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Italian Pages 138 Year 2023
Ombretta Prandini psicologa, psicoterapeuta, psicoanalista. Docente IRPA, già Presidente Jonas Onlus, Presidente di Società Milanese di Psicoanalisi (SMP). Direttrice della Collana Jonas Aperture di Mimesis. Curatrice di diversi libri e autrice di articoli per testi specializzati.
Annali IRPA – Nuova serie 13 LA CLINICA PSICOANALITICA DELL’ATTO
Il volume raccoglie gli interventi inediti che i singoli relatori hanno tenuto presso il Dipartimento Clinico “G. Lemoine” di Milano e di Ancona nel corso dell’anno accademico 2022, attorno al tema della Clinica psicoanalitica dell’atto declinata nelle nevrosi e nelle psicosi. Per Lacan c’è dell’irrappresentabile nella struttura: non tutto è riconducibile al senso, non tutto è scrivibile. La barra della castrazione tocca la struttura in quanto cade sul Soggetto e anche sull’Altro. Questo sta a dire che non c’è un senso che possa salvare o emendare l’irrimediabile contingenza dell’esistenza. Ecco l’orrore del nevrotico: incontrare la mancanza dell’Altro che non lo può salvare dalla morte, né può scrivere il rapporto sessuale. In questo volume la trattazione dell’atto nella Clinica psicoanalitica tocca il reale di due mancanze: quella dell’analizzante e quella dell’analista. Gli autori ci conducono nel vivo del carattere del desiderio dell’analista nella misura in cui è sempre messo alla prova del reale, quindi un atto senza garanzia di cui occorre che l’analista si assuma la responsabilità, nell’uno per uno delle cure che conduce. Allo stesso tempo, il testo ci offre una riflessione importante sull’esperienza analitica alla prova della contemporaneità. Ripensare al desiderio nella sua intenzionalità indica una via di trattamento dell’eccesso pulsionale: non una cancellazione o un freno ma la trasformazione in un’eccedenza che permetta a una vita un nuovo inizio. Al cuore del testo vi è un’interrogazione sulla postura etica dell’analista per aiutare a cambiare non i destini, bensì il quotidiano del destino. Non ciò che sarà sempre più in là, bensì ciò che Freud ci indicò quando vide nel Destino la complessa umanità della nevrosi.
Annali del Dipartimento Clinico “G. Lemoine” Milano e Ancona Nuova serie
LA CLINICA PSICOANALITICA DELL’ATTO A CURA DI OMBRETTA PRANDINI
12,00 euro
ISBN 978-88-5759-530-6
9 788857 595306
MIMESIS
Mimesis Edizioni Annali IRPA www.mimesisedizioni.it
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13 nuova serie Annali del Dipartimento Clinico “G. Lemoine” Milano e Ancona Direttore scientifico IRPA: Massimo Recalcati Direttore sede IRPA di Milano: Massimo Recalcati Direttore sede IRPA di Ancona: Francesco Giglio
LA CLINICA PSICOANALITICA DELL’ATTO a cura di Ombretta Prandini
IRPA
Amministrazione e abbonamenti: © 2023 – Mimesis Edizioni (Milano – Udine) www.mimesisedizioni.it Via Monfalcone 17/19 - 20099 Sesto San Giovanni (MI) Telefono: +39 02 89403935 E-mail: [email protected]
INDICE
Introduzione Ombretta Prandini
p.
7
p.
15
Il coraggio dell’atto Thatyana Pitavy
p.
29
Lontano da niente. Atto, ripetizione, transfert Chiara Matteini
p.
47
Transfert idealizzato, transfert erotico. Dialettica nella cura della psicoanalisi contemporanea p. Norberto Carlos Marucco
67
L’atto e la grazia. Riflessioni sulla nozione lacaniana di atto analitico Massimo Recalcati
Modi dell’atto nella psicosi Lucia Simona Bonifati
p.
79
Postfazione Nei deserti del fine analisi. Nuove prospettive sull’atto Cristiana Fanelli
p.
107
Note biografiche
p.
129
Introduzione Ombretta Prandini
È unicamente a partire dall’atto psicoanalitico che occorre individuare ciò che articolo del desiderio dello psicoanalista, che non ha niente a che vedere con il desiderio di essere psicoanalista.1
Il libro che vi accingete a leggere si iscrive nella Collana degli Annali che raccoglie gli esiti delle giornate del Dipartimento Clinico “G. Lemoine” dell’Istituto di Ricerca di Psicoanalisi Applicata composto dalle sedi di Milano e di Ancona, da dodici anni un appuntamento che suscita transfert di lavoro. Ogni anno, su un tema differente, un ciclo di giornate accoglie, da diverse nazioni, studiosi di varie discipline che, con rigore e cura, illuminano la teoria, la tecnica e la clinica psicoanalitica. Questo volume, in particolare, raccoglie i contributi del Dipartimento Clinico “G. Lemoine” Milano e Ancona 2022 dal titolo La Clinica psicoanalitica dell’atto. Gli interventi sono presentati secondo l’ordine cronologico con cui sono stati presenti nell’aula del Dipartimento Clinico; la forma orale è stata mantenuta in misura diversa nei vari contributi, taluni rivisitati dagli autori per la pubblicazione, altri con un maggior grado di editing. L’esperienza di curatrice mi conferma che curare – anche un libro – è sempre un atto d’interpretazione, senza garanzia; mi auguro che, dove non è stato possibile essere fedeli al testo, siano stati evidenziati e aperti i passaggi cruciali e si sia conservato il modo accademico e rigoroso che contraddistingue il Dipartimento G. Lemoine. La scrittura di questo testo è plurale e con stili differenti, fatta a più mani, con l’intento di mantenere le differenze, anche con la possibile perdita di omogeneità, per favorire la struttura corale in cui si distingue il timbro delle diverse voci, ciascuna es1
J. Lacan, Discorso all’École freudienne de Paris, Altri scritti, p. 267.
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la clinica psicoanalitica dell’atto
senziale per l’esito complessivo. Il lettore può trovare un esempio di quest’intento nel testo di apertura: l’unico che riporta le domande e le risposte del dibattito successivo, tratto comune a tutti gli altri contributi che si sono immersi, allo stesso modo, nello spirito a cui si ispira il Dipartimento clinico: uno spirito in dialettica e aperto a sollecitazioni, arricchito dagli interventi dei partecipanti. L’atto psicoanalitico, tema di questo volume, ci pone di fronte a un punto di orrore: è questo il termine con cui Lacan definisce l’effetto, sui colleghi psicoanalisti, del Seminario XV, che mette al centro del suo insegnamento l’atto analitico. Gli psicoanalisti hanno orrore dell’atto. Gli autori ce lo ricordano a più riprese in questo volume: ciò che si oppone all’atto è la paura dell’angoscia. Si tratta dello stesso orrore della struttura. Il reale della mancanza rivela nell’Altro un’incompletezza. Per Lacan non tutto è riconducibile al senso, non tutto è scrivibile, non tutto può ricondursi alla rappresentazione, cioè: non-tutto è significante. C’è dell’irrappresentabile nella struttura. L’orrore del nevrotico sta nell’incontrare la mancanza dell’Altro: l’Altro non può salvare dalla morte, né può scrivere il rapporto sessuale. Il Padre, agente della castrazione, è esso stesso sottomesso alla legge della castrazione. Il Padre, per Lacan, è un padre castrato. La barra della castrazione tocca la struttura in quanto cade sul Soggetto e anche sull’Altro. Questo sta a dire che non c’è un senso che possa salvare o emendare l’irrimediabile contingenza dell’esistenza. La castrazione del Padre è allora un modo di Lacan per dire la verità silenziosa di Freud: non c’è Padre che possa garantire sulla singolarità del desiderio, che possa salvare il soggetto dall’impossibile della morte e del rapporto sessuale. Il Seminario XV sull’atto rimette al centro questo punto di orrore della mancanza, della carenza dell’Altro: il desiderio è singolare e in assenza di garanzia. L’atto psicoanalitico tocca il reale di due mancanze: quella dell’analizzante e quella dell’analista. Gli autori ci conducono nel vivo del carattere del desiderio dell’analista nella misura in cui è sempre messo alla prova del reale, quindi un atto senza garanzia di cui occorre che l’analista si assuma la responsabilità, nell’uno per uno delle cure che conduce. Allo stesso tempo, il testo ci offre una riflessione importante sull’esperienza analitica alla prova della contemporaneità. Ripensare al desiderio nella sua intenzionalità indica una via di trattamento dell’eccesso pulsionale: non una cancellazione o un freno ma la conversione dell’eccesso in un’eccedenza che permetta a una vita un nuovo inizio. Al cuore del testo vi è un’interrogazione sulla postura etica dell’analista per aiutare a cambiare non i destini, bensì il quotidiano del destino. Non ciò che sarà sempre più in là, bensì ciò che Freud ci indicò quando vide nel Destino la complessa umanità della nevrosi.
Introduzione 9
Nell’intervento di Massimo Recalcati, dal titolo L’atto e la grazia. Riflessioni sulla nozione lacaniana di atto analitico, troviamo l’atto analitico collocato sul lato dell’analista e dell’analizzante. Nella definizione freudiana l’analista è come uno “specchio opaco” e uno specchio non ha desideri propri, indica una passività oggettuale dell’analista che riflette i fantasmi del paziente; Lacan parla invece del “desiderio attivo dell’analista”. Senza l’uomo reale e il desiderio dell’analista, non c’è possibilità di messa in atto della realtà dell’inconscio sotto transfert, ovvero non c’è possibilità di transfert che è messa in atto della realtà dell’inconscio. Sul lato dell’analizzante possiamo poi collocare diverse forme dell’atto. Nella clinica possiamo distinguere: l’agire, l’inibizione all’atto, l’Acting Out/Acting In, il passaggio all’atto e l’atto nella perversione. M. Recalcati dedica parte del suo contributo a indagare le dimensioni cliniche dell’atto, nell’intento di costruire una tavola strutturale delle forme dell’atto nella clinica psicoanalitica. Potremmo dire che nell’atto è in gioco la dimensione del trauma che trova nuova vita nella sublimazione. Il reale del trauma – come un fiume carsico inabissato nel ventre buio della terra, a volte stagnante in pozze cristalline di grotte chiuse, altre volte dirompente per la forza che assume l’acqua, stretta in bocche rocciose e buie, sbuca alla luce trovando un nuovo corso e nuova vita – trova nuova vita nella sublimazione attraverso l’atto analitico. M. Recalcati mette ben in luce il rapporto tra la dimensione traumatica dell’atto e la sublimazione, scrivendo: Il taglio di Fontana è il paradigma dell’atto […]. Dopo Lacan la psicoanalisi non può più essere quella di prima così come dopo Fontana o dopo Pollock l’arte non può essere più quella di prima. Ma tutto questo avviene attraverso il verbo. Da una parte c’è sublimazione del trauma, come in Fontana, e dall’altra c’è traumatismo senza sublimazione, come avviene in Gina Pane. Lacan è stato il Fontana della psicoanalisi.2
Come M. Recalcati, tutti gli autori di questo testo sottolineano che l’atto si radica in un dire, che la sua stoffa è significante. Lacan nel Seminario X sull’angoscia, insegnamento che precede di pochi anni quello sull’atto analitico, dice: Noi parliamo di atto quando un’azione ha il carattere di una manifestazione significante in cui si inscrive quello che potremmo chiamare lo stato del desiderio.3
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Infra, p. 27. J. Lacan, Il seminario. Libro X, L’angoscia (1962-1963).
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la clinica psicoanalitica dell’atto
Tathiana Pitavy nella sua relazione, dal titolo Il coraggio dell’atto, tratta l’atto psicoanalitico sul lato dell’analista come desiderio dell’analista e il suo effetto nella clinica. Il desiderio dell’analista tocca il piano del coraggio dell’atto, in quanto desiderio radicale messo alla prova del reale che implica il soggetto nella propria responsabilità. T. Pitavy ci indica il piano dell’etica della psicoanalisi: il desiderio dell’analista è quel particolare desiderio che punta radicalmente a far esistere il soggetto inconscio. L’atto analitico richiama strutturalmente il carattere del desiderio dell’analista nella misura in cui è sempre messo alla prova del reale, è quindi un atto senza garanzia di cui occorre che l’analista assuma la responsabilità, nell’uno per uno delle cure che conduce. T. Pitavy ce lo documenta con un sogno. È qui che si è verificato l’atto tra l’uno e l’altro, in questa altra scena, la scena dell’inconscio. Dopo questo incontro, che potremmo qualificare come emergenza di reale tra l’analista e l’analizzante – un incontro in una terza dimensione – l’analizzante esce dal torpore malinconico in cui era caduto dall’inizio della cura. Questo sogno pone un’interpretazione sul transfert, sulla stessa cura, punta all’atto psicoanalitico e con esso, al desiderio dell’analista. Chiara Matteini, nel suo intervento dal titolo Lontano da niente. Atto, ripetizione, transfert, propone un tragitto particolare, per provare a declinare una possibile lettura dell’atto psicoanalitico. Prova a evidenziare le caratteristiche che distinguono l’atto analitico attraverso: la distinzione fra agire e atto, il rapporto originario fra agieren, ripetizione e transfert. Scrive un breve accostamento del rapporto ripetizione e transfert nell’analisi e nella poesia, soffermandosi sulla questione dell’atto come questione che chiama in causa tutti i paradossi della teoria psicoanalitica, attraverso alcuni casi classici del secondo tempo della psicoanalisi. È attraverso questo che cerca di mostrare come in ogni analisi sia costante un doppio movimento, di allontanamento e di avvicinamento a quello che quell’incontro può consentire. C. Matteini ci offre una lettura dell’impasse come forma potenziale di atto analitico. Norberto Carlos Marucco, nella sua relazione ricca di concettualizzazioni ardite, dal titolo Transfert idealizzato, transfert erotico. Dialettica nella cura della psicoanalisi contemporanea, ci dice che la gestione dell’amore di transfert, è sempre stato un punto chiave per la cura analitica sin da Freud, ma lo è ancor di più oggi, nelle forme di solitudini prodotte dal consumismo che ha consumato se stesso e dall’era pandemica. L’autore valuta importante trasmettere l’amore transferale come una novità, detto in altri termini: è importante che la ripetizione smetta di essere ripetizione per diventare novità. Egli dà un posto fondamentale al transfert erotico nella di-
Introduzione 11
rezione della cura e ne fa un antidoto agli effetti di stagnazione del transfert idealizzato. Per “idealizzazione transferale” N. Marucco intende un innamoramento patologico, in cui l’oggetto – l’analista – è pieno di qualità, ma il cui effetto nella cura del paziente è la perdita della propria sessualità. Nella misura in cui si rimuove l’amore del paziente, le analisi possono durare anni e anni, in eterno. L’amore di transfert è il modo con cui il paziente cerca di uscire dal vincolo suggestivo, un vincolo duale narcisista di “innamoramento”, per entrare in un vincolo triangolare di valore dell’oggetto. Perché l’amore di transfert non causi fatalmente l’interruzione dell’analisi, l’analista deve prendere alcune precauzioni. Una precauzione sarà quella di interpretare sistematicamente il contenuto erotico delle associazioni idealizzanti o vicine all’idealizzazione. Altra precauzione consisterà nel non occupare “il luogo dell’ideale”, nell’abbandonarlo, per occupare quella “singolarità reale” che Freud menzionava nell’Epilogo di Dora (1905). Si tratta di accogliere che un transfert sia ripetizione e, al tempo stesso, qualcos’altro di più di una semplice ripetizione. Senza queste precauzioni non ci sarebbe mai cura, bensì ripetizione. Tali sono le precondizioni affinché avvenga questo fenomeno che è il passaggio dall’“innamoramento” transferale all’“amore di transfert”. Senza dubbio, i reclami del paziente appaiono come resistenze a ricordi storici, più specificatamente, alle modalità strutturanti la vita amorosa infantile. Tuttavia, e questo è decisivo, il transfert erotico, l’amore passionale libidico, irrompendo, presentifica nuovamente la pulsione, che ha una nuova opportunità, nell’attualità del transfert – non nel luogo dell’analista, che è quello della ripetizione, bensì nella singolarità del suo amore di transfert, che è qualcosa di più della mera ripetizione –, di incontrare un nuovo destino pulsionale. Nel testo di Simona Lucia Bonifati, dal titolo Modi dell’atto nella psicosi, troviamo un’accurata trattazione del passaggio all’atto e della funzione che questo può avere nella psicosi. S. Bonifati affronta la questione del passaggio all’atto, dell’atto e dei suoi modi nella psicosi; ci fa entrare nel vivo degli interrogativi intorno alle possibili modalità che il soggetto psicotico può escogitare per approdare a dei tentativi di soluzione di fronte all’emergenza di un eccesso di reale. Se con l’acting out siamo in una logica di desiderio e vi è una mostrazione fallica, nel passaggio all’atto psicotico vi è una caduta fallica. Il passaggio all’atto si inserisce in quel punto in cui l’acting out fallisce e fa cadere il soggetto dal lato dell’oggetto (a), riducendolo alla coincidenza con questo e disarcionando il soggetto dal valore fallico; c’è un’uscita radicale del soggetto dal campo simbolico, un’uscita agita nel reale, dove il soggetto esce completamente dalla scena senza appello all’Altro. Nel passaggio all’at-
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la clinica psicoanalitica dell’atto
to il soggetto sparisce completamente nell’identificazione all’oggetto in assenza di processo separativo. Se nell’acting out l’uscita dal simbolico è transitoria e il soggetto ritorna al simbolico, nel passaggio all’atto l’uscita è radicale e viene a mancare il secondo tempo di simbolizzazione e reintroduzione nel simbolico. Vero è che il passaggio all’atto psicotico va considerato nell’uno per uno e, come possiamo vedere nel caso di Aimée, può permettere uno spostamento soggettivo, nell’ordine dell’oscillazione: Aimée, proprio a partire dal passaggio all’atto, può simbolizzare qualcosa dell’aggressione che ha compiuto. Questo volume termina con una postfazione preziosa di Cristiana Fanelli, dal titolo Nei deserti del fine analisi. Nuove prospettive sull’atto. L’autrice recupera il contesto storico della teorizzazione di Lacan sull’atto, facendo luce su un punto d’incrocio tra la vita di Lacan e la teoria psicoanalitica. Il Discorso all’École freudienne de Paris è uno scritto di Lacan coevo al seminario sull’atto che del seminario ci restituisce l’atmosfera e ci racconta gli eventi che lo hanno preceduto e poi circondato – scrive C. Fanelli. È lo stesso Lacan a farci notare che la sua riflessione sull’atto è il rovescio di atti che lui, in prima persona, sta compiendo nell’istituzione psicanalitica. E’ il tempo in cui Lacan è sottoposto alla scomunica dall’IPA, troviamo due modi di rispondere a questa scomunica: la prima risposta sul lato dell’insegnamento, Lacan teorizza qualcosa in materia di atto psicanalitico – siamo nel 1962-1963 e lui sta tenendo il seminario sull’Angoscia in cui, da un lato, introduce l’atto distinguendolo dall’acting out e dal passaggio all’atto e, dall’altro, introduce concetti che ritroveremo nel seminario sull’atto psicanalitico del 1967 –, la seconda risposta di Lacan alla scomunica è stata la fondazione dell’École freudienne de Paris. È lungo questa traiettoria di scomunica/ prime teorie sull’atto psicanalitico/ fondazione dell’Ecole freudienne de Paris, dal 1964 al 1967, che si collocano il seminario sull’atto e l’invenzione della passe. C. Fanelli mette in luce che qui una fine coincide con un inizio, alla scomunica segue la fondazione dell’École. Ma quando una fine si apre su un nuovo inizio, siamo nella logica dell’atto. C. Fanelli ci mostra come, allo stesso modo, nella clinica psicoanalitica il fine analisi attinga alla logica dell’atto, aprendo a un nuovo inizio. Ogni percorso di analisi non può prescindere dall’attribuzione immaginaria all’analista di un sapere riparatore e l’Altro si installa così come un garante, si arriva col fine analisi a incontrare il buco nell’Altro, ad incontrare quel punto vuoto della struttura che invalida l’Altro e lo rende inconsistente. L’Altro smette di essere un garante e, come in una staffetta, il testimone passa dal grande Altro all’oggetto a. Rispetto al trauma, al punto vuoto della struttura, Lacan fa funzionare l’oggetto a.
Introduzione 13
C. Fanelli ci ricorda ciò che Lacan scrive nel Seminario XX Ancora, egli aggiunge una dimensione al luogo dell’Altro, luogo che non tiene, dove c’è una falla, una perdita. L’oggetto a funzionerà rispetto a questa perdita. Lascio al lettore il piacere di immergersi nella ricchezza teorico-clinica di questi contributi.
Ringraziamenti Insieme all’invito al lettore a inoltrarsi nel testo, vorrei fare dei ringraziamenti. Il primo a Massimo Recalcati, Direttore Scientifico di IRPA, per il suo accurato e intenso lavoro nella formazione teorico-clinica in campo psicoanalitico, per la cura che mette nel tener vivi i legami spendendosi in prima persona e a favore della collettività analitica. Un vivo ringraziamento va ai relatori, oltre a Massimo Recalcati, a Tathyana Pitavy, Chiara Matteini, Norberto Carlos Marucco, Lucia Simona Bonifati che si sono avvicendati al tavolo e hanno lasciato una traccia del loro passaggio, testimonianza di un continuo e rigoroso lavoro di ricerca nel campo teorico-clinico della psicoanalisi. Un grazie di cuore a Cristiana Fanelli che ha generosamente contribuito con il suo prezioso lavoro di approfondimento sull’atto psicoanalitico curando la postfazione di questo volume. Grazie ai coordinatori Monica Farinelli, Uberto Zuccardi Merli, Francesco Giglio, Mariela Castrillejo, Natascia Ranieri per aver gestito in modo vitale ancora una volta l’incontro virtuale. Un caloroso ringraziamento ai colleghi e agli allievi che a diverso titolo hanno contribuito alla pubblicazione di questo volume degli Annali, in particolare a Costanza Costa, Mariela Castrillejo e Francesca Perini per la traduzione degli interventi dalle lingue originarie degli autori, a Barbara Galasso e Martina Tarchi per la cura con cui hanno operato sulle registrazioni degli interventi. Infine, un ringraziamento all’IRPA, in particolare a Vivien Moriniello, segretaria dell’IRPA sede di Milano, per il suo prezioso e fondamentale aiuto come punto di riferimento e di raccordo delle varie fasi dell’intero lavoro.
L’atto e la grazia. Riflessioni sulla nozione lacaniana di atto analitico1 Massimo Recalcati
Premessa La questione dell’atto è problematica. Il mio lavoro non è compiuto, non ha ancora trovato una forma definitiva. Nel titolo emergono due contraddizioni: la dottrina della psicoanalisi da una parte e la tradizione biblica cristiana dall’altra e questo accostamento viene giustificato da Lacan. Il punto di riferimento di questa questione è il Seminario XV sull’atto analitico2. Seminario che appare agli allievi di Lacan un vero e proprio trauma. Lacan constata la loro assenza in più momenti del seminario, e arriva a chiedersi: perché non ci siete? La risposta che si dà è che in questo seminario c’è qualcosa che fa orrore. Gli psicoanalisti hanno orrore dell’atto. Troviamo in Lacan l’accostamento dell’atto e della grazia quando si chiede se sia la fede che ci salva o siano le opere? Cosa ci salva?3. Questi due termini si uniscono: l’opera dell’analizzante e la fede analitica si congiungono in un nodo. Ci salvano le nostre opere, gli atti, oppure la grazia che trascende l’opera, l’esito della fede? Per Lacan questo è un nodo della psicoanalisi: cosa genera salvezza nei soggetti? Lacan si pone questa questione: che rapporto c’è tra il compito e l’abdicazione? Il compito è proprio dell’analizzante, riguarda il dovere di impegnarsi nell’analisi perché sia un analizzante. Per andare in analisi è necessario un compito: chiamare, recarsi dall’analista, assumersi un dovere, un compito. Ma se riducessimo l’esperienza analitica all’esecuzione di un compito o di un dovere, ridurremmo l’esperienza dell’analisi ad una esperienza disciplinare. 1 2 3
Lezione del 29 gennaio 2022 (testo rivisto dall’autore). J. Lacan, Il seminario. Libro XV, L’atto (1967-1968), tr. it. di S. Terziani, edizione fuori commercio. Ivi, p. 177.
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la clinica psicoanalitica dell’atto
Lacan mette in rapporto il dovere dell’analizzante – che è necessario – con l’esperienza dell’abdicazione, che si rivela nell’applicazione della regola delle associazioni libere. Occorre dunque abdicazione del compito perché vi sia analizzante. Quest’ultima riguarda la destituzione dell’io, la destituzione del soggetto a esperienza che lo trascende, esperienza dell’inconscio stesso. La destituzione dell’io riguarda la sospensione della morale, nessun ritegno e nessuna coerenza, nessuna logica. Ma l’abdicazione senza compito sarebbe impossibile. L’atto analitico è un’espressione inedita nel lessico della psicoanalisi, Lacan dice: “Vi propongo una strana coppia di parole”4. L’atto è alternativo all’esercizio della psicoanalisi che esige la sospensione dell’azione. Dove c’è psicoanalisi non c’è atto. L’esperienza della psicoanalisi è esperienza della parola e perché ci sia esperienza della parola si deve escludere l’atto del paziente e dell’analista. Se c’è azione dell’analista c’è inquinamento, l’analista non sta al suo posto. Quando Lacan parla di atto analitico sa di andare al cuore della tradizione e di sovvertirla mettendo insieme l’esperienza dell’analisi e l’esperienza dell’atto: senza atto non c’è psicoanalisi. In Varianti della cura tipo Lacan fa riferimento alla “malafede di una pratica istituita” 5 quando nell’esperienza analitica vi è sospensione o esclusione dell’atto, la psicoanalisi diventa routine, esclude l’evento, la sorpresa, l’irruzione del reale. Gli allievi disertano il seminario perché non ne vogliono sapere dell’atto, tutelano la loro pratica come già istituita. Questo argomento viene già trattato da Lacan in Varianti della cura tipo: Giacché se la via della psicoanalisi è messa in causa nella questione delle sue varianti fino al punto di raccomandarsi in un tipo solo, un’esistenza così precaria suppone che un uomo la mantenga, e che sia un uomo reale.6
Non c’è psicoanalisi senza la presenza di un uomo reale che renda possibile nella sua irriducibile presenza, l’esperienza dell’analisi7. Sempre nel Seminario VIII Lacan afferma che ci vuole il desiderio attivo dell’analista. Senza l’uomo reale non c’è la possibilità della messa in atto dell’attività dell’inconscio sotto transfert. Dunque, senza uomo reale non c’è possibilità di transfert. 4 5 6 7
Ivi, p. 7. J. Lacan, Varianti della cura-tipo [1955], in Scritti, vol. I, tr. it. Einaudi, Torino 1974 e 2002, p. 324. Ibidem. J. Lacan, Il Seminario. Libro VIII. Il transfert (1960-61), tr. it. a cura di G.B. Contri, Einaudi, Torino 1994.
L’atto e la grazia. Riflessioni sulla nozione lacaniana di atto analitico 17
L’intento di questa lezione è quello di costruire una tavola strutturale delle forme dell’atto nella clinica psicoanalitica. le figure cliniche dell’atto L’agire L’agire non è un atto. Bion ci fornisce una definizione importante dell’agire, in Cogitations, quando afferma che il tossicomane è un soggetto che non sa aspettare8. Agire è l’incapacità di attendere, l’impossibilità di stare nell’assenza dell’oggetto, in evidenza è la frattura del Fort/Da per esigenza del Da contro il Fort. L’agire è rigetto dell’assenza dell’oggetto, che nella tossicomania si traduce in assoluta presenza dell’oggetto droga. Il tossicomane esclude l’oscillazione della presenza nell’assenza, esige presenza assoluta dell’oggetto che diventa Cosa. L’agire qui assume le forme della scarica pulsionale che rigetta ogni forma di differimento. Agire in questo caso equivale all’allucinazione essendo quest’ultima la via breve per portare a compimento la soddisfazione. L’allucinazione è la soddisfazione della pulsione per la via breve, esclude la sublimazione. La scarica pulsionale è alternativa al movimento del pensiero. Lacan ne I complessi famigliari9 definisce la psicosi come la stagnazione della sublimazione, che si traduce nell’impossibilità del giro lungo del pensiero. L’agire è un cortocircuito che trasfigura l’oggetto Das Ding e conduce la pulsione alla scarica immediata. Il tossicomane è colui che rifiuta il compito. L’inibizione L’inibizione è il polo sud dell’atto, rende l’atto impossibile. Per Freud l’inibizione è restrizione dell’io, della vita, l’inaccessibilità all’atto. Nel Seminario VI Lacan dice che il nevrotico è colui che non sa accedere all’atto10, colui che sostituisce l’inibizione all’atto. Amleto, protagonista del Se8
W.R. Bion, Cogitations, (1996), tr. it. Pensieri, Armando Editore, Roma 1996, p. 133. 9 J. Lacan, I complessi famigliari nella formazione dell’individuo (1937), tr. it. Einaudi, Torino 2005. 10 J. Lacan, Il Seminario. Libro VI. Il desiderio e la sua interpretazione (1959-1959), tr.it. a cura di A. Di Ciaccia, Einaudi, Torino, 2016.
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la clinica psicoanalitica dell’atto
minario VI, è l’incarnazione della nevrosi: figura della rinuncia, del procrastinamento, dell’impossibilità dell’atto. Il nevrotico è costantemente impiegato a fare i bagagli di un viaggio che non farà mai11. Il nevrotico è colui che vive all’orizzonte di sé stesso. Nella nevrosi il soggetto è impiegato a soddisfare la domanda dell’altro e viene meno alla chiamata del suo desiderio; l’atto è inaccessibile. Lacan contrappone la figura di Amleto a quella di Antigone, che è la figura dell’atto, o a quella di Empedocle. L’acting Definiamo acting out il ricorso all’agire se avviene all’esterno della seduta e acting in se avviene all’interno della seduta. C’è acting quando l’interpretazione ritarda o fallisce, l’acting viene al posto di ciò che l’analista non ha interpretato o che ha interpretato in ritardo; l’acting si configura come un’uscita dal simbolico. Rintracciamo due esempi clinici nell’insegnamento di Lacan: nel caso clinico de L’uomo dalle cervella fresche12, ordinare al ristorante le cervella fresche è il tentativo di uscire dal simbolico; nel caso della giovane omosessuale13, minacciare di lanciarsi sotto la ferrovia, è allo stesso tempo un modo per interpellare il simbolico. L’acting esige che l’analista compia il suo atto, che compia l’interpretazione, è una domanda di interpretazione. È un’uscita provvisoria dal simbolico per integrare l’azione nel discorso, un’uscita dal simbolico verso il simbolico. Nell’acting il vero atto lo deve compiere l’analista: l’acting del paziente invoca l’atto dell’analista. C’è acting quando non c’è atto, l’acting viene al posto dell’atto. In questo senso, i fenomeni autolesivi, come i tagli, sono un’invocazione del simbolico. Nella clinica dell’adolescenza si possono leggere i passaggi all’atto come un’invocazione, come un messaggio in attesa di essere decifrato, vale a dire, come un messaggio che sfrutta l’azione anziché il codice della lingua. 11 “[…] Il nevrotico è sempre occupato a fare i suoi bagagli, o il suo esame di coscienza – è la stessa cosa –, oppure a organizzare il proprio labirinto – è ancora la stessa cosa. Egli raduna i suoi bagagli, ne dimentica qualcuno oppure li porta al deposito bagagli, ma sono sempre bagagli per un viaggio che non fa mai”, J. Lacan, Il Seminario. Libro VI. Il desiderio e la sua interpretazione (1959-1959), cit., p. 507. 12 J. Lacan, Il Seminario. Libro I. Gli scritti tecnici di Freud (1953-1954), Einaudi, Torino 1978, pp. 75-76. 13 J. Lacan, Il seminario. Il libro IV. La relazione d’oggetto, cit.
L’atto e la grazia. Riflessioni sulla nozione lacaniana di atto analitico 19
Il passaggio all’atto Il passaggio all’atto è il ritorno del reale non simbolizzato che definisce l’evento tipico nella clinica della psicosi, ha lo statuto del fenomeno elementare – passaggio all’atto, allucinazione e delirio. Sono fratture irreversibili del simbolico, diversamente dall’acting out, il passaggio all’atto non può essere riassorbito dal simbolico. Il suicidio melanconico ne è un esempio: la defenestrazione classica non implica nessun appello all’Altro – come il cutter. È un’operazione di separazione nel reale che taglia fuori l’Altro, si tratta di un’uscita dalla scena del mondo, un’uscita senza ritorno. L’acting invece è appello al mondo. Il vissuto più profondo del melanconico è da un lato l’impossibilità di vivere e dall’altro l’impossibilità di morire: il passaggio all’atto si presenta per rendere possibile la morte come separazione dalla vita. Il suicidio nel passaggio all’atto è il tentativo estremo di separare, attraverso una separazione agita che sostituisce quella che il soggetto non può simbolizzare. Il melanconico, che dice voglio morire, non ci sta chiedendo aiuto, egli vuole morire, vuole “spegnere l’insopportabile” della vita. Se l’acting si rivolge all’Altro, il passaggio all’atto esclude l’Altro per sempre. L’atto nella perversione Ciò che il nevrotico può solo immaginare, il perverso lo realizza mettendolo in atto. La pratica perversa mette in atto il fantasma. Quale fantasma? Provocare l’angoscia nell’Altro, gettare il proprio Altro – legge, genitore, lavoro, donna – nell’angoscia. L’atto che non conosce incertezza, non implica dubbio o ruminazione, è il fascino nero del perverso. Queste sono le tavole che riassumono il modo in cui compare l’azione nella pratica psicoanalitica. Entriamo ora nella peculiarità dell’atto analitico per come Lacan ce lo presenta, ovvero come realizzazione nella pratica analitica: l’atto analitico è la realizzazione di un soggetto. Un primo punto lo troviamo in Funzione e campo: Lacan parla di realizzazione del soggetto in termini di realizzazione della verità del soggetto14. Il punto non è solo la rivelazione della verità, il problema non è dire la verità, problema preminentemente filosofico, ma fare la verità. Il secondo punto si trova nel Seminario VI: la posta in gioco della psicoanalisi è la realizzazione del desi-
14 J. Lacan, Funzione e campo della parola e del linguaggio in psicoanalisi (1953), tr. it. in Scritti, vol. I, Einaudi, Torino 1974 e 2002.
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derio. È diverso dal solo riconoscimento del desiderio, c’è in gioco il reale. Nel Seminario VI Lacan fa riferimento al giorno del Giudizio: Il giorno del Giudizio universale ciò che potremmo dire su quanto avremo fatto, nella nostra esistenza unica, sul percorso di realizzazione del nostro desiderio non avrà forse altrettanto peso di quanto avremo fatto sul percorso – che non inficia minimamente il primo, né lo controbilancia in alcun modo – per compiere quello che chiamiamo il bene?15
Per Lacan la realizzazione del desiderio è l’unica forma possibile, pensabile in analisi, del bene. Il desiderio non è finalizzato a realizzare il bene del soggetto, il bene non orienta moralisticamente il soggetto, il bene non è l’ideale che orienta la vita. Noi abbiamo il bene in atto nella realizzazione del desiderio. Servono due riferimenti necessari per entrare nel vivo del Seminario XV. A metà del seminario Paul Lemoine dice di rendersi conto che i pazienti parlano senza sapere cos’è un atto. Paul Lemoine si pone questa domanda: davvero la psicoanalisi trasforma da dire la verità a fare la verità? A partire da questo interrogativo si può entrare nel Seminario XV, da cui si possono ricavare sei dimensioni con cui definire l’atto. dimensioni dell’atto Per definire l’atto occorre, innanzitutto, considerare la distinzione tra atto e azione, se quest’ultima è intesa come piano fisico della motricità e se questo è riferito alla struttura dell’arco riflesso. L’azione è strutturata su una continuità, invece l’atto è ciò che frattura la continuità, l’atto è l’interruzione della continuità. Un esempio di atto riuscito è il lapsus che interrompe la continuità della catena significante del discorso cosciente. Rivela la verità nella discontinuità della continuità conformista. L’imprevisto, la sorpresa rientrano nell’ordine dell’evento; Lacan fa l’esempio del lapsus e dell’atto mancato perché rivelatori del desiderio del soggetto. L’inciampo è il primo nome della realizzazione. In secondo luogo, occorre cogliere la differenza tra atto e azione. L’atto è nell’ordine di un lampo di luce, una contingenza che ha effetto di illuminazione: è sempre effetto significante. Il soggetto in fine analisi fa 15 J. Lacan, Il Seminario. Libro VI. Il desiderio e la sua interpretazione (1958-1959), cit., p. 456.
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esperienza del lampo di luce che gli consente di leggere la propria analisi e trovare la porta d’uscita. L’atto è l’esito dell’intenzionalità del desiderio; prima c’è desiderio e poi atto. L’atto non è generato dal soggetto ma è ciò che genera il soggetto, è l’esito di un evento che trascende l’opera, rendendola possibile; l’atto è tale se produce effetto di trasformazione nel soggetto. L’atto è su un doppio versante: sul lato dell’analizzante, è necessaria la caduta del soggetto supposto sapere per portare a termine l’analisi e il riconoscimento dello scarto che si è rispetto all’oggetto piccolo (a); sul lato dell’analista l’atto si manifesta attraverso la trasformazione dell’analista da soggetto supposto sapere a scarto, a oggetto (a), a désêtre. L’analista è scarto dell’operazione a ogni analisi che finisce, deve saper fare esperienza di essere scarto, saper lasciare andare i pazienti, senza imprigionarli in un transfert idealizzante eterno. Désêtre, disessere dell’analista. Allo stesso tempo l’analizzante vede lo scarto che egli stesso è ma questo lo libera da identificazioni narcisistiche e immaginarie consentendogli di trovare un rapporto con il desiderio. Nel Seminario XV Lacan dice che nell’analisi bisogna credere che con lo scarto si possa fare qualcosa16. Lo scarto è l’essenza dell’operazione analitica, la pietra di scarto è destinata a diventare la pietra angolare; convertire la pulsione nell’ordine etico del desiderio, non disciplinare, legare l’eccesso della pulsione al desiderio che orienta il carattere acefalo della pulsione. Si tratta di convertire l’eccesso del godimento nell’eccedenza del desiderio. Il lampo di luce è trasformazione come nuovo inizio. Qualcosa inizia in modo nuovo. La figura dell’atto è quella dell’incontro. Non è il soggetto padrone dell’atto, dell’incontro dell’inconscio, il soggetto perde governo dell’io e per questo trova una ricchezza differente, una possibilità nuova. Ogni atto è sempre senza garanzia, dove c’è atto c’è S(Ⱥ), matema che sostiene l’atto. Dove c’è atto l’Altro viene meno, è un rapporto circolare; dove c’è atto c’è inconsistenza dell’Altro. È però necessario entrare in rapporto con l’Altro. De Kooning, un pittore, dice che ogni pittore deve conoscere la storia dell’arte ma quando dipinge deve dimenticarla. Avere sapere storico ma dimenticarlo nel momento dell’atto. Più c’è Altro, più c’è effetto di inibizione dell’atto. C’è atto al di là della garanzia e l’assenza di garanzia spinge verso l’atto. L’atto si rivela tale solo nella lettura dell’atto, è atto solo a posteriori. L’atto non è un prodotto dell’interpretazione, non è un prodotto delle istituzioni. Ad esempio, ciò che configura che sia stato un atto non è la fonda16 J. Lacan, Il Seminario. Libro XV. L’atto (1967-1968), cit., p. 98.
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zione di Jonas del 2003, il suo atto notarile, ma atto è ciò che è diventato negli anni. Un matrimonio può essere o non essere un atto. Atto è effetto di trasformazione sulla vita di chi si impegna nell’essere padre o madre, ecc. Lacan nella critica a Goethe afferma che il verbo è l’azione e questa implica il verbo. Una dichiarazione è un atto, ma è un atto sempre a posteriori, non lo è in sé. Solo il tempo futuro smentirà o dichiarerà vero il giuramento. Sarà il tempo a dichiarare se c’è dell’analista o meno. Esiste l’atto dell’analista, non il titolo, non l’ontologia e dunque essere dell’analista. È l’atto analitico che fa esistere l’analista come analista in quella cura. Noi siamo inseguiti dai nostri atti, è nella ripresa dell’atto che c’è significazione dell’atto (soggettivazione). C’è atto quando c’è esperienza dell’oltrepassamento, dello sconfinamento. Varcare il Rubicone rende Giulio Cesare diverso, perché oltrepassa il limite. Quando un’analisi inizia c’è un atto: decidere chi chiamare e quando chiamarlo. Questo inizio non confermerebbe che l’atto implica decisione attiva? È un’assunzione attiva, c’è atto quando il soggetto dell’atto è destituito del suo atto? Quando un soggetto decide di cominciare un’analisi risponde ai colpi dell’inconscio, alla chiamata dell’inconscio “Chi sei?”, “Cosa fai della tua vita?” Il soggetto è interpellato, colpito dall’inconscio da una sofferenza sintomatica. Non c’è soggetto se non a partire da un sintomo che impone una perdita di padronanza o di godimento che il soggetto non sopporta. Risponde alla chiamata dell’inconscio, è un consegnarsi, consegnarsi all’inconscio è una risposta, è un’abdicazione. “Io non ce la faccio” è un atto in questo senso. Il problema è istituire un nuovo inizio. Non si tratta di una trasgressione, di lasciarsi catturare dal brivido della trasgressione, la soglia di cui parliamo non è la legge, è l’atto la legge. In ultimo, nella lettura che Lacan fa del Wo Es war, soll Ich werden, non si tratta di rafforzare l’io, ma di perderlo e realizzare qui un guadagno superiore. Porre la salvezza non nell’io ma nella fede verso l’Es (terra della grazia), per i postfreudiani il rafforzamento dell’io può garantire la salvezza. Lacan dice invece: la salvezza è solo nel cedimento dell’io, nella consegna del soggetto alla grazia dell’atto. Questo cedimento è la forma più radicale dell’atto. il concetto di grazia nell’opera di lacan Due riferimenti nell’opera di Lacan del concetto di grazia.
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Il primo è nel Seminario VII17, in cui Lacan dice che se volete comprendere qualcosa del concetto di atto non dovete rivolgervi ad una psicoanalisi scientifica ma dovete intendere bene il concetto cristiano di grazia. Il secondo riferimento è nel Seminario IX18; qui il concetto di grazia sovverte l’idea canonica della legge. Lacan invita a rileggere la “Lettera ai Romani” di Paolo di Tarso che dice: “Laddove il peccato abbonda, la grazia sovrabbonda”19. Non troviamo qui la dimensione retributiva della legge (chi si allontana dalla legge viene punito dalla legge e chi si comporta conformemente alla legge viene premiato dalla legge). Paolo fa un ribaltamento dicendo: dove c’è peccato, c’è più grazia. Kierkegaard afferma: “Il contrario del peccato non è la virtù ma la fede”. Dire che il contrario del peccato è la virtù significa rimanere sul piano morale (bene e male) è antinomia morale. La vera antinomia invece è tra il peccato e la fede. In termini analitici il peccato è il sintomo come esperienza di destituzione del soggetto, il godimento del sintomo, il soggetto è schiavo del suo sintomo. La grazia qui dove interviene? Laddove indica che il problema non è l’estirpazione del peccato, non è la guarigione del sintomo. Gli effetti di guarigione accadono in sovrappiù per grazia ricevuta, non perché ci si è ostinati a guarire il sintomo. Il soggetto paranoico è indiviso perché la follia è sempre dell’Altro, il paranoico esclude la possibilità della grazia. Domanda – Come può declinarsi un’analisi? Può succedere che analista e paziente, dopo la fine di un’analisi, possano rincontrarsi in qualcosa che possa dare vita ad altro? Risposta di Recalcati – Lacan nel seminario XVI dice chiaramente che esiste una dimensione religiosa del transfert e ne parla con una certa critica. Non è un caso che parte del suo lavoro consiste nel separare la Bibbia dalla religione. La religione è nell’ordine dell’illusione e della credenza. In questo senso il soggetto supposto sapere è istituito da una credenza nevrotica che necessita di un altro da amare e dal quale essere amati; c’è dunque una spinta religiosa che anima il transfert. Il lavoro di analisi consiste nello sfruttare il soggetto supposto sapere per portare il transfert a scorticare il soggetto supposto sapere, ovvero per portare il sapere dell’analista al sog17 J. Lacan, Il seminario. Libro VII. L’etica della psicoanalisi (1959-1960), a cura di A. Di Ciaccia, Einaudi, Torino 2008. 18 J. Lacan, Il seminario. Libro IX. L’Identificazione, (1961-1962), cit. 19 Lettera di San Paolo apostolo ai Romani (Rm 5,20).
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getto. Tuttavia, questo scorticamento comporta che laddove c’era il soggetto supposto sapere appaia l’oggetto causa di desiderio, dunque la verità del soggetto. Alla fine c’è desupposizione del sapere, non c’è più transfert religioso, c’è un oltrepassamento del legame transferale ma rimane comunque un resto. Questo resto può prendere le forme della gratitudine, talvolta le forme dell’odio come motto di separazione radicale dall’analista, oppure può esserci il desiderio di continuare a lavorare insieme, di mantenere il legame transferale in un orizzonte nuovo. Il transfert non si liquida, ma può prendere forme nuove. Domanda – Cosa determina la fine di un’analisi? La Passe è la possibilità di un analizzante di potersi dire analista? La Passe è un atto inaugurale che smarca e proietta il soggetto verso una nuova vita? Si può vedere il wo es war soll ich werden come un poter essere o meglio, l’es è una realizzazione dell’io nell’ordine del desiderio? Risposta di Recalcati – Quest’ultima considerazione è un contributo e lei lo dice molto bene. Per quanto riguarda la Passe invece non credo molto a questo dispositivo. Ho partecipato alla Passe e ne ho ascoltate molte, ma c’è un inganno. Molto spesso i racconti di Passe riflettono il canone teorico egemone che prevale in quel momento. Viene utilizzata la teoria per confermare l’esperienza. L’esperienza viene subordinata ad un grande Altro che è quello dell’istituzione. Qui non c’è alcun atto. La vera Passe è come uno vive dopo l’analisi. La Passe è cosa fa un soggetto della propria vita dopo aver finito un’analisi. Per questo Lacan dice che la Passe è come un’onda, non è solo una volta, ma qualcosa che si ripete e che coincide con la vita dopo l’analisi. Domanda – Vorrei riprendere la sua frase “la salvezza nel cedimento dell’io è la grazia dell’Altro nella forma più radicale”. Di quale Altro parliamo in questa frase? Parliamo di un’alterità assoluta o della fede nel nuovo, nell’invenzione? Risposta di Recalcati – A quale Altro ci si consegna? L’Altro a cui ci si consegna è al tempo stesso un nome dell’eccesso (la pulsione) e un nome dell’eccedenza (la forza del desiderio). Ne consegue che la forza del desiderio dovrebbe orientare la pulsione, non disciplinarla. Più c’è rapporto di amicizia tra pulsione e desiderio più si allarga l’orizzonte del proprio mondo e si rende possibile la contingenza dell’incontro.
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Domanda – C’è una questione che tocca l’angoscia, l’atto e l’intenzionalità. L’acting out e il passaggio all’atto sono risposte all’angoscia in cui è presente una quota minima di intenzionalità, ma in primo piano è l’angoscia. In questo senso, l’atto va forse tenuto in una cornice dialettica tra ciò che è una risposta all’angoscia come nel caso del passaggio all’atto e ciò che invece riguarda l’intenzione e quindi il matrimonio. Risposta di Recalcati – Dove c’è atto non c’è angoscia. L’angoscia è prima o casomai dopo, ma non nel tempo dell’atto. L’angoscia si dissolve come si dissolve il pensiero: “sono perché non penso”. Non c’è più contrasto tra essere e pensiero ma circolarità. Esiste una relazione topologica; l’angoscia può spingere all’acting o al passaggio all’atto. Il tormento e la dilemmaticità della scelta sono prima dell’atto. Il tempo dell’atto è tempo dell’estinzione dell’angoscia. Domanda – Vorrei riprendere il passaggio tra il “rivelare la verità” e “realizzare la verità”. Si può accogliere questo passaggio se accogliamo l’inconscio non solo come deposito ma anche come pulsazione, come apertura. Qui è in gioco una temporalità circolare. Il fare verità è “farsi”. Abdicare all’intenzione comunicativa e questo richiede una concezione dell’inconscio diversa da quella tipicamente freudiana. Inoltre, vorrei riprendere il rapporto tra la grazia e l’attesa nella perché qui c’è una sorta di passività attiva. Risposta di Recalcati – È vero, l’inconscio di Lacan non è quello di Freud, l’inconscio freudiano assomiglia ad un archivio. Tutto quello che ho detto oggi implica un passaggio tra questi due inconsci: da un inconscio ontologico, da un destino già scritto nell’archivio della memoria, a un inconscio non ancora scritto, un inconscio-evento che implica che sia al futuro e dunque l’esito di una sua continua risignificazione. Domanda – Vorrei riprendere il rapporto tra dire la verità e fare la verità. Questo passaggio può avvenire in un tempo successivo fuori dall’analisi? Risposta di Recalcati – Lacan nello Stadio dello specchio a pagina 94 fa riferimento al fine analisi: La psicoanalisi può accompagnare il paziente fino ala limite estatico del “tu sei questo” in cui gli si rivela la cifra del suo destino mortale: ma non sta al solo nostro potere di esperti in quest’arte il condurlo al momento in cui comincia il vero viaggio.
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Questa è una risposta alla sua domanda, ma non è proprio così che accade perché il “tu sei questo” è qualcosa che in analisi avviene in un processo. L’analisi punta a indicare al soggetto “tu sei questo oggetto”, “sei stato fatto così”. Il soggetto fa, dopo aver assunto il suo essere, qualcosa di questo, ma lo comincia già a fare in analisi… Domanda – si può pensare che nell’isteria in alcuni momenti ci siano degli acting perversi, non ne senso della struttura ma degli agiti per mostrare la verità dell’Altro che l’isterica punta ad angosciarlo e lo fa con il corpo. In questo vorrei far rientrare l’immagine di Cristo in croce che senza l’atto della resurrezione del corpo, senza conversione della conversione non possa esserci grazia e dunque fine analisi. Ma la grazia e l’atto comportano qualcosa del corpo che si libera della grevità del sintomo. Il sintomo è convertito, risorto. L’isteria è una mostrazione del corpo in eccesso direbbe Bacon. Risposta di Recalcati – Quando sono stato ospitato all’Università La Sapienza di Roma per fare un Seminario intorno a Lacan e Agostino, ho chiesto a Gaetano Lettieri, direttore d’Istituto, di mettere come esergo onde equivoci al mio seminario questa formula che si trova a p. 90 del “Discorso ai cattolici” di Lacan: Mi hanno detto di certi seminari di cui alcuni pretendevano di fare la psicologia di Gesù Cristo, ma a che prò? Per sapere forse per quale capo poter acchiappare il suo desiderio?
La psicologizzazione della potenza del verbo della parola di Gesù è sempre in ritardo rispetto all’eccedenza della sua testimonianza, come Lacan riconosce in questo passaggio. Gesù è un’incarnazione formidabile dell’eccedenza del desiderio, della potenza affermativa del desiderio. L’isterica può assomigliare in alcuni tratti a un perverso, ma non è un soggetto perverso. Il perverso sa quello che vuole, l’isterica no, è mossa da una domanda d’amore che può prendere anche forme persecutorie o perverse, ma la domanda isterica è istituita sulla mancanza a essere e non, come accade nel perverso, sulla volontà di godimento. Domanda – Vorrei riprendere il concetto di grazia in senso stretto come esperienza mistica di irruzione di reale. Che rapporto c’è tra esperienza mistica e inconscio?
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Risposta di Recalcati – Lacan nel seminario XX mette in valore la mistica, non quella schizofrenica, ma quella che contiene la possibilità di un godimento ulteriore non tutto fallico, un godimento libero dall’avere, dalla misura, libero dal godimento fallico. Io sono più cristiano di Lacan. Essere cristiani significa lavorare su quello che abbiamo. Se lavoriamo bene con quello che abbiamo allora si può allargare il campo della nostra esistenza. Partire da quello che c’è. Nei colloqui preliminari ciò che si fa è chiedere al paziente: ma tu vuoi guarire? Vuoi davvero rinunciare al godimento del tuo sintomo? Domanda – Vorrei fare una liaison con l’arte. Quando si parla di atto possiamo fare riferimento al taglio di Fontana e invece quando si parla di scarica possiamo fare riferimento ai tagli sul corpo di Gina Pane? Risposta di Recalcati – Il taglio di Fontana è il paradigma dell’atto e ha senso prenderlo seriamente in considerazione. Lacan nel seminario XV dice che il suo insegnamento è l’atto psicoanalitico. Afferma di parlare ai giovani, per chi è giovane. Lacan afferma che c’è atto quando si ha la sensazione che stia succedendo qualcosa e ciò che stava succedendo era il suo insegnamento… Dopo Lacan la psicoanalisi non può più essere quella di prima così come dopo Fontana o dopo Pollock l’arte non può essere più quella di prima. Ma tutto questo avviene attraverso il verbo. Da una parte c’è sublimazione del trauma, come in Fontana, e dall’altra c’è traumatismo senza sublimazione, come avviene in Gina Pane. Lacan è stato il Fontana della psicoanalisi.
Il coraggio dell’atto1 Thatyana Pitavy
Buongiorno a tutti e a tutte. Il tema che quest’anno avete messo al lavoro – La clinica psicoanalitica dell’atto – è veramente appassionante. L’atto è al cuore della psicoanalisi, del desiderio dell’analista, è la sua stessa condizione; è al cuore di ogni inizio, per parafrasare il Faust di Goethe: “All’inizio era l’atto”. Freud riprenderà a suo modo questa “eresia” alla fine di Totem e Tabù, in cui l’atto era quello dell’assassinio del padre, del padre dell’orda. Conosciamo tutti il mito monoteista del padre dell’orda, mito fondativo, che racconta come i figli uccidono il padre e lo mangiano nel pasto totemico. Una volta consumato il festino, li invade un enorme sentimento di colpa e, per paura che questo si ripeta, decidono di istituire delle regole corrispondenti ai due tabù principali: l’assassinio e l’incesto. Il banchetto totemico, come sappiamo, equivale alla prima identificazione freudiana al padre, identificazione che resta enigmatica, mitica, che sembra inaugurare per il soggetto questo sentimento strano e potente dell’amore al padre. Per Freud, l’incorporazione dell’oggetto come primo oggetto sessuale, si costituirà in futuro come prototipo di ogni forma d’identificazione. Questione dell’origine, che sia mitica o meno (bisogna comunque supporre un inizio), questa prima identificazione/incorporazione consiste in questo tempo logico della nascita dell’Altro e dell’inconscio; nel fatto che l’inconscio resta l’Altro, ci dirà poi Lacan. La cosiddetta identificazione al padre, al padre reale in Lacan, non coincide con l’identificazione al padre dell’orda, così come Freud l’ha descritta, sebbene appaia ispirata a quella. Possiamo dire che Lacan ha recuperato il Nome del padre di Freud, del padre dell’orda, per formalizzare in seguito la teoria del Nome del Padre. Nome-del-padre che era definito, all’inizio del suo insegnamento, come un regolatore dei godimenti (proibizione dell’incesto), ma anche come un operatore privilegiato della struttura, poiché la sua forclusione, come sappiamo, era diventata il meccanismo 1
Lezione del 19 febbraio 2022 (testo rivisto dall’autrice), traduzione dal francese di Costanza Costa.
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specifico di tutte le psicosi. Questa nozione di struttura evolverà con la teoria dei nodi e del passaggio che Lacan farà dal Nome-del-padre ai Nomi del padre al plurale. Per oggi rimaniamo a questa prima identificazione al padre, proponendovi già questa tesi, ovvero che ogni forma di atto troverà il suo punto di partenza in questa radice dell’originario, ogni atto celebrerà questo padre reale, ovvero questo vuoto della struttura. Per dirla in un altro modo, il padre reale è la costante, è il supporto di ogni genere di atto. Poiché, se Lacan avanza l’idea che nell’atto il soggetto non ci sia, possiamo dire che la struttura c’è. Ed è appunto quest’ultima che svela e designa il soggetto nelle sue azioni, ovvero nei suoi modi dell’atto, per riprendere un’espressione di Marcel Czermak. Modi dell’atto: passaggio all’atto e acting-out, su cui ora ci mettiamo al lavoro. In particolare, sulla clinica dell’atto, ricordandovi che è l’atto che fonda il soggetto, che qui il soggetto è un effetto di struttura, della struttura del linguaggio. Partendo da qui organizzerò il mio intervento in due parti: Parte I – L’atto e il desiderio dell’analista Parte II – I modi dell’atto: atto, passaggio all’atto e acting out. Parte I – L’atto e il desiderio dell’analista Per entrare nel vivo del nostro argomento, vi racconto un sogno: anche qui c’è la formazione dell’atto. Non mi succede spesso di utilizzare il mio materiale inconscio per un intervento, ma devo dire che questo intervento calza a pennello, vedrete. Oltre tutto è un sogno che ho fatto nel momento stesso in cui ho cominciato a scrivere in occasione di questo incontro. Ciò mi fa dire che lo rivolgo a voi come luogo di transfert. “Il transfert mette in atto la realtà dell’inconscio”2. Vediamo come tutto questo è annodato: atto, transfert e inconscio. Allora, nel sogno si tratta di uno dei miei pazienti che soffre di un’inibizione sessuale importante, impotente, poca libido fin dall’adolescenza, oggi ha sessant’anni. È in analisi da parecchi anni. La cura si dispiega in un transfert positivo, è un soggetto intelligente, piuttosto colto, dunque gradevole. Ciò nonostante, questa impotenza lo mina per tutti questi anni, il fondo resta assai malinconico. Recentemente è venuto a interrogare l’analisi, la cura con me. Mi dice gentilmente, “ecco, non si muove, sono sempre piuttosto depresso, mia moglie mi chiede perché non cambiare analista”. È vero che è sempre a un punto morto, è il caso di dirlo. 2
J. Lacan, Il seminario, Libro XI. I quattro concetti fondamentali della psicoanalisi (1964), a cura di A. Di Ciaccia, Einaudi, Torino 2003, p. 142.
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Quando un analizzante si stende sul lettino, mi viene quasi automaticamente questa espressione: gli dico: “forza andiamo!” e inizia la seduta. La domanda dell’uno col desiderio dell’Altro e inizia la danza. Un giorno, dunque il paziente mi chiede: “Forza, andiamo?”, “Verso dove andiamo?”. In seguito a queste domande faccio un sogno. Nel sogno, lo ricevo per una seduta, ma non siamo nel mio studio, è cambiato il setting analitico, perché eccomi sdraiata anch’io sul lettino con lui. Un lettino a due che piuttosto ha l’aria di un letto matrimoniale. Siamo lì ambedue, sdraiati in questo doppio lettino, fianco a fianco, e inizia la seduta. Inizia a parlare: come al solito è sempre questione di sua moglie, tutto passa attraverso di lei, senza dubbio è il suo punto di riferimento e di inibizione più importante. Comunque siamo ben stretti in questo letto-lettino, ma i nostri corpi non si toccano, tra di noi c’è uno spazio vuoto. Ma ecco l’inatteso: mentre parla, con un gesto, la sua mano si alza, e per caso, la punta del suo dito tocca l’angolo del mio occhio, e proprio in quel momento ho “l’occhio che piange”, scende una lacrima, siamo ambedue stupiti, ci guardiamo, e lui la raccoglie. Momento d’incontro, anticipazione dell’atto che sopravviene nella sequenza del sogno, perché, – una volta che questo oggetto cedibile, staccabile, ovvero una lacrima prelevata nel campo dell’Altro entra nel suo campo, nel campo del soggetto – a questo punto, prende corpo il desiderio, l’atto si autorizza, due corpi stretti in un abbraccio invadono la scena del sogno fino a quando prendono la mano la censura del sogno o il desiderio dell’analista…Poiché finisco per dirmi: “No, tutto questo non è possibile, è vero che ho difficoltà a cedere sul mio desiderio”. Non cedere sul proprio desiderio dirà Lacan nel Seminario VII, L’etica della psicoanalisi3. Qui è messo in atto il desiderio dell’analista: l’atto dell’analista sembrerebbe come una presa dell’oggetto piccolo (a), una “presa giusta”, in questo caso una lacrima, prelevata nel campo dell’Altro. Sappiamo che tutti i pezzi staccabili del corpo – pezzo staccato dice Lacan nel Seminario X sull’angoscia – prendono la proprietà di questo oggetto causa del desiderio, oggetto piccolo (a). Cosa possiamo dire di questo sogno? Se non che questo analizzante è riuscito a commuovermi e che l’ho accettato. Ne è la prova la formazione del sogno. È qui che si è verificato l’atto tra l’Uno e l’Altro, in questa altra scena, la scena dell’inconscio. Non mi crederete, ma anch’io sono stupita, perché è molto interessante e anche inquietante che dopo questo sogno – sogno di cui l’analizzante non può neanche sognare l’ex-sistenza –, dopo questo incontro, che potremmo qualificare del reale 3
J. Lacan, Il seminario. Libro VII. L’etica della psicoanalisi (1959-1960), a cura di A. Di Ciaccia, Einaudi, Torino 2008.
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tra l’analista e l’analizzante, un incontro in una terza dimensione, questo signore è uscito dal torpore malinconico in cui era caduto dall’inizio della cura. Per ora si autorizza solo a stare meglio, a sentirsi meglio. È questo un atto di grazia, lasciarsi toccare dall’Altro? Questo sogno comunque ha avuto un effetto d’interpretazione: l’interpretazione è una messa in atto dell’inconscio. Allora possiamo domandarci: un effetto d’interpretazione per chi? Poiché dopo tutto si tratta del mio sogno. Direi che questo sogno pone un’interpretazione sul transfert, sulla stessa cura, punta all’atto psicoanalitico e con lui, al desiderio dell’analista. In ogni caso per questo signore si è aperto un campo Altro, sia in un “sentirsi meglio”, ma anche nelle vibrazioni delle sue associazioni libere. Recentemente è emerso un significante sotto forma di confessione. La confessione è sempre un momento assai privilegiato in una cura, momento di verità e di responsabilità del soggetto. La confessione ha il valore di un dire passibile di fare atto, produce uno spostamento, un prima e un dopo. Una volta detta, non si può tornare indietro, è detto. Infine, mi dice così: “Mia moglie è un alibi”. Si nasconde dietro di lei per non lanciarsi nella vita, nel suo desiderio, come se fosse lì per garantire l’impedimento, l’impotenza, ancora mi dice: “Le do questo ruolo: di impedimento”. Risuona in lui: “mia moglie è un alibi” e intende: “mia moglie è una a-libido! L’ (a) privativo, (a)-libido, appare qui in tutta la sua negatività. Sua moglie è un “taglia desiderio”. In ogni caso, ecco l’emergere di un nuovo significante! (a)-libido. È evidente che questo sogno sia esemplare di ciò che non bisogna fare tra analista ed analizzante nella realtà. Conosciamo gli incidenti del transfert quando si realizza in atto sessuale questo tentativo di far ex-sistere un rapporto, poiché l’analista non si inganna del fatto che non c’è rapporto tra analista ed analizzante: sono due luoghi assolutamente asimmetrici. L’analista sa che la proposizione, l’analizzante mi ama, ama me nella persona dell’analista, costituisce un’illusione e che ogni tentativo di rapporto che parta da lì cade in un inganno immaginario, narcisistico sul lato dell’analista. L’analista, come Socrate, è proprio colui che rifiuta la metafora dell’amore al suo analizzante. Sappiamo che Lacan non si è privato, che si è lasciato prendere da quest’inganno del desiderio; d’altronde non solo Lacan, anche altri psicoanalisti si lanciano in questa trasgressione del dispositivo; tentano a volte il rapporto, tramite il rapporto sessuale, un’illusione in più. Qui non si tratta di fare un quadro moralistico della questione, tanto più che è vero che conosciamo alcuni esempi felici di questo inganno. Ma su questo c’è una questione etica che merita di essere sollevata, poiché dopo tutto chi li autorizza a mettersi in quelle condizioni? Di trasgredire? Questo ri-
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guarda principalmente gli psicoanalisti uomini, mentre Lacan è molto chiaro circa il posto che deve tenere l’analista. Dice questo: Acchiapparlo nel modo giusto (l’oggetto a) vi consente di rispondere alla vostra funzione: offrirlo come causa del desiderio al vostro analizzante. Ecco quello che bisogna ottenere. Ma se doveste mettere un piede in fallo non è poi così terribile, l’importante è che avvenga a vostre spese”.4
Nel caso in cui l’analista non si facesse carico di questo, nel caso in cui arrivasse a godere, quale differenza tra la perversione e il desiderio dell’analista? Tra il passaggio all’atto e l’atto? Ora mi sembra che in nessun caso, nella realtà, l’analista venga a sostituire (a), a sostantivare questo oggetto causa del desiderio. Il rapporto con l’oggetto (a) nel dispositivo d’una cura resta, per l’analista, lettera morta. Se la definizione dell’atto psicoanalitico consiste in questo passaggio dal compito analizzante alla posizione dello psicoanalista, sappiamo allora che nel corso di questo passaggio c’è un resto. Questo resto è il prodotto stesso dell’operazione, ovvero, soggetto supposto sapere al posto di (a) piccolo. L’analista sa o meno quello che fa nell’atto psicoanalitico?5. Questione tecnica, questione etica. C’è in altro punto del sogno che mi colpisce, perché la sua formazione viene in seguito a delle domande fatte dall’analizzante durante la cura. Mi dice: “non si muove, mia moglie mi domanda perché non potrei cambiare analista; verso dove andiamo?” Ora, nel sogno, c’è passaggio all’atto, gli abbracci, al punto di andare a verificare se lo posso guarire dal suo sintomo, ovvero, liberarlo dalla sua impotenza sessuale. Allora, fin dove si va nell’atto? Che ne è del desiderio dell’analista? Quale etica? Lacan ci mette in guardia, il desiderio dell’analista è un “non-desiderio di guarire”, soprattutto nessuna buona intenzione che miri al Bene del soggetto, “la guarigione viene in sovrappiù”, dice Lacan. Verrebbe in più come un supplemento. E poi, guarire da cosa? Lacan torna su questo non- desiderio di guarire e aggiunge che si tratta anche di guarire il soggetto dalle illusioni “che lo trattengono sulla via del suo desiderio”. Guarire il soggetto dalle sue illusioni, è molto bello… Si, non credere più alle storie che ci si racconta. Ma una volta guarito, davanti alla via libera che porta al desiderio, come fare, cosa fare? A questo punto, cosa chiamiamo desiderio? Possiamo dire che un desiderio sgombro dalle illusioni è un desiderio messo alla prova del reale, un desiderio preavvisato, ovvero, un desiderio pron4 5
J. Lacan, La terza, in La psicoanalisi n°12, Astrolabio, Roma 1992, p. 16. J. Lacan, Le séminaire (livre XVI) – D’un autre à l’autre 1968-1969, Seuil, Paris 2006.
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to a passare all’atto, desiderio dello psicoanalista, che è un altro modo di nominare l’atto psicoanalitico. Poiché, nella prassi analitica, il desiderio dello psicoanalista e l’atto psicoanalitico sono delle nozioni strutturalmente equivalenti. Davanti a questo possibile che si apre alla fine di una cura, ovvero, diventare psicoanalista, cosa si rischia? Si è pronti a fare atto di questo desiderio? Non sempre. C’è paura. E pertanto Lacan è categorico nel seminario sull’ Etica: “non cedere sul proprio desiderio”, allora proseguiamo! Andiamo avanti! Ma qui c’è una difficoltà, perché il supporto delle illusioni costituisce anche la posizione desiderante del soggetto. E la nostra posizione desiderante è quella del nostro fantasma…Si tratta allora di una cura per guarire dal fantasma oppure di realizzarlo? Una realizzazione fantasmatica: è questo agire il proprio desiderio? Non credo. Ma come fare per prendere la via di questo desiderio alla prova del reale, senza cadere nella tragedia, senza arrivare a realizzare il proprio fantasma – vale a dire senza che l’atto precipiti, come agito –? L’Até6. Precipitazione, atto. Antigone è colei che non cede sul suo desiderio né sul suo dovere, d’altronde, in lei, sono assolutamente in continuità, da qui la forza e la determinazione del suo atto. Lo splendore di Antigone, la sua bella morte, il suo essere per la morte, il suo amore per i morti, tragica eroina, certo, tutto questo è molto bello. Ma cosa vuol dire tutto questo: realizzare il suo destino? Qual è questo oltrepassamento, questo superamento di sé, questa realizzazione del destino nel senso appena visto di Até? È chiaro che ha questo coraggio di andare aldilà…il coraggio dell’atto; non la ferma nessuna legge, nessuno, sfida e non cede, non è più di questo mondo, inumana, pura trascendenza. Ma è al di là dove si trova, tra due morti, già morta, pronta a raggiungere i suoi e la profezia: la passione familiare. In Antigone non c’è nessuna divisione, è animata da desiderio puro, puramente simbolico: è una macchina da guerra, una terrorista. Antigone non cede sul suo desiderio rifiutando completamente di gioire della vita, del reale della vita. Antigone, è una metafora, certo, ma si potrebbe dire che va realmente fino in fondo, non c’è margine di manovra, né aria di metafora che le permettano di operare, di negoziare qualsiasi cosa…L’irreversibilità del suo atto finisce per sciogliere in lei il legame con sé stessa. Nel momento in cui si realizza, in cui realizza l’Até, per riuscire infine ad andare oltre, lei non c’è più. La sua radicalità la mette in un punto di non ritorno. È vero, è affascinante restare padrona del proprio atto fino in fondo, con la corda al collo. 6
In greco antico: Ἄτη significa destino, dal lato della rovina, inganno, dissennatezza. L’autrice tiene insieme il termine greco che richiama il destino, l’andare di fretta, precipitare con l’assonanza di ac-to.
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A prezzo della tragedia, in nome della tragedia...Anche se Lacan fa di Antigone la figura stessa del desiderio dell’analista nel seminario dell’Etica, più tardi lo sfumerà. Bisogna sapere cosa si vuole, cosa si vuole? Spingere il desiderio dell’analista, l’atto psicoanalitico fino al desiderio di morte, fare il morto, il silenzio dello psicoanalista. Non sono sicura che si possa ridurre l’atto a questa dimensione. Ho comunque l’impressione che succeda soprattutto nella vita, nel ridere, che l’esperienza analitica sia piuttosto lì. È comunque sconvolgente il reale della vita, la vita che s’impone coi suoi possibili e impossibili. Dirò anche con Lacan che “la vita non è tragica, è comica”. Nessun bisogno di peggiorare le cose, di essere severi. Non severi, ma sempre responsabili della nostra posizione di soggetto, per il meglio e per il peggio, questo sì. parte II – modi dell’atto: atto, passaggio all’atto, e acting out Allora, proseguiamo nella “Clinica dell’atto”, esaminando i modi dell’atto, ovvero: atto, passaggio all’atto e acting out, tre modi dell’atto che comprendono questa nozione dell’Agieren freudiano, l’agire freudiano. Agieren è una parola d’origine latina, “andare, dirigersi”, “condurre un affare”; “rappresentare, suonare”; “essere attivo”. In campo giudiziario può corrispondere al senso speciale di atto, di azione. In Freud lo ritroviamo effettivamente sia come verbo che come nome. Agire/atto. Ovvero “messa in atto”, acting out. Detto questo, Agieren è un termine che Freud usa più spesso nella sua forma composta d’Abreagieren, Abreazione, termine che significa l’apparire nel campo della coscienza di un affetto o di un ricordo fino a quel momento rimosso. Clinicamente parlando, l’Agieren freudiano significa diverse cose. A grandi linee si può definire come la ripetizione inconscia di situazioni antiche ed infantili del soggetto. Ovvero, ciò che è caduto dalla parte del rimosso di queste situazioni infantili può riaffiorare, in alcune situazioni transferali, sotto la forma di un agire: come un modo di far tornare il passato nel presente, un’attualizzazione di ciò che, dall’io, è stato espulso, allontanato, che ha incontrato un inciampo nella simbolizzazione. Ciò che non ha potuto dirsi, si rivela. Se mi seguite, Ciò che non ha potuto dirsi si rivela è la scrittura dell’acting out e del passaggio all’atto, poiché per l’atto è proprio il contrario. Ovvero, che più spesso un atto prende valore d’atto tramite un dire. Detto questo, l’agire nella sua ripetizione, può arrivare a produrre un atto nei suoi effetti, con la differenza che ci vuole sempre l’Altro per leggere e per capire ciò che vuol dire l’agire…
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Ora, ciò che è sorprendente in ciò che non ha potuto dirsi, si rivela, è che si tratterebbe di una “messa in atto” completamente ignorata dal soggetto, che ripete, tramite un agire in atto, la scena inconscia del suo fantasma, senza sapere se si tratta di una ripetizione. Visto da questo punto di vista, l’agire, sarebbe innanzitutto pulsionale: si troverebbe di fatto, preso in questa nozione di costrizione e di coazione alla ripetizione, in una specie di automatismo che mirerebbe solamente all’effetto immediato che questa ripetizione gli procura. Dal lato etimologico, l’agire viene definito come un verbo attivo, come una tenuta dalla parte del soggetto, un “passare all’azione”, ma una volta preso nell’automatismo della ripetizione, ci fa capire tutt’altro, ovvero che, per la psicoanalisi, non è il soggetto che agisce, ma è lui che “è agito”, se possiamo esprimerci così: è sottomesso alla logica del suo inconscio, ovvero ai suoi automatismi di ripetizione. Fin qui non vi racconto niente di nuovo, ogni soggetto è preso nella propria compulsione alla ripetizione imposta dall’inconscio. Proviamo a fare un passo ulteriore, interroghiamo l’agire, ma anche i suoi effetti, soprattutto come Lacan ha potuto servirsi dell’Agieren freudiano per elaborare i suoi punti d’atto. Vi ricordo che la traduzione inglese di Agieren è quella di acting out e che in mancanza di una traduzione soddisfacente in francese, è il significante inglese che ha fatto funzione nello scenario psicoanalitico francese. Solamente che l’acting out non risponde a tutte le situazioni cliniche in cui è coinvolto l’agire, ed è Lacan che ha introdotto una traccia strutturale e differenziale di queste questioni. Ha mantenuto il termine acting out, e ha ripreso il termine di passaggio all’atto, termine originario della psichiatria classica, per proporre una lettura clinica e sfumata dell’agire freudiano. Ma ecco, chi parla di punti d’atto dice punto di oltrepassamento, superamento, punti di trasgressione: un altro significante che merita di essere messo al lavoro. Trasgressione, dal latino transgressio – camminare attraverso, aldilà –, funziona in rapporto ad altro, a impietosire per qualcosa, a invadere. Agere e trasgressione non hanno radici comuni, ma possiamo dire che sono in sequenza l’uno dell’altra. Dirigersi verso, per andare aldilà. Dopo tutto cosa ci spinge ad agire, a trasgredire? Qui siamo in una questione in cui si mette in gioco il corpo, dove si mette in movimento, dove c’è del pulsionale. Trasgressione, va intesa sotto forma di un superamento, di una traversata, d’un andare aldilà. Si capisce d‘altronde tutta la dimensione che ciò implica; ovvero che, “andare aldilà” vuol dire che si va da un punto A a un punto B, che in questo tragitto c’è un prima e un dopo. Ciò implica un movimento preso in uno spazio-tempo ben localizzato. Qual è
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questo spazio-tempo di una traversata, di un andare aldilà? Se non la traversata della cura stessa. Atto, passaggio all’atto. Procediamo. Clinicamente parlando, qual è l’interesse di cogliere questi modi dell’atto nella cura? Questi punti d’atto sono un equivalente dei punti d’identificazione del soggetto, ovvero, è nell’après coup di uno dei suoi tre punti che identificheremo, localizzeremo il soggetto. Si tratta d’un ulteriore punto di riferimento clinico. Se finora abbiamo affrontato queste questioni piuttosto dalla parte dell’analista, proviamo ora a vedere quello che succede sul lato dell’analizzante. Perché non dimentichiamo che una volta preso nell’esperienza analitica, è il transfert che va a svegliare questi punti d’atto sul lato dell’analizzante. A proposito di questo, userò una tabella introdotta da Lacan nel seminario X, “L’angoscia”, una tabella che Lacan chiama la tabella degli affetti.
È una matrice che verrà sviluppata nel corso del seminario X e che Lacan riprenderà, anni dopo, all’inizio del seminario XXII, RSI. Come funziona? Abbiamo nove caselle organizzate in forma di griglia, nove caselle situate su tre piani diversi sviluppate su due assi: un asse del movimento e un asse della difficoltà. Si riconosce il metodo lacaniano, ovvero che Lacan si appoggia all’ordine matematico per fa parlare il discorso psicoanalitico. Sappiamo anche che non si fa scrupoli a modificare l’ordine matematico quando questo è utile per dire quel che intende dire. Allora, cosa ci dice questa tabella? Possiamo supporre che in quanto matrice questi significati sono collegati, articolati, che qui formano un insieme. Come vi ho detto questa matrice ci interessa per la messa in relazione che propone tra questi affetti-fenomeni e questi punti d’atto. Lacan come il suo solito, ci dà qui una lettura strutturale. Questa tabella degli affetti non va confusa con l’affettivo, come saremmo tentati di supporre,
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perché quando leggiamo significanti come turbamento, emozione, imbarazzo… è come se Lacan ci tuffasse in un discorso sentimentale, mentre non è affatto ciò di cui si tratta. Analizziamo da vicino questa tabella, prendiamo l’inibizione: da qui inizia questa matrice. Nell’inibizione, dunque, si tratta dell’arresto del movimento, della “frenata” prodotta dall’angoscia davanti al sessuale. È interessante notare che Lacan mette il desiderio nella stessa casella dell’inibizione – qui il desiderio appare come desiderio proibito – è stupefacente che ambedue occupino lo stesso posto strutturale. Avremmo detto volentieri che l’inibizione fosse il contrario del desiderio, ma invece no, seguendo questa matrice: ciò che si oppone al desiderio non è l’inibizione, qui il desiderio è inibito, ma ciò che polarizza questo desiderio inibito è proprio l’angoscia. L’inibizione e il desiderio sono qui polarizzati nei confronti dell’angoscia, il desiderio come punto morto, punto d’inibizione e l’angoscia come il punto che si avvicina di più all’oggetto che causa questo stesso desiderio. Ora, in altri momenti, Lacan colloca l’atto nella stessa casella dell’inibizione. Inibizione, desiderio, atto, tutti e tre fanno parte dello stesso posto strutturale. Partendo da qui, si pone una questione, ed è, d’altronde, una delle ragioni per cui ho scelto di mettere questa tabella. Ecco la questione: seguendo questa matrice che cosa si opporrebbe all’atto se non la paura dell’angoscia? Lacan usa questa espressione che parla da sola, “l’analista ha orrore del suo atto”7, ma credo che possiamo senza difficoltà generalizzarla dicendo che “il soggetto ha orrore del suo atto”, la natura ha orrore del vuoto! È qui che diventa molto istruttiva questa matrice, poiché vedremo tutta una serie di affetti dispiegarsi tra questi due poli: inibizione/desiderio/atto – angoscia. Da un lato abbiamo gli affetti che mettono in difficoltà il soggetto: l’impedimento, l’imbarazzo e dall’ altra parte gli affetti che mettono in movimento il soggetto: l’emozione, il turbamento. Sottolineo anche che questi due altri modi dell’atto – acting out e passaggio all’atto – sono al crocevia di tutto questo. Facciamo un giro tra queste caselle. Impedimento: essere impedito, impedicari, vuol dire “essere presi in trappola”, per ricordarci che la trappola consiste nella cattura narcisistica, nel rimanere catturati davanti alla propria immagine. È anche “mettere qualcuno nell’impossibilità di agire”. Impedimento si traduce con un “non poter” fare. In questo ha a che fare con l’impotenza. Vi ricordate dell’ana-
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J. Lacan, Proposition du 9 octobre 1967 sur le psychanalyste de l’École , art. cit., p. 252.
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lizzante che faceva di sua moglie “une empêcheuse”8 e, tutta l’impotenza che egli avverte da sempre in sé, si riassume nella difficoltà a porre pienamente il suo atto. Imbarazzo, “è esattamente il soggetto S rivestito della barra”, “quando non sapete più che farne di voi, dove vi infilate, dietro cosa vi riparate, si tratta proprio dell’esperienza della barra”. Lacan aggiunge ciò che c’è “di troppo” nell’imbarazzo. Ma qual è la natura di questo “di troppo”? Si potrebbe immaginare che questo “di troppo” sia una metafora del fallo. Nell’epoca classica, una donna incinta era chiamata una donna impedita. Impedita e poi gravida, l’embarazada… Un significante che rimanda a un altro significante, una lingua che rimanda a un’altra lingua. “Ecco per il grado di difficoltà, questa leggera forma di angoscia che si chiama imbarazzo”. L’imbarazzo è il massimo di difficoltà raggiunta. Prendiamo l’asse verticale, quello che rappresenta la linea del movimento. Questa linea parte dal posto strutturale del desiderio e scende verso il godimento. Ne consegue l’emozione: E-mozione, etimologicamente si riferisce effettivamente al movimento, “gettare fuori”, il movimento che si disunisce. Nell’emozione c’è anche “non sapere” come fare… Turbamento, schiacciare, turbare, spaventare, privare delle proprie forze, far perdere potenza, una potenza che fa difetto. Esmagar in portoghese – schiacciare –, smagare in italiano – scoraggiare –, è la preoccupazione che fa andar fuori di sé, è un “turbarsi”, “depotenziarsi”. Lacan associa questa caduta di potenza alla caduta dell’oggetto piccolo (a). Il turbamento sarebbe qui un avvicinarsi all’oggetto del desiderio, senza però essere preso dall’angoscia. Il sintomo, al contrario dell’impedimento, è assolutamente potente, è anche una formazione di compromesso; quindi, è piazzato in mezzo alla tabella, nel posto centrale. È legato con tutti gli affetti che creano la difficoltà e il movimento, tocca anche i due punti d’atto; comunica con l’inibizione e l’angoscia come mezzo regolatore. Arriviamo al passaggio all’atto: Lacan dà come esempio il caso della giovane omosessuale, affermando che il passaggio all’atto della giovane omosessuale si scatena dalla congiunzione tra l’imbarazzo, il massimo di difficoltà – il “di troppo” – dell’emozione, e il buttarsi fuori. Conosciamo la storia: sotto lo sguardo fulminante ed imbarazzante del padre, la signora la lascia e l’emozione conseguente è quella di gettarsi da un ponte sulle rotaie del treno: “sotto lo sguardo del padre”: in primo piano l’ogget8
Letteralmente il termine empêcheuse significa: “colei che impedisce”; non un semplice “impedimento”, dunque, ma colei che lo pone in essere.
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to piccolo a, e con lui l’Altro che incarna l’autorità (il padre). Poi abbiamo le parole della signora “ti lascio”, signora che qui è un equivalente fallico per la giovane omosessuale; poi abbiamo il punto di caduta, il passaggio all’atto, “gettarsi sulle rotaie”. Qui vediamo una concatenazione, una sequenza che definisce una struttura, vediamo cioè che la congiunzione sincronica tra l’oggetto, la legge, la carenza fallica, produce un passaggio all’atto. Alla fine di questo seminario, Lacan parla del passaggio all’atto come di un fantasma di suicidio. D’altronde diceva che il suicidio era l’unico atto riuscito. È una distinzione clinica molto interessante: quella tra un passaggio all’atto come un fantasma di suicidio, un “gettarsi fuori dalla scena” e ciò che sarebbe un tentativo di suicidio propriamente detto, ovvero, quando riesce, il prodotto di un atto vero e proprio. Sappiamo, per esempio, che alcuni passaggi all’atto non mirano direttamente a morire, un fantasma di suicidio non è un desiderio di morte. Possiamo aggiungere che il passaggio all’atto corrisponde al momento in cui il soggetto oscilla nei confronti dell’oggetto, fino a identificarsi all’oggetto deluso dell’Altro, scarto, resto…: punto maggiore d’identificazione, ovvero un omomorfismo del soggetto e dell’oggetto. [$ ◊ a] è una scrittura di Marcel Czermak. C’è sempre un irreversibile nel passaggio all’atto. Sono momenti molto localizzati, in cui il soggetto non c’è più effettivamente, ma c’è paradossalmente tutto intero. Si dice spesso che il passaggio all’atto avviene fuori transfert. Ma prima di buttarsi nel vuoto, l’Altro era tutto lì, quindi è scatenato anche dal transfert. Diciamo che il passaggio all’atto ha la particolarità, di trovarsi fuori linguaggio, ovvero, “agisco là dove non penso”. È interessante constatare che ciò che del simbolico appare disarticolato durante il passaggio all’atto, non è altro che una ricerca feroce di ritrovarlo. L’acting-out è caratterizzato da un transfert agito. L’agito è un far vedere; si tratta d’una dimostrazione fallica indirizzata all’Altro. Il soggetto è messo in gioco in quanto fallo. Qui un altro punto di identificazione, essere/avere il fallo. Bernard Vandermersch utilizza questa formula, in cui nell’acting out “ciò che non può farsi capire si rivela”. Lacan dà anche come esempio dell’acting-out il caso della giovane omosessuale: i suoi agiti corrispondono a farsi vedere al braccio della signora nella scena sociale, certo non ha un bambino da suo padre, ma ha la signora. Ora, un acting-out può oscillare verso un passaggio all’atto: lo dimostra in modo esemplare il caso della giovane omosessuale; questo momento di torsione, di oscillazione tra acting-out e passaggio all’atto, in cui si fa vedere con la signora (acting out), e fa interpretazione l’intrusione dello sguardo paterno. La signora la lascia, destituita del fallo, si lascia cadere sulle rotaie (passaggio
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all’atto). C’è nell’acting out un’altra particolarità, cioè che se si offre all’interpretazione, l’acting out resta ininterpretabile. Ho lavorato per 20 anni in un servizio di psichiatria e dipendenze, un servizio specializzato per tossicodipendenti: una clinica che mostra, in modo quasi caricaturale, questa oscillazione tra acting-out e passaggio all’atto. Si tratta di pazienti che arrivano spesso sotto l’effetto della droga, una volta, due, tre volte, fino alla volta di troppo, e che finiscono per farsi fuori, per un gesto di troppo, una minaccia di troppo, un affidamento di troppo. Ciò che è molto difficile in questa clinica, Clinica dell’atto, è di resistere all’appello, e di preservare i pazienti e noi stessi dai nostri agieren inconsci, l’automatismo di ripetizione è un inferno… succede a tutti! Se l’acting out punta al soggetto come fallo, allora il passaggio all’atto lo riduce all’oggetto (a). Parlando soggettivamente non è lo stesso posto, a seconda se faccio vedere che sono/ho il fallo, oppure che sono ridotto all’oggetto. Non sono gli stessi punti di identificazione, né lo stesso tipo di godimento. Ora, ricordiamoci che l’acting out e il passaggio all’atto hanno a che fare con l’identificazione, perché ogni soggetto domanda di essere riconosciuto, ogni soggetto cerca di farsi riconoscere nel suo atto, anche se in questi due casi, questo riconoscimento avviene solo nell’après coup e a condizione che qualcuno sia lì per capire qualcosa e farne la lettura. L’acting out si fa leggere immediatamente perché si tratta di una entrata nella scena indirizzata all’Altro, mentre, al contrario, il passaggio all’atto è un salto fuori dalla scena e dal transfert. Infine, ultima casella: l’angoscia. L’angoscia è un affetto e, come affetto, non è rimosso. Lacan riprende Freud: L’affetto è disancorato, va alla deriva, lo si ritrova spostato, folle, capovolto, metabolizzato, ma non è rimosso. Ciò che è rimosso sono i significanti che la fissano.9
Da qui la difficoltà di nominare l’angoscia, poiché non c’è accesso ai significanti che possono potenzialmente nominarla. “Angoscia di cosa? Non so, sono angosciato”. Conosciamo questo, questa difficoltà di articolarla, non si riesce a darne parola. Lacan direbbe che l’angoscia non è senza oggetto; il fatto che non ci sia non è perché non si sappia di quale oggetto si tratti, come per la fobia. Lacan dirà anche che l’angoscia è sempre nell’attesa di qualcosa…Cosa attende l’angoscia? In questa ma9
J. Lacan, Le séminaire (livre X) – Angoisse 1962-1963, ALI, Leçon I, 14 novembre 1962, p. 20.
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trice, appare nel polo opposto dell’atto. Do per scontato che sappiate che due poli opposti si attraggono. Possiamo anche dire che il coraggio dell’atto, la sua trasgressione, il suo andare aldilà, è il mettersi a rischio nell’innominabile di questo affetto misterioso, inquietante e potente che è l’angoscia; ovvero che il coraggio sta nel mettersi a rischio in questo luogo senza nome, si tratta di fare la prova del reale senza alcuna garanzia di riuscirci, ma di andarci comunque. Ora, l’oggetto senza nome dell’angoscia, non è altro che l’oggetto piccolo a causa del desiderio, e direi che il coraggio sta nell’andare a incontrare questo oggetto causa del desiderio, del proprio desiderio nel campo del reale. Detto questo, la pienezza dell’atto è solo possibile nel suo après coup, solo dopo che si potrà dire cosa è successo, se c’è stato o meno l’atto. Di questi tre punti d’atto, si può dire che producono ognuno tre punti di caduta, ovvero identificazioni distinte. L’atto fonda il soggetto diviso del desiderio (S/), il, passaggio all’atto fa assomigliare il soggetto all’immagine dell’oggetto caduto (l’oggetto a), e l’acting out mostra immaginariamente il soggetto in tutta la sua potenza fallica [-ϕ]. Ma allora cosa dire di un atto che non trova il suo punto di caduta, cosa succede a un atto incompiuto? Perché questa è anche una costante della clinica quotidiana! Quando il soggetto non sostiene il suo atto, quando ciò che voglio non corrisponde a ciò che desidero, quando non sono pronto a pagare simbolicamente il prezzo che questo mi costa. Per tornare all’inizio del mio intervento, “all’inizio era l’atto”, qui si tratta proprio dell’assassinio del padre reale, poiché la possibilità di un atto riuscito, ovvero di un atto che fonda il soggetto del desiderio nella sua pienezza e nella sua divisione, è condizionato da questa operazione primaria, quella che instaura la funzione del padre simbolico a livello della struttura. Lacan segnala che questa operazione paterna è un’operazione opaca, non si sa niente di quanto è successo là per un soggetto. È dunque solo tramite queste messe alla prova del reale, questi agiti che possiamo testimoniare o celebrare questa funzione paterna, ovvero, detto altrimenti, è nel reale che si può verificare per un soggetto come ciò si è annodato e ancorato. Questo mi fa pensare a un altro analizzante, anche lui molto inibito sessualmente, socialmente e affettivamente, uno che aveva interrotto la sua prima tranche di analisi, con la sensazione di non crederci più, che non ce la faceva più, era scoraggiato, non aveva più fiducia. Dopo l’inizio della pandemia, dopo quattro anni da questa prima tranche, torna, riprendiamo le sedute, sempre vis à vis, fino ad allora non l’avevo ancora steso sul lettino. Un giorno mi chiama per avvertirmi che aveva avuto un contatto con un positivo, e mi fa “questa proposta”: “sarebbe d’accordo a
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fare una video seduta?”. Viste le sue inibizioni, ero anche stupita. Dunque, all’ora della seduta lo chiamo (mi sono organizzata in questo modo: sono sempre io che chiamo al momento di una seduta telefonica o di una video seduta, sono sempre io che in qualche modo apro la porta della sala d’attesa). Lo chiamo all’ora della seduta, la mia immagine è già sullo schermo quando si connette, ecco che entro in casa sua e in quel momento diventa tutto rosso, imbarazzato e mi chiede: “mi può aiutare per favore, non so cosa dire, ho un vuoto”. Gli chiedo se vuole spegnere il computer e continuare la seduta al telefono. Mi dice: “no, possiamo continuare così”. A poco a poco, ha iniziato a parlare. Si tratta di un uomo di quarant’anni che non ha mai abbracciato una ragazza, ed era ancora vergine in quel momento. Ora, tra questa immagine di una donna che entra in casa sua, e il tempo che ci è voluto perché questa immagine venisse a raccordarsi, nel luogo del transfert, alla funzione dell’analista, in questo lasso di tempo si è prodotta una scena fantasmatica che ha determinato degli effetti reali di corpo. Prima diventa tutto rosso, poi pallido, “ho un vuoto”. Questi effetti di corpo e di linguaggio sono continuati fuori dalla seduta, poiché dopo poco tempo, mi annunciò che una donna l’aveva corteggiato, e che si era lasciato andare a un primo bacio. Si è iscritto ad un sito di incontri e infine ha incontrato una ragazza che gli sta a pennello, poiché anche lei ha le sue inibizioni, anche lei ha avuto il primo rapporto sessuale solo a 40 anni. Quindi con lei la relazione si scrive in qualcosa di possibile e assai speculare, “è il mio alter-ego donna”. Allora mi dice: “Ecco, grazie, mi fermo qui, mi sento bene, non ho più bisogno di incontrarla”. Gli faccio notare che la sua analisi non era finita, ma che dopo tutto faccia come vuole. Mi richiama quattro mesi dopo, molto angosciato, è urgente, lo ricevo. Aveva invitato la sua ragazza per un week-end in spiaggia. Ed eccolo, per la prima volta, al volante della sua macchina con una donna a bordo. Mi racconta che attraversando il ponte della Normandia: non so se conoscete questo ponte, ma dà abbastanza le vertigini, quando vi si entra c’è un vero allargamento dello spazio. All’entrata del ponte, dunque in questo momento, quest’uomo è preso impulsivamente da una fobia, ed è attraversato da quest’ idea: “andare a buttarsi dal ponte con la macchina e l’amica”, rimane paralizzato dall’angoscia, contratto, aggrappato al volante, per impedire un colpo di follia. Una fobia impulsiva consiste nel timor panico di commettere un passaggio all’atto. Potete vedere bene che quello che stava succedendo, come una promessa di atto di desiderio, portare per la prima volta una donna per un week end al mare, diventi nella traversata dell’atto (del ponte) un passaggio all’atto immaginario, anche qui con effetti reali di corpo:
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vertigini, tachicardia, sudorazione, etc. Un “gettarsi dal ponte” che gli ha rovinato tutto il week-end da innamorati. Dopo di ciò si è installato come una compulsione, un automatismo di ripetizione, poiché continua ad avere dei flash in cui getta la sua amica nelle rotaie della metro, oppure è invaso dall’idea di farle del male, etc. Ha una terribile sofferenza, un enigma, non capisce, perché l’angoscia maggiore è comunque quella di perderla; mi dice che non troverà mai più un’altra donna come lei, allora perché vuole sbarazzarsene? Qui l’ambivalenza è al suo apice. Ora è sul lettino, e tutto questo è messo al lavoro. Per finire con questa matrice degli affetti, proseguo nel mio campo preferito, quello della topologia lacaniana. Eric Porge propone di leggere questa matrice come una treccia borromea. Allora, consideriamo ognuna di queste colonne come fosse una di-mensione, rispettivamente, ISR, Immaginario, Simbolico e Reale. Inibizione, sintomo ed angoscia. Mi lancio in questa dimostrazione facendovi osservare che una treccia a sei incroci (riprendendo i punti d’incrocio di questa tabella) produce un nodo borromeo a tre. Detto altrimenti, se ci riferiamo agli ultimi insegnamenti di Lacan, la scrittura stessa del linguaggio. Questo illustra la complessità, le correlazioni, le oscillazioni, i tipi delle risposte possibili del soggetto nei confronti del linguaggio, dell’Altro e del proprio inconscio. Fare di questa matrice un annodamento borromeo mostra anche che c’è una circolarità, a volte un effetto di continuità tra questi significanti, da prendere in considerazione. “Fare nodo”, annodare, è anche un atto che circoscrive un vuoto; il cuore del nodo è lo spazio in cui Lacan posiziona l’oggetto (a). Possiamo dire che è lo spazio in cui localizza la posizione strutturale del desiderio dell’analista. Per concludere Arriviamo qui alla fine di questa traversata, siamo ben lontani dall’aver esaurito tutte le questioni che ci pone l’atto psicoanalitico. È un campo immenso, come abbiamo detto; l’atto è all’inizio e al cuore della nostra pratica. Abbiamo visto che i punti d’atto mostrano il soggetto nelle sue realtà puntuali, ma poniamoci la domanda: l’atto nell’analisi è sempre un atto senza soggetto? È vero che nel discorso analitico, troviamo l’oggetto (a) al posto d’agente e il soggetto $ dal lato dell’analizzante. Ma possiamo sostenere che l’atto psicoanalitico nella cura sia un atto attento e responsabile, nel senso in cui, a mio avviso, non si tratta d’un bricolage; bisogna sapere ciò che si sta facendo, sapere da dove si parte, anche se non
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si ha nessuna presa sugli effetti reali di ciò che si sta facendo. Si può dire che l’atto dello psicoanalista nella cura è un saperci fare col reale, già col proprio reale, ma anche col reale di chi sceglie di fare un’analisi. Ora vorrei dire che l’analista prende una direzione, che orienta, che prende posizione ogni volta che apre bocca: è già tanto anche quando non dice niente. La preoccupazione sta nel fatto che a nostra insaputa, abbiamo tutti un ideale di cura, un ideale di “salute mentale”, di quella che sarebbe la buona direzione da prendere: data la neutralità della psicoanalisi, vorrei proprio che mi si spieghi…Ricordiamoci anche che lo spazio-tempo di una cura, è un luogo in movimento, vivo, coinvolgente; si sa qual è il momento della partenza, spesso l’atto di entrare in una cura si produce tramite il sintomo, ma una volta dentro, non sappiamo verso dove si va, né quando si esce! Quando si riesce ad uscirne! Non è una vittoria per tutti, lo sappiamo. Analisi finita, analisi infinita. L’atto psicoanalitico, l’atto attraverso il quale l’analizzante diventa analista, sarà uno degli esiti possibili di questa traversata, ma non è il solo, perché non tutte le cure producono un analista. Comunque, se c’è un atto d’entrata, quello dell’uscita sarà ancora più decisivo e più radicale; sarà un atto di nascita, un “mettersi al mondo”, un’ispirazione/respirazione, un autorizzarsi ad andare al di là… Si tratta di un al di là in cui il soggetto possa, semplicemente, godersi la vita, la concretezza della vita, con le sue gioie e i suoi dolori. L’Ornicar, “tu puoi sapere” dell’esperienza analitica. Sembra introdurre per il soggetto la possibilità d’una scelta. Scelta che va al di là di una scelta buona o cattiva, perché ciò che caratterizza una scelta non è di essere buona o cattiva, è piuttosto un taglio. È la possibilità di dire: ecco, interrompo o meno il mio assoggettamento alla ripetizione? Vediamo bene nella nostra pratica che spesso il reale non cessa di scriversi. L’uomo è in grado di fermare l’automatismo della ripetizione? Si guarisce dal proprio inconscio, dal proprio fantasma? Lacan propone un andare al di là dell’inconscio freudiano, del Unbewusst freudiano, appellandosi ad un nuovo significante: lo troviamo ne L’Insu que sait d’une-bévue s’aile à mourre. Ora, purtroppo non si possono comandare le condizioni d’un significante nuovo! Mi sembra che questo riveli del reale, come per l’atto. Di solito d’un reale puramente contingente, dell’inatteso di un incontro, e quando dico incontro, conta anche nell’automatismo! Perché lo specifico di un incontro sta quando tocca un pezzo di reale. Sapete che Lacan, in questo stesso seminario, rinnova la sua definizione di reale, dicendo che: “il reale è il possibile nell’attesa che si scriva”. Vedete non è più il reale come impossibile, ma si tratta d’un reale contingente, nell’attesa di scrittura. Allora, una cura analitica permette questa scrittura del reale?
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Una scrittura dell’inconscio e finalmente del suo al di là. Sì, per la scrittura dell’inconscio, è il lavoro stesso di una cura, ma per l’al di là, stranamente, ciò dipenderà in parte dalla scelta dell’analista. Come nell’amore, ci sono transfert che fanno avanzare, altri che inibiscono, bisogna dirlo: in ogni caso per andare al di là, ci vuole coraggio, si sa cosa si lascia dietro, ma non si sa cosa ci aspetta, forse niente, altra cosa forse, ma se non si passa all’atto come lo si può sapere?
Lontano da niente. Atto, ripetizione, transfert1 Chiara Matteini
Vi propongo un tragitto particolare, spero non troppo tortuoso, per provare a declinare una possibile lettura dell’atto psicoanalitico. Proverò a evidenziare le caratteristiche che penso distinguano l’atto analitico attraverso: la distinzione fra agire e atto, il rapporto originario fra agieren, ripetizione e transfert. Proporrò un breve accostamento del rapporto ripetizione e transfert nell’analisi e nella poesia. Cercherò poi di soffermarmi sulla questione dell’atto come questione che chiama in causa tutti i paradossi della teoria psicoanalitica, con alcuni casi classici del secondo tempo della psicoanalisi. Tutto ciò per dimostrare come in ogni analisi sia costante un doppio movimento, di allontanamento e di avvicinamento a quello che l’incontro può consentire. Mi soffermerò poi su una mia lettura dell’impasse come forma potenziale di atto analitico. Primo tempo: Atto e agire Attorno all’atto psicoanalitico, e prima ancora all’agire, che con esso in realtà non coincide affatto, ma che inevitabilmente si situa in una prossimità, semantica, concettuale, teorica, si costituisce una sorta di sistema paradossale. C’è uno scandalo nel rapporto fra l’atto di parola e l’azione, fra il pensiero e la scarica motoria, coppie tutt’altro che pianamente ossimoriche. Nella lettura freudiana la distinzione fra parola e azione è ambigua e incerta nella costruzione del mondo dell’ossessivo, così come il discorso dell’isteria condensa, nella scarica, una parola/rappresentazione, che fissa il mondo conosciuto a quell’immagine, a quell’azione, a quel nodo incrociato fra atto sintomatico e atto rappresentativo. Stia zitto! non parli! non mi tocchi, questa la formula protettiva, come la definisce il Freud degli Studi sull’Isteria, di Emmy von N., ipotizzando che la paziente si trovi “sotto l’impressione di un’allucinazione terrificante ri1
Lezione del 26 marzo 2022 (testo rivisto dall’autrice).
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corrente e si difende con questa formula contro l’intromettersi di materiale estraneo”2. E tuttavia noi potremmo prendere l’indicazione di Emmy come formula originaria di un tabù alle radici della storia psicoanalitica. Dal negativo di quell’indicazione nasce in fondo la costruzione di un setting attorno all’inibizione della scarica motoria, al privilegio della parola del paziente, alla necessità di un’inattività programmatica, quanto complessa e contestata nelle sue forme lungo tutta la storia psicoanalitica, dell’analista. Forse si deve a questo l’attenzione costante, a volte feticistica, della teoria psicoanalitica per i gradi, le sfumature, le piegature di ogni possibile agieren che attraversa il campo. Agire, acting in, acting out, passaggio all’atto, e così via fino all’enactment, punto di repere di parte della teoria intersoggettiva contemporanea. Tentativi, a volte surreali, di definire le modalità in cui la vita prende forma nella cura, come voler classificare le gocce di pioggia senza guardare il cielo. All’interno della teoria l’agieren freudiano si lega attraverso il caso di Dora alla comparsa del transfert, e dunque alla ripetizione. È di fronte a Dora, alla sua messa in atto di ciò che l’analista pare non vedere e non sentire, che Freud è costretto a contemplare, uniti in questa apparizione, la forza della ripetizione e la forza del transfert. “In tal modo ella mise in atto (agieren) una parte essenziale dei suoi ricordi e delle sue fantasie, invece di riprodurla nella cura”3. Ripetizione, agire e transfert sono inizialmente legati in un nodo, quello dello scacco che Dora infligge a Freud, e al primo abbozzo del dispositivo analitico in costruzione. Poi il destino di ciascuno di questi concetti segue vie differenti. Scrive Fachinelli nel Il paradosso della ripetizione: Quanto alla nozione di Agieren, il suo destino, per le stesse ragioni di separazione, è stato opposto [a quello del transfert] e perfino sinistro. Nella traduzione inglese, esso è diventato acting out. […] In tutti i casi si perde di vista il problema di un agire ridotto a messa in scena, a “ripetizione generale”; di un’esperienza nulla, inutile, nel momento stesso in cui se ne moltiplicano le occasioni e le figure. È solo partendo da questo livello zero dell’esperienza, non dalla rimozione, che si può pensare di arrivare a costruire qualcosa che stia in piedi.4
Ma qual è il livello zero dell’esperienza analitica? Potremmo forse iniziare dal fatto che la scena analitica tenta di istituire un luogo apparente2 3 4
S. Freud, Studi sull’isteria, OSF, 1, p. 214. S. Freud, Frammento di un’analisi d’isteria, OSF, 4, p. 399. E. Fachinelli, Il paradosso della ripetizione, in Il bambino dalle uova d’oro, Milano, Feltrinelli, 1974, p. 225.
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mente fuori tempo e fuori storia per far sì che altri tempi ed altre storie vi possano comparire. Quindi indubbiamente l’atto analitico, di qualsiasi cosa esso sia il nome, si costituisce come tale solo après coup, come nota Lacan. Concordo pienamente con questa posizione. Non potremmo forse pensare che è nel gioco paradossale fra ricerca dell’immobilità (inibizione della scarica motoria, definizione del tempo e del setting, privilegio alla parola, distonia del ritmo analitico rispetto al ritmo dell’esistenza) e ciò che non riesce a comparire che dobbiamo immaginare quello che l’analisi fa o non fa, per rievocare la domanda che Lacan si pone all’inizio del seminario XV, e aggiunge poi, che certo la psicanalisi fa qualcosa, così come la poesia, anche se forse in modo differente. Questa osservazione di Lacan la trovo piena di possibili traiettorie, ci ritorneremo brevemente in seguito. Questo gioco paradossale indica le occasioni, parola montaliana, nelle quali si intrecciano la situazione analitica e il transfert, il transfert e il controtransfert, l’infantile e l’attuale, le supposte regole del gioco analitico e lo spazio dell’illusione necessario a poter davvero mettere in gioco qualche cosa. Vorrei provare a percorrere un sentiero a partire da un altro paradosso. Potremmo dire che l’atto analitico è il tentativo di dare spazio ad una ripetizione che non ha mai avuto luogo? Se riflettiamo infatti sulle differenti inclinature dell’asse ripetizione/ transfert, quelle che con de M’Uzan potremmo chiamare identico/stesso o con Fachinelli i due lati della ripetizione, quello aperto della ripresa e quello chiuso della replica e della riduzione, ci accorgiamo che spesso l’analisi si gioca su questa attesa dell’inatteso, che tenta di incrociare la ripetizione e allo stesso tempo di far comparire quello che non era mai comparso. Maurizio Balsamo parla a questo proposito, in Movimenti dell’identico nella relazione analitica, di una “nostalgia di un non ancora tradotto, di un intraducibile, o di un sempre ancora da tradurre”5, come dello spazio nel quale le infinite modulazioni della ripetizione possono comparire, e questo forse ha a che fare con quello che anche fa la poesia, nella mia lettura. La questione della nostalgia, nelle sue varie declinazioni (sehnsucht freudiana, aspetto ripetitivo/melanconico di un impossibile da lasciare, affetto senza oggetto di un vuoto, potenziale apertura ad un futuro) si collega a ciò che fa freudianamente la narrazione (quella del fratello dell’orda), o la poesia. Pasolini scrive: la conoscenza è nella nostalgia. /Chi non si è perso 5
M. Balsamo, Movimenti dell’identico nella relazione analitica, “Psicoterapia e scienze umane”, XLVII, 4.
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non possiede6. Cosa fa la poesia? Prendere una parola, una porzione di linguaggio, corroso, pieno di storia e di immagini, diverse per ciascuno, e renderlo di nuovo capace di sorprendere, di immaginare altri usi, altre possibilità, suoni nuovi, eppure allo stesso tempo fare di quella parola l’unica possibile per l’autore di quel verso. È il rapporto fra necessità e potenzialità infinita che fa di una frase un verso, che fa sì che dove noi vediamo soltanto una frase, un poeta possa potenzialmente vedere l’attacco di un verso. Forse è il rapporto fra necessità (del sintomo, del dolore, del destino, di come vogliamo chiamare ciò che porta un’analisi ad aver luogo) e potenzialità (dello spazio, degli scacchi, degli appuntamenti mancati e così via) anche quello che fa di un’analisi un’analisi. Il testo poetico, nelle sue multiformi possibili variazioni (poema, poesia, testo in rima, metricamente ancorato ad un genere o meno) è sempre un testo in cui il rapporto fra parola ed immagine è particolarmente stretto, e nello stesso tempo un testo poetico è un testo più di altri variamente e diversamente smembrabile. Il linguaggio è nella parola poetica, anche in quella novecentesca e contemporanea, che ha giocato e gioca sulla disarticolazione di forme e modi, elevato ad un’intensità superiore, a volte insopportabile. Questa qualità porosa della parola poetica, che consente di collegare un’immagine alla lingua, allo stesso tempo rende la pratica della disarticolazione di un testo poetico, in qualche modo quasi naturale, o almeno non innaturale quanto nella prosa o nel saggio. Ogni verso può viaggiare da solo, slegato dal suo contesto, nello stesso tempo mantenendo quell’impronta, quell’eco, eppure suonando del tutto nuovo a chi lo ascolti per la prima volta, slegato dal suo inserimento originario. Questo sistema continuo, di passaggi, traslitterazioni, traduzioni, deformazioni, genera nel tempo sopravvivenze, ripetizioni in testi differenti, una rete di parole che non consente mai un’unica interpretazione. Un funzionamento reticolare che, come si intuisce, ha molto in comune con il lavoro dell’analisi, non soltanto con la libera associazione, ma anche con la destrutturazione di tempi, spazi e realtà. Così come il rapporto che nella poesia si genera fra la parola e l’immagine è un rapporto non assimilabile a quello di altre forme di scrittura. “E bianca neve scender senza venti” (Cavalcanti “Biltà di donna e di saccente core”) “Come di neve in alpe sanza vento” (Dante, Inferno, XIV, 30) 6
P.P. Pasolini, Poesie inedite, in Bestemmia. Tutte le poesie, Milano, Garzanti, 1996, p. 1132.
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“Pallida no, ma come neve bianca/che senza vento in un bel colle fiocchi” (Petrarca, Del Trionfo della morte, vv166-167)
Come è noto fra i primi due Calvino istituisce un confronto nella prima delle Lezioni Americane, dedicata alla leggerezza, per indicare due direzioni divergenti della letteratura7. La neve, il bianco, il vuoto e le radici della poesia italiana, come piccola dimostrazione di quello che la poesia fa, e degli infiniti rimandi, traslitterazioni, deformazioni, che consentono al testo poetico di ri-suonare, sempre diverso eppure profondamente intriso di tutte le ripetizioni precedenti. Certo, la neve candida che scende in assenza di vento, nel silenzio di un tempo fermo, è un topos trobadorico che Guido, Dante e Petrarca condividono e tuttavia, come non riconoscere, nelle minime variazioni, di tono, di accento, di metrica, di scelta dei vocaboli e della costruzione, tre posizioni poetiche profondamente differenti? leggerezza (Guido), mondo (Dante), discorso (Petrarca), io le indicherei così, solo per giocare naturalmente. Qualcosa si ripete, ma qualcosa prende anche nuove forme. L’atto poetico dunque, come quello analitico, ha a che fare con la ripetizione, perché, inevitabilmente, ha a che fare con il transfert. Terminabilità e interminabilità dei concetti Il fare no precede il dire no nota Pontalis in No, due volte no (1979), articolando attorno ad un altro concetto feticcio della psicoanalisi, soprattutto della sua epoca, quello di reazione terapeutica negativa, una riflessione tuttora fondamentale sulle forme e sui rilanci, anche potenzialmente vitali, che il fare no propone nel campo analitico. Pontalis osserva che si parla di reazione terapeutica negativa soprattutto in tre casi: 1. per constatare l’impasse, per dare una spiegazione del tutto verbale al fallimento del trattamento 2. più particolarmente quando tale fallimento sopraggiunge o si accentua in fine 3. Per imputarlo al paziente8.
7 8
I. Calvino, Leggerezza, in Lezioni Americane, Milano, Garzanti, 1988. J.B. Pontalis, No, due volte no, in Perdere di vista, Roma, Borla, 1993, p. 101.
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È chiaro che la questione del fallimento analitico, dell’interminabilità dell’analisi, come forma freudianamente demoniaca della ripetizione, ci porta al centro, a mio parere, della questione dell’atto. Istituire per la prima volta uno spazio dove il no possa avvenire, potremmo dire, e attraverso questo spazio, sperimentare quello che è sempre avvenuto senza essere mai stato vissuto. In uno spazio desertificato nel quale la parola dell’Altro è l’unica a risuonare, come può istituirsi un’area per l’analisi? Forse rendendo l’analisi il luogo di un no che non ha mai potuto essere pronunciato. C’è quindi in questa situazione del fallimento analitico una questione legata all’analizzabilità? Già dai concetti che andiamo incontrando (acting, ripetizione, transfert, interminabilità, analizzabilità…) possiamo verificare come occuparsi dell’atto analitico ci metta a contatto con lo scandalo di incontrare molti dei concetti cardine, a volte trasformati in concetti feticcio della storia psicoanalitica. Certo la riflessione sull’analizzabilità, così come la differenza di forme psicopatologiche e di altrettante possibilità di trattamento clinico di queste, non è un problema secondario. Sappiamo tutti come la teoria analitica della nevrosi, della psicosi, degli stati limite o dell’organizzazione borderline, della clinica del vuoto e così via rappresenti un bagaglio immenso, correlato alle differenti impostazioni teoriche, ricco di posizioni divergenti. E tuttavia possiamo dire che spesso la teoria analitica ha reagito agli inciampi e agli scacchi con un’ossessione definitoria che ci rimanda al Freud degli Studi sull’isteria, al continuo ribattere ad un sintomo con un tentativo abreativo, istituendo il meccanismo che in fondo rende ragione della formula anticipatoria di Emmy Stia zitto! non parli! non mi tocchi! rivolta a Freud già nel primo incontro. Scrive Pontalis in No, due volte no: È così che procediamo ad una rassegna, sempre più vasta e raffinata, dei “tipi di personalità” che sarebbero per natura refrattari all’analisi […] Si noterà che è sempre in termini di deficit (carenza fantasmatica, mancanza di elaborazione psichica, etc.) che queste strutture vengono comprese. […] Questo però non significa semplicemente misconoscere il fatto che non vi è analisi efficace, cioè analisi che investa anche l’inconscio dell’analista, se non quella che ci conduce ai limiti, mettendo alla prova i limiti dell’analisi e i nostri stessi limiti? Comunque, gli analisti devono esserne convinti, perché solo i loro casi difficili, i loro casi impossibili danno loro da lavorare, teorizzare, scrivere.9
E aggiunge: 9
Ivi, pp.108-109.
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L’analisi non è né reattiva, figura invertita della pulsione, né reazionaria, terrore rabbioso dinanzi a ciò che di più nuovo potrebbe sorgere dal più antico. Non grida No, nella repulsione, nel rigetto, nella fuga o nell’esclusione. Essa dice il no. Non lo fa, non lo esprime, lo dice, per lo meno quando riesce a dare dei nomi all’innominabile. E, dicendolo, permette la decisione, che è sempre affermazione, sempre separazione. Rompere con il proprio analista, significa conservarlo, e non è affatto la stessa cosa che separarsene.10
Come si vede Pontalis qui definisce chiaramente la differenza fra agito analitico (di un paziente che non può che fuggire, di un analista che non sa aspettare, o non può che reagire) e atto, ovvero la possibilità di dire un primo no, e attraverso di esso, nominare l’innominabile, incontrare il mai conosciuto. I luoghi dell’atto? Il vuoto al centro. L’analisi e il suo doppio movimento Questo ci porta al vero paradosso della ripetizione e di conseguenza di ogni atto analitico, istituire uno spazio per quello che non c’è mai stato, laddove qualcosa è da sempre presente. Questo paradosso è l’inaggirabile di ogni analisi. Ogni analisi si gioca sulla scommessa della ripetizione e allo stesso tempo sull’impossibilità di determinare in quali modi e forme questa si presenterà. Attesa del da sempre conosciuto che abbia la forma di un’inconoscibile. In Niente al centro, un lavoro del 1959, Winnicott racconta uno scambio clinico sorprendente con una paziente, sorprendente non tanto, o non solo, per lo scambio in sé o per la situazione clinica, ma perché documenta uno dei tanti paradossi tipici del pensiero di Winnicott. Questa giovane paziente, dice Winnicott, è nel suo abituale stato di difesa maniacale, in cui tutto va bene e lei è molto amata, ma entrambi, analista e paziente, sentono che dietro questa precaria vitalità c’è altro. La paziente dice a Winnicott che nella sua vita accadono alcune cose nuove, ma che lei, nonostante tutto, rimane sempre la stessa. Winnicott allora dà un’interpretazione alla paziente, le dice che se non accade niente a cui possa reagire corre il rischio di arrivare “al centro di sé stessa, dove sapeva che non c’era niente. Dissi che quel nulla al centro era la sua terribile fame”11. Perché porto questo esem10 Ivi, pp. 127-128. 11 D.W. Winnicott, Niente al centro, in Esplorazioni psicoanalitiche, Cortina, Milano 1995, p. 64.
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pio? Non tanto per sottolineare la posizione clinica, che ha qui a che fare, nella lettura teorica di Winnicott, con gli aspetti dissociativi e con il rapporto fra vero e falso Sé, su cui potremmo discutere a lungo, ma per il senso profondo, paradossale dell’intervento di Winnicott. Penso che in certo modo ogni analisi sia il tentativo di reagire a una serie di eventi, alla vita stessa se vogliamo, per evitare e allo stesso tempo per cercare, il vuoto al centro di tutto quello che c’è. Sulla questione del vuoto Winnicott torna anche in Fear of breakdown, testo cardine cui ha lavorato a più riprese negli ultimi anni di vita, tuttora dibattuto e oggetto di letture polisemiche e anche molto distanti fra loro, come molto del lavoro di questo autore. Dopo aver esposto la tesi principale sulla paura del crollo, Winnicott elenca alcune delle forme che questa paura può prendere nelle situazioni cliniche: paura della morte, vuoto, non-esistenza. Rispetto al vuoto, come condizione che si presenta in analisi, scrive: In alcuni il vuoto deve necessariamente venir sperimentato e anche in questo caso il vuoto appartiene al passato […] Per la comprensione di ciò è necessario pensare non nei termini di trauma, ma di un non essere accaduto niente, mentre qualcosa avrebbe potuto accadere – e ancora – Il vuoto che si presenta in un trattamento è una condizione che il paziente sta tentando di sperimentare, una condizione del passato impossibile da ricordare se non viene sperimentata per la prima volta.12
Come vedete si confrontano almeno due aspetti del vuoto, anche se correlati: un vuoto al quale non si deve arrivare, al quale si reagisce, e un vuoto che è la forma di qualcosa che è mancato, là dove qualcosa avrebbe dovuto accadere. Ovviamente qui Winnicott sta fornendo un esempio di ciò che per lui rappresenta il crollo, qualcosa che è già avvenuto, quando nessun soggetto era là per sperimentarlo, potremmo dire riportandolo con uno slittamento al nostro tema di oggi: qualcosa che è stato subito passivamente, quando nessun soggetto era in grado di produrre un atto. Winnicott ritiene che il vuoto, come condizione clinica, sia il modo di riportare nell’analisi la condizione originaria nella quale non successe niente laddove sarebbe dovuto succedere qualcosa. Si distinguono dunque due campi, quello del trauma, di qualcosa che è avvenuto, che non può essere ricordato, che deve essere ripetuto, e quella di un’agonia primitiva, nei termini winnicottiani, nei quali è il vuoto a rappresentare l’incontro con ciò che non è mai 12 Id., La paura del crollo, cit., pp. 112-113.
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avvenuto. Si aprirebbe qui un campo immenso di riflessioni: quello del rapporto attività/passività dell’apparato psichico, con tutte le teorizzazioni che ad esempio ha fatto Green rispetto alle differenti possibilità di passivizzazione (quella interna dovuta alla pulsione e quella esterna data dall’oggetto). La faglia della teoria e della clinica psicoanalitica contemporanea, faglia che sonda un confine clinico, quello fra la continua ripetizione di ciò che non ha mai avuto luogo e la costituzione di uno spazio nel quale qualcosa possa comparire e dei modi differenti di teorizzare questo spazio. In questo senso attività/passività, dipendenza/onnipotenza, presenza/assenza, impersonale/singolare sono altrettante piegature delle possibilità di teorizzare questo spazio. Sto evidentemente utilizzando, anche in maniera estensivamente impropria, la posizione winnicottiana di niente al centro come paradigmatica di quello che l’analisi fa: arrivare, attraversando tutto quello che c’è, a quello che non c’è mai stato, pur essendo sempre stato lì, l’incontro con il nucleo inaggirabile di ogni essere umano. Ovviamente qui si apre, riferendosi a Winnicott e a Green, tutto l’enorme campo del lavoro del negativo e della posizione fobica centrale, ovvero della riflessione attorno ad aree cliniche in difetto di associatività, così come tutto il campo del traumatico e della paura del crollo, del troppo vuoto e troppo pieno che possono abitare la scena analitica. Questo doppio movimento di avvicinamento e allontanamento dal punctum, che possiamo rintracciare in ogni analisi, quanto ha che fare con l’atto analitico, o con quello che l’analisi fa? Intanto una notazione che mi ha colpito, rileggendo per l’ennesima volta Fear of breakdown ho notato qualcosa nel breve prologo che mi ha risuonato diversamente. Winnicott scrive che il suo obiettivo in questo articolo è quello di comunicare una nuova concettualizzazione della paura del crollo e aggiunge: Ovviamente, se nelle mie parole c’è una qualche verità, i poeti ne avranno già trattato, ma le intuizioni poetiche non possono certo esonerarci dall’arduo compito di procedere, passo dopo passo, dall’ignoranza verso il nostro scopo, che è di conoscenza.13
Mi ha fatto tornare in mente l’inizio del seminario XV con la domanda su ciò che l’analisi fa e l’accostamento alla constatazione che anche la poesia fa qualche cosa. Credo che, in modo molto diverso, Lacan e Win13 Ivi, p. 105.
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nicott parlino qui del fatto che parte di ciò che l’analisi fa ha a che fare con il poter dire l’indicibile, che è la sfida costante dell’atto poetico, prima che di quello analitico. Interminabilità della domanda Credo che dobbiamo qui inserire accanto alla riflessione sulla ripetizione e sulle sue forme, la questione dell’interminabilità dell’analisi. Il problema teorico della terminabilità/interminabilità del lavoro analitico nasce in Freud dall’incontro clinico con la ripetizione, dalla posizione teorica che quell’incontro clinico genera con la seconda topica, e, aggiungerei, dalla sensazione che la questione dell’interminabilità è una questione che si pone, potenzialmente, in ogni analisi. Ho già notato altrove che è curioso come in quel testo, per certi versi anche dal valore testamentario, che è Analisi terminabile e interminabile, Freud faccia ricorso costantemente a figure di animali, reali o immaginari, per definire le sfide insormontabili del lavoro analitico. Anzi in realtà le occorrenze di un bestiario reale e fantastico nelle metafore freudiane, segnala sempre, o così pare a me, un momento di impasse del pensiero, o di particolare densità, difficile da sbrogliare. Qual è il bestiario freudiano che si avvicenda in Analisi terminabile e interminabile? Il leone, che, come è noto, salta una volta sola, i draghi preistorici che forse non si sono mai estinti, come le cose che una volta venute al mondo tendono tenacemente a rimanervi, i cani che non dormono, e se dormono non è in nostro potere svegliarli, è tutto un apparire e uno scomparire di creature vive e non parlanti. Cosa rappresentano tutti questi animali? Probabilmente l’eco di quei lupi, che per primi avevano posto a Freud la questione di quando e come finisca un’analisi, e di come le impasse all’interno di una cura ne orientino il percorso e gli esiti. E perché l’apparente rischio di interminabilità dell’analisi, connesso al costante riproporsi della ripetizione, dovrebbe aiutarci a riflettere su quel che l’analisi fa? Nel caso dell’Uomo dei lupi, in Ricapitolazione e problemi Freud parlando della riattivazione della scena primaria nel Sergej di quattro anni, e nella reazione del Sergej di un anno e mezzo si interroga sul supposto sapere apparentemente strano che sembra già agire nel bambino. Prosegue con il paragonare quel sapere al “sapere istintivo degli animali”14, e usa, 14 S. Freud, Dalla storia di una nevrosi infantile, OSF, 7, p. 591.
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notazione non secondaria, l’aggettivo instinktiv e non triebhaft. In questo momento centrale, temporalmente e teoricamente, della sua teorizzazione, Freud tenta di districarsi all’interno delle questioni, che già aprono la via alla ristrutturazione della seconda topica. Attraverso l’istinto animale fa riferimento all’elemento filogenetico, sul quale continuerà a riflettere fino alla fine, e alla distinzione fra istinto e pulsione, su cui si basa la teorizzazione psicoanalitica del sessuale e conseguentemente dell’apparato psichico umano. In ogni caso potremmo dire che il bestiario freudiano ha un significato, congruente, di hic sunt leones, segnala la frontiera, le terre inesplorate, ciò che non è aggirabile, o che rimane ingovernabile, per usare un’espressione di Massimo Recalcati, nella clinica e nella teoria. La balena e l’orso polare, che segnano l’inizio del capitolo Alcune osservazioni polemiche in Una nevrosi infantile, segnalano l’impossibilità dell’incontro teorico sia “con quegli psicologi e specialisti di malattie nervose che non accettano le premesse della psicoanalisi”15, ma, e aggiungerei soprattutto, con chi, partendo dal mare del Nord della scoperta analitica, pretende di negarne quello che per Freud è il fondamento, il bersaglio sono ovviamente Jung e Adler. Insomma, il bestiario freudiano segnala sempre un punto di torsione, una faglia, una frontiera, teorica e clinica, inesprimibile con figure umane. L’inaggirabile della pulsione, il misterioso quanto controverso aspetto filogenetico istintivo, ma anche l’aspetto vivo di una ripetizione che rappresenta una differente espressione della vita, una vita che segue altre vie, che si presenta attraverso altri registri. In ogni caso nella parte finale del caso dell’Uomo dei lupi è evidente come sia centrale per Freud la necessità di chiarire la questione di una crepa istinto/pulsione, impersonalità/singolarità, che riguarda, ovviamente, anche la polemica con Jung. Seguendo il nostro filo, possiamo tornare brevemente a quella prima impasse analitica, quella di Sergej. Che cosa scrive Freud nel parlare del suo eroico espediente? Per prima cosa precisa che l’analista “se vuole imparare qualche cosa o raggiungere qualche risultato, deve comportarsi, di fronte a un caso del genere, con la stessa “atemporalità” dell’inconscio”16. Sembra dunque invitarci ad attendere, a sostare, a non pensare al tempo breve della nostra coscienza. Poi però aggiunge che questo comporta rinunciare ad ogni miope azione terapeutica. E ci racconta di come il paziente si era isolato in un atteggiamento di docile indifferenza, che lo rendeva inattingibile. 15 Ivi, p. 524. 16 Ivi, p. 490.
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Il suo orrore di un’esistenza indipendente era talmente grande da controbilanciare tutte le pene della malattia. Non c’era che un modo di superarlo. Dovetti attendere che l’attaccamento alla mia persona fosse diventato abbastanza forte da equiparare quell’orrore, poi giocai questo fattore contro l’altro […] a una certa data, indipendentemente dai progressi compiuti, il trattamento avrebbe dovuto concludersi.17
Il leone ha saltato, come dirà il Freud del 1937. Aggiunge poi che, eliminata temporaneamente la resistenza, il paziente “dimostrò una lucidità che normalmente si ottiene solo nell’ipnosi”18. Curioso richiamo al primo tempo della psicoanalisi, la prima impasse richiama l’ipnosi, la forzata attesa nel vuoto richiama, per contrasto, l’iperattività del medico ipnotizzatore. Non parli stia zitto non mi tocchi, continua a risuonare, a volte a vuoto. Come notate il vuoto, nelle sue tante forme, continua a presentarsi, in questo tragitto attorno all’atto analitico. Proseguiamo. Masud Khan descrive, nel lavoro sul segreto come spazio potenziale, il caso di Caroline. Caroline è una giovane donna molto sofferente quando arriva da Masud Khan, grande confusione, disperanti mutamenti di umore che mettono alla prova l’analista e lo psichiatra che la segue farmacologicamente. Eppure, nota Khan: Dopo quasi tre mesi di analisi non sapevo di più, sul suo conto, di quanto sapessi dopo il primo colloquio. […] Un’innegabile atmosfera di segretezza pervadeva tutto il suo comportamento durante l’analisi, ma decisi di accettarla, sia come un suo diritto che come un aspetto del suo spazio privato.19
Qui Masud Khan fa riferimento a Green quando sottolinea l’importanza della capacità dell’apparato psichico “di tenere in sospeso un’esperienza mentre è ancora in corso, non allo scopo di osservare tale esperienza, come nel funzionamento mentale cosciente, ma per metterne a tacere la consapevolezza, onde poterla ricreare in seguito a suo modo. È importante capire che questa frattura, o scissione interna, è una premessa indispensabile allo stabilirsi di ulteriori legami associativi”20. There is a crack, a crack in everything/That’s how the light gets in, direbbe Leonard Cohen. Ma proseguendo nel caso di Caroline ad un certo punto la paziente rievoca in analisi il famoso episodio dei candelieri. Da piccola, dopo il parto 17 Ibidem. 18 Ibidem. 19 M. Masud R. Khan, Il segreto come spazio potenziale, in I Sé nascosti, Bollati Boringhieri, Torino 1990, pp. 110-111. 20 Ibidem.
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gemellare con gravi problemi per le sorelle nate premature, la madre di Caroline si ritira in una lunga assenza depressiva. In quel periodo Caroline ricorda di aver sottratto due candelieri di argento e di averli sotterrati in giardino. Tutti si erano convinti che fossero stati rubati. La famiglia si era poi trasferita e anni dopo, tornata in quella casa dove vivevano dei loro amici, Caroline li aveva dissotterrati e restituiti ai genitori. Il ricordo di questo episodio fa emergere in analisi il ricordo di quegli anni e della grande sofferenza materna. Allo stesso tempo l’analista mette in relazione quest’immagine con gli oggetti continuamente lasciati da Caroline nella sala d’aspetto e immagina che quello sia uno spazio segreto in cui tenere in sospeso una parte di sé. Aggiunge Masud Khan: Ciò che era importante per Caroline, quando dimenticava in sala d’aspetto oggetti come un ombrello, una scatola di cioccolatini o un libro, era l’atto di lasciarveli. È a tale atto che ho fornito la mia parte di sostegno e condivisione.21
L’atto potremmo forse dire noi, non è lasciare l’ombrello, così come non è stato propriamente sotterrare i due candelieri, ma è attraverso il senso che a quell’azione viene dato in analisi che l’atto analitico di quella sequenza si compie. Ora di questo lavoro, in cui Khan utilizza il concetto winnicottiano di spazio potenziale, ci interessa non tanto o non solo la questione del segreto, ma lo spazio di sospensione nel quale qualcosa viene lasciato, per poter essere ripreso in seguito, senza che questo sia minimamente pensabile nel momento in cui la sospensione si crea. Dopo l’atto di Dora all’interno del dispositivo analitico, atto inaugurale del transfert, l’analista non è più l’archivista/lettore ingegnoso, alla ricerca continua di nuovi dettagli, e il transfert non è banalmente qualcosa da riconoscere in un solo tempo o in un solo luogo, situazione nella quale si rischia spesso di scivolare con un certo utilizzo del qui e ora, formula magica che azzera la complessità anacronica del tempo psichico. Scrive Pontalis: Il transfert è qualcosa di nuovo, qualcosa di vecchio, o qualcosa di nuovo fatto con il vecchio? Laboriosa prosa di ciò che è stato o poesia di quel che avviene?22
21 Ivi, p. 118. 22 J.B. Pontalis, La force d’attraction, Éditions du Seuil, Paris 1990, p. 66, [trad. mia].
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Pontalis fa qui una distinzione interessante fra un sistema di prosa analitica, che intercetta la storicità del soggetto e un sistema poetico che rappresenta l’estrazione di versi dalla trama di quel che accade. Storia e potenzialità, discorso e frammento, narrazione e (finalmente) verso. È ovvio che è solo l’oscillazione fra queste due possibilità che costruisce il dispositivo analitico. Ma cosa oscilla nell’analisi? Il qui e ora e il là e allora, il presente e il passato, il passato e ciò che non passa? L’impasse, finalmente Dominique Scarfone con un gioco di parole efficace accosta impasse a impassé, impassato, collegando i momenti di stallo di un’analisi con l’avvento nel transfert del traumatico del soggetto che riprende forma: Ciò che nella prospettiva cronologica si presenta come appartenente al passato si rivela come qualcosa che non è mai passato davvero. Propongo di chiamare questo tempo l’impassé, anche perché la parola denota il suo statuto di impasse nella vita del soggetto.23
L’impassé, scrive Scarfone, è l’impasse, il blocco della vita del soggetto che si ripresenta in analisi, grazie alla lente del transfert, un’impasse che impedisce di vivere e impedisce, congruentemente, ad un certo punto all’analisi di procedere. Arrivo qui al punto centrale della lettura che voglio proporvi oggi. L’impasse, questo innesco classico di un’altra scena che deve avvenire, seguendo il tentativo disperato di Freud, che propone a Sergej una fine dell’analisi per uscire, appunto, dall’impasse di un’analisi infinita, non potrebbe essere pensata come una forma particolare di atto analitico? Figura originaria di un agieren analitico, quello di Freud e di Sergej potremmo dire, e al tempo stesso atto analitico inaugurale e fallimentare rilancio di un emprise senza fine dell’oggetto psicoanalitico sul paziente? Come testimonia la presenza, davvero infinita, dell’analisi nella vita di Sergej. Vi propongo quindi di considerare l’impasse, o alcune delle forme in cui si presenta, come uno dei luoghi imprescindibili dell’atto analitico, non come innesco, o stasi che precede l’azione, ma come tentativo costante, in ogni analisi, di creare uno spazio paradossale nel quale andare lon23 D. Scarfone, L’impassé, actualité de l’inconscient, Rev. fr. psychanal., 2014, p. 1397, [trad. mia].
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tano da qualcosa e al tempo stesso convocarlo. Per poi accorgersi che non siamo in fondo lontani da niente. Ogni impasse non è forse la comparsa di una zona ferma, dove tutto ciò che prima compariva, si depositava, passava fugacemente, sembra assente o bloccato in un’innaturale posizione di fermo immagine? Quello che cerco di proporre è la possibilità che a volte l’impasse sia lo spazio dove il transfert deve avvenire, un luogo, apparentemente vuoto, o troppo pieno di cose, che non acquistano senso pur avendo molteplici significati, dal quale paziente e analista hanno provato costantemente ad allontanarsi, o attorno al quale hanno costruito infiniti percorsi, e differenti incroci. In questo senso non potremmo forse anche vedere l’impasse come il negativo del transfert, l’impronta di quella particolare storia di vita e, allo stesso tempo, l’incontro del transfert di quell’analisi e di tutti i tempi che vi sono convocati? Nell’impasse, se letta in questo senso, si incontrano, indubbiamente ripetizione e transfert e potenzialmente essa convoca l’atto analitico. La questione di un momento di stallo, di blocco, di sensazione di inutilità e incomprensibilità che pervade analista e paziente è una questione centrale, che non a caso, attraverso l’uomo dei lupi, ha orientato il secondo tempo della teoria freudiana. Come possiamo definire l’impasse nella cura? Come un momento di blocco del pensiero associativo, di sensazione persistente di inutilità, di qualcosa che gira a vuoto? Come reale incontro con la stagione dell’analisi, la quinta stagione di cui parla Pontalis? Ci sono ad esempio situazioni in cui questo blocco apparente del dispositivo analitico prende la forma di un vuoto associativo. Jean Luc Donnet ha scritto a proposito della fobia del pensiero (Le psychophobe), così come Evelyne Kestemberg ha parlato di fobia del funzionamento mentale e André Green di posizione fobica centrale, tutti a indicare un’impossibilità di funzionamento associativo che si installa nello spazio clinico, coinvolgendo paziente e analista in una bonaccia quasi stregata, come quella che costringe gli antichi eroi a non poter mai riprendere vento. Troviamo in effetti in molti resoconti analitici la descrizione di quel momento, quasi impensabile, in cui tutto si arresta. L’analista non sa, non capisce, cerca aiuto, come sottolinea Donnet, magari in una supervisione, ristrutturando la terzietà laddove sembra indisponibile. Pontalis osserva che forse anche lo scrivere di un paziente è una modalità di riconquistare un regime di terzietà. In un dialogo con Michel de M’Uzan scrive: Non sono i pazienti più stimolanti in seduta, paradossalmente, quelli a partire dai quali si scrive. Ho torto a dire: paradossalmente. In effetti quando tutto si gioca sulla scena analitica, perché si dovrebbe cercarne un’altra? Ma quando la
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scena della seduta non è più utilizzata, quando c’è il deserto, un’inconsistenza, quando la situazione è troppo pesante, si sente, io sento, il bisogno di uscire, di uscirne, senza però abbandonarla […] Ai miei occhi sono i pazienti che ci mettono in difficoltà quelli che suscitano la necessità di scrivere. 24
Dopo in genere, nelle nostre riscritture dei casi, qualcosa riparte e magari compare un sogno, un agito, una fine, un fatto del mondo esterno, insomma un’occasione e tutto pare rimettersi in moto, per finire, per interrompere o per ricominciare, diversamente, e ancora. Questo è ciò che molto spesso contengono i nostri resoconti clinici, perché questo è spesso ciò che avviene? Lasciamo in sospeso questa domanda. In questo senso forse l’impasse, come produzione di una sospensione, che contiene le condizioni della ripetizione singolare della storia del soggetto e crea la possibilità per la comparsa di una potenzialità transferale che consente il vero incontro fra quel paziente e quell’analista, è una particolare forma di atto analitico. Atto che partecipa dell’aspetto impersonale del dispositivo analitico e dell’impronta irripetibile di quella singolare storia analitica. Pongo a voi e a me una domanda: e se l’impasse fosse il nome che diamo a ciò che l’analisi fa quando non agisce come secondo noi dovrebbe? Quando ci sorprende, non tanto con qualcosa di nuovo che appare, ma con niente che per noi abbia senso, con il vuoto, o magari con un troppo pieno, di parole, di sogni, di associazioni, apparentemente densi di significati, ma in qualche modo vuoti di senso? E se l’impasse arrivasse quando, finalmente, ci dimentichiamo le istruzioni per l’uso dell’analisi, e della vita? Sto giocando ovviamente con il titolo di un libro del 1978 di Georges Perec, La vita, istruzioni per l’uso. Perec nato a Parigi nel 1936 e morto a 46 anni, nel 1982 è stato uno dei romanzieri di spicco dell’Oulipo (Ouvroir de littérature potentielle) fondato da Raymond Queneau, il suo maestro. Su La vie mode de’emploi vi leggo un parere: Credo che questo libro, uscito a Parigi nel 1978, quattro anni prima che l’autore morisse a soli 46 anni, sia l’ultimo vero avvenimento nella storia del romanzo. E questo per molti motivi: il disegno sterminato e insieme compiuto, la novità della resa letteraria, il compendio di una tradizione narrativa e la summa enciclopedica di saperi che danno forma a un’immagine del mondo, il senso dell’oggi che è anche fatto di accumulazione del passato e di vertigine del vuoto, la compresenza continua d’ironia e angoscia, insomma il modo 24 M. De M’Uzan, Entretien avec J.B Pontalis, in L’inquietude permanente, Gallimard, Paris 2015, p. 30, [trad. mia].
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in cui il perseguimento d’un progetto strutturale e l’imponderabile della poesia diventano una cosa sola.25
A dare questo vertiginoso, ammirato giudizio è Italo Calvino, nell’ultima delle lezioni americane, quella dedicata alla molteplicità. Un Calvino alla fine della sua vita, siamo nel 1984-1985. Chi era Georges Perec? Lasciamo raccontare a lui: Non ho ricordi d’infanzia. Fino ai dodici anni circa la mia storia è racchiusa in poche righe: ho perso mio padre a quattro anni, mia madre a sei; ho passato il periodo della guerra in vari istituti di Villard-de-Lans. Nel 1945 la sorella di mio padre e suo marito mi adottarono. Questa assenza di storia mi ha rassicurato per molto tempo: la sua scarna obiettività, l’evidenza apparente, la sua innocenza mi proteggevano, ma da cosa mi proteggevano se non proprio dalla mia storia vissuta, dalla mia storia reale, dalla mia storia personale che, si può supporre, non era né scarna, né obiettiva, né apparentemente evidente, né evidentemente innocente?26
È l’inizio di W o il ricordo d’infanzia un libro che Perec pubblica nel 1975. Il vuoto, il buco all’origine della storia di Perec è la scomparsa della madre, Cyrla Szulewicz, detta Cécile, un’ebrea polacca deportata ad Aushwitz nel 1943, il padre Icek Iudko Peretz, anche lui ebreo polacco, morirà combattendo i nazisti nel 1940 a Nogent-sur-Seine. W ou le souvenir d’enfance esce, come abbiamo detto nel 1975, nel giugno di quell’anno si chiude l’analisi di Georges Perec con J.B. Pontalis, iniziata nel 1971, dopo un tentativo di suicidio. Di questa storia analitica si è scritto moltissimo, ne hanno scritto, in modi, forme e momenti differenti i due protagonisti e ne hanno scritto critici, analisti, letterati, osservatori esterni di quel viaggio. Si è dibattuto se sia stata un’analisi che ha funzionato, qualsiasi cosa questo possa voler dire, si è scritto che c’è stata della violenza in quell’analisi, si sono pubblicati frammenti del diario di Perec, relativi a passaggi dell’analisi. Perec aveva incontrato altri psicoterapeuti e analisti. Francoise Dolto si era interessata ai disegni del Perec dodicenne, aveva poi fatto, dal 1956 al 1957, una tranche d’analisi con Michel de M’Uzan. Eppure, pare che l’incontro analitico che ha lasciato il segno sia quello con Pontalis. Un segno in entrambi, analista e analizzante, perché su quel paziente, con nomi e in luoghi differenti, Pontalis è tornato costantemente. 25 I. Calvino, Lezioni americane, Garzanti, Milano 1988, p. 117. 26 G. Perec, W o il ricordo d’infanzia, Einaudi, Torino 2018, p. 9.
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Primo tempo, alcune parole dell’analista: “Non ho ricordi d’infanzia”. Così inizia e continua a procedere l’analisi di quest’uomo, un’analisi che ho già a più riprese ricordato – ripetitivamente…– come se dovessi prendere in carico, fare mia una memoria d’infanzia così affermativamente negata e stesse a me mantenerla in vita. Eppure, quest’uomo, questo bambino dall’infanzia cancellata, non smette di darmi prova di una memoria eccezionale: non c’è seduta senza un racconto di un sogno di una precisione estrema e ricca di dettagli, non c’è appartamento dove abbia abitato di cui non possa fare l’inventario, non c’è nome di persona o città, non c’è un titolo di libro che manchi all’appello, e senza mai alcun intoppo nelle parole. Lui associa, io ascolto, all’occasione intervengo, non siamo insoddisfatti l’uno dell’altro. Mi dico che seguo a meraviglia il consiglio dato un tempo agli analisti da Lacan: Fate delle parole crociate. In effetti il reticolato è lui, il mio paziente, che l’ha astutamente composto. Il reticolato ci tiene rinchiusi me con lui.27
Di quest’analisi, di questa traversata, per usare una parola cara a Pontalis, entrambi i protagonisti scrivono. Entrambi sembrano concordare che l’immensa rete di associazioni, sogni, molteplici e ricche descrizioni, costituisse una gigantesca scacchiera dove si erano perduti. Un’impasse del troppo pieno. Il curioso incontro fra un uomo che possedeva tutte le parole, ma non trovava le sole di cui aveva bisogno e l’autore, il coautore, di un celeberrimo vocabolario. Ancora Pontalis: Dunque, questo analizzando modello – questo bambino modello – mi portava numerosi sogni, altrettanti rebus che cercava di e mi offriva da decifrare, a torto supponendomi più esperto di lui nell’arte della decifrazione. Nel corso di una seduta, fummo interrotti da svariate chiamate telefoniche alle quali dovetti rispondere.28
Ammissione dell’impasse: Da qualche tempo non mi sentivo molto presente con questo paziente, mi sentivo presente piuttosto nella sua assenza a se stesso, più in comunicazione, se così si può dire, con ciò che era assente che con ciò che diceva. In fondo era per me come uno di quegli interlocutori al telefono, che mi avesse chiamato da molto lontano e di cui non avessi percepito nessuna parola […] Ed ecco che quest’uomo, sempre così docile, per una volta manifesta una richiesta, in una forma sicuramente ben contenuta, ma per lui abbastanza viva. 27 J.B. Pontalis, Questo tempo che non passa, Borla, Roma 1997, p. 27. 28 J.B. Pontalis, Perdere di vista, cit., p. 188.
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Senza alzare il tono, mi dice: Dovrebbe avere una segreteria telefonica. E, probabilmente perché allora ero a mia insaputa impregnato di Winnicott, gli ho risposto subito: Può darsi senza dubbio che sia questo che lei desidera, che io sia una segreteria telefonica, ma sicuramente non è questo di cui ha bisogno.29
Viene in mente il Roland Barthes dei Frammenti di un discorso amoroso, quando in Fading parla del telefono, tra l’altro partendo da Freud, e dal suo supposto odio per il telefono. Comunque, scrive Barthes: “angosciarsi per il telefono: è il segno inequivocabile dell’amore”.30 La parola a Perec, stavolta da I luoghi di un inganno, testo del 1977, nel quale parla della propria analisi: Percorrevo allegramente i sentieri troppo ben delimitati dei miei labirinti. Tutto voleva dire qualcosa, tutto si concatenava, tutto era chiaro, tutto si lasciava sviscerare a volontà, grande balletto dei significanti che dipanavano le loro belle angosce.31
E ancora: Del movimento che mi ha permesso di liberarmi da quelle ginnastiche ripetitive e spossanti, e di accedere alla mia storia e alla mia voce, dirò soltanto che è stato infinitamente lento: è stato quello dell’analisi stessa, ma l’ho saputo soltanto dopo.32
Entrambi, e questo rivela come al centro di quell’impasse avvenisse l’atto analitico, concordano che qualcosa avvenne, anche se diventa difficile stabilire cosa. Come se la forma di troppo pieno, di troppe date, di troppe descrizioni, di troppi sogni, di una macchina associativa infinita contenesse l’impronta dell’assenza, inaggirabile, all’origine della vita di Perec, ricomparsa nel transfert, come qualcosa che non ha né data, né luogo e forse nemmeno nome, ma che certo ha le caratteristiche di qualcosa che esiste. J.B. Pontalis: Un giorno questa assenza – che aveva a che vedere, lo si sarà intuito, con una madre scomparsa molto presto, letteralmente senza lasciare traccia – questa 29 Ibidem. 30 R. Barthes, Fading, in Frammenti di un discorso amoroso, Einaudi, Torino 1979, p. 93. 31 G. Perec, I luoghi di un inganno, Milano, Edizioni Henry Beyle, 2015, p. 20. 32 Ivi, p. 25.
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assenza prese corpo nella seduta. Come? Lo strano è che l’ho dimenticato, non che questa analisi risalga a molto tempo fa, ma è come se a mia volta volessi, benché io creda di esserci stato in qualche modo in questa incarnazione nell’attualità di questo scomparso, dare testimonianza della mia incapacità, in fin dei conti, di tradurre in parole e in memoria disponibile ciò a cui l’analisi aveva comunque per la prima volta dato consistenza e vita coniugando contemporaneamente perdita e ritrovamento, il lutto e l’incontro sensibile, la morte nera e il piccolo Eros.33
E gli fa eco Georges Perec: Di quel luogo sotterraneo non ho niente da dire. So che è venuto alla luce e che, ormai, la sua traccia è iscritta in me e nei testi che scrivo. È durato finché la mia storia non si è ricomposta: mi fu data, un giorno, con sorpresa, con stupore, con violenza, come un ricordo restituito nel suo spazio, come un gesto, un calore ritrovato. Quel giorno l’analista capì quello che avevo da dirgli, quello che, per quattro anni, aveva ascoltato senza capirlo, per la semplice ragione che non glielo dicevo, che non me lo dicevo.34
Quale fosse l’astuzia, il trucco, l’inganno (alcuni dei significati di Les lieux d’une ruse) a cui si riferisce Georges Perec nel libro che parla della sua analisi con Pontalis, non è dato sapere. Certo qualcosa avvenne in quell’analisi. Se quello che quell’analisi ha fatto sia stato qualcosa che ha in qualche misterioso modo partecipato della straordinaria qualità della scrittura di Perec, successivamente, non è questione che sia possibile dirimere senza violare quel silenzio, quel segreto, che pur scrivendo costantemente, entrambi i protagonisti sembrano avere mantenuto. A volte proviamo ostinatamente a dare dei nomi a quello che non sappiamo spiegare, anche se siamo sicuri che sia avvenuto, ed è qui forse che atto analitico e atto poetico si incontrano.
33 J.B. Pontalis, Questo tempo che non passa, cit., p. 27. 34 G. Perec, I luoghi di un inganno, cit., pp. 25-26.
Transfert idealizzato, transfert erotico Dialettica nella cura della psicoanalisi contemporanea1 Norberto Carlos Marucco
Vi ringrazio per l’invito, in particolare ringrazio Massimo Recalcati, tutti gli amici di IRPA e gli amici che ho conosciuto. Per me è molto importante l’argomento di cui parlerò oggi, tocca la questione del Covid anche se non è di questo che vi parlerò, lo dico perché la sessualità nella cultura attuale, nel 2022, è una pulsione che si scarica come conseguenza di una retroazione dell’amore. Questa conferenza tratterrà in particolare la questione dell’amore nella psicoanalisi, parlerò della posizione che ho come psicoanalista riguardo alla psicoanalisi contemporanea. L’idea centrale del mio intervento è che la psicoanalisi debba trovare un’articolazione con le diverse teorie. Detto in altro modo, è importante, per me, evitare nella psicoanalisi la dipendenza dalle teorie. Quindi, oggi mi occuperò del transfert, più precisamente della teoria e della clinica del transfert erotico. Per gli psicoanalisti è importante pensare allo psichismo come articolazione tra la pulsione e l’Altro. Penso che un aspetto della pulsione, la forza, spinga e incontri nel suo percorso l’Altro, questo l’ho chiamato embrione pulsionale. Questo embrione pulsionale è per me la cellula prima, originaria. Anticipo l’idea, che poi svilupperò: l’embrione pulsionale ha molto della pulsione di vita e poco della pulsione di morte. La pulsione di morte è stata tenuta poco in considerazione nella storia passata della psicoanalisi internazionale e ancora oggi è così. La psicoanalisi si sviluppa tra due intrapsichici: uno è l’analista e l’altro è l’analizzante, e uno intersoggettivo che li unisce. L’ultimo punto in cui io mi definisco enfaticamente come terapeuta nella psicoanalisi è che mi preoccupa il dolore e la sofferenza dell’essere umano, da qui la necessità di creare un cassetto degli attrezzi terapeutici più ampio. Questa è l’introduzione e l’impianto dell’intervento su cui, poi, potrete fare domande alla fine del mio lavoro.
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Lezione del 9 aprile 2022 (testo concordato con l’autore), traduzione di M. Castrillejo e F. Perini.
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Non parlerò del Covid, perché sono già stati fatti molti interventi importanti da diversi autori nel mondo, tra questi, in particolare, quello di Recalcati, quando ha parlato delle neo-melanconie. L’effetto che ha provocato il suo intervento nell’APA2, l’Associazione Psicoanalitica Argentina, è stato fantastico. Vi esporrò per prima cosa un problema: ci sono effetti culturali che hanno esiti sui sintomi. Quali sono i sintomi che si generano tra l’intrapsichico dell’individuo e l’Altro della cultura? Si sono spenti ideali, si sono spenti ideali familiari e si sono messi in alto, su un trono, altri ideali regressivi, primari, arcaici; si sono messi su un trono ideali che hanno benefici culturali per l’altro culturale. Quali sono questi sintomi? Si è perso un progetto, si è prodotto una caduta dell’amore a favore di una scarica sessuale anonima. Questo genera nel presente e nel futuro un sintomo enorme che è la solitudine. Ciò ha un’importanza fondamentale. Penso che la psicoanalisi, davanti a questa immagine di solitudine, debba produrre di conseguenza un cambiamento nella sua tecnica e debba passare dall’astinenza all’impegno. Freud ha commesso un errore abbastanza severo, quando ha pubblicato Osservazione sull’amore di transfert. Freud pone più questioni fondamentali: l’amore di transfert è fondamentale e inevitabile in ogni analisi, inoltre, l’amore di transfert è anche un amore vero. Non ultimo, una volta che sono convocati quelli che Freud chiama i demoni dell’Averno, questi demoni vanno interrogati. Abbiamo visto lungo la storia della psicoanalisi che sono poche le testimonianze che interrogano l’amore di transfert. Porto questa questione perché penso che durante il tempo del Covid gli psicoanalisti si sono ritirati dall’interrogare il dialogo dell’amore per interrogare il terrore: si è parlato di più del terrore che dell’amore. Emerge una questione fondamentale secondo me: gli psicoanalisti, sapendo o no questa questione, si sono occupati di coprire la solitudine. In questo tempo l’amore, la sessualità, la genitalità amorosa sono passati in secondo piano. Questi i punti che rintracciamo nel testo di Freud, ci sono altri punti del suo testo che a mio avviso non tornano, anche se è un po’ difficile affermare che Freud abbia sbagliato. Freud sostiene che gli psicoanalisti per poter lavorare sull’amore di transfert devono vincere il transfert reciproco amoroso. Questo porta a una situazione tale per cui Freud per tre volte propone che gli analisti diventino indifferenti davanti al paziente. Mi domando, come può essere un analista indifferente a una pulsione? Anche se l’analista diventasse indifferente alla 2
Asociación Psicoanalítica Argentina (APA).
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pulsionale, si infiltrerebbe comunque la stessa pulsione. Anche se uno rimuove, sotto rimozione, qualcosa passa, qualcosa filtra della pulsione. Il consiglio di Freud è che lo psicoanalista sia indifferente. Il problema di quella proposta di Freud, che in qualche modo assomiglia al concetto di controtransfert, è nella traduzione di Estracey che traduce “indifferenza” per neutralità e la neutralità ha avuto un lunghissimo percorso nel mondo psicoanalitico fino ad ora: abbiamo vissuto su questo concetto di neutralità che non esiste, questa è stata una base della tecnica psicoanalitica. La mia proposta, di passare da una neutralità a un certo impegno, è ciò che noi vediamo nella clinica freudiana. Infatti, vediamo un Freud impegnato, un Freud accogliente, che accoglie i pazienti, si impegnava con i pazienti, non era tanto neutrale, ciò non vuol dire che Freud non adoperasse l’astinenza. Questo è un punto molto importante perché si potrebbe pensare che gestisse il controtransfert con la neutralità; invece, il controtransfert ha una dimensione molto più ampia, è ciò che ci permette di dialogare con l’amore di transfert. Dunque, è un errore di Freud perché avrebbe dovuto consigliare l’analisi dello psicoanalista piuttosto che l’indifferenza. Per spiegarvi a cosa mi riferisco, parlerò un po’ di transfert. Propongo uno schema che implica due livelli: quello del transfert in generale e quello del transfert erotico, transfert specifico che cerco di distinguere dall‘idealizzazione del transfert, a partire dalla discriminazione, stabilita da Freud nel 1921 –, e che continuò – tra “amore” e “innamoramento”. Voglio segnalare ora due temi che avranno la funzione di fare da sfondo a questo lavoro: mi riferisco all‘idealizzazione del transfert e alla presentificazione della pulsione nel fenomeno transferale. Nozioni che contengono, al loro interno, un‘estrema opposizione. Quando c’è idealizzazione del transfert, un apparente progresso nella cura copre una sottile induzione allo scivolamento del metodo psicoanalitico verso le terapie suggestive. Invece, quando la pulsione si presentifica nel transfert, anche se fenomenicamente si ritarda il progresso della cura, la fedeltà e la specificità terapeutica della psicoanalisi sono assicurate. Parlerò, ora di “amore” e “innamoramento trasferale”. Parlerò di transfert erotico e idealizzato. Le accezioni della nozione di transfert in Freud sono tante e tanto varie che, talvolta, possiamo sentire una certa perplessità. Questa perplessità diminuisce – e persino svanisce – se consideriamo che il transfert è un fatto psicoanalitico fondamentale e che, pertanto, la nozione non ha potuto essere sempre indifferente ai cambiamenti sia nella teoria che nella clinica: in alcuni casi, esso ha la capacità di stimolarli, di provocarli. Vorrei, per iniziare, confrontare e, per quanto possibile, segnalare le arti-
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colazioni della nozione di transfert con altre nozioni basilari della teoria psicoanalitica. Per entrare nel tema racconterò un pò di storia. Il termine “traslazione” appare per la prima volta negli Studi sull’isteria (1895). Nel 1900, ne L’interpretazione dei sogni, abbiamo già una piccola modifica, Ovvero che la ricerca sui sogni influisce sull’interrogazione del transfert. E’ indubbio che ci sia una stretta e importantissima relazione tra il transfert e la libido. Freud lo stabilisce ne La dinamica della traslazione (1912) riferendosi a due parti della libido, una capace di coscienza e l’altra inconscia. In quanto al concetto di ripetizione (Freud, 1914), esso modifica sostanzialmente la teoria della cura che Freud aveva sostenuto fino a quel momento. Accade che l’azione della ripetizione avvalli la nozione di nevrosi da traslazione, la quale, dopo un certo splendore (Freud, 1916-1917), forse per un‘eccessiva estensione del concetto, perderà terreno nel costrutto teorico freudiano. Ma quando viene limitata la nozione di nevrosi da traslazione (Freud, 1920), allo stesso tempo si considererà la ripetizione come momento puntuale, come forma di accesso (attraverso costruzioni) a ciò che è passibile di ricordo. Capitolo a parte merita l’Introduzione al narcisismo, poichè permette di discriminare l’innamoramento transferale dall’amore di transfert. In altre parole, permette di differenziare l’idealizzazione del transfert dalle diverse forme di trasfert positivo. Sempre schematicamente, menzionerò la relazione tra la pulsione di morte e il transfert (Marucco, 1979), una relazione che la compulsione ripetitiva di Al di là del principio di piacere (Freud, 1920) metterà in discussione come succede per altre nozioni. L’apparizione della teoria strutturale non implica inevitabilmente il transfert delle strutture (Freud, 1923, 1938; Marucco, 1981)? E questo incombe in modo decisivo sul tema del transfert, specialmente per il potere che conferisce all’analista. Pericolo, che è ancora maggiore, quando l’analista misconosce che può essere collocato nel luogo dell’Io ideale o in quello dell’Ideale dell’io – Super-io3, o quando, per accettare acriticamente, passivamente, un inquadramento4 non si accorge che si delega a tale inquadramento un potere idealizzato, che rinchiude anche l‘analista (non solo il paziente) in un vincolo non creativo. Per ultimo, a rischio di annoiare, qualcosa che mi interessa particolarmente: il problema del disconoscimento e della scissione dell’Io in relazio3 4
Cerco di discriminare tra Io ideale e Ideale dell’io a partire dalla differenziazione che stabilì Lagache (1958). Ovviamente ciò che è problematico non è l’inquadramento (diagnosi, Ndr) bensì la sua accettazione acritica.
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ne con il transfert. Penso che una delle modalità di ritorno di ciò che è stato disconosciuto è attraverso l’atto, ossia l’agieren freudiano, in special modo attraverso la compulsione ripetitiva che è al di là del principio di piacere. Intendo questo ritorno come un tipo speciale di transfert, che ho denominato “ripetizione transferale del disconoscimento” (Marucco, 1978). Menziono ora semplicemente ciò che ho sviluppato in alcuni dei miei lavori: questa ripetizione trasferale del disconoscimento – impronte mnestiche ingovernabili – può “legarsi” al processo secondario, sempre che l’analista gli conferisca senso mediante delle costruzioni. Aggiungo ancora qualcosa che è il nucleo di un altro lavoro (Marucco, 1981): l’affetto disconosciuto nel transfert è l’odio; odio della funzione genitoriale narcisistica quando si manifesta come non-ideale. Nel tranfert – chiarimento importante – la funzione parentale narcististica è trasferibile sull’analista. Il mio interesse nel segnalare queste articolazioni del transfert con la teoria, è dovuto al fatto che sono presenti nel mio modo di intendere il transfert erotico. Ancor di più, non mi è possibile parlare di transfert erotico senza tenerle presenti.5 Devo aggiungere inoltre che, per far giustizia a questo tema, non possono essere lasciate da parte le articolazioni del transfert con il perturbante, con il masochismo, con la reazione terapeutica negativa, con le teorie dell’Io. Ho avuto bisogno di fare questa lunga, benchè schematica, introduzione alla traslazione per situare il mio lavoro. Questa volta mi occupo del transfert erotico e sottolineo che la sua analisi è capitale nel processo della cura, ma non smetto di tenere in considerazione che in alcuni determinati momenti lo sono anche l’analisi del disconoscimento, dell’odio nel transfert e quella di altre espressioni della pulsione di morte. Per essere più preciso direi che il progresso del processo analitico si gioca nell’analisi dell’amore e dell’odio nel transfert. E’ chiaro, dunque, che non li considero entrambi come resistenze alla cura, anche se la loro comparsa può farlo sembrare, ma al contrario, come due motori del suo progresso. Quindi, il transfert compare negli Studi sull’isteria, che è un lavoro prepsicoanalitico, poi passa all’interpretazione dei sogni, poi nell’Edipo, l’interpretazione dei sogni è uno spostamento, nell’Edipo emerge il transfert positivo e negativo, poi nel Al di là del principio del piacere comparirà la questione della pulsione di morte, poi si può pensare a un transfert con la seconda topica, ci sono transfert che provengono dal Super io e altri dall’Io. A questo aggiungo un transfert che, personalmente, ritengo 5
Poichè non mi sembra questo il luogo per svilupparle, rinvio il lettore ai miei lavori precedenti.
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parta dalla ripetizione del diniego e della scissione dell’Io. Di tutti questi transfert, io mi occuperò principalmente del concetto di ripetizione nel transfert. Ricordo, ripetizione ed elaborazione (1914) è un testo capitale perché Freud rinuncia al concetto di ricordo come motore della cura analitica, ci sono ricordi che non si possono ricordare, quello che non si può ricordare si traferisce come ripetizione, che dunque è un concetto chiave; “abracadabra”, come un mago che dice, “non ho più ricordi per riempire le lacune e i nessi dei ricordi, ma quello ritorna dall’inconscio sulla figura dell’analista in particolare nella forma della ripetizione”, magia, grande scoperta di Freud. A partire da lì Freud scopre in genere tre tipi di ripetizione: la prima la ripetizione di frammenti e ramificazioni dell’Edipo, la seconda la ripetizione dell’ingiuria narcisistica, e la terza la ripetizione di nessi mnesici ingovernabili. Cosa vogliono dire queste tre ripetizioni? Che ci sono due funzionamenti psichici, uno legato all’Edipo e alle parole, e gli altri due legati alla scarica nell’atto, nel corpo e in un comportamento antisociale, tutto quello che si fa in un agito, tutto quello che si attua, si attua prima con l’analista. Dunque, il transfert serve per riprendere la ripetizione e dare a questa altri destini che non sia l’identico della stessa ripetizione. Per la mia lettura ci sono tre Freud: un Freud dell’inizio, un Freud della seconda topica e un terzo Freud che inizia con il feticismo e la questione della scissione dell’Io, è così che lo dice nella “Scissione dell’Io nei processi di difesa”, un testo dei primi anni del 1939, poco prima di morire. Freud inizia il testo dicendo: “Non so se questa è una cosa che avrei dovuto sapere o è qualcosa di completamente nuovo”, dice che quest’ultima è una cosa totalmente nuova, poi muore e lascia al futuro. È un altro Freud perché fuoriesce dall’idea di struttura per quella di funzionamento psichico. E ancora, dice che smette di nominare la pulsione di vita per chiamarla pulsione d’amore. Dunque, io dico che occorre pensare che Freud abbia avuto un ultimo momento intersoggettivista, cioè la pulsione d’amore implica l’Altro ed è perciò intersoggettivo. Adesso parlerò dell’amore di transfert, di come si dialoga nell’amore di transfert, il compito che avremo da qui in avanti quando finirà il Covid. Nell’amore di transfert sorgono i problemi e i frammenti delle ramificazioni del complesso di Edipo. Io sostengo che quando è coperta l’esperienza erotica oggettuale quello che emerge sono le tracce mnestiche ingovernabili, quelle che sono in rapporto con l’oggetto primario, l’innamoramento patologico e i fenomeni ipnotici, le masse artificiali, le guerre, ecc. Qual è l’antidoto contro le masse artificiali, contro la guerra? Personalmente penso sia l’amore. C’è
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un testo di George Orwell “1984” che dice che l’amore è quello che fa finire una dittatura, l’amore è anche ciò che impedisce il fenomeno ipnotico. Freud dice che arriva un momento nell’analisi in cui, inevitabilmente, comparirà l’amore di transfert, a volte accompagnato da erotismo genitale “voglio fare sesso con il mio analista”, a volte no, a volte è semplicemente amore. Che cosa succede dalla parte dell’analista? Anche l’analista ha desideri erotici e amorosi, o erotici-amorosi, verso i suoi pazienti. Perché deve essere così? Perché l’analista è una singolarità reale, non è semplicemente un luogo. Questa singolarità reale, dice Freud, è imprescindibile perché una ripetizione possa andare al di là della ripetizione stessa. La domanda che lui tenterà di fare ancora più attuale è: come può un giovane analista che si trova davanti a un/una paziente e se ne sente attratto, risolvere la questione? Freud nel 1915 quando ha scritto questo era terrorizzato che i suoi allievi cadessero in queste questioni. È da lì che Freud viene spinto a rimuovere la sessualità, non si poteva tollerare nella Vienna di Freud che si dicesse che gli psicoanalisti volevano andare a letto con i propri pazienti. Freud ha trasformato in resistenza quella singolarità reale che è il transfert erotico dell’analista. Lacan nel primo tempo del suo insegnamento, nel suo ritorno a Freud, conferma che il transfert è resistenza, diversamente nell’ultima parte del suo insegnamento legge questa questione in un altro modo, forse. Ma io mi domando, se si rimuove l’amore di transfert, c’è la possibilità di dialogare e interrogare l’amore di transfert del paziente? Questa è la grande questione. Qui compaiono due concetti fondamentali per poter dialogare con l’amore di transfert: il concetto di Lacan che è il desiderio dell’analista, che non è rimuovere ma tutt’altro, è trovare qualcosa nel candidato analista che diventerà analista, è trovare qualcosa che gli permetta di poter sublimare, anche se non è la parola esatta, le pulsioni genitali – non quella amorosa –, le genitali che sono parte di quelle amorose. Dalla mia prospettiva direi che questo è uno sviluppo particolare, negli analisti, della pulsione epistemofilica. Che cosa è la pulsione epistemofilica? È una pulsione attiva nella ricerca di una verità impossibile da raggiungere, ma non impossibile da cercare. Detto in altre parole, all’analista interessa molto di più il soffocato amore infantile, che la scarica della genitalità. Se non c’è desiderio dell’analista e non c’è pulsione epistemofilica, il soffocato amore edipico del paziente viene nuovamente rimosso e si trasforma in una idealizzazione transferale. Per idealizzazione transferale intendo un innamoramento, si tratta di un innamoramento patologico, l’oggetto è pieno di qualità, è magnifico, è un Dio, e il paziente finisce per non avere più sessualità. Questo è interessante, perché si può pensare alle analisi che si man-
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tengono rimuovendo l’amore del paziente e installando l’idealizzazione. Nella misura in cui si rimuove l’amore del paziente, le analisi possono durare anni e anni, in eterno, il paziente parla, commenta, fa piacere all’analista, racconta sogni e passano gli anni, analisi che durano venti, trent’anni, si passa la vita. Sostengo che gestire l’amore di transfert, il dialogo con l’amore di transfert, sia un punto chiave per la cura analitica. Vi farò un esempio, supponiamo ci sia una bambina piccola che dice al suo papà: “quando io sarò grande vorrò sposarti”. Qual è la risposta che inventò la cultura per questa questione? “No figlia mia, con te non posso sposarmi perché io sono sposato con tua madre”. Quello che è un gioco tra figli e genitori che cosa provoca in questa bambina? Immaginate che la bambina sia innamorata di suo padre, che vuole sposarlo, soffre per un’ingiuria. Questa rimozione fa rivalutare alla bambina: “non posso più pensare di sposare mio padre, devo pensare a un altro”, dunque, è una soluzione esogamica della cultura. Già in quell’epoca si potrebbe pensare che quella bambina avesse desideri genitali con suo padre, insieme alla parte genitale rimuove anche l’amore. Se un analista invece di essere indirizzato sulla neutralità, come ha fatto Estracey, fosse stato spinto a riprendere la propria analisi, avrebbe potuto capire il “ritornare” del proprio amore che emerge nell’analisi con il paziente. Se questo punto è chiaro e si capisce, capiremo che l’amore di transfert è amore vero. Mi domando se l’amore che tutti noi sperimentiamo non abbia sempre qualcosa del transfert. La differenza è che nell’analisi l’amore di transfert può essere analizzato. L’altro concetto, per dialogare con l’amore di transfert, è la pulsione. Se viene rimossa la pulsione, espressa nell’amore di transfert, si rimuove anche in qualche modo il desiderio, ma non come lo interpreta Green, il desiderio è manipolato dagli altri e dall’analista. È importante che nell’analisi la pulsione si faccia presente, solo se si presenta la pulsione l’analista può acconsentire al dialogo e sottrarsi all’attuazione. Dunque, la pulsione del paziente ha nuovi percorsi pulsionali, questo è un altro dei destini che ha la cura analitica, ossia svelare la rimozione, che la pulsione si faccia presente e che cerchi i destini che il soggetto sceglie. non perchè debba accadere necessariamente nell’analisi, l’amore di trasfert causerà fatalmente l’interruzione dell’analisi. Una precauzione dell’analista sarà quella di interpretare sistematicamente il contenuto erotico delle associazioni idealizzanti o vicine all‘idealizzazione. Altra precauzione – o la stessa, da un altro lato – consisterà nel non occupare “il luogo dell’ideale”, nell’abbandonarlo e occupare, in cambio quella singolarità reale che Freud menzionava nell’Epilogo di Dora (1905). Smettere di analizzare? Trasformarsi in un’altra persona della cerchia del paziente? Non si tratta di questo ma di permettere che un
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transfert sia ripetizione e al tempo stesso qualcos’altro di più di una semplice ripetizione (Neyraut, 1976); senza questo altro di più non ci sarebbe mai cura, bensì ripetizione dell‘identico. Tali sono le precondizioni affinchè avvenga questo fenomeno che è il passaggio dall’ “innamoramento” transferale all’ “amore di transfert”. Quando questi irrompe appaiono vari richiami, incluso quello della soddisfazione sessuale diretta. Si riferisce, da un verso, il luogo dell’analista e, per l’altro, a questa indecifrabile singolarità reale – dicendo indecifrabile, mi riferisco al desiderio dell’analista –. Detto in altri termini: il desiderio potrebbe essere l’amore. Invece i punti di sospensione sono la traduzione tipografica di ciò che è urgente recuperare. Cos’è che bisognerebbe recuperare? Che l’amore è passione (Green, 1980). L’indecifrabile per Green non sembra essere il desiderio, già quasi oggetto di manipolazione; l’indecifrabile, è ciò che si è quasi già “fatto amnesia”: è la passione per l’amore erotico oggettuale. Valuto importante trasmettere l’amore transferale come una novità, detto in altri termini, che la ripetizione smetta di essere ripetizione per diventare novità. Parlerò di due questioni, in questo tempo del Covid, voglio insistere, abbiamo vissuto e viviamo una situazione terrificante, possiamo osservare la pulsione securitaria di cui ci parla Recalcati, e pensare ai diversi modi in cui lo psichismo affronta tutto questo. In questo tempo, in cui non era facile baciare una persona, toccarla, avere rapporti genitali, si può pensare che la cultura, in un modo superegoico, sia entrata nella nostra psiche obbligandoci a non toccare nessun altro e stare due metri lontani gli uni dagli altri; la rimozione, la repressione, si è installata in noi attraverso l’indicazione di tutti i governi di prendere distanza, difendersi dall’altro. Tutta la libido sessuale che si sarebbe indirizzata normalmente all’oggetto, dove andava? A contrastare il terrore, a difendersi dall’altro. Dunque, nel 2022 e dopo il Covid, ci troveremo con i pazienti di oggi che hanno una sessualità repressa, che hanno trattenuto una sessualità che non hanno potuto liberare in questo tempo. Siamo stati come nell’epoca vittoriana, non si poteva toccare una donna, un uomo, non si poteva baciare. Dunque, propongo questa domanda nel 2022: perché un paziente viene a chiederci qualcosa? Che cosa viene a chiederci un paziente? Vengono con un sintomo molto più ampio che sono le dipendenze, e vengono per un’altra questione che è la solitudine. La solitudine riguarda tutti questi legami che si sono persi in questi anni. Non abbiamo avuto una guerra qui, la guerra è in Ucraina, però tutti abbiamo avuto una guerra, tutti abbiamo perso persone care. Guardate quanto è interessante: c’è stata questa guerra, questa epoca vittoriana, ma allo stesso tempo ci sono state scariche pulsionali non investite. È interessante perché si arriva quasi a una sessualità biologica. Capi-
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rete dunque perché dico che il nostro lavoro futuro avrà a che fare con una sessualità vittorianizzata. Possiamo domandarci e considerare perché le dipendenze patologiche crescano smisuratamente. Vi ho parlato della solitudine ma ora vorrei trasmettervi quello che penso delle dipendenze patologiche. Recalcati e altri autori ne parlano con la questione del vuoto, altri ancora con il rapporto duale. Se guardiamo allo sviluppo nel mondo dopo il Covid a partire dalle perdite oggettuali, si pensa che l’individuo umano abbia bisogno di sostituire quelle perdite. A questo aggiungete inoltre la caduta dell’autorità, questa crisi dell’autorità strutturale nel mondo. Cosa compare? Emerge la madre fallica e l’oggetto primario, questo è importante perché il bambino non ha altra via di uscita se non idealizzare il suo oggetto primario. Questo che dico non è una novità, l’ho sentito dire a Recalcati e altri autori: la questione del consumismo rimanda al vuoto: l’idea di possedere un gadget sempre più grande, è qualcosa che rimanda al consumismo del consumismo, che rimanda al vuoto. Penso non sia solo la cultura che lo promuove questo consumismo, ma vi è anche la pulsione primaria con l’oggetto primario, che vuole tutto e subito. Per Freud le pulsioni di un bambino erano così impossibili da contenere, tanto da dire che un bambino voleva tutto. Ci sono due punti che io considero importanti: un contributo di Lacan e uno di Green. Il contributo di Lacan è solido, è il contributo del godimento, della jouissance. Per Lacan nel godimento si consuma la vita stessa, perché è un’espressione della pulsione di morte. Green utilizza una definizione meravigliosa: la morte nella vita con cui dice che la pulsione di morte non uccide, piuttosto fa pian piano perdere all’individuo i suoi oggetti, i suoi legami. Per Green la morte non è la morte fisica ma è la morte nella vita, la morte che si produce quando io scarico la mia pulsione d’amore in un oggetto che immediatamente si trasforma in uno scarto. Questo è importante perché se uno cade in questo gioco, vive con dipendenza lo scarto. Per finire, la psicoanalisi nel 2022 in che condizioni trova l’analista? Lo trova nella posizione di soggetto supposto sapere? Lo trova in un transfert idealizzato? Lo trova in una posizione di accompagnatore nello stile Winnicott o Foucault? Se pensiamo a questo 2022, vediamo che non è facile trasferire il soggetto supposto sapere quando c’è una crisi d’autorità. Non c’è autorità, l’autorità è caduta strutturalmente non solo per la caduta del patriarcato, ma anche per altre ragioni che non spiegheremo oggi. L’altra questione è il transfert idealizzato, come si può sostenere in una situazione dove non c’è futuro, non ci sono ideali, non si va in analisi per star bene in un futuro, ma per qualcosa che deve succedere nel presente? Pensate a ciò che conosciamo bene che è la spinta superegoica al godimento: “godi ades-
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so!”. Io di solito non do consigli, ma mi sembra che se uno vuole lavorare come soggetto supposto sapere se lo deve guadagnare, deve avere certi atteggiamenti che non sono il silenzio. Anche in quello che succede nei transfert idealizzati non ci sono ideali, ci sono ideali familiari che l’analista può aiutare il paziente a riperdere. Vi darò un esempio sul finire che riguarda l’epoca nazista: le scuole avevano un’istruzione per far adottare ai bambini l’ideologia nazista, l’introduzione di questo ideale, attraverso i maestri come rappresentanti del potere, era così forte che distruggeva gli ideali familiari, al punto tale che i bambini denunciavano i propri genitori. Infatti, vediamo come nell’epoca gli ideali cambiano e bisogna anche lavorare su quelli che riguardano un effetto di futuro. Anche questo è ipnosi. Io penso che nel mondo attuale la pratica analitica sia anche orientata in certi momenti con elementi soggettivi ed ipnotici. Una cosa è aiutare il paziente, comprenderlo, avere dubbi, vacillazioni calcolate, come dice Lacan, o come dice Freud, con i surrogati che uno dà al paziente nonostante l’astinenza. Le cure analitiche di oggi, siccome noi non possiamo risolverle entro domani, o entro il mese prossimo, portano gli psicoanalisti a prendere, senza volerlo, l’indirizzo della suggestione. “Dottore cosa faccio? Vado dalla parte di A o dalla parte di B?” Se l’analista cede e risponde sotto la pressione delle circostanze invece di interrogare che cosa vuole dire A e cosa vuole dire B, se cede, li finisce l’analisi. Di fronte a questa situazione psicoanalitica con tanti interrogativi da risolvere voglio concludere con una riflessione personale, che scrissi anni fa: Credo che sia necessario ma non sufficiente che noi sappiamo di essere umani, ma ciò che è imprescindibile è che lo sappiano i pazienti della psicoanalisi. Non solo per porci delle questioni, ma per aiutarci a mantenere la psicoanalisi inseparabile dal paziente che ci domanda aiuto. Perché? Per aiutarlo a cambiare non i suoi destini, bensì il quotidiano del destino. Non ciò che sarà sempre più in là, bensì ciò che Freud ci indicò quando vide nel Destino la complessa umanità della nevrosi.6
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N.C. Marucco, Cura analitica e transfert. Dalla rimozione al diniego, Borla, Roma 2008.
Modi dell’atto nella psicosi1 Lucia Simona Bonifati
Introduzione Ho scelto di intitolare questo mio intervento “Modi dell’atto nella psicosi”. Parlare di “modi” significa pensare a diverse possibili declinazioni dell’atto nella psicosi. Sebbene non tutto nella psicosi sia passaggio all’atto, ci interrogheremo sulle ragioni che fanno sì che il passaggio all’atto possa avvenire con una certa frequenza nella psicosi. Affrontare la questione del passaggio all’atto e dell’atto e dei suoi modi nella psicosi, in fondo, ci fa entrare nel vivo degli interrogativi intorno alle possibili modalità che il soggetto psicotico può escogitare per approdare a dei tentativi di soluzione di fronte all’emergenza di un eccesso di reale. Sappiamo bene che il meccanismo che Lacan individua alla base della struttura psicotica è la Verwerfung, o forclusione, meccanismo che possiamo declinare nei termini di carenza, difetto nel luogo dell’Altro, come mancanza di un significante primordiale e polarizzante quale è il Nome-del-Padre. Gli effetti della forclusione hanno una precisa ricaduta non solo sul modo in cui il soggetto si andrà a collocare nel linguaggio, nel luogo dell’Altro, non solo nel rapporto che il soggetto intratterrà con l’immaginario, ma anche a livello della modalità del soggetto di raccordarsi con il godimento. Più radicalmente, potremmo intendere la forlcusione come una non possibilità per il soggetto psicotico di simbolizzare la castrazione simbolica, con tutte le conseguenze che possono derivare da questa mancanza, non ultimo una particolare prossimità del soggetto psicotico con il reale non calmierato da una efficace presa della Legge simbolica della castrazione. Come già Freud aveva con precisione messo in evidenza, sappiamo bene che il delirio è per certi versi la soluzione esemplare per cercare un tentativo di guarigione. Dalla lettura freudiana, in particolare per come 1
Lezione del 14 maggio 2022 (testo rivisto dall’autrice).
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prende forma a partire dalla sua lettura del caso Schreber2, emerge una precisa funzione del delirio come processo di guarigione proprio in virtù della sua funzione difensivo-riparativa. Attraverso il delirio in fondo il soggetto non fa che cercare di reintegrare in una tessitura simbolica e immaginaria qualcosa dell’ordine del reale che all’inizio crea nel soggetto enigma, perplessità, non disgiunti da una radicale certezza. La rappresentazione che “dovesse essere davvero bello essere una donna che soggiace alla copula”3 di Schreber, sorta di pensiero imposto che in prima istanza viene da lui vissuto come inconciliabile con la propria moralità, viene ad essere, attraverso la costruzione delirante, elemento cruciale della soluzione delirante. Assistiamo così a una vera e propria trasformazione dell’elemento inconciliabile in elemento assimilabile, conforme alla volontà divina. È l’Altro che lo vuole, potremmo dire. Ma sappiamo altresì che non tutti i soggetti psicotici delirano e che il delirio non rappresenta di certo l’unico rimedio soggettivo a partire dall’incontro con il buco forclusivo. La questione del passaggio all’atto nella psicosi, la frequenza dei passaggi all’atto nella psicosi, diversamente dall’interesse nei confronti del delirio e della sua funzione, non è menzionata in senso stretto da Freud e tantomeno diffusa all’interno della teoria psicoanalitica, prima delle notazioni di Lacan. Freud, nel Compendio di psicoanalisi, nel momento in cui ci parla della traslazione, ci dice che uno dei suoi vantaggi è quello che attraverso di essa il paziente ci “squaderna dinanzi con plastica evidenza” parti della sua vita che in altre circostanze avrebbe potuto difficilmente narrare. Dunque, ci dice Freud, attraverso la traslazione “anziché riferire”, il paziente “‘agisce’ […] teatralmente davanti a voi”4. Vi è dunque una teatralità e una messa in atto della vita del paziente, sotto transfert, interna alla traslazione, che è parte integrante del processo analitico, potremmo dire. Ma cosa aggiunge Freud, con una grande chiarezza? Che questo agire deve essere inscritto all’interno della traslazione: È per noi oltremodo indesiderabile che il paziente, al di fuori della traslazione, “agisca” anziché ricordare; la condotta ideale, dati i nostri scopi, sarebbe che 2 3 4
Cfr. S. Freud, Osservazioni psicoanalitiche su un caso di paranoia (dementia paranoide) descritto autobiograficamente. (Caso clinico del presidente Schreber) (1911), in Opere, 12 vol., a cura di C.L Musatti, Bollati Boringhieri, Torino 1989, vol. 6. D.P. Schreber, Memorie di un malato di nervi (a cura di R. Calasso), Adelphi, Milano 1974, p. 56, corsivo mio. S. Freud, Compendio di psicoanalisi (1938), in OSF, cit., vol. 11, p. 603.
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egli, al di fuori del trattamento, si comportasse nella maniera più normale possibile, manifestando soltanto nella traslazione le sue reazioni anomale.5
Freud ci parla dunque della possibile evenienza in alcune occasioni dell’agieren, per dirci che ciò che è andato nell’oblio può ripresentificarsi sia nella forma del ricordo che riemerge squarciando il velo della rimozione, sia nella forma dell’atto, vale a dire che può accadere che il paziente perseveri nel non ricordare assolutamente nulla di ciò che ha dimenticato, ma che tuttavia lo metta “in atto. Egli riproduce quegli elementi non sotto forma di ricordi, ma sotto forma di azioni: li ripete, ovviamente senza rendersene conto”6. Ciò che sinteticamente il fondatore della psicoanalisi mette in risalto nelle sue riflessioni intorno all’agieren è la possibilità di rinvenire, all’interno di una cura, l’emergenza di azioni che non si legano alla caduta dell’oblio. E ciò che non viene ricordato, rimesso in circolo in una catena significante attraverso il flusso della catena delle libere associazioni, potrebbe trovare un altro corso, agito, per trovare modo di esprimersi, ma al di fuori di una elaborazione soggettiva di stampo simbolico. L’agieren freudiano è stato successivamente tradotto tendenzialmente in lingua inglese con il termine acting out e in lingua francese con il termine passaggio all’atto, senza che venisse operata una precisa sua differenziazione, per come Lacan la andrà a definire e su cui ci soffermeremo in seguito, tra acting out e passaggio all’atto. La tematica del passaggio all’atto è piuttosto un aspetto che ha storicamente destato non poco interesse in seno alla psichiatria, che ha volto la propria attenzione ai passaggi all’atto nelle loro possibili declinazioni, di stampo suicidario, omicida, autolesionistico. Basti pensare a Falret, che menzionò la frequenza dei passaggi all’atto nella fase di ingresso nella psicosi; come pure a Pinel, che ne ravvisò la presenza all’interno di quadri nosografici di “mania senza delirio”, dunque non sempre in congiunzione a deliri già conformati, e allo stesso tempo spesso associati, se pur non sempre, ad effetti terapeutici, di auto-trattamento, sui soggetti; e ancora ad Esquirol, che parlò di momonania omicida, e a Guiraud e Cailleux che rivelarono il carattere immotivato dei passaggi all’atto. In accordo con la psichiatria dell’epoca, il senza motivo dei passaggi all’atto divenne un punto di comunanza tra i diversi poli prospettici in seno alle riflessioni psichiatriche e sarà peraltro proprio Guiraud a introdurre il termine di kakon, che La5 6
Ivi, p. 604. S. Freud, Ricordare, ripetere, rielaborare (1914), in OSF, cit., vol. 7, pp. 355-356.
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can riprenderà, per indicare il tipo di oggetto in gioco nel passaggio all’atto – nel Discorso sulla causalità psichica del 1946, dunque diversi anni prima rispetto all’elaborazione dell’oggetto a, Lacan ci dirà che in fondo “non è altro che il kakon del proprio essere che l’alienato cerca di raggiungere nell’oggetto che colpisce”7. Lacan, come ben sappiamo, prima di approdare alla psicoanalisi, era uno psichiatra, e la sua formazione non solo non ha ignorato questa attenzione nei confronti dei passaggi all’atto tanto diffusa nelle riflessioni psichiatriche, ma si è congiunta a pieno al suo vivo interesse non soltanto nei confronti della psicosi ma anche dei modi possibili di stabilizzazione della psicosi o di tentativi di soluzione da parte dei soggetti psicotici a seguito dello scatenamento. Le diverse possibili soluzioni adottate dai soggetti psicotici per trattare l’emergenza del reale e fare i conti con il vuoto forlcusivo hanno interrogato Lacan dai primi suoi lavori su Aimée e le sorelle Papin, passando per Scherber fino ad arrivare a Joyce. All’interno delle possibili cosiddette soluzioni, possiamo inserire il passaggio all’atto, che può assumere anche la forma di un tentativo di auto-trattamento. Certamente possiamo anticipare che il passaggio all’atto crea un’effrazione, un taglio, una differenza brusca. C’è un’azione che si pone fuori simbolizzazione, un agire in cui la parola è assente, il sapere è assente, come pure potremmo dire che il transfert è assente. Il passaggio all’atto recide il legame con l’Altro, si colloca al di fuori della scena, se per scena si intende l’inquadramento marcato dai significanti in cui il soggetto trova un posto venendo rappresentato da un significante per un altro significante. In questo suo essere così disarcionato dal legame con l’Altro, si inizia già a intravedere uno spartiacque radicale tra queste due possibili piegature dell’agire, che vedono acting out e passaggio all’atto porsi su distinti piani. Non solo, ma mentre il delirio, come tentativo di guarigione, si può inquadrare nei termini di rammendo del rapporto con l’Altro e come modo per rimettere in circolazione dei significanti, il passaggio all’atto per certi aspetti è in posizione inversa, in quanto recide il rapporto con l’Altro. Possiamo anticipare anche il fatto che le considerazioni di Lacan intorno al passaggio all’atto seguono le fasi del suo insegnamento. E credo che possa essere importante tenere a mente le diverse accentuazioni man mano da egli date nel corso del tempo, senza pensare che le considerazioni via via effettuate si pongano in un rapporto di mutua esclusione, quanto piuttosto di articolazione e messa in evidenza di elementi sempre più 7
J. Lacan, Discorso sulla causalità psichica, in Scritti, Einaudi, Torino 1974, p. 169.
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specifici. Provando a scandire una sorta di ripartizione molto sommaria, possiamo dire che in un primo tempo Lacan ha accentuato l’aspetto immaginario-aggressivo del passaggio all’atto, considerato per lo più come esito di un eccesso pulsionale, spinta aggressiva eccessiva. In seguito, in particolare negli anni Cinquanta, ha accentuato l’aspetto della recisione dalla dimensione dialettica del passaggio all’atto, come posto al di fuori della tenuta della trama simbolica, e dunque come anche sganciato, proprio per tale ragione, da una dimensione transferale. Infine, a partire dalla formalizzazione dell’oggetto a, è stato possibile per Lacan approdare ad una riflessione più approfondita del passaggio all’atto, nella sua distinzione rispetto all’acting out e all’atto, anche in relazione al reale e non solo all’immaginario e al simbolico. Atto, passaggio all’atto, acting out A differenza di Freud, Lacan destina svariate riflessioni all’atto ed alla differenza tra acting out e passaggio all’atto. All’interno de “La logica del fantasma”, ci dice: “Rispetto all’atto in quanto esso è ciò che vuol dire, ogni passaggio all’atto si opera solo a controsenso. Esso lascia da parte l’acting out, dove ciò che dice non è soggetto, ma verità”8. Abbiamo così, più che una bipartizione tra passaggio all’atto e acting out, una tripartizione, in cui le declinazioni dell’agire sono specificate rispettivamente come atto, passaggio all’atto e acting out, e dove viene messo in evidenza che tra atto e passaggio all’atto vi è un rapporto di inversione, laddove se l’atto coincide con ciò che vuol dire, il passaggio all’atto si pone in controsenso, in direzione inversa. Vale a dire che l’atto va nella direzione del dire, l’atto, nel suo essere senza parole, è ciò che vuol dire e, come sottolinea Geneviéve Morel, “è il prodotto di un desiderio supportato da dei significanti”, e si colloca dunque su un vettore che va dal simbolico al reale, ossia dalla “elaborazione del desiderio alla sua realizzazione”9. Dunque, l’atto, che in sé non dice, vuole dire: si tratta di un’azione che ha una connotazione significante. Il passaggio all’atto demarca una traiettoria diversa, va a controsenso, non va dal simbolico al reale. Il passaggio all’atto non è ciò che vuol dire, ma si sgancia dal desiderio, punta direttamente al reale, va dritto nella di8 9
J. Lacan, “La logica del fantasma. Resoconto del seminario del 1966-67”, in Id. Altri scritti, a cura di A. Di Ciaccia, Einaudi, Torino 2013, p. 321. G. Morel, Clinique du suicide, érès, Toulouse 2010, pp. 15-16, [trad. mia].
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rezione del godimento. Lacan ci mette su questa strada indicandoci come il passaggio all’atto ha come condizione “l’identificazione assoluta del soggetto con quell’a a cui si riduce”10. Louis Izcovich ce ne parla precisamente nei termini di “realizzazione di godimento”, in cui “il soggetto si identifica con l’oggetto”11. Mentre, diversamente ancora, l’acting out fuoriesce da questa logica, mette in scena qualcosa della verità dell’inconscio del soggetto, sebbene il soggetto, nel momento dell’acting out, esca momentaneamente fuori dall’inquadramento simbolico, per poi farvi ritorno. L’acting out, come “salto impulsivo nel reale”12, tuttavia “comporta sempre un elemento significante, e proprio per il fatto che è enigmatico”13. Sempre seguendo Morel, l’acting out è “la messa in scena, in una condotta, di un desiderio, certo sconosciuto al soggetto, ma prossimo alla sua verità intima”14. Dunque, l’acting out, come ci dice Jean-Claude Maleval, “mette in scena il rimosso quando questo non arriva a farsi intendere”15. Un primo punto credo essenziale per il nostro discorso è che, nella sua delimitazione del concetto di passaggi all’atto, Lacan ricorre ad esempi clinici che non si radicano nella struttura psicotica. Egli, infatti, prende le mosse da alcune considerazioni intorno al caso della giovane omosessuale, per soffermarsi sul suo niederkommen lassen, il suo “lasciar cadere”, uscire fuori scena; come pure menziona lo schiaffo che Dora dà al signor K. nel momento in cui lui proferisce la “frase-trappola”: “Mia moglie non è nulla per me”16. Già questo è sufficientemente esplicativo di come il passaggio all’atto non sia un fenomeno di pertinenza esclusiva della psicosi. Questi stessi riferimenti clinici, al tempo stesso, ci forniscono esemplificazioni di acting out: nel caso della giovane omosessuale nella sua condotta ostentata con la donna dalla dubbia reputazione (nel suo mostrarsi-mostrare al padre come si ama una donna…); all’interno del caso di Dora e della sua iste10 J. Lacan, Il Seminario. Libro X. L’angoscia (1962-63), a cura di A. di Ciaccia, Einaudi, Torino 2007, p. 121. 11 L. Izcovich, L’insondabile decisione. Il paradigma della psicosi, FrancoAngeli, Milano 2020, p. 236. 12 J. Lacan, La cosa freudiana. Senso del ritorno a Freud in psicoanalisi, in Id., Scritti, cit., p. 421. 13 J. Lacan, Il Seminario. Libro V. le formazioni dell’inconscio (1957-58), a cura di A. di Ciaccia, Einaudi, Torino 2004, p. 431. 14 G. Morel, op. cit., p. 17, trad. mia. 15 J.-C. Maleval, Logique du délire, Pur, Rennes 2011, p. 72, [trad. mia]. 16 J. Lacan, Il Seminario. Libro X…, cit., p. 125.
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ria, in particolare nella declinazione del suo “comportamento paradossale” nei confronti dei coniugi K.17. Nel caso della giovane omosessuale abbiamo, se si vuole, un tracciato davvero esemplare rispetto a come sia possibile per uno stesso soggetto passare da una condotta marcata dall’acting out a un passaggio all’atto, dove il passaggio all’atto si va ad inserire precisamente nel punto in cui l’acting out non avrebbe più la cornice in cui inserirsi. Vale a dire che il passaggio all’atto, il lasciarsi cadere, quel cadere giù dal ponte con cui la ragazza, dopo aver incrociato lo sguardo di disdegno-disapprovazione del padre nella sua ostentazione sfrontata della relazione, cade giù, niederkomt… Fino a quel momento Lacan ci dice bene che “era stata sì frustrata in ciò che le doveva essere dato, cioè il fallo paterno, ma aveva trovato il modo di mantenere il desiderio tramite la relazione immaginaria con la signora. Ma quando quest’ultima la rigetta, allora non arriva più a sostenerla nulla”. La ragazza si trova “sprovvista di ogni risorsa”18. Il passaggio all’atto ha luogo nel momento in cui l’angoscia non riesce più a essere trattata attraverso l’acting out. Torneremo con più precisione sul rapporto tra angoscia e acting out e tra angoscia e passaggio all’atto. Qui, tuttavia, mi preme già sottolineare un punto credo significativo rispetto alla posizione del soggetto all’interno di un acting out o di un passaggio all’atto. La giovane omosessuale, nel suo passaggio all’atto, ci mostra uno scivolamento dal lato dell’oggetto. La giovane cade e nel suo cadere si va a collocare dal lato dell’oggetto e non più dal lato di una posizione fallica. Dal fallo all’oggetto: potrebbe essere questo credo un modo per indicare la diversa posizione soggettiva nell’acting out e nel passaggio all’atto. E se, come ci dice Marcel Czermak, con l’acting out siamo “in una problematica fallica, una problematica del desiderio, del dono e dello scambio”19, il passaggio all’atto ci illustra di fuoriuscire radicalmente da questa logica e proprio per questo risulta difficile nella psicosi poter menzionare l’evenienza di acting out in senso stretto. Piuttosto, laddove la tenuta fallica si incrina, il soggetto scivola verso l’identificazione con l’oggetto. Se dunque l’acting out è una “mostrazione fallica”, il passaggio all’atto “esclude la dimensione fallica e riduce il soggetto all’oggetto che è divenuto”20 . Nel suo diventare oggetto che cade la 17 Ivi, p. 133. 18 J. Lacan, Il Seminario. Libro IV. La relazione d’oggetto (1956-57), a cura di A. Di Ciaccia, Einaudi, Torino 1996, p. 156. 19 M. Czermak, Passage à l’acte et acting out, érès, Toulouse 2019, p. 52, [trad. mia]. 20 M. Czermak, Patronymies. Considérations cliniques sur les psychoses, érès, Touluse 2000, p. 101, [trad. mia].
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giovane omosessuale ci dimostra che l’equilibrio su cui si era sorretta nella sua performance di ostentazione tramite il suo acting out ha mostrato un punto di impasse. Il passaggio all’atto si inserisce dunque nel punto in cui non riesce più a perseverare nel mantenere vivo quel fragile punto di stabilità che l’acting out le consentiva di preservare, e vede il soggetto andare a collocarsi dal lato dell’oggetto: l’accesso suicida, vede la giovane cadere, uscire dalla scena, andando a coincidere con l’oggetto anale e scopico. In sintesi estrema, anche se in modo un po’ grossolano, se l’acting out lascia ancora il soggetto in una possibile cornice fallica, in cui la mostrazione-provocazione prende il suo peso, il passaggio all’atto ha luogo laddove il soggetto si trova disarcionato radicalmente da un punto di tenuta identificatorio di stampo anche fallico, andando piuttosto a coincidere con l’oggetto. Credo che questo aspetto possa servirci in modo abbastanza esemplificativo per dare ragione del fatto che mentre dal lato della nevrosi si possa rinvenire l’evenienza a un tempo di episodi di acting out e di passaggi all’atto, dal lato della psicosi sia più facile rinvenire passaggi all’atto, mentre si stenta a poter menzionare la presenza di acting out. L’acting out in quanto tale è escluso dalla psicosi? Proveremo a darci ragione di questa ipotesi a partire dalla peculiarità del rapporto del soggetto con l’Altro nella psicosi; come pure a partire dalla particolarità del rapporto con l’oggetto. Possiamo già anticipare che l’acting out viene da Lacan descritto come un atto che “sopraggiunge durante un tentativo di soluzione del problema della domanda e del desiderio”, strutturato come una “sceneggiatura” e posto “allo stesso livello del fantasma”21. Sappiamo che nella psicosi manca l’inquadramento fantasmatico, semmai il soggetto psicotico è assoggettato, senza mediazione, al fantasma dell’Altro. E questa mancanza costituisce ab origine un ostacolo affinché l’acting out, in quanto rivolto all’Altro secondo un certo orientamento, possa in senso stretto prendere forma. Nel Seminario III, Lacan ci dice che il registro dell’acting-out è equivalente a un fenomeno allucinatorio di tipo delirante che si produce quando simbolizzate prematuramente, quando affrontate qualcosa nell’ordine della realtà e non all’interno del registro simbolico.22 21 J. Lacan, Il seminario. Libro V…, cit., p. 431. 22 J. Lacan, Il seminario. Libro III. Le psicosi (1955-56), a cura di G.B. Contri, Einaudi, Torino 1985, p. 95.
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Abbiamo qui davvero una densità che credo meriti di essere scomposta. Come viene definito l’acting out? Come equivalente a un fenomeno delirante; come effetto di una simbolizzazione prematura; come effetto di qualcosa che viene affrontato nell’ordine della realtà e non nel registro simbolico. Abbiamo una miniera di spunti. Siamo di fronte ad un fenomeno che può essere rapportato per certi versi a fenomeni psicotici. Siamo di fronte ad un eccesso di simbolizzazione, che si declina nella direzione di una simbolizzazione “prematura”, che avviene in un tempo anticipato, su un terreno immaturo. Abbiamo qualcosa che viene posto, calato, sul piano della realtà e non su quello simbolico. Potremmo leggere questa bipolarità tra eccesso e carenza di simbolizzazione, che a parere di Lacan contraddistingue l’acting out, come una bipolarità che si chiarisce in quanto quel che avviene pre-maturamente, avviene laddove il simbolico non ha fatto sufficientemente presa (all’interno della cura). La simbolizzazione è prematura, perché in quel punto il simbolico è carente. C’è un troppo di simbolico che entra in gioco laddove il simbolico difetta. La conseguenza di questo eccesso di simbolizzazione, che avviene prematuramente, è che cade in un punto dove non può essere accolta da parte del soggetto. E questo possiamo dire che provoca una sorta di cortocircuito. Il soggetto a questa simbolizzazione prematura non può rispondere simbolicamente. Nell’acting out, a fronte della non possibilità di accogliere simbolicamente una simbolizzazione prematura, qualcosa viene agito. Agito fuori. Acting-“out”. Il fuori, l’out, ci dice bene, come Lacan sottolinea, che “l’acting out è qualcosa, nella condotta del soggetto, che si mostra”23. L’acting out è una risposta. Una risposta senza parole. Nel Sem VIII Lacan si chiede quale “formula generale” si possa dare dell’acting out. E ci dice che possiamo definirlo come “una ricaduta del soggetto” o come “un effetto delle nostre cazzate”24. Questa osservazione ci fa raccordare al vivo della direzione della cura e alla posizione dell’analista nella cura e non è del resto un caso che Lacan ci dica che “l’atto psicoanalitico stesso è sempre alla mercé degli acting out”25. Al tempo stesso Lacan ci dice che questo non ci basta. Non ci basta ridurre l’acting out a un effetto delle cazzate dell’analista. Piuttosto, se il trattamento analitico è un “tentativo” o una “tentazione” di “rispondere all’inconscio”, quando l’ac23 J. Lacan, Il seminario. Libro X…, cit., p. 133. 24 J. Lacan, Il Seminario. Libro VIII. Il transfert (1960-61), a cura di G.B. Contri, Einaudi, Torino 1994, p. 368. 25 J. Lacan, L’atto analitico. Resoconto del Seminario sull’atto analitico del 19671968, in Id., Altri scritti, cit., p. 374.
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ting out si verifica si tratta di un’azione “tramite cui, in un certo momento del trattamento […], il soggetto esige una risposta più giusta”26. Dunque, senza ridurlo ad un mero effetto di una cazzata da parte dell’analista, possiamo comunque inquadrare l’acting out come un’azione che mira a una risposta più precisa. Potremmo meglio dire che l’acting out ha un doppio statuto, nel senso che per certi versi è altamente significante, e Lacan lo sottolinea a più riprese, per un altro ha un carattere di totale enigmaticità ed estraneità per cui il soggetto non sa dirne nulla. Qualcosa, dunque, nell’acting out si mostra, più che essere il soggetto a mostrarsi – vale a dire che nell’acting out vi è sempre una messa in scena dell’oggetto. Ma l’acting out ha un “orientamento verso l’Altro”, ci indica qualcosa del “rapporto essenziale dell’a piccolo con l’A grande”27. L’acting out “è sempre un messaggio”28 e ha uno statuto, un “accento dimostrativo”29. L’acting out, per quanto diretto al reale e fuori simbolico, preserva un raccordo con l’Altro e si orienta verso l’Altro cui vien mostrato qualcosa. E questo orientamento verso l’Altro è un punto di discrimine fondamentale tra l’acting out e il passaggio all’atto. E non è un caso che Lacan ci dica che “tutto quello che è acting out è antitetico al passaggio all’atto”30. Se Lacan ci dice che l’acting out è equivalente a un fenomeno allucinatorio di tipo delirante, ci sta dando una precisa indicazione di lettura dell’acting out come per certi versi affine al campo della psicosi, in quanto nell’acting out ha luogo un meccanismo di espulsione radicale di un significante dal simbolico. Ma si tratta al tempo stesso di un fenomeno che non è di pertinenza del campo psicotico. Nel momento in cui l’acting out ha luogo il soggetto si riferisce ad un significante non simbolizzabile e l’acting out mette in scena precisamente nel reale questo qualcosa che non può essere simbolizzato e che non può essere detto. Sappiamo bene che questa espulsione radicale dal simbolico è proprio al cuore del meccanismo della Verwerfung, la forclusione. Nella Verwerfung siamo tuttavia di fronte ad un rigetto di qualcosa che non viene in un secondo tempo reintegrato nella catena significante31. Nella Verwerfung ci troviamo semmai di fronte ad una forma di rigetto che non prevede un riassorbimento nella catena significante. E, a partire dalla Verwerfung, se di 26 27 28 29 30 31
J. Lacan, Il Seminario. Libro VIII…, cit., p. 369. J. Lacan, Il Seminario. Libro X…, cit., pp. 132-133. J. Lacan, Il Seminario. Libro V…, cit., p. 432. J. Lacan, Il Seminario. Libro X…, cit., p. 133. Ivi, p. 132. Per approfondimenti cfr. Aa.Vv., “L’acting-out rèalisation d’un réponse production de l’inconscient”, in Scilicet, 6/7, Seuil, Paris 1976.
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ritorno si tratta, si tratta di un ritorno nel reale. Diversamente, l’acting out non può essere concepito che nella sua duplice articolazione, nel suo orientamento verso l’Altro e nel suo duplice movimento di andata e ritorno. Nell’acting out qualcosa si mostra e nel mostrarsi chiama in causa l’analista affinché, potremmo dire, si rimetta al suo posto e rivada ad occupare la posizione da cui si era spostato all’interno del quadro analitico. Se dunque il registro dell’acting out richiama esplicitamente nel suo essere equivalente ad un fenomeno allucinatorio qualcosa che ha a che fare con la Verwerfung, la forclusione, e dunque con la struttura psicotica, non si può non tener conto del movimento di andata e ritorno che lo connota. E, proprio a partire da questo andirivieni, mostra la sua difficile compatibilità con la sua evenienza all’interno della psicosi. Mentre infatti la Verwerfung, come buco nel simbolico, implica un ritorno nel reale e si raccorda alla struttura psicotica, l’acting out, che prende corpo a partire da un rigetto di un elemento simbolico che non viene tradotto in termini significanti e che si trova ad essere escluso dal linguaggio, implica poi un secondo tempo di vera e propria reintegrazione all’interno del linguaggio stesso. Nella Verwerfung siamo fronte ad un rigetto di qualcosa che non viene in un secondo tempo reintegrato nella catena significante. L’acting out, diversamente, prevede una duplice scansione, una fuoriuscita e poi una reintegrazione nella catena simbolica. Non siamo affatto nella psicosi, ma semmai all’interno di un circuito in cui a partire dal rigetto di un elemento simbolico che non viene tradotto in termini significanti, che non viene tradotto in parole, che si trova ad essere escluso dal linguaggio, abbiamo poi un ritorno al linguaggio e al significante. La fuoriuscita dal simbolico ha dunque una connotazione transitoria, circoscritta temporalmente. Vi è infatti un secondo tempo dell’acting out in cui, terminata la messa in scena, si tratta di un ritorno al simbolico. L’acting out attende che sia ristabilito il discorso analitico che aveva subito un momento di evanescenza. Per questo possiamo dire che l’acting out è altamente significante, nel suo richiamo all’interpretazionedecifrazione e nella sua invocazione del desiderio contro ogni schiacciamento o riduzione del desiderio sul piano della realtà che mira in fondo a snaturarlo e a sopprimerlo. Sintetizzando: con l’acting out, abbiamo un’andata nel reale, e un ritorno nel simbolico; con la Verwerfung, c’è una fuoriuscita dal simbolico e un ritorno, ma nel reale. Potremmo così dire che nel momento in cui si verifica un acting out nel corso di una cura siamo di fronte ad una sorta di doppia evanescenza: abbiamo infatti da un lato un soggetto nella sua evanescenza, un soggetto che
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non si designa, nel senso che non sa dire a cosa sta rispondendo, non riesce a trovare il senso di ciò che ha agito e dà una risposta che chiede di essere interpretata, dà una risposta senza parola e si tratta di una risposta che si mostra e che si indirizza all’Altro in cerca di una interpretazione. Dall’altro lato abbiamo una evanescenza dal lato dell’analista, che si smarca dalla posizione dell’analista e lascia vacante quel posto che unicamente rende possibile che nel corso di un’analisi non si slitti verso una deriva che, in mancanza di una centratura, può far scivolare verso questa precipitazione, in cui accade che nella cura fondata sulla parola, la parola non ha più spazio per esservi: un agire mette in scena ciò che non può essere detto. In questo quadro, ciò che non è stato preservato è un posto vuoto, che al fondo è il posto del desiderio. Nell’interpretazione saturante e prematura il desiderio è stato in qualche modo misconosciuto nella sua struttura, nella sua peculiarità che lo rende non riducibile al piano del soddisfacimento del bisogno, quindi non riducibile, potremmo dire, in senso più lato, al piano della realtà. Ed ecco che vediamo come nell’acting out si debbano per Lacan “combinare questi due termini – quello del mostrare o dimostrare e quello del desiderio – per isolare un desiderio la cui essenza è di mostrarsi come altro e, tuttavia, proprio mostrandosi come altro, di designarsi”32. Come pure potremmo dire che nell’acting out si mette in atto una sorta di “protesta”33 del desiderio proprio per essere stato misconosciuto e trattato come un oggetto della realtà. Se dunque nell’acting out abbiamo una risposta senza parole che si mostra e che nel mostrarsi si indirizza all’Altro, da cui il soggetto si attende una interpretazione e una rimessa in circolo dell’immaginario e del simbolico, nel caso del passaggio all’atto abbiamo una rottura con l’Altro. Nel passaggio all’atto non abbiamo una messa in scena fuori dal simbolico, non abbiamo un mostrare, non abbiamo un richiamo all’Altro come potenziale decifratore della messa in scena, ma siamo fuori dalla scena del simbolico e fuori dall’invocazione dell’Altro. Nel passaggio all’atto la barra cade sul soggetto che spezza il suo legame con l’Altro e si identifica all’oggetto. Non abbiamo un’andata e ritorno, che abbiamo visto connotare l’acting out, ma una caduta libera, in cui il soggetto non è attivo, ma lo è l’oggetto. Vediamo bene che in questo caso non siamo di fronte a un’uscita temporanea dal quadro dell’analisi, bensì un’uscita radicale dal campo simbolico che viene agita nel reale e dove il soggetto ha letteralmente lascia32 J. Lacan, Il Seminario. Libro X…, cit., p. 134. 33 A. Zenoni, Il corpo e il linguaggio in psicoanalisi, Bruno Mondadori, Milano 199, p. 228.
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to il posto all’oggetto. Quando vi è passaggio all’atto il soggetto è fuori dalla scena, completamente. Senza appello all’interpretazione. Non è un caso che Lacan ci dica che “il niederkommen è essenziale a qualsiasi improvvisa messa in rapporto del soggetto con ciò che esso è in quanto a”. Questo lasciar cadere è per Lacan il “correlato essenziale del passaggio all’atto”34. Ed è proprio alla luce di questa identificazione con l’oggetto che “non per niente il soggetto melanconico ha una simile propensione a lanciarsi dalla finestra, sempre portata a compimento con una rapidità folgorante, sconcertante”. Se la finestra sta precisamente a rappresentare “il limite tra la scena e il mondo”, attraverso la defenestrazione possiamo dire che il soggetto “fa ritorno all’esclusione fondamentale in cui sente di trovarsi”35. Se insistiamo sull’essere fuori dalla scena del passaggio all’atto, credo che valga la pena chiarire cosa intendiamo per scena, nella sua differenza dal mondo. Lacan nel Seminario VII ci fornisce a questo proposito delle precise indicazioni: è evidente che le cose del mondo umano sono cose di un universo strutturato in forma di parola, e che il linguaggio, i processi simbolici, dominano, governano tutto.36
La scena, potremmo dire, è il luogo in cui vengono messe in forma le cose del mondo. Se “le cose del mondo umano” sono il reale informe, il luogo in cui “si accalca il reale”, la scena è il luogo in cui il soggetto si rappresenta, si storicizza, si mette a bagno nei significanti, si colloca, trova un posto, si fa contaminare dall’Altro ed al contempo “deve costituirsi come colui che porta la parola” 37. Sappiamo anche che la messa in scena, il luogo della scena, è inscindibile da una quota di finzione, una finzione che è, potremmo dire, consustanziale alla partecipazione alla scena del nostro esserci. Non è forse che l’equivoco, il malinteso, il dubbio, le oscillazioni, sono ciò che connota irrimediabilmente l’iscrizione nell’universo simbolico, fatto di contrasti e di contrari, di alternanze, di dialettica, di gioco degli opposti, di differenzialità e che non conosce certezza alcuna? Ecco la scena, ecco la messinscena, se vogliamo, che trova un punto apicale di sua evenienza nell’acting out, come fenomeno che si appoggia sulla scena e 34 J. Lacan, Il Seminario. Libro X…, cit., p. 125. 35 Ivi, p. 120. 36 J. Lacan, Il Seminario. Libro VII. L’etica della psicoanalisi (1958-60), a cura di G.B. Contri, Einaudi, Torino 1994, p. 55. 37 J. Lacan, Il Seminario. Libro X..., cit., p. 126.
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che ne rivela certe possibili derive estreme – acting out che richiede uno spettatore, un Altro cui rivolgersi, pena non potersi nemmeno conformare. Con l’acting out vediamo quindi prendere posto sulla scena l’oggetto, ma nella sua declinazione di rappresentazione, come i (a). Il passaggio all’atto disarciona il legame dall’Altro e dalla scena. Non siamo più a livello della finzione, del malinteso, del dubbio, dell’equivoco. Non siamo a bagno sulla scena di fronte a uno spettatore. Siamo a bagno nel regime della certezza. Siamo nel registro in cui non c’è la finzione ma il nudo non inganno del reale. Non abbiamo più una scena in cui l’oggetto prende posto, non abbiamo più un oggetto che viene rappresentato sulla scena, ma siamo di fronte ad un soggetto che “va nella direzione di evadere dalla scena”. Ed è precisamente questa direzione evasiva, ci dice Lacan, a permetterci di “riconoscere il passaggio all’atto nel suo valore proprio e di distinguerlo da quello che è tutt’altro […] ossia l’acting out”38. Dunque, la dimensione-direzione evasiva è ciò che consente di conferire al passaggio all’atto il suo valore proprio, e in quanto proprio, distinto dal valore proprio dell’acting out. Non a caso Lacan menziona la “fuga” nei termini di “partenza vagabonda per il mondo puro”39, come mondo che in qualche modo fa obiezione all’iscrizione nella catena significante. Come ci dice in modo eloquente Alfredo Zenoni: “il passaggio all’atto viene a disfare la connessione fra la vita e la dimensione dell’Altro” ed è “proprio questo statuto di reale che il soggetto sembra possedere” a rendere “incerto il parlare di acting out nella psicosi”40. Ecco dunque come, seguendo Lacan, possiamo arrivare ad indicare quella che viene la lui descritta nei termini di “struttura del passaggio all’atto”, in cui ci precisa che il lasciar cadere è ciò che è visto “precisamente dal lato del soggetto”41: il passaggio all’atto è dal lato del soggetto in quanto questo appare cancellato in modo estremo dalla barra. Il momento del passaggio all’atto è quello del massimo imbarazzo del soggetto, cui si aggiunge a livello comportamentale l’emozione come disordine del movimento. Ecco allora che, da dove si trova – […] come soggetto fondamentalmente storicizzato – esso si precipita e cade fuori dalla scena.42
38 39 40 41 42
Ivi, p. 125. Ivi, p. 126. A. Zenoni, op. cit., pp. 235; 237. J. Lacan, Il Seminario. Libro X…, cit. p. 125. Ibidem.
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Nel momento del passaggio all’atto il soggetto si trova senza via di scampo, nella posizione di oggetto, nella posizione dell’oggetto che è per l’Altro, senza possibilità alcuna di simbolizzare. Uscendo dalla finestra il soggetto melanconico esce dalla scena e come oggetto si precipita nel mondo, secondo il “postulato di indegnità”, ampiamente descritto da Massimo Recalcati, che mette in evidenza in modo molto preciso come in questa declinazione della struttura psicotica la certezza in gioco sia quella della “coincidenza reale del proprio essere e il niente”, che mette bene in evidenza come ciò che prevale sia la dimensione non solo radicalmente a-dialettica e irremovibile di tale coincidenza, ma anche come essa si congiunga ad un radicale svuotamento di senso della vita, non transitorio43. Si tratta piuttosto di una “scissione senza ritorno dall’ordine del senso”, di una sconnessione “dal sistema dei significanti”44. Il soggetto, potremmo dire, si de-soggettiva, andando ad incarnare l’oggetto indegno che, senza posto, esce dalla scena e si precipita nel mondo. Se pensiamo a Schreber, ci può risultare evidente non solo il sentimento di svuotamento di senso della vita associato all’assenza di significazione fallica – dall’assassinio di anime, al suo sentirsi un cadavere lebbroso, al suo vissuto di disgregazione, frammentazione-putrefazione corporea nelle fasi più marcatamente schizofreniche del decorso della sua malattia. Schreber si sente morto, legge su un giornale della propria morte. E non è di minor conto il suo vissuto melanconico di essere lasciato cadere, liegen lassen dall’Altro divino, prima del suo riposizionamento nel quadro più pacificante dell’essere la donna di Dio. Questo sentimento di derelizione e di esser lasciato cadere va di pari passo con il sentirsi oggetto di godimento dell’Altro divino, in linea con quanto Lacan ci indica con grande chiarezza dicendoci che la paranoia “identifica il godimento nel luogo dell’Altro in quanto tale”45. Se infatti in generale, nella nevrosi, l’Altro è il deserto del godimento, la psicosi, e in particolare la paranoia fa esistere l’Altro che gode. Vediamo bene come ci si situi a un livello fuori dal regime della castrazione, fuori dalla significazione fallica, in cui il godimento, intriso di una dimensione mortifera per il soggetto, non rende più possibile a Schreber entrare in gioco come uomo vivente, ma solo come oggetto goduto da Dio. 43 M. Recalcati, Jacques Lacan. La clinica psicoanalitica: struttura e soggetto, Raffaello Cortina, Milano 2016, p. 235. 44 Ivi, p. 242. 45 J. Lacan, Presentazione delle Memorie di un malato di nervi, in Id., Altri scritti, cit., p. 215.
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Bene, Schreber stesso, nel doloroso al di qua della ricostruzione articolata della sua metafora delirante, e della rimessa in circolo, in qualche modo, di un sentimento della vita, incorre in diversi passaggi all’atto. Sono diverse le occasioni in cui infatti, a partire dallo scatenamento della seconda malattia, compie tentativi di suicidio. Il primo, in concomitanza con l’avanzamento minaccioso della sua malattia, che lo indusse al ricovero e dove, unitamente ad uno stato di inedia, comparvero i suoi pensieri di morte. Un secondo, di lì a pochi giorni, quando Schreber ci testimonia che in lui la “voglia di vivere era completamente spezzata” e “ogni prospettiva che non fosse quella di porle fine con la morte per suicidio”46 era per lui svanita. Prima di procedere nel nostro itinerario, mi preme indicare alcuni spunti. Innanzi tutto, che, se abbiamo menzionato il sentimento del senso della vita ed il suo dileguarsi laddove il soggetto vada a coincidere con l’oggetto, credo che valga la pena sottolineare, seguendo di nuovo Recalcati, come “la vita biologica” non sia affatto “sufficiente a trasmettere il sentimento della vita”47. Tale sentimento della vita è inscindibile dall’incontro con il desiderio dell’Altro, che consente di far radicare l’esistenza in un senso che oltrepassa lo schiacciamento sul reale, con tutta la portata intrisa di pulsione di morte che lo connota. Se pensiamo del resto a quanto Lacan ci dice a proposito dei bambini non-desiderati, non menziona forse come tale iscrizione non propizia nel luogo dell’Altro venga a congiungersi ad una “irresistibile inclinazione al suicidio”, indicativa di un rifiuto radicale di “entrare nel gioco della catena significante”? Questi soggetti, ci dice Lacan, Vogliono letteralmente uscirne. Non accettano di essere ciò che sono, non vogliono quella catena significante nella quale sono stati ammessi controvoglia dalla loro madre [… Dunque] il soggetto, nel suo rapporto con il significante, ogni tanto può rifiutarsi. Potrà dire – No, io non sarò un elemento della catena. È questo il punto più estremo.48
E nel passaggio all’atto, come Izcovich ci dice, il soggetto, “rinunciando la vincolo della catena, […] rinuncia al suo statuto”; in questo senso si può ben parlare di una “abolizione del soggetto”49.
46 47 48 49
D.P. Schreber, Memorie di un malato di nervi, cit., p. 64. M. Recalcati, op. cit., p. 236. J. Lacan, Il Seminario. Libro V…, cit., p. 251. L. Izcovich, op. cit., p. 235.
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In secondo luogo, alla luce delle considerazioni fin qui effettuate, credo che si possa convenire con Maleval nel momento in cui osserva come il godimento nella nevrosi resti “correlato alla significazione fallica che testimonia di una coordinazione dell’oggetto reale al significante”, e dunque i nevrotici mostrano una “propensione agli acting out” mentre il passaggio all’atto non riesce per loro ad avere una “funzione salvatrice”50. Diversamente, la funzione salvatrice accade che il passaggio all’atto la possa assurgere nella psicosi. In tale senso il passaggio all’atto in tali casi si può definire anche nei termini di un tentativo di guarigione51. Un tentativo di guarigione diverso da quello del delirio vale a dire un tentativo di guarigione che non passa dall’elaborazione significante ma che “chiede in prestito in cortocircuito il tramite dell’oggetto reale”. I requisiti affinché un passaggio all’atto abbia luogo vengono indicati nei termini di uno “spossessamento più o meno accentuato della funzione simbolica” e nella messa a confronto con il godimento dell’Altro52. Questo confronto con il godimento dell’Altro, come elemento particolarmente significativo per la sua incidenza nell’emergenza del passaggio all’atto, ci porta in linea diretta a doverci confrontare sul rapporto tra passaggio all’atto e angoscia, oltre che a doverci interrogare sulla possibile evenienza di passaggi all’atto nel momento di scatenamento della psicosi, a fronte dell’entrata in gioco dell’Un-padre e dello scompaginamento che a partire da lì si viene a produrre. Acting out, passaggio all’atto e angoscia Nel Seminario X sull’angoscia Lacan precisa come passaggio all’atto e acting out siano fenomeni che si correlano, se pur in modo distinto, all’angoscia. Sappiamo bene che l’angoscia è “ciò che non inganna”53. Che vuol dire? L’angoscia si correla ad una certezza, ma una certezza molto precisa: che l’Altro voglia qualcosa, ma non si sa cosa. Potremmo forse definirla come una certezza senza sapere e senza verità. Non a caso l’angoscia pri50 J.-C. Maleval, Logique..., cit., p. 72, [trad. mia]. 51 Cfr. Y. Trichet, L’entrée dans la psychose. Approches psychopatologiques, clinique ed (auto-) traitements, Pur, Rennes 2011, p. 259. 52 Ibidem, qui Trichet sta citando uno scritto di J.-C. Maleval, “Logique du meurtre immotivé”, in H. Grivois (dir.), Psychose naissante, psychose unique?, Paris, Masson 1991, p. 62, [trad. mia]. 53 J. Lacan, Il Seminario. Libro X…, cit., p. 83.
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mordiale viene inquadrata come correlata ad una precisa domanda che il soggetto pone all’Altro. “Che vuoi?”, “Che vuoi tu da me?”. Potremmo dire che nel momento dell’angoscia il soggetto impatta con il desiderio dell’Altro nella sua enigmaticità, senza riuscire a collocarsi in una posizione definita. Come pure, come Lacan precisa nel Seminario X, l’angoscia si correla alla domanda dell’Altro, ed al godimento dell’Altro, si correla a quella sensazione mista di impotenza e derelizione che il soggetto esperisce di fronte al godimento dell’Altro che mi vuole in qualche modo come oggetto. Quando Lacan ci parla della primitiva “esperienza del desiderio dell’Altro” ce ne parla nei termini di un’esperienza “oscura e opaca”, che getta il soggetto in uno stato di inermità54. Si tratta di quella che Freud definisce Hilflosigkeit, la détresse, la derelizione, come primordiale esperienza traumatica. Se teniamo a mente questo scenario, in cui il soggetto è smarrito di fronte all’opacità del desiderio dell’Altro presso il quale ancora non ha avuto modo di reperire il proprio posto, ecco che Lacan inserisce precisamente la costruzione fantasmatica come quella costruzione che, mettendo in un certo rapporto il soggetto barrato con l’oggetto, si palesa essere una modalità di difesa dallo stato di derelizione. Il fantasma ha una funzione sostanzialmente difensiva, consente di velare il reale, e protegge dall’inermità-angoscia e incornicia la realtà55. Ed è a partire da qui che il soggetto, all’interno di questa esperienza del desiderio dell’Altro il soggetto potrà trovare il modo, come ci dice Lacan, di “situare il proprio desiderio”56. L’operazione per eccellenza che consente di inquadrare la realtà in un modo pressoché stabile sappiamo essere la metafora paterna. Il fantasma possiamo così anche dire che permette, a partire dall’operatività della castrazione simbolica, di orientare il desiderio del soggetto, consentendogli di raccordarsi al resto di godimento a partire dalla perdita imposta dalla castrazione simbolica. Quando il segnale d’angoscia compare, il soggetto dunque incontra ad un tempo enigma e certezza: di certo l’Altro vuole qualcosa, ma la risposta al quesito resta in sospeso, sebbene il soggetto si senta, come oggetto, preso nelle maglie del desiderio dell’Altro. Laddove il soggetto si trovi di fronte all’impossibilità di posizionarsi di fronte al desiderio dell’Altro tramite il proprio desiderio, attraverso una mobilitazione di significanti, la 54 J. Lacan, Il Seminario. Libro VI. Il desiderio e la sua interpretazione (1958-59), a cura di A. Di Ciaccia, Einaudi, Torino 2016, p. 20. 55 “il fantasma fa alla realtà la sua cornice”, J. Lacan, “Sul bambino psicotico”, in La Psicoanalisi, n. 1, Astrolabio, Roma 1987, p. 16. 56 J. Lacan, Il Seminario. Libro VI…, cit., p. 20, corsivo mio.
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strada si apre nella direzione dell’emergenza dell’angoscia o nella direzione dello scivolamento verso il godimento. Il momento in cui l’angoscia fa capolino è quello in cui l’oggetto appare sulla scena. In questo senso, possiamo seguire Lacan quando ci dice che “agire è strappare all’angoscia la sua certezza. Agire è realizzare un trasferimento di angoscia”57. Ragione per cui l’acting out, possiamo dire che protegge dall’angoscia, “è dell’ordine dell’evitamento dell’angoscia”58. In fondo possiamo dire che l’angoscia, il segnale d’angoscia è ciò che accomuna, da un punto di vista fenomenologico, nel tempo che precede la loro evenienza, acting out e passaggi all’atto. Izcovich ci dice in modo molto preciso che “l’acting out e il passaggio all’atto costituiscono […] risposte di godimento al desiderio dell’Altro quando il soggetto non ha la risorsa del desiderio e cerca di evitare l’angoscia”59. Mi pare una definizione molto chiara che mette luce su un punto preciso: acting out e passaggi all’atto sono modi di evitamento dell’angoscia, sebbene si inquadrino in coordinate diverse, su cui non mi soffermo ulteriormente. Quanto al passaggio all’atto, Lacan lo inquadra nelle coordinate incluse tra l’imbarazzo, come punto culminante di una difficoltà a livello soggettivo, e l’emozione. Cos’è l’imbarazzo? Lacan ce lo indica come il momento in cui il soggetto si vede come diviso. L’imbarazzo pone il soggetto di fronte ad un eccesso in cui non riesce a fare ricorso ad alcun significante per proteggersi. Nel passaggio all’atto, il soggetto preso tra l’emozione, come nome di una difficoltà a livello del movimento e l’imbarazzo, come nome dell’eccesso che trova il soggetto incapace di fare ricorso al significante, ci si trova di fronte ad una repentina azione che fa letteralmente rompere la scena. Di nuovo abbiamo il soggetto in prossimità eccessiva con l’oggetto a, con cui in questo caso il soggetto si va a identificare e, come scarto, evacua, si precipita fuori dalla scena. Credo che su questo punto dell’eccesso messo in gioco dall’imbarazzo si possano effettuare alcune riflessioni. Nella psicosi il soggetto, potremmo dire, più che fare i conti con la divisione soggettiva che sappiamo bene in senso stretto non poter essere menzionabile, la sollecitazione eccessiva alla questione del Che vuoi? trova più che mai il soggetto sguarnito. Ecco che mi pare che si dischiuda un orizzonte ulteriore per chiarire in che senso il passaggio all’atto sia di pertinenza privilegiata nel campo delle psicosi. Il soggetto psicotico potremmo dire che è struttural57 J. Lacan, Il Seminario. Libro X…, cit., p. 83. 58 Ivi, p. 126. 59 L. Izcovich, op. cit., p. 234.
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mente in difficoltà nel rispondere alla questione della propria posizione all’interno del desiderio dell’Altro. Se abbiamo prima menzionato, all’interno della differenza tra scena e mondo, il luogo della scena come luogo in cui il soggetto, nel suo processo di soggettivazione-storicizzazione, è chiamato anche, come detto, a “costituirsi come colui che porta la parola”60, non ci viene difficile intendere come per lo psicotico questo livello di assunzione soggettiva sia interdetto. E non è un caso che, a proposito delle eventuali congiunture di scatenamento della psicosi, Lacan menzioni precisamente la possibile sollecitazione che il soggetto psicotico riceve nella direzione di “prendere la parola”, la “sua parola”, sollecitazione che trova inesorabilmente il soggetto sguarnito di significanti per rispondere, non essendo più sufficienti le coordinate identificatorie-imitative, di conformazione immaginaria all’altro come simile. Ed è così che “la deficienza del soggetto nel momento di affrontare la parola vera, pone il suo ingresso, il suo scivolamento, nel fenomeno critico, nella fase inaugurale della psicosi”61 e, secondo Lacan, è proprio “intorno a questo buco, dove al soggetto manca il supporto della catena significante”62, che si andrà a giocare la partita della possibile ricostruzione delirante. Se questa ipersollecitazione ci fornisce alcune possibili coordinate per inquadrare il cosiddetto momento dello scatenamento della psicosi, altrettanto può esserci utile per inquadrare il momento che precede l’accesso di un passaggio all’atto, che lo può favorire e che fa sì che i passaggi all’atto si rinvengano non di rado anche nei momenti di scatenamento della psicosi. Come a dire, seguendo Izcovich, che “se il soggetto è attirato dal passaggio all’atto è perché più il significante tace, più il soggetto si avvicina al reale”. E, sempre in linea con queste osservazioni, riesce più chiaro intendere la ragione per cui è più facile che i passaggi all’atto si verifichino non tanto in congiunzione con il picco di fenomeni allucinatorio-deliranti, ma nella cosiddetta “fase decrescente” di questi fenomeni, che vedono il soggetto in un rapporto di “esaurimento del significante”63. Seguendo questo filo non ci diviene complesso in che senso si possa parlare di una valenza protettiva che le allucinazioni vanno ad assumere per il soggetto, e come la loro evanescenza possa essere una concausa che 60 J. Lacan, Il Seminario. Libro X…, cit., p. 126, corsivo mio. 61 J. Lacan, Il Seminario. Libro III…, cit., pp. 299-300. 62 J. Lacan, Una questione preliminare ad ogni possibile trattamento della psicosi, in Id., Scritti, cit., p. 560. 63 L. Izcovich, op. cit., p. 235.
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porta il soggetto nella direzione evacuativa del passaggio all’atto. Seguendo sempre questo filo, non ci viene difficile concordare con Maleval nel momento in cui evidenzia come “la ricchezza di creazioni neologiche pare raramente correlativa ad una propensione ai passaggi all’atto”. Vale a dire che la produzione di neologismi svolgerebbe funzione di “contenere il godimento delocalizzato”, mentre la loro non evenienza sarebbe spesso evento propizio per orientare il soggetto nella direzione di “passaggi all’atto salvatori”64. Ecco che arriviamo alla possibile funzione di beneficio che il soggetto psicotico può arrivare a esperire a partire dal passaggio all’atto, laddove attraverso di esso il soggetto può pervenire a un sollievo rispetto all’incontro con un eccesso di godimento che lo invade. Passaggio all’atto e oggetto A proposito del passaggio all’atto Nicolas Dissez sostiene che l’oggetto dell’atto, colui che ne è la vittima è ben più facile da isolare del suo soggetto, del suo autore. Cosa costituisce l’oggetto del passaggio all’atto? Possiamo distinguere a tale proposito una polarità. Abbiamo infatti da un lato l’oggetto che si palesa della forma di scarto e dall’altro l’oggetto che si palesa nella direzione dell’“oggetto eminente”.65 L’oggetto scarto, l’oggetto kakon, come oggetto che al contempo ammalia, affascina e crea orrore – e su questo versante possiamo collocare l’efferato omicidio delle sorelle Papin nella cruenza e scabrosità dell’estrazione degli occhi delle loro padrone. Dall’altro abbiamo l’oggetto eminente che mette in evidenza una sorta di dinamica transferale in gioco nella psicosi, dove possiamo dire che tutta la portata di fascinazione immaginaria nei confronti di un oggetto, non scevro di una valenza eventualmente erotomanica, può spingersi fino al punto da indurre il soggetto ad un passaggio all’atto nei confronti dell’oggetto idealizzato – in questa declinazione Aimée ci risulta esemplare, nel suo premeditato attacco alla celebre attrice fonte per lei di irresistibile fascinazione. Questi due differenti tipi di oggetto in fondo fanno da contraltare a due distinti tipi di investimenti transferali nei confronti dell’oggetto stesso. Vale a dire che abbiamo una gamma di possibili messe in forma dell’oggetto che va dall’oggetto del cosiddetto assassinio immotivato, dove l’investimento transferale sembra del tutto inspiegabile e non si radica in una fascinazione-am64 J. C. Maleval, Logique du délire, cit., p. 71, [trad. mia]. 65 N. Dissez, “Préface”, in M. Czermak, Passage à l’acte…, cit., p. 9, [trad. mia].
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mirazione potentemente incandescente dal punto di vista immaginario su un oggetto particolarmente significativo all’interno della storia personale, e dove sembra che attraverso il passaggio all’atto venga “colpito il male in quanto tale”66. In questo caso il passaggio all’atto avviene in un tempo iniziale di investimento sull’oggetto. In altri casi il passaggio all’atto si manifesta nel punto apicale dell’investimento da parte del soggetto sull’oggetto – di nuovo la polarità sorelle Papin-Aimée ci viene in soccorso per dare una esemplificazione. Da una parte l’effetto crimine al di fuori del senso e della comprensibilità, dall’altro il passaggio all’atto in cui sono più che rintracciabili elementi di altissimo investimento da parte di Aimée nei confronti dell’attrice colpita – come a dire che l’attrice era un oggetto che da molto tempo ingombrava la vita psichica di Aimée ed in questo caso “le motivazioni dell’atto paiono meglio integrate nel pensiero del soggetto”67. Passando alla questione del rapporto tra soggetto e passaggio all’atto, potremmo chiederci: dove si trova il soggetto nel passaggio all’atto? Se teniamo a mente quanto poc’anzi accennato, ossia che il passaggio all’atto ha luogo a partire da una prossimità eccessiva con l’oggetto, un oggetto che non è passato strutturalmente dal meccanismo della separazione per un ristagno del soggetto all’interno di un’alienazione cui non fa da contraltare da un punto di vista logico un movimento separativo, non ci è difficile ipotizzare che nel passaggio all’atto il soggetto, come dice Dissez, “sparisce”68. Il passaggio all’atto non solo è indice della sparizione del soggetto ma, potremmo dire che, a monte, non è possibile che a partire da un’evanescenza del soggetto. Possiamo così sostenere che l’ingombro eccessivo dell’oggetto, che si tratti dell’oggetto-scarto kakon o dell’oggetto iperinvestito, va di pari passo ad una evanescenza del soggetto. Del resto Lacan ci dice in modo chiaro che “il passaggio all’atto è dal lato del soggetto in quanto questo appare cancellato”69. Il prevalere della prossimità con l’oggetto offusca il soggetto. Questo è quanto possiamo sostenere a proposito della congiuntura di scatenamento del passaggio all’atto, di cui peraltro spesso il soggetto non sa che dire, mostrandosi per lo più non depositario di un sapere in quanto tale su quanto compiuto, che capita resti immotivato dunque non solo dall’esterno, potremmo dire, ma anche nella ricostruzione dei fatti accaduti. Non altrettanto, tuttavia, si può dire degli effetti del passaggio all’atto sul soggetto, svanito-cancellato-abolito nel momento del passaggio all’at66 67 68 69
Ivi, p. 12, [trad. mia]. J.-C. Maleval, Logique du dèlire…, cit., p. 71, trad. mia. N. Dissez, op. cit., p. 13, [trad. mia]. J. Lacan, Il Seminario. Libro X…, cit., p. 125.
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to, nel di poi. E questo aspetto degli effetti tocca un punto cruciale che concerne la funzione che il passaggio all’atto può sortire a livello soggettivo. Per essere più precisi, se ci riferiamo a quanto sostenuto da Dissez in relazione alla possibilità che il passaggio all’atto consente di operare “un taglio che potrebbe reinstaurare un’opposizione significante fondatrice”70, possiamo ipotizzare che proprio la scansione di questa opposizione significante, per quanto brutale possa essere, dia spazio all’emergenza di qualcosa di una soggettività prima offuscata dall’eccesso di presenza dell’oggetto? Qui la questione diventa problematica: il passaggio all’atto può produrre, nei suoi effetti, qualcosa della soggettività prima offuscata dall’eccessivo ingombro dell’oggetto? In questo caso il passaggio all’atto si verrebbe a porre come passaggio che consente di inserire una sorta di separazione dall’oggetto investito immaginariamente in modo incandescente o da una prossimità eccessiva con l’oggetto, mai estratto. Sappiamo infatti che nella psicosi l’oggetto a non è estratto, il che significa che il reale è in eccedenza, e questa eccedenza richiede di essere in qualche modo trattata. Il passaggio all’atto consentirebbe di smussare, arginare questo investimento esuberante riversato sull’oggetto e di attuare, nel reale, una manovra di separazione dall’oggetto stesso. Questa operazione viene tuttavia effettuata senza passare dall’Altro simbolico, aggirando l’Altro, potremmo dire, ma “sul reale attraverso il reale”71, come rende bene Colette Soler. Pur non essendovi un momento di elezione per l’insorgenza dei passaggi all’atto, non di rado essi hanno luogo proprio nelle fasi di scatenamento della psicosi, fasi nelle quali il soggetto impatta precisamente con quell’esubero del reale, oltre che dell’immaginario, non setacciato e calmierato dal simbolico. Al tempo stesso possiamo ben dire che il passaggio all’atto può anche fare seguito ad un delirio o inscriversi al suo interno. E a tal proposito Lacan, all’interno de L’aggressività in psicoanalisi, ci dice, in relazione alla paranoia di autopunizione della sua paziente Aimée in questo scritto rimenzionata, che “l’atto aggressivo risolve la costruzione delirante”72. Abbiamo dunque, in questo caso, una sorta di soluzione apportata, dal passaggio all’atto, al tentativo di guarigione rappresentato dal delirio! Lacan individua quindi la possibilità di un tentativo di guarigione non tramite il delirio, ma attraverso il suo “soffio”: il passaggio all’atto ha per Aimée la funzione di abbattere “quel paravento 70 N. Dissez, op. cit., p. 11, [trad. mia]. 71 C. Soler, L’inconscient à ciel ouvert de la psychose, Presses Universitaires du Mirail, Toulouse 2008, p. 191, [trad. mia]. 72 J. Lacan, L’aggressività in psicoanalisi, in Id., Scritti, cit., p. 104.
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che è chiamato delirio”73 che, poche settimane dopo il passaggio all’atto, cesserà del tutto. Credo che tuttavia a questo proposito valga la pena operare una precisazione. Le riflessioni di Lacan intorno al passaggio all’atto sono da lui effettuate, come prima accennato, a partire dagli anni Sessanta, in relazione all’oggetto a. Ed è precisamente la considerazione dell’oggetto a che consente di scardinare il passaggio all’atto dalla sua riduzione a una montata eccessiva di aggressività che si verrebbe a scaricare. Prima dell’elaborazione teorica dell’oggetto a, diversamente, la lettura della psicosi in generale e dei passaggi all’atto in essa presenti erano da lui stati inquadrati sotto l’insegna di un’aggressività eccessiva, dovuta al ristagno del soggetto all’interno dell’incaglio delle dinamiche speculari iperinfiammate, in particolar modo nella paranoia, o, nel caso di disgregazione della tenuta speculare presente in altre forme di psicosi, a rovescio, nella possibilità di un riversamento delle spinte aggressive in direzione autodistruttiva. Come a dire che se “l’identificazione edipica è quella con cui il soggetto trascende l’aggressività costitutiva della prima individuazione soggettiva”74, nella psicosi questo momento trascendente, di superamento dell’aggressività connessa ad una specularità ingombrante, a un immaginario non arginato dalla presa della Legge simbolica sarebbe carente e il soggetto psicotico per ciò stesso più esposto anche ad accessi di moti aggressivi proprio in quanto a bagno in un immaginario a briglia sciolta, potremmo dire. La follia, definita nei termini di “stasi dell’essere in una identificazione ideale”75, esprime dunque in modo molto preciso la stagnazione se vogliamo sulla linea dello stadio dello specchio, del narcisismo, dell’aggressività. Lacan, nell’Introduzione teorica alle funzioni della psicoanalisi in criminologia, nel 1950, dunque solo due anni dopo lo scritto l’Aggressività in psicoanalisi, apporta delle precisazioni che ritengo veramente illuminanti e che ci consentono di inquadrare e meglio specificare in che declinazione l’aggressività, eventualmente anche di stampo criminogeno, vada inquadrata. Ci dice infatti: La tensione aggressiva che integra la pulsione frustrata, ogni volta che il difetto di adeguamento dell’“altro” fa abortire l’identificazione risolutiva, de-
73 J. Lacan, Dei nostri antecedenti, in Id., Scritti, cit. p. 62. 74 J. Lacan, L’aggressività in psicoanalisi, cit., p. 111. 75 J. Lacan, Discorso sulla causalità psichica, in Id., Scritti, cit., p. 166.
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termina per ciò stesso un tipo di oggetto che diventa criminogeno nella sospensione a ogni dialettica dell’io.76
La sospensione rispetto ad ogni dimensione dialettica ci dice bene come nel passaggio all’atto il soggetto si trovi in un rapporto di esclusione con la dimensione della parola ed in una recisione del rapporto con il grande Altro. Il passaggio all’atto implica l’oltrepassamento della Legge simbolica. Non solo, ma, sempre nello stesso scritto, ci dice, a proposito di individui dotati di tendenze criminali, che “parlare di un eccesso di libido è una forma vuota di senso […] si tratta piuttosto della nozione di un difetto che non di un eccesso vitale”77. Questa notazione, che va in una direzione completamente contraria a quella di una interpretazione in termini di scarica pulsionale, ricentra il punto: c’è un difetto, c’è un meno, e questo meno è dal lato della vitalizzazione. Potremmo tradurre questo meno come una carenza a livello simbolico, come una mancata presa della Legge simbolica della castrazione. Non possiamo forse intendere la mancata significazione fallica proprio anche in questi termini? Nella psicosi la castrazione simbolica non ha avuto luogo. La forlcusione del Nome-del-Padre, che possiamo indicare con P0, sappiamo bene che non ci dice solo di una carenza simbolica, ma produce effetti a livello immaginario e reale. Quando diciamo che nella psicosi l’oggetto non è estratto, non facciamo che indicare la presenza di un godimento che, in quanto non localizzato, può prendere mille diverse forme invadenti per il soggetto, e l’oggetto a, non solo è non estratto ma in quanto non estratto non è congiunto al significante, essendo la significazione fallica, come nome della messa in raccordo del significante con l’oggetto a, assente. Attraverso il passaggio all’atto il soggetto tenta di separarsi dall’oggetto incombente: “Dall’attacco portato in atto al proprio corpo o anche all’immagine del simile, dall’aggressione mutilatrice fino al suicidio o all’omicidio, la mutilazione reale emerge in proporzione al difetto di efficacia della castrazione”78. Vediamo qui essere messa in rilievo una precisazione assolutamente decisiva che mette in una relazione proporzionale la carenza della castrazione simbolica e l’emergenza della possibile castrazione agita nel reale. A tale proposito può essere emblematico il caso del piccolo Robert, seguito da Robert e Rosine Lefort, e ripreso da Lacan nel Seminario I, caso a 76 J. Lacan, Introduzione teorica alle funzioni della psicoanalisi in criminologia, in Id., Scritti, cit., p. 136. 77 Ivi., p. 142, corsivo mio. 78 C. Soler, op. cit., p. 191, [trad. mia].
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suo dire “dimostrativo”79 per illustrare fenomeni dell’ordine psicotico, e che ben ci illustra come l’acquisizione di una immagine unificata del proprio corpo, congiunta ad una localizzazione del godimento, possa stentare in certe situazioni a costituirsi. Robert ci illustra in modo paradigmatico cosa possa voler dire occupare la posizione di bambino-oggetto e non di bambino-fallo. Robert non ha incontrato il desiderio dell’Altro. Robert non ha ricevuto un riconoscimento, anche fallico-narcisistico. Robert ha urtato brutalmente con un Altro che non ha favorito alcuna ricomposizione speculare. Figlio di un padre di cui non si hanno tracce e di una madre psicotica che non riesce a prendersi cura di lui nemmeno a livello, se si può dire, dei bisogni primari, la vita di Robert è segnata nei primi tre anni da continui spostamenti randomici da un luogo all’altro, oltre che da numerose ospedalizzazioni, per una serie di problematiche di salute oltre che per uno stato di grave denutrizione. Dopo i primi tre anni entrerà nell’istituzione in cui i Lefort lo prenderanno in cura. Non è questa la sede per approfondire il caso interessantissimo, ma qui mi preme sottolineare come questo bimbo – dai movimenti scoordinati, con iperagitazione, incapace di utilizzare la “parola coordinata” ma capace di emettere grida e versi non dotati di senso, con crisi di agitazione compulsiva cui si alternavano momenti di radicale prostrazione di stampo depressivo, con vissuti di vuoto, disturbi del sonno, incapace di entrare in contatto con l’altro – possiamo dire che resta in balia di un reale sregolato, eccessivo. Non c’è per lui una significazione fallica che lo raccordi ad un sentimento della vita umanizzata. Nei momenti delle crisi più acute era solito passare all’atto e tentare di strangolare gli altri bambini. Come pure, in un momento cruciale, una sera, prende delle forbici, si mette a letto e, di fronte ad altri bimbi, tenta di tagliarsi il pene. Ecco che, in mancanza della castrazione simbolica, siamo di fronte ad una drammatica esemplificazione di quello che può essere una castrazione reale. Come sottolinea Recalcati, “l’automutilazione viene al posto dell’impossibilità di simbolizzare la castrazione”80. Quanto al possibile valore auto-terapeutico del passaggio all’atto, si va a congiungere all’effetto che può produrre nella direzione di smorzare, calmierare, fare uscire, sebbene realmente, un godimento di troppo. In questo senso, come sottolinea Maleval, capita che “i deliri, più o meno elaborati, chiariscano gli omicidi immotivati indicandone un dato clinico maggiore, ossia la 79 J. Lacan, Il Seminario. Libro I. Gli scritti tecnici di Freud (1953-1954), a cura di A. Di Ciaccia, Einaudi, Torino 2014, p. 127. 80 M. Recalcati, op. cit., p. 196.
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funzione strutturante dell’estrazione dell’oggetto a”. Dunque, per questi soggetti, “il tentativo di guarigione attraverso l’omicidio, o la mutilazione, ha per scopo quello di produrre una sottrazione che li libererebbe dal godimento da cui sono ingombrati”81. A tale proposito mi pare interessante quanto propone Cristiana Fanelli, nel momento in cui nota come il godimento sia associato “alla pulsione di morte, […] a qualcosa di fisso, stagnante, […], persino al dolore”; come anche l’“immobilità” sia “un volto del godimento” e come una reazione motoria, per esempio di fuga, sia “il modo più arcaico che abbiamo per sottrarci a un dolore”. Non di rado patologie gravi di stampo melanconico vedono in modo esemplare la congiunzione di dolore, come eccesso di godimento non localizzato, e immobilità82. Ecco che di nuovo il passaggio all’atto sembra potersi inscrivere in una direzione che si orienta non verso l’Altro, ma verso lo svuotamento dall’ingombro paralizzante di un godimento di troppo. In questo ritorna efficace la declinazione del passaggio all’atto come capace di operare un “taglio che potrebbe reinstaurare un’opposizione significante fondatrice”83 che per lo psicotico è difettosa/ mancante. Seguendo questo filo non ci viene difficile pensare di rubricare i passaggi all’atto all’interno delle diverse possibili modalità di auto-trattamento, come tentativi “auto-terapeutici radicali” che, indipendentemente dagli effetti che possono andare a produrre, prendono il posto di una “supplenza reale” a fronte del buco forclusivo84. Possiamo intendere questa manovra nei termini di quel “trattamento del reale attraverso il reale” a partire dalla non-estrazione dell’oggetto a. E, nel caso di Robert prima menzionato, si tratterebbe, come Soler evidenzia, del fatto che il piccolo “realizza in atto, a titolo quasi di supplenza, l’effetto maggiore del simbolico, ossia il suo effetto di negativizzazione del vivente”85. Molto spesso ci si trova nella clinica su un crinale. Non credo che, al di là delle definizioni e delimitazioni che stiamo cercando di fornire, io per prima, in questo tentativo di ricostruzione, ci sia poi nella clinica una possibilità di procedere per categorie prestabilite. La questione in fondo è: come trattare un passaggio all’atto, o meglio, come trattare un soggetto a seguito di un passaggio all’atto? Come favorire la rimessa in campo di qualcosa di una soggettività a partire dalla sua uscita dalla scena? 81 J.-C. Maleval, Logique…, cit., p. 71, [trad. mia]. 82 Cfr. C. Fanelli, “Corpi in bilico, tra amore e godimento”, in S. Vizzardelli, L. De Fiore (a cura di), Come gode un corpo? Clinica e teoria del corpo pulsionale, Galaad Edizioni, Rende (CS) 2021, p. 74, nota 2. 83 N. Dissez, op. cit., p. 11, [trad. mia]. 84 Y. Trichet, op. cit., pp. 256-57, [trad. mia], corsivo mio. 85 C. Soler, op. cit., p. 191, [trad. mia].
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Izcovich ci dice che dopo il passaggio all’atto per il soggetto “le cose restano come prima”, proprio in quanto manca il passaggio dal simbolico. In fondo è proprio la cortocircuitazione del simbolico a rendere impossibile che avvenga qualcosa della trasformazione a livello soggettivo, che, diversamente ha luogo attraverso l’atto – in cui, come sappiamo, l’azione ha una funzione trasformativa sul soggetto stesso che, sebbene nel momento dell’atto sia sganciato dal pensiero, poi si trova cambiato, non è più come prima, potremmo dire. Eppure, credo che si debba fare un distinguo che ritengo sia il punto cruciale della questione. Partiamo dal fatto che sia l’atto che il passaggio all’atto implicano una “discontinuità tra il linguaggio e l’atto” 86. A partire da questo punto di comunanza, l’antinomia tra atto e passaggio all’atto si colloca proprio sul passaggio dal tempo per comprendere, che nell’atto ha luogo, o sulla precipitazione sul tempo per concludere, come avviene nel passaggio all’atto; sull’effetto trasformativo sul soggetto, a partire dall’atto, o sul non sapere del proprio atto, da parte del soggetto, nel passaggio all’atto. Nel di poi del passaggio all’atto però, cosa accade o cosa può accadere? Ecco che anche Izcovich non esclude che qualcosa nel di poi possa muoversi a livello soggettivo, e dunque, “anche l’affermazione ‘non lo farò mai più’, in cui alcuni credono di vedere un’autocritica del passaggio all’atto, è priva di senso se non si accompagna a un’elaborazione simbolica che prevede uno spostamento”87. Dunque, un’elaborazione simbolica che prevede uno spostamento, nel di poi, può avvenire, anche se non è detto che abbia luogo. In questo senso le riflessioni di Lacan intorno alla criminologia mi paiono di una portata che andrebbe assolutamente valorizzata e riattualizzata. All’interno dello scritto Premesse a ogni sviluppo possibile della criminologia, egli ci dice infatti, a proposito di eventi criminali: Solo la psicoanalisi […] è capace in questi casi di far emergere la verità dell’atto, implicandovi la responsabilità del criminale tramite un’assunzione logica che deve portarlo ad accettare un giusto castigo.88
Questo rinvio al castigo, al castigo come nome di un incontro possibile con un’altra scena, un altro Altro che possa concorrere nel far compiere una torsione alla posizione soggettiva, ci apre non solo a molti interrogativi, ma credo ci porti in linea diretta a ripensare al caso Aimée, da Lacan tanto amato. 86 L. Izcovich, op. cit., p. 237. 87 Ibidem. 88 J. Lacan, Premesse a ogni sviluppo possibile della criminologia (1950), in Id., Altri scritti, cit., p. 123.
Postfazione Nei deserti del fine analisi. Nuove prospettive sull’atto1 Cristiana Fanelli
Prologo Una cornice storica Il Discorso all’École freudienne de Paris è uno scritto di Lacan coevo al seminario sull’atto che del seminario ci restituisce l’atmosfera e ci racconta gli eventi che lo hanno preceduto e poi circondato. Ha perciò una tonalità autobiografica, se vogliamo calorosa, che fa luce su un punto d’incrocio tra vita di Lacan e teoria psicanalitica. È lo stesso Lacan a farci notare che la sua riflessione sull’atto è il rovescio di atti che lui, in prima persona, sta compiendo nell’istituzione psicanalitica. Quindi, teorizza qualcosa in materia di atto psicanalitico mentre sta compiendo un atto. E di quale atto si tratta? Dell’introduzione della passe, che tanto malcontento e trambusto avrebbe sollevato nel suo entourage. La passe, però, è solo l’ultimo di una lunga serie di atti e dunque, per essere capita, va messa in prospettiva con gli altri passaggi cominciati nel 1953, quando Lacan abbandona la Société psychanalytique de Paris e assieme a Françoise Dolto, Daniel Lagache ed altri fonda la Société française de Paris che avrebbe atteso invano un riconoscimento ufficiale da parte dell’IPA2, l’istituzione psicanalitica internazionale. In questa occasione il punto di non ritorno furono le sedute a tempo variabile (e la questione del tempo tornerà a farsi sentire in modo forte anche qui, nel discorso sull’atto e sulla passe). Trascorsi dieci anni, Lacan incorre nella famosa “scomunica” (quindi non riconoscimento, ma scomunica) che sancisce la sua rottura definitiva 1
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Il testo, rivisto dall’autrice, riguarda il contributo del 10 maggio 2022 al Dipartimento di studi “Bibbia e Psicoanalisi” organizzato dalla Società Milanese di Psicoanalisi, un gruppo di ricerca che nasce dall’idea di interrogare il rapporto tra sapere biblico e sapere psicoanalitico, dedicato nel 2021/2022 al tema: l’atto psicoanalitico e la grazia. IPA cioè International Psychoanalytic Association – la prima organizzazione al mondo per l’accreditamento e la regolamentazione della professione di psicoanalista.
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con l’IPA. È un evento traumatico: a partire da questo momento, Lacan parla di sé come di un “eretico” mentre le persone che lo circondano vengono convocate, interrogate, scoraggiate a restare con lui. Come ha risposto Lacan a questi eventi? In due modi. Per prima cosa ha teorizzato qualcosa in materia di atto psicanalitico. Siamo nel 1962-1963 e lui sta tenendo il seminario sull’Angoscia in cui, da un lato, introduce l’atto distinguendolo dall’acting out e dal passaggio all’atto3 e, dall’altro, introduce concetti che ritroveremo nel seminario sull’atto psicanalitico del 1967. Dice per esempio che l’atto si radica in un dire, che la sua stoffa è significante: Noi parliamo di atto quando un’azione ha il carattere di una manifestazione significante in cui si inscrive quello che potremmo chiamare lo stato del desiderio.4
Infatti, già in questo seminario, Lacan mette in continuità l’atto con il desiderio e con l’oggetto a. La seconda risposta di Lacan alla scomunica è stata la fondazione dell’École freudienne de Paris, una Scuola a cui tenne moltissimo e che avrebbe sciolto solo alla fine della sua vita – la famosa Dissoluzione che tanto lo avrebbe disperato, una dissoluzione che riguardò non solo la sua Scuola, ma anche la sua persona. Nell’Atto di fondazione accosta l’École freudienne de Paris alle scuole dell’antichità che funzionavano come “luoghi di rifugio, o meglio basi operative contro quello che già allora poteva essere chiamato il disagio 3
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In questo seminario Lacan accosta e distingue tre dimensioni dell’atto: l’atto, l’acting-out e il passaggio all’atto ciascuno dei quali rinvia a uno scenario soggettivo molto diverso. Nell’atto si realizza il soggetto del desiderio; nell’acting-out abbiamo invece un soggetto in scacco rispetto al suo posto nell’Altro e che vi pone rimedio facendo mostra di fallicismo (sia nel senso dell’essere che dell’avere), ma restando comunque sulla scena; nel passaggio all’atto il soggetto si riduce a oggetto scarto, a oggetto che si espelle dalla scena, che si lascia cadere: lasciarsi cadere – dice Lacan – è la formula del passaggio all’atto (vale a dire lasciarsi cadere dalla scena come oggetto di scarto). Un aspetto clinico molto interessante riguarda il punto di vacillamento dell’acting-out nel passaggio all’atto – come d’altronde mostrano bene i due casi su cui Lacan si appoggia, ovvero il caso Dora e il caso della Giovane omosessuale. E un altro punto interessante sta nella divaricazione tra atto e acting out perché se l’atto si radica in un dire, l’acting-out fa mostra di ciò che non si è potuto dire, che non è stato soggettivizzato. J. Lacan, Il seminario. Libro X. L’angoscia (1962-1963), Einaudi, Torino 2007, p. 347. In queste pagine Lacan situa il desiderio, l’atto e l’inibizione, nello stesso luogo. Infatti, sia dietro un atto che dietro un’inibizione è all’opera un desiderio e quindi bisogna cercarlo. Ad esempio, spiega Lacan, se qualcuno ha il crampo dello scrittore (inibizione) è perché erotizza la funzione della sua mano (desiderio).
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della Civiltà”5. Ora qual è il punto? Che qui una fine coincide con un inizio, alla scomunica segue la fondazione dell’École. Ma quando una fine si apre su un nuovo inizio, siamo nella logica dell’atto. È il 1964 e dal 1964 al 1967 il passo è breve. Così, lungo questa traiettoria (scomunica/ prime teorie sull’atto psicanalitico/ fondazione dell’Ecole freudienne de Paris) si collocano il seminario sull’atto e l’invenzione della passe. Cosa cercava Lacan con la passe? Cos’è la passe? “La passe è quel punto in cui qualcuno, venuto a capo della propria psicanalisi, fa il passo di prendere il posto che lo psicanalista ha occupato nel suo percorso”6. Dimentichiamo il dispositivo della passe, un dispositivo decaduto e obsoleto, un fallimento pressoché riconosciuto. Ma, al di là di questo, la domanda resta: cosa stava cercando Lacan con la passe? Cosa lui stesse cercando, in effetti, è interessante e attuale. Ebbene, questo scritto offre più di una risposta a tale domanda e ci permette di guardare alla passe da diverse angolazioni. Da un lato, la restituisce alla sua dimensione storica (e quindi datata), perché fa luce sugli eventi (inattuali) di cui la passe è figlia. Ma c’è molto altro. Nelle intenzioni di Lacan, la passe avrebbe rimesso al centro del fine analisi (cioè del passaggio da analizzante ad analista) l’atto psicanalitico e non l’investitura dell’IPA o di qualsiasi altra Scuola o Associazione. Ma fare dell’atto il cardine del fine analisi significa porre al centro anche il desiderio, perché atto psicanalitico e desiderio dell’analista sono intimamente legati. Lacan lo esprime così: È unicamente a partire dall’atto psicoanalitico che occorre individuare ciò che articolo del desiderio dello psicoanalista, che non ha niente a che vedere con il desiderio di essere psicoanalista.7
In queste righe Lacan compie una doppia mossa: da un lato, ci dice che il desiderio dello psicanalista germina dall’atto psicanalitico; dall’altro, 5 6 7
J. Lacan, “Atto di Fondazione”, in Id., Altri scritti, Einaudi, Torino 2013, pp. 229240, p. 238. J. Lacan, “Discorso all’École freudienne de Paris”, in Id., Altri scritti, cit., pp. 257-278, p. 273. Ivi, p. 267.
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distingue il desiderio dello psicanalista dal desiderio di essere psicanalista (desiderio, quest’ultimo, preso ancora nei bagliori del sembiante, di uno status). Con questa doppia mossa Lacan riallinea tra loro il fine analisi, l’atto psicanalitico e il desiderio dell’analista – una terna che manca però di un quarto elemento: l’oggetto a, l’oggetto che per Lacan è al cuore sia dell’atto che del desiderio. E l’oggetto a governa anche il fine analisi, sia perché l’analizzante entra in rapporto con l’oggetto-causa del suo desiderio8 e, quindi, con la filigrana più intima del proprio fantasma, sia perché l’analista si presta ad incarnare l’oggetto-scarto o meglio, come Mario Cucca ci ha permesso di riformulare, l’oggetto-resto – quella pietra angolare di cui ha parlato Vincenzo Moretti. Per questo Lacan dichiara che il passaggio da analizzante a psicanalista ha una porta il cui cardine è quel resto che causa la divisione soggettiva9. Possiamo quindi dire che lo scopo essenziale della passe era di riportare al centro del fine analisi l’atto psicanalitico, il desiderio dello psicanalista e l’oggetto a. C’è poi un secondo aspetto. Chi si accingeva alla passe avrebbe riferito la propria esperienza a dei passeurs, ovvero a degli analizzanti giunti anche loro al fine analisi10. I testimoni, quindi, non erano analisti. E infatti Lacan fu subito accusato di mettere la Scuola nelle mani di non-analisti, accusa che anziché respingere fece sua, perché “non-analista” è diverso da “non-analizzato”11. E se lui ha proposto di porre dei non-analisti a veglia dell’atto è perché troppo spesso lo statuto dell’analista “porta ad eludere tale atto”12. Insomma, Lacan sta prendendo posizione verso un certo modo di concepire non solo il fine analisi, ma la prassi psicanalitica tout court. Infatti, aggiunge:
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Nel seminario sull’Atto Lacan scrive: “Il soggetto dipende da questa causa che lo crea diviso e che si chiama oggetto piccolo a”, pp. 100-101. E anche “l’oggetto (a) comanda il soggetto” (p. 83). 9 J. Lacan, “Proposta del 9 ottobre 1967 sullo psicoanalista della Scuola”, in Altri scritti, cit., pp. 241-256, p. 252. Sia detto per inciso: che urto rispetto alla tradizione filosofica occidentale pensare la causa come un resto, come uno scarto. 10 Ricordiamo brevemente il funzionamento della passe. Un analizzante giunto al fine analisi dovrà trasmettere la sua esperienza a due passeurs (analizzanti, come lui, giunti al fine analisi). Questi avrebbero riferito la testimonianza raccolta al jury della passe, composto di psicanalisti ormai installati nella loro posizione e che avrebbero deciso se il richiedente poteva o meno compiere il passaggio, transitando lungo il désêtre verso la posizione di analista. 11 J. Lacan, “Discorso all’École freudienne de Paris” in Id., Altri scritti, cit., p. 267. 12 Ivi, p. 266.
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L’attributo di non-psicanalista è il garante della psicanalisi e io auspico ci siano dei non-analisti, i quali in ogni caso si distinguano dagli psicanalisti di oggigiorno, da coloro che pagano il loro statuto con l’oblio dell’atto che lo fonda.13
E qui, di nuovo, la parola statuto risuona con status. Ecco allora il secondo punto: cogliere l’atto e, poi, saper restare nella dimensione dell’atto. È come se Lacan avesse disposto la prassi psicanalitica lungo questo asse. Allora il compito della passe sarebbe stato di cogliere l’atto nel momento in cui si produce. E perché? Proprio perché l’analizzante potesse inscrivere la sua futura prassi in questo atto e sapesse poi perpetuarlo. Quindi: non oblio dell’atto, ma scrittura dell’atto, iscrizione di una prassi nell’atto14. Solo iscrivendosi nell’atto, il desiderio dello psicanalista avrebbe trovato la via dell’infinito. L’infinito dell’atto o l’infinito in atto. Il Discorso all’École Freudienne de Paris È all’interno di questa cornice storica e teorica che si colloca il Discorso all’Ecole freudienne de Paris, la Scuola fondata dopo la scomunica. Si tratta del terzo di una serie di discorsi che stavano succedendosi dall’inizio dell’anno. Il primo lo aveva tenuto il 9 ottobre ed è la molto discussa Proposta del 9 ottobre 1967 in cui Lacan aveva presentato il dispositivo della passe. Quel giorno la Cappella del Sainte-Anne era impraticabile. Perciò l’incontro era avvenuto nel clima un po’ sordido dei sotterranei del Sainte-Anne dove Lacan lesse la sua Proposta circondato da un brusio che si era poi trasformato in vibrata protesta, premessa di future scissioni15. Lo psicanalista pastore del désêtre, protestavano facendo il verso ad Heidegger. Il secondo incontro era avvenuto a distanza di un mese, nel novembre del 1967, quando la proposta era stata discussa e messa ai voti. Il 6 dicembre del 1967 Lacan aveva indetto una terza riunione in cui aveva pronunciato il Discorso all’École freudienne de Paris (che pubbli13 Ivi, p. 268. 14 La passe aveva anche un altro scopo: introdurre una logica del fine analisi capace di estrarre da un’esperienza singolare qualcosa di trasmissibile. 15 Anche nel Discorso ce n’è traccia quando Lacan fa appello ai dissidenti che hanno disertato il suo seminario perché, dice, patiscono la sua proposta sulla passe al punto da essersi ridotti al mormorio. Lacan li incoraggia a tornare, a non lasciarlo e a cercare una strada diversa come quella di confrontarsi con la sua proposta e magari superarlo nel suo discorso, rendendolo desueto.
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cherà solo tre anni dopo, il 1° ottobre del 1970). Nella sua forma scritta, questo discorso assembla alcuni temi presenti nel seminario sull’atto con altri temi da sempre cari a Lacan quali: – la questione del tempo; – la solitudine del soggetto desiderante e la solitudine di chi compie l’atto; – la dimensione dell’essere ripulita dalle croste dell’ego, dell’immaginario, e piuttosto innervata dalla causa del desiderio. Lacan parlerà infatti di un essere di desiderio, espressione-chiave per rileggere la destituzione soggettiva. I punti che vorrei restituire, infatti, sono soprattutto due: Il primo riguarda il tempo dell’atto cui, come scrive Lacan, non si addice “nessun temporeggiamento”16. L’atto è da subito incastonato nel tempo. Il secondo punto riguarda la distinzione, che in questo scritto Lacan definisce molto e bene, tra désêtre e destituzione soggettiva. A punteggiare e orientare il nostro tragitto saranno parole come solitudine, garanzia e realizzazione, parole che lastricano le strade del fine analisi e che ci porteranno verso i due temi annunciati. La solitudine come piega dell’atto Sulla soglia dello scritto troviamo una domanda: “Come sperare di far riconoscere uno statuto legale a un’esperienza di cui non si sa neppure rispondere?”17. Tra le righe di questa domanda affiora ben altra questione: cosa permette a qualcuno di dirsi psicanalista? Di certo non l’investitura di un’istituzione. Anzi: “Porre come agente dell’atto l’istituzione”, quindi separare “l’atto che istituisce dello psicanalista dall’atto psicanalitico”18, dà luogo a un fallimento. A istituire dello psicanalista è infatti l’atto di fine analisi, atto che coinvolge il soggetto che si dispone alla passe e qualcun altro. È a questo punto che Lacan fa della solitudine una sorta di elemento ambocettore, un medium, tra atto e desiderio. Cosa significa? Che si è soli quando si compie l’atto (l’atto psicoanalitico si sostiene sulla solitudine) e si è soli nel desiderio: c’è tutto questo – dice Lacan – alla base del seminario sull’atto. 16 J. Lacan, “Discorso all’École freudienne de Paris” in Id., Altri scritti, cit., p. 275. 17 Ivi, p. 258. 18 Ivi, p. 262.
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Per illustrarci l’articolazione tra desiderio, solitudine e atto, Lacan si espone in prima persona, raccontando una sua vicenda privata – è la filigrana autobiografica di cui dicevo all’inizio. Un passo, in particolare, compone sintagmi che suonano quasi come varianti di una stessa frase e cioè: – L’essere solo; – Essere solo o da solo; – Essere il solo. Al di là della loro apparente somiglianza, questi sintagmi si distinguono e sono portatori di differenze perché l’essere solo ha una curvatura melanconica, parla di isolamento; essere solo o da solo descrive la posizione del soggetto nel desiderio; infine essere il solo rinvia ad un sembiante. Lacan li compone così: Se ero effettivamente solo, solo a fondare la Scuola, come ho affermato senza mezzi termini quando ne ho enunciato l’atto – “solo come sono sempre stato nella relazione con la causa psicoanalitica…” [è la solitudine del soggetto dinanzi alla causa del proprio desiderio] –, mi sono forse per questo creduto il solo? Non lo ero più dal momento stesso in cui uno solo mi ha seguito passo passo […] Come potrei pretendere di essere isolato con tutti voi a favore di ciò che faccio da solo? […] che diamine ha a che vedere questo passo, in quanto è stato compiuto da solo, con il credere di essere il solo a seguirlo? […] Non c’è omosemia tra il solo e solo.19
In questo brano Lacan traccia una linea di confine tra immaginario e reale, tra i(a) e a. Solo rinvia ad un reale, al fatto che il soggetto è solo dinanzi alla causa del proprio desiderio: Lacan è solo dinanzi alla causa psicanalitica e poi c’è quel da solo che per ogni psicanalista “è il passo con cui entra nel suo studio ogni mattina”20. C’è un tratto reale di solitudine che accompagna ogni atto perché l’atto non ha il conforto della garanzia: se davvero siamo nella dimensione dell’atto, siamo privi di rassicurazioni terze. L’atto non è garantito da qualcuno. Quale garanzia per l’atto? E se garanzia dell’atto esiste, essa deriva dall’essere entrati in contatto con la causa del proprio desiderio. A suggerirlo sono alcune frasi del seminario su L’angoscia in cui Lacan accomuna il padre e l’analista – perché 19 Ivi, p. 259. 20 Ivi, p. 258.
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entrambi, dice, sono andati abbastanza in là nella realizzazione del proprio desiderio da reintegrarlo nella sua causa21. E un desiderio che abbia reintegrato la propria causa è un desiderio che si è scrollato di dosso sia i miraggi dell’ideale (perché non è più vettorizzato dall’ideale, bensì dalla causa), sia il conforto della garanzia. Anche perché, dice Lacan, solo la causa offre “all’angoscia una garanzia reale”22. Non una garanzia simbolica – cioè una garanzia che viene da qualcuno o dalla sua parola, insomma da un Altro simbolico – ma la garanzia reale assicurata dall’oggetto causa. Analizzare queste frasi ci porterebbe troppo lontano. Ci basterà dire che il loro epicentro sta nel termine realizzazione, tra le parole che Massimo Recalcati ha messo al centro del suo intervento a Roma23. Realizzazione è quasi un’estensione del termine reale e Lacan la introduce dopo aver parlato della nevrosi ossessiva al cui “desiderio non è mai permesso di manifestarsi in atto”24. Dovremmo perciò dedurne che la realizzazione sia una messa in atto del desiderio? Lasciamo aperta la domanda. La solitudine del soggetto desiderante e le illusioni del sembiante Comunque, venire in contatto con la causa crea questo solo: il soggetto si scopre solo nella relazione con il proprio desiderio e sarà solo nell’atto che compie, ma, per certi versi, sarà anche sostenuto da quell’oggetto che lo fa solo. Mi spiego meglio. Esiste una solitudine strutturale al desiderio perché, secondo Lacan, desiderare significa sempre separarsi, ripercorrere la propria separazione dall’Altro25. Quindi il soggetto trova nell’oggetto il suo punto di separazione dall’Altro: è solo; ma, nello stesso tempo, trova in questo oggetto un sostegno al proprio desiderio. È vera una cosa ed è vera l’altra. Questo per ciò che riguarda la parola solo. 21 In una prima frase, Lacan definisce il padre come “un soggetto che è andato abbastanza in là nella realizzazione del suo desiderio da reintegrarlo nella sua causa”, J. Lacan, Il Seminario. Libro X. L’angoscia (1962-1963), cit., p. 369. 22 Ivi, p. 370. 23 Mi riferisco alla lezione tenuta da Massimo Recalcati il 12 febbraio 2022 in AliRoma, dal titolo “Resti notturni. Figure del resto nell’esperienza psicoanalitica” e visibile sui canali YouTube di Ali-Roma. 24 J. Lacan, Il Seminario. Libro X. L’angoscia (1962-1963), cit., p. 353. 25 Desiderare significa separarsi da un oggetto e, dal momento che l’oggetto è nel campo dell’Altro, desiderare significa anche ripercorrere la propria separazione dall’Altro – in tal senso, secondo Lacan, la prima forma di desiderio è desiderio di separazione (L’angoscia, p. 360).
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Invece essere il solo non è altro che lo chaperon di questa solitudine, il rivestimento immaginario di questo solo che abbiamo esplorato. Perché? Perché dissimula nei miraggi del sembiante, nel miraggio dell’eccezione (essere il solo), il fondo scabroso e angosciante della faccenda. Questo è un punto interessante non solo del fine analisi, ma della clinica in generale. Basti pensare alla parata maschile o a come incida nei destini femminili l’aspirazione ad essere la sola, ad essere l’unica – mentre Lacan parla di una solitudine strutturale al godimento femminile, che ha tutt’altra stoffa. In un breve giro di frasi Lacan ha perciò descritto la solitudine del soggetto desiderante e gli improbabili rimedi del narcisismo. Vale a dire che dove il soggetto fa esperienza della sua dipendenza dall’Altro, del suo assoggettamento, proprio lì prova ad imbastire i suoi rivestimenti egoici e immaginari. Lacan lo dice in modo piuttosto dissacrante quando definisce l’autonomia dell’io (che è appunto un miraggio narcisistico) come un rivestimento contro-fobico all’angoscia26. Presentare l’io come un rimedio contro-fobico è davvero uno scandalo del pensiero! Pensate a quanti percorsi terapeutici si affidano alle virtù dell’io e al suo rafforzamento. In fondo è anche la direzione che l’Ego Psychology dà alla cura e al fine analisi: costruirsi un’armatura egoica per schermare l’angoscia, come se rafforzare l’io fosse la soluzione alla dipendenza dal grande Altro. Ora, il discorso sull’atto e sulla grazia introduce una sfasatura, anzi: divarica a dismisura queste prospettive teoriche. Al nodo della dipendenza dall’Altro Lacan offre una risposta di tutt’altro tenore: “A cosa deve rispondere il desiderio dello psicanalista?”. Alla necessità di “produrre il desiderio del soggetto come desiderio dell’Altro” prestandosi a farsi “causa di questo desiderio”.27
Non si tratta quindi di evitare l’assoggettamento, ma di andarci incontro abitandolo in modo nuovo. Non si tratta di rivestire la solitudine con i fasti dell’eccezione (essere il solo), né tantomeno di avvolgerla nelle volute melanconiche dell’isolamento (l’essere solo): di quel solo bisogna liberare la forza (ed è qui che prende quota la parola realizzazione). In tal senso il fine analisi presume un superamento dell’io e delle sue difese – come affermava Massimo Recalcati l’io è il Rubicone della psicanalisi. Questo détour per dire che la solitudine è l’inevitabile piega del desiderio e dell’atto che segnano il fine analisi. 26 J. Lacan, “Discorso all’École freudienne de Paris” in Id., Altri scritti, cit., p. 258. 27 Ivi, p. 262.
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Dopo aver attraversato i territori della solitudine, facciamo un passo ulteriore, verso il tempo dell’atto, la prima delle due questioni da trattare. Il tempo dell’atto La mia proposta è di interessarsi alla passe, in cui l’atto potrebbe essere colto nel tempo in cui si produce.28
Ecco il punto: cogliere l’atto nel tempo in cui si produce, nel momento in cui avviene, quasi a intercettare il reale del tempo. Rilancio la domanda: cosa stava cercando Lacan quando ha ideato il dispositivo della passe? Si direbbe che stesse cercando di afferrare quel momento, quel punto dell’atto, in cui la fine si rovescia in un inizio, quel momento in cui finire significa cominciare, in cui uscire significa entrare, ma solo se si è usciti davvero – notiamo come, per interrogare la soglia temporale che distingue l’inizio dalla fine, Lacan si appoggi su una metafora spaziale (entrare/uscire). In realtà il ricorso allo spazio serve ad introdurre la dimensione dell’infinito, un “infinito” correlato al desiderio dell’analista. Nel fine analisi, infatti, si addensano tutta una serie di fenomeni importanti. Il fine analisi tra finito e infinito Innanzitutto, lo abbiamo già visto, vengono al centro l’atto psicanalitico, il desiderio dell’analista e l’oggetto a. Un altro elemento messo in gioco dal fine analisi è il rapporto tra finito e infinito. A risuonare qui è la domanda di Freud – analisi finita o infinita? Lacan, racconta Charles Melman29, ha sempre oscillato nel rispondere a questa domanda ma, quando ha ideato l’operazione della passe, inclinava per l’idea che l’analisi fosse infinita. Infinita perché l’oggetto del fantasma con cui si entra in relazione nel fine analisi non è l’unica risposta possibile: è una risposta singolare, ma non la parola ultima. Infinita perché l’analizzante avrebbe proseguito l’analisi dell’inconscio divenendo analista. In seguito, Lacan tornerà ancora molte volte sul fine analisi e, negli ultimi anni, dirà che non si può restare in sospeso poiché, a un certo punto si deve 28 Ivi, p. 263. 29 C. Melman, “Analisi finita infinita”, in AA.VV., Le mie sere con Lacan, Editori Internazionali Riuniti, Roma 2012, pp. 22-26.
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concludere. Il problema è che si conclude sempre troppo presto, per evitare un troppo tardi. Parole che mettono di nuovo il tempo al centro dell’atto, potremmo dire che il tempo è l’enigma dell’atto. Ci tornerò. Ma nel fine analisi il finito costeggia l’infinito anche in un altro senso: perché è qui che prende corpo il desiderio dell’analista, un desiderio che incontra appunto l’infinito. E qui siamo di nuovo confrontati ad un punto controverso perché nel fine analisi Lacan fa vacillare ogni trascendenza e ogni garanzia (non c’è Altro dell’Altro, né vero sul vero, e neppure atto dell’atto30), ma d’altra parte il desiderio dell’analista apre un varco sull’infinito: Il desiderio dello psicanalista è pertanto il luogo in cui si è fuori senza pensarci, ma dove ritrovarsi vuol dire esserne usciti davvero, ossia aver preso questa uscita solo come entrata. Non tralasciamo di notare che descrivere questo luogo di infiniti dice come il desiderio sia inarticolabile, e pur tuttavia articolato con il “senso-uscita”, con il “senza-uscita” di questi infiniti, ossia con l’impossibile.31
In queste righe il desiderio dell’analista – inarticolabile, ma articolato – è restituito alla sua aporia, a un suo che d’indecidibile, d’impossibile. Infatti, l’espressione francese sans-issue coniuga tra loro due opposti: il senso-uscita (come dire: questa è la direzione, il senso dell’uscita) con un senza-uscita (o forse con un’uscita dal senso, dal sembiante). Ma come mettere assieme “questa è l’uscita” con “senza uscita”? Quale aporia contiene in sé questo sans-issue? Quella di una fine che coincide con un inizio? O Lacan sta parlando del reale del desiderio dello psicanalista? E perché accostarlo all’infinito? E poi: l’infinito di cui parla Lacan è lo stesso di cui parla Freud? Non credo. Si tratta piuttosto di un infinito inerente all’atto perché, in ogni vero atto, la fine comporta un nuovo inizio, il che gli conferisce un carattere non solo inaugurale, ma espansivo, potenzialmente volto all’infinitezza. Un infinito che forse la topologia ci aiuterebbe a situare meglio32. Per questo le metafore spaziali prendono il 30 Ivi, p. 261. 31 Ivi, p. 262. 32 Su questo tema, ho chiesto un parere a Thatyana Pitavy, topologa di riferimento nell’Ali-Paris. La sua risposta ha riguardato però non l’infinito del desiderio, bensì del godimento: “Nel nodo Lacan propone che il godimento Altro è il vero buco. Ma, guardando più da vicino, scopriamo che, su un lato, esso è bordato dal simbolico ed è solo quando le rette si aprono che [il godimento Altro] diviene infinito – bisogna dire, in verità, che l’apertura si produce più spesso dal lato del godimento Altro. Ma pensiamo anche al godimento del senso tipico dell’ossessivo, anche questo può prendere la forma infinita: impossibile chiudere il senso, bisogna sem-
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posto di quelle temporali, per questo Lacan parla del fine analisi attraverso il neologismo désêtre, che rinvia ad un luogo. Come se l’uso di metafore spaziali permettesse a Lacan d’intrecciare il tempo dell’atto con il desiderio che origina dall’atto. Accostiamoci allora a questo infinito con alcuni versi del poeta egiziano Edmond Jabès che recitano così: “Io ti ho dato il mio nome, una via senza uscita”33, versi in cui il nome è la parafrasi di un amore infinito, sans-issue. Versi in cui ritroviamo l’amore di cui parla Lacan: l’amore che è amore di un Nome34, ma anche quell’“amore senza limite, perché è fuori dai limiti della legge, dove soltanto può vivere”35. Che sia parlando d’amore che sia parlando di desiderio, Lacan continua a portare l’infinito nel fine analisi, perché? Da un punto di vista clinico, l’infinito segnala l’uscita dallo spazio speculare, dallo spazio dei sembianti perché “uno specchio – come dice Lacan – ha dei limiti, non si estende all’infinito”36. Magari permette di vedere cose che altrimenti non vedremmo, ma ha dei limiti. L’infinito, invece, è una dimensione che si apre una volta superata la soglia speculare. In un paesaggio, ad esempio, lo si coglie lungo la linea d’orizzonte, nel punto di sconfinamento. L’infinito segnala perciò l’al di là dei sembianti, come vedremo meglio parlando del désêtre. Ad ogni modo, Lacan legge questa aporia del desiderio con la sua logica paradossale richiamando l’aneddoto della scarcerazione narrato nello scritto su Il tempo logico. La storia brevemente è questa: in un carcere ci sono tre detenuti che, per ottenere la libertà, sono sottoposti ad una prova, devono cioè indovinare il colore del disco appeso alle loro spalle. Chi indovina, sarà libero di andare. In questa prova, quindi, è in gioco la libertà. Ci sono delle regole: ciascuno di loro può vedere l’altro detenuto, ma non sé stesso. Inoltre, i tre non possono parlarsi. Perché Lacan introduce questo aneddoto? Perché gli permette di porre la domanda: “Dov’è il dentro, dov’è il fuori?” Pare infatti “che i carcerati al momento dell’uscita si pongano questa domanda”37. È dunque attraverso l’interrogativo dov’è il den-
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pre ricominciare… lo stesso accade con il godimento fallico: possiamo morire di lavoro! Detto ciò, i godimenti collegati con l’infinito spingono in direzione della pulsione di morte, dunque in direzione del finito”. E. Jabès, Il libro delle interrogazioni, Marietti, Genova 1985, p. 9. J. Lacan, Il seminario. Libro X. L’angoscia (1962-1963), cit., p. 369. J. Lacan, Il Seminario. Libro XI. I quattro concetti fondamentali della psicoanalisi (1964), Einaudi, Torino 2003, p. 271. J. Lacan, Il seminario. Libro X. L’angoscia (1962-1963), cit., p. 79. J. Lacan, “Discorso all’École freudienne de Paris”, in Id., Altri scritti, cit., p. 260.
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tro, dov’è il fuori? che Lacan pensa il fine analisi, il suo sans-issue ovvero l’aporia di un desiderio che aderisce all’impossibile. C’è poi un altro punto di contatto tra questo aneddoto e il quadro dell’analisi e riguarda la loro scansione temporale. Entrambi, infatti, implicano i tre tempi logici: l’istante dello sguardo, il tempo per comprendere e il momento di concludere38. Il tempo dell’inconscio La questione del tempo è stata da sempre un perno del cambiamento tecnico operato da Lacan. Prima la seduta a tempo variabile, ora cogliere l’atto nel momento in cui si produce (frase in cui sentiamo all’opera la logica della contingenza). Il tempo è anche un grande tema della psicanalisi. Per Freud l’inconscio non conosce il tempo, nel senso che i processi inconsci sono a-temporali, slegati dal tempo cronologico e dal tempo simbolico del mondo esterno, mentre il desiderio inconscio è indistruttibile: si ripete identico a sé stesso. Come si è posto Lacan rispetto a questa concezione del tempo? Per un verso ha aderito al principio freudiano della ripetizione – che considera un tempo “strutturale” –, ma per un altro verso ha introdotto qualcosa di nuovo. Per Lacan il modo temporale dell’inconscio è il discontinuo: l’inconscio si manifesta come pulsazione, battito d’apertura e chiusura, taglio. In altre parole, il discontinuo introduce una frattura nel tempo. Il tempo della grazia è impensabile al di fuori di questa discontinuità. Ed è sempre in virtù di questa fessurazione del tempo che l’inconscio si rimodula: non è più traccia depositata, ma fenomeno imprevisto, evento, contingenza. Lacan avrebbe anche detto che l’inconscio è il “non nato”, il “non-realizzato”39 in attesa di realizzarsi. Che vuol dire? Che l’inconscio 38 L’istante dello sguardo è un tempo istantaneo, folgorante, che esige la presenza di un referente che faccia segno – per esempio il cerchio sulle spalle dei condannati. Si fonda quindi sulla visione. Il tempo per comprendere è il tempo necessario a costruire un sapere, un tempo che cambia da soggetto a soggetto. E infine il momento di concludere prevede l’urgenza, la fretta che spinge alla conclusione e permette di guadagnare l’uscita. È il momento di concludere che regolerà in aprèscoup gli altri due tempi logici. È il paradosso del tempo: un dopo che ri-articola un prima. 39 J. Lacan, Il Seminario. Libro XI. I quattro concetti fondamentali della psicoanalisi (1964), cit., p. 24. Come scrive Lacan: “Lì qualcosa d’altro domanda di realizzarsi”, p. 26.
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non appartiene più al regno del già scritto, ma a ciò che è ancora in attesa di scriversi. Non è più nel passato quanto piuttosto nell’a-venire, nel futuro. Un testo esiste, ma la creazione del sapere inconscio determina una riscrittura. È la logica dell’après-coup40 che istituisce quanto è già accaduto, perché lo riscrive significandolo a-posteriori. Il che significa che è un dopo simbolico (l’evento di un dire) a fondare un prima (che esce dal passato per destinarsi al futuro e che – nel caso di un trauma – esce dal reale per entrare nel simbolico). Nel tempo cadenzato delle sedute, il discontinuo introduce lo spazio dell’imprevisto. Ed è il desiderio dell’analista a favorire le tre scansioni temporali cui facevo cenno: l’istante dello sguardo, il tempo per comprendere e il momento di concludere. Grazie al suo ascolto, l’analista crea il luogo dell’analisi e instaura il tempo per comprendere. Questo tempo è insieme un tempo di attesa e un tempo di creazione, la creazione di un sapere inconscio. Un tempo che cambia da soggetto a soggetto e che è imprevedibile nella sua durata perché, cito Lacan, può persino “ridursi all’istante dello sguardo, ma questo sguardo nel suo istante può includere tutto il tempo che occorre per comprendere”41, quasi che un tempo vacillasse nell’altro. Che possa coincidere con l’istante dello sguardo spiega perché le sedute possono essere brevi: più che dispiegare un senso, la parola afferra qualcosa: è folgorazione, istante. Ed è sempre il desiderio dell’analista a scuotere l’attesa e ad assicurare all’evento una possibilità. Perché l’ascolto favorisce la sorpresa, sollecita l’evento di un dire che incida, che faccia atto nella vita di chi parla. Grazie al transfert, infatti, si sono messi in moto gli atti inconsci, ovvero lapsus, motti di spirito, sogni e atti mancati. Sono atti, spiega Lacan, perché introducono “un’altra verità possibile”42, al di là delle intenzioni del soggetto. Il 40 Già per Freud un evento è traumatico solo in après-coup, a posteriori, nel tempo in cui il soggetto risignifica quello che gli è successo in precedenza e che è stato rimosso. E Lacan si avvale dell’après-coup nella sua lettura dell’atto psicanalitico (“l’atto sta nella lettura dell’atto”, L’atto, cit., p. 33) e anche nella lettura delle formazioni dell’inconscio che definisce atti inconsci. Notiamo anche che questi atti inconsci hanno una temporalità istantanea: il lapsus è un evento imprevisto, che avviene in un attimo oltrepassando le intenzioni del soggetto. Anche il motto di spirito è improvviso e sorprendente. Allo stesso modo pure l’atto mancato e il sogno scavalcano la volontà del soggetto (il soggetto “è scavalcato dal suo atto”, p. 262). 41 J. Lacan, “Il tempo logico e l’asserzione di certezza anticipata. Un nuovo sofisma”, in Scritti, vol. I, Einaudi, Torino 2002, p. 199. 42 J. Lacan, Il seminario. Libro XV. L’atto (1967-1968), traduzione di Sabina Terziani, lezione del 6 dicembre 1967, edizione fuori commercio, p. 70.
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che vuol dire che l’atto porta con sé uno scarto. Questa messa in atto dell’inconscio coincide con una messa in atto del soggetto: il soggetto è un effetto di questa mobilitazione simbolica, è un effetto dell’Altro, di questi atti inconsci che lo colgono di sorpresa, perché non decidiamo di sognare o di fare un lapsus: accade. Con un tocco di poesia, Lacan descrive il soggetto come una “scheggiatura”43 dell’Altro, dell’inconscio. Lo spazio della seduta è quindi lo spazio di un incontro con il reale esposto su queste diverse dimensioni del tempo – sull’attesa come sulla contingenza. Ed è anche lo spazio dell’amore, perché qui, dice Lacan, l’amore è solo incontro. Dopo aver esplorato l’enigma del tempo, il suo legame con l’atto e con il desiderio dell’analista, veniamo al secondo punto: la messa a fuoco del rapporto e della differenza tra destituzione soggettiva e désêtre – che assieme a “scarto”, “resto” e “causa” sono le parole del fine analisi. Désêtre e destituzione soggettiva Ritorno sul fine analisi Ricordo brevemente le tappe che conducono al fine analisi. Nella sua Proposta, Lacan scrive: “In principio della psicoanalisi è il transfert” e “lo è per grazia dell’analizzante”44. Detto altrimenti, l’analizzante suppone all’analista un sapere che Lacan definisce “una funzione immaginaria, un’idealizzazione”45, un sapere riparatore, immaginario appunto, che istituisce il soggetto-supposto-sapere facendone il perno, la leva del transfert46. Perciò, all’inizio, l’amore è indirizzato ad un soggetto-supporto-sapere che garantisce il luogo dell’Altro – garantisce cioè che le parole ci permetteranno di dare senso alla nostra vita, che quel che è accaduto, che ci è accaduto, troverà un senso in cui pacificarsi. L’Altro qui è un garante. Nessun percorso d’analisi prescinde da questo. Quindi si parte da un Altro pieno, non bucato, e si arriva ad incontrare il buco nell’Altro, ad incontrare quel punto vuoto della struttura che invalida l’Altro e lo rende inconsistente47. Cosa accade qui? Che l’Altro smette di essere un garante e, come 43 J. Lacan, Il seminario. Libro XV. L’atto (1967-1968), cit., lezione del 17 gennaio 1968, p. 106. 44 J. Lacan, “Proposta del 9 ottobre 1967 sullo psicoanalista della Scuola” in Id, Altri scritti, cit., p. 245. 45 J. Lacan, Il seminario. Libro XV. L’atto (1967-1968), cit., p. 79. 46 Ivi, p. 246. 47 È l’atto a favorire l’erosione del sapere immaginario e la creazione di una nuova scrittura. Ma cosa fa atto nel quadro di una cura? L’interpretazione o il transfert?
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in una staffetta, il testimone passa dal grande Altro all’oggetto a. Perché? Perché rispetto al buco, a questo trou/trauma, al punto vuoto della struttura, Lacan fa funzionare l’oggetto a – lo dice benissimo in Ancora quando scrive: “Ho aggiunto una dimensione al luogo dell’Altro, mostrando che, come luogo, non tiene, che c’è una falla, un buco, una perdita. L’oggetto a funzionerà rispetto a questa perdita. Abbiamo qui qualcosa di veramente essenziale alla funzione del linguaggio”48. Partiamo allora da quel momento in cui il soggetto-supposto sapere fa posto ad un sapere senza soggetto49. Soprattutto, ed è quel che ci interessa di più, l’analizzante passa da un’abbondanza d’essere, da un falso essere, a quel “non sono” che definisce il soggetto dell’inconscio50. Cioè: non sono quel falso essere che credevo di essere. “La credenza – scrive infatti Lacan – è sempre il sembiante in atto”51, il che ci permette di porre una relazione tra falso essere e sembiante in atto. Ma se non sono quel falso essere che credevo, cosa sono allora? Al livello di questo non sono – scrive Lacan – ci si ritrova nell’oggetto piccolo a52. E cosa significa ritrovarsi nell’oggetto piccolo a? Una risposta interessante ci viene dal seminario sull’Angoscia in cui Lacan afferma che il soggetto deve potersi riconoscere nella causa del proprio desiderio, perché sebbene questo oggetto sia un “resto precario e abbandonato”, tuttavia è “quest’oggetto […] che mi fa desiderare, che mi fa desiderante di una
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Lacan scrive “L’atto psicoanalitico consiste nel sostenere il transfert” (J. Lacan, L’atto, cit., lezione del 17 gennaio, p. 108). E qui incontriamo un primo paradosso: l’atto opera a sostegno del transfert, ma sarà proprio l’atto a indurre l’erosione del transfert perché l’atto decostruisce il soggetto-supposto-sapere che è il perno del transfert. Infatti, man mano che affiora il sapere dell’inconscio, man mano che l’analista agisce con le sue interpretazioni, i suoi rinvii significanti, man mano che il transfert favorisce la produzione di sogni, lapsus, atti mancati, motti di spirito, si produce un’erosione del sapere immaginario, vettore dell’ideale. L’insieme di questi atti conduce il soggetto in direzione di quel buco che voleva evitare. J. Lacan, Il seminario. Libro XX. Ancora (1972-1973). Einaudi, Torino 2011, p. 27. Lacan definisce il sapere inconscio come un sapere senza soggetto perché nell’inconscio il soggetto è già destituito. Notiamo che i due sintagmi, soggetto-supposto-sapere e sapere senza soggetto, sono costruiti in modo antitetico: l’uno smonta l’altro, il secondo decostruisce il primo e l’atto sarebbe il motore di questa decostruzione. Il soggetto di Lacan, infatti, si biforca tra il non penso che all’inizio dell’analisi lo definiva come soggetto alienato, e il non sono che lo definisce invece alla fine dell’analisi nel suo rapporto con l’inconscio – “O non penso o non sono”, conclude Lacan nel seminario L’atto, cit., p. 92. J. Lacan, “Discorso all’École freudienne de Paris” in Id., Altri scritti, cit., p. 277. J. Lacan, Il Seminario. Libro XV. L’atto (1967-1968), cit., p. 98.
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mancanza”53. Mancanza che non va intesa come un difetto, una manchevolezza del soggetto, ma come un far difetto al godimento nel luogo dell’Altro. C’è sempre uno scarto tra la parola e il godimento – che è poi alla base della domanda a cui ci confronta la clinica: come fare a toccare e smuovere la fissità della pulsione con il significante? Ma è in questa stessa falla che si radica il desiderio del soggetto. Questa mancanza assicura dunque al soggetto un desiderio, ne fa un soggetto desiderante. Per questo Lacan dice che l’oggetto a “inaugura il campo della realizzazione del soggetto”54. Insomma, cosa sta facendo Lacan? Sta rovesciando il rapporto di forza tra soggetto e oggetto, e di questo rovesciamento fa il centro della sua teoria sul desiderio e sull’atto. Quel che ha di mira è il soggetto del desiderio55, quindi un soggetto che non è padrone, ma emanazione di un desiderio inconscio, desiderio causato dall’oggetto a. Di conseguenza, il soggetto non è più solo un effetto dell’Altro (la scheggiatura di cui dicevo prima), ma è anche un prodotto di questo oggetto. Perciò Lacan può dire che per realizzarsi il soggetto deve riconoscersi in quell’oggetto. La stessa logica vale anche per l’atto e in tal senso il soggetto non è padrone dell’atto, ma “è
53 J. Lacan, Il seminario. Libro X. L’angoscia (1962-1963), cit., p. 362. a – dice ancora Lacan – “è ciò che resiste a qualsiasi assimilazione alla funzione del significante, ed è proprio per questo che simbolizza quello che nella sfera del significante si presenta sempre come perduto, come ciò che si perde con la significantizzazione. Ebbene, è precisamente questo scarto, questa caduta, ciò che resiste alla significantizzazione, che si trova a costituire il fondamento del soggetto desiderante: non più soggetto del godimento [mitico] ma soggetto in quanto è sulla via della sua ricerca. È perché vuole fare entrare questo godimento nel luogo dell’Altro come luogo del significante che il soggetto si precipita, si anticipa come desiderante” (L’angoscia, p. 189). 54 J. Lacan, Il seminario. Libro X. L’angoscia (1962-1963), cit., p. 347. Lacan prosegue “il soggetto come tale” si realizza solo nella serie degli oggetti a, “oggetti cedibili” che corrispondono a “quelle che si chiamano le opere”. Il senso di questo termine, opere, è ampio ed include anche le opere frutto di sublimazione (da intendersi, alla maniera lacaniana, come un fare che coinvolge l’essere di desiderio del soggetto). 55 Lacan precisa che “il desiderio io vi insegno a collegarlo alla funzione del taglio, e a metterlo in un certo rapporto con la funzione del resto, il quale sostiene e anima il desiderio” (L’angoscia, p. 250). A partire da qui, Lacan rilegge la celebre frase di Freud secondo cui l’anatomia è il destino. Questa frase, spiega, “diventa vera se diamo al termine anatomia il suo senso stretto e, se così posso dire, etimologico” (p. 256). L’etimologia, infatti, valorizza la funzione del taglio, cioè ana “in” e tomia da tomé, “taglio”, “sezione”, derivato a propria volta dal verbo anatemno, “tagliare”. Detto altrimenti: il destino di un soggetto sta “nel taglio”, nel punto in cui il taglio si è prodotto organizzando le strade del suo desiderio.
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scavalcato dal suo atto”56. Anzi, se fosse lui a scavalcarlo, uscirebbe dalla dimensione dell’atto – in verità Lacan è più estremo di così, perché dice che se fosse il soggetto a scavalcare il proprio atto, darebbe luogo a quell’incapacità che vediamo fiorire nell’aiuola degli psicoanalisti. Il désêtre Quindi: a livello del non-sono ci si ritrova nell’oggetto a, quasi fosse una bussola… Solo che, qui, ritrovarsi significa vacillare. Infatti, Lacan descrive bene il momento in cui l’analizzante entra in contatto con quel resto che “determina la sua divisione, lo fa decadere dal suo fantasma e lo destituisce come soggetto”57. Entrare in contatto con l’oggetto-causa del desiderio dissesta il soggetto, che “vede barcollare la sicurezza che ricavava dal fantasma in cui si costituisce per ciascuno la finestra sul reale”58. In questo stesso momento ci si accorge – frase misteriosa – che: la presa del desiderio è solo quella di un désêtre. Désêtre in cui si svela l’inessenziale del soggetto supposto sapere.59
Il désêtre descrive il momento in cui l’analista non sostiene più il transfert del sapere che gli era stato supposto (sapere di cui l’analista, dice Lacan, non era tenuto a conoscere nulla. La sola cosa che un analista dovrebbe invece sapere è dove lo condurrà il suo desiderio, ovvero in un désêtre). Il désêtre è il luogo in cui i sembianti vengono messi a nudo perché a cadere non è solo il soggetto-supposto-sapere, ma anche le garanzie, il sapere immaginario del soggetto, le sue identificazioni, il suo falso essere. Destituzione soggettiva Il désêtre è anche il luogo che ospita la destituzione soggettiva, la cui posta in gioco è sostituire quel falso essere con un essere di desiderio. Questo passaggio può avvenire solo dopo aver “rigettato l’essere che non sapeva quel era 56 J. Lacan, “Discorso all’École freudienne de Paris” in Id, Altri scritti, cit., p. 262. 57 J. Lacan, “Proposta del 9 ottobre 1967 sullo psicoanalista della Scuola” in Id., Altri scritti, cit., p. 250. 58 Ivi, p. 252. 59 Ibidem.
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la causa del suo fantasma”60. Questa frase è decisiva perché ci permette di rinominare il falso essere come l’essere che non sapeva quale fosse la causa del suo desiderio, del suo fantasma. Rigettare il falso essere significa far posto ad un “essere” divenuto forte perché avveduto della propria causa: grazie alla destituzione soggettiva il falso essere fa posto ad un essere di desiderio. Ecco la chiave che Lacan ci offre per pensare la destituzione soggettiva. Infatti, non è la destituzione soggettiva “a fare désêtre”. Al contrario, la destituzione soggettiva “fa essere in modo singolare e forte”61. E poi Lacan racconta: Immaginate me quando nel 1961 servivo ai miei colleghi per rientrare nell’Internazionale, a spese del mio insegnamento che vi sarebbe stato proscritto. Eppure, ho continuato questo insegnamento, a costo di occuparmi soltanto di esso, senza neppure oppormi al lavorio volto a distaccarne il mio uditorio. Un altro esempio di destituzione soggettiva è dato dai seminari [a proposito dei quali qualcuno, avendoli riletti], ha recentemente esclamato davanti a me che dovevo aver amato davvero molto coloro per i quali li tenevo. Ebbene ve ne do testimonianza: esserci (fr. on être) talmente forte in questo caso da dare l’impressione di amare. Niente a che vedere con il désêtre62.
Tuttavia, malgrado la loro differenza, non possiamo pensare la destituzione soggettiva senza il désêtre. Solo se l’analizzante aderisce al désêtre, solo se passa per il désêtre, per la caduta dei sembianti, solo allora si produrrà la destituzione soggettiva grazie alla quale il falso essere fa posto a un essere di desiderio. È questo l’atto di fine analisi che destina l’essere al desiderio – un atto che presume il désêtre e che origina da un désêtre. Rispetto alla dimensione dell’essere, siamo passati attraverso un percorso punteggiato da tre scansioni: il falso essere (che è sembiante in atto ed è articolato a un soggetto alienato), il désêtre (cioè la decostruzione di quel falso essere e dei sembianti) e infine l’essere di desiderio (che è un essere ritemprato dalla causa). Maledizione/Grazia Lacan ci mette in guardia: differire questo atto, interdire quanto s’impone del nostro essere, significa offrirci a “un ritorno del destino fatto di ma60 Ivi, p. 252. 61 J. Lacan, “Discorso all’École freudienne de Paris” in Id., Altri scritti, cit., p. 269. 62 Ivi, p. 270.
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ledizione. Ricordiamoci del verdetto lacaniano: ciò che viene rifiutato nel simbolico riappare nel reale”63. Di nuovo, l’atto non può essere differito: temporeggiare, impedire questa caduta dei sembianti e il grande rimaneggiamento dell’essere che ne deriva, significa esporsi ad un ritorno del destino fatto di maledizione. L’enigma del tempo è così attraversato da un rischio assoluto: occorrerebbe – diceva Lacan – che si avesse nell’analisi il sentimento di un rischio assoluto. Maledizione (da male dicere, “dir male”) corrisponde a una scrittura dell’inconscio opposta a quella della grazia. La grazia, infatti, presume un incontro e anche una disponibilità a farsi toccare dall’Altro, ad accogliere l’evento, a dimorare nella contingenza. La maledizione si iscrive in tutt’altro: in un cattivo incontro o anche in una mancata disponibilità a quella visitazione di cui parlava Isabella Guanzini – non sempre resistere a ciò che ci accade è il modo migliore di abitare gli eventi della vita. Lo si vede bene in certi destini vincolati a una ripetizione stringente. E non di rado, quando poi risaliamo la corrente di quella storia, ricostruiamo il tracciato di quella vita, ci imbattiamo in qualcosa che si è detto e inscritto male, un momento della storia in cui l’atto è stato differito o controllato (non ci si è fatti toccare dall’Altro) inchiodandosi così a un destino fatto di maledizione. In questo senso l’incontro d’analisi rappresenta una nuova occasione, a condizione però di farsi toccare dall’Altro. Nei deserti del fine analisi È curioso: per pensare una fine, Lacan ci ha portati in un deserto. Anzi, in una prigione e in un deserto, due luoghi molto diversi tra loro. Le prigioni fanno parte di quei contro-spazi che Michel Foucault ha chiamato eterotopie, luoghi assolutamente differenti e che si oppongono a tutti gli altri. Una prigione è una struttura segregativa, recintata e sorvegliata. È uno spazio architettonico costruito su linee, sbarre, inferriate, percorsi obbligati. I confini murali del perimetro esterno isolano questo territorio dal resto della comunità. I carcerati sono privati di ogni loro bene o oggetto, non decidono come impiegare il tempo né come abitare lo spazio. Eppure, in questo luogo così alienato, delineato e controllato, Lacan trova la soglia instabile, quella in cui si perdono linee e direzioni: il momento in cui si passa dalla segregazione alla libertà è il momento in cui ci si disorienta. 63 J. Lacan, “Proposta del 9 ottobre 1967 sullo psicoanalista della Scuola” in Id., Altri scritti, cit., p. 250.
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Dov’è il dentro, dov’è il fuori? Così il carcere ci offre gli strumenti logici per pensare l’aporia del desiderio dell’analista, il suo sans-issue. Deserto invece proviene dal latino desèrere: de “non”, sèrere “legare”, “annodare”. Quindi deserto è: non più legato, disannodato o privo di punti d’annodamento, persino vuoto. Désêtre è un neologismo – ovvero una nominazione – che mette assieme l’essere con il deserto. La traduzione italiana disessere purtroppo lo impoverisce, perché perde il deserto che è invece la chiave di tale neologismo. Lo psicanalista dimora nel désêtre e il désêtre, scrive Lacan, segna il “termine da assegnare a ogni psicanalisi”64: è quindi un confine, una fine. Noi siamo soliti associare la fine a una linea che distingua bene un prima e un poi, addirittura a un traguardo. Mentre la fine pensata da Lacan è un deserto, e nessun territorio è meno delineato, meno tracciato di un deserto. È questa mancanza di linee e di riferimenti stabili a renderlo sconfinato, al di là della sua reale estensione. Il suo paesaggio è continuamente ridisegnato dal vento ed esposto a costanti erosioni. Perciò nessun territorio è più sgombero di punti fissi, nessun territorio è più inospitale, in nessun luogo la solitudine richiede così tanta forza e ingegno… Allora perché questa nominazione? Perché il deserto? Forse perché nel fine analisi si perdono dei punti fermi: l’erosione del sapere immaginario determina la caduta del soggetto-supposto-sapere, delle identificazioni e delle direzioni significanti. Si dissolve il falso essere, vacilla il fantasma che costituiva la nostra finestra sul reale. Ci approssimiamo a quel buco (trou), a quel punto vuoto della struttura in cui si organizza la dimensione dell’appello e dell’invocazione: il grido – penso a certi canti sulla voce nel deserto o alla funzione dell’oggetto voce nel fine analisi quando, come scrive Lacan, “lo psicoanalista non deve più aspettarsi uno sguardo, ma si vede diventare una voce”65. La parola deserto nomina qualcosa di questo reale, di questo inconscio-buco, perché “l’inconscio non fa sembiante e il desiderio dell’Altro non è un volere di poco conto”66. “Nel désêtre – scrive Lacan in una frase misteriosa della Proposta – lo psicanalista custodisce l’essenza di quanto è passato attraverso di lui come un lutto”67. Nella versione francese, però, c’è qualcosa di più sfumato, di più indefinito, perché dice: garde l’essence de ce qui lui est pas64 J. Lacan, “Discorso all’École freudienne de Paris” in Id., Altri scritti, cit., p. 269. 65 J. Lacan, “Proposta del 9 ottobre 1967 sullo psicoanalista della Scuola” in Id., Altri scritti, cit., p. 252. 66 Ivi, p. 278. 67 Ivi, p. 253.
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sé comme un deuil, lasciando imprecisato di chi sia questo lutto, se dell’analista o dell’analizzante. In questo deserto qualcosa è passato come un lutto, una fine che si prepara però a nuovo inizio. Luogo di congedo da un falso essere che fa posto a un essere di desiderio o meglio: “L’essere del desiderio si congiunge con l’essere del sapere per rinascere”68. Non c’è quindi solo una scarnificazione dell’immaginario, ma qualcosa si ri-tempra, ri-nasce addirittura, attorno a un oggetto-causa che radica il desiderio nell’atto (un desiderio affrancato dai vincoli del sembiante e che sconfina perciò sull’infinito), che destina l’essere al desiderio e il soggetto a realizzarsi. Un luogo d’infiniti che si dischiude a condizione di essere passati per il désêtre e per la destituzione soggettiva. Passare per il désêtre non significa però restarvi in modo permanente, ma l’esserci passati ha delle conseguenze che Lacan avrebbe voluto durature. In altre parole: la messa a nudo del sembiante ci fa tornare diversamente sulla scena dei sembianti69. Perciò Lacan ha cercato un modo d’iscrivere l’atto, d’iscrivere la prassi analitica nell’atto, per renderlo in qualche modo, questo atto, indimenticabile.
68 Ivi, p. 252. 69 Una nota al margine. Nel Discorso all’École freudienne de Paris è costante il riferimento di Lacan al sembiante: l’atto, ci dice, non sostiene il sembiante, anzi lo scarnifica, e anche l’inconscio non fa sembiante. Dobbiamo dedurne che la psicanalisi sia una disciplina che abbatte i sembianti? Sì e no. Perché la psicanalisi si produce solo a partire dal sembiante (dal significante) che però vi è talmente messo a nudo “da far tremare i sembianti per cui sussistono religione, magia e pietà” (Discorso all’École freudienne de Paris, p. 277). Da un lato la psicanalisi dischiude l’economia dell’intollerabile, del godimento, ma “nel dischiuderlo essa al tempo stesso lo chiude per aderire al sembiante, un sembiante che tuttavia è talmente impudente che la psicanalisi intimorisce tutto ciò che al mondo vi metta delle forme” (Discorso all’École freudienne de Paris, p. 277).
Note biografiche
Massimo Recalcati – Psicoanalista, ha insegnato nelle Università di Bergamo, Losanna, Milano, Pavia, Urbino e Verona. È Direttore Scientifico IRPA (Istituto di Ricerca di Psicoanalisi Applicata). La sua attività scientifica si articola intorno ad alcune direttrici fondamentali: analisi della psicopatologia contemporanea e dei disturbi alimentari; studio dell’insegnamento di Jacques Lacan; riflessione sulla figura del padre nell’epoca ipermoderna; analisi del rapporto tra politica e disagio della civiltà contemporanea, tra psicoanalisi e creazione artistica. I suoi lavori teorico-clinici sono diventati punti di riferimento e di formazione stabili e riconosciuti. Animato dal desiderio di rendere possibile a tutti l’accesso all’analisi, nel gennaio 2003, fonda Jonas Onlus, Centro di clinica psicoanalitica per i nuovi sintomi. I contributi offerti dai suoi studi e dalla sua riflessione sono contenuti in numerose opere e tradotte in diverse lingue, appaiono inoltre su numerose riviste specializzate, nazionali (“Aut-Aut”, “Lettera”, “Pedagogika”, “Psiche”) e internazionali (“Revue de la Cause freudienne”, “Psychanalyse”, “Clinique Lacanienne”). Scrive testi teatrali: “La notte di Gibellina” (2019), testo interpretato da Alessandro Preziosi, opera in omaggio alla ferita dei sopravvissuti del terremoto che nel 1968 sconvolge la valle del Belìce; “Amen” (2021), un atto unico sulla vita e la morte, la luce e il buio, il freddo e il battito del cuore, la neve e il passo. “Amen in forma di concerto per voci ed elettronica” nasce da Amen, ha la regia di Valter Malosti, le voci di Marco Foschi, Federica Fracassi e Danilo Nigrelli. Impegnato nella riflessione tra sintomo psichico e sociale interviene in TV e in radio su tematiche di attualità. Ha scritto per le pagine culturali de “Il Manifesto”, attualmente scrive per quelle di “Repubblica” e per quelle de “La Stampa”. Dal 2020 cura la direzione della rivista “Frontiere della psicoanalisi” (Il Mulino), insieme a Maurizio Balsamo. Thatyana Pitavy – Psicoanalista, Psicologa Clinica, DEA in Psicopatologia e Psicoanalisi a Paris XIII. Membro del Direttivo e del Consiglio di Amministrazione dell’Associazione Lacaniana (ALI). Responsabile
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dell’insegnamento “Esercitazioni di topologia clinica”, “La psicoanalisi in atto” e “la sezione clinica” in ALI. Delegata alle giornate di Studi di ALI. Responsabile dei Cartels di ALI e delle giornate dei Cartels di ALI. Da 20 anni è Psicologa clinica del Servizio di Psichiatria e Dipendenze La Terrasse del polo GHU Neuroscienze a Parigi. Chiara Matteini – Laureata in Lettere moderne e in Psicologia. Psicologa, Psicoanalista della Società Psicoanalitica Italiana (SPI). Membro della redazione di Frontiere della Psicoanalisi. Attualmente segretaria scientifica del Centro Psicoanalitico di Firenze (2020-2024). Lavora come psicoanalista a Firenze. È interessata al lavoro ai confini fra discipline, in particolare fra letteratura e psicoanalisi. Ha lavorato intorno alle differenti forme della temporalità psichica, alla deformazione e al rapporto fra lavoro psichico e forme della creatività. Alcune pubblicazioni: Matteini C. (2015) I Canti Orfici. Autobiografia ai bordi del silenzio, in L’Autobiografia Psicotica, a cura di M. Balsamo, Milano, Franco Angeli. Matteini C. (2019) Memorie dell’oblio. Messaggi in bottiglia dall’era digitale, Interazioni, 1/2019/49. Matteini C. (2021) Scrivere ai margini, seminario Clinamen luglio 2021. Matteini C. (2022) Sopravvivere al destino, «Frontiere della Psicoanalisi», 1/2021. Norberto Carlos Marucco – Membro dell’Associazione Psicoanalitica Argentina (APA) e membro della International Psychoanalytic Association. Attualmente direttore dell’Istituto di Psicoanalisi Angel Garma dell’APA. Già Presidente dell’APA ((2004-2008). Ha ricevuto il premio Konex, Diploma di merito in Lettere, disciplina Psicoanalisi, nel 2006. Tra le sue funzioni istituzionali è stato Segretario Scientifico di APA, Coordinatore Scientifico della Federazione Psicoanalitica dell’America Latina, Presidente del Primo Comitato Editoriale per l’America Latina dell’International Journal of Psychoanalysis, membro della Pratica Analitica e Comitato Attività Scientifiche dell’API, Presidente della Commissione Educazione della Federazione, Psicoanalitica latino-americana (FEPAL). Professore Associato all’UBA (1974-77). Ha tenuto conferenze presso le Università di El Salvador, UCES, Pavia e Padova (Italia), San Marcos (Perù) e San Pablo (Brasile). È stato designato come Presentatore Ufficiale designato per l’America Latina al Congresso Psicoanalitico Internazionale di Berlino, 2007 e Barcellona, 1997. Autore del libro “Cura analitica e transfert”. Coautore di diversi libri pubblicati in Argentina, Italia, Francia, Inghilterra e Brasile.
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Lucia Simona Bonifati – Laureata in filosofia presso l’Università degli studi di Milano ed in psicologia presso l’Università degli studi di Pavia, psicoterapeuta e psicoanalista. Socio fondatore di Jonas Onlus, è attualmente socio Jonas Milano. Socio fondatore di Telemaco di Jonas Milano. É membro della Società Milanese di Psicoanalisi (SMP). É docente IRPA presso la sede di Milano e di Ancona. Vive a Lodi e svolge la sua pratica a Lodi e Milano. Ha scritto La psicosi in Jacques Lacan. Da Aimée a Joyce (FrancoAngeli, 2000); ha scritto diversi articoli su riviste specializzate. Di recente pubblicazione “Pas-se de tango”, in N. Divincenzo, B. Giacominelli (a c. di), Il mare della formazione (Mimesis 2020) e L’immaginario ipertrofico. Il fallo e i suoi possibili destini nella psicosi e nella perversione (Mimesis 2022). Cristiana Fanelli – Psicanalista dell’Association Lacanienne Internationale, è attualmente Presidente di Ali-Roma. Studiosa di letteratura, ha conseguito un dottorato in Filosofia del linguaggio presso l’Università di Roma La Sapienza. Il suo lavoro di ricerca coniuga le competenze psicanalitiche di orientamento lacaniano con quelle letterarie e linguistiche. Da qui i suoi lavori su Marguerite Duras e James Joyce. Docente presso la scuola di specializzazione Laboratorio Freudiano per la formazione degli psicoterapeuti (Roma), tiene seminari tra Roma e Parigi. Tra i membri fondatori di Ali-Roma, ha ideato e diretto la collana di psicanalisi lacaniana “Scilicet” per Editori Internazionali Riuniti, nella quale ha curato e scritto per il volume AA.VV., Le mie sere con Lacan (Editori Internazionali Riuniti, 2012). Fra i lavori a lei più cari, la traduzione del testo di Marcel Proust Gelosia (Editori Riuniti, 2011). Ha inoltre curato e scritto per i volumi: AA.VV., Il sapere che viene dai folli (DeriveApprodi, 2017); M. Drazien, Per donna sola. Gli enigmi del femminile (Castelvecchi, 2019); C. Melman, Viaggio clandestino con Lacan (Castelvecchi, 2022). Tra le sue ultime pubblicazioni: Il folle è l’uomo libero?, in AA.VV., L’insondabile decisione dell’essere (Orthotes, 2020); Corpi in bilico, tra amore e godimento, in AA.VV., Come gode un corpo? (Galaad Edizioni, 2021); Dall’inconsistenza dell’Altro alla logica dell’oggetto a, in AA.VV., Leggere da un Altro all’altro. Il Seminario xvi di Jacques Lacan (Galaad Edizioni, 2021). Ha scritto la Prefazione In esilio al testo teatrale di J. Joyce, Esuli (Castelvecchi, 2022).
Uscite precedenti
2009 Annali del Dipartimento Clinico “G. Lemoine” Il concetto di separazione nella teoria e nella pratica psicoanalitica a cura di Stefano Pozzoli, Poiesis Editrice 2010 Annali del Dipartimento Clinico “G. Lemoine” Follia, psicosi e delirio a cura di Franco Lolli, et al. / EDIZIONI 2011 Annali del Dipartimento Clinico “G. Lemoine” L’altro sesso a cura di Anna Zanon, et al. / EDIZIONI 2012 Annali del Dipartimento Clinico “G. Lemoine” Il padre a cura di Francesco Giglio, et al. / EDIZIONI 2013 Annali del Dipartimento Clinico “G. Lemoine” Costruzione del caso clinico e tecnica psicoanalitica a cura di Lucia Simona Bonifati e Chiara Tartaglione, Mimesis Edizioni 2014 Annali del Dipartimento Clinico “G. Lemoine” La clinica psicoanalitica nella cura del bambino e dell’adolescente a cura di Eloisa Alesiani e Federica Pelligra, Mimesis Edizioni 2015 Annali del Dipartimento Clinico “G. Lemoine” Sublimazione, sintomo, creazione. Vite d’artista e invenzioni soggettive a cura di Simona Bani e Maria Teresa Rodriguez, Mimesis Edizioni 2016 Annali del Dipartimento Clinico “G. Lemoine” La diagnosi in psicoanalisi a cura di Emanuela Mundo e Silvia Tironzelli, Mimesis Edizioni 2017 Annali del Dipartimento Clinico “G. Lemoine” Psicoanalisi, monoteismi e fragilità del padre: effetti clinici e sociali a cura di Nicolò Terminio e Antonio Ciancarelli, Mimesis Edizioni
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la clinica psicoanalitica dell’atto
2018 Annali del Dipartimento Clinico “G. Lemoine” Del sesso a cura di Monica Farinelli e Sara Riccardi, Mimesis Edizioni 2019 Annali del Dipartimento Clinico “G. Lemoine” La clinica psicoanalitica e il nuovo disagio della civiltà a cura di Antonella Ramassotto e Samuele Cognigni, Mimesis Edizioni 2021 Annali del Dipartimento Clinico “G. Lemoine” Il controtransfert nella clinica psicoanalitica: riflessioni e aggiornamenti a cura di Francesco Giglio, Mimesis Edizioni
Finito di stampare nel mese di gennaio 2023 da Digital Team – Fano (PU)