La comunicazione interculturale 8831720465, 9788831720465

Manager, diplomatici, militari, accademici, studenti che vivono a cavallo tra varie lingue e culture spesso si illudono

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Italian Pages 170 [152] Year 2015

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La comunicazione interculturale
 8831720465, 9788831720465

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Paolo E. Bail bo n i Fa b�o Caon

La comunicazione interculturale

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Manager, diplomatici, militari, accademici, studenti che vivono a cavallo tra varie lingue e culture spesso si illudono che basti saper parlare inglese per poter comunicare. Ma anche se le parole sono comuni, i significati e i valori di riferimento sono assai diversi. La globalizzazione ha portato tutti a usare una lingua franca, l'inglese, dimenticando che un cinese, un indiano, un arabo, un italiano, un americano conservano i loro occhiali culturali. Il volume affronta i problemi comunicativi dovuti sia ai "software mentali" di cui non siamo consapevoli e che crediamo naturali, ovvi, scontati, sia a linguaggi altrettanto significativi quali i gesti, il vestiario, gli status symbol, gli oggetti; linguaggi cui non prestiamo attenzione, convinti che basti usare le parole giuste per capirsi. Paolo E. Balboni, docente all'Università Ca' Foscari di Venezia, di molti volumi sull'acquisizione e l'insegnamento delle lingue Imparare le lingue straniere, Marsilio 2008) e di ricerche sulla coi interculturale, la prima delle quali, Parole comuni, culture divers, pubblicata da Marsilio nel 1999.

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In collaborazione con

Centro di Studi sulla Comunicazione Interculturale Centro di eccellenza per la ricerca didattica e la formazione avanzata Università Ca' Foscari e IUAV di Venezia

© 2007 by Marsilio Editori® s.p.a. in Venezia Prima edizione: gennaio 2007 Seconda edizione: agosto 2009 ISBN 88-317-9176 www.marsilioeditori.it

Indice

LA COMUNICAZIONE INTERCULTURALE

9 Premessa

11 La competenza comunicativa interculturale 11 Cosa significa "comunicazione", in questo contesto? 16 Si può insegnare la comunicazione interculturale? 19 Un modello di competenza comunicativa interculturale 23 Una "filosofia" per la comunicazione interculturale 33 Problemi di comunicazione dovuti a valori culturali 34 Problemi comunicativi legati al concetto di tempo 42 Problemi comunicativi legati al concetto di pubblico e privato 44 Problemi comunicativi legati alla gerarchia, al rispetto, allo status 51 Problemi comunicativi legati al concetto di famiglia 52 Problemi comunicativi legati al concetto di onestà, lealtà, fair play 53 Problemi comunicativi legati al mondo metaforico 57 Gli strumenti della comunicazione non verbale 58 La "cinesica": comunicare con i gesti e le espressioni 68 La "prossemica": la distanza tra corpi come forma di comunicazione 72 La "vestemica": il vestiario come linguaggio 75 L'"oggettemica": comunicare con oggetti e status symbol 85 Problemi interculturali legati alla lingua 85 Problemi di comunicazione legati al suono della lingua

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Indice 87 Problemi di comunicazione legati alla scelta delle parole e degli argonienti 89 Problemi di comunicazione legati ad alcuni aspetti grammaticali 93 Problemi comunicativi legati alla struttura del resto 97 Problemi comunicativi di natura sociolinguistica 100 Problemi pragmatici di comunicazione: le mosse comunicative 101 Mosse comunicative prevalentemente "up" in Italia

106 Mosse ambivalenti in Italia 109 Mosse prevalentemente "down" in Italia

113 Gli eventi comunicativi 114 Dialogo e telefonata

114 I generi comunicativi 115 Il dialogo 121 La telefonata

123 Riunione formale, lavoro di gruppo 123 La riunione formale 125 Il lavoro di gruppo

128 Il cocktail party, il pranzo, la cena 133 Il monologo pubblico: conferenza, presentazione dei risultati di un gruppo

137 Non si può insegnare la comunicazione interculturale 140 Osservare le culture e le civiltà 142 L'osservazione comparativa tra cultura italiana e straniera 146 Uno strumento per l'osservazione della comunicazione interculturale 149 Riferimenti bibliografici

La comun1caz1one interculturale

Premessa

Nel mondo globalizzato tutti parlano inglese e credono che questo basti per capirsi; dopo qualche anno, gli immigrati in Italia parlano italiano quindi ci capiscono e li capiamo. In realtà, le due frasi precedenti sono false: a. "parlare" significa usare una lingua; ma la comunica­ zione è ben altra cosa: include i gesti, le distanze inter­ personali, le espressioni, i vestiti, gli oggetti che ci accompagnano, gli status symbol: sono grammatiche che variano da cultura a cultura e che spesso hanno signifi­ cati opposti: un giapponese che durante una trattativa sorride leggermente e tace non è d'accordo, sta dicen­ do «no», ma lo esprime in maniera delicata per non offendere l'interlocutore; b. anche se conosciamo i gesti, le parole, il significato degli status symbol ecc., questi significati vengono decodifi­ cati dalla nostra mente secondo i propri software men­ tali (la metafora è di Hofstede 1991, il padre fondatore di questa branca di studi): le parole "famiglia", "azien­ da", "lealtà", "puntualità", "sapere", così come i con­ cetti di tempo, gerarchia, rispetto e così via hanno signi­ ficati profondamente diversi da cultura a cultura - signi­ ficati di cui non siamo consapevoli, molto spesso, per9

Premessa

ché li abbiamo assorbiti fin dalla nascita nel nostro ambiente e abbiamo finito per considerarli naturali men­ tre sono culturali. Questo volume intende aprire gli occhi su questi due pro­ blemi, ma vuole farlo secondo una logica dinamica: la comunicazione interculturale è un oggetto labile, in conti­ nua evoluzione, perché le culture si contagiano continua­ mente ad opera dei mass media, dei viaggi, degli scambi di studenti ecc. Anche gli studi sulla comunicazione intercul­ turale sono in continua evoluzione, perché sia il concetto di comunicazione interculturale sia la sua descrizione sono solo oggi in via di definizione: basti osservare l'evoluzione fra i tre precedenti studi ( 1996, 1999, 2006) che abbiamo dedicato a questo tema per cogliere come sono cambiati gli approcci al problema della competenza comunicativa inter­ culturale. Quindi questo volume è uno strumento per impa­ rare a osservare la comunicazione interculturale, a crearsi un file (mentale o reale) con le annotazioni e le osserva­ zioni classificate secondo una logica, e non come semplice raccolta di aneddoti.

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In questo capitolo vedremo cosa significa saper comunica­ re in un ambiente dove sono compresenti più culture, più software mentali: esploreremo quella · che tecnicamente si chiama "competenza comunicativa interculturale". Ma prima di approfondire questo tema, ci porremo alcune domande che costituiscono i titoli dei paragrafi che seguono.

I.I COSA SIGNIFICA "coMUNICAZIONE" ) IN QUESTO CONTESTO?

Esistono molte definizioni di "comunicazione" a seconda del punto da cui si osserva il fenomeno: quelle del lingui­ sta e del semiologo non sono certo le stesse del sociologo, dello studioso di comunicazione aziendale o del massme­ diologo. Per i nostri fini abbiamo optato per una defini­ zione estremamente semplice: comunicare significa scambia­ re messaggi efficaci, cioè che raggiungono il nostro scopo. Le parole vanno chiarite. a. Comunicare Questo verbo descrive l'atto volontario, programmato, con­ sapevole di scambio di messaggi per perseguire il proprio fine. 11

La comunicazione interculturale

La comunicazione non va confusa con l'informazione, che di solito è involontaria ed è costituita da "sintomi" (l'arrossi­ re o il sudore ad esempio informano l'interlocutore del nostro stato d'animo). Qui ci occupiamo di comunicazione.

b. Scambiare

Secondo la saggezza popolare, parlare da soli è un segno di follia. La comunicazione è uno scambio, un mettere in comune (cum, insieme; munis, l'armamentario che i solda­ ti romani si portavano dietro andando in guerra: le "muni­ zioni", ma anche le coperte, le cipolle ecc.). La maggior parte della comunicazione è dialogica, ma anche quando è monologica, come in una conferenza, il conferenziere che sa comunicare tiene molto in considera­ zione il feedback dato dal sorriso degli ascoltatori, dalla loro postura, dal fatto che continuino o smettano di pren­ dere appunti, e così via.

c. Messaggi

Non ci si scambiano solo parole: gli interlocutori scambia­ no messaggi, cioè insiemi complessi di lingua verbale e di linguaggi non verbali: gesti, grafici, icone, oggetti, indica­ tori di ruoli sociali, layout grafico ecc. Tranne che in una conferenza, il messaggio orale viene crea­ to in maniera cooperativa, gli interlocutori collaborano alla sua creazione, negoziano significati e decidono sull'uso dei linguaggi per giungere a un messaggio conclusivo accetta­ to da tutti (anche in una lite ci sono elementi accettati da tutti i litiganti: il fatto di essere in disaccordo, la possibi­ lità di andare sopra le righe, l'estremizzazione delle posi­ zioni, il rischio di una conclusione traumatica dell'evento comunicativo ecc.); nel messaggio scritto questa negozia12

La competenza comunicativa interculturale

zione non è possibile per cui lo sforzo è duplice: l'autore deve essere chiaro per il lettore implicito che ha in mente, il lettore deve sforzarsi di entrare nella mente dell'autore e di coglierne gli scopi, prima ancora che i contenuti.

d. Efficaci nel raggiungere lo scopo La comunicazione è perfetta quando lo scambio fa sì che ciascuno raggiunga il suo scopo: uno vuole vendere un pro­ dotto ad un prezzo x, l'altro vuole comprare quel prodot­ to e gli va bene il prezzo x. Nella comunicazione (apparentemente) monodirezionale, il conferenziere o lo scrittore hanno come primo scopo evi­ tare la noia o le distrazioni degli ascoltatori e dei lettori; vinta questa prima battaglia, la loro vittoria definitiva si rea­ lizza quando questi ultimi si convincono delle tesi esposte (notare: con+vincere: si vince insieme).

La comunicazione si realizza in "eventi" che hanno luogo in un "contesto" situazionale. Si tratta di concetti da chiarire, perché proprio in alcuni dei loro fattori si hanno delle variabili che risultano fonti di incidenti nella comunicazione interculturale. Questi due concetti, studiati fin dagli anni trenta da antropologi ed etnometodologi come Malinowsky, Firth, Fishman, Hymes, indicano alcune varianti di cui tener conto per analizzare e padroneggiare un evento comunicativo: a.

luogo; inteso come setting fisico e la scena culturale: per­ sone che vengono da scene diverse interpretano il set­ ting fisico secondo le regole e i valori del luogo cultu­ rale da cui provengono: una scuola, un ristorante, una strada sono concetti diversi nelle varie culture; 13

La comunicazione interculturale

b. tempo: il tempo pare una costante, ma in realtà è una variabile culturale e crea significativi problemi di comu­ nicazione interculturale e organizzativa - basti pensare al problema della puntualità, dell'equivalenza "il tempo è denaro", dell'uso del tempo come segno di potere («mi ha fatto fare mezz'ora di anticamera!»); c. argomento: si tratta di un fattore di rischio perché gli interlocutori, convinti che l'argomento di cui stanno par­ lando sia condiviso, possono dimenticare che i valori, i software mentali che sottostanno all'argomento di cui parlano, non sono sempre condivisi nelle varie culture, o possono ignorare che alcuni argomenti sono tabù-in culture diverse dalla propria; d. ruolo dei partecipanti in termini di gerarchia e di relati­ vi segni di rispetto: è uno dei problemi più evidenti della comunicazione interculturale; e. scopi dei partecipanti, scopi dichiarati e non - ma in cui la dichiarazione non dipende sempre dalla volontà: ci sono scopi che non vengono dichiarati perché sono impliciti in una data comunità per cui li si presuppone per default, sbagliando; ci sono poi scopi dichiarati ma non veri in guanto fanno parte solo di convenzioni socia­ li, di sistemi di "buona educazione"; f. atteggiamenti psicologici che i partecipanti hanno nei confronti degli interlocutori, della loro cultura, della loro azienda, istituzione o università: sarcasmo, ironia, rispet­ to, ammirazione, diffidenza ecc. emergono nel testo lin­ guistico e soprattutto nei linguaggi non verbali, per cui informano l'interlocutore su atteggiamenti che certo non si vorrebbero comunicare (cfr. sopra la distinzione); g. atti comunicativi, che costituiscono la dimensione tatti­ ca, immediata della comunicazione (salutare, ringrazia14

La competenza comunicativa interculturale

re, chiedere ecc.), e mosse comunicative che sono di livel­ lo strategico superiore (attaccare, difendersi, interrom­ pere ecc.): ciascuna mossa e ciascun atto hanno una serie di,parametri valutativi propri delle singole culture: "scu­ sarsi" è una mossa banalmente gentile in Europa, è una drammatica perdita della faccia nel mondo arabo e in parte anche in Sud America (un approfondimento inter­ culturale degli atti linguistici è in Gass, Neu 1996; con ampio riferimento all'italiano in comparazione intercul­ turale: Bettoni 2006, cap. 4); h. testo linguistico: solo a questo punto diventa significati­ vo considerare quello che invece pare il cardine della comunicazione, che in realtà tuttavia è intessuto con il testo del punto seguente: il testo, quel che diciamo, è il risultato di tutti i parametri visti sopra; 1. messaggi extralinguistici: nella comunicazione intercultu­ rale, che è di solito condotta in inglese (o, meglio, nel bad Englùh internazionale), le norme linguistiche sono abbastanza condivise e proprio sulla lingua si focalizza­ no l'attenzione e lo sforzo di chi parla: cercare il lessi­ co appropriato, evitare errori grossolani ecc.; invece le norme dei linguaggi non verbali non vengono prese in considerazione, quasi che i gesti, la mimica facciale, le distanze interpersonali ecc. fossero dei concetti univer­ sali, con gaffe, quando si è fortunati, o veri e propri inci­ denti comunicativi; J. gene1'i di evento e norme sociali: ci sono degli eventi ritualizzati (una cena formale, una conferenza, una riu­ nione di un consiglio d'amministrazione, una presenta­ zione ecc.) che ogni cultura gestisce secondo regole pro­ prie, la cui mancata conoscenza porta a situazioni spia­ cevoli. 15

La comunicazione interculturale I.2 SI PUÒ INSEGNARE LA COMUNICAZIONE INTERCULTURALE?

La domanda del titolo ha una risposta secca: no; e la ripe­ teremo nel capitolo conclusivo. Si_ può_ d�scriverla, offrirne un modello, in modo che .si impari a osservare li comunicazione in ambienti intercul­ turali. Questo è precisamente lo scopo di questo volume: insegnare a osservare, in un processo di lzfelong e lzfewide learning. Non si può insegnare la comunicazione interculturale per ragioni qualitative: è un oggetto in continua evoluzione, che si evolve quotidianamente ad opera dei mass media, degli scambi, del turismo, della conoscenza reciproca, oltre che per la naturale evoluzione interna di ogni cultura; quantitative: quante culture esistono (ammesso che una domanda del genere abbia senso... )? È impossibile stu­ diare i problemi interculturali non solo tra tutte le cul­ ture, ma anche semplicemente tra le grandi aree cultu­ rali che possiamo generalizzare (estremo e medio orien­ tali, euro-americani latini e anglo-germanici, slavi ecc.: sono le categorie cui ricorreremo ma solo con scopo esem­ plificativo).

,1 A cot,i11 1-1 ('\' s-,,,, . -' Qe q_i _un;ec­ ce�siva in-fo��alità. Quindi di solito si tengono accanto al �o�po o-si pone una mano in tasèa-:-Molte-culture-:-acfe� pio quelra-ciiiese·-o1urca; no"ì-1--accettano entrambe le mani in tasca. In Occidente, per quanto in tailleur o in panta­ loni, alla donna non è consentito tenere le mani in tasca, se non per comunicare un messaggio di estrema informa­ lità. Ci sono poi dei gesti di rispetto o saluto che non hanno corrispondenti in Europa; ad esempio, un gesto tradizio­ nale del saluto cinese tra uomini: si alzano le due mani a livello del petto, la mano sinistra copre la destra chiusa a pugno, e poi si muovono due o tre volte avanti e indietro: sparito durante la Rivoluzione Culturale, oggi questo gesto riemerge e viene usato per congratularsi e porgere auguri, soprattutto durante la Festa di Primavera, cioè il Capo­ danno cinese. Al di là di queste considerazioni, ci sono vari problemi lega­ ti ai significa�i �he le__nostre mani veicolano agli interl()�l:1-� tori: nelle culture euro-americane si ritiene che una stretta di mano molto decisa dimostri sincerità e "virilità", ma que­ sto non è vero per altre culture, dove ]'eccesso di forza è solo fonte di fastidio; in Germania la stretta decisa non è virile ma "sincera", per cui anche una donna la utiliz­ za. In Oriente la stretta di mano è inusuale (soprattutto in Corea e Giappone, dove il saluto è di solito un inchi­ no), per cui non sempre un orientale sa dosarne la forza 62

Gli strumenti della comunicazione non verbale

e si ricevono strette erculee o mosce senza che esse abbia­ no alcun significato; - nella cultura araba la mano sinistra è impura (per que­ sto ai ladri viene tagliata la destra: saranno costretti vita natural durante a· nutrirsi, salutare, accarezzare con la sinistra) e quindi va considerata come inesistente; salu­ tando, spesso la mano destra viene portata sul cuore, come segno di sincerità e rispetto; i gesti della mano spesso sottolineano o sostituiscono le parole, ma essi hanno diversi significati a seconda della cultura, esattamente come il lessico cambia da lingua a lingua: in Inghilterra il segno di vittoria reso celebre da W. Churchill (la "v" fatta con indice e medio) significa "vittoria" se il dorso della mano è rivolto verso chi parla, ma è un insulto (ha più forza di un chiaro «va ffa' ... ») se il dorso della mano è rivolto verso chi ascolta: corri­ sponde, ma con forza maggiore, al dito medio che esce dal pugno chiuso in America; - ci sono due gesti che hanno causato famose gaffe di Bush Sr e di Clinton: il primo ha effettuato il gesto america­ no con il pugno chiuso e il pollice eretto verso l'alto che significa «OK», ma il contesto era Manila, e in Estremo Oriente quel gesto corrisponde a «te lo metto ...». Clin­ ton ha usato un altro segno americano per dire «OK», quello fatto con pollice e indice uniti a formare una "o", ma lo ha fatto alla Duma di Mosca, e nei paesi slavi quel gesto significa «Ti faccio un ... grande così». Non � p.9��ibilequi entrare! n�l_ merito del linguaggio delle manT in rut.rele.....culture - né lo scopo di questo studio è quello di elencare le differenze, quanto piuttosto far nota­ re che queste esistono e dare strumenti concettuali per la 63

La comunicazione interculturale

loro osservazione. A mo' di esempio indichiamo alcune dif­ ferenze tra gesti italiani e gesti nella cultura turca - cultu­ ra di cerniera euro-mediterranea quasi totalmente trascura­ ta nella letteratura sulla comunicazione interculturale. Alcu­ ni gesti hanno effetti rischiosi in quanto legati alla sfera ses­ suale; ad esempio: - la mano rivolta verso l'alto con le dita raccolte a grap­ polo e fatta oscillare basso-alto significa in Italia «Ma che cavolo dici?» mentre in Turchia significa «Ottimo, eccel­ lente», soprattutto se rivolto a una donna (allargando il campo: lo stesso gesto in arabo significa «aspetta!»); - «Taglia l'angolo», «Fila via» sono ordini che in Italia ven­ gono dati con le due mani a taglio, la sinistra tenuta ferma e la destra, dal basso, che la colpisce oscillando; in Turchia significa, in maniera molto volgare, «Te l'ho messo in...» oppure, riferito a una donna che passa, «Quella me la sono fatta»; - ai bambini italiani si fa spesso un gioco: si stringe il nasi­ no tra le dita, poi gli si mostra il pugno, con il polpa­ strello del pollice che sbuca tra indice e medio e si dice «Ti ho rubato il naso!». In Turchia questo gesto signifi­ ca «Vaffa' ...!»; gli italiani spesso accompagnano l'invito a «stringere», a riassumere, con un gesto particolare: si stringe la mano a pugno, rivolto verso l'alto, con l'avambraccio teso in avanti, e poi si avvicina il pugno al corpo, dando il senso di "stringere": questo segno è un volgare invito sessuale in Turchia; - la mano con dita tese e palmo rivolto in avanti fatta oscil­ lare sotto il mento significa in Italia «Me ne frego», men­ tre in Turchia è un gesto privo di intenzionalità comu64

Gli strumenti della comunicazione non verbale

nicativa: i turchi hanno una barba molto fitta e dura, che irrita la pelle mentre cresce (i turchi tengono spesso la barba lunga di alcuni giorni, senza che questo indichi trascuratezza), per cui il gesto è solo un massaggio leni­ tivo sulla pelle delicata della gola. Gli italiani muovono molto le mani mentre parlano: ciò spesso li fa ritenere aggressivi, invadenti - e la cosa è grave se questa sensazione viene confermata dal tono di voce tioppo alto, dall;interrompere chi sta parlando, e così via: caratteristiche comunicative degli italiani che vedremo in seguito. In tutto il mondo i comici che vogliono imitare gli italiani muovono istericamente braccia e mani e parlano a voce alta. Si tenga anche presente che il cinema italiano più noto nel mondo, da Salvatores a Amelio, da Sordi a Troi­ si passando per La Piovra (serial di successo praticamente in tutto il mondo,.Cina e India incluse), è di ambiente meri­ dionale, dove l'u�9 delle mani è particolarmente accentua­ to. (Sui gesti de.f�.,_J1·ttaliani cfr. Diadori 1990; più in gene­ . . 1975 e Poyatos 1988, e poi Birken­ rale, i classici A� bihl 1991; Morri!l1"994; Wilcox 1997). . �. ·. e. Le gambe e i piedi

In n:iolte culture accavallare le gambe non ha alcun valore comunicativo, ar1s:he se in Cina il gesto non è previsto; incrociare le gambe, cioè appoggiare la caviglia al ginoc­ duo lasciando qµ,indi che si veda la suola delle scarpe, viene spesso ritenuto -,maleducato e comunica scarso rispetto: soprattutto gli a'ràbi vivono questi atteggiamenti in manie­ ra molto risentita, ' perché mostrare la suola della scarpa indica disprezzo («ti mostro quel che sei»: ed è facile da immaginare cosa ci sia sotto la suola di una scarpa che ha 65

La comunicazione interculturale

girato per le stradine di Fez o Damasco); accavallare le gambe e dondolare quella in alto è un gesto che nel 'mondo arabo ricorda un calcio dato a un cane fastidioso e héL!!D significato molto forte: «vattene da qui». Nelle culture scandinave e in quelle medio ed estremo­ orientali togliersi le scarpe è spesso un gesto naturale, che indica relax o rispetto (come nel caso delle moschee) e quindi non deve stupire. Alcune culture orientali accettano, anche se si tratta di un costume in regresso, il fatto di accarezzarsi i piedi in pub­ blico, con una specie di massaggio rilassante, senza che que­ sto abbia alcun significato irrispettoso.

f. Il sudore e il pro/umo, i rumori e umori corporei Si tratta di prodotti c:lel corpo che possono involontaria­ mente infor�ar� sulle nostre reazioni a un evento, rr{a che p.ossono anche involontariamente comunicare sciatteria, sporcizia, effeminatezza, e quindi orientare negativamente · -l'atteggiamento dell'interlocutore. Il sudore è naturale e può informare sulla tensione emoti­ va di una persona (ma pone il problema di come deter­ gerlo in pubblico: in Medio Oriente e Turchia, ad esem­ pio, non è ben educato asciugarsi la fronte in pubblico); in Giappone invece (come nelle discoteche occidentali) il sudore ha un valore positivo, in quanto indica una sincera partecipazione. r; qdCJ re di. sudore ha un valore più delicato: assolutamente bandito in culture come quella italiana ( chi si accorge di odorare si sente a disagio, quindi le sue performance, anche linguistiche, ne sono intaccate), in altre culture è conside66

Gli strumenti della comunicazione non verbale

rato normale; nel mondo arabo un maschio deodorato comuniéa-Ù.na "demascolinizzazione" e se è sensibilmente profumato è un pervertito. In quasi tutte le culture ciò che esce dal corpo è conside­ rato negativamente e quindi si pone il problema culturale di come liberarsene con discrezione. Il problema non si pone (più) per quanto concerne urina, feci, sperma e vomi­ to (anche se una vomitata comune tra giovani all'uscita di una discoteca giapponese sancisce un patto di amicizia e complicità), ma ci sono forti problemi interculturali per altre emissioni del corpo: soffiarsi il naso e starnutire, spu­ tare, ruttare, petare. Soffiarsi il naso

discretamente è permesso nelle culture occi­ dentali, mentre Tn Cina, Giappone, India, Iran è conside­ rato irrispettoso· e volgare, soprattutto quando poi ci si rimette in tasca- il" fazzoletto sporco: il muco viene tampo­ nato con un fazzoletto, il più discretamente possibile, e il catarro viene inspirato e poi inghiottito o eliminato sotto forma di uno sputo non energico ma lungo, colante, che sconvolge gli occidentali; in Turchia e in molti paesi slavi si può espellerlo, se si è all'aperto, turando una narice e spingendo fortemente aria e muco attraverso l'altra narice. Lo starnuto, che in culture come quella italiana era vietato fino a una generazione fa, viene oggi ammesso, in quanto trattenerlo può far male. Comunque chi starnutisce deve farlo discretamente, scusarsi - e in molte culture riceve un augurio: «Salute!», «(God) bless you.'». Ruttare

e dar sfogo a rumori intestinali, vietati nelle cultu­ re occidentali, sono assai meglio tollerati in Asia; in Giap­ pone una �pecie di risucchio indica soddisfazione d-opo .. - - . . . . . - · ·--------- - - --· - --- ··

un 67

La comunicazione interculturale

pasto. Il ruttare dopo un pasto, sebbene stia lentamente declinando come uso, è ancora permesso (ma era richiesto, per comunicare sazietà e piacere, fino a una generazione fa) in Scandinavia, in Russia, nel Sud Est asiatico. g. Rumori /àtici Per concludere è necessario un_cenno a quei rumori che ip alcune culture svolgono una funzione "fàtica", indicano-- cioè che si sta ascoltando con attenzione. Gli italiani fanno un rumore simile a «mh-mh»· i tedeschi del Baltico e gli svedesi dicono invece ja inspirando l'�ri!! anziché espirando, con un" effetto che potrebbe ricordare -· --�ii- rantolo, l'asfissia. I francesi che ascoltano in silenzio o con qualche oui inter­ calato ( che significa «ti ascolto e non condivido» - come del resto i vari «sì» o yeah) esprimono invece un atteggia­ mento critico se si raschiano la gola; la loro disapprova­ zione è più esplicita se anziché questo «rh-rh» fanno usci­ re l'aria compressa dalle guance gonfie, in una sorta di «p» aspirata, che è in realtà l'iniziale di pute.1 --

3.2

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. . .. --·· ... . ·····- ----------- ··----------·------·- -- --·-· ·----L

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LA "PROSSEMICA": LA DISTANZA TRA CORPI COME FORMA DI

COMUNICAZIONE

Gli animali vivono in una sorta di bolla virtuale che rap­ presenta la loro intimità e che ha il raggio della distanza di sicurezza, cioè quella che consente di difendersi da un attacco o di iniziare una fuga. Negli uomini, essa è di circa 60 cm, cioè la distanza del braccio teso. Questa "bolla" è un dato di natura, mentre la sua dimensione e il suo valo; re di intimità sono dati di cultura e quindi variano: pnJra68

Gli strumenti della comunicazione non verbale

zione alle regol_