein, della meraviglia, al pari di ogni sentimento (di ogni puro sentire) implica l’esser affetti, mossi da ‘altro’; dunque implica un’al6
Cfr. Platone, Teeteto, 155e.
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La misura del sentire
terazione dell’anima e con essa un’originaria differenza che rinvia all’Altro da sé. È proprio di questo che sembra tener conto Socrate, nel passo dell’Alcibiade I da cui siamo partiti, traducendo subito la questione del come sia possibile conoscere sé, come sia possibile cogliere quel sé in cui l’anima consiste, nel paradosso del guardarsi. Così introduce, però, ad un altro passo, molto più difficile e rischioso rispetto a quello iniziale della purificazione dal meramente sensibile (dal gioco delle apparenze in cui la sensazione può rimanere intricata ed ignara del suo stesso principio). Il passo in questione è quello relativo all’immagine e alla sua necessaria dialettica – una dialettica che, includendo sia la dimensione fantasmatica che quella poetica dell’immagine, costituisce una vera e propria crux per ogni esperienza mistica (basti qui pensare a Meister Eckhart). Proviamo, pertanto, a saggiare questa dialettica dall’interno ripercorrendo il ragionamento socratico-platonico. Se conoscersi è come guardarsi, ciò allora non può esser possibile che nel riflesso di una pura immagine: quella che restituisce la superficie pulita di uno specchio, quella che riflette un corso trasparente d’acqua e, infine, quell’immagine di sé che è possibile cogliereintuire fuggevolmente nell’occhio di un altro. Nel punto più luminosamente riflettente dello sguardo altrui ognuno di noi si conosce come immagine. È quell’immagine fuggevolmente rivelata da Kore, la pupilla, all’interno della quale si accende una dialettica tra lo stesso e l’altro di cui ogni ricerca di sé deve tener conto: una dialettica tra ipseità e alterità senza la quale non è pensabile il sé dell’anima. L’anima si rivela nel riflesso dell’occhio e nello stesso tempo si sfugge come l’altro da ogni immagine. Qui la metafora dello sguardo sensibile, pur non costituendo il punto terminale della ricerca mistica, si rivela così interna al logos dell’anima da non poter essere più abbandonata. Questo non significa che ci si debba arrestare alla metafora, alla metaforica del sensibile, e tanto meno che ci si debba arrestare, come dire, a un’intersoggettività. Espressione quest’ultima quanto mai ingannevole. Risolvere in essa la nozione del sé psichico significherebbe, infatti, una scorciatoia di tipo etico del tutto simmetrica a quella assolutamente noetica, che ritenesse di poter far coincidere il sé dell’anima, il suo esser proprio, con la parte intima da cui proviene il comando di conoscere. Il passo ulteriore cui pare invitare il Socrate dell’Alcibiade I sta certamente nell’intendere come del tutto volto all’interno di sé quel gesto del guardarsi in cui c’è conoscenza: “anche l’anima, se vuole conoscere se stessa, deve guardare nell’anima e soprattutto in quella parte in cui sorge la virtù dell’anima, la sapienza”.7 Nessuna parte è più ec7
Cfr. Platone, Alcibiade maggiore, 133b.
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L’occhio dell’anima. Mistica e coscienza di sé
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cellente, più divina, di quella in cui hanno sede il conoscere e il pensare; questa parte è l’intelletto, il nous: l’occhio dell’anima. Chi contempla questa parte, chi getta lo sguardo in sé giungendo a conoscere nella misura del possibile quanto in sé ha di divino, giunge a conoscere anche sé stesso (ancora una volta, certo, nella misura del possibile!). Ma proprio la necessità della misura indica, come vedremo, il massimo rischio cui è esposta la mistica. Giunto al curvarsi in sé dell’intelletto il circolo del percorso mistico, volto a dissigillare ciò che inizialmente stava chiuso in sé stesso: il senso del sé in cui consiste il proprio dell’anima, parrebbe infatti chiudersi, e la mistica potrebbe tradursi, se questo fosse vero, se questa chiusura fosse effettiva, in quello che il senso comune di molta filosofia moderna e contemporanea pensa della coscienza e dunque della potenza autoriflessiva dell’intelletto. Ma la chiusura del circolo qui è solo apparente e proprio a questo punto si impone quella che Platone chiama una diairesis, una divisione all’interno della nozione di mistico ben più decisiva di quella ‘tradizionale’ tra mistica del sentimento e dell’intelletto, tra la visio beatifica come stato di suprema affettività dell’anima e quella che la intende come suprema conoscenza intellettuale. La divisione che qui si rende necessaria, a ben vedere, è del tutto analoga a quella che Socrate traccia nel secondo discorso del Fedro, quello a capo scoperto, tra la mania erotica divina e la mania erotica semplicemente umana, pura passione, pura disarmonia tra le facoltà psichiche (ed in particolare tra la dimensione naturale del desiderio e quella coltivabile-governabile dall’intelletto della sophrosyne, della temperanza). Rispetto al disordine che produce nell’anima la dimensione puramente passionale, umana, troppo umana del desiderio erotico, la disarmonia prodotta dall’eros in quanto mania divina, definita da Platone come il dono più grande che gli Dei abbiano fatto agli uomini, si rivela solo apparente. A venire inquietata, messa in questione, in quest’ultima esperienza è semmai un senso puramente umano della temperanza, tanto che l’unità cui aspira la vita erotico-filosofica – quell’unità di sé che rammemora l’anima amante alla fine del grande discorso di Socrate – si presenta nel segno della Grazia e dunque come quell’unità che trascende la stessa differenza tra mania e sophrosyne e può essere semplicemente definita come il Bene, to agathòn, cui l’anima aspira. Più difficile risulta il compito di dividere in maniera analoga la nozione di mistico. Come nel caso dell’eros, qui la divisione è quasi trascendentale e perciò precede lo stesso differenziarsi storico delle vie della mistica, almeno per l’Occidente e per l’Oriente con cui esso confina, in parallelo alle grandi religioni monoteistiche: l’ebraica, la cristiana e l’islamica. Qui la divisione riguarda una possibilità e dunque un
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pericolo immanente ad ognuna di queste tradizioni, immanente, se si vuole, ad ogni ricerca in cui l’anima volge lo sguardo in sé. Da questa divisione dipende, in ultima istanza, il modo stesso in cui noi intendiamo la nozione di coscienza e con essa il modo stesso in cui l’anima perviene all’unità di sé (si fa una). Come caratterizzare questa divisione? Non ho altro modo di caratterizzarla se non come una divisione tra lo “sforzo” dell’intenzionalità che caratterizza ogni psichismo e la Grazia, la Charis, in cui l’unità dell’anima “sopravviene”, sopraggiunge, al di là di ogni sforzo, oltre e prima di ogni intenzione.8 Nei confronti di questa gratuita sopravvenienza, il non sapere socratico, l’indigenza cognitiva dell’anima nei confronti di sé e del proprio principio, permane in tutta la sua validità, senza aver bisogno di convertirsi in aporetico scetticismo. E già l’Alcibiade I indica a tale proposito quella via aintenzionale all’unità di Sé come gratuità sopravveniente ad ogni sforzo e ad ogni intenzione psichica che tutta l’opera successiva di Platone percorre. In questa direzione è del tutto eloquente un accenno contenuto nel passo da cui siamo partiti ed è quello in cui Socrate dice che per cogliersi l’anima deve guardare dentro quella parte di sé che le si offre come lo specchio più bello (to kalliston enoptron). È nello specchio più bello, non in un qualsiasi specchio, che si può intuire un Dio o un qualcosa di divino “più puro e luminoso della parte migliore dell’anima”9 e solo in tal modo – conclude Socrate – l’anima giunge a conoscersi. Solo con questo passaggio, potremmo dire, il cerchio si chiude, ma si chiude e, nello stesso tempo, si apre infinitamente. A questa intuizione, a questo colpo d’occhio dell’intelletto, Platone rimane sempre fedele. Per giungere all’unità di sé l’anima ‘deve’ trascendersi, deve in qualche modo uscire da sé. Ciò che essa intuisce nella parte migliore di sé è paradossalmente fuori di sé, pur nella sua radicale intimità a se stessa. E allora il percorso iniziatico, l’iniziazione al mysterion di sé che si sviluppa in un processo, in un’ascesa nel proprio intimo: nell’abditum mentis come verrà chiamato poi l’occhio dell’anima, è pur sempre memoria della gratuità del trascendimento. Qui è Agostino a chiarirlo, precisando che l’inventio, il “venire in” dell’anima è un recordare che trascende la potenza stessa della memoria, è un ricordo di sé oltre ogni intenzione. A questo punto noi possiamo pensare all’interno di un unico problema i libri VI-VII della Repubblica da una parte, il Simposio e il Fedro dall’altra. Nel primo di questi dialoghi il divino è nominato come Bene, idea al di là 8 9
Al tentativo di pensare la dimensione non intenzionale della coscienza è sostanzialmente dedicato il mio L’ascolto della coscienza, cit. Cfr. Platone, Alcibiade maggiore, 133c.
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L’occhio dell’anima. Mistica e coscienza di sé
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di ogni essenza, fonte luminosa capace di illuminare ogni altra idea. È verso di essa, dice Platone, che l’anima deve volgere lo sguardo. A tale proposito la Weil sottolinea giustamente il passo platonico dove si afferma la necessità di una conversione dell’anima nella sua interezza. E proprio in questo passo torna di nuovo la metafora dello sguardo sensibile: “allo stesso modo che non è possibile volgere l’occhio dalla tenebra allo splendore se non insieme con il corpo tutto”,10 così è tutta l’anima, nell’unità tra la dimensione estetica e quella noetica, che deve volgere lo sguardo al Bene, a quel qualcosa di divino che è paradossalmente interno e insieme esterno a sé. Il complesso di tappe che poi sono indicate, fino al culmine di quel pensiero dialettico in cui l’intelletto si fa intuente, si fa puro occhio: l’occhio dell’anima, to omma tes psychès, il complesso di queste tappe implica una purificazione dal mondo della doxa, dell’apparenza, dove l’anima si mostra divisa nel conflitto tra le sue parti costitutive. Per volgere lo sguardo al Bene l’anima di ciascuno deve, perciò, apprendere anzitutto a staccarsi dal mondo della generazione, e dal polemos che lo costringe nel circolo tra necessità e destino, per “divenire capace di resistere alla contemplazione di ciò che è e della parte sua più splendida”. Staccarsi dalla generazione la Weil lo intende giustamente come uno sradicarsi dal mondo sensibile, dal mondo delle apparenze. Troppo frettolosamente, però, lo fa coincidere con quella “morte” di cui si parla nel Fedone. Tra il Fedone e la Repubblica c’è una crisi decisiva nel modo con cui Platone concepisce la struttura dell’anima e la sua stessa unità. Nel Fedone si rifiuta esplicitamente la concezione pitagorica dell’anima come armonia e quindi si nega la possibilità di intendere la sua unità come passaggio attraverso una costitutiva pluralità.11 Nella Repubblica, invece, è come se Platone non rimanesse indifferente alla lezione violenta e alla sfida rappresentata dal sapere tragico, dove il dissidio, la pluralità di forze e di voci in conflitto si mostra originaria, fino a coinvolgere la stessa vita divina (Ares contro Ares, Dike contro Dike – come leggiamo nelle Coefore di Eschilo). Rispondendo a questa sfida Platone pone così il problema di una politeia dell’anima e, con essa, quello della necessità di armonizzare una pluralità di forze, di facoltà. La conversione di tutta l’anima si precisa, pertanto, come un accordo dialogico tra la pluralità delle sue dimensioni, dei suoi “aspetti”. Ciò cui spinge la dimensione thymoeidés dell’anima (all’origine del coraggio e di ogni impulso ad agire) e ciò che si agita nella sfera policefala del desiderio (nell’e10 11
Cfr. Platone, Repubblica, VII, 518c. Cfr. in proposito H. B. Gottschalk, Soul as Harmonia, in “Phronesis”, XVI, 1971, pp. 179-198.
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La misura del sentire
pithymethikòn) deve venire armonizzato tramite la persuasione per iniziativa di quella parte che ha la funzione del comando, la funzione egemone, capace di logos e dunque di dialogos all’interno dell’anima stessa (e cos’altro è il pensare se non un muto dialogo dell’anima con se stessa e in se stessa…). Eppure questa stessa armonia in virtù della quale l’anima diviene, si fa “uno da molti” è ancora solo un’immagine di quel Sé di cui l’anima è in cerca. Al culmine dell’unificazione psichica, al culmine del procedimento epistemico ed auto-epistemico l’intelletto si mostra ancora indigente, affetto dal desiderio. Se per quanto riguarda la ‘politica’ dell’anima, l’accordo si stringe soprattutto tra l’intelletto e quella parte dell’anima che spinge ad agire (l’anima impulsiva, irascibile), al culmine del procedimento puramente poetico, nella solitudine dell’intelletto, l’anima pare semplificarsi nella forma carente del puro desiderare. Lo sguardo che si volge al Bene come all’unità in cui la psychè trascende ogni sforzo – in cui essa si trascende come pura intenzionalità – può infatti darsi unicamente in virtù del fatto che il Bene si offre ‘sensibilmente’ (fenomenicamente) nello splendore del bello. Questo darsi del Bene come qualcosa di bello, come ciò che svuota ogni essere della sua ostinata alterità e lo mostra intimamente affine all’anima stessa, è l’espressione più chiara del fatto che è tutta l’anima a convertire il suo sguardo. Anche in questo caso il movimento è duplice. Da un lato, quello descritto nell’ultima parte del discorso di Diotima nel Simposio, c’è un movimento ascensionale da parte dell’anima amante, posseduta da Eros, che progressivamente libera il bello da ogni fissazione fenomenica e intellettuale (la bellezza delle scienze e del puro sapere, ad esempio) fino a giungere ad intuirlo in quella immagine infinita (perfettamente sublime) che è to poly pelagos12, il “vasto mare del bello”, e oltre – nel silenzio di ogni vis immaginativa, in quanto monoeidés: come l’unità di un “aspetto”, di un eidos libero da ogni figura, da ogni colore, eppure assolutamente individuo. Dall’altro, nell’esperienza descritta nel Fedro ma già annunciata nella ‘strana’ irruzione di Alcibiade alla fine del Simposio, il bello irrompe nella vita dell’anima con il volto dell’amato: come un volto luminoso in cui risplende quel divino di cui l’anima è alla ricerca: Ecco che ama ma non sa dire cosa e neppure sa che prova né è in grado di spiegare ma come chi ha preso da un altro una malattia agli occhi non è in gra-
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Cfr. Platone, Simposio, 210d.
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L’occhio dell’anima. Mistica e coscienza di sé
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do di spiegarne la causa, così egli vede sé medesimo nell’innamorato come in uno specchio, ma non lo sa.13
Ritorna qui la metafora dello specchio che abbiamo già incontrato nell’Alcibiade I. Nel caso del Fedro, però, è come se la forza psichica del desiderio fosse in uno con l’intelligenza stessa ed è appunto per questo che eros, come osserva Socrate, si converte in philia (e l’amico, osserva Aristotele nell’Etica Nicomachea, è come un “altro sé”…). Ancora una volta ci troviamo dinanzi a quella soglia metaforica che ormai si è chiarita come indice di un’intima soglia dell’alterità nel Sé dell’anima. Pensarla ulteriormente, continuarla e pensare non significa certo che possiamo toglierla. Non c’è, abbiamo visto, conoscenza di sé, senza che eros si converta in philia: in amore per sé come un altro,14 accordando in un solo suono desiderio e intelletto. Ciò implica di nuovo una dialettica dell’immagine, ma stavolta si tratta di un’immagine puramente interna: quella in cui l’intelletto coglie cogitativamente la propria unità. La coglie, però, come somiglianza, come affinità con quel Bene che, al pari del Bello in se stesso e con se stesso non può che essere pensato come monoeidés, anzi come Uno e basta. Ma per Platone l’Uno è tale in quanto è Bene “al di là di ogni essenza” e dunque non può essere pensato altrimenti che come Grazia: intima effusione di Sé, bellezza che si dona sopravvenendo ad ogni intenzione, luce che origina la propria intelligenza. Se in ciò sta l’intelligibilità del divino, allora si capisce perché – come si dice nel Fedro – nel coro degli Dèi non c’è posto per l’invidia, per il cattivo sguardo, per lo sguardo che divide e che fa dell’alterità motivo di separazione e non di affinitas. Alterità e identità possono finalmente essere pensate insieme in questa immisurabile misura del sé dell’anima. Ciò conduce a dire che nemmeno qui cessa la dialettica della somiglianza tra l’anima e il “proprio” Sé. La somiglianza, quell’intima somiglianza che ha la sua radice nell’unità del Bene, è appunto il limite che non può essere tolto, se non al prezzo di fare del cammino “mistico” – quel cammino che riguarda ognuno di noi, in un certo senso pensabile profanamente: al di fuori di ogni tempio – un arresto nel terreno puramente intenzionabile, egologico, dello psichismo. È vero che lo sguardo attraverso cui guardo Dio è lo stesso attraverso cui Dio guarda me, ma la duplicità dello sguardo, la differenza come l’altro in sé, resta. Se non altro resta dal punto di vista dell’anima. Forse per intendere il senso di questo ‘resto’ 13 14
Cfr. Platone, Fedro, 255d. Cfr. su questo tema P. Ricoeur, Soi-même comme un autre, Ėditions du Seuil, Paris 1990.
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La misura del sentire
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l’anima ha ancora bisogno di quella sublime ironia mai assente in Platone, padre di ogni mistica.
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IV ALGOS. IL DOLORE DEL SENSO E LA RADICE DEL BENE
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Da lungo tempo porto in me questa guerra. Paul Klee
Il mio tentativo consisterà nel provare a pensare il dolore libero dalle sue tradizionali connessioni con il male (in senso metafisico e morale) e con la colpa (in senso teologico e religioso). In entrambi i casi, il dolore è inteso come segno di altro. Allo stesso modo è inteso come segno di altro (di una causa patogena) da uno sguardo clinico. In tutti questi casi il dolore è per cosi dire investito simbolicamente o semeioticamente (nel caso di una considerazione diagnostico-terapeutica) prima ancora di venire analizzato in quella che potremmo dire la sua sostantività. Il problema che mi sono posto è se, invece, non sia possibile e in una certa misura doveroso cercare di gettare uno sguardo sul dolore prima di ogni sua simbolizzazione, come se fosse possibile intuire quello strato primario di senso in cui consiste l’essere del dolore prima di ogni suo significato temporalmente possibile. Non mi nascondo il rischio di un’operazione del genere. Sottrarre il dolore alla pluralità sincronica e diacronica di contesti nel quale esso è inteso come tale rischia di vanificare l’oggetto stesso della ricerca in un qualcosa di fantasmatico. Ma il dolore non è un fantasma, come tutti sappiamo; è bensì qualcosa di cui ognuno di noi mortali ha fatto, fa e farà esperienza nella misura che gli è data. C’è certamente una relatività del dolore alle differenti significazioni di cui viene investito. Questo ci permette di affermare che nel caso del dolore, almeno fino ad una certa soglia, la rappresentazione che ne abbiamo agisce potentemente sulle stesse modalità della percezione di esso. Proprio per questo motivo il dolore ci appare come “un essere labile che secondo l’intensità, la durata, il luogo passa incessantemente da una categoria all’altra”.1 Dirne la labilità, ossia la difficoltà di afferrarlo come tale, non è però lo stesso che dirne il non-essere. Un essere labile è pur sempre un essere, ha per così dire una sua consistenza ontologica. Il valore di questa consistenza aumenta se si pone mente al fatto che proprio nel 1
R. Rey, Histoire de la douleur, La Découverte, Paris 1993, p. 11.
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La misura del sentire
suo essere relativa al contesto di significatività è implicito un passaggio che merita considerare. Si tratta, appunto, del passaggio dal dolore alla sofferenza: dalla consistenza oggettiva del fenomeno a quella puramente soggettiva. La prima pulizia semantica da fare, perché il mio tentativo abbia una qualche plausibilità, sta allora proprio nel distinguere logicamente dolore da sofferenza. Il dolore viene sofferto – è cioè motivo di sofferenza, ma proprio perciò non coincide con questo termine. Del dolore si ha appunto esperienza – per citare il titolo dell’importante libro di Salvatore Natoli L’esperienza del dolore.2 Il dolore, insomma, lo patisco. E così dicendo indico in qualche misura la sua oggettività – quella oggettività ribadita dal fatto che in latino, ossia nella lingua da cui deriva il termine dolore, il verbo derivato dal sostantivo (dolor) poteva essere costruito con un soggetto inanimato (o in una costruzione impersonale o ponendo a soggetto la parte dolorosa). Questo a ulteriore conferma del fatto che il dolore, proprio in quanto qualcosa di sostanzialmente oggettivo, è altro dal soggetto che lo soffre e ciò fino al punto di poter esercitare su di esso una qualche forma di tirannia. Nella sua oggettiva alterità il dolore (ci) accade come può accadere la pioggia. E nella misura in cui alla sostanza del dolore inerisce qualcosa della pura casualità (nel dolore si palesa per così dire il volto sinistro e il carattere non sempre lieve della contingenza) esso può esser detto anche l’essenzialmente l’imprevisto: quanto si presenta con la forza del colpo che viene inferto. Non per niente l’immagine tradizionalmente più capace di indicare cosa il dolore possa significare per chi lo subisce è l’immagine della ferita. Nella lacerazione del corpo, in una intrusione violenta e spesso inaspettata nei fragili confini che definiscono l’appartenenza al mondo di ogni vivente, si può intuire in uno l’evento e il senso primario del dolore. Ma una volta penetrato con la forza indomabile della pura contingenza il dolore tende a permanere con la dura pesantezza di un oggetto che si è spostato all’interno e del quale è difficile liberarsi. È il passaggio nel quale il dolore si trasforma da locale a globale, indifferentemente al fatto che si tratti di un dolore fisico o puramente morale. Decisivo, in questo passaggio, è che il dolore giunge a pesare, a farsi globale pervadendo il soggetto, nel momento stesso in cui afferra la facoltà rappresentativa. E nel momento in cui il dolore si fa pervasivo in virtù della circolarità inflattiva che si è innescata tra la sua origine (il suo carattere di ferita) e la sua rappresentazione, proprio allora appare difficile prendere distanza da esso. Difficile appare la possibilità di rappresentarlo, di metterlo nella giusta prospettiva. 2
S. Natoli, L’esperienza del dolore, Feltrinelli, Milano 1986.
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Algos. Il dolore del senso e la radice del bene
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Si potrebbe anche dire che nel dolore giunge a manifestarsi, con una buona dose di naturale ironia, la potenza dell’oggettività su ogni illusione panprospettivistica. E il colmo dell’ironia sta nel fatto che ciò avviene proprio nel corpo del soggetto (e, dunque, se seguissimo lo Zarathustra di Nietzsche, nella sua grande ragione). Messo a distanza come oggetto di una qualche theoria il dolore forse non è più tale, è il ricordo di esso. Comunque, appunto in quanto peso che debbo sopportare, emergenza di una alterità oggettiva e prepotente all’interno della soggettività il dolore non coincide con la sofferenza: il peso e colui che lo sopporta (che lo soffre) non significano lo stesso. A questa prima distinzione tra (oggettività del) dolore e (soggettività della) sofferenza c’è poi da aggiungere un’osservazione. Quello che abbiamo chiamato l’investimento di significati ossia, detto in maniera più concisa e forse più pertinente, quella che potremmo dire la simbolizzazione del dolore è già una strategia di contenimento nei suoi confronti, una qualche forma di messa a distanza che si preoccupa di rimediarvi. Una strategia necessaria e inevitabile che non fa altro che costituire il correlato tecnicamente metafisico (o, se volete, culturale) di quella che sul piano medico-clinico è la semeiotizzazione del dolore (la sua riduzione a sintomo). Potremmo anche concludere che va bene così, che così è giusto, in quanto la verità del dolore consisterebbe nel suo esser segno di altro (nella sua natura sintomatica); con la conseguenza, però, che il suo fenomeno non può che venire inteso in funzione di un’idea più forte (sia essa una causa, un Dio, una colpa e così via) capace di spiegarne l’origine. Ma così facendo rischiamo di assimilare frettolosamente il dolore ad un qualcosa di puramente negativo e la difficoltà di trattenerlo nel pensiero, di fissare i contorni della sua forma a questo punto si trasformerebbe in una vera e propria impossibilità. Con questo non voglio affatto negare l’aria di famiglia che spira tra il dolore e la pura negatività. Nego semplicemente che vi sia coincidenza tra i due termini. Limitatamente a questo riguardo, il negativo si presenta piuttosto come l’effetto del dolore. Il che lo si comprende subito se si prova a pensare il negativo come tale ovvero privo della connessione che il dolore produce tra il ‘suo’ soggetto e la negatività. Astratto dalla dimensione di affettiva effettività che lo riferisce ad una sostanza divenuta soggetto, il negativo può apparire come qualcosa che puramente dilegua: come un puro auto-sopprimersi. La labilità del dolore, in questo caso, si farebbe assoluta e anche in questo caso il dolore perderebbe la dignità di essere in senso proprio – svanirebbe in parvenza nel momento che venisse ancora una volta inteso come funzione rivelativa di altro, sia pure questo il negativo in quanto tale.
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La misura del sentire
Per poterlo pensare, dobbiamo aver rispetto del dolore, del nomos che gli è proprio. Perciò se lo intendiamo come negativo dobbiamo pure aggiungere, come abbiamo già adombrato, che si tratta di un negativo smisurato e tiranno. Nei suoi Frammenti d’una Filosofia dell’Errore e del Dolore, del Male e della Morte Giuseppe Rensi osserva come il dolore mostri la sua dismisura, il suo carattere infinito, non appena il pensiero cerchi di scavarlo dentro, di frugarlo in ogni angolo “spremendone tutto il senso e comprendendone tutte le ripercussioni”;3 allora – scrive – “diventa smisurato”, ma lo diventa – e qui sta l’acutezza della sua osservazione – appunto in quanto lo è già, in quanto la smisuratezza gli appartiene essenzialmente. Proprio perché “smisurato” per natura, il dolore si impadronisce dell’anima come un tiranno ossia come quanto minaccia fino all’impedimento quel “divenir uno da molti” che per Platone costituisce il governo di sé. Per usare i termini impiegati dal Petrarca nel De remedis utriusque fortunae (l’opera scritta tra il 1354 e il 1366, con la quale il Petrarca si misurava con la tradizione medievale e in particolare con il De miseria humanae conditionis del Cardinale Lotario, il futuro Innocenzo III) nel Dolore, che qui nel dialogo XXXIX conversa con la Ragione, la “Repubblica” patisce uno signore “ingiusto”, iniquo”, “crudelissimo”, “potente” e cattivo (“malo”) [la volgarizzazione del testo è quella di Giovanni da San Miniato]. Per quel dialogo senza voce che l’anima intrattiene con se stessa, se così vogliamo identificare la Ragione del Petrarca, misurarsi con il dolore significa la sfida politicamente decisiva. Solo misurandosi con la tirannia del dolore il pensiero può salvarsi. Ma la salvezza del pensiero ha come sappiamo il nome di sophrosyne che solitamente traduciamo con “Temperanza”. E dunque solo quella mente capace di temperare gli affetti dell’anima e, in quest’attività, di temperare il pensiero stesso, è una mente capace di salvezza ovvero capace unificare (fare una) la pluralità dell’anima in quello che potremmo dire un buon governo. Saggio è, allora, colui che riesce a temperare le differenti voci dell’anima, colui che è capace di ascoltarne le differenze persuadendole all’armonia di un’unità sinfonica. Ma per questo è necessario un confronto con quella voce smisurata e tendenzialmente tiranna per natura che è la voce del dolore. Un confronto con il volto mostruoso, policranico (tifonico) di un’alterità oggettiva e interna nel medesimo tempo; un confronto che potremmo definire come il correlato logico-psichico di quello logico-trascendentale che Platone metterà in scena nel Sofista. È quanto emerge chiaramente dal libro X della Repubblica nel contesto della 3
G. Rensi, Frammenti d’una Filosofia dell’Errore e del Dolore, del Male e della Morte, Guanda, Modena 1937, p. 64.
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Algos. Il dolore del senso e la radice del bene
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critica platonica all’arte e alla poesia. In questo confronto si tratta di dare una misura, un metron, al dolore; compito di una mente amante di sophrosyne è quello di metriazein pròs lypen: dare un metron al dolore. In questo confronto il logos deve conoscere la lotta e il contrasto col dolore (deve machestai te kai antitenein tè lype4). E qui per Platone si misura tutta l’inconciliabile e polemica distanza tra la filosofia e la poesia tragica, in quanto essa conduce piuttosto ad una “anamnesis del pathos [del dolore sofferto] e a lamenti”,5 come se a giocare le proprie mosse nella tragedia fosse puramente l’aloghiston. Giustamente Emanuele Severino, nel suo importante libro dedicato ad Eschilo,6 osserva a questo riguardo che una tale contrapposizione tra filosofia e pensiero tragico è insostenibile e che “la verità come nomos e metron sta appunto al centro del pensiero di Eschilo”.7 La tesi generale del libro di Severino è diametralmente opposta a quella di Nietzsche, ossia a quella posizione che vede nella tragedia greca il “sì” al dolore della vita. Tale tesi (quella severiniana) può essere riassunta in questi termini: “Eschilo dice che la verità dell’epistéme è il vero rimedio del dolore”8 e questa verità consiste nella capacità della mente, per dono di Zeus, di cacciare “con verità il dolore e la vanità e la follia che lo accompagnano”.9 Il senso del sapere epistemico, del sapere dell’essere come immutabile, starebbe insomma nel “salvare dal dolore”:10 “senza dolore, niente verità, ma è la verità a liberare dal dolore”.11 Contestando la tradizionale lettura dei famosissimi versi 177-78 dell’Agamennone (tòn pathei mathos thenta kyrios echein) – una lettura che vede nel dolore la via alla sapienza e talvolta anche la stessa causa di essa – Severino intende piuttosto la sapienza come signoria sul dolore: “Zeus – così suona la sua traduzione – ha stabilito che il vero sapere acquisti potenza sul dolore”.12 “Condizione necessaria” eppure “insufficiente” della sapienza, il dolore, come “ciò che vi è di più evidente per i mortali”,13 deve essere ricondotto alla verità del Tutto ed è in questa riconduzione che l’uomo si libera del suo peso, acquista signoria su di esso. 4 5 6 7 8 9 10 11 12 13
Platone, Repubblica, 604a. Ivi, 604d. E. Severino, Il Giogo. Alle origini della ragione: Eschilo, Adelphi, Milano 1989. Ivi, p. 331. Ivi, p. 31. Ivi, p. 39. Ivi, p. 42. Ivi, p. 40. Ivi, p. 51. Ivi, p. 41.
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La misura del sentire
L’errore di Severino sta, a mio avviso, nell’identificare la liberazione dal peso del dolore, che consegna la mente alla follia, con la liberazione dal dolore come tale (come questa tesi influisca poi sulla stessa lettura del senso platonico del dare misura al dolore tralascerò qui di discutere – a questo proposito osservo soltanto che misurare non può in alcun modo identificarsi con il ridurre ad un ni-ente il misurato). In questa liberazione il dolore risulta annientato. La via della sapienza che Zeus indica ai mortali starebbe così in un pensiero che “si salva dal dolore”14 espungendolo da Sé. E se la sfida del pensiero tragico fosse, invece, quella di farci intendere che il pensiero che salva è quel pensiero che acquista signoria non sul, ma nel dolore? Per tornare alla metafora politica: se da una parte l’annientamento del tiranno non implica necessariamente il buon governo di Sé (della polis dell’anima), dall’altra potrà salvarsi solo quel pensiero che riconosce la voce del dolore fino ad ospitarlo in sé stesso come un’intima alterità. Detta così, senza svilupparla, questa soluzione potrebbe sembrare molto hegeliana, sembrando appunto sostenere che il pensiero tragico consiste in quell’estrema conciliazione che passa attraverso l’estremo riconoscimento del negativo. In un tale riconoscimento il dolore acquisterebbe senso, con un significato non molto diverso da quel gesto del ricondurre al Senso dell’immutabilità del Tutto in cui per Severino si può riassumere l’epistéme eschilea. Acquisterebbe senso come momento logico della dialettica dell’autoriconoscimento: come momento necessario e pur sempre tolto della stessa figura dell’autocoscienza. A ben vedere, in questa riduzione che darebbe senso al dolore, la dialettica di signoria e servitù tra esso e l’anima risulterebbe semplicemente rovesciata ed il rapporto tra Sé e l’alterità del dolore permarrebbe in una essenziale asimmetria, anche se di segno opposto. E così tornerebbe la domanda se in tal modo abbiamo veramente pensato il dolore, intendendolo nella sua autonomia ossia non come un mero negativo, ma come un nodo ostinato che riposa in sé stesso ed in ciò ha il proprio principio. Nel saggio sul dolore del 1934 Ernst Jünger sembra intuire qualcosa di tale ostinata ‘inseità’ del dolore affermando, appunto, il carattere immutabile del dolore in quanto “unità di misura” e l’essenziale mutevolezza del modo con lui l’uomo si pone di fronte ad essa.15 Nell’ottica jüngeriana è il dolore stesso a misurare chi lo patisce fino al punto che anche il mutevole rapporto nel quale questa misura si realizza sarebbe sottratto alla coscienza, pur costituendo – osserva Jünger – la miglior pietra di paragone per 14 15
Ivi, p. 42. E. Jünger, Foglie e pietre, Adelphi, Milano 1997, p. 139.
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Algos. Il dolore del senso e la radice del bene
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identificare una razza (di passaggio: è innegabile l’impasto biologisticometafisico che fa da sfondo alla meditazione jüngeriana). Stretto tra la nostalgia di un atteggiamento ascetico-sacerdotale o eroico-guerresco, nel quale comunque non si rifugge il rapporto con il dolore tenendo sempre la vita in pugno, e la deprecazione di quel mondo della sensibilità ipertrofica ed egocentrica in cui il dolore è inteso come una potenza che va innanzitutto evitata, Jünger saluta nel dolore quella potenza che resiste come un segno mirabile e, dunque, come “l’impronta di una struttura metafisica” in quel processo di svalutazione di tutti i valori nel quale si afferma il nuovo tipo di uomo, quello che ha fatto della tecnica (e dunque del progredire dell’oggettivazione della vita) la sua uniforme.16 Quello che non si capisce dal tono oscuramente profetico delle ultime pagine jüngeriane (dove con chiarezza risulta soltanto “la necessità, per l’individuo, di prender parte malgrado tutto alla macchina bellica”) è se nel rapporto con il dolore si manifesti comunque un contromovimento meta-tecnico o se in esso si dimostri la tecnica per eccellenza, quella eroico-sacerdotale capace di un perfetto dominio della natura e dunque anche di sottrarsi alla tirannia del dolore nel perfetto estraniamento da sé e nella capacità di tenere la vita in pugno.17 Un passo avanti oltre questa irrisolta ambiguità, dove il nodo da sciogliere appare appunto quello che lega dolore e tecnica, è compiuto da Heidegger in La questione dell’essere apparso per la prima volta nel 1955 con il titolo Über die Linie nella Festschrift per il 60° compleanno di Jünger e successivamente ripubblicato in Wegmarken. Qui Heidegger commentando il saggio jüngeriano sul dolore ne coglie la stretta connessione con il libro su Der Arbeiter e giunge a sostenere che la connessione tra dolore e lavoro è quella che costituisce il tratto fondamentale della metafisica hegeliana. Lavoro e dolore rivelano per Heidegger la loro “intima parentele metafisica” nella “stessa (e non identica) appartenenza alla negazione della negazione”.18 Il tratto che li accomuna è l’“assoluta negatività” come una “forza infinita” della realtà. In entrambi i casi, potremmo chiosare, si manifesta il concetto come esistente e quindi come immanenza della contraddizione. Sia il carattere intenzionalmente soggettivo del lavoro sia quello aintenzionalmente oggettivo del dolore convergerebbero, così, nella comune manifestazione di quell’inquieto rapporto tra alienazione ed identità costitutivo della vita dello Spirito. È come se nelle figure del lavoro e del dolore si potessero fermare i poli estremi che caratterizzano il passag16 17 18
Cfr. ivi, p. 168. Ivi, p. 153. M. Heidegger, Segnavia, Adelphi, Milano 1987, p. 353.
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gio dalla coscienza all’autocoscienza. Se queste sono conclusioni che Heidegger lascia intuire alla fantasia intellettuale del lettore, ancor più sfuggente è nell’osservazione che segue. Questa riguarda il problema di pensare fino in fondo – “risalendo al di là della Logica di Hegel” – la relazione del lavoro, “come tratto fondamentale dell’ente”, con il dolore. Il problema sarebbe, insomma, quello di pensare l’unità di lavoro e dolore nella sua espressività ontologica. E a questo proposito, per Heidegger, “solo la parola greca che sta per dolore, cioè algos, ci direbbe qualcosa”.19 Del termine Heidegger accetta la tradizionale opinione circa il suo imparentamento con alego, che come intensivo di lego significherebbe “l’intimo raccogliere” [das innige Versammeln]. Il dolore, così, potrebbe essere tradotto anche con “ciò che raccoglie nel più intimo” [das ins Innigste Versammelnde] ossia con lo stesso significato che impronta il concetto hegeliano di “concetto” e di “sforzo” sul piano mutato “della metafisica assoluta della soggettività”. Se giustamente Heidegger intende il dolore come l’altro (dal punto di vista) della soggettività e nello stesso tempo come il suo stesso (come quanto al di là di ogni intenzione gli appartiene), sommamente problematica diventa però la sua proposta di traduzione di algos. E la problematicità comincia già dal momento che Heidegger accetta senza ulteriore indagine la parentela tra algos e alego (en passant noto soltanto come lo Chartraine non sia affatto il solo a contestare una simile parentela20). Algos è un termine ricorrente soprattutto in Omero (92 occorrenze) e nei tragici (22 occorrenze in Eschilo, 17 in Sofocle e 44 in Euripide) [le restanti 18 occorrenze presenti nel Thesaurus della Lingua greca si distribuiscono in vari autori del periodo classico ma con la frequenza di una, due presenze (3 in Platone)]. Nei contesti in cui compare o ha il significato di essere oggetto del paschein oppure si presenta come ciò che afferra l’animo (e non solo quello dei mortali, ma anche quello degli dèi). Rispetto al termine odynè che indica un dolore acuto e lancinante generalmente ben localizzato, algos è il dolore che afferra la totalità del corpo e dell’anima. Questo è chiarissimo in Omero dove odynè è termine tecnico appartenente al lessico della medicina, mentre algos è spesso il dolore oggetto di racconto, ma soprattutto il dolore che tende a permanere e a ripetersi, il dolore all’origine di una sofferenza in senso forte. Più vicino al significato di algos è allora quello del termine pèma, ma qui il senso è piuttosto di una cau19 20
Ivi, p. 354. Cfr. P. Chartraine, Dictionnaire étymologique de la langue grecque, Klincksieck, Paris 1968, ad vocem.
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Algos. Il dolore del senso e la radice del bene
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sa che arreca dolore e dunque sventura. Difficilmente, allora, possiamo intendere algos nel senso proposto da Heidegger ovvero come “ciò che raccoglie nell’intimo”. L’algos si impadronisce dell’anima come qualcosa che tende le sue corde fino a spezzarle. Algos è strazio, intima lacerazione: ferita che dura e dunque ferita nel (del) pensiero stesso. Con la sua proposta di traduzione del termine Heidegger intuisce forse l’intimo nesso che stringe l’insorgere del dolore nella mente e la nascita stessa del senso. Per dirla in breve, intuisce oscuramente il darsi in uno di dolore e coscienza, ma non nel modo di in un intimo raccogliersi, piuttosto in quello di un intimo divaricarsi. Ciò, abbandonando Heidegger, risulta con una certa chiarezza da una lettura del Prometeo incatenato che non si fermi alla lectio facilior del rapporto tra techne e Necessità. La techne che Prometeo dona agli uomini – si potrebbe dire parafrasando Heidegger – non è niente di tecnico: il ladro del fuoco, come ben intende Hermes, è un sofista ovvero un esperto nell’usare il proprio ingegno21 e per questo il fuoco stesso è da intendersi in senso meta-tecnico: come possibilità di ogni techne. Tutto questo è chiarissimo se leggiamo il grande discorso prometeico del Secondo Episodio facendo attenzione al suo incipit. Qui Prometeo non appare soltanto come colui che fa dono ai mortali di un segreto divino, ma – almeno in questo passo – anche come colui che assegna ai nuovi dèi le loro prerogative. Eppure di ciò e della pena che gli è stata inflitta preferisce tacere. C’è un dolore che precede ogni parola e proprio questo è quello sofferto da Prometeo; è il dolore del flettersi del pensiero, del suo intimo piegarsi fino a lacerare la mente: “synnoią dè daptomai kear”. Qui il syn-noein è più che un semplice meditare, è un con-scire, un con-sapere che proprio nel gesto del piegarsi lacera il cuore. Prometeo, così, è figura del sorgere in uno di dolore e coscienza e, insieme, della loro necessaria distanza. E appunto questo, forse, è il vero dono che fa ai mortali: li fa padroni della loro mente (phrenòn epebolous): “Prima, avevano occhi e non vedevano, orecchie e non sentivano, ma come le immagini dei sogni vivevano confusamente una vita lunga, inconsapevole.”22 Prima un’esistenza gravata dal dolore, ma come puro peso, come un’inesplicabile oppressione (pèmata) quale può gravare sulla mente di infanti, poi un dolore con-saputo e in questo con-sapere, nella coscienza, la possibilità di dargli una misura. In questo spazio che si è liberato, in questa semplificazione del pensiero non più in balia di una moltitudine di voci in quanto capace di piegarsi in se stesso (di ri-flet21 22
Vedi Eschilo, Prometeo incatenato, vv. 944-46. Eschilo, Prometeo incatenato, vv. 447-450, citato da Eschilo, Le Tragedie, a cura di M. Centanni, Mondadori, Milano 2003, pp. 329-331.
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tere), nasce ogni tecnica, come arte di rimediare al dolore. Se Techne è sempre più debole di Ananke, non lo è forse quella potenza che, come per dono, emerge nel gesto del syn-noein. Lì emerge quella che Coleridge avrebbe chiamato “la potenza di iniziativa dell’intelletto”. Cedere a un più saggio consiglio significherebbe per Prometeo negare tutto ciò e anche questo egli lo sa in anticipo. Il nodo che si stringe nel suo puro comprendere la radice del dolore è quello di una guerra di cui non si viene a capo (apolemos polemos): di un varco senza passaggio (apora porimos). Eppure qui, nella rocciosa ostinatezza prometeica, si può intendere il gesto unico e irripetibile, il gesto che può essere soltanto reiterato, nel quale il pensiero affronta la smisuratezza del dolore. È appunto nella reiterazione di questo gesto che sta la comunità dell’umano, come comunità di coloro che sono in attesa e in ricerca di una misura. Alla luce di una tale ricerca la natura stessa del dolore non appare più necessariamente come pura tirannia e dunque nel nascere del dolore si intravede la possibilità stessa del bene, il senso della sua nascita paradossale: “Dolor autem – scrive Agostino – [...] sive in animo sive in corpore sit, nec ipse potest esse nisi in naturis bonis.23 Parafrasando lo Hölderlin di Patmos (e qui la parafrasi non è certo innocente), potremmo concludere dicendo che là, nel difficile luogo (apora porimos) nel quale il dolore ha principio, a noi è dato scorgere in necessaria modestia – nella ricerca di un modus e dunque di una misura – la radice stessa del bene. Quanto si mostra in questo luogo è il gesto stesso della comprensione: quel puro afferrare il senso che precede ogni atto interpretativo e nel quale ogni interpretare ha termine.
23
Agostino, De Natura Boni contra Manicheos Liber Unus, 20.
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ESTETICA E META-ESTETICA
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DEL SENSO DELL’ESTETICA (E DELLA SUA NON IDENTITÀ CON LA FILOSOFIA DELL’ARTE)
Possiamo ancora sostenere che tra estetica e filosofia dell’arte vi sia identità, magari sottolineando che si tratta di un’identità “difficile”1? La mia risposta a tale questione è decisamente negativa. Ritengo, in breve, che tra “estetica” e “filosofia dell’arte” non vi sia affatto un’identità e che molte difficoltà nascano appunto da una confusione iniziale. Per motivare questa affermazione articolerò il discorso in due parti canoniche: una prima parte – la pars destruens – in cui metterò in chiaro perché non ritengo si possa parlare di identità, e una seconda parte – la pars costruens – dove esporrò invece la mia posizione riguardo alla natura e all’oggetto dell’“estetica”. Per poter parlare di identità tra estetica e filosofia dell’arte, tale identità dovrebbe appartenere almeno ad uno di quelli che a me sembrano i quattro principali significati di identità tra termini:1) per convenzione, 2) per conversione, 3) per mediazione, 4) per indifferenza o sostanziale. Secondo la prima soluzione, quella “convenzionale”, “estetica” e “filosofia dell’arte” sarebbero nominalmente distinte, ma direbbero lo stesso, parlando degli stessi “oggetti” e riferendosi ad un’identica entità concettuale. Questa posizione è evidentemente insostenibile, perché non fa altro che spostare il problema nella necessità di definire “lo stesso” che i due termini puramente convenzionali nascondono. L’insostenibilità di tale posizione è data, insomma, dal fatto che l’“identità difficile” è dissolta dalla questione dell’opacità del comune riferimento concettuale. La seconda soluzione, quella che abbiamo chiamato “per conversione”, suppone una relazione storico-dinamica tra estetica e filosofia dell’arte, nel senso che il campo semantico del primo termine si sarebbe storicamente trasformato in quello del secondo. Anche in questa prospettiva, però, resta assai problematico parlare di identità vera e propria, se non altro per il fat1
Il riferimento qui è al Convegno dal titolo “Estetica e filosofia dell’arte: un’identità difficile” tenutosi presso l’Università di Milano il 14 aprile 2005.
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to che l’estetico muoverebbe da un’essenziale indeterminazione o, nel migliore dei casi, sarebbe destinato a ricevere la sua determinazione più propria nell’ambito dell’artistico, diventando qualcosa di costitutivamente altro. Si potrebbe anche sostenere che qualche cosa del genere è effettivamente avvenuto nella storia del pensiero, con la critica del kantismo da parte dei primi romantici e in maniera ancora più sistematica, con l’idealismo di Hegel e Schelling. Si tratta del passaggio da un’estetica critico-trascendentale, che non ha affatto reciso i legami con l’antropologia tipici di gran parte dell’estetica settecentesca, a quella che Schaeffer ha chiamato “estetica speculativa”. Assumendo come buona tale ipotesi storico-filosofica, si dissolve comunque ogni difficoltà identitaria e per di più si lascia nell’ombra la natura e la legittimità dell’estetica prima di trasformarsi in filosofia dell’arte. La terza soluzione, quella “per mediazione”, lascia intendere che le differenze costitutive di estetico e artistico, di estetica e filosofia dell’arte, sarebbero coinvolte in un processo di mediazione che si trasforma in un tertium, ad esempio in un ultimo “asilo” della metafisica (nell’epoca del nichilismo, della tecnica o comunque la si voglia chiamare richiamandosi ad Heidegger). Questa soluzione, che implica sia la risoluzione dell’estetica in ermeneutica sia l’assegnazione all’arte (e alla sua filosofia) della virtù di dire quel che altrimenti il pensiero non può più dire, fa torto tanto all’estetica quanto alla metafisica. È una posizione in fondo rinunciataria che si fa scudo di una generica identificazione tra estetica, filosofia dell’arte ed ermeneutica per evitare di impegnarsi direttamente sul terreno della metafisica, pensandola juxta propria principia. Non ho la pretesa qui di fornire una qualche definizione di metafisica. Mi pare, però, di poter affermare con tutta serenità che essa non può venir spiegata facendo appello alla via secondaria dell’arte. Vi è infine la quarta soluzione, quella che con termine schellinghiano ho chiamato “per indifferenza”, ma che si potrebbe anche dire dell’identità sostanziale. La difficoltà sollevata da questa soluzione riguarda lo stesso concetto schellinghiano di indifferenza e, quindi, la filosofia dell’identità che suppone. Quest’ultima, come sappiamo, mira a sostenere l’identità di natura e spirito dal punto di vista spinoziano dell’Assoluto. Se perseguita fino in fondo, tale soluzione, sostenendo la sostanziale identità di estetica e filosofia della natura, ci mostrerebbe che implica almeno due tesi tra loro alternative. Quella contenuta in un senso “debole”, anzi debolissimo, dell’identità, per cui l’estetica dovrebbe recidere ogni legame critico con antropologia e disposizioni naturali per trasformarsi in una filosofia del fare (della poiesis) e, in via subordinata, in un’ermeneutica dei suoi prodot-
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Del senso dell’estetica (e della sua non identità con la filosofia dell’arte)
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ti. Oppure quella di un’identità in senso proprio, sottolineata dalla nozione schellinghiana di indifferenza. Se non volesse avventurarsi in una nuova filosofia dell’Assoluto, il difensore di questa ultima tesi dovrebbe almeno accettare una naturalizzazione e dell’estetico e dell’artistico. A questo punto, però, invece che limitarci a parlare di un’identità difficile, dovremmo affrontare ben altri problemi. L’aver scartato quattro possibili modi di intendere l’identità tra estetica e filosofia dell’arte, non conduce affatto a sostenere l’irrelazione tra i due termini. Sarebbe negare l’evidenza. Ma vedere ciò che abbiamo dinanzi agli occhi, se non altro nella forma di un’opinione generalmente condivisa, non esonera dal pensare la forma di tale relazione, cercando di offrirne la giustificazione logico-concettuale o, se si vuole, lo spazio quasi trascendentale della sua stessa possibilità. La mia tesi è che la relazione tra estetica e filosofia dell’arte sia da pensare come una relazione implicativa, anziché identitaria. Per questo è necessario chiarire anzitutto quale sia l’oggetto dell’estetica: ciò di cui è chiamata ad occuparsi, i problemi cui deve rispondere. Chiarito questo, si vedrà che l’arte, o meglio la funzione artistica come uno dei modi della funzione simbolica che instaura vincoli tra la mente umana e il mondo, riguarda l’estetico solo per un aspetto, mentre per un altro aspetto riguarda una più generale filosofia del fare umano, una filosofia che potremmo chiamare sinteticamente della techne, in quanto virtù dianoetica (habitus produttivo secondo ragione), e dei suoi effetti sul mondo umano e sul mondo in generale. Dico subito che questo ultimo versante problematico (quello della techne come fare produttivo in base ad un’intenzione razionale: ad un progetto) sarà abbandonato subito, se non altro perché dovremmo impegnarci nel dissodare concettualmente il confine (questo sì veramente difficile!) tra artificio e natura. Focalizzerò invece la parte di discorso che mi resta sulla specificità della nozione di estetico in generale (sull’estetico come categoria e, quindi, come ambito semantico), per vedere poi in che senso si possa parlare di un oggetto dell’estetica. Sono d’accordo a tale proposito che bisogna partire da Baumgarten per comprendere almeno una prima definizione di estetico e quindi il primo delinearsi di una vera e propria autonomia dell’estetica. Ma la nascita dell’estetica con Baumgarten è una nascita ambigua, in quanto la dimensione autonoma dell’estetico è acquisita al prezzo di una sua confusione con il cognitivo. Per comprendere questa mia affermazione basta leggere la terza Critica di Kant, dove l’autonomia dell’estetico (coincidente per Kant con la specificità del giudizio di gusto) è raggiunta senza essere confusa con il cognitivo o con l’etico e, ancor meno, con il metafisico, bensì in virtù di una po-
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tenza riflessiva che sorge dal terreno generico dell’esperienza (e qui un maestro come Emilio Garroni ha ancora molto da insegnare a tutti noi), come un effetto per così dire performativo di un giudizio soggettivo. È solo pensando l’indeterminatezza del giudizio riflettente, infatti, che Kant coglie la relazione tra esperienza e genesi del senso e con essa la genuina autonomia dell’estetico nella forma di un paradossale2 passaggio, di un passaggio necessario che pur permane nella sua strutturalità, sia antropologica sia trascendentale.3 Se la “svolta” nei confronti dell’oggetto dell’estetica avviene con Kant, il battesimo vero e proprio dell’estetico come categoria è però contenuto in una nota alla lettera XX delle Lettere sull’educazione estetica di Schiller.4 Qui Schiller, dopo aver chiarito come dal punto di vista del soggetto l’estetico configuri quella mittlere Stimmung che segna indeterminatamente il passaggio dal sentire al pensare, definisce il termine “estetico” come qualità di un oggetto, distinguendolo sia dalla sua qualità fisica (in rapporto alle nostre esperienze e disposizioni sensoriali ovvero alla sensibilità) sia dalla sua qualità logica (in rapporto con il nostro atteggiamento cognitivo ovvero con il nostro intelletto), come pure da quella morale (in rapporto con la nostra volontà di agenti razionali). È proprio in virtù di tale distinzione, osserva Schiller, che nell’estetico si esprime tanto l’indeterminatezza del soggetto quanto l’indeterminatezza dell’oggetto nell’unità di una relazione di senso: di una relazione estetica. Proprio in quanto la qualità estetica dell’oggetto, distinguendosi da ogni altra qualità, si rapporta con la totalità delle nostre forze “senza essere un oggetto determinato per una sola di esse”,5 fa emergere per noi la questione stessa del senso. Grazie a questo passo schilleriano ci si può così avvicinare senza difficoltà al problema stesso dell’estetica come dimensione essenziale del discorso filosofico. Nella dimensione estetica, infatti, abbiamo a che fare con una duplice modalità di esperire-conoscere il senso: quella relativa alla nostra capacità soggettiva di sentire e di intessere così una trama di relazioni percettive con il mondo, e quella che si produce in virtù del no2 3 4 5
Come sappiamo per Kant quello del giudizio estetico è un territorio problematico senza dominio specifico. Qui rinvio a quanto sostenuto e argomentato in F. Desideri, Il passaggio estetico, cit. Per quanto qui solo accennato si veda in questo libro (Parte seconda, Capitolo IV) il saggio “Freiheit in der Erscheinung”: spazio estetico e genesi della coscienza in Schiller. F. Schiller, L’educazione estetica, a cura di G. Pinna, Aesthetica, Palermo 2005, p. 102 (nota).
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Del senso dell’estetica (e della sua non identità con la filosofia dell’arte)
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stro condividere un linguaggio-mondo; da una parte dunque il senso come sensibilità e dall’altra il senso come ciò a cui mira la comprensione, ciò che appunto l’intelligenza può afferrare. Bene, l’“estetico” riguarda proprio l’unità effettiva, quale si dà nell’esperienza di ciascuno, di questi due possibili significati del “senso”. La riguarda, appunto, come una sorta di “sinolo”, implicito nella struttura stessa dell’aisthesis, tra la dimensione emotiva e la dimensione cognitiva: come un vincolo che si stringe (e proprio in quanto si stringe, può anche sciogliersi) in ogni nostra relazione percettiva con il mondo e con gli altri. Ecco perché ho sostenuto che non esiste identità tra estetica e filosofia dell’arte. Perché i problemi da cui muove l’estetica sono più ampi rispetto a quelli del fare artistico e dei suoi prodotti. I problemi impliciti o espliciti che lasciamo affiorare ogniqualvolta valutiamo esteticamente qualcosa – indipendentemente dal fatto che ciò che abbiamo di fronte sia un prodotto del fare umano o sia qualcosa di naturale – sono degni di essere interrogati di per sé, perché qui c’è un significato dell’estetico che si distingue rispetto all’emergere di organizzazioni funzionali dell’umano e che, nello stesso tempo, non si estingue, permanendo strutturalmente come terreno fecondo di questa stessa emergenza. Nell’estetico, come indice di una relazione costitutiva della nostra stessa esperienza, emerge dunque l’originaria complicazione di mente e mondo e, insieme, il senso stesso del loro confine, come uno spazio da cui sorge la nostra stessa soggettività. Inteso in questi termini, il senso generico dell’estetico si delinea come strutturale anticipazione di ogni altra distinzione simbolico-funzionale, vale a dire come un permanente e inestinguibile “essere in anticipo”, che potrebbe anche tradursi in una paradossale forma di “a priori”. Un a priori alquanto paradossale, appunto perché il modo del suo darsi all’interno dell’esperienza è sempre nell’intima contingenza del percepire quale vincolo effettivo tra sentire e conoscere: una contingenza, però, capace di emergere sulla scena della nostra coscienza, nello spazio attenzionale che originariamente (esteticamente) la distingue. La categoria di “attenzionalità”, che traggo liberamente da Genette e da Schaeffer, si rivela così come una categoria decisiva per definire l’estetico in senso specifico (e il relativo atteggiamento). Così non si perde di vista il rapporto tra il senso specifico dell’estetico (quale si dà nella forma di giudizi del tutto inconfondibili sia con quelli a tenore epistemico sia con quelli a tenore etico) e il suo senso generico (quale si dà a partire da una serie di disposizioni unificabili nella nozione di “attitudine attenzionale”, come
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La misura del sentire
nozione di confine tra non-intenzionalità e intenzionalità)6. Proprio in virtù di tale intimo rapporto con il suo senso generico, quello specifico può anche precisarsi come un fare esperienza del modo stesso in cui noi solitamente facciamo esperienza. Perciò l’estetico si determina come terreno stesso della genesi del simbolico. L’oggetto che si costituisce in esso, come distinto da qualità che abbiamo detto indeterminata, non può quindi essere pensato che a partire dal complesso di quell’atteggiamento estetico dove la libertà immaginativa gioca sempre (implicitamente o esplicitamente) un ruolo. Nel rapporto tra libertà immaginativa e vincolo percettivo e, dunque, nella capacità di sciogliere e riannodare legami tra la dimensione emotiva e quella cognitiva dell’esperienza, l’oggetto (ciò a cui mira il giudizio) è investito di senso: di un senso che eccede ogni sua determinazione. Seguendo questa strada, qui soltanto evocata, possiamo evitare due errori nella definizione dell’oggetto stesso dell’estetica. Da un lato, quello del credere al mito dell’innocenza percettiva, al mito che vi sia uno strato fenomenologicamente schietto dell’esperienza, tale per cui si tratterebbe di descrivere i contenuti dell’estetico indipendentemente da quelli che sono i condizionamenti e le informazioni linguistico-tradizionali che permeano la nostra vita percettiva sin quasi dall’inizio. Dall’altro, quello di tradurre senza residui lo spazio dell’estetico con lo spazio dell’interpretazione. È l’errore di una certa ermeneutica contemporanea di derivazione gadameriana; un errore che ha come conseguenza sia la frettolosa identificazione dell’estetica con una filosofia dell’arte sia la dissoluzione dell’estetica stessa in un’ermeneutica. Trascurando appunto che comprensione e interpretazione, pur intimamente relate, non sono affatto lo stesso. Noi interpretiamo laddove non riusciamo a capire, laddove sussistono dei fraintendimenti, mentre il momento della comprensione segna il pur provvisorio estinguersi di quello interpretativo.7 Una delle modalità più interessanti del processo della comprensione è del resto dato proprio dal fatto che i suoi risultati non sono mai trasferibili, senza residui, né nell’orizzonte puramente logico di determinazioni concettuali né in quello di fatti puramente linguistico-proposizionali. Ogniqualvolta noi abbiamo cognizione di qualcosa, sia essa una frase o un’opera d’arte, i due strati fondamentali del modo di funzionare della nostra 6 7
Al costitutivo nesso tra attenzionalità ed esteticità è dedicata tutta la prima parte del mio La percezione riflessa, Raffaello Cortina, Milano 2011. Rinvio qui al saggio F. Desideri, Afferrare il senso, lasciare il segno. L’incomunicabile nella lingua, in M. Ruggenini, G. L. Paltrinieri (a cura di), La comunicazione, Donzelli, Roma 2003, pp. 43–53.
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Del senso dell’estetica (e della sua non identità con la filosofia dell’arte)
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mente, quello emotivo e quello cognitivo, si congiungono fin quasi a fondersi in uno: risuonano insieme. Ed è appunto a tale proposito che il piacere stesso della comprensione resiste ad ogni dissoluzione emotivistica dell’estetico. Quel piacere della comprensione, come spiega Kant nel § 9 della Critica della facoltà di giudizio, dove emerge il problema stesso della coscienza estetica e, ad essere conseguenti, anche quello del suo rapporto con la deduzione trascendentale.8 In conclusione, la mia posizione mira a difendere l’autonomia dell’oggetto stesso dell’estetica a partire dalla nozione di “estetico” come unità problematica di soggettuale e oggettuale e, dunque, come strato primario seppur mai puro dell’esperienza (stando sempre esso nel circolo tra originarietà e derivatezza, così come il quello tra intenzionalità e non-intenzionalità). Implicato in tale autonomia, nella sua paradossalità di anticipante passaggio, sta il problema stesso dell’unità del senso come unità tra i suoi due principali significati. Un’unità, in virtù della quale si deve presupporre che la dimensione del sensoriale sia sempre più ampia di quella percettiva, che quella percettiva sia sempre più ampia della trama linguistica da cui è organizzata e che quest’ultima, a sua volta, sia più ampia delle sue stesse categorizzazioni (sia di quelle implicite che precedono il sorgere del linguaggio stesso, sia di quelle esplicite che lo seguono necessariamente). Si potrebbe osservare in limine che la non legittimità della dissoluzione dell’estetica in un’ermeneutica (con il necessario correlato di una pur difficile identificazione tra estetica e filosofia dell’arte) deriva da un difetto di teoria ontologica. L’ontologia dell’ermeneutica è pur sempre un’ontologia linguistica che trascura una dimensione essenziale del senso, proprio quella dimensione che talvolta risuona come ombra della parola o addirittura come confine del linguaggio e quindi come confine dell’opera d’arte.
8
Cfr. per questo F. Desideri, Il passaggio estetico, cit., pp. 95–128; ma vedi anche in questo stesso volume (Parte seconda – Capitolo IV) il saggio Spazialità. Senso interno e senso esterno nella critica kantiana dell’idealismo cartesiano.
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II NO AESTHETICS WITHOUT META-AESTHETICS
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Aesthetics is of necessity a border-line science, which does not always know its own boundaries. Robert Morris Ogden
Un buon punto di partenza per la nostra questione – pensare cosa c’è o ci può essere “Dopo l’estetica” – potrebbe essere quello di considerare il ruolo decisivo assunto dall’esteticità delle interfacce digitali nella trasformazione delle nostre attuali forme di vita. Se non altro per il fatto che a questo proposito non ci si può più limitare a parlare semplicemente di oggetti definiti da una loro pur relativa autonomia né, sul versante opposto, di atteggiamenti o esperienze. Non è sufficiente, infatti, a render conto del carattere estetico delle interfacce un’analisi di tipo oggettuale (una teoria degli oggetti estetici) o una considerazione relativa a disposizioni soggettive ed atteggiamenti nei confronti del mondo (una teoria dell’attitudine estetica). È proprio la tradizionale scissione tra questi due possibili approcci alla dimensione estetica dell’esperienza ad essere messa radicalmente in questione con le attuali interfacce, in particolare quelle relative alla interconnessione (di tipo web 1.0 e 2.0) tra singoli, comunità ed istituzioni. In quanto, appunto, siamo di fronte a dispositivi di mediazione attiva tra mente e mondo, caratterizzati da una ricerca di esteticità che funzioni da vettore e da acceleratore del formarsi di spazi d’interattività, dove mutano e s’intrecciano reciprocamente – sia in forma di micro-routine consuetudinarie sia in forme di macroeventi consapevolmente partecipati – rapporti sociali, nuovi orizzonti cognitivi e trasformazioni di tipo culturale. Sono riflessioni suggerite dalla lettura di un articolo apparso su l’“International Journal of Human-Computer Studies”, Facets of visual aesthetics, scritto da due studiosi di psicologia, Morten Moshagen dell’Università di Mannheim e Meinald T. Thielsch dell’Università di Münster.1 Il saggio dei due studiosi tedeschi è, infatti, sostanzialmente dedicato a definire in senso operativo un’estetica visuale delle interfacce digitali e a sviluppare, di conseguenza, i criteri per misurare la percezione estetica dei siti web. L’i1
M. Moshagen, M.T. Thielsch, Facets of visual aesthetics, in “International Journal of Human–Computer Studies”, vol. 68, issue 10, 2010, pp. 689-709.
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dea è quella di delineare un modello capace di integrare percettivamente usabilità, soddisfazione estetica e piacere. Mosagen e Thielsch indicano quattro aspetti o sfaccettature (facets) del modello: la semplicità, la differenziazione (la varietà), in quanto parametri formali degli oggetti estetici, i colori come proprietà tradizionalmente critica di essi e infine quella sapienza artigianale (Craftsmanship) capace di indirizzare in un’abile e coerente integrazione le dimensioni rilevanti del design. Quanto mai istruttiva è anche la bibliografia a corredo del saggio. Scorrendola apprendiamo come la letteratura sull’argomento sia ormai molto ricca (lo stesso Thielsch è autore di un volume sull’estetica dei siti Web2) e come questa letteratura non sia affatto sprovveduta e priva di riferimenti a classici dell’estetica moderna, soprattutto relativi al suo rapporto con la psicologia (da Fechner ad Arnheim, ad esempio). Da questo iniziale riferimento traggo due elementari riflessioni. La prima è che l’oggetto dell’estetica – ciò di cui essa si occupa a partire da Baumgarten – ed in particolare quel plesso denso e problematico costituito dalla qualità delle dinamiche percettive (e dal conseguente annodarsi in esse di dimensioni emotive e cognitive) è ancora oggi di assoluta rilevanza per le nostre forme di vita. Queste ultime, infatti, sono cambiate non solo in virtù dell’impatto con le nuove tecnologie digitali, ma anche, ed in misura decisiva, in forza della loro esteticità. Non si può parlare, quindi, di un “Dopo l’estetica” riferendoci al suo oggetto classicamente inteso (quello che si disegna pur problematicamente, per intenderci, tra Baumgarten, Hume e Kant), a meno che non si accetti la riconfigurazione idealistica di tale oggetto nei termini di una filosofia dell’arte.3 La seconda riflessione è, di conseguenza, che il “dopo” riguarda un certo modo di intendere l’estetica come esercizio teorico-filosofico; destinata inesorabilmente a tramontare è pertanto un’estetica che non si misura con i problemi adombrati nelle battute iniziali della mia riflessione e, più in generale, con quanto sta dinanzi ai nostri occhi e, nello stesso tempo, ci sta inevitabilmente trasformando quanto ad abitudini, percezioni, modi di vedere il mondo. Più in generale credo che sia già sul viale di un inarrestabile declino un’estetica che privilegia contenuti culturali e risvolti esistenziali; un’estetica, per essere più espliciti, risolta in ermeneutica, appunto perché ritiene che suo unico 2 3
M.T. Thielsch, Ästhetik von Websites. Wahrnehmung von Ästhetik und deren Beziehung zu Inhalt, Usability, und Persönlichkeitsmerkmalen, MV Wissenschaft, Münster 2008. Contra questa tesi vedi il saggio precedente, Del senso dell’estetica (e della sua non identità con la filosofia dell’arte.
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oggetto di esercizio siano la grande arte e la grande letteratura, magari per lamentarne la fine. Il fatto è, poi, che questa fine non viene mai e noi possiamo continuare a leggere romanzi straordinari come quelli di Philip Roth o di Orhan Pamuk o vedere opere di fortissimo impatto visivo, di notevole spessore simbolico-filosofico e di indubbia innovazione tecnico-linguistica come i video-quadri di Bill Viola.4 Ma non è questo il problema. Il problema è quello di pensare positivamente un “Dopo l’estetica”, se non si vuole che ad occuparsi in maniera diretta delle nuove forme e configurazioni assunte dal suo oggetto siano studiosi di altre discipline (dalla critica d’arte alla computer science, dalla psicologia cognitiva alle neuroscienze), lasciando alla tribù di coloro che si occupano professionalmente di estetica lo studio della sua storia. Anche in questo caso si assisterebbe ad una dissoluzione dell’estetica, non più per estenuazione, ma per smembramento del suo nucleo tematico costitutivo in una molteplicità di direzioni, inevitabilmente poco preoccupate di una considerazione tematizzante suscettibile di uno sviluppo teorico coerente. Per evitare questo rischio si tratta di mettere ordine in casa propria, un ordine sia metodologico sia concettuale (nel senso di un lavoro sui concetti costitutivi di un’estetica non dimentica del proprio nome e della propria origine): un ordine provvisorio (non certo l’Ordine con la maiuscola), ma tale da rendere possibile e, anzi, da favorire un’operatività analitica, muovendo dai fenomeni più ordinari di impatto della questione estetica (dalle implicazioni estetico-antropologiche delle interfacce tecnologiche al nesso quanto mai attuale tra estetizzazione e politica). A questo scopo sostengo che, se non ci si vuole rassegnare ad amministrare in senso critico-storiografico il tradizionale patrimonio filosofico della disciplina (o almeno quello che, di volta in volta, viene ritenuto tale), il passo necessario da compiere “Dopo l’estetica” (dopo il tramonto di una certa concezione e pratica di essa) va verso una meta-estetica. Riassumendo la mia proposta in 4
Naturalmente arte e letteratura sono argomenti degnissimi e irrinunciabili di una considerazione estetica, a condizione, però, che non ne esauriscano l’oggetto, precostituendone i binari metodologici. La tesi che il nocciolo dell’estetica sia costituito dal problema dell’arte non è, certamente, un’esclusiva della filosofia di orientamento ermeneutico. Seppur declinata in maniera radicalmente diversa, la convinzione che tutto quanto riguarda l’esperienza estetica nella sua quotidianità sia semplicemente preparatorio all’analisi dell’opera d’arte è difesa da un filosofo di orientamento analitico come Richard Wollheim. Si veda, al riguardo, R. Wollheim, The Core of Aesthetics, in “Journal of Aesthetic Education”, Vol. 25, No. 1, Special Issue: More Ways of Worldmaking (Spring, 1991), pp. 37–45. Ho discusso la posizione di Wollheim in F. Desideri, La percezione riflessa. Estetica e filosofia della mente, cit., pp. 6-10.
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un ironico slogan: solo una meta-estetica ci salverà (salverà l’estetica dalla sua dissoluzione). L’espressione “meta-estetica”, in questo contesto, potrebbe essere intesa almeno in tre modi. In primo luogo, come una riflessione su atteggiamenti, esperienze, percezioni, relazioni ed oggetti di tipo estetico. Una riflessione che può assumere anche il carattere trascendentale o quasi-trascendentale di un’analisi relativa alle condizioni di possibilità e, quindi, alla legittimità di ciò che si presenta come estetico, in particolare nella forma proposizionale del giudizio. Una tesi del genere è stata sostenuta da Jean-Marie Schaeffer in un libro del 1992, L’art de l’âge moderne. L’esthetique et la philosophie de l’Art du XVIIIe siècle à nos jours, e ripresa con assenso da Gérard Genette ne La relation esthétique.5 Naturalmente il riferimento di Schaeffer è alla Critica della Facoltà di giudizio di Kant, e in particolare al fatto che l’analisi legittimante (in senso trascendentale) del giudizio estetico caratterizza l’impresa kantiana come meta-estetica, differenziandola in maniera radicale dalla teoria speculativa dell’arte propria della filosofia romantica e dell’idealismo. Così, sostiene Schaeffer, Kant dimostrerebbe che nel campo dell’estetica, ivi compreso quello delle belle arti, è «impossibile qualsiasi genere di dottrina». C’è però da osservare che se la “critica” nel senso kantiano impedisce una dottrina, d’altra parte non può caratterizzarsi positivamente in senso meta-estetico. A meno di non far coincidere il suo campo concettuale con quello di riflessivo o, in un senso più caratterizzante, riflessivotrascendentale. La mia tesi in proposito è che, una volta preso definitivo congedo da una identificazione dell’estetica con una filosofia speculativa dell’arte, il termine “meta-estetica” risulta concettualmente ridondante rispetto ad “estetica”, in quanto quest’ultimo contiene già una dimensione riflessiva e quasi normativa6, allo stesso modo in cui la contiene quello di 5
6
Cfr. J.-M. Schaeffer, L’arte dell’età moderna. Estetica e filosofia dell’arte dal XVIII secolo ad oggi, tr. it. di S. Poggi, il Mulino, Bologna 1996, p. 94 e G. Genette, L’Opera dell’arte. La relazione estetica, a cura di F. Bollino tr. it. di R. Campi, Clueb, Bologna 1998, p. 80. Appunto in questa direzione vanno gli importantissimi studi – da Senso e paradosso (Laterza, Roma-Bari 1986) a Estetica. Uno sguardo–attraverso (Garzanti, Milano 1992) – di Emilio Garroni, dove, attraverso una rinnovata e acutissima lettura della terza Critica kantiana, si perviene ad un trascendentalismo soft per il quale l’estetica, anziché una filosofia speciale, è una riflessione a valenza filosofica generale sulle condizioni di senso dell’esperienza. Oltre il quadro di questa impostazione (e più vicino al senso di una meta-estetica che proporrò più avanti in questo saggio) mi pare, però, che vada l’ultimo notevolissimo libro di Garroni, Immagine, Linguaggio, Figura, Laterza, Roma-Bari 2005.
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“etica”, dove la normatività e la valutatività è esplicita (ad esempio quando si sostiene che il comportamento di qualcuno non è stato “etico”). Già in Hume ed in Kant, nonostante tutte le elencabili differenze tra le loro filosofie generali, è ad esempio evidente come l’analisi del giudizio estetico in quanto giudizio di gusto implichi non solo una dimensione valutativa (seppur non inferenzialmente mediata), ma anche un’istanza comparativa e di validazione non privatistico-individuale (non tutti i giudizi estetici si equivalgono), nel presupposto di un sensus communis (nel caso di Kant) o nella ricerca di uno standard ovvero di una regola del gusto a partire da condizioni ottimali del suo esercizio e dall’autorità degli esperti (nel caso di Hume). Pur precisando che, sia nel caso dell’emotivismo humiano sia in quello del libero gioco kantiano tra immaginazione e intelletto, la regola è sempre da pensarsi in necessaria connessione con la forza dell’esempio, siamo comunque di fronte ad un’istanza normativa o meglio quasi-normativa (come se lo fosse). Ed è proprio questa istanza, implicata per così dire nella grammatica dei termini “estetici”, ad impedire una divisione tra fatti e valori riguardo a ciò cui tali termini si riferiscono (e dunque ad atteggiamenti, giudizi, artefatti, oggetti per così dire generici, situazioni ecc.), così che nella considerazione di questi ultimi il confine tra analisi e riflessione, tra descrizione e valutazione appare necessariamente labile ed incerto. Un secondo significato di “meta-estetica” potrebbe essere quello di intenderla come una meta-teoria delle teorie estetiche, una sinossi critica delle virtù e dei limiti di ciascuna o delle zone di frizione paradigmatica rilevabili tra diverse prospettive. Sarebbe senz’altro legittimo “parlare di” e “praticare” una “meta-estetica” così come oggi, in particolare in una filosofia di orientamento analitico, si “parla di” e si “pratica” una meta-etica7. Di questo modo di intendere l’espressione non contesto certamente la legittimità, ne contesto piuttosto l’opportunità. A parte la diffidenza che nutro nei confronti delle meta-teorie – troppo spesso maschera scettica di una teoria che rinuncia ad emergere esplicitamente – una prospettiva di ricerca del genere più che rappresentare l’antidoto per un’estetica poco in salute, agirebbe come un pharmakon che ne affretta la fine. Magari in forma di un neutralizzante relativismo pluralistico oppure, nel meno nobile dei casi, le7
Seppur non frequentissimo, nell’ambito della filosofia analitica è comunque presente l’uso del termine “meta-aesthetics”; si vedano solo a titolo di esempio M. Rose, Nature as Aesthetic Object: an Essay on Meta-aesthetics, in “British Journal of Aesthetics”, 16, 1976, pp. 3-12; Th. Heyd, Aesthetics and Rock Art: an Introduction in Th. Heyd e J. Clegg, Aesthetics and Rock Art, Ashgate Publishing, Aldershot 2005, p. 5; R. Stecker, Value in Art, in J. Levinson, The Oxfors Handbook of Aesthetics, Oxford University Press, Oxford 2005, p. 307.
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gittimando un’idea di estetica come quella forma di letteratura filosofica dove ogni tipo di discorso è possibile. Scartato il primo significato per ridondanza e il secondo per inopportunità, resta un terzo significato di “meta-estetica”: quello di un lavoro concettuale teso a definire i confini, sia in senso verticale sia in senso orizzontale, dell’estetico. Nel primo caso, quello relativo ai confini verticali dell’oggetto dell’estetica, l’indagine riguarda direttamente la dinamica della costituzione non tanto della disciplina, quanto piuttosto della dimensione dell’esperienza che tematizza e, quindi, del territorio problematico che l’estetica scopre come qualcosa di concettualmente specifico ed irriducibile.8 Centrale diviene, in questa prospettiva, il problema della genesi dell’estetico nel paesaggio umano: quali sono i suoi vincoli per così dire ambientali ed i suoi presupposti psico-antropologici. La domanda a cui qui si tratta di rispondere è, dunque, quella relativa alle condizioni di sfondo dell’emergenza di un’attitudine estetica come costante trans-culturale e, quindi, alle conseguenze di tale emergenza per una comprensione della stessa identità umana.9 Nel secondo caso, i confini da stabilire in senso per così dire orizzontale sono quelli tra l’estetica e le altre discipline filosofiche: in particolare penso qui all’ontologia, all’etica, alla filosofia della mente e a quella del linguaggio. Ovviamente le due direzioni nelle quali dovrebbe muoversi una meta-estetica così intesa sono rigorosamente interconnesse. Ciò implica che nella definizione del senso complessivo di questo programma di ricerca non è decisiva unicamente (come potrebbe sembrare) la sua dimensione verticale, dove il confronto con la ricerca scientifica nell’ambito della psicobiologia cognitiva, delle neuroscienze e dell’antropologia dovrebbe essere costante. Anche dal suo sviluppo in “orizzontale” ossia dal 8 9
In questa direzione muove il saggio di L. Bartalesi, La nascita dell’animale estetico. Indagine preliminare a una filogenesi della relazione estetica, in “Aesthetica Preprint. Supplementa”, 23, aprile 2009, pp. 41-64. Passi in questa direzione ho cercato di muoverli in alcuni miei recenti lavori; penso in particolare a F. Desideri, Estetica e meta-estetica: vincoli percettivi, gradi di libertà, anticipazioni cognitive, in F. Desideri, G. Matteucci, J.-M. Schaeffer (a cura di), Il fatto estetico, ETS, Pisa 2009, pp. 29-44; Id., Vincoli percettivi e anticipazioni di libertà: per una revisione del modello kantiano (sul senso dell’ “estetico”), in M. Di Monte, M. Rotili (a cura di), Vincoli/Constraints - Sensibilia 2/2008, Mimesis, Milano 2008, pp. 85-100; Id., Emergenza dell’estetico tra sopravvenienza e sopravvivenza, in A. Pavan, E. Magno (a cura di), Antropogenesi. Ricerche sull’origine e lo sviluppo del fenomeno umano, il Mulino, Bologna 2010, pp. 609-624 e soprattutto in Id., La percezione riflessa. Estetica e filosofia della mente, cit.
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confronto con altre prospettive disciplinari di tipo filosofico potrebbero, se non addirittura dovrebbero risultare correzioni di rotta, riconfigurazioni delle cornici teoriche, affinamenti dei dispositivi concettuali messi in campo e cose del genere. Il significato per così dire programmatico di una meta-estetica quale quello che qui si propone non ha né il valore di una fondazione né la pretesa di pervenire ad una sistematica compiutezza. La sua esigenza è piuttosto quella di affiancare il lavoro analitico sulla rilevanza dell’esteticità per la comprensione di molti fenomeni del presente (a partire, come si è accennato all’inizio, dalle forme della vita ordinaria e dalle relative metamorfosi del comune sentire) con un lavoro sulla costituzione del suo campo concettuale e sulle dinamiche della sua genesi (sia in senso filogeneticamente evolutivo sia nel senso di uno sviluppo ontogenetico – senza per questo dover ammettere tra le due prospettive una sorta di parallelismo ad hoc). Un lavoro che miri a sottrarre l’estetica a una condizione di beata (o dannata) insularità nei confronti di altre pratiche filosofiche, attivando uno scambio effettivo su problemi determinati, senza limitarsi a prendere in prestito soluzioni teoriche e corredi categoriali definiti in altri ambiti. Si tratta, in altri termini, di vincere residue timidezze e di mettere i piedi nel piatto di altre direzioni della ricerca filosofica contemporanea, nella convinzione che considerare secondo la prospettiva dell’estetica certi problemi filosofici, tradizionalmente considerati di competenza della filosofia del linguaggio o di quella della mente (tanto per fare un esempio), non è senza conseguenze nei confronti della loro soluzione. E, naturalmente, viceversa: ossia anche il considerare da altre prospettive teoriche certi problemi tipicamente propri di una riflessione estetica, siano essi classici o di recente formulazione, può tornare del tutto a vantaggio di una loro migliore definizione. Il fatto è che, se si vuole che una meta-estetica nel senso qui suggerito abbia delle conseguenze filosofiche di valore generale, non si può prescindere dall’affrontare certe questioni. Mi limiterò qui ad indicarne quattro, senza la pretesa di conferire ad esse e alla loro successione una valenza sistematica. La prima questione riguarda la centralità di un’analisi della struttura e della dinamica della percezione per ogni discorso sull’estetica, nella convinzione che, per motivi sia di natura internamente concettuale sia di tipo più genericamente culturale, “estetico” non può comunque mai esser ritradotto con “percettivo”. Con questa precisazione resta comunque certo che per sviluppare un’analisi del fatto percettivo nel quadro problematico e categoriale di un’estetica non possiamo prescindere dall’affrontare il problema, oggi assai dibattuto, del contenuto non concettuale della percezione.
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Dal tipo di risposta che si dà a questo problema deriva anche, tra l’altro, l’indicazione della via da percorrere per definire il rapporto tra attitudine estetica e cognizione. Il secondo problema potrebbe riguardare il rapporto tra senso e riferimento in un qualsiasi giudizio estetico. In che misura il senso identificato dalla proprietà estetica che si predica di un oggetto è vincolato al suo riferimento? E quali sono, nel caso si risponda positivamente alla necessità di un riferimento, i suoi livelli di oggettività e di trascrizione categoriale? Non si dovrà piuttosto ricorrere all’idea di un riferimento in termini di focus attenzionale, come qualche anno fa ha proposto, su un piano filosofico generale, John Campbell nel saggio Reference as attention.10 Il terzo problema potrebbe riguardare il tipo di contributo che un’analisi del rapporto tra atteggiamento estetico e intenzionalità può dare al problema di definire i livelli di congruenza, di intersezione trasversale e/o di differenziazione che mettono in relazione le nozioni di attenzione, intenzione e coscienza (un problema su cui dibatte molta filosofia della mente contemporanea sia di ispirazione cognitivista sia di ispirazione fenomenologica). Un quarto problema, infine, potrebbe essere quello della rilevanza ontologica dei fatti estetici (se vi sono e a quali condizioni). Che tipo di ontologia implica un’estetica che non si voglia risolvere in un soggettivismo emotivistico o, nel migliore dei casi, in una teoria dei sentimenti? Distinto, ma non abissalmente distante da questo tipo di problema più generale, potrebbe essere quello della specificità ontologica sia degli oggetti estetici genericamente intesi sia delle opere d’arte. Basta, a questo proposito, parlare di oggetti sociali che hanno la funzione di produrre sentimenti in chi ne fruisce (come mi pare pensi Maurizio Ferraris11) o non si deve piuttosto parlare, soprattutto riguardo a quanto viene identificato come arte, di oggetti che incorporano una peculiare intenzionalità (secondo la nota tesi di Alfred Gell12)? E, in appendice a questo problema, la stessa possibilità di 10
11 12
Cfr. J. Campbell, Reference as attention, in “Philosophical Studies: An International Journal for Philosophy in the AnalyticTradition”, Vol. 120, No. 1/3, Proceedings of the Thirty–Fifth Oberlin Colloquium in Philosophy: Philosophy of Perception (Jul.-Sep. 2004), pp. 265-276; ma si veda anche il precedente lavoro dello stesso autore e la relativa discussione di Michael Martin: J. Campbell, M. Martin, Sense, Reference and Selective Attention, in “Proceedings of the Aristotelian Society”, Supplementary Volumes, Vol. 71, 1997, pp. 55-98. Cfr. M. Ferraris, La fidanzata automatica, Bompiani, Milano 2007. Cfr. A. Gell, Art and Agency: An Anthropological Theory, Clarendon Press, Oxford 1998.
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pensare l’opera d’arte nei termini di una ontologia dinamica13 ha delle conseguenze rilevanti per una differenziazione dell’ontologia secondo livelli e strati (alla Hartmann, tanto per intendersi)? Sottolineare il carattere aperto e internamente mosso di questo modo di intendere una meta-estetica (premessa necessaria ad un’estetica che, pur nella fedeltà alla sua origine illuministica14, sia capace di una nuova configurazione15 adeguata alle sfide del contemporaneo) non deve tuttavia dare l’impressione di una indifferenza alla teoria che si spinge fino all’anything goes. Decisiva, al riguardo, è la coerenza e la fecondità dell’idea di partenza, la tesi di sfondo che dovrebbe funzionare da filo conduttore alla pluralità di vie in cui si tenta la ricerca. Per questo non basta più un’impostazione di tipo trascendentale o quasi-trascendentale e può essere accolto, cum grano salis, anche quel programma di naturalizzazione della fenomenologia (e la connessa idea di una “cognizione incarnata”) avviato qualche anno fa, insieme a diversi altri, da Jean Petitot e Francisco J. Varela.16 Ma soprattutto è necessario riprendere l’idea cara a Wilfrid Sellars che tra i compiti della filosofia vi è anche quello di formulare ipotesi e fingere modelli (la filosofia, dice appunto Sellars, «può forse essere la casta musa della chiarezza, ma è anche la madre delle ipotesi»17), senza dimenticare che ipotesi e modelli vanno messi alla prova.18 Inevitabilmente l’ipotesi di partenza 13
14 15
16
17
18
Cfr. per questo F. Desideri, Ontologie statiche e dinamiche. Danto vs. Goodman (e oltre), in “Paradigmi”, anno XXVIII, n. 2, nuova serie, aprile-settembre 2010, pp. 25-42; il numero, a cura di G. Di Giacomo e L. Marchetti, è interamente dedicato a “L’oggetto nella pratica artistica”. Si veda per questo E. Franzini, Elogio dell’illuminismo, Bruno Mondadori, Milano 2009. Anche nella direzione di una esteticità del sapere come condotta antropologica che riconfigura di continuo il senso del mondo; vedi per questo G. Matteucci, Il sapere estetico come prassi antropologica. Cassirer, Gehlen e la configurazione del sensibile, ETS, Pisa 2010. Cfr. J. Petitot, F.J. Varela, B. Pachoud, J.-M. Roy (a cura di), Naturalizing phenomenology. Issues in contemporary phenomenology and cognitive science, Stanford University Press, Stanford (California), 1999; ma si veda anche S. Gallagher, D. Zahavi, La mente fenomenologica. Filosofia della mente e scienze cognitive, tr. it. e postfazione di P. Pedrini, Raffaello Cortina Editore, Milano 2009. W. Sellars, Science and Metaphysics: Variations on Kantian Themes, Routledge & Kegan Paul, London 1968, p. 12; traggo la citazione dal notevole libro di P. Tripodi, Dimenticare Wittgenstein. Una vicenda della filosofia analitica, il Mulino, Bologna 2009, p. 350. Anche nel senso, ancora sottolineato da Sellars, che non bisogna confondere il fatto che la filosofia wittgensteiniamente non è una scienza, con il fatto che non ha bisogno della scienza.
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circa la genesi e la natura dell’estetico deve riguardare anche il suo rapporto con quanto, dal punto di vista delle funzioni e degli atteggiamenti umani, appartiene a campi semantico-concettuali differenti. L’ipotesi-guida dell’idea di meta-estetica che propongo qui come un obiettivo da perseguire riguarda anzitutto il carattere attivamente anticipante dell’estetico (dell’esercizio di un’attitudine estetica) nei confronti tanto del cognitivo quanto dell’etico. Si tratta di una tesi che trae liberamente spunto da quanto Kant sostiene nella Critica della facoltà di giudizio a proposito del giudizio estetico come anticipazione della forma di una conoscenza in generale. L’idea, esposta più distesamente in altri miei lavori,19 muove dalla preoccupazione di difendere il valore generale dell’estetico e il suo carattere meta-funzionale appunto nella forma di un’attitudine umana nei confronti del mondo che si presenta strutturalmente costante (non dipendente, cioè, da contesti culturali, epocali o da fasi dello sviluppo individuale). Il nucleo generativo di tale idea è offerto da un’analisi della percezione come dinamica che si innesta in (e nello stesso tempo alimenta) una trama memoriale inscritta in una corporeità non idealizzata in “carne”, ma comunque vissuta. In questa dinamica, la differenziazione tra il tenore emotivo e l’aspetto cognitivo è da considerarsi come successiva al loro presentarsi in stato di fusione e cioè come una sintesi densa, rispetto alla quale l’idea di una netta distinzione tra emozione e cognizione ha il valore per così dire ‘economico’ di un’astrazione funzionale. Una distinzione e, talvolta, anche una perseguita separazione che non possono comunque risolvere il problema di una tensione e/o di un interagire tra i due aspetti facendo leva sul valore cognitivo delle emozioni. Pur ammesso, questo valore non esaurirà mai il differenziale di senso che caratterizza il tenore emotivo implicato, naturalmente in maniera variabile, nella dinamica delle percezioni. Peculiarità dell’estetico, nella sua emergenza (e quindi nel suo carattere di intonazione dell’esperienza a partire dal commercio percettivo tra una mente embodied e l’ambiente) è proprio quella di stringere un vincolo virtuoso tra l’elemento della risonanza emotiva e quello della discriminazione cognitiva di uno scambio percettivo. “Virtuoso” per il motivo che tale vincolo non è sentitopercepito come costrizione, appunto in quanto contraddistinto da gradi di libertà che permettono di muoversi con agio al suo interno e, di conseguenza, anche nello spazio di una connessione tra vincoli percettivi di primo livello (ossia vincoli modulari di carattere subpersonale) e vincoli culturali/rappresentazionali di secondo livello.
19
Si veda per questo la nota 9.
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Presentandosi nella forma logicamente paradossale di un vincolo libero ed in quanto tale gratificante, l’estetico sarebbe, però, limitato nel suo significato meta-funzionale e nel suo valore anticipante qualora fosse definito nei termini di una «prestazione cognitiva a soddisfazione interna».20 Una definizione senz’altro acuta nella sua formula, ma limitante, in quanto confina il ruolo dell’emotivo (il piacere, nei termini di Hume e di Kant) ad una conferma interna della valenza cognitiva della relazione estetica. La soddisfazione o gratificazione riguarda qui, piuttosto, l’accordo o consonanza che si instaura tra interno ed esterno, tra il riferirsi a sé di una mente incarnata e l’ambiente. Se commisurato a tale ‘consonanza’, l’aspetto cognitivo non può esaurire la dimensione estetica dell’esperienza umana. La preferenza che si accorda ad un qualsiasi oggetto, manifestata dal carattere valutativo della ricognizione estetica,21 ha, infatti, sia il valore di una scoperta sia quello di una conferma rispetto a delle pur indeterminate attese nei confronti del mondo o di una parte specifica di esso (ad esempio nei confronti degli appartenenti alla mia stessa specie). Non solo le informazioni che veicola un’esperienza estetica sono, allora, sia di tipo cognitivo sia di tipo emotivo, ma i due tipi di informazione, in questo caso, si rafforzano anche reciprocamente fino a stabilire un vincolo ‘estetico’ con l’ambiente che è già di per sé emozionalmente intonato22 (ha un tono e dunque una risonanza che riguarda l’armonizzarsi di esterno ed interno). Un vincolo ‘fecondo’, potremmo dire, proprio grazie alla simpatetica relazione che la mente instaura con l’oggetto dell’attenzione, dove il tenore cognitivo e quello emotivo, costituenti ogni fatto percettivo, si stringono nell’unità (di senso) di una connessione favorevole. Ed è proprio nell’aspetto favorevole di tale connessione che l’anticipazione cognitiva (anche nella forma di una strategica differenza tra le modalità del comprendere e quelle del conoscere23) assume anche i caratteri di una anticipazione etica, quale premessa e promessa di una buona relazione con gli altri e con il mondo. 20 21 22 23
È la tesi sostenuta da Jean-Marie Schaeffer in Les célibataires de l’art, Gallimard, Paris 1996 e, soprattutto, in Addio all’estetica, tr. it. di M. Puleo, introduzione di G. Puglisi, Sellerio, Palermo 2002. Nel senso appunto che il riconoscimento/attribuzione di una proprietà estetica non ha un valore puramente osservativo-constativo. Sono infatti gli stessi termini ‘estetici’ a implicare una qualche valutazione. Potrebbe essere considerata qui l’estetica delle atmosfere studiata da Tonino Griffero; cfr. Id., Atmosferologia. Estetica degli spazi emozionali, Laterza, Roma-Bari 2010. Per questo rimando a F. Desideri, Del comprendere. A partire da Wittgenstein, in “Atque“, n.s., 5, 2008, pp. 135-154.
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La misura del sentire
Se inteso alla luce di questa ipotesi meta-estetica di sfondo, l’estetico – lungi dal ridursi ad una funzione accessoria o residua (o, nel migliore dei casi, ad una funzione specializzata nella fruizione di opere d’arte e affini) – si configura, piuttosto, come una dimensione che permea l’intero campo della nostra vita mentale (e la trama percettiva e memoriale che ne configurano il ‘paesaggio’): come un’attitudine complessiva all’origine di un atteggiamento al confine dell’intenzionalità (quasi-intenzionale)24 con la valenza di una funzione generale o meglio di una meta-funzione. Un’attitudine genericamente meta-funzionale, dunque, che si presenta nella forma quasi paradigmatica di esperienze esemplari, dove la singolarità del fatto percettivo acquisisce il valore generale di un primo orientamento nei confronti del mondo: una prima capacità di organizzarne sensatamente le informazioni fino ad intonarle, facendone risuonare internamente il senso, unificando complessi emozionali in sentimenti. In quanto primo orientamento – primo sia in senso genetico sia in senso strutturale rispetto all’emergere e allo stabilizzarsi funzionale di altri atteggiamenti intenzionali, in particolare di quello cognitivo e di quello etico – l’atteggiamento estetico non può, perciò, nemmeno essere risolto e pienamente identificato con gli schemi culturali, e con le relative ontologie, in cui si concretizza e si sviluppa. Semmai l’estetico, anche a motivo del ruolo decisivo che vi svolge la prestazione immaginativa (matrice di ogni ipotesi gettata sul mondo come una rete, secondo l’immagine di Novalis ammirata da Popper), può agire all’interno di questi schemi come una dinamica generativa di senso, capace sia di allentarne la rigidità sia di rinnovarli e riconfigurali (anche a partire da micro-bricolages). A tale riguardo si potrebbe essere anche tentati di risolvere il problema del relativismo culturale in cui si incarna l’atteggiamento estetico, fino quasi a veder messa in discussione la sua caratteristica di costante antropologica, identificandolo con un originario atteggiamento mitico o mitico-religioso nei confronti del mondo. Ma una soluzione del genere – blandamente vichiana o esplicitamente cassireriana – ometterebbe del tutto la questione del persistere dell’atteggiamento estetico ben oltre i contenuti mitopoietici nei quali si fosse inizialmente espresso, privilegiando di esso il versante dei suoi contenuti semantici a scapito del suo significato strutturale non necessariamente vincolato ad una coscienza mitica. Piuttosto si
24
Vedi per questo l’importante libro di J. Benoist, I confini dell’intenzionalità. Ricerche fenomenologiche e analitiche, a cura di L.M. Zanet, Bruno Mondadori, Milano 2008.
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No aesthetics without meta-aesthetics
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potrebbe sostenere che di tale forma della coscienza l’atteggiamento estetico ne mantiene l’eco e per così dire la memoria. Considerato come una meta-funzione strutturale soggiacente a significazioni mitico-affabulatorie con valore olistico nei confronti del senso della realtà e delle ontologie che intenzionano, ma nient’affatto riducibile a queste, l’estetico assumerebbe il valore di un passaggio al confine tra biologia e cultura, tra disposizioni naturali e significazioni. Un passaggio estetico, appunto, che non sta soltanto alle nostre spalle, in quanto la virtuosità dei vincoli tra la nostra mente e il mondo attende di essere costantemente rinnovata. Risiede anche in ciò il motivo che ci fa concludere con una punta di ottimismo nei confronti della domanda di cosa ci sia “Dopo l’estetica”. Dal momento che il suo oggetto coinvolge il senso stesso dell’identità umana e la possibilità di una sua fioritura, “dopo” – come si è anticipato (e probabilmente alle condizioni che si è detto) – c’è ancora un’estetica.
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III
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HOTSPOT. ESTETICA E BIODIVERSITÀ
È piuttosto frequente trovare, in scritti di ecologisti e biologi evoluzionisti, osservazioni circa il valore estetico intrinseco della biodiversità. Osservazioni di questo tenore si affiancano spesso all’affermazione secondo la quale la biodiversità costituisce di per sé un valore etico. Di qui l’imperativo e l’urgenza della sua conservazione. Un imperativo che funziona altrettanto spesso da motivo d’ispirazione e da quadro di riferimento per le analisi circa il valore politico-economico della biodiversità e il suo significato strategico per la sopravvivenza stessa della nostra specie. All’interno di questo quadro la biodiversità sarebbe, dunque, un valore estetico in sé nella stessa misura in cui è un valore etico. Altrettanto raramente, però, i pronunciamenti a favore del valore intrinsecamente estetico della biodiversità si sviluppano in una tematizzazione del nesso che lega il campo problematico e concettuale di quest’ultima con quello dell’estetica. Il rischio, così, è che tali affermazioni funzionino per lo più retoricamente, slittando – per uno sguardo più analitico e criticamente avveduto – in una zona d’irriflessa opacità. Si tratta perciò di avviare una riflessione nel merito. Il primo passo in questa direzione è espresso dalla convinzione che spetta all’immagine teorica di estetica che coltiviamo decidere se la connessione tra estetica e biodiversità sia una connessione accessoria ed estrinseca ad entrambi i domini concettuali (ai campi di ricerca che intenzionano e ai problemi di cui sono attiva espressione) o sia invece una connessione necessaria e interna alla costituzione di entrambi. Possiamo, infatti, assumere con qualche tranquillità una formulazione standard del concetto di biodiversità, vista la giovane età del suo conio (verso la metà degli anni ’80 per merito di Walter G. Rosen che nel settembre 1986 organizzò a Washington il National Forum on Biodiversity), individuando come nucleo soggiacente alla molteplicità di dimensioni e di declinazioni semantiche che la caratterizzano la ricchezza e varietà delle specie viventi e di ecosi-
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La misura del sentire
stemi sia in senso locale sia in senso globale.1 Questa definizione è del resto in sintonia con quella contenuta nella Convenzione sulla diversità biologica adottata a Nairobi il 22 maggio 1992 e sottoscritta (fino ad oggi) da 192 nazioni, a partire dal Summit mondiale dei Capi di Stato tenutosi a Rio de Janeiro nello stesso anno:
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Biological diversity means the variability among living organisms from all sources including terrestrial, marine and other aquatic ecosystems and the ecological complexes of which they are part; this includes diversity within species, between species and of ecosystems.2
Se si assume il concetto standard di biodiversità, l’onere di risolvere il dilemma iniziale (connessione estrinseca o intrinseca) cade, dunque, sul modo in cui concepiamo l’estetica. Per tale ragione ritengo che sia quanto mai opportuno per studiosi di altre discipline e per gli stessi filosofi considerare la necessità di riconcepire radicalmente il senso dell’estetica fin dalla sua prima emergenza nel paesaggio umano come un’attitudine tipica di esso e quindi come un’attitudine a carattere transculturale. Due concezioni correnti e, almeno fino a qualche anno fa influenti, dell’estetica, seppur tra loro teoricamente divergenti, convergono, infatti, nello spingere la sua relazione con il campo problematico della biodiversità nello spazio marginale del concettualmente superfluo. Per esigenze di brevità possiamo ricondurre questi due modi di intendere l’estetica ad una teoria psicologico-soggettivistica e ad una teoria ermeneutico-culturalistica di essa. Nel corso dell’ultimo decennio ho sviluppato e articolato in esteso la critica a queste due concezioni dell’estetica in diversi saggi.3 Per questo mi limiterò qui a caratterizzare queste due accezioni dell’estetica assai concisamente. Nella prima il senso dell’estetica è inteso per lo più come un complesso di atteggiamenti, di preferenze e di giudizi nei confronti di aspetti e oggetti del mondo, capaci di suscitare emozioni e sentimenti nell’osservatore in virtù delle qualità di cui godono. Per questo motivo il tenore di tali atteggiamenti, preferenze e giudizi è un tenore eminentemente soggettivo-individuale. In gioco, insomma, non vi è una soggettività generica e universale, ma una soggettività individuale che implica sempre la prospettiva della 1 2 3
J. Maclaurin, K. Sterelny, What is Biodiversity, The University of Chicago Press, Chicago 2008, p. 174. Il testo della convenzione è scaricabile dal sito della Convention on Biologica Diversity all’indirizzo http://www.cbd.int/doc/?meeting=BDCONF. Vedi in particolare i lavori citati nella nota 9 del precedente saggio.
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Hotspot. Estetica e biodiversità
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prima persona, muovendo dalla peculiarità delle esperienze che si iscrivono nella corporeità di ognuno. Quell’estetica si configura, così, come una risposta soggettiva ad aspetti del mondo, attenta a qualità formali degli oggetti che popolano un ambiente e alle risonanze emotive che esse suscitano in virtù delle loro potenzialità espressive. Pur intendendo correttamente il complesso degli atteggiamenti estetici nei termini di un’attitudine soggettiva, questa concezione ne fornisce però una versione angusta. Magari assegnando alla dimensione estetica dell’esperienza un ruolo strategico nei processi formativi della persona – la modalità ludico-estetica dell’esperienza come infanzia e preparazione di atteggiamenti cognitivamente ed eticamente adulti – e, quindi, concedendo ad essa una funzione residualmente ricreativa, una volta che l’individuo abbia maturato la consapevolezza della cognizione e la capacità di comportarsi eticamente. In questa visione del significato e della funzione dell’attitudine estetica, soprattutto in rapporto a quella cognitiva e a quella etica, il nesso con la biodiversità espressa da un determinato ambiente non pare suscettibile di acquisire un valore sistematico. La diversità del vivente si presenterebbe, in questo caso, come la qualità espressivo-formale di un oggetto estetico al pari di un altro. Il giudizio estetico positivo dato nei suoi confronti potrebbe così, al limite, coincidere o risultare analogo a quello formulato nei confronti di una versione puramente pittografica o ingannevolmente artificiale di uno scenario strutturalmente somiglianze per le figure, i contorni e i colori che lo popolano. L’istanza della mera apparenza (una biodiversità soltanto apparente e ‘sensazionale’) e quella della riproducibilità tecnica (un hotspot artificialmente riprodotto, addirittura senza curarsi del suo funzionare davvero come ecosistema) risulterebbero qui esteticamente equivalenti, dal punto di vista della risposta che sollecitano (dell’emozione che suscitano), ad uno scenario di biodiversità effettiva. Ciò in ragione dell’estremo soggettivismo e della riduzione psicologistica che caratterizzano – secondo questa prospettiva – l’attitudine estetica. Oscillando tra un formalismo delle apparenze e un emotivismo o sentimentalismo delle risposte a determinati input percettivi, questa versione dell’estetica, questo modo spesso irriflesso di concepire il suo campo concettuale, non potrà dunque mai stringere una connessione per così dire interna con la biodiversità nel suo manifestarsi. Essa potrà concorrere al più a formare, date certe condizioni interne all’osservatore, un oggetto estetico tra i tanti. Nel presupposto che gli oggetti estetici valgono soltanto in quanto occasione di esperienze soggettivamente gratificanti, lo scenario della biodiversità come qualità più che estetica di un ambiente naturale non potrà mai assumere il ruolo privilegiato e costitutivo di un proto-oggetto. A un’e-
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La misura del sentire
stetica puramente e idiosincraticamente soggettiva quanto agli oggetti su cui si esercita come attitudine, non sarà mai concesso – in altri termini – di oltrepassare la soglia del formalismo e, a parte subjecti, dell’emotivismo. Soltanto abbandonando una versione puramente soggettivistica dell’attitudine estetica nei confronti del mondo e riconcependo radicalmente il campo concettuale che le compete nel senso di una relazione strutturale ovvero di un effettivo commercio percettivo tra una mente embodied e l’ambiente, il tema della biodiversità può rivelarsi geneticamente costitutivo e assumere una pregnanza più che simbolica: sistematica. A questo scopo è parimenti necessario, però, abbandonare un’identificazione dell’estetica con un’ermeneutica e, nella sua versione ristretta e più tradizionale, con una filosofia dell’arte. Secondo questa concezione dell’estetica d’ispirazione gadameriana, i suoi oggetti privilegiati sono i prodotti dell’arte, della poesia e della letteratura. In pratica gli oggetti estetici sarebbero, anzitutto e propriamente, delle “opere” ovvero delle creazioni artisticospirituali che incorporano significati storicamente determinati in quanto espressione di linguaggi specifici. Dal punto di vista di un’estetica risolta in ermeneutica – dunque in un’attività interpretativa che bypassa il nodo pre-semantico dei vincoli percettivi e dei gradi di libertà interni a essi – il problema della biodiversità non si pone neppure, se non nel panorama della storia dei rapporti umani con la natura o meglio con diverse concezioni e interpretazioni di essa. All’interno di un contesto teorico tendenzialmente storicistico e sicuramente ultra-umanistico quale è quello definito dall’ermeneutica, nel suo nucleo sostanziale il problema della biodiversità risulta piuttosto consegnato all’etica, al principio di responsabilità nei confronti della natura e, di conseguenza, nei confronti delle generazioni future. Si trascura, così, la chance di considerare il terreno dell’esperienza estetica come il grembo fecondo da cui scaturiscono gli stessi atteggiamenti etici, sottraendo al loro carattere normativo quella cesura quasi metafisica – rispetto alla sfera degli impulsi, delle passioni e delle emozioni – che consegna ad un astratto rigore l’imperativo morale. Secondo la prospettiva che ho cercato di disegnare in La percezione riflessa,4 all’attitudine estetica va riconosciuto piuttosto il valore metafunzionale di un primo orientamento nei confronti del mondo che emerge come conseguenza imprevista di processi attenzionali determinatisi nel contesto di un commercio percettivo con l’ambiente. A essere decisivo in quest’idea di esperienza estetica non è, perciò, semplicemente il contenuto soggettivo di una percezione (l’effetto sul soggetto di determi4
Cfr. F. Desideri, La percezione riflessa, op. cit., pp. 61-92.
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Hotspot. Estetica e biodiversità
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nate proprietà sensibili come forma e colore), ma la relazione necessaria che s’instaura con le qualità fenomeniche dell’oggetto (del complesso di oggetti o della scena ambientale) all’origine dello input percettivo (qualità capaci di destare l’attenzione). Ciò, nel presupposto che tali qualità siano ontologicamente espressive, anziché meramente formali. Così, infatti, può essere superata la dicotomia, esemplificata nelle prime due concezioni, tra un’estetica come attitudine soggettiva e un’estetica dei contenuti e dei significati. L’esercizio di un’attitudine estetica e l’oggetto della preferenza in cui questa si esemplifica sono qui correlati e co-emergenti in una relazione costitutiva. Non siamo, perciò, di fronte ad una soggettività vuota e astratta che esercita le sue preferenze estetiche in uno spazio ambientale privo di connotati. Siamo di fronte, piuttosto, alla proto-forma di un paesaggio: a uno spazio per così dire fibrato e popolato da attrattori capaci di innescare processi attenzionali. Se dal punto di vista ontogenetico dell’evoluzione dell’individuo l’oggetto proto-estetico si configura in un volto e nella relazione con l’esterno rappresentata e mediata da una scena dialogica tra il bambino e la madre, dal punto di vista filogenetico dell’emergenza specificamente umana dell’estetico la protoforma di oggetto estetico può ben essere rappresentato dallo hotspot di una scena ambientale selezionata come un habitat vantaggioso in senso evolutivo. Correlativamente a queste due distinte forme di proto-oggetti estetici si palesano, così, due distinte fonti dell’atteggiamento estetico e del suo trans-culturale riproporsi nel paesaggio umano: 1) il bisogno di riconoscimento del familiare (il volto della madre come primo quasi-oggetto estetico)5 e 2) il desiderio di riconoscere ciò che è altro come affine, anziché come qualcosa di ostile e di estraneo.6 È dunque nel contesto del bisogno/desiderio di riconoscere l’altro come affine (un contesto esplorativo in cui la nostra vita percettiva si misura con l’ignoto) che la connessione tra l’emergenza filogenetica di un’attitudine estetica e la biodiversità caratteristica di un ecosistema vantaggioso per la sopravvivenza e per lo sviluppo di un mondo umano può rivelarsi come una connessione sistematica e per così dire originariamente costitutiva. Importanti contributi a tale riguardo sono stati dati, negli ultimi decenni, da un approccio all’estetica in chiave evolutiva.7 Quest’approccio si è diversificato in due linee di ricerca fondamentali e tendenzialmente autono5 6 7
Ivi, pp. 58-60. Ivi, p. 88. Vedi L. Bartalesi, Estetica evoluzionistica. Darwin e l’origine del senso estetico, Carocci, Roma 2012.
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La misura del sentire
me. La prima riguarda il rapporto di continuità e discontinuità tra il senso estetico sviluppatosi in alcune specie animali nel contesto utilitario della selezione sessuale e il senso estetico specificamente umano caratterizzato dallo svincolo del desiderio dall’ambito sessuale-riproduttivo.8 La seconda, quella che qui ci interessa più da vicino, concerne la questione di come la selezione dell’habitat – decisiva per la sopravvivenza e la riproduzione – sia all’origine, nella specie umana, di determinate preferenze estetiche nei confronti dell’ambiente. L’argomento principale che sostiene questa linea di ricerca, al centro ancora oggi (al pari della prima) di un intenso dibattito tra studiosi di varie discipline (biologi evoluzionisti, psicobiologi, paleoantropologi), è che il piacere o il dispiacere estetico che suscitano in noi determinati paesaggi e scenari naturali non sarebbe altro che il residuo evolutivo di pressioni selettive a cui sono stati sottoposti i nostri meccanismi psicologici nella scelta di habitat adattivamente vantaggiosi.9 A questa linea di ricerca un contributo assai rilevante è stato dato dai lavori dell’entomologo e sociobiologo Edward O. Wilson, a partire dal suo celebre e assai influente libro, Biophilia.10 A Wilson si deve la cosiddetta “biophilia hypothesis”11 ovvero l’idea che nell’uomo l’amore per la diversità delle specie viventi (“l’affiliazione emozionale degli esseri umani verso altri organismi viventi”) è un istinto innato che guida e ispira molti suoi atteggiamenti dall’età preistorica fino ad adesso. Sarebbe appunto questa propensione geneticamente programmata a determinare negli umani “una preferenza estetica istintiva per gli ambienti naturali e per le altre specie”.12 Una tesi, questa, già delineata in Biophilia: i costanti sforzi umani per migliorare l’apparenza degli immediati dintorni in cui vivono, rendendo l’habitat “più vivibile secondo quelli che sono usualmente chiamati criteri
8
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10 11 12
Su questo problema già affrontato da Darwin in The Descent of Man, and Selection in Relation to Sex e definito nella VI edizione di The Origins of Species «a very obscure subject» vedi F. Desideri, Vincoli percettivi e anticipazioni di libertà: per una revisione del modello kantiano (sul senso dell’‘estetico’), cit. e Id., La percezione riflessa, cit., pp. 109-114. Vedi per questo argomento B. Ruso, L. Renninger, K. Atzwanger, Human Habitat Preferences: A Generative Territory for Evolutionary Aesthetics Research, in E. Voland, K. Grammer (a cura di), Evolutionary Aesthetics, Springer, Berlin–Heidelberg 2003, pp. 279-282. E.O. Wilson, Biophilia, Harvard University Press, Cambridge Mass 1984. Vedi per questo i saggi raccolti in S.R. Kellert, E.O. Wilson (a cura di), The Biophilia Hypothesis, Island Press, Washington DC 1993, pp. 138-172. D. J. Penn, The evolutionary Roots of our environmental problems: toward a darwinian ecology, in “The Quarterly Review of Biology”, 78, 3, 2003, p. 287.
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Hotspot. Estetica e biodiversità
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estetici”,13 sono da mettere in relazione con le caratteristiche dell’ambiente all’interno del quale il cervello umano si è originariamente sviluppato. Essere biologicamente predisposti a rispondere in maniera positiva alla varietà del vivente potrebbe così alimentarsi di una veicolazione di tipo estetico stabilizzatasi in schemi di risposta emotiva rispetto alle caratteristiche di determinati scenari naturali: quelle caratteristiche, appunto, proprie dell’habitat in cui la specie umana si è potuta evolvere grazie ad una locomozione bipede e al libero uso delle braccia. È a quest’ultimo riguardo che l’ipotesi della biofilia di Wilson si intreccia con la cosiddetta Savannah-hypotesis sostenuta in particolare dallo scienziato ecologista Gordon H. Orians.14 Secondo tale ipotesi le preferenze estetiche che gli umani manifestano universalmente per determinati tipi di scenari ambientali (paesaggi popolati da arbusti e alberi distanziati e dalla ramificazione non fitta piuttosto che intricatissime foreste, ampie praterie anziché terreni desertici) sarebbero determinate, all’origine, dal fatto che i nostri proto-antenati del Pleistocene hanno per così dire mosso i primi passi nel bioma della savana africana, in quanto ecosistema capace di offrire le maggiori chances di adattamento e quindi di sopravvivenza. In questa prospettiva la savana pleistocenica costituirebbe una sorta di paradigma del vantaggio evolutivo offerto dalla biodiversità concentrata in spazi determinati, fungendo quindi anche da proto-paesaggio capace di soddisfare criteri estetici. Il sedimentarsi di risposte di carattere emozionalmente positivo date a tratti salienti (e vantaggiosi dal punto di vista adattivo) propri del paesaggio tipico della savana orienterebbe, dunque, in maniera inconscia la maggior parte delle nostre attuali preferenze estetiche, perlomeno nei confronti di ambienti naturali. La savana, così, acquisirebbe anche il valore di una sorta di proto-oggetto estetico che continua ad esercitare la sua influenza nel gusto dell’uomo moderno. Ogni giudizio estetico intorno ad oggetti, suoni, odori – e ai territori circoscritti in cui questi si presentano assieme – serberebbe per così dire memoria di esperienze ataviche, dove una ricognizione selettiva aveva colto questi oggetti e aspetti di un preciso paesaggio come premesse e occasioni significative per comportamenti futuri. La selezione dell’habitat, grazie alla capacità di marcare lo spazio ambientale con indicatori esteticamente rilevanti, sarebbe però avvenuta in vista del fatto 13 14
E.O. Wilson, Biophilia, cit., p. 108. G.H. Orians, Habitat Selection: General Theory and Applications to Human Behavior, in J.S. Lockard (a cura di), The Evolution of Human Social Behavior, Elsevier, New York 1980, pp. 49-66.
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che un determinato ambiente si rivelava favorevole alla “ricerca e al rifugio” (il binomio prospect/refuge stabilito da Jay Appleton15), aperto ad un’esplorazione assetata di novità e adatto a fornire informazioni rilevanti in un determinato quadro temporale. A parte il fatto che, negli ultimi anni, la validità dell’ipotesi della savana difesa da Orians è stata contestata da più parti, in particolare con l’argomento che l’evoluzione umana (la separazione degli ominidi dalle scimmie) non si sarebbe sviluppata soltanto in un unico bioma, nemmeno questa ipotesi pare in grado di offrire un solido appiglio per stringere una connessione necessaria tra attitudine estetica e biodiversità. Nella prospettiva di Orians e colleghi è, infatti, il vantaggio evolutivo offerto dalla savana, come paradigma protostorico di una biodiversità vantaggiosa allo sviluppo umano, a influenzare le future scelte estetiche, ad offrirne per così dire la cornice pur flessibile entro la quale potranno svilupparsi e diversificarsi. In altri termini: la ragione funzionale della risposta a un problema adattivo – la selezione dell’habitat come “un aspetto adattivo del comportamento animale”16 – sarebbe in grado di spiegare le nostre preferenze estetiche nei confronti dell’ambiente, ad esempio la preferenza di una spiaggia lambita dal mare e costellata di alberi ombrosi rispetto all’inconsolabile grigiore del cemento proprio di un paesaggio urbano. La nostra risposta affettiva, nel senso di un sentimento estetico di piacere o di dispiacere, non ha perciò bisogno di passaggi inferenziali e di mediazioni cognitive di ordine concettuale e riflessivo. Si dà, per così dire, d’istinto, quasi programmaticamente. Tuttavia l’onda delle emozioni, anche qualora si sia consolidata in schemi di risposta, non basta a spiegare l’emergenza di un’attitudine estetica, tantomeno a spiegarne la connessione interna con quel rapporto tra complessità e coerenza, tra varietà e unità che configurano lo scenario favorevole al manifestarsi della biodiversità. Perché si stringa questa connessione, l’atteggiamento estetico quale prima forma di orientamento nella trama ingarbugliata delle nostre esperienze non può che presentarsi come gratificante fusione (sintesi densa) tra le risonanze emotive e le discriminazioni cognitive della nostra vita percettiva. Soltanto a patto di essere intesa secondo un profilo irriducibile alla sola dimensione emotiva, la motivazione estetica potrebbe essere pensata in un rapporto di coevoluzione con le necessità di un problem solving adattivo nella scelta di tratti salienti dell’am15 16
Vedi J. Appleton, The experience of landscape, Wiley, London 1975. D.J. Penn, The evolutionary Roots of our environmental problems: toward a darwinian ecology, cit., p. 287.
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Hotspot. Estetica e biodiversità
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biente e con la stessa attrazione per la varietà delle specie viventi in spazi, dove il principio di diversificazione appaia per così dire ‘armonizzato’. In altri termini: la risposta estetica e l’espressione di preferenze di questo tenore possono cessare di essere considerate come mero effetto o traccia di eventi sedimentatisi nella memoria dell’umanità solo a condizione che siano colte nella loro valenza di un’anticipazione cognitiva che agisce all’interno di vincoli percettivi e carica i dispositivi emozionali di futuri schemi di comportamento e d’inedite relazioni con l’ambiente. Più che effetto e memoria di un passato in ultima istanza riducibile ad altre ragioni, l’attitudine estetica può presentarsi sin dal suo emergere come un inaspettato effetto anticipante. E proprio con questa caratteristica può stringere un vincolo espressivo con il principio stesso della biodiversità. A questo proposito, e almeno sotto questo riguardo, sembrano convergere, con il modo qui proposto di concepire e ri-concepire l’estetico, gli importanti lavori dello psicologo statunitense Stephen Kaplan.17 A partire da saggi come Aesthetics, affect, and cognition. Environmental Preference from an Evolutionary Perspective, Kaplan sostiene, infatti, la necessità di considerare l’estetica, nel suo senso più ampio, “come una forza centrale nell’esperienza e nel comportamento umano”.18 E tale centralità sta proprio nel fatto che le preferenze estetiche si danno come sintesi tra cognizione e affetto, derivando da una dialettica nell’esperienza umana tra il piacere della comprensione (del riconoscere come familiare un ambiente) e l’ansia dell’esplorazione, della ricerca di nuove informazioni e conoscenze. Appunto in relazione con questi caratteri, necessari a definire un orientamento estetico dell’esperienza, Kaplan individua quegli aspetti di un contesto ambientale capaci da fungere da “predittori” dell’esplicitarsi di una futura preferenza estetica, vale a dire: la coerenza, la leggibilità, la complessità e il mistero. Svincolate dal peso paleo-storico della Savanna-hypothesis queste features ambientali possono funzionare come le affordances di Gibson. Alle caratteristiche per così dire oggettive dell’ambiente con cui s’instaura un commercio percettivo compete, così, un valore quasi causale nei confronti 17
18
Vedi ad esempio S. Kaplan, Aesthetics, affect and cognition: environmental preferences from a evolutionary perspective, in “Environmental Behaviors”, 19, 1, 1987, pp. 3-32; Id., Environmental preference in a knowledge-seeking, knowledge-using organism, in J.H. Barkow, J. Tooby, L. Cosmides (a cura di), The Adapted Mind: Evolutionary Psychology and the Generation of Culture, Oxford University Press, Oxford-New York, 1992, pp. 581-600. S. Kaplan, Aesthetics, affect and cognition: environmental preferences from a evolutionary perspective, op. cit. p. 5.
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La misura del sentire
non solo di un’esperienza estetica determinata, ma anche e soprattutto dell’emergere e del continuo rinnovarsi di un’attitudine estetica come prima forma di orientamento nei confronti del mondo (nei miei termini: un orientamento che ha la virtù di anticipare in un senso strutturalmente inestinguibile la forma della cognizione e quella dell’etica). Da questa prospettiva – come rilevato del resto dallo stesso Kaplan – l’estetica ambientale non si rivela come “un caso speciale di estetica ma come riflesso di una funzione ampia e pervasiva”, al punto che “alcuni dei più tradizionali domini estetici possono essere derivati di questa funzione più basica”.19 La tesi di Kaplan può essere condivisa con un distinguo e con un’integrazione. Il motivo della condivisione è offerto senza dubbio dal fatto che anche assumendo il punto di vista di Kaplan possiamo tranquillamente superare la dicotomia tra un’estetica dell’atteggiamento soggettivo e un’estetica dei contenuti e degli oggetti gravidi di significati. Il distinguo riguarda la necessità di ribadire che la scena ambientale deve essere considerata quale correlato oggettivo di una delle due fonti da cui emerge l’attitudine estetica (l’altro correlato – come si è già accennato – è offerto dal volto umano ed in particolare dal volto della madre al quale si risponde con un sorriso). L’integrazione potrebbe, invece, essere offerta proprio dal sostanziare e caratterizzare nel senso di una biodiversità la prima scena ambientale come Ur-szene di una filogenesi dell’esperienza estetica. Uno scenario di biodiversità quale si configura nella compagine unitaria di un hotspot ecosistemico potrebbe addirittura fungere da affordance nei confronti dello stesso impulso ‘biofiliaco’, magari predisponendo proto-discriminazioni cognitive e prefigurando giudizi. Giudizi a tenore estetico, certamente. Con la precisazione, però, che il concetto di “estetico” non può più essere ridotto in senso formalistico né può essere risucchiato nella sfera del puramente emotivo. Coerenza e leggibilità sarebbero sicuramente confermate e rafforzate nel loro valore non episodico dall’armonizzazione e dalla dialettica tra il principio della varietà e della differenziazione e quello dell’unitarietà espresse da uno scenario localizzato e denso di biodiversità. Così come il carattere aperto dell’ecosistema lascerebbe ampi margini all’esplorazione e alla sorpresa. In forza di questa esperienza e di questo commercio percettivo con le qualità espressive della biodiversità, la dimensione estetica potrebbe rivelarsi, in conclusione, come la matrice del comprendere stesso e la molla che innesca emotivamente ogni esplorazione, interrompendo routines dannose e instaurandone altre, fino a sciogliere e a stringere nuovi vincoli este19
Ivi, p. 25.
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Hotspot. Estetica e biodiversità
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tici con il mondo. Sciogliere e stringere nel medium del percepire: questa è la meta-funzione dell’attitudine estetica. Un’attitudine non più svincolata da contenuti e non più astratta dall’ambiente-mondo in cui si esercita. Così inteso, lo scenario ecosistemico della biodiversità quale proto-forma di una relazione estetica (dal momento che la stessa biodiversità può essere colta soltanto come polo di una relazione) può anche precisarsi come matrice di un apprezzamento che anticipa il giudizio estetico senza per questo configurarlo: un “apprezzamento non giudiziale”, una “nonjudgmental appreciation”.20 In tale apprezzamento, dove la misura affettiva della risposta è preponderante ma non esclusiva, la biodiversità è come colta nel suo valore in sé: “come se” – avrebbe detto Kant – la natura, sotto questo rispetto, ci venisse incontro. Il nucleo di contemplatività, implicito in ogni esercizio di un’attitudine estetica, proprio nel caso della biodiversità può infine rivelarsi in intima congiunzione con il suo necessario nucleo di operatività e questo già per il fatto che orienta ogni successiva esplorazione. Non solo: anche in virtù di un’esperienza della biodiversità, che a buon diritto può dirsi “estetica” nei termini ora precisati, possiamo quasi sfiorare il senso stesso dell’unità del bios al quale ci sentiamo affiliati. E anche a tale proposito l’attitudine estetica, e l’esperienza che la precede e che ne consegue, non possono risolversi o dissolversi nell’estremo ultraumanismo di un gioco delle interpretazioni.
20
S. Godlovitch, Evaluating Nature Aesthetically, in “The Journal of Aesthetics and Art Criticism”, 56, 2, 1998, p. 118.
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IV
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L’OPERA D’ARTE TRA VINCOLI PERCETTIVI E UNITÀ DI SENSO
I. L’idea di un confine tra mente e mondo può essere considerata la condizione di sfondo e, quindi, il presupposto stesso di una riflessione sull’opera d’arte: sul suo senso. L’antica analogia tra arte e sogno, tra il mondo di pure immagini del sognante e il mondo possibile messo in scena dall’artista,1 mantiene qui la sua validità. Come nel sogno, nell’opera d’arte il confine tra mente e mondo viene oltrepassato generando un’autonoma formazione simbolica che lo presuppone. Mentre però nel sogno il confine è come abbandonato a favore di una dimensione anteriore alla distinzione che implica, nell’opera d’arte esso è come gettato innanzi (oltre se stesso): in una ulteriorità progettuale che mantiene la distinzione stessa come condizione della stessa intelligenza estetica dell’opera, di quella che sinteticamente si potrebbe chiamare la sua fruizione. Senza dubbio il confine tra mente e mondo, al pari di ogni confine, separa e congiunge al medesimo tempo. La sua peculiarità sta, semmai, nel fatto che, congiungendo e separando, contiene in sé sia i caratteri dell’internità che quelli dell’esternità. Il confine tra mente e mondo è, insomma, tanto interno quanto esterno ad entrambi i campi di senso che unisce e distingue al medesimo tempo: è un confine interno ed esterno alla mente, nella stessa misura in cui è interno ed esterno al mondo. Ciò per il motivo che la distinzione stessa tra mente e mondo va pensata come successiva rispetto al costituirsi dell’esperienza in quanto “relazione originaria” e, in una certa misura, alla dinamica della sua fenomenologia, che definisce, senza risolverla in sé, la nostra stessa identità soggettiva.2 La definisce, appunto, come una trama di eventi, di scambi reciproci, il cui terreno primario di 1 2
Pagine acute a questo proposito sono contenute in diversi scritti di Jean Paul; cfr. in proposito il nostro Il “sogno razionale” e il genio romantico in F. Desideri, Il passaggio estetico, cit., pp. 207-227. Per questo tema, qui solo accennato, e più in generale per la questione dell’esperienza rimando a quanto sostenuto in F. Desideri, Forme dell’estetica, cit., in particolare alle pp. 5-26.
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La misura del sentire
formazione è rappresentato dall’intessersi di una fitta rete di relazioni percettive, che si stabilizzano nella forma di vincoli. È così dall’interno del campo stesso dell’esperienza, dal suo costituire un’inaggirabile condizione di sfondo, che emerge la soggettività di ognuno. Emerge nella capacità di dire “Io” e di assumere un punto di vista in prima persona che organizzacostruisce il mondo come il suo correlato ‘oggettivo’: come ‘nucleo di resistenza’, spazio d’attrito irriducibile nel quale la mente incarnata in un corpo, mai “pura”, si riconosce parte. Una “parte”, in qualche modo paradossale, in quanto ha la virtù di spingersi, dall’interno, al confine stesso del mondo, considerandolo come un “tutto-limitato”. Per capire questo passaggio, è opportuno un passo indietro: verso il campo dell’esperienza, di quell’esperienza che ognuno di noi fa di sé e del mondo, intendendolo come il campo di una relazione originaria, anteriore alla stessa distinzione tra mente e mondo. Con la precisazione che l’originarietà qui non è mai assoluta, ma sempre da assumersi in una sorta di circolo continuo con il suo derivare/dipendere da contesti, tradizioni e paradigmi culturali socialmente ereditati. Si tratta perciò di un’originarietà derivata, che si sviluppa come una trama di eventi e di relazioni percettive, dove, in una peculiare sintesi tra ordine e contingenza, mente e mondo si intramano reciprocamente. Per questo la metafora della “trama” appare più esplicativa di quella del flusso (che offre piuttosto un’immagine della dinamica interna dell’esperire a cui potrebbe corrispondere, all’esterno, quella del rumore di fondo). Il problema è capire come, al di là della scissione tra il flusso degli eventi psichici e il rumore di fondo ambientale, si costituiscano dei vincoli percettivi. Il loro costituirsi, infatti, è essenziale alla costituzione della struttura stessa dell’esperienza: della sua trama tali vincoli rappresentano i nodi. Questi, formandosi nella tensione tra sfondo (campo percettivo dell’esperienza) ed evento, funzionano come riduttori di complessità, capaci di produrre un’organizzazione discreta del flusso informativo. Espressione di una sensibilità che non assorbe soltanto, ma risponde attivamente organizzando quanto riceve dall’esterno, i vincoli percettivi, ovvero le stabilizzazioni della nostra esperienza, si formano da ed entro quella relazione originaria nella quale i confini tra mente e mondo non sono ancora tracciati: essi si configurano, pertanto, come anelli o nodi di congiunzione tra la dinamica dell’emergenza della soggettività, nella sua distinzione dal mondo in cui è implicata, e il mondo stesso. In tali vincoli si possono individuare almeno due dimensioni, originariamente intrecciate tra loro in maniera indistricabile: quella cognitiva e quella emotiva. Solitamente tali dimensioni interagiscono in maniera da favorire la loro reciproca stabilizzazione. Un oggetto o una situazione che mi si presentano come
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L’opera d’arte tra vincoli percettivi e unità di senso
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ignoti sollecitano, ad esempio, una risposta emotiva nella tonalità dello stupore e/o del timore, reclamando, nello stesso tempo, il passaggio dall’ignoto al noto, dall’indistinto della pura affezione sensoriale alla distinzione percettiva. La percezione, sotto questo rispetto, è già distinzione, consistendo ogni atto percettivo nella trasformazione dell’indistinto nel distinto: nel transito riconoscitivo che identifica l’alterità del molteplice sensibile, operando una selezione costruttiva al suo interno. Per quel che riguarda, poi, la nostra specie, la nostra peculiarità di animali che hanno un logos (un pensiero capace di organizzarsi, di trasmettersi e di svilupparsi linguisticamente), la dinamica del riconoscimento avviene, almeno da un certo punto della nostra crescita evolutiva, includendo il contenuto della percezione in un linguaggio-mondo: in un mondo, cioè, che non funge più da mera ‘resistenza’, da attrito necessario alla costituzione della soggettività, divenendo piuttosto il ‘nostro’ mondo. Si instaura, così, una circolarità virtuosa tra l’appartenenza ad un linguaggio-mondo e le esperienze che ciascuno di noi fa ‘originalmente’ (di qui il circolo tra originarietà e derivatezza di cui si diceva all’inizio). Nella misura in cui i nostri vincoli percettivi con il mondo si stabiliscono e si rafforzano, si incrementa anche la dimensione cognitiva e si stabilizza e affina quella emotiva del nostro commercio con l’ambiente. Dal punto di vista cognitivo, ciò determina l’inserimento di ogni nostra esperienza in una rete linguistico-concettuale nella quale, almeno inizialmente, non possiamo fare altro che disporci, dato che apparteniamo ad essa in un senso localmente generico, non avendola potuta scegliere. Dal punto di vista emotivo, d’altra parte, l’intessersi di una singola esperienza in una trama non solo sincronica (riguardante l’attualità di un evento percettivo), ma anche diacronica (riguardante la sua stratificazione temporale), favorisce il formarsi di un habitus percettivo, dove i vincoli sono per così dire metabolizzati e non avvertiti come tali (e cioè come vincoli). Habitus percettivo e presupposto di un linguaggio-mondo, in parte ereditato in parte correlativo alle dinamiche formative e transformative della nostra esperienza), stanno ovviamente in un rapporto strettissimo (nel senso, appunto, che la rete linguistico-concettuale di cui partecipiamo orienta, almeno per i livelli non puramente fisico-sensoriali, la nostra stessa percezione: la sua qualità e, quindi, le sue stesse modalità). Questo non vuol dire, però, che la trama di vincoli cognitivi (relativamente saldi) e di vincoli emotivi (relativamente fluidi) si esaurisca nella formazione e nella condivisione di un linguaggio-mondo dai confini necessariamente fluttuanti, in quanto forma intermedia tra i due poli da cui si genera: la mente e il
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La misura del sentire
mondo, e quindi costantemente soggetto a microtrasformazioni (talvolta soft e graduali, talvolta violente e repentine). Una tesi plausibile a tale riguardo potrebbe essere che il campo dei percetti, nel suo costituire lo strato primario dell’esperienza come relazione originaria antecedente alla distinzione mente/mondo, è più vasto di qualsiasi linguaggio-mondo, nella stessa misura in cui questo, a sua volta, è sempre più vasto di ogni sua esplicita categorizzazione e, quindi, di ogni sua assunzione per così dire ‘critica’. Così che, sarebbe appunto questa permanente sproporzione a generare frizione e tensione tra mente e mondo fino ad assicurare un primo grado di libertà all’interno del vincolo percettivo. Tale grado consiste nel co-percepire, in ogni singola relazione percettiva, la sua differenza rispetto allo sfondo che presuppone: il suo carattere di evento. Proprio in virtù di questa differenza e di questa dinamica, la trama della nostra esperienza può quindi continuare ad intessersi, con delle conferme che rafforzano nodi cognitivi e consuetudini emotive e delle discontinuità o smentite, in cui tali nodi si sciolgono per configurarsi diversamente. Un secondo grado di libertà è offerto dal fatto che la dimensione linguistico-cognitiva e quella emozionale-affettiva, oltre ad intrecciarsi e confondersi nell’habitus di un unico vincolo, possono sempre essere funzionalmente distinte, con tutti i passaggi e gli svincoli reciproci che si possono immaginare. Ciò conferisce un carattere di fluidità e di mutevolezza alla nostra identità nel tempo e suggerisce che la possibilità di orientarsi nella percezione consiste proprio nel fatto che i vincoli che si stringono non sono né troppo stretti né troppo laschi. A tale proposito si potrebbe anche sostenere che il ruolo di monitoraggio silente che la nostra coscienza svolge all’interno della vita percettiva emerge appunto quando i vincoli percettivi (fusioni di cognizione ed emozione) appaiono troppo stretti o troppo deboli. Segnatamente in questi casi facciamo esperienza del nostro consistere nel e sul confine tra mente e mondo e, quindi, nella differenza tra lo sfondo in cui si svolge la nostra vita e la sua scena attuale (il presente esperito). Proprio nella consapevolezza di un’impasse cognitiva o di uno choc emotivo avvertiamo, infatti, di poterci muovere tra sfondo (habitus percettivo) e primo piano, al fine di riannodare, in una maniera contingentemente nuova, la nostra relazione con il mondo: il nostro esser parte di esso e, insieme, la nostra virtù di sentirne e pensarne l’intimo e paradossale confine. Infine, ma logicamente in primis, un terzo grado di libertà è offerto dal ruolo decisivo che l’immaginazione svolge nel formarsi del vincolo percettivo, sia sul versante cognitivo sia su quello emotivo. Nel primo caso, la prestazione immaginativa è quella di formulare tacitamente ipotesi capaci
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L’opera d’arte tra vincoli percettivi e unità di senso
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di ordinare e integrare quanto effettivamente e frammentariamente presentato dagli input sensoriali; nel secondo, il ruolo dell’immaginazione agisce sul piano delle aspettative e del rapporto tra queste e il complesso di esperienze sedimentatesi in abitudini, anticipando – nella misura del possibile – il tipo di risposta. Si potrebbe così concludere che la libertà fluttuante implicita nel vincolo percettivo è in ultima istanza legata proprio alla natura ipotetica di ogni percezione e al ruolo attivo che l’immaginazione svolge in tale ipoteticità. II. Si tratta ora di analizzare, in base a questi presupposti relativi al problema del confine tra mente e mondo, la possibile funzione dell’arte. In altri termini dobbiamo capire se c’è una funzione specifica dell’arte nei confronti delle dinamiche di formazione e trans-formazione dei vincoli percettivi in quanto interna articolazione, e quindi fattore di stabilità, della complessiva trama dell’esperienza. Ponendo in questo modo il problema dell’arte e del suo senso non facciamo altro che accogliere lo spostamento paradigmatico, al centro della riflessione di Nelson Goodman,3 dalla domanda “che cos’è un’opera d’arte?” a quella che si chiede “quando qualcosa è arte?” ovvero “quando qualcosa funziona come arte?” Tale spostamento, del resto, è del tutto in sintonia con quel carattere eminentemente riflessivo, e per certi versi meta-artistico, proprio dell’arte contemporanea, che trova il suo momento inaugurale nel gesto duchampiano che sostituisce l’opera con una quasi-opera ovvero con un ready-made. Secondo questo spostamento paradigmatico della questione, il problema centrale dell’arte diviene quello di capire in cosa possa consistere la funzione artistica. Una risposta pur provvisoria potrebbe essere la seguente: la funzione artistica altro non è che l’attivazione intenzionale (dove c’è arte, v’è o si presume che vi sia un autore) di una qualche esperienza estetica tramite e intorno ad un artefatto.4 Se l’esperienza estetica è, infatti, costituita dall’esibizione, in un giudizio relativo ad un oggetto (ad un “ritaglio di mondo”), del vincolo percettivo come unità simpatetica (sigillata dal piacere) di dimensione emotiva e cognitiva, l’intenzione da cui scaturisce un’opera d’arte (o comunque l’attribuzione di una funzione artistica ad un qualsiasi prodotto del fare umano) ha d’altro canto l’obiettivo di esplicitare il senso implicito in ogni esperienza estetica. 3 4
Cfr. per questo N. Goodman, Vedere e costruire il mondo, trad. it. di C. Marletti, Laterza, Roma-Bari 1988, p. 82. Per il problema della definizione dell’opera d’arte rimando a quanto sostenuto in F. Desideri, Forme dell’estetica, cit., pp. 90-105.
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La misura del sentire
Quanto in una comune esperienza estetica, anteriore al porsi del problema dell’arte, si dà implicitamente, nella funzione artistica si dà esplicitamente: si dà in una maniera costruttivamente simbolica, autonomizzandosi per così dire in un oggetto, in un oggetto che significa di per sé (in un modo simbolicamente intransitivo). Si può così pensare l’opera d’arte, vale a dire l’esplicarsi oggettivo della funzione artistica, nel senso di un simbolo attivo o, se si vuole, simbolicamente costruttivo. Ogni termine qui va chiarito. Anzitutto quello relativo al carattere attivamente simbolico dell’opera d’arte. Nella simbolicità dell’opera d’arte risuona, infatti, sia il senso dinamico del “formare” (nel suo essere una forma simbolica per così dire formans) sia il senso del congiungere, del far da ponte tra mente e mondo producendo simboli dell’oltrepassamento del loro reciproco confinare, nella presupposizione della permanenza della loro distinzione. Unificando i campi di senso della mente e del mondo in una formazione simbolica autonoma, l’opera d’arte esprime, così, tanto la dimensione della loro effettiva unità quanto quella della distanza, della costitutiva polarità. Perciò l’oggettivarsi della funzione simbolica dell’opera d’arte ha a che fare primieramente e spesso tematicamente con quelli che abbiamo chiamato ‘vincoli percettivi’. Non solo per il fatto ovvio che ogni linguaggio dell’arte si comunica esteticamente, impegnandoci in una relazione percettiva, ma anche per il fatto che – nel medium della sua comunicazione intraestetica – essa problematizza i vincoli percettivi, che stabilizzano in un habitus la nostra relazione con il mondo. Ciò, indifferentemente dal fatto che si consideri e si caratterizzi un’opera d’arte sotto il profilo dell’espressione o sotto quello della rappresentazione. Sia che la caratteristica prevalente sia quella espressiva (in quanto esemplificazione metaforica di determinate qualità per lo più soggettive, seppur indipendenti dalla soggettività dell’autore) sia che sia quella rappresentativa5 (in quanto denotazione selettivamente e costruttivamente simbolica di aspetti del mondo in quella che Semir Zeki chiama una “ricerca di invarianti attraverso un processo di selezione dell’essenziale da una gran massa di dati”6); in entrambi i casi ad essere in questione è sempre il confine esterno/interno tra mente e mondo. Come non c’è l’occhio percettivamente innocente o il dipingere puramen-
5
6
Per questa caratterizzazione dell’espressione e della rappresentazione proprie del funzionamento simbolico dell’arte si veda N. Goodman, I linguaggi dell’arte, introduzione e cura di F. Brioschi, Il Saggiatore, Milano 1976, in particolare pp. 9-85. S. Zeki, La visione dall’interno. Arte e cervello, tr. it. di P. Pagli e G. De Vivo, Bollati Boringhieri, Torino 2003, p. 40.
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L’opera d’arte tra vincoli percettivi e unità di senso
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te con l’occhio (tutto questo dalle ricerche di Gombrich a quelle di Zeki è stato già abbondantemente chiarito), così non c’è nemmeno l’interiorità (la vita della mente) astratta dalla sua originaria relazione con il mondo. Anche l’arte più astratta e libera dai vincoli del mondo sensibile, in quanto mira a mostrare l’invisibile (il puramente ‘spirituale’ oppure relazioni immateriali ed impercepibili nella comune esperienza), mira appunto a mostrarlo: a farne segno fenomenicamente, ad offrirlo alla percezione, conferendo un senso estetico a quanto produce. I vincoli percettivi, così, non sono solo il tramite attraverso cui un’opera d’arte si comunica, ma sono anche quanto essa, anche inintenzionalmente, problematizza. Innanzitutto, ponendo la questione del rapporto tra la dimensione cognitiva e quella emotiva immanente alla costituzione di tali vincoli, cercando appunto di mostrare, di rendere visibile, la loro ‘polemica’ armonia e, quindi, il loro cooriginario coappartenersi. Spesso, ed in particolare nell’arte tardo-moderna e contemporanea, ciò significa agire criticamente sulla loro stabilizzazione socio-culturale, assumendo consapevolmente – nel presentarsi dell’opera – il carattere di uno choc percettivo. Sotto questo profilo l’opera d’arte sta, analogamente alla scienza, in una tensione critica con quello che si potrebbe chiamare con Platone il mondo della doxa: il mondo delle apparenze consolidatesi in senso comune e delle opinioni e credenze cristallizzatesi in convenzioni. Ma la funzione dello choc, tipico dell’attivarsi della funzione artistica in un’opera, non è solo quella di disarticolare e sciogliere vincoli percettivi già stabilizzati, ma anche quella di tessere in maniera nuova la trama di connessioni e vincoli tra la mente e il mondo. Al riguardo si potrebbe anche sostenere che l’arte visiva in particolare (ma ad un certo livello tutta l’arte) può fare ciò, in quanto il suo spazio di efficacia sta proprio nella differenza tra lo strato primariamente percettivo dell’esperienza (il terreno dell’esteticità stricto sensu), il linguaggio-mondo nel quale ogni esperienza si dispone e si organizza, e la sua categorizzazione. Agendo nello spazio di questa differenza, l’opera d’arte funziona appunto producendo continui spostamenti di confine e, quindi, di livelli di comprensione tra il campo estetico e la rete linguistico-concettuale condivisa dalle nostre forme di vita. Per capire come ciò possa avvenire, bisogna considerare una polarità immanente ad ogni opera d’arte ed in particolare al suo peculiare tenore simbolico. Si tratta della tensione tra la sua ‘economicità’ – il suo carattere di “riduzione simbolica” e dunque di chiarificazione e modellizzazione della nostra esperienza del mondo – e il suo generare un eccesso di senso rispetto ad una relazione meramente omeostatica tra emozione e cognizione. Proprio in virtù del carattere costitutivo di tale polarità – in virtù del di-
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spiegarsi della funzione simbolica dell’opera d’arte nello spazio di una continua oscillazione tra il significare in maniera positivamente selettivoriduttiva (come ricerca d’invarianti) e il produrre un surplus di significazione – l’opera d’arte si pone in attrito, nella sua simbolica autonomia, sia rispetto al mondo sia rispetto alla mente. Nei confronti dei campi di senso immanenti a questi due termini essa, infatti, esplica la sua funzione simbolicamente costruttiva assumendo in maniera eminente il carattere dell’ipoteticità e, dunque, proponendosi oggettivamente come un experimentum in re capace di esibire ipotesi, tentativi di risposta a domande che non provengono ovviamente solo dall’interno della sua sfera, della sua tradizione e dei suoi linguaggi. Ed è appunto qui, all’interno della sua dimensione attivamente ipotetica, che l’immaginazione gioca un ruolo decisivo e produttivo, in qualche modo trascendente rispetto ad ogni stabile configurazione del mondo, a ciò che di esso si crede, a ciò che da esso ci si aspetta. Anche a tale proposito bisogna guardarsi da facili mitologie circa la libera creatività dell’artista e il carattere incondizionato (sfrenato) della sua potenza immaginativa. Nessuna opera, pur avendo in sé la propria legalità quasi (come se) fosse un organismo autonomo, è una singolarità assoluta, se non altro per il suo appartenere a serie fattuali e ideali, relative all’inclusione in un genere e/o alla scelta di uno stile, e per il tipo di risposta che dà a problemi immanenti alla propria tradizione linguistica. Ciò significa, anche, che la potenza plastica (o esemplastica, per dirla con Coleridge) dell’immaginazione artistica risponde sempre a dei vincoli relativi sia alla sua organizzazione sintattica sia a quella semantica. Anche quando il proposito dell’artista o l’effetto dell’opera consistano nella rottura di vincoli inerenti alla forma, al genere o allo stile, o mirino a contestare modalità cognitive, abitudini emotive e paradigmi culturali, l’effetto contestuale è sempre quello della riproduzione in configurazioni differenti di ognuno di questi aspetti. C’è poi un senso più profondo del rapporto tra libertà immaginativa e vincolo estetico capace di caratterizzare il fare artistico: quella costrizione alla quale l’artista stesso si sottomette nel suo fare, quella legge che egli stesso s’impone o accetta,7 senza la quale sarebbe difficile pensare all’unità dell’opera come unità tra indeterminatezza e singolarità, tra libertà e forma. Quest’ultimo accenno ci permette di considerare un’ultima questione e cioè come possiamo pensare l’unità di un’opera d’arte, in maniera tale che 7
A questo proposito si veda l’importante volume di Jon Elster, Ulisse liberato. Razionalità e vincoli, tr. it. di P. Palminiello, Il Mulino, Bologna 2004, in particolare pp. 249-367 (su “creatività e vincoli nell’arte”).
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L’opera d’arte tra vincoli percettivi e unità di senso
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in essa (in tale unità) si annodino, nella sintesi densa di un’unica immagine, tutte le relazioni percettive che attiva nel fruitore e tutti gli aspetti della sua costituzione oggettiva. Si tratta di una questione decisiva per il nostro problema. A condizione, però, che siamo capaci di pensare l’unità dell’opera d’arte liberandoci da obsolete diatribe: da quella più antica tra forma e contenuto a quella più moderna tra struttura e significato. L’unità di senso dell’opera d’arte va pensata come un’unità estetica di senso del tutto in sintonia con l’unità tra vedere (percepire) e capire implicata nella silente ipoteticità che, nella nostra esperienza, produce vincoli percettivi tra mente e mondo. Tale unità di senso è identificabile come “estetica” appunto perché essa attiva una dimensione del comprendere che non può venire assimilata né all’aspetto disposizionale di ogni percepire né ad un’operazione meramente meta-riflessiva (concettualizzante). In entrambi i casi l’unità (estetica) di senso dell’opera sfuggirebbe, la sua immagine sinteticamente densa (in primo luogo in quanto sintesi tra memi e percetti) esploderebbe nei differenti livelli della sua organizzazione e della sua ricezione. Di tutto ciò ci accorgiamo nel momento stesso in cui la nostra percezione e appercezione dell’opera – l’unità di sguardo che implica e impegna tutta la nostra intelligenza – attiva e sperimenta il mondo possibile che quell’opera contiene virtualmente, nella forma della latenza. Solo in quanto unità estetica di senso, infatti, l’opera funziona in maniera effettivamente ed attivamente simbolica come un qualcosa di relativamente autonomo. Relativamente: non solo in senso oggettivo, e cioè quanto alle connessioni con il mondo o con una determinata tradizione storico-artistica, ma anche rispetto allo sguardo intelligente (alla sua comprensione estetica, che si dà nel continuo e reciproco passaggio tra emozione e cognizione) che accende e attualizza (come un’energia latente) il suo potenziale simbolico. Appunto in quanto tale unità di senso non è circoscrivibile in un concetto determinato, essa è anche inesauribile rispetto a qualsiasi strategia interpretativa. Ciò ha a che fare con la feconda polivocità dell’opera, con la sua costitutiva vaghezza semantica e, nello stesso tempo, con l’individua singolarità delle soluzioni linguistico-sintattiche (in senso ampio) che in ogni opera si stringono in un’unità di senso. Come congiunzione di indeterminatezza e singolarità, di contingenza e necessità, di libertà immaginativa e di vincoli costruttivi, l’opera d’arte, nella sua unità d’immagine, sta in tensione sia rispetto a tutti i suoi possibili significati sia rispetto a tutte le modalità percettive che implica. E proprio in virtù di tale tensione essa si presenta come un simbolo attivo capace di far segno verso l’unità stessa della nostra mente: verso la sua potenza e, insieme, verso la sua fragilità. D’altra parte, la potenza di questo far segno
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La misura del sentire
dell’unità dell’opera, significando altro mentre significa solo se stessa, si annuncia per noi solo in maniera eminentemente estetica: nell’unità emotivamente intelligente di un “brivido”, in quella forma, appunto, nella quale Adorno vede la proto-risposta estetica della coscienza umana all’impatto con l’opera d’arte. 8 L’unità dell’opera d’arte ci si presenta così come un’unità letteralmente paradossale, trascendendo sia l’apparenza estetica della sua manifestazione sensibile sia la consistenza mentale (astratta) dei suoi significati. Nel suo far segno, l’opera d’arte sta dunque al confine tra mente e mondo, così come al confine sta la nostra stessa coscienza nel suo carattere di soglia attiva tra esterno ed interno. Ma non si può trascurare qui il carattere dinamico di tale ‘stare’. Nella plasticità del far segno e del lasciare un segno nel mondo, l’opera d’arte rende (e insieme rivela) il confine stesso come sommamente instabile, manifestando il carattere irreversibilmente progettuale della mente umana e, al contempo, proiettando, per così dire, il mondo stesso oltre di sé, oltre ogni sua ‘oggettiva’ immagine. Così quanto resta da pensare è di nuovo il vincolo che unisce e divide la mente e il mondo, quel vincolo che è espressione di una originaria relazione (e forse di una simmetria nascosta: di una armonia immanifesta) di cui lo stesso link percettivo non è che un simbolo.
8
Su questo aspetto della teoria estetica di Adorno rimando a F. Desideri, Il fantasma dell’opera. Benjamin, Adorno e le aporie dell’arte contemporanea, il Melangolo, Genova 2002, pp. 155-177.
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PARTE SECONDA LO SPAZIO DEL SENTIRE (SCORCI E SCHIZZI)
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IV DALLA CONFUTAZIONE DELL’IDEALISMO ALLA SINTESI ROMANTICA: KANT, SCHILLER, GOETHE, NOVALIS
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I
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SPAZIALITÀ. SENSO INTERNO E SENSO ESTERNO NELLA CRITICA KANTIANA DELL’IDEALISMO CARTESIANO
La Confutazione dell’idealismo, inserita da Kant nella II edizione della Critica della ragion pura come una lunga glossa al Secondo postulato del pensiero empirico in generale, è sempre stata per gli interpreti un motivo in più per sottolineare la discontinuità tra la prima e la seconda edizione dell’opera. Rispetto all’edizione del 1781, quella del 1787 avrebbe corretto la prospettiva kantiana con ripensamenti, cautele e aggiustamenti d’impianto realistico. Sia che si valutasse positivamente o negativamente tale correzione di prospettiva, la Confutazione dell’idealismo, con il suo riferimento – nell’Annotazione 2 – al rapporto tra permanenza e materia, poteva acquistare il senso di un diretto richiamo ai diritti della Cosa in sé, quasi si trattasse di una dimensione ulteriore della realtà rispetto alle costruzioni a priori del criticismo trascendentale (e non, piuttosto, del limite noumenicamente presupposto che rende possibile la costituzione dell’oggettività fenomenica). Addirittura, in taluni casi, fino al punto di ipotizzare una sorta di “doppia affezione”, ovvero di un’affezione empirica (relativa alla sensazione) da aggiungersi a quella trascendentale (relativa alle forme pure dell’intuizione).1 Secondo quest’ultima ipotesi, sarebbe proprio la Cosa in sé a far valere, nella Confutazione, il principio di un’esteriorità assoluta nei confronti delle 1
Per il rifiuto di questa assurda ipotesi interpretativa, inaugurata da H. Vahihinger (con il saggio Zu Kants Widerlegung des Idealismus in Straßburger Abhandlungen zur Philosophie, Eduard Zeller zu seinem 70. Geburtstage, Freiburg e Tübingen 1884, pp. 85-164) e seguita da altri, sono ancora molto utili le pagine di Cesare Luporini in Id., Spazio e materia in Kant, Sansoni, Firenze 1961, in particolare pp. 216-226. Di questo importante volume di Luporini sono da tenere presenti anche le pagine dedicate alla Confutazione dell’idealismo (ivi, pp. 169248), sempre apprezzabili per gli spunti analitici e le penetranti osservazioni che contengono. In proposito Luporini coglie lucidamente come lo sfondo problematico della Confutazione kantiana consista nella necessità di chiarire il rapporto tra sensazione e rappresentazione. Dell’interpretazione di Luporini non condividiamo, però, l’idea di fondo ovvero che l’argomento risolutore della confutazione kantiana stia nel nesso spazio-permanenza-materia.
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forme della soggettività. Quale che sia la valutazione che se ne può dare in relazione al rapporto tra le due edizioni della prima Critica,2 la Confutazione significa comunque un’oggettiva limitazione del ruolo dell’immaginazione nella costituzione a priori dell’esperienza. Ed è questa, senz’altro, una delle ragioni che hanno indotto alcuni interpreti a preferire la I edizione della Critica, come quella più capace di presentare la rivoluzione copernicana del trascendentalismo kantiano nella sua radicalità. Nel Novecento colui che più ha insistito sulla preferibilità della prima edizione rispetto alla seconda, fornendo un’interpretazione originale e assai influente dell’opera kantiana, è stato senz’altro Heidegger con la fondamentale opera del 1929, Kant e il problema della metafisica. La critica heideggeriana, com’è noto, riguarda proprio il diverso ruolo che l’immaginazione trascendentale riveste nella prima edizione. Da facoltà autonoma, “facoltà trascendentale a sé stante”,3 l’immaginazione si trasforma – nell’edizione del 1787 – in funzione dell’intelletto, riducendosi ad “un effetto dell’intelletto sulla sensibilità” (KrV, B 152)4. Di fronte all’immaginazione trascendentale il Kant della seconda edizione ‘indietreggia’. Tale “indietreggiare” è, per Heidegger, un indietreggiare di fronte all’abisso di una fondazione originaria. Troppo note, per insistervi, sono le conclusioni che Heidegger trae da tali osservazioni. Contro l’oscuro fondamento dell’immaginazione Kant fa agire, nella seconda edizione, “la forza luminosa della ragion pura”.5 E proprio per questo non assolve fino in fondo il compito di una fondazione della metafisica riconducendola alla “finitezza “specifica” della soggettività umana”.6 A quest’imperfezione, a questa timidezza del procedere kantiano, Heidegger risponde con la ‘violenza’ della sua interpretazione, la cui mossa decisiva sta nel radicalizzare il ruolo della temporalità nella deduzione trascendentale fino a stringere in un uni2
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Anche se, come nota Gerhard Lehmann, è singolare che interpretazioni di Kant in chiave realistica, come quelle di Riehl, Romundt, Adikes e Frischeisen-Köhler…, non facciano leva sulla Confutazione dell’idealismo. Cfr. al riguardo G. Lehmann, Kants Widerlegung des Idealismus in Id., Beiträge zur Geschichte und Interpretation der Philosophie Kants, Walter de Gruyter & Co., Berlin 1969, pp. 171-187 ed in particolare pp. 172 e ss. M. Heidegger, Kant e il problema della metafisica, a cura e con un’introduzione di V. Verra, Laterza, Roma-Bari 1981, p. 145. Qui e in seguito (nel corpo del testo e delle note), come è consuetudine, si fa riferimento alle due edizioni della Critica della ragion pura con A e B. L’edizione cui si rimanda è quella delle Kant’s Gesammelte Schriften, Akademie-Ausgabe, G. Reimer/W. De Gruyter, Berlin 1900 e succ. (di seguito abbreviata come AK). Ivi, p. 146. Ivi, p. 149.
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Spazialità. Senso interno e senso esterno nella critica kantiana
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co nodo identitario tempo e soggettività, ovvero nella figura di un’autoaffezione del sé come cuore dell’autocoscienza trascendentale. Seppur con diverso intento, la questione del rapporto tra la prima e la seconda edizione della Critica della ragion pura, e della preferibilità della prima, era già stata posta nella maniera più netta e perentoria da Schopenhauer nell’Appendice a Il mondo come volontà e rappresentazione:
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Con l’opinione fondamentale decisamente idealista, così chiaramente espressa nella prima edizione della Critica della ragion pura, sta però in innegabile contraddizione il modo, come Kant introduce la cosa in sé, e senza dubbio questa è la ragione principale, perché egli nella seconda edizione soppresse la su citata parte fondamentale idealista e si dichiarò addirittura contro l’idealismo di Berkeley, con che egli però portò solo inconseguenze nella sua opera, senza poterne riparare il difetto principale.7
Nel seguito della sua Critica della filosofia kantiana, Schopenhauer coglie con lucidità il pungolo problematico che muove Kant a sottoporre a revisione la prima edizione della Critica della ragion pura. La “premessa della cosa in sé” – osserva – riposa sull’intenzione kantiana di mostrare che l’intuizione empirica, e “più esattamente la sensazione nei nostri organi di senso”, deriva da una causa esterna alla soggettività dell’intelletto, al suo peculiare a priori. Così però Kant, secondo Schopenhauer, tradisce il senso idealistico-trascendentale della sua impresa. Considerando sia la natura soggettiva della legge di causalità sia il carattere di forma a priori, e dunque soggettiva, dello spazio, “tutta l’intuizione empirica – sostiene invece Schopenhauer – rimane interamente su un fondo e suolo subiettivo, come un semplice processo in noi”.8 Per questo, l’intuizione empirica “è e rimane nostra semplice rappresentazione: è il mondo quale rappresentazione”.9 All’in sé non si giunge, dunque, per la via della presupposizione di qualcosa d’esterno alla soggettività, ma si accede puramente dall’interno dell’autocoscienza, intuendo la volontà come il vero in sé, di cui sono fenomeno l’autocoscienza e la sfera della rappresentazione che essa include. Nella sua critica, Schopenhauer non fa diretto riferimento alla Confutazione dell’idealismo. E questo suona abbastanza singolare, dal momento che sono proprio queste pagine quelle che Kant, nella Prefazione all’edi7 8 9
A. Schopenhauer, Il mondo come volontà e rappresentazione, tr. it. di P. Savj-Lopez e G. De Lorenzo, introduzione di C. Vasoli, Laterza, Roma-Bari 1982, 2 voll., II, p. 564. Ivi, p. 565. Ibid.
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zione del 1787, ritiene di dover menzionare come la “sola vera e propria aggiunta, sebbene solo nel modo della dimostrazione” (Krv, B XL nota), rispetto alla prima edizione, sentendo anche il bisogno di apporre una lunga nota chiarificatrice. Ciò non significa, certo, che tale “aggiunta” sia sfuggita all’occhio attento dell’autore del Mondo come volontà e rappresentazione. La difesa di Berkeley rispetto alla presa di distanza kantiana e alle “inconseguenze” che ne derivano, testimonia quanto la Confutazione fosse ben presente a Schopenhauer. Difendendo Berkeley, Schopenhauer si fa sostenitore, però, di un modo di intendere l’idealismo kantiano indifendibile sia nella prospettiva della prima edizione della Critica della ragion pura sia in quella della seconda. Al punto dell’Analitica dei principi in cui è inserita la Confutazione – come un’appendice al secondo “postulato del pensiero empirico in generale”, secondo il quale “Ciò che si connette con le condizioni materiali dell’esperienza (della sensazione), è reale” (KrV, B 266) – l’idealismo berkeleyano, da Kant definito “dogmatico”, non costituisce più una minaccia. Se la tesi principale dell’idealismo dogmatico di Berkeley consiste nel ritenere “le cose nello spazio come semplici immaginazioni” appunto in virtù del fatto che, continuando a presupporre lo spazio come una proprietà delle cose stesse, si riduce lo spazio stesso ad un Unding, ad una non-cosa: a qualcosa d’inesistente (un nulla); allora tale posizione – agli occhi di Kant – è già stata definitivamente confutata al livello dell’Estetica trascendentale. L’idealismo più difficile da confutare, dopo la Deduzione trascendentale dei concetti puri dell’intelletto, è piuttosto quello “problematico” di Cartesio. Il problema di Cartesio, anzi la sua aporia, sta nel dubbio radicale che revoca ogni affermazione d’esistenza eccetto quella contenuta nell’indubitabilità della proposizione: “Io sono”. Al dubbio cartesiano e al suo rovesciarsi nell’unica certezza del cogito, dal quale si deve inferire l’esistenza dell’Io che pensa, è concesso da Kant il beneficio della ragionevolezza, della conformità con un “fondato modo di pensare” (KrV, B 275). Almeno, questo, finché non sia offerta ad esso quella prova capace di permettergli di pronunziare un “giudizio decisivo”. Per giungere a tale “prova” non c’è affatto bisogno di abbandonare il terreno problematico cartesiano; si tratta piuttosto di mostrarne l’intima contraddittorietà, di far emergere il carattere non puramente interno della experientia sui che il pensiero esibisce. Si tratta, in altri termini, di capire e di mostrare, contra Cartesio, che l’immediatezza dell’esperienza è possibile solo in quanto implica, proprio nella sua im-mediatezza vale a dire nella sua non inferenzialità, l’esperienza di un qualcosa di esterno al pensiero e
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al tempo del suo intimo accadere. In gioco in questa prova, in quella che Kant propone come la dimostrazione di un “teorema”,10 non è, allora, semplicemente l’esternità degli oggetti (e del mondo) rispetto al soggetto, quanto piuttosto il rapporto tra esperienza e coscienza. Questo rapporto deve essere pensato nella struttura ancipite della sensazione, nella connessione tra senso interno e senso esterno che la costituisce. È attraverso la sensazione, infatti, che la coscienza si determina, che si produce qualcosa di empiricamente determinato: qualcosa di cui si fa esperienza. Ma determinarsi, qui, significa “aver luogo”. Tutta la prova kantiana ruota attorno al fatto che non è possibile identificare il senso dell’“aver luogo” unicamente dal punto di vista temporale: “aver luogo” significa anche e, in un certo senso, necessariamente l’occupare un posto nello spazio, avervi una posizione e proprio per questo ‘esistere’. Senza questa considerazione del rapporto tra “aver luogo” ed “esistere” non diviene, infatti, nemmeno intelligibile “la coscienza empiricamente determinata della mia esistenza”. Così sostenendo, Kant riduce la portata della certezza cartesiana – l’“Io sono” come inferenza ricavata dal dubitare del puro pensiero – al valore di una “asserzione empirica”. Intendendo mostrare, nel contempo, che tale asserzione può essere valida soltanto includendo l’immediatezza di un’esperienza esterna come condizione d’ogni esperienza interna. Com’è evidente, il problema non sta a cuore a Kant solo con l’obiettivo di confutare la posizione cartesiana. Quello dell’idealismo è anche, e soprattutto, un problema interno alla prima Critica, ed in particolare al nucleo decisivo della stessa “Deduzione trascendentale” vale a dire al “principio dell’unità sintetica dell’appercezione” come “principio supremo di ogni uso dell’intelletto”. Senza il passaggio contenuto nella Confutazione dell’idealismo, senza la dialettica tra esterno ed interno nella struttura stessa della sensazione in cui tale passaggio consiste, il principio trascendentale della coscienza – l’“Io penso” come rappresentazione immanente ad ogni ‘coscienza di…’– rimarrebbe non soltanto vuoto di determinazioni, come dal punto di vista trascendentale deve rimanere, ma rimarrebbe anche condannato a non avere effetti sulla possibilità stessa dell’esperienza e dunque sulla connessione fra trascendentale ed empirico. Trascurare che proprio di questo tratta il teorema da dimostrare, significherebbe continuare a credere che la Confutazione rappresenta per la prospettiva trascendentale di Kant, per il carattere a priori della sua indagine, un residuo ontologistico, 10
“La semplice coscienza, ma empiricamente determinata, della mia propria esistenza dimostra l’esistenza degli oggetti nello fuori di me” (KrV, B 276): questo è il teorema al quale Kant si propone appunto di fornire la prova.
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un residuo che risulta incomprensibile proprio alla luce della revisione cui, nella seconda edizione, è sottoposta la Critica della ragion pura. Sostenere la tesi del carattere direttamente ontologico e non analitico-trascendentale della Confutazione, significherebbe del resto conferire una qualche legittimità alla tesi che Schopenhauer avanza in una lettera a Karl Rosenkranz del 24 agosto 1837. In questa lettera, inserita nella Prefazione all’edizione di Kehrbach della Critica della ragion pura, si afferma che quanto avrebbe mosso Kant a rivedere e correggere in senso realistico la sua opera sarebbe stata una “Menschenfurcht, enstanden durch Alterschwäche”, una “paura degli uomini, dovuta alla debolezza dell’età”. A parte il fatto che la tesi non regge nemmeno dal punto di vista anagrafico (Kant negli anni in cui lavora alla seconda edizione ha poco più di sessant’anni!), vi sono poi tutta una serie di documenti testuali che testimoniano come il problema di una confutazione dell’idealismo occupasse la mente di Kant ben prima del periodo di vero e proprio lavoro alla seconda edizione. Ad esempio la Reflexion XXIII 32 (Erdmann Refl. XCII), dove leggiamo: “ciò che è determinato nello spazio e nel tempo è reale (wirklich). Contro l’Idealismo”. Ma anche la ripresa della questione in una serie di scritti successivi, databili tra il 1790 e il 1793 (i Losen Blätter D 11, D 7 e B 611 e i Losen Blätter Kiesewetter 3, Kiesewetter 8, D 8, D 2, B 7, D 1012), documenta ampiamente come la confutazione dell’idealismo fosse un problema che inquietava Kant ben al di là di polemiche contingenti. Ad esempio quella relativa alla necessità di rispondere alla recensione di Garve e Feder alla Critica della ragion pura apparsa il 19 gennaio 1782 nelle “Göttinger Gelehrten Anzeigen”.13 Questo non significa che vada trascurata l’occasione polemica offerta dalla recensione di Garve-Feder, dove appunto si dice che l’autore della Critica della ragion pura propugna un sistema dell’idealismo trascendentale, presentato dagli autori della recensione come “un idealismo che abbraccia d’un modo spirito e materia” e “trasforma il mondo e noi stessi in rappresentazioni”.14 Preoccupazione di Kant, nella sua revisione della Critica, sarà senza dubbio quella di contrastare questo modo di intendere la sua opera, precisando in particolare il senso della deduzione trascendentale delle categorie come trama costitutiva dell’oggettività dell’esperienza.
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AK XVIII, pp. 306 e ss., 312 e ss. Ivi, pp. 607 e ss., 613 e ss., 616 e ss., 618 e ss., 621 e ss. Su tutta la questione cfr. G. Lehmann, Kants Widerlegung des Idealismus, cit., pp. 173 e ss. Cfr. in proposito E. Cassirer, Vita e dottrina di Kant, tr. it. di G. A. De Tono, Prefazione di M. Dal Pra, La Nuova Italia, Firenze 1977, pp. 260-262.
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Nella cornice di questa preoccupazione si inserisce certamente la Confutazione dell’idealismo, tesa tra la deduzione trascendentale e la dimostrazione dei principi dell’esperienza.15 Il compito che Kant si propone con essa consiste nel tracciare una linea critica tra esperienza e immaginazione, tra Erfahrung ed Einbildung. Ed è appunto in relazione a tale compito che si rende necessario mostrare come la connessione tra coscienza trascendentale e coscienza empirica possa aver luogo solo in quella sintesi dell’esperienza in cui l’Io acquista esistenza oggettiva nella forma di una coscienza di sé temporalmente determinata. A tale proposito va presa in considerazione un’osservazione assai acuta di Luigi Scaravelli, contenuta nel saggio Kant e la fisica moderna: Per Kant reale (fenomenico) non è né la sensazione a sé, né lo spazio, né il tempo, né l’unione di questi tre elementi […]; né reale è alcuna delle 12 categorie, né reale l’Io penso. Reale, nel significato di esistenza (esistenza fenomenica sempre, si intende) è il punto della sintesi – meglio dell’unità sintetica – di tutti questi elementi di cui la critica, nella sua Transcendentale Elementarlehre, ha esaminato uno per uno caratteri e proprietà.16
Nello sviluppo di questa tesi Scaravelli insiste sul ruolo fondamentale che il tempo esercita nella costituzione della sintesi: “il tempo ‘comanda’ […] ed è la chiave di tutto quanto è sensibile”.17 Tale asserzione è in sintonia con la tesi scaravelliana circa il primato del tempo nell’esposizione della deduzione delle categorie e della dottrina dello schematismo. Una tesi certamente ben fondata. Lo stesso carattere di rappresentazione d’ogni oggetto dell’esperienza (di ogni fenomeno) deriva, come più volte esplicita lo stesso Kant, dal sottostare esso alla condizione del senso interno e, dunque, alla forma del tempo. Ciò esalta senza dubbio il ruolo dell’immaginazione. 15
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Per questa collocazione della Widerlegung des Idealismus nell’Analitica cfr. quanto scrive R. Brandt nella sua introduzione all’edizione del cosiddetto Loses Blatt Leningrad 1, un frammento kantiano dedicato al “senso interno” in stretta connessione con le pagine della Widerlegung e databile tra gli ultimi anni del decennio 1780 e i primi anni novanta: R. Brandt, Eine neue aufgefundene Reflexion Kants “Vom inneren Sinne” (Loses Blatt Leningrad 1) in R. Brandt W. Stark (a cura di), Neue Autographen und Dokumente zu Kants Leben, Schriften und Vorlesungen, “Kant-Forschungen”, v. 1, Meiner, Hamburg 1987, p 7 e ss. (la Einleitung di Brandt riguarda appunto la Widerlegung e la sua collocazione nell’opera di Kant). Di questo importante frammento si veda anche l’edizione italiana (a cura di L. Fonnesu e C. La Rocca) in “Studi kantiani”, IV, 1991, pp. 128-133. L. Scaravelli, Kant e la fisica moderna in Id., Scritti kantiani, La Nuova Italia, Firenze 1968, p. 171. Ivi, p. 175.
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Senonché, come lo stesso Scaravelli osserva in una nota del medesimo saggio, proprio questo ruolo viene ridimensionato nell’edizione del 1787 in relazione al “cambiamento che nel frattempo è avvenuto nel concetto di “spazio”.18 Proprio di questo mutamento sembra tener conto la Confutazione dell’idealismo. Né l’origine né la stessa costruzione della sintesi dell’apprensione (prodotta dall’immaginazione) possono esser pensate nella loro possibilità, se si trascura il ruolo strutturale dello spazio. Un ruolo da intendersi non solo come “forma dell’intuizione”, attraverso cui è dato il molteplice sensibile, ma anche come “intuizione formale” (KrV, B 161 nota), in cui è data esteticamente “l’unità della rappresentazione” dello spazio come unità dell’esteriorità e, dunque, come limite immanente al carattere interno del tempo. Nella forma dello spazio, intesa in questa strutturale complessità, possiamo cogliere così l’apertura esterna della sensibilità (il momento della sua passività originaria) e, in virtù di ciò, il carattere necessariamente relazionale dell’Io come soggetto dell’esperienza: dell’Io effettivamente esistente (esistente nel tempo). Tenendo fermo questo presupposto, al “dunque esisto” del cogito cartesiano viene sottratta ogni forza autoassertoria. Per Kant, a differenza che per Cartesio, l’immediatezza dell’esperienza interna è, infatti, mediata dalla vera e propria immediatezza di quella esterna. Questo non rende necessariamente mediato o riflesso il carattere dell’esperienza interna, ma corregge senz’altro il senso dell’autoaffezione. Lo corregge in forza del principio dell’esteriorità dell’esistenza, del suo carattere di posizione nello spazio. Perciò ogni autoaffezione implica in qualche modo un’eteroaffezione. Ciò vale anche per la coscienza dell’Io, nella misura in cui non si limiti alla vuotezza analitica della rappresentazione “Io sono”, come “coscienza che può accompagnare ogni pensiero” (KrV, B 278). Qui, ovvero nell’Annotazione 1 della Confutazione, Kant sembra dimenticare quanto sostenuto nei paragrafi dedicati all’appercezione trascendentale, dove l’analiticità della rappresentazione “Io penso” sta in un circolo presuppositivo con l’“unità sintetica originaria dell’appercezione”,19 giungendo a sostenere che tale rappresentazione “racchiude in sé immediatamente l’esistenza di un soggetto” (ivi). Forse Kant intende dire l’esistenza di un soggetto in generale e dunque la possibilità della sua esistenza, ma non può per questa via affer18 19
Ivi, p. 169 (nota 35). Sul senso non categoriale di tale unità e sul suo carattere di memoria della coscienza estetica dentro il suo principio necessariamente intellettuale debbo rimandare a quanto sostenuto nel terzo capitolo di F. Desideri, Il passaggio estetico, cit., pp. 95-128.
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Spazialità. Senso interno e senso esterno nella critica kantiana
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marne l’esistenza come qualcosa di determinato nel tempo. Per poter affermare ciò, perché insomma il soggetto si conosca ed abbia esperienza di sé, bisogna uscire dai limiti di una pura rappresentazione, considerando il soggetto stesso nella sua realtà fenomenica vale a dire come qualcosa che esiste temporalmente. L’assunto-guida della prova kantiana sta nel ritenere impossibile un’esperienza puramente interna, una pura fenomenologia dell’accadere temporale interno alla coscienza svincolata dalla sua relazione strutturale con lo spazio. Nell’ottica dei “postulati del pensiero empirico in generale” sarebbe un’esperienza apercettiva e dunque irreale: un’esperienza puramente immaginaria, un prodotto della sola immaginazione. Ma questo condannerebbe all’irrealtà e dunque all’inesistenza lo stesso soggetto. Perché il soggetto possa conoscersi come qualcosa di esistente deve aver percezione di sé e la percezione non può ridursi ad un’attività meramente immaginativa. Percezione vi è soltanto nel rapporto tra (senso) interno e (senso) esterno, rapporto costitutivo del carattere affettivo (della passività) che definisce la struttura della sensazione. Questo tipo di ragionamento è introdotto da Kant sia nella nota 1 alla Dimostrazione del suo Teorema sia, con maggiore ampiezza, nella lunga nota chiarificatrice aggiunta nella Prefazione alla seconda edizione. All’origine dei molti fraintendimenti cui è stata esposta la Confutazione, vi è forse anche il fatto che Kant, nella Dimostrazione, introduce subito l’argomento del permanente come riferito a qualcosa di esterno di cui c’è percezione, precisando che tale riferimento non può essere sostituito dalla “semplice rappresentazione di una cosa fuori di me” (KrV, B 276). La vera spiegazione di questo argomento, quanto lo completa sottraendolo alla possibilità di intenderlo come appello ad un realismo ingenuo, è fornita però nella nota: “anche solo per immaginarci qualcosa di esterno” (KrV, B 277 nota) bisogna presupporre che un senso esterno vi sia e che tale senso sia distinto dall’immaginazione per il suo carattere ricettivo anziché spontaneamente produttivo. La nota aggiunta alla Prefazione alla seconda edizione riprende e approfondisce questa argomentazione: la natura del senso esterno è di essere “relazione dell’intuizione a qualcosa di reale al di fuori di me” (KrV, B XLI). Se fosse relazione a qualcosa di soltanto rappresentato come esterno, sarebbe relazione ad un immaginato ed il senso esterno dovrebbe negare la sua natura e coincidere con quello interno. Assumere la realtà del senso esterno coincide, quindi, con l’ammettere l’esternità del suo oggetto e quindi la sua esistenza nello spazio come qualcosa di distinto dal soggetto. In questa assunzione, che per Kant ha il senso di un “principio immutabile” (e cioè strutturale), è addirittura contenuta la possibilità che tutto quanto viene percepito esternamente divenga una mo-
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dificazione interna e, quindi, una rappresentazione. La possibilità della rappresentazione, governata dal tempo come sua condizione, è quindi data dal limite strutturale costituito dallo spazio. La posta che la Confutazione deve conquistare riguarda, allora, il limite interno di ogni rappresentazione, ovvero l’impossibilità di risolvere in un ‘assoluto’ internalismo il contenuto dell’esperienza; riguarda, in altri termini, l’esternità immanente all’internità della rappresentazione e del rappresentarsi, e con essa, la possibilità di non dissociare l’empirico dal trascendentale. Solo la capacità di mostrare trascendentalmente, nella struttura ancipite della sensazione, l’unità tra questi due livelli salva, infatti, il discorso kantiano svolto nella Deduzione dal risolversi in mera ed assoluta rappresentazione, dove la soggettività della forma produrrebbe il suo contenuto. Il vero e proprio sviluppo dell’argomentazione kantiana deve perciò mirare a far emergere il rapporto costitutivo tra esterno ed interno all’origine della sensibilità propria del soggetto. A tale proposito l’argomento più forte è proprio quello relativo all’impossibilità di pensare il tempo (la sua internità, il suo carattere di forma a priori del senso interno) senza presupporre l’esteriorità dello spazio come forma del senso esterno. Assumendo questo punto di vista argomentativo, si potrebbe formulare in termini quasi wittgensteiniani il problema kantiano affrontato nella Confutazione e nelle sue riprese e variazioni. Come Wittgenstein, nelle Ricerche filosofiche, confuta la possibilità che esista un linguaggio privato, come espressione assolutamente soggettiva di quanto internamente sentito e dunque come un linguaggio a cui solo il soggetto delle sensazioni può accedere, in maniera analoga Kant confuta la possibilità che esista un tempo ‘privato’, un tempo assolutamente interno al soggetto. Alla pari del “linguaggio privato”, anche il tempo ‘privato’ o assolutamente interno (irrelato dallo spazio) è un concetto contradditorio. Per il motivo che questo tempo, forma di ogni rappresentazione e dunque condizione di ogni fenomeno, sarebbe un tempo senza relazione con qualcosa d’altro: un tempo irrelato, dove non si potrebbe distinguere e quindi rappresentare alcunché. Un tempo irrelato con altro e, soprattutto, un tempo senza relazione con il suo altro originario – con l’esteriorità dello spazio – sarebbe, insomma, un tempo indistinto: un flusso assoluto. Ma un flusso assoluto è un flusso in cui niente fluisce, è pura permanenza che si rovescia in pura spazialità e, quindi, nell’inabissarsi di ogni emergenza soggettiva, nel rovesciarsi dell’Io in materia incapace di pensarsi, distinguendosi tra un principio soggettivo (intellettuale) della coscienza e in un correlato oggettivo dell’esperienza. Perché questa distinzione vi sia, perché vi sia coscienza
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Spazialità. Senso interno e senso esterno nella critica kantiana
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della propria esistenza come determinata temporalmente, il tempo va pensato nella sua articolazione con lo spazio. Solo alla luce di questa articolazione strutturale, di questo co-appartenersi di tempo e spazio, diviene infatti possibile affermare “Io esisto” con il valore di una proposizione empirica ovvero di un giudizio d’esperienza. È come se, con la Confutazione, Kant riflettesse sul senso dell’Estetica trascendentale dopo la deduzione delle categorie e i paragrafi relativi all’appercezione trascendentale. Mettendo in relazione reciproca le due forme dell’intuizione e quindi il senso esterno con quello interno, Kant riequilibria quel primato del tempo sul cui filo è stata sviluppata la dottrina dello schematismo trascendentale. Assegnando allo spazio i suoi diritti, riconoscendogli un primato sul versante della passività e dunque del carattere d’affezione di ogni sensazione, si ristabilisce una simmetria tra la forma dello spazio e quella del tempo. Più che una semplice aggiunta, la Confutazione acquisisce, così, il senso di una spina, di un pungiglione trascendentale nel cuore della Deduzione e dello schematismo. E questo per il motivo che, senza di essa, rischia di offuscarsi la distinzione crucialmente critica tra concetto ed esistenza, tra l’esteriorità dell’esistenza, rispetto all’Io come principio unificante del molteplice sensibile, e la totalità delle determinazioni concettuali di ogni oggetto della conoscenza. Ma cadendo tale distinzione, venendo essa a dissolversi in un orizzonte puramente immaginativo, verrebbe meno anche la possibilità della congiunzione e quindi della sintesi tra empirico e trascendentale; cadrebbe, insomma, la possibilità di quella sintesi che si dà, appunto, nel rapporto tra esperienza e coscienza. Come è ribadito nel Secondo Postulato del pensiero empirico in generale, l’esistenza è assolutamente posizione, Setzung: è un qualcosa di Gesetzt, qualcosa di posto. Ma l’“esser posto” di qualcosa è impensabile senza uno spazio dove l’esistente possa “aver luogo” e permanere. Se lo spazio configura la disponibilità del senso ad accogliere la “posizione” dell’esistente, l’aver luogo è la determinazione spaziale dell’evento temporale, del contenuto della rappresentazione, nella misura in cui non è un meramente immaginato, ma un esperito. Quanto sostiene Kant con la Confutazione, allora, è anche l’irriducibilità del senso, nella bipartizione relazionale tra esterno ed interno che lo costituisce, all’immaginazione. Attraverso la Confutazione – come ha acutamente argomentato Luporini – si attua il passaggio dalla realtà (come categoria) all’esistenza come effettività dell’esperienza,20 in 20
Cfr. Per questo C. Luporini, Spazio e materia in Kant, cit., p. 227. “La realtà come tale - scrive Luporini - non è ancora in Kant l’esistenza, anche se quest’ultima, evidentemente, deve presupporla. Se si rimanesse ai dati della sensazione e al loro succedersi nella coscienza, una volto posto l’ego con le sue operazioni soggettive,
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quanto quest’ultima, al pari della coscienza, è sempre esperienza di qualcosa, di un altro esterno alla pura soggettività. L’argomento decisivo a questo punto – a differenza di quanto pare pensare Luporini21 – non riguarda però la genericità del “permanente” (la sua intuizione empirica o percezione) come fosse il pernio di tutta la Confutazione. Questo argomento sarebbe facilmente superato dalle pagine dedicate al rapporto tra permanenza e sostanza nella Prima analogia dell’esperienza.22 Il punto decisivamente nevralgico dell’argomentazione kantiana sta piuttosto nella necessità di ripensare l’Estetica trascendentale dopo la Deduzione nei termini di una co-determinazione strutturalmente reciproca tra senso interno ed esterno e, dunque, tra tempo e spazio.23 Solo alla luce di tale co-determinarsi diviene infatti possibile dimostrare il teorema della Confutazione nella sua completezza ovvero il rapporto tra la coscienza empirica di sé e l’esistenza di oggetti nello spazio (fuori dal soggetto). Ma perché vi sia coscienza empirica, l’Io deve essere pensato insieme sia come soggetto trascendentale di una coscienza in generale sia come soggetto di un’esperienza in particolare: dell’esperienza-conoscenza di sé. In breve, l’Io deve essere pensato come un Io esistente (e dunque come realtà fenomenica) senza perdere le prerogative necessarie alla forma trascendentale dell’autocoscienza (alla sua condizione di possibilità). Perché l’Io possa sopportare entrambe queste determinazioni, la soggettività e nello stesso tempo l’oggettività, si deve, però, abbandonare il carattere puramente trascendentale dell’appercezione.24 L’Io di cui vi è coscienza come
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una volta cioè posta l’immaginazione e la spontaneità intellettuale, noi potremmo bensì pensare, in sede di riflessione filosofica, un’unità della coscienza, ma giammai un’unità dell’esperienza.” Vale a dire, aggiungiamo noi, non potremmo pensare una coscienza empirica della nostra esistenza e cioè della nostra identità nel tempo”. Cfr. Ivi, p. 299. A queste pagine fa appunto riferimento Paul Guyer in Kant’s Intentions in the Refutation of Idealism, in “The Philosophical Review”, XCII, 3 (luglio 1983), pp. 329383, mancando – a nostro avviso – il cuore trascendentale del problema kantiano. Cfr. su questo tema G. Mohr, Das sinnliche Ich. Innerer Sinn und Bewußtsein bei Kant, Königshausen & Neumann, Würzburg 1991, in particolare pp. 98-105 (sulla complementarità di senso interno ed esterno). Nel citato frammento Leningrad 1 dedicato al senso interno (ed in particolare al rapporto tra questo e il senso esterno) Kant distingue appunto tra l’appercezione pura (trascendentale) da quella empirica, l’apperceptio percipientis dalla apperceptio percepti: “la prima dice semplicemente “io sono”. La seconda dice “io ero, io sono e sarò”, cioè: “io sono una cosa del tempo passato, presente e futuro”, dove questa coscienza “io sono” è comune a tutte le cose [come] determinazione della mia esistenza in quanto grandezza.” Quest’ultima appercezione, precisa Kant, è “cosmologica”, mentre l’altra è “psicologica”. Il termine “cosmologico”
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di un’esistenza determinata nel tempo non è più puro: non è più l’Io-condizione di ogni esperienza, il soggetto attivo dell’appercezione trascendentale che ha un correlato rappresentazionale nell’Io penso; non è insomma identificabile con quella che Kant, nel § 18, chiama “l’unità oggettiva dell’autocoscienza”. Ma non è nemmeno la semplice unità soggettiva come determinazione del senso interno. Perché l’Io abbia coscienza empirica di sé deve contenere il rapporto tra queste due dimensioni. L’Io della coscienza empirica è certamente impuro; è l’Io che esiste nel tempo come “un ente mondano”.25 La sua identità non è, perciò, altrimenti pensabile che nella relazione con un’originaria alterità ed il ‘suo’ tempo non è altrimenti rappresentabile che attraverso il limite originario dello spazio. Tale “Io” non è più, dunque, il solo soggetto della rappresentazione, ma anche il suo oggetto (il suo contenuto fenomenico): ciò a cui la rappresentazione si riferisce come a qualcosa di paradossalmente esterno. Quello che vale per questo doppio registro dell’Io, Kant lo fa valere per ogni “determinazione temporale”, asserendo, cioè, che ogni determinazione nel tempo presuppone qualcosa di “permanente nella percezione” (KrV, B 276). Ma questa ‘generalizzazione’ è comprensibile, trascendentalmente comprensibile, solo dal punto di vista dell’impossibilità di pensare il tempo ‘assolutamente’, fuori della sua relazione con lo spazio e, dunque, solo dal punto di vista dell’impossibilità di pensare il senso interno fuori dalla sua immediata relazione con quello esterno. In breve, la generalizzazione dell’argomento relativo al “permanente” come limite del tempo – un sussistere e persistere di qualcosa nell’esternità dell’esistenza – è comprensibile solo a partire da una critica articolazione del concetto di Io e dal rapporto tra esperienza e coscienza che ne definisce l’esistere. Questa linea di pensiero è ben sviluppata in un testo dedicato alla Confutazione dell’idealismo problematico, la cui paternità è stata contestata da Adickes ed attribuita a Johannes Christian Kiesewetter, che avrebbe trascritto e liberamente riassunto i contenuti di conversazioni avute con lo
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sta qui a significare che “io sono in modo immediato ed originario cosciente di me stesso come di un ente mondano, e proprio solo per mezzo di ciò la mia propria esistenza è determinabile, solo come fenomeno, in quanto grandezza nel tempo” (Kant, Sul senso interno, cit., pp. 129-131). Il tema del rapporto tra soggetto e mondo è ben sviluppato da Claudio La Rocca nel saggio che accompagna l’edizione italiana (curata insieme a Luca Fonnesu) del frammento cosiddetto Leningrad 1: Soggetto e mondo (“Studi kantiani”, IV, 1991, pp. 134-159). Tale saggio è ripreso nel volume dello stesso autore, Soggetto e mondo. Studi su Kant, Marsilio, Padova 2003, pp. 53- 78. Cfr. per questo la nota precedente.
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stesso Kant in occasione di visite a quest’ultimo tra il 1788-89 e il 1791. Le motivazioni che Adickes adduce per la sua contestazione non sono sempre convincenti,26 e comunque, a nostro avviso, inconfondibilmente kantiano è il livello e il tono dell’argomentazione: Il tempo stesso è certo permanente, ma da solo non può venire percepito; di conseguenza deve darsi un qualcosa di permanente in cui si possa percepire il mutamento nel tempo. Questo permanente non possiamo essere noi stessi, poiché noi siamo appunto determinati mediante il tempo come oggetti del senso interno; il permanente può dunque essere posto soltanto in ciò che ci viene dato attraverso il senso esterno. Posto, infatti, che si volesse dire che anche la rappresentazione del permanente, dato attraverso il senso esterno, sia puramente una percezione data mediante il senso interno, la quale viene rappresentata solo dall’immaginazione come data attraverso il senso esterno, allora dovrebbe essere tuttavia possibile in assoluto (anche se non per noi) divenire coscienti dello stesso senso esterno come appartenente al senso interno; ma allora la rappresentazione dello spazio sarebbe trasformata in quella del tempo, vale a dire sarebbe possibile rappresentare lo spazio come un tempo (secondo una dimensione), il che si contraddice. Il senso esterno ha dunque una realtà perché senza di esso il senso interno non è possibile. Da ciò sembra conseguire che noi conosciamo la nostra esistenza nel tempo soltanto e sempre nel Commercio.27
L’argomentazione kantiana si fa qui stringente. Se il senso esterno potesse esser riassorbito nell’orizzonte interno della rappresentazione, ossia nella dimensione del tempo, lo spazio si farebbe tempo e perderebbe le sue distintive dimensioni. La conseguenza, oltre alla palese contraddizione del chiamare spazio qualcosa che in realtà è tempo, sarebbe di perdere ogni critica distinzione tra cosa in sé e fenomeno e di rendere impensabile perfino una coscienza di sé come coscienza di un Io esistente. In evidente contrasto con le ragioni di quel senso comune con il quale Kant tiene a sottolineare l’accordo della propria prospettiva critica.28 In poche parole, quello che si perdereb26 27 28
Cfr. AK, XVIII, pp. 607-610. I. Kant, Confutazione dell’idealismo problematico, dai Sette piccoli saggi in Id., Questioni di confine. Saggi polemici (1786- 1800), a cura e con un’Introduzione di F. Desideri, Marietti, Genova 1990, pp. 91-92. Come sottolinea nella nota aggiunta alla Prefazione alla seconda edizione “resta sempre uno scandalo per la filosofia e per il senso comune (…) che l’esistenza delle cose esteriori (…) si debba ammettere semplicemente per fede” (KrV, B XXXIX nota). Come è stato notato giustamente da più parti, qui Kant ha di mira lo Jacobi del saggio-dialogo su Hume (David Hume über de Glauben, oder Idealismus und Realismus. Ein Gespräch, Breslavia 1787). C’è solo da aggiungere che sarebbe uno scandalo ancora maggiore dover assegnare la stessa esistenza dell’Io all’ambito della credenza. Ciò per Kant è insostenibile sia dal punto di vista tra-
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be non sarebbe solo il mondo esterno, ma anche lo stesso soggetto. Anch’esso dovrebbe esser pensato come qualcosa di immaginario: un fictum dell’immaginazione. A questo punto resterebbe solo da chiedersi dell’immaginazione di chi? E così via, in un cattivo infinito speculativo. L’accento, più che sul permanente, deve dunque battere sull’esteriorità dell’esistenza come qualcosa di posto e quindi di puramente dato ad un senso esterno. Se accettiamo questo sviluppo dell’argomentazione, anche includendo i diversi svolgimenti e le variazioni successive alla Confutazione inserita nella seconda edizione della Critica della ragion pura, possiamo concludere che il ridimensionamento funzionalistico che l’immaginazione subisce nella seconda edizione sta in stretta connessione con le ragioni della Confutazione. Qui Kant sembra rispondere in anticipo alla predilezione heideggeriana per la prima edizione e alla sua interpretazione pantemporalista.29 Solo assumendo il principio di esteriorità (e quindi di esistenza come posizione-datità) il soggetto può dunque divenire oggetto di una coscienza empirica. Solo alla condizione, cioè, di mostrare che la coscienza di sé come coscienza di un qualcosa di esistente non è pensabile al di fuori dell’esser posto nello spazio, in relazione (nel “Commercio”!) con il molteplice implicato nell’intuizione stessa dell’esteriorità (nell’intuizione volta all’esterno come all’altro della pura soggettività). Con la dimostrazione di tale assunto, la divisione cartesiana tra la “cosa che pensa” e la “cosa che si estende nello spazio” non ha più motivo di sussistere nei termini di una divisione ontologica e, dunque, di un dualismo. Questo naturalmente non significa far fare all’indagine kantiana, in quanto indagine rigorosamente a priori e dunque criticotrascendentale, un passo indietro di tipo empiristico. Significa, piuttosto, confermare che per Kant la distinzione tra concetto ed esistenza nella sintesi che costituisce l’esperienza non ha più il valore di una distinzione ontologica, ma logico-trascendentale. Dal punto di vista dell’esperienza, di cui la prima Critica indaga le condizioni di possibilità, concetto ed esistenza sono effettivamente intrecciati, proprio perché logicamente distinti. E poiché ogni esperienza si origina nell’affettività della sensazione, anche se questa non è condizione sufficiente alla sua costituzione, ogni esperienza in quanto esperienza di un soggetto pensante – di un soggetto, cioè, il cui pensiero è verte-
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scendentale sia da quello empirico. E la Confutazione mira appunto a mostrare l’unità tra questi due punti di vista. Heidegger stesso, del resto, tornerà (nella conferenza del 1962 su Tempo ed essere) sulla deduzione della spazialità dell’Esserci dalla sua temporalità per dichiararne seccamente l’“insostenibilità”. Su questo tema cfr. F. Desideri, L’ascolto della coscienza, cit., pp. 199-124 e più in generale (quanto ad Heidegger) D. Franck, Heidegger et le problème de l’espace, Les Éditions de Minuit, Paris 1986.
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brato nella struttura categoriale – è sempre esperienza di qualcosa di esterno al pensiero stesso: di quel qualcosa, appunto, di cui è possibile la percezione e quindi il giudizio. In quanto fenomeno dell’esperienza il qualcosa percepito e giudicato diviene oggetto di conoscenza e, come tale, oggetto di rappresentazione: di Vorstellung. È posto, insomma, di fronte allo sguardo percipiente e all’attività giudicante del soggetto, ma sempre come qualcosa di altro da esso: come l’altro rispetto alla struttura a priori della soggettività, come un altro che l’Io deve supporre in se stesso come un principio di paradossale esternità per potersi non solo pensare, ma conoscere come qualcosa di esistente. La soggettività, nella sua attività rappresentativa, dà così forma al contenuto dell’esperienza, determinando l’essere della cosa nella trama dell’oggettività (ricordiamo qui l’adagio scolastico “forma dat esse rei” più volte richiamato da Kant). Ma questo non significa che dia alla cosa l’esistenza. In un certo senso l’Io, come attività originaria non dà esistenza nemmeno a sé, deve in qualche modo presupporsi.30 La cosa esiste autonomamente; non esiste solo nella modalità dell’in sé che vale unicamente come un presupposto necessario di ogni esperienza, ma non può valere nella prova che intende confutare l’idealismo. La cosa esiste in quanto contenuto della rappresentazione, irriducibile alla sua forma; in quanto a posteriori che ogni a priori deve includere seppur nella modalità di un’anticipazione. Ciò vale anche per “quella cosa che pensa”, per quell’Es denkt dal cui presupposto emerge la figura dell’Io. Nel momento che questo presupposto è pensato nella trama spaziale dell’esistenza ovvero nel plurale dell’esteriorità, allora la purezza e autonomia del cogito, la sua virtù autoriflessiva, è salvata da un’esiziale confusione con il carattere immaginario del sogno.31 Una confusione che, agli occhi di Kant, insidiava ancora la filosofia cartesiana.
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Non è possibile qui svolgere analiticamente la tesi che anche l’Io all’interno dell’appercezione originaria continua a presupporre il Sé della coscienza nella distanza di una paradossale esternità. Per questo debbo rimandare a quanto sostenuto in L’ascolto della coscienza, cit., in particolare pp. 178-183, dove critico la tesi che l’immaginazione sia sufficiente alla costituzione della coscienza. Cfr. per questo, P. Carrique, Rêve, vérité. Essai sur la philosophie du sommeil et de la veille, Gallimard, Paris 2002, in particolare pp. 145 e ss. Qui l’autore sostiene giustamente che il sogno costituisce l’esperienza privilegiata della dissociazione dell’empirico dal trascendentale.
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“FREIHEIT IN DER ERSCHEINUNG”: SPAZIO ESTETICO E GENESI DELLA COSCIENZA IN SCHILLER
Tutte le interpretazioni del pensiero schilleriano, di Schiller als Philosoph, si misurano e si dividono nella valutazione dell’evidentissimo e ingombrante rapporto che Schiller, con i suoi pochi ma decisivi scritti di tenore estetico-filosofico, instaura con il pensiero di Kant. Già a questo proposito insorgono, come sappiamo, notevoli differenze interpretative, riassumibili nella questione se si debba considerare preminente per lo Schiller teorico il Kant della seconda oppure quello della terza Critica. Lasciamo per ora in sospeso tale questione. La macrodivisione, il vero e proprio discrimine nel campo delle interpretazioni della filosofia schilleriana riguarda anzitutto la necessità di stabilire non tanto e non solo la sua originalità, quanto piuttosto la misura della sua autonomia da Kant fino a rappresentarne un distacco ed un vero e proprio superamento. Chi risponde positivamente a tale domanda è Hegel, lo Hegel dell’Estetica. Vale la pena di ricordarne le parole, non prive di una solenne perentorietà: Deve essere dato a Schiller il grande merito di aver infranto la soggettività e l’astrazione kantiana del pensiero e di aver avviato il tentativo di andare oltre e di concepire concettualmente l’unità e la conciliazione come il vero e di realizzarle artisticamente. Infatti Schiller, nelle sue considerazioni estetiche, non solo ha tenuto fermo all’arte ed al suo interesse, senza curarsi del rapporto con la filosofia vera e propria, ma ha anche conciliato il suo interesse al bello artistico con i principi filosofici, e solo partendo da questi e con questi è penetrato nella profonda natura e nel concetto del bello. […] Schiller – continua Hegel – seppe far valere contro la considerazione intellettuale della volontà e del pensiero l’idea della libera totalità della bellezza. Tutta una serie di scritti di Schiller rientrano in questa visione della natura dell’arte, specialmente le Lettere sull’educazione estetica. Schiller vi parte da questo punto fondamentale, che ogni individuo porta in sé il germe dell’uomo ideale.1
1
G.W.F. Hegel, Estetica, a cura di N. Merker, Einaudi, Torino 1972, p. 73.
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Insieme allo Stato, ma non contro di esso (semmai in direzione del suo compimento concettuale e, quindi, forse anche in direzione della sua fine), l’arte rappresenta per Hegel la risposta schilleriana alla scissione kantiana e dunque all’astrazione puramente trascendentale della soggettività. L’arte come lo spazio attivamente simbolico in cui, nel tempo, l’uomo incontra e realizza la sua idea: lo spazio della mediazione e della conciliazione non tanto e non solo tra sé e il mondo, quanto innanzitutto tra l’esistenza effettiva del soggetto e l’ideale umanità generata dal suo stesso seno. In questo spazio si sviluppa la dinamica dell’educazione estetica: dando forma ad inclinazioni, impulsi e sensibilità finché “divengano essi stessi razionali”. Così la razionalità perde la sua astrazione, il suo essere confitta nella purezza soggettiva, ed acquista “carne e sangue”. La libertà nell’arte non è più l’altro noumenico rispetto al fenomeno, bensì è dentro di esso. Pur non usando direttamente la famosa espressione schilleriana – “Freiheit in der Erscheinung” – Hegel intende sostanzialmente questo, allorché ravvisa nel bello schilleriano “l’uni-formarsi del razionale e del sensibile” come un uniformarsi che indica la “vera realtà” ovvero il superamento della scissione. In questa influente lettura hegeliana nessuna autonomia, a ben vedere, è concessa all’estetico. Quanto da esso muove risponde all’esigenza dell’unità propria della ragione. Ed il senso risolto di tale risposta non è altro che l’arte: l’arte come anticipazione della figura hegeliana dello spirito. Un’anticipazione che flette senza residui l’idea schilleriana del bello come unità di forma e vita in quella di “bello artistico”: la “forma vivente” in senso proprio e compiuto non è l’organismo (l’“autonomia dell’organico”), bensì l’opera d’arte. Una tesi già chiaramente enunciata nel § 55 dell’Enciclopedia, laddove Hegel parla dell’idea di finalità interna introdotta da Kant nella terza Critica come un’occasione per mostrare le virtù speculative della filosofia trascendentale sfiorando la nozione di un “universale pensato come concreto in se stesso”. Un’occasione che Kant - agli occhi di Hegel non coglie e sviluppa in tutte le sue conseguenze. Quello che la critica kantiana può solo lambire, non riuscendo a vincere quella “pigrizia del pensiero” che rimane irretita nel concetto di un “dover essere”, è colto e tematizzato da altri ed in particolare da Schiller che trova “nell’idea del bello artistico, dell’unità concreta del pensiero e della rappresentazione sensibile, la via d’uscita dalle astrazioni dell’intelletto”.2 Quanto questa risoluzione si concili con la tematica affrontata in Grazia e 2
G.W.F. Hegel, Enciclopedia delle scienze filosofiche, tr. it. di B. Croce, Laterza, Roma-Bari 1971, p. 61.
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“Freiheit in der Erscheinung”
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dignità – che pure Hegel cita nelle Lezioni di Estetica evocando la lode schilleriana della donna come colei che mostra, nel suo carattere, “l’unificazione, di per sé esistente, di spirituale e naturale” – non viene minimamente affrontato. La caratterizzazione dominante resta comunque quella di un pensiero filosofico ‘eroico’ che lotta vittoriosamente con un problema che dal punto di vista trascendentale di Kant non si può nemmeno scorgere: quello della scissione e della necessità del suo superamento nella conciliazione. Agli antipodi della lettura hegeliana stanno quelle interpretazioni dello Schiller filosofo tutte nel segno non solo di una continuità, ma addirittura di una radicale internità all’ordito concettuale kantiano. Laddove tali interpretazioni non si limitino a sottolineare la non originalità della speculazione schilleriana, ci si può addirittura spingere a sostenere che Schiller è colui che meglio comprende Kant, in particolare il Kant della terza Critica. È questo il caso di Heidegger. Nelle celebri pagine del Nietzsche dedicate alla “dottrina kantiana del bello”, Schiller appare ad Heidegger come l’unico che non fraintende Kant: “Schiller è stato l’unico a capire cose essenziali in riferimento alla dottrina kantiana del bello e dell’arte”.3 A differenza di Schopenhauer e dello stesso Nietzsche, Schiller – secondo Heidegger – capisce il problema affrontato da Kant nell’“Analitica del bello” non fraintendendo il cruciale tema kantiano del disinteresse nel giudizio di gusto e, quindi, nell’atteggiamento estetico. Anche se in proposito Heidegger non cita esplicitamente il nome di Schiller, si può senz’altro ascrivere a quest’ultimo la comprensione del fatto che proprio “in virtù del disinteresse” entra in gioco “un riferimento essenziale all’oggetto”,4 anziché la sua dissoluzione relativistico-soggettivistica. Schiller coglie il senso della riflessione nel piacere: il piacere per il bello come un piacere riflettente che trova nella corrispondenza con l’oggetto la sua misura e la sua speculativa virtù. Osserva Heidegger: L’interpretazione kantiana del comportamento estetico come “piacere della riflessione” penetra in uno stato fondamentale dell’essere uomo, nel quale soltanto l’uomo perviene alla pienezza fondata della sua essenza.5
Ed è appunto quello stato “che Schiller ha concepito come la condizione della possibilità dell’esistenza storica – fondatrice di storia – dell’uomo.” 3 4 5
M. Heidegger, Nietzsche, a cura di F. Volpi, Adelphi, Milano 1995, p. 114. Ivi, p. 117. Ivi, p. 119.
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La misura del sentire
Troppo contratta è l’affermazione heideggeriana per poterla sciogliere in una tesi relativa all’autoconsistenza della filosofia di Schiller. A meno di non svolgere tale affermazione in una direzione hegeliana, l’ipotesi più plausibile potrebbe essere che qui Heidegger adombra il senso dell’arte come messa in opera della verità e dunque come fondazione storica dell’identità dell’umano: storicizzazione della verità stessa. Seguendo questo filo, anche in questo caso – del tutto in sintonia con la risoluzione della dimensione estetica in quella poietica (poetico-artistica) sostenuta nella conferenza heideggeriana del 1935/366 – la peculiarità del pensiero di Schiller nei confronti di Kant consisterebbe nel tradurre la soggettività dell’estetico nello spazio della mediazione storica offerto dall’arte. Ma proprio la prima definizione della bellezza come “Freiheit in der Erscheinung” – enunciata nei Kallias-Briefe – non sopporta una traduzione senza residui dell’estetico dell’artistico. La soluzione cui mira Schiller con il progetto del Kallias, come evinciamo dalle relative e celeberrime lettere all’amico Christian Gottfried Körner, è per certi versi anteriore e per altri ulteriore alla stessa distinzione tra arte e natura, nella stessa misura in cui è sostanzialmente anteriore e ulteriore a questa stessa distinzione la definizione kantiana del bello nel terreno analitico-concettuale del giudizio estetico7 e della sua articolazione quasi categoriale (quasi appunto nel senso di un come se: come se si trattasse di affrontarlo alla luce della deduzione trascendentale). Pensando il bello come “forma di una forma” e dunque come eccedenza rispetto alla pura unità formale dell’oggetto sensibile (al principio di organizzazione della sua materiale molteplicità: forma della sua stessa perfezione, che ne deve per forza contenere il concetto) Schiller tenta una quarta via nella spiegazione del bello. Oltre, dunque, quella sensistico-soggettiva o empiristica (alla Burke) e quella razionale-oggettiva (o metafisico-gnoseologica) alla Baumgarten, ma anche oltre quella soggettivo-razionale propria di Kant. Ma com’è stato notato da più parti (ad esempio da Manfred Frank8), nei Kal6
7 8
Sulla risoluzione heideggeriana dell’estetica in una poietica si veda quanto sostenuto in F. Desideri, La porta della giustizia. Saggi su Walter Benjamin, Pendragon, Bologna 1995, pp. 101-118 (si tratta del capitolo “L’opera d’arte nell’epoca della tecnica. Un confronto tra Benjamin e Heidegger”). Ciò almeno fino al § 43 della Critica della facoltà di giudizio; su questo paragrafo e, in generale, sulla distinzione arte/natura nella terza Critica rimando a F. Desideri, Il passaggio estetico, cit., pp. 129-168. Cfr. per questo M. Frank, Einführung in die frühromantische Ästhetik, Suhrkamp, Frankfurt a.M. 1989, pp. 104-120. Ma il suo progresso [di Schiller rispetto a Kant] – sostiene qui Frank – è più retorico che concettuale. Schiller rimane kantiano.” (ivi, p. 117).
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“Freiheit in der Erscheinung”
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lias-Briefe la soluzione proposta da Schiller non esce affatto dall’orbita teorica della Critica della facoltà di giudizio, in particolare per quanto riguarda la tesi che la bellezza dell’oggetto fuori dalla sua relazione con il soggetto – fuori dall’effetto armonizzante che esso suscita all’interno di una singolare soggettività sensibile-razionale – è nulla. Anzi, quella che nelle intenzioni schilleriane si presenta come una (auto)fondazione in re della bellezza nell’autonoma spontaneità del fenomeno, altro non sarebbe che una fondazione analogica e, dunque, in ultima istanza il “come se” di una fondazione. Come risulta chiaro allo stesso Schiller, il bello è “un analogon della pura determinazione del volere”.9 Il punto di partenza resta, perciò, l’autodeterminazione della volontà ed è in relazione analogica con essa (con la libertà della ragione) che si pensa o meglio si intuisce la libertà come fenomeno, come oggetto sensibile. Qui, come ha giustamente osservato Frank,10analogon ha il senso del simbolo pensato da Kant nel § 59 della Critica della facoltà di giudizio, con la differenza che nella prospettiva di Schiller cade via il “come se” simbolico e, con esso, la sua connessione con il principio soggettivo del giudizio riflettente. Con le difficoltà e anzi con le aporie che necessariamente ne derivano. A meno di non arrestarsi a sostenere che è nella forza del puro apparire (di un “apparire libero da regole”) che si manifesta la libertà nel fenomeno. Con l’aggravante che a tale proposito Schiller si vieta il passaggio, in qualche modo necessario, dalla dimensione sensibile del bello a quella intelligibile, come sede della sua vera consistenza. La “bellezza – afferma – dimora unicamente nel dominio dei fenomeni” e perciò ogni speranza di incontrarla sul sentiero della pura ragione teoretica e della riflessione è destinata a risultare vana. La diretta connessione con la sola ragione pratica toglie qui spazio all’autonomia dell’estetico proprio a motivo della sua trasfigurazione simbolica. Il successivo tentativo di pensare il bello nell’opera d’arte come “libertà nella tecnica”11 non risolve l’aporia. Anzi l’aggrava, in quanto il bello artistico è “rappresentazione (Darstellung) della bellezza” e dunque rappresentazione della “libertà nel fenomeno”, in altri termini simbolo di un simbolo. Anche a questo proposito Schiller ricorre ad un argomento kantiano, quello del chiasmo tra apparenze (quella dell’arte o della tecnica nel caso del bello 9 10 11
F. Schiller, Lettere sull’educazione estetica dell’uomo. Callia o della bellezza, a cura di A. Negri, Armando, Roma 1993, p. 259 (la citazione è tratta ovviamente dai Kallias-Briefe). Cfr. M. Frank, Einführung in die frühromantische Ästhetik, cit., pp.108- 109. F. Schiller, Lettere sull’educazione estetica dell’uomo. Callia o della bellezza, cit., p. 279 (si tratta sempre di una citazione tratta dalla traduzione italiana dei KalliasBriefe).
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naturale e quella della natura nel caso dell’opera d’arte bella), ma dimenticando appunto che qui siamo pur sempre nella sfera dell’apparire e quindi trasformando una logica dell’apparenza in una aporetica logica dell’essenza. Quale si presenta, ad esempio, con la seguente frase: “Il principio della libertà assegnata all’oggetto, quindi, è in esso medesimo, sebbene la libertà sia soltanto nella ragione”.12 Inevitabilmente diverso è il senso dell’implicazione d’esistenza (il senso dell’esserci della libertà) rivolto al bello e quello rivolto alla ragione. Nel primo caso si tratta inevitabilmente di un riflesso simbolico del secondo. Ma pensato in una maniera puramente simbolica e non come spazio della genesi del simbolico l’estetico non ha più alcuna autonomia. La cortocircuitante relazione con il modello paradossalmente noumenico della ragione pratica (con la paradossalità del suo essere un factum: un’idea che implica l’effettività della propria esistenza) non la concede. A quest’impasse teoretica, quasi sicuramente all’origine della mancata realizzazione del progettato dialogo Kallias oder über die Schönheit, risponde il capolavoro filosofico schilleriano: le Lettere sull’educazione estetica. Qui Schiller riprende il problema kantiano dell’immensurabile abisso che divide il dominio teoretico della filosofia trascendentale da quello pratico – il problema della Trennung, verso il quale il pensiero di Kant non si mostra affatto pigramente confitto nella logica duale del Sollen (a differenza di quanto sostenuto da Hegel) – senza dover più considerare Kant un avversario, come invece era avvenuto in Anmut und Würde.13 Secondo quanto osserva Wilhelm von Humboldt, nell’equilibrato e penetrante saggio che dedica alla “evoluzione spirituale” dell’amico, “era insito nel carattere di Schiller non lasciarsi mai trascinare nella sfera di un grande spirito di cui sentisse l’influenza, ma di venirne potentissimamente stimolato nella sfera che egli stesso si era creata”.14 Attraverso Kant e in parte attraverso Fichte, soprattutto per quanto riguarda la nozione di Wechselwirkung, ma in direzione nettamente divergente dalla egologia idealistica di quest’ultimo, Schiller riprende un problema pur oscuramente adombrato nei suoi primissimi scritti di tenore filosofico, vale a dire nella 12 13
14
Ivi, p. 277. Sulla prospettiva nuova aperta da questo saggio, in particolare relativamente alla connessione tra bellezza e amore (come volontaria unificazione di senso e ragione) si veda il sempre importante saggio di Dieter Henrich, Der Begriff der Schönheit in Schillers Ästhetik, in “Zeitschrift für philosophische Forschung”, VI, 1957, pp. 527-547. W. von Humboldt, Scritti di estetica, scelti e tradotti da G. Marcovaldi, Sansoni, Firenze 1934, p. 31.
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Philosophie der Physiologie e nel Versuch über den zusammenhang der thierischer Natur des Menschen mit seiner geistigen. Senza dover seguire in dettaglio questa prima, ma significativa articolazione del pensiero schilleriano, non si può comunque trascurare come il problema al centro di tali scritti è quello di pensare l’unità nell’uomo tra spirito e corpo, tra la sua natura animale (la sua vita sensibile) e la sua natura spirituale (la sua vita spirituale). Come ha osservato Benno von Wiese nella sua classica monografia schilleriana,15 due idee si intrecciano in questi scritti: quella di un parallellismo psicofisico (esemplificato nella metafora delle corde di uno strumento musicale con cui si apre il Versuch: alla vibrazione di quella relativa alla dimensione fisico-sensibile corrisponde una vibrazione in quella spirituale intellettuale) e quella di una originaria Vermischung (mescolanza) nell’effettività della vita soggettiva.16 La corrispondenza, però, non è statica: non è di tipo metafisico. Si tratta piuttosto di una connessione effettualmente efficiente, dove ogni evento, ogni modificazione che si ha su un piano incide sull’altro. Il problema schilleriano, come si evince già a partire da questi scritti datati 1779 e 1780 e dunque precedenti ad ogni confronto con Kant, sarà appunto quello dell’armonizzazione dinamico-costruttiva dei due ordini o dimensioni e dunque di un senso dinamico della totalità dell’umano (secondo l’espressione di Anmut und Würde). Se si mette in relazione non estrinseca questo problema – il problema filosofico di Schiller – con la sua attività di drammaturgo, si comprende bene la tesi di Cassirer, secondo la quale nella posizione del fondamentale Gegensatz tra materia e forma, tra ricettività e spontaneità, mentre Kant procede come un “Analititico trascendentale” e Fichte come un “Etico assoluto”, Schiller procede come un Dramatiker: la stoffa dei suoi scritti 15
16
B. von Wiese, Schiller, Metzler, Stuttgart 1959, p. 100 e ss. Per un’analisi acuta della filosofia dell’organico del primo Schiller in relazione alla curvatura antropologica del suo pensiero complessivo si veda anche il più recente volume di U. Tschierske, Vernunftkritik und ästhetische Subjektivität. Studien zur Anthropologie Friedrich Schillers, Niemeyer, Tubinga 1988, in particolare alle pp. 157-204. “L’uomo – leggiamo nel Versuch – non è anima e corpo, l’uomo è la più intima mescolanza di queste due sostanze”. Ciò esclude nel giovane Schiller ogni dualismo nella comprensione della natura umana. Anzi, proprio nella “mescolanza” tra natura animale e natura spirituale sta la compiutezza, la Vollkommenheit (terminechiave di tutto il Versuch del 1779) dell’uomo. Per i riferimenti testuali si veda in proposito Schillers Werke, Nationalausgabe, a cura di J. Petersen, B. von Wiese, L. Blumenthal, Hermann Böhlaus Nachfolger, Weimar 1959 e ss., XX, p. 64 e 68 (d’ora innanzi abbreviato come NA seguito dall’indicazione del volume: i volumi che raccolgono gli scritti filosofici sono il XX e il XXI).
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filosofici è caratterizzata da una “autentica vita drammatica”.17 Tornando agli scritti sulla filosofia della fisiologia, il tratto più interessante e più gravido di sviluppi sta, da un lato, nell’idea del carattere incrementale della vita sensibile – “così ogni sensazione cresce attraverso se stessa…”18 – e, dall’altro, nella tesi circa l’esistenza di una Mittelkraft, di una forza intermedia che risiede nei nervi e che costitituisce il Band dinamico tra mondo ed anima.19 La dottrina dei tre impulsi (alla differenziazione della materia, all’unità della forma e al gioco come sintesi-armonizzante della loro tendenziale divergenza) trae in questi scritti, dove si tematizza la dinamica energetica di un’autonoma attività della vita sensibile, la sua cellula originaria. La formulazione di tale dottrina, che costituisce senza dubbio una delle più significative novità filosofiche delle Lettere sull’educazione estetica, presuppone certamente quella presentata da Fiche della sua Wissenschaftslehre, ivi compresa la centralità che per essa assume la nozione di Wechselwirkung.20 La mossa teorica di Schiller consiste, però, nel convertire in senso antropologico il carattere deduttivo-trascendentale che la teoria degli impulsi presenta in Fichte. Quelli che in Fichte rimangono moventi del tutto interni alla dinamica dell’autoposizione dell’Io puro e dunque figure della genesi logica dell’autocoscienza, in Schiller si trasformano in impulsi ‘naturali’ antecedenti in qualche modo all’identità egologica della soggettività.21 Come leggiamo nella lettera ottava, “Triebe sind die einzigen bewegenden 17 18 19 20
21
Cfr. E. Cassirer, Idee und Gestalt, Wissenschaftliche Buchgesellschaft, Darmstadt 1971, pp. 102 e 103 (si tratta del reprint, a cura della Yale University Press, della II edizione del volume, apparsa a Berlino nel 1924). NA, XX, p. 72. NA, XX, p. 16; la citazione è tratta dall’importante § 6 della Philosophie der Physiologie. Sulla decisiva nozione di “Wechselwirkung” per l’estetica di Schiller si veda almeno il libro di Hans G. Pott, Die schöne Freiheit. Eine interpretation zu Schillers Schrift “Über die ästhetische Erziehung des Menschen in einer Reihein von Briefen, Fink, München 1980 e quello di Ulrich Tschierske citato alla nota 15. Si veda al riguardo la nota assai pertinente che Giovanna Pinna dedica alla teoria dei Triebe (degli impulsi) al centro delle Lettere sull’educazione estetica nella recentissima nuova edizione italiana da lei stessa curata (cfr. F. Schiller, L’educazione estetica, a cura di G. Pinna, Aesthetica, Palermo 2005, pp. 98-99). In questa nota Pinna, oltre a chiarire il controverso nesso tra la teoria schilleriana degli impulsi e quella fichtiana (e la relativa reazione polemica da parte di Fichte con lo scritto Über Geist und Buchstabe in der Philosophie (Sullo spirito e la lettera in filosofia), mette in luce l’importanza della dottrina degli impulsi di Reinhold per la formulazione di quella di Schiller. Alla distinzione reinholdiana tra “impulso alla materia” e “impulso alla forma” Schiller aggiunge quella “al gioco”.
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Kräfte in der empfindenden Welt”: “gli impulsi sono le uniche forze motrici nel mondo sensibile”. La fattualità della loro opposizione genera il problema dell’unificazione attraverso un rapporto reciproco: un gioco dove le distinte determinazioni possano vicendevolmente scambiarsi. Lo Spieltrieb, l’impulso al gioco, è Gemeinschaft degli altri due impulsi. La sua terzietà unifica in sé sia il valore della diacronia sia quello della sincronia e per questo è strutturale. Venendo pensato da Schiller in evidente analogia con quella che nella dottrina trascendentale kantiana delle categorie costituisce la terza categoria di relazione, lo Spieltrieb in quanto Gemeinschaft, relazione di attiva reciprocità, esprime il commercium dinamico degli altri due impulsi. Proprio in esso, perciò, si gioca geneticamente l’emergenza dall’estetico della libertà, che, per questo, viene appunto intesa come libertà estetica: indeterminazione del soggetto che antecede e rende possibile la stessa libertà moral-razionale. L’impulso razionale ovvero l’impulso all’unità della forma è certamente quello teso a porre l’uomo in libertà,22 ma non si può trascurare a questo proposito che la libertà è destinata a rimanere ineffettuale – letteralmente inesistente – se non si dà quella determinazione reciproca che sintetizza nel tempo il principio formale e formante dell’unità, in quanto unità tra la coscienza e l’esistenza temporale dell’uomo (il suo essere soggetto al tempo). Così sostenendo Schiller muta sensibilmente il suo modo di pensare la “libertà nel fenomeno”. Tale nozione non viene più fondata analogicamente in relazione al carattere di autocostituzione della ragione pratica. Quanto nei Kallias-Briefe aveva una consistenza simbolica, nelle Lettere sull’educazione estetica acquisisce il senso di un’esistenza effettiva che si dà nello spazio del gioco tra i due impulsi fondamentali. Questo spazio si presenta anzitutto come uno spazio estetico prima ancora che puramente artistico. Contiene certamente la dimensione dell’artisticità, ma ad essa non si riduce e per questo corre sul filo tra non intenzionalità ed intenzionalità: tra genesi spontanea e artificio costruttivo, tra natura e storia. Tradurre la dinamica dello spazio estetico, come spazio del gioco (del reciproco aver effetto tra impulso sensibile e impulso razionale), nello spazio radicalmente storico-culturale dell’arte significherebbe limitarsi a leggere la tematica dell’educazione estetica solo in chiave volontaristico-utopica: tensione infinita a realizzare l’ideale di un’umanità e quindi di uno Stato capaci di convertirsi in natura (tutte le letture marxiste di Schiller gravitano intorno a questi concetti). L’operazione teorica compiuta da Schiller è più filosoficamente significativa di una pur acuta diagnosi circa i caratteri propri della modernità. E 22
Si veda per questo tutta la lettera dodicesima de L’educazione estetica, cit.
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tale significatività sta nel cercare di rispondere al problema kantiano dell’abisso, della Trennung tra il dominio teoretico della natura e quello pratico della libertà, in una maniera diversa da quella tentata da Kant nella Critica della facoltà di giudizio, vale a dire attraverso la genesi dinamica della soggettività nella compagine strutturale dello spazio estetico. Se la risposta kantiana al problema della terza Critica era stata quella di intendere la possibilità di un passaggio tra i due domini come un passaggio estetico23 immanente alla virtù riflessiva della stessa percezione (e dunque come un passaggio interno al terreno generico dell’esperienza), quella di Schiller prosegue certamente in tale direzione, ma volgendo in chiave genetica e dinamica il principio della soggettività come condizione trascendentale di questo stesso passaggio. Così l’estetico, da dimensione immanente all’esperienza nella contingenza che rivela la struttura specifica di un giudizio riflettente, alla cui origine vi è come principio di determinazione la soggettività del sentimento (di piacere), si esteriorizza in spazio in cui si genera l’esperienza stessa. Per certi versi il punto di vista schilleriano non abbandona quello trascendentale di Kant, ma certamente ne opera, pur in maniera silenziosa, una radicale riforma in direzione di una sua naturalizzazione. Si potrebbe obiettare, a questo punto, che con la teoria dei tre impulsi Schiller si limita solo a postulare una flessione del trascendentale kantiano in un senso genetico-antropologico. A tale obiezione risponderei che il passaggio da una mera postulazione ad una sorta di deduzione empirico-trascendentale si ha a partire dall’importantissima lettera diciannovesima. Qui Schiller non cede al mito di un’unità originaria che l’esperienza-manifestazione del bello dovrebbe restaurare. Il passaggio, lo Übergang tra il sentire e il pensare, non toglie affatto la Kluft, la fenditura trascendentale tra le due dimensioni. Logicamente (ma non metafisicamente) questa Kluft è infinita. La modalità del passaggio, che curva la contingenza in necessità, è così una modalità performativa, che implica l’emergenza di una soggettività autonoma capace di volere: la volontà è dunque – scrive Schiller – “quella che nei confronti dei due impulsi si comporta come una potenza [in quanto fondamento della realtà – aggiunge quasi schopenhauerianamente!], mentre nessuno dei due può di per sé comportarsi verso l’altro come una potenza”.24 È, perciò, solo nel tertium della capacità di volere che emerge lo spazio estetico come uno spazio autonomamente dinamico, come uno spazio che, proprio in virtù del suo esser svincolato sia dalla necessità fisica sia dall’obbli23 24
Per questa lettura della terza Critica rimando a F. Desideri, Il passaggio estetico, cit., in particolare alle pp. 69-93. F. Schiller, L’educazione estetica, cit., pp. 65-66.
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gazione morale, può configurarsi come uno stato di “attiva e reale determinabilità”, dove la contrapposizione tra sensazione e pensiero (tra sensibilità e ragione) può essere trasformata in dinamica consonanza: in Stimmung indeterminata quanto al senso e, dunque, libera, attivamente libera proprio perché generatrice di senso. Questa trasformazione è possibile enfatizzando il carattere di medietà della Stimmung estetica, ossia liberando e attivando il rapporto tra l’estetico e i suoi confini. Una tale attivazione dei confini dell’estetico suppone, in Schiller, una sorta di naturalizzazione della coscienza perfettamente speculare all’estetizzazione della libertà (ovvero all’operazione che conduce ad una diversa comprensione e giustificazione della “Freiheit in der Erscheinung”). Non solo rispetto a questa formula, ma anche rispetto alla nozione stessa di libertà Schiller, pur muovendo da Kant ed in particolare dal tema della libertà dell’immaginazione nel giudizio estetico, abbandona veramente Kant definendo, nella lettera ventesima, la libertà stessa “un effetto della natura (intendendo il termine nel suo senso più ampio)”.25 Assai interessante è il modo attraverso cui, nella lettera diciannovesima, si giunge a questa conclusione e cioè nella presupposizione di una doppia necessità in qualche modo naturale. Una di tipo esterno (al di fuori di noi), che riguarda la sensazione come ciò che determina la nostra esistenza nel tempo. Ed una di tipo interno (in noi), che riguarda il sorgere (naturale) dell’autocoscienza, del Selbstbewußtsein, in oppositiva risposta al presentarsi della sensazione: Sorgono così la sensazione e l’autocoscienza, senza che il soggetto cooperi in alcun modo e l’origine di entrambe sta al di là tanto della nostra volontà, quanto della nostra sfera conoscitiva.26
Alla kantiana datità della sensazione Schiller aggiunge la genesi non intenzionale della coscienza (dell’identità del soggetto come personalità): la sua naturale spontaneità. Nel rapporto che si genera tra queste due necessità – tra il limite della sensazione (inaccessibile al metafisico) e l’infinità (l’indeterminatezza) della coscienza (inaccessibile al fisico) – e, dunque, nella “lebende Gestalt” di una coscienza estetica (qui Schiller raccoglie e dilata teoreticamente lo spunto kantiano contenuto nel decisivo § 9 della Kritik der Urteilskraft)27 sorge così la libertà come indeterminatezza/incondizionatezza 25 26 27
Ivi, p. 67. Ivi, p. 66. Su questo paragrafo della terza Critica e sulla possibilità di pensare a partire da esso una “coscienza estetica” vedi F. Desideri, Il passaggio estetico, cit., pp. 95-128.
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La misura del sentire
del soggetto. Sorge come “ästhetische Freiheit”in virtù di una Stimmung intermedia, dove risuonano attivamente insieme libertà e ragione, affrancate per così dire sia dalla necessità da cui derivano sia, di conseguenza, dalla determinazioni che le definiscono. Così si costituisce lo spazio estetico: quasi come un riverbero della vita della sensazione da cui tutto comincia e, dunque, come una virtù riflessiva del percepire stesso: del respiro dell’aisthesis (nel quale vi è senz’altro memoria della forza mediana e attivamente mediante dei nervi di cui aveva parlato il giovane Schiller). Ci si potrebbe chiedere a questo punto che ne è del bello. La risposta la suggerisce Schiller nella nota della lettera ventesima tesa a chiarire il termine “estetico”. Se a parte subjecti esso si è precisato come la mittlere Stimmung che segna indeterminatamente il passaggio dal sentire al pensare, a parte objecti esso indica una qualità che si rapporta con “la totalità delle nostre diverse forze, senza essere un oggetto determinato per una sola di esse [corsivo nostro]”.28 Una qualità, quindi, che si distingue sia dalla qualità fisica dell’oggetto (in rapporto con il nostro “stato sensibile”), sia dalla sua qualità logica (in rapporto con il nostro intelletto), sia da quella morale (in rapporto con la nostra volontà di soggetti razionali): se ne distingue, in qualche modo includendole tutte, seppur in maniera necessariamente indeterminata. È proprio in virtù di ciò che nell’estetico si esprime tanto l’indeterminatezza del soggetto (l’uomo al grado zero di determinazioni)29 quanto l’indeterminatezza dell’oggetto; e, nello stesso tempo, vi si esprime sia la singolarità temporale della coscienza estetica, in quanto vive nella sensazione, sia la singolarità dell’oggetto stesso, in quanto è ciò che ora mi appare. Mi appare per così dire in statu affinitatis ovvero in quella che potremmo sinteticamente definire una relazione paradossale. Una relazione dove l’indeterminatezza dell’oggetto, il carattere necessariamente vago della sua bellezza, significa anche un eccesso di senso. Ed è appunto nel gioco riflessivo tra questa eccedenza di senso e l’indeterminatezza del soggetto che si forma l’ideale: nel medium, appunto, di un’apparenza estetica.
28 29
F. Schiller, L’educazione estetica, cit., p. 102 (nota). Secondo quanto leggiamo nella lettera ventunesima, “nello stato estetico, dunque, l’uomo è uno zero, fintanto che si bada a un singolo risultato e non all’intera capacità” (ivi, p. 69).
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III
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LAOCOONTE CLASSICO E ROMANTICO: GOETHE E NOVALIS
Tra i molti nodi estetico-filosofici che nella Goethezeit s’intrecciano nel nome di Laocoonte (nell’autonoma vitalità di un’immagine capace di trascendere lo stesso gruppo scultoreo dal quale ogni discussione si diparte) quello relativo al coappartenersi e, insieme, all’intimo differire di classico e romantico è uno dei meno indagati. L’ipotesi-guida del nostro saggio è che i fili di questo nodo si stringono in una maniera sottilmente mirabile nel confronto che Novalis – nell’appunto n. 745 dell’Allgemeines Brouillon – instaura (potremmo dire ‘a caldo’) con il saggio Sul Laocoonte pubblicato da Goethe sul primo fascicolo dei “Propyläen” nel 1798. Come vedremo, il senso di questo confronto delinea un profilo del rapporto tra arte classica e arte cristiano-romantica radicalmente diverso da quello che Hegel disegnerà nell’Estetica, muovendo proprio da una riflessione sullo stesso tema. Il movimento del nostro discorso procederà a ritroso: da alcune pagine dell’Estetica hegeliana al nodo classico-romantico in Goethe e Novalis. Ma prima ancora che partire da Hegel, merita forse soffermarsi brevemente su un altro nome, del tutto decisivo per le considerazioni che tenteremo: quello di Aby Warburg. Il riferimento a Warburg qui non ha solo il senso di un doveroso omaggio. Anzi, è del tutto interno al nostro problema. Vediamo perché. Verso la fine del suo famoso saggio del 1905 su Dürer e l’antichità italiana Warburg inserisce Dürer tra gli “avversari di quella ‘mimica barocca’ nei confronti della quale l’arte italiana si sentiva fortemente attratta fin dalla metà del Quattrocento”.1 Di questo sentimento di attrazione la scoperta del Laocoonte nel 1506 fu più una conferma che l’occasione o, 1
A. Warburg, Dürer e l’antichità italiana, in Id., La rinascita del paganesimo antico, a cura di G. Bing, tr. it. di E. Cantimori, La Nuova Italia, Firenze, 1966, p. 199. Per il tema dell’immagine in Warburg, con particolare riferimento alla polarità goethiano vedi A. Pinotti, Memorie del neutro. Morfologia dell’immagine in Aby Warburg, Mimesis, Milano 2001; riguardo al problema del Laocoonte si vedano in particolare le pp. 119-130.
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addirittura, la causa del suo accendersi. Tale scoperta fu, per Warburg, “solo il sintomo esterno di un processo storico-stilistico che trova in se stesso la propria logica”2 (allo zenit e non all’inizio della degenerazione barocca). Nel Laocoonte si trovò quanto “da tempo si era cercato”: “la forma stilizzata in sublime tragicità per i valori limite dell’espressione mimica e fisionomica”.3 Proprio per questo motivo, l’opera fu subito accolta con grata ammirazione e salutata – con le parole di Michelangelo – come “un portento d’arte”. Alla luce di queste parole, acquisisce una forza diversa l’immediata sicurezza con la quale Giuliano da Sangallo – come riferisce il figlio Francesco sessanta anni dopo l’evento – riconobbe nel gruppo scultoreo rinvenuto nella vigna presso S. Maria Maggiore il Laocoonte di cui parla Plinio: “opus omnibus et picturae et statuariae artis praeferendum”.4 La cesura che l’irrompere di questa opera segnò nell’arte del Rinascimento – quel “soffio del Laocoonte”, come lo chiama Bernard Andreae nel suo notevolissimo studio,5 che traccia uno spartiacque nell’opera stessa di Michelangelo – era, insomma, non solo stata preparata, ma attesa. Sul Laocoonte Warburg torna nel 1914 in una conferenza dedicata a L’ingresso dello stile ideale anticheggiante nella pittura del primo Rinascimento. Qui precisa il senso di quel “barocco” mimico-espressivo di cui aveva parlato nove anni addietro a proposito dell’arte del Mantegna e del Pollaiolo (Andrea) e rafforza il senso della sua precedente affermazione: “il gruppo dei dolori di Laocoonte, il Rinascimento, se non l’avesse scoperto, avrebbe dovuto inventarlo, proprio per la sua sconvolgente eloquenza patetica”.6 Ciò, agli occhi di Warburg, derivava dal fatto che l’intuizione rinascimentale dell’antico si oppone diametralmente a quella neo-classica di Winckelmann. Nel Laocoonte come Pathosformel il Rinascimento riconosce la biunità tra pathos e forma: una bi-unità costitutivamente inquieta, necessariamente oscillante. In tale oscillazione, che ha il carattere di una vitale pulsazione che trascende ogni acquietamento formale, l’irrequietezza si manifesta come una qualità essenziale dell’arte classica e della civiltà antica. Tale irrequietezza trova il suo simbolo più pertinentemente espressivo solo in un “erma bifronte di Apollo e Dioniso”: “l’ethos apollineo – osser2 3 4 5 6
Ibid. Ibid. Sul senso dell’espressione di Plinio si veda B. Andreae, Laocoonte e la fondazione di Roma, tr. it. di M. Tosti Croce, Il saggiatore, Milano 1989, pp. 31 e ss. Cfr. ivi, p. 38. A. Warburg, L’ingresso dello stile ideale anticheggiante nella pittura del primo Rinascimento in Id., La rinascita del paganesimo antico, cit., p. 307.
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Laocoonte classico e romantico: Goethe e Novalis
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va ancora Warburg – germoglia insieme con il pathos dionisiaco quasi come un duplice ramo da un medesimo tronco radicato nelle misteriose profondità della terra madre”.7 Un duplice ramo: apollineo e dionisiaco in uno, in virtù della comune insorgenza da un’oscura radice che condivide, forse, la costitutiva duplicità del ramo. Commisurata al problema che la vitalità di tale radice pone ad ogni considerazione dell’arte classica – ed in particolare al Laocoonte come estremo complesso simbolico della sua originaria ed irriducibile unidualità – la celebre lettura di Winckelmann appare a Warburg unilaterale; ed il sommo artificio del neo-classicismo, come progetto culturale-politico teso a rinnovare la radice greca dello spirito europeo, proprio da tale unilateralità sembra informato.8 L’“infine”, la parola chiave che nei Pensieri sull’imitazione9 apre alla celebre formula della “nobile semplicità” e della “quieta grandezza” quale contrassegno dei capolavori dell’arte greca, riguarda, come sappiamo, esplicitamente il Laocoonte scultoreo (nel suo volto si epitoma l’anima dell’arte classica), ma non può riguardare il Laocoonte poetico del II libro dell’Eneide. In una direzione simmetricamente opposta a quella di Lessing Winckelmann, separando il tema della violenza del dolore e della superiore misura dell’anima da quello tragico-sacrificale senz’altro presente in Virgilio, non può che spezzare il complesso simbolico laocoontico. Quel complesso che proprio la lettura di Novalis tenderà a cogliere nella sua originaria unità. Ma prima di approdare a Novalis ed al suo virtuale dialogo con il Laocoonte goethiano è opportuno passare attraverso lo Hegel dell’Estetica. Alle polemiche intorno al Laocoonte, che avevano agitato la cultura tedesca quaranta-cinquant’anni prima, Hegel rivolge lo sguardo di un sovrano distacco. A quell’epoca (l’epoca di Lessing) “era considerato importante – nota Hegel – stabilire se Virgilio avesse descritto questa scena seguendo l’opera di scultura o se viceversa l’artista avesse compiuto la sua opera secondo la descrizione virgiliana; inoltre se Laocoonte gridasse e se 7 8 9
Ibid. Sul neoclassicismo come progetto politico-culturale si veda R. Assunto, L’antichità come futuro, con un saggio introduttivo di F. Desideri, Medusa, Milano 2001 (prima edizione: Milano 1973). J. J. Winckelmann, Pensieri sull’imitazione, a cura di M. Cometa, Aesthetica, Palermo, 2001, p. 37. Sul significato dell’infine (endlich) che precede la celebre formula winckelmanniana si veda R. Brandt, “ … ist endlich eine edle Einfalt, und eine stille Größe” in Th. W. Gaehtgens (a cura di), Johann Joachim Winckelmann 1717- 1768, Hamburg, Meiner 1896, pp. 41-53.
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in generale si addicesse alla scultura esprimere un grido”.10 Ancora, osserva, “non circolavano le idee di Winckelmann né c’era un autentico senso artistico”. Le due cose per Hegel vanno insieme: per lo sviluppo di un autentico senso artistico il contributo winckelmanniano risulta decisivo. La nota sottilmente polemica dello sguardo retrospettivo hegeliano, venata da un accento d’indulgente commiserazione, appare, così, tutta rivolta nei confronti di Lessing e di quelle figure di contorno che alimentarono il dibattito intorno al Laocoonte. La lettura che Hegel offre del gruppo scultoreo è, dunque, sotto il segno di Winckelmann; malgrado l’immane forza del dolore che si esprime nella “contrazione spasmodica del corpo” qui viene tuttavia conservata “la nobiltà della bellezza senza che minimamente si giunga alla deformazione, alla smorfia ed alla distorsione”.11 Sinteticamente, si potrebbe affermare che per Hegel, anche in questo caso estremo, il pathos non inquieta la forma: la sua radice violentemente naturale è ancora governata dal logos dello stile. La differenza che separa Hegel da Winckelmann sta nel fatto che nel Laocoonte, in quanto compimento dell’arte classica e segnatamente della sua espressione massima, la scultura, Hegel vede anche l’inizio di una fine che non concede alcun futuro all’antichità (per parafrasare il titolo dell’importante libro di Assunto). Con il Laocoonte, per Hegel, si è già fatto “il passo dall’innocenza alla maniera”.12 Come a dire che le future variazioni del paradigma artistico, che in quest’opera si compie, potranno essere solo variazioni sempre più deboli e non rinascimenti o, addirittura, resurrezioni. Lo spirito di questa considerazione è all’origine della ripresa del problema del Laocoonte all’interno della sezione sulla pittura. Se il senso della celebre opera scultorea può essere unificato nel tema dell’exemplum doloris13, proprio a questo proposito arte classica e arte cristiano-romantica palesano le loro costitutive differenze, che riguardano appunto diversi momenti del processo dello spirito verso la conciliazione con sé. In figure come quella del Laocoonte “la padronanza di sé resta vuota e il do10
11 12 13
G. W. F. Hegel, Estetica, a cura di N. Merker, Introduzione di S. Givone, 2 voll., Einaudi, Torino 1997, II, p. 859. Sull’estetica di Hegel si veda almeno lo studio di F. Vitale, Natura morta. Arte e natura nell’estetica di Hegel, La città del sole, Napoli 2002. Ibid. Ibid. Sul Laocoonte come exemplum doloris e sulle trasformazioni tipologiche di questa Pathosformel cfr. L. D. Ettlinger, Exemplum doloris. Reflections on the Laocoön Group, in M. Meiss (a cura di), Essays in Honor of Erwin Panofsky, New York University Press, New York 1961, I, pp. 121-126.
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Laocoonte classico e romantico: Goethe e Novalis
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lore e la sofferenza sono, in un certo senso, il punto estremo”.14 La parola ultima – in questo caso – non è quella della conciliazione; il dolore incombe con la durezza ormai estranea del destino: lo si può solo sopportare eroicamente, al prezzo di separarsi tragicamente dal divino per fare secessione nel vuoto individuo di sé. Ma appunto per il motivo che tale separazione è tragica e, dunque, sempre definita dal termine da cui si separa e che lo sovrasta come potenza, la conciliazione cede il posto ad una “fredda rassegnazione, in cui l’individuo pur senza in sé infrangersi, rinuncia a ciò su cui era basato”.15 La sofferenza di Laocoonte, la sua stessa morte – come aveva già visto Goethe nel saggio del 1798 – è nudamente umana, non è più quella di un sacerdote. L’eco di questa morte, il grido trattenuto in un “murmure” – come ebbe a scrivere Jacopo Sadoleto16 – rivela a sua volta il volto degli dèi dell’ideale classico: quel certo “tratto di tristezza”, quel “negativo gravido di destino” che esprime “il comparire della fredda necessità in queste figure altrimenti serene”17, in figure che pur permangono saldamente nella loro autonoma “libertà divinità, certe “della loro grandezza e potenza semplice”.18 La loro libertà, la libertà degli dèi classici – osserva Hegel – non è, però, quella dell’amore. L’exemplum doloris della pittura cristiano-romantica è offerto protologicamente dalla figura di Cristo. Il divino, qui, non appare più in fredda contrapposizione, ma come vivo soggetto spirituale che entra nella comunità che istituisce con il suo sacrificio. Nel culmine sacrificale del dolore, il soggetto cristologico rinuncia a sé, si svuota, ma non per preservarsi, bensì per accogliere. Di contro alla freddezza che ci restituiscono le sculture classiche, persino – in ultima istanza – quella del Laocoonte (proprio per il carattere non sacrificale del suo soffrire o per il divenire sacrificale della sua morte solo in un senso estraneamente oggettivo), il sacrificio dell’amore cristiano, che “vive e sente solo nel dono di sé”, appare commovente. L’ultima parola soggettiva attraverso 14 15 16
17 18
G. W. F. Hegel, Estetica, cit., II, p. 912. Ibid. “Ferre nequit rabiem, et de vulnere murmur anhelum est” in Jacopo Sadoleto, De Laocoontis Statua, in Deliciae Poetarum Italorum, Frankfurt a.M., 1609, vol. II, p. 582 e ss. Il poema dedicato dal Sadoleto (1477-1547) al ritrovamento del gruppo scultoreo è citato per intero nel Laocoonte di Lessing. Per Lessing il poema è degno di un poeta antico; ciò non faceva altro che rafforzare la tesi che Virgilio non aveva imitato alcuna scultura (se avesse avuto il gruppo a modello, “difficilmente avrebbe resistito alla tentazione di far quasi soltanto indovinare il groviglio di tutti e tre i corpi in un solo nodo”). Cfr. in merito G. E. Lessing, Laocoonte, tr. it. di M. Carpitella, Edizioni Paoline, Milano 1961, pp. 93-96. G. W. F. Hegel, Estetica, cit., II, p. 911. Ibid.
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La misura del sentire
il negativo: nell’unità con la negazione di sé, può così divenire quella della beatitudine, anzi quella del trapasso della commozione in beatitudine immeritata, quella della grazia di sentirsi “malgrado tutto autonomo ed in unità con sé”. Se classico e romantico – proprio nell’exemplum doloris che divide Laocoonte da Cristo – appaiono agli occhi di Hegel in una dialettica segnata temporalmente, la cui unità problematica può essere salvata soltanto nella ritmica del concetto (dove l’arte per noi è ormai divenuta “qualcosa di passato”), diverso è il discorso che si può sviluppare nel confronto tra Goethe e Novalis. Il punto di partenza del saggio goethiano è la comunità essenziale che lega arte e natura: “un’autentica opera d’arte, al pari di un’opera della natura, rimane sempre infinita per il nostro intelletto”.19 Secondo quanto scrive Goethe nella lettera al duca Carl August del gennaio 1788, solo chi ha abituato il suo sguardo agli abissi della natura può osare rivolgere la sua contemplazione all’abisso dell’arte.20 Ma nessuna conoscenza, nessun concetto può esaurire un’opera autentica: la sua organica e superiore vitalità è come il mostrarsi della cosa in sé kantiana. E mostrandosi, l’opera induce ad evocare tutta l’arte, appunto perché la lascia intuire nella sua unità essenziale. Se l’opera d’arte si mostra tale – osserva Goethe – lo può fare solo in virtù della grazia che si raggiunge cancellando ogni parvenza di naturale casualità o di mero arbitrio: nel sommo artificio dell’ordine, nella simmetria della proporzionata disposizione tra le parti fino a lasciar trasparire la legge che l’organizza vitalmente. Una grande opera d’arte è dunque tale, solo se si mostra perfettamente “autonoma”, “conchiusa”:21 capace di legare nei limiti della sua apparenza l’infinito dell’idea. Appunto queste caratteristiche Goethe cerca e coglie nel Laocoonte. Qui la rappresentazione è spinta ai suoi vertici più alti, proprio in quanto “spoglia l’uomo di tutto ciò che non gli è essenziale”.22 Laocoonte è ormai soltanto un nome che ha risucchiato ogni altra identità e tradizione poetico-mitologica: “Un padre dorme accanto ai suoi due figli, vengono avvolti dalle spire dei serpenti e ora, svegliandosi, tentano di strapparsi da questa rete vivente”.23 Per
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J. W. Goethe, Laocoonte, in Id., ‘Laocoonte’ e altri scritti sull’arte (1789- 1805), a cura di R. Venuti, Salerno editrice, Roma 1994, p. 67. Cfr. per questo l’Introduzione di Roberto Venuti a J. W. Goethe, ‘Laocoonte’ e altri scritti sull’arte (1789- 1805), cit., p. 10. Cfr. J. W. Goethe, ‘Laocoonte’ e altri scritti sull’arte (1789- 1805), cit., p. 71. Ivi, p. 72. Ibid.
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Laocoonte classico e romantico: Goethe e Novalis
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questa scena Goethe trova un espressione paradossale: “un idillio tragico”.24 Ma il paradosso in tal caso è, forse, solo apparente: la tragicità qui svela l’idillio (e non viceversa). La tragedia, insomma, è solo tragedia della natura e nella natura. Seppur Goethe non disconosca che nella somma pateticità del padre agiscono sia l’uomo spirituale sia l’uomo fisico,25 riconduce la causa di “tutto il movimento” alla “sensazione momentanea prodotta dalla ferita”:26 “l’artista ci ha rappresentato un effetto sensibile, ma ne ha mostrato anche la causa sensibile”.27 Non bisogna, perciò, trasferire troppo rapidamente all’autonoma espressività fisica dell’opera stessa “l’effetto che essa produce su di noi”.28 La nuda sofferenza del padre, “che suscita il terrore al grado più alto”,29 si fa qui simbolo del dolore del trapasso da una condizione sensibile all’altra: da uno stato all’altro della vita naturale. L’energia simbolica dell’opera sta appunto nel sospendere questo trapasso, nel fissarlo nell’unità tragica dell’attimo, dove si danno in uno tensione e patimento. Quello che ci si presenta è, così, “un fulmine immobilizzato, un’onda pietrificata nell’istante in cui si infrange sulla riva”.30 Potremmo anche dire, più in generale, che nella rappresentazione dell’attimo (nella Darstellung des Moments) si concentra, per Goethe, la pregnanza simbolica dell’arte figurativa. Ma questa verità la si intuisce in misura perfetta proprio nella contemplazione del Laocoonte. “Nonostante il grande movimento, sull’insieme si diffonde una certa calma ed unità”:31 la Pathosformel del Laocoonte si fonde plasticamente nella conchiusa autonomia dell’opera fin quasi ad apparire come un Urphänomen dell’arte tutta. Attraverso la tragedia della sensibilità si intuisce, qui, l’unità ritmica della natura: la sua originaria polarità. E appunto di tale polare unità l’opera d’arte si fa simbolo. Negli appunti che dedica a questo saggio Novalis lavora dall’interno le tesi goethiane, fino al punto di rovesciarle letteralmente. Ed il rovesciamento non va qui inteso come astratta e frontale negazione, bensì come la capacità di lasciar balenare il volto nascosto dell’opera e, con esso, l’altro
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Ibid. “Lungi da me il proposito di spezzare l’unità della natura umana, di negare la partecipazione delle forze spirituali di quest’uomo superbamente modellato, di disconoscere la tensione e la sofferenza di una grande natura” (Ivi, p. 75). Ivi, p. 74. Ivi, p. 75. Ibid. Ivi, p. 79. Ivi, p. 73. Ivi, p. 76.
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La misura del sentire
lato dell’arte classica (quello inquietamente umbratile, perfettamente inteso da Warburg). “Laocoonte: voluttà di questo gruppo”32 – così Novalis avvia le sue osservazioni. Ma la voluttà, il colmo dell’ebbrezza – quello che Friedrich Schlegel chiama nelle Ideen il sacrificio ovvero “l’annientamento” del finito perché finito – è per Novalis il carattere autentico della religione cristiana.33 Così come i ditirambi possono venire considerati un genuino prodotto cristiano,34 nella stessa misura Cristo e Dioniso si confondono nella religio che attende un Messia “al plurale”.35 Novalis può insomma sostenere la sua tesi a proposito del Laocoonte in virtù del fatto che legge l’opera presupponendo la trascendenza dell’immagine che rivela: il complesso simbolico laocoontico come Pathosformel che attraversa una serie virtualmente infinita di opere. Solo alla luce della potenza di questo complesso simbolico, infatti, può essere immaginato nel dramma di Laocoonte un momento più comprensivo, un attimo di grado superiore, intimamente potenziato fino all’infinito: forse quell’attimo, scrive Novalis, “in cui il dolore supremo trapassa in ebbrezza – la resistenza in resa – la vita suprema in pietra”.36 La “resa” qui, però, supera quella stoica autoconsistenza nel vuoto di sé che puramente sopporta il dolore, colta da Hegel nella figura di Laocoonte. La resa si fa uno con il dolore e proprio in ciò sta l’enigmatica voluttà che anima la pietrificazione dell’immagine laocoontica. A questo punto estremo, la simbolicità dell’opera dischiude l’enigma della cosa stessa, quella che potrebbe esser chiamata la beatitudine della pietra. “Saper afferrare” e “rappresentare” il momento della pietrificazione è appunto l’unico compito dello scultore. Ma ciò implica necessariamente una differenza tra questo momento e la volontà di forma dell’artista. È appunto in tale differenza che pulsa l’autonoma vita dell’immagine. La dialettica immaginale innescata dalle considerazioni novalisiane, così, rompe dall’interno la chiusa autonomia dell’opera, mostrandola imperfetta, costitutivamente e necessariamente incompiuta. Anche tra il momento della pietrificazione e l’opera stessa vi è uno scarto differenziale. Il Laocoonte, perciò, non appare più quale culmine-compimento dell’arte classica: quale opera d’arte in 32 33 34 35 36
Novalis, Opera filosofica, 2 voll., a cura di F. Desideri e G. Moretti, Einaudi, Torino, 1993, v. II (a cura di F. Desideri), p. 443 (Allgemeines Brouillon, n. 475). Ivi, p. 742 (Frammenti e studi 1799- 1800, n. 573). Ibid. Ivi, p. 577 (Glosse alle “Idee” di F. Schlegel). Per il messianismo romantico rimando a F. Desideri, Il velo di Iside. Coscienza, natura e messianismo nella filosofia romantica, Edizioni Pendragon, Bologna 1997. Ivi, p. 444 (Allgemeines Brouillon, n. 475).
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Laocoonte classico e romantico: Goethe e Novalis
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senso conchiusamene autonomo, ma piuttosto come membro di una serie: come studio; e, quindi, come opera d’arte scientifica, come un experimentum, un tentativo nel quale si saggia la natura (qualora, certo, si possieda in sé un “oscuro sentimento” di essa).37 In virtù di questo spostamento semantico nella lettura del senso dell’opera, non soltanto diviene necessario includere, nella sua considerazione, la rappresentazione religiosa del Laocoonte espressa in Virgilio e, quindi, la dimensione sacrificale del suo dramma (appunto l’aspetto che Goethe, sulla scia di Schiller, aveva escluso dalla sua interpretazione), ma si rafforza filosoficamente anche quanto sostenuto da Andreae nel suo libro. E cioè, anzitutto, che il Laocoonte scoperto nel 1506 è forse la copia in marmo, databile nella prima età imperiale romana, di un gruppo bronzeo ellenistico della metà del II secolo a. C.; quindi, che tale opera, prima ancora di poter essere intesa quale exemplum doloris e come “l’opera d’arte esemplare dell’antichità”, è interpretabile come segno e sacrificio: come semeion della distruzione di Troia, in quanto monumento commemorativo teso a scongiurare agli occhi di Romani e Greci che Pergamo potesse conoscere la stessa sorte di Troia; e come sacrificium, allorché il consilium ai tempi di Tiberio interpretò il gruppo come rappresentazione del sacrificio fondatore della città di Roma.38 Se accogliamo questa tesi e la triplice scansione del complesso simbolico laocoontico in semeion, sacrificium ed exemplum (con la pluralità di variazioni artistiche e poetiche che essa include), dove sta allora la sua unità estetica, se non nell’immagine stessa? Forse, portando alle estreme conseguenze le riflessioni novalisiane, è proprio questa dimensione, in quanto origine improducibile di ogni modello artistico, che appare come il veramente irraggiungibile da ogni operari artistico. Nei confronti dell’improducibile trascendenza dell’immagine, ogni opera si rivela essere, pertanto, un experimentum e, dunque, il membro di una serie di opere in tensione approssimativa con il loro punto d’origine patico-immaginale. Un punto d’origine, trascendente ogni fissazione prototipica, che si può proiettare tanto al passato quanto al futuro. L’intuizione novalisiana dell’origine riguarda, appunto, sia la complementare polarità tra queste due prospettive (ai cui estremi stanno Età dell’oro e Regno messianico del fare poetico-artistico) sia il loro essere attraversate da una tensione temporalmente infinita. Come vettori di questa tensione si dispongono, appunto, le singole opere d’arte. 37 38
Cfr. Ivi, p. 282 (Allgemeines Brouillon, n. 89). Cfr. al riguardo B. Andreae, Laocoonte e la fondazione di Roma, cit., in particolare pp. 178-180.
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La misura del sentire
In quanto esperimenti costitutivamente e tensivamente inconclusi, esse formano una serie. L’idea-immagine che ne è all’origine è per esse irraggiungibile. Per questo l’origine si trasforma in ideale ed appare come il futuro stesso verso cui tendono. All’inesauribilità dell’opera d’arte per l’intelletto, sostenuta da Goethe, Novalis oppone l’idea d’irraggiungibilità dell’opera d’arte somma in quanto ideale: “imperativo estetico”39 che dilata la sua intuizione in una infinita approssimazione riflessiva. Restringere la valenza di tale imperativo al solo momento della ricezione dell’opera significherebbe, però, non cogliere tutte le implicazioni della tesi novalisiana. L’approximando riguarda, così, la stessa autoconsistenza dell’opera rispetto alla propria idea-immagine originante, che perciò può anche essere intesa come l’ideale cui l’opera tende ad approssimarsi infinitamente. Così l’irraggiungibile, ciò di cui, “secondo il suo carattere, non si può pensare alcun raggiungimento”, diviene – come osserva conclusivamente Novalis – “per così dire solo l’espressione ideale della somma dell’intera serie”.40 Di conseguenza il Laocoonte che tutti conosciamo finisce per costituire solo apparentemente l’ultimo membro della serie, quello che la compie. Anziché realizzare il paradigma ideale-immaginale, esso semplicemente lo indica: è indice, traccia di un prototipo irrealizzabile; fino ad indicare nel trapasso della vita suprema in pietra il polo di una voluttà meta-artistica: al di là del circolo apparente tra bellezza e piacere. Solo così, potremmo concludere, e cioè con questa interna correzione romantica all’idea goethiana di una conchiusa autonomia dell’opera d’arte somma, l’inquietudine che percorre l’arte classica può dispiegare il suo senso. La bi-unità tra apollineo e dionisiaco, come aveva intuito Warburg, fa finalmente segno verso l’oscura radice da cui emerge. Tale radice riguarda, forse, il principio stesso del piacere come una tragedia della sensibilità che non concede più alcun idillio. La sua ultima, paradossale parola è la perfetta mutezza della pietra. Di essa, nella vita dell’opera, non resta che l’ombra.
39 40
Novalis, Opera filosofica, cit., v. II, p. 444 (Allgemeines Brouillon, n. 475). Ibid.
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GUERRA E PACE: “VOLUTTÀ DELLA SINTESI” E “MALINCONIA BACCHICA” IN NOVALIS
La questione della guerra può essere una buona occasione per capire come la filosofia romantica, e in particolare quella di Novalis, riformuli e ripensi nessi problematici all’origine del discorso filosofico, in primis quello relativo al rapporto polemico tra verità e contraddizione. Appunto in questa chiave possono essere considerate le brevi, ma significative osservazioni novalisiane a proposito della guerra. Nell’Opera filosofica1 la considerazione della guerra oscilla tra spunti di una riflessione specifica sul suo carattere fattuale e una metaforizzazione del suo lessico concettuale all’interno di una “dottrina della natura”. Nel primo caso si tratta di brevi accenni sparsi relativi all’arte bellica, probabilmente sollecitati dalla lettura di manuali dell’epoca, come ad esempio le Betrachtungen über die Kriegskunst, über ihre Fortschritte, ihre Widersprüche, und ihre Zuverläßigkeit di Georg Heinrich von Berenhorst.2A testimoniare come già dall’interno di questo contesto Novalis sia propenso ad un’estensione metaforica della nozione di arte bellica (come arte sintetica che comprende un insieme di tecniche e di scienze particolari) vi è l’appunto n. 944 dell’Allgemeines Brouillon, dove si parla di un’ “arte mistica della guerra” e quindi di guerra matematica, poetica, scientifica, simulata e retorica (cfr. N, II, 486). Constatare tale propensione non legitti1 2
Novalis, Opera filosofica, 2 voll., a cura di F. Desideri (II volume) e G. Moretti (I volume), Einaudi, Torino 1993; nel corpo del testo si rinvia a questa edizione con la seguente sigla N, I o II, + indicazione di pagina. G. H. Berenhorst, Betrachtungen über die Kriegskunst, über ihre Fortschritte, ihre Widersprüche, und ihre Zuverläßigkeit. Auch für Layen verständlich, wenn sie nur Geschichte wissen, Erste Abtheilung, Leipzig 1797; Zweite Abtheilung, Leipzig 1798. Su Georg Heinrich von Berenhorst (1733-1814), critico acuto della separazione tra esercito e popolo in quanto incapace di formare degli autentici difensori dello Stato necessari alla guerra moderna, si veda la monografia di Dietrich Allert, Georg Heinrich von Berenhorst. Bastard des Alten Dessauers (Sachsen-Anhalt. Beiträge zur Landesgeschichte, 7), Halle an der Saale, Mitteldeutscher Verlag 1996.
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La misura del sentire
ma, però, a risolvere la metaforizzazione novalisiana della guerra in una questione puramente retorico-letteraria. Come vedremo, il dispositivo metaforico non agisce in questo caso (e forse non solo in questo) in una direzione, ossia dal contesto storico-politico della guerra a quello della natura, ma anche nella direzione inversa. In questa reciprocità d’effetti, non si rivela soltanto un’essenziale affinità tra l’ambito dei fenomeni fisico-naturali e quello dei fenomeni storico-spirituali. Tale affinità invita, infatti, anche ad individuare la posizione novalisiana del problema filosofico della guerra nell’orizzonte del passaggio carico di tensioni, in quanto sempre incompiuto, tra idealismo e realismo. Perché la tensione sia risolta, il rapporto tra i due punti di vista, tra il carattere interiore dell’idea e quello esteriore della realtà, deve mostrarsi in perfetta reciprocità. Nella compiutezza del passaggio reciproco tra idealismo e realismo può essere pensata la figura della verità: L’idealizzazione del realismo – e la realizzazione dell’ idealismo conducono alla verità. L’uno lavora per l’altro – e così indirettamente per se stesso. L’idealista, per lavorare direttamente per l’ idealismo, deve cercare di dimostrare il realismo – e viceversa. – La dimostrazione del realismo è l’ idealismo – e viceversa. Se vuol dimostrare direttamente l’ idealismo, giunge allo 0. – i.e. si muove sempre in un circolo – o meglio, rimane sempre allo stesso punto – Ogni dimostrazione è diretta all’ opposto (N, II, 414).
Come suggerisce il passo, nessuna reciprocità è, però, dimostrabile, se non passa attraverso l’opposizione e più precisamente attraverso il polarizzarsi dell’opposizione in antinomia. Ciò implica che la verità sia pensabile unicamente attraverso la contraddizione. Ma l’attraversamento della contraddizione, se si rimane all’interno dei due punti di vista, qui risulta infinito. In entrambi i casi, siamo dinanzi ad una “logica patologica” che appartiene alla logica in generale nella stessa misura in cui, per Novalis, la malattia appartiene alla vita. Questo non significa che l’antinomismo, la logica della contraddizione, sia intrascendibile. Lo scopo di Novalis, come attesta una riflessione dell’ultimo periodo della sua vita, sta piuttosto nell’approdare ad una logica di ordine superiore capace di annientare il principio di contraddizione (cfr. N, I, 101). In forza di questa logica le opposizioni sono convertite in una relazione armonica, i punti di vista (l’interno e l’esterno) non si contraddicono più. Lo stato logico è qui, nello stesso tempo, uno stato di pace dell’universo; è quella che Novalis chiama “età dell’oro sviluppata”. Ma la pace dell’età dell’oro “sviluppata”, che implica l’annientamento della contraddizione, deve contenere anche il rapporto tra armonizzazione e stato di polarità (l’armonia tra guerra e pace). La memo-
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Guerra e pace: “voluttà della sintesi” e “malinconia bacchica” in Novalis
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ria della contraddizione dunque non si cancella. La pace ‘logica’ si realizza attraverso la guerra:
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Io realizzo l’età dell’oro – sviluppando la sfera polare. Io sono in essa, senza coscienza, in quanto sono nella sfera polare inconsapevolmente – e con coscienza, in quanto sono in entrambe consapevolmente. (N, II, 414)
La necessità di realizzare lo stato di pace, nella quale la verità si mostra senza dimostrazione (“una sfera dove ogni dimostrazione è un circolo – o un errore – dove niente è dimostrabile”), ripresenta la vitalità patologica della contraddizione. L’imperfezione del passaggio reciproco tra idealismo e realismo attesta la differenza tra coscienza e verità. In quanto immagine dell’essere al di fuori dell’essere (secondo la celebre formula contenuta nelle Fichte Studien; cfr. N, I, 63) la coscienza è “nell’essere” solo in quanto apparenza e, perciò, significa ancora un’incompiuta unificazione tra natura e spirito e, dunque, armonia polemica (unità contraddittoria) di guerra e pace: Così sono anche natura e spirito, senza coscienza soltanto contemporaneamente – e con coscienza soltanto contemporaneamente – ed entrambe le cose e guerra e pacesoltanto contemporaneamente senza coscienza, e soltanto contemporaneamente con coscienza. (N, II, 414)
Per dirsi figura perfetta della verità la coscienza deve insomma superare la differenza tra il realismo del “sentimento” e l’idealismo della “visione o finzione” (N, II, 575) per divenire una sola cosa con la non coscienza. Quello che talvolta Novalis definisce un idealismo critico significa la compiuta unità di filosofia e poesia. La logica superiore è, dunque, una logica poetica, dove l’idealismo critico può anche rovesciarsi in un “empirismo attivo” (N, II, 480). In senso strettamente filosofico il superamento dell’opposizione tra il punto di vista fichtiano e quello di Spinoza è così da cercare in Plotino.3 Nella sua “fisica superiore” vi è simultaneità tra la posizione immaginativo-intellettuale e la rivelazione dell’autogenerarsi della natura. La via indicata da Plotino è quella di “un libero metodo di generazione della verità”. Questo per Novalis coincide, appunto, con lo stato estatico della ragione, dove questa si trasforma in un “poeta diretto”: in “immaginazione direttamente produttiva” (N, II, 452). Ma la produttività della ragione poe-
3
Cfr. per questo F. Desideri, Nota di lettura a l’Allgemeines Brouillon in N, II, pp. 248-253.
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La misura del sentire
tica, della logica che trapassa in immaginazione4 per annientare il principio di contraddizione, è assolutamente simbolica. E il carattere del simbolo è profetico-rappresentativo. Così la “pace eterna esiste già”, “Dio è tra noi”, “l’età dell’oro è qui” solo in virtù del render presente proprio della rappresentazione (cfr. N, II, 452). Il nucleo poetico della razionalità estatica è la fede come finzione: la fede rappresentativa. Il grado di realtà di tale finzione, l’effettualità della sua produzione simbolica, non estingue il suo essere rivolto al futuro e, dunque, il grado di non essere che gli è proprio. La voluttà estatica della ragione non cancella il limite inerente alla soggettività poetica e, con esso, la malinconia che deriva dall’attrito tra il mondo presente (mescolanza di solido e liquido, di resistenza e presentimento) e quello futuro. Voluttà e malinconia, perciò, si fondono indistricabilmente nel tentativo novalisiano di poeticizzare la guerra, offrendone un profilo, in tensione con il suo volto moderno, dove possa esplicarsi l’incompiutezza del reciproco passaggio tra idealismo e realismo sul quale finora ci siamo soffermati. Significativamente, il passo più compiuto (e anche più celebre) dedicato alla guerra in quest’accezione, non sta nel corpus dell’Opera filosofica, bensì nello Heinrich von Ofterdingen e, precisamente, nell’ottavo capitolo, nel mezzo del dialogo tra l’anziano poeta Klingsohr e il giovane Heinrich. Oggetto del dialogo è la poesia. Klingsohr mira a spiegare al suo nuovo discepolo e futuro genero come la poesia sia “un’arte rigorosa”, tutt’altra cosa, quindi, che un “semplice diletto” privo di riflessione e tutto risolto nella caccia alle immagini e nel gioco delle sensazioni. Poesia, insomma, secondo quanto Klingsohr aveva già precisato nel capitolo settimo, è un’arte che implica la severità procedurale propria della tecnica. Tenendo a mente questa precisazione si comprende il significato del primo discorso dell’anziano poeta nel capitolo che ci interessa. Anzitutto esso segna la distanza da qualsiasi ingenua identificazione tra natura e poesia. Siccome la natura non è poeta in ogni tempo (e in ogni luogo), la poesia si afferma in virtù di un conflitto con quella qualità ad essa avversa [ein entgegengesetztes Wesen] presente in lei come nell’uomo (in forma di “sorda cupidigia”, di “apatia” e di “ottusa ignavia”). C’è, insomma, una guerra, un polemos tra poesia e non poesia nella vita della natura stessa ed è all’interno di questa lotta che, “fronte a fronte colla poesia”, la sua stessa avversaria diviene una persona poetica. Provando a svolgere concettualmente quanto suggestivamente ac4
Sul realizzarsi di questo trapasso già nel confronto con Fichte vedi G. Rametta, Novalis, Fichte und die Wissenschaftslehre nova methodo, in “Fichte Studien”, 16, 2001, pp. 433-452.
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Guerra e pace: “voluttà della sintesi” e “malinconia bacchica” in Novalis
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cennato dalle parole di Klingsohr, si può sostenere che già a livello ‘naturale’ la poesia non solo sorge conflittualmente, ma rivela anche la forma stessa del conflitto (investendo di un senso poetico le figure che le si oppongono). Sostenere a questo punto che così Novalis non farebbe altro che rinnovare, più o meno consapevolmente, la sentenza eraclitea intorno all’originarietà di polemos, padre di tutte le cose, significherebbe imboccare una via troppo breve e, al fondo, solo apparentemente risolutiva. Basta aspettare il successivo intervento di Heinrich nel dialogo per vedere come le cose si complichino dal punto di vista filosofico: Specialmente la guerra – afferma il giovane – mi pare un effetto poetico. Gli uomini credono di doversi battere per un qualche meschino possesso, e non s’avvedono che è lo spirito romantico che li muove, ad annientare per suo medesimo mezzo le inutili scelleratezze. Essi in realtà portano le armi in favore della poesia, e ambedue gli eserciti seguono un unico, invisibile vessillo.5
Leggere questo passo come una ulteriore conferma del soggettivismo romantico sarebbe semplicistico. Non è in questione qui un’estetizzazione6 della dura datità fattuale del fenomeno della guerra. L’impulso a trasfigurare in senso nobile e fiabesco qualcosa di umanamente terribile nella sua distruttività non esaurisce il senso del passo. Novalis sembra qui alludere anche alla possibilità di comprendere la fattualità della guerra da un punto di vista che sta al limite della dinamica storica, eppure non la trascende. Il punto di vista è quello dell’effetto di scambio – uno scambio continuo e, nello stesso tempo, sempre imperfetto – tra natura e spirito. Questo scambio, ossia il contesto effettivo di una continua reciprocità tra i due ambiti, è reso possibile dall’immaginazione, dal suo carattere di facoltà fluttuante tra opposti. Una tematica che, come sappiamo, diviene decisiva per Novalis a partire dagli anni dell’intenso confronto con Fichte. Già nelle Fichte Studien7 Novalis critica in maniera definitiva l’egologia fichtiana assegnando l’immaginazione come potenza dello scambio tra opposti (appunto in quanto fluttua liberamente tra essi) all’Essere in quanto
5 6 7
Novalis, Enrico di Ofterdingen, tr. it. di A. Landolfi, Adelphi, Milano 1997, p. 117 (trad. modificata). Per questa tesi si veda M. Mori, La ragione delle armi, Il Saggiatore, Milano 1984, in particolare pp. 229-233. Su questo argomento si veda G. Stanchina, Il limite generante. Analisi delle Fichte Studien di Novalis, Guerini e associati, Milano 2002.
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La misura del sentire
tale e dunque non più soltanto all’Io.8 A ben vedere, “la volontaria rinuncia all’assoluto” (N, I, 238) e l’origine sentimentale della filosofia come “attività infinita” che con tale rinuncia è intimamente connessa – un aspetto sul quale ha lungamente e felicemente insistito Manfred Frank9 – è comprensibile, in tutte le sue future implicazioni, solo alla luce di questo passaggio. Un passaggio che guarda agli Antichi, al loro identificare la filosofia anche con “la dottrina della natura”, mentre “noi – scrive Novalis – l’abbiamo confinata al pensiero del fondamento di rappresentazioni e sensazioni, in breve, alle modificazioni del soggetto” (N, I, 241). L’“interruzione dell’impulso a conoscere il fondamento” e dunque la netta presa di distanza dalla radicalizzazione in senso autofondazionale del trascendentalismo kantiano dell’Io penso va, così, di pari passo con l’affermazione del carattere incomprensibile della vita. L’abbandono del carattere di assoluta autoposizione dell’Io, riconosciuto fondamentalmente come “nulla” (N, I, 243), significa, nello stesso tempo, la necessità di pensare come originario lo scambio tra Io e Natura.10 Come originario e originante nello stesso tempo: sia per quanto riguarda il sorgere dell’Io sia per quanto riguarda il sorgere della natura stessa. A questo proposito, infatti, Novalis non solo abbandona l’Io come principio, ma non isola nemmeno la natura nel senso di un puro inizio. “A che scopo un inizio? – si chiederà nell’Allgemeines Brouillon – Questo fine non filosofico – o semifilosofico conduce a tutti gli errori” (N, II, 414). La cooriginarietà di Io e Natura viene piuttosto pensata nella comune emergenza da una fluttuazione immaginativa. Originante risulta, dunque, la dinamica dello scambio: il suo scaturire da una libertà o, se si vuole, da una possibilità attiva, dove la struttura dell’immaginazione si esplica come potenza che definisce l’essere stesso. Considerato nella sua purezza, in quanto Nur Sein: nient’altro che Essere, l’Essere coincide con il Caos (N, I, 64). Dal punto di vista dell’Essere in quanto tale, lo Schweben dell’immaginazione concerne, allora, l’opposizione tra essere e non essere e la dinamica dello scambio reciproco tra questi poli. La differenzialità dell’immagine, il suo costituire l’inverso dell’Essere, segna l’inquietudine del caos fino a determinarlo internamente, a porlo in movimento facendolo uscire da sé. In questa dinamica, nella possibilità di 8 9
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Cfr. per questo L. Hühn, Das Schweben der Einbildungskraft. Eine frühromantische Metapher in Rücksicht auf Fichte, in “Fichte Studien”, 12, 1997, pp. 127-151. Tra i numerosi studi di Manfred Frank su questo tema si vedano almeno Einführung in die frühromantische Ästhetik, Suhrkamp, Frankfurt a. M. 1989 e >Unendliche Annäherung