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Per lungo tempo la scienza economica si è fondata su una visione antropologica ristretta: l'uomo è homo oeconomicus

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le cattedre di sophia

collana diretta da Piero Coda

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Stefano Zamagni

PER UN’ECONOMIA A MISURA DI PERSONA

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II edizione, settembre 2012

Grafica di copertina di Rossana Quarta

© 2012, Città Nuova Editrice Via Pieve Torina, 55 - 00156 Roma tel. 063216212 - e-mail: [email protected] ISBN 978-88-311-0253-7

Finito di stampare nel mese di settembre 2012 dalla tipografia Città Nuova della P.A.M.O.M. Via Pieve Torina, 55 00156 Roma - tel. 066530467 e-mail: [email protected]

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Introduzione

1. «Chi è il cinico? Colui che sa il prezzo di ogni cosa e il valore di nulla». Questo noto aforisma di Oscar Wilde è stato ripreso dal Nobel per l’economia, Amartya Sen, per definire l’economista. Una definizione forse ingenerosa, ma che tanti condividerebbero in questi tempi di crisi, poiché gli economisti sono spesso accusati, e non sempre a torto, non solo di non aver saputo emettere la giusta diagnosi della malattia che stava attaccando il corpo economico e politico, ma anche in non pochi casi, sbagliando la diagnosi, di aver consigliato al paziente una terapia che si sta rivelando mortale. Fin dalla sua fondazione la scienza economica ha sofferto di una forte parsimonia antropologica per essersi fondata su un’idea di agente economico (il cosiddetto homo oeconomicus) riduzionista. Questa fondazione antropologica parziale ha tutto sommato retto fino a quando il mondo che si voleva studiare era semplice e basato su una netta distinzione tra sfere (economica, politica, familiare). Quando invece, a partire

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dalla metà del XX secolo, la dinamica sociale ed economica ha iniziato a complicarsi, le sfere ad intrecciarsi in modo inestricabile, l’economia a debordare dai suoi confini occupando regioni sempre nuove della vita in comune, la scienza economica è entrata in una crisi progressiva per eccessiva obsolescenza delle sue premesse, fino ad implodere sotto le maglie della globalizzazione; fenomeno che ha cambiato decisamente e drasticamente le dinamiche sociali, politiche ed economiche. In questo contesto la scienza economica vive l’esperienza di non avere più strumenti per leggere adeguatamente un mondo che cambia troppo rapidamente rispetto alla capacità di capirlo, e magari di prevedere i comportamenti economici delle persone e delle istituzioni. Negli ultimi decenni, però, non sono mancate voci di economisti che hanno denunciato l’insufficienza antropologica dell’attuale scienza economica, e hanno cercato di introdurre nuovi paradigmi e nuovi strumenti concettuali, al fine di comprendere meglio il mondo, e magari renderlo più vivibile. Tra questi, i più noti sono lo stesso Amartya Sen, Elinor Ostrom, Albert Hirschman, e, tra gli italiani, un posto preminente viene occupato dalla persona e dall’opera di Stefano Zamagni, classe 1943, economista riminese. Ciò che accomuna questi economisti (e alcuni altri ancora) può essere espresso da un altro aforisma, questa volta non più

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di un poeta ma di un economista di fine Ottocento, Alfred Marshall: «Un economista che è solo economista, è un cattivo economista». Sono buoni, ottimi economisti, coloro che sono riusciti ad andare al di là della loro disciplina, che si sono lasciati contaminare e ispirare dalla filosofia e dalle altre scienze sociali e che a loro volta hanno arricchito e contaminato le diverse realtà, sulla base della legge aurea della reciprocità, fecondissima nella sua applicazione ai saperi. Ma per poter comprendere il significato del contributo che Zamagni sta dando alla riflessione economica e sociale, può essere utile dire qualche parola in più sulla fondazione antropologica della scienza economica moderna, su cui egli ha lavorato, fornendo preziosi contributi. 2. Le basi dell’attuale impianto della scienza economica possono essere rintracciate chiaramente nell’opera di Adam Smith, che più di ogni altro autore ha gettato le basi etiche e antropologiche della scienza economica moderna. Una tesi fondamentale del suo pensiero, e poi della scienza economica moderna, è racchiusa in una delle frasi più note della storia del pensiero economico: «Non è dalla benevolenza del macellaio, o da quella del birraio o del fornaio che noi ci attendiamo il nostro pranzo, ma dal loro interesse personale. Ci rivolgiamo non al loro senso di umanità ma al loro interesse [self-

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love], e non parliamo mai loro delle nostre necessità ma dei loro vantaggi»1. Smith chiama un simile comportamento del macellaio-birraio-fornaio una virtù: perché? Questa operazione di considerare la ricerca dell’interesse personale non un vizio (quello dell’avarizia, come accadeva normalmente nell’ancient régime), ma una virtù, inizia nel Medioevo e si compie nella Modernità. Un ruolo fondamentale nella trasformazione etica dell’interesse da vizio in virtù è stato svolto prima dal monachesimo (soprattutto quello occidentale, benedettino in particolare), e dopo il XIII secolo dal movimento francescano, i quali, sebbene con sfumature diverse, iniziarono a considerare il commercio e la ricerca degli interessi non necessariamente in contrasto con la morale cristiana e con la virtù. Fu soprattutto grazie al movimento francescano, che ha esercitato un’influenza enorme in tutta la cultura economica e sociale del tardo Medioevo fino all’Umanesimo e Rinascimento italiano, che fece la comparsa il tema della cosiddetta “eterogenesi dei fini” o degli effetti non intenzionali delle azioni umane (che Hegel più tardi chiamerà l’astuzia della ragione), un tema che sarà tra le grandi nuove idee del Settecento europeo e dell’Illuminismo. Si iniziò, timidamente (anche perché andava contro il pensare comune del 1 A. Smith, The Wealth of the Nations, OUP, Oxford 1976 (1ª ed., 1776), p. 26.

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tempo), a sostenere che la moralità di un’azione non la si misura soltanto, né forse principalmente, dalle motivazioni (altruistiche o auto-interessate) dell’agente, ma anche, e soprattutto, dai risultati che produce, dai frutti che porta. Quindi se il mercante – diranno francescani come Pietro Olivi o laici come Coluccio Salutati sul tramonto del Medioevo – fa muovere le ricchezze dai forzieri, mette in circolazione risorse, crea posti di lavoro, aumenta il benessere pubblico e la ricchezza della nazione, un elemento che è più rilevante rispetto al movente (la cupidigia o il piacere) che lo spinge a sviluppare la sua attività mercantile. Già nel Medioevo l’attenzione di autori interessati non solo alla metafisica ma anche alla vita civile viene rivolta alle azioni del machiavelliano “uomo qual è”. Nella Modernità, poi, grazie ad autori come Machiavelli, i moralisti francesi, Mandeville, Vico, Helvétius, e ancor più chiaramente i filosofi morali scozzesi Hume e Smith, si arrivò non solo a lodare i frutti civili delle azioni mosse dagli interessi, ma anche a sostenere che lo stesso movente auto-interessato fosse in sé virtuoso, poiché il self-interest è un’espressione di virtù civile. Si estende così progressivamente alla ricerca della ricchezza e all’ambito economico quanto era accaduto con la ricerca della gloria individuale nell’antichità, dove si lodava e si considerava virtuosa la ricerca della gloria

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(militare, politica…), considerata utile al bene comune. Ciò che accade a partire dal Rinascimento è la progressiva sostituzione dell’etica medievale, centrata sulla gloria, con quella borghese e mercantile basata sugli interessi, sempre più considerata la più pacifica (le doux commerce), gestibile, cittadina e moderna rispetto all’etica dell’eroe medievale o dell’antica Grecia o Roma2. Non a caso Albert O. Hirschman pone come incipit del suo classico saggio Le passioni e gli interessi, la bella frase dell’Etica protestante e lo spirito del capitalismo di Max Weber: «Come poté dunque accadere che un’attività, la quale moralmente era a malapena tollerata, diventasse per Benjamin Franklin una vocazione?»3. Con la Modernità si inizia così progressivamente a pensare che gli interessi sono più prevedibili e gestibili delle passioni, e che un mondo “governato dagli interessi” è l’unico possibile nell’età degli uomini liberi e uguali (che lo sia anche degli uomini “fratelli” tra di loro è una tesi che nessuno ha mai dimostra2 In realtà in piena modernità si riscontrano ancora residui dell’etica della gloria e dell’onore; l’idea della ricerca della gloria è presente soprattutto nell’etica delle virtù. Si pensi all’opera del napoletano Giacinto Dragonetti sui premi alle virtù (1766): l’ipotesi antropologica soggiacente è che la ricerca pubblica dell’onore e della gloria non è meno potente negli uomini della ricerca degli interessi. Zamagni è stato tra coloro che più ha operato perché l’opera di Dragonetti fosse riscoperta e rivalorizzata. 3 Weber, citato in A.O. Hirschman, Le passioni e gli interessi, Feltrinelli, Milano 2011 (1ª ed., 1977), p. 15.

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to). Poter prevedere le azioni degli uomini è un’operazione fondamentale per la nascita della scienza economica (e di quella politica), poiché rende possibile formulare delle leggi universali, e quindi prevedere, orientare e modificare le variabili economiche: se parto dall’ipotesi che gli uomini e le donne cercano di soddisfare i loro interessi personali, posso allora sperare di prevedere che cosa accade quando il tasso di interesse sale, il prezzo di una merce scende, quando il governo apre o chiude il commercio internazionale, e così via. 3. Guardiamo, allora, più da vicino l’idea di interesse in Smith e dopo di lui nell’economia moderna e contemporanea. Per capire meglio e senza ingenuità la trasformazione operata da Smith dell’interesse personale da vizio in virtù, occorre tener ben presente che poche righe prima del passaggio sul macellaio già citato, Smith nella sua Wealth of Nations parla a lungo del mendicante, che per il suo pranzo «dipende dalla benevolenza dei suoi concittadini», dalla bontà del macellaio e del fornaio del suo villaggio. Solo il mendicante, commenta Smith alla fine del passaggio sulla «benevolenza del macellaio», dipende «principalmente dalla benevolenza dei propri concittadini» (ibid.). L’uomo libero, invece, preferisce l’indipendenza dai suoi benefattori per costruire rapporti tra pari, e dipendere così da

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tanti in modo anonimo e quindi da nessuno in modo diretto e personale. Occorre poi tener sempre ben presente che il mondo contro cui Smith e tutti gli economisti classici sferravano la loro dura polemica era quello feudale, dove moltitudini di mendicanti dipendevano, per vivere, dalla “benevolenza” e dall’elemosina di pochi padroni. In un mondo di dipendenza feudale, di servi e di padroni, non ci potrà mai essere amicizia tra il mendicante e il macellaio (l’amicizia richiede uguaglianza), né nella bottega né fuori di essa nel pub. Ma se l’ex mendicante trova un lavoro e torna in macelleria o dal fornaio, anche se all’interno della bottega lo scambio non è una forma di amicizia, dopocena nel pub i due possono incontrarsi su un piano di uguaglianza, di maggiore dignità e, se vogliono, anche di amicizia. La virtù, ogni virtù, richiede persone libere, e in un mondo di mendicanti, ieri come oggi, non c’è alcuna autentica virtù civile. Ecco allora perché secondo Smith e la teoria economica classica l’invenzione del mercato diventa uno strumento di civiltà, e anche lo scambio di mercato, sebbene non basato sulla benevolenza ma sul self-interest, diventa un’espressione di virtù. Questa indipendenza è allora una virtù, particolarmente cara alla filosofia stoica (e soprattutto a Smith). Ma c’è qualcosa di più profondo e meno evidente (spesso le cose più profonde sono anche

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quelle meno evidenti). Una società civile in cui ciascuno persegue semplicemente i propri interessi funziona bene, perché la cura dei propri interessi è espressione della virtù della prudenza. Se, ad esempio, ogni cittadino di Milano si occupa dell’educazione dei propri figli, svolge al meglio il proprio lavoro, sistema il giardino e paga le tasse per produrre i beni pubblici, se cioè a Milano si hanno tanti prudent men, allora automaticamente anche l’intera città diviene virtuosa. È questa, nella sua essenza, l’idea smithiana racchiusa dalla metafora più famosa del pensiero economico, quella della “mano invisibile”: ciascuno persegue interessi privati e la società si ritrova provvidenzialmente con il bene comune. Anche per questa ragione, e in polemica con i moralisti a lui precedenti e contemporanei (penso a Mandeville o a Rousseau), per Smith l’interesse personale non è un vizio ma una virtù: la prudenza. Questa operazione “semantica” (la stessa parola, self-interest, che cambia significato morale) è stata alla base della legittimazione etica della nascente economia politica e dell’economia di mercato, che, occorre sempre ricordarlo, ha svolto una funzione di civilizzazione del mondo, se lo si confronta con il regime feudale. A questo punto però emerge un problema molto serio. La legittimazione etica dello scambio e questa visione virtuosa dell’interesse (visto come

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espressione di prudenza), hanno funzionato e funzionano in società semplici, dove il bene dei singoli è contemporaneamente il bene di tutti, dove, in linguaggio più tecnico, i beni sono soprattutto privati. Se invece i beni diventano comuni, ambientali e relazionali, se i beni economici più importanti e strategici per noi e per i nostri nipoti, per i più poveri e per le altre specie, sono cioè le energie non rinnovabili, foreste, laghi, mare, beni ambientali, ma anche la gestione di un condominio o la convivenza nelle città multietniche e le relazioni all’interno delle organizzazioni, il discorso si complica terribilmente. Succede allora che la virtù della prudenza non è più automaticamente una virtù del mercato, poiché non è più vero che ricercare l’interesse privato produca anche il bene comune: può succedere che il bene individuale produca male comune. Si cade, infatti, nella nota «tragedia dei beni comuni», dal titolo del celebre articolo che il biologo Garrett Hardin pubblicò nel 1968 nella prestigiosa rivista «Science»4. In un mondo dove i beni più importanti e cruciali diventano beni comuni e se ciascuno segue semplicemente i propri interessi, si rischia, anche senza volerlo e senza accorgersene, di segare il ramo su cui siamo tutti seduti, o, nelle parole di Diamond, 4 The Tragedy of the Commons, in «Science» 162 (1968), pp. 1243-1248.

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di abbattere l’ultimo albero dell’isola di Pasqua. La domanda cruciale allora diventa: quali sono le virtù tipiche del mercato per poter affrontare e magari vincere le grandi sfide poste dai beni collettivi? È il tentativo di rispondere a tale domanda che costituisce uno dei cardini dell’intero discorso di Zamagni sull’economia. 4. Stefano Zamagni si colloca perfettamente sulla traiettoria che dai tempi di Smith conduce alla crisi della post-modernità dovuta anche all’emergere di beni comuni e relazionali, cruciali per il benessere umano. Questa strada percorsa dalla grande tradizione dell’economia politica moderna si è intrecciata tuttavia, nel percorso di Zamagni, con un’altra via meno nota e battuta, ma non per questo meno capace di futuro: quella dell’Economia civile. È una via più antica rispetto a quella di Smith, la cui età d’oro si situa nell’Italia del Quattrocento, in quel periodo luminoso noto come Umanesimo civile, che ha avuto una seconda età molto feconda nella Napoli illuminista, per poi continuare, come fiume carsico riemerso decisamente oggi, con la grande fioritura dell’economia civile e di comunione contemporanea. Non è un caso che l’Umanesimo civile sia la patria intellettuale dell’Economia civile: quel felice periodo, frutto del meticciato culturale, religioso ed economico di cristiani, ebrei,

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laici, arabi, mercanti e santi, libertà individuale e comunità, si colloca al culmine del Medioevo e della civiltà cittadina europea, prima delle grandi ferite causate dalla Riforma protestante e dalla Controriforma cattolica. L’Europa era stata capace tra il XII e il XV secolo di dar vita ad una prima civiltà dove i mercati erano alleati del bene comune e le città erano i nodi di una rete europea di scambi non solo economici. La fede cristiana era diventata anche la fides-fiducia-corda che aveva permesso ai mercati di svilupparsi e di far fiorire la bellezza di città, quali Venezia, Firenze, Lucca, Cordova e Marsiglia. La Chiesa era stata al centro di questa prima economia di mercato civile, ma tra Quattro e Cinquecento la cristianità vive una profonda crisi etica, che produsse prima la Riforma e poi la reazione della Controriforma, due eventi che spiegano non solo Machiavelli, Hobbes e la politica moderna, ma anche l’economia di Smith (di cultura calvinista) e Genovesi (di cultura cattolica). La Riforma nasce (tra le tante ragioni, non solo teologiche) anche dallo scandalo della gratia (charis): ciò che ha valore infinito diventa merce di scambio economico. Ecco allora che come reazione l’umanesimo protestante, luterano e ancor più calvinista, porrà una netta distinzione tra la logica e l’ambito del mercato e la logica e l’ambito del dono (charis): business is business, e il dono è qual-

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cosa di distinto e separato dal mercato e dall’impresa. Nasce così il modello del capitalismo filantropico di radice anglosassone e calvinista (nordamericana in particolare), che recupera un principio essenziale dell’Umanesimo civile (la libertà) e lo erge a pietra angolare, rimandando la solidarietà alla filantropia post- o para-mercantile. Il capitalismo, conosciuto oggi come un umanesimo di individui-senza-comunità, è il frutto di questa ferita, di uno sviluppo parziale di un progetto originario più complesso e ricco. Al tempo stesso, la Controriforma e la sua reazione contro quei valori di libertà individuale e di iniziativa privata hanno prodotto un modello economico “cattolico” centrato sulla comunità-senza-individui, dove il mercato non è mai decollato veramente, perché bloccato e invischiato nelle trame dei legami forti della comunità e della famiglia. Come un certo individualismo sta diventando sempre più il regno della solitudine e dell’anomia nella deriva post-moderna del capitalismo finanziario globalizzato, parallelamente il modello mediterraneo-latino-cattolico ha vissuto e vive le sue non meno gravi malattie che si sono chiamate nel XX secolo mafia, fascismo e familismo amorale, malattie (nevrosi) tipiche del modello comunitario, così come l’individualismo solitario è la principale patologia del modello anglosassone. Ecco allora il senso pro-

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fondo, culturale e se vogliamo etico e civile di un ritorno all’Umanesimo civile, un periodo precedente alla frattura cattolica-protestante, e che per questo rappresenta un ritorno indietro che in realtà è prospetticamente orientato in avanti, come accade nel gioco del rugby. L’Economia civile non è un progetto nostalgico o conservatore, ma diventa strada per un modello di pensiero e prassi economica che tenga assieme individuo e comunità, libertà e fraternità, mercati e vita civile, spirituale e materiale, gratuità e contratto, eros e agape, un modello “ecumenico” che non è dietro ma di fronte a noi5. I lavori che dalla metà degli anni Settanta Stefano Zamagni, dopo aver conseguito il PhD a Oxford sotto la guida di John Hick e Amartya Sen, porta avanti sui temi dell’etica ed economia, della razionalità economica, dell’economia cooperativa e non-profit, della filosofia dell’economia, del dono, della felicità e della gratuità, si muovono tutti nella direzione di dar vita oggi ad un’Economia civile, cioè ad una oikonomia amica della città, transdisciplinare, e centrata sul soggetto agente non visto unicamente come individuo ma come persona (cioè un essere costitutivamente in relazione, senza che la relazione annulli la realtà, i diritti e le ragioni 5 Sull’Economia civile cf. L. Bruni - S. Zamagni, Economia civile, il Mulino, Bologna 2004; e Id. (edd.), Dizionario di Economia civile, Città Nuova, Roma 2009.

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dell’individualità). Sono molti i riconoscimenti che Zamagni sta ricevendo in diversi paesi del mondo, non ultime le lauree honoris causa in importanti università latino-americane e dell’Europa dell’est, che dicono che l’attenzione da parte del mondo accademico, culturale ed ecclesiale nei confronti della sua linea di pensiero è in continua crescita. Come in continua crescita è anche l’ascolto che Zamagni riceve dagli operatori economici e dalle istituzioni, di cui è segno anche la nomina a Presidente dell’Agenzia governativa per il Terzo Settore (purtroppo ora soppressa dal governo Monti). Una caratteristica tipica di Zamagni, anche qui in linea con la migliore tradizione italiana, è il suo saper alternare pubblicazioni scientifiche con l’impegno civile, in un intreccio vitale tra pensiero e azione, assai prezioso oggi per la sua scarsità nel panorama scientifico e culturale attuale. I due testi che raccogliamo in questo volume sono un ottimo distillato di molti dei temi più innovativi affrontati in questi anni da Zamagni, con una particolare attenzione alla Dottrina sociale della Chiesa e alla Caritas in Veritate, all’Economia del Bene comune, come recita un suo titolo pubblicato dall’editrice Città Nuova. Questi temi hanno avuto nell’Istituto Universitario Sophia e nel suo progetto culturale un luogo privilegiato nel quale egli ha comunicato e discusso le sue idee e proposte. Il professor Zama-

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gni, infatti, non solo ha avuto un preciso ruolo storico nella nascita dell’Istituto, per aver incoraggiato sin dalla fine degli anni Novanta in più lettere e incontri personali Chiara Lubich perché il Movimento dei Focolari desse vita ad una Università, ma egli è anche uno dei protagonisti del progetto di Economia di Comunione (l’EdC), del quale è stato compagno di viaggio e tra coloro che la presentava e difendeva come una delle esperienze più innovative e significative di questo tempo, anche quando ai suoi albori l’EdC era spesso oggetto di diffidenza se non di ironia da parte della comunità accademica. Siamo pertanto lieti e onorati di avere il nome di Stefano Zamagni ad arricchire la Collana delle “Cattedre di Sophia”, tappa di un cammino comune che è solo appena incominciato. Loppiano, 15 ottobre 2011 Luigino Bruni

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Nota bibliografica

Tra le opere di Stefano Zamagni S. Zamagni, Microeconomic Theory, Blackwell, Oxford 1987. S. Zamagni (ed.), Economia democrazia, istituzioni in una società in trasformazione, il Mulino, Bologna 1997. S. Zamagni - F. Delbono, Microeconomia, il Mulino, Bologna 1997. S. Zamagni (ed.), Non profit come economia civile, il Mulino, Bologna 1998. S. Zamagni - P. Sacco (edd.), Complessità relazionale e comportamento economico, il Mulino, Bologna 2002. S. Zamagni (ed.), Il non profit italiano al bivio, Egea, Milano 2002. S. Zamagni - T. Cozzi, Istituzioni di Economia Politica. Un testo europeo, il Mulino, Bologna 2002. S. Zamagni - L. Bruni, Economia Civile, il Mulino, Bologna 2004.

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S. Zamagni - E. Screpanti, Profilo di storia del pensiero economico, Nuova Italia Scientifica, Roma 2004 (ed. ingl., An Outline of the Histhory of Economic Thought, OUP, Oxford 2005). S. Zamagni - E. Agliardi (edd.), Time in Economic Theory, Elgar, Aldershot 2004. S. Zamagni, Per una nuova teoria economica della cooperazione, il Mulino, Bologna 2005. S. Zamagni - P. Sacco (edd.), Teoria economica e relazioni interpersonali, il Mulino, Bologna 2006. S. Zamagni, L’economia del bene comune, Città Nuova, Roma 2007. S. Zamagni, La cooperazione, il Mulino, Bologna 2008. S. Zamagni - R. Scazzieri - A. Sen, Markets, money and history. Essays in honor of Sir John Hicks, Cambridge University Press, Cambridge (UK) 2008. S. Zamagni - L. Bruni, Dizionario di economia civile, Città Nuova, Roma 2009. S. Zamagni, Avarizia. La passione dell’avere, il Mulino, Bologna 2009. S. Zamagni (ed.), Il terzo settore nel nuovo welfare, Diabasis, Reggio Emilia 2010.

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Oltre il profitto. Il principio di fraternità preso sul serio nella vita economica. L’Economia di Comunione1 Premessa Questo primo saggio è dedicato più specificatamente all’Economia di Comunione (EdC), un progetto economico che, come vedremo, ha molto da dire non solo a livello della prassi imprenditoriale o di lotta alla povertà, ma anche a quello del pensiero e, a tratti, a quello della teoria economica. Partiamo da una domanda: qual è stato e qual è il grande contributo di Chiara Lubich e del Movimento dei Focolari da lei fondato al progresso morale e civile delle nostre società? Sono convinto che tale contributo consista nell’essere riuscita a declinare e ad applicare, cioè a tradurre in pratica, il principio di fraternità in due sfere importanti e per nulla scontate dei rapporti umani: la sfera del politico da un lato e la sfera dell’economico dall’altro. 1 Una versione simile di questo capitolo è pubblicata nel volume Comunione e innovazione sociale. Il contributo di Chiara Lubich, Città Nuova, Roma 2012.

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Quello di fraternità non è certo un principio nuovo. Il termine, la cui origine va rintracciata tra Napoli (Genovesi e Dragonetti) e Ginevra (Rousseau), appare nella bandiera della Rivoluzione Francese, unitamente alle altre due parole chiave: libertà ed eguaglianza, anche se poi prontamente dimenticato e rimosso all’indomani della rivoluzione. I rivoluzionari giacobini francesi, infatti, si erano ben presto resi conto della “pericolosità”, dal punto di vista dell’assetto istituzionale, di un principio come quello di fraternità, che diversamente dagli altri due principi fondativi (libertà e uguaglianza) rimandava ambiguamente ai valori dell’ancient régime (come il sangue), che la rivoluzione voleva dimenticare e cancellare. Ma quegli stessi rivoluzionari affiancarono il principio di fraternità agli altri due principi che, in Europa, avevano una storia politica e filosofica più antica e più ricca, poiché attorno ad essi si era sviluppato uno dei principali filoni del dibattito filosofico dal Medioevo alla modernità (basta pensare ad autori come Locke o Hobbes, ma anche a san Tommaso o Lutero). La fraternità, invece, era rimasta molto sullo sfondo del dibattito filosofico e politico, per occupare, invece, un ruolo chiave nella teologia e nella spiritualità, e non solo di quelle cristiane. Quei giacobini, e in questo diedero voce a tutto un movimento di pensiero europeo e occidentale, ag-

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giunsero ai più “semplici” e noti principi di libertà e di uguaglianza anche quello più complicato e ambivalente di fraternità perché erano coscienti di due aspetti: 1) che senza un principio che dicesse il legame tra le persone i principi di libertà e di uguaglianza (che dicono più status e diritti individuali) non erano sufficienti a costruire una nuova vita in comune; 2) che la fraternità che l’ancient régime conosceva non era la fraternità civile che era necessaria al nuovo mondo, poiché si doveva immaginare e costruire una fraternità nuova, che superasse i vincoli di sangue e di appartenenza esclusiva ed escludente che caratterizzava e caratterizza ogni esperienza umana di fraternità naturale. In altre parole, la nuova fraternità, come l’uguaglianza e la fraternità, era un progetto politico e civile, qualcosa da costruire e non da salvare o recuperare dall’ancient régime 2. Al tempo stesso, la fraternità di cui parlava Chiara supera lo stesso concetto illuminista, poiché nasce dall’umanesimo cristiano e dalla sua vocazione universale e universalistica, e perché rimanda all’idea di paternità (siamo figli perché c’è un Padre comune), un’idea che invece le rivoluzioni moderne volevano superare. La peculiarità del 2 Su questa lettura della fraternità come nuovo principio della modernità, cf. L. Bruni, Le virtù del mercato, Città Nuova, Roma 2012.

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contributo di Chiara consiste, poi, nell’aver saputo applicare la fraternità a due ambiti che, da sempre, nell’immaginario popolare e nella prassi quotidiana vengono visti come dei potenti condensatori di conflitto: l’ambito politico, dove il conflitto assume in prevalenza le forme del conflitto di identità e l’ambito economico dove esso assume le caratteristiche del conflitto di interessi. Nell’interpretazione che ne dà Chiara, il principio di fraternità consente di affrontare senza disconoscerle, entrambe queste tipologie di conflitto, traendone però esiti insperati. Proprio come aveva scritto il poeta latino Terenzio: «Il seme e la terra sono in conflitto fra loro, ma è da questo conflitto che nasce la pianta». In quel che segue, mi occuperò, ratio materiae, dell’applicazione del principio di fraternità alla realtà economica. Una sola osservazione desidero qui avanzare per quanto concerne la sfera del politico. In tale sfera, il pensiero e l’opera di Chiara portano a scongiurare un duplice grave rischio. Per un verso, la deriva “fondamentalista”: volendo abolire il conflitto, si pensa di poterlo fare eliminando l’esistenza stessa del contendente. Per l’altro verso, la deriva “immunitaria” nel senso di Roberto Esposito: per proteggersi dall’invasione dell’altro, si creano nicchie fortificate, ci si protegge, cioè ci si esclude al confronto con l’altro. Non è difficile darsi conto del perché entrambe le risposte

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non portino lontano, né possano essere accettate. Si tratta, invece – insiste Chiara – di abituarsi piuttosto a leggere la realtà non solo di fronte, come si è portati a fare, ma anche di lato e soprattutto di rovescio. È in questo il fondamento proprio del dialogo autentico, che non è mai né mera conversazione, né tentativo di forzare la posizione dell’altro fino al punto di manipolarne i convincimenti profondi. Piuttosto, quello di dialogo è un concetto che rinvia all’attraversamento, alla ragione che attraversa l’altrui ragione. Nessuno potrà disconoscere il grande contributo che il Movimento dei Focolari, nelle sue diverse articolazioni, ha dato e continua a dare alla causa della pace, e questo accade perché è riuscito a disinnescare la carica potenzialmente belligera che è alla base di ogni conflitto identitario, trasformandola in opportunità di progresso e di umanizzazione dei rapporti tra portatori di culture e di fedi religiose diverse. Il fatto è che un conto è la tolleranza dell’altro; altro conto è il rispetto dell’altro. Il rispetto autentico postula, ad un tempo, il riconoscimento e l’accoglienza. Il segreto del principio di fraternità sta tutto qui: esso consente di accogliere una presenza che, nella sua umanità, è a noi comune, mentre nella sua alterità, è da noi distinta. È per questa sua caratteristica che il dialogo fraterno è capace di generare strutture di pace.

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Prima di sviluppare, ovviamente in breve, il mio argomento, mi piace offrire un abbozzo di risposta al seguente interrogativo: per quale via Chiara Lubich è giunta a “vedere” prima e meglio di altri l’importanza del principio di fraternità ai fini della costruzione di un “mondo nuovo”? Padre Brown, il personaggio inventato da Gilbert Chesterton, è capace di risolvere i più intricati casi polizieschi grazie al suo sguardo sul mondo; un modo di procedere il suo che è tutto il contrario di quello razionalista e basato sugli indizi di Sherlock Holmes. Padre Brown sa scoprire dove si nasconde il male perché ha un’idea precisa di che cosa sia il bene. Questo abbiamo imparato da Chiara: lo sguardo sulle cose è il primo passo per giungere, sia pure con fatica, a conoscerle e a comprenderle. E cosa ha visto Chiara guardando a suo modo il mondo? Che il bene esiste e se esiste il bene, allora esiste Dio. Proprio come ha scritto L. Wittgenstein, in un pensiero del 1929: «Se qualcosa è buono, allora è anche divino». Per questo, tutti coloro che vogliono negare la trascendenza negano con attenta determinazione la possibilità del bene e dell’amore, soprattutto nella sfera economica, riconducendo tutto a passione, a impulso, a interesse mascherato. Con l’EdC, Chiara ha testimoniato che il bene c’è, perfino in economia, esercitando così al massimo grado il carisma della

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profezia, la quale è figlia non della previsione – se così fosse ci sarebbero molti falsi profeti: gli economisti!  – ma della promessa. Chiara è sempre stata fedele alla promessa, anche nei momenti difficili che il movimento ha attraversato.

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Economia e comunione Passo ora ad occuparmi del nesso tra fraternità ed economia. È a tale riguardo che Chiara è riuscita a dare vita, vent’anni fa, ad un risultato a dir poco sorprendente e del tutto inatteso: il progetto dell’Economia di Comunione (EdC). Per afferrare ciò di cui si tratta è opportuno chiedersi: è possibile fare in modo che il mercato diventi civile e quindi un ambito civilizzante l’intera società? Vale a dire, ha senso sforzarsi di prefigurare un modello di economia di mercato capace di includere (almeno tendenzialmente) tutti gli uomini e le donne e non solamente quelli adeguatamente “attrezzati” o dotati, e di avvalorare, nel senso di attribuire valore a entrambe le dimensioni dell’umano, sia quella espressiva sia quella acquisitiva, e non solamente la dimensione acquisitiva come oggi accade? Perché mette conto porsi domande del genere? Per due ragioni fondamentali. La prima è che l’istituzione mercato, presupponendo la divisione del lavoro,

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consente agli individui di specializzarsi in base al loro vantaggio comparato, e dunque permette, di per sé, di controbilanciare il deficit di fitness dei soggetti meno dotati, fisicamente o intellettualmente. Molti esseri umani scomparirebbero se dovessero dipendere, per la loro sopravvivenza, dalle sole forze della selezione naturale 3. Solamente i soggetti più dotati e capaci di provvedere da sé a tutti i loro bisogni potrebbero sopravvivere. Infatti, come l’antropologia economica documenta, le società tradizionali, cioè pre-mercantili, dovettero inventarsi apposite istituzioni per far sì che coloro i quali, per varie ragioni, erano destinati a restare fuori dal gioco della produzione e acquisizione di reddito e ricchezza, potessero sopravvivere. La vita in comunità chiuse, la tribù, lo scambio di doni e altro ancora servivano alla bisogna. Dall’avvento dell’economia di mercato in poi – e cioè a partire grosso modo dall’Umanesimo civile, epoca in cui prende avvio in forma compiuta quel modello di ordine sociale che è appunto l’economia di mercato – è lo scambio a consentire una 3 Ha scritto C. Darwin nel suo Origine delle Specie del 1859: «Tra tutti gli uomini ci deve essere lotta aperta; e non si deve impedire con leggi e costumi ai migliori di aver successo… Tra qualche tempo a venire… è quasi certo che le razze umane più civili stermineranno e si sostituiranno in tutto il mondo a quelle selvagge» (sic!). Il darwinismo sociale di Herbert Spencer e di altri disincantati epigoni non è che la logica conseguenza di una simile posizione.

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grande diversità genetica nelle popolazioni umane. Lo scambio consente, infatti, di includere anche chi è più relativamente meno forte ma diverso: come ci ha mostrato l’economista inglese David Ricardo all’inizio dell’Ottocento, è la diversità di talenti la pre-condizione dello scambio, non l’uguaglianza dei rapporti di forza: includendo chi è fuori perché più debole, il meccanismo di mercato produce mutuo vantaggio 4. Ma occorre ricordare che ai suoi inizi l’economia di mercato viene fondata non solamente sui principi dello scambio di equivalenti (di valore) e su quello redistributivo, ma anche sul principio di reciprocità. Come è documentato anche in Bruni e Zamagni (Economia Civile, il Mulino, Bologna 2004), è con lo scoppio della Rivoluzione Industriale e quindi con l’affermazione piena del sistema capitalistico che il principio di reciprocità si perde per strada; addirittura viene bandito dal lessico economico, anche perché la reciprocità che aveva conosciuto l’ancient régime, ancora basata sulle appartenenze ai vari corpi intermedi spesso escludenti, non consentiva quell’allargamento dei mercati che non aveva bisogno di identità e appartenenza che limitavano l’estensione dei mercati. Con la modernità si afferma così l’idea secondo la quale un ordine sociale può reggersi so4 Su questo cf. L. Becchetti - L. Bruni - S. Zamagni, Microeconomia, il Mulino, Bologna 2010.

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lamente sugli altri due principi; o meglio: su un solo principio, mitigato da un secondo ancillare al primo. Di qui il modello dicotomico Stato-mercato: al mercato si chiede l’efficienza, cioè di produrre quanta più ricchezza si può, stante il vincolo delle risorse e lo stato delle conoscenze tecnologiche; allo Stato spetta invece il compito primario di provvedere alla redistribuzione di quella ricchezza per garantire livelli socialmente accettabili di equità. Nel modello del capitalismo anglosassone, il mercato ha preso il posto centrale e lo Stato (redistribuzione) quello ancillare; nel modello dell’economia sociale di mercato europea, abbiamo avuto il fenomeno opposto: lo Stato è posto al centro, e il mercato è a questo subordinato (si pensi, per un esempio, che in Italia lo Stato intermedia ancora più della metà del Pil, una situazione analoga a quella di molti altri Paesi latini, in crisi economica anche per queste ragioni, dove uno Stato ipertrofico è stato il tentativo estremo di salvare una società comunitaria che stava inesorabilmente tramontando). Si pensi, per considerare un solo esempio, all’ampio dibattito, ancora lungi dall’essere concluso, sul big trade-off – per richiamare il titolo del celebre libro di Arthur Okun del 1975 – tra efficienza ed equità (o giustizia distributiva). È preferibile favorire l’una o l’altra; vale a dire, è meglio dilatare lo spazio di azione del principio dello scambio di equi-

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valenti, che mira appunto all’efficienza, oppure attribuire più poteri di intervento allo Stato affinché questi migliori la distribuzione del reddito? Ancora: a quanta efficienza si deve rinunciare per migliorare i risultati sul fronte dell’equità? E così via. Interrogativi del genere hanno riempito (e riempiono) le agende di studio di schiere di economisti e di scienziati sociali, con risultati pratici piuttosto modesti, a dire il vero. La ragione principale di ciò non è certo nella carenza dei dati empirici o nell’inadeguatezza degli strumenti di analisi a disposizione. Piuttosto, la ragione è che questa letteratura si è dimenticata del principio di reciprocità, del principio cioè il cui fine proprio è quello di tradurre in pratica la cultura della fraternità. Aver dimenticato che non è sostenibile una società di umani in cui si estingue il senso di fraternità e in cui tutto si riduce, per un verso, a migliorare le transazioni basate sullo scambio di equivalenti e, per l’altro verso, ad aumentare i trasferimenti attuati da strutture assistenziali di natura pubblica, ci dà conto del perché, nonostante la qualità delle forze intellettuali in campo, non si sia ancora addivenuti ad una soluzione credibile di quel trade-off. Una lettura, anche superficiale, dell’attuale passaggio d’epoca ci obbliga a prendere atto che i tratti antisociali del comportamento economico hanno raggiunto livelli di intensità preoccupanti. È ormai

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ampiamente ammesso che lo star-bene (well-being, nelle parole di Amartya Sen) delle persone dipende non solamente dal soddisfacimento dei bisogni materiali, ma anche da quello dei bisogni relazionali. Eppure, di ciò non pare esserci adeguata consapevolezza. Le nostre economie dell’Occidente avanzato sono diventate “macchine” straordinariamente efficienti per soddisfare l’ampia gamma dei bisogni materiali, ma non altrettanto si può dire di esse per quanto attiene i bisogni relazionali e spirituali. Basicamente la ragione è che questi ultimi non possono essere adeguatamente soddisfatti con beni privati, né con beni pubblici (nel senso della teoria economica), quale ne sia il volume e la qualità. Piuttosto, essi richiedono beni comuni e, soprattutto, beni relazionali, beni cioè la cui utilità per il soggetto che li consuma dipende, oltre che dalle loro caratteristiche intrinseche e oggettive, dalle modalità di fruizione di quei beni in rapporto agli altri soggetti con i quali consuma e produce quei beni. Un bene relazionale è il bene che può essere prodotto e fruito soltanto assieme e simultaneamente da coloro i quali sono gli stessi produttori delle relazioni che li coinvolgono. Amicizia, fiducia, felicità, rapporti familiari sono altrettanti esempi di ambiti caratterizzati dal ruolo essenziale dei beni relazionali (o dai mali relazionali). Non esiste ancora una consolidata teoria economica dei beni relazionali, il che in parte

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spiega perché se ne parli così poco. A sua volta, ciò consegue al fatto che la scienza economica dell’ultimo paio di secoli è stata costruita sulla dicotomia pubblico-privato. I beni privati e i beni pubblici pur opposti tra loro rispetto agli elementi della rivalità e della escludibilità dal consumo, condividono un comune tratto: quello di non presupporre per il loro consumo un’azione comune, né la conoscenza dell’identità delle persone coinvolte. (Due o più soggetti possono consumare un bene pubblico – si pensi al classico esempio del faro o al godere la bellezza di un quadro in un museo – in perfetto isolamento e mutua indifferenza tra loro). Il bene è pubblico quando cioè non c’è interferenza nel consumo tra i due o più consumatori: il che è esattamente l’opposto dell’idea di relazione e di Bene comune tipico della tradizione classica. Il punto importante che va sottolineato è che la produzione di beni relazionali non può avvenire secondo le regole di produzione dei beni privati, perché nel caso dei beni relazionali quanto è in gioco non è solo un problema di efficienza, ma anche quello di efficacia. Né può avvenire secondo le modalità di fornitura dei beni pubblici da parte dello Stato dal momento che coercizione e principio burocratico – che sono i principi di azione dell’ente pubblico – annullano o neutralizzano la relazionalità. Ecco perché se si vogliono scongiurare i rischi

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devastanti di trappole di povertà sociale, dovute alla crescita ipertrofica della sfera acquisitiva dell’economia, le nostre società hanno bisogno di far posto crescente a soggetti economici che fanno della reciprocità il loro modus operandi. Un modo semplice, ma efficace, di cogliere le proprietà della categoria di reciprocità è quello di comparare tra loro le tre principali modalità di rapporto interpersonale: informazione; comunicazione; relazione. L’informazione è un rapporto unidirezionale, da A a B. Quando A trasferisce un messaggio a B, non c’è ritorno. L’eventuale ascolto avviene in un tempo successivo e la responsabilità dell’informazione ricade su A, perché è questi che decide unilateralmente di trasferire l’informazione e le modalità di trasmissione. B non ha la possibilità di intervenire, può solo decidere se accettare o meno l’informazione e poi cosa farne. La comunicazione, invece, è un rapporto bidirezionale, dove il termine chiave è quello di ascolto. Prima di decidersi a comunicare, A si chiede cosa ne pensa B; deve dunque “ascoltarlo”. Nella comunicazione c’è reciprocità, perché anche B deve ricevere gratificazione dalla partecipazione al processo comunicativo. Comunicare è più impegnativo che informare; si tratta, infatti, di mettere qualcosa in comune con qualcuno. Nella relazione, infine, né A né B detengono alcun potere, dal momento che esso si alterna continuamente tra i

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due soggetti. La relazione postula dunque il dialogo, che non è mera conversazione, poiché nel dialogo ciascun partecipante deve impegnarsi eticamente a tener conto del punto di vista dell’altro – il che non accade nella comunicazione e tanto meno nella informazione. Una scienza economica che non vede le relazioni (ma solo individui), non è capace di vedere i beni relazionali, che sono il cemento che tiene assieme le nostre società. Certo, qualcuno potrà obiettare, le moderne società sono dei muri a secco, che non hanno bisogno di altra forma di collante che non sia il cash nexus: in realtà, e lo stiamo vedendo in questi anni, il muro a secco dei soli interessi funziona per cose semplici, ma crolla di fronte alle vere crisi di fiducia del sistema, come sono le attuali, perché la fiducia, a differenza della reputazione, è un bene relazionale, che richiede gratuità. Come fare allora per consentire che il mercato possa tornare ad essere mezzo per rafforzare il vincolo sociale attraverso la promozione sia di pratiche di distribuzione della ricchezza che si servono dei suoi meccanismi per raggiungere l’equità, sia di uno spazio economico in cui i cittadini che liberamente lo scelgono possono mettere in atto, e dunque rigenerare, quei valori (quali, la solidarietà, lo spirito di intrapresa, la simpatia, la responsabilità di impresa) senza i quali il mercato stesso non po-

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trebbe durare a lungo? La condizione che va soddisfatta è che possa affermarsi entro il mercato – e non già al di fuori o contro di esso – uno spazio economico formato da soggetti il cui agire sia ispirato al principio di reciprocità. L’aspetto essenziale della relazione di reciprocità è che i trasferimenti che essa genera sono indissociabili dai rapporti umani: gli oggetti delle transazioni non sono separabili da coloro che li pongono in essere, quanto a dire che nella reciprocità lo scambio cessa di essere anonimo e impersonale come invece accade con lo scambio di equivalenti. È in ciò la grande intuizione di Chiara che ha dato vita all’EdC, poiché si estende la logica della reciprocità anche all’ordinaria vita economica, nei mercati e in ogni forma di impresa. La fraternità in pratica Generalizzando un istante: cosa comporta, a livello pratico, l’accoglimento del principio di fraternità entro l’agire economico? Una risposta, sia pure piuttosto indiretta, ci viene dalla considerazione della natura profonda della crisi economico-finanziaria che stiamo vivendo, cui abbiamo fatto cenno. Due sono i tipi di crisi che, grosso modo, è possibile identificare nella storia delle nostre società: dialet-

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tica l’una, entropica l’altra. Dialettica è la crisi che nasce da un conflitto fondamentale che prende corpo entro una determinata società e che contiene, al proprio interno, i germi o le forze del proprio superamento (va da sé che non necessariamente l’uscita dalla crisi rappresenta un progresso rispetto alla situazione precedente). Esempi storici e famosi di crisi dialettica sono quelli della rivoluzione americana, della rivoluzione francese, della rivoluzione di ottobre in Russia nel 1917. Entropica, invece, è la crisi che tende a far collassare il sistema, per implosione, senza modificarlo. Questo tipo di crisi si sviluppa ogniqualvolta la società perde il senso – cioè, letteralmente, la direzione – del proprio incedere. Anche di tale tipo di crisi la storia ci offre esempi notevoli: la caduta dell’impero romano; la transizione dal feudalesimo alla modernità; il crollo del muro di Berlino e dell’impero sovietico. Perché è importante tale distinzione? Perché sono diverse le strategie di uscita dai due tipi di crisi. Non si esce da una crisi entropica con aggiustamenti di natura tecnica o con provvedimenti solo legislativi e regolamentari –  pure necessari  –, ma affrontando di petto, risolvendola, la questione del senso. Ecco perché sono indispensabili a tale scopo minoranze profetiche che sappiano indicare alla società la nuova direzione verso cui muoversi mediante un supplemento di pensiero e soprattutto la

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testimonianza delle opere. Così è stato quando san Benedetto, lanciando il suo celebre ora et labora, inaugurò la nuova era, quella delle cattedrali. Ebbene, la grande crisi economico-finanziaria tuttora in atto è di tipo basicamente entropico. E dunque non è corretto assimilare – se non per gli aspetti meramente quantitativi – la presente crisi a quella del 1929 che fu, piuttosto, di natura dialettica. Quest’ultima, infatti, fu dovuta ad errori umani commessi, soprattutto dalle autorità di controllo delle transazioni economiche e finanziarie, conseguenti ad un preciso deficit di conoscenza circa i modi di funzionamento del mercato capitalistico. Tanto che ci volle il “genio” di J.M. Keynes per provvedere alla bisogna. Si pensi al ruolo del pensiero keynesiano nell’articolazione del New Deal di Roosevelt. Nella crisi attuale è certamente vero che ci sono stati errori umani – anche gravi –, ma questi sono stati la conseguenza non tanto di un deficit conoscitivo, quanto piuttosto della crisi di senso che ha investito la società dell’occidente dall’inizio di quell’evento di portata epocale che è la globalizzazione. Sorge spontanea la domanda: in cosa si è maggiormente manifestata questa crisi di senso? La risposta è immediata: in una triplice separazionedicotomia. E precisamente, la separazione tra la sfera dell’economico e la sfera del sociale; il lavoro

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separato dalla creazione della ricchezza; il mercato separato della democrazia. Vedo di chiarire, seppure in breve, cominciando dalla prima. Una delle tante eredità, non certo positive, che la modernità ci ha lasciato è il convincimento in base al quale titolo di accesso al “club dell’economia” è l’essere cercatori di profitto; quanto a dire che non si è propriamente imprenditori se non si cerca di perseguire esclusivamente la massimizzazione del profitto. In caso contrario, ci si deve rassegnare a far parte dell’ambito del sociale, dove appunto operano le imprese sociali, le cooperative sociali, le fondazioni di vario tipo, ecc. Questa assurda concettualizzazione – a sua volta figlia dell’errore teorico che porta a confondere l’economia di mercato, che è il genus, con una sua particolare species e cioè il sistema capitalistico – ha finito con l’identificare l’economia con il luogo della produzione della ricchezza (un luogo il cui principio regolativo è l’efficienza) e a pensare il sociale come il luogo della redistribuzione dove la solidarietà e/o la compassione (pubblica o privata che sia), sono i canoni fondamentali. Si sono viste e stiamo vedendo le conseguenze di tale separazione. Negli ultimi trent’anni, come il celebre storico-economico Angus Maddison ha mostrato, gli indicatori della diseguaglianza sociale, interstatale e intrastatale, hanno registrato aumenti semplicemente scandalosi, an-

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che in quei paesi dove il welfare state ha giocato un ruolo importante in termini di risorse amministrate. Eppure, schiere di economisti e di filosofi della politica hanno creduto per lungo tempo che la proposta kantiana, «facciamo la torta più grande e poi ripartiamola con giustizia», fosse la soluzione del problema dell’equità. Non si può non ricordare, a tale proposito, la potenza espressiva dell’aforisma lanciato dal pensiero economico neo-conservatore secondo cui «una marea che sale solleva tutte le barche», da cui la celebre tesi dell’effetto di sgocciolamento (trickle-down effect): la ricchezza, a mo’ di pioggia benefica irrora prima o poi tutti, anche i più poveri. La recente lettera enciclica Caritas in Veritate di papa Benedetto XVI indica a tutto tondo che la via d’uscita dal problema qui sollevato è nel ricomporre ciò che è stato artatamente separato. Prendendo posizione a favore di quella concezione del mercato – tipica dell’economia civile – secondo cui il legame sociale non può venire ridotto al solo “cash nexus”, l’enciclica suggerisce che si può vivere l’esperienza della socialità umana all’interno di una normale vita economica e non già al di fuori di essa come vorrebbe il modello dicotomico di ordine sociale. La sfida da raccogliere è allora quella della seconda navigazione nel senso di Platone: né vedere l’economia in endemico e ontologico

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conflitto con la vita buona, perché vista come luogo dello sfruttamento e dell’alienazione, né concepirla come il luogo in cui possono trovare soluzione tutti i problemi della società, come ritiene il pensiero anarco-liberista. Che dire del secondo episodio di separazione? Per secoli l’umanità si è attenuta all’idea che all’origine della creazione di ricchezza c’è il lavoro umano – dell’un tipo o dell’altro non fa differenza. Tanto che Adam Smith apre la sua opera fondamentale, La Ricchezza delle Nazioni (1776) proprio con tale considerazione, e cioè che la ricchezza nazionale annuale è data dal “fondo” di lavoro umano che quella nazione genera. Quale la novità che la finanziarizzazione dell’economia, iniziata circa un trentennio fa, ha finito col determinare? L’idea secondo cui sarebbe la finanza speculativa a creare ricchezza, molto di più e assai più in fretta dell’attività lavorativa. Le conseguenze di tale pseudo rivoluzione culturale sono sotto gli occhi di tutti (si pensi al maldestro tentativo di sostituire alla figura del lavoratore quella del cittadino-consumatore come categoria centrale dell’ordine sociale). Oggi, ad esempio, non disponiamo di un’idea condivisa di lavoro che ci consenta di capire le trasformazioni in atto. Sappiamo che a partire dalla Rivoluzione Commerciale dell’XI secolo si afferma gradualmente l’idea del la-

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voro artigianale, che realizza l’unità tra attività e conoscenza, tra processo produttivo e mestiere  –  termine quest’ultimo che rinvia a maestria. Con l’avvento della rivoluzione industriale prima e del fordismo-taylorismo poi, avanza l’idea della mansione (segno di attività parcellizzate), non più del mestiere, e con essa la centralità della libertà dal lavoro, come emancipazione dal “regno della necessità”. E oggi, che siamo entrati nella società postfordista, che idea abbiamo del lavoro? La civiltà occidentale poggia su una idea forte, l’idea della “vita buona”, da cui il diritto-dovere per ciascuno di progettare la propria vita in vista di una civile felicità. Ma da dove partire per conseguire un tale obiettivo se non dal lavoro inteso quale luogo di una buona esistenza? La fioritura umana –  cioè l’eudaimonia nel senso di Aristotele – non va cercata dopo il lavoro, come accadeva ieri, perché l’essere umano incontra la sua umanità mentre lavora. Di qui l’urgenza di iniziare ad elaborare il concetto di eudaimonia lavorativa che per un verso vada oltre l’ipertrofia lavorativa tipica dei tempi nostri (il lavoro che riempie un vuoto antropologico crescente), e per l’altro verso valga a declinare l’idea di libertà del lavoro (la libertà di scegliere quelle attività che sono in grado di arricchire la mente e il cuore di coloro che sono impegnati nel processo lavorativo). Senza con ciò arrivare a sostenere la ve-

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ra e propria patologia che nasce da un travisamento di una tale visione, quello che porta a far saltare il confine tra il lavoro e il resto dell’esistenza. Il principio di fraternità applicato alla sfera lavorativa afferma da una parte che l’attività lavorativa è pienamente in sé attività umana, etica e spirituale; dall’altra, però, ricorda che il momento del lavoro ha il suo confine e il suo limite, per aprirsi ad altre dimensioni co-essenziali della vita, come la festa, che non possono e non debbono essere incorporate all’interno dell’esperienza lavorativa.   Chiaramente, l’accoglimento del paradigma eudaimonico implica che i fini dell’impresa – quali che ne sia la forma giuridica – sono irriducibili al solo profitto, pur non escludendolo. Implica, dunque, che possano nascere e svilupparsi imprese a vocazione civile in grado di superare la propria autoreferenzialità, dilatando così lo spazio della possibilità effettiva di scelta lavorativa da parte delle persone. Non si dimentichi, infatti, che scegliere l’opzione migliore tra quelle di un “cattivo” insieme di scelta non significa affatto che un individuo si meriti ciò che ha scelto. La libertà di scelta fonda il consenso solamente se chi sceglie è posto nella condizione di concorrere alla definizione dell’insieme di scelta stesso. Aver dimenticato il fatto che non è sostenibile una società di umani in cui tutto si riduce, per un verso, a migliorare le

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transazioni basate sul principio dello scambio di equivalenti e, per l’altro verso, ad agire su trasferimenti di tipo assistenzialistico di natura pubblica, ci dà conto del perché sia così difficile passare dall’idea del lavoro come attività a quella del lavoro come opera. Infine, della terza separazione che riguarda la crisi attuale si può dire questo: da sempre la teoria economica sostiene che il successo e il progresso di una società dipendono crucialmente dalla sua capacità di mobilizzare e gestire la conoscenza che esiste, dispersa, tra tutti coloro che ne fanno parte. Infatti, il merito principale del mercato, inteso come istituzione socio-economica, è proprio quello di fornire una soluzione ottimale al problema della conoscenza. Come già Friedrich von Hayek ebbe a chiarire nel suo celebre (e celebrato) saggio del 1937, al fine di incanalare in modo efficace la conoscenza locale, quella cioè di cui sono portatori i cittadini di una società, è necessario un meccanismo decentralizzato di coordinamento, e il sistema dei prezzi cui il mercato basicamente consta è esattamente quel che serve alla bisogna. Questo modo di vedere le cose, assai comune tra gli economisti, tende tuttavia ad oscurare un elemento di centrale rilevanza. Invero, il funzionamento del meccanismo dei prezzi come strumento di coordinamento presuppone che i soggetti economici condividano e per-

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ciò comprendano la “lingua” del mercato. Valga un’analogia: pedoni e automobilisti si fermano di fronte al semaforo che segna il rosso perché condividono il medesimo significato della luce rossa. Se quest’ultima evocasse, per alcuni, l’adesione ad una particolare posizione politica e, per altri, un segnale di pericolo è evidente che nessun coordinamento sarebbe possibile, con le conseguenze che è facile immaginare. L’esempio suggerisce che non uno, ma due, sono i tipi di conoscenza di cui il mercato ha bisogno per assolvere al compito principale di cui sopra si è detto. Il primo tipo è la conoscenza individuale depositata in ciascun individuo ed è quello che – come bene chiarito dallo stesso F. von Hayek – può essere gestito dai normali meccanismi del mercato. Il secondo tipo di conoscenza, invece, è quella istituzionale e ha a che vedere con la lingua comune che consente ad una pluralità di individui di condividere i significati delle categorie di discorso che vengono utilizzate e di intendersi reciprocamente quando vengono in contatto. È un fatto che in qualsiasi società coesistano molti linguaggi diversi, e il linguaggio del mercato è solamente uno di questi. Se questo fosse l’unico, non ci sarebbero problemi: per mobilizzare in modo efficiente la conoscenza locale di tipo individuale basterebbero gli usuali strumenti di mercato. Ma così non è, per la semplice ragione che le so-

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cietà contemporanee sono contesti multi-culturali nei quali la conoscenza di tipo individuale deve viaggiare attraverso confini linguistici ed è questo che pone difficoltà formidabili. Un certo pensiero economico ha potuto prescindere da tale difficoltà assumendo, implicitamente, che il problema della conoscenza di tipo istituzionale di fatto non esistesse, ad esempio perché tutti i membri della società condividono il medesimo sistema di valori e accettano gli stessi principi di organizzazione sociale. Ma quando così non è, come la realtà ci obbliga a prendere atto, si ha che per governare una società “multi-linguistica” è necessaria un’altra istituzione, diversa dal mercato, che faccia emergere quella lingua di contatto capace di far dialogare i membri appartenenti a diverse comunità linguistiche. Ebbene, questa istituzione è la democrazia. Questo ci aiuta a comprendere perché il problema della gestione della conoscenza nelle nostre società di oggi, e quindi in definitiva il problema dello sviluppo, postuli che due istituzioni – la democrazia e il mercato – siano poste nella condizione di operare congiuntamente, fianco a fianco. Invece, la separazione tra mercato e democrazia che si è andata consumando nel corso dell’ultimo quarto di secolo, sull’onda dell’esaltazione di un certo relativismo culturale e di una esasperata mentalità individualistica, ha fatto credere –  anche a

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studiosi avvertiti  – che fosse possibile espandere l’area del mercato senza preoccuparsi di fare i conti con l’intensificazione della democrazia. Due le principali implicazioni che ne sono derivate. Primo, l’idea perniciosa secondo cui il mercato sarebbe una zona moralmente neutra che non avrebbe bisogno di sottoporsi ad alcun giudizio etico perché già conterrebbe nel proprio nucleo duro (hard core) quei principi morali che sono sufficienti alla propria legittimazione sociale. Al contrario, il mercato, non essendo in grado di autofondarsi, per venire in esistenza, presuppone che già sia stata elaborata la “lingua di contatto”. E tale considerazione basterebbe a sconfiggere da sola ogni pretesa di autoreferenzialità. Secondo, se la democrazia, che è un bene fragile, va soggetta a lento degrado, può accadere che il mercato sia impedito di raccogliere e gestire in modo efficiente la conoscenza, e quindi può accadere che la società cessi di progredire, senza che ciò avvenga per un qualche difetto dei meccanismi del mercato, bensì per un deficit di democrazia. Ebbene, la crisi economico-finanziaria in corso – una crisi di natura appunto entropica e non dialettica – è la migliore e più cocente conferma empirica di tale proposizione. Se le preposizioni del mercato sono senza-contro-sopra (senza gli altri; contro gli altri; sopra gli altri), quelle della democrazia sono con-per-in (con gli altri; per gli altri; negli altri). In

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definitiva, abbiamo bisogno di ricongiungere mercato e democrazia per scongiurare il duplice pericolo dell’individualismo e dello statalismo centralistico. Si ha individualismo quando ogni membro della società vuol essere il tutto; si ha centralismo quando a voler essere il tutto è un singolo componente. Nell’un caso si esalta a tal punto la diversità da far morire l’unità del consorzio umano; nell’altro caso, per affermare l’uniformità si sacrifica la diversità. Comprendiamo ora perché il principio di fraternità, vero e proprio asse portante dell’EdC, rivesta un ruolo così centrale per il progresso morale e civile della società. Una conclusione Due sono i paradigmi di razionalità utilizzati nelle scienze sociali e in economia in particolare. Il senso del primo paradigma è bene reso dalla celebre storia-metafora di Ulisse e le sirene. Ulisse desidera ardentemente ascoltare il suono delle sirene; ma sa anche che ciò lo porterebbe alla morte. Adotta allora la strategia che ben sappiamo: si fa legare al palo della nave per non cadere vittima della conseguenza perversa che il canto delle sirene comporta. Quanto a dire che per ascoltare quel canto, e quindi per ricavarne un vantaggio, Ulisse

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deve rinunciare, sia pure per breve tempo, alla sua libertà. Infatti, quando si è legati al palo non si può certo dire di essere liberi. Quella di Ulisse è dunque una razionalità di tipo strumentale, perché aiuta a trovare il mezzo più efficace per conseguire un fine, che è dato. L’altro paradigma è quello che posso elucidare con la metafora della storia di Orfeo. Giasone, quando con i suoi argonauti prende la decisione di andare alla ricerca del vello d’oro, si pone il problema se imbarcare o meno Orfeo, a tutti noto per la sua straordinaria bravura nel canto e nel suono della lira. Non poche sono le difficoltà che Giasone deve affrontare per convincere della decisione i suoi argonauti, che non riescono a comprendere quale mai potesse essere il contributo di Orfeo ai fini della missione. Ma Giasone, che è persona saggia, riesce a vincere la resistenza dei suoi compagni e lo imbarca. Quando la nave arriva in prossimità dell’isola delle sirene, Orfeo comincia a cantare accompagnandosi con la sua lira e accade che il canto di Orfeo, unendosi a quello delle sirene, annulli l’effetto devastante di queste ultime. Gli argonauti riescono così a godere del canto delle sirene senza dover rinunciare, neppure temporaneamente, alla loro libertà di movimento. In entrambi i casi si deve parlare di comportamento razionale. Ma la differenza sta in ciò che

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mentre la strategia di Orfeo tende ad unire razionalità e ragionevolezza, la strategia di Ulisse chiama in causa la sola razionalità strumentale. Orfeo riesce così a far stare insieme libertà ed efficienza – nel presente contesto, efficienza significa massimizzazione dell’utilità – non così invece Ulisse che si limita alla sola efficienza. Ebbene, la stagione della modernità e in particolare il periodo che corrisponde alla piena affermazione della società industriale sono stati caratterizzati dalla dominanza del paradigma della razionalità nel senso di Ulisse, la cosiddetta razionalità mezzi-fini. La razionalità di Orfeo, tuttavia, è più potente di quella di Ulisse perché riesce a rendere compatibili fini diversi, tutti dotati di valore. E ci riesce perché non separa la testa e il cuore. L’approccio di Orfeo, infatti, è di tipo relazionale. Ebbene, una delle sfide più serie che la società post-industriale si trova oggi a dover affrontare è come incorporare, nell’organizzazione della vita economica, e più in generale nella infrastrutturazione dell’ordine sociale, un modello di razionalità come quello di Orfeo. A me sembra che l’idea di razionalità che è alla base del modello dell’EdC sia proprio questa. Ovviamente non sempre la si raggiunge, ma questa, se interpreto bene, fu l’intuizione geniale di Chiara. Quella di dire, anche agli uomini d’affari, a chi opera secondo le regole del mercato, che il problema

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non è quello della razionalità, dal momento che si deve essere razionali per fare profitto, e dunque che non c’è nulla di male nell’ascolto del canto delle sirene. Il punto è un altro, e cioè che si può fare profitto alla maniera di Ulisse (legando se stessi al palo, cercando di fare tutto da soli), o alla maniera di Orfeo, cioè a dire suonando, entrando così in relazione con l’altro. La seconda osservazione riguarda il particolare modo in cui il Movimento dei Focolari interpreta il nesso tra società civile, società politica e comunità cristiana. E ciò non sulla base di un principio a priori, ma a partire dai problemi reali che intrigano gli uomini di oggi. Né poteva essere diversamente stante la scelta da parte di Chiara di una precisa opzione teologica, quella di chi vede l’umano e il temporale come via, e non già come ostacolo, per la salvezza. Un’opzione questa antica – ma non unica entro il Cristianesimo  – che risale ai Padri della Chiesa che erano giunti a chiamare l’Incarnazione un Sacrum commercium per sottolineare sia il rapporto di reciprocità tra l’umano e il divino, sia per ricordare che il Dio cristiano è un Dio di uomini che vivono nella storia e che, pertanto, si interessa, anzi si commuove, per la loro condizione umana. Non va poi dimenticato che il paradigma di reciprocità (sebbene asimmetrica) tra gli uomini e Dio, che è al cuore della logica dell’incarnazione, è dive-

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nuto, come ci ha mostrato lo storico Giacomo Todeschini, anche la matrice culturale sulla quale, all’interno del Movimento monacale, si sviluppò il primo lessico economico (il “prezzo” della salvezza; Gesù “divin mercante”, ecc.). Quello del Movimento dei Focolari è allora un contributo positivo che prefigura una via pervia di uscita dal dilemma tipico delle nostre società: come giungere al disegno di un modello di governance sociale capace di far stare assieme libertà, giustizia (uguaglianza) e fraternità. A differenza della disperante conclusione di Kafka, secondo cui «esiste un punto di arrivo, ma nessuna via», per i Focolarini la via c’è ed è quella di portare nell’agorà della polis, in aggiunta ai temi della verità e della libertà, anche quello della carità-agape, cioè della fraternità-gratuità. Al cristiano, infatti, non può bastare un orizzonte politico che contenga i soli valori della libertà e della giustizia. In più, il cristiano non può rinunziare a tendere verso la società fraterna, mostrando che il principio di fraternità è capace di ispirare scelte concrete sul piano sia politico sia economico. Invero, una politica democratica, ma non fraterna; una società civile pluralista e vivace, ma non fraterna; un’economia efficiente ma non fraterna, non soddisferebbero il nostro bisogno di felicità, che – come già ricordava Aristotele – è lo scopo del vivere.

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I valori rappresentati dal “trittico della modernità” (libertà, uguaglianza, fraternità) sono stati e sono capaci di produrre anche felicità – sia essa felicità pubblica, nella versione dell’illuminismo latino e cattolico, sia essa felicità privata, nella versione anglosassone della ricerca individuale della felicità (il pursuit of happiness della dichiarazione di indipendenza degli Stati Uniti d’America, del 1776, lo stesso anno, e forse non a caso, della pubblicazione della Wealth of Nations di Adam Smith)  – solo quando non lasciano lungo il cammino della storia uno dei tre principi. Quando lo ha fatto ha prodotto malattie gravi, come quella che si sta producendo oggi emarginando la fraternità dalla sfera pubblica, creando anomia e tristezza come malattie endemiche di massa. Ecco perché l’EdC ha un messaggio di civiltà da rivolgere, qui ed ora, all’economia e alla cultura nell’era della globalizzazione.

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Dono gratuito e vita economica

Introduzione In questa nota mi occupo di portare ragioni a sostegno di un duplice argomento. Per un verso, spiegare cosa comporta l’ingresso nel discorso economico della categoria del dono come gratuità – si badi, non del dono come regalo. Per l’altro verso, indicare perché mai, in tempi recenti si è andata sempre più diffondendo la percezione dell’urgenza di diffondere, entro la sfera economica, pratiche concrete di reciprocità. Il quadro teorico entro il quale le considerazioni che seguono vanno collocate è quello dell’economia civile – una tradizione di pensiero tipicamente italiana che, dopo un paio di secoli di benign neglect, sta oggi riemergendo, al modo di fiume carsico, nel dibattito sia culturale sia politico 1.

1 Cf. L. Bruni - S. Zamagni, Economia Civile, il Mulino, Bologna 2004.

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L’idea di fondo dell’economia civile può essere agevolmente resa ricorrendo ad una variante del ben noto “paradosso di Bockenforde”: l’economia di mercato vive di presupposti – fiducia, simpatia, reciprocità – che essa stessa non è in grado di darsi. Il mercato, infatti, per funzionare deve consumare dosi consistenti di questi presupposti, ma non è in grado di produrseli da solo. Deve allora importarli da altri ambiti della vita associata, da quegli ambiti dove il dono come gratuità è non solamente apprezzato, ma favorito ed aiutato ad espandersi. Per troppo tempo gli economisti hanno ritenuto che l’unica matrice etica che la scienza economica potesse “sopportare” fosse quella dell’utilitarismo di Jeremy Bentham. Ma non è così, come una crescente evidenza empirica è in grado di mostrare. Si tratta allora di persuadere studiosi e agenti dell’economia che l’etica delle virtù è una matrice assai più robusta per dare alla scienza economica quelle ali di cui ha bisogno per tornare ad essere la “scienza della felicità pubblica”, come fino al XVIII secolo veniva chiamata. Gratuità ed economia Cosa comporta, a livello pratico, l’accoglimento della prospettiva della gratuità entro l’agire eco-

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nomico? Di due conseguenze, tra le tante, desidero qui dire in breve. La prima concerne il modo di guardare alla relazione tra crescita economica e programmi di welfare. Vien prima la crescita economica o il welfare? Per dirla in altro modo, la spesa per il welfare va considerata consumo sociale oppure investimento sociale? Come quasi sempre accade in economia, l’evidenza empirica non è in grado di sciogliere nodi del genere. La tesi che difendo è che, nelle condizioni storiche attuali, la posizione di chi vede il welfare come fattore di sviluppo economico è assai più credibile e giustificabile della posizione contraria. Come si sa, lo Stato sociale nella seconda metà del Novecento ha rappresentato un’istituzione volta al perseguimento di due obiettivi principali: per un verso, ridurre la povertà e l’esclusione sociale, ridistribuendo, per mezzo della tassazione, reddito e ricchezza (la cosiddetta funzione di “Robin Hood”) e, per l’altro verso, offrire servizi assicurativi, favorendo un’allocazione efficiente delle risorse nel corso del tempo (funzione di “salvadanaio”). Lo strumento escogitato per la bisogna è stato, basicamente, il seguente: i governi usino il dividendo della crescita economica per migliorare la posizione relativa di chi sta peggio, senza peggiorare la posizione assoluta di chi sta meglio. Senonché tutto un insieme di circostanze – la globalizzazione e la ter-

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za rivoluzione industriale – ha causato, nei paesi dell’Occidente avanzato a partire dagli anni ’80, un rallentamento della crescita potenziale. Ciò ha finito con il dare fiato, nel corso dell’ultimo decennio, al convincimento per cui i meccanismi redistributivi della tassazione e delle assicurazioni sociali sono la causa del rallentamento della crescita potenziale e, di conseguenza, sono responsabili di generare una scarsità di risorse per l’azione sociale dei governi. I risultati di questo modo di guardare al welfare sono sotto gli occhi di tutti. Non solamente il vecchio welfare state si dimostra oggi incapace di affrontare le nuove povertà; esso è del pari impotente nei confronti delle disuguaglianze sociali, in continuo aumento in Europa. Ad esempio, nell’ultimo quarto di secolo, in Italia la quota dei profitti sul PIL è passata dal 23 al 30 per cento, mentre quella che va al lavoro è scesa dal 77 al 70 per cento. Come ci rivela l’ultima indagine CENSIS, l’Italia è ormai diventata un paese caratterizzato da una “mobilità a scartamento ridotto”: le persone collocate ai livelli bassi della scala sociale hanno oggi maggiori difficoltà di un tempo a portarsi sui livelli più alti. È questo un segno eloquente della presenza di vere e proprie trappole della povertà: chi vi cade non riesce più ad uscirne. Oggi, la persona inefficiente è tagliata fuori dalla cittadinanza, perché nessuno ne riconosce la proporzionalità di risorse. Quanto a dire che la

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persona inefficiente (o meno efficiente della media) non ha titolo per partecipare al processo produttivo; ne resta inesorabilmente emarginata perché il lavoro decente è solo per gli efficienti. Per gli altri vi è il lavoro indecente oppure la pubblica compassione. Come procedere allora nel disegno di un nuovo welfare? Il primo passo è quello di superare le ormai obsolete nozioni sia di uguaglianza dei risultati (caro all’impostazione socialdemocratica) sia di uguaglianza delle posizioni di partenza (l’approccio favorito dalle correnti di pensiero liberali). Piuttosto si tratta di declinare la nozione di eguaglianza delle capacità (nel senso di Amartya Sen) mediante interventi che cerchino di dare risorse (monetarie e non) alle persone perché queste migliorino la propria posizione di vita. L’approccio seniano al benessere suggerisce di spostare il fuoco dell’attenzione dai beni e servizi che si intende porre a disposizione del portatore di bisogni alla effettiva capacità di questi di funzionare grazie alla loro fruizione. È per questo che il nuovo welfare deve superare la distorsione autoreferenziale del vecchio welfare. Se le prestazioni sanitarie, assistenziali, educative, ecc., per quanto di qualità sotto il profilo tecnico, non accrescono le possibilità di funzionamento per coloro ai quali sono rivolte, esse si rivelano inefficaci, e anche dannose, perché non aiutano di certo il processo di

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sviluppo. In buona sostanza, occorre procedere in fretta a superare l’errato convincimento in base al quale i diritti soggettivi naturali (alla vita, alla libertà, alla proprietà) e i diritti sociali di cittadinanza (quelli cui guarda il welfare) siano tra loro incompatibili e che per difendere i secondi sia necessario sacrificare o limitare i primi. Come ben sappiamo, tale convincimento è stato all’origine in Europa di dispute ideologiche oziose e di sprechi non marginali di risorse produttive. Di un secondo passo, conviene dire. Il nuovo welfare deve essere sussidiario, deve cioè dirigere le risorse pubbliche ottenute principalmente dalla tassazione generale per finanziare non già – come oggi avviene – i soggetti di offerta dei servizi di welfare, ma i soggetti di domanda degli stessi. Ciò in quanto, il finanziamento diretto da parte dello Stato delle agenzie di welfare altera la natura dei loro servizi e fa lievitare i loro costi. Non solo, ma finanziare i portatori di bisogni aumenta la loro responsabilità e mobilita il protagonismo della società civile organizzata. Non si dimentichi, infatti, che il finanziamento diretto dell’offerta tende a snaturare l’identità dei soggetti della società civile, i quali vengono obbligati a seguire procedure di tipo burocratico-amministrativo che tendono ad annullare le specificità proprie di ciascun soggetto, quelle da cui dipende la creazione di capitale sociale.

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La conclusione che traggo è che le ragioni a supporto della tesi dell’esistenza di un trade-off tra protezione sociale e crescita economica sono assai meno plausibili di quelle che militano a favore della tesi opposta. Non è affatto vero che il rafforzamento degli istituti di tutela sociale implichi la condanna ad una crescita più bassa, a lungo termine insostenibile. È vero, invece, che un welfare post-hobbesiano, centrato principalmente su politiche di promozione delle capacità delle persone, costituisce nella attuale fase post-fordista, caratterizzata dall’emergenza di nuovi rischi sociali, l’antidoto più efficace contro possibili tentazioni antidemocratiche e quindi il fattore decisivo di sviluppo economico. Il principio di reciprocità La seconda conseguenza che discende dal riconoscere al principio di gratuità un posto di primo piano nella vita economica ha a che vedere con la diffusione della cultura e della prassi della reciprocità. Assieme alla democrazia, la reciprocità è valore fondativo di una società. Anzi, si potrebbe anche sostenere che è dalla reciprocità che la regola democratica trae il suo senso ultimo. Per difendere una tesi del genere è necessario comprendere

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bene in cosa esattamente consiste il principio di reciprocità. Il modo più spedito per farlo è quello di porre a confronto il principio dello scambio di equivalenti (di valore) con quello di reciprocità. Il primo statuisce che qualunque cosa un soggetto A faccia o dia a B, con il quale ha liberamente deciso di entrare in rapporto di scambio, deve essere controbilanciato dalla corresponsione da parte di B di qualcosa di egual valore. Questo qualcosa, nelle nostre economie di mercato, si chiama “prezzo”. Due le qualificazioni cui va soggetto il principio in questione. Primo, la determinazione del prezzo di mercato precede, in senso logico, i trasferimenti tra A e B (se A vuol vendere la sua casa a B, costoro devono prima accordarsi sul prezzo e solo dopo potrà realizzarsi il trasferimento del diritto di proprietà). Secondo, il trasferimento da B ad A non è libero, ma dipende da quello da A e B. Tanto che se B si rifiutasse di adempiere, verrebbe a ciò costretto dalla forza della legge. Quanto a dire che nello scambio di equivalenti c’è libertà ex-ante, dal momento che le parti non sono costrette a negoziare, ma non c’è libertà ex-post. Nella relazione di reciprocità, invece, le due qualificazioni di cui sopra sono entrambe assenti: A si muove liberamente verso B per aiutarlo in qualche modo e forma sulla base dell’aspettativa che B farà altrettanto, in un tempo successivo, nei

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suoi confronti o, meglio ancora, nei confronti di C. Nella reciprocità, non solo non v’è accordo previo sul prezzo, ma neppure c’è un’obbligazione a carico di B di reciprocare. A formula solamente un’aspettativa e se questa andrà delusa ciò che potrà accadere è che A interrompa (o modifichi) il rapporto con B. Ecco perché quella di reciprocità è una relazione intersoggettiva fragile: l’iniziatore della relazione corre sempre il rischio di trovarsi di fronte ad un opportunista che riceve e basta. Il che significa che la reciprocità va protetta. Due altre sono le differenze tra i principi in questione. Per un verso, il valore di quanto B darà (o farà) ad A oppure a C non necessariamente deve essere equivalente a quello che A dà a B. La reciprocità, infatti, postula la proporzionalità e non l’equivalenza, come già Aristotele aveva ben compreso: ognuno dà in proporzione alle sue effettive capacità. Per l’altro verso, mentre il primum movens dello scambio di equivalenti è il perseguimento di un interesse (certamente legittimo), la reciprocità inizia sempre da un atto di gratuità: A va verso B con l’atteggiamento di chi vuol fare un dono, non di chi vuol stringere un affare. In quali “luoghi” la reciprocità è di casa, viene cioè praticata ed alimentata? La famiglia è il primo di tali luoghi: si pensi ai rapporti tra genitori e figli e tra fratelli e sorelle. Poi c’è la cooperativa, l’im-

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presa sociale e le varie forme di associazioni. Non è forse vero che i rapporti tra i componenti di una famiglia o tra soci di una cooperativa sono rapporti di reciprocità? Oggi sappiamo che il progresso civile ed economico di un paese dipende basicamente da quanto diffuse tra i suoi cittadini sono le pratiche di reciprocità. Senza il mutuo riconoscimento di una comune appartenenza non c’è efficienza o accumulazione di capitale che tenga. C’è oggi un immenso bisogno di cooperazione: ecco perché si devono espandere le forme della gratuità e rafforzare quelle che già esistono. Le società che estirpano dal proprio terreno le radici dell’albero della reciprocità sono destinate al declino, come la storia da tempo ci ha insegnato. Un messaggio della Caritas in Veritate L’enciclica Caritas in Veritate (CV), pubblicata nel 2009, che ora è offerta alla meditazione di quanti, credenti e non credenti, sono coerentemente interessati allo sviluppo umano integrale, è un bell’esempio di genere letterario che sa muoversi, in modo fecondamente anfibio, tra tutti quei saperi che si occupano dell’agire umano nella pluralità delle sue forme. Tra le tante questioni aperte che la modernità ci ha lasciato in eredità v’è quella che

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riguarda il dissidio irrisolto tra quelle linee di pensiero che, per portare alla luce importanti dinamiche delle nostre società, hanno finito col dissolvere la soggettività nel collettivo (si pensi al neo-marxismo o al neo-strutturalismo) e quelle linee di pensiero che hanno bensì esaltato la soggettività, ma al prezzo di ridurre il sociale a mera aggregazione di preferenze individuali (è questo l’esito cui giunge l’individualismo nelle sue versioni estreme perché confonde la socialità, che è anche degli animali, con la socievolezza, che invece è tipica degli uomini). Il pregio della CV è quello di operare una saldatura fra queste due polarità. In che modo? Ponendo al centro del sapere pratico il principio del dono come gratuità, Benedetto XVI mostra, convincentemente, come, nelle condizioni storiche di oggi, sia falso vedere i termini che descrivono le coppie indipendenza-appartenenza, libertà-giustizia, efficienza-equità, autointeresse-solidarietà, come alternativi. È falso cioè pensare che ogni rafforzamento del senso di appartenenza debba essere visto come una riduzione dell’indipendenza della persona; ogni avanzamento sul fronte dell’efficienza come una minaccia all’equità; ogni miglioramento dell’interesse individuale come un affievolimento della solidarietà. Che non si tratti di un’operazione culturale scontata o di poco conto ci è rivelato dalla circostanza che la pratica della gratuità è oggi sotto

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attacco da un duplice fronte, quello dei neoliberisti e quello dei neostatalisti, sebbene con intenti affatto diversi. I primi, i neoliberisti, si appellano all’estensione massima possibile delle pratiche del dono come regalo per portare acqua al mulino del “conservatorismo compassionevole”, al fine di assicurare quei livelli minimi di servizi sociali ai segmenti deboli della popolazione che lo smantellamento del welfare state, da essi invocato, lascerebbe altrimenti senza copertura alcuna. Ma che non sia questo il senso dell’agire donativo, ci viene dalla considerazione che l’attenzione ai portatori di bisogni non è oggettuale, ma personale; l’umiliazione di essere considerati “oggetti” sia pure di filantropia o di attenzione compassionevole è il limite grave della concezione neo-liberista. Basicamente non diverso è l’attacco che viene dalla concezione neostatalista. Presupponendo una forte solidarietà da parte dei cittadini per la realizzazione dei cosiddetti diritti di cittadinanza, lo Stato rende obbligatori certi comportamenti. In tal modo, però, esso spiazza il principio di gratuità, negando in pratica, a livello di discorso pubblico, ogni spazio a principi che siano diversi da quello di solidarietà. Ma una società che elogia a parole l’azione gratuita e poi non ne riconosce il valore nei luoghi più disparati del bisogno, entra, prima o poi, in contraddizione con se stessa. Se si ammette che il

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dono svolge una funzione profetica o – come è stato detto – porta con sé una “benedizione nascosta” e poi non si consente che questa funzione diventi manifesta nella sfera pubblica, perché a tutto e a tutti pensa lo Stato, è chiaro che quella virtù civile per eccellenza che è lo spirito del dono non potrà che registrare una lenta atrofia 2. L’assistenza per via esclusivamente statuale tende a produrre soggetti bensì assistiti ma non rispettati, perché essa non riesce ad evitare la trappola della “dipendenza riprodotta”. È veramente singolare che non si riesca a comprendere come la posizione neostatalista sia vicina a quella neoliberista per quanto attiene l’identificazione dello spazio entro il quale collocare la gratuità. Entrambe le matrici di pensiero, infatti, relegano la gratuità nella sfera privata, espellendola da quella pubblica: la matrice neoliberista perché ritiene che al fine del benessere bastino i contratti, gli incentivi e ben definite (e fatte rispettare) regole del gioco; l’altra matrice, invece, perché sostiene che per realizzare nella pratica la solidarietà basti lo Stato sociale, il quale può bensì appellarsi alla giustizia, ma non certo alla gratuità. La sfida che la CV ci invita a raccogliere è quella di battersi per restituire il principio di gratuità alla sfera pubblica. Il dono auten2 Cf. S. Zamagni, Slegare il Terzo Settore, in S. Zamagni (ed.), Libro Bianco sul Terzo Settore, il Mulino, Bologna 2011.

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tico, affermando il primato della relazione sul suo esonero, del legame intersoggettivo sul bene donato, dell’identità personale sull’utile, deve poter trovare spazio di espressione ovunque, in qualunque ambito dell’agire umano, ivi compresa l’economia. Anzi, soprattutto in economia, dove è massimamente urgente creare e difendere luoghi in cui la gratuità viene testimoniata, cioè agita. Ancora sulla fraternità La parola chiave che oggi meglio di ogni altra esprime questa esigenza è quella di fraternità (cf. il cap. III della CV), parola già presente nella bandiera della Rivoluzione Francese (cf. capitolo precedente), ma che l’ordine post-rivoluzionario ha poi abbandonato – per le note ragioni – fino alla sua cancellazione dal lessico politico-economico. È stata la scuola di pensiero francescana a dare a questo termine il significato che esso ha conservato nel corso del tempo: che è quello di costituire, ad un tempo, il complemento e il superamento del principio di solidarietà. Infatti, mentre la solidarietà è il principio di organizzazione sociale che consente ai diseguali di diventare eguali, il principio di fraternità è quel principio di organizzazione sociale che consente agli eguali di essere diversi. La

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fraternità consente a persone che sono eguali nella loro dignità e nei loro diritti fondamentali di esprimere diversamente il loro piano di vita, o il loro carisma. Le stagioni che abbiamo lasciato alle spalle, l’800 e soprattutto il ’900, sono state caratterizzate da grosse battaglie, sia culturali sia politiche, in nome della solidarietà e questa è stata cosa buona; si pensi alla storia del movimento sindacale e alla lotta per la conquista dei diritti civili. Il punto è che la buona società non può accontentarsi dell’orizzonte della solidarietà, perché una società che fosse solo solidale, e non anche fraterna, sarebbe una società dalla quale ognuno cercherebbe di allontanarsi. Il fatto è che mentre la società fraterna è anche una società solidale, il viceversa non è necessariamente vero. Aver dimenticato il fatto che non è sostenibile una società di umani in cui si estingue il senso di fraternità e in cui tutto si riduce, per un verso, a migliorare le transazioni basate sullo scambio di equivalenti e, per l’altro verso, ad aumentare i trasferimenti attuati da strutture assistenziali di natura pubblica, ci dà conto del perché, nonostante la qualità delle forze intellettuali in campo, non si sia ancora addivenuti ad una soluzione credibile del grande trade-off tra efficienza ed equità. Non è capace di futuro la società in cui si dissolve il principio di fraternità; non è cioè capace di progredire

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quella società in cui esiste solamente il “dare per avere” oppure il “dare per dovere”. Ecco perché, né la visione liberal-individualista del mondo, in cui tutto (o quasi) è scambio, né la visione statocentrica della società, in cui tutto (o quasi) è doverosità, sono guide sicure per farci uscire dalle secche in cui le nostre società sono oggi impantanate. Cosa può far pensare che il progetto tendente a restituire il principio del bene comune alla sfera pubblica – a quella economica, in particolare – non sia solo una consolatoria utopia? Due considerazioni, entrambe verificabili. La prima ha a che vedere con la presa d’atto che alla base dell’economia capitalistica è presente una seria contraddizione di tipo pragmatico, non logico, beninteso. Quella capitalistica è certamente un’economia di mercato, cioè un assetto istituzionale in cui sono presenti e operativi i due principi basilari della modernità: la libertà di agire e fare impresa; l’eguaglianza di tutti di fronte alla legge. Al tempo stesso, però, l’istituzione principe del capitalismo – l’impresa capitalistica, appunto – è andata edificandosi nel corso degli ultimi tre secoli sul principio di gerarchia. Ha preso così corpo un sistema di produzione in cui vi è una struttura centralizzata alla quale un certo numero di individui cedono, volontariamente, in cambio di un prezzo (il salario), alcuni dei loro beni e servizi,

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che una volta entrati nell’impresa sfuggono al controllo di coloro che li hanno forniti. Sappiamo bene, dalla storia economica, come ciò sia avvenuto e conosciamo anche i notevoli progressi sul fronte economico che tale assetto istituzionale ha garantito. Ma il fatto è che nell’attuale passaggio d’epoca – dalla modernità alla postmodernità – sempre più frequenti sono le voci che si levano ad indicare le difficoltà di far marciare assieme principio democratico e principio capitalistico. Il fenomeno della cosiddetta privatizzazione del pubblico è ciò che soprattutto fa problema: le imprese dell’economia capitalistica vanno assumendo sempre più il controllo del comportamento degli individui – i quali, si badi, trascorrono ben oltre la metà del loro tempo di vita sul luogo di lavoro – sottraendolo allo Stato o ad altre agenzie, prima fra tutte la famiglia. Nozioni come libertà di scelta, tolleranza, eguaglianza di fronte alla legge, partecipazione ed altre simili, coniate e diffuse all’epoca dell’Umanesimo civile e rafforzate poi al tempo dell’Illuminismo, come antidoto al potere assoluto (o quasi) del sovrano, vengono fatte proprie, opportunamente ricalibrate, dalle imprese capitalistiche per trasformare gli individui, non più sudditi, in acquirenti di quei beni e servizi che esse stesse producono.

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La discrasia cui sopra facevo riferimento sta nel fatto che occorre, se si hanno ragioni cogenti per considerare meritoria l’estensione massima possibile del principio democratico, cominciare a guardare quel che avviene dentro l’impresa e non solamente quel che avviene nei rapporti tra imprese che interagiscono nel mercato. «Se la democrazia –  scrive Dahl – è giustificata nel governo dello Stato, allora essa è pure giustificata nel governo dell’impresa» 3. Mai sarà compiutamente democratica la società nella quale il principio democratico trova concreta applicazione nella sola sfera politica. La buona società è quella in cui vivere non costringe i suoi membri ad imbarazzanti dissociazioni: democratici in quanto cittadini elettori; non democratici in quanto lavoratori o consumatori. La seconda considerazione riguarda l’insoddisfazione, sempre più diffusa, circa il modo di interpretare il principio di libertà. Come è noto, tre sono le dimensioni costitutive della libertà: l’autonomia, l’immunità, la capacitazione. L’autonomia riguarda la libertà di scelta: non si è liberi se non si è posti nella condizione di scegliere. L’immunità dice, invece, dell’assenza di coercizione da parte di un qualche agente esterno; è, in buona sostanza, la libertà negativa (ovvero la “libertà da”) di cui ha 3 R. Dahl, La democrazia e i suoi criteri, Ed. Riuniti, Roma 1990, p. 57.

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parlato Isaiah Berlin. La capacitazione, nel senso di Amartya Sen, infine, dice della capacità di scelta, di conseguire cioè gli obiettivi, almeno in parte o in qualche misura, che il soggetto si pone: non si è liberi se mai (o almeno in parte) si riesce a realizzare il proprio piano di vita. Ebbene, mentre l’approccio liberal-liberista vale ad assicurare la prima e la seconda dimensione della libertà a scapito della terza, l’approccio stato-centrico, vuoi nella versione dell’economia mista vuoi in quella del socialismo di mercato, tende a privilegiare la seconda e la terza dimensione a scapito della prima. Il liberismo è bensì capace di far da volano del mutamento, ma non è altrettanto capace di gestirne le conseguenze negative, dovute all’elevata asimmetria temporale tra la distribuzione dei costi del mutamento e quella dei benefici. I primi sono immediati e tendono a ricadere sui segmenti più sprovveduti della popolazione; i secondi si verificano in seguito nel tempo e vanno a beneficiare i soggetti con maggiore talento. Come Joseph Schumpeter fu tra i primi a riconoscere, è il meccanismo della distruzione creatrice il cuore del sistema capitalistico – il quale distrugge “il vecchio” per creare “il nuovo” e crea “il nuovo” per distruggere “il vecchio” –, ma anche il suo tallone d’Achille. D’altro canto, il socialismo di mercato – nelle sue plurime versioni – se propone lo Stato come soggetto incaricato di far fronte alle

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asincronie di cui si è detto, non intacca la logica del mercato capitalistico, ma restringe solamente l’area di operatività e di incidenza. Il proprium del paradigma del bene comune, invece, è il tentativo di fare stare insieme tutte e tre le dimensioni della libertà: è questa la ragione per la quale esso appare come una prospettiva quanto meno interessante da esplorare. Si pone la domanda: è ragionevole, nelle attuali condizioni storiche, pensare al mercato come luogo di umanizzazione dei rapporti interpersonali? La risposta affermativa va cercata nel soddisfacimento di una precisa condizione: che possa affermarsi entro il mercato (e non già al di fuori di esso, cioè a latere), fino a raggiungere il livello della soglia critica, uno spazio economico formato da soggetti la cui ragion d’essere è nel riferimento ad un sistema di valori che viene sostenuto attraverso l’attività economica. Poiché la partecipazione a tale attività non può essere separata dalla cultura che l’ha motivata, essa rientra in quel principio di comportamento economico che è la reciprocità, così come questo termine va propriamente inteso. Purtroppo, ed è questo un guaio culturale di non poco conto, il principio di reciprocità continua a venire confuso con quello dello scambio di equivalenti. Altrove mi sono soffermato ad illustrare le differenze, che sono notevoli, tra il principio dello scambio

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di equivalenti e il principio di reciprocità. Mi limito qui a richiamare che l’aspetto essenziale della reciprocità è che i trasferimenti che essa genera sono indissociabili dai rapporti umani: gli oggetti delle transazioni non sono separabili da coloro che li pongono in essere, così che esse cessano di essere anonime e impersonali. È per questo che si può dimostrare che in un equilibrio di reciprocità si riesce a dare senza perdere e a prendere senza togliere. Ebbene, la cifra della prospettiva di studio dell’economia civile – ormai prossima a diventare vero e proprio programma di ricerca scientifica  – sta in ciò che essa considera come coessenziali tutti e tre i principi che stanno a fondamento di un ordine sociale: lo scambio di equivalenti; la redistribuzione; la reciprocità 4. A scanso di equivoci giova precisare che non intendo affatto sostenere che il comportamento umano sia guidato da motivazioni solo intrinseche (sono tali le motivazioni che discendono dalla costituzione morale degli agenti), ma semplicemente che tali motivazioni contribuiscono a spiegare il comportamento umano e in particolare sono parte integrante della definizione delle sue norme di razionalità. A maggior ragione, non voglio affatto sostenere che sia possibile governare un’economia 4 Cf. L. Bruni, L’economia, la felicità e gli altri, Città Nuova, Roma 2004.

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moderna sulla base del solo principio di reciprocità visto in opposizione al principio dello scambio di equivalenti: piuttosto, affermo che un’organizzazione di mercato che sappia stimolare i comportamenti pro-sociali di almeno una parte dei suoi componenti invece di mortificarli tenderà ad operare in modo non solo più efficiente, riducendo sostanzialmente il livello dei costi di transazione connessi con il suo funzionamento, ma anche più “felicitante”, cioè soddisfacente, per tutti. Infatti, l’uomo non è in sé fondamentalmente o solo individualista, come vuole l’individualismo assiologico, o solo “socializzatore” come vuole l’approccio struttural-organicista, ma tenderà a sviluppare quelle propensioni che vengono maggiormente incentivate nel contesto sociale in cui si trova ad operare. La tesi secondo cui la pro-socialità e la reciprocità sono “eccezioni” che vanno spiegate alla luce del “primato naturale e storico” del self-interest appare allora tanto estrema quanto quella contraria. Nella sua straordinaria complessità comportamentale, l’uomo può essere guidato da una grande varietà di configurazioni motivazionali; l’efficienza e la felicità pubblica di una società di mercato dipenderanno allora dalla sua capacità di far leva sulle motivazioni individuali migliori  – consentendo liberamente agli agenti economici di cercare allo stesso tempo il maggior benessere per sé e per gli al-

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tri attraverso una “ragionevole” mediazione tra le due istanze, una mediazione che nasce dalla pratica ricorrente dell’interazione personale come valore in sé. È questa continua capacità di mediazione, che presume naturalmente anche il “self-interest illuminato” ma non si risolve in esso, che permette di tenere in piedi le indispensabili reti di fiducia e di aiuto reciproco che “sostengono” le usuali attività economiche. Si pone la domanda: quanto diffusa è nella realtà la pratica della reciprocità? A differenza di quel che potrebbe sembrare, l’osservazione, anche casuale, suggerisce che si tratta di un fenomeno alquanto diffuso nella realtà delle società avanzate. Non solamente esso è all’opera, in varie forme e gradi, nella famiglia, nei piccoli gruppi informali, nelle associazioni di volontariato, ma la rete di transazioni basata sulla reciprocità, come principio regolativo, è presente in tutte quelle forme di impresa che vanno da quella cooperativa, nella quale la reciprocità assume la particolare forma della mutualità, a quella sociale, fino alle organizzazioni non profit, dove la reciprocità sconfina nella pura gratuità. Sui risultati economici finora raggiunti da tali soggetti e sulle modalità concrete del loro operare, l’evidenza empirica è ormai ampia e molto accurata. Non è dunque il caso di occupare qui spazio. Basti solo ricordare che, come parecchi studi sullo svi-

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luppo economico italiano hanno posto in rilievo, il cosiddetto modello della “nuova competizione” presuppone, per la sua praticabilità, sia la disposizione a cooperare da parte degli agenti, sia un fitto reticolo di transazioni, la struttura delle quali è molto simile a quella che caratterizza le relazioni di reciprocità. Invero, è proprio in ciò il segreto delle storie di successo dei nostri distretti industriali, storie che, mentre non cessano di ricevere attenzioni crescenti da parte di studiosi e operatori stranieri, suscitano al tempo stesso rammarico per le difficoltà di applicarle altrove, soprattutto nel nostro Mezzogiorno. È un fatto ampiamente documentato che il modello della nuova competizione nel nostro paese si è consolidato ed è fiorito in quelle regioni che, nel corso dei secoli passati, hanno visto nascere e irrobustirsi forti strutture di reciprocità. Troppo semplicistico e riduttivo sarebbe parlare, a tale proposito, di mera correlazione o di semplice coincidenza storica. Ecco perché non ha senso, né giova, porre il problema della scelta tra principio di reciprocità e principio dello scambio di equivalenti. Non ha senso perché non disponiamo di un criterio incontrovertibile sulla cui base operare la scelta. A scanso di equivoci, tale criterio non può certo essere quello dell’efficienza paretiana, dal momento che, per ovvie ragioni, questa nozione di efficienza non potrebbe applicarsi ad un sistema di relazioni econo-

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miche basato sul principio di reciprocità. Non giova ad alcunché, anzi è dannoso, perché un’economia avanzata ha bisogno che entrambi i principi possano trovare concreta realizzazione. È ingenuo pensare di fondare con successo tutti i tipi di transazione sulla cultura dello scambio di equivalenti. Se questa cultura diventasse egemone, la responsabilità individuale verrebbe a coincidere con ciò che si è contrattualmente pattuito. Ciascuno farebbe sempre e soltanto ciò che è di “sua competenza”, con conseguenze grottescamente intuibili. Se la cultura dello scambio di equivalenti non si integra con quella della reciprocità, è la stessa capacità di avanzamento del sistema a risentirne. Di qui l’urgenza di far comprendere che l’oggetto della politica economica non è più semplicemente quello di predisporre incentivi che spingano agenti auto-interessati a scegliere in modo coerente con gli obiettivi fissati del policymaker, ma diviene anche quello di creare le condizioni per una crescita della base di prosocialità e per un suo uso intelligente nel perseguimento del bene comune. Perché, come sopra si è ricordato, lo sviluppo della reciprocità dipende anche dalle caratteristiche del processo di selezione sociale, che può essere influenzato anche sensibilmente dalle variabili della politica economica e dall’assetto legale-istituzionale. Per dirla con Bar-Gill e Fershtman: «Legal rules do more than provide incentives;

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they change people» («le regole legali fanno più che fornire incentivi; esse mutano le persone») 5. In buona sostanza, la posizione che difendo è che il pluralismo è necessario non solo nel politico – il che è ovvio –, ma anche nell’economico. Pluralista, e dunque democratica, è l’economia nella quale trovano posto più principi di organizzazione economica – lo scambio di equivalenti, la reciprocità, la ridistribuzione – senza che l’assetto istituzionale privilegi l’uno o l’altro. In una società autenticamente liberale è la competizione effettiva (non solo quella virtuale) tra soggetti diversi di offerta delle varie tipologie di beni (dai beni privati ai beni pubblici, ai beni meritori, ai beni relazionali) a stabilire chi e quanto deve produrre cosa. Quali fatti e circostanze hanno, per così dire, obbligato l’economista ad accogliere, in tempi recenti, ipotesi comportamentali più ricche di quella dell’homo oeconomicus, aprendolo così all’approccio relazionale? Lo spazio non mi consente che rapidi cenni. Una prima circostanza è la presa d’atto che l’ipotesi che chiamo di additività non è confermata dalla realtà. Si tratta di questo. L’assunto fondamentale che sta alla base della teoria ufficiale del comportamento economico è che le motivazioni estrinseche – di tipo monetario o meno, comunque 5 O. Bar-Gill - C. Fershtam, Law and preferences, in «Journal of Law, economics, and Organization», 20 (2004), pp. 331-352.

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sempre strumentali – si sommino, rafforzandole, alle motivazioni intrinseche, quelle cioè che dicono dell’identità personale dell’attore. Con una tale mossa, all’apparenza innocua, la scienza economica mainstream ha potuto limitarsi a considerare le sole motivazioni estrinseche, delegando alla filosofia morale, alla psicologia e alla sociologia lo studio delle motivazioni intrinseche. Non è dunque corretta la critica di chi sostiene che quella di homo oeconomicus è una rappresentazione povera del comportamento umano perché esclude le motivazioni intrinseche. Nessun teorico serio del mainstream negherà mai la rilevanza dei valori etici, delle credenze religiose e, più in generale, delle motivazioni intrinseche. Affermerà invece che, poiché le motivazioni estrinseche (la massimizzazione del profitto o dell’utilità) rafforzano comunque e sempre quelle intrinseche, ciò di cui l’economista deve occuparsi è di trovare quegli schemi di incentivo che, applicati ai diversi contesti dell’agire economico, vadano ad esaltare le motivazioni estrinseche, aumentandone l’efficacia. Ebbene, la scoperta – si fa per dire – della falsità dell’assunto di additività a causa dei pervasivi fenomeni di crowding out (spiazzamento) e di crowding in tra i due tipi di motivazioni fa crollare quel molto comodo edificio. Richard Titmuss 6, ce6

1970.

R. Titmuss, The gift relantionship, Allen & Unwin, London

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lebre sociologo inglese, è stato il primo a portare all’attenzione degli scienziati sociali che la promessa di un pagamento per la donazione di sangue diminuiva il numero delle donazioni e riduceva la qualità del sangue donato. Oggi, la letteratura empirica e teorica sull’effetto di spiazzamento è immensa. Rinvio dunque ad alcune rassegne per i dettagli 7. Quel che qui preme richiamare è la spiegazione del fenomeno: l’impiego di incentivi economici non solamente riduce l’autodeterminazione e l’insieme delle possibilità di espressione –  ricevendo l’incentivo, la persona intrinsecamente motivata si vede ridotte le possibilità di manifestare comportamenti coerenti con il suo sistema di valori –, ma mina alla base il sentimento di autostima (la self-esteem, di cui parlava Adam Smith): ricevere un pagamento per un’azione che il soggetto avrebbe comunque compiuto diminuisce la considerazione sociale, cioè il social reward. Come si può comprendere, la via d’uscita dai problemi che derivano dall’abbandono dell’assunto di additività non può venirci dall’individualismo, perché esso stesso è il problema. 7 Cf. B. Frey, Not just for the money, E. Elgar, Cheltenham 1997; E. Deci, Meta-analytical review of experiments examining the effects of extrinsic rewards on intrinsic motivation, in «Psychological Bullettin», 125 (1999), pp. 627-668; M. Janssen - E. Mendys, The price of a price: on the crowding out and in of social norms, in «Journal of Economics, Behaviour and Organization», 55 (2004), pp. 377-395.

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Una seconda circostanza che è valsa a riammettere nell’universo del discorso economico il principio di reciprocità è il cosiddetto “paradosso della felicità”, noto anche come paradosso di Easterlin, dal nome dello studioso americano che per primo ne diffuse la conoscenza alla fine degli anni Settanta. Già Pascal aveva ricordato: «Tutti gli uomini cercano di essere felici, senza eccezioni, e tutti tendono a questo fine, sebbene diversi siano i mezzi che usano […] Ecco, questo è il motivo di tutte le azioni di tutti gli uomini, finanche di quelli che s’immpiccano» (Pensieri, n. 425). Ora, fintanto che la teoria economica ha potuto far credere che “essere” felici fosse la stessa cosa che “avere” la felicità, essa è riuscita a contrabbandare l’utilità per la felicità e dunque a persuadere che massimizzare l’utilità fosse operazione non solo razionale, ma anche ragionevole, espressione cioè di saggezza. I nodi sono giunti al pettine quando si è scoperto, per via empirica e non deduttiva, che la relazione tra reddito pro capite –  quale indicatore sintetico, sia pur rozzo, del livello di utilità – e benessere soggettivo è rappresentabile mediante una curva a forma di U rovesciato (una parabola con la concavità verso l’alto): oltre un certo livello, l’aumento del reddito pro capite diminuisce il benessere soggettivo. Non intendo qui soffermarmi sulle spiegazioni – e sono tante oramai – del para-

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dosso in questione, da quelle psicologiche, basate sugli effetti di treadmill, a quelle economiche, centrate sulle esternalità posizionali, a quelle sociologiche, focalizzate sulla nozione di bene relazionale. La letteratura è assai ampia e rinvio per tutti a Bruni 8, che opportunamente non manca di annotare come già Aristotele avesse associato la vita buona (eudaimonia) alla vita di relazione e cioè alla disponibilità di beni relazionali (amicizia, amore, impegno civile, fiducia, ecc.). Altrove mi sono occupato delle caratteristiche peculiari del bene relazionale e del suo significato nelle nostre società avanzate 9. Qui desidero aggiungere che la ragione principale per la quale il paradigma individualista mai riuscirà a trattare in modo adeguato la categoria dei beni relazionali è che, per tali beni, è il rapporto in sé a costituire il bene e dunque la relazione intersoggettiva non esiste indipendentemente dal bene che si produce e si consuma al tempo stesso. Ciò significa che la conoscenza dell’identità dell’altro con cui mi rapporto è indispensabile perché si abbia il bene relazionale. Al contrario, il presupposto della relazione di scambio di equivalenti – che è la sola relazione di cui può occuparsi l’approccio individualista – è che sia 8 9

L. Bruni, L’economia, la felicità e gli altri, cit. Cf. S. Zamagni, La svolta antropologica in economia, in «La società degli individui», 24, 3 (2005), pp. 81-90.

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sempre possibile sostituire colui o coloro dai quali dipende il mio star bene (posso sempre cambiare macellaio tutte le volte in cui non sono soddisfatto). Come Wicksteed 10 aveva lucidamente compreso, è il non tuismo (non-tuism) più ancora che il self-interest, il fondamento primo del mercato capitalistico, perché gli affari si fanno al meglio con coloro di cui non si conosce l’identità personale! Nella prospettiva relazionale, invece, il rapporto con l’altro presuppone un movimento di riconoscimento e di accoglienza: si tratta di accogliere una presenza che, nella sua umanità è a me comune e nella sua alterità è da me distinta. Compito non facile, certo – «L’inferno sono gli altri», diceva a proposito J.P. Sartre  – ma indispensabile se si vuole superare la grave scarsità di beni relazionali, tipica della nostra società. L’individualismo è un’ottima guida per l’utilità, che può esser fruita anche in isolamento, ma un cattivo compagno per la felicità, dato che bisogna essere almeno in due per sperimentare la felicità. Proprio come ci rammenta il testo biblico: «Non è bene che l’uomo sia solo». Prendere la relazionalità sul serio significa non limitarsi a prendere atto dell’esistenza del sociale – un fatto questo che nessuno ha mai posto in dubbio. Un recente e rigoglioso filone di ricerca 10 Cf. P. Wicksteed, The common Sense of Political Economy, MacMillan, London 1910.

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economica riconosce bensì che gli individui possono avere “preferenze sociali” e ne indaga le conseguenze su una pluralità di piani. Ma questi lavori 11 di sicuro interesse, soprattutto per la raffinatezza delle tecniche di analisi, danno risposte tardive e spesso banali (cioè scontate), perché partono da un individuo che, alla maniera dei funghi di cui parla Hobbes nel De Cive, entra in scena già formato: l’io è prima della relazione, che pertanto acquista un valore solo strumentale. Ora, è bensì vero che le relazioni sono agite dagli individui, ma esse possiedono una loro autonomia, tanto è vero che sempre più spesso gli individui entrano in conflitto con le relazioni e non solo con altri individui. E dunque cos’è razionale nella relazione? Cosa vuol dire studiare l’economia come nesso di relazioni intersoggettive? È a questa e simili domande che la letteratura della «New social economics» non riesce a fornire risposte plausibili. Eppure, è attorno a questi interrogativi che occorre girare se si vuole trovare il modo di coniugare identità personale e relazione. Se queste due dimensioni vengono concettualizzate come due entità differenti – come si continua a fare nella scienza 11 Si veda, per tutti, G. Becker - A. Murphy, Accounting for tastes, Harvard Univ. Press., Cambridge (Mass.) 2000; e S. Durlauf H.P. Young (eds.) Social Dynamics, MIT Press., Cambridge (Mass.) 2001.

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sociale  – mai cesseremo di oscillare tra la visione dell’individuo come un unico, così che l’altro diventa solo strumento, non importa quanto utile, per l’affermazione dell’io, e la visione opposta che afferma il primato del gruppo, della classe sociale, di una qualche totalità organica, come certi rigurgiti comunitaristi oggi lasciano intendere. La prospettiva di studio dell’economia civile raccoglie la sfida indubbiamente più impegnativa: quella di mostrare che non c’è opposizione tra identità (l’essere per sé) e relazione (l’essere per l’altro), e quindi che l’interesse non può essere il solo fondamento dell’associazione tra gli uomini. La buona società in cui vivere non può fare a meno della reciprocità. Saprà anche vincerla quella sfida?

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Indice

Introduzione (di Luigino Bruni). . . . . . . pag. 5 Nota bibliografica. . . . . . . . . . . . . . . . . . » 21 Oltre il profitto. Il principio di fraternità preso sul serio nella vita economica. L’Economia di Comunione . . . . . . . . . . . . . . . » 23 Dono gratuito e vita economica. . . . . . . » 56

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Indice generale

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le cattedre di sophia

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Zavoli, Sergio Rovesciare l’anima del mondo questione e profezia, 2010 Ouellet, Marc La sfida dell’unità i carismi e la Trinità, 2011

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