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Italian Pages 772 Year 1987
La cultura
psicoanaliti Atti del Conveg Trieste 5-8 dicembre
Collezione Biblioteca
Edizioni Studio Tesi
La scienza psicoanalitica, dalla patria viennese d'origine, è giunta in Italia attraverso la città di Trieste, che per la sua posizione
geografica è sempre stata crogiolo di razze e culture e punto di passaggio della Mitteleuropa verso il sud. Così Trieste è stata scelta nel dicembre del
1985 quale sede di un convegno internazionale, che ha riunito studiosi della scuola viennese, tedesca, ungherese e italiana. Si è cercato di fare un bilancio “storico” della psicoanalisi: dalla nascita all'evoluzione della teoria e della pratica nei paesi che
l'hanno vista sorgere, con particolare attenzione a tutte le implicazioni socio-culturali
alle quali la psicoanalisi si può estendere. Notevole
contributo
partecipazione
è stato offerto dalla
di psicoterapeuti
jugoslavi
che hanno evidenziato l'importanza della psicoanalisi nella loro formazione professionale.
I saggi raccolti nel presente volume offrono la possibilità di conoscere le vicissitudini di tale scienza nei paesi del centro Europa esaminate secondo vari aspetti, per esempio nel rapporto con la psichiatria, con la psicologia, la psicoterapia eccetera. Una sezione del convegno è stata dedicata
all’approfondimento delle relazioni fra psicoanalisi letteratura e arte figurativa, comprendendo anche musica e cinema. Delle fecondità di queste interrelazioni è testimonianza proprio la realtà storico-sociale triestina, di cui in tale occasione si è fatta un'ampia panoramica.
Copertina:
Ufficio Grafico Edizioni Studio Tesi
Max Ernst, The Robing ofthe Bride (1939)
Digitized by the Internet Archive in 20283 with funding from Kahle/Austin Foundation
https://archive.org/details/ispbn_8876921974
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Collezione Biblioteca 57
Traduzioni dal tedesco di Lorella Cattaruzza e Gabi Mack Perazzoni;
traduzioni dal croato e dall'inglese di Ivo Ilic
Copyright ©
1987 by Edizioni Studio Tesi srl
Via Cavallotti, ISBN
5 - 33170 Pordenone 88-7692-197-4
1° edizione settembre
1987
La cultura psicoanalitica . Atti del Convegno Trieste 5-8 dicembre 1985 A cura di Anna Maria Accerboni
Edizioni Studio Tesi
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La cultura psicoanalitica
La psicoanalisi torna a Trieste
A nome del comitato scientifico di questo convegno ringrazio i rappresentanti della Regione Autonoma Friuli-Venezia Giulia, del Comune, della Provincia e dell’Università di Trieste che hanno voluto presenziare all’apertura dei nostri lavori scientifici, e porto alla città di Trieste e ai convenuti il saluto della Società Psicoanalitica Italiana, che ha avuto grande parte nella promozione e nella preparazione del convegno, per mio tramite e per il contributo dei colleghi Piero Bellanova, segretario della nostra Società, e Giorgio Sacerdoti, segretario scientifico della sezione veneta, e che partecipa con una ottantina di congressisti, fra i quali si possono contare ventinove relatori. Per la nostra Società è motivo di particolare letizia vedere qui riuniti psicoanalisti delle Società viennese e germanica e della risorta Società ungherese. Poiché tutti sanno che la psicoanalisi è nata a Vienna e che la lingua della psicoanalisi è stata per alcuni decenni il tedesco, non occorre forse che io ricordi il debito che noi abbiamo con le due prime Società; mentre mi pare opportuno rammentare che la Società ungherese fu creata dal più caro allievo di Freud, Sandor Ferenczi, la
cui importanza nella storia della evoluzione del pensiero psicoanalitico appare col tempo sempre più grande, e che in essa operò fino alla sua scomparsa, lo scorso anno a novantasei anni, Himre Hermann,
molto noto anche
qui da noi per il suo Istinto filiale. Devo inoltre sottolineare la presenza degli psicoterapeuti jugoslavi, di un paese, cioè, in cui la psicoanalisi è considerata con
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Glauco
Carloni
grande interesse anche se non vi si è ancora costituita
una sezione della Società internazionale.
A proposito di queste presenze straniere devo pure notificare, perché finora nessuno lo ha ancora segnalato,
che questo convegno si svolge con il patrocinio della Comunità di Lavoro Alpe Adria; i rappresentanti degli enti locali hanno forse ritenuto superfluo spiegare che
cosa sia e che cosa rappresenti questa comunità, ma per i
convenuti non triestini è probabilmente questa la prima occasione per conoscerne l’esistenza. Si tratta di una istituzione internazionale che non ha l’importanza di quelle europee più note, ma che ha il singolare merito di comprendere paesi dell’ovest e dell'est europeo (Italia, Austria, Germania, Jugoslavia, Ungheria e Cecoslovac-
chia), uniti da quell’importante tratto di storia comune rappresentato dall’impero asburgico. Un impero che per la sua lunga sopravvivenza apparve giustamente anacronistico e andò in frantumi; ma che oggi, con le sue, se non vado errato, diciassette etnie, la decina di lingue e le
cinque o sei religioni diverse, ci appare invece nostalgicamente come l’abbozzo di una più grande Europa. È noto che cosa fu Trieste per quell’impero e che cosa quell’impero per Trieste: per la sua singolare collocazione alla sommità di quell’incuneamento mediante il quale le acque calde del Mediterraneo si spingono fino al cuore dell'Europa, per il singolare e secolare incontro in Trieste delle tre principali componenti della popolazione e della cultura europee: la latina, la tedesca e la slava. Era naturale dunque che la psicoanalisi, come racconterà domani Musatti, nata a Vienna, arrivasse in
Italia passando per Trieste e che il primo psicoanalista italiano
fosse
un
triestino,
Edoardo
Weiss.
E
non
sorprenderà ricordare la singolare coincidenza che consentì a Freud di eseguire proprio a Trieste, nel 1876, presso la Stazione Zoologica Sperimentale, la sua prima ricerca originale intorno alla dubbia esistenza dei testicoli dell’anguilla. Fu proprio per rievocare questa remota vicenda che nel 1968 venne murata nell'Istituto di Psicologia di Trieste una lapide, motivo, insieme con le onoranze per lo stesso Weiss, per effettuare a Trieste un primo convegno nazionale sul tema Psicoanalisi e cultura. A quel convegno, a cui questo attuale per temi e
Introduzione
15:
per caratteristiche idealmente si collega, parteciparono fra gli altri inostri pionieri Perrotti, Musatti e Servadio, già allievi o compagni di Weiss, e due cari e illustri psicoanalisti di recente scomparsi, Franco Fornari ed Eugenio Gaddini, ma anche letterati e studiosi di diversa estrazione
come
Libero
Bigiaretti,
con
un
simpatico
intervento, Giancarlo Vigorelli, con una smagliante relazione, Nello Risi, con il film Diario di una schizofrenica, e il qui presente Michel David con il suo contributo sui rapporti fra psicoanalisi e letteratura. Il nome di Trieste è però legato alla psicoanalisi soprattutto perché Trieste fu la città di Edoardo Weiss, il quale avvicinò Freud all’inizio della sua frequenza universitaria e fu accettato come membro della Società Psicoanalitica Viennese nel 1913, prima ancora di laurearsi, dopo essersi però sottoposto ad un’analisi didattica con uno dei più importanti compagni di Freud: Paul Federn. Veramente pionieristico fu il lavoro di Weiss, che per dodici anni, dopo la fine della guerra, operò qui in perfetta solitudine e, finché lo poté, anche all’interno dell'ospedale psichiatrico, fra molteplici difficoltà, diffidenze e incomprensioni. La cultura italiana di allora sembrava dare ragione allo scetticismo di Freud circa le possibilità di diffusione della psicoanalisi nei paesi latini, dove gli pareva si dovesse avvertire meno il bisogno di cercare attraverso la psicoanalisi come vivere con minore disagio. È accaduto invece, lo abbiamo ribadito in solenni occasioni, che negli ultimi decenni la divulgazione psicoanalitica abbia raggiunto in Italia livelli imprevedibili, tanto da far parlare di una moda: la moda della psicoanalisi di cui ogni tanto si lamenta il nostro decano, Musatti; una moda che agli psicoanalisti seri non piace. Fu per iniziativa di Weiss e di uno psichiatra di Rovigo, Marco Levi Bianchini, il quale godeva di una certa autorevolezza nell'ambiente psichiatrico italiano, che nel congresso di psichiatria di Trieste, nel 1925, si dedicò una sessione alla psicoanalisi. Si trattava ovviamente di un lavoro soprattutto informativo, che non lasciò traccia negli atti del congresso o per una difensiva indifferenza o per un’inconscia ostilità; così che Levi Bianchini dovette provvedere a pubblicare sulla sua
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Glauco Carloni
personale rivista quello che v'era stato detto. Anche Levi Bianchini, che trascorse a Trieste gli anni dell’adolescenza, merita un ricordo: ebbe di certo più entusiasmo che profonda conoscenza per il pensiero di Freud, ma ne fu un fervente propagandista e pose al servizio della sua diffusione il suo attivismo non sempre misurato e la notorietà che si era andato guadagnando. Ce n’era molto bisogno perché la psicoanalisi trovò allora maggiore ascolto fra i letterati che fra gli addetti ai lavori, e ben poco favore incontrarono sia le iniziative editoriali di Levi Bianchini e di Weiss che i gruppi che essi costituirono: quello spurio di Levi Bianchini a Teramo e quello, ufficialmente riconosciuto dalla Società Psicoanalitica Internazionale,
che Weiss
formò
a Roma
nel
1932:
Fu forse per la sortita triestina della psicoanalisi che si pensò di tenere sempre a Trieste il decimo congresso dell’IPA, la società internazionale fondata da Freud, ma
poi non se ne fece nulla e l’Accerboni ha rintracciato le parole di rammarico con cui Weiss ne scriveva a Paul
Federn..il 2/ Gennaio. 1927: «...Mi sono tanto rallegrato al pensiero di poter salutare in occasione del prossimo congresso internazionale lei e gli altri psicoanalisti nella nostra regione, ma or ora ho avuto un invito per una riunione preliminare dell’associazione psicoanalitica dal quale apprendo che il luogo del convegno dovrebbe essere Innsbruck o tutt’al più Stoccarda. Le sarei veramente grato caro dottore se lei avesse la bontà di comunicarmi come mai si è desistito dal progetto originario...».
Perché si desisté io non lo so e forse nessuno lo sa in questa sala né fuori di qui, ma la città di Trieste è stata compensata per quell’antica delusione con una serie d’iniziative che si concludono con il presente convegno e cominciano con quello già ricordato del 1968, quando Servadio ricordò la sua giovanile militanza accanto a Weiss, e Musatti, in un discorso che è vivo nel ricordo di
tutti coloro che ebbero la fortuna di ascoltarlo, ripercorse gli itinerari italiani di Freud, mentre Novelletto ne rievocava la menzionata esperienza triestina.
Si tenne infatti il 6 Dicembre 1980 una commemorazione di Edoardo Weiss a dieci anni dalla sua morte, con
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contributi di Servadio, del figlio di Federn, Ernst, che
anche oggi ci onora con la sua partecipazione, di Voghera e dell’Accerboni; e nell'ottobre del 1983 la stessa Accerboni organizzò la mostra dedicata a Trieste, Saba e la psicoanalisi, che per la sua cortesia i convenuti potranno visitare qui trasferita, nell’adiacente salone d’ingresso. Poco fa il sindaco di Trieste lamentava che dopo un esordio tanto promettente, dopo quelli che un memorabile libro di Giorgio Voghera ha battezzato come “gli anni della psicoanalisi”, la psicoanalisi a Trieste abbia oggi così poco spazio. Occorre però tenere a mente che,
dopo quegli anni, e dopo altri pochi, la psicoanalisi sparì non solo da Trieste, per il trasferimento di Weiss a Roma, ma dall'Italia, quando a sette anni dalla sua costituzione la Società italiana fu sciolta d’autorità per il sommarsi delle leggi razziali (gli psicoanalisti erano quasi tutti ebrei), della diffidenza di alcune gerarchie cattoliche e della specifica ignoranza della cultura fascista. E pur vero che negli anni del dopoguerra, mentre il piccolo manipolo degli psicoanalisti riprendeva la sua attività e andava progressivamente moltiplicando i suoi consociati, a Trieste non si parlò più di psicoanalisi e solo da pochi anni operano a Trieste tre psicoanalisti (tutti peraltro di lingua madre slovena), membri del Centro Veneto di Psicoanalisi. Come è potuto accadere che nello stesso tempo in cui la psicoanalisi italiana, colmando
un
ritardo
storico,
culturale
e
politico,
mediante uno sviluppo rigoglioso sebbene misurato, raggiunge il posto che compete al nostro paese, cioè quello di ultimo dei primi, Weiss non abbia fatto allievi a Trieste? Bisogna considerare che la pratica psicoanalitica si diffonde con modalità originali che non sempre coincidono con il progresso economico e con la dislocazione delle facoltà universitarie: segue dapprima gli itinerari dei suoi pionieri e si espande poi intorno ai centri in cui essi si raccolgono e agli istituti di formazione
che
essi
riescono
ad
organizzare.
In un
paese
storicamente policentrico come il nostro, non si sviluppa perciò solo nella capitale, come in Francia, in Inghilterra o nella stessa Austria, ma oltre che a Roma o Milano, a Bologna, Firenze, Palermo, ecc.. Non a Trieste però,
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Glauco
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perché Trieste ha assistito ad una sorta di diaspora, in conseguenza della quale analisti triestini o in qualche modo legati a Trieste hanno contribuito a volte in maniera determinante,
come
Molinari a Bologna,
allo
sviluppo della pratica psicoanalitica in altre città. Voglio ricordare, oltre agli scomparsi Tolentino e Gairinger, la
Meotti a Milano, la Polojaz a Padova, la Paulin a Roma, e, ancora, a Bologna, la Schàffer, la Negrini e la Petronio.
Per completezza d’informazione devo correggere un poco l'impressione che le mie parole potrebbero aver. determinato: dicevo dunque che la Società Psicoanalitica Italiana, se si tien conto del numero dei
suoi membri, commisurandoli percentualmente con il complesso della popolazione, si vede preceduta ormai solo da quelle del nord ovest dell’Europa e da quelle degli Stati Uniti, del Canadà e dell'Argentina; passa però al primo posto in assoluto se si considera l'espansione degli ultimi quindici anni. Questo fenomeno non è dovuto soltanto alla serietà del nostro impegno, bensì anche al concorso di un radicale mutamento del più vasto ambiente culturale. Si dovrà allora rammentare come alcuni scrittori triestini abbiano preceduto anche in questo campo i loro colleghi del resto d’Italia; leggendo o orecchiando Freud molti anni prima degli altri; favoriti in questa scoperta dalle stesse ragioni che avevano permesso a Weiss di avvicinare concretamente il maestro viennese: cioè dal singolare huzus umano e culturale che si era venuto formando a Trieste, terra di frontiera, trivio italo-slavo-austriaco condito di ebraicità, così
come è stato ripetutamente scritto da molti e più di tutti ed esaurientemente da Claudio Magris. Si dovrà allora ricordare per primo quell’Umberto Poli che con lo pseudonimo di Saba ha dato alla nostra letteratura il maggior canzoniere moderno. Saba poteva spiegare perché tutto ciò era potuto accadere a Trieste,
solo a Trieste, in quella che definiva «la più strana città», il «detrito di un gran porto di mare, l’infinito nell’umiltà», «che di fra il mare e i duri colli senza forma e misura
crebbe». Sono versi tutti agli italiani colti molto noti, ma lasciate che per i nostri colleghi d’oltr’alpe, ove è di certo
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poco conosciuto, e in questa particolare occasione ripeta con Saba: Trieste ha una scontrosa grazia. Se piace
è come un ragazzaccio aspro e vorace con gli occhi azzurri e mani troppo grandi per regalare un fiore; come un amore con gelosia...
E per il fatto di vivere a Trieste Saba ebbe la ventura d’essere fra gli italiani, ahimè troppo tardivamente, uno dei primi a sottoporsi ad un trattamento psicoanalitico, ovviamente
con Weiss. A lui la cura non poté giovar
molto, ma alla cultura italiana giovò moltissimo che egli se ne facesse, con qualche ingenuità e con qualche entusiasmo di troppo, convinto e strenuo mallevadore. E dopo Saba, Italo Svevo, più di lui anziano, ma
meno di lui informato, che ebbe occasione di conoscere personalmente Freud quando accompagnò da lui per una consultazione il cognato e ne ricavò una deludente risposta; mentre noi ne abbiamo ricavato uno dei più curiosi ed interessanti passaggi della corrispondenza fra Freud e Weiss. A differenza di Saba, Svevo è molto noto
anche fuori d’Italia e tutti conoscono quella caricatura di psicoanalista che è il personaggio di primo piano del suo romanzo
maggiore: una caricatura peraltro in cui tanti
“selvaggi psicoanalisti” di oggi possono riconoscersi e che qualcuno volle fosse caricatura di Weiss, mentre Giorgio Voghera ha spiegato esser figura di pura invenzione. Ebbene, negli anni Trenta, si poteva contri-
buire alla diffusione della psicoanalisi, anche da orecchianti, solo per il fatto di trasferire in un romanzo una macchietta di psicoanalista. Ettore Schmitz, che con lo pseudonimo d’Italo Svevo intendeva porsi come intermediario fra la cultura tedesca e quella italiana, finì perciò, involontariamente, col favorire in qualche modo,
ed a modo suo, il passaggio per Trieste della psicoanalisi sulla strada fra Vienna e Roma. Ho dovuto menzionare Giorgio Voghera, che è il terzo scrittore triestino da ricordare in questa significativa giornata. Giorgio Voghera © scrittore molto schivo,
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Glauco Carloni
che ha la virtù, rara fra gli italiani, della modestia e tiene i suoi scritti nel cassetto per molti anni prima di pubblicarli. Qualche anno fa gli feci la violenza di farlo trascinare a Bologna, ad un convegno veneto-emiliano di psicoanalisi, perché ci parlasse de «Gli anni della psicoanalisi». Gli farò ora una seconda violenza leggendo un passo di quel libro, già segnalato da chi mi ha preceduto: «Ma quella corrente che, nei primi anni dell’altro dopoguerra, è discesa da Vienna a conquistare l’Italia passando per Trieste — la psicoanalisi, intendo dire — più che una corrente è stata un ciclone. Ragazzo, ho vissuto nell’occhio di quel ciclone, in una relativa calma personale; ma tutti gli adulti che vivevano attorno a me: genitori, congiunti, travolti».
amici,
conoscenti,
ne
sono
stati letteralmente
E gliene farò una terza, raccontando come poco fa si schermisse davanti a quel che gli venivo dicendo: che le sette pagine di autobiografia, inserite nel suo ultimo libro Carcere a Giaffa, rappresentano un’esemplare autoanalisi e la prova che la psicoanalisi, benché orecchiata come afferma, ha tuttavia permeato il suo pensiero e la sua prosa. E mi permetterò ora di aggiungere, non senza presunzione, che questa autoanalisi è fra le sue cose migliori e la più graziosa fra quante di taglio introspettivo mi è avvenuto di leggere in questi anni. Il sindaco di Trieste, per finire, ha anche voluto ricordarci l’importanza che Trieste ha avuto nella riforma psichiatrica e io non posso trattenermi dal dire quel che penso a questo proposito, ritenendo di rientrare, sebbene per diversa via, nel tema del convegno. L’Italia era dal punto di vista psichiatrico in grave ritardo. Il ritardo appariva sempre più grave a mano a mano che si diffondeva il pensiero psicoanalitico. Per molti anni i più anziani di noi erano costretti a nascondere nei concorsi pubblici le loro pubblicazioni psicoanalitiche in quanto controproducenti. In questo clima retrivo il distacco fra le due culture risultava evidentemente
anacronistico,
mentre
da
ogni
parte
Introduzione
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d’Italia si moltiplicavano le richieste di pratica, d’informazione e di formazione psicoanalitica. Si assisté allora al tentativo, a volte goffo e sempre affannoso, di riguadagnare il tempo perduto da parte dei miei colleghi psichiatri, già scettici o sprezzanti nei confronti della psicoanalisi. Poiché la psicoanalisi aveva, si potrebbe dire, il monopolio della “psicologia del profondo”, le si contrappose quella ch'io definirei “psicologia di superficie”. Tutti i fenomeni psichici, anche quelli più gravi e più profondamente radicati, venivano spiegati con accattivanti motivazioni sociali. Senza fondamento scientifico alcuno tutto veniva ricondotto alle insufficienze delle leggi, dei costumi, della .società capitalistica e talora,
meno
dispersivamente,
alle
insufficienze
dei
genitori, che di ciò venivano poi pericolosamente colpevolizzati. Sì, ci furono anni di piombo anche nella psichiatria. Senza prova alcuna la picoanalisi era accusata di voler adattare gli individui alle cattive strutture sociali; perché,
come
scriveva
Ferenczi,
per noi psicoanalisti
«una rivoluzione solamente politica, una rivoluzione che si occupasse solo di modificare il nostro mondo esterno» non potrebbe «portare un reale sollievo alle sofferenze dell'umanità, in quanto si limiterebbe ad attuare un passaggio di poteri, cioè dei mezzi costrittivi dalle mani
degli uni alle mani degli altri e a diminuire o aumentare il numero degli oppressi», mentre soltanto una rivoluzione che coinvolgesse anche il nostro mondo interiore, liberandoci da inutili costrizioni ed inibizioni, potrebbe raggiungere lo scopo, producendo uomini veramente nuovi e responsabili. La riforma psichiatrica ci ha aiutato a debellare i pregiudizi nei confronti dei malati di mente e a mutare le situazioni più statiche, ma ha provveduto anche a mettere in circolazione pregiudizi nuovi e a formare più “psichiatri dai piedi scalzi” che psichiatri “ben temperati’. Molta acqua è però da allora passata sotto i nostri ponti ed io sono reduce da un congresso bolognese della società psichiatrica italiana, dove con il concorso di più di cinquecento psichiatri, di cui duecento intervenuti con centotrenta relazioni, non s'è parlato che di psicoanalisi.
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Glauco
Carloni
Dov'è finita dunque la psichiatria italiana, con la sua antipsichiatria e le sue riforme? C'è stato evidentemente anche in questo settore un riflusso? Si sono creati spazi per una psichiatria veramente nuova, che indaghi sulle cause sociali del malessere psichico non nella grande, impassibile, lontana e uh po’ sclerotica società, ma nella piccola società familiare, dove «solo nei rapporti fra genitori e bambini si può sperare di fare quel poco di prevenzione, quel poco d’igiene mentale possibile; e per il resto, anziché delegare alla società e alle sue leggi la responsabilità della malattia mentale e le necessarie provvidenze, si aiutino gli individui a conoscersi meglio, ad emanciparsi autenticamente e ad assumere in maniera
matura la responsabilità del proprio destino. Per queste possibilità la psicoanalisi è certamente lo strumento migliore, come viene generalmente riconosciuto dalle ultime leve degli psichiatri e degli psicologi. Al sindaco di Trieste che rievocava l’esperienza triestina di Basaglia ricorderò allora, invece, oggi, proprio qui, il ritorno dell'interesse verso l’individuo e la profondità della sua psiche, secondo l’insegnamento di Weiss e la tradizione culturale di questa città. Glauco Carloni
Bibliografia A. M. AccergoniI PavaneLLo, Trieste Saba e la Psicoanalisi. Mostra del Comune di Trieste, ottobre 1983. P. e A. BeLLaNOva, Le due Gradive: notizie sull'attività della Società Psicoanalitica Italiana (1932-1982), C.E.P.I, Roma 1982. G. Cartoni, Nota introduttiva a Mussolini contro Freud, Guaraldi, Firenze 1976. S. Ferenczi, Fondamenti di psicoanalisi, vol. 3, Guaraldi, Firenze 1974.
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E. Weiss, Sigmund Freud come consulente, Astrolabio, Roma
1971.
Glauco Carloni (Italia): Presidente della Società Psicoanalitica Italiana.
Professore di psicologia dinamica alla Università di Bologna. Analista didatta della Società Psicoanalitica Italiana.
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PARTE PRIMA
La psicoanalisi nei paesi del Centro Europa Coordinate storiche della psicoanalisi
Trieste e la psicoanalisi
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La psicoanalisi nei paesi del Centro Europa
Harold Leupold Lòéwenthal La psicoanalisi a Vienna Ritornare a Trieste dopo una decina d’anni, equivale per me anche ad una tappa della mia evoluzione e dal momento che intendo narrarvi a grandi linee la storia della psicoanalisi in Austria, che sarà poi quella della psicoanalisi a Vienna, questa evoluzione si farà sentire. L’ultima volta che venni a Trieste, ebbi quasi modo di cantare
in italiano
al Teatro
Verdi,
dove
tenni
una
conferenza dal titolo Sigrzund Freud a Trieste. Vedete dunque che il mio cammino dallo “sviluppo delle anguille” allo “sviluppo della psicoanalisi”, è lo stesso cammino intrapreso dalla psicoanalisi a Vienna, avendo infatti Freud iniziato a Trieste come studente di zoologia. Lo psicoanalista ungherese Sandor Ferenczi una volta disse con sarcasmo che la storia della psicoanalisi poteva essere suddivisa in tre fasi: un’epopea eroica, un’era di guerriglia ed infine una fase di sviluppo organizzativo ed amministrativo. Osservando l’attuale quadro nazionale ed internazionale della psicoanalisi, si dovrebbe aggiungere che stiamo attraversando una fase di burocrazia amministrativa. Iniziò tutto a Vienna in un particolare ambito culturale, che rappresentò una fase peculiare dello sviluppo di quella città, e altre volte ho già tentato di dimostrare che non fu un caso. Sono lieto che questo congresso abbia luogo a Trieste, poiché questa cultura della Vienna di fine secolo si estende anche a tutti i paesi qui convenuti: una Mitteleuropa più ampia di quella degli Incontri psicoanalitici mitteleuropei (Mizteleuropéische Psychoanalytische Tagung) che ha luogo fra
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La cultura psicoanalitica
svizzeri, austriaci, tedeschi ed olandesi. Per questo ne sono particolarmente lieto e mi congratulo con gli organizzatori, che sono riusciti ad invitare gli psicoanalisti italiani contemporaneamente ai colleghi jugoslavi ed ungheresi. Ritengo che in questo modo emerga una coesione che ebbe larga parte nella prima cultura psicoanalitica fino alla seconda guerra mondiale. Iniziò tutto a Vienna nel 1902 nella sala d’aspetto di Freud dove convennero alcuni uomini interessati alla psicoanalisi.
Si trattava di Stekel, Kahane,
Reitler ed
Adler. Questa prima forma di società psicoanalitica del mercoledì sera era un gruppo particolare di cui certamente conoscerete la vita fino alla prima guerra mondiale, desumibile dai verbali della Wiener Psychoanalytische Vereinigung (Società Psicoanalitica Viennese, d’ora in poi abbreviata in WPV, Ndt). La WPV con questo nome esisteva già dal 1908; nel 1910 questa associazione fu fondata ufficialmente, con una registrazione presso l’i.r. Direzione di Polizia. Ciò fu conseguente al fatto che Freud fondò una Società Psicoanalitica Internazionale allo scopo di dare una base più solida alla psicoanalisi: come sapete Freud temeva per la sua teoria, per la sua ricerca, per la sua invenzione della psicoanalisi e sperava che un degno successore potesse continuare il suo operato, perché questo non andasse perduto. Egli non ebbe tuttavia propriamente fortuna nella scelta delle persone e fu così che negli anni 1910-12 subentrò quella fase di guerriglia, che si concluse con il ritiro di Adler e Jung dal giovane movimento psicoanalitico. Per la WPV il 1910 fu un anno importante in quanto il gruppo viennese si oppose
con tutte le sue forze all’internazionalizzazione della psicoanalisi, che avrebbe dovuto spostare il centro della psicoanalisi da Vienna a Zurigo. Nei verbali leggiamo di un’accesa discussione nella quale parecchi membri di allora si opposero all’eventualità di diventare un’associazione a carattere scientifico, non rimanendo più — fatto questo vitale per essi — un “movimento” psicoanalitico. Ritengo che questa espressione, che nel 1914 diede il titolo ad un’opera di Freud (Per una storia del movimento psicoanalitico) sia basilare; fino alla seconda guerra mondiale il gruppo psicoanalitico viennese fu infatti
La psicoanalisi nei paesi del Centro Europa
Zi
sempre un qualcosa di più di una mera associazione scientifica. La parola “movimento” implica una partecipazione emotiva, una forza ideologica e politica che fu indubbiamente propria di questo gruppo. Ben presto si formarono opinioni distinte in merito all’espressione “movimento psicoanalitico”. Se pensate che nell’articolo di fondo del primo numero dell’«International Journal of Psychoanalysis», Ernst Jones non considera la psicoanalisi un “movimento”, bensì la definisce a caratteri cubitali our science, ciò comporta un atteggiamento
completamente diverso. Anche nella sua biografia di Freud, nel capitolo riguardante il movimento psicoanalitico, egli scherza sul termine “movimento”, affermando che tale denominazione è stata una sventura per la psicoanalisi. Questo è un punto che noi oggi dobbiamo rimettere in discussione. La WPV come movimento dei primi analisti, nato dall’epopea eroica e passato attraverso la guerriglia della dissidenza adleriana e junghiana, era sufficientemente forte da riuscire ad evolversi nel totale isolamento della situazione viennese, continuando ad operare e raggiun-
gendo alti risultati scientifici. L’isolamento di Freud e del gruppo viennese tuttavia non fu tale da poter essere inteso in termini assoluti in base alle cronache dell’epoca o anche alle descrizioni dello stesso Freud. L’isolamento del gruppo fu anche voluto. Osservando gli sviluppi fino alla seconda guerra mondiale, vediamo come gli analisti viennesi in realtà cercassero molto poco contatti con altri raggruppamenti scientifici; questi furono casuali, perché il gruppo viennese preferì farsi da parte e coltivare la propria cultura psicoanalitica. E dal senso di diversità, dal ruolo di emarginazione si seppe anche trarre forza. La prima guerra mondiale interruppe bruscamente lo sviluppo della WPV. Buona parte dei soci dovettero indossare la divisa e recarsi al fronte; la vita sociale del
gruppo viennese si estinse praticamente del tutto. Nell’immediato dopoguerra si tentò di riprendere l’attività. L’avvenimento più importante del periodo bellico fu il Congresso Psicoanalitico Internazionale di Budapest del 1918 che, in realtà però non fu un vero congresso
internazionale
avendovi potuto partecipare i
soli analisti provenienti dai cosiddetti imperi centrali.
28
La cultura psicoanalitica
Malgrado ciò, a Budapest vi fu un evento programmatico importantissimo per l'evoluzione della psicoanalisi a Vienna e sul piano internazionale: fu infatti a Budapest che Nunberg affermò la necessità di esigere in futuro che ogni analista sottostasse ad una analisi personale. Questo fu l’inizio di ciò che oggi definiamo “analisi didattica”. Fino ad allora si facevano brevi colloqui di natura analitica con Freud, al cui centro stava il proprio inconscio. Questi solitamente avevano luogo durante passeggiate intorno al Ring’ e il barone von Winterstein, che io conobbi e che più tardi divenne presidente della WPV, mi diceva che Freud camminava molto velocemente, per cui queste analisi circolari sul Ring’ avvenivano anche in condizioni di affanno dell’analizzato. Fra coloro che ebbero questa specie di analisi circolare sul Rig’ ci fu anche Eitingon; l’unico che in quel periodo ebbe quasi un’analisi completa fu Jones, il quale per un po’ di tempo si sdraiò veramente sul divano di Ferenezi. La proposta di un’analisi personale più lunga, ventilata a Budapest, fu adottata non dalla WPV, bensì a Berlino. E fu così che nel 1920, dopo la fondazione dell’Ambulatorio Psicoanalitico da parte di Eitingon, si ebbe il primo istituto per la didattica della psicoanalisi. Nel 1925 Eitingon presentò un ordinamento didattico che ancor oggi costituisce le linee fondamentali della formazione degli psicoanalisti. E interessante notare come quest'uomo, che in realtà non fu mai analizzato personalmente e che, grazie alla sua situazione patrimoniale, non aveva nemmeno bisogno di fare molte analisi, avendo sempre un solo paziente in trattamento,
sia in
realtà il founding father del nostro sistema di formazione psicoanalitica. I viennesi seguirono a ruota e nel 1922 fu fondato l’Ambulatorio Psicoanalitico, la cui direzione fu assunta
da Hitschmann. Era difficilissimo trovare spazi; la WPV poté creare il suo primo ambulatorio nei locali del Verein.
Herzstation
(associazione
cardiopatici).
Lì
si
tenevano anche le riunioni scientifiche e ben presto anche a Vienna si ebbe un istituto didattico. La fondazione dell’ambulatorio non fu priva di difficoltà. Già sei mesi dopo l’ottenimento del permesso
La psicoanalisi nei paesi del Centro Europa
29
da parte delle autorità sanitarie viennesi, l’attività fu nuovamente sospesa, perché a Wagner von Jauregg era giunto all'orecchio che vi operavano anche non medici. Solo dopo lunghe trattative e con l'impegno di non consentire a personale non medico di lavorarvi, fu possibile riprendere l’attività. L'atteggiamento dell’Istituto Didattico di Vienna fu sempre leggermente diverso da quello dell'istituto di Berlino. Helen Deutsch che aveva iniziato a dirigere la commissione didattica della WPV nel 1923, in una relazione annuale della commissione scrive che da Berlino arrivavano a Vienna moltissimi candidati, che speravano di trovarvi condizioni di
formazione meno severe. Questa specie di contrasto che traspare fra Vienna e Berlino, emerge anche in una storia narrata da Sperber. Il direttore dell’Ambulatorio di Vienna Hitschmann,
che era uomo di grande sarcasmo, una volta descrisse così la situazione di Eitingon, alludendo alla sua ricchezza che proveniva dalla ditta di pellami del padre: «...die besten und schònsten psychoanalitischen Félle sind die Felle des alten Eitingon»'. Ciò dimostra una certa animosità, dimostra che allora a Vienna si sapeva piuttosto bene, che l’influsso preponderante esercitato da Eitingon nella formazione psicoanalitica era dovuto al fatto che questi manteneva l'istituto con i propri mezzi. L’attività sociale della WPV negli anni fra le due guerre fu molto intensa; il gruppo era formato essenzialmente dai vecchi combattenti del periodo antecedente il conflitto; basterà citare alcuni nomi: si trattava di Rank, Federn, Friedjung, Hitschmann, Jeckels, Helen e Fritz Deutsch, Nepallek, Nunberg,
Reitler, Sadiger, Schilder, Maximilian Steiner, Edoardo Weiss, Storfer, Winterstein, Bernfeld — tutta gente
che
non
aveva
ancora
avuto
un'istruzione
formale intesa nel nuovo modo. Accanto a loro c’era il gruppo degli analisti più giovani come Anna Freud, Wilhelm Reich, Bibring, Hartmann, Hoffer, Isaak Kower, Walder, Jenny Pollok, Spitz, Fenichel, Charles
De Groot che in parte lavoravano insieme in un raggruppamento non ufficiale, dove sperimentavano e vivevano la psicoanalisi e che si diede il curioso nome di Kinderseminar®, non perché si occupasse di analisi
30
La cultura psicoanalitica
dei bambini, ma piuttosto perché essi si sentivano un po’ come bambini (o figli). Leggendo questa lista di nomi si rimane comunque impressionati dal fatto che neanche uno vi figura che non abbia più tardi, durante l'emigrazione o già prima, scritto importanti lavori sulla psicoanalisi e la sua tecnica. La Società viennese che allora viveva in una situazione di isolamento, dettata non tanto da ostilità quanto piuttosto da quella tendenza tutta viennese espressa dalla locuzione «Nicht einmal ignorieren», tentò di spezzare almeno in parte quell’isolamento giungendo nel 1925 alla formazione di un “Comitato di propaganda”. Si tratta di un termine molto strano, ma se pensate ai tempi di cui si parla, la parola “propaganda” appare senz'altro adeguata. Con pubbliche conferenze, seminari ed altro si tentò di creare, per così dire, una
coscienza della psicoanalisi nella opinione pubblica. L'iniziativa ebbe scarso successo e la psicoanalisi continuò a venir ignorata.
Soprattutto dopo la comparsa de I/ futuro di un'illusione, gli ambienti ecclesiastici, allora molto influenti, assunsero un atteggiamento per nulla favore-
vole nei confronti della psicoanalisi. Alcuni fatti caratterizzano quest'epoca dello sviluppo della psicoanalisi: un grande ruolo vi ebbe non soltanto l’isolamento scientifico,
ma
anche
un
certo
ron-commitment
in campo
politico, oserei quasi dire un’ingenuità politica, che nasceva poi dallo stesso Freud. Non si voleva prendere posizione, si temeva di farlo perché la psicoanalisi avrebbe potuto venir proibita. Perciò si evitò di esprimere opinioni (almeno ufficialmente)
in merito
a questioni di attualità.
E vero
che
diversi analisti fra i più giovani espressero anche pubblicamente le proprie opinioni personali, ma, come ci dice Marie Langer (anche se io non sono riuscito a
trovarne la prova documentaria nei verbali), ai candidati ed ai soci veniva imposta una certa astinenza politica, in quanto si temeva che l’attività politica illegale, in formazioni comuniste o socialdemocratiche ad esempio, potesse nuocere alla Società. All'epoca la WPV aveva anche una struttura gerarchica molto rigida, ufficiosa, è vero, ma comunque molto significativa. Da un lato
La psicoanalisi nei paesi del Centro Europa
31
esisteva la cerchia ristretta dei collaboratori di Freud,
alla quale appartenevano la stessa Anna Freud, McBrunswick, Charles De Groot, Marie Bonaparte, fintanto che si trattenne a Vienna, e Dorothy Burlingham. C'era poi la cerchia dei vecchi membri già citati prima (Hitschmann, Jeckels, Reitler ecc.) e poi c'erano i giovani. Direi che, quasi rispettando una vecchia tradizione austriaca, questi gruppi erano tenuti separati fra di loro in maniera relativamente rigida, un po’ come accadeva con la prima e la seconda Società a Vienna. Dato che a partire dal 1923 Freud partecipò soltanto eccezionalmente
alle riunioni
di carattere
scientifico,
soltanto
pochi eletti potevano lavorare direttamente con lui ed erano loro che, secondo la vecchia tradizione, venivano
invitati il mercoledì sera a quelle che erano chiamate le “riunioni allargate” del Consiglio Direttivo. In quel periodo la WPV fu diretta essenzialmente da Federn in veste di vicepresidente e da Anna Freud che passò ben presto da segretaria a secondo presidente e che, naturalmente, fungeva da messaggera del padre e portava, per così dire, le notizie del vecchio dalla montagna. Questa struttura rigidamente gerarchica è stata argutamente
sintetizzata da Marie Langer nel titolo di un suo articolo nel quale definisce la WPV «gerarchica, corretta e gentile». La minaccia rappresentata dalla sempre crescente presenza del nazionalsocialismo fu scongiurata essenzialmente negandola; lo stesso Freud ne fornisce un buon esempio quando scrive in una lettera a proposito dei libri messi al rogo: «Che progresso! Prima si bruciavano gli uomini, ora si bruciano i libri». Non esistono quasi casi più gravi di sottovalutazione della situazione politica, dato che poco dopo si sono bruciati anche gli uomini.
L’attività scientifica della WPV dell’epoca non può che suscitare un’ammirazione totale. Determinanti con-
tributi teorici alla psicoanalisi sono stati dati allora non soltanto da Freud — non ho bisogno di elencarveli, li conoscete già — si tratta infatti degli importanti lavori di Anna Freud sui meccanismi di difesa; si tratta del libro
sull’Io di Heinz Hartmann, allora esistente già perlomeno sotto forma di conferenze; si tratta però anche della
32
La cultura psicoanalitica
nascita
in questo
periodo
di nuovi
movimenti
di
dissidenza: è così che se ne andò Otto Rank; se ne andò
uscendo tragicamente non solo dalla ristretta cerchia dei
viennesi, ma anche dalla Società Psicoanalitica Interna-
zionale, pur essendo un membro del comitato dei famosi Sette Anelli e anche Ferenezi a Budapest scrisse allora dei lavori sulle importanti modifiche tecniche da lui introdotte nell’analisi attiva con gli adulti e nell’analisi dei bambini. Intorno al 1938 crebbe l'ostilità nei confronti della psicoanalisi. Il 1933 portò un grande cambiamento con il ritorno a Vienna di tutta una serie di analisti ebrei tedeschi come Bernfeld, Spitz e Reik; Fenichel ad esempio se ne andò a Praga dove, con il controllo in un certo senso della Società Viennese, fu fondato un gruppo analitico. Malgrado le difficoltà finanziarie dell’epoca che deduciamo dal fatto, ad esempio, che gli stipendi degli assistenti impiegati presso il Laboratorio Psicoanalitico dovettero essere dimezzati e che la quota associativa scese da centoventicinque scellini a cento scellini, ci fu un'intensa pratica analitica ambulatoriale. Ciò è in parte riconducibile al fatto che svariati medici americani cercarono una formazione psicoanalitica e anche qui troviamo nomi in seguito divenuti importanti: McBrunswick, Dorothy Tiffany Burlingham, Sidney Blanton,
Murriel Gardiner, per citarne solo alcuni. In seguito agli avvenimenti in Germania, a Vienna la
situazione si fece sempre più grave. Freud allora disse ai suoi di aspettare ad emigrare, fino a quando ciò non si fosse reso inevitabile. Per fortuna questa errata valutazione non costò la vita a nessuno. Molti analisti tuttavia preferirono lasciare prima Vienna, costrettivi talvolta dall’attività politica dei loro figli, resisi invisi all’allora sistema austrofascista; ciò è vero ad esempio per la famiglia Deutsch. Nel 1935 e ’37 ebbero luogo due “Incontri quadrilaterali” a Vienna prima e a Budapest poi. I gruppi di psicoanalisti di Vienna, Praga, Budapest e Roma convennero per un incontro di lavoro ed io ho saputo da taluni partecipanti a quella riunione quanto proficua essa sia stata. Spero che anche per noi sia così. Gli eventi politici costrinsero gli psicoanalisti tede-
La psicoanalisi nei paesi del Centro Europa
33
schi a confluire lentamente nel Reichsinstitut di Goering, che non si chiamava ancora così; anche in questo caso venne a mancare un atteggiamento deciso da parte dei viennesi e della Società Psicoanalitica Internazionale. Leggendo le cronache sulla visita di Boehm a Vienna ci si rende conto chiaramente che, con il pretesto della sopravvivenza della psicoanalisi, vi fu in realtà un fortissimo collaborazionismo, l’unica reazione al quale furono le parole di Freud: «Noi siamo stati perseguitati, ora sono loro a dover subire la loro parte di persecuzione».
Con l’arrivo — non proprio spontaneo — dei nazisti
a Vienna, l’organizzazione della WPV si sfaldò. Si era riusciti ad ottenere nuovi locali al numero 7 della Berggasse, dove vennero ospitati l'ambulatorio e l’istituto didattico; questi furono immediatamente confiscati, mentre la casa editrice fu sottoposta ad una gestione commissariale. Era giunta la fine della psicoanalisi in Austria. Dei circa centodue soci e candidati della WPV del 1938, tutti, meno due, dovettero abbandonare Vienna; possia-
mo dire di aver avuto fortuna che la cosa sia finita senza perdite. Se ne andarono prevalentemente in America e in Inghilterra, dove fondarono ciò che oggi è il peso preponderante dei paesi anglosassoni all’interno della Società Psicoanalitica Internazionale. A Vienna rimasero soltanto August Aichhorn ed il barone von Winterstein: questi dovette rimanere inattivo non essendo del tutto gradito da un punto di vista politico. Aichhorn sviluppò ben presto un'attività che egli stesso palesemente considerò determinata dalla necessità di perpetuare e mantenere la tradizione psicoanalitica. Egli iniziò ad invitare giovani medici e psicologi a discussioni sulla psicoanalisi nella sua abitazione nella Schénbrunner Strasse ed iniziò anche ad eseguire in un certo ambito delle analisi didattiche. Contemporaneamente
era in contatto
con
Goering e
l’istituto tedesco, ma in termini che mi fanno sempre un po’ pensare al suo modo di fare con i derelitti. A Hollabrunn, dove in gioventù egli apprese a trattare giovani derelitti e criminali, evidentemente acquisì una tecnica che gli tornò utile nei rapporti con i pezzi grossi
2. La cultura psicoanalitica
34
La cultura psicoanalitica
del nazismo, che pure provenivano tutti da un analogo ambiente di derelitti e criminali. La corrispondenza intercorsa fra Aichhorn e Goering e gli altri grandi dell’epoca non è stata ancora studiata; direi che il suo atteggiamento politico in quell’epoca fu bifronte. Da un lato si potrebbe rinfacciargli di essersi adeguato; dall’altro si diede da fare per contrastare
attivamente
il Regime.
E quali equivoci
possano nascere dall’interpretazione di lettere, ve lo posso dimostare con un esempio: nel 1944 egli venne improvvisamente
invitato
a tenere
una
conferenza
a
Berlino, accettò con entusiasmo e chiese contemporaneamente un posto di vagone letto. Chiunque abbia avuto la disgrazia di vivere in quel paese a quell’epoca, sa che i posti nei vagoni letto erano disponibili soltanto per i capoccia nazisti e per i militari. E così quella richiesta comportò ciò che poi accadde: egli non poté recarsi a Berlino. Dunque egli non disse apertamente: «Non ho voglia di parlare per voi», ma pose una richiesta che ben sapeva non poter essere soddisfatta. Questa psicoanalisi in clandestinità non fu priva di pericoli e minacce che portarono alla morte in un campo di concentramento di uno dei membri di questo gruppo e ad un soggiorno prolungato ad Auschwitz di altri due; la vita le fu resa difficile, tanto che anche il figlio di Aichhorn finì nel campo di concentramento di Dachau, da dove uscì solo dopo vari sforzi e in parte con l'intervento di Goering. Dopo il crollo del governo nazista alla fine della guerra, già nel maggio del 1945 a Vienna alcuni membri di questo gruppo si riunirono intorno a Aichhorn. Essi presero la decisione di trasformare l’ex filiale viennese del Reichsinstitut di Goering in un Istituto Austriaco per la Ricerca Psicologica e la Psicoterapia; la parola psicoanalisi non fu usata, mentre si parlò sempre di psicologia del profondo. In quei giorni sarebbe stato
certamente possibile fondare un istituto interdisciplinare di quel genere. La collaborazione fra gli psicologi individualisti e gli psicoanalisti durante il periodo bellico fece sì che fosse accettata la cancellazione dei confini, che non si dovesse più lottare gli uni contro gli altri, ed era comprensibile la necessità di continuare in tal senso. Aichhorn, che ritornò in giugno, si rivelò allora come un
La psicoanalisi nei paesi del Centro Europa
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fattore molto importante. Egli dichiarò senza mezzi termini che la collaborazione all’interno di un istituto psicoanalitico interdisciplinare era un problema di carattere secondario e che egli riteneva importante rifondare al più presto la WPV e ricreare immediatamente il contatto con la Società Psicoanalitica Internazionale. In questo modo si evitò — fortunatamente oserei dire, considerando la situazione in Germania — la
fondazione di questo istituto erede del Reichsinstitut. Già nel settembre del 1945 fu fatta richiesta di poter far rivivere la WPV. Fra parentesi desidero raccontarvi un fatto tipicamente austriaco e viennese. Quando, in base alla legge
sull’annessione dell’Austria al Terzo Reich, si giunse allo scioglimento della WPV, ciò avvenne secondo il diritto austriaco in vigore. Per avere forza di legge, però, un decreto di scioglimento deve venir notificato a qualche responsabile. Su incarico della Gestapo, la polizia provò a notificare questo decreto a un membro del Consiglio Direttivo dopo l’altro e noi abbiamo trovato negli archivi dei commoventi foglietti in cui gli agenti di polizia scrissero: «A quanto afferma il portinaio, il professor Freud è partito. Il decreto non ha potuto essergli notificato». E così avvenne qualcosa che in realtà invalidò questo scioglimento: non essendoci più a portata di mano nessun membro del Consiglio Direttivo, non si passò alla nomina di un curatore della notifica, ma si mise semplicemente da parte la pratica, cosicché — e questo mi sembra molto bello — lo scioglimento della WPV de jure non ebbe mai luogo. Ovviamente nel 1945 nessuno poteva saperlo e così la WPV fu ricostituita ai sensi della legge sulla ripresa dell'attività delle associazioni.
Il 10 Aprile 1946, nell’appartamento di Aichhorn situato al numero 20 della Arthurstrasse, ebbe luogo la solenne riunione alla presenza delle massime autorità e dei rappresentanti delle forze di occupazione americane, russe, francesi ed inglesi. Non vi presenziò invece il presidente dell'Istituto di Psicologia, prof. Rohrbacher, il quale motivò in una lettera la sua mancata partecipazione con ragioni di principio di ordine scientifico. Questo vi offre uno scorcio sulla situazione della
36
La cultura psicoanalitica
psicologia in Austria, valida ancor oggi per questo aspetto. L'assessore alla cultura del Comune di Vienna promise allora l'erezione di un monumento e la denominazione di una strada in onore di Sigmund Freud. A Vienna gli orologi restano indietro: il monumento e la strada sono sorti nel ‘1985. Aichhorn allora aveva grandi progetti: si mise all'opera con grande slancio, elaborò uno schema organizzativo con servizio interno ed esterno, il tutto con
un numero di soci pari a quattordici. Si decise allora di fare soci tutti, anche se non avevano avuto una formazio-
ne psicoanalitica completa, una proposta questa sconvolgente per la burocrazia psicoanalitica internazionale e che fu ben presto ritirata. Questi quattordici membri avrebbero dovuto farsi carico di aggiornamento, formazione, attività scientifica, ricerca, ambulatorio, consulenza in materia educativa ed occuparsi nel servizio esterno
di contatti, consulenza e perizie nei confronti di autorità, prevenzione, università, associazioni scientifiche e stampa. Si può proprio dire che, all'americana, si doveva think big. I soci di allora fecero domanda di far conferire ad Aichhorn il titolo di professore. La cosa incontrò dapprima delle difficoltà, in quanto le autorità ritenevano che la psicoanalisi non fosse una scienza e che pertanto non si potesse conferire un titolo di professore per meriti scientifici a qualcuno che era soltanto psicoanalista. Nel 1947 la nomina arrivò. Aichhorn fu molto attivo, tenne innumerevoli conferenze, tentò di ricostituire un centro di consulenza educativa, una child
guidance clinic, per cui furono reperiti mezzi anche all’estero. La sua morte intervenuta il 13 Ottobre 1949 annullò questi progetti. Dopo la sua morte era logico che Winterstein diventasse presidente. Winterstein era un uomo molto introverso, un uomo che viveva in disparte, un tipico aristocratico austriaco con tutte le sue belle maniere, ma
anche con quella certa distanza... da lui non ci si poteva attendere un'attività come quella di August Aichhorn. Nel 1950, Edward Glover inviò un questionario a tutte le società appartenenti alla Società Psicoanalitica Internazionale nel quale si chiedeva quali sviluppi
La psicoanalisi nei paesi del Centro Europa
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scientifici esistessero nelle associazioni e quali tendenze vi fossero maggiormente rappresentate. Nella risposta di Winterstein vi è qualcosa di molto caratteristico per la WPV intesa come associazione tradizionalista. Infatti egli scrive: «L'unica tendenza che ho osservato negli ultimi anni e che, in qualità di presidente, tento di inculcare ai soci, è l’approfondimento dello studio degli scritti freudiani, unitamente all’uso della massima caute-
la nel considerare nuove idee». La WPV
attraversava temporaneamente
una situa-
zione critica, poiché nel 1950 vi fu un solo candidato e si era seriamente preoccupati. Ma già nel 1953 la Società
ebbe nuovamente diciassette candidati. In seguito alla carenza di soci si dovettero modificare gli statuti portando il numero dei membri del Consiglio Direttivo ‘ da sei a tre. Allora vigeva anche l’interessante norma che subordinava la qualità di socio ad un limite di età: bisognava avere trenta anni, prima non era possibile. Fra i successi registrati dalla WPV ci fu, nel febbraio del
1955,
l'erezione,
ottenuta
con
lo stimolo
ed il
sostegno della Società Psicoanalitica Internazionale, di un busto di Freud sotto il porticato dell’Università di Vienna. Così Freud se ne sta sotto il porticato dell’università non lontano da Briicke. Il 6 Maggio 1954, anniversario della nascita di Freud, fu apposta una targa sulla sua casa. Questa però fu donata, pagata dalla World Federation for Mental Health che tenne il suo congresso a Vienna ed ebbe l’idea. Ricordo ancora lo scoprimento di quella targa: Hoff, l’ordinario di psichiatria, tenne il discorso in veste di presidente della World Federation e un gruppetto di circa cinque persone vi assistette, mentre alcune casalinghe con la borsa della spesa si fermarono meravigliate. Sto raccontando queste cose per mostrare un po’ qual era la situazione della psicoanalisi trenta anni fa. Per motivi di età e di salute, nel 1957 Winterstein si
ritirò dalla presidenza della WPV; il suo posto fu preso da Wilhelm Solms Rédelheim che fu presidente dal 1957 fino
al 1972.
Nel
suo
discorso
d’insediamento,
se
vogliamo chiamarlo così, egli disse: «Se mi chiedete quale sia il mio programma, vi dico che la formazione è il nostro compito precipuo. Dopo il 1957 la Società ha
38
La cultura psicoanalitica
resistito alla tentazione di far molto rumore intorno all'esistenza della psicoanalisi. Noi abbiamo il compito
di essere un centro di seria formazione». Questa continua limitazione all’attività interna, alla formazione,
al non prendere contatto con l’esterno evidentemente è una delle peculiarità della psicoanalisi a Vienna fin dal 1902. È vero che vi furono delle eccezioni, in presenza di stimoli particolari dall’esterno, ma in linea di massima vi fu un atteggiamento di isolamento, di splendid isolation che è molto caratteristico. Alois Becker, che succedette a Solms alla presidenza della Società, in un articolo scritto nel 1965 diede un
nome a questo atteggiamento che io trovo molto azzeccato: egli lo chiamò “ortodossia pragmatica” ed aggiunse che la società avrebbe avuto la funzione di considerarsi come il tramite, sopravvissuto della tradizione, di una procedura terapeutica standard elaborata originariamente da Freud. Negli anni che seguirono fino al Congresso Internazionale di Psicoanalisi di Vienna del 1971, ci si occupò soprattutto dell’elaborazione delle nuove teorie psicoanalitiche provenienti dall’estero, in particolare della psicologia dell’Io. Negli anni seguenti al ’68 vi fu un afflusso di candidati, poiché con il movimento sessantottesco crebbe l’interesse verso la psicoanalisi e la richiesta di formazione analitica. Il numero dei candidati è così raddoppiato e triplicato. Il numero dei membri è rimasto inalterato a quindici fino al 1965-67. L'attività scientifica della WPV dal 1945 in poi non ha mai più raggiunto i livelli del periodo fra le due guerre: troppo grandi furono infatti le perdite di talenti genuini e di analisti molto validi sul piano scientifico. Un grande impulso fu dato con il Congresso Internazionale di Psicoanalisi del 1971 che improvvisamente, in un solo colpo fece capire all’opinione pubblica viennese e al mondo della scienza che non esisteva soltanto un gruppetto di analisti fiorito di nascosto a Vienna, bensì che la città era stata invasa da tremila analisti provenienti da tutto il mondo. Anche questo fece crescere l’afflusso di candidati. Nel 1968, dopo che fu condotta un’inchiesta per sapere chi fosse l’austriaco più noto all’estero,
La psicoanalisi nei paesi del Centro Europa
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l’allora governo conservatore dovette suo malgrado scoprire che non si trattava di Mozart o di Schubert, bensì di Sigmund Freud; ne conseguirono l’acquisto del vecchio ambulatorio di Freud e la fondazione di un'associazione: la Sigrzund Freud Gesellschaft, che vi istituì un museo.
La WPV ha oggi raggiunto nuovamente il numero di soci e di candidati che aveva nel 1938. Purtroppo non ne ha eguagliato l’importanza; purtroppo questa cifra non è altro che una cifra. Nella sua relazione al Congresso Internazionale di Psicoanalisi di Vienna, Anna Freud ha
parlato brevemente in tedesco dicendo che il ritorno a Vienna risvegliava in lei il ricordo del lavoro lì svolto e, cito: «...della fondazione del nostro istituto clinico e teorico in un nuovo appartamento nella Berggasse, del mio lavoro per il Comune di Vienna con l’ispettore Thesarek a favore delle scuole elementari e delle scuole ‘naterne, del mio lavoro con Aichhorn per il consultorio giovanile del Comune di Vienna». Non è difficile chiedersi: «Se non fossimo stati interrotti dagli eventi politici, se avessimo continuato a costruire dopo gli inizi, dove sarebbe oggi la psicoanalisi in Austria?». Vorrei concludere con questa domanda.
Note
1 Letteralmente: «I migliori casi psicoanalitici sono le pelli del vecchio Eitingon», gioco di parole fra l’assonanza di Falle (casi) e Felle (pelli). 2 Lett.: Seminario infantile. 3 Lett.: Neanche ignorare.
Harold Leupold Lowenthal (Austria - Vienna): Docente all’Università di Vienna. Storico della psicoanalisi e Direttore del Sigmund Freud Gesellschaft. Analista didatta della Società Psicoanalitica Viennese.
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Lutz Rosenkétter Per una storia
dell’Associazione Psicoanalitica in Germania
Per ragioni di tempo la mia relazione non può pretendere di esaurire l'argomento. I punti più significativi su cui mi soffermerò sono dettati esclusivamente dalle mie opinioni personali. Le basi della psicoanalisi in Germania furono gettate da Karl Abraham, il quale nel 1908 riunì per la prima volta attorno a sé un gruppo di colleghi interessati alla materia, fondando l’Istituto Psicoanalitico Berlinese. Nel 1910 questo venne riconosciuto ufficialmente con il nome di Società Psicoanalitica Tedesca, affiliata all’Associazione Psicoanalitica Interna-
zionale. Durante la prima guerra mondiale la crescita così avviata subì una battuta d’arresto, pur avendo quella guerra dato alla psicoanalisi un’occasione non indifferente per affermarsi. Nel logoramento di uomini e mezzi della Grande Guerra si osservò, infatti, per la prima volta un fenomeno di massa fino ad allora sconosciuto: quello delle nevrosi di guerra, che si presentavano tra l’altro
con
sintomi
come
tics, paralisi,
crampi,
stati
crepuscolari, sordità psicogena, cecità ecc. Freud ha riassunto la dinamica di tale fenomeno come segue: «La paura di perdere la vita, l'opposizione all’ordine di uccidere altra gente, la ribellione contro i superiori che reprimevano indiscriminatamente la loro personalità: queste erano le fonti affettive più importanti da cui traeva alimento la tendenza dei soldati a sfuggire alla guerra...»!.
Naturalmente questa patologia di massa rappresentava un pericolo per la disciplina della truppa e gli
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La cultura psicoanalitica
psichiatri militari tentavano di contenerlo — cosa che non riuscì loro se non in misura minima — servendosi di crudeli metodi di tortura, in particolare di dolorose applicazioni di corrente elettrica. Anche alcuni celebri psicoanalisti si occuparono delle nevrosi di guerra attraverso una psicoterapia analitica applicata, in cui confluivano elementi catartici e suggestivi. Queste terapie meno crudeli ebbero successo e contribuirono ad accrescere la stima per la psicoanalisi in molti medici. Nell'estate del 1918 si tenne a Budapest un congresso sul problema delle nevrosi di guerra, che fu seguito attentamente dalle autorità sanitarie ed al quale parteciparono con proprie relazioni celebri psicoanalisti come Ferenczi, Abraham
e Simmel.
In tale contesto Sigmund Freud aveva affermato: «D'altra parte, è possibile prevedere che un giorno o l’altro la coscienza della società si desti e rammenti agli uomini che il povero ha diritto all’assistenza psicologica né più né meno come ha diritto già ora all’intervento chirurgico... Saranno allora create delle case di cura o degli ambulatori, dove lavoreranno un certo numero di medici con preparazione psicoanalitica... Questi trattamenti saranno gratuiti»?.
Sulla scia di tali esperienze e con la fattiva collaborazione, anche finanziaria, di Max EFitingon nel 1920 fu
fondato a Berlino un Policlinico e un Istituto didattico di psicoanalisi. L'Istituto berlinese ebbe uno sviluppo costante nel corso degli anni Venti, con la costituzione di un comitato di docenti, l'elaborazione di piani di studio e così via. L’analisi didattica ne divenne un elemento chiave. Ogni paziente pagava un onorario, commisurato
alle proprie possibilità finanziarie ed ogni aspirante psicoanalista doveva seguire un paziente a titolo gratuito.
In questo processo di formalizzazione dell’istruzione psicoanalitica Max Eitingon, Carl Miiller-Braunschweig e Sandor Rado svolsero un ruolo di primo piano. L'Istituto berlinese con la sua analisi didattica, il comitato dei docenti, i piani di studio ed i trattamenti
controllati, era diventato un modello per tutti gli altri istituti psicoanalitici del mondo, mentre a Vienna la
La psicoanalisi nei paesi del Centro Europa
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formazione continuava ad essere meno formale. C'è da chiedersi se tale sviluppo avesse soltanto lati positivi o se non abbia al contrario contribuito all’irrigidimento degli istituti psicoanalitici, alla formazione di strutture di potere poco trasparenti ed all’infantilizzazione degli aspiranti. Siegfried Bernfeld ha già espresso dubbi a tale riguardo. Nell’Istituto berlinese si andava intanto formando un clima intellettuale estremamente vivace. Ancora non si poteva certo parlare di “medicalizzazione”: tra i membri più autorevoli dell'Istituto si contavano personaggi come Hans Sachs (giurista), Siegfried Bernfeld (pedagogo), Carl Miiller-Braunschweig (filosofo), per citarne solo alcuni. Ernst Simmel era impegnato contemporaneamente nell’Associazione dei medici socialisti e dirigeva inoltre anche un sanatorio psicoanalitico. Otto Fenichel usava riunire i membri più giovani in serate di discussione su psicoanalisi e marxismo, dando vita al cosiddetto Kirderseminar. Facevano parte di quella cerchia le sorelle Bernstein, Barbara Lantos, Kathe Friedlinder, Edith Jacobson ed alcuni altri. Anche dall’esilio americano, Otto Fenichel avrebbe fatto pervenire regolarmente a questo gruppo le sue “circolari”, strettamente riservate per il loro contenuto di sinistra. Su questa stupenda poliedricità intellettuale già verso l’inizio degli anni Trenta cominciarono tuttavia ad addensarsi le nubi minacciose del nazionalsocialismo, che spinse alcuni analisti come Franz Alexander e Karen Horney
ad emigrare
negli Stati Uniti
ancora
prima
dell’ascesa al potere di Hitler. Immediatamente dopo l’insediamento al potere di Hitler, nel gennaio del 1933, ebbe inizio la campagna di terrore contro ebrei, membri dei partiti di sinistra e sindacalisti. Risale alla primavera del 1933 un decreto in virtù del quale nessun ebreo poteva far parte degli organi direttivi di associazioni scientifiche. Eitingon, Fenichel e Simmel furono dunque costretti a rassegnare le proprie dimissioni, mentre restavano al loro posto gli “ariani” Felix: Boehm e Carl Miller-Braunschweig. Sempre nel 1933, Miiller-Braunschweig pubblicò su una rivista di destra un articolo che per stile e scelta delle parole tentava di avvicinare quella cerchia di lettori,
dd
La cultura psicoanalitica
sforzandosi di dare una giustificazione della psicoanalisi. Fu questo un momento sul quale cinquant'anni più tardi sarebbero sorte accese polemiche in Germania. La Società Psicoanalitica Tedesca trascorse i successivi due anni in un clima di incerta calma, nel continuo
timore di attacchi da parte delle organizzazioni naziste. Non solo C.G. Jung, ma anche gli psichiatri approfittarono dell'occasione per regolare vecchie inimicizie. Nell’ottobre del 1935 Edith Jacobson, membro della Società Psicoanalitica Tedesca, fu arrestata per resistenza politica e condannata all'ergastolo per alto tradimento. Riuscì a fuggire due anni più tardi, riparando prima in Cecoslovacchia e poi negli Stati Uniti. Con molta discrezione l'Associazione Psicoanalitica Internazionale cercò di aiutarla, pur senza apprezzare particolarmente la sua attività politica. Nel novembre del 1935 due psicoterapeuti iscritti al partito nazionalsocialista avvicinarono Boehm e MillerBraunschweig, con la velata promessa che la psicoanalisi avrebbe potuto avere ancora un futuro in Germania «qualora tutti i suoi rappresentanti fossero stati ariani».
Alla luce di questi drammatici sviluppi Ernest Jones, allora Presidente dell’Associazione Psicoanalitica Internazionale, venne espressamente da Londra a Berlino e,
durante
una
movimentata
seduta
del direttivo
Società Psicoanalitica Tedesca, il 1° Dicembre
della
1935, si
deliberò che «i pochi ebrei rimasti avrebbero rassegnato volontariamente le loro dimissioni per evitare lo scioglimento forzato dell’Associazione». Regine Lockot ha fatto notare che si trattava di ben diciotto persone, ossia la metà dei membri della Società Psicoanalitica Tedesca. Sia detto per inciso che Ernest Jones aveva partecipato anche alla seduta della Società Psicoanalitica Tedesca del novembre del 1933, durante
la quale si erano dimessi i membri ebrei del direttivo. Nel febbraio 1936 alcuni alti funzionari statali fecero sapere a Boehm che la psicoanalisi era ritenuta utile, purché essa non si richiamasse a Freud. Suppongo che in vista della guerra, allora già programmata, non si volesse farne a meno per curare le nevrosi di guerra. Sempre nel 1936, sotto la guida dell’adleriano M.H. Gòring, parente del futuro maresciallo del Reich,
La psicoanalisi nei paesi del Centro Europa
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Hermann Gòring, fu fondato un “Istituto per la ricerca psicologica e la psicoterapia”, incorporandovi tutte le scuole di psicoterapia. L'Istituto era rigidamente centralizzato e vigevano direttive linguistiche che proibivano l’impiego dei termini freudiani; le opere di Freud vennero rinchiuse nell’“armadietto dei veleni”. Nel marzo del 1936 incontrò Anna Freud a Brno per concordare con lei la condotta nei confronti di Vienna. Non tutti gli studiosi sono tuttavia d’accordo sul grado di convergenza raggiunto in quell’occasione.
Credo che quanto accadde a Vienna nel 1938 sia già stato trattato da Leupold Lòwenthal. Tuttavia questi avvenimenti ebbero delle ripercussioni anche a Berlino, dove la Gestapo rinvenne una cortese lettera di Carl Miiler-Braunschweig indirizzata ad Anna Freud. In seguito a ciò la Società Psicoanalitica Tedesca fu sciolta d’ufficio, continuando ad esistere soltanto come ‘“Gruppo di lavoro A” presso l’Istituto di Gòring. In quella sede almeno, i ruoli clinici più importanti erano coperti da psicoanalisti, la cui competenza non poteva essere ignorata. Dopo lo scoppio della guerra, tutti i membri dell'Istituto di Gòring dovettero dedicarsi esclusivamente agli scopi bellici dello stato nazista, pur non venendo ostacolati che in misura minima nella loro attività clinica. La formazione seguiva il modello dell'Istituto berlinese. Va ricordata a questo punto anche l’influenza che l’Istituto Gòring esercitò sul settore sanitario, specie dell'aeronautica, ma anche dell’esercito. Nei primi anni di guerra si cercò in primo luogo di limitare l’intervento degli “psichiatri torturatori” ricorrendo ad importanti personaggi della gerarchia nazista e di ottenere così maggiore tranquillità per curare con misure psicotera-
peutiche i soldati affetti da disturbi nevrotici e psicosomatici — allora definiti “reazioni psichiche anomale”. Soltanto quando queste non avevano successo i pazienti in questione, giudicati ‘‘psicopatici minorati”, venivano avviati a metodi più brutali come le correnti galvaniche, i battaglioni di disciplina o i campi di concentramento. Nel 1943 lo psicoanalista allora direttore del policlinico dell'Istituto Géring, John Rittmeister, fu arrestato per attività nella resistenza, condannato a morte e successivamente
giustiziato. Da quel momento
gli psi-
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La cultura psicoanalitica
coanalisti
non
poterono
ad
più. continuare
operare
neppure nel “Gruppo di lavoro A”, ritrovandosi solo a livello informale per delle ‘serate di casistica e terapia”. L'Istituto Gòring, che aveva continuato ad esistere
fino alla fine della guerra, andò completamente distrutto nell'aprile 1945 durante la battaglia per Berlino. Già nell’estate dello stesso anno alcuni membri dell'ex Istituto Psicoanalitico di Berlino si riunirono nuovamente, decidendo di proseguire nel lavoro comune. Si erano delineate nel frattempo diverse correnti teoriche, rappresentate principalmente da Harald Schulz-Hencke, esponente di una “neo-analisi” e da Carl Miiller-Braunschweig, propugnatore di un’interpretazione più ortodossa. La discussione in corso fu ulteriormente complicata dal fatto che i due gruppi si accusavano reciprocamente di collaborazionismo con il regime nazista. In occasione del Congresso Internazionale di Psicoanalisi, tenutosi a Zurigo nel 1949, era stato chiesto
agli analisti tedeschi di chiarire la loro posizione teorica. Dato che la Società Psicoanalitica Tedesca, rifondata nel
1950
da Carl Miller-Braunschweig,
un'assemblea
dei suoi membri,
non
in occasione era
riuscita
di ad
indurre Schulz-Hencke a dimettersi, quest’ultimo decise di dissociarsene volontariamente, fondando con otto dei
ventidue membri della precedente Società la cosiddetta “Associazione
ciazione
Psicoanalitica Tedesca,
Psicoanalitica
affiliata all’ Asso-
Internazionale”.
successivi vi sarebbe molto da dire, ma
Sugli sviluppi così facendo
abbandoniamo la storia per addentrarci nel presente. Negli anni che seguirono, l'Associazione Psicoanalitica Tedesca registrò una continua crescita. Verso la fine degli anni Cinquanta la Clinica psicosomatica di Heidelberg fu riconosciuta come suo istituto didattico, seguita nel 1960 dall’istituto d’Amburgo e dall’Istituto Sigmund Freud di Francoforte. Oggi l'Associazione conta oltre quattromila membri e dodici istituti didattici nella Germania Federale. In numerosi istituti universitari troviamo degli psicoanalisti in veste di docenti. Da circa quindici anni i trattamenti psicoanalitici vengono parzialmente rimborsati dalle casse mutue obbligatorie. La vitalità e la creatività culturale degli psicoanalisti non è tuttavia cresciuta parallelamente. Accanto a fattori insiti
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nelle strutture organizzative dell’Associazione Psicoanalitica Internazionale, ciò è da imputare in Germania anche alla mancanza di una vera riflessione sul passato nazionalsocialista.
Note
1. S. Freup, Prorzerzoria sul trattamento elettrico dei nevrotici di guerra, O.S.F. 9, Boringhieri, Torino 1977, p. 172.
2. S. Freup, Vie della terapia psicoanalitica, O.S.F. 9, Boringhieriel'o rino M9/7/ pr 27%
Lutz Rosenkòtter (Germania): Società Psicoanalitica Tedesca.
Psichiatra.
Membro
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E. Cividini-Stranié, S. Nikolié, V. Matié, M. Popovié, N. Kobal, A. Markovié
La psicoanalisi in Jugoslavia Possiamo iniziare questa relazione col dire che in Jugoslavia la psicoanalisi cominciò a svilupparsi all’inizio degli anni Trenta. Il suo debutto fu diverso nei vari centri culturali, a causa delle distinte realtà presenti in ogni singola repubblica o regione autonoma. Seguiremo gli inizi della psicoanalisi nei principali centri jugoslavi: Zagabria, Belgrado, Lubiana e Sarajevo. La psicoanalisi in Jugoslavia, anteriormente alla seconda guerra mondiale, è legata ai nomi del prof. Stjepan Betlheim, del dott. Hugo Klajn e del dott. Nikola Sugar. Il prof. S. Betlheim nacque a Zagabria e completò gli studi di medicina a Graz ed a Vienna. Laureatosi in medicina si specializzò in psichiatria presso cliniche ed altre istituzioni a Vienna, Zurigo, Berlino e Parigi. Ritornò a Zagabria nel 1928. Uno dei suoi maestri più importanti fu Paul Schilder. Fece la propria analisi didattica con Sandor Rado, la prima analisi di controllo con Helen Deutsch e la seconda analisi di controllo con Karen Horney. Prima della guerra il prof. Betlheim ebbe il proprio studio privato a Zagabria, dove curava i pazienti con la psicoanalisi e la psicoterapia. Fra le due guerre il prof. Betlheim contribuì notevolmente allo sviluppo ed alla promozione della psicoanalisi in Jugoslavia, tenendo conferenze e scrivendo opere rivolte ad un più vasto pubblico professionale. Il suo appartamento in Piazza Marulié 17, a Zagabria, fu il luogo d’incontro di un gruppo “di avanguardia” che seguiva le sue lezioni di psicoanalisi. Il dott. Hugo Klajn completò la sua analisi didattica
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La cultura psicoanalitica
con Paul Schilder. Dal 1925 il dott. Klajn cominciò a svolgere la sua prassi psicoanalitica e ad avvicinare al movimento psicoanalitico sia il mondo medico di Belgrado che quello intellettuale in senso più esteso. Contribuì altrettanto alla psicoanalisi traducendo le opere di Freud per le quali scrisse delle eccezionali prefazioni. Dopo la guerra il dott. Klajn continuò per un certo periodo nelle sue attività ma in seguito concentrò i propri interessi sull’arte e sulla cultura, diventando direttore del Teatro Drammatico Jugoslavo e dello Studio Drammatico 212,
per essere infine nominato professore all'Accademia di Arte Drammatica a Belgrado. Il dott. Nikola Sugar ebbe la sua formazione psicoanalitica a Berlino. Dal 1926 al 1937 visse e lavorò a Subotica, nel 1937 si recò a Belgrado e divenne uno dei fondatori del ‘“gruppo psicoanalitico” con l’intento di trasformarlo, in seguito, in un istituto psicoanalitico. In tal modo si formò il primo gruppo psicoanalitico in Jugoslavia a Belgrado nel ’38. Sfortunatamente lo sviluppo del gruppo fu ostacolato dalla guerra e dalle persecuzioni naziste che portarono il dott. Nikola Sugar alla morte in un campo di concentramento
nazista.
I membri di questo primo gruppo psicoanalitico erano psichiatri che si sottoponevano all’analisi didattica con il dott. Sugar, ma fra essi ci furono anche altri medici e studenti di filosofia. Desideriamo sottolineare che fu il dott. Sugar il primo ad introdurre in Jugoslavia la formazione psicoanalitica. I suoi primi discepoli, il prof. Vojin Matié ed il primario Vladislav Klajn furono promotori dello sviluppo post-bellico della psicoanalisi in Serbia. Si può dunque dire che il prof. S. Betlheim, il dott. Klajn ed il dott. N. Sugar furono gli psicoanalisti jugoslavi che svolsero fra le due guerre un ruolo
essenziale di istituzione e di informazione. Prima della seconda guerra mondiale Sugar e Betlheim, che desideravano gettare le basi di una associazione psicoanalitica jugoslava, si incontrarono a tal fine più volte a Belgrado. Purtroppo le loro intenzioni furono vanificate dalla guerra. In Slovenia la psicoanalisi non faceva parte della psichiatria prima della guerra. Uno dei principali psichiatri sloveni, Alfred Serko che all’epoca godeva di
La psicoanalisi nei paesi del Centro Europa
51
fama mondiale, non esitò ad illustrare nel suo libro Su//a
psicoanalisi, il suo atteggiamento negativo verso la psicoanalisi tanto come teoria che come metodo terapeutico.
Prima della guerra gli psichiatri di Sarajevo non dedicarono alcuna attenzione alla psicoanalisi. La psicoanalisi dopo la guerra Gli inizi Nel 1948 il dott. S. Betlheim iniziò a lavorare presso la Facoltà di Medicina dell’Università di Zagabria. Questo fatto fu decisivo per l’ulteriore contributo che egli diede allo sviluppo della psicoterapia e della psicoanalisi a Zagabria e nella repubblica Croata. Nel 1933 il prof. Betlheim fondò il primo reparto psicoterapeutico
presso
una
clinica
psichiatrica
universitaria
jugoslava. Curava i propri pazienti con la psicoanalisi e la psicoterapia di ispirazione psicoanalitica e formava i suoi primi collaboratori secondo i principi della psicoanalisi. All'epoca c’erano pochi psicoterapeuti e molti pazienti. Il dott. Betlheim si impegnò in molti istituti e comitati, cercando di sviluppare la psicoterapia analitica breve e la psicoterapia di gruppo. Nel 1963 assieme ai suoi collaboratori pubblicò un libro intitolato Le nevrosi e le loro cure, uno dei primi manuali in Jugoslavia che esponesse
concetti
psicoanalitici
per la comprensione
delle nevrosi. Il prof. Betlheim lavorò intensamente per raccogliere attorno a sé giovani colleghi interessati alla psicoterapia, cosa che portò alla creazione della Sezione Psicoterapeutica nel 1965. Nel 1968 il prof. Betlheim fondò l’Associazione Psicoterapeutica Jugoslava e ne divenne il primo presidente. Fu sempre il prof. Betlheim ad inaugurare il famoso Seminario Psicoterapeutico che contribuì notevolmente alla diffusione della psicoanalisi in Jugoslavia. Il dott. Betlheim riteneva che ogni psicoterapeuta dovesse sottoporsi a sua volta all'analisi personale. Era inoltre convinto che ogni psicoterapeuta dovesse avere la
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La cultura psicoanalitica
possibilità di andare all’estero per arricchire le proprie esperienze personali e teoriche. Fu l’unica persona in grado di offrire un'istruzione psicoanalitica vera e propria.
Parallelamente un piccolo numero di psichiatri interessati alla psicoanalisi, fu incaricato di varie attività.
Di conseguenza, per entrambi questi motivi, l’interazio-
ne fra coloro che avevano optato per la psicoterapia come attività principale e coloro che praticavano la psichiatria più o meno classica, non era molto stretta. Nel 1952 il prof. Betlheim divenne membro dell’IPA. Nel 1953 diede inizio all’analisi didattica dei suoi due più stretti collaboratori. Più tardi altri quattro collaboratori iniziarono l’analisi personale. L’apprendimento della psicoanalisi nel reparto clinico psicoterapeutico fu spesso accompagnato da un corso universita-
rio. L'atmosfera fra questi pionieri era di amicizia e familiarità con tutti i partecipanti, legati emotivamente l’uno all’altro. Questi lavoravano insieme con grande entusiasmo, con la speranza che la psicoanalisi divenisse parte della medicina ufficiale. La prof. Duska BlaZevié, seguace e collaboratrice
stretta del prof. Betlheim,
iniziò a lavorare
con lui
nell’Istituto Psicoterapeutico della Facoltà di Medicina dell’Università di Zagabria. Nel 1969 l’Istituto Psicoterapeutico della Clinica Psichiatrica divenne Centro per la Salute Mentale. La dott. BlaZevié ne fu il primo direttore e contribuì alla creazione della cosiddetta ‘Scuola psicoterapeutica di Zagabria”, con notevoli successi sia nell’istruzione che nella ricerca. Fondò inoltre la prima rivista psicoterapeutica jugoslava intitolata «Psicoterapia» di ispirazione psicoanalitica. Assieme ai propri collaboratori, la prof. BlaZevié diede inizio ad uno studio sistematico della psicoterapia analitica con gruppi di giovani colleghi, in varie località croate, scrivendo poi il primo manuale di psicologia medica per studenti di medicina, basandosi su concetti psicoanalitici. Un ruolo particolare nello sviluppo della psicote-
rapia infantile ed adolescenziale, presso il Centro per la Salute Mentale di Zagabria, fu svolto dalla prof. Maja Beck-DvorZak. E per suo merito che la psicoanalisi e le terapie psicoanalitiche sono divenute utili
La psicoanalisi nei paesi del Centro Europa
pb,
strumenti psicoterapeutici nella cura di bambini ed adolescenti. Il prof. Vojin Matié fondò nel 1955 a Belgrado il primo Consultorio Infantile, con una vasta gamma di psicodiagnosi e psicoterapie per bambini ed adolescenti. Il prof. Matié sviluppò molte attività nel campo della psicoanalisi a Belgrado ed in altre località, ma fu innanzitutto il maestro di molte generazioni di psicologi, psichiatri, operatori sociali ed insegnanti specializzati. Si dedicò all’analisi didattica e contribuì allo sviluppo della psicoterapia infantile. Il prof. Matié fu preside dell’Istituto per la Psicologia Clinica della Facoltà di Lettere, dove svolse notevoli attività didattiche. Contribuì inoltre alla psicologia dell'Io con le sue opere sul “primo oggetto” come pre-oggetto nello sviluppo infantile. Recentemente, il prof. Matié ha avviato studi paleopsicologici ed ha pubblicato tre libri su questo tema, attirando l’attenzione del pubblico internazionale. Le attività psicoanalitiche del dr. Vladislav Klajn sono altresì legate a Belgrado. Nel 1956 fondò il primo reparto di degenti psicoterapeutico presso la Clinica universitaria “Dr. Dragisa Misovic”. Nel 1962, pubblicò un libro sulle neurosi ad impostazione psicodinamica e sociodinamica. Il dott. Klajn non si dedicò all’analisi didattica ma sviluppò un metodo originale di supervisione chiamato ‘Supervisione a tre”, che è una variazione della supervisione del piccolo gruppo. A questo punto nello sviluppo psicoanalitico a Belgrado, un ruolo importante fu svolto dal dott. Mirko Svrakié della Clinica di Avala, che introdusse i concetti psicodinamici nell’approccio clinico ai pazienti neurotici e psicosomatici e che pubblicò un libro su tale approccio nel 1962. In Slovenia nei primi anni Cinquanta, apparvero alcuni articoli scientifici e divulgativi sulla necessità di introdurre la psicoanalisi nella psichiatria e nell’igiene mentale. Nel 1961, uno degli psicologi clinici venne inviato a Géttingen per la formazione professionale, più tardi un altro venne inviato alla Tavistock Clinic di Londra. Nel 1964 si diede inizio all'istruzione psicoterapeutica sistematica per gli psichiatri che lavoravano presso l'ambulatorio dell'Ospedale per Disturbi Mentali e del Sistema Nervoso di ‘“Ljubljanja-Polje”. Nello
54
La cultura psicoanalitica
stesso anno venne fondato un reparto per pazienti neurotici. Nel 1967 un gruppo di colleghi di inclinazione psicoterapeutica, guidato dal prof. M. Kobal fondò il Centro per la Psicoterapia. I programmi sloveni per l’istruzione psicoterapeutica risultarono dalla collaborazione fra gli psicoterapeùti di Ljubljana ed i loro colleghi di formazione analitica di Zagabria. A Sarajevo, fu il primario A. Markovié ad avviare lo sviluppo della psicoterapia come metodo di cura di pazienti non degenti. Dal 1967 al 1970, egli si sottopose all’analisi personale con il prof. Loh a Tiùbingen. Il dott. Markovié, raggruppando giovani collaboratori intorno a sé, iniziò a lavorare con loro per sviluppare le basi per la psicoterapia psicoanalitica. Nel 1969 il Centro per la Salute Mentale di Sarajevo venne fondato. Questo Centro divenne un istituto per la psicoterapia di orientamento psicoanalitico. La psicoanalisi e gli studi in medicina
Il fatto che il prof. Betlheim detenesse un incarico alla Facoltà di Medicina dell’Università di Zagabria, contribuì all'inserimento della psicoanalisi croata nella Facoltà di Medicina del secondo dopoguerra. E fu questo fatto a facilitare la diffusione della psicoanalisi. La psicologia medica fu prima parte integrante dei corsi di psichiatria e nel 1969 divenne corso indipendente per studenti di medicina nel secondo anno di studio. Questo
corso si basava sui principi psicoanalitici. Nell’ambito dell’Istituto Psicoterapeutico i professori S. Betlheim e D. BlaZevié introdussero sin dall’inizio la supervisione assieme alla consultazione come metodi di lavoro. Questo valse per la psicoterapia di orientamento psicoanalitico, ma parallelamente allo sviluppo d’altre tecniche psicoterapeutiche (come l’analisi di gruppo, la terapia familiare e lo psicodramma analitico secondo Lebovici e Diatkine), nuove supervisioni furono introdotte per dette terapie. Corsi post-laurea, quali la psicoterapia per adulti e la psicoterapia infantile e per adolescenti, comprendevano nei loro programmi la psicoanalisi come teoria base per la comprensione della
La psicoanalisi nei paesi del Centro Europa
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struttura della personalità e della funzione mentale. La cosiddetta ‘Scuola Psicoterapeutica di Zagabria” sviluppò anche molti programmi per medici generici attraverso il lavoro in gruppi Balint. Tutti i corsi in medicina psicologica erano fondati sui principi della psicoanalisi di Freud. Il lavoro nei gruppi di tipo Balint divenne obbligatorio per i medici generici specializzandi in medicina generica in Croazia. Quello che caratterizzò la psicoterapia a Belgrado fu la simultanea presenza di diverse scuole, istituti e metodi psicoterapeutici. L'Istituto per la Salute Mentale di Belgrado, fondato nel 1963, svolse un ruolo di guida
nella formazione psicoterapeutica. I membri del personale dell’istituto erano psicoterapeuti, collaboratori e discepoli del prof. Matié e del primario V. Klajn, ed un gruppo di psicoterapeuti formatosi psicoterapeuticamente nei paesi occidentali. La supervisione e la consultazione erano ritenute metodi permanenti per l’insegnamento della psicoterapia d’orientamento psicoanalitico. Con l’introduzione dell’analisi di gruppo si svilupparono anche supervisioni di questo metodo. Nel reparto psicoterapeutico della Clinica Psichiatrica di Avala si svolse la formazione in psicoanalisi ed in psicoterapia psicoanalitica. Inoltre questo centro offrì corsi post-laurea in psicoterapia. É per merito del prof. Matié e della sua lunga attività presso la Facoltà di Medicina dell’Università di Belgrado, se la psicoanalisi è così ben rappresentata nei programmi di psicologia. La Scuola Slovena di Psicoterapia è presente in corsi di laurea e post-laurea in medicina e nell’ambito dei servizi sanitari e degli istituti pubblici. La psicologia medica nella Facoltà di Medicina dell’Università di Ljubljana è interamente basata sulla psicoanalisi. I corsi bisemestrali in psicoterapia includono materie prevalentemente basate sui principi della psicoanalisi, e qui esiste la possibilità di ottenere la specializzazione in psicoterapia. È necessario dire che il modello sloveno di istruzione psicoterapeutica è aperto verso le tendenze
psicoanalitiche. Partendo dalle opere fondamentali di Freud e di altri teorici come Paul Federn e Otto Kernberg, gli psicoterapeuti sloveni stanno cercando di realizzare una sintesi di tutti questi metodi.
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La cultura psicoanalitica
Gli psicoterapeuti del Centro per la Salute Mentale a Sarajevo offrono corsi per studenti universitari con
esercitazioni in psicoterapia. Essi inoltre, trasmettono il proprio orientamento psicoanalitico in vari seminari per
studenti di medicina. I metodi di consultazione e supervisione vengono altresì realizzati nel detto Centro di Sarajevo.
Comunicazioni
con il mondo
Il prof. S. Betlheim tenne una fruttuosa corrispondenza con colleghi psicoanalisti di altri paesi. La situazione post-bellica non offriva opportunità di comunicazione diretta, non vi fu un dialogo diretto ed era difficile procurarsi i testi. Comunque, grazie ad una corrispondenza molto intensa, il prof. Betlheim riuscì a mentenere stretti contatti con psicoanalisti di tutto il mondo, ed a corrispondere con Heinz Hartmann, Edith Jacobson, Michel Foulkes e Michel Balint. Occasionalmente, partecipò a congressi e nel 1950 e 1951 prese
parte all’incontro della sottocommissione del Comitato di esperti per l’igiene mentale dell’Organizzazione Sanitaria Mondiale (WHO). Nel 1951 il prof. Betlheim partecipò come relatore al Seminario sull’alcolismo a Copenhagen. Prese parte attivamente a due congressi internazionali sulla psicoanalisi. Dal 1962 al 1963 visitò gli Stati Uniti dove stabilì duraturi contatti con psicoanalisti americani. Fu negli Stati Uniti che il prof. Betlheim incontrò Sandor Rado, il suo analista.
La creazione del Centro per la Salute Mentale segnò un nuovo periodo per lo sviluppo della psicoanalisi a Zagabria. Nonostante tutte le difficoltà, il prof. Betlheim completò l’analisi personale dei suoi collaboratori più stretti.
Corrispondenza con l’IPA
All’inizio del 1971 il Centro per la Salute Mentale a Zagabria iniziò a corrispondere con l’IPA al fine di sviluppare ulteriormente la psicoanalisi in Jugoslavia. Il
La psicoanalisi nei paesi del Centro Europa
54]
16 Gennaio 1971, la prof. Duka Blazevié informò l’IPA circa la morte del prof. Betlheim. Nella stessa lettera espresse il desiderio che un gruppo di analisti di Zagabria, che avevano completato la loro formazione analitica (BlaZevié, Butan, Cividini, Klajn, Beck-Dvor-
Zak), ottenessero lo status di psicoanalisti didatti. In risposta a questa lettera il prof. Francis Gitelson (31 Gennaio) suggerì la creazione di un “gruppo di studio” in Jugoslavia dopo ulteriori negoziati. Inoltre si suggeriva che i colleghi di Zagabria seguissero il Congresso Psicoanalitico a Vienna ed iniziassero in detta sede i negoziati. Il loro status sarebbe stato discusso in dettaglio
a Vienna. Furono invitati, ospiti dell’IPA, tre
analisti jugoslavi per seguire il Congresso Internazionale sulla Psicoanalisi
a Vienna
(25-30
Giugno
1971).
Le
discussioni con Leo Rangell incoraggiarono nuovi sforzi per la creazione di legami più stretti fra IPA ed il gruppo di psicoterapeuti del Centro per la salute mentale di Zagabria. La prof. Du$ka BlaZevié suggerì che il dott. Eugenio Gaddini di Roma, venisse a Zagabria per consigliare il gruppo di Zagabria, formato dal prof. Betlheim, circa le sue future attività. Suggerì inoltre che i dott. E. Jacobson e George Gero esprimessero la propria opinione in merito agli aspetti del trazrzing analitico a Zagabria, dal momento che il prof. Betlheim era stato in continuo contatto con entrambi. Entro la fine dello stesso anno (4 Dicembre 1971) il dott. Gitelson informò la dott. Blazevié, che il dott. Gaddini e
la dott. Gairinger, entrambi in Italia, avevano approvato l’entrata nel Comitato della Jugoslavia e della Grecia. Su richiesta della dott. Gairinger la dott. BlaZevié (17
Giugno 1972) inviò un rapporto con il quale presentava dettagliatamente la situazione della psicoanalisi in Jugoslavia. La dott. BlaZevié informò inoltre sulla formazione di psichiatri psicoterapeuti jugoslavi, che avevano compiuto la propria analisi personale all’estero. Gli sforzi della dott. BlaZevié furono anche sostenuti dal dott. Kestemberg, che propose (27 Dicembre 1972) la visita del dott. Gaddini a Zagabria nel gennaio 1973. A metà del 1973 il dott. Gitelson informò (in una lettera indirizzata al prof. Klajn a Zagabria) che la situazione della psicoanalisi in Jugoslavia era stata
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La cultura psicoanalitica
presentata al Comitato al fine di sviluppare la psicoanalisi in Grecia e nella Jugoslavia stessa. Il Comitato riconobbe la necessità di dare consistenti aiuti alla Jugoslavia per ottenere risultati a lungo termine. In questo contesto fu approvata la creazione di un gruppo di studio, ma all’epoca il Comitato ritenne che le condizioni per questo non fossero ancora mature. Si riteneva che il progetto di scambio fra il gruppo jugoslavo e analisti di altri paesi dovesse continuare. Comunque,
questo scambio non poteva venire ricono-
sciuto ed accettato quale equivalente dell’analisi didattica. I contatti con la Federazione Psicoanalitica Europea Oggi prevale l’opinione che la psicoanalisi in Jugoslavia debba essere ulteriormente praticata e sviluppata. Dal 1980 sono stati fatti passi avanti lungo questa direzione. Innanzitutto sono stati stabiliti. seminari annuali in cooperazione con il centro Alfred Binet di Parigi. Questi seminari si svolgono presso il Centro per la Salute Mentale di Zagabria e presso l’Istituto per la Salute Mentale di Belgrado, con il sostegno del governo francese e degli istituti francesi presenti in Jugoslavia. Ne è conseguito che il prof. Stanisa Nicolié, nel corso della sua visita di studio a Parigi nell'ottobre 1984, prese contatto con il prof. Serge Lebovici ed il dott. Michel Vincent. Fu per loro iniziativa che ebbe luogo l’incontro con il dott. Alain Gibeault, segretario della Federazione Psicoanalitica Europea. Fu concordato allora che il dott. Alain Gibeault avrebbe informato Anne-Marie Sandler, circa il desiderio del Centro per la Salute Mentale di Zagabria di stabilire contatti con il gruppo psicoanalitico di Budapest. Tale fine sarebbe stato raggiunto tramite la mediazione del prof. Leupold Léwenthal a Vienna e dei funzionari della Federazione Analitica Europea per i paesi dell'Europa orientale. L'obiettivo di questi contatti era di valutare la possibilità di ulteriori supervisioni per i colleghi che avevano sostenuto le loro analisi personali, con la possibilità di organizzare seminari e di studiare la letteratura analitica. Quando il prof. S. Nikolié ritornò
La psicoanalisi nei paesi del Centro Europa
DA
da Parigi fu informato dal dott. Alain Gibeault, che nel frattempo aveva consultato il presidente della Federazione a Londra, che al gruppo di Zagabria veniva concesso il permesso di contattare il prof. L. Léwenthal di Vienna, al fine di dare il via alla cooperazione con il gruppo di analisti di Budapest, guidato dal dott. G. Hidash. Questa cooperazione doveva portare a negoziazioni circa le possibilità di una ulteriore formazione psicoanalitica sempre per i colleghi jugoslavi, prospettandosi uno sviluppo della psicoanalisi in Jugoslavia. II livello dell'istruzione psicoanalitica negli ultimi cinque anni
Nonostante le difficoltà dovute alla procedura formale per il riconoscimento dello status psicoanalitico di certi
metodo
colleghi,
la psicoanalisi
terapeutico e come
come
teoria,
come
ricerca, ha affondato le
proprie radici soprattutto a Zagabria.
Questo è un periodo caratterizzato da attività molto intense in campi molteplici. Molto è stato fatto per la formazione degli psicoanalisti. Molte opere sulla psicoanalisi sono state tradotte. Gli psicoterapeuti hanno scritto dissertazioni di dottorato su varie tecniche di psicoterapia analitica. Emergono autori di libri sulla teoria psicoanalitica e sulle varie tecniche psicoterapeutiche. Comunque alcuni di questi autori non appartengono al ristretto gruppo di analisti del Centro per la Salute Mentale di Zagabria. Gli stretti legami emotivi fra il personale del Centro per la Salute Mentale di Zagabria si mostrarono d’ostacolo per una adeguata analisi didattica. Secondo la prof. Duska Blazevié e la prof. Eugenia Cividini-Stranié, era necessario migliorare questa situazione. Presto, i primi
analisti specializzandi si rivolsero al prof. Klajn ed al prof. Nikolié del Centro. A Belgrado, il prof. Mati analizzò individualmente molti dei suoi discepoli, ed ora continua l’analisi personale dei suoi colleghi. A Ljubljana, Leopold Bregant ha fatto lo stesso impiegando il metodo Schultz-Hencke. La psicoterapia di gruppo basata sulla psicoanalisi era già stata introdotta dal prof.
60
La cultura psicoanalitica
Betlheim e nel 1971, i discepoli di Betlheim a Zagabria (soprattutto la prof. Eugenia Cividini-Stranié ed il prof. Eduard Klajn) informarono circa le loro prime esperienze sull’analisi didattica di gruppo. Contemporaneamente, l’analisi di gruppo veniva sviluppata a Belgrado per merito del prof. Milan Popovié. Risultati affini venivano ottenuti a Ljubljana ed a Sarajevo. Nel 1973, dopo un anno di preparativi, il prof. Stanisa Nikolié iniziò ad introdurre lo psicodramma analitico
secondo
Lebovici
e
Diatkine,
innanzitutto
come tecnica di gruppo. Avendo ottenuto risultati eccellenti, il prof. Nikolié, con un gruppo di collaboratori, decise di introdurre la tecnica individuale dello psicodramma analitico. Entrambe le tecniche venivano
sviluppate sulla base delle opere di Serge Lebovici, René Diatkine ed Evelyne Kestemberg. Tentativi simili, secondo i principi Moreniani, venivano realizzati a Ljubljana e Belgrado (ed altrove) in forma piuttosto modesta. La terapia familiare iniziò a svilupparsi intorno al 1975 dopo il ritorno dagli Stati Uniti della dott. Neda Butan. Originariamente basata sulla teoria generale sistemica,
divenne
poi
sempre
più
orientata
verso
l'approccio analitico di gruppo al gruppo familiare. Simili attività venivano svolte a Ljubljana ed in misura inferiore a Belgrado.
Bibliografia Corrispondenza
tra
il prof.
Stjepan
Betlheim
e il dr.
Heinz
Hartmann. RutH BerLHEM, Comunicazione
personale. Corrispondenza tra il prof. Duska Blazevié e l’IPA. Corrispondenza tra il prof. Eduard Klajn e l’IPA. Man Popowié, About the development of psychotberapy in Yugoslavia in the book: Popovié Milan, Jerotié Vladeta Psychodynamics and psychotherapy of neuroses, Beograd 1894. Mros KoBar, A contribution to the development of psychotberapy in Slovenia
(unpublished).
Eugenia Cividini-Stranit (Jugoslavia - Zagabria): Direttore del Centro di Salute Mentale di Zagabria. Psichiatra.
Gyòrgy Hidas Sviluppo storico della psicoanalisi in Ungheria Nella primavera 1968 all’Arbeitstagung degli psicoanalisti centroeuropei a Brunnen (Svizzera), due psicoanalisti ungheresi, Imre Hermann e Tibor Rajka si incontrarono con l’allora presidente dell’IPA, Van der Leeuw, e l’allora segretario Montessori. I due ungheresi,
entrambi ex membri dell’Associazione Psicoanalitica Ungherese sciolta nel 1949, chiesero il nuovo riconoscimento del loro gruppo quale società psicoanalitica membro dell’IPA ed il riconoscimento da parte dell’IPA dei loro candidati. La loro richiesta fu respinta su basi di statuto ed essi rifiutarono la proposta che delegati dell’IPA supervisionassero in loco gli standards della formazione ed esprimessero valutazioni sui candidati. Imre Hermann all’epoca aveva settantanove anni, era un
pioniere della psicoanalisi, autore di eccellenti libri come Psychoanalyse als Methode
(Psicoanalisi
come
metodo)
(la cui seconda edizione fu pubblicata nel 1963 a Colonia con una prefazione di Heinrich Meng') o come Das Ich und das Denken? (L’Io e il pensiero) e L’irstinci filial. In quel momento noi psicoanalisti ungheresi dovevamo confrontarci con il fatto che dal 1949, nonostante gli sforzi della generazione precedente di mantenere rapporti scientifici con il resto dell'Europa, ci trovavamo isolati dalla comunità psicoanalitica e rimanevamo indietro rispetto ai nuovi sviluppi dell’IPA. Nel 1969 fu celebrato l’ottantesimo compleanno di Hermann
con
un
incontro
scientifico
a
Budapest,
durante il quale anche Robert Bak di New York presentò
62
La cultura psicoanalitica
una relazione. In quell'occasione Hermann fu insignito di un’onorificenza. Le relazioni del convegno toccarono importanti aspetti della vita e dell’opera di Hermann: l'impulso all’attaccamento, la psicologia del pensiero e del talento, la psicologia della scoperta scientifica, il mondo della musica, e le perversioni sessuali. Gli atti del convegno vennero pubblicati in Ungheria * sotto forma di libro nel 1982. Nel 1971 durante il congresso dell’IPA a Vienna, ebbero luogo colloqui fra il presidente Leo Rangell, la signora Gitelson, Edith Ludowyk-Gyòmròi ed il sottoscritto, incentrati sull’integrazione degli psicoanalisti ungheresi, in conformità con lo statuto ed il regolamento allora vigenti. (I membri della dissolta Associazione Psicoanalitica Ungherese avevano precedentemente il diritto di richiedere l’iscrizione diretta all’IPA). Venne fondato un comitato di collegamento per poter preparare questa integrazione. Tali colloqui fecero uscire dallo stallo la causa. I nuovi negoziatori svolsero un ruolo importante in questo cambiamento. D’allora in poi membri del comitato e dirigenti dell’IPA incontrarono regolarmente a Budapest giovani psicoanalisti. Membri del comitato furono Edith Ludowyk-Gyémròi, David Widlocher, John Klauber ed Harald Leupold-Lòwenthal. Nel 1974 fu organizzato un convegno scientifico centennale in onore di Sandor Ferenczi a Budapest. Fra gli altri parteciparono Wolfang Loch, Harald LeupoldLòwenthal ed Edith Ludowyk-Gyémròi. Imre Hermann parlò delle sue esperienze con Ferenczi e corresse, in quanto testimone diretto, dati e valutazioni errate espresse da Jones su Ferenczi, ad esempio l’asserita psicosi di Ferenczi. Dal 1973 giovani analisti formatisi in Ungheria dopo il 1956 (Hidas, Linczényi, Nemes, Paneth, Vikàr) ebbero
la possibilità di studiare ed insegnare presso l’Istituto S. Freud a Francoforte, grazie ai buoni uffici di Alexander Mitscherlich. Nel 1975 nel corso del XXIX Congresso dell’IPA tenutosi a Londra, i cinque suddetti psicoanalisti ungheresi vennero accolti come membri associati diretti e venne loro conferito lo status di Gruppo di Studio
La psicoanalisi nei paesi del Centro Europa
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Associato da parte del Consiglio Esecutivo (presidente Serge Lebovici) ed essi acconsentirono che il loro operato fosse supervisionato dal Comitato. Questo accordo segnò una svolta nello sviluppo della psicoanalisi in Ungheria a partire dal 1949. Il lavoro del gruppo di studio, con l’aiuto degli analisti più anziani, si andò
sviluppando bene. L’iter del processo formativo divenne più differenziato e più vicino agli standard dell’IPA. I membri del comitato proposero nuovi candidati per lo status di membri diretti. Nel 1983 durante il Congresso di Madrid, venne approvato lo status provvisorio di società per il gruppo di studio ungherese. Attualmente la Società Ungherese consta di dieci membri associati e venti aspiranti. Fra essi ci sono cinque analisti istruttori. Si intrattengono rapporti regolari con l’IPA, VEPF e l’IPSO e partecipiamo ai loro congressi con il loro aiuto. Vari psicoanalisti europei e statunitensi hanno visitato la Società Ungherese, hanno tenuto lezioni e presieduto seminari. Editori di stato hanno recentemente pubblicato le opere classiche sulla psicoanalisi di Freud, Ferenczi, Ròheim, Hermann, Jones. In questa settimana è uscita a Budapest, dopo
cinquanta anni, una riedizione ungherese de L’Interpretazione dei sogni in quarantaduemila copie. La storia della psicoanalisi ungherese è radicata nella storia dell'Europa Centrale. Una delle sue caratteristiche importanti è che ha mantenuto la continuità come comunità di idee e come movimento, in mezzo ai grandi mutamenti politici, sociali ed economici del XX secolo. Questi cambiamenti furono di particolare rilievo e violenza nella zona dei Carpazi. La continuità fu resa possibile da due psicoanalisti ungheresi: Sandor Ferenczi, il fondatore,
ed Imre
Hermann,
il continuatore.
L’opera di entrambi è ben conosciuta e permea il tessuto della psicoanalisi ungherese. Le seguenti date segnano le pietre miliari della psicoanalisi in Ungheria: 1908 Ferenczi incontra Freud a Vienna. Sandor Ferenczi — presentato da C.J. Jung — incontrò per la prima volta Freud il 2 Febbraio 1908 a Berggasse 19°. 1913 Formazione ufficiale dell’ Associazione Psicoanalitica Ungherese.
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La cultura psicoanalitica
1918 V Congresso Psicoanalitico Internazionale a Budaest. 1919 rie viene nominato professore di psicoanalisi alla Facoltà di Medicina di Budapest. 1931 Inizia le sue attività a Budapest il servizio psicoanalitico per paZienti non degenti. 1938 Restrizione dei diritti civili degli ebrei, conseguente emigrazione di sette psicoanalisti ebrei. 1939-1945 La seconda guerra mondiale e l’olocausto cancellano altri otto psicoanalisti. 1945 Liberazione dall'occupazione nazista, crollo del regime fascista ungherese; Imre Hermann diventa libero docente alla Facoltà di Medicina di Budapest. Gli psicoanalisti partecipano all’Organizzazione per la Salute Mentale. Vengono pubblicati saggi sulla psicoanalisi. 1948-1949 Inizia il regime del culto della personalità, l'Associazione Psicoanalitica Ungherese viene disciolta e gli psicoanalisti vengono indotti all’emigrazione interna od esterna. 1960 Riprende la formazione psicoanalitica in via informale. 1967 L’articolo di Béla Buda nel mensile «Valosag» (rivista scientifica), dà inizio a pubbliche discussioni sulla psicoanalisi. 1975 Accordo di Londra sul Gruppo di Studio Ungherese. 1980 In seno alla nuova Società Psichiatrica Ungherese viene formato il gruppo a componente psicoanalitica. 1983 Viene posta una targa commemorativa
sulla casa
di Budapest dove visse Ferenczi. 1983 Durante il XXXII Congresso dell’IPA a Madrid, viene conferito al Gruppo di Studio Ungherese lo status di Società psicoanalitica provvisoria. Ferenezi presentò nel 1908 una relazione al primo congresso psicoanalitico a Salisburgo, dal titolo: Consigli pratici fornitici dall'esperienza freudiana per la crescita dei bambini (pubblicata poi con il titolo: Psicoanalisi e Pedagogia). Nel 1909 Ferenczi si recò assieme a Freud ed a Jung negli Stati Uniti per partecipare alle celebrazioni del giubileo della Clark University. Fu Ferenczi, durante
La psicoanalisi nei paesi del Centro Europa
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delle passeggiate prima delle lezioni di Freud, a suggerire a quest’ultimo i temi che avrebbe potuto affrontare durante le sue lezioni sulla psicoanalisi, tenute in tedesco. In una lettera a Putnam del 1° Aprile 1911, Ferencezi informa circa l’esistenza di un gruppo psicoanalitico a Budapest. La Budapest di Ferenczi era la capitale del Regno Ungherese della Doppia Monarchia, che divenne, dopo il compromesso del 1867, un centro di rapido sviluppo capitalistico, di urbanizzazione e di fermenti creativi politico-culturali di natura borghese e liberale. In quel periodo gli operai e la democrazia sociale divennero fattori politici. La nuova classe media, sorta dal momento storico, si qualificava come libera pensatrice e materialista. Il nuovo spirito europeo emanava altresì un forte
ottimismo,
fondato
sul
trionfo
della
Weltan-
schauung scientifica e sulle riforme sociali: una sorta di mitologia razionale basata sulle divinità dell’evoluzionismo darwiniano e della filosofia storica di Marx. L’aspetto redentivo-umanitario della psicoanalisi, la possibilità di intravedere nella sua teoria e nel suo metodo uno strumento per l’emancipazione dell’individuo, e di vedere nel suo razionalismo critico la spietata messa a nudo delle repressioni sociali, che sopprimono i desideri
individuali,
e la denuncia
delle
formazioni
sostitutive basate su queste stesse repressioni, posero la psicoanalisi accanto alle due precedenti correnti. I fermenti interni ungheresi avevano anche cause etniche. La vasta e celere magiarizzazione della cittadinanza medio borghese sveva ed ebrea si verifica dopo la svolta del 1886. Si può dire che nella società ungherese come in quella polacca o croata, esisteva una doppia struttura: la struttura tradizionale non disintegrata (feudale) si completava in maniera disarmonica con la
nuova struttura medio borghese. Così, la ungherese si dibatteva in una crisi d'identità. La vita culturale era animata da personaggi internazionale come Béla Barték, Zoltàn Koddly, Luk4cs e Sandor Ferenczi. L’Associazione Psicoanalitica Ungherese fu ta nel 1913 (ma autorizzata soltanto il 16 Marzo
3. La cultura psicoanalitica
nazione di fama Gyòrgy costitui1914).
66
La cultura psicoanalitica
I suoi membri erano: il dott. Sandor Ferenczi, neurologo (presidente), il dott. Istvin Hollés, primario dell’ospedale mentale di stato di Nagyszeben (Transilvania), Hugo Ignotus, redattore capo della rivista letteraria «Nyugat» (Occidente), il dott. Lajos Lévy, internista ed il dott. Alexander
Radé,
medico
(segretario).
Tutti
e cinque
erano ebrei. Gli ebrei e l’antisemitismo svolgono un ruolo importante nella storia della psicoanalisi in Ungheria.
Ferenczi scrisse nel 1911 sulla rivista «Szabadgondolat»? (Libero pensiero): «Il futuro porterà ad una riforma radicale dell'educazione psichica dell’uomo e creerà una generazione che non calmerà i propri impulsi e desideri naturali, in conflitto con la cultura, affondan-
doli nell’inconscio, con la negazione e la repressione come forme di riflesso, ma imparerà a tollerarli consciamente ed a dominarli sobriamente. Questo concluderà
quel periodo dell'umanità segnato dall’ipocrisia, dai dogmi, dalla cieca adorazione dell’autorità e dalla mancanza di autocritica». All’epoca la psicoanalisi era già presente anche nella psichiatria. Il dott. J6zsef Brenner (scrittore di brevi racconti e critico musicale di grande talento, che scrisse sotto lo pseudonimo Geza Csàth) pubblicò nel 1912 a Budapest, il libro Il meccanismo psichico delle psicosi '°, nel quale analizzava, con concetti e teorie psicoanalitiche, il diario di una giovane donna psicotica. Ferenczi, nella sua recensione di questo libro !! scrisse: «Il libro di Brenner è una splendida dimostrazione di quante possibilità offra la psicoanalisi nella comprensione delle origini e dell'intera sintomatologia delle psicosi, rispetto alla quasi meccanica descrizione psichiatrica. Tramite la psicoanalisi, la psicopatologia ha ritrovato il suo contatto con la vita reale». Michàly Szajbély scrisse: «Lo scrittore Géza Csath, vide il lavoro della sua vita unificarsi sotto il segno della psicoanalisi» '?. Allo stesso modo la psicoanalisi divenne la parte fondamentale dell’opera dello studioso delle tradizioni popolari Géza Réheim. Réheim scrisse: «Freud, L’Interpretazione dei sogni, e Totem e tabù, sono le vere chiavi dei dilemmi... Freud e la psicoanalisi hanno esercitato la più forte influenza su di me».
La psicoanalisi nei paesi del Centro Europa
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Fino alla caduta, nel 1919, della Repubblica Ungherese Sovietica, in Ungheria, i circoli progressisti consideravano la psicoanalisi come una disciplina che svelava radicalmente i fenomeni ed i processi sociali. «La psicoanalisi distrugge il sistema di valori esistente ed in questo senso ha un effetto di scoperta» (Pal Szende !‘). La psicoanalisi è dunque una disciplina che disvela e
risveglia. Ferenczi scrisse: «La psicoanalisi... ha l’effetto di risvegliare e procede verso quella condizione in cui la psiche umana controllerà, per mezzo della sua conoscenza, non solo se stessa ma anche le forze somatiche e
psichiche... Io dichiaro ancor’oggi la natura di “risveglio” alla verità della psicoanalisi, poiché so che senza la vera e coraggiosa conoscenza, qualsiasi sforzo è inutile o nella migliore delle ipotesi può portare ad una illusione» !?. All’epoca, Ferenczi viveva ritirato, infatti dopo la caduta della Repubblica, gli psicoanalisti erano stati relegati in posizione marginale anche per mezzo di rappresaglie, perché il potere era diventato anti-progressista ed anti-semitico. In quegli anni si sviluppò la cosiddetta Scuola Psicoanalitica di Budapest, indirizzata dall'opera di Ferenezi,
con
Michael
Bfalint, Imre
Hermann,
Istvan
Hollés e Lilly Hajdu. Balint definì le comuni caratteristiche di questa scuola nel seguente modo: «...nel momento in cui la ricerca si è incentrata sullo sviluppo degli impulsi, questa scuola, seguendo Ferenczi, considera l’uomo come una creatura che sin dal primo minuto della propria vita intrattiene rapporti sociali, che vive e si sviluppa nel rapporto madre-figlio» !°. Una delle principali caratteristiche della Scuola di Budapest, secondo Balint, è quella di non riconoscere il narcisismo primario, «questo scaturisce chiaramente dalla teoria dell’attaccamento di Hermann, se madre e figlio creano nei primi mesi una unità sociobiologica, e se non si è ancora sviluppato l’Io indipendente del figlio, allora il narcisismo, nella connessione “Io-amore”, non ha una posizio-
ne logica. La Scuola di Budapest attirò maggiore attenzione sugli eventi dei primi anni di vita e sul maggiore significato dei rapporti interpersonali»!”.
Nel 1931, l'Associazione Psicoanalitica Ungherese viene autorizzata a creare un ambulatorio per disturbi
68
La cultura psicoanalitica
nervosi ed affettivi. Ferenczi ne divenne il primo direttore con M. Bdlint per vice. Nel 1932, vennero condotte venticinque analisi con centodieci sedute settimanali. Nel 1937, quarantasette analisi con centosessanta sedute settimanali e venticinque analisi infantili con quaranta sedute Settimanali '*. Il procedimento dell’analisi di controllo, descritto da Vilma
Kovécs
nel volume,
del
1933,
dedicato
alla
memoria di Ferencezi', appartiene anch'esso alla “Scuola di Budapest”. Così scrive: «...a mio parere è opportuno che il candidato svolga la propria analisi di controllo sempre con il suo analista didatta, perché accade che l’analisi del candidato non possa essere portata a termine mentre ci si sta prendendo cura del paziente». In questo volume era pubblicata anche una relazione di Lilly Hajdu sulla terapia psicoanalitica di un paziente schizofrenico. L’autrice si era dedicata costantemente alla cura psicoanalitica di psicotici. Dopo la seconda guerra mondiale, nel 1945, gli psicoanalisti parteciparono di nuovo attivamente alla vita pubblica. Vennero pubblicati il libro di Hermann Psychology of anti-Semitism® ed un volume intitolato Psychic mass-contaminations in the near part”. Nel 1947, nel corso di una conferenza di due giorni,
vennero discussi i problemi ungheresi relativi alla salute mentale. Istvin Hollés presentò una relazione intitolata: I malati di mente e la società”°. Le sue tesi sostenevano che: «...l’ospedale psichiatrico è un vero focolaio del ritiro patologico della libido e dei processi psicotici». L'autore proponeva: 1) l'istituzione di un Consiglio Nazionale per la Salute Mentale e 2) la creazione di una struttura con cinquanta letti, per la psicoterapia dei malati di mente, ovvero di un istituto per la formazione psicoterapeutica di medici, infermieri ed operatori sociali. Imre Hermann parlò sul tema della Psicoterapia e le cause dei disturbi mentali, raccomandando che medici,
psicologi ed operatori sociali venissero costantemente formati alla psicoterapia. Nel 1948-49, anni di profondi mutamenti politici, tutti i rami della scienza che vertevano sulla psiche umana, e di conseguenza anche la psicoanalisi, vennero banditi.
La psicoanalisi nei paesi del Centro Europa
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Vilmos (IstvAn) Tariska, nel giornale «Forum»? (del cui consiglio editoriale era membro Gyòrgy Lukdacs), scrisse: «Freud, con la sua psicologia mitologica ed oscura, basata sulla antitesi poetica dell’istinto di vita e di morte, e con la sua We/tanschauung fondata su una visione frammentata della società, raggiunse tramite i suoi discepoli in questo congresso (II Congresso Internazionale sull’Igiene Mentale, Londra), il punto al quale porta qualsiasi antidialettica: ovverosia l’aperto reazionarismo politico. La realtà è che nell'Europa orientale, e particolarmente in Ungheria, la comune persecuzione, originata però da distinti motivi, costrinse
per un periodo più o meno lungo gli psicoanalisti ed i veri fautori del progresso umano e della liberazione verso una strada comune. Il Congresso londinese sull’igiene mentale dimostrò come l'imperialismo aveva fatto della psicoanalisi la sua “psicologia domestica”. Bisogna dire però che la psicoanalisi si prestava a questo ruolo a causa della sua struttura». Tariska
scrisse in una
sua relazione:
«...questo
è
rimasto delle illusioni freudiane» ?: che «per quanto riguarda le applicazioni della psicoanalisi... oggi abbiamo raggiunto indubbiamente un punto per cui si può eliminare il freudianesimo dalla pedagogia». Dietro questo parere, si celava la forza autoritaria del potere esecutivo e la psicoanalisi fu espulsa da ogni campo, con l'eccezione della prassi privata — classica matrice della psicoanalisi — stranamente rimasta. Molti psicoanalisti furono costretti alla emigrazione interna come Tibor Rajka, il quale divenne direttore del Sanitarium per i disturbi gastrointestinali, Istvin Schonberger (Székacs),
biochimico
in un
Rotter, medico
istituto
sanitario
di un laboratorio
pubblico,
Lilian
ospedaliero, Vilmos
Kapos, primario in un istituto sanitario pubblico, Imre Hermann che lavorò come psicoterapeuta in un ambulatorio, Lilly Hajdu, direttrice dell’Istituto Nazionale per la neurologia e la psichiatria. Altri emigrarono all’estero, ad esempio Andrew Peté e Vera Roboz. Negli anni Sessanta, contemporaneamente ai cambiamenti della vita economica, culturale e politica, ebbe inizio la ripresa delle discipline relative alla psiche umana.
70
La cultura psicoanalitica
Oggi, vari membri della Società Psicoanalitica Ungherese provvisoria, detengono cariche nella Società Psichiatrica Ungherese e nella società psicologica ungherese. Uno di noi è a capo di un grande centro clinico psicoterapeutico statale, che svolge le funzioni proposte da Hollés nel 1947. ABudapest, un grande ambulatorio psicoterapeutico ha in cura bambini ed adolescenti a guida psicoanalitica, inoltre esiste un reparto di ricovero psichiatrico infantile sempre a guida psicoanalitica. Molti psicoanalisti lavorano in questi istituti. Un filosofo ungherese (Istvan Hermann) scrisse nel 1973, nel postscritto all'edizione ungherese della biografia di Freud scritta da Jones”: «...Il caso di Freud dimostra lo sforzo più sincero di applicare in modo coerente i maggiori valori del pensiero borghese al pensiero ed al comportamento nel nostro secolo. La grandezza e l’onestà dell'esperimento sono fuori discussione e conseguentemente la sua attrattiva durerà per secoli».
Note - Bibliografia
1. Imre Hermann, Die Psychoanalyse als Methode, West-deutscher Verlag, Koln, Opladen 1963. 2. Imre Hermann, Das Ich und das Denken. Eine psychoanalytische Studie, Psychoanalytischer Verlag, Leipzig-Wien 1929. 3. Imre HERMANN, L’irstinct filial, Denoél, Paris 1972. 4. Emlékkònyv Dr. Hermann Imre 80.sziletésnapjàra (Memorial book on the 80 birthday of Imre Hermann) Intapuszta 1972. 5. Siemunp Freup, Alomfejtés (Traumdeutung) Helikon, Budapest 1985.
6. BéLa Bupa, Szerzpontok a pszichoanalizis értékeléséhez (Point of views to the evaluation of psychoanalysis) Valésàg, Budapest.10:81-95, 1967. 7. S. FreuD, C. G. Junc, Correspondance, Gallimard, Paris 1975, L
178. Carteggio Freud Jung, Boringhieri, Torino 1975. 8. Internationale Zeitschrift fùr Arztliche Psychoanalyse. Korrespondenzblatt der Internationalen Psychoanalytischen Vereinigung. 2:410-411, Leipzig und Wien 1914. 9. Sanpor FerenczIi, Az òntudatlan megismerése (apprehension of the unconscious) Szabadgondolat (Free Thought. A review) Budapest
1911. 75-78.
La psicoanalisi nei paesi del Centro Europa
71
10. Géza
CsAtH, Jòzsef Brenner, Az elmebetegségek pszichikus mechanizmusa (Psychic. mechanism of psychoses) Budapest 1912, nuova edizione Magveto, Budapest 1978. JE Sanpor FeRENCZI: Book review. Gyégyaszat, Budapest 1912. 530) 12. Nella
nuova edizione Budapest 1978.
13. Citato
da
Kincso
di Psychic
VereBéLvi,
in
mechanism Introduction
of Psychoses, to
Robeim’s
Studies: Primitiv kulturk pszichoanalizise (Psychoanalytic research of Primitive Cultures) Gondolat, Budapest 1984. 14. Citato da Kincso, Verebélyi. Da Sanpor FERENCZI, Altatò és ébresztò tudomany (Soporific and awakening science) Nyugat 1924. I. 72-73. 16. MiÒAry BAunT, Fribe Entwicklungsstadien des Ichs. Primdre Objektliebe, Imago, XIII: 270-288. 1937. due Gyòroy ViKAR, Gyògytds és òngyogyitàs 18. IIS)
20. 21. 22.
251 24.
(Healing and Self healing), Magveto. Budapest, 1984. Internationale Zeitschrift fir Psychoanalyse 21: 320.1935. Lélekelemzési. Tanulmanyok (Psychoanalytic. Studies) Somlé Publ. House, Budapest 1933. Imre Hermann, Az antiszemitizmus lélektana (Psychology of Antisemitism) Bibliotheka, Budapest 1945. A kòzelmult lelki tomegfertozései (Mass psychic infections of the near past) Pantheon, Budapest 1945. La conferenza è stata pubblicata nel volume: Az elmebetegiigy jelen kérdései. Magyarorszigon (Present questions of mental health in Hungary) Editor Dr. Rajka, Tibor. Published by the Free Trade Union of Hungarian Physicians. 1947. Isrvin Tariska, Vimos, A freudizmus mint az imperializmus hdzi pszicholégiéja (Freudianism as the domestic psychology of imperialism) Forum Budapest 1948 : 799-804. IsrvANn TARISKA, ViLmos, ... és ami a freudi illuziobo! kivetkezik. (... and what follows from Freudian illusion) Forum, Budapest .
1948: 899-902. 291 Ernest Jones, Sigrzund Freud élete és munkdssiga (The Life and
Work of Sigmund Freud) Shortened edition. Eurépa Publ. House. Budapest 1973. Postscript by Hermann. Istvan. Vita e opere di Sigmund Freud, riduzione a cura di Lionel Thrilling e Sthephen Marcus, Il Saggiatore, Milano 1973.
Gyòrgy Hidas (Ungheria): Psichiatra. Membro ordinario della Società Psicoanalitica Ungherese.
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da, vat id; ia vitro ari va ipurieerizens spaipiladiasiza ch Observations, Hopes and
Dreams (Osservazioni, speranze e sogni) al tema Psicoanalisi e filosofia vengono dedicate ben sedici righe. Il tema Psicoanalisi e scienze sociali con diciannove righe viene trattato già meglio. Il «volume esauriente, ma leggibile» di Fine, comè viene definito in sovraccopertina, è forse il migliore esempio per illustrare la mia tesi: un solo autore non può scrivere una storia della psicoanalisi, fosse solo per il fatto che la materia è troppo vasta. Una tale impresa schiaccerebbe chiunque la tentasse. Inoltre una storia non può limitarsi soltanto ad una rassegna di titoli ed atti congressuali; deve indicare nessi e documentarli con le fonti. Le difficoltà di ricerca delle fonti sono probabilmente le più ardue. Una storia delle idee ha come fonti primarie i libri, poi vengono i documenti che accompagnano la pubblicazione di questi testi, segue la documentazione sulla vita dei loro autori, gli enunciati del mondo contemporaneo e forse l’influenza che hanno esercitato sui posteri. Che dire quindi delle fonti per una storia della psicoanalisi? I soli documenti non dicono nulla sull'argomento principale della psicoanalisi — i
processi inconsci. Una storia della psicoanalisi che si limitasse semplicemente ai fatti puramente consci che ci circondano non sarebbe certo all’altezza dell'argomento, e Freud lo sapeva molto bene quando osservò che la sua vita non aveva nulla d’interessante, che solo la sua opera contava veramente. In effetti, è andato a tutto svantaggio della psicoanalisi l'avere fatto di Freud un eroe. Permettetemi a questo punto di fare qualche esempio. Certo fu duro per Freud dover aspettare ben quattro anni prima di potersi sposare; tuttavia per molti è inaccettabile che si voglia farne una tragedia. Freud ebbe a combattere per molto tempo con grossi problemi finanziari, ma accadde anche a molti altri grandi pensatori di trovarsi in una situazione del genere. Freud aveva perduto delle persone amate, come è successo a tanti altri. Freud diventa eroico solo grazie alla lotta condotta per il riconoscimento della sua opera e contro la morte, per aver sopportato la sua malattia. In quest'ottica la
biografia di Max Schur Sigrzund Freuds Leben und Sterben (Il caso Freud) è una delle biografie che meglio
Coordinate storiche della psicoanalisi
93
rendono giustizia al loro protagonista. Prendiamo un altro capitolo, rivelatosi decisivo per la storia della psicoanalisi: i rapporti tra Freud e la figlia Anna. Sappiamo che essa fu analizzata dal padre, ma non sappiamo come fosse realmente il loro rapporto. Vi potranno mai essere delle fonti a questo proposito? Ed ancora un altro esempio: il conflitto con Alfred Adler. Il rapporto con Adler si rivelò molto più importante per lo sviluppo della psicoanalisi di quanto lo stesso Freud non abbia sospettato. Quando egli rimproverò ad Adler un'eccessiva attenzione per l’Io, dicendo che quest’ultimo gli appariva un burattino che sul palcoscenico viene preso sul serio soltanto dai bambini, Freud evidentemente non sapeva ancora che egli stesso più tardi avrebbe dedicato a quello stesso Io alcune delle sue opere maggiori. Ecco dunque una giustificazione di Adler, sostengono gli uni; niente affatto, asseriscono gli altri, poiché l'Io di Adler è soltanto conscio, quello di Freud è inconscio. Ma negli ultimi anni alcuni psicoanalisti, come Brenner ed Arlow, ci hanno fatto sapere che
anche la questione inconscio-conscio non è poi tanto importante. Non è proprio facile orientarsi in questo panorama.
per
uno
storico
Le fonti riguardanti i rapporti di Freud con i suoi allievi più importanti ed anche con i suoi avversari sono lettere ed aneddoti. Le lettere sono discutibili come fonti storiche, qualora non vengano utilizzate con la massima cautela. Prendiamo l’esempio di un uomo politico che scriva alla moglie: «Quel mascalzone del primo ministro mi sentirà!» e che due settimane più tardi concluda una coalizione proprio con quel personaggio. Che cosa dobbiamo considerare valido: il pensiero privato espresso nella lettera oppure l’atto pubblico? Lo storico potrà trascurare la lettera in quanto irrilevante per la successiva evoluzione politica, mentre il biografo la segnalerà. Se invece la coalizione si scioglie poco tempo dopo, la lettera improvvisamente acquisterà importanza anche nell'ottica delle vicende politiche. Tali esempi sull'uso delle fonti sono pane quotidiano per lo storico, mentre per uno storiografo della psicoanalisi essi rappresentano delle difficoltà immense. Si potrebbe continuare a citare esempi all'infinito; consentitemi di proporvene ancora
94
La cultura psicoanalitica
due. Qual è stata l’influenza di Marie Bonaparte sull'evoluzione di Lacan? Purtroppo non ho ancora letto la storia della psicoanalisi in Francia di cui sopra. Forse anche questa domanda vi trova una risposta, oppure no. Ed ecco un altro quesito, ancora più significativo: quali erano i rapporti tra Freud ed E. Jones? Che Jones non fosse 1’ “alter ego” di Freud, come lo definì il suo biografo V. Brome * è facilmente dimostrabile; ma quale ruolo ricopriva veramente? Numerose sono le domande di questo tipo che si pongono allo storico della psicoanalisi. Alla loro domanda si oppone una serie di difficoltà, ed io vorrei enuclearne quattro specifiche per la psicoanalisi. 1) Soltanto uno psicoanalista con una preparazione adeguata può scrivere di psicoanalisi, e solo uno storico adeguatamente
preparato
può
scrivere
di storia.
La
metodologia storica si può apprendere in alcuni anni; per addentrarsi nella psicoanalisi occorre invece molto più tempo. Un’eccezione a tale regola può essere tuttavia concessa qualora si tratti di temi particolari, per i quali può bastare una solida preparazione teorica. 2) La psicoanalisi presuppone, più che qualsiasi altra branca del sapere, delle conoscenze linguistiche che non abbraccino soltanto la lingua scritta e tecnica ma si estendano anche ad una conoscenza particolare del linguaggio colloquiale e persino dei dialetti. 3) Più che altre branche del sapere
— con l’eccezio-
ne della letteratura — la psicoanalisi è strettamente legata alla cultura delle varie epoche e con le caratteristiche specifiche dei singoli paesi. Lo storico deve avere dunque delle conoscenze anche in campo antropologico ed etnologico, nonché una certa dimestichezza con la letteratura. 4) A parte libri e riviste, le fonti per una storia della psicoanalisi sono
soprattutto lettere, diari, annotazioni
personali ed aneddoti. Tali fonti creano particolari problemi di utilizzazione. Soprattutto la biografia di Freud ha risentito molto del fatto che certe frasi
venivano citate avulse dal loro contesto, dando adito a
verbose supposizioni ed interpretazioni. Nei vari archivi giacciono ancora migliaia di lettere mai pubblicate. Per
Coordinate storiche della psicoanalisi
95
decifrarle ed elaborarle storicamente si incontreranno ancora molti ostacoli. Usando una certa cautela dirò che non sarà facile realizzare i quattro punti sopraccitati. A ciò si aggiunga
che il pensiero psicoanalitico ha molto più in comune con quello archeologico che non con quello storico. Solo poche persone, appartenenti ad una cerchia già di per sé ristretta, possiedono la giusta combinazione di sensibilità storica e doti psicoanalitiche. Lo stesso Freud ne è un esempio: non aveva assolutamente alcun senso per la storia. Se poi esigiamo anche un certo talento linguistico e capacità di immedesimazione culturale, il numero di coloro che potrebbero assolvere tale compito diventa davvero esiguo. Di conseguenza deve per forza di cose esistere (e sappiamo bene che esiste) molta storiografia scadente sulla psicoanalisi. Il giorno in cui si presenti un bravo storico, egli dovrà prima di tutto fare piazza pulita delle macerie lasciate dai suoi predecessori — con un ritardo per le proprie ricerche autonome che potrebbe essere anche di un’intera generazione. Vedete quindi che la parola ‘“‘possibile”’ contenuta nel titolo va davvero scritta in caratteri cubitali. Per quanto lusinghiero sia stato per me il fatto che Ernest Freud ed altri ancora mi reputino capace di un tale sforzo, sono convinto di non poterlo compiere. Ammetto che da giovane le difficoltà non mi parevano ancora così insormontabili, e sognavo che un tempo avrei scritto una psicoanalisi della storia ed una storia della psicoanalisi. Per quanto riguarda la prima, sapete che esiste ormai da oltre vent'anni un movimento che si definisce ‘‘psico-storia”. Vi fanno parte storici che fanno gli psicoanalisti e psicoanalisti che fanno gli storici. Ognuno di essi lavora su un argomento particolare e partecipa regolarmente a seminari e congressi. Come storici essi collaborano con università ed altri istituti didattici superiori. Vi sono persino dei corsi di psicostoria presso alcune università degli Stati Uniti nonché un interessantissimo «Journal of Psychohistory». Forse il loro metodo e la loro organizzazione potrebbe fungere da modello per ciò che io chiamo “storia della psicoanalisi”. Per non rispondere del tutto negativamente alla mia
96
La cultura psicoanalitica
domanda iniziale e poter realizzare questo compito dovrebbero realizzarsi due presupposti: 1. Gli archivi già esistenti della psicoanalisi, i FreudArchives negli USA ed il Freud Museum di Vienna dovrebbero coordinare la loro attività. 2. L'Associazione Psicoanalitica Internazionale dovrebbe istituire un fondo dedicato esclusivamente alla storiografia della psicoanalisi. Sarebbe auspicabile che questo fondo fosse collegato con una grande università oppure con un istituto di ricerca privato. Una persona
sola non può assolvere ad un tale compito; ovviamente sarebbe irrinunciabile trovare un coordinatore adatto per l’intero progetto. Se gli spunti forniti quest'oggi potessero avere veramente un seguito, ciò significherebbe anche la piena realizzazione
della convinzione
di Freud,
secondo
la
quale la psicoanalisi è un fatto squisitamente sociale. Anche la mia tesi personale, già espressa in altra sede?, secondo cui la psicoanalisi deve restare un movimento se vuole restare essa stessa in movimento, verrebbe mate-
rializzata in un istituto per la storia della psicoanalisi di tal genere. Consentitemi di esprimere la speranza che questa mia relazione possa dare un giorno tali frutti.
Note
1. Mora, G.& J.L. Brand (edt.), Ch. Thomas, Springfield, I 11. 1970.
2. Editions Ramsay, Paris 1982. 3. Kindler Verlag 1977, Beltz 1982. 4. Soprattutto James C. Burnham e Nathan ]J. Hale, Jr. 5. Columbia University Press, New York 1979. 6. Del resto la maggior parte dei libri sulla psicoanalisi contiene anche una esposizione del suo sviluppo storico. 7. Vandenhoeck&Ruprecht, Gòttingen 1971. 8. E. Jones, Freud’ Alter Ego, Caliban Books 1982. 9. E. FEDERN “Gibt es noch eine psychoanalytische Bewegung?”, in «Psychoanalyse», 1982, 3. Jhg/1.
Ernst Federn (Austria - Vienna): Storico della psicoanalisi, figlio di Paul Federn, uno dei primi e più stretti collaboratori di Freud.
Mario Erdheim
Perché il 1900? Su una collocazione storico-scientifica della psicoanalisi freudiana La scoperta dell'inconscio da parte di Freud avvenne, è vero, nell’ambito della medicina, ma ben presto Freud si sarebbe dedicato ad interessi più ampi, e quella che era nata come una terapia divenne lentamente una teoria culturale, tendente a poco a poco a trasformarsi in una scienza dell’uomo autonoma. Nel 1962, paragonando Schelling e Freud, Odo Marquard ha sottolineato gli sviluppi filosofici nei quali si inquadra l'operato di Freud. Secondo la tesi di Marquard, nel XIX secolo, la filosofia, non più sotto il segno dell’estetica, si trasformò in terapeutica: l’arte del curare, la medicina, acquistò rilevanza filosofica, diventando un paradigma per meditare la situazione dell’uomo. Questa svolta dall’estetica
alla terapeutica è stata vista da Marquard in relazione ad una nuova valorizzazione della natura che s’impose come indispensabile, dovendo la ragione illuminista riconoscere la propria impotenza di fronte alla natura stessa. Vorrei ora riprendere questi punti di Marquard, staccandoli tuttavia dal loro contesto meramente filosofico. Mentre Schelling giunse alle sue teorie grazie alla speculazione solitaria, Freud sviluppò le proprie traendole dal rapporto psicoanalitico. In quel modo egli modificò la scienza alla radice, ossia alla fonte stessa
della conoscenza, nel punto dove s'incontrano il ricercatore ed' il suo informatore. La svolta dall’estetica alla terapeutica va dunque
interpretata
a mio
avviso non
soltanto come ammissione dell'’impotenza della ragione di fronte alla natura, bensì anche quale tentativo di
4. La cultura psicoanalitica
98
La cultura psicoanalitica
rinnovare l'acquisizione dei dati su cui la filosofia si basa. Dato che le possibilità cognitive del filosofo abbandonato a se stesso si stavano atrofizzando a vista d'occhio, egli doveva procurare nuova linfa al suo pensiero, sperando di trovarla nella medicina. Alla sete di esperienza della filosofia corrispondeva nella medicina del XIX secolo un eccesso di esperienza, cui non si riusciva a dare una sistemazione teorica. La
dimensione simbolica della malattia, un aspetto fino ad allora alquanto trascurato, emerse sempre di più pur non potendo venir integrato né alla teoria né alla prassi. Non solo per la filosofia, anche per la medicina si rese necessario un orientamento
nuovo. Per chiarire meglio
questo problema, che ritengo utilissimo ai fini della comprensione della nascita e dello sviluppo della psicoanalisi, vorrei ricordare brevemente alcune delle trasformazioni avvenute nei rapporti tra malattia, terapia e cultura. Una caratteristica del concetto di malattia nelle cosiddette ‘culture primitive” era il legame instaurato tra la malattia dell'individuo da un lato e l’ambiente sociale dall’altro — legame reso possibile ad esempio dall’assunto animista. Ciò significa che nella medicina primitiva la malattia non veniva considerata come un processo puramente fisiologico; era vista sempre anche come indicatore di problemi riguardanti l’intero gruppo in cui il malato viveva. La malattia acquistava in tal senso un significato simbolico che veniva interpretato nel contesto religioso. Si faceva infatti notare all’ammalato che aveva violato un tabù, offeso un avo oppure che era vittima della magia nera di persone a lui nemiche. La terapia assumeva pertanto sempre anche una dimensione religioso-culturale, che permetteva di reintegrare il malatto nella comunità. I presupposti fondamentali per questa reintegrazione erano in primo luogo la struttura economica e sociale basata sulla reciprocità (Mauss, 1923), in secondo luogo
il cosmo di valori comuni al gruppo e, in terzo luogo, le strutture psicosociali che regolano la dipendenza dell’individuo dal suo gruppo di riferimento (Parin, Morgenthaler e Parin-Matthèy, 1963 e 1971). L'evoluzione sociale portò ad una crescente gerar-
Coordinate storiche della psicoanalisi
99
chizzazione della società ed alla formazione di classi sociali. Il processo di civilizzazione ebbe ripercussioni anche sul singolo — l’individuo doveva diventare più mobile e più indipendente dal gruppo. Il cosmo di valori comuni fu mantenuto ancora a lungo sotto forma di una “religione universale”, ma la base socio-economica della comunanza divenne sempre più fragile e la pluralità degli interessi cancellò del tutto anche tale finzione. Il crescente dominio della natura smitizzava quest’ultima e rendeva possibile una nuova comprensione della malattia, che faceva leva esclusivamente sul corpo: il corpo malato, dunque una parte della natura, doveva essere trattato e guarito — se proprio necessario — soltanto con mezzi ‘naturali’, fisici e chimici. La dimensione
simbolica della malattia riferita alla sfera culturale non poteva più essere colta. Non poteva esserlo innanzitutto perché il sistema di valori religiosi, in base al quale questa dimensione poteva essere resa intelleggibile, aveva perduto la sua credibilità; in secondo luogo perché anche il rapporto medico-paziente si era gerarchizzato ed aveva perso la sua
capacità
comunicativa
in seguito
alla crescente
specializzazione della professione. Quest’andamento,
acceleratosi
nel
XVI
e XVII
secolo, raggiunse il suo culmine nell'Ottocento. Nella medicina di orientamento anatomo-patologico si accumulò un ingente patrimonio di sapere diagnostico, con il quale però le cognizioni terapeutiche non riuscivano a tenere il passo (Ackerknecht,
1970/141).
Questo divario fu particolarmente profondo in psichiatria. La diagnostica si fondava su basi fantasmagoriche, definite da Franz Nissl (1869-1919) come “mitologia cerebrale”. Ma proprio per questa ragione gli psichiatri dovettero insistere sulla loro scientificità. Il medico doveva riconoscere immediatamente le resistenze che si stavano delineando ed affrontarle con decisione «per assicurarsi il dominio incondizionato della psiche dell’ammalato. Quest'ultimo obiettivo spesso può essere raggiunto, specie nei confronti dei malati di sesso femminile, grazie ad atteggiamenti scostanti ed imperiosi che spaventano i pazienti al punto di indurli a fare tutto ciò che viene loro richiesto» (Kraepelin 1915).
100
La cultura psicoanalitica
Le idee terapeutiche di Kraepelin dimostrano chiaramente in quale misura i rapporti di dominio caratterizzassero il rapporto medico-paziente. Il concetto di malattia era da un lato il frutto di un tale rapporto, dall’altro anche la sua legittimazione. Se osserviamo i princìpi secondo i quali Kraepelin definiva il quadro della malattia ed il suo trattamento, ci interessano soprattutto gli elementi che oscurano la dimensione simbolica della malattia e dunque il rapporto di quest’ultima con la cultura. Sul piano teorico ciò avveniva attribuendo la malattia alla costituzione del paziente nonché tramite la teoria dell’ereditarietà. Il fatto che le donne vengano colpite dall’isteria più spesso degli uomini, i giovani più degli anziani, i latini e gli slavi più dei germanici, veniva attribuito alla loro costituzione, la quale sarebbe dominata dall’emotività — caratteristica di uno stadio di evoluzione più primitivo. La prassi terapeutica era in stretta correlazione con tali premesse teoriche, tesa a realizzare il dominio del medico sul paziente tramite la “procedura del colpo di mano” o il ‘‘trascurare voluto”, evitando ogni riflessione sulla soggettività e la vita del malato. Kraepelin impersonava dunque la tendenza della medicina che difendeva con ogni mezzo il vecchio paradigma scientifico, scartando come irrilevante ogni significato simbolico della malattia.
Quest’atteggiamento
rigido naturalmente
incontrò
anche degli obiettori. Lo storico della medicina spagnolo Larin Entralgo (1968) parla della “ribellione del soggetto”, dell’insoddisfazione dei pazienti sul fatto che essi, soggetti dotati di ragione, sentimento e libertà diventassero gli oggetti dell’agire del medico. Richiamandosi all'eredità
umanistica,
una
serie
di medici
cercò
di
sviluppare nuovi approcci nei confronti dei pazienti; uno dei più umani tra questi fu Josef Breuer (18421925). Assieme a Berta Pappenheim (1858-1836), una giovane donna ribelle, indocile e molto intelligente venutasi a trovare in grosse difficoltà psichiche, egli sviluppò un procedimento che lei, la paziente, definì “Sprechkur” (cura della parola), nel quale il linguaggio e la soggettività di medico e paziente rivestivano un ruolo fondamentale
(Hirschmiiller,
1978).
Coordinate storiche della psicoanalisi
101
Il problema di fronte al quale venne a trovarsi la medicina e che fu finalmente risolto da Freud era il seguente: com’era possibile affrontare la sfida del soggetto in rivolta? Volendo seguire Kraepelin, occorreva soffocare quella ribellione ed “assicurarsi il dominio incondizionato della psiche dell’ammalato”. Ma in quel caso la dimensione simbolica della malattia sarebbe rimasta ignota. Volendo invece raccogliere la sfida, rimaneva ancora da chiarire come si poteva scoprire il senso dell’evento-malattia. Abbiamo già visto che nella medicina primitiva il problema del senso poteva trovare interpretazione nella sfera religiosa: lo stregone conosce-
va il linguaggio individuale della malattia e, in virtù della sua posizione sacrale, sapeva tradurlo in un linguaggio religioso-culturale comprensibile a tutta quella comunità. II medico moderno non disponeva però né di quella posizione né di un tale linguaggio — valori e forme di fede antichi si erano ormai disgregati. Già nel 1848 Marx ed Engels avevano scritto nel Manifesto del Partito Comunista: «Dove (la borghesia) è giunta al potere, essa ha distrutto tutte le condizioni di vita feudali, patriarcali,
idilliache. Essa ha lacerato senza pietà i variopinti legami che nella società feudale avvincevano l’uomo ai suoi superiori naturali, e non ha lasciato tra uomo e uomo altro vincolo che il nudo interesse, lo spietato ‘“‘pagamento in contanti”. Essa ha affogato nell’acqua gelida del calcolo egoistico i santi fremiti dell’esaltazione religiosa, dell'entusiasmo cavalleresco, della sentimentalità piccolo-borghese... In una parola, al posto dello sfruttamento velato da illusioni religiose e politiche, ha messo uno sfruttamento aperto, senza pudori, diretto ed arido. La borghesia ha spogliato della loro aureola tutte quelle attività che per l’innanzi erano considerate degne di venerazione e di rispetto. Ha trasformato il medico, il giurista, il prete, il poeta, lo scienziato in suoi operai
salariati» !. La tesi della perdita dell’aureola e della metamorfosi in un “comune” lavoro salariato ci conduce ad un problema spesso trascurato. Nel caso dello sciamano e dello stregone, il loro ruolo sociale era inquadrato in uno schema religioso. La convinzione di operare con delle
forze superiori, la fede nella magia e nell’onnipotenza
102
La cultura psicoanalitica
del pensiero legavano le fantasie di onnipotenza individuali a valori generalmente accettati. Dal momento in cui i vecchi ruoli si dissolsero, persero cioè la loro aureola, anche le fantasie di onnipotenza vennero liberate come lo spirito nella bottiglia della fiaba. Queste fantasie di grandezza’ e di onnipotenza liberamente flottanti sono alla ricerca di oggetti ai quali potersi attaccare per fare risaltare il loro soggetto in tutto il suo splendore. Di norma però tali fantasie narcisistiche sono conservatrici: è grande quello che fino ad ora era considerato grande; per questa ragione esse si accompa-
gnano spesso a delle tendenze restauratrici. Jean-Baptiste Charcot (1825-1893), il neurologo parigino tanto ammirato da Freud, è un esempio lampante di questo destino delle fantasie di onnipotenza (Erdheim, 1982:70). Nella sua autoanalisi Freud trovò tuttavia un
mezzo per annullare la spinta restauratrice di grandezza ed onnipotenza e per rinunciare veramente all’ “aureola” della professione medica. Ecco cosa scrisse nel 1913 a riprova della tesi di Marx ed Engels. «Quanto al tempo, io seguo esclusivamente il principio del noleggio di una determinata ora» ?. La ‘“smitizzazione”,
la ‘“desciamanizzazione’’
della
professione di terapeuta e la svalutazione dei valori fino ad allora considerati supremi, furono i più importanti presupposti per la demistificazione dell'inconscio. La diagnosi fatta da Marx ed Engels nel Manifesto comunista venne recepita anche dalla borghesia. Nel 1887 Nietzsche scrisse: «Quello che racconto è la storia dei
prossimi due secoli (...) Descrivo ciò che verrà, ciò che non può che venire: l'avvento del nichilismo». Indipendentemente dall’atteggiamento che si intende assumere nei confronti del nichilismo, bisogna comunque prenderne atto. Il tentativo di postulare dei valori nuovi validi per tutta la società, fino ad ora non ha mai avuto successo. Né il cristianesimo né la filosofia, né l’arte né la scienza possono fissare valori universali, fondati su un consenso sociale. Il merito di
Freud è quello di non negare questa disgregazione — ricorrente già nel termine ‘psicoanalisi’ — e di insistere contemporaneamente sul contenuto simbolico della malattia.
Coordinate storiche della psicoanalisi
103
Era proprio quello il problema che aveva fatto naufragare i predecessori di Freud, i medici dell’epoca romantica. Anch’essi si erano interessati alla dimensione simbolica della malattia, ma non sapevano tradurla in un linguaggio comprensibile al paziente. La scoperta di Freud secondo cui il rapporto tra l’attenzione ugualmente fluttuante dell’analista e le libere associazioni dell’analizzando consentiva di gettare uno sguardo sull’inconscio, permise di riconoscere il simbolismo della malattia formatasi durante la vita dell’individuo, senza per questo dover ricorrere alla mistica ed alla religione. In tale contesto si stava lentamente cristallizzando un qualcosa che trascendeva l'aspetto meramente terapeutico: era nato un nuovo
concetto
di sapere
(Eissler 1965).
Meditando sull’insuccesso del trattamento di Dora,
uno di questi soggetti ribelli, Freud scoprì il fenomeno del transfert: soltanto il sapere basato sul rapporto tra analizzando ed analista è capace di creare la coscienza. A partire da quel momento il concetto di Aufk/drung acquisì un significato più vasto: il sapere non veniva considerato soltanto come un fatto intellettuale, ma anche come un fatto sociale. Solo se è disposto a lasciarsi coinvolgere in determinate
relazioni sociali, lAufk/irer,
può sperare in un conflitto produttivo. Giungo ora alla conclusione. Eravamo partiti dalla domanda «Perché il 19002». L’anno in cui fu pubblicato L’interpretazione dei sogni è davvero una data storica che segna la riconquista di una concezione della malattia caduta nell’oblio in seguito al processo di civilizzazione. Nella seconda metà del XIX secolo, la crisi della psichiatria di stampo anatomo-patologico, l'avvento del nichilismo e la conseguente smitizzazione del terapeuta, nonché la ribellione del soggetto erano giunti ad un punto tale da permettere uno sguardo nuovo sull’inconscio umano. Il coinvolgimento dell'inconscio nel sapere avrebbe dovuto rivoluzionare le scienze umanistiche, come pure la filosofia; pare invece che le barriere erette contro la psicoanalisi dalle scienze tradizionali siano servite, essendo riuscite a
confinare la psicoanalisi nell’ambito strettamente terapeutico. Anche Marquard aveva rivelato la svolta compiuta dalla filosofia, passata dall’estetica alla terapeutica. Grazie a questa svolta, la filosofia poté fare a
104
La cultura psicoanalitica
meno di riconoscere che L’interpretazione dei sogni è ben più di un manuale per la comprensione dei sogni. Io proporrei di paragonarla piuttosto con il Discowrs de la méthode (1637) di Cartesio, rammentando
come
anche
all’inizio dell’iter di quell’opera ci siano tre sogni ai quali Cartesio attribuì un'importanza straordinaria (Fischer 1912:183)*.
Cartesio
interpretò
quei sogni in chiave
religiosa e presentò il metodo matematico come modello per la scienza. — Non potrebbe essere che L’interpretazione dei sogni di Freud sia l’erede naturale del metodo cartesiano? Ma questo sarebbe già l'argomento di un altro lavoro.
Note
1. K. Marx e F. EnceLs, Manifesto del Partito Comunista, trad. di P. Togliatti, Editori Riuniti, 1971, XVI ed., p. 59. 2. S. Freup, Inizio del trattamento, O.S.F., Boringhieri, Torino 1979; Volte
179056: 3. F. NrerzscHe, Scelta di frammenti postumi 1887-1888, Mondadori, 1981, 362 [119]. 4. K. Fiscner, Descartes. Leben, Werke und Lebre, Carl
Winter's Universitàtsbuchhandlung, Heidelberg 1912.
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A.
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Mario Erdbeim, professore di sociologia, Università di Zurigo.
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231
Luciana Nissim Momigliano
Una stagione a Vienna: ma Freud era freudiano? La Vienna in cui vi sto invitando oggi, non è la “gaia” Vienna dei valzer di Strauss e dei maliziosi vecchi caffè, né la ‘Grande Vienna” della straordinaria fioritu-
ra culturale e artistica, che si è sviluppata negli ultimi decenni dell'Impero austro-ungarico, a cui peraltro faceva da sfondo una società disperata, dominata da una burocrazia ottusa e corrotta e da un’aristocrazia vuota,
mentre alla periferia dell’impero si avvertivano ormai i sordi brontolii delle rivendicazioni nazionalistiche e irredentistiche dei numerosissimi gruppi etnici che costituivano la popolazione della Duplice Monarchia, la Cacania —
e voi, a Trieste, ne sapete qualcosa...
La Vienna di cui vi voglio periodo tra le due guerre, frequentemente rivisitata, ma tiche, anzi fatali: per situare relazione, cioè il racconto
parlare è invece quella del una stagione forse meno densa di vicende drammameglio il tema della mia
di come
Freud lavorava in
quei tempi coi suoi pazienti, da come si può dedurre dalle testimonianze di alcuni di questi, cercherò di darvene alcune coordinate, procedendo ad una breve sintesi.
Mi limiterò dunque a pochi accenni: dopo la sconfitta degli Imperi Centrali, l’Austria è ormai ridotta a un piccolo paese agricolo-alpino, la cui cultura è lontanissima da quella della sua capitale. A Vienna detta “la rossa” perché in quel periodo di inflazione, di freddo e di carestia (Freud lavora in studio con guanti e cappotto,
e sopravvive,
con la sua famiglia, grazie a
pacchi alimentari che gli vengono mandati da parenti e
a
108
La cultura psicoanalitica
amici), il governo viene conquistato dai socialisti, ben presto vanno acquistando sempre più potere le forze reazionarie, a poco a poco addirittura con simpatie filonaziste, che culmineranno nell’Arschluss; nel corso degli anni, si produssero dapprima ripetuti scontri di piazza (Elias Canetti, fra gli altri, partecipa nel 1927 all'assalto e incendio del Palazzo di Giustizia), poi in un crescendo sempre più orribile, gli eventi precipitano: ecco l’assassinio di Dollfiss, l’arrivo delle truppe tedesche, la persecuzione degli ebrei, e l'emigrazione di Freud e della sua famiglia. In un clima così pieno di oscuri presagi, abbastanza attenti agli avvenimenti ma senza partecipazione
attiva
(con l’eccezione di W. Reich, S. Bernfeld e pochi altri), Freud e i suoi discepoli continuano e sviluppano il loro lavoro. Sono questi, infatti, gli anni in cui le opere di Freud vengono tradotte dappertutto e il movimento psicoanalitico, “la causa”, si diffonde praticamente in tutto il mondo: dal primo gruppetto di cinque o sei fedeli che, pare su suggerimento di Steckel, aveva cominciato a riunirsi una volta alla settimana nella sala d’aspetto di Freud col nome di ‘Società psicologica del mercoledì”, era nata nel 1908 la “Società psicoanalitica di Vienna”, cui ben presto fecero seguito quella di New York nel 1911, e contemporaneamente l’Azzerican Psychoanalytic Society a Toronto, ad opera di Jones che allora vi risiedeva,
e, nel
1913,
a Budapest
quella
ungherese. Dopo la guerra, nel 1919, nasce la Società psicoanalitica svizzera
e man mano vengono riconosciu-
te, come facenti parte dell’Associazione internazionale, rispettivamente la Società indiana nel 1922 (al Congresso di Berlino), quella russa nel 1924 (al Congresso di Salisburgo),
e nel 1936, al Congresso
di Marienbad,
quella italiana (che, fondata a Teramo nel 1925 da Levi Bianchini, aveva preso un vero avvio
a Roma nel 1932
sotto la direzione di E. Weiss). Anche il training viene formalizzato nella struttura: analisi
personale,
supervisioni,
lezioni
teoriche,
che
tuttora consideriamo la più soddisfacente; da tempo infatti nel gruppo viennese si era sviluppato un dibattito vivace sull’opportunità che i futuri analisti venissero sottoposti regolarmente a un’analisi preventiva, ma
Coordinate storiche della psicoanalisi
109
questa proposta, presentata da Nunberg nel 1918 durante il Congresso di Budapest e respinta allora, pare, per l'opposizione recisa di Tausk e Rank, che si fanno portavoce della opinione contraria degli analisti di prima generazione, verrà ridiscussa ufficialmente solo nel 1926 al Congresso di Bad-Homburg, dove la decisione riguardo alla prescrittività dell’analisi didattica otterrà il consenso generale. Nel frattempo però — e precisamente nel 1921 — era stato fondato a Berlino il primo Istituto psicoanalitico; nel 1924 viene fondato quello di Vienna a cui seguiranno nel 1925 quello britannico e nel 1931 il New York Psychoanalytic Institute. Intanto, malgrado l’ostracismo degli ambienti ufficiali, soprattutto medici e universitari, malgrado le defezioni e le calunnie, Freud è diventato un personaggio di fama mondiale, anche se a volte lui sembra rimpiangere lo splendido glorioso isolamento degli esordi... Beh, bisogna andarsi a rileggere un po’ delle cose scritte dalle persone che appartenevano alla sua cerchia per farsi un'idea di quale fosse realmente l'atmosfera dei primi tempi: Max Graf, per esempio (il critico musicale futuro padre di un ragazzino che diventerà famoso, il piccolo Hans), che avendo cono-
sciuto Freud nel 1900, era subito entrato a far parte della cerchia dei suoi primi seguaci, scrive nei suoi Ricordi (1940): «... C'era un’atmosfera
religione in quella stanza...
da fondazione
Freud
ne
era
di una
il nuovo
profeta... i suoi allievi, tutti ispirati e convinti, erano i
suoi apostoli. Malgrado la quantità dei contrasti tra le personalità di questo circolo, tutti loro erano uniti, nel primo periodo, nella loro fede indubitabile in Freud...». Anche H. Deutsch (1940) descrive in modo analogo la situazione: «... Per la sua cerchia, Freud non era solo il
grande maestro, era la stella luminosa nella buia strada di una nuova scienza, una forza dominatrice che portava ordine in un ambiente di battaglia... tutti creavano la stessa
atmosfera
intorno
al maestro,
un’atmosfera
di
autorità assoluta e infallibile... Solo dopo molti anni, l'atmosfera e il carattere del gruppo cambiarono...». E Hans Sachs (che nel 1920 si trasferirà da Vienna a Berlino, per occuparsi dell'Istituto, dove diverrà il primo
»
110
La cultura psicoanalitica
analista di fraining) dichiara fin dalle prime righe del suo libro Freud maestro e amico (1944), che quanto scriverà a proposito del fondatore della psicoanalisi, da lui conosciuto intimamente dai tempi dei primi passi della nuova scienza fino alla sua morte, non sarà assolutamente obiettivo, in quanto lui ‘idolatrava” Freud, un uomo che era stato per lui una parte, e certo la parte più importante e assorbente della propria vita; «... Il mio destino — scrive infatti — fu segnato la prima volta che apri la Traumdeutung. Fu per me come incontrare la femme fatale, solo con un risultato indubbiamente più favorevole. Fino a quel tempo ero stato... un tipo abbastanza comune nella borghesia viennese sul finire del secolo. A lettura compiuta, avevo trovato la sola cosa per cui valeva la pena, per me, di vivere...». Non bisogna però dimenticare quanto ostile fosse il mondo circostante nei confronti di questo gruppo di, per così dire, irregolari; conosciamo le accuse e le calunnie che gli ambienti medici e accademici propagavano su Freud, ma forse non ci rendiamo conto di come
stessero realmente le cose. Sempre nell’articolo già citato, per esempio, Max Graf aggiunge che quelli erano tempi in cui a Vienna «... la gente rideva di Freud ed era considerato di cattivo gusto riportare il nome di Freud in presenza delle signore, che arrossivano a sentirlo menzionare...».
Il quadro è ora invece totalmente cambiato: a quanto racconta Canetti, testimone non prevenuto, nel suo I/ frutto del fuoco (1980), nell’anno 1925, non c’era invece a Vienna salotto mondano o intellettuale in cui la gente non si interrogasse a vicenda sul proprio complesso di Edipo, o non si interpretasse reciprocamente
i propri
lapsus o atti mancati... e lo stesso Freud, secondo quanto riferisce Clark, scrive al nipote Samuel nel 1926, nel periodo intorno al proprio settantesimo compleanno: «... Ho continuato a lavorare. Faccio da cinque a sei ore
di trattamento al giorno, e i miei allievi e i miei pazienti non riscontrano in me segni di cedimento. Scrivo ogni tanto un foglio, l'edizione completa dei miei libri si è
conclusa,
salvo
un
volume.
Sono
considerato
una
celebrità. Scrittori e filosofi che passano da Vienna chiedono di avere una conversazione con me. Gli ebrei
Coordinate storiche della psicoanalisi
di tutto
il mondo
si vantano
del
mio
111
nome,
mi
paragonano a Einstein. Dopo tutto non ho ragione di lagnarmi e di guardare con spavento alla fine prossima della mia vita. Dopo molti anni di povertà finalmente guadagno senza fatica e oso dire che ho provveduto a mia moglie dopo che sarò morto...». Questa lettera è del 1926, mentre Freud sta affron-
tando il suo dramma personale: da tre anni infatti gli è stato diagnosticato il cancro alla mascella che comporterà una trentina di operazioni chirurgiche, oltre alle continue sofferenze e interventi minori per l’adattamento della protesi, mentre nel corso degli anni sopravverranno per lui anche altri malanni e afflizioni varie, che gli faranno scrivere in una lettera a Ferenczi del 1928: «... Devo devolvere la maggior parte della mia attività al mantenimento della quantità di salute che è necessaria allo svolgimento del mio lavoro quotidiano. Un vero mosaico di misure terapeutiche per costringere i vari organi a servire al loro scopo. Recentemente ci si è messo pure il cuore con un’aritmia extrasistolica ed attacchi di cardiopalmo...». Ma, com'è noto, stanco, a volte spossato, pieno di
disagi, con difficoltà a parlare a causa della protesi e sordo da un orecchio, in conseguenza dei primi interventi demolitori, egli continua con l’antica passione ad ascoltare, capire, ricercare. Negli anni Venti ha nove,
dieci pazienti al giorno, poi quattro, cinque o sei, secondo i periodi. Ne seguirà ancora quattro a Londra, dopo l'emigrazione, fino a poche settimane prima di morire. Mentre Freud affronta dunque col coraggio che sappiamo il male fisico e le sofferenze provocate dai numerosi gravissimi lutti che lo colpiscono (la morte della figlia Sophie, dell’amatissimo nipotino Heinerle, e quella di Abraham «l’uomo senza macchia e senza paura»), del distacco e poi della rottura con Otto Rank, che aveva sempre considerato il suo delfino, e poi l'allontanamento di Ferenezi «il mio Paladino e gran Vizir segreto», avviene qualcosa di veramente straordinario: in un nuovo empito di creatività, apporta in libri e articoli cambiamenti e sviluppi fondamentali alla teoria, con l’introduzione soprattutto della teoria strutturale e
è
112
La cultura psicoanalitica
dell’istinto di morte, producendo continuamente nuove idee che, fra l’altro, incontrano una resistenza notevole nel gruppo degli anziani, mentre vengono accettate con ammirazione ed entusiasmo dai più giovani (Sterba). Negli anni terribili del dopoguerra, Freud riprende dunque a lavorare coi. pazienti inglesi e americani che dapprima gli vengono mandati da Jones, e poi accorreranno spontaneamente
sempre più numerosi; a partire
dal 1920 circa egli prende poi l’abitudine di accettare come pazienti solo persone che abbiano il progetto di diventare analisti (Blanton), decidendo contemporaneamente di evitare di prendere in analisi i suoi più stretti collaboratori (l’ultima a godere di questo privilegio è stata probabilmente Helene Deutsch): i motivi di questa decisione sono ovvi, ma le conseguenze che ne derivano sono talora drammatiche (vedi il noto caso di Tausk e,
pare, anche quello di W. Reich, che precipitò in una profonda depressione, secondo quanto afferma sua moglie, proprio in seguito al rifiuto di Freud di prenderlo in analisi).
«Preferisco dieci volte uno studente a un nevrotico»,
avrebbe detto Freud a Wortis nel loro secondo incontro. E a Kardiner che gli chiedeva cosa pensasse di sé come analista, Freud rispondeva: «Sono contento che lei mi chieda questo, perché, francamente, non ho un gran interesse in problemi terapeutici. Sono proprio troppo impaziente, adesso. Ho molti gravi handicaps che mi squalificano come grande analista. Uno di questi è che io sono un po’ troppo il padre. Secondo, sono un po’ troppo e continuamente occupato da problemi teorici, così, ogniqualvolta ne ho l’occasione, lavoro sui miei
problemi teorici, piuttosto che prestare attenzione ai problemi terapeutici. Terzo, non ho pazienza di tenere la gente per un periodo lungo. Mi stufo di loro, e poi desidero allargare la mia influenza...». Questa svolta nel lavoro clinico di Freud va dunque collocata nel particolare periodo storico che ho cercato di ricordare; mentre il movimento psicoanalitico sembra ormai svilupparsi in modo fiorente, lui, quasi totalmente preso dalla ‘causa”, è però sempre personalmente preoccupato del problema di continuare a lavorare per riuscire a guadagnarsi da vivere; l’ansia e il desiderio di
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113
assicurare il futuro e la sopravvivenza della sua grande scoperta coincidono nel fargli ritenere dunque molto importante avere in analisi molti studenti stranieri, che possano diventare fedeli continuatori del suo pensiero, una volta tornati nei loro paesi di provenienza — e che intanto gli possano fornire una certa tranquillità economica, in quanto sono in grado di pagare i suoi onorari in
valuta pregiata. L’assillo di noi lontani epigoni di conoscere Freud sempre di più, la nostra curiosità affettuosa ma a volte indiscreta di sapere come lavorava veramente quando era coi pazienti (sollecitata anche dalla lettura delle sue proprie note prese all’inizio dell’analisi del cosiddetto “Uomo
dei Topi”, recentemente
pubblicate),
i nostri
problemi comuni di identificazione e disidentificazione col fondatore della psicoanalisi, possono trovare oggi un certo materiale di riflessione nei libri o articoli di alcuni pazienti/studenti che, venuti alla Mecca della psicoanalisi per ricevere analisi e formazione e rientrati nei loro paesi, per lo più oltreoceano a esercitarvi a loro volta la psicoanalisi, forti di questa investitura, ne hanno lasciato testimonianza.
Ecco dunque l'elenco dei libri scritti da persone che sono state in analisi da Freud, da cui ho tratto la maggior parte delle informazioni che vi esporrò, in cui indico l’autore, la data di pubblicazione, il titolo (in italiano, se
tradotto) e, fra parentesi, il periodo e la durata delle singole analisi. Nella bibliografia unita a questo lavoro, ne riporto la citazione completa; aggiungerò poi l’indicazione di ulteriori volumi e articoli sull'argomento, che ho consultato, anche se non sono espressamente citati nel testo:
—
Smiley Blanton (1971): La mia analisi con Freud (settembre 1929-giugno 1930; e altri brevi periodi nelle estati rispettivamente
—
—
1935, 1937, 1938);
Helene Deutsch (1973): A confronto con me stessa (autunno 1918 - per circa un anno); H.D. (Hilda Doolittle, 1956): I segni sul muro (marzo-fine giugno-inizio luglio 1933; fine ottobredicembre
1934);
— Abraham Kardiner (1977): Una (ottobre 1921-1° Aprile 1922);
piccola
nevrosi
114
La cultura psicoanalitica
— Joseph Wortis (1954): Frammenti di un'analisi con —
Freud (settembre, ottobre 1934-31 Gennaio 1935); Célia Bertin (1982): L'ultima Bonaparte (in totale dal
settembre 1925 all’inizio del 1929, attraverso nume-
rose più o meno brevi tranches). Oltre a questi libri, ho anche tenuto presente le brevi e non tutte particolarmente significative testimonianze scritte da parte di altri analisti, analizzati a suo tempo da Freud, e pubblicate in riviste, in genere di difficile consultazione, che sono state raccolte e ripubblicate insieme a numerosi altri articoli di persone che per un motivo o per l’altro avevano avuto occasione di rendergli visita, nel volume Freud as we knew him (1973), edito a
cura di Hendrik M. Ruitenbeck: esse appartengono a Raymond De Saussure (in analisi per circa un anno agli inizi degli anni ’20); Ernest Blum (in analisi per circa dieci mesi nel 1922); Joan Rivière (qualche mese nel 1922); Adolph Stern (1922); Roy R. Grinker (in analisi
nella tarda estate del 1933). Esistono inoltre brevi accenni alla propria analisi con Freud da parte di R. Money-Kyrle (1979) (negli anni ’20 e ’21); J. Lampl de Groot (1975) (inizio dell’analisi nel 1922) e J. Strachey (1963), in analisi per circa due anni dal 1920 al 1922.
Come si vede da questo elenco, tutto sommato abbastanza modesto, le testimonianze da parte di chi ha potuto usufruire di un’esperienza così privilegiata — fare l’analisi con Freud in persona! — non sono poi molte: forse le persone che gli erano state più vicine nei primi periodi e che hanno continuato a gravitare intorno a lui, seppure coi dissensi e le rotture che sappiamo (con le note eccezioni di E. Jones, L. Binswanger, T. Reik, H. Sachs, E. Weiss e, recentemente, R. Sterba), non se la sono sentita di mettere
per iscritto qualcosa che era così profondamente e intimamente legato alla propria esistenza, probabilmente anche per un senso di lealtà verso di lui e di rispetto per il suo desiderio di privacy. Questo è documentato bene da Paul Roazen, quando nell’Introduzione al suo volume Freud and bis followers (1975) racconta le difficoltà che talvolta ha dovuto superare per raccogliere le testimonianze orali
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1015
delle persone che stava intervistando (in anni di ricerche, era riuscito a raggiungere una settantina di uomini e donne che avevano conosciuto Freud personalmente, e venticinque suoi antichi pazienti — tutte persone molto anziane che in effetti ormai sono quasi tutte scomparse), ma anche la intensità delle emozioni che osservava ridestarsi in loro, quando arrivavano a rendersi conto che potevano finalmente abbandonarsi alla rievocazione di quegli anni fatali, che avevano a lungo tenuto quasi solo per sé, e contribuire così a loro volta a lasciarne traccia.
Sembra invece che sia stato più facile prendere appunti durante la propria analisi, e più tardi usarli per una pubblicazione, per coloro che, avendo lavorato con Freud in epoche più tardive, e per un tempo in genere breve, sono poi tornati nei loro paesi d’origine, per esercitarvi la psicoanalisi, avvantaggiati da questa esperienza sia sul piano personale che da quello della carriera.
La cosa che bisogna sottolineare, infatti, è che questi libri sono stati scritti quasi tutti da giovani o meno giovani medici americani, che erano andati a Vienna dal ‘Professore’ soprattutto a scopo di formazione (anche H.
Doolittle
si considerava
una
paziente-studente);
questi diari, quindi, rivestono un interesse ulteriore, in quanto documentano la tecnica di Freud in quegli anni e nelle analisi didattiche. Cercherò ora di dare un’idea di come Freud conduceva l’analisi, secondo quanto se ne può capire leggendo queste testimonianze; dato che sono particolarmente interessata ai problemi del settizg, e quindi la mia
attenzione
è stata
piuttosto
selettiva
in questa
direzione, ho pensato di suddividere il mio discorso in vari paragrafi, che corrispondono ciascuno ai momenti salienti di ogni analisi. Premetto subito che ognuno di questi diari è a modo suo emozionante, e ognuno ha il suo sapore particolare, anche se, ovviamente, quello che ne risulta, più che una
rappresentazione obiettiva di Freud, è un ritratto dell'autore — malgrado il legittimo desiderio dello scrivente di non rivelare troppo di se stesso (vedi Blanton, per esempio); alcuni invece sono più generosi
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La cultura psicoanalitica
nel raccontare di sé, come M. Bonaparte, per esempio, e
M. Kardiner, il cui racconto della propria infanzia e del proprio ambiente familiare, che rievoca immediatamente certe bellissime storie narrate da J. Roth o da Saul Bellow, acquista successivamente una nuova dimensione grazie alle illuminanti ricostruzioni di Freud. Ma è soprattutto evidente che ognuno di questi diari è influenzato in maniera decisiva dallo stato emotivo dell’analizzando nell’incontro col grande uomo: è così infatti che, circa nello stesso periodo (1933-34), H.D.
può parlare del «tono stupendo della sua voce... delle modulazioni così melodiose, che permeavano in modo tanto sottile la corrente sonora di ogni parola che pronunciava, facevano assumere alle parole che diceva un altro colore e le facevano vivere in un’altra dimensione...», mentre J. Wortis annota soltanto che «... la sua voce era bassa e velata, e l'apparecchio che aveva nella bocca... sembrava dargli molto fastidio». E mentre Wortis userà il termine “banale” sia per descrivere la casa di vacanze di Grinzing dove Freud lo riceve la prima volta, che l’edificio della Berggasse, dove l’analisi continuerà, non trascurando di annotare — cosa
che solo pochi fra i visitatori segnaleranno — che al pianterreno c'è una macelleria, H.D. spenderà invece pagine e pagine per descrivere minutamente e amorosa-
mente ogni dettaglio sia della casa che delle stanze e dei tesori ivi contenuti. La presa in carico
In questa situazione, l’intake degli analizzandi era abbastanza particolare; chi desiderava entrare in analisi da Freud, si proponeva a lui scrivendogli una lettera, in genere accompagnata da una raccomandazione da parte di qualcuno che per una ragione o per l’altra fosse già da lui conosciuto,
e Freud
rispondeva,
accettandolo
(in
questi casi, almeno) e fissandogli il primo appuntamento, che in genere coincideva con l’inizio previsto per quella analisi, dato che corrispondeva a un’ora analitica lasciata libera da qualcuno che aveva finito. A Muriel Gardiner, invece, che nel 1924 gli aveva
Coordinate storiche della psicoanalisi
117
scritto per chiedergli un’analisi a causa di problemi personali, Freud rispose gentilmente di non averne la possibilità, consigliandole quindi di rivolgersi a una sua collega e allieva, la dott. Ruth Mack Brunswick. La lettera autografa in inglese di Freud, che Kardiner riporta in facsimile, è esempio del primo caso: «Caro Dottor Kardiner, sono contento di accettarla
in analisi, specialmente sulla base delle referenze così buone che sul Suo conto ha dato il dr. Frink. Egli ha molta fiducia nelle Sue possibilità come analista, e ha parlato con apprezzamento del Suo carattere. Sei mesi sono un buon periodo per raggiungere qualcosa sia teoricamente che personalmente. Le chiederei di essere a Vienna il primo di ottobre, dato che le mie ore saranno assegnate rapidamente dopo il mio ritorno dalle vacanze,
e di darmi l’assicurazione
definitiva di arrivare
qualche tempo prima — diciamo all’inizio di settembre. I miei onorari sono di 10 dollari l’ora, o intorno a 250
dollari al mese, da pagarsi in contanti, non in checks, che io potrei solo cambiare in corone. Se Lei capisce il tedesco, questo sarà un grande aiuto per la nostra analisi, e Lei potrà lavorare qui nella Redazione dell’Int:J. di Psicoanalisi. Con i migliori saluti, sinceramente Suo Freud». (traduzione dell’autrice)
Dobbiamo ancora a Kardiner la conoscenza di un’altra vicenda piuttosto divertente: già nell'intervista preliminare, dopo avergli richiesto di parlargli brevemente di sé, Freud gli aveva detto di avere un problema, in quanto si trovava ad essere impegnato oltre che con lui con altre cinque persone
(quattro americani e uno
svizzero), che avevano affrontato grossi cambiamenti per portarsi a Vienna, mentre lui disponeva solo di trenta ore. Suggeriva quindi che uno di loro andasse da Abraham, o da Rank o da Ferencezi; poiché però sembrava che nessuno di loro volesse saperne di questa soluzione, Freud dichiarò di voler parlare con sua moglie e con sua figlia Anna, che erano dichiaratamente contrarie a che lui lavorasse un’ora di più al giorno. Il giorno dopo radunò insieme i vari candidati e comunicò
118
La cultura psicoanalitica
loro che aveva trovato la quadratura del cerchio, grazie al suggerimento di Anna, che aveva dichiarato che se 6 x 5 fa 30, anche 5 x 6 fa 30, e che, quindi, se ognuno di loro era disposto a rinunciare a un’ora alla settimana, la cosa poteva andare. Kardiner rileva che questo fu l’inizio della settimana a cinque sedute (prima era a sei), ma non tralascia di osservare che il ‘contingente inglese”, cioè i candidati britannici contemporaneamente in analisi (James Strachey, Alix Strachey e John Rickman) non dovette subire simili sacrifici. Analisi e rapporti extraanalitici Sia nella Berggasse, che nelle varie altre case in cui Freud andava nei mesi estivi, la porta veniva aperta da una camerierina, Paula, di cui tutti parlano, perché era amichevole e un po’ ciarliera, «insieme dolce, timida e vivace» (Blanton). Quando Freud si trasferiva in campagna, a Grinzing, per esempio, dove andò negli ultimi anni, quando non poteva più affrontare lunghi viaggi, ma anche quando andava ben più lontano, come avveniva precedentemente, come a Berchtesgaden (Blanton, M. Bonaparte), o quando andò a Berlino per curarsi (Blanton), i pazienti, o almeno qualcuno di questi lo seguivano. Questa prassi era abbastanza diffusa in quegli anni, specie coi pazienti stranieri che avevano il
tempo contato. Naturalmente in queste abitazioni, la separazione tra la parte della casa destinata allo studio professionale e quella riservata alla famiglia, che a Vienna era piuttosto accurata, era minore; gli analizzandi infatti riferiscono ogni tanto di aver incontrato in giardino, intenta a sferruzzare o a sbucciare fagioli, la signora Freud, che,
essendo molto riservata, appariva piuttosto imbarazzata dalla situazione. Infatti, in quegli anni, e diversamente dagli anni Novanta, in cui i pazienti erano sovente invitati a pranzo in casa Freud, i contatti sociali con la famiglia Freud erano ridotti al minimo, secondo quanto riferisce anche Jones nella sua bibliografia. Quella che farà presto eccezione sarà M. Bonaparte, che fra le numerose successive #r27:ches di analisi, e visite e vacanze
Coordinate storiche della psicoanalisi
119
insieme, magari lei coi figli e la famiglia Freud al completo (come una volta in Austria), era entrata con loro in grande intimità: in una di queste occasioni, peraltro, riferisce la Bertin, Freud rifiutò di giocare a carte con lei, dicendo «E troppo intimo...», in quanto Marie era nuovamente in analisi. Questi analizzandi-studenti che riuscirono ad ottene-
re lezioni e conferenze da parte degli analisti più eminenti (Kardiner) anche prima che il training fosse formalizzato, venivano naturalmente ammessi abbastan-
za presto a partecipare alle riunioni scientifiche della Società Psicoanalitica Viennese
(Kardiner) o, come
M.
Bonaparte, alle piccole riunioni quindicinali che dopo le prime operazioni di Freud, che non poteva più sopportare grandi riunioni, venivano di nuovo tenute nella sua stanza d’aspetto, e comprendevano sei analisti viennesi che partecipavano regolarmente e sei invitati a turno. L'inizio dell’analisi
Dopo la prima presa di contatto col nuovo candidato, in cui, salvo nel caso di Kardiner, Freud di solito
sembrava preoccupato essenzialmente di stabilire il contratto tempo/denaro, l’analisi iniziava sul divano — o già nel contesto del primo incontro (Blanton), o nel giorno precedentemente fissato per l’inizio vero e proprio (Kardiner, Wortis). Sembra che Freud non avesse un modo standard di dare la consegna: Kardiner racconta «... Freud mi condusse nello studio, indicò il
sofà e disse: . E così cominciai». Joan Rivière, nel breve bellissimo ritratto di Freud, che scrisse
nel 1939, col titolo Ar intimate impression, citato estesamente anche da Jones, dice che «... contrariamente ad ogni regola e in modo poco ortodosso, (Freud) dette inizio alla prima seduta della mia analisi dicendomi: «Bene, di Lei so già qualcosa: ha avuto un padre e una madre! intendendo naturalmente , Juke dal rovi 3: didl OO n.
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Psicoanalisi e psichiatria
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Giorgio Sacerdoti Psichiatria e Psicoanalisi: un rapporto ambivalente Per introdurre questa giornata dedicata a psichiatria e psicoanalisi voglio richiamare l’attenzione sul fatto che esistono degli aspetti caratteristici della psicoanalisi che quasi inevitabilmente sottendono, in misura tanto maggiore quanto meno esplicitati, una ambivalenza nei rapporti fra psichiatria e psicoanalisi. Fra questi aspetti mi limiterò — dovendo prendere atto di una negazione del passaggio del tempo implicita nel programma — ad accennarne uno, che è fra i più superficiali. (Questa scelta della superficie è conforme alla metodologia psicoanalitica quando essa non fa concessioni all’inselvaggimento né all’addomesticamento che, in definitiva, sono poi la stessa cosa). L’analista per fare il suo lavoro deve, insieme con il paziente, ripercorrere quei lunghi détours che hanno portato al costituirsi e al mantenersi della rimozione. In fondo, come dice Freud le cose in psicoanalisi sono solite essere un po’ più complicate di quel che vorremmo. Se fossero così semplici non ci sarebbe forse stato bisogno della psicoanalisi per portarle alla luce. D'altra parte la psichiatria, come si sa, è sottoposta a pressioni di vario ordine, che la possono spingere ad imboccare ogni sorta di scorciatoie generalmente in sintonia con le ideologie dominanti. La buona stampa di questi raccourcis e la cattiva stampa dei détours psicoanalitici (tacciati di volta in volta di elitarismo, di riduzionismo, conservatorismo, ecc.) tiene però anche alla diffusa preferenza per le vie che, in un modo o nell’altro, evitano la possibilità di
230
La cultura psicoanalitica
gettare un ponte tra conscio e inconscio, tra processo
secondario e processo primario, e che tendono quindi a mantenere la rimozione, lo statu quo. Ciò viene ovvia-
mente denegato presentando tali vie come nuove, progressiste, ecc. Esse piacciono a tutti coloro che amano mettere fra parentesi la realtà interna. Ciò non toglie che le scorciatoie cui si accennava possano essere una delle “nuove” vie attraverso cui si attua la resistenza alla psicoanalisi, quella dell’erzbrassons nous. Qui mi fermo per non cadere né nella negazione del passaggio del tempo, né nella utilizzazione della realtà della ristrettezza temporale per una difesa preventiva dalla possibilità di una qualche illuminazione di quanto sopra sul versante della realtà interna. Tale difesa può diventare tanto più irremovibile quanto più sia essa stessa rimossa sotto l’ulteriore strato difensivo di una sorta appunto di analisi selvaggia o addomesticata. Può capitare che vi indulgano, in pratica, anche analisti che in teoria hanno ben presenti gli equivoci cui può prestarsi — in assenza del processo analitico — la angewandte Psychoanalyse, la cosiddetta psicoanalisi applicata. Spero che questi spunti preliminari possano essere di qualche utilità per impostare la discussione costruttivamente: nel senso cioè della facilitazione e non dell’ostacolo all’insigth (e all’outsight) riguardo al tema di questa giornata del nostro convegno. Voglio ricordare ancora che il perchant umanistico e filosofico di Freud senza il lungo détour neuropsichiatrico non avrebbe probabilmente mai generato la psicoanalisi e che senza quest’ultima, d’altra parte, la psichiatria si sarebbe isterilita. Perciò può essere fecondo ripercorrere qui brevemente,
proprio a Trieste, alcuni aspetti
della storia dei rapporti tra psichiatria e psicoanalisi, entrambe ormai abbastanza adulte per liquidare, almeno in gran parte, le reciproche ambivalenze.
Giorgio Sacerdoti (Italia): Membro
ordinario e analista didatta della
Società Psicoanalitica Italiana. Direttore del Centro Veneto di Psicoanalisi.
Psicoanalisi e psichiatria
Mauro
Mancia
Nascita della Psicoanalisi nel contesto scientifico neurologico e psichiatrico dell'Europa di fine Ottocento Nell’affrontare il tema della nascita della psicoanalisi nel contesto scientifico neurologico e psichiatrico dell'Europa nell’Ottocento, desidero proporre queste linee principali di discussione: a) la posizione personale di Freud all’epoca della sua maturità e dopo la sua esperienza con Briicke all'Istituto di Fisiologia e con Meynert all'Istituto di Psichiatria. b) Il suo rapporto personale con Breuer e con Fliess. c) Il livello raggiunto dalle scienze neurologiche e psichiatriche in Europa (in particolare in Germania) alla fine del secolo. Comincerei proprio da quest’ultimo punto per definire brevemente l'evoluzione del pensiero psichiatrico in un secolo in cui più che in qualsiasi altro periodo la
psichiatria, influenza
almeno delle
in Germania,
scienze
ha risentito
neurologiche
della
(anatomiche
e
fisiologiche) ma anche dell’apporto consistente del pensiero filosofico. E noto, e Ellenberger® ce ne dà un riassunto molto vivo, come i grandi sistemi della psichiatria dinamica derivassero in Europa da una linea di pensiero che, senza apparenti soluzioni di continuità, passarono dall’esorcismo al magnetismo, dal magnetismo all’ipnotismo e dall’ipnotismo al concetto di un modello duale della mente con un Io conscio differenziabile da uno inconscio, modello che era già presente prima di Freud nel pensiero di Karl Gustav Carus (17891869), Edward Von Hartmann (1869) e Schopenhauer (1788-1860). Quest'ultimo aveva sottolineato come l’uomo sia in balia di forze interne irrazionali, dominate
252
La cultura psicoanalitica
dagli istinti, visione dell’uomo questa che sarà poi ripresa da Nietzsche. Sappiamo che Schopenhauer introdusse il concetto di rimozione e il suo ruolo nella follia, mentre è Von Hartmann in Philosophie des Unbewussten del 1869 a descrivere per primo i vari livelli in cui può operare l’inconscio. Mesmer
(1734-1815),
Puysegur
(1751-1825),
Lie-
beault (1823-1904) sono i personaggi chiave di questa evoluzione che ci porta a Moritz Benedikt e Jean-Martin Charcot, che rappresentano le più importanti fonti da cui attinge il pensiero di Freud. Nella Germania e nell’Austria, alla fine dell’Ottocen-
to, la psichiatria cosiddetta “dinamica” aveva messo buone radici influenzate profondamente anche dal pensiero
di Nietzsche”.
Questi,
come
vedremo,
ha
avuto un'importanza straordinaria anche se indiretta nella nascita e nella crescita della psicoanalisi. Qui vorrei ricordarlo però per quanto scriveva a proposito delle scienze nel suo secolo: «Ma credete davvero che le scienze avrebbero potuto prendere forma e divenire grandi se non fossero state precedute dai maghi, dagli alchimisti, dagli astrologi e dalle streghe?». Tuttavia, la cultura dominante in quell’epoca in Germania era quella legata al positivismo e ad una concezione neurologica organicistica della mente. Una “mitologia del cervello”, potremmo definirla, professata dai vari psichiatri convinti che la mente e le sue disfunzioni risiedessero solo in processi neurologici e che in ultima analisi potessero trovare una soddisfacente spiegazione nella fisica e nella
chimica. Tra i paladini di questo modo di pensare, peraltro tuttora assai vivo nella nostra cultura psichiatrica, possiamo ricordare Wilhelm Griesinger, Theodor Meynert,
Carl
Wernike,
August
Forel,
Kraft-Ebing,
personalità di tutto rilievo nel mondo psichiatrico tedesco e internazionale con le quali Freud ebbe uno scambio significativo e costante negli anni più importanti della sua formazione. Wilhelm Griesinger fu il primo direttore del Burgholzli, l'ospedale psichiatrico universitario di Zurigo. Nonostante egli sviluppasse anche una teoria relativa alla psicologia dell'Io, la sua concezione delle malattie mentali era eminentemente neurologica, al punto da
Psicoanalisi e psichiatria
233
introdurre una spiegazione dei disturbi mentali facendo riferimento alla fisiologia dei riflessi. Di Theodor Meynert sappiamo abbastanza dai biografi di Freud!. Egli era fondamentalmente un anatomico e convinto organicista. Conosciamo la polemica che Freud ebbe con lui in varie occasioni, in
particolare sulle funzioni della corteccia cerebrale. Freud pubblicò nel 1891 L'’interpretazione dell’afasia” proprio in polemica con Meynert. (Sia detto qui per inciso Meynert aveva proposto un modello di funzionamento corticale più vicino a quanto la ricerca più moderna ha chiarito di quanto non avesse fatto Freud).
Augusto Forel, psichiatra a Zurigo, anche se molto interessato all’applicazione del metodo ipnotico, veniva dalla zoologia e anatomia comparata ed era più noto per le sue osservazioni neuroanatomiche che per concezioni particolarmente avanzate delle funzioni mentali. Un discorso a parte merita la personalità di KraftEbing e la sua opera Psicopatologia sexualis"*, la cui prima edizione è del 1886. Anche se Kraft-Ebing è noto per la infelice battuta data a proposito della presentazione fatta da Freud della teoria dell’isteria: «Sembra una favola scientifica», dobbiamo riconoscergli una maggiore attitudine rispetto ai colleghi psichiatri alla psicodinamica
e una
capacità
di considerare
aspetti umani
e
relazionali oltre che neurologici e organicisti nei processi psicopatologici responsabili di alcune perversioni sessuali. Kraft-Ebing elabora concetti di cui fa ampio uso anche Freud; ad esempio mi sembra interessante il fatto che questo autore aveva ampiamente usato il termine narcisismo ad indicare un miscuglio di esibizionismo, omosessualità
e
autoerotismo,
aveva
descritto
varie
forme di feticismo e raccolto un numero straordinario di perversioni sessuali da cui Freud ha attinto in varie occasioni.
Naturalmente, il trattato di Kraft-Ebing e la revisione fatta da Albert Moll contiene una quantità di casi clinici ma manca di una ipotesi o di un modello di funzionamento mentale. Il moralismo si sostituisce all’analisi scientifica e la neuropatologia è la base portante della psicopatologia. Tuttavia Kraft-Ebing cita
234
La cultura psicoanalitica
con rispetto Freud, ad esempio ne elabora il concetto di sublimazione, ma sulla scoperta più pregnante di Freud, quella del complesso edipico, è scettico. È chiaro dunque che tutta la psichiatria tedesca di fine Ottocento è su base organicista e si fonda su quella neuroanatomia ed in una certa misura anche sulla neurofisiologia che si stava sviluppando in quegli anni. È esattamente nel 1895 che Freud scrive il Progetto per una Psicologia Scientifica". Anche se pubblicato postumo, il Progetto rimane un documento eccezionale e insostituibile non solo perché contiene concetti basilari per lo sviluppo del pensiero psicoanalitico che Freud riprenderà nella Trawndeutung!' pochi anni dopo, ma anche perché si pone come un’opera cardine intorno alla quale ruota il passaggio da un modo di concepire la mente ad un altro, da un vertice ancorato all’anatomia
funzionale del cervello ad un altro libero da condizionamenti fisiologici e capace quindi di proporre modelli diversi di funzionamento mentale. È per questo che il Progetto attrae tuttora psicoanalisti e neurofisiologi'. E nel Progetto infatti che possiamo individuare le trasformazioni che Freud andava facendo della neurofisiologia in psicologia e il passaggio da un metodo legato ad una concezione positivistica della mente ad una concezione funzionale, che pure legata nella sostanza a modelli meccanici o idraulici era per i più libera di rappresentarsi diversi modi di operare del mentale. E da questo diverso modo di concepire la mente che nascerà la psicoanalisi. Ma veniamo brevemente allo stato della neurofisiologia e della neuroanatomia nel periodo in cui massima era diventata la “malattia creativa” di Freud. La “teoria del neurone”, intuita dallo stesso Freud in un lavoro del 18825, non era stata ancora confermata
contro la “teoria reticolare”. La struttura del sistema nervoso centrale, composta da elementi separati, i neuroni, sarà osservata e presentata da Cajal nel 1889 e successivamente nel 1891 da Waldayer. Con la individuazione del neurone come entità separata, capace di comunicare con altre entità attraver-
so “sinapsi”, la storia della neurofisiologia diventa storia della elettrofisiologia. Questa era già nota alla fine del
Psicoanalisi e psichiatria
295
Settecento con le classiche esperienze di Luigi Galvani (1737-1798) a Bologna che si intrecciano, spesso con violente polemiche, a quelle di Alessandro Volta (17451827) a Pavia*'. La storia della neuro fisiologia è dunque al suo inizio una storia tutta italiana. Le esperienze di Luigi Galvani dimostrano che l’elettricità bimetallica (che sarà poi la base per la costruzione della pila che darà fama a Volta) è in grado di far contrarre il preparato neuromuscolare di rana. L'esperimento dimostra anche che il preparato biologico è sede di una carica elettrica a riposo e che tra la superficie di taglio e quella integra del nervo c’è una differenza di potenziale capace di dare origine ad una corrente eccitatoria. E a Carlo Matteucci (1811-1868), fisico a Pisa, che
dobbiamo però la spiegazione delle scoperte di Galvani e la osservazione e misurazione di una corrente di lesione tra la superficie integra di un muscolo e la sua superficie di taglio. I fisiologi tedeschi della scuola di Johannes Muller, di cui faceva parte Du Bois Reymond, Von Helmoltz e Von Briicke, maestro di Freud, conoscevano il libro di
Carlo Matteucci del 1865 Essai sur le phenomenes electriques des animaux®°. Si sa anche che questo libro era presente nella biblioteca di Briicke ed era oggetto di discussione tra i suoi allievi, tra cui Freud. In quegli anni Du Bois Reymond’ dimostra che l’eccitazione di un muscolo comporta una “depolarizzazione” e Bernstein? studia il potenziale d’azione e la sua autopropagazione. Teorie fisiologiche di base, queste, che Freud conosceva molto bene e che non potevano non costituire il fondamento della sua cultura medica e fisiologica. Freud era certamente a conoscenza anche delle esperienze che dimostravano processi di “inibizione” nel sistema nervoso centrale. Dopo le esperienze dei fratelli Weber sul controllo vagale inibitorio sul cuore nel 1845 e quella di Sechenov, degli anni Sessanta, le esperienze sulla inibizione di Hering e Breuer del 1868 erano avvenute proprio nel laboratorio di Briicke, dove Freud lavorerà alcuni anni più tardi '. Hering e Breuer dimostrarono la natura inibitoria di origine vagale dei riflessi respiratori, e questa osservazione ormai classica aumentò
grande-
mente la notorietà e il prestigio scientifico di Breuer.
236
La cultura psicoanalitica
L'assistente
di Breuer,
più anziano
Exner”,
descrive
anch’egli nel 1894 un “modello di inibizione”, anche se i concetti fondamentali da lui usati si riferiscono sempre alla facilitazione o Babnung. Ed è proprio il concetto di facilitazione che Freud fel 1895 svilupperà nel Progetto. In Europa nell'Ottocento non soltanto la fisiologia di base, i cui concetti fanno parte della struttura del Progetto, ma anche la fisiologia dei grandi emisferi cerebrali è in grande auge‘. Pierre Broca aveva scoperto nel 1861 il centro del linguaggio e Firish e Hitzig nel 1870 avevano iniziato i loro esperimenti sulla organizzazione motoria della corteccia cerebrale. Nel 1875 Richard Caton a Liverpool e quindici anni più tardi, nel 1890, Adolph Beck in Cracovia osservano l’attività elettrica della corteccia cerebrale. Freud aveva partecipato indirettamente a una querelle scientifica iniziata dal suo amico Fleischl-Von Marxow,
assistente
di Briicke, che sul Centra/blatt fiir Physiologie del 1890 aveva vantato la priorità sulla osservazione dell’elettroencefalogramma. Caton poi mise le cose a posto intervenendo nella polemica e precisando che l’osservazione l’aveva fatta lui per primo quindici anni prima. Per inciso dirò che nella polemica non c’era riferimento all'attività elettrica “spontanea” della corteccia che costituiva
invece
la vera
scoperta
e che
oggi viene
attribuita ad Hans Berger che la osservò nell'uomo nel 1929.
Una corrente di studi fisiologici eseguiti sui grandi emisferi cerebrali, che vedeva come pioniere Thomas Laycock, maestro di Jackson nella metà dell’Ottocento, avanzava ipotesi sulle funzioni riflesse del cervello e sulla natura neurofisiologica della stessa attività mentale. L’opera di Jean Martin Charcot è troppo nota agli studiosi di Freud perché io debba fermarmici. Rimane l’ovvia considerazione che anche Charcot, nonostante la
sua brillante cultura e il fascino che sentiva per modelli interpretativi diversi, soprattutto relativamente all’isteria, era ancorato a schemi neurologici. Egli ha certamen-
te costituito per Freud un potente stimolo a pensare in
modo diverso rispetto ai suoi colleghi dell’epoca, ma non
ha costituito
pensiero.
un
vero
modello
di ricerca
e di
Psicoanalisi e psichiatria
2557
Nel clima culturale estremamente vivo e emozionalmente stimolante dell’epoca, specie in Germania, in cui avvenivano la maggior parte delle esperienze nell’ambito delle neuroscienze, Freud viene sconsigliato da Briicke a continuare la ricerca scientifica ed è costretto a scegliere
un lavoro clinico essenzialmente per motivi di ordine economico.
La frustrazione e il risentimento di Freud nei confronti della scienza dominante non devono essere stati di poco conto. Ma veniamo brevemente al Progetto !°. Qui il modello che Freud cerca di sviluppare si basa sulla «considerazione dell’eccitamento neuronico come quantità in movimento». Il vero concetto funzionale del neurone si rivela così essere per Freud quello di un serbatoiocontenitore di energia capace di essere riempito, occupato, investito (Besetzurg) da una quantità di energia interneuronale o QN. Qi è rappresentata nel progetto per lo più da metafore meccaniche per cui diventa quantità di energia in movimento, che può trasferirsi o essere
assorbita.
Mi
sembra
interessante
sottolineare
proprio qui l’estrema analogia tra la rappresentazione del modello energetico ripreso poi nel capitolo VII della Traumdeutung, per cui la Q entra dalle porte della percezione e fluisce verso l’estremità motoria, e il modello di un liquido che scorre in tubi rigidi con la sua Ep e Ec rappresentato da Bernoulli nel 1726. Questo ci fa capire il perché Freud non fosse interessato a usare i concetti elettrofisiologici disponibili a quell’epoca dai lavori di Du Bois Reymond e Bernstein che indicavano il processo di autopropagazione del potenziale di azione come un’onda di depolarizzazione senza trasferimento fisico di energia. Infatti, ogni stimolo che modifichi le condizioni di riposo di un neurone può produrre un flusso locale di corrente che sarà “depolarizzante” e portare alla eccitazione o “iperpolarizzante” e determinare l’inibizione. Ma questi processi avvengono per flussi locali di correnti elettroniche e non per spostamento di energia. Il modello del sistema nervoso elaborato da Freud nel Progetto prevede una quantità di energia QU che proviene dal mondo esterno e investe i neuroni © del
238
La cultura psicoanalitica
sistema percettivo mentre stimoli interni di natura motivazionale o pulsionale sarebbero in grado di investie partecipare alla formazione re i neuroni del sistema di un sottosistema chiamato Io. La carica o investimento del neurone appartenente al sistema @ o w comporta per Freud sempre “facilitazione”. Appare persino ovvio precisare che la funzione del sistema nervoso centrale non è legata alla sola facilitazione e che l’inibizione gioca un ruolo estremamente importante. I meccanismi sinap-
tici comunque siano, facilitatori o inibitori, necessitano di energia veicolata dal potenziale di azione ma si realizzano per variazioni di conduttanza della membrana ai diversi ioni. Nel modello di funzionamento del sistema nervoso proposto da Freud, i neuroni della percezione sono stati paragonati agli “organi di senso”, i quali hanno la funzione di “setaccio”, o selezionatore degli stimoli. Ma essi non possono essere considerati solo come schemi di Qfî), come vorrebbe Freud. Essi sono infatti, come
le
sinapsi centrali, dei “trasduttori” capaci di trasformare una forma di energia in “segnale” elettrico codificato. Freud parla invece di un trasferimento di Qf e la eccitazione del neurone (o Erregung) è per Freud la sua acquisizione di energia, non l'aumento della sua probabilità di scarica. Inoltre l'eventuale funzione “setaccio” dei neuroni @ percettivi non può essere concepita oggi senza inibizione, unico meccanismo che seleziona l’in-
formazione anche a livello periferico e aumenta il potere risolutivo del sistema percettivo. Un altro aspetto dell’idea di Freud sul problema dell'energia riguarda la considerazione che il neurone non è in grado di mantenere il suo proprio livello di energia potenziale. E solo dall’esterno o dall’interno che la Qfj può investire il neurone. Questo concetto non dava evidentemente spazio, nel modello di Freud, alla presenza di neuroni con una propria attività spontanea o
autonoma (pace-mzakers), che invece giocano un ruolo determinante nella genesi di varie funzioni centrali: respiro, sonno-veglia, ecc....
Nel Progetto l’inibizione è da Freud sempre rappre-
sentata come una “deviazione di facilitazione” che corrisponde al moderno concetto di disfacilitazione, e
Psicoanalisi e psichiatria
239
mai come inibizione. Da questo concetto Freud svilupperà poi quello di “rimozione”, di funzione dell’Io e di formazione del pensiero. Almeno per me, comunque, il concetto di inibizione proposto da Freud non ha niente a che fare con l’inibizione della neurofisiologia, che è un processo legato a produzione di sostanze chimiche e flussi ionici di corrente. Da queste e da altre considerazioni possiamo tranquillamente affermare che il linguaggio del Progetto è solo in apparenza fisiologico. Infatti, la maggior parte dei concetti che Freud usa in questo lavoro sono, sul piano strettamente neurofisiologico, insostenibili. E non solo allo stato attuale della neurofisiologia, ma anche alla luce delle conoscenze neurofisiologiche dell’epoca !. Dobbiamo quindi affermare che il linguaggio del Progetto è metaforico. Ma che cosa significava questa metafora? Si apre qui per me uno dei capitoli più affascinanti della storia della psicoanalisi che si collega direttamente alla natura della mente di Freud e alla sua storia e personale nevrosi. Freud infatti può in un senso considerarsi un continuatore dell’Illuminismo, che credeva nella ragione contro l’ignoranza e la superstizione, ma nello stesso tempo la sua posizione era anche anti-illuminista proprio perché contrapponeva l’irrazionalità alla ragione e valorizzava l'inconscio e il sogno rispetto alla coscienza e alla realtà. Freud proprio negli ultimi dieci anni dell’Ottocento si trova a dover riassumere in sé il conflitto fra due epoche che rappresentava anche il conflitto tra due metodi di studio dell’uomo:
un “metodo
scientifico”,
legato indissolubilmente al positivismo e ad una concezione materialistica e meccanicistica della mente, e un
metodo “antropologico”, meno scientifico, più libero da condizionamenti positivistici e quindi disposto all’avventura e alla scoperta. Anche se Freud è rimasto sostanzialmente un biologo e ha sempre anteposto la propria biologia alla filosofia
nell'osservare
l’uomo,
dobbiamo
riconoscere
che la reazione del suo pensiero al positivismo e al naturalismo dei suoi colleghi scienziati si univa al percorso del movimento neoromantico interessato all’irrazionale, all’occulto e alla esplorazione della profondità
240
La cultura psicoanalitica
della psiche. È su questa linea che possiamo interpretare il perché Freud trascuri in tutti i suoi scritti l’opera di C. Bernard. Eppure C. Bernard è stato il primo fisiologo ad affrontare il problema del metodo nella ricerca biologica, con il suo famosissimo, allora come oggi, Introduc-
tion à l’étude de la médicine expérimentale?. Forse, trascurare questo insegnamento era parte del suo processo di distacco da un metodo scientifico su cui si fondava la biologia e la medicina per fondarne uno diverso e con maggiori gradi di libertà. Non dobbiamo dimenticare inoltre che Freud ha sempre avuto un grande interesse per gli studi classici e per la filosofia. Ne parla anche a Fliess, in una lettera’ del 2 Aprile 1896: «Quando ero giovane, non ero animato da altro desiderio che non fosse quello della conoscenza filosofica e ora nel mio passaggio dalla medicina alla psicologia quel desiderio si sta avverando. Sono diventato medico contro la mia volontà...». In particolare il pensiero di Nietzsche?' sembra costituire il terreno più fertile in cui la teorizzazione di Freud poteva alimentarsi e crescere. E noto l’interesse di Nietzsche per le pulsioni (sessuali, alla conoscenza, ad associarsi, ecc.) fino alla pulsione fondamentale, la volontà di potenza, al punto da considerare la mente come un sistema di pulsioni e le emozioni come un «complesso di rappresentazioni inconscie e di stati di volontà». Un aspetto importante del sistema psicologico di Nietzsche è il suo interesse per le pulsioni aggressive che
sembrano anticipare il concetto più attuale di narcisismo distruttivo. E di Nietzsche inoltre l’idea che l’origine della civiltà si colleghi alla rinuncia alla gratificazione delle pulsioni, un concetto questo che Freud riprenderà nel 1930 in I/ disagio della civiltà”. Anche se il pensiero di Nietzsche si ritrova negli scritti più tardivi di Freud, pure dobbiamo pensare che già allora i temi essenziali della sua filosofia dovevano costituire quell’buzzus culturale da cui nascerà la nuova disciplina. Questa emergerà da una convergenza di fattori che operano nella persona di Freud ed in qualche modo diventeranno parte della sua “malattia creativa”. Uno degli eventi eccezionali di questa “malattia” è il rapporto di Freud con Breuer e il caso di Anna O.. Ma
Psicoanalisi e psichiatria
241
ancora più eccezionale è il passaggio dall’amicizia con Breuer a quella con Fliess. L'esperienza di Breuer con Anna O. rappresenta per gli storici la linea di partenza della psicoanalisi. Ma bisogna riconoscere che le esperienze con il metodo ipnotico che venivano fatte con le pazienti isteriche non avevano allora, come non hanno ora, che un modesto valore scientifico.
Il momento invece eccezionale che segna, a mio avviso, la scoperta della psicoanalisi è nello shift o “passaggio di identificazione” che compie Freud da Breuer a Fliess in un momento che coincide con la morte del padre Jacob. |. Breuer era di quattordici anni più anziano di Freud e, come si sa, aveva raggiunto una solida fama di scienziato in virtù delle sue esperienze con Hering. Egli era anche un noto e benestante medico della società viennese. All’inizio degli anni Novanta il lavoro sull’isteria aveva messo in crisi il loro rapporto. Breuer non poteva accettare, in virtù del suo rigore metodologico, la generalizzazione proposta da Freud relativa alla teoria sessuale delle nevrosi. Il lavoro sull’isteria rappresenta quindi il momento finale della loro relazione. Freud a quel punto aveva bisogno di un altro interlocutore che fosse meno severo e non condizionato da un metodo scientifico che in quel contesto culturale non poteva che essere positivista. Iniziò quindi un rapporto con Fleiss che doveva avere una funzione mallevatoria essenziale per la psicoanalisi. Fliess era un medico, specialista in otorinolaringologia, che operava a Berlino e che si faceva più apprezzare per la stranezza ed eterodossia di certe sue idee in campo medico che per il rigore del suo metodo scientifico. Forse proprio le idee stravaganti di Fliess sulla sessualità e sulla ciclicità dei sistemi biologici rappresentavano per Freud una garanzia che egli avrebbe accettato senza scandalo le sue idee sessuali sulla etiologia della nevrosi e si sarebbe alleato con lui contro la medicina ufficiale, chiusa e baronale, delle cliniche universitarie. Il
prezzo che Freud ha pagato per questo tipo di rapporto è stato quello di dover idealizzare Fliess e di doverlo trasformare in uno scienziato vero. Parallelamente è stato costretto a negare sia gli errori professionali del Fliess
chirurgo che gli aspetti deliranti del Fliess teorico. L’episodio di Emma Eckstein è ora noto anche nei
242
La cultura psicoanalitica
suoi risvolti più inquietanti '’. Freud aveva affidato a Fliess per un intervento al naso Emma, che presentava dei disturbi della sfera sessuale e a seguito dell’intervento di asportazione di un turbinate, mal fatto, male eseguito e che comunque non si doveva fare, si era preoccupato più di salvaguardare la reputazione di Fliess che la salute di Emma. Mi riferisco ad una lettera del 20 Aprile 1895, omessa dai curatori della raccolta di lettere di Freud a Fliess, in cui Freud scrive: «Per me tu
resti il medico, il tipo d’uomo nelle cui mani si pone fiduciosamente la propria vita e quella della propria famiglia — anche se Gersuny avesse la stessa opinione di Weil sulle tue capacità. Avevo voluto farti il mio racconto di sventure e forse avere il tuo consiglio circa E., ma non rimproverarti di alcunché. Ciò sarebbe stato stupido, ingiustificato e in netta contraddizione con i miei sentimenti». Credo che in quegli anni (1895-96) Freud era comunque disposto a salvaguardare il suo rapporto con Fliess, al punto da scrivergli il 26 Aprile 1896: «Riuscirò a provarti che avevi ragione, che le sue (della Emma) emorragie erano isteriche, causate dal desiderio, e probabilmente avvenivano in periodi sessualmente significativi (la donna, a causa di una resistenza, non mi ha ancora fornito le date)». Ecco quanto Freud deve fare per proteggere la idealizzazione che aveva fatto di Fliess. Per capire questo processo è necessario richiamarsi al momento eccezionale della vita di Freud.
Questo
momento
infatti coincide
con
la
malattia del padre '"’2. Jacob Freud muore il 23 Ottobre 1896 e tre giorni dopo Freud scrive a Fliess: «Tutto ciò è accaduto in un periodo critico per me e sono realmente depresso» (lettera del 26 Ottobre 1896). Una settimana dopo scrive ancora a Fliess: «...la morte del vecchio mi ha colpito profondamente. Lo stimavo molto e lo avevo capito fino in fondo; con la sua caratteristica mescolanza di profonda saggezza e di fantastica spensieratezza ha voluto dir molto nella mia vita. Quando è morto era da gran tempo un sopravvissuto, ma nell’intimo tutto il passato si è risvegliato in tale occasione. Ora mi sento
come sradicato» (lettera del 2 Novembre 1896). Il rapporto con Fliess rappresentava per Freud le nuove radici. Oggi non abbiamo difficoltà a considerare
Psicoanalisi e psichiatria
243
questi sentimenti di natura “transferale”, nel senso più
ampio del termine. Essi hanno permesso a Freud di compensare la perdita del padre e di Breuer e di elaborare questo duplice lutto. L’autoanalisi di Freud consiste anche in questo processo e permetterà a Freud di affrontare con successo il compito successivo, che sarà quello di trasformare un metodo scientifico in un altro, un vertice di osservazione in un altro approccio non più necessaria-
mente medico ma nella sostanza antropologico. La genialità di Freud consiste proprio nell’essere stato in grado da solo di compiere questo processo trasformativo passando indenne attraverso i pericoli di uno spostamento di identificazione da Breuer, che rappresentava la sicurezza e la solidità di un metodo scientifico codificato, a Fliess, che rappresentava invece la rottura con l’ortodossia del metodo e l’avventura. Forse Freud era consapevole della inconsistenza scientifica di Fliess, ma aveva assoluto bisogno di questo alleato per poter creare un suo metodo di ricerca sull'uomo autonomo e autofondantesi, sganciato dalla fisiologia e dalla medicina ufficiale (anche se ancorato alla rigorosa osservazione e ai principi del metodo scientifico).
Non è casuale che sia proprio in quegli anni che Freud ha il coraggio e la onestà scientifica di abbandonare la teoria della seduzione. Nella ormai famosa lettera del 21 Settembre
1897 Freud scrive: «Viene, in terzo
luogo, la precisa convinzione che non esista “un segno di realtà” nell’inconscio, così che è impossibile fare distinzione tra verità e finzione emozionale. (Resta la spiegazione che la fantasia sessuale usi regolarmente l’argomento dei genitori)». Freud denuncia chiaramente dunque in questa lettera la sua presa di coscienza che l’inconscio non ha spazio per una realtà storica e che il nostro mondo emozionale si fonda esclusivamente sulla fantasia e sul desiderio.
psicoanalisi.
Questo
è il momento
che farà nascere
la
244
La cultura psicoanalitica
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Mauro Mancia
(Italia
-
Milano):
all’Università Statale di Milano. nalitica Italiana.
Professore
di neuropsichiatria
Analista didatta della Società Psicoa-
Albrecht Hirschmiiller
L'apprendistato psichiatrico di Freud presso la clinica di Meynert (1883) Nel
1905,
Eugen
Bleuler,
direttore
di uno
degli
ospedali psichiatrici più importanti d’Europa, il Burghélzli di Zurigo, pubblicò un saggio intitolato Freud’ sche Mechanismen in der Symptomatologie von Psychosen (Meccanismi freudiani nella sintomatologia delle psicosi) '. Freud lo ringraziò con una cartolina, concludendo:
«Sono fiducioso che presto conquisteremo la psichiatria»?.Questa speranza non si è avverata. E vero che la
psichiatria non è più pensabile senza la teoria psicoanalitica, ma resta evidente che sta prendendo nuovamente piede l'approccio biologico alla psichiatria, alimentando la vecchia speranza di rendere superfluo in futuro l’estenuante approccio psicoanalitico. Tuttavia Freud aveva scritto verso la fine della sua vita, nel Compendio di Psicoanalisi del 1938: «Può darsi che in futuro qualcuno ci insegnerà come influenzare direttamente, con speciali sostanze chimiche, le quantità energetiche e la loro ripartizione nell’apparato psichico. E forse verranno alla luce altre potenzialità della terapia che adesso non possiamo neppure sospettare; per ora non abbiamo nulla di meglio a disposizione che la tecnica psicoanalitica; per questo, nonostante i suoi limiti, non bisognerebbe disprezzarla»?. Quali esperienze aveva avuto Freud stesso con la psichiatria della sua epoca? Aveva ottenuto il suo primo posto di medico proprio nel reparto di psichiatria dell'Ospedale Generale di Vienna, il 1° Maggio 1883. A tale riguardo può risultare utile un rapido sguardo alla situazione in cui allora versava la psichiatria viennese.
246
La cultura psicoanalitica
Sin dal 1853 nel 9° distretto di Vienna esisteva la dem auf. Landesirrenanstalt.— Niederòsterreichische sul Austria Bassa della regionale o Brunnlfeld (Manicomi Brunnlfeld)*.
La celebre
universitario
ed
“torre
dei matti”
fu chiusa
definitivamente nel 1869. Nel 1870 presso l’Arstalt fu creata una clinica psichiatrica con funzioni di reparto didattico e di ricerca; questa apparteneva al complesso era
legata
amministrativamente
in
maniera estremamente complicata all’Anstalt, di proprietà del Land della Bassa Austria. Direttore della clinica e quindi primo cattedratico di psichiatria a Vienna fu Theodor Meynert, un pupillo del celebre patologo Rokitanski. Meynert a quell'epoca non poteva vantare alcuna esperienza clinico-psichiatrica, ma si era distinto per i suoi studi di anatomia cerebrale. Accanto al manicomio ed alla clinica, nell’Ospedale Generale esistevano fin dagli inizi del secolo le cosiddette “sale di osservazione per persone sospette di pazzia” dirette da Max Leidesdorf. Per evitare le continue controversie con la direzione del manicomio, Meynert avanzò nel 1875 delle pretese su quelle “sale”. In effetti vi fu realizzata una seconda clinica psichiatrica, che fu affidata allo stesso Meynert, mentre Leidersdorf fu risarcito con la prima clinica presso l’Arstalt. A Meynert rimase l’Istituto di patologia presso la stessa Anstalt. La seconda clinica psichiatrica era costituita da un’ala nel terzo cortile dell'Ospedale Generale; disponeva di centodieci letti, in 4 sale contenenti da quattordici a venti letti ciascuna, nonché di alcune stanze più piccole,
una stanza di isolamento, una sala di soggiorno per gli uomini ed una per le donne, camere da letto per infermieri ed infermiere e di un’aula. I pazienti venivano seguiti da Meynert,
due assistenti, due secondi, nove
infermieri e otto infermiere. Lo stipendio di un secondo ammontava a trecentosessanta fiorini all'anno più l’alloggio gratuito. Un bagnino oppure un addetto all’accensione dell’illuminazione pubblica a gas guadagnavano altrettanto. Gli statuti austriaci di allora stabilivano che, come avviene ancora oggi in Svizzera, l’assistenza psichiatrica
di un paziente fosse di competenza del suo comune d'origine. Per l’Arstalt. sussisteva dunque soltanto
Psicoanalisi e psichiatria
247
l'obbligo di accogliere i pazienti nati nella Bassa Austria, mentre la clinica di Meynert aveva mantenuto la funzione di reparto di osservazione. I pazienti che non parevano interessanti per motivi di ricerca o didattici potevano essere quindi demandati agli istituti regionali competenti. Chi conosce il sistema parallelo con cliniche universitarie ed istituti vigente in alcune parti della Germania — ad esempio a Tubinga — sa bene che esso créa sempre conflitti ogni qualvolta un reparto privilegiato si sente accusare, a torto o a ragione, di scegliersi i
pazienti e di rinviare ad altri i casi più ingrati. Uno dei motivi del vecchio contrasto tra psichiatria universitaria e manicomiale, descritto da Jaspers, è da vedersi proprio nella situazione viennese che ho appena delineato. Non soltanto problemi pratici, bensì anche l’orientamento di fondo della psichiatria come scienza erano il pomo della discordia tra psichiatri universitari e manicomiali. Ecco un breve excursus in proposito. Nel 1824, grazie ai suoi esperimenti ed alla teoria della equivalenza funzionale delle varie parti del cervello, il fisiologo Flourens aveva stroncato per decenni i primi tentativi di localizzare delle funzioni psichiche a livello cerebrale, e soprattutto aveva zittito ogni speculazione dei frenologi — cito qui soltanto Franz Joseph Gall. Appena nel 1870, a Berlino, Frisch e Hitzig riuscirono a dimostrare la funzione della corteccia motoria, aprendo la via all’affermazione trionfale della teoria della localizzazione. Tuttavia, nei primi anni Ottanta le speculazioni precorrevano di molto i risultati confermati dalla sperimentazione. Con Meynert, Exner ed altri Vienna era diventata praticamente il centro europeo della psichiatria, orientata verso il problema della localizzazione delle funzioni psichiche nel cervello. Eppure Goltz, uno degli eminenti neurofisiologi dell’epoca, basandosi su solide argomentazioni, poteva scrivere ancora nel 1881: «La supposta
esistenza di centri della corteccia cerebrale dedicati a funzioni circoscritte e separate è insostenibile». «Mitologia cerebrale», ecco l'epiteto con cui Kraepelin avrebbe definito più tardi la psichiatria di Meynert. Ma torniamo a Freud. Vi sono buone ragioni per ritenere che nei cinque mesi trascorsi da Meynert egli restasse
da un
lato affascinato
da teoria, levatura
e
248
La cultura psicoanalitica
metodi di ricerca di quest’ultimo — la neuroanatomia era pur sempre il suo interesse principale, il laboratorio di Meynert il suo posto di lavoro — ma che d’altro canto non gli fosse sfuggito quanto angusto era il più delle volte il ponticello che “collegava osservazione clinica e comprensione teorica della malattia. Nelle riviste di psichiatria dell’epoca, accanto all’indirizzo di ricerca di Meynert, veniva dedicato ampio spazio anche ad altri temi: la psicologia sperimentale, con Fechner, Helmholz, Wundt ed il giovane Kraepelin,
era una branca in rapida ascesa che aveva fondato anche una nuova rivista («Philosphische Studien», 1882). Altrettanto spazio occupava la clinica neurologica, i cui temi centrali erano l’eziologia dell’epilessia (nel 1881 Jackson descrisse per la prima volta un attacco focalemotorio) e l’eziologia sifilitica della paralisi progressiva e della “fabes dorsalis”. Gli studi di neuroanatomia erano dedicati a questioni metodologiche ed alla funzione del sistema nervoso centrale ed in particolare del tronco encefalico. Nel 1886 anche Freud aveva dato un suo contributo a questo indirizzo°. La neurologia clinica funzionale era un altro grande nucleo attorno al quale ruotavano le pubblicazioni, con lavori sulla nevrosi traumatica, l’isteria, la nevrastenia e l’ipnosi. Un ultimo argomento chiave erano le questioni relative alla psichiatria forense. Quali erano i compiti del medico assistente Freud? Il lavoro di routine in clinica era costituito da una visita quotidiana, dalla continua e attenta osservazione e visita dei singoli pazienti, dalla redazione delle cartelle cliniche e del cosiddetto “servizio diario”, ossia l’attività del medico addetto all'accettazione dei pazienti per l’intero nosocomio. In quell’ufficio di accettazione, sopra quel diario, il giovane Freud non solo lesse montagne di letteratura scientifica, ma vi scrisse anche molte delle belle lettere alla sua promessa sposa. I suoi interessi scientifici in quei mesi erano dedicati ancora agli studi anatomici sulla funzione del sistema nervoso. Egli lavorò sul cervello di neonati, su psicopatici con paresi facciali e De a punto un nuovo metodo di colorazione al cloruro oro. Purtroppo le cartelle cliniche redatte a Vienna a
Psicoanalisi e psichiatria
249
quell'epoca non sono conservate. Nel 1972 nell’archivio dell’Anstalt trovai le cartelle di undici pazienti che Freud vi aveva mandato nel 1883 dalla clinica di Meynert, assieme alle lettere di accompagnamento redatte di suo pugno. Quando, due anni più tardi, volli darmi alla ricerca di altre cartelle cliniche, mi dissero che
l’armadio in questione era stato danneggiato dall’acqua e mandato in discarica. Quale storico non ha conosciuto
esperienze del genere? Ma qualche volta le irregolarità hanno anche il loro lato positivo. Alcuni anni fa, ventinove schede con anamnesi stese da Freud sono comparse sul mercato antiquario, ed attualmente il sottoscritto ne sta preparando la pubblicazione. Risalgono tutte ai mesi tra Maggio e Luglio del 1883, quando Freud lavorava nel reparto maschile. E interessante rendersi conto grazie a questi fogli di quale tipo di pazienti si occupava Freud: cinque erano affetti da alcolismo, sei da paralisi progressiva o “fabes dorsalis”, sette da «follia cronica», due da “paralisi traumatica” ossia trauma cranico-cerebrale, tre da malattie infiam-
matorie del sistema nervoso con meningite, encefalite o lissa, due da “anoia”, ossia demenza, mentre altri quattro erano stati ricoverati in osservazione con diagno-
si imprecisata. La degenza media era di quattordici giorni; un singolo paziente restò nella clinica per quasi dieci mesi. La metà dei pazienti, ovvero quattordici di essi, furono inoltrati in un manicomio, quattro dimessi
per guarigione o miglioramento, due dimessi su richiesta, quattro morirono in clinica e per cinque pazienti
l'esito del trattamento non è riportato. Le cartelle cliniche contengono il più delle volte una copia della lettera di accompagnamento al ricovero; segue poi l’anamnesi stesa nella calligrafia di Freud, l’esame obiettivo, la diaghosi e le osservazioni sul decorso. Gli esami obiettivi di norma sono poco documentati. Viene annotata la dilatazione della pupilla e la prontezza dei riflessi tendinei. Si nota anche l'eventuale trezzor (quattordici pazienti su ventinove)
e soprattutto
le paresi
facciali, presenti in diciotto pazienti su ventinove. In alcuni. casi il cranio veniva misurato con metro e compasso di spessore. Esami cefalometrici di quel tipo non erano certo eccezionali in un epoca in cui la teoria
250
La cultura psicoanalitica
degenerativa occupava già un ampio spazio nell’ambito della psichiatria. A giudicare dalle anamnesi di cui disponiamo, l’approccio di Freud alle misure cefalometriche era alquanto distratto: indica i valori a volte in centimetri,
a volte
in millimetri;
una
scrive
volta
di erroneamente “circonferenza “diametro longitudinale”. Complessivamente le anamnesi, a parte pochissime eccezioni, non suscitano l'impressione che il loro autore longitudinale”
invece
si sia occupato dei pazienti in maniera particolarmente
intensa o impegnata. Costituisce un'eccezione un paziente di cui vorrei esaminare la storia un poco più da vicino‘. Si tratta di un aiuto guantaio di 34 anni, ricoverato la sera precedente in un reparto generico e trasferito alla clinica psichiatrica per motivi di irrequietezza e disorientamento. Ecco come Freud descrive la sua prima impressione del paziente: «Paziente a letto, sonnolento, si lamenta, dà l'impressione di un malato grave, si tiene le mani sulle pudenda. Temperatura 38,5, polso lento,
molto teso. Dilatazione della pupilla uguale, ptosi sinistra. Il labbro superiore un poco cadente. Vescica dilatata, non orina da ieri notte. Collo rigido, il paziente è iperestetico
a movimenti
passivi e percussione.
Il
paziente non sa indicare il proprio indirizzo, risponde solo esitando a ripetute chiamate, dice non avere nulla,
di non accusare cefalea, di essere completamente sano». Per Freud e per noi la diagnosi è abbastanza chiara: si trattava di un caso di meningite. Il decorso successivo riporta le temperature. Il giorno dopo Freud esegue un interessante esame dell’afasia che annota minuziosamente: «Federstil (stilografica): Spanfeder (truciolo), che finiscono con l’essere imparentati, impiegare, per scrivere. “Candela”: candela di cera. “Coltello”: quello non lo so neanche io, viene arrotato
ed incastrato
insieme,
sì naturalmente,
così
come tagliato, serve per tagliare. “Forchetta”: queste sono due forchette. “Scatola di fiammiferi”: scatola di sigarette ecc.». Freud annota successivamente anche alcuni piccoli esercizi di calcolo: «4 X 4= 16, 6x 9= 54,
5X7=45,6X7=42,17+ 25 resta irrisolto». Lo stato del paziente
continua
a peggiorare.
Il 7 Maggio
riporta:
Psicoanalisi e psichiatria
«Polso
128.
Ptosi
destra,
pupille
molto
251
dilatate,
il
paziente delira. Forte tensione addominale» ecc.. Il giorno dopo il paziente muore. Freud aggiunge anche il referto dell’autopsia: si trattava di una meningite tubercolare in presenza di tubercolosi polmonare. Psicosi di origine fisica: probabilmente è questa la categoria in cui verrebbero inquadrati oggi il 70% dei pazienti, mentre ne considereremmo probabilmente psicotici schizofrenici il 20%, dementi il 6%, nevrotici il
2% e maniaco-depressivi soltanto lo 0,2% dei pazienti. Dico questo con tutta la cautela necessaria in questo tipo di diagnosi a posteriori. Naturalmente vi erano delle supposizioni riguardo all’eziologia delle psicosi organiche:
vengono
citati
sifilide,
alcolismo,
tubercolosi,
rabbia. Tuttavia, in pratica non esistevano chiare cognizioni di patogenesi che avrebbero permesso di capire le singole sintomatologie cliniche comprensibilmente, se pensiamo a quanto limitate sono ancor oggi le nostre
conoscenze riguardo a quelle malattie, nonostante tutti i mezzi diagnostici moderni, dall’elettroencefalogramma alle analisi del liquido cerebrale, alla tomografia computerizzata, lo spintomogramma nucleare, i potenziali evocati, i test psicometrici ecc. Ai tempi in cui Freud
iniziò la carriera, un medico non aveva a sua disposizione che i cinque sensi, il martelletto, la lampada, il compasso ed il metro. Lo stesso discorso vale per il trattamento. Basti pensare di dover fare a meno oggi di neurolettici ed antibiotici nella terapia delle psicosi organiche per rendersi conto del senso di impotenza che doveva assalire Freud davanti a quei pazienti. Come ha reagito a quel senso d’impotenza? Sulla base delle fonti di cui disponiamo si può presumere che, seguendo l’esempio del suo primario, abbia evitato un vero e proprio incontro con tali pazienti, che forse gli avrebbe permesso di cominciare a comprendere le psicosi gravi. Ma certamente anche le circostanze scoraggiavano decisamente un tale approccio. Non c’è quindi da meravigliarsi che Freud parlasse con tono abbastanza sprezzante delle sue quotidiane “visite ai matti”.
AI posto del lavoro clinico egli intensificò la propria
2592
La cultura psicoanalitica
attività nel laboratorio di neuroanatomia. Non intraprese però la via di Meynert, il quale aveva creduto di potere sciogliere l’enigma della pazzia in laboratorio. Suppongo che Freud abbia ben presto capito quanto fossero insicure le fondamenta di quella psichiatria. Egli avrebbe invece imboccato una deviazione che si sarebbe rivelata estremamente fruttuosa: diventò prima neuropatologo. Dal nostro punto di vista moderno sembra quasi paradossale il fatto che in tale veste egli si occupasse in seguito proprio di nevrosi, ritornando ad una possibile comprensione dei disturbi psichici anche gravi. Ma dall’epoca trascorsa con Meynert alla pubblicazione degli Studi sull’isteria sarebbero passati ancora ben dodici anni. Note
1. EuceN BLEULER, Lebrbuch der Psychiatrie, 15. Aufl., riveduto da Manfred Bleuler, Springer Berlin, Heidelberg und New York
1983, p. 159.
2. 30 Gennaio 3. S. Freup, Boringhieri, Torino
1906, l.c. Compendio di Psicoanalisi, 1979, p.609.
O.S.F.
vol.
XI,
4. Per convenzione in seguito verrà chiamata Anstalt; Ndt. ; 5. Cfr. Allgemeine Zettschrift fiir Psychiatrie, Bd. 39 (1883), pp. 112-114.
6. Uber den Ursprung des N. acusticus, in «Monatsschrift fùr Ohrenheilkunde», neue Folge, Bd.20 (1886), p. 245 e sgg., p. 277 e
seg. Pai 7. «Krankengeschichte Journal», N° 8669, Aufnahme vom 2. Mai DA
Albrecht Hirschmiiller (Germania - Tiibingen): Storico della medicina. Professore della disciplina alla Eberbard Karls Universitàt Tiibingen.
Heinz
Schott
Mesmerismo - Ipnotismo - Psicoanalisi: un contributo al concetto di transfert Nella letteratura psicoanalitica il concetto freudiano di transfert/traslazione viene inteso quasi sempre in termini puramente psicologici, come proiezione immagi-
naria di moti dell’animo dell’analizzando sull’analista e quindi come cardine del processo psicoanalitico. Solo pochi autori, ad esempio Ellenberger, Neyraut e Starobinski hanno evidenziato il contesto storico-scientifico,
sul cui sfondo l’approccio originario di Freud risulta essere un particolare modello di transfert nella storia della psicoterapia. Nel concetto di transfert sono contenute diverse idee: il trasferimento fisico di energia, ad es. nel senso di trasmissione dell’energia termica, la trasmissione fisiologica di stimoli tramite le vie nervose ed anche la spiegazione batteriologica della trasmissione di malattie tramite germi contagiosi. Da scienziato operante alla fine del XIX secolo, Freud era certamente a
conoscenza dei diversi modelli di trasferimento in fisica, fisiologia e microbiologia. Il modello di trasferimento che lo affascinò di più, risultando per lui decisivo,
fu tuttavia quello dell’ipnotismo,
che pro-
prio allora inaugurava l’era della psicoterapia moderna. L’ipnotismo a sua volta risulta comprensibile solo attraverso la discendenza dal mesmerismo. Vorrei quindi esaminare di seguito i diversi concetti di traslazione/transfert, inteso come
atto terapeutico:
1)
nel mesmerismo, 2) nell’ipnotismo e 3) nella psicoanalisi A tale scopo possiamo partire da una serie di quesiti comuni a tutti e tre gli argomenti:
254
La cultura psicoanalitica
cosa
a) Che malattia?
b) Da
dove
viene
definito
causa
(da quale fonte)
(germe) i
proviene
della i
l'energia
| | guaritrice? c) Come viene trasmessa tale energia dal medico i (emittente)? d) Per quale via (attraverso quale rzediu2) essa viene trasmessa?
e) Quali
malato
ta
i
effetti produce
l’energia
guaritrice
nel
(come ricevente)?
f) Quali conseguenze generali (sociali) promette una determinata concezione terapeutica? 1. Sul mesmerismo
Nel 1775 Franz Anton Mesmer “scoprì” a Vienna il cosiddetto magnetismo animale (o magnetismo vitale), dando inizio ad un imponente movimento in medicina e nella vita culturale — il mesmerismo. Mesmer intese la malattia come il risultato di una “resistenza” innaturale nel sistema nervoso e nell’apparato muscolare, causa di un rallentamento o blocco della circolazione degli umori e di una solificazione patologica dell'organismo. In seguito ai sorprendenti successi terapeutici ottenuti, egli definì il “magnetismo animale” una panacea, interpretandolo come una corrente cosmica universale di natura fisica, un “fluido” nel quale tutti i corpi sarebbero immersi e accomunati in una specie di oceano (analogo
all'“etere” di Newton). Il magnetizzatore come emittente di questa energia guaritrice veniva inteso come
una
persona particolarmente dotata per accumulare in sé tale fluido ed emanarlo al malato. Ciò poteva avvenire per via diretta (imposizione delle mani, segni) o indiretta, attraverso corpi magnetici (acqua o alberi magnetizzati, bacinella o baquet). Particolarmente importante per Mesmer era il rituale collegato alla cura magnetica: sala con specchi, preghiere, musica, catena umana
ecc.. La
trasmissione del fluido veniva definita da Mesmer anche «comunicazione del fuoco vitale», col quale egli intende-
va «far avvampare» a scopo terapeutico i suoi pazienti
per scatenare delle «crisi benefiche»: convulsioni, grida.
stati d’estasi,
Psicoanalisi e psichiatria
255
La concezione di Mesmer aveva una definizione puramente fisica; egli non conosceva il concetto di vita psichica. Naturalmente la teoria del “fluido” ben presto venne respinta dalla scienza in quanto speculazione insostenibile, ed il presunto effetto del fluido fu attribuito alla suggestionabilità di alcuni esaltati. Già nel 1785 un allievo di Mesmer, Puységur, compì una svolta psicologica gravida di conseguenze: tramite il sonnambulismo artificiale era la soggettività del magnetizzato a trovarsi al centro dell’interesse: ora venivano studiate accuratamente esperienze, espressioni e produzioni del sonnambulo. Fenomeni collegati al sonnambulismo quali telepatia, chiaroveggenza, guarigioni a distanza ecc. venivano interpretati come un “effetto aggiuntivo”
(Carus) della vita psichica inconscia.
Questo tipo di trasferimento psichico (“rapporto”) qual era concepito dai mesmeristi non significava tuttavia —
specie nell'epoca romantica — una proiezio-
ne di immagini interiori sugli oggetti del mondo esterno, bensì piuttosto per un collegamento tra energia nervosa ed oggetti o uomini estranei, per una fusione di interno ed esterno, un perdersi nell’anima dell’altro, un'unione
simpatetica definita anche “neurogamia” (matrimonio di nervi).
2. Sull’ipnotismo
Nel 1843 il chirurgo inglese James Braid formulò per la prima volta una nuova teoria, come risposta critica alle speculazioni del mesmerismo: era l’ipnotismo. Il punto nodale fu la sua nuova interpretazione del processo di traslazione,
inteso
non
come
trasferimento
di una
sostanza spirituale o materiale tra le persone, bensì come semplice spostamento di energia neurofisiologica all’interno del sistema nervoso individuale, a spiegazione di particolari fenomeni (ipnotici). Il “braidismo”, ossia l'ipnosi come veniva anche definita nella seconda metà del XIX secolo, rappresentò l’avvio decisivo della psicoterapia moderna. Quest'ultima fu fondata definitivamente da Bernheim, un internista che espose la sua nuova teoria
256
La cultura psicoanalitica
della suggestione per la prima volta nel 1884. Sono convinto che Freud ricevette proprio da Bernheim lo spunto determinante per il suo modello psicodinamico di resistenza e transfert. La malattia veniva intesa da Bernheim come un’ertata regolazione neurofisiologica, in cui delle autosuggestioni patogene
creano
una resi-
stenza deleteria contro le suggestioni esterne, ostacolando una correzione dell’errore. I malati psichici per Bernheim sono dunque degli “autosuggestionati incurabili” malati per la resistenza insormontabile delle proprie immaginazioni (Freud più tardi avrebbe parlato di «muro
narcisistico»).
La fonte dell’energia guaritrice va ricercata nel potere della suggestione, ed in particolare nella rappresentazione suggestiva della parola, nella Vorstellungs dynamik (dinamica dell’immaginazione, termine usato da Freud per tradurre il concetto di idéodynamisme). Emittente di tale forza guaritrice è solo apparentemente il suggeritore o l’ipnotizzatore; in realtà essa deriva dalle autosuggestioni, ovvero da tutte le suggestioni stimolate dall'esterno nel ricevente. Il modo di trasferimento è definito chiaramente attraverso il modello neurofisiologico dei riflessi: la suggestione avviene in direzione centripeta dal cervello, dove —
a condizione che il ricevente abbia
sospeso la sua capacità critica, ovvero “creda” davvero nella suggestione —
essa viene tradotta automaticamente
in un moto centrifugo del corpo, processo questo in cui possono venire influenzate a scopo terapeutico anche le funzioni vegetative (polso, digestione, ciclo mestruale ecc.). Proprio questa teoria della suggestione fu anche fonte di stimoli per una critica sociale (fino ad arrivare a Nietzsche). I terapisti che vi ricorrevano studiavano i fenomeni della “suggestione di massa”, facendo rilevare il pericolo di “epidemie psichiche” dalle disastrose conseguenze; il “contagio psichico” divenne la metafora per la trasmissione di un'idea fissa nella massa. 3. Sulla psicoanalisi freudiana
Fin dagli inizi, dagli anni Ottanta cioè, nello sviluppare la psicoanalisi Freud si collocò nella tradizione di due indirizzi contemporanei della ricerca medica:
Psicoanalisi e psichiatria
290
a) la ricerca neurofisiologica, che allora comprendeva anche la morfologia, campo nel quale Freud svolse un lavoro eccellente;
b) gli studi sull’ipnosi, sui quali Freud era ben informato e di cui si occupava in termini sia pratici che teorici. Egli giunse al concetto originario di transfert grazie al tentativo di unificare le due direttrici — neurofisiologia ed ipnosi
—
nella sua
autoanalisi
La testimonianza
più
importante dell’autoanalisi è e rimane per noi L’interpretazione dei sogni, l’opera principale di Freud. Vorrei ora esporre brevemente il concetto iniziale di transfert, come esso si delinea soprattutto negli Studi sull'’isteria del 1895. Il germe della malattia per Freud va ricercato nell’inconscio rimosso, in quella regione dissociata della psiche, da cui si irradiano gli effetti patogeni che si manifestano nei sintomi. La fonte dell’energia risanatrice è l'inconscio, a condizione che esso operi in armonia con gli obiettivi consci dell'individuo, ovvero a condizione che non venga rimosso e possa mettere la sua energia a
disposizione del conscio. Ma chi è l’emittente dell'energia guaritrice, chi la trasmette? La risposta di Freud è fondamentalmente in linea con i risultati dell’ipnotismo: «il malato stesso», quando questo — secondo il metodo freudiano
—
«associa
liberamente»,
«auto-osservandosi
acriticamente», in altre parole quando si autoanalizza. Decisiva è la “direzione” di questo transfert: esso non avviene dall'esterno (come “suggestione”) verso l’interno,
dal conscio all’inconscio, bensì dall’interno verso l'esterno, dall’inconscio all'oggetto esterno percettibile consciamente, alla persona dell’analista. Transfert qui significa proiezione di esperienze intrapsichiche sulla persona del medico. Si può anche dire che Freud ha cambiato polarità alla direzione della suggestione rispetto a Bernheim ed ai terapeuti della suggestione: chi
suggerisce non è il medico o la sua volontà conscia, ma il suo inconscio, al quale si vuole dare voce anche tramite delle procedure analitiche, siano esse autoanalitiche o eteroanalitiche. Questo “diventare oggetto del discorso” è il contenuto essenziale del concetto freudiano originario di transfert, quando nella Interpretazione dei sogni egli dice che i «residui diurni» (in analogia all’analista!) offrono
9. La cultura psicoanalitica
258
La cultura psicoanalitica
all’inconscio «il necessario appiglio per il transfert». In
quel senso, transfert significa anche abreazione, scarica di
contenuti psichici patogeni tramite la loro trasposizione nel linguaggio della coscienza, il che secondo Freud eserciterebbe un effetto terapeutico. Mentre la teoria della suggestione sosteneva un’idea positiva dell’energia guaritrice, Freud interpreta l'energia guaritrice liberata grazie al transfert ex regativo, come eliminazione della rimozione,
scarico, allontanamento della causa patogena. Lo scopo è un chiarimento globale che dovrebbe portare ad un’autonomia
disillusa dell’individuo,
all’interno di una
società
altrettanto priva d'’illusioni. Con il concetto di controtransfert, sviluppato successivamente, Freud non fa altro che completare la sua teoria secondo cui ogni transfert dovrebbe partire dall’analizzando, senza l’influenza di suggestioni esterne, ossia di controtransfert, il quale potrebbe inquinare l’espressione dell'inconscio. Naturalmente Freud comprende pure il valore della simpatia come importante fattore di guarigione, ma — a differenza dai mesmeristi dell’epoca romantica — egli non la pone al centro del trattamento analitico. Il rapporto ipnotico ed il transfert psicoanalitico sono distinti nettamente l’uno dall’altro nella teoria. Nella prassi invece essi confluiscono come processi psichici. Ciò si evidenzia particolarmente se si paragona l’autoanalisi con l’autoipnosi. In che cosa differisce lo «stato ipnotico», indotto con l’autosuggestione, dalla condizione di «autoosservazione acritica» in cui Freud, in veste di autoanalista,
lascia libero sfogo ai propri pensieri? Non sono forse identici questi due stati di coscienza? Non si possono definire entrambi come stati di trace? Forse la differenza sta soltanto nelle rispettive intenzioni: nell’ipnosi quella di annegare l’una o l’altra idea conscia nell’inconscio, nell’analisi quella di indurre l’inconscio a parlare. Conclusioni
Mesmerismo, ipnotismo e psicoanalisi hanno, come ho tentato di esporre, diverse concezioni riguardo al concetto di trasferimento/traslazione. Dobbiamo tenere conto a questo proposito anche dei particolari’contesti
Psicoanalisi e psichiatria
259
scientifici e storico-culturali, dello sviluppo della scienza medica negli ultimi duecento anni e dell'avvenuta mutazione della sua idea di uomo e del suo concetto di malattia. Resta comunque comune a tutti l’idea base di trasmissione di un’energia guaritrice che per Mesmer proviene dal “fluido” cosmico, per Freud dalle fonti creative dell’“inconscio”. Quanto più la psicoanalisi si è allontanata dal primo Freud di fine secolo, tanto più è diventato astratto il concetto di transfert, e tanto più esso è stato usato soltanto come metafora che non ha più nulla a che vedere con la fisiologia umana e con il rapporto fisico dell’uomo con il “macrocosmo”. Da parte mia ritengo che tra corpo e psiche del singolo individuo, tra gli uomini e tra uomo e uomo esistano davvero interazioni, che — anche nel processo psicoanalitico — si possono avverare dei fenomeni, come ad esempio la telepatia, difficilmente comprensibili oggi attraverso il concetto astratto di transfert. In tale contesto non dovremmo ignorare le grandiose ricerche compiute da ipnotisti e mesmeristi, raccogliendo invece la sfida lanciata dai loro risultati ad un confronto critico con il nostro sapere attuale. Nelle intenzioni di Freud la psicoanalisi doveva superare le carenze scientifiche e pratiche del mesmerismo e dell’ipnotismo; non voleva avere più nulla in comune con essi. Ma contemporaneamente egli era anche consapevole della problematica della suggestione, comune a tutti i modelli psicoterapeutici. Vorrei quindi concludere con una citazione da Introduzione alla psicoanalisi: «Quanto a noi, dobbiamo renderci conto che nella nostra tecnica abbiamo abbandonato l’ipnosi solo per riscoprire la suggestione sotto forma della traslazione».
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260
La cultura psicoanalitica
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Psychoaralyse
und Literatur,
Suhrkamp,
Frank-
Heinz Scott (Germania - Freiburg): Storico della medicina. Professore della disciplina alla Albert Ludvigs Universitàt Freiburg.
Anna Maria Pavanello Accerboni, Rita Corsa
Tra psichiatria e psicoanalisi: il contributo teorico e clinico di Edoardo
Weiss
Il modo forse più opportuno di ricordare Weiss in questa occasione, in cui si adempie il suo antico desiderio di vedere riuniti a Trieste psicoanalisti provenienti da molti paesi europei, è soffermarsi sugli anni da lui trascorsi nella sua città. Anni oltremodo fecondi non solo per la cultura triestina, che vive — come ci ha già raccontato Giorgio
Voghera — tra il 1920 e il 1930 un periodo di intensa fioritura, ma anche per lo stesso Weiss. Lo psicoanalista triestino infatti, nello stesso arco di tempo
in cui con
la sua
presenza
catalizza
—
suo
malgrado — l’interesse quasi travolgente per Freud e le sue idee dell'ambiente culturale soprattutto ebraico, matura nella sua qualità di psichiatra al frenocomio civico delle esperienze molto importanti, che saprà utilizzare per elaborare nei suoi scritti alcune originali ipotesi psicodinamiche sulle psicosi precorritrici di successivi sviluppi del pensiero psicoanalitico. La mia relazione tiene conto prima di tutto dei risultati che emergono dall’indagine eseguita sull’interessante materiale clinico dalla dr.ssa Rita Corsa, che ha
attentamente esaminato le numerosissime cartelle redatte da Weiss, tuttore depositate nell’archivio dell’ex Ospedale psichiatrico. Successivamente viene illustrata, avendo presente il riscontro clinico rappresentato dalle cartelle, l’interpretazione psicodinamica della melanconia e della paranoia, proposta da Weiss in alcuni importanti articoli scritti nel periodo triestino. Prima
di entrare
direttamente
in argomento,
sarà
262
La cultura psicoanalitica
utile qualche annotazione storica sull'ambiente psichiatrico triestino degli anni Venti, che fa da sfondo all’operare di Weiss. Ritornato nel 1919 a Trieste, sua città natale, dopo una lunga parentesi dî formazione a Vienna !, Weiss comincia subito la sua attività professionale tanto come psicoanalista che come psichiatra. Assunto con la qualifica di medico secondario all'Ospedale psichiatrico provinciale, la sua identità di professionista poggiava in effetti, almeno all’inizio, più che altro sulla sua attività di psichiatra. La sua salda formazione psicoanalitica, che in quegli anni era appannaggio di pochi pionieri, da sola non sarebbe stata sufficente a garantire a Weiss nell’ambiente medico triestino, che pure per tradizione era aperto e scientificamente aggiornato, il dovuto credito professionale. Eppure molti suoi colleghi, laureatisi quasi tutti a Vienna o a Graz conoscevano
—
come
sottolinea una
psichiatra triestina, sua coetanea — «le opere di Freud, allora molto discusse e popolarizzate specialmente dai narratori e drammaturghi tedeschi del tempo, però proscritte dall'Università» ?. La psicoanalisi insomma
—
era opinione piuttosto
diffusa negli ambienti medico scientifici — pertineva tutto sommato più ai letterati che ai medici, né si poteva pretendere che a Trieste si fosse più aperti che a Vienna, dove le scoperte di Freud erano state accolte con tanta diffidenza. Il frenocomio civico — questa la denominazione dell'Ospedale fino al 1923 — proprio negli anni in cui Weiss fece parte del suo corpo medico, aveva raggiunto nell’organizzazione medico-sanitaria un livello veramente notevole, tanto da essere conosciuto in Europa e ricevere aperti riconoscimenti internazionali.
Accanto al largo impiego della ergo e ludo-terapia, vennero applicati nel frenocomio triestino — che era all'avanguardia anche nel campo della radiologia diagnostica e della neurochirurgia —, man mano che venivano messi a punto, metodi biologici di trattamento, quali la malario-terapia e l’insulino-terapia. Fu proprio Weiss tra l’altro, che a Vienna era stato allievo di Wagner von Jauregg, lo scopritore della
Psicoanalisi e psichiatria
263
malario-terapia, a fare una ricerca nell’ambito del comprensorio ospedaliero sull’applicabilità di uno speciale tipo di larva di zanzara, l’anofele, per l’inoculazione della malaria a fini terapeutici. La ricerca, che gli era stata commissionata dallo stesso von Jauregg, e nella quale Weiss era ricorso all’aiuto del famoso entomologo triestino Miller, diede esito negativo e fu pubblicata nel 1926 su una famosa rivista medica viennese.
Weiss con tale ricerca aveva in fondo dimostrato di non disdegnare di occuparsi di problemi, che esulavano da quelli che notoriamente erano i suoi interessi predominanti. E questo non tanto perché avesse bisogno di confermarsi come psichiatra agli occhi dei colleghi, che lo stimavano molto anche se nessuno di loro si convertì alla psicoanalisi, quanto piuttosto perché era effettivamente interessato alla comprensione delle psicosi e a tutti i metodi terapeutici impiegabili per affrontarle. Questo suo interesse per i disturbi psichici più gravi non era affatto in contrasto con i suoi preminenti interessi psicoanalitici. Non bisogna infatti dimenticare che l’essersi psicoanaliticamente formato con Paul Federn l’aveva sin dall'inizio sensibilizzato ai problemi teorico-clinici posti dalle psicosi, la cui comprensione psicodinamica, secondo Federn, passava attraverso un approfondimento della natura, struttura e funzionamento dell’Io. A questo proposito Weiss ricorda che negli anni in cui praticava la sua professione a Trieste, mentre
ricorreva a Freud per consultarsi sui casi di nevrosi, si rivolgeva invece a Federn per i problemi connessi alle psicosi‘. In quasi dieci anni di attività psichiatrica istituzionale a Weiss certo non mancò la possibilità di disporre di una vasta casistica, sulla quale maturare certe sue riflessioni e ipotesi. Questa vasta e interessante casistica è stata oggetto
di accurata indagine da parte della dr.ssa Corsa, che mi ha trasmesso le seguenti considerazioni.
Il materiale psichiatrico che si presenta ad un’attenta esamina dei diari appare particolarmente interessante e suggestivo.
In quegli anni, che precedevano di circa un trentennio il massiccio avvento della farmacologia nella cura e profilassi della malattia mentale, era infatti possibile
264
La cultura psicoanalitica
vedere l'evoluzione “naturale” — non ancora condizionata
dalle influenze
neurochimiche,
neuroormonali
e
neurotransmettitoriali portate dall'assunzione degli psicofarmaci — dei vari quadri morbosi”. L'attività svolta per oltre dieci anni nell’istituzione psichiatrica triestina permise a E. Weiss di venire a contatto diretto con le forme più svariate di patologia mentale, richiedente ricovero in ambiente protetto e quindi di maturare una vastissima esperienza nel campo delle psicosi. Il movimento dei ricoverati nell'ambito del frenocomio triestino era stato sin dall'inizio notevole: dai duecentocinquanta ai trecentocinquanta maschi accolti per anno.
Un certo numero
di questi pazienti venne
affidato alle cure del dott. Weiss: rimangono circa trecentocinquanta cartelle da lui redatte, in parte autonomamente e in parte in equipe con altri medici. Questo l’obiettivo fissato all’inizio della nostra
ricerca: tentare di individuare gli elementi clinici — frutto di una lunga pratica psichiatrica — che permisero a E. Weiss di formulare le sue ipotesi psicodinamiche relative ad alcune gravi patologie psicotiche, estendendo così il suo campo di riflessione ai difetti di struttura e di funzionamento dell’Io. Inizialmente si è dovuto individuare, tra le varie migliaia di cartelle cliniche compilate in quei dieci anni, i casi seguiti direttamente dal dott. Weiss: si è rivelato un lavoro semplice, basato sul facile riconoscimento tra le tante calligrafie di quella chiara e caratteristica dello psichiatra triestino. In questo modo si sono distinti — come già accennato — più di trecentocinquanta diari,
relativi ai ricoveri di altrettanti pazienti maschi, di ogni età e affetti dai più differenti tipi di malattia mentale. Considerando le finalità attribuite all’indagine, sono state ulteriormente
selezionate
le cartelle, escludendo
dalla casistica quelle forme di psicopatologia ad eziologia chiaramente organica (soprattutto i disturbi mentali da infezione luetica* inoltre le psicosindromi posttraumatiche, post-infettive, da intossicazione endogena
od esogena, da processi espansivi”; quelle associate a sofferenza epilettica o ad oligofrenia; le demenze pre-
senili e senili; ecc.). E stata
poi operata
una
successiva
suddivisione,
Psicoanalisi e psichiatria
265
eliminando le storie cliniche inquadrabili, dopo una loro attenta lettura e dalla stessa diagnosi riportata, nei disagi di carattere nevrotico*. Quest'ultimo gruppo riuniva comunque un numero alquanto esiguo di pazienti. Dopo questa rigorosa cernita sono rimaste circa duecentoqua-
ranta cartelle, tutte riguardanti le grosse patologie psichiatriche endogene, sia nel versante affettivo che in quello dissociativo. I casi diagnosticati come “disturbi distimici”. — tanto nelle forme unipolari che in quella bipolare — equivalevano numericamente a quello dei casi allora ancora definiti come “demenze precoci” — nelle varie sindromi tipo “ebefrenico”, “paranoide” e “catatonico”? —, La minuziosa analisi di queste duecentoquaranta relazioni psichiatriche ha offerto delle notevoli sorprese, evidenziando in molti quadri morbosi un'associazione di aspetti semiotici e un carattere di evoluzione nel tempo difficilmente sospettabili e prevedibili. Circa due terzi delle
storie descritte riportavano un andamento clinico proprio della condizione psicopatologica in questione; un terzo dei casi invece riferiva diversi elementi di “atipicità” — che non potevano venire semplicemente spiegati dalle pur molteplici e complesse influenze sul quadro e sul decorso morboso, connesse alla lunga manicomializzazione spesso subita dai pazienti in esame —. Consideriamo più approfonditamente quest’ultimo gruppo. Si tratta di una novantina di cartelle riguardanti malati affetti da stati patologici di natura psicotica difficilmente classificabili nelle forme nosografiche tradizionali. E. Weiss rilevò in essi una storia di associazione — contemporanea o in tempi diversi — di elementi depressivi e/o maniacali e di aspetti più gravemente psicotici — soprattutto sintomi paranoidi —. Non si trattava delle lievi oscillazioni del tono dell'umore che sovente accompagnano le più gravi sindromi schizofreniche, ma di vere e proprie forme di distimia. All’interno di questa casistica di quadri psico-morbosi ad andamento “atipico” è stato individuato un primo gruppo di sessantuno pazienti con una precedente storia di tipo chiaramente
distimico, successivamente
evolutasi verso
266
La cultura psicoanalitica
un nuovo assetto clinico dai netti caratteri dissociativi. Più della metà del gruppo (trentasette pazienti) partiva da un esordio depressivo: in venticinque di questi malati il disagio melanconico in seguito si modificò, assumendo decisamente gli aspetti di una sindrome paranoide; nei restanti, la trasformazione fu verso un esito dissociativo
più grave, o ebefrenico (otto pazienti) o catatonico (quattro pazienti). I rimanenti casi di questo primo gruppo si riferiscono in prevalenza a ricoverati inizialmente affetti da una sindrome distimica bipolare (diciassette pazienti) poi evolutasi, circa nella stessa proporzione numerica, verso
una nuova configurazione o paranoide (nove pazienti) o dissociativa (sei casi presentarono una “sindrome ebefrenica” e due una “catatonica”); ma anche a una più esigua fetta di malati (sette pazienti), in principio sofferenti di un disagio maniacale puro poi modificatosi in una sindrome paranoide (sei pazienti) o ebefrenica (un solo paziente). Il decorso inverso, cioè quello di un iniziale quadro di natura schizofrenica in un seguente momento
trasformatosi in una forma distimica, non è
mai stato rilevato. I pazienti
osservati
presentarono
radicale
della sintomatologia:
distimici
continuarono
a volte
a manifestarsi,
un
mutamento
alcuni ma
aspetti
assai
più
sfumati e quasi del tutto privi di significatività clinicodiagnostica; nella maggior parte delle situazioni scomparvero completamente per lasciare il posto al nuovo disagio psichico, che poi sarebbe evoluto in modo indipendente e senza più rispettare la periodicità propria dei disturbi affettivi. Ma il gruppo sicuramente più interessante e signifi-
cativo ai fini dell'indagine — in quanto conferma pienamente le deduzioni metapsicologiche che Weiss ne trarrà — è quello costituito da pazienti che presentavano sin dall’esordio un'associazione di sindromi proprie di psicopatologie di solito nosograficamente separate in modo rigido. In tutti i ventisei pazienti di questo secondo gruppo, i sintomi dissociativi all’inizio erano sempre di tipo paranoide e si articolavano in undici casi con aspetti propri delle turbe depressive, in nove con quelli
Psicoanalisi e psichiatria
267
maniacali e in sei con quelli distimici bipolari. In tempi diversi si poteva comunque osservare il prevalere di un quadro sull’altro: questo alternarsi di episodi distimici e paranoidi poteva lasciar supporre il rispetto di una certa periodicità. Tale andamento periodico era in realtà solo apparente, dato che in nessuno dei ventisei casi si verificò mai una completa remissione dei disturbi, essendo sempre presente una sofferenza psichica di base dagli aspetti polimorfi. Otto di questi malati, dopo aver mantenuto per anni l’assetto morboso sopra descritto (spesso la manicomializzazione durava decenni) sistematizzarono i loro disturbi in una sindrome paranoide, perdendo i connotati distimici; mentre in altri tre si ebbe il processo inverso, cioè la scomparsa dei tratti paranoidi e l’organizzazione dei sintomi in un quadro francamente depressivo. I restanti quindici pazienti evidenziarono un notevole peggioramento del disagio mentale, con graduale compromissione delle funzioni e delle facoltà psico-affettive. Merita particolare rilievo l’evoluzione offerta da nove di questi casi. Dopo un esordio di tipo “misto” (cinque erano forme depressivo- paranoidi e quattro maniacale-paranoidi)
durato
vari
anni,
si ebbe
una
temporanea stabilizzazione dei sintomi di un quadro paranoide (erano sempre manifesti lievi elementi distimici). Successivamente
si evidenziò un ulteriore muta-
mento in senso peggiorativo dell’aspetto psichico: emersero infatti gravi disagi di natura catatonica — episodi di rallentamento psico-motorio sino a blocco completo,
negativismo,
mutacismo,
ecc.;
ma
anche
momenti di intensa eccitazione psico-motoria —. Risoltosi
l'evento
catatonico
acuto,
il ricoverato
poteva
ripresentare la precedente sindrome paranoide, oppure precipitare ad un livello di organizzazione progressivamente sempre più basso (sino a vere e proprie forme terminali
di schizofrenia,
allora
chiamate
“demenza
precoce!” )M2. Riassumendo, da tutto il materiale clinico preso in esame (ottantasette casi) sono stati enucleati due grandi gruppi — a loro volta suddivisi in vari sottogruppi: il primo costituito da sessantuno pazienti affetti inizialmente da disturbi timici (in particolare depressivi),
268
La cultura psicoanalitica
successivamente evolutisi in quadri paranoidi o più decisamente dissociativi (più raro); il secondo rappre-
sentato da ventisei malati, sofferenti sin dall’esordio di sindromi
“miste”
(soprattutto
articolazione
di aspetti
melanconici e paranoidi). Quest'ultimo gruppo presentava una prognosi più infausta rispetto al precedente, per l’alta incidenza di grave e irreversibile disgregazione psicotica osservata nei suoi membri.
Dall’attenta analisi delle cartelle considerate è emerso ancora un elemento clinico degno di essere sottolineato, cioè l’alta incidenza di delirio di veneficio riferita dai
pazienti con turbe paranoidi: il disturbo è stato riportato in circa due terzi dei diari esaminati. Tale particolare disturbo del pensiero spesso segnava il passaggio da una precedente patologia affettiva ad un nuovo quadro dissociativo; più raramente era l’unico sintomo a definire un disagio persecutorio. In quest’ultimo caso si trattava di deliri di veneficio dagli aspetti polimorfi ma, al contrario, assai ben sistematizzati.
In che misura Weiss, negli anni che lo videro direttamente impegnato come psichiatra a Trieste, abbia messo a profitto le esperienze fatte all’interno dell'Ospedale — la cui natura e portata è verificabile attraverso le cartelle cliniche di cui testé abbiamo riferito — per elaborare una interpretazione psicodinamica di ‘alcuni quadri psicotici è testimoniato da due suoi articoli, scritti negli anni Venti, che per importanza e originalità spiccano nella sua produzione scientifica. Uno dei quali prende direttamente le mosse da un caso di paranoia, caratterizzato da delirio di veneficio, che Weiss ebbe modo
di
seguire con particolare attenzione e interesse e che diede luogo all'articolo, pubblicato nel 1926 sull’«Internationale Zeitschrift fir Psychoanalyse», dal titolo Der Vergiftungswahn im Lichte der Introjektion und Projektionvorginge (Il delirio di veneficio alla luce dei processi di introiezione-proiezione). Un
grave
parafrenico,
ricoverato
sotto
particolare
sorveglianza all'Ospedale Psichiatrico di Trieste a causa della sua aggressività, era fermamente convinto — riporta Weiss — che i cibi a lui offerti fossero avvelenati.
Mentre inveiva violentemente contro i medici, infermieri
Psicoanalisi e psichiatria
269
e altri ricoverati, imputava tale suo modo di agire ai veleni che gli venivano propinati col cibo. Sentiva che la sua ira ed i suoi impulsi alla violenza salivano in lui dal ventre e che ciò avveniva per effetto dei veleni. Questa sensazione di non essere responsabile dei propri sentimenti, impulsi ed azioni, era accompagnata nel paziente da allucinazioni
acustiche.
Tali voci
interne,
che
il
malato con un neologismo definiva «ciò che veniva detto dentro di lui», provenivano anch’esse dal suo ventre e proferivano, insieme ad ordini e proibizioni, atroci offese contro la sua persona. Weiss, nei cui confronti l’ammalato era abbastanza
ben disposto, da far pensare ad una specie di “pseudotraslazione” !!, riuscì ad ottenere ulteriori chiarimenti sul suo avvelenamento e sulle concomitanti angosce ipocon-
driache. Il paziente gli estraevano dai cadaveri in particolare dai loro mescolarle ai cibi a lui
raccontò allora che i suoi nemici oppure dai corpi di uomini vivi, escrementi, certe sostanze per destinati. Ingerendo col cibo tali
sostanze, egli era costretto ad assumere fattezze, voci,
modi di pensare degli uomini da cui provenivano e da cui si sentiva infettato. Questi tentativi di estraniarlo a se
stesso,
che egli dapprima
aveva
attribuito
sconosciuti per poi passare ad accusare
a nemici
i medici e in
particolare il direttore dell'Ospedale, lo preoccupavano talmente che, mentre ne parlava, toccava e tastava con
ansia il proprio viso ed il proprio corpo, protestando violentemente che non erano i suoi. Dinamica e contenuti del delirio testé descritto destarono tanto l’interesse di Weiss, perché costituivano una precisa conferma a certe sue deduzioni, suffragate da iterate osservazioni, in base alle quali era arrivato ad accertare «che nelle fantasie d’influenzamento è coinvolto lo stesso meccanismo che determina la formazione del Super-io».
L’ossessione del paziente di perdere la propria identità fisica, ingerendo cibi contenenti escrementi o parti di altre persone, si prestava ad essere interpretata come un modo di opporsi a delle identificazioni, percepite come forme d’influenzamento estraniante. Il paziente, la cui preoccupazione delirante rivelava come
«identificazione
e assunzione
orale
fossero
per lui
270
La cultura psicoanalitica
equivalenti», sentiva di non esser lui a voler ingerire le persone ma di esservi forzato dai suoi nemici. L'atto identificatorio cioè, insieme alla corrispondente parte dell'Io, era stato in realtà esteriorizzato e proiettato sugli altri, dando luogo a un delirio paranoide. Oltre al delirio paranoide un’altra forma di disturbo patologico, il vaneggiamento malinconico, permetterebbe, secondo Weiss, di comprendere la natura dei meccanismi introiettivi e proiettivi e l’importanza di un loro corretto funzionamento per la normalità psichica. Tanto il melanconico che il paranoide sono fermamente convinti di essere perseguitati da qualche cosa di introiettato, che Weiss. propone per semplicità di chiamare “l’introietto”‘. Anche la melanconia può essere concepita infatti come una specie di delirio di persecuzione: il malato è perseguitato dalla propria coscienza. Nella melanconia però la formazione delirante non si riferisce alla persecuzione in quanto tale, che, nel caso specifico, da parte della coscienza è reale, ma riguarda un contenuto interiore (introietto perseguitato), cui sono indirizzate le accuse della coscienza. La
coscienza a sua volta si fonda su degli “introietti”, anche se non tutto ciò che viene dall’To introiettato partecipa necessariamente alla sua strutturazione. La complessità
del processo di formazione della coscienza o Super-io ha talvolta come conseguenza, come osservato da Freud in L’Io e l’Es, che le identificazioni oggettuali prendono il sopravvento diventando troppo numerose, soverchianti e tra loro incompatibili, per cui si arriva ad una scissione dell’Io con una contrapposizione o una esclusione a vicenda delle singole identificazioni. Lo studio della melanconia evidenzia secondo Weiss una scissione di questo tipo tra un “introietto” perseguitante e un “introietto” perseguitato. Nella paranoia invece l’individuo non riconoscendosi nell’“introietto” perseguitato, lo respingerebbe fuori di sé, lo proietterebbe. L’affinità, a livello di dinamismi psichici, tra melanconia e paranoia è confermata dalla possibilità, che Weiss sottolinea di aver spesso clinicamente accertato —
pienamente attestata, tra l’altro, dall'esame delle cartelle cliniche — di una trasformazione ed evoluzione di
Psicoanalisi e psichiatria
quadri melanconici
in quadri paranoidi.
271
Tra i casi
personalmente sperimentati, Weiss porta come esempio
quello di un paziente fortemente depresso che, dopo un breve periodo di internamento, cominciò ad interpretare l'interesse nei suoi confronti come un tentativo di indagare nel suo passato per accusarlo. Dopo poco tempo egli non manifestò più nessun senso di colpa ma spostò all’esterno le sue manie persecutorie, affermando che i medici lentamente, con un avvelenamento cronico
lo volevano distruggere. Lo stato melanconico potrebbe quindi patologicamente capovolgersi trasformandosi in mania nel caso di proiezione dell’ “introietto” perseguitato, in paranoia nel caso di proiezione dell’“introietto” perseguitante. Molte anamnesi di paranoia evidenziano in effetti molto spesso, come antecedenti, depressioni psichiche, che possono essere facilmente scambiate — come puntualizza Weiss
—
per sintomi melanconici.
Weiss
precisa di essere arrivato a tali conclusioni, rilevanti tanto a livello clinico che nosografico, attraverso l’osservazione prolungata di numerosi casi di delirio d’influenzamento organizzati nella forma di delirio di veneficio — dato questo confermato dall'esame delle cartelle fatto dalla dr.ssa Corsa —. Ma proprio il caso descritto nell’articolo, evidenziando in maniera così netta l’incidenza dei meccanismi introiettivi-proiettivi nella formazione del complesso delirante,
lo aveva
decisamente
orientato
verso
una
ipotesi interpretativa in grado di chiarire meglio, dal suo punto di vista, le dinamiche sottese ai deliri d’influenzamento. L’ipotesi che ciò che entra in ballo nei deliri paranoidi sono le identificazioni conflittuali strutturanti l’Io e Super-io, permetterebbe di unire nosograficamente, come varianti più o meno organizzate, tutte le forme di delirio di persecuzione, tra le quali rientrano appunto tanto. quelle meno determinate di generico delirio d’influenzamento quanto quelle più specifiche di delirio di veneficio. L'articolo, in cui sono esposte le tesi testé esaminate,
ci rivela come Weiss abbia saputo utilizzare le sue conoscenze psicoanalitiche, applicandole ai dati clinicamente acquisiti attraverso la sua esperienza psichiatrica,
DZ
La cultura psicoanalitica
arrivando
a
luogo,
in primo
revisionare
attraverso
un’interpretazione psicodinamica, la nosografia dei deliri di persecuzione. Rivolgendo particolare attenzione ai meccanismi introiettivi e proiettivi, per l'importante
ruolo che rivestono
della psiche,
nel funzionamento
Weiss riesce, come si è visto, ad evidenziare una grave
conflittualità a livello dei processi d’introiezione strutturanti l'Io e il Super-io tanto nella psicosi maniacodepressiva che nella paranoia. Questo gli permette di accorciare, per così dire, le distanze tra due classi di
disturbi psichici, che la nosografia psichiatrica tende a distinguere nettamente, al punto da rimettere in discussione una loro troppo rigida separazione, nel momento in cui dimostra non solo come sia accertabile con una certa frequenza a livello clinico l'evolversi di casi melanconici in paranoidi, ma anche come tale esito trovi una precisa spiegazione psicodinamica. Weiss dunque risulta muoversi con perspicacia
e
sicurezza all’interno di problemi teorico-clinici complessi di tradizionale competenza psichiatrica, arrecando già con questa sua prima ricerca un contributo
piuttosto
originale alla comprensione psicodinamica di tali disturbi. Altrettanta perspicacia e sicurezza rivela nel modo in cui, affrontando problemi derivantigli dalla sua pratica psichiatrica, si orienta verso le più recenti acquisizioni del pensiero psicoanalitico. Se i suoi punti di riferimento teorico sono da una parte la nuova concezione strutturale della psiche proposta da Freud, dall'altra le riflessioni di Abraham sul ruolo fondamentale della introiezione negli stati maniaco-depressivi, ciò non di meno egli arriva per proprio conto a proporre un’interpretazione
delle dinamiche sottese ai deliri melanconici e paranoidi. Il risultato più originale della ricerca di Weiss è la possibilità di unificare dal punto di vista psicodinamico le due affezioni, in base appunto alla comprensione del ruolo in esse svolto dalla introiezione e dalla proiezione. Una proposta di unificazione che non è dato di trovare direttamente né in Freud né in Abraham *, che pure sono a questo riguardo le due guide teoriche dello psicoanalista triestino. E che Weiss sembra aver maturato in maniera autonoma
esperienze
approfondimento
del
e
riflessioni
che,
funzionamento
attraverso
dei
un
meccanismi
Psicoanalisi e psichiatria
273
introlettivi-proiettivi, evidenzia un suo particolare interesse per la natura e struttura dei legami oggettuali. Tale interesse è documentato e confermato dall’altro importante articolo che prenderemo in considerazione. L’articolo intitolato Uber eine noch nicht beschriebene Phase der Entwicklung zur heterosexuelles Liebe (Su una fase non ancora descritta della evoluzione verso l’amore eterosessuale) '’, affronta il problema delle modalità attraverso le quali si arriva, nel processo evolutivo, che
porta alla fase genitale dello sviluppo libidico, alla scelta d’oggetto eterosessuale. Weiss sottolinea di dovere alla fortunata combinazione di aver avuto in analisi due casi, in cui la scelta
oggettuale rivelava spiccate connotazioni narcisistiche, le sue osservazioni in proposito.
Partendo dai due tipi di scelta oggettuale, quella narcisistica e quella di appoggio, teorizzate da Freud in Introduzione al narcisismo, Weiss
rileva come
non
sia
ancora sufficientemente valutata l’importanza dei meccanismi introiettivi-proiettivi nelle vicissitudini riguardanti la scelta oggettuale. Nel caso specifico dei due pazienti, la cui analisi permise a Weiss di approfondire moventi e modalità della scelta d’amore eterosessuale di tipo narcisistico, essi rivelarono chiaramente durante il trattamento le difficoltà che individui di sesso maschile possono incontrare nel rinunciare internamente alla propria parte
femminile, per assumere in pieno dal punto di vista psichico il ruolo connesso al loro sesso. Tal genere di difficoltà, spesso accompagnate da forti componenti omosessuali, sono per Weiss imputabili quasi sempre ad una non riuscita de-identificazione con la madre e, conseguentemente, ad una mancata identificazione con il padre, in seguito ad un non superato complesso di castrazione. I sogni portati da entrambi i pazienti durante l’analisi evidenziarono accanto al desiderio, piuttosto combattuto, di proiettare all’esterno la propria componente femminile anche un’acuta nostalgia per la medesima. Affrontando il problema della bisessualità Weiss, mentre la collega alla scelta narcisistica dell'oggetto d’amore, si chiede se si debba considerare veramente
274
La cultura psicoanalitica
tale tipo di scelta, basata sulla proiezione delle parti di sé
non pertinenti al proprio sesso, come contrapposta alla
scelta d'appoggio, legata al bisogno originario di figure parentali protettive. La risposta per Weiss non può che essere negativa,
perché anche la proiezione, su cui si fonda la scelta narcisistica dell'oggetto eterosessuale, non è altro, a suo
parere, che una ulteriore vicissitudine del legame con la madre.
La femminilità,
destinata nell'uomo
ad essere
proiettata, trarrebbe essenzialmente origine dalla identificazione con la madre, che «è la semplice conseguenza del fatto che il bambino ha dovuto rinunciare a lei» !°. La dipendenza del bambino dalla madre è in effetti così grande, perché egli la porta dentro di sé, si è cioè identificato con lei: «Sarà quindi la madre introiettata a venir poi proiettata» nella scelta dell'oggetto d’amore di tipo narcisistico. Esaminando però attentamente i conte-
nuti rappresentativi legati alla proiezione della parte identificatasi con la madre, si può secondo Weiss osservare che essi non corrispondono più completamente alla rappresentazione originaria. Questo perché «l’immagine della madre attraverso il passaggio nell’Io è stata modificata. In seguito alla identificazione l’Io diventa più simile alla madre, ma a sua volta la madre (irreale) accolta nell’To assomiglia sempre più all’Io. Si tratterebbe di una assimilazione reciproca, dato che non si comprende perché l’Io originario debba subire delle modificazioni senza a sua volta indurle» !. Se ogni bambino, qualsiasi sia il suo sesso, deve imparare
a rinunciare
alla madre,
suo
primo oggetto
d’amore, non ha altro modo di compensare la perdita che identificarsi con lei. Il bambino, bisognoso di amore e di protezione si volgerà poi dalla madre al padre, assumendo infine dentro di sé tutti e due, nel momento
in cui sarà costituito il Super-io. L'uomo
privilegerà
l’identificazione
la madre,
col padre,
la donna
con
mentre le identificazioni col sesso opposto son destinate ad essere abbandonate attraverso la proiezione, anche se le zago che vi corrispondono risentono delle trasformazioni, che il modello originario della identificazione con l’altro sesso ha subito durante la sua permanenza nell’Io. D'altronde la collocazione all’esterno della parte di sé
Psicoanalisi e psichiatria
215:
corrispondente al sesso opposto e il suo ritrovamento nella persona amata, viene a volte vissuto come un atto
di salvazione e redenzione. Dove ciò che viene messo in salvo attraverso l’amato o l’amata è quella parte di sé, a cui si è dovuto rinunciare. Le tesi appena esposte, che sintetizzano l’articolo pubblicato da Weiss nel 1925, sono degne di attenzione perché lo psicoanalista triestino, partendo dalla concezione strutturale dell'Io quale precipitato dei legami oggettuali avuti in passato, individua il modo di concettualizzare attraverso la scelta di tipo narcisistico tutti i rapporti oggettuali, dal momento in cui l’elemento comune strutturante a monte tali rapporti risulta essere
l’identificazione originaria con la madre. Se tutti i rapporti con l’oggetto, essendo basati sull’esteriorizzazione o il ritrovamento di parti di sé negli altri, hanno insomma sempre un'impronta narcisistica, in quanto rimandano ai processi. di identificazione strutturanti il soggetto, sarà questa allora l’area maggiormente pregiudicata nel caso dei disturbi più gravi dell'Io. Che questa sia la convinzione di Weiss emerge chiaramente alla fine del suo articolo, in cui osserva che
sono proprio le psicosi ad evidenziare meglio come venga alterato il rapporto con la realtà, in seguito ad un uso distorto dei meccanismi introiettivi-proiettivi. La possibilità di arrivare a comprendere i più gravi disturbi dell'Io è per Weiss connessa all’approfondimento del modo in cui la libido originariamente indirizzata all’Io si volge verso l’oggetto esterno, delle modalità cioè di tale fondamentale passaggio. In questa direzione s'impone la constatazione «che noi disponiamo del mondo esterno solo attraverso le proiezioni e che “un vero
e proprio mondo
esterno” non
è
rappresentabile». Per questo può succedere che una proiezione di atteggiamenti, o di qualsivoglia qualità, sentimenti e tendenze porti ad una alterazione del mondo esterno, cioè ad allucinazioni o formazioni deliranti. Normalmente questo non accade, perché nel caso ad esempio esaminato della proiezione, nell'amore eterosessuale, della parte di sé identificatasi col sesso opposto, è solo la libido ad essa collegata ad essere proiettata. Nel modo di rapportarsi alla realtà esterna sarebbero distingui-
276
La cultura psicoanalitica
bili due forme di identificazione: «O l’Io viene reso simile
all’oggetto (introiezione) o l'oggetto viene reso simile all’Io
(proiezione). Ci sarebbero dunque una identificazione introiettiva e una proiettiva, che potrebbero a loro volta essere tanto totali che ‘parziali. Nella proiezione della parte. di sé corrispondente al sesso opposto non si tratterebbe però di una vera e propria identificazione proiettiva ma di una proiezione della libido. Tra le condizioni che assicurano un corretto rapporto con la realtà Weiss pensa si potrebbe ipotizzare tra l’Io e gli oggetti l’esistenza di una specie «di filtro permeabile solo per la libido». Potrebbe allora darsi che, proprio quando tale filtro è danneggiato o non è disponibile, vengano proiettate qualità, impulsi e perfino pensieri con esiti patologici. Anche nelle righe conclusive dell’articolo dedicato al delirio di veneficio, Weiss ricorre all'ipotesi dell’esistenza di tale filtro, che permetterebbe di fissare il limite entro il quale proiezioni di tipo maniacale o paranoide possono ancora essere considerate normali. La persona normale infatti proietta solo energie d’investimento. Nel caso specifico l’individuo non psicotico, portato a proiettare, ad esempio, quella parte di sé coincidente con l’“introietto” perseguitato, proverebbe il bisogno, che non può in quanto tale essere considerato delirante, di trovare nella realtà una persona contro cui scagliarsi in base a motivi reali. Non senza ragione l'esame dei due articoli, che più testimoniano l'impegno teorico e clinico di Weiss negli anni Venti, nella sua duplice veste di psichiatra e di psicoanalista, è stato piuttosto dettagliato. In realtà troviamo in essi poste e discusse problematiche clinicoteoriche e ipotesi metapsicologiche, che accompagneranno
Weiss per tutta la sua vita, ma
che in questi
articoli hanno trovato la loro prima e forse più originale formulazione. Alcuni concetti, che troviamo qui proposti per la prima volta, costituiscono l’apporto poco conosciuto ma per questo non meno importante, con cui Weiss contribuì ad arricchire il pensiero psicoanalitico, anticipando suoi importanti sviluppi. Due concetti in particolare, quelli di identificazione
Psicoanalisi e psichiatria
DI)
introiettiva e proiettiva, che furono introdotti nella terminologia psicoanalitica proprio da Weiss con il suo articolo del 1925, saranno destinati successivamente ad
avere grande rilievo nel pensiero psicoanalitico, soprattutto attraverso l’opera di Melanie Klein. Weiss, nell’articolo dedicato alle modalità che regolano la scelta eterosessuale dell’oggetto d’amore, mette in rilievo l'inevitabile coloritura narcisistica di detta scelta per l’intervento della identificazione proiettiva, che consiste appunto nel ritrovare fuori di sé, esteriorizzando nella persona amata la parte introiettata corrispondente al genitore di sesso opposto. Il processo per cui l'oggetto originario attraverso una identificazione introiettiva viene dapprima interiorizzato e poi, subendo delle modificazioni, esteriorizzato; sempre in seguito ad una identificazione, questa volta però proiettiva, è chiamato da Weiss «passaggio attraverso l'Io»! Ora non può non stupire, senza farne un problema di priorità
scientifica,
come
questi concetti,
già ben
espressi e formalizzati nei due lavori pubblicati da Weiss negli anni Venti sull’«Internationale Zeitschrift fùr Psychoanalyse»,
siano praticamente passati inosservati,
quando concetti terminologicamente identici e sostanzialmente abbastanza analoghi, come quelli messi a punto
in un
contesto
essenzialmente
psicopatologico
parecchio tempo dopo dalla Klein', hanno avuto in seguito ben maggiore fortuna nel pensiero psicoanalitico.
Le riflessioni di Weiss probabilmente non vennero recepite, perché l’importanza determinante delle relazioni oggettuali nella strutturazione dell’Io e del Super-io e, in concomitanza, del ruolo spettante alla identificazione in tali processi, non aveva ancora completamente attirato e monopolizzato l’attenzione dell'ambiente psicoanalitico. È che Weiss stesso — questa almeno è l’impressione che se ne trae anche in rapporto all’utilizzazione di tali idee nelle sue opere successive, che a livello concettuale non riescono a sviluppare tutta la potenzialità esplicativa di queste sue prime intuizioni — forse non era consapevole fino in fondo della loro portata. D'altra parte possono essere ben comprensibili certe incertezze e oscillazioni nell’inoltrarsi, come fece Weiss,
278
La cultura psicoanalitica
su un terreno
poco
di ricerca così ancora
esplorato,
avendo come mappa le indicazioni più recenti della ancor giovane scienza dell’inconscio. Non bisogna infatti dimenticare — e questo emerge chiaramente a livello di problematiche non solo dagli scritti weissiani risalenti agli anni Venti ma> anche da quelli del decennio successivo — che Weiss, come del resto la maggior parte
dei pionieri della psicoanalisi, si lasciava in prevalenza guidare dalle sue esperienze cliniche, cercando poi di ordinarle e concettualizzarle, usando l’apparato teorico che allora la psicoanalisi era in grado di offrire. In un processo per cui esperienza clinica e concettualizzazione teorica, incrementandosi a vicenda, portavano verso
nuovi orizzonti di approfondimento e di ricerca. Proprio a proposito di certe inaspettate analogie rilevabili tra alcuni concetti weissiani e kleiniani, è stato
osservato come sia abbastanza naturale che la Klein e Weiss,
proprio perché
si basarono
sugli stessi scritti
fondamentali di Freud”, pur operando in ambienti culturali diversi e con popolazioni di pazienti diverse, giungessero a delle concettualizzazioni analoghe. Il fatto in effetti potrebbe essere visto «come una testimonianza di una
loro corretta
lettura
dei testi freudiani,
che
permise loro di sviluppare la teoria psicoanalitica nella direzione, certamente adombrata, ma mai definitivamen-
te elaborata dallo stesso Freud». Ora questa direzione, foriera di tutti i successivi e più importanti sviluppi del pensiero psicoanalitico, è quella orientata a privilegiare nella vita psichica il ruolo dei rapporti oggettuali piuttosto che quello delle vicissitudini istintuali. Tra l’altro la condizione di isolamento scientifico ? che caratterizzò gli anni triestini di Weiss, unitamente all’esigenza di utilizzare le indicazioni più recenti di
Freud per affrontare determinate realtà cliniche agirono in fondo da forte stimolo, permettendogli di arrivare alle sue intuizioni più originali e orientandolo verso problematiche sottese ma che ancora pensiero psicoanalitico.
non
impegnavano
A proposito delle esperienze cliniche maturate
il nel
periodo triestino, Weiss riconosce esplicitamente che era stata l’analisi di pazienti con difficoltà omosessuali,
dovute alla mancata de-identificazione con la madre, ad
Psicoanalisi e psichiatria
29
offrirgli la possibilità di acquisire “un piccolo” ma “nuovo colpo d'occhio” su moventi, modalità e natura delle scelte oggettuali di tipo narcisistico. Ma questo nuovo, poi non tanto piccolo, “colpo d’occhio” risulterà essergli ugualmente molto utile con l’altra categoria di pazienti, quelli più disturbati e gravi, che gli accadeva contemporaneamente di vedere all'Ospedale. Non a caso alla fine del suo articolo sull'evoluzione che porta alla scelta d’oggetto eterosessuale, nel momento in cui precisa di essersi limitato, riferendosi a certi disturbi nevrotici in tale sfera, a trattare
solo alcuni
aspetti della proiezione psichica, non può esimersi dal rilevare «che lo studio dei multiformi meccanismi dell’introiezione e della proiezione porta direttamente sul terreno delle psicosi»?. Su questo terreno un problema fondamentale ancora da approfondire era per Weiss quello delle condizioni che regolano e rendono possibile «il passaggio della primaria libido narcisistica agli oggetti». Sarebbe cioè molto importante comprendere le modalità in base alle quali l'Io è in grado di instaurare una gamma ricca e articolata di rapporti oggettuali, per cercare di spiegare il fenomeno contrario, quello dell'abbandono e caduta d'interesse per il mondo esterno con il conseguente pregiudizio dei legami interpersonali, che caratterizza i più gravi disturbi psichici. Se l'Io si struttura attraverso la serie delle sue identificazioni e se — come insegna Freud in L’Io e Es — nel carattere e nel modo di interagire degli individui si può leggere in controluce la storia dei loro legami oggettuali, scoprire che il «passaggio dell'immagine materna attraverso l'Io» è una fase generalizzabile del processo che porta all'amore genitale, induceva implicitamente Weiss a interrogarsi sulla possibilità che esso possa influenzare, positivamente o negativamente, tutti i
possibili sviluppi a livello di relazioni oggettuali. Il fatto che lo psicoanalista triestino abbia assegnato, a differenza di Freud, nella storia dello sviluppo libidico, il posto più importante alla identificazione primaria con la madre, lo portava a revisionare l’asserto freudiano sulla natura anaclitica di tale rapporto. Se l’individuo, in qualsivoglia rapporto interpersona-
280
La cultura psicoanalitica
le, è sempre una parte di sé che esteriorizza ritrovandola nell’oggetto esterno, ne consegue inevitabilmente che non solo la cosiddetta scelta oggettuale di tipo narcisistico ma che ogni possibile rapporto umano non possa costitutivamente prescindere da una componente narcisistica.
Questa
componente
narcisistica,
che rimanda
direttamente all’Ideale dell’Io, non fa intravvedere però come riteneva Freud — «la prima e più importante identificazione dell’individuo, quella col padre della propria personale preistoria» ‘’, quanto piuttosto secon-
do Weiss quella primaria con la madre, di cui Freud aveva colto la specificità, anche se l’aveva attribuita alla identificazione paterna, affermando che «non sembra essere la conseguenza l’esito di un investimento oggettuale, ma qualcosa di diretto, di immediato di più antico di qualsivoglia investimento oggettuale» ?. Ciò che Weiss aveva appreso dall’analisi di alcuni suoi pazienti nevrotici, incapaci di instaurare dei normali rapporti eterosessuali, era che alla base di tali loro difficoltà c’era un attaccamento eccessivo e spesso morboso per la madre con cui si erano identificati e che questo impediva loro di rinunciare alla propria parte femminile, esteriorizzandola in una donna da amare. A questo proposito va osservato però che Weiss non
sembra essere del parere che l’identificazione con la madre in quanto tale, che per lui — come si è visto — è . una fase generalizzata nel processo di maturazione verso l’amore eterosessuale, porti necessariamente all’omosessualità. Porti cioè inevitabilmente a quel tipo di scelta, da Freud definita narcisistica per cui l'oggetto è vissuto come un sostituto dell'Io e gli vengono indirizzate «quell'amore e quelle cure che il soggetto ricevette un tempo dalla madre». E che per Weiss l’identificazione con la madre non è secondaria, come per Freud, ma primaria e non si verifica solo nel caso di un maschio «che è stato insolitamente a lungo e troppo intensamente fissato alla madre nel senso del complesso edipico» e che, arrivato alla pubertà, ricorre inconsciamente alla identificazione con lei per non doverla rimpiazzare con un altro oggetto d'amore, con la conseguente inversione della scelta sessuale. Il fatto di ritrovare se stesso nell'oggetto
Psicoanalisi e psichiatria
281
d’amore non è per Weiss un elemento che caratterizza esclusivamente la scelta di tipo omosessuale, anche se in tale scelta questo risulta più evidente. In tal senso è molto importante una precisazione, che egli ritiene di dover fare a proposito della reciprocità dei ruoli all’interno del rapporto di coppia eterosessuale: «L’osservazione di Rank, che una coppia d’amanti nell’inconscio rappresenta sempre la madre e il bambino, è sicuramente giusta, desidererei però aggiungere che entrambi i partner sono contemporaneamente tanto la madre che il bambino. Si tratta di un rapporto reciproCox Accade normalmente in realtà che non solo la donna ma anche l’uomo possa provare sentimenti materni nel rapporto d’amore, dato che la scelta dell’oggetto da parte dell’uomo maturo si realizza attraverso la proiezione della sua propria femminilità: «Con l’aiuto di questo presupposto [...] comprendiamo perché anche l’uomo maturo assuma in parte nei confronti della donna amata un atteggiamento materno: è pur lui che l’ha fatta nascere (proiettata) e la considera quindi una parte di se stesso. Egli la protegge e si comporta nella sua tenerezza
per lei come una madre nei confronti del figlio» ”. Qui Weiss in pratica mette radicalmente in discussione la tesi freudiana” per cui solo la donna, tendenzialmente più narcisista dell’uomo, e l’omossessuale farebbero sostanzialmente una scelta narcisistica, dal momento che, amando se stessi nell’oggetto, si farebbero ‘inconsciamente da madre. L’identificazione con la
madre sarebbe comunque sottesa ad ogni rapporto oggettuale e conseguentemente la componente narcisistica, che è dato ritrovarvi, da sola non potrebbe decidere della sua natura normale o patologica, omo o eterosessuale. Non è tanto per Weiss il caso di parlare di una scelta d’oggetto narcisistica da contrapporre ad una anaclitica, quanto di chiedersi quali aspetti del soggetto, acquisiti attraverso una serie d’identificazioni, vengono esteriorizzati nei più disparati rapporti umani e a quali condizioni, restando nella normalità, questo si realizzi.
Da questo punto di vista la possibilità di osservare all'Ospedale nei pazienti più gravi, tanto melanconici che paranoidi, l’uso distorto dei meccanismi introiettivi
282
La cultura psicoanalitica
e proiettivi e la forte conflittualità a livello di identificazioni,
strutturanti
la personalità,
ad essi sottesa,
lo
induceva a supporre un disturbo nell’area delle identifi-
cazioni più primitive connesse al rapporto primario con
la madre. La ricerca e l’investimento degli oggetti dunque, in base
a quanto
Weiss
aveva
acquisito
tanto
coi suoi
pazienti nevrotici che psicotici, non potrebbe prescindere dalla traccia indelebile lasciata in noi — in seguito all’identificazione — dai primi oggetti d'amore. E da tale traccia dipenderebbe pure la sorte dei nostri successivi rapporti oggettuali e la loro natura normale o patologica. Constatando come sia del tutto normale servirsi della proiezione per trovare nell’oggetto libidicamente o aggressivamente
investito
parti di sé esteriorizzate,
lo
psicoanalista triestino ritiene che in caso di proiezioni patologiche è come se fosse venuta a mancare una specie di barriera, di linea di separazione tra l’To e la realtà, per cui agli oggetti vengono attribuiti impulsi, qualità, pensieri del soggetto. Ciò che appunto avviene nella identificazione proiettiva. A proposito di tale ipotizzata barriera o filtro a disposizione della libido, che, a livello
dell’Io, corrisponde alla facoltà di discriminare il mondo interno da quello esterno, Weiss non entra nel merito della sua origine. Ma dal momento che egli collega l’esistenza e l’azione di tale filtro all’instaurazione di saldi confini dell'Io? e al superamento di quella fase egocosmica, che costituisce la modalità più primitiva di strutturazione psichica, implicitamente la fa dipendere dalla identificazione originariamente più importante, cioè dalla identificazione primaria con la madre. A conferma
di ciò Weiss, in uno
dei suoi ultimi saggi,
tematicamente legato ai due articoli scritti tanti anni prima a Trieste, osserverà «che la paura di perdere la madre o l’amore di questa è l’espressione di una barriera protettiva che, gradualmente internalizzata, diventerà la frontiera interna dell'Io»?! Quello che emerge in ultima analisi dagli articoli weissiani degli anni Venti, è che la nascita e le possibilità di crescita e sviluppo dell’Io si situano in una dimensione essenzialmente relazionale. E che all’interno di tale dimensione è il rapporto originario di identificazione
Psicoanalisi e psichiatria
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primaria con la madre a dare l’impronta strutturante di base, da cui dipenderà la maggiore o minore disponibilità del bambino e poi del futuro adulto a confidare nell’oggetto e ad instaurare delle buone relazioni oggettuali con le correlate identificazioni e successive proiezioni — o per dir meglio in senso weissiano esternalizzazioni? — senza le quali non è possibile uno sviluppo normale dell’Io. Un'altra importante intuizione di Weiss, collegata sempre al ruolo fondamentale attribuito all’identificazione narcisistica con la madre, è che proprio il passaggio della madre attraverso l'Io, ovverossia la presenza della madre, conseguente alla identificazione primaria, nell'Io, a favorire,
con
l’instaurarsi
di saldi confini, un
investimento libidico corretto e adeguato della realtà. Dove evidentemente la presenza della madre all’interno dell’Io agisce narcisistictamente come un “oggetto sé”: è dalla fusione dell’Io nascente del bambino con la madre, che emergerà cioè, attraverso l’egoizzazione in senso weissiano, l'Io autonomo
del bambino.
Se tutti i rapporti oggettuali — come puntualizza Weiss nell’articolo sulle modalità psicologiche connesse all'amore eterosessuale — basandosi sulla esteriorizzazione o il ritrovamento di parti di sé negli altri, hanno una inevitabile impronta narcisistica, si può implicitamente dedurre allora che il narcisismo non è un semplice stadio nell’evoluzione della libido. Riveste cioè per la vita psichica un ruolo fondamentalmente strutturante, nel senso che nell’essere umano l’acquisizione di una nuova funzione e struttura non è semplicemente dettata dall’istinto ma acquisita attraverso una relazione di identificazione narcisistica tra il Sé e l'oggetto che tale funzione e struttura possiede. Se Weiss è stato senz'altro influenzato per quanto riguarda ruolo e importanza del narcisismo da Federn”, che attribuisce ad una cazexi originaria di tipo intransitivo,
affondante
le sue
radici in un
costituzionalismo
biologico, la forza coesiva dell’Io tradotta nel cosiddetto “senso dell’Io”, dall'altro molto più del suo maestro accentua il ruolo determinante dei legami oggettuali, ed in particolare del legame primario con la madre, nei processi attraverso cui l’Io si costituisce. Non può per
N
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La cultura psicoanalitica
esempio che meravigliare, l’intuizione anticipatrice di Weiss quando ipotizza, come condizione per l’instaurazione di corretti rapporti oggettuali, il costituirsi di una specie di filtro-pelle libidico ’, che, a mio avviso, non è
da lui tanto attribuito ad una cazexi originaria dell’Io, quanto alla presenza, cioè all'avvenuta introiezione della madre, conseguente alla identificazione primaria. Concezioni queste che lo apparentano, per quanto riguarda le condizioni normali dello sviluppo della personalità, a successive proposte del pensiero psicoanalitico, come
quelle della Mahler e anche di Fairbairn,
visto che pure per Weiss dopotutto sono le relazioni oggettuali a determinare gli atteggiamenti libidici e le loro vicissitudini. Per quanto riguarda invece le possibili distorsioni patologiche dei processi introiettivi e proiettivi, e nella fattispecie quella importante, particolare forma di distorsione rappresentata dalla identificazione proiettiva, Weiss risulta esser andato molto vicino alla Klein.
Se la Klein alcuni anni dopo Weiss scopre e approfondisce l’identificazione proiettiva come meccanismo primario e patologico di funzionamento mentale, osservando il modo in cui il bambino molto piccolo si difende da angosce fortemente persecutorie derivantegli dalla sua intrinseca, innata aggressività, lo psicoanalista triestino vi giunge tramite l’osservazione prolungata condotta all'Ospedale psichiatrico su casi di grave deterioramento dell’Io, presentatisigli nella forma di quadri melanconici alternantesi con quadri maniacali, ma spesso anche inaspettatamente sfocianti in deliri di persecuzione paranoide. Individuando le stesse difficoltà di base riguardanti le introiezioni e le conseguenti identificazioni strutturanti l'Io e il Super-io, tanto nelle affezioni maniacodepressive che in quelle paranoidi — differenziabili dal punto di vista psicodinamico solo per la scelta del tipo di difesa — Weiss, come si è visto, accorcia le distanze tra le due entità cliniche nettamente separate nella nosografia psichiatrica tradizionale. Ora non a caso anche Melanie Klein, prima di mettere a punto il suo concetto di identificazione proiettiva, in un articolo del 1935 intitolato Contributo
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alla psicogenesi degli stati maniaco-depressivi, rileva «la stretta connessione
tra i contenuti
e i sentimenti
di
angoscia del paranoico e quelli del depresso” ”. Mentre nel melanconico, che per la Klein è già pervenuto ad una relazione con un oggetto totale, l'angoscia è suscitata dal timore che gli oggetti buoni e l’To con essi possano essere distrutti dall'odio che insieme all’amore avverte dentro di sé, nel paranoico, che non riesce mai, pur avendo introiettato oggetti totali e reali ad identificarsi completamente con essi, l'angoscia è determinata dalla paura persecutoria delle parti cattive non integrate dell’oggetto, che egli proietta fuori di sé. E in questo contesto, che rimanda a livello di sviluppo dell’Io alla posizione schizo-paranoide, che la Klein scoprirà il ruolo determinante della identificazione proiettiva come meccanismo patologico di difesa, comune tanto al bambino, che non ha ancora raggiunto la posizione depressiva, quanto allo psicotico, in cui il rapporto con la realtà è deteriorato, risultando bloccato a un livello dell'Io non integrato con gli oggetti interni ed esterni. Qui troviamo Weiss e la Klein su posizioni molto vicine. Solo che per lo psicoanalista mania e paranoia — di cui la prima comporta l’esteriorizzazione della parte scissa e colpevolizzata dell'Io (introietto perseguitato), la seconda la collocazione all’esterno degli aspetti sadici del Super-io (introietto perseguitante) — sono entrambe modalità di difesa patologica dell'Io nei confronti dei suoi introietti, che ha come punto di partenza la melanconia. Per la Klein invece, che prevede del resto come Weiss la possibilità di una oscillazione tra i tre quadri clinici strettamente legati dal punto di vista psicodinamico, è da una situazione originaria di scissione tra l'Io e i suoi oggetti interni, che prende l’avvio quel processo che potrà portare sia a una situazione di tipo depressivo che a una maniacale . Se per la Klein bambino e psicotico sono accomunati dal medesimo problema, non sono riusciti cioè a superare sul piano della integrazione interna quelle angosce primarie che derivano dall’aggressività intrinseca alla natura umana, per Weiss invece difese patologi-
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La cultura psicoanalitica
che quali la paranoia e la mania, derivanti entrambe da un precedente stato depressivo, sono piuttosto imputabili ad una carenza di base dell'Io, ad un bolding insufficiente, legato alle vicissitudini della identificazione primaria con la madre. Ritornando ai risultati emersi dall’indagine sulle cartelle cliniche di Weiss, il decorso dei due gruppi di pazienti, evidenziati come più significativi dal punto di vista clinico, conferma, fatti alla mano, il carattere meno
destrutturato e destrutturante della melanconia rispetto alla paranoia. Ciò coincide del resto pienamente con le indicazioni della Klein, che individua nella posizione schizo-paranoide la forma più primitiva di organizzazione psichica. A questo punto è legittimo chiedersi se non sia affatto casuale che il decorso clinico del secondo gruppo di pazienti, preso in considerazione dalla dr.ssa Corsa, che — partendo sin dall'inizio con un quadro patologico misto di melanconia e paranoia rivelavano un processo di destrutturazione psichica già in atto, registri con una percentuale decisamente maggiore esiti dissociativi estremi. Tanto l’esordio misto che il decorso involutivo più grave potrebbero far pensare a maggiori difficoltà originarie di base, ad un holding appunto estremamente carente a livello di identificazioni primarie. L’operare di Weiss negli anni trascorsi a Trieste, che abbiamo preso in considerazione, è la dimostrazione di come sia stato possibile per uno dei pionieri della psicoanalisi conciliare in sé la doppia identità di analista e psichiatra, mettendo a frutto proficuamente in campo psichiatrico le sue conoscenze psicoanalitiche. Secondo un auspicio peraltro espresso dallo stesso Freud, che, prevedendo col tempo l’inevitabile accostarsi della psichiatria alla psicoanalisi, aveva preconizzato che «a lungo andare gli stessi psichiatri non potranno resistere alla forza probante del materiale clinico che hanno sotto mano» ””.
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Note
1. Edoardo Weiss (1889-1970), compiuti gli studi ginnasiali a Trieste, si era trasferito a Vienna nel 1908 per frequentare all’Università il corso di Medicina. Interessato sin dall’inizio alla psicoanalisi, aveva avvicinato subito Sigmund Freud, che lo aveva affidato per l’analisi personale a Paul Federn, uno dei suoi più stretti e fidati collaboratori. Già nel 1913, prima ancora di laurearsi in Medicina,
Weiss diventerà membro della Società Psicoanalitica Viennese. 2. Vedi E. Ravis, Ricordo di Edoardo Weiss, scienziato e neurologo di fama mondiale, «Il Piccolo», 4 Febbraio 1971. 3. Vedi E. Weiss, Undibertragbarkeit der Impfmalaria durch Anophelen (Non inocubilità della malaria da vaccino attraverso l’anofele), Wiener klinischen Wochenschrift, 52, 1926. 4. Vedi E. Weiss, Sigmund Freud come consulente, Astrolabio Roma
1971, p.38.
5. A questo proposito ricordiamo l'opportunità assolutamente unica offertasi a Weiss dall’operare nell’istituzione psichiatrica di una città “cosmopolita” come la Trieste dell’epoca, dove quotidianamente poteva venire a contatto e trattare pazienti dalle radici etniche tra le più svariate: la maggior parte — non considerando gli italiani — era originaria dei paesi di lingua tedesca oppure dei limitrofi territori slavi, ma non mancavano quelli provenienti dai più lontani paesi balcanici. 6. La diagnosi di “paralisi progressiva” veniva fatta con notevole frequenza; la lesione meningo-encefalitica da treponema pallido era responsabile soprattutto di disturbi mentali di tipo maniacale, caratterizzati da accelerazione ideo-motoria, logorrea e ricchi e floridi deliri megalomaniaci. L'introduzione dell’antibioticoterapia ha drasticamente ridotto l’incidenza di tali quadri. 7. Il giorno 7/8/1924 il dott. Weiss ricoverò nelle sale dell’Ospedale Psichiatrico un giovane sofferente di alterazioni dell'umore in senso espansivo associate a modificazioni del comportamento. I suddetti disturbi psichici, sommati alle indicazioni patologiche emerse dall'esame neurologico, permisero allo psichiatra triestino di diagnosticare una «psicosi da tumore cerebrale». Il paziente subì la trapanazione esplorativa del cranio e la successiva asportazione di un frammento della massa tumorale da sottoporre a indagine istologica.
La neoplasia non venne trattata chirurgicamente, ma venne eseguita una ròntgenterapia e somministrati metalli colloidali. Il paziente venne dimesso il 19/12/1925 e considerato clinicamente guarito. Si legge sulla cartella redatta pochi giorni prima dell'uscita: «Contro ogni aspettativa i fenomeni di tumore cerebrale regredirono spontaneamente fino a scomparire del tutto mentre si compieva lentamente una completa reintegrazione di tutte le facoltà mentali». 8. Di particolare rilevanza clinica pare un caso di “nevrosi isterica” presentato da un giovane jugoslavo. Il quadro era caratterizzato da ripetuti episodi convulsivi: «il paziente tiene gli occhi sbarrati, il corpo è 1 toto rigido, fa grandi movimenti vibratori agli arti superiori, muove ampiamente anche gli arti inferiori; manca
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morsus; senza bava; non presenta perdita di orina e feci né stato di incoscienza. Dopo ogni accesso fa arco di cerchio marcatissimo» (Entrato il 2/9/1919; uscito il 6/12/1919).
9. Nelle cartelle cliniche esaminate si può leggere di casi diagnosticati come “demenza precoce catatonica” che avevano presentato disturbi psicomotori acinetici del tipo ecoprassia, obbedienza automatica, flexsbilitas cerea, intoppi, immobilità statuaria, negativismo, mutacismo, stupor, rigidezza ed inerzia motorie sino a momenti di totale blocco catalettico con sitofobia; oppure manifestazioni ipercinetiche con gravi crisi di “eccitamento catatonico”, a volte così volente e incontrollabili da condurre all’exitus: quadri di catatonia a tal punto avanzati e con aspetti tanto polimorfi sono ormai di rarissima osservazione. Si può evidenziare inoltre una vasta casistica di disturbi mentali riconosciuti come “demenza precoce ebefrenica” i quali, dopo un tipico e precoce esordio, avevano progressivamente fatto a ritroso tutte le tappe proprie del deterioramento schizofrenico fino a cristallizzarsi in quadri di gravissimo e globale impoverimento delle funzioni e delle facoltà psico-affettive. L'attuale decorso della psicopatologia schizofrenica è assai spesso positivamente modificato da una corretta e continuativa disponibilità terapeutica (specie cura di mantenimento con neurolettici): gli esiti a distanza sono oggi nettamente più favorevoli e una buona parte dei pazienti psicotici raggiunge una certa stabilità clinica. 10. Weiss nelle sue relazioni cliniche non adottò mai il termine diagnostico di “schizofrenia” — coniato già nel 1911 da E. Bleuler — ma continuò ad applicare la precedente definizione kraepeliniana di “demenza precoce”, in accordo con la Scuola di Monaco. 11. Weiss, da questa e da altre esperienze, ebbe la conferma che pazienti schizofrenici possono sviluppare una traslazione positiva nei confronti del terapeuta. Tale scoperta, che sembrava non accordarsi pienamente con la distinzione introdotta da Freud tra nevrosi e psicosi, lo indusse ad approfondire sempre di più l’approccio fenomenologico proposto da Federn nello studio e nella cura delle psicosi, e la conseguente concezione dell’Io da lui sviluppata. 12. Sulla scia di Ferenczi, che impiegò per primo il termine introiezione, Weiss forgiò nell’articolo in questione il neologismo “introietto” salvo poi a rettificare l’uso improprio, anche da parte sua, di tale concetto e in genere degli “abusati” termini di introiezione e proiezione. Per lo psicoanalista triestino sarebbe
necessario distinguere a livello di dinamiche psichiche tra introiezione e proiezione da una parte e identificazione e de-identificazione dall'altra. (Vedi E. Weiss, Projection, Extrajection and Objectivation, «Psychoanalytic Quarterly», XVI, 3, 1947). 13. Si tratta dei disturbi affettivi o distimici da una parte e di
quelli schizofrenici dall’altra. 14. K. AsraHAM, Tentativo di una storia evolutiva della libido sulla base della psicoanalisi dei disturbi psichici (1924) in Opere, vol.I, Boringhieri, Torino 1975. 15. L'articolo apparve nel 1925 sull’«Internationale Zeitschrift fir Psycoanalyse», II, pp. 429-443. 16. E. Weiss, Uber eine noch nicht, cit., p. 436.
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17. Ibid, p.439. 18. Per ulteriori precisazioni riguardo al concetto weissiano di «passaggio attraverso l'Io» si veda l’articolo The phenomenon of “ego passage”, in «Journal of the American Psychoanalytic Association», vol. 2, 1951.
19. Per Melanie Klein l’identificazione proiettiva è essenzialmente un meccanismo
di difesa, che la mente
infantile, non
ancora
sufficientemente forte e strutturata per impiegare la rimozione, mette in atto e che si ripresenta nell’adulto in casi di grave deterioramento psichico, quando il soggetto proietta fuori di sé su un’altra persona sue parti o qualità percepite come pericolose. Tale difesa caratterizza per la Klein la posizione schizo-paranoide [vedi Note su alcuni meccanismi schizoidi (1946), in Opere, Boringhieri, Torino 1978].
20. Ci si riferisce in particolare a Introduzione al narcisismo (1914), Lutto e melanconia
(1917), Psicologia delle masse e analisi
dell'Io (1921), L’Io e l’Es (1923). 21. Vedi S. Spacat, Il contributo psicoanalitico di E. Weiss, in «Rivista di Psicoanalisi», XXVII
1, 1982.
22. Va da sé che la tiepida curiosità dei colleghi, privi sostanzialmente, per la loro formazione, di un effettivo interesse per la psicoanalisi, era in grado di incidere molto poco sul senso di solitudine scientifica di Weiss. Ben altri stimoli e possibilità di confronto ed approfondimento egli aveva conosciuto durante gli anni dei suoi studi a Vienna. 23. E. Weiss, Uber eine noch nicht cit., p. 442. 24. Vedi S. Freup, L’Io e l’Es, OSF vol. 9, Boringhieri, Torino
1977, p. 493. 25. Ibid, p. 494.
26. Vedi S. Freup, Psicologia delle masse e analisi dell'Io, OSF vol. 9, Boringhieri, Torino 1977, p. 292. 27. E. Werss, Uber eine noch nicht cit., p. 441. 28. Ibid., p. 440. 29. Vedi S. Freup, Introduzione al narcisismo, OSF vol. 7, Boringhieri, Torino 1975. 30. Il concetto di confini dell’Io fu introdotto da Paul Federn ed è strettamente connesso alla concezione dell’To da lui proposta, cui si
rifa Weiss. L’Io per Federn coincide con l’esperienza che l’Io ha di sé o “senso dell'Io” (vedi L'introduzione di Weiss a P. FEDERN, Psicost e
psicologia dell’Io, Boringhieri, Torino 1976). 31. Vedi E. Weiss, Vicissitudini degli oggetti internalizzati nella schizofrenia paranoide e nelle affezioni maniaco-depressive, in «Psiche», II 1, 1965, p. 16.
32. Ibid. 33. Si vedano in P. FEDERN, Psicosi e Psicologia cit. gli articoli: I/ narcisismo nella struttura dell'Io (1927), L’Io come soggetto e oggetto del narcisismo (1929), Differenze tra narcisismo sano e patologico (1935). 34. L’ipotesi weissiana per certi versi precorre le successive, più approfondite, deduzioni di E. Bick (vedi Experience of the skin in early object relations, in «International Journal of Psychoanalysis», 49, 1968).
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La cultura psicoanalitica
35. Vedi M. Kiein, Contributo alla psicogenesi degli stati maniaco-depressivi in Opere, Boringhieri, Torino 1978, p. 304. Z6SIDLIApIZIT 37. Vedi S. Freup, Autobiografia, OSF vol. 10, p. 128.
Anna Maria Accerboni (Italia - Trieste): Storico della psicoanalisi. Studi e ricerche sulle Origini della psicoanalisi in Italia, incentrate particolarmente sulla figura di Edoardo Weiss, fondatore del Movimento Psicoanalitico Italiano. Dipartimento di Scienze dell’uomo, Università di Trieste. Rita Corsa: (Italia - Trieste): Medico specializzando in psichiatria.
Ettore Jogan
Riflessioni sul rapporto fra psicoanalisi e psichiatria a Trieste Pensando ai rapporti fra psicoanalisi e psichiatria a Trieste, a partire dall’ingresso della nuova disciplina in Italia con Weiss negli anni Venti ai giorni nostri, ci viene subito in risalto una constatazione piuttosto amara e cioè che la psicoanalisi ha avuto nell'ambiente psichiatrico triestino un destino infelice, perché sempre oggetto di disinteresse, ostracismo o aperto attacco. Questo rilievo ci colpisce ancora di più, se pensiamo che sull'ambiente culturale letterario dell’epoca la psicoanalisi ha avuto ai suoi inizi a Trieste un’influenza molto importante ed ha rappresentato un momento di fertile incontro. Per cui fin dalla comparsa della psicoanalisi sulla scena triestina assistiamo a questo duplice e contrapposto destino della nuova
scienza: interesse, coinvolgimento,
incontro con
tutte le possibili ambiguità ed ambivalenze da parte degli uomini di cultura, e ‘disinteresse, espulsione ed attacco da parte dei rappresentanti della psichiatria ufficiale. Colpisce infatti molto il rilievo che nelle varie evocazioni storiche del periodo culturale e letterario triestino legato alla psicoanalisi (per es. Saba, Svevo; tanto per citare solo i più rappresentativi) si sottolinei e
si enfatizzi il felice momento di incontro e di arricchimento, si ricordino gli uomini di cultura importanti che gravitavano intorno a Weiss in qualità di pazienti, amici o pseudo-discepoli, presi da una specie di “mania” per la psicoanalisi, e si dica molto poco o quasi nulla del totale isolamento professionale in cui visse Weiss rispetto ai suoi colleghi medici e psichiatri. Ho avuto un colloquio su questo tema l’estate scorsa
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con
La cultura psicoanalitica
la siga Dina
Simonis,
vedova
del dott. Giulio
Simonis, chirurgo triestino, amico intimo e compagno di studi a Vienna di Weiss, analizzato anche lui da Federn.
Si può arguire da alcune testimonianze che l’ambiente psichiatrico di allora, improntato ad una rigida formazione organicistica, abbia considerato Weiss un eccentrico, interessato a problemi che non potevano avere alcuna utilità pratica immediata nell'approccio terapeutico delle gravi patologie mentali concentrate nel manicomio (Voghera). Penso, comunque, che la resistenza alla psicoanalisi di allora, da parte degli psichiatri triestini, espressa attraverso l’indifferenza e il disinteresse, fosse motivata
da elementi ben più profondi, visto che l’interesse e la ricerca psicoanalitica di Weiss, in virtù della sua formazione federniana e del lavoro svolto nell’ambito dell’ospedale psichiatrico di Trieste, era rivolto fin dagli inizi anche alle psicosi, per cui alle gravi patologie mentali, e non solo alle nevrosi, come poteva allora essere imputato al “freudismo”. La scoperta dell'inconscio e del ricco e problematico «mondo interno» fece crollare la netta distinzione e separazione fra il “normale” e il “patologico” che certamente implicava un diverso coinvolgimento del medico nell’approccio all'’ammalato e che per un organicista era una prospettiva dura da sostenere, per cui più
facile da rigettare. E possibile inoltre ipotizzare che il rigetto di Weiss e della psicoanalisi da parte dei rappresentanti della psichiatria ufficiale di Trieste sia stato anche in qualche modo sostenuto proprio dall’entusiasmo per la nuova avventura scientifica da parte dei letterati e uomini di cultura, dove gli psichiatri si videro espropriati da laici, con probabili sentimenti di gelosia, di un sapere scientifico di cui si sentivano gli unici depositari. Si confermerebbe comunque in questo contesto triestino l’osservazione di Freud (1906) che molto spesso i poeti, gli scrittori e gli artisti, attraverso le loro intuizioni, raggiungono certe verità prima degli scienziati che sono chiamati poi ad organizzarle e sistemarle. Con il trasferimento di Weiss a Roma si chiude il
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periodo triestino della psicoanalisi che comunque non lasciò traccia nella psichiatria triestina, la quale proseguì tranquillamente nei decenni successivi lungo i binari consolidati dell’organicismo più tradizionale e collaudato, con qualche rara eccezione di sensibilità verso la ricerca analitica. La partenza di Weiss da Trieste fu senz’altro determinata da avvenimenti concreti contingenti, come la perdita del posto all'Ospedale Psichiatrico di Trieste per il rifiuto di prendere la tessera del partito fascista, ma certamente aveva questa partenza anche un significato di fuga difensiva come rileva Voghera, rispetto ad un ambiente
che,
anche
se
affettivamente
significativo,
ormai era avvertito da Weiss come insoddisfacente e soffocante, perché da una parte invadente e “persecutorio” attraverso le richieste continue di amici, conoscenti,
pazienti e seguaci, nei confronti delle quali era difficile in una città relativamente piccola come Trieste mantenere una giusta distanza terapeuticamente necessaria, e
d’altra parte con scarse possibilità di crescita professionale, vista la insensibilità dell'ambiente psichiatrico che lo circondava. Del contatto di Weiss e della psicoanalisi con l’ambiente medico di Trieste restano soltanto alcune lezioni tenute alla Società Medica, poi raccolte nel libretto Elementi di psicoanalisi, mentre per esempio nessun neurologo o psichiatra triestino diventò allievo di Weiss in quegli anni. Persa l'occasione storica di incontro con la psicoanalisi nel periodo weissiano, la psichiatria triestina seguì nei decenni successivi il decorso organicista comune alla psichiatria italiana, dove probabilmente le resistenze alla psicoanalisi si basavano su fattori operanti nel contesto socio-politico e culturale italiano, come l’orientamento filosofico dominante dell’idealismo, il fascismo, la reli-
gione cattolica, e l’ostracismo da parte degli ambienti accademici e scientifici verso una dottrina non italiana (David). A questi elementi di ordine generale si aggiunse il fatto che rispetto al territorio nazionale la città assunse progressivamente un’immagine e uno status da città di provincia, in contrapposizione al ruolo precedente di importante centro economico-culturale, per cui lontana e decentrata ormai rispetto ai centri nevralgici di
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La cultura psicoanalitica
produttività e vitalità culturale. E d’altra parte la psicoanalisi italiana, quando riprese il suo cammino e la sua crescita nel periodo post-bellico, superato il periodo buio del fascismo e della seconda guerra mondiale, partì da centri metropolitani (Roma e Milano), per espandersi poi lentamente verso la periferia. La psichiatria triestina venne profondamente scossa e modificata con l’avvento del periodo basagliano negli anni Settanta, quando fu scardinato il vecchio sistema custodialistico-asilare (manicomio) con il progressivo passaggio verso una rete di servizi psichiatrici comunitari territoriali. L’esperienza triestina segna l’avvio della riforma psichiatrica a livello nazionale e ne diventa una delle espressioni più significative e rappresentative. Il possibile contributo psicoanalitico a tale esperienza rimane ancora una volta escluso, questa volta non più sotto forma di disinteresse o ostracismo, ma con un sistemati-
co e continuo attacco di demolizione nei confronti del sistema teorico psicoanalitico, la pratica psicoanalitica e la sua collocazione socio-politica. La rivoluzione psichiatrica triestina poggia su matrici culturali diverse dalla psicoanalisi e cioè parte dalla psichiatria fenomenologica, dall’esistenzialismo e dall'analisi sociologica marxista. Il nuovo corso è soprattutto un impegno politicosociale nella denuncia e nella lotta contro alcuni meccanismi sociali di segregazione ed emarginazione resi operanti attraverso le istituzioni asilari dei manicomi, dove emerge
una visione e una coscienza
sociale più
ampia dei bisogni e delle necessità della popolazione, fra cui la domanda psichiatrica, ai quali la nuova organizzazione dei servizi comunitari territoriali e la nuova operatività pratica dovrebbe rispondere in modo più adeguato, presente e capillare. E-comprensibile che una visione e una collocazione
in un contesto
sociale più
ampio delle manifestazioni psicopatologiche, della sofferenza psichica, dei bisogni presenti, delle dinamiche sociali operanti, delle risposte istituzionali, abbia trovato subito un terreno di intensa conflittualità con la tradizione psicoanalitica, legata di più all’intervento e alla concettualizzazione nell’ambito di un’area privata o microsociale.
Psicoanalisi e psichiatria
295
Risulta significativo il fatto che proprio in virtù di una visione sociale e sociologica del problema psichiatrico l'operazione di abbattimento dell’ospedale psichiatrico tradizionale, come deposito di miserie umane di un contesto sociale, sia spettata come ruolo storico proprio a uno psichiatra non analista, anzi anti-analista, com'era
Basaglia.
Per cui se l’analista può avventurarsi
relativa dimestichezza
nei meandri
dell’inconscio,
con nel-
l’affrontare gli impulsi dell’Es, la normativa perentoria del Super-io, a condividere la sofferenza dell’Io, a lavorare su aspetti più psicotici e meccanismi difensivi più primitivi come la scissione, la negazione e la identificazione
proiettiva nel contesto di una organizzazione mentale individuale, l’analoga coraggiosa avventura (con le dovute differenziazioni) riuscì ad avviare l’anti-analista Basaglia nell’ambito di una organizzazione sociale, dove mutuando la metafora
psicoanalitica,
l’Es e l’inconscio
(collettivo)
potrebbero stare per il manicomio con il suo contenuto psicotico, il Super-io per la normativa sociale e l'Io per l’ambiente sociale, in cui si esplicano le dinamiche difensive primitive di espulsione e segregazione dei propri componenti più malati e disturbanti, con lo scopo e il messaggio politico di arrivare ad un superamento di tali dinamiche primitive e difensive e perciò ad una maggiore possibilità di integrazione degli aspetti (individui) più malati nell’Io (contesto) sociale. Queste considerazioni potrebbero portarci alla ipotesi che chi per sua formazione, esperienze professionali, interesse e origine culturale è portato di più ad orientarsi e a vedere nel buio del “mondo interno” individuale, come
lo psicoanalista, riesce a vedere meno alla luce del “mondo esterno” sociale; e probabilmente potrebbe valere altrettanto il contrario e cioè che lo psichiatra “alternativo” sappia, per sua formazione e origine culturale, muoversi e vedere meglio nell’ambito del “mondo esterno” sociale e non riuscire ad adattare la vista alla diversa luminosità del “mondo interno” individuale. Se il problema si ponesse in questi termini, l’incontro fra la psichiatria alternativa avanzata e la psicoanalisi sarebbe possibile ed auspicabile, ma la questione non è così semplice e lo scambio fra i due filoni di pensiero non è per il momento possibile.
296
La cultura psicoanalitica
Basaglia si era messo in guardia fin dall’inizio di fronte alla psicoanalisi, a partire dall’analisi sociologica della realtà francese, perché la riteneva corresponsabile «come ideologia di ricambio che lascia immutata la realtà sociale», dello sfacelo e degrado della realtà istituzionale-psichiatrica in quel paese, nonostante avesse avuto la psicoanalisi in Francia uno sviluppo, un’espansione e un peso culturale generale non paragonabile alla condizione italiana. Scrive a questo proposito, riferendosi alla situazione francese, Castel, che si inseri-
sce nel pensiero basagliano: «Il mio scopo non è criticare la psicanalisi (dizione adottata dall’autore) perché così
costituita, il che significherebbe rimproverarle di essere quello che è. Le si può rimproverare invece di non avere coscienza di essere quello che è, di coltivare il misconosciuto per dare di se stessa la rappresentazione più prestigiosa, perché sciolta da costrizioni prosaiche», e ‘ ancora, «ciò che si può con ragione rimproverare alla psicanalisi non è tanto questa complicità con le strutture sociopolitiche del potere. Tanto vale rimproverare una pietra perché cade. Quanto la sua pretesa di affrancarsene, di giocare alla disinvoltura, all'autonomia, o ancora più straordinario, alla sovversione [...] Quando ricono-
scerà il misconosciuto sociale che funziona al suo interno, la psicanalisi avrà forse superato la sua malattia infantile». Se la psicoanalisi risulta veramente affetta da questo infantilismo, perciò da questa sua nevrosi, la negazione che se ne fa da parte della psichiatria alternativa presenta un’altra nevrosi: quella dell’adolescente che nel momento dell’elaborazione faticosa di una Weltanschauung e di una identità più personale accusa i genitori di non essere stati capaci di elaborare e prevedere per lui in anticipo tutte le complesse vicende psicologiche, affettive e cognitive che si trova ad affrontare in prima persona. Colpevoli di tale misfatto e cioè di non aver svolto la funzione dell’oggetto onnicomprensivo, per cui onniprotettivo, qualsiasi contributo da parte loro nel promuovere la crescita del figlio deve essere da parte dell’adolescente vendicativamente negato. Mi sembra pertinente citare a questo proposito una
recente intervista televisiva di Musatti che ricordo con le
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297
mie parole: «AI di là del destino futuro della psicoanalisi, la scoperta dell’inconscio è di tale portata scientifica che l’umanità ormai non potrà più farne a meno». Valutando la situazione psichiatrica triestina attuale si può affermare che, nel momento in cui la ricerca dell’uomo intraprende un nuovo percorso, attraverso rivoluzioni nel campo scientifico, culturale e politico, spesso sente l'esigenza di negare il sapere precedente, come momento di separazione, di individuazione e di differenziazione. Ciò vale anche nei confronti della psicoanalisi: di alcune sue scoperte e conoscenze forse non si può più fare a meno, ma si presentano dei momenti storici in cui viene avvertito il bisogno di negarle.
Bibliografia Franco e Franca Basaglia, Introduzione a R. smo, Einaudi Paperbacks 61, 1975. R. Castel, Lo psicanalismo. Psicanalisi e potere, 6191975! M. Dawn, La psicoanalisi nella cultura italiana, S. Freup, Il delirio ed i sogni nella “Gradiva”
OSE, G.
CasreL Lo psicanali-
Einaudi Paperbacks Boringhieri, 1966. di Wilbelm Jensen,
3.
VocHera, Gli anni Pordenone 1980.
della psicanalisi,
Edizioni
Studio
Tesi,
Ettore Jogan (Italia - Trieste) Primario Psichiatra all'Ospedale di Trieste e psicoanalista (Candidato della Società Psicoanalitica Italiana).
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Trieste 1918-1980 Dalla psicoanalisi alla psichiatria territoriale: possibilità e rischi di un modello integrato di intervento fra realtà interna e realtà sociale Trieste
1918:
Edoardo
Weiss,
membro
effettivo
della Società Psicoanalitica di Vienna e dell’Associazione Psicoanalitica Internazionale,
ritorna nella sua Trieste.
Vi rimarrà tredici anni, prima di trasferirsi a Roma dove ricostruirà, ma può senz’altro dirsi fonderà ex zovo (1932), la Società Psicoanalitica Italiana di cui diventerà
il primo presidente. Trieste 1980: Il 21 Aprile la delibera dell’Amministrazione provinciale sull’ “Organizzazione dei Servizi di salute mentale” afferma: «L’Ospedale psichiatrico provinciale di Trieste può cessare dalle sue funzioni e quindi essere soppresso». Due eventi dei quali Trieste è stata soltanto testimone per caso? Oppure due eventi che trovano radici nella cultura triestina? Giuliana Morandini
di genuina
radice mitteleuropea,
(1982), scrittrice
pone
i motivi
che
prepararono l’approdo delle scoperte freudiane in questa città nella “coscienza infelice”, nella sofferenza psicologica che pervade la cultura “alienata” della borghesia a cavaliere fra l’Ottocento e il nostro secolo. È veramente singolare la somiglianza dei problemi psicologici e politico-economici di quel periodo con quelli degli anni Sessanta-Settanta, che costituiranno invece l'atmosfera nella quale saranno accolte le idee innovatrici del gruppo Basagliano e che porteranno infine allo smantellamento dell’Ospedale psichiatrico. Verso la metà
dell’Ottocento
iniziava per Trieste
quella grande crisi economico-sociale che avrebbe generato gradualmente crescenti tensioni ed incompati-
300
La cultura psicoanalitica
bilità non solo con il nemico esterno, l'impero di Francesco Giuseppe, ma anche fra le stesse classi sociali ed i vari gruppi etnici che a Trieste hanno da sempre avuto cittadinanza. La costante minaccia all’unità e all'identità di questa città faceva pensare, come notava Slataper, alla continuità di un Io che appare «cedevole e fluttuante, privo di netti confini». I conflitti psicologici si mescolavano a quelli sociali e politici, profondamente condivisi dalla vasta cerchia di artisti triestini dell’epoca: Slataper, i fratelli Stuparich, Svevo, Saba, Andrea Zanzotto, Bolaffio e tanti altri. Non
era un uniformarsi per imitare una moda o una ideologia dominante, bensì un bisogno della “coscienza infelice” alla ricerca di una cura, una necessità dei conflitti sociali
alla ricerca di una soluzione. La psicoanalisi non poteva però dare risposte agli interrogativi del mondo esterno e così Weiss nel ’31 parte per Roma. Restò l’arte, la letteratura soprattutto, che, con un’ottica sempre più freudiana, non abbandonò mai l’attenzione per gli eventi sociali?. Un fatto questo che sembra quasi voler testimoniare la divergenza, reale e fittizia ad un tempo, fra le vie della conoscenza della realtà interiore e quelle della realtà sociale. L’arte sostituiva la psicoanalisi, ma sempre però con
una presenza che doveva procedere lungo percorsi propri ad evitare “malintesi” o confusione. Sui rapporti fra arte e psicoanalisi Emilio Servadio (1985), ha ricordato l’atteggiamento di Freud verso Breton, che a me sembra non un malinteso, bensì piuttosto proprio la volontà di mantenere una netta distinzione fra le strade diverse che essi avrebbero dovuto percorrere. A questo proposito mi piace anche citare un altro grande analista italiano, Piero Bellanova,
che partendo dall’arte (fu poeta futurista) approdava alla psicoanalisi, ma mai confondendo l’una cosa con l’altra. La ricerca di chiarezza trova nel pensiero del goriziano Carlo Michelstaedter la sua sintesi più efficace. Egli condannava con forza i tentativi di quelle culture che tentano di eludere il problema della sofferenza
e
finanche
della
morte,
nascondendoli
Psicoanalisi e psichiatria
301
dietro compromessi e maschere che cancellano la libertà di pensiero. Anche l’analisi del disagio della città negli anni Sessanta-Settanta traccia linee che ricordano il declino sociale e la sofferenza psicologica dei primi anni del Novecento. L'economia cantieristica e portuale, miniera produttiva nei decenni precedenti, subisce la crisi internazionale dei traffici marittimi del Mediterraneo. Il porto assiste ora ad un traffico di passaggio che non ha, come dicono Ota De Leonardis e Diana Mauri (1983) «sbocchi o effetti economici secondari di rilievo sulla città». L'industria in genere decade, affidandosi solo alle agevolazioni finanziarie e fiscali concesse, fra l’altro a ritmo alterno, per il riconoscimento di Trieste come “zona depressa” e contemporaneamente il commercio assume sempre più forme di provvisorietà e clandestinità. Il disagio coinvolge più fasce sociali, dal sottoproletariato
tradizionale,
alla
nuova
classe
operaia,
alla
vecchia piccola borghesia. Rispunta la “coscienza infelice” di una città in perenne crisi di identità, ideologica ed umana, di una città dove ogni cosa, per dirla con Slataper, è duplice o triplice. Rurale e metropolitana, laica e cattolica, tradizionale e progressista, italiana e slava, proletaria e padronale, una città e un modo di essere, la triestinità, che porta
con sé l’eterna condanna di dover comunque partire. E la dolorosa vicenda umana che Fulvio Tomizza, collocandosi nella tradizione letteraria di Svevo e di Saba, fa
vivere al personaggio de L'albero dei sogni. Sul clima della crisi economica degli anni SessantaSettanta soffia il vento dell’ideologia della contestazione globale. I problemi si riuniscono così in una globalità che se da una parte, nella ricerca causale, è garanzia di
maggiore comprensione, dall’altra, nell’intervento tecnico e nella soluzione specifica è estremamente confusiva e fonte di equivoci. Dalle lotte del movimento studentesco del ’68 e dall’autunno caldo del ’69, culmine delle lotte operaie, prende l’avvio quella battaglia unitaria per le riforme che approderà in psichiatria alla legge 180 del 13 Maggio °78. L'ospedale psichiatrico diventa la Bastiglia verso cui
302
La cultura psicoanalitica
deve marciare ogni buon militante, diventa il simbolo delle istituzioni sociali contro le quali lottare per abbatterle. La lotta al manicomio è intesa prima, più genericamente, come lotta all’istituzione psichiatrica e poi come lotta alle istituzioni tou-court. Cosicché per Mario Tommasini, in quegli anni assessore alla Sanità a Parma, la battaglia contro l’istituzione psichiatrica trova «un suo spazio e una prospettiva politica in un momento
in cui il movimento operaio arricchiva la sua esperienza di organizzazione e di lotta imponendosi come componente indispensabile per il rinnovamento democratico del paese» (1973). Nasce «Psichiatria democratica», per la quale la pratica psichiatrica non è che una copertura dell’oppressione, un controllo delle devianze sociali e la pratica psicoanalitica la forma più raffinata di tale controllo. Importiamo l’antipsichiatria di Cooper e Laing, per i quali la malattia mentale non esiste essendo solo un problema politico. In realtà gli ospedali psichiatrici non avevano mai avuta altra funzione che quella di custodia e di controllo e certo non avevano mai curato nessuno. Nati nel secolo dell'Illuminismo, portatori della speranza di dissipare le tenebre medioevali, si erano invece posti come luoghi di cecità e di esclusione senza speranza. I malati in essi ricoverati subivano, in aggiunta
all’azione disgregatrice della psicosi, la perdita totale di ogni traccia di vita, di ogni segno della propria storia, venendo ridotti a irrecuperabili relitti. Le scienze umane avevano completamente tradito la concezione del mondo come
fenomeno unitario, conti-
nuo e monistico che fin dal VI secolo avanti Cristo i filosofi greci avevano formulato. La naturale continuità fra la sanità mentale e la follia, fra il sogno e la razionalità,
fra la coscienza
completamente
ribaltata
e l’irrazionale,
in termini
era
stata
di discontinuità.
Come sapete, al tema continuità e discontinuità è stato
dedicato il VI Congresso della SPI. AI centro del grande contributo freudiano c’è proprio la continuità della quale ci ha resi consapevoli. Continuità fra l’infantile e l’adulto, fra gli elementi arcaici e quelli evoluti. A preparare il terreno di questa nuova concezione
Psicoanalisi e psichiatria
303
dell’uomo c’era stata l’audace e rivoluzionaria proposizione darwiniana, secondo la quale tutte le specie viventi avevano avuto origine da una comune matrice, posta in
una unitaria concezione del mondo organico, in una continuità che va dai protozoi fino all'uomo. La biologia aveva cioè trovato la sua unità nella dottrina dell’evoluzione, Freud la doveva poi estendere alle scienze umane, alla vita psichica, cioè alle pulsioni dell’anima, all'amore e all’aggressività, al bene e al male, in ultima analisi, alla
ragione e alla follia. Ne I/ disagio della civiltà (1929) Freud così scriveva: «Riguardo al regno animale ci atteniamo all'ipotesi che le specie più evolute siano derivate da quelle inferiori... . Nell’ambito della psiche la conservazione del primitivo accanto al trasformato derivatone è invece talmente frequente che è superfluo esemplificarla... . Nella vita psichica nulla può perire una volta formatosi, tutto in qualche modo si conserva e... ogni cosa può essere riportata alla luce». Cosicché l'eredità freudiana, divenuta anche patrimonio riconosciuto o inconsapevole della scienza psichiatrica, afferma inconfutabilmente che in ogni uomo esiste la potenzialità della follia, vale a dire che lo stesso comune terreno può generare la normalità o la follia trovandosi in circostanze diverse. Non più distinzione, non più bipolarità tra la sanità e la malattia, ed anche non più opposizione, bensì continuità fra gli stadi del processo di sviluppo che dal neonato portano all’uomo adulto. Gli sviluppi ulteriori della ricerca porteranno poi anche ad una sempre maggiore attenzione all’ambiente nel quale tale processo si svolge. Con il contributo della psicoanalisi al concetto che la patologia mentale poteva essere la risposta a carenze ambientali, si ponevano in discussione le nosografie della psichiatria classica, con il loro aspetto oggettivante e che avevano coperto la demonizzazione ancora presente verso la malattia mentale. Il senso freudiano della continuità
della condizione
umana,
contribuendo
ad
avvicinare l’uomo all'uomo, rendeva possibile quel nuovo modo dell’operare psichiatrico che riportava la storicità e la possibilità di una dimensione umana nel terribile destino del folle. La psicoanalisi, entrata negli ospedali psichiatrici,
304
La cultura psicoanalitica
tentava non solo un approccio al caso individuale per ricucire la storia del paziente e salvare la continuità della sua esistenza, frammentata sia dalla psicosi, sia dagli stessi interventi terapeutici, ma tentava anche un’opera-
zione di analisi delle istituzioni psichiatriche stesse per trasformarle e subordinarle all’intento psicoterapeutico. Si chiedeva insomma una nuova cultura psichiatrica e una nuova struttura dell'ospedale psichiatrico, un ambiente che fosse esso stesso finalmente terapeutico. Dal II Congresso della SPI (Roma 1950) usciva una mozione che sottolineava la logica custodialistica e depersonalizzante degli ospedali psichiatrici e sollecitava «un intervento psicoterapeutico per un completo recu-
pero umano e sociale di tutti coloro che sono affetti da sofferenze e disturbi sul piano psicologico». Purtroppo gli psicoanalisti che erano andati a lavorare negli ospedali psichiatrici per cambiarli ne sono poi troppo presto usciti per ritornare nel privato. Ed i Centri di Salute Mentale, che avrebbero dovuto garantire il superamento dell’ospedale psichiatrico, sono invece stati utilizzati spesso per dare una collocazione alla pletora di psicoterapeuti, in genere abbastanza sprovveduti, i quali hanno fatto proprie le regole del setting analitico,
in maniera
rigida ed acritica,
forse
anche
assumendole come proprie difese. Ma, nella terapia degli psicotici, il ricorso rigido al metodo psicoanalitico è un ostacolo piuttosto che una condizione favorente il rapporto. E così accaduto che è stata elusa la risposta proprio verso quella categoria di pazienti, gli psicotici, per i quali era originariamente nato l’impegno per una cura diversa dalla custodia manicomiale. Si assiste sempre più oggi ad una strana situazione che vede terapeuti con scarsa formazione e poca esperienza tentare di curare malati gravi, mentre i casi lievi affollano gli studi degli psicoanalisti più esperti. Oppure si è arrivati a descrivere un cambiamento
dell'utenza psichiatrica che si rivolge ai Centri di Salute Mentale e che sarebbe costituita sempre meno da psicotici e sempre più da altre categorie diagnostiche, ad esempio le nevrosi, i disturbi adolescenziali e altro. La psicoterapia istituzionale, figlia della psicoanalisi,
Psicoanalisi e psichiatria
305
ha fallito così completamente il suo compito, che doveva essere quello della trasformazione della cultura psichiatrica, quello dello sviluppo di una concezione del tutto nuova dei luoghi e dei modi di approccio alla psicosi; quello della formazione di un personale di assistenza (psicologi, assistenti sociali, infermieri) ben diversamente orientato,
quello della costituzione di équipe mediche omogenee, seriamente preparate ad affrontare i problemi della dinamica di gruppo dell’équipe stessa, e psicoanaliticamente formate per un diverso modo di ascoltare la follia. Ma non poteva che finire così, poiché per raggiungere tali obiettivi sarebbero ragionevolmente occorsi molti decenni ed invece ci siamo trovati di fronte, il 13 Maggio °78, ad una legge frettolosa, frutto di troppa ideologia, una legge che cominciava purtroppo dalla fine e non dall’inizio del processo. Una legge con la quale, senza molto riflettere, avevamo fatto nostri alcuni orientamenti
psichiatrici che avevano radici storico-sociali completamente diverse dalle nostre e nella quale soprattutto avevamo confuso alcune battaglie politiche con le esigenze di rinnovamento psichiatrico.
A questa legge, certo all’avanguardia come conquista civile e che spostava il luogo della cura dall'ospedale al territorio è seguito in molti casi un incivile intervento di dimissioni selvagge dagli ospedali psichiatrici e di rifiuto di assistenza fuori di essi. È iniziato così un processo che definirei di manicomializzazione della famiglia del malato mentale, poiché nella maggioranza dei casi tali famiglie, impreparate a gestire un peso troppo grande, hanno ripreso esse stesse la vecchia abitudine manicomiale della custodia o dell'abbandono del loro congiunto malato. Mi
preme
riprendere
però
a questo
punto
una
precisazione che ho già fatto in un mio precedente scritto (1985) e cioè che «... è anche mia opinione che un
ambiente familiare abbastanza affidabile sarebbe il luogo privilegiato per la cura dei disturbi mentali, ma la realtà è che l’ambiente familiare di un soggetto psicotico ha in genere anch’esso bisogno di cure o per lo meno ha bisogno di un appoggio particolarmente impegnativo, più di quanto lo sia lo stesso lavoro individuale con il paziente, per trasformarsi da ambiente carente, quale
306
La cultura psicoanalitica
evidentemente deve essere stato, in ambiente capace di disponibilità e di comprensione. Mentre nell'approccio ad un bambino disturbato è assolutamente impossibile prescindere dal discorso sulla sua famiglia e sulla madre in particolare, perché, come soleva dire Winnicott, non esiste la cosa che si chiama bambino se lo si considera al di fuori delle cure materne,
invece nell’approccio ai pazienti adulti è spesso al contrario impossibile il discorso con le madri per la semplice ragione che esse non sono più in grado di recuperare quella disposizione d’animo particolarissima che anche una madre con gravi disturbi mentali sa però avere di fronte al suo neonato... . Se questa capacità così straordinaria di preoccupazione materna non è più facilmente recuperabile dalle stesse madri, non credo che si possa realisticamente pretendere che la sappia esprimere l’ambiente sociale ‘7 toto e neppure quelle persone comuni che si trovano per varie ragioni a più
stretto contatto con il paziente e che in qualche modo anzi hanno probabilmente contribuito a riconfermare le carenze che all’inizio furono dell'ambiente primario». . Vorrei aggiungere che intorno al concetto di psichiatria territoriale si è fatta comunque molta confusione. Io credo che non bisognerebbe mai dimenticare che, soprattutto nella terapia delle psicosi, l’ambiente, il luogo della cura, il “territorio” è il terapeuta stesso, è il terapeuta a rappresentare lo “spazio” che dovrà saper accogliere i bisogni dei pazienti, saper ascoltare e capire i messaggi che anche la condotta più folle tenta di inviare all’altro. In questo “spazio” lo psicoterapeuta dovrà soggiornare a lungo, con alcuni pazienti forse per sempre, cercando di non fuggirne assumendo difensivamente né le vesti del politico attento solo alla realtà sociale, né le vesti del rigido psicoanalista che immerge
lo sguardo solo nella realtà interna.
E senza dubbio indispensabile che l’operatore dei servizi pubblici di salute mentale si costruisca attraverso una buona e lunga formazione psicoanalitica, ma è anche vero che qualsiasi comportamento troppo rigidamente ancorato a qualsiasi presupposto teorico si pone proprio , è DIA x . #
‘ all'opposto di ciò che può essere una psicoterapia delle psicosi.
Psicoanalisi e psichiatria
307
Così è anche indubbiamente vero che il vissuto della società verso la malattia mentale ci pone inevitabilmente di fronte a problemi sociali di grande portata, ma né la psichiatria, né la psicoanalisi possono dare risposte a questi problemi. Il terapeuta deve sì essere un attento osservatore delle implicazioni sociali che il proprio ruolo comporta, deve essere consapevole di esercitare un potere e quindi deve essere attento ai limiti che necessariamente pone alla libertà umana, ma dovrà essere egualmente consapevole che non può confondere il suo intervento con quelli dei politici rivolti alle trasformazioni sociali. Non sto proponendo un ritorno all’antico, perché anzi questa esigenza di chiarezza di uno spartiacque fra i due ruoli è proprio ciò che, dopo la promulgazione in Italia della legge 180, hanno sentito gli stessi vati dei movimenti psichiatrici innovatori. Laing ha preso le distanze da Cooper ed ha precisato che egli non aveva mai propugnato l’idea dell’abolizione degli ospedali psichiatrici e che bisogna essere più realisti e avere il coraggio di chiedersi «cosa fare quando non si sa cosa fare». Carlo Manuali, esponente di «Psichiatria democratica», afferma che l'errore più grave del rinnovamento psichiatrico italiano è stato quello di aver trasformato la malattia mentale in un problema politico e che “proletarizzare” chi soffre non aiuta affatto a cambiare la sua situazione.
Jean Oury, che non aveva mai condiviso pienamente la posizione di Guattari, alla fine di un incontro che ho avuto personalmente con lui a La Borde nell’Agosto ’85 mi ha salutato dicendomi: «Ho evitato con fermezza che l’antipsichiatria mettesse radici qui». All’enunciato fondamentale «la libertà è terapeutica» si è ora aggiunto un punto di domanda: «la libertà è terapeutica?».
Sono nate due associazioni di famiglie di malati di mente e proprio in questa città la Lista per Trieste ha
presentato al Consiglio Regionale del Friuli-Venezia Giulia una proposta per la modifica della legge psichiatrica 180, definendo il modello triestino un «mito demagogico». Anche a Roma si assiste ad una volontà
308
La cultura psicoanalitica
politica di ritorno al passato. Di contro, da altre realtà regionali vengono invece esempi che invitano a ritrovare, anche se con più realismo, l’eredità della psicoanalisi e dei movimenti di innovazione psichiatrica di questi ultimi decenni. È innegabile infatti che da questa lunga stagione di esperienze è andato formandosi un radicale mutamento della cultura psichiatrica che rende ora possibili nuovi orizzonti del sapere e dell’operare. Sarebbe una grave perdita se tutti questi insegnamenti venissero sepolti e si tornasse soltanto a studiare negli psicotici il loro metabolismo cerebrale. Note
1. Solo come dato storico, ricordo che nel 1925 lo psichiatra Marco Levi-Bianchini (Nocera Inferiore) aveva fondato una Società Psicoanalitica di cui non rimane altro che un atto costitutivo e che confluì in quella di Edoardo Weiss, nella quale Levi-Bianchini fu presidente onorario (per maggiori dettagli su queste notizie ci si può riferire al libro di Piero e Anna BeLLANOvA, Le due Gradive, vedi la bibliografia). 2. A Trieste e in tutto il Friuli-Venezia Giulia la psicoanalisi non sarà più rappresentata da alcun esponente fino a pochi anni fa e comunque a tutt'oggi questa regione resta, nella mappa psicoanalitica
italiana, un territorio solo con qualche rara presenza.
Bibliografia P. e A. Bertanova, Le due Gradive, Ed. CEPI, Roma 1962. S. Freup, I/ disagio della civiltà, Opere, vol. X, Boringhieri, Torino. G. Gato, M.G. GrannicHeDDA, O. De Leonarpis, D. Mauri, La
libertà è terapeutica?, Feltrinelli, Milano 1983. E.M. Izzo, L'eredità di Winnicott e la psicoterapia nelle istituzioni, in «Prospettive psicoanalitiche nel lavoro istituzionale», III, 2, 1985.
G. MoranpInI, Coscienza infelice nella cultura triestina fra ’800 e ‘900, Lavoro letto al Congresso del Cinquantenario della SPI, Roma
1982.
E. Servapio, Freud e Breton: storia di un malinteso, lavoro letto al Centro Psicoanalitico di Roma 1985. M. Tommasini, Prefazione a Che cos'è la psichiatria?, a cura di F. Basaglia, Einaudi, Torino 1973. Ezio Maria Izzo (Italia - Trieste): Primario Psichiatra all’Ospedale Guidonia di Roma. Membro della Società Psicoanalitica Italiana.
Luisandro Canestrini, Silvio Cusin, Paola Paulin
Il background culturale del medico triestino tra psichiatria, psicoanalisi e antipsichiatria L. Canestrini
Il nostro intervento è uno e trino; speriamo così di
vedere aperte nello stupendo manifesto di Ossi Czinner (relativo a questo congresso) qualche finestrella illuminata in piazza Grande. Siamo in tre, due triestini di nascita, e uno di cultura; dei tre uno operante in città (dopo parentesi abbastanza lunga a Milano) e due impegnati a Roma; di tre, due medici e uno psicologo; tutti e tre attivi sul terreno psicodinamico o antropologico. Ha poca importanza la presentazione dei singoli, quanto ottenere da questa successione di flash testimonianze autentiche di operatori sul campo nel loro rapporto con Trieste e i suoi molteplici problemi di identità. Ognuno di noi farà quindi il suo intervento e darà il suo contributo. Il mio riguarderà, anche per rispetto alla brevità del tempo concesso, due aspetti particolari della carrellata.
Il primo è un breve /lash storico sulla psichiatria triestina.
L’anno cruciale di nascita per la psichiatria a Trieste è il 1785. In tale anno avvengono tre importanti innovazioni: l’ospedale di Romagna (già ricovero di malati, compreso gli alienati) diventa caserma ed ospedale militare e quale ospedale generale sostitutivo viene scelto l'antico palazzo vescovile sul colle di San Giusto. Nello stesso fatidico anno viene istituito un ospedale psichiatrico nell’edificio delle vecchie prigioni all'angolo
310
La cultura psicoanalitica
di piazza Grande, vicino alla Torre dell'Orologio e dietro al Teatro S. Pietro. Sempre in quell’anno i Fatebenefratelli, presenti a Trieste dal 1625, ed ivi chiamati dalla municipalità per gestire l'ospedale di San Giusto fuori porta Cavana e dal 1627 anche l’antico ospizio della Annunziata per le malate di sesso femminile, vengono trasferiti a Lubiana per dirigere un nuovo ospedale, dove è previsto anche un reparto per malati mentali. Prima di allora gli ammalati psichiatrici erano ricoverati negli ospedali generali, come ricorda anche Attilio Hortis in un suo manoscritto su un malato mentale ricoverato nel 1435 (non si dimentichi infatti
che già dal 1420 esisteva fuori porta Riborgo l’ospedale di S. Lazzaro). Nell’Ottocento il problema psichiatrico assume nuove dimensioni. La città contava nel 1812 24.633 abitanti e diciasette medici, di cui molti operanti nell’ospedale. Sappiamo che il 21 Giugno 1830 erano ricoverati nell’ospedale generale quarantuno malati mentali, mentre nove erano prenotati (liste d’attesa anche
in tale
epoca)
e ventuno
erano
pazienti
da
osservare con particolare attenzione sotto il profilo psichico. Ma già nei primi anni del secolo XIX a Trieste si attua “l'assistenza domiciliare” ai malati di mente e il “sussidio a scopo ‘assistenziale’ ai familiari di tali cittadini. Nel 1831 tutti gli alienati si trovano riuniti nell’ospedale generale civico a San Giusto. E quando nel 1841 venne inaugurato l’attuale Ospedale Maggiore, mentre trentasette alienati restano nel vecchio ospedale, nel nuovo viene inserita una divisione per “ebeti e fatui”, che diventerà poi l'VIII Divisione (cioè un reparto psichiatrico di emergenza
e accettazione).
Negli anni ’80-’95 fervono i progetti e gli studi per il nuovo ospedale psichiatrico, con i contributi degli psichiatri G. Seunig e Luigi Canestrini, che sarà poi dal 23 Dicembre 1907 il primo direttore dell’allora Frenocomio Civico. Questo nacque sotto una tendenza protezionistica, ma fin dall'inizio prevalse un indirizzo di ospedale aperto, con permissività di fine settimana (invio
Psicoanalisi e psichiatria
pgli
a casa per il weekend) della maggioranza dei ricoverati, con la soppressione di qualsiasi sistema contenzionistico, con l’obbligo di abiti personalizzati ed esclusione di divise o pigiami, con l'apertura dell’ospedale ai visitatori e il contemporaneo ricovero anche, in reparti separati, di malati neurologici ed anziani, in modo da diversificare le problematiche e diminuire l’isolamento dell’istituzione. Ritornando al punto centrale della nostra relazione, ritengo che, a cavallo del Novecento, il primo e più forte legame esistente era tra psichiatria e medicina e che il filone di ricerca immaginato era quello di una patologia mentale organicistica. L’irrompere nella medicina ufficiale di Freud e più tardi di Weiss restò a Trieste in tale epoca un fatto culturale, certo meno
importante,
ai loro occhi, delle
ombre di Roentgen, ma la dipendenza dalla medicina viennese ne portò le discussioni, gli interessi ed anche una sicura curiosità personale. Non possiamo pensare a Ettore Schmitz, come l’unico lettore di Freud, né ad Edoardo Weiss come
l’unico cultore. E senz'altro probabile che la successiva involuzione politico-culturale abbia ridotto e reso meno appariscente e poco pubblicizzata una corrente di pensiero e di attività
psicoterapeutica
di appoggio,
certamente
in-
fluenzata dal freudismo, e sicuramente esistente negli anni Venti e Trenta a Trieste. Vorrei, se mi è concesso, dedicare un altro flash ad una nevrosi caratteristica dei triestini, quella del tempo. Mi viene in mente il mio primo incontro con Bobi Bazlen a Roma, quando, avendo riconosciuta la comune
città di origine e chiestami l’età di nascita, cominciò a riflettere se ci potevamo essere visti, verso gli anni ’29 e °30, con il sottoscritto a piedi o in carrozzella, di inverno sul canale, al riparo dalla bora. Questo atteggiamento di ricerca, di esigenza di puntualizzare nel tempo, di precisione e di evasione con la fantasia, ma proiettato al precipuo scopo di fissare poi un punto o una data sicura, per meglio assicurare al simbolico molo il proprio naviglio esistenziale è sintomatico nel mondo triestino. Il conflitto interno di displuvio etnico, di immigra-
312
La cultura psicoanalitica
zioni mercantilistiche, la stessa cultura prevalente, minoranza in uno stato forte e autoritario, il clima
pionieristico della città in rapida espansione, creavano una difficoltà evidente di identificazione e una connessa
insicurezza. Nasce così la spinta verso una fittizia collocazione nella stessa città, la lotta tra reminiscenze e
spinte ideologiche del futuro, tra ricchezze raggiunte e beneficenze agli altri, tra un collezionismo privato e un esibizionismo criticato, tra una solidità culturale multi-
lingue e un umorismo tendente all’autoderisione e commiserazione. Questo crogiuolo di motivazioni spinge alla nevrosi del tempo, alla ricerca di un momento magico di Trieste,
al rimpianto più o meno nostalgico, al pudore per nuove iniziative, al fatalismo per quanto è proibito. Lo sfogo delle nevrosi del tempo è sul piano intimistico, dove i rapporti diventano sostanziali, carnosi, morbosi, ma spesso condizionati dall’orologio del tempo e quindi temporanei, mutevoli, complicati. Metto qui fine a queste riflessioni, anche perché gli altri miei colleghi, più preparati e competenti di me vi daranno le loro interpretazioni sul mondo medico triestino a cavallo del Novecento. S. Cusin
Se c'è stato, come si è visto, un forte impatto della
psicoanalisi su un gruppo di é/te borghese intellettuale (tra l’altro quasi tutti ebrei o mezzi ebrei), al contrario sulla medicina e psichiatria triestina questo impatto è stato scarso, per non dire nullo. Anzi, si può dire che la minimizzazione di questo impatto copriva semmai delle forti resistenze. A Weiss tuttavia, questo gruppo di fedelissimi, in un certo senso fanatici, stava, come lui soleva dire, piuttosto
stretto verso la fine degli anni Venti, anche perché nella loro foga e nel loro ingenuo entusiasmo avevano superato le transenne tra paziente e analista, senza essere in grado di assumere quel ruolo, che a Weiss stava sommamente a cuore, di pazienti in analisi didattica e quindi di allievi.
Psicoanalisi e psichiatria
313
Proprio in quel periodo egli prese in analisi un giovane medico triestino che soffriva di una grave forma di agorafobia e che, stando alle sue prime motivazioni, avrebbe potuto diventare «il primo collega medico triestino». Purtroppo le sue speranze vennero rapidamente frustrate in quanto questo paziente era in contatto
con i colleghi, evidentemente contrari alla psicoanalisi, a loro rivelava quello che veniva detto durante le sedute e, a causa di questi contatti, aumentavano le resistenze. Più volte Weiss gli aveva rammentato la regola analitica di non parlarne con nessuno, ma invano. Alla fine abbandonò il trattamento. Questo medico, in fondo, faceva le stesse cose che facevano i pazienti di Weiss non medici, ma su di lui, a
differenza degli altri, egli aveva evidentemente fatto un investimento. A questo punto era prevedibile sia la delusione di uno, che l’abbandono dell’analisi da parte dell’altro. In questo caso, emblematico peraltro, ritroviamo molte delle caratteristiche della refrattarietà del medico triestino nei confronti dell’analisi, nonché l’atteggiamento ostile della medicina ufficiale che condizionava il comportamento del singolo che volesse discostarsi da questa linea di resistenza per seguire le teorie e il training analitico. In fondo questa linea della medicina triestina, in particolare di quelle specialità mediche che, potenzialmente, come la psichiatria e la neurologia potevano considerarsi prossime alla psicoanalisi, era ugualmente diffusa in tutta Italia, ma qui lo era, per opposti motivi, più pronunciata.
Da una parte a Trieste il medico, soprattutto per il suo background accademico mitteleuropeo e in particolare viennese, rappresentava una parte della classe borghese che godeva di un notevole prestigio e di preminenza sociale, basata sulla cultura scientifico-positivistica da cui derivava anche uno stile, un’etica ancora
ottocentesca in opposizione all’atteggiamento bobérzien di quell'altra élite borghese intellettuale degli entusiasti sostenitori “laici” della psicoanalisi. Anche quest’ultimi partivano da una base positivistica,
caratterizzata
tuttavia
da una
spiccata
tendenza
314
La cultura psicoanalitica
irrazionalistica, anche questa mediata dalla cultura tedesca e in cui, prima di Freud, erano apparsi i nomi di Nietzsche, di Weininger, di Marx e di Stirner.
Non risulta che dopo questa delusione Weiss avesse fatto altri tentativi del genere fino al 1930, anno delle due
conferenze
della Associazione
Medica
Triestina,
dove ancora una volta fece non solo un’opera culturale, ma anche un estremo tentativo di sensibilizzazione dei medici triestini. Nessuno tra i medici presenti dimostrò, nel senso da lui fortemente desiderato, una reale propensione; e dire
che sicuramente ce n’erano molti tra la folla che era venuta ad ascoltarlo. La sala era infatti talmente stracolma, come lui stesso ricorda nel suo Freud as consultant, che era difficile trovare un posto anche in piedi. Furono, a Trieste, queste conferenze il suo canto del cigno, anche se proprio in seguito al loro successo gli fu richiesto di pubblicarle in forma di manuale. Canto del cigno perché Trieste, dal punto di vista dello sviluppo della psicoanalisi in Italia, si rivelò per lui decisamente deludente e dopo questo estremo e infruttuoso tentativo decise di trasferirsi
a Roma, dove trovò,
quasi subito, un ambiente favorevole, allievi motivati e obbiettivamente
interessati,
come
Emilio
Servadio
e
Nicola Perrotti e quindi l’avvio della psicoanalisi in Italia. Può darsi sia stata la definitiva presa di coscienza di questa refrattarietà a convincerlo a questa fuga da Mecca a Medina. Anche Voghera avanza questa tesi, cioè la difficoltà (in effetti, come si è visto, insormontabile) di
trovare allievi passibili di un’analisi didattica, insieme all’altra, e che cioè egli non riteneva il clima giusto per il varo della psicoanalisi in Italia le discussioni dei suoi amici e pazienti nei caffè triestini. Abbiamo pensato anche che tale contrasto nel medico triestino sia collegabile ad un atteggiamento che ritroviamo anche in altri gruppi a Trieste e nella funzione peculiare della città, particolarmente nel periodo preso in considerazione, di fare da ponte tra l’Italia e il mondo mitteleuropeo. Formatasi abbastanza recentemente come città moderna in cui la peculiarità consiste in una pluralità di
Psicoanalisi e psichiatria
315
anime, il cittadino di Trieste vive tra contrasti e conflitti
interiori, ma, per converso, gode anche di una ricchezza di stimoli. Questa peculiarità è riflessa nella formazione del medico triestino che si fa portatore della cultura medico-scientifico-positivistica per essere confermato da questa nelle sue sicurezze, nei limiti della sua immagine e nella sua professionalità. Situazioni
e prospettive
nuove,
come
appunto
la
psicoanalisi, potevano essere pericolose per la propria immagine e per la propria sicurezza. Una teoria e una
tecnica che implicava un’integrazione mente-corpo rischiava di mettere in crisi la sua identità per cui era costretto a ripiegare sulle sicurezze della propria formazione e sulle certezze del ruolo professionale. Per quanto riguarda l'evoluzione successiva nel tempo al “vuoto” lasciato da Weiss nell’ambiente triestino, il dualismo tra una mentalità più rigida e una mentalità più bohérzien e il tentativo, più recente, ma che ha potuto fruire di questo “vuoto”, di sostituire all’organico della vecchia psichiatria triestina il sociale dell’antipsichiatria, potrà forse essere di qualche interesse l’esperienza di uno di noi. P. Paulin
È sempre imbarazzante parlare dei casi particolari e soprattutto personali, ma agli interventi dei miei colleghi documentati, e necessari anche alla comprensione del presente, penso che non sia del tutto inutile, quasi a corollario delle loro considerazioni, accennare a come la
triestinità e la cultura psicoanalitica abbiano determinato in me delle scelte fondamentali e strutturali, non solo
da un punto di vista professionale. Dunque la mia professione è quella di medico psicoanalista e la mia origine è la triestinità; non nel senso letterale anagrafico, ma in quello più complesso della tipicità culturale. Credo infatti che sia emblematico di una configurazione molto più vasta di quella personale il fatto che io mi ritenga triestina nonostante che, di padre dalmata cattolico e di madre ebrea lituana, io sia stata concepita a Vienna per nascere a Roma, da dove
316
La cultura psicoanalitica
trasportata a Trieste vissi gli anni più decisivi e pieni della adolescenza e della giovinezza. Situazione che nella
realtà triestina non è certo un caso raro, ma che forma la trama etnico-culturale di cui è tessuta l’identità cittadina e che veicola un carico di rappresentazioni simboliche significanti: integrazione, crescita, arricchimento. Il concetto di integrazione nella Weltanschauung triestina va intesa proprio nel senso che la storia individuale familiare porta con sé l’acculturazione con la compresenza degli elementi originari di aree diverse, senza la perdita e l'annullamento delle loro caratteristiche, nella tollerante accettazione anche di elementi antitetici, ma stimolanti, densi di valori intellettuali ed etici.
In questo riconosco il principio di mediazione che genera un dato originale ove fermenta con attività creatrice un immaginario alla ricerca costante di una propria identità, la cui identità, mi sia permesso il gioco di parole, è di non essere mai staticamente definita, ma
in perenne ricerca di una fisionomia dinamica in cui potersi senza sosta appagare. Questa situazione di triestinità culturale, da me vissuta anche in un’area familiare così divaricata, si è
consolidata nei suoi tratti distintivi, respirando l’atmosfera etnicamente, politicamente e geograficamente complessa che connota la nostra città. Ulteriore stimolo quindi per eccitare un’ansia di ricerca di identità, sofferta come motivo fondamentale,
nell’itinerario della mia formazione intellettuale e professionale. Riconosco, in questa situazione di fertile malessere, una delle spinte profonde che, facendomi oltrepassare lo stadio di un definito pensiero organicista e positivistico, mi hanno fatto approdare alla scelta della psicoanalisi, come di quella scienza in cui più specificatamente il problema dell’identità potesse essere affrontato e risolto. Vi è poi una matrice peculiarmente ambientale della Trieste dell’immediato dopoguerra in cui suggestioni, ispirazioni, fantasmi di idee e fascinazioni intellettuali mi venivano dalla frequentazione e colloquio con personaggi triestini :x toto, quali Ernesto Weiss, fratello di Edoardo, mio professore di scienze; Bruno Pincherle,
Psicoanalisi e psichiatria
5A,
pediatra e storico della medicina, cultore di Stendhal, uomo politico; Amos Chiabov, psichiatra dalla ricca e complessa personalità, di formazione psicoanalitica, e infine Umberto Saba. Sono questi i personaggi le cui discussioni, vivaci e
critiche sulla psicoanalisi, mi hanno certo approntato un terreno di coltura denso di fermenti per le mie scelte future. Dunque, triestina non di Trieste, mi sento profondamente coinvolta nella partecipazione a questo convegno con l'augurio e la speranza che esso possa servire a mettere in luce le cause della resistenza che la città sembra ancora oggi offrire al pieno affermarsi degli elementi dinamici della cultura psicoanalitica e della sua forza propulsiva verso l’evoluzione di forme più articolate della coscienza critica e del sapere tout court.
Luisandro Canestrini (Italia - Roma): Primario Neuropsichiatra Ospedale Fatebenefratelli di Roma. Silvio Cusin (Italia - Trieste): Psicologo clinico. Paola Paulin (Italia - Roma): Candidato della Società Psicoanalitica Italiana.
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Gino Zucchini
Quale psicoanalisi per quale psichiatria? (e viceversa) E stato Masino M. a indurmi a ripensare una volta
ancora alla questione. Quando
lo conobbi,
venticinque
anni fa, era un
ragazzotto che ballava seminudo sopra un tavolo del Reparto Osservazione dell'Ospedale Psichiatrico “Roncati”, di Bologna, volgendo intorno uno sguardo vuoto e un sorriso fatuo; per gettarsi poi, all'improvviso, contro
la porta che si aprisse e tentare ostinatamente una fuga impossibile. Secondo tutti i trattati egli era affetto da derzentia praecox nella sua variante più regressiva, quella ebefrenica. Si stentava a credere che avesse interrotto il liceo pochi anni prima. Noi ci rassegnammo, il collega Spadoni e io, a formulare la diagnosi che avrebbe sancito la sua “associazione definitiva all’O.P.” e il fatale trasferimento
ai reparti
cronici,
così
spesso
senza
ritorno. Facemmo ricorso a degli espedienti burocratici, alla pazienza e al Largactil. Così siamo cresciuti insieme: e mentre io percorrevo
in parallelo l’esperienza psichiatrica e il training psicoanalitico (con uno degli psicoanalisti triestini emigrati, menzionati
ieri),
Masino
attraversava
quasi
tutto
il
trattato di psichiatria (io seguivo il Bi/-Bazzi e consultavo l’Henry Ey, “organodinamica”), rompendo gli steccati diagnostici entro i quali veniva via via recintato. Una volta lo dovemmo trascinare a viva forza fuori dal bar dell'ospedale dove, dopo aver bevuto tre aranciate, aveva posto gli occhi sulla quarta bottiglietta, senza dire una parola. Al contrario parlavano, anzi
394
La cultura psicoanalitica
“agivano”, i suoi occhi, incollati sopra quell’oggetto del desiderio (o del bisogno ?); e parve che gli uscissero dalle orbite quando lo conducemmo fuori, il capo tenacemente ruotato all’indietro. Un po’ d’anni più tardi, degente nello stesso reparto, trasformato più da una nuova cultura che dalla legge, Masino sospendeva di colpo una ritrovata, parziale ragionevolezza per abbrancare con gli occhi e con le mani (mosse lentamente come una grande bocca) qualsiasi donna che si trovasse a passare nel cerchio della sua calamita. Prendeva a pugni, senza una parola, chi si interponeva. Poco dopo — negli occhi un altro stato mentale — domandava sgomento e sincero che cosa gli fosse capitato. Dopo molto tempo decidemmo di legargli le mani con un nastro, di cui egli stesso poteva agevolmente sciogliere il nodo. In questo modo, poco elegante e tuttavia efficace, un impulso consumatorio destinato altrimenti ad autoespellersi dalla coscienza, veniva interdetto e obbligato a innervarsi retroattivamente fino a diventare un evento della mente infine traducibile in parole: allora correva al telefono per chiamare la madre. Ora, ormai quarantacinquenne, e con i capelli brizzolati, lontano già dall'ospedale, è davanti a me, nel
mio studio privato frequentato con incerta regolarità. Mi domanda, per l'ennesima volta, se deve andare o no al Central Bar, dove consuma ogni giorno una aranciata,
due caffè e i pensieri della gente...Masino conosce la risposta pratica: certo che può andare — sono anni che ci va — e tuttavia insiste a domandare, segno che la domanda ne contiene un’altra ancora senza una risposta convincente.
Rifletto con lui che il Bar Centrale è effettivamente al centro della città reale, ed è posto all’inizio di via dell’Indipendenza :dunque è metafora dell’Io di Masino, al centro della città mentale, incerto tra una identifica-
zione fusionale con la madre e una iniziale indipendenza e differenziazione da essa. “La mente è la madre dei pensieri. Se perdo il bar perdo la mamma, la mente e i pensieri e divento demente”. Naturalmente quella che per me è una metafora, per Masino lo è molto di meno: i pensieri si trovano effettivamente in un concreto luogo
Psichiatria psicoanalitica
993
geografico e là vanno incontrati: i pensieri sono la gente e viceversa. Dopo Bion, Winnicott, Rosenfeld, dopo Searles o Racamier, per non citare che i primi nomi che vengono in mente, non è necessario qui spendere molte parole per rilevare che il “pensiero” psicotico non è propriamente pensiero bensì un precipitato confuso di percetti fisico-materiali (res extensa), di fantasie (res cogitans) e di parole (res /oqguens). Un vettore bidirezionale va dal pensiero “concreto” (che meglio sarebbe chiamare “reificato” o dia-bolico) al pensiero simbolico e da questo, regressivamente, a quello. Così Masino passa con defatigante disinvoltura dall’uno all’altro modo di funzionamento mentale. In queste condizioni anche le parole (e la musica) delle interpretazioni possono variamente reificarsi contro o dentro di lui o, viceversa, animare rappresentazioni significative (nel primo caso Masino se le raschia dalla fronte con un significativo gesto della mano o le evacua allo stato gassoso sollevandosi e riabbassandosi rapidamente sulla sedia). Allora gli faccio notare che intanto che è lì, davanti a me, sta già “pensando” al Bar Centrale e a tutto quello che c'è dentro e che forse mi sta proprio chiedendo questo: il permesso di pensare e di parlare. «Ah, sì?». A questo punto mi alzo accennandogli di attendere; vado di là e rientro con due bottigliette di aranciata e due bicchieri. E mentre gli restituisco, vent'anni dopo, la bibita che gli avevo vietato tanto tempo prima, Masino mi guarda
bevendo, divertito e sospettoso insieme... Nella storia di Masino, e nella mia storia con lui, psichiatria e psicoanalisi si sono di volta in volta incontrate o scontrate, convergendo e divergendo in vari modi, talora confusamente intrecciandosi, talaltra scin-
dendosi pericolosamente, intanto che intorno a noi e dentro di noi correva la storia tempestosa delle cose psichiatriche, a sua volta intrecciata nella più grande storia di tutti. Per molti anni psichiatra a part-tizze in una istituzione pubblica (che allora poteva vantare il più alto numero di psichiatri-psicoanalisti) e, contemporaneamente,
psicoanalista nel mio studio privato, mi sono
396
La cultura psicoanalitica
lungamente interrogato, come tanti di noi, incerto se fossi doppio oppure dimezzato. Più spesso l’una professione sul proprio campo reclamava l’altra come “ancilla”, finché le due identità professionali hanno finito per
convivere, io credo arricchendosi a vicenda senza farsi
troppi danni. x Quale psicoanalisi ? La psicoanalisi come teoria e pratica della relazione di significazione: la paziente e tenace ricerca di un senso laddove l’angoscia e la violenza lo mortificano: e a questa
ricerca
attraversato
si convoca
precisamente
e talora devastato
il soggetto,
dalla malattia
(che è
sempre, in un modo o nell’altro, malattia mentale).
Ciò conferisce al soggetto, o restituisce, la dignità di irriducibile e originale significatore di sé e del mondo: per ogni quantum
di significazione in più un quantum
d’angoscia in meno. Ora, se l’oggetto (qui in senso propriamente filosofico) è ciò “sopra cui” si predica con altri («Id de quo praedicatur cum altis»), e se il soggetto è ciò “con cui” si predica di lui («Id quocum praedicatur de ipso») — ciò vale anche riflessivamente all’interno di ciascuno di noi — allora la psicoanalisi è la più rigorosa delle scienze antropiche, probabilmente la sola in grado di garantire il soggetto individuale (o gruppale) dal rischio dell’oggettivazione reificante insito in tutte le scienze dell’uomo: la sola che convochi programmaticamente l’interlocutore a farsi co-scienziato. Nessun'altra pratica di scienza umana, crediamo, è in grado di articolare il particolare e il generale senza usare violenza all’uno o all’altro dei due termini del rapporto. Qui sta il rompicapo epistemologico della psicoanalisi: essere scienza (e cioè conoscenza ripetibile
e generalizzabile) dell’individuale (che è unico e irrepetibile). (E poiché la psicoanalisi è una pato-logia, e cioè una scienza della sofferenza, nessuno avrà da lamentare
che essa sia, come ogni scienza positiva, deterministica, posto che dal determinismo della negatività — la malattia, l'angoscia, la distruttività — ha tutto da guadagnare la dignità e la libertà umana. Ma questo è tema di altra discussione).
Psichiatria psicoanalitica
397
Quale psichiatria ? Anche — ma non soltanto — per effetto del rapporto preferenziale che la psichiatria intrattiene con la neurologia (come se il pensiero fosse una secrezione del cervello) la scienza psichiatrica rischia di praticarsi “sopra” il soggetto sofferente ma “senza” di lui (ciò che, prima o poi, diventa un fare “contro” di lui). Il suo apparato concettuale, recentemente restaurato e proposto per il convenzionamento internazionale (mi riferisco al D.S.M. II) con le sue duecentoventisette cifre diagnostiche, sembra più adatto a parlare sopra i malati che a comunicare con loro. E se è già dubbio che possa migliorare la comunicazione tra gli psichiatri, pare certo che non migliorerà la comunicazione tra questi e i loro pazienti. «Entia non sunt multiplicanda praeter necessitatem» ammoniva già sette secoli fa Guglielmo di Ockham, l’ultimo degli scolastici: le categorie non si devono moltiplicare più del dovuto. Una rete concettuale a > maglie così fitte sembra più adatta a intrappolare i fatti della mente che a comprenderli e, per quanto possibile, trasformarli. Ci occorre una psichiatria capace di pensare più semplicemente e più profondamente, e di “agire” con più avvedutezza. Perché lo psichiatra agisce e non può non agire, a fronte della psicosi che eccita così spesso impulsi agiti in danno del pensare (e talora del vivere stesso). E poiché sopra questo verbo c’è rischio di confusione, bisognerà chiarire che c'è un buon agire e un cattivo agire (in attesa di vocaboli più precisi) tanto da parte del paziente quanto da parte del suo psichiatra. È in questione tutta la teoria dell’actirg-owr. Dato per acquisito che esistono atti distruttivi di pensiero (gli impulsi agiti di Masino) e atti creativi di senso, occorrerà ricercare sul campo, di volta in volta,
con il singolo o con il gruppo, quali atti impedire, quali consentire, quali incoraggiare, badando a costruire situazioni ricche di “loquenza”. Abbiamo, per intanto, da evitare i modelli negativi
che sono sotto gli occhi di tutti: da una parte la reclusione manicomiale e dall’altra l'abbandono territo-
è
398
La cultura psicoanalitica
riale, due modi solo apparentemente opposti di praticare l'istituzione negata. Lasciata a se stessa la malattia mentale dei singoli o dei
gruppi
gira
occorre
distruttivamente:
vuoto
a
incontrarla, qualche volta inseguirla, spesso contenerla. E qui incontriamo la spinosa questione della costrizione alla cura. Polemicamente: lo psichiatra manicomiale, scopertosi repressore, si converte all’antipsichiatria e pratica l’abbandono consentendo il suicidio come atto di libertà (ma Wittgenstein avverte: «Se il suicidio è permesso tutto è permesso»).
La legge, ambiguamente, glielo permette, sancendo che la costrizione è un atto molto più tollerato che doveroso e statuendo che il consenso del paziente debba essere rapidamente estorto. Ciò favorisce la ipocrisia e la finzione dall’una e dall'altra parte. Così lo psichiatra negato disconferma ed espropria al suo interlocutore l’ultima dignità possibile: quella dell’odio disperato e coraggioso insieme, cui sarebbe almeno dovuto l’onore delle armi. Egli invece pratica un disprezzo che obbliga l’altro alla vergogna. (Fine della polemica). Ora nel setting psicoanalitico sono impliciti, tra le altre cose, due principi metateorici: la funzione terapeutica della libertà di espressione — di cui si è già detto anche troppo — e la funzione
disalienante
del contenimento,
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divano: se si vuol pensare e crescere bisogna pur costringersi anche a certe immobilità. (D’altronde la vita extrauterina
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I due principi sono l’uno all’altro coerenti e non possono disarticolarsi senza danno: una costrizione muta è la claustrofilia manicomiale; una logorrea nel deserto è l’agorafilia territoriale. Ci occorre un certo grado di costrizione loquente: quella stessa a cui si dispone Ulisse per ascoltare indenne il canto delle sirene. D'altra parte, per quanto ciò possa risultare imbarazzante, non c'è dubbio che il nostro Masino si
rese un po’ più libero quando ebbe le mani legate al modo che s’è detto. E forse fu anche per questo che qualche tempo dopo la sequenza
più sopra
ricordata
Masino
si presentò
Psichiatria psicoanalitica
all'incontro di aranciata tutto quello nella stanza
5590
recando lui, ineffabilmente, due bottigliette acquistate sotto casa: il Central Bar, con che c’era dentro, si andava ora trasferendo della terapia ...
Gino Zucchini (Italia - Bologna): Psichiatra. Psicoanalitica Italiana.
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Il romanzo familiare freudiano e il delirio genealogico dell’alienista: convergenze e divergenze In una lettera a Fliess del 1897 Freud stabilisce una relazione fra il mito delle origini e la paranoia e in una minuta dello stesso anno (la minuta M) fa riferimento a un «romanzo di estraneamento familiare nella paranoia». Successivamente come premessa al saggio di Rank del 1909 Il mito della nascita dell'eroe (Der Mythus von der Geburt des Helden) Freud scrive le pagine sul “romanzo familiare dei nevrotici”, generalmente ora riferito alla vita fantasmatica
del fanciullo, tema
che
ricomparirà in altri scritti freudiani, e più estesamente in Mosè e il monoteismo. D'altronde fin dagli esordi della psichiatria clinica sono state descritte sindromi deliranti tematizzate sulla invenzione di genitori diversi, il più spesso illustri, e non si contano i falsi Delfini, figli dello Czar, i Napoleonidi che hanno suscitato una eco nelle cronache, e non solo
psichiatriche, del loro Capgras pubblicavano ampi tentativi di sintesi titolo Les interpretateurs L’argomento
tempo. Nel 1910 Serieux e sull’«Encephale» uno dei più del delirio di genealogia sotto il filiaux.
ricompare
poi sporadicamente
nella
letteratura psichiatrica, talora con osservazioni interessanti, come quella per esempio di Montassut del 1934 che attribuisce al delirio genealogico un ruolo compensatorio a sentimenti
di inferiorità connessi
a carenze
familiari e affettive, o inserito in una problematica più ampia come negli studi recenti di Guyotat, sulla Mors, naissance et filiation.
è
402
La cultura psicoanalitica
Appare singolare come negli stessi anni Freud illumini la fantasia familiare del fanciullo e al contempo autori come Serieux e Capgras polarizzino la loro
attenzione sul tema familiare a livello delirante; ma il
primo tende ad indicare un immaginario tipico dello sviluppo normale, i secondi tendono invece a delimitare una forma nosografica iperspecifica. La convergenza cronologica (lo stesso Ze:tgeist?) e la divergenza di progetto sotteso sono qui accennate di
sfuggita. Ben più consistenti divergenze e convergenze ci
vengono proposte da un’analisi sia pur frettolosa dei modi di comparsa del tema delle origini in aree diverse: nello sviluppo normal-nevrotico, nell’esordio psicotico giovanile, nella strutturazione paranoiacale. Il romanzo
familiare
è una
fantasia,
diurna
e
cosciente e riguardo al delirio genealogico propone il problematico confronto fra fantasia e delirio, visto che uno stesso tema affiora in una fantasia infantile e in una produzione psicotica, e ne è stato anche indicato di entrambi il valore consolatorio. Tuttavia per dirla con Lichtemberg e Pao, la fantasia avrebbe una fuzione riparatoria in un momentaneo squilibrio del bilancio piacere-dolore; mentre la funzione del delirio consisterebbe nel tentativo di restaurare un sentimento basale di sicurezza. La diversità della funzione rende ragione di come si possa uscire con facilità e senza gravi problemi psichici da una fantasia e non da un delirio. Ci possiamo domandare se la sola operazione di fantasticare non richieda che una posizione depressiva sia attinta e prevalga abbastanza stabilmente (l’oggetto è istituito, ne dipendiamo, ne siamo separati, possiamo perderlo e quindi anche recuperarlo); il delirare invece sembra indicare il permanere prevalentemente in una vischiosa e infelicemente gestita posizione schizoparanoidea. Fantasia e delirio sulle origini propongono inoltre una serie di differenze fenomenologiche che divaricano il romanzo familiare dal delirio genealogico: l’essere nel delirio (il Wdabren) infatti altera perentoriamente il fondamento ontologico coesistentivo, con il passaggio coatto dal “poter essere con” al “dover essere soggetto a” al contrario della fantasia che può continuare a permettere un suo uso condiviso nel gioco in contesti
Psichiatria psicoanalitica
403
comunicazionali diversi, mantenendo il potenziale creativo connesso all’ambiguità. «L'illusione è ciò che manca di più agli psicotici» scrive Racamier, alludendo a quella “volatilizzazione” nello psicotico dello spazio “interstiziale” fra mondo interno
e esterno,
transizionale
per Winnicott,
che è
propriamente il luogo della fantasia e del gioco; tale volatilizzazione concorre a separare irrimediabilmente i due mondi, quello del romanzo familiare del fanciullo e quello del delirante di genealogia. Inoltre la direzione del vettore tempo (il tempo vissuto,
ovviamente)
è protesa
verso
il futuro
in una
fantasia, che se anche utilizza elementi del passato li recupera per una progettazione del futuro; nell’esperienza delirante al contrario potremmo dire che il terribile è già accaduto e il soggetto legge le nuove realtà in una
ottica precedente e cristallizzata (ad es., percezione delirante mnestica, strutturalmente così importante nel delirio genealogico). Da questi punti di vista fantasia familiare del fanciullo e delirio sulle origini appaiono addirittura contrapposti, come la materia e l’antimateria, il romanzo e l’antiromanzo. Nel nostro materiale clinico i deliri genealogici sono sembrati ordinarsi dal punto di vista psicopatologicostrutturale attorno ai due poli della possibilità delirante: quello paranoicale e quello schizofrenico, ove paranoia e schizofrenia vengono naturalmente intesi come concetti psicopatologici-limite. Abbiamo constatato che nella prima eccezione prevalevano i temi di sostituzione del solo padre e di una nascita che se pur delirante rimaneva comunque nel registro del possibile; nella seconda prevalevano i temi di sostituzione di ambedue i genitori od anche di origini extrabiologiche, o impensabili e mutevoli. La prima modalità paranoiacale appare quindi aver a che fare con oggetti stabili nel tempo, e con la capacità di perseguire obbiettivi in un itinerario a lungo termine all’interno del delirio. I personaggi genitoriali, sia quello mantenuto (la madre in genere), sia quello sostituito,
appaiono come oggetti interi. La seconda modalità, quella schizofrenica, è connotata dalla comparsa sulla scena di oggetti genitoriali con le caratteristiche dell’og-
4
404
La cultura psicoanalitica
getto parziale e/o bizzarro: clinicamente ciò si traduce in temi frammentari ed evanescenti che spesso si configurano come lampi deliranti sul quiz delle origini. Fra l’altro questa è una delle ragioni per le quali questi temi possono sfuggire in una intervista non mirata. Ricordiamo come Freud avesse individuato, fin dalle
pagine del 1909, a proposito del romanzo familiare del nevrotico, l’esistenza al suo interno di due «scopi», uno «erotico», e uno «ambizioso»; così si esprimeva Freud,
ponendoli in rapporto a fasi evolutive diverse, più maturo il primo, più arcaico il secondo. Ci sembra che il delirio genealogico nella schizofrenia attinga in fofo e solamente all’area narcisistica a cui Freud allude, in quel suo scritto, con il termine «scopo ambizioso», e che un rivolo di quello «erotico» scorra invece nella costruzione genealogica paranoiacale. Ci rendiamo conto che più che proporre una convergenza
tra romanzo familiare del fanciullo e delirio genealogico, stiamo con ciò proponendo una consonanza tra la teorizzazione freudiana di quel tempo e le osservazioni cliniche di noi psichiatri al lavoro. Se il romanzo familiare è funzionale all’interno di una linea di sviluppo normal-nevrotica, qual è il ruolo del pensiero delirante sulle origini all’interno di una linea di sviluppo psicotico? Di fatto la domanda si è prestata a teorizzazioni diverse. Al di là dell’ovvia consequenzialità tematica fra contenuto delirante e la storia interna-esterna del soggetto, alcuni psicoanalisti e psichiatri convengono sulla inessenzialità del tema rispetto al modo di essere psicotici (a ciascuno le sue fantasie prevalenti, così come i suoi deliri) in sintonia con la tradizione della psicopato-
logia generale, attenta, come si sa, più ai modi dell’Er/eben che ai contenuti
dell’Er/ebris.
Altri (da Racamier
alla Castoriadis-Aulagnier ecc.) fanno del pensiero delirante sulle origini o, con Racamier, del fantasma di autogenerazione, il punto nodale nel quale e per il quale si realizza la possibilità psicotica!. Pare quindi che il tema delle origini sia un punto ineludibile, una sorta di forca caudina sotto la quale l’individuo è costretto a passare; dopo tale passaggio non saremo più gli stessi di prima,
in direzione
normal-nevrotica
in un
caso,
in
Psichiatria psicoanalitica
405
direzione psicotica nell’altro. Sembra quindi che l’area problematica delle origini, nelle sue divergenti declinazioni, sia comunque centrale per la costruzione dell’identità normale o delirante che sia. Se quanto sopra detto andasse nella direzione del vero allora si potrebbe pensare che il vissuto sulle origini traduca la iscrizione genealogica della identità e dei confini dell’Io: in sostanza il corrispettivo diacronico di quella che è la jaspersiana Me:mbaftigkeit dal punto di vista sincronico. Ci pare importante sottolineare che nelle nostre osservazioni di psicosi schizofrenica in cui il delirio di genealogia occupava massicciamente
la scena clinica, il
tema era stato preceduto da vistose turbe dismorfofobiche. E questa una associazione che non ci è sembrata fortuita proprio nei confronti del problema dell’identità e del ruolo fondante che l’Io-corpo ha per essa. Questo ci porta a ipotizzare che uguale sia la spinta e la ferita narcisistica che muovono il lavoro della mente sul tema della propria nascita, nei tre principali modi dei quali stiamo parlando: normal-nevrotico, paranoiacale, schizofrenico-paranoideo. Ma pensiamo anche che diversa sia la struttura nell’ambito della quale questa avviene; diversa per una diversa stabilità dell’identità somato-psichica. Una soddisfacente stabilità dell’identità somato-psichica è di norma sfondo silente, come l’esperienza autopercettiva in condizioni di salute, ma può invece in altre situazioni essere, con l’esperienza
dismorfofobica, terreno di scontro e al contempo estremo baluardo, superato il quale l'immaginario psicotico può dilagare su origini impensabili. Muta in questi diversi destini il significato che diamo all'istanza narcisistica: nel romanzo familiare del fanciullo ci richiama l’uso costruttivo e coesivo che ne ipotizzano ad esempio Grunberger o Kohut; nel delirio schizofrenico risuona di più il narcisismo distruttivo nel senso della Klein e di Rosenfeld. Del resto i genitori inventati ci appaiono comunque
emblematici della non avvenuta separazione-individuazione o del tentativo di evitare la sofferenza ad essa connessa: oggetti-Sé che permettono comunque di eludere la costrizione della realtà. E da questo punto di
406
La cultura psicoanalitica
vista non farà poi una gran differenza se, come più abitualmente, i genitori immaginati sono altolocati come i re e le regine delle favole o configurano quello che Ferenezi
chiama
romanzo
familiare
di declassamento,
perché scelti fra personaggi di rango sociale inferiore. Il piccolo Eric della Klein adotta sia pur per un solo giorno dei famigli di casa Klein; e ci sembra non tanto per le ghiottonerie et sirzilia di cui poteva da loro fruire, ma perché gli permettono di continuare a fantasticare
narcisisticamente sul tema delle origini, in contrapposizione all'uso ingenuo che la madre Melania fa con lui delle conoscenze scientifiche intorno alla biologia della nascita. Da questo punto di vista ci sembra che la scelta dei personaggi del romanzo sia sempre “grandiosa” e mai declassata, qualunque sia il rango sociale che essi rivestono. Del resto, quando come in qualche nostra osservazione il delirio individua i “genitori” in persone da tempo morte o irraggiungibili perché abitanti in continenti lontani, ci pare adempiere ad una analoga funzione difensivo-oppositiva rispetto alla costrizione della realtà, con la quale ora non è più necessario confrontarci. Come si vede il passaggio da fantasia a delirio è concettualmente problematico, come lo è del resto il movimento
inverso.
Tuttavia
se
noi
alimentiamo
la
speranza che questo ritorno sia possibile, pare indispensabile che il nostro personale romanzo familiare di terapeuti abbia recuperato una coppia genitoriale sufficientemente stabile e buona in grado di mitigare l’angosciante vissuto psicosico sulle origini.
Psichiatria psicoanalitica
407
Note
1. De Martis ci ha recentemente ricordato come il romanzo familiare possa rappresentare il prototipo di ogni esperienza delirante.
Bibliografia P. CasroRIADIS-AULAGNIER (1975), La violence de L’interprétation, Presses Universitaires de France, Paris. D. De Martis (1984), Riflessioni sul romanzo familiare: prospettive
teoriche e implicazioni cliniche, in Realtà e fantasia nella relazione terapeutica, Il Pensiero Scientifico, Roma.
S. Ferenczi
(1922), Fondamenti di psicoanalisi, Guaraldi, Firenze
19758
S. Freup (1908), I romanzo familiare dei nevrotici, in Opere, Boringhieri, Torino, 1972, vol. 5. S. Freup (1897), Minuta M, tr. it. in Opere, Boringhieri, Torino 1968, vol.2. B. GRrUNBERGER (1971), Il narcisismo, Laterza, Bari 1977. ]J. Guvorat (1980), Mors, nasssance et filiation, Masson, Paris. M. KtiEIN (1920), Il romanzo di una famiglia in statu nascenti, in «Rivista di Psicoanalisi», n. 2, 1983. M. KtiEIN (1950), La psicoanalisi dei bambini, Martinelli, Firenze 1970. H. KoHur (1971), Narcisiszo e analisi del Sé, Boringhieri, Torino 1976.
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Destre, «J.Psycho-Anal.», 55, 273. P.C. RacamIeR (1980), Gl schizofrenici, Cortina, Milano 1983. O. RANK (1909), Der Mithus von der Geburt des Helden, Deuticke, Lipsia. H.A. RosenFeLD (1965), Stati psicotici, Armando, Roma 1973.
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hale.
D.W Winnicott (1958), Dalla pediatria alla psicoanalisi, Martinelli, Firenze
1975.
Arnaldo Ballerini: Psichiatra. Regione Toscana
Direttore dei Servizi psichiatrici della
Paolo Laszlo: Italiana.
Membro
Psicoanalista.
della
Società
Psicoanalitica
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Carlo Baconcini, Filippo Gabrielli Formazione psicoanalitica e istituzione psichiatrica L’esperienza che vogliamo riferire si situa nell’arco di circa quindici anni quando il clima culturale e terapeutico della Clinica Psichiatrica dell’Università di Genova, già orientato in senso psicoanalitico (ad opera del direttore e dell’aiuto, entrambi psicoanalisti), trovò sbocco assistenziale in un reparto autonomo.
Si formò in tal modo un gruppo di lavoro coeso che ha vissuto fin dall’inizio, e con gran fervore, la psicoanalisi come il modo corretto di intendere il disturbo psichico e di fornire i presupposti di un training personale e terapeutico. Ripensando, anni più tardi, a quell’atmosfera, ci sembra di intravedervi una tensione ideale di gruppo accentrata su un avvenire che dava spazio alla speranza di una terapia migliore, più adeguata, in contrapposizione a quella organicistica o esclusiva-
mente sintomatica e psicofarmacologica. Era presente una sorta di ideologia di gruppo, accentuata dal differente orientamento che era prerogativa dell’ambiente psichiatrico circostante. Per rifarci a quanto Woodbury (1967, 1969) dice a proposito delle strutture assistenziali, il nostro intendimento era quello di contrapporci al regime autoritario, caratterizzato dalla prevalenza del potere medico (e che noi identificavamo nelle istituzioni neurologiche da cui eravamo di recente usciti) e differenziarci anche dalla situazione troppo permissiva dei “dittatori folli” (ma nella quale talvolta ci parve di essere caduti) permeata da una istanza acritica alla riparazione. Eravamo orientati cioè a quello che Woodbury definisce come un regime
»
410
La cultura psicoanalitica
“parlamentare”, in cui l'approccio di tipo psicoanalitico, con la continua messa in discussione delle istanze psicodinamiche proprie e del paziente, potesse avere una funzione terapeutica. Due sono state le conseguenze di quel clima culturale: : 1) l’ambiente è divenuto un vivaio di vocazioni 0,
comunque di formazioni personali psicoanalitiche, indirizzandosi ad un’analisi personale tutti o quasi i partecipanti alla vita attiva del gruppo; 2) l'assistenza ha ricevuto, di pari passo con lo stile della formazione, un forte impulso verso l’interpretazione della psichiatria clinica in chiave psicodinamica, con predominante importanza data alla ricerca e all’ascolto di una
relazione
transfert,
duale,
innescata
e all’individuazione
dalle vicende
di un
del
possibile setting
psicoterapeutico istituzionale.
Ne sono stati i correlati una riduzione del ruolo gerarchico,
e
la valorizzazione,
di
converso,
delle
dinamiche emotive del gruppo (medico, infermieristico e, in genere,
istituzionale)
inteso, quest’ultimo,
come
cassa di risonanza dei disturbi emotivi del paziente. L’enfasi sul ruolo terapeutico dell'ambiente di ricovero, con momenti di aspirazione alla “comunità terapeutica”, faceva eco al ruolo determinante assegnato alla comprensione delle vicende storico - biografiche del paziente, dello sviluppo della sua vita emozionale e affettiva, in funzione della comprensione della patologia attuale (crisi o processo, episodio o cristallizzazione della sintomatologia).
L’organizzazione della struttura di cui facevamo parte condizionava in qualche modo la nostra esperienza: il nostro era un reparto aperto; con le prerogative didattiche e di ricerca di una struttura universitaria e con una relativa autonomia di scelta del tipo di paziente. C'era però in noi la consapevolezza di essere messi di fronte ad una
sfida, di dover inventare
un’assistenza
psichiatrica “diversa” da quella ben conosciuta delle strutture manicomiali o dei reparti neurologici. Il clima di quegli anni, con lo scetticismo che circondava la
Psichiatria psicoanalitica
411
psicoanalisi, e con le nostre aspettative, contribuivano a creare una sorta di atteggiamento difensivo nei confronti del mondo esterno. Questa fuga nell’idealizzazione del possesso futuro di uno strumento terapeutico privilegiato, la nostra idealizzazione come operatori, la sensazione di isolamento, in parte difensivo, in parte basato su elementi di realtà, faceva sì che si creasse nella nostra
struttura una sorta di “holding nell’holding”', nel senso che l'istituzione assolveva alla funzione di guscio protettivo nei confronti del terapeuta e questi, di rimando, l’assolveva nei confronti del paziente. La constatazione che l’esistenza dell’istituzione di per sé contribuiva a porci al riparo da angosce persecutorie e depressive, non
era sufficiente ad evitare il rischio di riproporre una situazione di doppio rapporto diadico-fusionale, rischio che — come afferma Gaburri (1971) — esiste anche nel
caso di «istituzioni nuove programmaticamente impostate in maniera non manicomiale». Una spia di queste dinamiche regressive si esprimeva concretamente ad esempio nella difficoltà a dimettere il paziente, con l’accentuazione del nostro “voler tenere dentro”, in cui fantasie di rigenerazione di una terapia idealizzata colludevano e si rinforzavano nella sfiducia e negazione delle capacità riparative altrui. Analogamente, l’allontanamento del paziente dalla nostra istituzione, alla ricerca di altre soluzioni terapeutiche, veniva vissuto come un abbandono, e spesso comportava massicce risposte di ferite narcisistiche improntate alla negazione ed al disconoscimento, piuttosto che alla elaborazione della perdita. Tuttavia ci sembrava che le nostre capacità di crescita e di “comprensione” delle richieste del paziente, progredissero in parallelo con il compimento della nostra
analisi personale;
ciò consentiva
atteggiamenti
più realistici e più “depressivi” nei confronti delle nostre mire terapeutiche, traducendosi con il tempo in una maggiore accettazione della nostra limitazione a guarire e nel valore positivo di una riparatività parziale. Anche l’attenzione sull'efficacia dello psicofarmaco, un tempo investito di aspettative magiche, sembrava ora spostarsi dalle risposte tecniche e di incidenza sintomatica alla comprensione delle richieste transferali del paziente. Ciò
è
412
La cultura psicoanalitica
non deve meravigliare, perché in fondo si trattava di recuperare e mettere a confronto gli elementi soprattutto fantasmatici che stavano dietro agli strumenti adoperati nella relazione, con uno sforzo tutto teso a “capire” che cosa succedeva nel rapporto col paziente. Sotto questa prospettiva, si potrebbe pensare che non avessimo fatto altro che sostituire all'uso onnipotente dei mezzi tecnici e farmacologici dello psichiatra organicista, la nostra onnipotenza di comprensione, rivolta non tanto alle necessità di trasformazione del paziente, quanto ad una sorta di compiacimento narcisistico di “aver capito tutto”. In sostanza non avremmo fatto altro che parafrasare
un ben noto detto per riformularlo così: «dove c’era Es del paziente ci sarà l’Io del terapeuta». Se dunque lo strumento psicoanalitico del capire veniva da noi adoperato con tutti i limiti e le competenze derivanti da una certa preparazione, la difficoltà sorgeva quando si trattava di trasformarlo in uno strumento per agire. E le sollecitazioni ad agire in un ambiente istituzionalizzato non fanno riferimento solo a richieste di realtà della vita del paziente (come la necessità di brevi degenze, le aspettative medicalizzate del trattamento, il ripristino di un inserimento sociale) ma anche alla incombente necessità che avverte il terapeuta di dover scegliere gli strumenti più adeguati per incidere psicoterapeuticamente alla maniera più efficace e nel minor tempo possibile). C’è un’urgenza ricostruttiva che spesso è in contra-
sto col nostro atteggiamento di aspettare e vedere per capire; un’urgenza che al tempo stesso sollecita e favorisce un recupero parziale delle potenzialità del paziente e del terapeuta. Vogliamo dire con questo che il momento di regressione costituito dal ricovero appare al terapeuta come una condizione di gravità che va contenuta e superata al più presto, in parallelo alle richieste di recupero che il terapeuta sente dentro di sé e
che comunica al paziente. Esisterebbe, sia pure nell’ottica dell'economia regressiva del ricovero, una sorta di progettualità inconscia che fa sì che il paziente possa identificare proiettivamente nel terapeuta un ruolo salvifico con funzioni residue di rianimazione, attribuen-
Psichiatria psicoanalitica
413
dogli una veste di figura genitoriale riparativa che egli non è stato più capace di ritrovare all’esterno. Di fronte al crollo dell’edificio psichico del paziente quale è l’evenienza del ricovero, ; terapeuta viene sollecitato a fornire risposte ricostruttive immediate e urgenti che non possono limitarsi al solo riconoscimento dei mattoni di cui è costituito l’edificio sgretolato, ma sono in qualche modo proporzionate alla vastità e alla celerità con cui la distribuzione è avvenuta. Da questo punto di vista l’istituzione con ricoveri a breve o medio termine,
proprio perché mette in atto con immediatezza dinamiche riparative ed è fermamente agganciata al test di realtà del mondo circostante, può avere il vantaggio di favorire un recupero parziale delle potenzialità del paziente in tempi relativamente ridotti. Siamo ben lontani dal credere che il ricovero sia l’aspetto più importante della relazione, dovendo rappresentare un momento
transeunte all’interno di una presa in carico;
esso però può fornirci importanti dati psicodinamici per capire meglio le istanze più regressive e darci poi l'opportunità di impostare un programma di lavoro terapeutico.
Dei vari problemi che si prospettano in ambiente psichiatrico ad indirizzo psicodinamico vorremmo prendere in considerazione due punti in modo più dettagliato. 1) La formazione psicoterapeutica e,
2) Il tentativo di costruzione di un setting psicoterapico all’interno di un’Istituzione psichiatrica. 1) La formazione psicoterapica Poiché ben presto tutti i membri dello staff erano in analisi personale, l'enfasi del trattamento risultò sugli aspetti psicodinamici, venendo nel contempo riservata minor importanza ad un uso esclusivo della psicofarmacologia. Come è ovvio anche gli psicofarmaci venivano usati, ma si riteneva di poter controllare meglio attese magiche, insite nel ricorso al farmaco, di effetti risolutivi,
di guarigione,
o
di ruolo
distanziante,
fuorviante,
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La cultura psicoanalitica
seduttivo o manipolativo presente nel ricorso ad un mezzo fisico esterno al rapporto.
In un reparto con indirizzo psicodinamico la relazione terapeutica fin dagli inizi del trattamento è impostata sulla presa in carico uno a uno e l'assegnazione del paziente tiene conto solo relativamente della giovane età o della relativa inesperienza del curante (spesso specializzando dei primi anni di psichiatria). La realizzazione infatti del rapporto è considerata fondata sui contributi individuali di quella coppia, sulle qualità terapeutiche innate (spesso una v/s curandi è più intensa nel neofita), sulla vocazione e curare, sulla disponibilità e capacità all'accettazione, all’ascolto, sull’elaborazione degli aspetti transferali e controtransferali del rapporto. Momenti formativi, allargati a tutti i partecipanti al gruppo di discussione, sono quelli realizzati nel lavoro di supervisione che svolge contemporaneamente una funzione di relativa “protezione” nei confronti di particolari responsabilità (dimissioni, decisioni amministrative, cambiamenti di terapia farmacologica ecc.) e di coinvolgimenti emotivi incontrollati e disordinatamente disturbanti. Tale assetto non è ritenuto sufficiente, specie in assenza di analisi personale, a conseguire gli strumenti necessari a recepire ed affrontare la dimensione inconscia ma è il clima idoneo a dare testimonianza del suo valore e della sua esistenza, a fare maturare le motivazio-
ni a comprendersi e comprendere. L’approccio col paziente, sia pure con il filtro della supervisione, è ancora abbastanza caldo da “scottare”. Non si riesce ad evitare di entrare in sintonia, emotiva “perturbante”, in risonanza o infine in collisione, con patologie (o nuclei conflittuali) affini, complementari o discordanti con i propri, col dramma della cronicità, della sofferenza, con domande (solo transferalmente motivate) largamente eccedenti le risorse individuali, di conoscenza, comprensione, tolleranza. Tutto ciò mettendo nella necessità di sperimentare emozioni, limiti,
bisogni
evocativi
delle
proprie
individuali. difficoltà,
esperienze, vicende infantili. A loro volta, le reali limitazioni dell'ambiente familiare, sociale, lavorativo e
quelle delle strutture assistenziali psichiatriche costituiscono un polo di “realtà” con cui devono confrontarsi i
Psichiatria psicoanalitica
415
vissuti e le vicende emotive della relazione terapeutica. Nel consentire l’incontro tra specializzandi relativamente inesperti e pazienti relativamente gravi, non c’è
tanto la convinzione che non si possa evitare agli iniziati il “battesimo del fuoco”, quanto l’idea che non sia possibile posporre l’incontro, in psichiatria, col problema
del “simmetrico”
(l’altro
che
fa da specchio
al
terapista). Si incontrano così in ogni momento sentimenti di segno doloroso, depressivo, sensazioni di impotenza, paura o colpa o sensazioni, al contrario, di transitoria
euforia o compiacimento che nascono dal contatto con fantasie psicotiche. Si sperimentano compartecipazioni (di sapore pervetso) a costruzioni deliranti psicotiche, si avvicinano, con la legittimazione dei motivi terapeutici, fantasie proibite di morte e suicidio. Esperienze di euforia e grandiosità, di salvazione e rigenerazione sono inevitabilmente presenti in qualunque momento il contatto si realizzi con i tentativi eroici o
mistici del paziente di risolvere le proprie catastrofi. In questo senso è certamente lo psicotico che evoca la maggior parte di queste emozioni, compresi il piacere e l'imbarazzo della fusionalità, della complicità nelle collusioni perverse (intimidatorie-ricattanti); mentre è più probabile sperimentare col paziente depresso oblatività riparativa o salvifica, o la distanza raggelante della negazione.
Tali realtà clinicamente innegabili risultano offerte alla comprensione prima ancora che alla terapia. Scaturisce da tutto questo la convinzione che il paziente diventi “altro”
del rapporto,
divenendo,
anche,
riscontro
e
confronto per il terapista agli effetti della rievocazione e risonanza delle proprie strutture e vicende psichiche. Analogamente la relazione fa riferimento ad una intenzionalità di presa in carico stabile poiché il rapporto transferale non può facilmente essere disconosciuto. I motivi dell’interruzione del rapporto o il suo fallimento passano attraverso il riconoscimento anche dei propri limiti e i motivi del proprio “rifiuto” del paziente.
Assumere in terapia il paziente, in queste condizioni, coinvolge a livello profondo la disponibilità a funzionare come genitore in posizione depressiva, accettando il
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La cultura psicoanalitica
figlio diverso da come lo si sarebbe voluto. L'assetto psicoanalitico applicato alla clinica psichiatrica scoraggia l’adozione immediata e automatica nel curante delle difese premature consentendo il mantenimento di una vicinanza emotiva che fa riferimento alla persistenza del rapporto duale. Le emozioni sperimentate possono essere, al contra-
rio che agite, recuperate in relazione alla percezione di proprie “mancanze”,
smo
“insufficienze”,
paura e pessimi-
“interni”, piuttosto che giustificate sulla base di
adeguate e motivate
circostanze
reali (per esempio
in
base al giudizio diagnostico-prognostico). Alle difficoltà reali corrispondono vissuti di difficoltà interne cui può tentare di sopperire una maturazione, una ricomposizione interna, cosicché il fatto esterno torna a divenire (anche) una vicenda psicodinamicamente rilevante del
curante. Un tale orientamento può essere nell'immediato scontato attraverso un’apparente astensione, perplessità, ricerca di orientamento, ma il risultato a lungo termine è sperabilmente quello di garantire un progressivo affinamento di capacità e qualità terapeutiche dei curanti. Quello di tentare di ricavare un setting compatibile con le aspirazioni psicoterapeutiche e con il contratto “medico” che ispira l’assistenza di qualunque tipo. Il primo punto è quello di ridurre gli aspetti più vistosamente interferenti in senso negativo con la presa in carico individuale: pensiamo per esempio alla rinuncia al “giro” di reparto quotidiano basato principalmente sul controllo sintomatico e farmacologico, l’effetto taumaturgico suggestivo, la trasmissione
e la comunicazione
delle normative del reparto. Tale giro medicalizzato è sostituito nella sostanza dai colloqui quotidiani individuali dei vari curanti con i propri pazienti e in una discussione allargata ai supervisori anziani. Tutto ciò comporta la riduzione del ruolo delle decisioni autoritarie e verticistiche che lasciano poco spazio alla condivisione e alla discussione. Il tentativo di decodificare il senso della gerarchia ne consente spesso un recupero in termini di “buon senso” nel significato doppio di senso “comune”, ovvio, e nel significato di senso “buono” in cui c'è una convergenza di intenzioni costruttive: la
Psichiatria psicoanalitica
417
gerarchia bonificata dalle valenze sadiche (gli aspetti impositivi, vessatori) è investita di significati normativi e di aiuto attraverso un’adesione collaborativa. Il setting di cui parliamo è ricavato all’interno di quello medico consensuale (“un setting nel setting”) già esplicito nei ruoli medicalizzati dell’istituzione curante. Le aspettative mediche del rapporto si muovono secondo le modalità della tradizione medica con i suoi risvolti di doveri-diritti (al bisogno corrisponde l’assistenza, alla malattia l'ipotesi di cure e guarigione, al ricovero la possibilità di dimissioni). Entrambi medico e
paziente, rivendicano nel contesto medico, il diritto in ogni momento
(e soprattutto nel contenzioso terapeuti-
co) di appellarsi al contratto medico. Il setting psicoterapeutico risulta costruito pezzo per pezzo all’interno di quello medico ed è il risultato di una sistematica massima trasgressione consensuale agli angu-
sti confini
della logica medico-somatica
verso l’introduzione
di una dimensione
tradizionale
(tridimensiona-
le) fantasmatica inconscia. Per esempio ogni volta che il paziente esprime una domanda o comunica un sintomo (psichico od organico) il credito prioritario (anche se non sempre attuato) verrà concesso all’ipotesi di malattia
organica o di “sindrome psichica”, o che più semplicemente il paziente non ce la faccia da solo. Ma ogni volta verrà anche fornito credito al paziente che voglia fare un passo verso la comprensione di sé nell’interesse superiore di una conoscenza consapevolizzante e dell’acquisizione di autonomia. Ogni volta viene concesso al paziente tempo e opzione ad ingaggiare, riprendere o continuare, col terapista un lavoro di comprensione per modificarsi e che travalica, chiarisce e decodifica il senso, prima solo concreto, della richiesta, della lamentela, della cura somatica. Occorre ovviamente conquistare e accrescere la collaborazione del paziente al mantenimento del setting: una collaborazione che si fonda su parziali rinunce da parte del paziente ad invocare per i suoi disturbi motivi esclusivamente reali, fisici, ambientali e, da parte del
curante, la continua rinuncia a tecniche esclusivamente medicalizzanti, razionalizzanti o rassicuranti.
Come si vede il discorso non risulta sostanzialmente
14. La cultura psicoanalitica
418
La cultura psicoanalitica
diverso da quello di una psicoterapia psicoanalitica. Ciò
che per il paziente in trattamento psicoterapeutico sono
le difese è per il paziente la convinzione di avere (e il bisogno di ricorrere ad) una malattia “nervosa” bastante da sola a giustificare le richieste di aiuto e a pretenderne l’esaudimento. ì Per concludere, ci pare che il contributo psicoanalitico consenta l’indiscutibile vantaggio di inscrivere la sofferenza del paziente all’interno di un codice inconscio transferale, potendogli di rimando offrire l’occasione di decifrare alcuni dei più importanti eventi all’interno della relazione. L'area in comune è quella della patologia che il paziente riesce a mettere tra sé e il terapeuta, in termini di rapporto emotivo interpersonale. Quest'area, conquistata al rapporto, ci sembra simile ad una regione disboscata (e che si spera di destinare alla coltivazione)
anche se confinante con aree selvagge con le quali, soprattutto nella patologia psicotica, occorre fare i conti: i confini sembrano consistere da un lato nel rapporto perverso tossicomanico, dall’altro nella regressione maligna, nel transfert verso l'istituzione, o infine nella barriera dell’ipocondria delirante. Lo spazio coltivabile, all’interno dei confini descritti, è quello della relazione che ha possibilità maturative e di cambiamento, in cui si sviluppa la dinamica dei rapporti e la rappresentazione-ricapitolazione delle vicende psicopatologiche e psicoaffettive del paziente. Gli apporti psicoanalitici non appaiono solo limitati all’evidenziamento e alla elaborazione di un’area terapeutica: essi costituiscono anche lo strumento per un
lavoro di frontiera, per allargare via via i confini del territorio bonificato che consenta di cimentarsi con zone ancora impraticate.
Infatti dinamiche
la comprensione
dei
casi
difficili,
delle
istituzionali, delle aree cieche dei curanti,
rende indispensabile il ricorso ad uno strumento di ricerca e di elaborazione continua che sposti progressivamente più avanti i limiti terapeutici propri e quelli delle aree esplorate. L’apporto psicoanalitico costituisce il fondamento
di uno
stile
di lavoro,
di un'etica
terapeutica fondata sulla riparatività e al tempo stesso sulle proprie capacità di alimentare la speranza.
Psichiatria psicoanalitica
419
Note
1. Vedi Berti-Ceroni, 1981.
Bibliografia AA.VV., Psicoanalisi e istituzioni, Monnier, Firenze 1978.
a cura
di Franco
Fornari,
Le
G. Berti CERONI, Prassi della psichiatria generale e psicoanalisi, in «Riv. di Psicoanalisi», XXVII, 2, 1981. E. GaBuRRI, Rapporti diadici e triadici all'interno di gruppi istituzionali psichiatrici, in «Riv. di Psicoanalisi», fasc. unico, 1971. M.A. WoopBury, Objet relations in the psychiatric hospital, in «Journal Psyco-Anal.», 48, 83, 1967. M.A. WoopBury, L'équipe come fattore terapeutico, in «Psicoterapia e Scienze Umane»,
8-9, 43, 1969.
Carlo Baconcini: Psicoanalista. Membro della SPI, docente Clinica psichiatrica di Genova. Filippo Gabrielli: Prof. associato di psicoterapia Clinica psichiatrica, Università di Genova.
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Giuseppe Berti Ceroni, Filippo Marinelli Operatività psichiatrica territoriale e conoscenze psicoanalitiche A molti di voi che siano, oltre che psicoanalisti,
anche psichiatri, sarà capitato sott'occhio recentemente un dépliant illustrativo di un farmaco usato nella terapia di alcune sindromi psicorganiche, in particolare nelle persone anziane: nel frontespizio si può ammirare una sequenza fotografica, come nella pellicola di un film, del viso di Sigmund Freud nel corso di tutta la sua vita, da quando era un giovane medico dotato di brillante intuito, a quando, vecchio e minato dal male che da anni gli corrodeva il fisico senza scalfirne lo spirito, lasciava presagire la morte imminente. Ci piace considerare questo ambiguo omaggio al padre della psicoanalisi emblematico di quanto essa, non potendo più essere passata sotto silenzio dalla cultura medica ufficiale, possa essere da questa misconòsciuta per scopi consumistici che ne stravolgono il reale significato. In termini psicodinamici, azzardiamo l’ipotesi di un reinvestimento sul soma (l'incentivazione all’uso del farmaco rivitalizzante) di ciò che precedentemente era stato scisso
dalla mente (degli psichiatri) come perturbante. Un meccanismo simile, come si sa, è alla base della ipocondria: un misconoscimento rischia quindi se attuato in modo massiccio, di continuare a far pesare ancora la psicoanalisi indigerita sullo stomaco degli psichiatri senza che questi possano comunque liberarsene. Ci riferiamo naturalmente alla psichiatria accademica italiana o a parte di essa, il cui tardivo tentativo di inglobare la psicoanalisi nel proprio bagaglio culturale alla stregua di altre teorie, in nome dell’eclettismo e della
422
La cultura psicoanalitica
tolleranza intellettuale, mostra quanto essa sia ancora ben lontana dal comprenderne, più che i contenuti, il significato più profondo di strumento utile a costruire una teoria generale del pensiero. In realtà, più efficacemente di quanto si possa attribuire a questi riconoscimenti ufficiali, la cultura psicoanalitica ha informato di sé il pensiero e la prassi psichiatrica con i mezzi a lei peculiari, sollecitando la curiosità e la disponibilità a conoscere i meccanismi di funzionamento della mente e a sviluppare la capacità di ascoltare con reale attenzione le comunicazioni esplicite od occulte dei pazienti. Crediamo di poter affermare che ad essa non siano rimasti estranei neppure molti di coloro che, con giustificazioni ideologico-politiche o con accuse di non scientificità, hanno creduto opportuno rifiutarla in blocco; tranne
poi, nella pratica,
utilizzame
in modo
talvolta
incongruo alcuni modelli (vedi ad esempio la rapida fortuna che ha recentemente incontrato la formula bioniana
contenitore-contenuto,
indubbiamente
evocatrice
di
affascinanti suggestioni, ma in realtà di non facile comprensione per gli stessi addetti ai lavori). Se ricordiamo il modo del sorgere della psicoanalisi e del suo evolversi durante tutta la sua storia, notiamo come caratteristica costante un continuo movimento bidirezionale tra fuori e dentro, esterno ed interno, oggettivo e soggettivo, tra ciò che vorremmo mantenere
al di fuori di noi e che invece dobbiamo riconoscere anche nostro e viceversa quello che ci piacerebbe vedere nostro e ci tocca riconoscere altrui. Così dallo studio dei fenomeni isterici e del significato dei sintomi Freud, e non Breuer, tollerò la necessità di esplorare se stesso con l’autoanalisi e l’interpretazione dei propri sogni; dalla prima teoria della seduzione e del trauma giunse alla conoscenza delle fantasie infantili come vera causa nei conflitti
nevrotici;
transferali
all'uso
dal
riconoscimento
dei controtransfert
dei
fenomeni
come
prezioso
strumento terapeutico. Tutto questo nel riconoscimento
che quanto più siamo disposti a tollerare nella propria mente
quanto
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di più inquietante
e
distruttivo, tanto maggiore diventa la nostra capacità di tollerarne l’esistenza negli altri, e quindi di renderlo loro più tollerabile ed esprimibile; e nel contempo ci
Psichiatria psicoanalitica
423
permette il faticoso approdare all'autonomia dell’oggetto a dispetto delle nostre fantasie onnipotenti. Così, ripercorrendo la storia della utilizzazione del patrimonio teoretico della psicoanalisi da parte della cultura psichiatrica, ci accorgiamo come anche in essa si riproponga la stessa tendenza. Inizialmente infatti il contributo della psicoanalisi ha trovato una prima collocazione alla stregua di una delle possibili metodiche terapeutiche, magari più originale e stimolante di altre ancorché macchinosa e poco agibile, nel campo delle nevrosi, producendo una proliferazione di prassi terapeutiche che ai suoi principi si sono variamente ispirate. Imposta come
psicologia “del profondo”, raffinato strumento di osservazione del malato, anche le sue “parole chiave”, come “Inconscio”, “Super-i0”, “Rimozione”, “Pulsione istintua-
le” e via dicendo hanno esercitato un indubbio fascino in un ambiente culturale da troppo tempo in attesa di stimoli nuovi, ormai perdente rispetto alla sua ricerca neurobiologica sul piano dell’organicismo, e modificato da pratiche assistenziali
certamente
utili, ma
frustranti
se in esse
dovesse identificarsi ed isterilirsi l’agire psichiatrico. Tuttavia una psicoanalisi intesa in modo così riduttivo, depositaria di attributi diagnostici minacciosi quanto potenzialmente intrusivi, ha dato luogo comprensibilmente ad attacchi di ogni
tipo,
vuoi
apertamente
aggressivi,
vuoi
più
sottilmente fuorvianti da un lato critiche invidiose dirette a quella ristretta “cerchia di iniziati” dediti alla cura di frutti privilegiati nel loro ricco orticello, incuranti dei problemi della fame nel mondo; dall’altro sollecitazioni solerti, sul
versante della idealizzazione, a proporsi come forza trainante per liberare il “buon” istinto dell’uomo dalla pania di una norma sociale repressiva nei confronti di una sessualità altrimenti priva di colpa: in ogni modo riportando ancora una volta la causa di tutto all’esterno, alla
famiglia ed alla società, nel tentativo di disconoscere il “doppio” aggressivo, perturbante, di ogni singolo indiviuo. Se nella società contemporanea simili equivoci sulla psicoanalisi trovano ancora una certa fortuna, è da riconoscere invece che nello specifico della pratica psichiatrica più colta si sono diffusi con una certa facilità, non solo grazie ad una indubbia carica suggesti-
424
La cultura psicoanalitica
va, ma, come veri e propri organizzatori di una reale crescita culturale, concetti e modelli in essa e da essa sviluppatisi più di recente; ciò soprattutto come proces-
so di approfondimento critico sulla natura del setting, per come si viene a strutturare nel corso del processo psicoanalitico e per la sua importanza nel capire le dinamiche più profonde che si svolgono al suo interno. Ed è attraverso il settizg, come vedremo, che si va d’altronde precisando il limite della realtà nella propria onnipotenza narcisistica.
Tra le cause che hanno favorito questa attenzione dobbiamo indubbiamente mettere in rilievo la situazione venutasi a creare in Italia dall’introduzione della nuova legislazione psichiatrica: l'abolizione forzata di una difesa sociale massiccia e globale come quella rappresentata dal manicomio, vero e proprio confine di definizione della follia, riportando questa all’interno della società, ‘ ha posto gli psichiatri di fronte alla necessità di elaborare nuovi modi di farvi fronte. Alcuni strutturando nuove difese ancor più patologiche, quali il rifiuto di considerare la follia come un problema psichiatrico, ma solo politico o sociale; o creando nuove forme di segregazione sul territorio, o scaricando sulle famiglie colpevolizzate dei malati la responsabilità del contenimento delle loro angosce. Demandando ad altri cioè la funzione di contenimento e di confine. Altri, invece, posti di fronte al “matto”
senza una
rassicurante definizione edilizia di questi, hanno avvertito l'esigenza di sviluppare in se stessi quella capacità di dialogo, di accoglimento, di tolleranza esente da masochi-
stica passività, che permettesse di integrare la follia nel sé, ancor prima che nella società. Questo, non solo attraverso la creazione delle cosiddette strutture intermedie, ma
soprattutto attraverso una formazione culturale ed emotiva personale che permettesse di utilizzare consapevolmente in
primo luogo se stessi come strumento terapeutico, ancor
prima dell'intervento farmacologico. Di qui, la necessità di una maggiore consapevolezza di se stessi e delle proprie dinamiche interpersonali per poter tollerare il maggior peso emotivo che tutto ciò comporta. Scriveva Winnicott nel lontano 1947: «I malati di mente rappresentano sempre, inevitabilmente, un fardello
Psichiatria psicoanalitica
425
emozionale pesante per chi li assiste... Per aiutare lo psichiatra, lo psicoanalista non deve studiare per lui soltanto gli stadi primitivi dello sviluppo emozionale dell’individuo ammalato, ma deve pure studiare la natura del fardello emozionale di cui lo psichiatra si carica nello svolgimento del suo lavoro... . Qualunque sia il suo amore per i pazienti, egli non può impedirsi di odiarli e di temerli, e più se ne rende conto meno lascerà che odio e timore deformino ciò che fa ai suoi pazienti...». Non c’è psichiatra che possa non sentirsi a lui grato per queste parole. Non essendo la capacità di contenimento estensibile all’infinito, facilmente si può reagire con un rifiuto, spesso inconsapevole, a farsi “occupare” senza limiti. Il paziente che non guarisce, che non evolve, che ci occupa in permanenza chiedendo solo di essere contenuto, o mantenuto, rischia, a
breve o lungo termine, di trasformarsi in una presenza frustrante, opprimente, cattiva: qualcosa che può indurci al rigetto, all'espulsione o, al limite, alla fuga, anche fisica.
A questo proposito, merita un accenno, che certo andrà approfondito, l’eventualità che varianti tecniche della psicoterapia analitica che prefigurano il limite e la fine (psicoterapia “focale”, o “breve”) nella loro stessa defini-
zione, pur nascendo dalla apparente preoccupazione di elevare la potenzialità terapeutica del patrimonio psicoanalitico, si prestino a inconsapevoli manovre difensive contro questo
fantasma,
la cronicità,
nuova
rappresentazione
metamorfica del perturbante. Al contrario siamo convinti, riferendoci alla casistica che suscita le nostre maggiori preoccupazioni di psichiatri impegnati nei servizi cosiddetti territoriali (cioè psicotici in giovane età senza un’abitudinale rapporto con istituzioni manicomiali, con i quali il progetto di lavoro è da impostare ex zovo), che il fenomeno della cronicizzazione del rapporto terapeutico, intesa come disponibilità a tollerare una relazione in una prospettiva temporale indeterminata, sia non tanto un male da sopportarsi con preoccupata rassegnazione, ma piuttosto un elemento fondante la stessa nostra potenzialità terapeutica.
Sulla scena di un rapporto medico-paziente che da paternalistico-superegoico tende sempre più a cedere alle lusinghe collusive degli aspetti maternalistici-idealizzanti della relazione, il settizg analitico con le sue determinanti
426
La cultura psicoanalitica
spazio-temporali, lungi dal costituire un luogo privilegiato ove isolarsi, si propone come garante della esistenza del
mondo esterno, nel senso di introdurre nella relazione il
terzo incomodo, l'oggetto, il reale: o se vogliamo presentifica l’esistenza della legge del padre, un ordine superiore delle cose che l’analista stesso, non onnipotente, è tenuto
ad osservare. E il catalizzatore cioè del riconoscimento della triangolarità edipica e della ambivalenza dei sentimenti.
Sono concetti difficili, spesso compresi più empiricamente che non intellettualmente nella pratica psichiatrica: ma se i concetti di holding di Winnicott e di coppia contenitore-contenuto di Bion hanno facilitato indubbie suggestioni, col rischio di percorrere la china di patologiche alleanze col paziente fino a gratificazioni simbiotiche, sempre più sembra diffondersi anche l’attenzione al rispetto della ritmicità degli appuntamenti nell’ambulatorio, al contenimento dell’orario del colloquio, ai limiti infine che la realtà impone sia al medico sia al paziente: in una parola alla necessità della costituzione di un setting psichiatrico. Crediamo che uno dei gradini più aspri che la psichiatria sta affrontando in questo momento, e per superare il quale la psicoanalisi le si offre come più valido aiuto, sia proprio la soluzione dell’equivoco cronicità-condanna alla inguaribilità. Nella misura in cui il rapporto
con il paziente si propone
come
maggior
strumento terapeutico, paradossalmente è proprio la tolleranza consapevole della sua cronicità che permette di porre attenzione in esso alla sua dimensione temporale, storica, e bonificarlo quindi da fantasmi mortiferi di
eternità rafforzando la sua possibilità di sopravvivenza. E quanto la storia sia importante, come verifica di cambiamenti avvenuti e garanzia di vita e di progettualità, questo convegno
stesso
convincente testimonianza.
ci sembra
proporsi come
Giuseppe Berti Ceroni (Italia - Bologna): Psichiatra. Membro della Società Psicoanalitica Italiana. Filippo Marinelli: Psichiatra. Membro associato della Società Psicoanalitica Italiana.
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Psicoanalisi:
teorie e clinica
Psicoanalisi e psicoterapia
Psicoanalisi: teorie e clinica
Renata De Benedetti Gaddini
Vicissitudini dell’identificazione nel pensiero psicoanalitico
Il contributo di Eugenio Gaddini Ringrazio
il Comitato
Organizzatore
di questo
Congresso per avermi invitata a portare alcuni aspetti
del pensiero di Eugenio Gaddini sull’identificazione, un argomento su cui egli ha lavorato per oltre vent'anni. Il tema che gli era stato assegnato aveva connotazioni storiche, com'è proprio per un Convegno che vuol fare un bilancio storico della cultura psicoanalitica a Trieste. In rispetto ai suoi decennali studi sul concetto di identificazione e di imitazione, gli era stato affidato infatti il compito di trattare le “Vicissitudini dell’identificazione nel pensiero psicoanalitico”. Ciò che io andrò ora esponendo è tratto da un suo lavoro del ’68 (E. Gaddini, 1969) e comprende poi lo sviluppo del suo pensiero nel tentativo di differenziare l’identificazione dall’imitazione e dalla identità imitativa. In questo senso la mia esposizione non considera
tanto le vicissitudini dell’identificazione nel pensiero psicoanalitico, quanto le vicissitudini che l’identificazione ha avuto nel pensiero dello psicoanalista Eugenio Gaddini. Su questa base ha luogo la connessione con la psichiatria, che è l'argomento che si dibatte oggi in questa sala. Sono in causa infatti, e usati da Gaddini per i suoi esempi clinici, casi borderline, i pazienti che tanto ci
hanno insegnato in tema di identità mancata, e i sempre più numerosi casi di falso Sé, così come egli ce li ha illustrati in uno dei suoi ultimi lavori (E. Gaddini, 1984).
Mancherà purtroppo nella mia presentazione l’elaborato delle sue riflessioni al Congresso dell’IPA ad Amburgo (Luglio-Agosto 1985) che, com'è noto, si è
La cultura psicoanalitica
432
svolto su questo stesso tema dell’identificazione e sue vicissitudini. «Quando
Freud
(1900)
introdusse
il concetto
di
identificazione, con riferimento ai fenomeni isterici del
contagio psichico, egli sottolineò soprattutto la sua distinzione dalla imitazione: «L’identificazione non è dunque semplice imitàzione, bensì “assimilazione” in base ad una pretesa similarità etiologica. Essa esprime una rassomiglianza e deriva da un elemento comune, che rimane inconscio».
Questa distinzione non implicava che la identificazione fosse l’opposto della imitazione, ma piuttosto che fosse un fenomeno più complesso. Comunque, lo sviluppo successivo del concetto di identificazione non ha avuto molto a che fare con la imitazione, ma è stato ampliato con altri concetti complementari, come quelli di incorporazione e di introiezione
(Ferenczi,
1909),
rispondenti
con
tutta
probabilità al bisogno di sottolinearne rispettivamente l'aspetto genetico e dinamico. Sfortunatamente, questi aspetti parziali sono stati spesso confusi tra loro e con il concetto stesso di identificazione, dando luogo a non poca confusione. Federn (1952) ha obiettato al concetto di introiezione, seguito da Edoardo Weiss (1960). Federn' intendeva chiarificare la confusione eliminando il concetto di introiezione e sostituendolo con quello di internalizzazione. Naturalmente, tutti coloro (anche se non sono molti)
che hanno individuato la presenza di fenomeni imitativi si sono trovati a doverli distinguere da ciò che, a prima vista, poteva apparire come identificazione. Vanno citati, tra questi pochi, Fenichel (1937), Ferenczi (1932 a,b), H. Deutsch (1942), Greenacre (1958 a), Greenson (1966), Stoller (1966), Ritvo e Provence (1953), Eidel-
berg (1948). A causa delle confusioni terminologiche tuttora
esistenti,
si può
ancora
trovare
il termine
“identificazione” usato in luogo di “imitazione”, ciò che sta a indicare l’insufficiente elaborazione del concetto di imitazione. Comunque, sembra esservi abbastanza concordia nel ritenere che l’imitazione si manifesti come un
disturbo della identificazione, e con le caratteristiche di
Psicoanalisi: teorie e clinica
433
un fenomeno primitivo, che probabilmente precede l’identificazione. In questo senso l’imitazione è stata sistemata da Jacobson (1964) in un quadro più decisamente metapsicologico. Per ciò che riguarda il significato originario delle identificazioni, Jacobson preferisce parlare di “prime identificazioni” piuttosto che di identificazioni primarie. Queste prime identificazioni consentono la internalizzazione di una realtà, prima frammentaria e selettiva — nel senso di oggetti parziali — e poi di oggetti interi, verso i quali la parzialità e la selettività della identificazione corrisponde agli interessi dellIo; lo sviluppo delle identificazioni consente lo sviluppo di altre funzioni essenziali dell'Io, come la prova di realtà, la formazione del senso di identità e la formazione della identificazione di genere. Ciò che precede queste “prime identificazioni”, dovrebbe essere indicato col termine “prime imitazioni”. Il termine usato a questo riguardo da Jacobson, “identificazioni primitive”, è infatti adoperato anche da altri,
ma a me sembra improprio, poiché viene usato per indicare fenomeni che sono di natura imitativa. Il distinguere questi ultimi dalle “prime identificazioni”, può consentire non soltanto una maggiore chiarificazione di entrambi i concetti all’origine, ma forse anche la distinzione della imitazione dalla identificazione in termini di processi. Le prime identificazioni si possono distinguere dalle imitazioni, per il fatto importante che una realtà, sia pure frammentaria, viene introiettata e assimilata. Jacobson le chiama perciò “identificazioni realistiche”. Vorrei aggiungere che questo elemento realistico rappresenta, fin dall’origine, qualcosa che ci permette di parlare della identificazione nel senso proprio. Le prime imitazioni invece hanno a che fare soltanto con la fantasia inconscia. Esse sembrano inoltre seguire un processo proprio, che sembra avere una parte distinta nello sviluppo dell’Io. In ragione del fatto che le imitazioni precedono le identificazioni nello sviluppo individuale clinicamente dobbiamo aspettarci la possibilità di regressioni patologiche dalla identificazione alla imitazione. In ragione del
434
La cultura psicoanalitica
fatto che le imitazioni hanno a che fare con le fantasie inconsce onnipotenti, dobbiamo aspettarci che tale
regressione comporti un rapporto oggettuale di tipo più
primitivo. In effetti, la clinica offre esempi innumerevoli di questo tipo di regressione, con disturbi della identificazione di tipo imitativo, accompagnati da fantasie di onnipotenza. Nella mia ‘esperienza essa è praticamente
costante dei disturbi del carattere in genere, e si trova con molta frequenza nella omosessualità maschile e femminile, nonché nella perversione feticistica e nel travestitismo.
Quanto al processo di sviluppo delle imitazioni, esso sembra essere distinto da, anche se via via integrato con, quello delle identificazioni, e d’altra parte sembra evidente che l’attività imitativa viene posta, nel corso del suo sviluppo, al servizio delle funzioni e dei processi di adattamento dell’Io. Sotto questo rispetto, oltre alla regressione alla imitazione, dobbiamo aspettarci anche una regressione nella imitazione, nel senso del passaggio da una imitazione più integrata a una meno integrata o
non integrata nella struttura dell'Io; vale a dire una patologia della stessa imitazione. L’imitazione
risulta
connessa,
in origine,
con
la
percezione, nel senso che la percezione primitiva è fisicamente imitativa. Nelle prime settimane di vita, il bambino percepisce? modificando il proprio corpo in relazione allo stimolo. In questo modo il bambino non percepisce lo stimolo reale, ma la modificazione intervenuta nel proprio corpo. Da questa comunanza di percezione e di imitazione fisica, prende forse avvio la differenziazione dei sistemi di percezione e di memoria. Sul destino ulteriore di queste “percezioni imitative” e delle loro tracce mnemoniche, ha un'influenza deter-
minante — nel senso di una loro evoluzione normale o patogena — il regime di gratificazioni e di frustrazioni dei bisogni, a cui il bambino si trova sottoposto. In genere, un regime prevalentemente frustrante tende a rinforzarlo e a farlo durare più di quanto dovrebbero. Il fenomeno comunque che costituisce il primo passo avanti, sembra compiersi sotto il segno della frustrazione, ed è noto col termine “immagine allucinatoria”. Ci riferiamo con questo termine al fatto che in assenza
Psicoanalisi: teorie e clinica
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dell'oggetto gratificante e nel tentativo di porre termine alle sensazioni penose che derivano dalla sua mancanza, il bambino lo allucina, lo rappresenta cioè in immagine, e vive questa immagine come realtà. Per intendere il significato della mancanza dell'oggetto e della sua rappresentazione si tenga presente che, in questo stadio, l'oggetto non è percepito come tale ma come parte del Sé fisico. Rapaport (1951) ha giustamente definito l’immagine allucinatoria come il “prototipo del pensiero”. Ritengo si possa proporre di considerarla anche come il prototipo psichico della imitazione. Se si tiene conto che (nelle parole di Freud) «in origine la semplice esistenza di una rappresentazione è una garanzia della realtà di ciò che viene rappresentato» (1925), si può capire il senso di questa primordiale imitazione. D'ora in avanti, il modello fisico “imitare per percepire” si tramuta nel modello psichico parallelo, in cui percepire diventa “essere”. Imitare per percepire diventa cioè imitare per essere.
Noi non sappiamo in quale maniera il modello funzionale fisico venga convertito in un modello psichico parallelo, ma l’attività psichica ci offre più di un esempio di questo genere. “L’introiezione”, ad esempio, viene oggi definita come il modello psichico parallelo di quello fisico di mettere in bocca, di incorporare per via orale (R. Greenson, 1954). Vedremo tra poco come anche alcuni affetti primitivi possano essere riconducibili ai modelli funzionali corporei. «Sarà un ulteriore compito della psicoanalisi e della biologia — ha scritto a questo proposito Federn (1952) — scoprire fino a quale limite e fino a quale dettaglio i processi mentali siano paralleli a quelli corporei, e quanti fenomeni somatici possano e debbano essere trasposti a livello mentale» (p. Do2 Quanto al protomodello psichico della imitazione — imitare per essere —
giova ripetere che esso si instaura
non in presenza ma in “assenza” dell'oggetto, e che, appunto perciò, il suo fine sembra essere quello di ristabilire in modo magico e onnipotente la funzione del Sé con l’oggetto. Il periodo immediatamente successivo consiste nello
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sviluppo attivo di fantasie, in cui queste due caratteristiche — di nessun riferimento alla realtà oggettiva e di restaurazione magica della fusione onnipotente con l'oggetto — continuano a costituire il fatto essenziale. Siamo nei primi mesi di vita, nella fase simbiotica di
Mahler (2°-59/6° mese) (1965). Ma queste fantasie di
fusione possono durare a lungo, anche oltre il periodo pre-edipico (Jacobson). Quanto
alle prime
introiezioni,
secondo
Fenichel
(1945) in questo periodo «tutti gli organi di senso sono inconsciamente
concepiti come
bocca». Le introiezioni
cioè, mirano anch'esse alla fusione del Sé con l’oggetto che può venire a mancare: è ciò che Fenichel intende, dicendo che, in origine: «mettere in bocca e imitare per percepire sono una sola e medesima cosa» (1945). Tuttavia, questi due modelli funzionali sembrano determinare fin dall’origine in modo distinto il duplice modo di disporsi verso gli oggetti individuati da Freud: ciò che
si vorrebbe
essere,
e ciò che
si vorrebbe
possedere. Il fatto che essi possono essere vissuti come una sola e medesima cosa non vuol dire che lo siano. La primitiva percezione imitativa sembra condurre alla immagine allucinatoria, alle fantasie di fusione mediante modificazioni del proprio corpo, e alle imitazioni, nella direzione del desiderio di “essere” l'oggetto. La incorporazione orale sembra condurre alle fantasie di fusione mediante incorporazione e alle introiezioni, nella direzione di “avere”, di “possedere” l’oggetto. Nella carica narcisistica queste due disposizioni di base coesistono, perché le imitazioni e le introiezioni coesistono, e ciò può dare ragione del fatto, indicato da Freud, che, nelle
identificazioni da lui dette primarie, il rapporto l'oggetto sia insieme l’una e l’altra cosa. I primi affetti sembrano,
con
a loro volta, modellarsi
sugli stessi paradigmi psichici originari, e ciò sembra determinare il senso dei primi conflitti. La primarietà
della invidia e della rivalità —
(Mélanie Klein, 1957;
Edith Jacobson, 1964) — diventa infatti più comprensi-
bile, se si tiene conto di come la “rivalità” sia vicina al
modello percettivo-imitativo (l’oggetto come ciò che si vorrebbe essere) e l’invidia al modello incorporanteintroiettivo (l'oggetto come ciò che si vorrebbe avere).
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Secondo Jacobson, sempre nel primo anno di vita, alle fantasie di fusione seguirebbero imitazioni “affettomotorie reciproche” tra madre e bambino, e queste sarebbero seguite da imitazioni delle espressioni emozionali genitoriali “indotte” dal bambino
(1964).
Il passo successivo, comunque, nello sviluppo, è rappresentato dalle prime assimilazioni di imitazioni e di introiezioni relative a realtà parziali o frammentarie. Lo sviluppo maturativo delle funzioni percettive e di quelle mnemoniche hanno certo una parte determinante in questo passo, ma vi intervengono anche altri fattori, connessi con le caratteristiche del rapporto. Non entrerò qui nei problemi metapsicologici relativi a questo passaggio. Mi limiterò a dire che la internalizzazione di realtà comporta una modificazione quantitativa e qualitativa delle cariche oggettuali, per cui all’accumularsi delle imitazioni e delle introiezioni assimilate in modo realistico corrispondono una realtà esterna, gradualmente riconosciuta come separata da sé, e una parte interna
dell'Io più stabile e separata dal non-Io. Imitazioni e introiezioni
confluiscono
dunque
in questo
processo,
dapprima frammentario e via via più integrato, al quale si intende qui riservare il termine di “identificazione”. Devo dire che la distinzione tra imitazione, introie-
zione e identificazione non si trova nella letteratura psicoanalitica nei termini ora descritti, e la ragione di ciò sta, oltre che nella mancata distinzione, in genere, delle imitazioni dalle identificazioni,
anche nel fatto che il
termine introiezione è stato a sua volta largamente fuso e confuso con quello di identificazione, fin dal momento in cui fu coniato e messo in uso da Fetericzi (1909). Qui la confusione era giustificata dal fatto che le introiezioni avevano a che fare con la base orale della identificazione,
costantemente sottolineata da Freud (1905)?. Ciò che tuttavia ha reso travagliato l’evolvere del concetto di
identificazione, sembta essere la difficoltà di integrare, sul piano concettuale, l'evoluzione dell’area percettiva,
che sembra essere caratterizzata da un'attività psicosensoriale, con l'evoluzione dell’area che potrebbe essere definita come psico-orale ‘. Dal punto di vista dinamico, quest’ultima sembra essere, in proporzione con la prima, molto più esposta ai conflitti nel rapporto oggettuale,
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La cultura psicoanalitica
mentre l’area sensoriale sembra fornire la possibilità di un ritiro dai conflitti e la esclusione dell’oggetto esterno che li promuove. Se ci riferiamo allo sviluppo dell’individuo in termini di cariche oggettuali, le identificazioni possono
essere
considerate,
in questo
sviluppo, come
una stazione intermedia di importanza cruciale, in cui i fenomeni imitativi dell’area sensoria e quelli introiettivi dell’area orale vengono integrati in funzione della realtà e dei processi di adattamento dell’Io. In questo senso, ciò che Freud ha descritto come identificazione secondaria è forse da ritenere come la sola identificazione concepibile, la cui comparsa è da collocare fin dall'epoca delle prime identificazioni (Jacobson), o identificazioni realistiche, e il cui sviluppo continua ininterrotto fino all’età adulta. Ciò che precede, chiamerei imitazioni e introiezioni, con riferimento ai loro modelli di base corporei della percezione e della incorporazione orale. Imitazioni e introiezioni obbediscono al principio del piacere, mentre le identificazioni sono orientate nel senso della realtà e conducono, nel loro graduale sviluppo, alla possibilità del rapporto oggettuale maturo, che funziona a sua volta secondo il principio di realtà. Alle origini, ciò che Freud ha chiamato «rapporto narcisistico» ha più a che fare col Sé che con l’oggetto, e in questo senso parteggia dell’area percettivo-imitativa,
nella quale l'oggetto è in funzione del Sé; mentre ciò che Freud ha chiamato «rapporto anaclitico» ha più a che fare con l’oggetto che col Sé, e parteggia dell’area incorporante-introiettiva, nella quale il Sé sperimenta la sua dipendenza reale dell’oggetto. Secondo Gaddini (Gaddini, 1985) la soddisfazione dei bisogni c'è prima, tal quale come dopo. Perciò la soddisfazione dei bisogni non vale come metro, come misura estrinseca (principio del piacere) — la soddisfazione dei bisogni è essa stessa un originario e fondamentale bisogno. Occorre descrivere il bisogno in termini di processo. Da questo schema (Fig. 1) che è tra i recenti contributi di Gaddini
(1984), si nota come,
secondo
questo autore, l’imitazione di per sé, allorché deve funzionare da sola e si estende al di là dei primi mesi, porta ad una identità imitativa. Non vi è, in questo caso,
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introiezione né, quindi, identificazione. Quando l’imita-
zione entra invece a far parte del processo di integrazione essa contribuisce alla identificazione, e quindi alla identità matura. Ciò ha luogo perché l'imitazione non fa uso della “rappresentazione”, che implica l’introspezione, e si limita alla “presentazione” che, condensa in sé ogni nuova percezione, come l’oggetto esterno. Parafrasando Freud si potrebbe dire (E. Gori, 1985) che prima si condensano nel bambino funzioni identiche alla cosa,
poi si sviluppa da queste capacità di identificarsi con la cosa. vissuto
Soddisfazione del bisogno
A.
presentazione del vissuto
+.
imitazione
>
identità imitativa
rappresentazione
—"—
introiezione
—>
integrazione
del vissuto
} identificazione
identità matura
Fig. 1. Ricerca d’identità e processo percettivo.
Il concetto è che l’imitazione è una difesa di base, e
come tutte le difese di base fa parte dello sviluppo normale e porta, nei suoi aspetti normali, alle identificazioni attraverso l'integrazione con le introiezioni e con i
meccanismi orali. Però, se le imitazioni non vengono integrate e vengono usate di per sé perché mancano soddisfacenti esperienze orali, oppure se non possono ancora essere integrate come nel bambino ruminatore, perché le esperienze orali sono troppo frustranti — allora esse costituiscono delle difese patologiche — come sono quelle della ruminazione, dove le imitazioni imitano i meccanismi orali, principalmente le introiezioni (E. Gaddini,
1969).
L’imitazione può durare tutta la vita, e può essere la base della malattia psicosomatica, dove vi è uno sviluppo difettoso della rappresentazione mentale e della capacità di introiettare che interferisce con il costruire legami affettivi simbolici. Come tutte le difese precoci, il modello è l’esperienza originaria che l’imitazione cerca di ricreare, nel tentativo di mantenere l’illusione che è
andata perduta.
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La cultura psicoanalitica
Contro le disillusioni il bambino
tenta infatti di
ricreare l’esperienza della illusione. Come tutte le prime difese, l’imitazione è modellata su una esperienza precedentemente vissuta. Ciò è importante quando si parla di malattie psicosomatiche, perché i meccanismi mentali con cui viene prodotta la sindrome psicosomatica sono meccanismi imitativi. Limitazione ha a che fare con la prima patologia del sé. Con la malattia somatica il bambino fa una esperienza corporea soddisfacente al posto di una frustrante. Come si può notare (Fig. 1) gli elementi che si contrappongono nello schema sono le imitazioni e le introiezioni. La introiezione è una difesa dalla incorporazione nel senso che il bambino la produce attivamente e fa la fantasia di mettere dentro qualche cosa: è il mentale dell'esperienza di incorporazione. Invece la fantasia imitativa è una difesa che si basa sulla illusione della continuità originaria con l’oggetto soggettivo (o oggetto
parziale). L’imitazione da sola non consente di internalizzare,
perché non consente di concepire l’esistenza di un oggetto esterno: imitando, si “diventa” magicamente ciò che, altrimenti, dovrebbe essere riconosciuto come
un
oggetto esterno. Poiché non consente di internalizzare, l'imitazione non è una difesa strutturante. Originariamente infatti è una difesa elementare protettiva del Sé. La introiezione invece implica di riconoscere l'oggetto come esterno, e se stesso separato dall'oggetto, e quindi la dinamica primitiva del mangiare e dell’essere mangiati. Si introietta in luogo di incorporare per far diventare parte di sé ciò che è fuori da sé. Anche l’introiezione è quindi una difesa magica e primitiva, ma la sua onnipotenza è limitata dall’angoscia di perdere per sempre l’oggetto, dopo averlo incapsulato, e di non essere in grado di sopravvivere senza l'oggetto (che è il primo ad apparire, secondo Gaddini, del senso di dipendenza reale). Occorrerebbe perciò distinguere due tipi di onnipotenza: con la prima, totale, si sfugge all’angoscia istintuale diventando magicamente l’oggetto; con la seconda, pulsionale e magicamente più limitata, si è obbligati al riconoscimento dell’oggetto e a incontrarsi con l’angoscia della dipendenza reale per la
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propria sopravvivenza. Queste sue formulazioni teoriche sulle vicissitudini dell’identificazione sono state da Gaddini ricordate ad Amburgo (1985) e sono stati citati
i concetti relativi all'“identificazione primitiva” di Jacobson, che ammette l’idea di introiezione parziale, e delle
fantasie inconsce che sono alla base dell’identificazione. Abraham — disse Gaddini nel suo intervento — ha parlato della base orale dell’“avere” e dell’“essere”. La base orale dell’“essere” implica l’identificazione con l'aggressore, dove “essere” l'aggressore è usato come un
mezzo per difendersi dal rapporto con l’oggetto. L’identificazione è sempre parziale, egli ha tenuto a precisare: nessuno è costituito, fatto di un altro. Questo non è vero
per la fantasia. Le alternative che si pongono, nel corso delle
vicissitudini
della
identificazione,
sono:
essere
identici oppure identificarsi, essere tutt'uno-con oppure fondersi con l’oggetto. Un ultimo intervento di Gaddini, ad Amburgo, era inteso a richiamare distintamente l’attenzione sul “senso di Sé”, la cui formazione ha luogo in funzione delle sensazioni, e sul “senso di identità”, che viene invece
acquisito in funzione della percezione. Il raggiungimento del senso di identità cammina di pari passo con la scena primaria e con la situazione triangolare, dove vi è confusione su chi è chi, e vi è percezione del movimento (Greenacre)
e delle cose che cambiano.
Note
1. Vedi nota di Weiss a pag. 149 del volume di Federn (1952).
2. Con «percezione primitiva», già in questo lavoro Gaddini intendeva qualcosa di radicalmente diverso dalla percezione, come viene in genere intesa nel campo della psicologia sperimentale. Questa distinzione è indagata in modo sempre più sottile nei suoi scritti successivi. Percezioni primitive sono le «sensazioni e le concomitanti modificazioni corporee» che si possono far risalire ai primi movimenti fetali (Gaddini E. 1981; Gaddini E. 1982). Da tali sensazioni si organizzerà la mente che, a sua volta, diventerà
gradualmente capace di organizzare le sensazioni. Tutto ciò ha a che fare con l’organizzazione del Sé. «Manca, in questa organizzazione, il senso del tempo e quello dello spazio definitivo. Manca perciò il senso di un confine, di una forma di Sé, di uno spazio esterno, di un
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non sé. In luogo degli stimoli percettivi delle percezioni sopperiscono le sensazioni corporee. Più precisamente gli stimoli esterni producono modificazioni del corpo accompagnate da sensazione. Sono queste sensazioni — modificazioni corporee che vengono avvertite, non gli stimoli» (Gaddini E. 1982 pag. 150). E solo intorno alla fine del 3° mese che la «mente infantile comincia a incontrarsi con le percezioni. In termini di. sviluppo mentale la comparsa della percezione coincide con l'oscuro senso di un non-sé, con le avvisaglie di quel processo noto come distacco, che implica un primo riconoscimento oggettivo del proprio essere separato» (Ibidem pag. 152). In tal modo la percezione si collega al processo della «nascita psicologica», nonché a quello che Gaddini ha definito «processo della scena primaria», all’inizio del quale non si ha la comparsa del padre come secondo oggetto, ma piuttosto un’ «immagine tremendamente
ingrandita della madre»,
«una
madre
irriconoscibile»,
che
corrisponde per il bambino «a una aggressione dal di fuori del suo rapporto di identità imitativa» (Gaddini E. 1977, pag. 171). 3. «Vi sono... buone ragioni per cui il bambino che succhia al seno della madre è diventato il prototipo di qualunque rapporto d’amore» (S.E., 7,222). 4. «Jo ho tenuto a distinguere —
scriverà Gaddini alcuni anni più tardi nelle prime vicissitudini del rapporto con l’oggetto, delle aree di esperienza mentale, corrispondenti a una duplice disposizione originaria verso l’oggetto: ho definito queste due aree come “psicosensoriale” l’una e “psico-orale” l’altra. La prima, più antica, mette capo alla percezione primitiva attraverso il soma; la seconda è connessa invece al graduale riconoscimento percettivo di stimoli esterni al sé, come avviene attraverso l’attività orale. Mentre le esperienze psico-sensoriali tendono ad allontanare il riconoscimento dell’oggetto come «altro da sé», ed esprimono la disposizione ad “essere” l'oggetto, le esperienze psico-orali confrontando il bambino con l’oggetto in un modo più stringente e reale, promuovendo i desideri, i conflitti, le frustrazioni, l'angoscia istintuale, e così via, ed esprimendo in sintesi la disposizione ad avere, a possedere l’oggetto (Gaddini E. 1977, pag. 159). Nello stesso saggio Gaddini riconosce una corrispondenza puntuale tra “area psicosensoriale” e “area psico-orale” con ciò che Winnicott ha definito in Gioco e realtà (1971) rispettivamente come
l’“elemento femminile”
e l’“elemento
maschile” presente in ogni individuo (Gaddini E. 1977, pag. 160, nota 2).
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Renata De Benedetti Gaddini (Italia - Roma): Neuropsichiatra infantile. Membro ordinario della Società Psicoanalitica Italiana.
Sara Klaniczay L'approccio psicoanalitico matematici di Hermann
alla teoria degli insiemi
La mia relazione si basa sullo studio di Imre Hermann, pubblicato in tedesco nel 1949, dal titolo
Denkpsychologische Betrachtungen im Gebiete der matematischen Mengenlebre (Considerazioni psicologiche nel campo della teoria matematica quantistica) '. Due matematici ungheresi; Rézsa Péter e LAszl6 Kalmar, aiutaro-
no Hermann nella stesura di quest'opera. Hermann trattò a più riprese la questione del talento. Dopo aver studiato le biografie di grandi scienziati, dichiara che le invenzioni sono necessariamente definite dal bagaglio psicologico dell’inventore. Il «pensiero nuovo e profondo» è già presente nell’inconscio dell’inventore, a livello preliminare, prima della vera e propria invenzione. L’inconscio è il dominio dal quale l'invenzione «si separa», nel momento in cui prende corpo in una formulazione oggettiva. Semmelweis non arrivò a scoprire per caso che la febbre puerperale era conseguenza di una infezione. Era infatti molto coinvolto nel problema delle puerpere che morivano perché egli stesso aveva da poco perso la madre. La morte del suo professore di patologia, rispettato da lui come un padre, e la sua stessa malattia — probabilmente sifilide — misero in moto la fantasia edipica. L’idea dell’incesto e della “infezione del sangue” gli proveniva da più parti. Il fatto di “sostenere la colpa” e “cercare la verità” gli diedero «quell’atteggiamento morale eroico» — come lo definì Hermann — che infine lo portò alla scoperta scientifica. Hermann afferma che le creazioni scientifiche ed artistiche della
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La cultura psicoanalitica
mente umana non vengono create dal niente ma che hanno sempre dei modelli congruenti. Hermann dichiara che questa è una vera e propria legge psicologica. I modelli congrui ci permettono di analizzare ed interpretare i risultati del pensiero. Il modello può essere offerto dal fatto istintuale, da eventi personali, dalla modalità percettiva e così via. Le idee scientifiche generali dell’epoca, i movimenti culturali come i cambiamenti storici e sociali, possono anche servire da modello. La formulazione della teoria degli insiemi costituì un passo importante nello sviluppo della matematica. Fra l’altro si è dimostrata fondamentale nel raccogliere tutti i rami della matematica in un sistema unificato. La «scienza dei molteplici infiniti», come la chiama Hermann, fu fondata dal matematico tedesco Georg Cantor,
a cavallo fra il XIX ed il XX secolo. Secondo la formulazione di Cantor, per insieme generalmente intendiamo «qualsiasi molteplicità che può essere considerata una unità, ovvero: qualsiasi totalità di elementi definiti che possono essere collegati in una unità grazie ad una legge». Cantor introduce un nuovo tipo di analisi dell’infinità. Un insieme può avere infinitamente molti elementi. Consideriamo l’insieme di numerali naturali quale esempio. Se lo concepiamo come un qualcosa che cresce meramente con l’ulteriore conteggio, allora è soltanto un «infinito potenziale». Se invece lo consideriamo come una totalità chiusa, allora arriviamo al concetto dell’«in-
finità reale». Quale insieme ha più elementi? Questa domanda porta ad un problema concernente il caso degli insiemi infiniti. Quando realtà valide per il finito vengono applicate all'infinito, allora raggiungiamo sempre aspetti che ci disorientano. Cantor optò per il metodo del rilevamento uno-aduno. Secondo questo metodo la cardinalità di due insiemi infiniti è la stessa se i loro elementi possono essere accoppiati in modo tale che nessuno di essi rimanga escluso. Conseguentemente l’insieme dei numeri pari ha la stessa cardinalità dell’insieme dei numeri naturali.
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Non è facile accettare che una parte possa essere uguale all’intero. Uno dei miei giovani studenti ad esempio, ragionava così: «I numeri pari sono la metà dei numeri naturali, poiché soltanto ogni secondo è pari». Con l’aiuto dell’accoppiamento possiamo facilmente dimostrare che la cardinalità dei numeri razionali è altrettanto uguale a quella dei numeri naturali. In questo modo si giungerebbe a ritenere che «tutto ciò che è infinito, è della stessa quantità», come è stato detto da un altro mio studente. Ma non è affatto così! Cantor dimostrò con questo famoso “metodo diagonale” che la cardinalità dei numeri reali è maggiore rispetto a quella dei numeri naturali. L’idea base della sua dimostrazione è che i numeri reali non possono essere compresi in una sequenza. Cambiando le cifre decimali lungo la diagonale, possiamo formare un numero reale che differisce da tutti gli elementi della sequenza stessa. Esiste una cardinalità maggiore di quella dei numeri reali? Cantor dichiara che non esiste fine. Dato ogni insieme possiamo trovarne un altro che abbia una cardinalità maggiore. Il metodo di ricerca psicopatologica di Hermann ha quale obiettivo quello di trovare modelli per i prodotti del pensiero
esaminati
come
“insieme”,
“cardinalità”,
“infinità reale” e così via. I modelli sono psichici, usuali archetipi che esistono anche in altre situazioni e ci permettono di interpretare i concetti esaminati.
Cantor ci incoraggia a cercare modelli inconsci, che abbiano le proprie radici nella psiche e non possano essere chiaramente dedotti in maniera logica. In una lettera scrive di considerare, quale sua creazione, soltanto lo stile e l'economia dei propri studi, mentre per quanto riguarda il loro contenuto egli si considera un mero mediatore. Inoltre dice che perdere il controllo di se stessi è mancare di ritegno nel progredire, e ci può mettere in pericolo. Perciò «nel formare nuovi numeri bisogna avere principi di contenimento». Ora vorrei spiegare che cosa intendiamo per “fuga di idee”, caratteristica del periodo maniacale del disturbo circolare. Mentre il normale susseguirsi di idee appare coerente, le successioni di idee dei malati sono più o meno
incoerenti, possono
frantumarsi oppure avere la
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La cultura psicoanalitica
natura di una fuga coerente. È su quest’ultima che ci concentriamo. Hermann cita due esempi presi dai testi. Un paziente ha detto: «Acqua-torre, acqua, mare, laghi, acqua
corrente,
fiumi...».
Possiamo
capire l’immagine
che sovrasta tutto ciò: tutto quello che è relativo all'acqua. Le parole di un altro paziente sono ancora più caratteristiche: «I miei genitori, nonni, bisnonni, tutti i
miei fratelli e sorelle e parenti, tutti i miei amici e amiche, tutte le persone conosciute e sconosciute che ho incontrato
in ufficio,
sotto
le armi
e mentre
stavo
facendo acquisti, tutti mi hanno preso in giro, sgridato, disprezzato e truffato...». I pazienti con fughe di idee coerenti temono che i loro pensieri cadano a pezzi, perciò cercano di tenerli insieme con l’aiuto di immagini superiori. Il sintomo di una “coerente fuga di idee” è un ovvio modello per il concetto dell’“insieme”: ossia collegare elementi in una unità intera. I concetti quali “ordine”, “tipo d’ordine”, “continuità” svolgono un ruolo importante nella teoria degli insiemi. Concetti simili quali “regolarità”, “perdita di continuità”, ‘“l’’emergere di nuovi principi guida”, sono anche caratteristici per la fuga coerente di idee. Dove possiamo cercare il modello psicologico dell’“infinità”?
“L'obiettivo
è la morte”,
dice Hermann,
citando Madach, il poeta ungherese. Così, l’immortalità è riflessa nell'anima come una infinità senza scopo. Secondo Hermann, tributare diversi valori all’infinità, significa presumere i diversi gradi di immortalità. L’idea che gli insiemi infiniti abbiano diverse cardinalità induce in noi una strana sensazione. Hermann cita Frankel, che considera la dimostrazione diagonale di ‘ Cantor, come “essenziale ed azzeccata”, ma si continua a
sentire qualcosa di “strano” ed “ingiusto” nel sottofondo. Osservando la dimostrazione da un punto di vista psicologico, possiamo dire che la diagonale ha “cancellato” i nostri calcoli. L'insieme contabile si deteriora e lungo la diagonale emerge un nuovo e sempre vivo numero reale. «Sul corpo dell'insieme infinito contabile, appare una vita nuova ed eterna», dichiara Hermann in una annotazione arguta.
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Riassumendo, secondo Hermann i due modelli della
teoria degli insiemi sono la “fuga coerente di idee” ed “il problema dell’immortalità”. Perché soltanto nello spirito di Cantor questi due modelli abbiano avuto il loro effetto, è una questione ancora aperta a discussioni. Cantor fu definito, da parte dei suoi biografi, come un tipo ciclotimico. Frankel scriveva: «Una personalità arguta, spiritosa ed originale tendente ad improvvisi scatti. Aveva una statura alta ed imponente.
Aveva un continuo
flusso di pensieri, era
sempre fiero delle proprie idee e non si lasciava facilmente influenzare da altri. Era una persona magnifica, pronta ad aiutare, un vero amico per i suoi studenti,
la sua casa offriva loro un clima accogliente, con musica ed un’atmosfera di amicizia vivace e giovanile alla quale contribuiva anche sua moglie». Sfortunatamente, più tardi Cantor si ammalò e fu ricoverato quattro volte. La diagnosi individuò la fase maniacale della psicosi circolare, l’ultima patografia stabilì una mania recidiva. In base a questi dati, la sua malattia iniziava sempre dal suo intenso fumare e le fasi d’eccitamento erano seguite da fasi depressive. Nella fase maniacale il paziente sentiva la coazione a parlare ed agire,
scriveva
poesie,
drammi,
si irritava
e gridava
facilmente. La sua parlata era caratterizzata dalla fuga di idee, seppure non completamente incoerente. Saltava da un argomento
volte
aveva
qualcosa
all’altro, era euforico, confabulava ed a
deliri
in comune
paranoici. con
Questi
deliri
il commettere
un
avevano crimine
collettivo, quale ad esempio l'omicidio perpetrato da una coppia o da un gruppo. Come possiamo vedere, il modello della teoria degli insiemi, la fuga coerente di idee, sono presenti nella vita
di Cantor e provengono dalla sua malattia. Il concetto di “cardinalità” è radicato nella sua tendenza maniacale ad espandere lo spazio. Nella malattia maniaco-depressiva l’immagine della morte viene messa da parte ed emerge l’idea della immortalità. Il problema dell’immortalità ebbe un ruolo particolare nella vita di Cantor. Dedicò infatti molte sue energie per scoprire se era stato in realtà Bacone a scrivere le opere di Shakespeare. Riteneva, a causa di un malinteso,
15. La cultura psicoanalitica
450
La cultura psicoanalitica
che Bacone in effetti fosse il vero autore (una questione molto in voga all’epoca). Cantor: per rendere giustizia scrisse su questo tema due opere. Sosteneva che «il falso immortale» non avrebbe dovuto usurpare il posto del «vero immortale». L’immortalità di Shakespeare non sarebbe dovuta durare fino ad un «infinito reale», ma
avrebbe
dovuto
essere
sorpassata
dall’immortalità
di
Bacone.
Questo problema del sorpasso è ben riflesso nel suo stesso conflitto. Egli ebbe una disputa con il suo professore, Kronecker, che godeva di fama internazionale ed era considerato immortale, sulla teoria degli insiemi. Ecco come Cantor vedeva il motivo della discordia: «Questa deve essere una questione di potere, che non potrà mai essere risolta con il reciproco convincimento». Più tardi scrisse: «La questione verterà
su chi avrà formulato i pensieri più profondi, più onnicomprensivi e fruttiferi, se io o Kronecker». Naturalmente il modello di questo conflitto insegnante-studente era il conflitto tra Cantor e suo padre, che era stato contrario agli studi matematici del figlio ed aveva voluto convertirlo all’ingegneria quale campo più pratico. Un altro conflitto familiare era dovuto all’origine ebrea del padre protestante. Anche questo trasferibile su Kronecker che era ebreo. Riassumendo: abbiamo trovato i modelli concettuali della teoria degli insiemi nella vita di Cantor. Tramite il grande matematico, a causa della sua malattia, la fuga coerente di idee ha offerto un modello psicologico per il concetto degli “insiemi”. A ciò contribuirono anche le fantasie paranoiche circa la collettività. Il concetto di “infinità” e la relativa teoria potevano scaturire da entrambe le fasi della sua psicosi circolare e dai suoi problemi riguardanti l’immortalità. Secondo Hermann, oltre alle qualità personali dello scopritore, tutti i pensieri nuovi e profondi sono radicati nei fattori generali dell’epoca, nei movimenti storici e culturali. Fra questi, lo stato attuale di una scienza svolge un ruolo simile a quello della mente nella dinamica della psiche. Hermann vede un legame fra le idee di Cantor e tre movimenti sociali su grande scala. Il primo è costituito dai movimenti socialisti e dal marxismo. La
Psicoanalisi: teorie e clinica
451
Prima Internazionale era stata fondata nel 1863 con lo slogan: «Proletari di tutto il mondo, unitevi!». Il secondo movimento era costituito dalla formazione dell'Impero Germanico dagli Stati Germanici nel 1870. Il terzo era costituito dalla formazione dei cartelli dopo il 1873. I dati biografici relativi confermano l’attenzione dedicata da Cantor a questi movimenti. Note
1 Schweizerische Zettschrift fiv Psycologie und ibre Anwendungen, vol. 8, 3, H. Huber Verlag, Berna 1949.
Sara Klaniczay, psichiatra, membro della Società psicoanalitica ungherese.
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Alcuni cenni sullo sviluppo psicologico del bambino. Dalla teoria della libido alla teoria delle relazioni oggettuali Siamo
oggi
testimoni
di un
notevole
aumento
dell’interesse verso la psicologia evolutiva e, negli ultimi anni, dello sviluppo della psichiatria infantile. Due recenti congressi hanno dimostrato che un grande numero di scienziati si concentra sulla ricerca dello sviluppo nella prima infanzia. Nei progetti di ricerca si può facilmente notare un passaggio verso le cosiddette osservazioni e misurazioni oggettive e comportamentali.
Alcuni ricercatori le preferiscono a quelle che essi considerano «dichiarazioni speculative ed astratte sull’esperienza infantile basata sulle storie e sulle ricostruzioni di altri bambini ed adulti» (Emde, 1984). Comunque, sono convinta che gli interessati alla psicodinamica non saranno facilmente soddisfatti dall’oggettivismo delle osservazioni comportamentali, poiché sembra che tali osservazioni non lascino sufficiente spazio per ponderarle e collegarle alle nostre stesse esperienze emotive. La psicologia psicoanalitica dell’evoluzione impiega una metodologia basata sulla combinazione delle conoscenze raccolte tramite l’analisi e tramite l'osservazione diretta, come è stato fatto da R. Spitz, Anna Freud e
Margaret Mahler. Parlando di metodologia, L. Rangell (1984) osservava comunque, che attraverso gli studi basati sull’osservazione diretta, l'approccio non scientifico della psichiatria clinica e della psicoanalisi, non viene reso più scientifico. Considerando anche gli analisti come osservatori diretti, ha detto: «Entrambi i poli della osservazione umana sono propri anche della metodologia meno
rigorosa delle scienze
umane,
soggettiva
e
454
La cultura psicoanalitica
contemplativa piuttosto che basata nel metodo misurazione e verifica dei risultati».
della
Ancor oggi ci sono molte questioni aperte sullo sviluppo della prima infanzia. Il mondo interno dei bambini, lo sviluppo degli affetti e delle funzioni simboliche, l'adattamento, lo sviluppo distorto da abusi fisici ed emotivi, sono temi che richiedono tutti ulteriori chiarificazioni. Comunque, a prescindere dallo specifico problema dello sviluppo di volta in volta affrontato, il rapporto genitore (madre)-bambino sarà sempre al centro della nostra attenzione. Nel
1940,
Winnicott,
sorprese,
come
diceva
M.
Kahn (1975), gli psicoanalisti britannici dichiarando che non esisteva nulla che si potesse chiamare bambino, intendendo che senza la cura materna non ci sarebbe stato nessun bambino. La crescita di un bambino con la madre accanto a lui ci induce a studiare gli impulsi strettamente . collegati all’interno, al biologico, non separati ancora completamente dagli stimoli del circondante mondo esterno. Contemporaneamente, si deve prestare attenzione alle prime interazioni e comunicazio-
ni fra la madre ed il figlio ed allo sviluppo delle relazioni oggettuali. Si potrebbe dire che la maggior parte degli autori è d’accordo sul fatto che l’importanza delle relazioni oggettuali sia innanzitutto determinata dalle richieste istintuali e che il rapporto fra l’impulso e l’oggetto sia di importanza fondamentale durante la vita (Brenner, 1974). Comunque, ci sono varie opinioni circa
il grado di sviluppo dell’Io nei primi giorni di vita e riguardo all’inizio delle relazioni oggettuali. Alcune risposte vengono offerte dall'opera di R. Spitz e Margaret Mahler, ma, in un certo modo, quello che noi osserviamo nell’interazione madre-figlio, rimarrà parzialmente sotto l’influenza del nostro stesso orientamento, basato sulla conoscenza conforme alla nostra forma-
zione professionale e le nostre esperienze interne. Così, mentre alcuni di noi accetteranno con facilità le idee relative alle prime difese ed alle attività fantasmatiche dei più giovani, altri probabilmente nutriranno qualche dubbio sull’intera ricerca del periodo preverbale; poiché le prove dell’esistenza di tali sentimenti precoci arcaici non vengono facilmente riscontrate nell’analisi. Ritengo
Psicoanalisi: teorie e clinica
455
che le osservazioni longitudinali della coppia madrefiglio siano necessarie per lo studio delle questioni importanti relative al primo sviluppo ed in questa relazione cercherò di indicare alcuni dei problemi che devono essere affrontati da parte dell'osservatore o del terapeuta che interviene sulla coppia.
L’esperienza della maternità è una cosa unica con un enorme impatto sulla vita di una donna e la storia millenaria della nostra cultura dimostra che induce anche fortissimi sentimenti in qualsiasi osservatore casuale. E risaputo che esiste una tendenza ubiquitaria a proiettare le proprie fantasie e paure infantili inconsce nella situazione
fra la madre
ed il bambino
(Harris,
1980). Nel corso di una bene ideata osservazione della coppia madre-bambino, ai fini della ricerca o dell’istruzione, uno dei principali problemi è quello di come mantenersi sufficientemente distanti per poter osservare, senza tuttavia permettere alle emozioni forti di disturbare o distorcere quanto
si percepisce.
Contemporanea-
mente bisogna essere abbastanza vicini per poter usare l’esperienza di controtransfert come strumento per la scoperta dei potenziali emotivi del rapporto madrebambino. In queste osservazioni che sono parte del training analitico, l’esperienza dell’analisi personale sarà d’aiuto nel trovare la distanza ottimale, ma comunque l’osservatore rimarrà sempre in un certo modo come messo alla prova. Sembra un paradosso che i limiti dell’osservazione diretta siano allo stesso tempo il suo maggiore vantaggio poiché qui si tratta innanzitutto di esperienze
emotive che richiedono di essere mentalmente ponderate (Harris, 1980). Le reazioni emotive dell’osservatore
non devono essere trascurate nemmeno nella ricerca più precisa. Ora
desidero
raccontare
una
mia esperienza
personale: durante una delle prime visite ad una famiglia con un bambino
di alcune settimane, ricordo di aver
avuto una sensazione di disagio, come se si fosse creata una certa tensione intorno. La madre era molto abile nel nutrire il suo bambino e nel cambiargli i pannolini, il suo comportamento era affettuoso e tenero. Appariva sicura di se stessa, ma ad un certo punto sorse il problema se un altro bambino, nato nello stesso giorno di sua figlia,
456
La cultura psicoanalitica
stesse crescendo altrettanto bene. Con molta facilità e sicurezza la madre rivelò che non aveva ancora portato la bambina alla prima visita pediatrica, per quanto lo avesse già dovuto fare. In quel momento, dimenticando la regola principale della neutralità dell’osservatore, iniziai a persuadere la madre che doveva visitare il medico a scanso di problemi. Più tardi mi resi conto che un aspetto di questo evento poteva essere inteso in termini di invidia e rivalità, con la mia osservazione
generica di incertezza circa la capacità di agire come osservatore. Perciò sembra che la madre abbia avuto l'occasione di proiettare i propri sentimenti depressivi, celati dietro una sicurezza fortemente accentuata ed invece di offrire riserbo, io avevo reagito. Il secondo punto della mia relazione tratta di quanto possiamo concentrarci sui processi interni del bambino, tenendo presente che siamo principalmente interessati al suo modo di essere naturale ed allo sviluppo delle sue potenzialità. Il bambino è, a nostro avviso, sempre un mistero. Possiamo capire meglio la madre poiché con lei comunichiamo verbalmente. Così siamo facilmente tentati di impegnarci maggiormente con lei ed a concentrarci meno sulla sua unità con il bambino. A volte i sentimenti inconsci della madre, sentimenti di
rivalità verso il bambino, possono portarci con facilità su questa strada. Recentemente, ho visto un padre portare il figlio di quindici mesi per un consulto poiché il bambino era inquieto, rifiutava il cibo e si comportava in modo autolesivo. Si era comportato così per un lungo periodo. Due settimane prima del consulto, la madre aveva lasciato il bambino nell’asilo nido e non era ritornata più a casa, aveva disertato la famiglia ed era ritornata dai genitori. Il marito,
profondamente
ferito, era
andato
a cercarla
dopo un paio di giorni ma il tentativo di riconciliazione non aveva avuto esito positivo, ci fu un intervento della polizia e la suocera fu ricoverata in ospedale per lesioni riportate al capo ed il marito fu rinchiuso in prigione per una notte. Le principali caratteristiche della vita di questa famiglia erano state improntate da grave patologia sociale, alcoolismo e maltrattamento fisico ed emotivo. Durante il secondo incontro con il marito, il
Psicoanalisi:
teorie e clinica
457
bambino, apparentemente ben nutrito e sviluppato, era molto inquieto. Da poco aveva appreso a camminare ed
ora stava appassionatamente esplorando il mio ufficio. Dondolandosi e strisciando intorno tirava i giocattoli fuori dalle scatole e li portava al padre o a me, articolando suoni incomprensibili. Ad un tratto, inaspettatamente,
la madre entrò nella stanza (c’era stato un
malinteso circa l'appuntamento). Era la prima volta che vedeva il bambino dopo un mese. Come entrò, il bambino non la degnò nemmeno di uno sguardo ed il suo comportamento non cambiò, come se non l’avesse neppure notata. Comunque, fui sorpresa nel vedere come la madre, che dovette letteralmente scavalcare il
bambino che giocava di fronte alla porta, non lo guardò nemmeno. Rimase nella stanza con la più totale indifferenza, senza mai guardare il bambino o cercare di stabilire qualsiasi contatto con lui. Più tardi, parlandole, notai in lei uno scarsissimo sviluppo emotivo ed intellettuale. La passività fortemente accentuata molto probabilmente copriva la depressione. Sembrava disinteressata di quanto avveniva al bambino, come se non fosse stata in grado di stabilire un buon contatto con il bambino sin dall’inizio. Si lamentava molto circa il comportamento di suo marito e questo le sembrava sufficiente per aver lasciato la casa. Anche senza conoscere la madre, si poteva capire dal comportamento del bambino, che questo viveva probabilmente in un ambiente che non gli offriva sufficiente attenzione da parte materna o da parte di qualche sostituto della madre. Ma soltanto dopo averla incontrata, potevo formulare un’opinione su di lei. Era una persona molto giovane,
immatura,
ansiosa, depressa e vacua
fino al
punto da sembrare incapace di stabilire un rapporto emotivo con il proprio figlio. Sembrava che lei inconsciamente stesse negando l’esistenza stessa del bambino, poiché per lei non rappresentava altro che un ulteriore oggetto interno negativo o addirittura morto. Poiché aveva reagito alla presenza del bambino con un atteggiamento apparentemente indifferente, il bambino si era inquietato e forse sbattendo la testa contro il muro avrebbe dimostrato a se stesso che in realtà esisteva. Lebovici (1983) e Diatkine hanno recentemente
458
La cultura psicoanalitica
descritto la capacità materna di riconoscere inconsciamente e di reagire alle necessità del proprio bambino e la chiamano «l’anticipazione creativa». La loro ipotesi è che la vita immaginaria e le fantasie della madre rendono possibile attribuire un significato psicologico e sensato ai primi modi di esprimersi del bambino. Da parte del bambino sussiste una relazione affettiva verso gli affetti della madre, gettando così le basi per quel sistema protorappresentativo che potrà sviluppare e diventare il suo (del bambino) inizio d’anticipazione nella seconda metà del primo anno di vita. La capacità della madre di anticipare i bisogni ed i desideri del suo bambino e di capire il suo comportamento, porta alla crescita del narcisismo del bambino. Contemporaneamente il bambino crea i suoi oggetti interni che non sono solo il prodotto delle allucinazioni di piacere del bambino, ma dipendono anche dall’influenza delle fantasie della madre (Lebovici, 1984). A volte è difficile delineare
chiaramente concetti parzialmente intrecciati come “l’anticipazione creativa” e “la interazione fantasmatica” (Lebovici, 1984), dall’holding o dalla “primaria preoccupazione materna” di
Winnicott (Winnicott, 1956, 1960). Inoltre essi sembra-
no strettamente collegati al concetto del contenimento ed all’interazione delle proiezioni, introiezioni ed identificazioni proiettive come descritte da Meélanie Klein (1946),
Bion
(1962),
Hanna
Segal
(1964),
ed
altri
“Lkleiniani”. Mentre la fantasia della madre è necessaria per scoprire il significato dei primi modi di esprimersi del bambino, l’intera cura materna del bambino, una volta che esso è indipendente, è coperta dal concetto di holding. L’holding emerge dalla preoccupazione materna primaria ed è basata sull’immedesimazione più che sulla conscia comprensione dei bisogni del bambino. L’immedesimazione è un comune denominatore per il primo rapporto madre-bambino. E basata sui processi dell’identificazione proiettiva (H. Segal, 1984). L’identifica-
zione proiettiva è un concetto piuttosto controverso e si
riferisce alla capacità della to con l’intero sé o con portare ad una percezione dell'oggetto in reciproco
fantasia di entrare nell’oggetparte di esso, cosa che può alterata dell’identità del sé e rapporto (Moustaki, 1981);
Psicoanalisi: teorie e clinica
459
viene impiegata per descrivere vari processi che appartengono alla prima vita fantasmatica di un bambino. Nel primo rapporto madre-bambino, comprendendo i bisogni del bambino, l’immedesimazione non solo indebolirà la paura dell’annientamento ma porterà anche ad un aumento del narcisismo primario nei primi giorni di vita e questo è indispensabile per l’ulteriore sviluppo emotivo.
Nel primo rapporto madre-bambino la comprensione, l'accettazione e l'accoglimento delle comunicazioni e proiezioni del bambino, seguono i sentieri misteriosi delle fantasie, aspettative, soddisfazioni ed ansie della madre. Perciò sembra molto difficile cercare di influenzare direttamente il rapporto diadico. La capacità dell’osservatore o del terapeuta di contenere i sentimenti della madre, che sono spesso carichi di ansie e depressivi per natura, è lo strumento più importante per qualsiasi terapia.
Mi è stato chiesto di vedere un bambino di quattro mesi nato ad una paziente che era stata in psicoterapia
presso un altro medico per episodi di anoressia e bulimia. Il bambino era il suo primo figlio dopo vari aborti. Il bambino era molto eccitato, spesso piangeva, dormiva male e rifiutava il cibo. Quando lo vidi per la prima volta mi sembrò un bambino grande e forte. Comunque la madre continuò a lamentarsi di quanto poco mangiasse (veniva nutrito con il biberon), continuava a chiedersi se il bambino aveva mangiato abbastanza per il suo pasto, per dirmi alla fine, in modo da essere poi scusata che ora il bambino era forte e ben nutrito ma soltanto perché lo aveva sempre costretto a mangiare, per evitare che si affamasse. Il volto del bambino esprimeva insoddisfazione, alternava al forte pianto singhiozzi ed aveva un’espressione corrucciata. Appariva costantemente a disagio. Avevo l’impressione che la madre si sforzasse di rimanere allegra. Mi spiegò che aveva interrotto la propria terapia prima della nascita del bambino poiché non riteneva giusto occuparsi dei propri problemi in quel momento. Inoltre pensava che tutti i suoi problemi sarebbero scomparsi con la nascita del bambino. Durante la gravidanza si sentiva molto bene ed era attiva. Ma quando era nato il bambino
460
La cultura psicoanalitica
tutto era cambiato. Era come se si fosse sentita persegui-
tata dall’incessante pianto, dall’irrequietezza e dalla debolezza del bambino. Mentre stavamo parlando la madre lasciava il figlio in una posizione piuttosto scomoda, dalla quale lui cercava di uscire respirando profondamente, gemendo e piangendo con un’espressione di dolore sul volto. Sembrava che la madre non si accorgesse dei suoi sforzi. Allora lo prendeva in braccio e lo metteva in una posizione ancora più scomoda, a testa in giù, e lo lasciava così come se lo avesse dimenticato. Tuttavia ogni tanto gli si rivolgeva parlando ed il bambino sorrideva non più, almeno apparentemente, infastidito dalla strana posizione. L’ansietà diffusa della madre potrebbe essere spiegata con le sue preoccupazioni per un bambino “difficile”, ma dietro si celava in realtà la sua insicurezza e la sua sensazione di persecuzione da parte di un oggetto negativo, parzialmente proiettate nel bambino. Allo stesso tempo, l’inquietudine del bambino sembrava indicare la qualità del suo oggetto introiettato e forse il bambino stesso contribuiva alla sensazione di ansia e disagio nella sua unità con la madre. E che dire poi dell’ambivalenza,
dell’ansietà,
del
senso di colpa e della sensazione di impotenza? È mia opinione che in ogni concetto di contenimento possiamo
trovare le basi per azioni preventive e terapeutiche nella coppia. Trovando in noi spazio mentale per la madre e per il suo bambino, ed accettando le insostenibili sensazioni, forse possiamo rendere possibile alla madre,
la creazione dello stesso spazio mentale per contenere in se stessa le fantasie del bambino. Forse allora il bambino sarà in grado di impiegare i sentimenti offerti e avuti di ritorno metabolizzati, per creare nel suo mondo interno un oggetto che sia abbastanza buono e capace di rafforzare il suo Io, soddisfacendo i suoi bisogni libidici e proteggendolo dai suoi stessi impulsi distruttivi.
Psicoanalisi: teorie e clinica
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Vesna Vidovié (Jugoslavia - Lubiana): Psichiatra e psicoterapeuta. Supervisore per la psicoterapia analitica, Centro di Saluie Mentale, Università di Zagabria.
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Psicoanalisi e psicoterapia
Dita Nenning Dietomania - origine e terapia Consentitemi una premessa. Dalla lettera d’invito ho appreso che questo convegno si propone — accanto ad un bilancio storico — «di prendere atto dell’influsso esercitato dalla ricerca psicoanalitica sulla psicologia e sulla psichiatria». Lavoro presso l’Istituto di Psicologia dell’Università di Vienna; al centro della mia attività vi sono la psicologia della prima infanzia e la ricerca psicoterapeutica, con particolare attenzione agli aspetti evolutivi. Per quanto concerne la mia specialità, posso fin d’ora anticipare una conclusione del convegno: i contenuti della psicologia attuale subiscono l’influsso dei risultati della ricerca
psicoanalitica. Freud, come base della psicoterapia analitica oggi praticata e di altri seri metodi terapeutici legati alla psicologia del profondo. Freud come uno dei pilastri della terapia comportamentale, se penso all’importante capitolo delle modificazioni comportamentali che dobbiamo agli analisti Dollard e Miller. Malgrado tutte le scaramucce del passato, il modello psicoanalitico ha già conquistato il suo ruolo anche nella psicologia accademica.
Sia la teoria della libido che la descrizione delle fasi vengono citate più o meno ampiamente nei testi recenti. E non pochi temi psicologici vengono trattati in maniera
tale da far trasparire la matrice freudiana. Vengo ora al mio argomento. A titolo di prolusione va detto che, pur essendo il fenomeno della dietomania piuttosto frequente,
non
ne esiste ancora
uno
studio
La cultura psicoanalitica
464
compiuto. Per rispettare i tempi, cito da una monografia
attualmente in preparazione soltanto i principali nodi teorico-speculativi ed i risultati preliminari ad essi riferiti. Che cosa intendo per “dietomani”? Persone che: — in presenza di un sovrappeso effettivo o immaginario iniziano ripetutamente e ad intervalli quasi regolari a seguire delle prescrizioni dietetiche desunte dai mass media oppure da informazioni personali; — seguono scrupolosamente questa dieta autoimposta per un certo periodo, sospendendola però ad un dato momento ed abbandonandola poi del tutto; — ripetono questa procedura per anni, con delle interruzioni, scegliendo piani dietetici sempre diversi.
Dietomania - principio e decorso
La cosiddetta
“dietomania”
viene considerata una
mania di sostituzione in presenza di voracità o, per usare
un termine che preferisco, di “saziomania” pregressa. Pur con tutti i limiti del valore informativo del materiale ricavato dal primo colloquio e dalle relazioni delle sedute di terapia analitica individuali, si può dire che i dietomani tendono ad avere un Super-io piuttosto sviluppato. La forza delle strutture del loro Io pare improntata alla dinamica tra forza e debolezza. Alcuni dimostrabili meccanismi di difesa presentano, se sottoposti al confronto interindividuale, analogie
tipologiche
e sequenziali,
fra cui si riscontrano
ad
esempio tendenza regressiva, razionalizzazione, rimozione, isolamento, conversione e sublimazione. Ai fini di
una sistematizzazione psichiatrica sarebbe errato interpretare il presunto nesso esistente fra la saziomania e la dietomania come di natura impulsivo-nevrotica. L'esplorazione rileva di regola una turba pregressa dello sviluppo della libido, una fissazione della libido in stadi organizzativi pregenitali, principalmente alla fase orale ed anale. Spesso i pazienti lamentano stati d’angoscia attuali o risalenti all’infanzia. Per la prima infanzia, nella misura in cui questa viene ricordata, si suppongono
Psicoanalisi e psicoterapia
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regressioni a modi comportamentali propri dei primi stadi dello sviluppo e/o formazione di reazioni specifiche di determinate fasi — soprattutto nei confronti del genitore dell’altro sesso. Il tutto si accompagna a cenni di sintomatologia primordiale. Dietomania
- decorso
Ciò nonostante, il ciclo “abuso alimentare — inizio
della dieta — interruzione della dieta”, nel suo ripetersi di accettazione e rifiuto del sintomo, fa pensare ad un quadro di dipendenza impulsivo-nevrotica. Anche il maniaco della sazietà soffre cronicamente di sfoghi impulsivi, i quali lo obbligano a soddisfare la pulsione. L’assunzione di cibo, ricorrente per lo più in attacchi (binge eating) durante l’episodio pulsionale, viene evidentemente vissuta come un piacere in sintonia con l’Io.
Ingozzarsi di cibo significa anche impossessarsi di un oggetto e distruggerlo masticandolo, significa far sparire per sempre un oggetto nel proprio ventre. In una specie
di processo di generalizzazione, si assecondano forse fantasie primordiali e desideri di morte dei genitori e dei fratelli appena nati, oppure — in termini meno drammatici — si fanno sparire cose spiacevoli o malriuscite. Ai fini di un’eziologia, a questo punto si può ricorrere alla teoria della libido ed al teorema del quantum. I maniaci della sazietà e della dieta a mio avviso hanno sofferto di una serie di traumi puntuali e ricorrenti, oppure di prolungati e diffusi influssi negativi. Il primo evento, quello che presumibilmente sta alla radice del disturbo, dovrebbe essere quasi sempre una fissazione di grandi parti di libido alla fase sadico-orale, causata da frustrazione e/o vezzeggiamento. Il neonato di una certa età tenta notoriamente di evitare la separazione provvisoria fra soggetto ed oggetto, morsicando la madre con i dentini appena spuntati. Per Freud questa è una attività neonatale aggressiva e piacevole. Dalla corretta reazione della madre — il suo amorevole dosare il rigetto dell'aggressione che ne deriva — dipende l’esito di questo primo processo di apprendimento: si impara che rinunciando a soddisfare una
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La cultura psicoanalitica
pulsione si ottiene affetto. Il successo o il fallimento di questa prima fase di adattamento dal principio del piacere al principio di realtà significa accumulare capitale o accendere un’ipoteca su una vita intera. La mia tesi secondo cui la saziomania — nella sua evidente sintonia del sintomo con l’Io e nell’ininterrotta immediatezza della soddisfazione dell'impulso pulsionale (Triebimpuls) — ricorda l'andamento degli episodi impulsonevrotici, andrebbe integrata ancora come segue. AI di fuori dell'episodio pulsionale, il sintomo viene vissuto in distonia con l’Io e quindi con un rifiuto, e ciò determina il susseguirsi di episodi di voracità e digiuno ed il ricorrere di momenti dietetici — la sostituzione della mania della sazietà con quella della dieta, per l'appunto. L’andamento cronico degli attacchi pulsionali garantisce, dopo un adeguato periodo di dieta, la comparsa del successivo episodio pulsionale. Il sintomo si sfoga di nuovo piacevolmente in sintonia con l'Io, e la dieta viene interrotta. Veniamo
ora al ruolo della rimozione,
che
finora abbiamo trascurato in quanto presupposto. I meccanismi di difesa sono gendarmi ausiliari dell’Io nella sua incessante attività tesa a placare l’imprevedibilità dell’Es, costantemente alla ricerca di piacere ed avventura, l’invadenza del Super-io con i suoi insistenti imperativi morali, nonché l’adattamento indispensabile quanto sgradevole alla realtà. In questa situazione di precarietà, i moti pulsionali aggressivi dell'Io non possono stupire. Stranamente l’Io teme più di tutto le proprie aggressioni, al punto da relegare nelle carceri dell’inconscio gli impulsi aggressivi e con loro anche le esigenze inopportune delle pulsioni sessuali. Il carcere — ossia l'inconscio — si sovraffolla e a volte aggressione e sessualità rischiano un tentativo
di evasione,
ciascuno
per sé o insieme, all’insaputa dell’Io, o quasi. Devono entrare in azione nuovi gendarmi ausiliari, vale a dire meccanismi di difesa, con grande dispendio di energia. Il conflitto tra piacere morale e/o convenzioni da una parte e preoccupazione esistenziale dall'altra non viene affatto risolto in questo modo. La teoria psicoanalitica parla di una dinamica
Psicoanalisi e psicoterapia
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conflittuale che nascerebbe in questo contesto. Tale dinamica potrebbe venir rappresentata come una motrice per i miei due vagoni interscambiabili: la mania della sazietà e la dietomania. I momenti scatenanti attacchi di voracità sono rilevabili già nel primo colloquio e derivano nella maggior parte dei casi dal contesto quotidiano. Equivalgono per così dire a pietriccio sciolto in superficie, facilmente recuperabile. Il vero macigno è sempre e senza eccezione alcuna la sessualità malata, oppure non realizzabile che può essere recuperata soltanto con un paziente lavoro analitico. Consentitemi a tale proposito due riflessioni sull’intervento terapeutico. W. Stuncard, il grande decano della ricerca sulle forme patologiche dell’assunzione di cibo, ha dichiarato nel 1982, in occasione di una visita a
Vienna: «Se voglio comprendere un obeso devo psicoanalizzarlo, se lo voglio aiutare devo avviarlo ad una terapia comportamentale». Negli ultimi tempi ho trattato diversi casi di mania della sazietà e dietomania integrando un metodo pragmatico
come
il frairizg
autogeno
con
una
terapia
individuale psicoanalitica. I vantaggi che ne derivano sono:
1. Risparmio di tempo nella fase iniziale della terapia. Già durante l’introduzione al traizing autogeno si crea una situazione di transfert che va poi ad aggiungersi alla situazione di transfert analitico. 2. Con l’aiuto di un fermo proposito, il paziente sarà presto in grado di modificare autonomamente il suo modo deviato di assumere cibo. 3. Durante la terapia psicoanalitica individuale vengono richiamati ed elaborati soprattutto i capitoli dell’infanzia e della vita del paziente determinanti per i suoi disturbi e conflitti. Parliamo di dipendenze e cerchiamo di dare loro una sistematizzazione, tra l’altro in base alle sostanze e alle
procedure curative. Il bisogno d’amore non è stato chiamato in causa esplicitamente,
pur essendo
noto
come
vero
motivo.
Non è da escludere che l’uomo, essendo nato incompleto ed indifeso, bisognoso di cura ed amore, porti in sé il
468
La cultura psicoanalitica
germe della dipendenza come condizionamento proprio della specie. Mania della sazietà e dietomania appartengono sia al gruppo delle dipendenze da sostanze che a quello delle dipendenze accettate, per non dire promosse, dalla società. In tal senso la mania della sazietà è una
dipendenza “per bene” e la dietomania lo è ancor di più. In essa si cela l’idea di rinuncia al piacere al fine di soddisfare le esigenze estetiche della società in genere e del partner in particolare. L'aspetto del “non subire ricadute” — non dovere temere punizioni, speranza di ricompensa e per di più incremento di piacere ed appagamento delle pulsioni — molto probabilmente ha qualche rilievo nella scelta della dipendenza per le persone inclini alla dietomania. Altrettanto rilevante è il nesso tra tipo di trauma e scelta della dipendenza. Le persone affette da mania della sazietà e dietomania riferiscono con sorprendente frequenza di avere avuto una prima infanzia triste con relazioni oggettuali mal riuscite, inesistente o insufficiente gratificazione ecc., ma raccontano anche di successive fasi più felici come il primo amore infantile, la prima profonda amicizia infantile oppure rapporti emozionali con il/la primo/a insegnante o educatore/trice, vissuti con piaCere: Tutte profonde esperienze di relazioni oggettuali riuscite che evidentemente hanno saputo tramutare la maledizione perenne di una mancata o carente fiducia primordiale in un fardello più sopportabile; proprio come la fata buona nella fiaba della Bella Addormentata trasforma il desiderio di morte della fata malvagia in un sonno solitario ed in un possibile riscatto. L’ipotesi secondo cui, grazie a circostanze propizie nella prima o
seconda infanzia, i disturbi causati precedentemente nella fase orale o anale possono essere corretti o addirittura neutralizzati, viene consolidata dall'immagine negativa di tali eventi. Mi riferisco qui a quei casi di dipendenza grave, la cui storia è contraddistinta da felici condizioni ambientali nel primissimo periodo, seguite però da traumi familiari come divorzio o morte dei genitori, perdita di importanti relazioni oggettuali, assenza di rapporti emozionali verso insegnanti incapaci o svogliati.
Psicoanalisi e psicoterapia
469
Per riassumere riprendo e delineo in breve le fasi sensibili della prima e seconda infanzia: 1) il periodo del primo, profondo amore e sentimento di amicizia infantile. Il valore dell’esperienza del primo binomio madre-figlio viene qui ripetuto, rafforzato e corretto, in positivo e in negativo. Si forma il modello individuale dei successivi rapporti d’amore e d’amicizia. 2) Con l'ingresso a scuola ha inizio il processo di apprendimento scolare, di trasmissione di sapere e conoscenze. Si tratta di un processo in gran parte orale: il bambino viene ancora una volta imboccato; gli insegnanti appagano la sete di sapere, la fame di imparare. Secondo la teoria psicoanalitica, a questa età comincerebbe il periodo di latenza. In base ai risultati delle ricerche sulla psicologia dello sviluppo e sulla sessualità condotti negli ultimi vent'anni, il concetto di periodo di latenza postulato da Freud non è più conciliabile con la situazione attuale. Interessi ed attività sessuali sono diffusi anche, per non dire soprattutto, nell’infanzia media, in tutti i gruppi sociali; il desiderio onanistico non subisce interruzioni.
Pertanto, anche sulla base di osservazioni personali, propongo di sostituire il periodo di latenza con un modello in cui si ripetono determinate fasi, e credo di poter ipotizzare una 2° fase orale verso il 6° anno; 2° fase anale dall’8° al 10° anno; 2° fase fallica dal 10° al 12° anno.
Esaminando la letteratura psicoanalitica sul periodo di latenza, si nota che da parecchio tempo neppure gli autori psicoanalitici sono del tutto soddisfatti della concezione freudiana del periodo di latenza. Tuttavia si nota pure che solo pochissimi psicoanalisti si sono finora espressi in merito. E da supporre che i teorici della psicoanalisi dovranno rivedere prima o poi le loro tesi sul tema del periodo di latenza, così come gli psicologi dello sviluppo stanno attualmente modificando le loro teorie sulle competenze sociali del neonato e dell’infante. Ciò avviene anche alla luce di modi interpretativi correlati al substrato biologico — tema caro da anni a neuropsicologi e teorici dell’apprendimento! Modi interpretativi per disturbi nella prima infanzia e deficit emozionali che ne risultano. La teoria della libido e la
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La cultura psicoanalitica
teoria della struttura della personalità vengono così indirettamente confermate. Permettetemi dunque di ripetere quanto ho già detto all’inizio: i contenuti della psicologia attuale subiscono l'influsso dei risultati della ricerca psicoanalitica. =
Dita Nenning (Austria - Vienna): Psicoterapeuta, dell'età evolutiva all’Università di Vienna.
insegna Psicologia
Maria Concetta Auteri Sapienza
Motivi socio-culturali della nascita della Società Italiana di Psicoterapia Psicoanalitica . Devo ammettere di avere incontrato una certa difficoltà nel fare il tentativo di sintetizzare l’attività svolta per più di dieci anni dai soci più anziani dell’attuale Società Italiana di Psicoterapia Psicoanalitica. Un decennio impegnato e intessuto anche — come tenterò di dire — da una processualità di problemi inerenti alla nascita del nostro gruppo di psicoterapeuti che nel tempo ha formulato progetti e delineato mete da perseguire. Parlare delle cause che hanno generato la nascita in Italia, di una Associazione denominata “Socie-
tà Italiana di Psicoterapia Psicoanalitica”, potrebbe essere un fatto le cui motivazioni sarebbero facilmente spiegabili. Basterebbe andare a ritroso e ricordare il gruppo di sei persone, di cui feci parte anch'io, che s'incontrava nello studio ospitale del dott. P. Bellanova per ascoltare il suo attento insegnamento, per commentare insieme letture di Freud e per imparare ad usare un linguaggio tra noi, tecnicamente più specifico e diverso da quello espresso col paziente. Ricordo che erano vivaci esperienze di scambio e di verifica del lavoro che allora svolgevamo col paziente e anche su noi stessi al lavoro col paziente e quindi sulla coppia analitica. L’alleanza nell’operare, l’entusiamo per le scoperte crescenti e la solidarietà che ci univa erano basati sulla certezza che, elaborando insieme il lavoro eseguito singolarmente, superavamo l’isolamento che non giova certo all'attività psicoterapeutica. Se vogliamo parlare di storia, quello fu il primo momento fondante.
La cultura psicoanalitica
472
Una
sequenza
successiva
fu data dalla fusione
di
questo gruppo con un altro gruppo che si era anche dato un compito formativo. Il riconoscerci l'un l’altro per lo stesso impegno e la comunione d’intenti, favoriva una necessità fortemente sentita a migliorare con ulteriori esperienze individuali di supervisione e partecipazione a seminari condotti in privato, da didatti della SPI, la conoscenza della teoria per una sempre più corretta pratica della psicoterapia psicoanalitica. Pensando a quei primi anni di formazione, credo che quello che si è essenzialmente appreso ed è entrato “dentro”, è qualcosa che esula dalle nozioni, è l’insight sul paziente, è la convinzione che la conoscenza analitica produce la franchezza del dire che è di gran lunga molto più importante del sapere. A questa fase segue un momento di difficile individuazione e descrizione, non collocabile neanche come momento finito. Noi, come gruppo, eravamo entrati in
un processo di pensiero analogo a quello di un paziente in analisi che gradualmente impara a pensare a se stesso che pensa. Ci ha insegnato Bion? che le problematiche di un gruppo dipendono dalla interazione di processi profondi le cui forme di comunicazione più evolute s'intrecciano a forme primordiali di identificazioni proiettive. Nel suo scritto Dinamica di gruppo: una revisione, egli postula che ogni gruppo di persone riunito per lavoro, manifesta «un'attività di gruppo e di lavoro con un funzionamento mentale designato a favorire il compito in questione». Asserisce poi come il conseguimento di tali scopi è talvolta impedito ma talvolta anche favorito dalle tendenze affettive profonde. Questo mio breve accenno a Bion ha solo l’intento di
indurre l’attenzione di chi legge, a pensare che fin dai primi tempi in cui —
noi psicoterapeuti
—
ci siamo
messi insieme, abbiamo sentito e saputo che al di là di ogni.entusiasmo per la ricerca psicoanalitica, c'erano profondi processi che solo in parte potevamo col tempo dirimere, nati dalla fusione del primitivo e dell’evoluto. Il compito era quello, e lo è tuttora, di estrapolare nella densa rete degli aspetti pensati e impensabili, ciò che può essere individuato come pensiero operante.
Psicoanalisi e psicoterapia
473
Con attenzione ci siamo chiesti quali aspetti potevano essere postulati. Emergevano: 1) il quesito sull’origine della nostra nascita, non come Società Italiana di Psicoterapia Psicoanalitica, ma come psicoterapeuti; 2) il quesito sulla nostra identità; 3) le riflessioni
sui motivi
sociali che ci avevano
indotto a metterci insieme; 4)
il sentire
adeguate
che
potevamo
contribuire
risposte alle richieste di persone
a
dare
sofferenti
(all’interno di un servizio di Igiene Mentale o di USL o .di Consultori), richieste che col tempo sarebbero
aumentate, dove insorgono molte difficoltà per districare l’intreccio formato dai problemi delle persone dolenti, dalla rigidità della cultura burocratica e dall’azione degli operatori. Le questioni discusse, pianificate e riattivate con forza alla luce di ottiche nuove, erano e sono svariate.
Generano una processualità di interrogativi a cui non sempre è possibile dare la giusta risposta. Accennare ad alcuni quesiti e non ad altri connessi tra loro, non vuol dire superficializzare il problema ma tentare di semplificarne la comunicazione. Il nostro percorso presenta due momenti nodali: 1) chi eravamo dieci anni fa. Tutti avevamo l’esperienza di una analisi effettuata con membri della SPI. Le motivazioni iniziali all'analisi potevano essere state diverse: il bisogno personale; il desiderio di migliorare il lavoro di psicoterapia svolto in istituzioni pubbliche o case di cura private, per cui l’analisi personale era stata una prospettiva maturata nel corso del lavoro; per altri, l’analisi fatta fuori dagli Istituti di formazione della SPI era una soluzione per la difficoltà a raggiungere la sede di detti Istituti; per altri ancora perché si era superato, anche di poco, quel limite di età stabilito nello statuto della SPI. Vi erano anche dei motivi esterni: le esigenze da parte dell'ambiente si intensificavano sia nel pubblico che nel privato, producendo in noi l'opportunità di dare risposte consapevoli. Il problema che sopraggiunge è relativo quindi alla seconda sequenza: 2) ci siamo
aggregati
e dati
una
connotazione
ufficiale. Saremmo potuti rimanere come siamo nati in
474
La cultura psicoanalitica
un’area personale, cioè psicoterapeuti con formazione
psicoanalitica senza il riconoscimento istituzionale. Ma il
riconoscimento veniva sempre più richiesto dagli Enti e
dall'ambiente. Denominarci quindi con Atto Statutario nel 1980, è stato a mio avviso un evento importante che ci ha trasportati dall'area personale ad un’area pubblica,
nel sociale.
;
È una seconda nascita. E noto che una Associazione ha vita quando si dà uno Statuto proclamando scopi, limiti e aree di intervento. Il processo relativo all’essere nati con lo stesso modello di training degli analisti della SPI, ci faceva sentire come figli illegittimi. La nostra “identità” poteva contenere aspetti di una identificazione interdetta. L’interrogativo posto da Steiner e D’Asaro? «se lo psicoterapeuta è un trasgressore» esprime un travaglio
interno del gruppo che se fosse rimasto o rimanesse in alcuni irrisolto, potrebbe rallentare il processo di integrazione necessario alla formazione del setting interno dello psicoterapeuta psicoanalitico. Su questo delicato problema De Lauro * coglie «una inconscia barriera difensiva» tra analista SPI e analizzando psicoterapeuta. Richiama lo scritto di Freud L’Io e l’Es riguardo alla formazione del Super-Io. «Si tratta di una ammonizione: così — come il padre — devi essere; e nello stesso di un divieto: così come il padre non ti è permesso di essere». «L’interdetto — precisa De Lauro — potrebbe interferire sulla processualità analitica: specificamente sull’istituirsi della fusione analizzando-analista funzionale alla crescita, sui movimenti introiettivi, imitativi ecc.».
Pensando alla storia della psicoanalisi costellata da rotture ed esiliazioni ci siamo qualche volta chiesti, nei momenti più difficili, se saremmo col tempo scomparsi. Di riscontro, avevamo fede che il buon uso e l’esperienza che intendevamo fare di questo tempo, poteva darci ragione delle nostre
fatiche emotive
e intellettive per
formulare e attuare un progetto che richiedeva un grosso impegno di energia, una dedizione senza pentimenti e in particolare la ferma convinzione di evitare l'esaltazione onnipotente. Solo a questa ultima condizione, come
Psicoanalisi e psicoterapia
475
sottolinea Carloni? potevamo superare i problemi connessi alla nostra identità. In questi ultimi decenni, anche nel nostro paese si è verificato un profondo mutamento scientifico, con il risultato che la ricerca è attratta dallo studio sull’individuo e di conseguenza la psicoanalisi concorre in parità alle altre scienze per risolvere e alleviare il dolore nell’uomo. Intuita come uno strumento prezioso per la terapia, per la comunicazione, per l’interazione e la conoscenza umana, la psicoanalisi non poteva essere più relegata — se non in grado molto elevato — a pochi depositari, ma era ed è profondamente entrata nella cultura della nostra epoca. Lo “scopo” con cui è sorta la Società Italiana di Psicoterapia Psicoanalitica è espresso nell’art. 3 del suo Statuto: «Fondandosi sugli orientamenti e indirizzi dell’International Psycho-Analitical Association, promuove gli studi e la ricerca nel campo della psicoterapia psicoanalitica anche in collaborazione scientifica con istituti universitari ed istituzioni nazionali e internazionali. L’Associazione
si propone
una rigorosa formazione
psicoanalitica dei suoi membri. La formazione si svolge con la premessa di una psicoanalisi personale effettuata a titolo privato con alcuni ordinari della SIPP, o con membri
della SPI.
L’analisi non deve avere un ritmo inferiore a tre sedute settimanali e dopo un congruo tempo da cui si può evincere la motivazione al lavoro di psicoterapeuta, l'aspirante, avendo fatto domanda alla SIPP e superato la prassi di tre colloqui di selezione con i membri ordinari anziani dell’Associazione, viene avviato quale allievo ai quattro anni di corso, durante i quali dovrà effettuare tre supervisioni con ordinari della SPI (che a titolo personale collaborano alla formazione dello psicoterapeuta)
di tre casi clinici, di cui due trattati a tre
sedute e una supervisione di un caso trattato ad una seduta
settimanale.
Dovrà
partecipare
a quarantotto
seminari per ogni anno articolati in: Baby observation; seminario teorico e seminario clinico; dal II anno, oltre i seminari teorici e clinici, l’alllevo dovrà iniziare un
476
La cultura psicoanalitica
“tirocinio guidato” di osservazione di uno o più pazienti degenti in un Servizio di Igiene Mentale. L'inserimento del tutor in ogni regione, è di aiuto agli allievi che necessitano di consigli sulla scelta del paziente, del supervisore o per altre ragioni (letture e studi) inerenti al loro iter formativo». Gli aspetti della formazione sono certo tutti elementi confluenti alla maturazione del Sé dello psicoterapeuta psicoanalitico. E un serio lavoro, ma è un lavoro propedeutico. Esso dà solo l’avvio alla costituzione di un setting personale interno, stabile tanto da potersi adattare alla instabilità e al mutamento dell’esterno, quando il terapeuta lavora nella istituzione pubblica. Connesso quindi al processo della formazione è quello dell’“identitale Con ben altra autorità Hautmann® esprime quella che è anche la mia opinione: «Perché si possa parlare di psicoterapia psicoanalitica, occorre che il terapeuta lavori con un particolare atteggiamento mentale che, certamente in grado elevato è proprio quello dello psicoanalista al lavoro nella situazione analitica». Denomina questo
atteggiamento
la «funzione
psicoanalitica
della mente». Precisa ancora Hautmann che essa «è la capacità di contatto, descrizione e interpretazione del mentale». E indubbio che il Sé dello psicoterapeuta possieda la funzione mentale descritta da Hautmann e mediante questa qualità è in grado di trasmettere il messaggio nuovo
per
cui, un
gruppo
di psicoterapeuti
in una
istituzione psichiatrica ha la possibilità di incidere sul “mentale” sia del singolo operatore sia di un gruppo di operatori. E chiaro che non voglio riferirmi ad un passaggio di nozioni, ma parlo di un bagaglio mentale profondo che se c'è viene trasmesso e non può che arricchire la funzionalità di un gruppo di servizio. La ‘funzione mentale analitica” è un prezioso strumento che lo psicoterapeuta usa sia se opera nella intimità della stanza del suo studio o se lavora nel servizio dove è inserito. Non è una qualità che viene insegnata. Non si apprende dagli altri. Dopo gli anni della formazione e di avvio, si ha o non si ha. È preziosa perché ricrea e rinnova
Psicoanalisi e psicoterapia
477
percorsi già fatti, perché li ripropone senza discontinuità alla luce dei mutamenti sociali, personali e dell’interlocutore, compagno dolente. E un mezzo di lotta contro la rigidità perché accetta l’imprevisto e coltiva l'emergenza della fantasia. In sintesi, ripropone l’effetto di rottura che fu introdotto da Freud col suo nuovo modo di affrontare “il mentale” in rapporto alla situazione sociale e alla scienza del suo tempo. Non voglio concludere un discorso sulla identità dello psicoterapeuta, perché definirla è come ridurgli lo spazio e dargli un 2printing o un segno di individuazione. Solo quando è al lavoro egli può riconoscersi o essere riconosciuto che egli è. Richiamo solo il concetto espresso da Grimberg” per cui «la capacità di continuare a sentirsi gli stessi nella successione dei cambiamenti costituisce la base dell’esperienza emozionale dell’identità e comporta la capacità di mantenere la stabilità pur attraverso circostanze diverse».
Aree di intervento.
Il campo dell’attività lavorativa dello psicoterapeuta si svolge nello studio privato, nel settore pubblico dove le richieste sono in aumento o in entrambi i campi. Penso che se lo psicoterapeuta sa costruire il suo luogo di lavoro di spazio e di tempo nella dimensione duale
col paziente
(che è il setting),
è in grado
di
apprendere immense capacità di lavoro terapeutico, tra cui la straordinaria esperienza della fusione empatica in cui al contempo egli, psicoterapeuta, è il ricercatore del processo. Ma quando lavora in un setting stravolto, il rapporto da duale diviene plurimo. L'istituzione sottrae il tempo e con esso la dimensione del tempo interno, interferisce mediante quell’imprevisto che non dà la fantasia, impone l’urgenza e lo spostamento degli spazi. Però il paziente è lo stesso e rimane lo stesso anche lo psicoterapeuta. Egli deve essere in grado non di interpretare ma di riuscire ad identificarsi col problema
478
La cultura psicoanalitica
del suo paziente, starci dentro; comprenderlo nel gesto,
nell’uso del corpo, nel silenzio. Il lavoro nell’area istituzionale comporta un impegno e una preparazione molto approfondita che si attua nel corso di numerosi anni di esperienza e di attenta osservazione. Mi sovviene quanto disse Freud in Per la storia del Movimento Psicoanalitico: « ... guardando e riguardando le cose finché esse stesse incominciano a parlare da sé». Brutti* per quanto riguarda il degente di un servizio afferma con chiarezza un concetto che ha lievitato per anni e che emerge attualmente e cioè: «Un Servizio di Igiene Mentale di territorio non può che fondarsi su un gruppo di lavoro in grado di affrontare la gestione del “caso serio” — cui in precedenza veniva data solo una risposta asilare —
a partire da strumenti
di analisi (e
operativi) istituzionali (politici) e diretti sulla persona (psicoterapia), tali da mettere in moto processi trasformativi contestuali e individuali che prevedono un iter che va dalla istituzione al mentale». Non credo certo nell’illusione tout court, ma voglio pensare ad un mondo psichiatrico migliore che promuove l’attuazione di molteplici fattori potenziali che dovranno convergere verso l'autenticità dell’aiuto alla persona sofferente. I fattori su cui incidere sono numerosi e interagenti
ed elencarli potrebbe significare isolarli da altri contesti e paradossalmente proporli come fatto teorico. Premettendo questa difficoltà, tenterei di segnalare solo due elementi che a mio avviso possono essere pensati come fenomeni verso cui deve orientarsi la funzione dello psicoterapeuta come agente di cambiamento: 1) Lavorare sulle resistenze del sistema al cambiamento;
2) dinamizzare istituzione.
la classificazione
diagnostica
nella
1) So che il problema di lavorare sulle resistenze che il sistema pone al cambiamento non è nuovo e che non è semplice identificarsi al di fuori della cultura in cui viviamo. Inoltre, in questo caso dobbiamo pensare non ad un singolo psicoterapeuta inserito nella istituzione,
Psicoanalisi e psicoterapia
479
ma alla presenza di un gruppo di psicoterapeuti psicoanalitici che solo se lavorano insieme possono riuscire ad operare cambiamenti nel sistema. La psicoanalisi è maestra nell’insegnarci a riflettere sulle difficoltà a lavorare le “resistenze” del sistema o di gruppi di persone che si aggrappano alla rigidità delle concettualizzazioni (scuole psichiatriche) e di istituzioni statiche (burocrazia, politica), perché ogni cambiamento è vissuto come minaccia che turba preesistenti difese sociali contro l’ansia psicotica. Può verificarsi a volte, che all'insegna del bisogno di essere in linea con la cultura in rinnovamento, si verifichi
l’imprevisto, cioè un cambiamento organizzato che ha lo scopo razionale di modificare la prassi di alcuni settori di un Servizio di Igiene Mentale con la proposta di soluzioni nuove di alcuni problemi. Questo agire lascerebbe insoluto il problema vero, perché la operazione al cambiamento avviene mediante la trasmissione di un programma intelligente sì, ma inerte, perché si ferma alla struttura manifesta del sistema senza intervenire nello spazio emotivo, nella dimensione profonda. Anzi la dimensione
inconscia
viene
accuratamente
evitata
e
negata. Ne conseguirebbe che un mutamento molto palese denuncia il non avvenuto mutamento. Diversa è invece la possibilità quando un gruppo di psicoterapeuti, formati all’uso della “funzione psicoanalitica della mente”, superando il livello pragmatico, trovano i veicoli per porsi in contatto con le parti emotive del sistema. E il sistema, per il suo funzionamento, è composto da persone reali che occupano ruoli, cioè individui, che in grado più o meno elevato possono recepire trasmissioni profonde. Mi riferisco ad un percorso lento e paziente affinché si possa comunicare con la realtà interna degli operatori che lavorano nelle istituzioni psichiatriche. Dalla realtà interna, alla modifica della realtà sociale
l’iter è complesso. Direi che è impossibile descriverlo in modo ordinato e consequenziale, perché si cadrebbe nella direzione del preordinato e del livello manifesto del sistema. Il rovesciamento di alcuni modi di prassi ha bisogno di una continuità di alleanza tra psicoterapeuti e
480
La cultura psicoanalitica
operatori e necessita di un tempo interno che potrebbe essere lungo anche come tempo sociale. I contributi Brutti, Ammanniti
di Magherini, e numerosi
Casoli,
Pratesi,
Scotti,
altri ancora, denunciano
che il problema della formazione del personale è un
elemento
insostituibile alla vita nuova
di un
servizio
psichiatrico. Due membri della nostra Associazione Maria e Francesco Ferraris conducono dal 1979 la formazione continua del personale secondo l’ottica psicoanalitica, in una struttura privata convenzionata col Servizio Sanitario Nazionale per pazienti psichiatrici
(Casa di cura S. Giorgio Viverone). Lo strumento è la supervisione effettuata in gruppo sui casi che sono oggetto di “osservazione partecipe”. Essi nel lavoro non hanno effettuato — come asserisce Magherini® — «un semplice travaso dei modelli della psicoanalisi nel gruppo», ma hanno cercato di porsi in contatto con le esperienze emotive dei partecipanti «servendosi di modelli i meno sofisticati ed estensibili a tutti gli operatori». 2) L’altro fattore è la dinamizzazione della classifica-
zione diagnostica nella istituzione. La classificazione diagnostica irretisce e riduce l'individuo che soffre nell’ambito ristretto e drammatico della malattia, laddove invece è essenziale che egli esca da questo cattivo contenitore e partecipi del pensiero di operatori capaci di adattarsi alla mente del paziente, senza il pregiudizio di dovere cambiare la sua mente, ma di agire su alcune sue proposizioni mentali solo se egli, paziente, lo vuole. Convertire quindi la diagnosi da giudizio totalizzante ad “aspetti” che insorgono nelle situazioni interpersonali, aspetti, che pur presentandosi come parti non sane, con connotazioni di ripetibilità e di rigidità possono
essere
integrate
e dinamizzate.
Già
Winnicott! in uno studio sulla schizofrenia aveva suggerito agli psichiatri di «mutare il concetto di diagnosi in punti di riferimento per una situazione intersoggettiva». La violenza che ha permeato per decenni la cultura tradizionale della malattia mentale ha edificato una “fortezza” tra paziente e medico psichiatra allo scopo di custodire la società. Ma ha rafforzato la sofferenza del
Psicoanalisi e psicoterapia
paziente e irreversibili. interno del diagnostica tempo e la
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l’ha descritta con alcune patologie spesso La diagnosi tradizionale ferma il tempo paziente e blocca la sua vitalità. Un’ottica mobile crea situazioni favorevoli in cui il fantasia della persona sofferente tornano ad
esistere.
A grandi linee gli orientamenti operativi della nostra Associazione possono essere quelli detti. Ora il discorso si amplia se si considera l’aumentato numero degli psicologi e il futuro intervento di una legge, che regolamenterà in Italia una corretta prassi della psicoterapia psicoanalitica. Allora, si deve essere attenti alle domande di medici e psicologi che per operare nel sociale richiedono una rigorosa formazione in una psicoterapia
orientata
psicoanaliticamente.
Sono
certa
che per molti questo bisogno è sentito. Ha un fondamento prezioso: proporre la consapevolezza e il rispetto per la sofferenza psichica, per aiutare il nostro interlocutore-paziente ad avere fede nel recupero — non del senno perduto! — ma della sua libertà interiore oppressa. La liberazione dai domini interiorizzati è la scelta vitale. Un contributo a tutto ciò, se pur modesto, è quanto
gli appartenenti alla Società Italiana di Psicoterapia Psicoanalitica si propongono di dare. Ringrazio per il cortese ascolto e mi piace concludere con una proposizione di un filosofo, per me maestro, a cui ricorro spesso nelle mie riflessioni: Wittgenstein. Egli ritiene che il vero metodo per la riflessione logica è limitarsi alla proposizione scientifica e fare poi il tentativo per dimostrare che essa è vera. Postula Wittgenstein!" che «tutto ciò che può essere pensato, può essere pensato chiaramente. Tutto ciò che
può formularsi, può formularsi chiaramente». A mio parere la profondità di questo assunto denuncia che la potenzialità del pensiero è già nascita della cosa e la formulazione del pensiero è già vita della cosa. E voglio augurarmi che la Società Italiana di Psicoterapia Psicoanalitica abbia avuto una nascita per
una vita evoluta.
16. La cultura psicoanalitica
482
La cultura psicoanalitica
Note
1. P. BeLtanova,
«Seminari»
tenuti
dal 1976
al 1982
agli
psicoterapeuti.
2. W.R. Bion, Dinamica di gruppo: una revisione, Il Saggiatore. 3. M. Srener, F. D’Asaro, La Psicoterapia Psicoanalitica: una trasgressione?, lettura ai Soci della SIPP nell’incontro di studio 1984. 4. L. De Lauro, Intervento del 25-2-1984 nel corso del seminario su Interpretazioni e costruzioni in Psicoanalisi e Psicoterapia tenuto da P. Bellanova nella sede della SIPP. 5. «Identità significa definitivo tramonto della onnipotenza infantile», Identità personale e professionale dello psicoanalista in «Riv. di Psicoanal.» Genn.-Marzo,
81.
6. G. Haurmann, Identità della Psicoterapia e formazione degli psicoterapeuti, in «Quaderni di Psicoterapia infantile», n. 11, Borla, 1984. 7.L. e R. Grimgers, Identità e Cambiamento, Armando, 1976. 8. C. BrutTI, Forzazione in psicoterapia e servizi di territorio in «Quaderni di psicoterapia infantile» n. 11, Borla, 1984. 9. G. Margherini, M. Casoli, N. Pratesi, Sulle possibilità di
attività psicoanalitiche nella istituzione e l’uso del piccolo gruppo a scopi formativi e terapeutici, in Gruppo e funzione analitica, vol. VI, 1985.
10. D.W. Winnicort, La Schizophrénie en termes d'adaptation, in Enfance aliénée, Paris coll. “10/18”,
11. L. WirrcensteN, 1914-1916,
Einaudi, Torino
1972.
Tractatus logico-philosophicus e Quaderni 1964.
Maria Concetta Auteri (Italia - Catania): Presidente della Società Italiana di Psicoterapia Psicoanalitica. Profssa di Psicologia dell’età evolutiva all’Università di Catania.
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PARTE
QUARTA
Psicoanalisi e psicologia
Psicoanalisi e psicologia
Stefano Poggi Inconscio, memoria,
immaginazione e nevrosi
nelle psicologie di fine secolo $ 1. La tesi che vogliamo sostenere nel nostro intervento è presto detta: l’esame della discussione psicologica della fine del secolo scorso fornisce elementi di grande utilità per inquadrare la genesi della teoria psicoanalitica e ne fa rilevare le forti — e spesso decisive — componenti filosofiche. Anche se, di fronte all’analisi critica e storica, la sua
“leggenda” ha perso non fermo che la concezione so ha ispirato e continua in cui nel nostro secolo
poco del suo fascino, rimane psicoanalitica nel suo complesa ispirare tanta parte del modo si è lavorato e si continua a
lavorare intorno alla “storia della coscienza”, intorno alla “storia dell’anima”, se si vuole intorno alla stessa
“storia dello spirito”. Ovvio dunque fare mente locale sulla fine del secolo, ovvio dunque concentrare l’attenzione sul modo in cui la tradizione psicoanalitica si innesta in una tradizione di lavoro scientifico — quella, appunto, psicologica in senso ampio — con aspirazio-
ni, con motivazioni, con modalità di impostazione e formulazione che sono quelle d’una ricerca complessa e frastagliata, nella quale le ipotesi sollecitano da vicino la raccolta e la interpretazione dei dati, tanto anzi da sovrapporsi in più d’un caso ad essi. Una ricerca, anzi, che presenta inequivocabili i tratti della dinamica delle “scoperte collettive”. In quanto tale, essa reca su di sé inequivocabili stigmate filosofiche: quelle che connotano tanta parte — se non l’intero complesso — della storia delle scienze, ma che certo nella vicenda della ricerca sullo psichico emergono
La cultura psicoanalitica
488
con una evidenza tutta particolare, quasi forse come il segno d’un peccato originale. $ 2. Le considerazioni che seguono si limitano dunque a richiamare alcuni dei tratti essenziali del lavoro psicologico della fine del secolo, come lavoro che nel prendere avvio della tradizione della psicoanalisi ha fuori di ogni dubbio uno dei suoi frutti più sintomatici e nello stesso tempo più controversi. Veniamo dunque al primo di questi temi: l’inconscio. Negli ultimi due decenni del secolo giungono a maturazione tre impostazioni fondamentali della questione. Quella filosofico-speculativa, da ricondurre allo stesso
idealismo
tedesco,
essenzialmente
alla tesi di
Schelling dell'inconscio come fondamento assoluto della coscienza; quella filosofico-empirica, rappresentata in primo luogo dalla tesi di Herbart secondo cui le rappresentazioni possono trovarsi «inibite» a superare la «soglia» della coscienza e sono «inconsce» in quanto ridotte ad una «aspirazione a rappresentare» (Streben vorzustellen); infine quella che, legata allo sviluppo della fisiologia delle sensazioni, si intreccia con temi filosofici derivanti dall’empirismo britannico e afferma l’esistenza di processi di «inferenza inconscia» a livello sensorialpercettivo.
Dal vario contemperarsi di queste tre impostazioni nasce una concezione dell'inconscio per così dire “a due livelli”. Da una parte l’inconscio è concepito come una “forza spirituale” posta a fondamento d’ogni manifestazione del vivente: come “impulso” di tale “forza” solo a tratti raggiunge il piano della coscienza e dà luogo alla “illusione della volontà”. La «metafisica dell'inconscio» di Hartmann si salda alle tesi di Spencer della crescente automatizzazione e specializzazione dei riflessi retti dal nesso stimolo-risposta. Dall’altra, l'inconscio viene assunto per così dire “in negativo”: vi sono territori inaccessibili alla analisi psicologica, che possono essere però riconosciuti come la sede in cui si svolgono processi di cui è dato constatare e “misurare” i risultati. La psicofisica di Fechner — che non manca di ispirare il progetto wundtiano di psicologia fisica — è alla base di tale punto di vista. Stati psichici inconsci sono i momenti
Psicoanalisi e psicologia
489
di latenza, di oscillazione sub-liminale, di gradazione negativa di una potenzialità coscienziale che è assunta come dato di base, come condizione stessa d’una “vita
della psiche”, il cui tratto distintivo è l’avere — nel senso di produrre — rappresentazioni. Dal punto di vista d’una scientificizzazione dello studio della dimensione psichica l'impostazione più funzionale è ovviamente quest’ultima. Il tema (già herbartiano)
della «ristrettezza
des Bewuftseins)
della coscienza»
si unisce al riconoscimento
(Enge
del fatto
che la maggior parte di ciò di cui si ha esperienza continua a celarsi alla coscienza, ma nondimeno può essere rintracciato percorrendo la via fisiologica. Va però nello stesso tempo rilevato che il generale riconoscimento della componente non-conscia della dinamica psichica sollecita lo studio dei processi associativi nel loro complesso ed il confronto con il problema della memoria. L’affermarsi di un punto di vista evoluzionistico in cui sono forti le componenti “lamarckiane” esercita una forte influenza in tale direzione. Soprattutto (ma non solo) ad opera della fisiologia tedesca prende dunque spazio la tesi della memoria come “funzione della materia organizzata”. Tra l’altro con il contributo — spesso determinante — delle formulazioni della “filosofia sintetica” di Spencer, assume peso crescente una concezione che, pur svolgendo un’ampia analisi descrittivo-osservativa dei processi associativi, tende a riconoscerne la base, la garanzia non
in una generica “vita della coscienza”, ma nelle funzioni del sistema nervoso. Il sistema nervoso si è formato per via di differenziazioni del protoplasma originario e manifesta comportamenti che solo per la loro maggiore complessità possono ricevere il nome di consci. Schematicamente, sono dunque due i tratti essenziali dell’atteggiamento che, circa il problema dell’inconscio, emerge nel dibattito intorno al problema dello psichico alla fine del secolo: 1) la contestazione della esistenza di
un inconscio psichico assoluto come
entità essenzial-
mente metafisica; 2) l’attenzione per i processi associati-
vi che si sovrappongono (o succedono) al nesso stimolorisposta.
La cultura psicoanalitica
490
$ 3. È così proprio ad opera di uno psicologo — H. Ebbinghaus — decisamente avverso alla concezione dell'inconscio elaborata da Hartmann che si attua la impostazione su basi sperimentali dello studio della memoria. L’uso dei metodi psicofisici per un verso, per del punto di vista associazionistiun altro la suggestione. co fortemente presente nella stessa generale concezione filosofica di Spencer, spingono infatti Ebbinghaus alla contestazione — del resto già emersa in Herbart — della tesi di una facoltà specifica della memoria: col termine di memoria viene in realtà indicato un insieme di processi di apprendimento,
di ritenzione,
di associazione,
di
riproduzione. Ovviamente, lo sviluppo di posizioni del genere è interconnesso — ne è causato e ne è la causa —
con la decisa relativizzazione della nozione di coscienza e, con essa, della stessa nozione di individuo.
I modi dello “smontaggio” della individualità coscienziale cui — anche se con l’opposizione del “volontarismo” di Wundt — attende il dibattito psicologico della fine del secolo vanno illustrati tenendo conto anche delle altre linee di ricerca che la storia dei problemi psicologici dovrebbe — e non sempre accade — prendere in considerazione. Intendiamo riferirci al dibattito psicopatologico. Inconscio,
memoria
e
—
ancora
non
abbiamo
richiamato un tema di cui è ovvio il legame con l’esame di quanto la vita della psiche è capace di sintetizzare, di produrre — immaginazione sono infatti temi di importanza essenziale per un dibattito che si trova ad esaminare aspetti della dinamica psichica per i quali l'inquadramento
in una
prospettiva riduzionistica,
an-
corché di carattere per così dire “regolativo”, non può non presentarsi di esecuzione oltremodo complessa. Si può anzi per molti aspetti affermare che i temi appena richiamati acquistano una rilevanza tutta particolare proprio
su questo
terreno.
Per tanta,
decisiva
parte
riconducibili ad una tradizione di pensiero dalle essenziali componenti filosofiche, essi sono temi che non per accidente il processo di scientificizzazione dello psichico tende a superare ovvero a “svuotare”. Al contrario, per un lavoro di ricerca che si trova a prendere atto di fenomeni la cui complessità può essere abbracciata solo
Psicoanalisi e psicologia
491
con l'assunzione di un punto di vista clinico-osservativo, l'assunzione della esistenza di funzioni caratteristicamente dinamiche e “plastiche” si rivela sostanzialmente “obbligata” e, di fatto, di grande utilità. L’attenzione non può quindi non andare a quella parte del lavoro psicopatologico in cui — non per convinzioni anti-riduzionistiche, ma per necessità di attenersi a dati di fatto più controllabili — è meno operante un approccio di carattere per così dire “neuroanatomico”.
Punto di riferimento fondamentale,
in questa prospettiva, sono le tesi del dibattito sul problema delle afasie e, in misura tutta particolare, quelle di H. Jackson. Le concezioni del neurologo inglese —
che, non lo si sottolineerà mai abbastanza,
hanno tanta parte nella formazione delle idee del primo Freud — si caratterizzano infatti per la saldatura della osservazione clinica con la elaborazione di concezioni interpretative generali dei caratteri dello psichico. Impostando analisi che si articolano conformemente ai moduli di una psicologia descrittivo-osservativa fondata sul modello associazionistico, Jackson constata la fondamentale “dualità” dei processi conoscitivi. Tale “dualità” va ricondotta in linea generale alla struttura “doppia” del sistema nervoso nel suo complesso, ma nello stesso tempo è analizzata come tratto distintivo della vita mentale, vita che si sviluppa per associazioni di immagini e si articola in proposizioni “doppie”, in altri termini in relazioni “interne” di immagini connesse a relazioni “esterne” di immagini. A livello psicologico la “dualità” fisiologica del sistema nervoso per così dire “si raddoppia”, perché il soggetto, come suo stato, ha in sé nello stesso momento proposizioni “soggettive” simboleggianti i suoi stati e proposizioni “oggettive” che simboleggiano invece stati dell'ambiente. Era, questa, una posizione che aveva implicazioni di grande portata sul piano della concezione della coscienza — e, di riflesso, su quello della concezione dell’azione
volontaria nel suo rapporto con i movimenti automatici dell’intero organismo. La sottolineatura della “dualità” della vita della psiche — ricondotta certo, in linea di principio, alla struttura “doppia” del sistema nervoso, ma caratterizzata ed esaminata nel suo articolarsi in base
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La cultura psicoanalitica
ad un punto di vista essenzialmente psicologico-descrittivo — non poteva non portare a mettere in rilievo che,
in realtà, vi è un “complesso di stati di coscienza”, cui
può essere dato ora il nome di coscienza, ora quello di memoria, ora quello di emozione e così via. In essi va riconosciuta sempre la presenza di un doppio livello, oggettivo e soggettivo. Presentandosi come non-conscio,
come sub-conscio, è il livello soggettivo che — accompagnando sempre la dimensione coscienziale assicurata dal rapporto tra le immagini del mondo esterno e la interiorità — garantisce la coerenza e la relativa completezza della rappresentazione di noi stessi, rappresentazione che — la struttura “duale” è imperante — va sempre considerata nel suo rapporto con il livello oggettivo. La “dualità” di conscio e di non-conscio risalta in modo esemplare come dissociazione tra livello soggettivo e livello oggettivo: è infatti chiaro che l’idea, l’immagine che — come pre-coscienza, “sogno” della azione — fa rivivere, riproducendole, associazioni già impostate e sperimentate procedendo nel contempo alla messa in movimento di processi di “energizzazione” delle connessioni nervose interessate non necessariamente deve tradursi in azione, non necessariamente è la
premessa a che si realizzino effettivamente le “riproduzioni oggettive” in cui si compie l’azione. La dimensione soggettiva — quella del non-conscio, di ciò che ha un suo automatismo, frutto dell’accumularsi di associazioni
nel nucleo della individualità psicofisica (nervosa) — ha una sua forza produttrice di immagini, di idee, di “sogni”, di “riproduzioni soggettive” di associazioni che più sono di antica data e più saldamente organizzate, più sono resistenti e più sono “sicure” nel loro funzionamento (appunto “automatico”). Sono queste ultime ad avere facile sopravvento sulla oggettualità coscienziale, non appena si verifichino alterazioni nell’equilibrio della “dualità” psichica; sono i nuclei resistenti al processo di disaggregazione, di vera e propria dissoluzione, di separazione tra stati soggettivi e stati oggettivi che spezza
il ritmo della vita mentale come coordinazione dell’intero complesso delle funzioni del vivente, ritmo che è un costante connettersi — ma mai sovrastarsi — oggettivi e di stati soggettivi.
di stati
Psicoanalisi e psicologia
$ 4. Anche
493
se del tutto schematica, la valutazione
delle linee essenziali del dibattito psicopatologico della fine del secolo non può certo esaurirsi nel richiamare le concezioni appena esposte, frutto del dibattito intorno al problema delle afasie (oltre a quelle di Jackson, dovrebbero d’altronde essere ricordate le posizioni di Kussmaul, di Wernicke ecc., nelle quali ha rilievo tutto particolare la questione delle “immagini” che accompagnano e condizionano il dispiegarsi delle funzioni mentali). E necessario quantomeno valutare anche la considerazione che riceve in esso il problema della malattia mentale come nevrosi, in particolare come isteria. Ferma restando in ogni caso la convergenza delle varie linee della ricerca dell’epoca nel riconoscimento del quadro neuroanatomico come quadro generale e “ultimo”
di riferimento,
è incontestabile
l’entità delle
scoperte — o, quantomeno, delle prospettive interpretative generali — cui mostra di pervenire l’opera di coordinazione e di sistematizzazione dal punto di vista psicologico delle osservazioni cliniche condotte a proposito della nevrosi considerata nelle sue manifestazioni isteriche. Tutta particolare, in questa prospettiva, l’importanza del lavoro condotto dalla psicopatologia francese nell’esame dei modi in cui le immagini, le “rappresentazioni” possono essere causa degli stati patologici della “mente”. Tale lavoro di indagine trova nell'opera di Janet — da considerare peraltro in connessione con quella di Ribot, di Bernheim e soprattutto di Charcot — la sua formulazione più compiuta. Arrivando in più di un caso anche a prendere le distanze dal “neurologismo” di Charcot, Janet mette in chiaro che la malattia mentale costituisce la controprova più evidente della “duplicità” della vita psichica, “duplicità” messa in luce dallo “sdoppiamento” della personalità, dalla disgregazione, dal dissolversi dei nessi, delle funzioni sintetiche che ne consentono la
articolazione “normale”. Nello stato patologico, tale “duplicità” è manifesta, nel presentarsi di rappresentazioni, di immagini che non fanno presa sulla realtà oggettiva.
La descrizione clinica della malattia mentale, per Janet, non può non essere completata con l’analisi del
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La cultura psicoanalitica
“sintomo interiore e morale”: solo in tal modo è possibile conseguire un quadro unificante i vari “accidenti” nei quali si presenta disperso il fenomeno della isteria. È grande la forza della immaginazione che opera come suggestione sul “fisico”. La potenza della suggestione è direttamente proporzionale al fatto che essa, in realtà, non può essere confusa con i ricordi, con le associazioni ordinarie di idee. L’osservazione clinica ci presenta il dato di fatto della convinzione che, nella suggestione, accompagna le idee e le trasforma in oggetti
che si presentano non più come parti del pensiero interiore, ma del mondo esterno. Ciò non significa però che si instauri una censura tra le immagini, le idee relative al secondo e quelle relative al primo: tra di esse il rapporto è comunque quantitativo, fatto di gradazioni. La complessità della percezione esterna è superiore a quella della percezione interna: ne deriva quindi che le rappresentazioni ordinarie, che si radicano in noi e sono il frutto di associazioni di più antica data, ci paiono interne, ci assicurano di una percezione della nostra soggettività che è in realtà mutevole, ma che d’altronde rimane un nucleo di maggiore persistenza. Nel caso dell’avviarsi del processo di dissoluzione patologica, la persistenza di tale nucleo conduce a fenomeni di ossessione
ripetitiva,
a comportamenti
automatici
che
sono la esaltazione parossistica (ma sempre rapportabile quantitativamente allo stato “normale”) del modo in cui la sistematizzazione delle idee e la loro riproduzione assicura l’azione, l'esecuzione di atti volontari.
$5. L'indagine psicopatologica rappresenta una parte costitutiva essenziale del dibattito psicologico della fine del secolo. Lo conferma lo spazio riservato a considerazioni relative alla patologia mentale come repertorio di “casi”, di “controprove” da parte dei settori del dibattito psicologico più impegnati sul piano delle sistemazioni generali e della riflessione sui “fondamenti” e più preoccupati di sottolineare la specificità della dimensione dello psichico in polemica con approcci giudicati unilaterali perché di carattere esclusivamente fisiologico. Più che nell’area tedesca — dove è perseguito con
Psicoanalisi e psicologia
495
coerenza un indirizzo che, pur se certo non “rozzamente” riduzionistico, è comunque di carattere o psicofisico o psicofisiologico o neurologico —, ciò avviene nell’ambito di tradizioni di ricerca che, come quella francese e quella
inglese,
sono
contraddistinte,
anche
se
con
impostazioni diverse, da una sostanziale convergenza nel sottolineare la specificità della dimensione della “interiorità”, della “mente”. L’esempio di Bergson — del Bergson dell’Essai sur les donnés immédiats de la conscience — è ovviamente quello più facile; ma quello forse più significativo è offerto dai Principles of Psychology di William James. Nei Principles di James si realizza infatti la confluenza delle linee portanti della ricerca psicologica della seconda metà del secolo in una concezione generale delle funzioni della “mente” il cui tratto dominante è la sottolineatura del carattere dinamico-evolutivo posseduto da quest’ultima. Sulla base d’una forte ispirazione spenceriana — d’altronde problematizzata al massimo grado da alcuni dei motiviguida della psicologia tedesca —, i Principles di James fanno risaltare come problema centrale della analisi psicologica quello dell'esame della dinamica coscienziale in tutto il suo articolarsi. La coscienza costituisce il fattore di coesione della individualità psicofisica e, nello stesso tempo, il presupposto fondamentale di ogni processo di confronto e di inferenza, di tutti quei processi di associazione e di sintesi in cui si dispiega l’attività della Mente Ora, proprio il caso di James — caso esemplare perché, come si è detto, nei Principles è raccolto l’essenziale del “sapere psicologico” della fine del secolo — impone di prendere atto che la sistemazione delle varie linee di ricerca intorno al problema dello psichico che si attua alla fine del secolo avviene su basi e lungo coordinate di carattere essenzialmente filosofico, basi e
coordinate che si mostrano non prive di attrattiva anche per studiosi di spiccata formazione scientifica. Nozionichiave nella strutturazione assunta dalla problematica psicologica alla fine del secolo come quelle di coscienza (e correlativamente di inconscio), di memoria, di imma-
ginazione si presentano infatti come nozioni di carattere essenzialmente filosofico. Se ben si guarda al modo in
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La cultura psicoanalitica
cui vengono formulate e introdotte, esse muovono infatti da un presupposto fondamentale: quello dell unità e della plasticità della vita della psiche concepita come una “mente” capace d’una specifica attività produttiva, motrice di nessi causali non certo possibili sul piano fisico. Come abbiamo appena visto, prova tangibile della forza di tale punto di vista di dominante carattere
filosofico è offerta nello stesso tempo dalla vicenda della
psicopatologia. È certo vero che la seconda metà del secolo vede — e in misura tutta particolare in Germania — l’emergere della ferma convinzione della possibilità di arrivare a superare il punto di vista della concezione della nevrosi come disturbo funzionale e di giungere così alla individuazione delle sue basi anatomo-patologiche. Ma nello stesso tempo è anche vero che è su una linea quantomai divergente che si producono importanti sviluppi nel modo di concepire, con la nevrosi (e in particolare con l’isteria, con lo studio del fenomeno della suggestione), l’intero quadro della psicopatologia: la linea presente e operante in Janet è infatti la linea di un approccio globale al problema della malattia mentale. Janet persegue non la via della “atomizzazione” del soggetto, del suo “smontaggio”, ma quella della attenzione per ciò che è riconosciuto carattere distintivo della vita della psiche: la coordinazione, la sintesi, basi del prendere forma della personalità e del suo costituirsi come polo delle varie modalità di reazione all’ambiente. E certo eccessivo
attribuire
a questa
impostazione
il
proposito di volere ad ogni costo salvare l’esistenza d’una dimensione coscienziale individuale; ma in ogni caso, nella sua impostazione così ricca di motivazioni e di implicazioni filosofiche, è vero che il punto di vista che in Janet ha una espressione di grandissima efficacia ed influenza (ma che — lo si deve sottolineare con decisione — è quello del dibattito europeo intorno al problema delle “turbe” della psiche, e in primo luogo intorno alle afasie) si presenta come il solo capace di unificare una dinamica complessa ed in espansione come quella della malattia mentale e, nello stesso tempo, di ricercarne l’intimo nesso con la vita “normale” della psiche. Il lavoro clinico sulla malattia mentale si sviluppa
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così in forza d’uno stretto rapporto con le grandi linee tracciate — e proposte — dalla riflessione filosofica: va anzi rilevato che in tale rapporto la parte dominante è quella che, con una obiettiva forza propulsiva, è svolta dalla seconda. Una volta rilevata e sottolineata la fondamentale componente filosofica del dibattito psicologico in senso ampio della fine del secolo bisogna però evitare le genericità: i temi filosofici che percorrono tale dibattito non possono essere ricondotti tutti allo stesso ceppo. Non v'è dubbio che non poche linee appena richiamate si informano — pur se con gradazioni e con modalità diverse — a temi facilmente riconducibili ad una filosofia della evoluzione biologica non priva di inflessioni metafisiche, e della quale il nucleo essenziale è quello del positivismo di Spencer. Filosofia che svolge la importantissima funzione di stimolare ad una osservazione globale dell'intero complesso delle funzioni psichiche e nello stesso tempo sottolinea la parte che la dimensione della temporalità svolge in tale dinamica. Filosofia che però si caratterizza spesso anche per una solo apparentemente singolare convergenza tra temi tipici di un positivismo in cui si sono accentuate le tensioni
metafisiche e temi provenienti invece dalle concezioni della psicologia filosofica e dell’associazionismo britannico e della tradizione francese del sens intizze e dello effort e che dà luogo ad una sintesi dai forti caratteri speculativi. Ma nei settori per così dire più “avanzati” del dibattito psicologico di fine secolo operano motivi filosofici ben più raffinati, ben più specificatamente connessi al problema della conoscenza scientifica dello psichico. In questi settori non si indulge a considerazioni circa l'essenza della individualità e circa la sua collocazione nel cosmo, circa il problema del determinismo e della volontà. Ciò non significa che non venga fatto uso degli strumenti dell’analisi filosofica: ma questo avviene per mettere a fuoco e criticare, in sintonia con il lavoro della indagine scientifica sperimentale, nozioni che si presentano come assai generiche come quelle di inconscio, di memoria,
di immaginazione,
di nevrosi, sì da
poter condurre il sondaggio dei processi mentali nella
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La cultura psicoanalitica
loro specificità, non guardando cioè ad essi come “sforzi”,
“impulsi”,
“atti
volontari”,
ma
a
muovendo
piuttosto allo studio dei processi della percezione, della sintesi psichica, della concettualizzazione attraverso l'allargamento e l’articolazione dei metodi di indagine sperimentale. Pur con tutte le distinzioni che sono necessarie al riguardo — e intorno alle quali la ricerca storica appena agli inizi dovrà a lungo lavorare — è dato così constatare il dispiegarsi di una attività di ricerca che, con l’opera di scienziati che sono fortemente impegnati anche sul piano filosofico (Mach, Ebbinghaus, EhrenMeinong, fels, Stumpf, G.E. Miiller, Muiinsterberg, Benussi devono essere menzionati assieme ai protagoni-
sti del lavoro psicopatologico, in primo luogo intorno alla afasia), pone le basi di una autonoma scientificizza-
zione della analisi psicologica che mostra di avere fatto tesoro dell’opera della riflessione critica radicale della filosofia sulla soggettività individuale, ma non certo della filosofia praticata dal sincretismo positivistico-metafisico. $ 6. Ora, se è vero che in larga parte del dibattito psicologico dell'Europa di fine secolo (e soprattutto in Germania) matura una forte tendenza a riconoscere alla psicologia il compito del chiarimento di problemi gnoseologici di grande rilevanza, sembra all’inverso abbastanza fuori discussione che le concezioni di Freud germinino — e soprattutto si sviluppino — su un terreno diverso. La psicoanalisi freudiana sembra cioè dovere essere considerata essenzialmente una delle conseguenze del particolare tipo di incontro tra concezioni psicologiche e psicopatologiche da una parte e concezioni filosofiche dall’altra di cui abbiamo: sommariamente richiamato alcuni aspetti e del quale tratto essenziale pare essere il rilievo tutto particolare assegnato al problema dell'inconscio. Anzi, più che di riconoscimento della importanza d’un problema, v'è da parlare della assunzione di una nozione altamente controversa,
dal carattere spesso inequivocabile di ipotesi extrascientifica, a punto di riferimento generale, a garanzia della coesione d’una dinamica di cui l’esperienza clinica impone di constatare le fortissime potenzialità per così
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dire “autodirompenti”. E ciò sembra tanto più vero se teniamo nel dovuto conto il problema rappresentato dal rapporto dello Entwurf freudiano del 1895 con il lavoro dedicato dal giovane Freud al problema delle afasie. Il confronto tra questi due testi — che è altamente istruttivo, ma sostanzialmente tralasciato dalla letteratu-
ra critica — conduce infatti a constatare che la presenza di ipotesi filosofiche (ovvero “metapsicologiche”) di portata quanto mai generale nello Erswwrf si presenta come una perdita di tensione critica, come un volgersi in una direzione speculativa forzatamente metafisica, con aspetti di vero e proprio “romanzo” psicologico e cosmologico a un tempo. Il fatto che Freud abbia rinunciato alla pubblicazione dello Entwurf può perciò, in questa prospettiva, essere spiegato non ricorrendo alla ipotesi forse troppo semplicistica del timore di una accusa di plagio nei confronti dello Entwwf einer phbysiologischen Erklirung der psychischen Erscheinungen di Exner, quanto rilevando che Freud matura una sorta di repulsione nei confronti delle ipotesi cosmologiche cui lo spingevano le idee avanzate nel suo Erntwurr. Freud matura cioè la consapevolezza del “passo indietro” compiuto — per quanto concerne la finezza e la cautela della analisi — rispetto alla discussione da lui stesso svolta nel lavoro sulle afasie. Repulsione, però momentanea. Di fatto, il successivo svolgersi del lavoro di Freud — e con esso l’inizio della tradizione psicoanalitica — è segnato dall’avviarsi di una osservazione clinica che vedrà ben presto riemergere l’esigenza di ipotesi esplicative generali; Freud mette cioè mano ad un lavoro in cui sarà sempre più presente ed urgente la preoccupazione di una “metapsicologia” della quale si
impone di rilevare la costante divaricazione dal lavoro della psicologia scientifica. Lavoro che va considerato come il complesso delle ricerche sul problema dello psichico, e comprensivo dunque anche, ed in una posizione tutt'altro che subordinata, di quelle psicopatologiche in senso ampio. Lavoro che vede la presenza di molti temi filosofici, tipici di un momento che è di profondi mutamenti nello stesso orientamento del dibattito psicologico nel suo complesso, ma per tanti, decisivi aspetti toto caelo diversi
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La cultura psicoanalitica
da quelli della “metafisica dell’inconscio” di Hartmann ed anche — pur se al riguardo sono necessarie alcune cautele — della “filosofia sintetica” di Spencer. Gli anni dello Enzwwrf, gli anni che ne precedono e ne seguono la stesura vedono così maturare in Freud una nettissima, definitiva distanza dal lavoro di riflessione fondazionale, sistematico-generale — filosofico, non v'è dubbio — che connota l’opera degli scienziati che, negli stessi anni in cui prende forma la psicoanalisi freudiana, si impegnano in una radicale revisione della fondazione dell’edificio della psicologia come scienza. Opera che vede il porsi delle basi d’una concezione che, non eludendo in alcun modo i problemi dell'inconscio, della immaginazione come produttività della psiche, della stessa malattia mentale, sarà quella che avvierà alla definizione dei modi della strutturazione psichica, sarà quella d’una psicologia scientifica che, con l'esame da essa condotto sulle modalità di quanto è prodotto dal soggetto psichico grazie allo spostamento dal piano del puro e semplice fisiologismo a quello della definizione della evidenza del dato psichico nella sua specifica oggettività relata al soggetto, sarà capace di istituire con la riflessione filosofica un rapporto di parità, e non di sudditanza.
Stefano Poggi (Italia - Firenze): all’Università di Firenze.
Professore
ordinario
di Filosofia
Giuseppe Mucciarelli Sante De Sanctis e l’interpretazione dei sogni * Nelle pagine di introduzione premesse alla monografia I sogni e il sonno nell'isterismo e nella epilessia del 1896, De
Sanctis nota come
attraverso
l’esame
della
letteratura sui sogni si sia formata «la convinzione che il semplice fatto del giuoco delle immagini mentali durante il sonno fu sempre coinvolto nella “Idea mistica”: sempre, vale a dire, in ogni tempo e presso tutti i popoli» e da questa osservazione fa discendere la spiegazione del «perché attualmente vengano nella scienza sperimentale trascurate le ricerche sulla vita del sogno». Nota ancora, come la «scienza sperimentale in genere e la medicina scientifica in special maniera dei sogni non siensi abbastanza occupate in questi ultimi tempi. Si potrebbe dire che la Psicofisiologia e la Medicina attraversino un periodo di diffidenza per un tale argomento, che fu in addietro troppo gradito invero alla Metafisica e sul quale si esercitò più spesso la fantasia che la logica degli studiosi. Il medico si astiene dal domandare ai suoi malati i particolari della vita del sogno, perché teme di raccogliere dati ingannevoli; il fisiologo si limita allo studio dei fenomeni fisici del sonno, perché è convinto che farebbe forse vana fatica, tentando lo studio dei fenomeni psichici» !. De Sanctis pensa che possa essere
giunto il momento per intraprendere uno studio sperimentale sui sogni, come ricorderà nella Prefazione all’opera del 1899 I sogni. «La psicologia scientifica moderna esige dei fatti. E allo scopo appunto di riunire dei fatti che io ho intrapreso questi miei studi sui sogni. I quali potrebbero perciò intitolarsi Studi di onirologia
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scientifica». La prospettiva scelta da De Sanctis è quella della psicologia individuale, in quanto «il sogno è il racconto più genuino di ciò che l’individuo è, di ciò ch’esso abitualmente pensa o desidera, di ciò a cui più o meno coscientemente esso tende. La vita del sogno è una storia individuale. Solo fino ad un certo punto si può dire che nel sogno la identità personale si dissolve nei suoi elementi, che il sogno è il giuoco pazzo delle immagini, è il pensiero senza i freni della logica». Sono queste delimitazioni assai precise circa il lavoro che lo psicologo può avviare in relazione allo studio del sogno. Sono delimitazioni che potranno, forse, apparire troppo rigide, riduttive se considerate alla luce della teoria freudiana. Ma sono le inevitabili delimitazioni quando lo studio del sogno viene affrontato partendo dalla angolatura della psicologia sperimentale. E nella lunga, intensa attività desanctisiana riservata allo studio della vita onirica, pur nella straordinaria informazione su quanto via via veniva elaborato in materia, la prospettiva di fondo, rigorosamente sperimentalista, non verrà mai meno. Ma è una prospettiva che poggia sull’obiettivo di fornire della vita onirica una interpretazione non parziale, raccordandola con uno studio comparato della vita onirica,
per evitare,
proprio,
di cadere
in «ipostasi,
divagazioni e teorie non sempre giustificabili», come ebbe a ricordare ancora in un ultimo lavoro dedicato alla coscienza onirica e apparso su «Scientia» nel 1928}. La
preoccupazione di non fornire del sogno una interpretazione parziale o decisamente arbitraria, sarà presente fin dai lavori che precedono e poi daranno luogo al saggio del 1899. In seguito questa preoccupazione si dirigerà alle interpretazioni che al De Sanctis appariranno parziali o non giustificate della scuola freudiana. Avendo, tuttavia, sempre l’avvertenza di non confondere
il
carattere pionieristico dell’opera di Freud con le “esagerazioni” della scuola. Caratteri del sogno
. Lo studio del sogno fornisce utili informazioni sulla vita psichica in virtù di alcuni caratteri che De Sanctis riconosce ad esso:
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1. il sogno è «un determinismo e quindi esso può dar grandi lumi per la conoscenza degli automatismi primitivi e secondari di un soggetto e delle sue condizioni fisiologiche attuali» (1896);
2. il sogno funge da “rivelatore” di stati interiori e da “provocatore” di stati nuovi. Questi caratteri permettono
di costruire situazioni
sperimentalmente controllabili, capaci di fornire una ricca messe. di informazioni sulla vita psichica sia normale sia patologica. Costituiscono, in qualche modo, le premesse teoriche su cui fondare una psicologia sperimentale dei sogni. Ma da queste premesse si può partire anche per cercare di ridurre, se non eliminare totalmente, le difficoltà che si frappongono nello studio dei sogni e che sono individuate dal De Sanctis in: 1. mancanza di un metodo esatto per la ricerca; 2. significato equivoco di qualsiasi risultato a causa dei tanti fattori che provocano il sogno.
Questioni di metodo Entro i limiti su indicati, De Sanctis indaga quali possano essere le condizioni metodologiche che rendono possibile lo studio sperimentale dei sogni. Queste condizioni sono così individuate: 1. disporre di un ricco «materiale di malati»; 2. «seguire in un gran numero di individui affetti dalla stessa forma morbosa, quella che io chiamerei la evoluzione della vita notturna, parallelamente alla evoluzione della malattia»;
3. considerare «la vita del sogno in rapporto all’ambiente, all’età, al sesso, alle condizioni statiche della intelligenza, alla cultura, alle attitudini, alla organizzazione
affettiva degli individui»; 4. tener conto di «tutti i modificatori naturali della vita del sogno». A queste condizioni si affiancano i caratteri metodologici veri e propri che così possiamo riassumere:
1. evitare gli effetti autosuggestivi; 2. evitare «la fallacia dell'idea di dover sognare per esperimento» (metodo introspettivo indiretto);
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La cultura psicoanalitica
3. impiego della statistica (riferimento a Galton, per es.);
4. osservazione diretta; 5. interrogatorio, ripetuto, non suggestivo.
In particolare vogliamo richiamare l’attenzione sul metodo statistico, a cui De Sanctis assegna particolare importanza, elaborando una vera e propria statistica clinica del sogno contrassegnata dalla possibilità di rilevare i seguenti caratteri: condizioni. del sonno, frequenza dei sogni, contenuto dei sogni e in particolare contenuto emotivo abituale del sogno, rapporti tra vita del sogno e vita di veglia, memoria dei sogni‘. La prospettiva metodologica desanctisiana parte da una considerazione naturalistica della vita psichica e conseguentemente anche del sogno. Ed è assai significativa la definizione che dà del sogno: «Il sogno è un fenomeno naturale e di ordine fisiologico: esso è un prodotto autoctono dell’organismo del sognatore e rispettivamente del suo cervello. Esso è rappresentazione,
non è realtà. Non è altro, insomma,
che la storia viva del sonno cerebrale. Nulla, dunque, di
trascendentale e d’intrinsecamente reale nel sogno». Questa prospettiva naturalistica, che fa accogliere al De Sanctis la soluzione evoluzionistica (Romanes, Darwin, Huxley), gli farà scrivere che «rispetto ai caratteri onirologici, non vi è differenza di natura tra l’uomo e l’animale: vi è soltanto differenza di grado», in base a quanto riconosciuto dalla psicologia comparata. E questa una prospettiva che può aiutare a compren-
dere il tentativo desanctisiano di psicologia comparata della vita onirica,
tentativo
che, a quanto
ci risulta,
costituisce il più articolato e complesso sforzo di porre lo studio del sogno su basi rigorosamente sperimentali. Questo aspetto può aiutare a valutare adeguatamente la sistemazione di un materiale quanto mai vasto e disomogeneo che De Sanctis realizza nelle due opere del ’96 e del ’99. La prospettiva naturalistica e il rispetto di un rigoroso metodo sperimentale rendono possibile la connessione
tra un
materiale
osservativo
quanto
mai
differenziato e che pure riesce a trovare, specie nella grande opera del ’99, una trattazione assai compatta ed unificata con non poche possibilità di ulteriori svolgi-
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menti, che malauguratamente non furono dal nostro portati a compimento, essendosi nel frattempo orientato verso altri ambiti di ricerca, primo fra tutti la neuropsichiatria infantile. I lavori successivi sono più messe a punto, discussioni critiche, recensioni di opere, che veri
e propri ampliamenti delle tesi condensate nelle due monografie della fine secolo. Sono saggi che si concentrano in prevalenza sulla discussione di metodo, anche se lo studio della vita onirica sarà sempre attentamente seguito dal nostro. Dovrà tener conto della scuola freudiana e cercherà di difendere quanto enunciato nei lavori di fine secolo dalle obiezioni che dal versante psicoanalitico verranno mosse ai suoi antichi lavori. Ma sempre una difesa non per partito preso, nessuna contrapposizione banalmente polemica, riconoscendo i meriti scientifici che spettavano a Freud, ma rivendicando sempre le esigenze della psicologia sperimentale che mal si conciliavano — così parve al De Sanctis — con i procedimenti dell’indagine analitica. Ricorderà queste esigenze in un saggio del 1914 apparso sulla «Rivista di psicologia» e dedicato alla Interpretazione dei sogni, in cui non senza un giustificato orgoglio, riconosce ch quando «nel 1899 scrivevo il mio libro sui Sogni, ricrea ben chiaro in mente il concetto di una possibile semeiotica onirica ad uso dei medici, ma confesso che non immaginavo menomamente allora il prossimo e clamoroso successo di una Onirocritica moderna. Eppure a tanto siamo arrivati mercè il vigoroso impulso dato alla Onirologia dalla Scuola Viennese»?. Il metodo psicoanalitico gli pare forzare i necessari limiti di un rigoroso procedimento scientifico, di costruire interpretazioni troppo vaghe, prive di valore pratico, di edificare una simbolica del sogno, ossia un cifrario, o chiave o
lessico. Ma proprio questo si contrappone alla mentalità scientifica del De Sanctis, allievo in psicologia del positivista Giuseppe Sergi e in fisiologia del materialista Moleschott*. E in un importante lavoro apparso nel 1920 sulla «Rivista di psicologia»’ ritornerà ancora una volta sulla necessità di pervenire ad una rigorosa definizione del metodo e ad una puntuale delimitazione del campo di investigazione. Scriverà che dagli esperi-
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menti vecchi e nuovi ha tratto «due deduzioni che è bene riferire per norma dei futuri sperimentatori: 1. lo stimolo forte portato sul dormiente ha per effetto di precipitare il sogno, cioè il suo scioglimento. ... in un esperimento sui sogni dovrà sempre tenersi gran
conto dell’intensità dello stimolo, della sua ripetizione e del tempo che trascorre dal momento dell’eccitazione a quello del risveglio iniziato e del risveglio completo. 2. L'altra deduzione riguarda i soggetti di esperimen{o».
Ritorna la pregiudiziale sperimentalista, quella pregiudiziale che gli permetterà di definire il metodo freudiano, nello stesso articolo, come un metodo scienti-
fico non puro e inadeguato ad entrare in una «metodica onirologica rigorosa». E un «metodo integrale, scientifico e artistico a un tempo, che utilizza tutte le risorse del sognatore e dello psicoanalista per scoprire e conoscere ciò che questi ha in animo di ricercare. Certamente al metodo psicoanalitico appartengono tutte le possibilità; esso può realmente scoprire, ma può anche creare ciò che cerca! I metodi scientifici, invece, non hanno che le
possibilità razionali con un minimo di possibilità intuite: quindi scoprirà meno, ma la scoperta sarà più sicura». | D itniebei
Note
* Il testo risente della sinteticità imposta dai limiti di tempo richiesti. Un lavoro più completo è in preparazione a cura dell’autore. al
S. De Sanctis, I sogni e il sonno,
Società Editrice Dante
Alighieri, Roma 1896. _2. S. DE SacnTIS, I sogni. Studi psicologici e clinici di un alienista, F.lli Bocca, Torino, 1899. 3. S. De Sanctis, La coscienza onirica, in «Scientia», vol. SOLI 11923 pp17524! 4. Sul problema del metodo ritornerà in un importante articolo,
I metodi della psicologia moderna, in «Rivista di psicologia applicata», a. VIIL I, pp. 10-26. Ristampato in G. MucciarELLI, L'evoluzione e psicologia contemporanea, vol. I, pp. 131-145, Clueb, Bologna
er S. DE SANCTIS, L'interpretazione dei sogni, in «Rivista di psicologia applicata», a. X, 6, 1914, pp. 358-75. Nell'anno preceden-
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te comparve, nella stessa rivista, la breve nota De/ Sogro, a. IX, 5, pp. 501-5.
6. Vedi l'importante lavoro di sistemazione pubblicato da De Sanctis nel volume Giubilare in onore di Giuseppe Sergi, vol. XX della «Rivista di antropologia», 1916, Il Sogno: struttura e dinamica. Ristampato a cura di R. Luccio in Storia e Critica della psicologia, vol.
II, 2, 1981, pp. 320-68.
7. S. DE Sanctis, I metodi ontrologici, in «Rivista di psicologia», a. XVII. |, 1920, pp. 1-30. Nello stesso anno esce sulla «Rivista di biologia» il saggio su Le condizioni fisiologiche del sogno.
Giuseppe Mucciarelli (Italia - Bologna): l’Università di Bologna.
Professore di Psicologia al-
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Enrico C. Gori
Freud e la costruzione del linguaggio Rientra nell’ambito di un bilancio storico, anche il
recupero del testo freudiano per apprezzare quanto variata sia la sua lettura alla luce delle recenti esperienze cliniche. Nello spirito di detto rapporto circolare (teoresi esperienza clinica) mi riferirò a due elementi della metapsicologia tanto importanti quanto trascurati o mal compresi. Quando Freud pone le basi della rappresentazione metapsicologica sulle presentazioni-di-cosa e man-
tiene l’ipotesi lungo tutta la sua opera, senza alcun dubbio ci offre una definizione sicura. La presentazionedi-cosa (Ding-Sachevorstellung), è il contenuto specifico della mente (Inconscio-organico) che saltuariamente dà
luogo alle rappresentazioni
(Darstellung)
(Conscio-vir-
tuale). La trasformazione si attua mediante la connessio-
ne tra presentazione-di-parola (Wortvorstellung) e presentazioni-di-cosa (1899, Interpretazione dei sogni).
Qui vorrei limitarmi a sintetizzare rapidamente la complessa descrizione freudiana della formazione della parola. All'origine ogni stimolo si associa (contatto sensoriale primario) nelle presentazioni-di-cosa che condensano ogni sensazione mediante l'imitazione (1891, L’interpretazione delle Afasie). Perciò anche le presentazioni-di-parola sono associate nella “forma totale” delle presentazioni-di-cosa finché si staccano le parole, sul filo del suono e del bisogno. Il suono condensa quattro figure (suono, gesto-fonatoria, gestoscrittura, sillabo-visuale) creando la presentazione-diparola: comincia a costituirsi il linguaggio interno
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infantile: “fatto da sé” (autarchico). Dunque l’autarchia del linguaggio interno infantile dipende dalla caratteri-
stica attività imitativa (per contatto e contiguità) delle presentazioni (1895, Progetto; Totem e Tabù). Presenta-
zioni che assimilando tutto a sé, impediscono la percezione dell’oggetto (191, Precisazioni) e danno luogo a quella particolare forma di accecamento chiamata denegazione o diniego. Perciò il bambino costruisce il linguaggio interno rendendo i suoni altrui uguali ai propri e non viceversa (1891, Afasie). Quindi Freud segnala due tappe nella formazione del linguaggio. Nel primo stadio appena descritto il linguaggio autarchico organizza i ritmi interni infantili mediante i processi di difesa precoci (condensazione, spostamento, identificazione) con la reattività automatica disponibile alle origini (denegazione, espulsioneimpulsione, repulsione, ecc.). In un secondo tempo l’infante s’assume il compito di entrare in contatto con il linguaggio comune: la parola degli adulti. Perché il passaggio si verifichi occorre che le presentazioni-diparola, come se fossero una specie di canto di lavoro, organizzino le tensioni primordiali, trasformandole in pulsioni delle quali le presentazioni-di-cosa divengono la rappresentazione psichica. Tali costruzioni costano molto e comportano la sopportazione di dolori e angosce. L’infante è aiutato in tal lavoro non solo dalla madre maanche dal contatto sociale, dovendo però riconoscere
che nei primi tempi della vita anche il contatto sociale è mediato dai personaggi genitoriali. E possibile che il primo scambio si realizzi perché il sogno individuale confluisce nel sogno secolare del Mito. Infatti entro l’area del Mito comincia l'individuazione dell’orda (identificata dal Totem che riceve il nome dagli estranei) e del singolo (che riceve il nome dagli altri componenti dell’orda).
Quando l’infante apprende il linguaggio del gruppo, come se fosse una lingua straniera, egli smonta le “forme totali” del primordiale linguaggio autarchico. Pezzo per pezzo egli comincia a confrontare le presentazioni-diparola proprie alle parole della madre. Il “sillabare” viene elaborato in diversi modi e luoghi. Nel sogno il
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lavoro-onirico elabora presentazioni visive in rappresentazioni dalle quali emergono presentazioni-di-parola, come in un rebus. Si pensi al sogno nel quale la piccola a digiuno per indigestione, vede: «F(r)agole, F(r)agoloni, .1Dd_€CC.. Nel lapsus il lavoro-erroneo elabora la presentazione-di-parola più a contatto con la realtà, anche se spiacevole. Come quando l’allievo invita a ruttare (invece che brindare) alla salute del Maestro.
L’errore
porta alla luce presentazioni-di-cosa rimosse e serve a formare parole adatte a descrivere le qualità penose collegate alla presentazione-di-Maestro
(1901).
Nella battuta di spirito prosegue l'elaborazione sempre più in contatto con l'oggetto. Il lavoro-umoristico utilizza le “risonanze” (pre e post) che, come echi interni, collegano le presentazioni-di-parola formando parole nuove. Si pensi ai giochi infantili con le parole, giochi recuperati dagli adulti quando coniano battute del genere «Caccao» od altro (1905, I{ Motto di spirito). Infine
elaborando
il distacco,
il lavoro-lutto
cambia
definitivamente la direzione della parola dall’interno (condolersi) all’esterno (dolersi di-), come forse potrebbe essere tradotta la frase freudiana «K/agen-Anklagen» (1915, Lutto e melancolia).
Dunque osservando il sogno, la battuta umoristica, il lapsus ed il lutto possiamo accorgerci come si costruisca la parola, elemento indispensabile per la creazione della rappresentazione passibile di diventare conscia. In ciò si può collegare la costruzione della parola alla costruzione psicologica e, seppure con i dovuti dubbi, la costruzione poetica: tutte usano gli stessi (lavoro-onirico, erroneo, umoristico, lutto).
strumenti
Per acquisire la parola del vocabolario comune, il bimbo riceve “propagazioni” dalle presentazioni e dalle rappresentazioni del Mito, dell'Arte, della Religione, ecc., quando entra in contatto diretto con le strutture sociali attraverso gli interpreti che sostituiscono la madre. In tal percorso la parola (a livello sociale e individuale)
è il fatto fondamentale,
come
visto.
consente
di connessioni,
Essa
la costruzione
abbiamo
attraverso il suono, tra diverse presentazioni-di-cosa (linguaggio autarchico), che vengono presentate - nella
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La cultura psicoanalitica
loro immediatezza
dal pensiero
inconscio
(1905,
Il
Motto di spirito). In seguito lo stabilirsi di connessioni
tra rappresentazioni (linguaggio comune) dà la nota forma virtuale al pensiero conscio. E uno dei tanti paradossi della nostra crescita: quando il bimbo acquisisce il primo simbolo (virtuale) non esistente nell’Inconscio (il NO) approda alla distinzione tra interno ed esterno e percepisce l'oggetto (1925, La Negazione). Solo allora il bimbo può recuperare le presentazioni rimosse
purché negate; le presentazioni-di-cosa si trasformano in
rappresentazioni
passibili
di
diventare
consce.
Ma
proprio queste rappresentazioni con le loro caratteristi-
che virtuali, fittizie, “come se”, permettono la percezione dell'oggetto. Nel giuoco linguistico descritto, appaiono molto importanti due particolari formazioni verbali: le parolescambio ed i ponti-verbali. Le parole-scambio esprimono l'ambiguità o polivalenza della parola originaria che, se posta in una direzione porta al senso proprio e se
posta in un’altra direzione porta al senso lato. Proprio come capita con uno scambio ferroviario. Tra i numerosi esempi freudiani cito quello famoso attinente al primo sogno di Dora. La rappresentazione onirica manifesta “gioiello a goccia” disfa le parole del giorno
(residuo
diurno)
nelle
immagini
regressive
del
sogno che collegano circoli presentativi diversi. Sono dunque costituiti da presentazioni genitali (vagina od altro) e pregenitali (ano, ecc.). Quindi in “senso lato” “gioiello a goccia” porta a immagini del vocabolario comune, “in senso proprio” a presentazioni di ano, vagina, uretere. Segnalo che il percorso può essere rovesciato: nella fase di crescita ogni parola è uno scambio che indirizza nelle parole del vocabolario adulto, riempiendole, i suoni intimi e le presentazioni-di-cosa. Quando l’infante dice «mamma», usa un linguaggio interno, un “gesto verbale” che presenta in forma unica madre, seno, latte, digestione, odori, sapori e quant’al-
tro, sensazioni vaghe e confuse nelle proprie presentazioni senza una chiara e cosciente percezione di realtà. Porto ad esempio una mia paziente. Mentre era alle scuole elementari fece un disegno “pornografico” che raffigurava pene e vagina. Questo le cadde per terra e fu
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raccolto dalla maestra che lo porse alla terrorizzata bambina. Nel raccontare l'episodio la paziente nota che in realtà la maestra non colse il significato “pornografico” perché il disegno poteva rappresentare “tutto”. Ella spiega che la vagina era simile ad una foglia posta verticalmente, il pene era simile ad un’altra foglia posta orizzontalmente. In seguito alla mia interpretazione, che tendeva tra l’altro a segnalare il doppio senso delle immagini interne riferite a presentazioni botaniche o sessuali, la ragazza ricordò un altro fatto. A scuola una ragazzina aveva parlato di “seme maschile”. Questo “seme” funzionò da parola-scambio: da un lato si riferiva alle spiegazioni date dalla maestra per i fatti sessuali (botaniche), dall’altro portava a presenze interne più misteriose (sessuali). Da notare che la nostra
maestrina di educazione sessuale aveva disegnato le “cose pornografiche” per erudire la compagna di banco. Da parte loro i ponti-verbali utilizzano diverse presentazioni-di-parola come piloni di un ponte che unisce la presentazione-di-cosa alla cosa. Ad esempio il noto lapsus che Freud trae da Ferenczi (Verona-Capua-Caput mortum, ecc.) dimostra che la dimenticanza di parola viene coperta da un ponteverbale formato da presentazioni-di-parola che affondano nell’inconscio. A loro volta ogni presentazione-diparola si fonda su presentazioni-di-cosa, scoperte le quali per via associativa, ci appare come
e perché sia
comparso il lapsus. Anche i ponti-verbali mi sembrano partecipare alla costruzione della parola, sia pure ad un livello più avanzato: quello in cui il bimbo entra in contatto con il linguaggio comune. Spero di essere riuscito a segnalare, quanto importante e trascurata sia stata la rappresentazione linguistica
freudiana e come essa possa essere ristudiata con profitto sia nello scambio psico-analitico sia in campi diversi. Per quanto riguarda il campo psicoanalitico accennerò ad un solo punto tra i molti, ma assai importante perché riguarda lo strumento specifico della psicoanalisi: mi riferisco all’interpretazione. Sappiamo che Freud distingue vari tipi d’interpretazione (simbolica, frazionata, anagogica) e che egli pone nella «interpretazione del travestimento linguistico» l'intervento più
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La cultura psicoanalitica
penetrante o comprensivo dei diversi livelli di contatto (1899, Interpretazione dei sogni). Della «interpretazione del travestimento linguistico», o più semplicemente della “interpretazione linguistica”, Freud parla assai spesso lungo la sua opera fino a farne nel 1929 (Disagio della civiltà) una delle più rapide sintesi. L’analista — egli dice — dovrebbe lasciarsi guidare dai modi di dire, dalle frasi fatte, così da rendere giustizia ad «intime visioni che non possono essere propagate da parole astratte». Ad evitare fraintendimenti aggiungerò che sensibilità linguistica non va intesa come un mero esercizio su un
testo ma si riferisce all’utilizzazione della “lingua viva” elaborata da Freud come ho appena riferito. Fanno fede a quanto affermo le modalità interpretative utilizzate da Freud nei molti casi clinici da lui riferiti oltre che negli scritti teorici.
Dall'esame di questi casi appare chiaro che “interpretazione linguistica” significa porre attenzione alle parole-scambio offerte dai pazienti, ed usarne sia il senso proprio che il senso lato, per arrivare a toccare le presentazioni-di-cosa rimosse con l’interpretazione più comprensiva e comprensibile possibile. Questo si propone Freud quando afferma che «occorre una psicologia del tutto nuova, basata sull’autopercezione e sulla parola» (Dibattiti, 15 Aprile 1908). Si tratterebbe di arrivare a comprendere nel gioco transfert-controtransfert tutte le possibilità che le parole ci offrono. Anche in altri e limitrofi campi d’indagine, faccio osservare che la “lingua viva” freudiana ha molti echi. Lungo tutta la sua opera, e specialmente nei lavori che potremmo dire di “analisi applicata”, troviamo molte idee che non sono state sufficientemente collegate o comprese da noi psicoanalisti e che perciò ci tornano, spesso falsate da altri studiosi. Tra i molti che hanno letto in modo parziale e distorto Freud, mi viene in mente ora Adorno (1985) quando afferma che nell’Unheimlich si fa dello spiritismo, ma certamente egli non è il solo a compiere operazioni del genere. Si pensi all’uso fatto da Wittgenstein di Vorstellung e Darstellung, come altro esempio. Rimanendo sempre nel campo delle scienze
umane,
ricordo che Freud,
quando
ci indica
Psicoanalisi e psicologia
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molti risvolti dei contatti e dei rapporti che avvengono tra individuo e società (politica e religiosa), pone la parola, come asse portante dello sviluppo sociale dal Mito alla Storia. Si consideri l’importanza assegnata da Freud alla presentazione-di-parola (simbolismo linguistico), nella costituzione della tradizione orale che sostiene
le originarie religioni, specialmente quando esse interdicono la raffigurazione del Dio. Egli afferma che «si tratta di relazioni mentali tra presentazioni, relazioni instauratesi durante la storia dello sviluppo linguistico e che ora devono essere ripetute ogni volta che uno sviluppo linguistico è compiuto individualmente» (1938, Mosè). Non bisogna neppure dimenticare che molte altre idee Freud ha espresso riguardo la costruzione della rappresentazione poetica, sia che si tratti di scene pittoriche, teatrali, romanzesche o scultoree. Tra i numerosi saggi che Freud ci offre, scelgo la Gradiva perché particolarmente attento allo sviluppo linguistico. Mentre svolge la sua indagine Freud ammira l’abilità di Jensen nel costruire la scena romanzesca con diversi mezzi, ma specialmente con l’uso esperto della parola. Infatti appare chiaro che, sfruttando l'ambiguità delle presentazioni-di-parola, Jensen c’introduce nella scena del romanzo tra realtà, sogno e delirio. Per realizzare l’intenzione artistica lo scrittore usa parole-scambio, quale Archeopteryx, che porta sia a presentazioni-diarcheologia, sia a “complessi personali” del padre di Zoe, l'eroina del romanzo. Ma il poeta usa anche pontiverbali (come Zoe-Bertgang-Gradiva) che riportano a presentazioni-di-piede ed al relativo feticismo. Non solo, ma
Jensen,
usa
il suono
per modulare,
con
un filo
melodico, la trama del romanzo: dall’insorgenza dell’episodio delirante, quando Hanold è spinto via dalla sua città anche dai suoni fastidiosi, al viaggio durante il quale l’eroe è sempre frastornato dagli Hans e Grete, fino al culmine dell’azione romanzesca in Pompei. Questo in breve per quanto riguarda la costruzione del romanzo, ma Freud ci mostra altre cose. Egli ci mostra la funzione mediatrice della parola tra rappresentazione individuale ed artistica. Da ciò che Freud ci indica risulta che da un lato Jensen domina la scena perché sovraordina il rapporto tra Hanold e gli altri personaggi
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con l’impiego delle presentazioni-di-cosa e di-parola per costruire la rappresentazione romanzesca. Dall’altro lato la relazione mediata dalla parola è assai completa perché procede attraverso una serie di incastonamenti che coinvolgono il lettore. La forma romanzata incastona la scena psichica di Jensen, in un sistema di rappresentazione dentro la rappresentazione, che assomiglia alla condizione del sogno dentro il sogno. S’instaura un'atmosfera trasognata, utilizzata da Jensen per spingere il lettore nell’abisso del feticismo, esclusivamente
con la
magia della parola. Ma mentre il romanziere c’intriga nella figura-feticcio, e ci chiude nella delirante denegazione della realtà, con la stessa magia della parola ci indica l’uscita verso la realtà. Infatti come nel sogno dentro il sogno la forma (il romanzo) denega la realtà del contenuto
(il delirio) attraverso la medesima parola. In
tal caso la polivalenza della parola diviene il tramite per spingerci nel delirio e contemporaneamente per trarci fuori di lì. Conclusioni
«A Freud va il merito di aver introdotto una costituzione nell’anarchia del sogno. Soltanto che da quello che vi succede sembra sempre di essere in Austria». Prendo spunto dalla frase di Karl Kraus per avviare la conclusione del mio discorso. Ciò che Kraus suggerisce con il suo stile caustico è profondamente vero. Tutti noi riconosciamo a Freud il magistrale uso della parola sia nell’ambito del setting sia nell’esposizione teorica. La parola freudiana è forte perché, ben lungi dall'essere campata in aria, è invece profondamente radicata nella realtà del settizg e del contesto sociale, austriaco, del suo tempo. Sono sempre parole semplici collegate a presentazioni sociali o individuali per costruire la rappresentazione metapsicologica più realistica possibile. Egli è stato maestro nel rendere “scientifiche” parole dell’uso corrente, nel costruire una metapsicologia ch'egli dice essere virtuale come ogni rappresentazione, ma che cerca di rendere la più logica possibile. Rifuggendo dalle definizioni conclusive, Freud ha
Psicoanalisi e psicologia
costruito un sistema rappresentativo
DAT
aperto attorno al
“buco” della conoscenza psicologica. Egli però non si è limitato a questo, infatti ha pure costruito una vera e propria teoria linguistica, la “lingua viva”. Essa mi pare essere stata in gran parte esclusa dallo studio e dall’attenzione di noi psicoanalisti. Se ciò è vero, allora vale la pena di saggiare se la lingua viva freudiana ci possa aprire nuove vie di conoscenza. Bibliografia T.W. Aporno (1975), Stelle su misura, Einaudi, Torino 1985. S. Freup (1891), L’irterpretazione delle Afasie, Sugar, Milano 1980. S. Freup (1895), Progetto di una psicologia, OSF II, pp. 201-288,
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Enrico Gori (Italia - Bologna): Professore di Psicologia all’Università di Bologna. Membro ordinario della Società Psicoanalitica Italiana.
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Savo Spacal Psicoanalisi come psicologia generale: sulla visione psicoanalitica di Heinz Hartmann e David Rapaport Heinz Hartmann e David Rapaport, due grandi protagonisti della psicoanalisi degli anni Quaranta e Cinquanta, sono nati rispettivamente a Vienna e a Budapest, dove si sono anche formati dal punto di vista professionale, ma il loro definitivo emergere alla ribalta della scena psicoanalitica è avvenuto dopo la loro emigrazione negli Stati Uniti. Nonostante provenissero da backgrounds culturali e professionali diversi — Hartmann era medico e psichiatra, Rapaport, dopo aver studiato matematica e fisica, si era laureato in psicologia — i due studiosi si sono trovati accomunati in due importanti aspetti: da una parte portarono allo studio della psicoanalisi una conoscenza approfondita delle discipline attigue alla psicoanalisi stessa, dall'altra perseguirono tenacemente lo stesso obiettivo di proporre la teoria analitica quale base più adatta su cui costruire una psicologia generale unificata. La ragione, per attuare questo ambizioso progetto, per dirla con le stesse parole di Hartmann, è la seguente (Hartmann, 1939): «La psicologia non può rimanere divisa tra la psicoanalisi e le altre discipline psicologiche poiché queste ultime trascurano certi aspetti evolutivi che risultano essere di cruciale importanza anche in quelle aree che abitualmente vengono considerate extraanalitiche». Quindi, secondo Hartmann e Rapaport, la grande massa dei dati accumulati dalle psicologie non analitiche andrebbe completamente riconsiderata con le lenti del metodo analitico. Sono consapevole che può apparire inopportuno
520
La cultura psicoanalitica
discutere assieme due personaggi così autorevoli e complessi. L’opera di ciascuno dei due offre molte specificità che sotto molti aspetti andrebbero meglio studiate
ma
separatamente,
in questa
comunicazione
viene messa in risalto la loro complessiva impostazione teorica e si evita di soffermarsi su concetti e contributi particolari. AI loro comune disegno riguardo al ruolo della psicoanalisi tra le scienze dell’uomo si contrapponeva una profonda diversità di carattere: più passionale, coinvolgente, estroso quello di Rapaport, più pacato, armonioso, meno polemico quello di Hartmann. Se Rapaport può considerarsi quasi un autodidatta nelle sue tre carriere di esperto di test proiettivi, di sperimentalista e di teorico della psicoanalisi, Hartmann — proveniente da una famiglia che da parte di ambo i genitori ha dato molti personaggi di rillevo — poté usufruire sin dall'età scolastica di un'istruzione individualizzata ai più alti livelli: anche perché suo padre, che era di ferma convinzione laica, non gli fece frequentare la scuola pubblica fino ai quattordici anni per evitare che gli venisse impartito l’insegnamento religioso. Hartmann si distinse sempre per l’equanimità con cui affrontava le varie situazioni tanto
che gli Eisslers
(1966), nel loro
breve saggio biografico, suggeriscono che non può ritenersi casuale il fatto che sia stato proprio lui a introdurre nella psicoanalisi il concetto di sfera dell'Io libera dai conflitti. Rapaport, invece, fu sempre animato nella sua attività da uno spirito da trascinatore infuocato così che non ci sorprende apprendere (Gill, 1967) che già da adolescente aveva ricoperto importanti ruoli di leader nel movimento sionista e che successivamente
aveva vissuto per due anni l'avventura del kibbutz in Palestina.
Se Hartmann
stupiva tutti per la sua non
intrusiva naturalezza con cui conseguiva i più alti risultati, sia nel campo scientifico che in quello organizzativo, Rapaport non finiva di sbalordire per la sua prodigiosa e frenetica produttività che a sentir parlare i suoi più stretti collaboratori (Holt, 1967) andava ben al di là del saper gestire nel contempo le sette proverbiali lettere di Cesare. Mentre Rapaport, anche a causa del suo spirito ribelle e indipendente, rimase sempre ai
Psicoanalisi e psicologia
321
margini della psicoanalisi ufficiale, Hartmann ricoprì praticamente tutte le più alte cariche in seno alla psicoanalisi organizzata. Tale appariva la sua autorevolezza che la scelta per una nomina cadeva con naturalezza su di lui quando egli non manifestava nessuna particolare ambizione
carrieristica. A questo proposito
posso menzionare due episodi abbastanza emblematici della sua vita professionale: quando si trovava ancora a Vienna la nomina alla docenza di psichiatria non gli fu mai confermata dal governo poiché egli si ostinava a dichiararsi non appartenente ad alcuna religione. Come esempio, invece, della stima che Hartmann godeva nell'ambiente psicoanalitico si può ricordare il fatto che egli fu invitato dallo stesso Freud a proseguire l’analisi didattica con lui dopo averne completata una a Berlino con Sandor Rado (e sono noti due soli esempi di questa evenienza che all’epoca significava certamente un riconoscimento non comune
per un giovane analista).
Nell’avvicinarsi all’opera di Hartmann e di Rapaport è opportuno tener presente che Rapaport ha cercato di chiarire e riformulare la teoria analitica in un linguaggio comprensibile e, soprattutto, accettabile alla psicologia accademica mentre Hartmann, rivolgendosi al mondo analitico, si adoperava affinché la psicoanalisi mantenesse uno scambio attivo e un legame coerente con le discipline scientifiche confinanti, innanzitutto con la biologia e la sociologia. Un altro aspetto da non trascurare,
per mantenere
una
giusta prospettiva
sia
sull’opera di Hartmann e di Rapaport sia sugli sviluppi successivi che le loro opere hanno stimolato, è la differenziazione del termine “psicoanalisi”, già fatta da Freud, e ribadita spesso dai due autori (ad es., Rapaport, 1944; Hartmann, 1959). Il termine “psicoanalisi” può riferirsi, infatti, a un “procedimento terapeutico”, a un “metodo di ricerca” e a una “teoria psicologica”. Quale procedimento terapeutico, la psicoanalisi è una tecnica che certamente tiene conto delle proposizioni della teoria psicoanalitica generale, ma che si avvale dei precetti metodologici relativamente autonomi rispetto alla teoria generale. In questa ottica vale la pena aggiungere che la psicoanalisi quale procedimento terapeutico
non
è certamente
l’unica,
e certamente
D22
La cultura psicoanalitica
neanche la più diffusa tecnica terapica, che si basa sulla teoria psicoanalitica generale. Infatti abbiamo la psicoterapia analitica con precetti tecnici modificati rispetto alla psicoanalisi propria come tanti altri interventi sia a scopo terapeutico, conoscitivo o pedagogico che si ispirano tutti alla psicoanalisi quale teoria psicologica. Analogamente, la psicoanalisi come metodo di ricerca, secondo i nostri autori, non è tenuta a basarsi esclusivamente sulla cosiddetta situazione analitica, ma sia
Hartmann che Rapaport indicano quali valide aggiunte anche l'osservazione diretta dei bambini e le situazioni sperimentali. E anche se loro non ne parlano esplicitamente uno potrebbe, in questa ottica, includere anche altre situazioni, come tanti analisti hanno effettivamente
fatto, come le esperienze di gruppo (ad es. Bion, 1961) e i sistemi istituzionali (Jaques, 1970; Fornari, 1976). Loro
stessi hanno apportato dei contributi significativi alla teoria generale della psicoanalisi non vincolati allo studio della situazione analitica (ad es. Rapaport, 1947; Hartmann,
1924, 1934-35). Infine la psicoanalisi come
teoria psicologica generale si riferisce ai concetti che Freud elaborò sotto il nome di metapsicologia. Ed è a questo significato del termine che Rapaport e Hartmann si rifanno abitualmente quando parlano di psicoanalisi. La loro si può infatti definire un'operazione di revisione e di sistematizzazione della metapsicologia freudiana. Qualche citazione tratta dagli scritti di Hartmann può rendere esplicito il loro programma scientifico (Hartmann,
1927): «La psicoanalisi usa i metodi della
scienza naturale ... La psicoanalisi procede per induzione ed ha le sue radici nella biologia ... La psicoanalisi è una scienza naturale non solo per la sua maniera di concettualizzazione ... ma anche per gli obiettivi scientifici che si prefigge cioè la conoscenza di leggi e di regolarità ... Il fine della psicoanalisi non è la comprensione del mentale bensì piuttosto la spiegazione delle sue relazioni causali ...». Forse è necessario aggiungere che questa citazione è tratta da un capitolo del libro di Hartmann del 1927 I fondamenti della psicoanalisi, intitolato Versteber und Erkliren, tradotto in inglese Understanding and Explanation. Questo capitolo è stato scritto da Hartmann con propositi polemici nei confron-
Psicoanalisi e psicologia
523
ti di Dilthey, Jaspers e Spranger, i più noti esponenti della Verstebende Psychologie. Secondo Hartmann la Verstebende Psychologie si limiterebbe ai concetti descrittivi mentre la psicoanalisi, secondo lui, deve mirare
alla costruzione dei concetti esplicativi. E sempre in polemica con i rappresentanti della Verstebende Psychologie, che avrebbero visto il limite ultimo della comprensione psicologica nell’esperienza immediata, di per sé stessa evidente, di certe connessioni mentali, affermò (Hartmann,
1927):
«Il concetto
della causalità
[nella
teoria psicoanalitica] si è liberato dalla sua origine nell’esperienza della causalità. L’esperienza soggettiva non può più essere un criterio valido di connessioni causali». Per Hartmann e Rapaport il fatto di basilare importanza, per elevare la psicoanalisi allo statuto di una scienza naturale, era dato dal fatto che nella situazione
analitica Freud aveva scoperto alcune regolarità dello sviluppo umano che poterono successivamente essere verificate anche in contesti diversi come con l’osservazione
diretta dei bambini
e, più limitatamente,
nelle
situazioni sperimentali. Le loro opere principali, La psicologia dell'Io e il problema
dell'adattamento
di Hartmann
struttura della teoria psicoanalitica sono riconosciute quali testi base indirizzo psicoanalitico che va sotto gia dell'Io” di cui i due studiosi
(1939)
e La
di Rapaport (1960), di quel particolare il nome di “psicolosono generalmente
ritenuti i principali esponenti. Hartmann ha preso come
punto di partenza della sua investigazione lo studio dell'adattamento umano (Hartmann, 1939), cioè il rapporto tra l’individuo e l’ambiente in una prospettiva biologica molto ampia da includere il sociale (Hartmann, 1944, 1950), mentre per Rapaport (1951) la base, su cui tendeva a costruire i suoi modelli teorici, era
rappresentata dal rapporto tra la motivazione umana, data dalle pulsioni istintuali, e il pensiero logico e socializzato. Nella psicologia proposta da Hartmann e Rapaport l’Io non veniva più studiato predominantemente per le sue funzioni di difesa e di assestamento, quasi passivo, tra le esigenze delle pulsioni istintuali e quelle della
524
La cultura psicoanalitica
realtà;
venivano
messe
in risalto,
piuttosto,
le sue
funzioni sintetiche od organizzative. L’Io veniva conce-
pito non già, esclusivamente, come una struttura fatta di
compromessi risultanti da inevitabili conflitti ma come una
organizzazione
maturata
psichica autonoma
attra-
verso varie fasi di sviluppo. In questo senso Hartmann ha postulato che l'Io fosse il principale organo di adattamento dell’individuo umano, il vero omologo, per le sue
funzioni
di relazione
con
l’ambiente,
delle
strutture comportamentali innate degli animali inferiori. Ed era in seno a questa concezione dell’Io che Rapaport si auspicava di porre le basi di un’adeguata teoria dell’apprendimento la cui assenza giudicava come la lacuna più vistosa della teoria analitica, mentre, dall’altra parte, criticava le vigenti teorie dell’apprendimento in quanto basate su una concezione del comportamento umano oltremodo limitata (ad es., Rapaport, 1943, 1952). Se ci interroghiamo sull’eredità che ci hanno lasciato con le loro opere Hartmann e Rapaport la conclusione non può essere del tutto univoca; innegabile è, però, la
grande influenza che i due hanno avuto sullo sviluppo della psicoanalisi, specialmente quella americana. Innanzitutto è doveroso constatare che, a venticinque anni dalla loro scomparsa, l'ambizioso progetto di integrazione e di sistematizzazione che dovrebbe collocare la psicoanalisi al centro di una psicologia generale non è stato
portato
a termine;
né
si vede
chi oggigiorno
potrebbe perseguirlo con la stessa perspicacia e convinzione che erano proprie a Hartmann e Rapaport. Se ci
soffermiamo, invece, sulla innegabile influenza che i due hanno avuto sull'andamento dell’analisi, appare opportuno, prima di addentrarsi nelle considerazioni conclusive, fare una distinzione fra i due studiosi che è una
diretta conseguenza dei rispettivi ruoli che hanno svolto in seno alla psicoanalisi. L’opera di Hartmann, certamente eludendo le sue reali intenzioni, è rimasta per tre decenni la teorizzazione ufficiale, quasi una nuova ortodossia, della psicoanalisi americana. L’influenza di Rapaport, invece, si esplicita principalmente attraverso il lavoro dei suoi allievi e più stretti collaboratori come George Klein, Roy Schafer, Merton Gill, Robert Holt e altri ancora riconosciuti, con pieno merito, tra gli autori
Psicoanalisi e psicologia
D25
più autorevoli e innovativi sulla scena psicoanalitica americana d’oggi. Presa nell’insieme la psicologia dell'Io, come esemplificata nell'opera dei due autori, si è ultimamente diversificata e ramificata talvolta in direzioni che possono apparire senz'altro paradossali. Da una parte abbiamo degli autori come Peterfreund (1971), Bowlby (1969), Rosenblatt e Thickstun (1977) che possiamo considerare come i più fedeli continuatori dell’impostazione teorica proposta da Hartmann e Rapaport. Essen-
zialmente questo gruppo di autori ha voluto rivedere due aspetti dell’originale progetto dei due protagonisti della psicologia dell'Io. Sul piano concettuale si è quasi definitivamente affermata l’esigenza di sostituire il modello teorico dell’energia psichica con quello della teoria dell’informazione. Proprio la teoria dell’energia psichica è venuta a trovarsi in contraddizione con i recenti sviluppi delle discipline biologiche, dal che si può concludere che la sua sostituzione è in linea con il fermo proposito di Hartmann e Rapaport di non chiudersi in una teorizzazione autarchica bensì di mantenere un coerente rapporto concettuale con le discipline biologiche e sociologiche. Sul piano della delimitazione del campo di investigazione si è avuto un ridimensionamento dell’obiettivo di instaurare la psicoanalisi quale base di una psicologia generale. E stato suggerito invece che la psicoanalisi possa aspirare a diventare quel ramo della psicologia generale che si occupa della motivazione del comportamento umano. Una fedele testimonianza, riguardante questa modificazione del programma originale, ce la può offrire la seguente citazione tratta dalla recente monografia di Rosenblatt e Thickstun (1977): «Contrariamente alle asserzioni di Hartmann e altri noi non crediamo che la psicoanalisi possa essere considerata, di per se stessa, una psicologia generale e neanche che abbia la potenzialità, di per se stessa, di diventare una
psicologia generale. La teoria psicoanalitica è essenzialmente una teoria delle operazioni e delle vicissitudini dei sistemi e delle strutture motivazionali, ivi inclusi il loro
sviluppo, le loro funzioni, la loro integrazione, i loro controlli, le loro trasformazioni
simboliche
relazione con gli stati di coscienza.
e la loro
Mentre la teoria
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La cultura psicoanalitica
psicoanalitica risulta importante riguardo ai campi di studio quali l'apprendimento, la memoria, l’attenzione, la percezione ecc. (segmenti della psicologia generale), non è progettata per fornire una spiegazione completa di essi».
Ma il risvolto più inaspettato, forse, della psicologia dell'Io è dovuto a certi autori che erano i più stretti collaboratori e allievi di Rapaport e, certamente, tra i più attenti interpreti dell’opera hartmanniana. Mi riferisco ai
vari G. Klein (1976), R. Schafer (1976), M. Gill (1976)
che hanno tutti, a suo tempo, contribuito in modo significativo alla concezione della psicoanalisi propria a Hartmann e Rapaport e che, invece, nelle loro opere dal °70 in poi sembrano essersi messi in chiaro conflitto con
quel tipo di teorizzazione. Chi è a conoscenza dell’opera di questi analisti non avrà difficoltà a riconoscere come appare grande la rottura tra loro e i loro illustri predecessori. Non potendomi addentrare nelle particolarità della loro opera, vorrei solo sottolineare che il paradosso di questa svolta diventa più comprensibile se si guarda alle premesse che gli stanno sullo sfondo. Tutti questi autori non hanno mai negato la validità della teoria proposta dai loro maestri, non hanno mai lasciato intendere di averli superati con i loro contributi, né hanno mai negato che il piano principale, quello di costruire una psicologia generale, sia da accantonare perché di poco conto o perché irrealizzabile. La loro rivalutazione riguarda piuttosto la natura dell’investigazione nonché del metodo che può legittimamente considerarsi di chiara pertinenza psicoanalitica. I più autorevoli tra loro cominciarono ad osservare che, con la
parziale integrazione della psicoanalisi con la psicologia generale, cui si è pervenuti con l’affermarsi della psicologia dell’Io, si sia smarrito il vero centro della psicoanalisi clinica. La seguente citazione tratta dal libro postumo di G. Klein (1976) può testimoniare questo disagio: «La mia obiezione al modello termodinamico della psicoanalisi [cioè il modello metapsicologico elaborato da Hartmann e Rapaport] come anche alle sue controparti contemporanee [come ad es. i modelli modificati da Peterfreund e Rosenblatt e Thickstun] che cercano di sostituirla, non è la loro inerente implausibili-
Psicoanalisi e psicologia
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tà ma più pertinente mi sembra il fatto che siano semplicemente irrilevanti per la psicoanalisi clinica». Questo gruppo di autori si è avvalso nella maniera più esplicita della distinzione fatta tanto chiara da Hartmann e Rapaport tra la teoria generale analitica (metapsicologia) e la teoria clinica. Ma mentre tutta l’attenzione di Hartmann e Rapaport era rivolta alla prima, loro hanno sentito la necessità di approfondire le basi concettuali di quest’ultima. Sarebbe, però, sbagliato pensare che così facendo invitino gli analisti ad occuparsi semplicemente della loro pratica clinica senza pensare alle questioni teoriche. E vero piuttosto che questi autori hanno intravisto nello studio dei principi clinici della psicoanalisi (termine usato da Rapaport) grandi possibilità di approfondimento concettuale, mentre in precedenza questi principi clinici venivano accettati in una maniera
scontata come se si trattasse di fenomeni autoevidenti. G. Klein (1977) sostiene con grande eloquenza che le due teorie, quella generale o metapsicologica e quella clinica, non si differenziano per un diverso livello di astrazione, come abitualmente veniva asserito ma piuttosto per una diversa natura dell’investigazione intrapresa. Mentre la teoria generale cerca di spiegare il funzionamento dei meccanismi, la direzione dei processi, la genesi delle strutture, la teoria clinica è essenzialmente, come Hartmann stesso l’ha definita, una teoria dell’au-
toinganno e della motivazione che tende a sostenerlo. E quindi una teoria che si sofferma soprattutto sul significato dei vissuti soggettivi e che indaga sul punto di vista che il soggetto stesso mantiene sulla propria intenzionalità. Quindi è il problema della conoscenza di sé che viene collocato al centro dell'indagine analitica nei suoi molteplici aspetti di sviluppo, di condizionamento e di falsificazione. Sul piano metodologico questo gruppo di studiosi insiste che la situazione analitica sia l’unica occasione in cui un analista riesca a selezionare e
a raccogliere con la dovuta perizia i suoi dati. Si può avvertire, così, nei loro lavori il timore che gli analisti rischino di peccare di presunzione se dovessero, con la loro specifica preparazione teorica e metodologica, assumersi con troppa disinvoltura la responsabilità di svolgere quell’immensa opera di integrazione e sistema-
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La cultura psicoanalitica
tizzazione richiesta dal progetto originale di costruire Ispra i una psicologia unificata. può si coscienza di presa questa in Ma anche Rapae Hartmann di impronta decisiva la intravedere port che con la loro riflessione, penetrante e disciplinata, hanno contribuito in modo determinante a chiarire e a circoscrivere i vari campi di indagine e a promuovere
una comunicazione intra e interdisciplinare più rigorosa.
Un autorevole portavoce della psicoanalisi americana contemporanea (Cooper, 1984) ha pubblicato recentemente nella rivista ufficiale un articolo editoriale dall’eloquente titolo: Psicoanalisi a cent'anni: gli inizi della maturità. Nell’articolo l’autore argomenta che il tormentoso passaggio della psicoanalisi dalla sua infanzia fino alla soglia della maturità, che si sarebbe raggiunta adesso nel compimento dei suoi cento anni di esistenza, viene evidenziato dalla capacità di tollerare nel proprio seno discussioni sugli aspetti teorici e tecnici quando in passato si erano verificati molto più facilmente degli attacchi 44 borzinem, delle scomuniche e delle scissioni.
Se è vero che la psicoanalisi ha raggiunto questo grado di maturità, una parte non trascurabile del merito va data a Hartmann e Rapaport che hanno saputo spronare una fruttuosa discussione su questioni metodologiche ed epistemologiche aiutando così a chiarire i vari linguaggi concettuali che prima s’intrecciavano confusi, spesso ridondanti o contraddittori, non consapevoli di appartenere a impostazioni teoriche diverse. E su questo aspetto
del loro contributo che dobbiamo riflettere quando ci troviamo un po’ sconcertati dalla constatazione che non solo non si è raggiunto il traguardo di una psicologia unificata ma che, forse, mai prima la psicoanalisi si presentava così poco omogenea e così prolifica di sempre nuovi modelli come avviene oggi. Grazie anche a Hartmann e Rapaport la discussione si è oggi spostata
sensibilmente dalla questione della fedeltà alla teoria
ufficiale, o alla stessa persona di Freud (Cooper, 1984),
agli interrogativi sulle basi concettuali dei vari modelli
proposti.
Di
conseguenza
non
è più così
abituale
affrontare i proponenti di varie riformulazioni alternative con le etichette di patologia quali resistenza personale, deviazione paranoica, tradimento filiale, regressione
Psicoanalisi e psicologia
29
narcisistica ecc.. Infine, ci sentiamo senz'altro in debito
con Hartmann e Rapaport per il fatto che la psicoanalisi, perlomeno dove l'influsso della loro opera è stato maggiore, abbia perso un po’ le caratteristiche di un movimento culturale-filosofico, legato in maniera troppo cospicua alle varie Weltanschauungen dei suoi protagonisti, e si sia avvicinata un po’ di più alla meta di una disciplina scientifica.
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Savo Spacal (Italia - Trieste): Membro Italiana.
della Società Psicoanalitica
Enzo Funari, Riccardo Luccio La rappresentazione in psicoanalisi
e in psicologia Dovendo affrontare un possibile consuntivo della cultura e dell'impianto teorico della psicoanalisi — pur visti nelle loro articolazioni interne differenziate — ci si trova curiosamente di fronte ad un fenomeno che, a ben
guardare, accomuna la psicoanalisi alla psicologia. Nel travaglio di affrancamento dagli altri campi del sapere espresso dalle due aree, si è assistito e si assiste tuttora all’insistenza di un continuo ricorso a supporti esplicativi, tecnici e teorici, non propriamente “psicologici”. Il referente fisico-bio-fisiologico da un lato e quello estetico-linguistico-antropologico dall’altro, costituiscono due versanti dai quali sembra difficile liberarsi. Anche tutte le costruzioni di meta-livelli epistemici riflettenti sulla psicologia non trovano altre soluzioni che quella di impostare le proprie elucubrazioni su raccordi derivati in ultima istanza da questi due versanti. Da tutto ciò risulta sacrificata una posizione osservativa e di intervento basata essenzialmente su un tipo di indagine centrata sulla fenomenicità degli eventi psichici — cioè di come essi si “presentano” e si “incontrano” — unica via, questa, per individuarne la processualità e la struttura specifica. Un taglio di questo genere non elimina gli altri possibili referenti, ma semplicemente si svincola dalla cattura di sistemi e metodi operativi e concettuali che, se trasferiti in ambito psicologico, non solo perdono il loro valore originario, ma funzionano più come ostacoli e fonte di confusione. Occorre forse non avere timore di venire intesi come
DO
nemici
La cultura psicoanalitica
di un
supposto
sapere
unitario,
e in questa
prospettiva, quindi, scoprire l’utilità di una operazione di vera e propria riduzione che consenta un'indagine più fertile, armonica e, perché no, meno noiosa. Vediamo di
esemplificare
detto,
quanto
contesto storico.
riconducendoci
ad
un
x
Una osservazione più attenta, relativa all’avversione suscitata nell’ambito scientifico ufficiale dalle iniziali proposte di Freud, può suscitare qualche sorpresa. È noto come la versione ufficiale e più direttamente sostenibile relativa alle critiche e alle perplessità indirizzate contro le prime ipotesi psicoanalitiche sia basata sul riferimento ad una dimensione inconscia della mente, e,
congiuntamente, all’attenzione rivolta dallo stesso Freud
all'importanza della vita sessuale infantile. Sembrerebbe, quindi, su questa scorta, che fu una questione di “contenuti” a suscitare la reazione negativa della medicina accademica. Ma le cose stanno effettivamente così? Il tema dell'inconscio era noto sin dai più antichi tempi, e l’importanza della vita sessuale infantile era stata affermata da Krafft-Ebing, senza che questo suscitasse particolari reazioni. Lo scandalo va quindi ricondotto a qualcosa di più sottile e nel contempo di più scomodo. Il pensiero medico tradizionale vedeva sfuggire al proprio dominio l’area dei fenomeni più propriamente psichici, e con questo il loro controllo terapeutico, fino allora basato su modelli quasi esclusivamente neurofisiologici: la battaglia sui temi della conoscenza derivava allora — come oggi, del resto — da un preciso problema di tipo economico e professionale. Ma da questa matrice si andò sviluppando un altrettanto chiaro conflitto sul piano metodologico e teorico. Come era possibile modificare “materialmente” un quadro patologico, con esiti talvolta “somatici”, senza “toccare” il paziente, ma
rifacendosi ad una relazione centrata prevalentemente sulla parola? La “svolta” psicologica, espressamente dichiarata da Freud dopo il Progetto per una psicologia scientifica del 1885, non intaccava peraltro la necessità di proseguire, su un altro piano, le ricerche neuro-fisiologiche, ma apriva gli orizzonti di un’altra e diversa angolatura di approccio ai fenomeni psichici.
Psicoanalisi e psicologia
533
In tale prospettiva, anche la “cura con parole”, che fa la propria comparsa negli Studi sull’isteria, definisce un ambito osservativo e processi elaborativi imperniati sulla dinamica e sul senso delle “Rappresentazioni”. I termini Vorstellung e Vorstellungenskreis ritornano frequentemente già nei primi testi freudiani a designare una realtà psichica con una propria autonomia fenomenica e processuale, connotata da articolate modalità espressive. Nel contempo, il campo rappresentazionale si svincolava dalle concezioni mentalistiche filtrate nel mondo germanico dall’empirismo inglese, e il “rappresentare” assumeva caratteri fenomenici propri, dove l'evento rappresentazionale conteneva in sé, congiuntamente, valenze affettivo-simboliche ed elementi cognitivi in senso stretto: tale evento, cioè, pur se suscitato da “cose” indagabili transfenomenicamente, allorché si instaura, non risulta più riducibile a qualcosa che ne cade fuori. Ma allora il linguaggio, e la parola che lo veicola, viene a costituire
—
come
noterà
in seguito
Cassirer — l'elemento insostituibile, in quanto spia e testimonianza di un mondo espressivo che in esso si manifesta. La scomposizione del linguaggio fa vedere come dal suo ventre fuoriesce un altro mondo con esso strettamente collegato, o addirittura imbricato. Se dunque il linguaggio è l’unico mezzo per il manifestarsi del mondo rappresentazionale, il linguaggio stesso non coincide con questo mondo, né lo esaurisce. Del resto, sia sul piano antropologico che individuale, l’uomo inizia rappresentandosi e percependo il mondo, per poi parlarlo. Ora, il metodo della “cura con parole” nella psicoanalisi, rappresenta lo strumento per aprire lo scenario delle organizzazioni arcaiche dei fantasmi della vita psichica, dei ricordi, dei sogni, delle fantasie, e così via, fenomeni che nel loro insieme, e nelle articolazioni che li congiungono, costituiscono il “Reale Psichico” in cui è sussunto il “Senso Vissuto” più radicale, quale “Effetto” delle nostre relazioni con il corpo-proprio, con
gli altri, con gli eventi fisici e sociali. Così le complesse vicende della realtà psichica, seguita tramite un “Ascolto” non pregiudiziale, privo cioè di tassonomie derivate da modelli culturali o
534
La cultura psicoanalitica
spirituali, si aprono ad una conoscenza diversa e più approfondita, connessa peraltro ad effetti mutativi, in funzione del lavoro che si svolge nella relazione transfert-controtransfert. Questo tipo di operazione partita da Freud, e andatasi impoverendo un po’ nel corso del tempo, contiene in sé, nel suo complesso, due prospettive confluenti, seppure d’ordine diverso: stabilire, facendo perno sul concetto di rappresentazione (o si dovrebbe meglio dire, per coglierne la natura più attiva e fondante, del “Rappresentare”), un livello di realtà autonoma, con propri metodi osservativi ed operativi; recuperare la possibilità di accedere agli aspetti non direttamente consapevoli delle rappresentazioni stesse. Appare qui, in tutta la sua potenziale prolificità, un audace accostamento, nel campo della fenomenicità, di due impostazioni: la brentaniana asserzione che non può intendersi l’esistenza di alcun evento psichico, laddove esso non venga rappresentato; e l'accoglimento dell’esistenza di rappresentazioni anche inconsapevoli. Per i fautori della supposta contraddizione tra il concetto di “Rappresentazione” e il concetto di “Inconscio”, si potrebbe fornire un’ampia bibliografia da Cartesio ad oggi. Ci limiteremo a ricordare questo passo: «Può destare meraviglia attorno al nostro essere, i vedere che il campo delle nostre intuizioni sensibili, e delle sensazioni
di cui non
siamo
coscienti,
sebbene
possiamo indubbiamente concludere che le possediamo, cioè delle rappresentazioni oscure nell’uomo, è sconosciuto, laddove le chiare contengono pochissimi punti aperti alla coscienza, che, dunque, nel grande campo del nostro spirito, soltanto pochi punti sono illuminati ... Il campo delle rappresentazioni oscure è, dunque, il più vasto dell’uomo ... Noi spesso giochiamo con le rappresentazioni oscure, e abbiamo interesse a porre nell’ombra, davanti all’immaginazione, oggetti che ci piacciono e che non ci piacciono; ma più spesso ancora, siamo noi
stessi gioco di rappresentazioni oscure, e il nostro intelletto non può salvarci dall’assurdità nella quale lo getta la loro influenza, se anche ne riconosce la natura illusoria». Ecco un modo chiaro per parlare dell’oscuro. Il suo
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autore, non avendo fatto particolari studi, nel senso moderno, di psicologia, tendeva tuttavia ad indagare i fenomeni in un modo particolarmente convincente: il suo nome era Emanuele Kant (nell’Antropologia pragmatica).
E forse possibile, allora, riuscire ad individuare
i
motivi di tanta difficoltà di rapporti tra psicoanalisi e psicologia generale, in questi decenni, andando oltre le classiche ed anguste discussioni sul metodo, e su cosa debba intendersi per “scienza”. Discussioni, ormai, così
tediosamente ripetitive, e così incapaci di farci capire il senso di un solo, infinitamente piccolo atto di una persona che ci stia di fronte, in laboratorio come sul lettino, da farci sospettare che le motivazioni che le sorreggono siano ancora più grette di quelle che, come si diceva all’inizio, indussero gran parte della medicina ufficiale a ribellarsi alla psicoanalisi nascente. Grettezza certo non economica, ma culturale; necessità, di fronte a
una comunità scientifica che stenta tuttora, qui come ovunque, a considerare la psicologia un sapere con pari dignità di quello elaborato dalle altre scienze naturali (scienza “sof”: ingiuria peggiore, per lo psicologo sperimentale, è impossibile coniare!), di rivendicare un proprio monopolio nei metodi per la conoscenza, della mente e della struttura della conoscenza. È però curioso, ma non insignificante, rilevare che nella storia di questi difficili rapporti furono quasi solo gli anni Trenta , e i primi anni Quaranta, quelli in cui, da
parte di psicologi sperimentali, si fece qualche tentativo di tradurre in termini psicologici generali le concezioni psicoanalitiche. La singolarità della cosa non sta tanto nei precisi limiti cronologici di questi, insufficienti, tentativi, quanto piuttosto nel momento culturale in cui videro la luce, e nella formazione degli studiosi che vi si impegnarono. Siamo infatti negli Stati Uniti degli anni a cavallo dell’inizio della seconda guerra mondiale, in un mondo
accademico, come diranno Weppman e Heine,
«infestato di animali di laboratorio», in una psicologia, come affermerà von Bertalanffy, tesa alla «rattomorfizza-
zione» dell’uomo. È qui, nell'ambiente del neo-behaviorismo alla Hull o Spence, che i vari Miller o Dollard o Mowrer tentano di tradurre i concetti psicoanalitici in
La cultura psicoanalitica
536
termini di associazionismo stimolo-risposta. Che la psicoanalisi, in fondo, come dirà senza imbarazzo in un famoso
articolo del ‘43 Guthrie,
non
è altro che un
associazionismo mal sistematizzato. Ma già, Guthrie — che pure è una delle menti teoreticamente più lucide del
behaviorismo anni Trenta-Quaranta —, a differenza di altri, non solo la psicologia accademica l’aveva rigorosa-
mente studiata, ma pure l’insegnava. Non è però assolutamente casuale il fatto che questo
tentativo si sia verificato, e con questo impegno, solo in
quest'epoca, né che i suoi risultati siano stati tanto miseri, se non quasi risibili. Ricordiamo che sono questi gli anni dell’esplosione della personologia, della venuta alla ribalta di personaggi anche diversissimi tra loro come Allport, o Cattelll o Murray, che però sono portatori nei confronti del comportamentismo di una serie di istanze, evidentemente presenti nel mondo culturale americano, ma sicuramente per il comportamentismo
minaccianti.
Queste istanze sono rapidamente riassumibili in poche categorie: la prima, e forse più importante, è la tendenza idiografica (di cui è tipico portatore Allport) contro il nomotetismo imperante. La seconda, anche essa di grande rilievo, la tendenza a rintracciare un uomo per “quel che realmente è” — residui religiosi, ricerca dell’anima, si affretterà a dire Guthrie — al di là dei suoi comportamenti e abitudini. La terza, but not least, la
tendenza olistica, che spiega ad esempio il clamoroso affermarsi, unico tra i gestaltisti che abbia avuto successo
in America,
di un Lewin,
ma
che viene
al
meglio esemplificata da un Maslow. Di fronte a queste istanze il comportamentismo cerca, con i mezzi che possiede, non di contrastare il movimento personologico, ma di impadronirsene. L’operazione,
curiosamente,
passa
proprio
attraverso
il
tentativo di utilizzare le categorie psicoanalitiche, sia sul piano teorico, sia su quello applicativo — sono gli anni in cui si assiste al decollo della cosiddetta bebavior therapy. Abbiamo già detto che questo tentativo si risolse in un fallimento in certa misura anche risibile, e non è il caso di perdere tempo a meglio analizzare il problema —
Psicoanalisi e psicologia
DO
ma è possibile che si potesse seriamente pensare, solo per fare un esempio, che le situazioni sperimentali alla Miller e Dollard costituissero
delle situazioni cruciali,
attraverso le quali risolvere il problema dei rapporti tra frustrazione e aggressività, come posti nella teoria psicoanalitica? Quel che è curioso è che questo tentativo rimase isolato, e mancarono, almeno a questo livello di impegno — e di diffusione, anche manualistica, dei risultati ormai consegnati alla storia ufficiale della disciplina — tentativi analoghi in altri ambiti teorici, magari categorialmente più congeniali. Non è un caso
che è proprio da tali altri che, in larghissima misura, provengono psicoanalisti dal passato di psicologi sperimentali, o dalla personalità alternante. L’esempio classico della situazione italiana è rappresentato da Cesare Musatti. Nel nostro piccolo, chi di noi due è oggi psicoanalista ha una storia passata di sperimentalista, e proprio di Musatti è stato allievo. L’ambito a cui ci riferiamo è evidentemente quello fenomenologico. Ci piacerebbe fare anche un passo oltre — ma è solo un'ipotesi quella che azzardiamo: parlando di psicologia fenomenologica ci riferiamo a Brentano, ma soprattutto alla scuola di Graz, meno alla Gestalt psychologie. Ci riferiamo, cioè, alla possibilità di un’analisi scientifica non solo di fenomeni attribuibili al mondo esterno, ma anche di percezioni “Interne”; non solo di rappresentazioni del mondo, ma anche di possibilità di studiare le modalità di “Produzione” delle rappresentazioni. Ci riferiamo, in particolare, se non soprattutto, a
una psicologia fenomenologica che non abbia paura ad ammettere che la struttura delle conoscenze del mondo in cui viviamo è determinata da fattori di origine “Sensoriale” e “Asensoriale” e che è lecito distinguerli e studiarli, nel loro determinare le nostre percezioni e rappresentazioni. Non a caso, il maestro di Musatti, l’uomo che oltre a tutto lo introdusse alla psicoanalisi, fu Vittorio Benussi.
Perché meno la psicologia della Gesta/t? Ci pare che si possa sostanzialmente dire questo: la psicologia della Gestalt nasce in un periodo nel quale i compiti urgenti che le si pongono riguardano la necessità di sciogliere il nodo dell’atomismo e dell’empirismo. Ciò comporta
538
La cultura psicoanalitica
necessariamente il rifiuto di ogni analisi dell’esperienza (il fenomeno inteso come totalità è il dato primario, perché l’analisi negli elementi che lo costituiscono porta alla sua distruzione) e di ogni suo studio genetico. Il che, evidentemente, non significa negare, ma certo non è questa la sede per un’altra ripetitiva e gretta discussione, che ci condurrebbe fuori strada. Ne deriva una sostanziale indifferenza, se non ostilità, da parte degli psicologi gestaltisti, nei confronti di ogni ricerca sulla rappresentazione, nel senso prima definito. E particolarmente significativo il fatto, riferito dal microgenetista danese U. Kragh, che i colleghi gestaltisti impedirono a Kurt Koffka, con la loro “pressione di gruppo”, di completare una ricerca iniziata negli anni Venti sulla percezione tachistoscopica delle macchie di Rorschach. Evidentemente,
se
oggi può
ancora
avere
senso
chiedersi — con esiti probabilmente negativi — se si può ancora parlare di una “scuola” gestaltista attiva, la sola domanda sarebbe insensata a proposito della scuola di Graz. Se allora un momento unificante tra psicologia e psicoanalisi va cercato nel concetto di rappresentazione, non è con operazioni archivistiche che si arriva, se non da subito, a un sapere unitario, almeno a un civile
momento di discussione ed elaborazione unitaria. A nostro avviso, la psicologia cognitivista contemporanea, nella sua eterogeneità, offre proprio sul piano della concettualizzazione della rappresentazione una serie di spunti estremamente interessanti, che ci consentono di riaprire su basi serie un discorso. Ci possiamo riferire a tutto il discorso sulle immagini mentali, da Kosslyn a
Shepard, con il suo concetto di «isomorfismo di secondo ordine»; alle nuove rappresentazioni del concetto di campo, da Hoffman e Palmer, a Dodwell e Caelli. Soprattutto, però, ci riferiamo al concetto di “Sche-
ma” prepotentemente entrato nella psicologia cognitivista (o meglio, rientrato, a mezzo secolo di distanza dalla prima proposizione di Bartlett) con il Neisser di Reality and Cognition, dopo l’abbandono del paradigma dello human information processing, e con Rumelhart. Ma, sul versante “oscuro” della rappresentazione, quanto già c'era in Miller, Galanter e Pribram!
Il che, poi, non significa che sia necessaria l’opera-
Psicoanalisi e psicologia
IS9
zione che viene qui da noi proposta. Certo, i margini per compierla oggi ci sono, e non si tratterebbe di un’operazione culturalmente vacua. Di fatto, renderebbe tutto il
nostro sforzo di elaborazione quanto meno non noioso.
Enzo Funari (Italia - Milano): Professore di Psicologia all’Università Statale di Milano. Membro della Società Psicoanalitica Italiana. Riccardo Luccio (Italia - Trieste): Professore di Psicologia all’Università di Trieste.
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