L' edizione nazionale del teatro e l'opera di G. B. Della Porta. Atti del Convegno (Salerno, 23 maggio 2002) 8881473488

Nato probabilmente a Napoli nel 1535, Giambattista Della Porta fu interprete originale, in pieno Cinquecento, del moment

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Italian Pages XII,120 [121] Year 2004

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Table of contents :
PRESENTAZIONE
DELLA PORTA ‘SCIENZIATO’
ARTE E SCIENZA DELLA “VILLA” IN GIAMBATTISTA DELLA PORTA
G. B. DELLA PORTA E L’ASTROLOGIA: LA COELESTIS PHYSIOGNOMONIA
APPUNTI SU ALCUNE COMPONENTI PARATESTUALI DELLE EDIZIONI DELLAPORTIANE
TEATRALITÀ DEL TEATRO DI G. B. DELLA PORTA
L’EDIZIONE DELLE TRAGEDIE
L’EDIZIONE DELLE COMMEDIE
CONCLUSIONE
INDICE DEI NOMI
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L' edizione nazionale del teatro e l'opera di G. B. Della Porta. Atti del Convegno (Salerno, 23 maggio 2002)
 8881473488

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Atti · 1

ISTITUTO NAZIONALE DI STUDI SUL RINASCIMENTO MERIDIONALE

L’EDIZIONE NAZIONALE DEL TEATRO E L’OPERA DI G. B. DELLA PORTA Atti del convegno Salerno 23 maggio 2002 A cura di Milena Montanile

PISA · ROMA

ISTITUTI EDITORIALI E POLIGRAFICI INTERNAZIONALI ® MMIV

Sono rigorosamente vietati la riproduzione, la traduzione, l’adattamento, anche parziale o per estratti, per qualsiasi uso e con qualsiasi mezzo effettuati, compresi la copia fotostatica, il microfilm, la memorizzazione elettronica, ecc., senza la preventiva autorizzazione degli Istituti Editoriali e Poligrafici Internazionali®, un marchio dell’Accademia Editoriale®, Pisa · Roma. Ogni abuso sarà perseguito a norma di legge. http://www.iepi.it * Proprietà riservata · All rights reserved © Copyright 2004 by Istituto Nazionale di Studi sul Rinascimento Meridionale isbn 88-8147-348-8

INDICE Presentazione, Milena Montanile

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Maurizio Torrini, Della Porta ‘scienziato’

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Francesco Tateo, Arte e scienza della Villa in Giambattista Della Porta

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Alfonso Paolella, G. B. Della Porta e l’astrologia: la Coelestis Physiognomonia 19 Marco Santoro, Appunti su alcune componenti paratestuali delle edizioni dellaportiane 43 Raffaele Sirri, Teatralità del teatro di G. B. Della Porta

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Paola Trivero, L’edizione delle tragedie

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Alberto Granese, L’edizione delle commedie

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Raffaele Sirri, Conclusione

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Indice dei nomi

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PRESENTAZIONE

Il 23 maggio 2002 si è svolto presso l’Università degli studi di Salerno, sede di Fisciano, un incontro di studio su L’Edizione Nazionale del Teatro e l’opera di Della Porta, promosso dal Dipartimento di Letteratura, Arte, Spettacolo dell’Università di Salerno e dall’Istituto Nazionale di Studi sul Rinascimento Meridionale di Napoli. Il convegno, di cui ora si presentano gli Atti, fu pensato nella prospettiva di una più corretta riXessione sull’opera di Della Porta, in occasione della pubblicazione in Edizione Nazionale dell’ultimo tomo delle commedie, curato di RaVaele Sirri, che ha riprodotto con Wnezza Wlologica e acribia l’intero corpus del Teatro. Il progetto di una Edizione Nazionale, avviato da un ventennio e oltre, che vanta nel comitato scientiWco la presenza di nomi prestigiosi (Gianvito Resta, Luca Serianni, RaVaele Sirri, Francesco Tateo, Maurizio Torrini), rispondeva al bisogno di mettere ordine nei testi dellaportiani, in rapporto anche alla loro intricata vicenda editoriale, «di recuperare ad una corrente e corretta leggibilità» (Sirri) tutta l’opera scientiWca e letteraria di Della Porta, promovendo, attraverso un’edizione Wlologicamente accurata dei testi, una rivisitazione complessiva dell’autore, testimone singolare della grande crisi della seconda metà del secolo. Della Porta è certamente, per i suoi interessi diversiWcati tra letteratura, scienza e magia, una presenza intrigante nel panorama della cultura cinquecentesca, che resiste a interpretazioni deWnitive. Nato a Napoli, o forse a Vico Equense, nel 1535, visse a lungo scavalcando il secolo, interprete originale in pieno Cinquecento di un momento di rottura, la rottura dell’unità della cultura scientiWca e letteraria, e insieme esempio di antirinascimento che convive col Rinascimento stesso. E dunque intellettuale aperto a sollecitazioni diverse, scrittore fecondo, conosciuto e apprezzato ovunque, fu in campo scientiWco straordinariamente attento ai fenomeni naturali e la natura studiò senza posa costruendo ipotesi interpretative nuove nell’ambito di una visione ermetico-magica dell’universo. Processato per magia e poi assolto, manifestò una spiccata curiosità per il meraviglioso e l’occulto, curiosità che produsse trattati di scrittura cifrata, di mnemotecnica, di Wsiognomica, libri ricercati e tradotti ovunque. In questo processo ininterrotto di ricerca e di analisi, al conWne tra scienza e pseudoscienza, Della Porta si fece portavoce di una decisa rottura con l’aristotelismo imperante e opponendo al caos di antiche e nuove credenze la forza dell’esperienza diretta, dei risultati testimoniati dall’occhio esercitato dell’interprete. In

Presentazione

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quanto autore di teatro, e autore molto proliWco, dalla prima L’Olimpia, del 1589, Wno al 1616, che è la data della sua ultima, postuma, La Tabernaria, lavorò intensamente, anche negli anni più maturi. Le opere a lui attribuite da editori, prefatori e biograW, in vita o dopo la morte, sono molte, ma quelle deWnitivamente oggi accertate sono diciassette: tre tragedie (La Penelope, Il Georgio, L’Ulisse) ascrivibili, almeno le prime due, a una tipologia particolare di ‘tragedia a lieto Wne’, e quattordici commedie, ristampate più volte, e certo più fortunate rispetto alle tragedie che ebbero invece limitato riscontro e ancor più limitata fortuna critica. L’interesse di Della Porta per il teatro procedeva parallelo ai suoi studi e al suo impegno in campo scientiWco, un interesse che coltivò intensamente trasferendo anche sulla scena il gusto della sperimentazione attraverso un’abile manipolazione di ingredienti comici già collaudati. Anche il linguaggio, esagerato, estroso, si gonWa in una gara di spericolate alchimie linguistiche. Il comico, isolato dalla trama, è aYdato al gioco complesso di travestimenti ed equivoci: è soprattutto un comico delle ‘situazioni’ e un comico del linguaggio. Ma si sente che la sua non è più, o non è soltanto, la commedia del riso, è anche la commedia del sentimento che porta alla ribalta la realtà, la turgidezza napoletana, in una lingua che già inclina al secentismo. È questa la materia su cui si sono articolati gli interventi del convegno; nella seduta del mattino, presieduta da Gianvito Resta, si sono toccate alcune questioni di fondo, relative al suggestivo rapporto di Della Porta con la scienza. Maurizio Torrini ha indicato bene la vitalità di questo rapporto, che fu quello di uno ‘scienziato’ irregolare, in perpetua tensione sperimentale e inventiva; Francesco Tateo ha studiato l’intreccio di arte e scienza nel trattato sulla Villa, di cui sta preparando l’edizione; Alfonso Paolella ha presentato il trattato sull’astrologia, la Coelestis Physiognomonia, già apparso per le sue cure nell’Edizione Nazionale delle Opere (1996); Marco Santoro si è soVermato su alcune componenti paratestuali delle opere di Della Porta con una sintetica segnalazione delle stampe cinque-seicentesche. Nella seduta del pomeriggio, presieduta da Francesco Tateo, l’attenzione si è fermata sugli aspetti squisitamente teatrali di Della Porta (R. Sirri) e sull’Edizione Nazionale delle Tragedie (P. Trivero) e delle Commedie (A. Granese), giunta col quarto tomo del quindicesimo volume a deWnitivo compimento. Si riproducono pure in questi Atti le conclusioni di RaVaele Sirri, Presidente della commissione per l’Edizione Nazionale delle Opere. Un’ultima osservazione. Una giornata di studi non poteva certo consentire una disamina ad ampio spettro della complessa vicenda

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Presentazione

e della complessa attività di questo singolare personaggio, ma è servita, come si spera, a richiamare l’attenzione sulla pregevole iniziativa di un’Edizione Nazionale delle Opere che si impone sicuramente come punto di riferimento per chi in futuro vorrà ancora occuparsi di Della Porta. Fisciano, maggio 2003 Milena Montanile

DELLA PORTA ‘SCIENZIATO’ Maurizio Torrini

Una volta Luigi Firpo ebbe a dire che il torto maggiore di Della Porta era stato quello di aver vissuto troppo a lungo. Era, e voleva essere, un’osservazione per così dire minimalista, che mirava a riportare ai termini concreti e persino elementari un dibattito tra storici di eminente statura (tra i quali Marie Boas, Garin, Vasoli, Bulferetti, Paolo Rossi) che minacciava di svolgersi tra grandi idee e vasti propositi metodologici. 1 Della Porta visse davvero a lungo. Visse soprattutto in anni per diversi aspetti spesso decisivi: nasce sette anni dopo il sacco di Roma (1535), nel pieno delle guerre di religione, e muore (1615) nel pieno fulgore dell’età della Controriforma. In termini di scienza (espressione che gli fu ovviamente estranea) nasce prima del De revolutionibus (1543) di Copernico e muore dopo il Sidereus nuncius di Galileo (1610). Eppure non andrà dimenticato che Della Porta è il primo ascritto, dopo i quattro soci fondatori, all’Accademia dei Lincei, sette anni dopo la sua fondazione, il 6 luglio 1610. Galileo vi fu ascritto l’anno dopo, il 25 aprile 1611. Tutti ricordano le parole che il giovanissimo principe dell’Accademia, Federico Cesi, scriveva all’amico e sodale Francesco Stelluti a proposito del suo soggiorno ‘obbligato’ a Napoli nella primavera del 1604. Ho trattato in modo con il Sig. Battista Porta et Sig. Ferrante Imperato, che sono tutti miei et de’ Lyncei amicissimi, et invero sono miracoli di natura, et molto più di quello che si dice; io ho imparato grandemente nel discorrere con loro et ho auto, et avrò bellissimi secreti, et con questi dui ho passato buona parte del tempo in Napoli con molto utile. 2

Ancora nel 1613, dinanzi alla Taumatologia del naturalista napoletano, il Cesi non esitava a conWdare a Galileo che i suoi «segreti» non «è dubbio alcuno che sono stupendi», che «se la pratica risponderà alla proposta teorica, saranno delle prime e più degne operationi che sin qui siano dall’humana industria procedute». 3 L’anno prece1. Atti del primo Convegno internazionale di ricognizione della Fondazione per la storia della scienza italiana: i secoli XIV-XVI, Pisa, 14-16 settembre 1966, a cura di C. Maccagni, Firenze, Barbèra, 1967, p. 243. 2. Il carteggio linceo della vecchia accademia di Federico Cesi (1603-1609), Roma, Giovanni Bardi, 1938, p. 41. 3. Ivi, parte ii (1610-1624), Roma, Giovanni Bardi, 1939, p. 366.

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dente lo stesso Della Porta, non alieno da sentimenti di autostima, aveva raccomandato al principe il libro tanto «desiato» e che «par avanzi l’humanità», sì «che tutti i libri mi paiono vanità eccetto questo». 4 Un libro, è sempre Della Porta che parla, dove si descrivono «500 secreti provati da me in spatio di 75 anni», per i quali aveva speso più di «centomila ducati», una vera e propria «quinta essenza delle scienze tutte, di utile e di meraviglie grandissime, e veramente magnalia Dei». 5 Vero è che, di fronte alle resistenze galileiane, il Cesi, com’è noto, mutò rapidamente tono raccomandando a Galileo, «in questo fatto del mandar i secreti, et in molt’altre cose», di compatire «alla sua età ottuagenaria, inferma, che le cagiona, che trasanda e non pensa molte cose». 6 Insomma, anche il Cesi Wniva per pensarla come trecentocinquant’anni dopo Luigi Firpo. Ma non era solo il Cesi a stravedere per lo straripante partenopeo. Ben prima di lui Tommaso Campanella aveva ricondotto, oltre alle pubbliche discussioni, proprio al Della Porta la spinta alla composizione del suo Del senso delle cose e della magia (1590). 7 E, fuori d’Italia, Peiresc rievocava a molti anni di distanza il suo incontro con Della Porta: gran genio veramente, se ben non fu senza gelosia di chi non cappiva all’hora li veri mysteri della Philosophia naturale che va ogni dì scoprendo le cause di tanti miracoli o aVetti che il volgo tiene per miracoli mentre non può penetrare nelli mezzi naturali che gli producono. 8

Ma naturalmente le testimonianze si potrebbero moltiplicare, così come, e ancora più, la fama postuma, garantita e consolidata dall’universalità dei campi di ricerca, matematica, ottica, meccanica, astronomia, agricoltura, 9 medicina, WlosoWa naturale, architettura. Di fatto non c’è ambito che gli sia rimasto estraneo. Un enciclope4. Ivi, pp. 262-263. 5. Lettera al cardinale Federico Borromeo, 6 dicembre 1611, pubblicata da G. Gabrieli, Giovan Battista Della Porta linceo. Da documenti per gran parte inediti, «Giornale critico della WlosoWa italiana», 1927, pp. 360-397, ora in G. Gabrieli, Contributi alla storia della Accademia dei Lincei, Roma, Accademia nazionale dei Lincei, 1989, p. 736. 6. Il carteggio linceo..., cit. parte ii (1610-1624), p. 369. Sui rapporti Cesi-Della Porta-Galileo, v. E. Garin, Fra Cinquecento e Seicento: scienze nuove, metodi nuovi, nuove accademie, «Atti dei Convegni lincei», 78, 1986, pp. 29-49 e ora in E. Garin, Umanisti artisti scienziati. Studi sul Rinascimento italiano, Roma, Editori riuniti, 1989, pp. 229-248. 7. T. Campanella, Syntagma de libris propriis, a cura di V. Spampanato, Roma, Bestetti e Tumminelli, 1927, p. 14. 8. C. Rizza, Peiresc e l’Italia, Torino, Giappichelli, 1965, p. 188. 9. Su cui, v. ora L. Laserra, La ‘Villa’ di G.B. Della Porta fra utopia, magia, tradizione e sperimentazione, «La parola del testo», v, 2001, 1, pp. 151-176.

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dismo resistente, anzi indiVerente ai cambiamenti, a quei cambiamenti che proprio il lungo corso della sua vita aveva introdotto e fatto reagire. Si pensi solo al copernicanesimo: Della Porta ne accompagna tutta l’estensione, dalla nascita alla discussione, Wno all’aVermazione galileiana. Ebbene, di tutto questo nelle sue opere non c’è traccia, di quanto avviene, in Italia come in Europa, si accorgerà solo per rivendicare, nei confronti di Galileo, la primogenitura del cannocchiale. D’altra parte, proprio l’universalità enciclopedica del suo sapere si fondava, per così dire, sull’immobilismo dei principi ispiratori. Solo un sapere frastagliato, provvisorio e probabile, oVriva il destro a interventi e risoluzioni tali da apparire mirabili. Certo, il suo mondo culturale denuncia una malattia mortale, l’impossibilità, partendo da quelle premesse, di ogni soluzione innovativa, ma egli non se ne accorge, non ne tiene conto o non vi riXette, anzi ne approWtta per pescarvi quanto più può di ritrovati e trovate strabilianti. Testimone più che interprete della grande crisi della seconda metà del Cinquecento, Della Porta legittima, proprio per la grandezza e la vastità del suo ordito, quanto fosse necessario un cambiamento, e anzi una rivoluzione. Il suo è un punto di arrivo senza possibilità di avanzamento, è il capolinea di un percorso senza ritorno. Si prenda ad esempio il De aeris transmutationibus, l’ultima opera pubblicata da Della Porta nel 1610, dedicata al principe Federico Cesi e da questi promossa, ristampata ancora nel 1614. 10 Si tratta di un tema classico di WlosoWa naturale, sulla scia delle Meteore aristoteliche. Il Della Porta vi aVronta la natura e i problemi dell’aria, della pioggia, dei fulmini, del mare, dei Wumi, dei terremoti. Di ogni fenomeno Della Porta esamina le opinioni degli antichi da Anassimene a Macrobio (ma è Lucrezio la fonte più utilizzata), ne illustra le confutazioni, dà inWne la propria opinione, non dimenticando – si tratti di terremoti, di fulmini o di grandine – di dar conto di pronostici e presagi. Per più di 200 pagine in quarto Della Porta allinea testimonianze letterarie, da WlosoW a poeti, relazioni di viaggio (poche), le proprie considerazioni e le proprie esperienze, senza che niente, se non lui stesso, consenta di legare e collegare un fenomeno o una serie di fenomeni all’altro. Il De aeris transmutationibus è un testo emblematico di quanto osservavamo sopra, la fuoriuscita dell’aristotelismo non conduce da nessuna parte, non aggiunge, salvo l’esperienza dell’au-

10. V. ora il testo nell’edizione nazionale delle opere di Giovan Battista Della Porta (14) a cura di A. Paolella, Napoli, esi, 2000.

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tore, nulla o quanto tramandato dai dossograW o dalle istorie. I poco più di venti anni che lo separano dalle Meteores di Descartes contenute negli Essais (1637) sembrano più lunghi dei secoli che separavano il testo di Della Porta da quello di Aristotele. Più diYcile è capire il signiWcato e soprattutto a chi era rivolto un testo come il De aeris transmutationibus, ma lo stesso vale per il Claudii Ptolemaei magnae constructionis liber primus, 11 uscito anch’esso nei primi anni del Seicento. Chi erano i destinatari di queste opere colte, scritte in latino, dedicate a temi tradizionali della WlosoWa naturale, lontane dagli ambiti e probabilmente dal pubblico, che avevano decretato l’ampia fama di Della Porta? In quest’ambito più semplice è collocare gli Elementa curvilineorum (1601 e 1610), 12 dove palese è l’intento del naturalista napoletano di dimostrare anche in un campo ‘tecnico’ come era quello degli studi geometrici la propria competenza e il proprio valore. Quasi che al volgere della sua lunga vita il Della Porta abbia inteso dimostrare con la propria competenza la propria ‘normalità’, se non addirittura la propria ortodossia, sia pure con le insegne non del tutto rassicuranti dell’Accademia dei Lincei. 13 DiYcile, si è detto, indicare il pubblico al quale il Della Porta pensava (o forse non ci pensava) di rivolgersi con queste opere. Non certo quello ‘nuovo’ cui penseranno Galileo e Descartes con i loro testi rivoluzionari e neppure quello cui erano dirette le sue opere, alle quali aveva aYdato fama e successo. Per le quali, una volta che ci mettessimo sulla strada di un’elencazione dei ritrovati, delle aVermazioni, delle ricette di Della Porta, sarebbe diYcile sfuggire all’impressione di un pensiero caotico, senza un Wlo conduttore. Si pensi alla medicina, alle pagine che le sono dedicate nel libro viii della Magia naturalis nella seconda redazione, o al Liber medicus della Taumatologia, su cui ha recentemente richiamato l’attenzione Enrico Peruzzi. 14 Un complesso di ricette che come le testimonianze letterarie costituiscono lo sfondo su cui il Della Porta innesca la propria originalità e che è convalidato solo e semplicemente dalla constatazione degli eVetti, dal risultato. Nessun princi11. Anch’esso ora disponibile nell’edizione nazionale delle opere (18) a cura di R. De Vivo, Napoli, esi, 2000. 12. Sui quali v., in attesa dell’edizione, P.D. Napolitani, La matematica nell’opera di Giovan Battista Della Porta, in Giovan Battista Della Porta nell’Europa del suo tempo, a cura di M. Torrini, Napoli, Guida, 1990, pp. 113-166. 13. L’edizione del 1610, dedicata al Cesi, esce a Roma per i tipi di Bartolomeo Zannetti a spese dell’Accademia. 14. E. Peruzzi, Aspetti della medicina nell’opera di Giovan Battista Della Porta, in Giovan Battista Della Porta nell’Europa del suo tempo, cit., pp. 101-112.

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pio, né alcun procedimento lega il risultato alla malattia, ma solo l’azione e la testimonianza dell’attore, di Della Porta medesimo: «non scrivo rimedi degli altri medici, ma quelli soli provati di mia mano, anzi nel mio stesso corpo». 15 Così come nel De aeris transmutationibus non erano principi teorici né processi metodologici a determinare la natura del sale, della neve, dei fulmini, a stabilire i loro eVetti e signiWcati, ma solo la testimonianza e l’autorevolezza dell’interprete, anche nella medicina è il corpo medesimo di Della Porta a garantire l’eYcacia dei suoi ritrovati. Non interessano le condizioni del paziente, né tanto meno il clima o l’ambiente, ma solo l’opera delle «nascoste cagioni» che esclusivamente il mago può interpretare e sanare. La medicina veniva così ricacciata all’interno della più generale manifestazione di una natura priva di punti di riferimento, se non per gli occhi acuti e esercitati dell’interprete, eccezionali come i tuoi rimedi. Un percorso come si vede tutto all’incontrario del faticoso cammino della scienza di costituirsi come sapere autonomo e nel quale, è ovvio, le scoperte anatomiche di Vesalio, come quelle astronomiche di Copernico, o i medesimi fermenti della iatrochimica non sono destinati a trovare alcuna risonanza. Non solo, ma quel sapere attingibile soltanto dalle singolari e eccezionali qualità dell’interprete andava nella direzione opposta alla fondazione di un sapere regolato da principi condivisi e acquisibili da chiunque, nel quale il mondo, la natura, divenisse un libro da leggere con un alfabeto comune a tutti, così come alla portata di tutti è la ragione che consente di interpretare i più complessi teoremi geometrici. Al contrario il mondo dipinto da Della Porta assomiglia a quella «perpetuelle multiplication et vicissitude de formes», di cui parla in un testo famoso Montaigne, che danno vita a una «tres-fauce image». 16 Ma forse è più giusto riportare Della Porta tutto dentro i problemi e le domande dell’epoca sua, del tempo della sua formazione, tutto all’interno di quella crisi che attraversò la gran parte del secolo xvi, senza cercarvi risposte che matureranno al tempo del suo tramonto. A quel mondo appunto di una perpetua vicissitudine e moltiplicazione di forme, al quale cercò di porre rimedio con l’altrettanto straripante ampiezza delle sue conoscenze e delle sue competenze. Senza, va tuttavia detto, chiudere gli occhi di fronte alle stridenti contraddizioni di testimoni e di testimonianze, sapendo che 15. Ivi, p. 104. 16. M. de Montaigne, Les essais, éd. par P. Villery, Paris, puf, 19922, p. 908 (Des coches).

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Molti […] hanno scritto cose che giamai non viddero o sperimentaro, né mai conobbero gl’ingredienti della compositione: ma credendo alle cose scritte da’ loro maggiori, con la smisurata e importuna voglia di scrivere o di aggiongere alle cose dette, gli errori e le bugie si sono così moltiplicate e cresciute così in inWnito, che appena si veggono orme o segni delle prime invenzioni, che non solo non possono esperimentarsi, ma nemmeno si ponno leggere senza riso. 17

Si faceva strada in tal modo almeno l’esigenza, se non l’acquisizione di un sapere risolto dall’oscurità e dagli errori dei testi tramandati per via letteraria e per via testimoniale, omogeneo a quanto sul piano naturalistico si andava facendo altrove e che rappresentò, al volgere del Cinquecento, forse l’estremo sforzo di fronte al perdurante caos di antiche e nuove credenze. Bisogna [il mago] esser ancora molto intelligente della natura de’ semplici, cioè non semplice herbolajo, ma gran investigatore delle piante; per essere varii i nomi delle piante, e per le descrittioni non esattamente dipinte, habbiamo non poco faticato, quando di loro havemo bisogno avuto. Né è cosa più disconvenevole ad un arteWce non conoscer bene gli istrumenti de’ quali si serve; anzi questo giudicamo tanto importante, che quasi di qua dipenda il tutto. 18

La rottura con l’aristotelismo matura pur sempre all’interno dello stesso quadro, non intravede vie d’uscita, non mette o non riesce a mettere in discussione i rapporti che legano l’uomo alla natura. L’illusione che un rapporto diretto con la natura e il suo recupero sia la chiave della comprensione genuina dei meccanismi che regolano le vicende della vita e i suoi fenomeni conduceva a uno sforzo inane, privo com’era di regole e di principi che non fossero quelli usurati dell’aristotelismo. Certo la Wlologia era riuscita a restituire testi liberandoli dalle cattive traduzioni, dagli errori dei copisti, da corruzioni di ogni tipo e genere, ma lì vigevano appunto regole e modelli. L’idea, condivisa anche da Francesco Bacone, di un procedimento analogo per la natura, che ne preveda il recupero attraverso la liberazione del sapere naturale da quello spurio, cioè dall’inXuenza dei prodigi operati da demoni o da eVetti demoniaci, era destinato a infrangersi non solo sulla varietà dei fenomeni, ma sulla diYcoltà di deWnire lo statuto della natura, di stabilire limiti e caratteri. Ovviamente in questo quadro i monstra, gli eVetti meravigliosi, i prodigi sono gli oggetti privilegiati per scoprire e per cogliere i veri meccanismi della natura. Il prodigio andava però scomposto per 17. Cfr. E. Peruzzi, cit., p. 105. 18. Ivi, p. 107.

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distinguere le causalità naturali dai componenti Wttizi, quello che per Della Porta costituisce il «blasfemo apparato». Questo era il compito della magia e del mago, che hanno il merito di ripristinare la conoscenza della natura originaria, non turbata da inXuenze estranee. Solo che questa natura era anch’essa imprevedibile, maga per così dire anch’essa, dedita continuamente a operazioni da interpretare e da disciogliere, ricettacolo di segreti e di eccezioni continue. Così era solo la testimonianza individuale, l’experimentum condotto in proprio, in grado di cogliere l’inaVerrabile natura19. Il punto, tuttavia, non è quello di domandarsi quanti ‘sperimenti’ abbia davvero compiuto il Della Porta , quante reali veriWche abbia eVettuato e come, ma piuttosto se lo ‘sperimentare’ come egli lo concepisce, cioè come esperienza Wsica diretta, sia il metodo idoneo per veriWcare gli eVetti naturali. Come ironizzerà Galileo contro gli astrologi perugini, nell’osservare le pitture di «cinquecento piante indiane», si sarebbe forse dovuto aVermare che quella era una Wnzione o una cosa del tutto inutile, visto che nessuno «de i circostanti conosceva le loro qualità, virtù ed eVetti»20 ? Potevano insomma, ancora all’inizio del secolo xvii, l’esperienza e la testimonianza personale stare alla base di un sapere che si era esteso in terra e in cielo, o viceversa proprio quell’estensione le condannava al fallimento? La realtà è che alla soglia del Seicento, al termine della lunga vita di Della Porta coesistono e si intersecano studi e scelte stridenti: «l’oculatissima lince coesiste col cannocchiale e i due simboli del vedere nel profondo esprimono posizioni diverse – la lince appartiene ai mirabilia della natura; il cannocchiale è uno strumento artiWciale, prodotto dalla scienza e dalla tecnica dell’uomo, a disposizione di ogni uomo»21. Sul piano storiograWco gioverà, crediamo, rispettare ciò che la storia ci presenta, il contrasto certo, ma anche la coesistenza, o meglio la compresenza, all’alba della rivoluzione scientiWca e dell’età moderna di modi e di strade diverse, dove «commisurando il nuovo con l’antico, in tutte le sue diYcoltà e contraddizioni» si cerca di «raggiungere nuove sintesi e originali visioni d’insieme»22. In 19. Su questi temi v. la messa a punto di G. Belloni in G.B. Della Porta, Criptologia, edizione, nota biograWca, traduzione, Roma, Centro internazionale di studi umanistici, 1982, pp. 45-101. 20. G. Galilei, Opere, edizione nazionale a cura di A. Favaro, Firenze, Barbèra, 19685, vol. xi, pp. 107-108 (Lettera a Piero Dini del 21 maggio del 1611). 21. E. Garin, cit., p. 240. 22. Ivi, p. 232.

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caso contrario Della Porta può diventare o un caso emblematico su cui far convergere e divergere le proprie idee sulla storia della scienza, della WlosoWa, delle idee, come avvenne nel ricordato convegno pisano del 1966, o una presenza imbarazzante, a tal punto che è meglio addirittura non parlarne, come è capitato nella recente laterziana Storia della WlosoWa curata da Pietro Rossi e Carlo Augusto Viano, dove nel volume dedicato al periodo dal Quattrocento al Seicento, lungo 816 pagine, non è toccato al povero Della Porta di essere citato neppure una volta, come peraltro al Cesi e alla sua Accademia dei Lincei23. Un imbarazzo a cui il grande napoletano è da sempre abituato, in vita come in morte, sospeso sempre tra grandi entusiasmi24 e spregevoli vituperi.

23. D’altronde nei primi decenni del secolo appena trascorso il Della Porta non era riuscito a trovar posto nei fortunati e popolari ProWli del Formiggini. 24. Oltre ai saggi dedicati alla fortuna europea di Della Porta raccolti nel citato volume Giovan Battista Della Porta nell’Europa del suo tempo, v. A. Borrelli, Su un censimento delle opere di Giovan Battista Della Porta, «Giornale critico della WlosoWa italiana», 2000, 23, pp. 448-451.

ARTE E SCIENZA DELLA “VILLA” IN GIAMBATTISTA DELLA PORTA Francesco Tateo Bisogna [il mago] esser ancora molto intelligente della natura de’ semplici, cioè non semplice herbolajo, ma gran investigatore delle piante; per essere varii i nomi delle piante, e per le descrittioni non esattamente depinte, habbiamo non poco faticato, quando di loro havemo bisogno avuto. Né è cosa più disconvenevole ad un arteWce non conoscer bene gli strumenti, de’ quali si serve; anzi questo giudicamo tanto importante, che quasi di qua dipenda il tutto.

Questo passo, che si legge nelle prime pagine della Magia naturale

di Giambattista Della Porta va ricordato a proposito dell’argomento diverso della Villa, della quale parleremo perché è l’opera di cui sto curando la pubblicazione, soprattutto per due ragioni. Anzitutto perché la citazione dell’herbolajo ci rimanda ad una parte cospicua del trattato completo sull’agricoltura quale vuol essere appunto la Villa, che in dodici libri passa in rassegna le piante coltivate e le loro qualità, la parte di competenza dell’erborista. E già questo mi dà l’occasione di anticipare un tema importante come quello del rapporto fra i diversi trattati dell’autore in cui la mia citazione Wgura come un Wlo conduttore. In secondo luogo perché, proprio in riferimento alla cultura del mago, emerge un tema apparentemente estraneo alla speciWca investigazione delle piante, ma piuttosto collegato con il problema Wlologico della loro denominazione e della loro distinzione in base ai nomi che le designano. È evidente che nel campo della magia il problema del nome acquista un’importanza che non è soltanto Wlologica e di utilità enciclopedica, perché il nome rappresenta il simbolo e quindi in certo qual modo il serbatoio delle qualità attive dei semplici, ma è anche vero che la varietà dei nomi, e la possibile confusione che viene paventata, rimanda ad una questione che si colloca negli incunaboli della scienza moderna, in ambito umanistico, quando la Historia naturalis di Plinio, trattata come un’enciplopedia del mondo vegetale, poneva delle diYcoltà a chi intendeva confrontare il testo antico con i risultati dell’indagine botanica diretta. È quindi il caso di ricordare, perché scoppiata appena cento anni prima di queste riXessioni di Della Porta, la polemica sul testo di Plinio sostenuta dal Poliziano da una parte e da Nicolò Leoniceno dall’altra, con l’intervento di Pandolfo Collenuccio. Mi riferisco ad un esempio per me emblematico delle diYcoltà che cominciarono a sorgere quando i

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cultori della botanica dovettero fare i conti con le nozioni trasmesse dai testi antichi. L’esempio è signiWcativo perché ancora un secolo dopo il Della Porta si travaglia, come risulta dalle pagine dedicate alla denominazione delle varietà di piante, sulla corrispondenza fra i nomi usati nei testi poetici, quelli usati nei trattati e quelli raccolti dall’uso, per farli corrispondere alle specie di cui ha notizia diretta. In un passo controverso del libro xxiv della Naturalis Historia il Leoniceno aveva sospettato una confusione, da parte di Plinio, fra la cisthos, la rosa di rocca, e la cissos, una varietà di edera, mentre Poliziano con un’abile interpretazione sintattica della frase aveva evitato di far risultare un errore scientiWco, e Collenuccio, che leggeva un testo probabilmente banalizzato, difendeva a sua volta il naturalista latino. La natura della polemica era sostanziale, perché il Wlologo Poliziano rimproverava allo scienziato umanista di non preoccuparsi dell’interpretazione del testo, ma di tenere fondamentalmente a chiarire le nozioni scientiWche, e quest’ultimo rimproverava al Wlologo di non voler riconoscere l’errore dell’auctor, pur essendo colto in WlosoWa e scienza. Cominciavano a fronteggiarsi due mentalità diverse, l’una attenta all’identità del testo, l’altra alla sua corrispondenza con la verità della sperimentazione. Nel Collenuccio emergeva invece una mentalità umanistica diversa, la difesa retorica, non sottilmente grammaticale, dell’autore latino. Il Della Porta non rinuncia a fare i conti con gli autori dai quali in sostanza dipende, per il genere stesso della sua opera che nasce all’interno della tradizione umanistica. Nel proemio della Villa ci dice: «Spero di conseguire grandissima stima da parte dei medici, avendo sudato non poco a distinguere l’aspetto di una pianta descritta da Teofrasto, Dioscoride, Galeno o Plinio». Il problema era ancora quello di mettere ordine nel patrimonio classico tramandato. Ma l’attenzione Wlologica è tutta rivolta alla pratica della chiarezza divulgativa: «Abbiamo tentato di descrivere la materia con parole più chiare e, per quanto abbiamo potuto, trasparenti, aYnché divenissero manifeste non solo agli uomini dotati d’ingegno e di conoscenze speciWche dell’arte, ma anche agli uomini inesperti e di campagna». È la solita pia illusione degli umanisti, che presumevano un pubblico bilingue come loro e si preoccupavano soltanto del problema retorico di adeguare il registro lessicale e stilistico alla destinazione della loro scrittura. Il fatto è che i rudes e i rustici, di fronte a quella tematica, non sarebbero stati agevolati ovviamente né dalla scrittura latina di livello umile, né dalla scrittura volgare. Della diYcoltà della materia era ben consapevole il Della Porta, che nella Magia naturale aveva addirittura distinto il botanico dal-

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l’investigatore delle famiglie di piante, e ancora a proposito della denominazione, che rimaneva il problema preliminare condizionato da una tradizione così persistente nei secoli dell’umanesimo: «Per il riconoscimento delle piante c’è bisogno non di un semplice botanico, ma del più acuto investigatore delle famiglie, poiché, a causa della nomenclatura generica e della somiglianza indistinguibile, abbiamo sudato a lungo e molto in alcune opere». Qui, certo, si prevede la Wgura del Magiae professor distinto dal botanicus, ossia del conoscitore delle qualità intrinseche dei semplici, che va oltre la descrizione e la catalogazione, ossia che usa le sostanze per ottenere eVetti terapeutici e comunque di trasformazione paragonabili alla magia. Forse la Villa, diversamente dalla Physiognomonia che il Della Porta scriveva – vedremo – nello stesso torno di tempo in più stretta relazione con la Magia, prevedeva l’opera più modesta del botanico e poteva ben intendersi idealmente come rivolta ai rudes e ai rustici, ossia agli operatori dell’agricoltura. Questa situazione, di un colto umanista che col suo latino e con la sua cultura naturalistica si rivolge ai rozzi contadini, mi fa ricordare in verità una situazione creata da Giovanni Pontano in un suo dialogo comico. Non posso pensare che il Della Porta, napoletano, autore di commedie, della stessa estrazione culturale di Pontano nonostante sia intercorsa la scienza e la WlosoWa del secolo xvi, non conoscesse i divulgatissimi dialoghi del segretario aragonese. Posso pensare semmai che egli leggesse quella parte del dialogo come esempio di un impegno didascalico dell’umanista verso il suo contadino; che non è poi la chiave di lettura di quelle pagine ambigue di Pontano, il quale Wngeva di essere impazzito, o meglio di passare per pazzo, per essersi rinchiuso nella villa dopo un successo politico non adeguatamente riconosciuto dai suoi signori, per occuparsi di cose astrologiche ed agricole e riservare tutte le sue cure ad un asino e i suoi pensieri alla moglie del contadino. La chiave di lettura del testo pontaniano era proprio la rozzezza di questo Fagiolo, incapace di capire il livello culturale del suo padrone, col quale s’intende soltanto quando il discorso scivola sul piano sconcio e utilitario, cui l’umanista si adatta per divertirsi. Ma gli amici dell’umanista, accorsi per aiutarlo e nascosti dietro la siepe, si accorgono che quella follia non era poi vera, se le parole del maestro dell’accademia erano rivolte a sfatare la superstizione popolare che attribuiva agli inXussi celesti più di quanto si possa ragionevolmente ammettere: Ammiro la diligenza e la cura con cui hai fatto questi innesti, o Fagiolo – diceva il personaggio Pontano –; ma disapprovo molto la troppa importanza che dai al

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crescere o scemar della luna per ottenere i frutti. Poiché sono dell’avviso che l’intima forza da cui procedono i frutti non dipende tanto dagli ultimi giorni della lunazione, quanto dai polloni stessi; tanto è vero che, quando questi siano stati bene scelti da un ramo fruttifero e ben esposto al sole, e proprio dalla cima del ramo, danno frutto anche nel primo anno dell’innesto. E proprio l’osservazione mi ha insegnato che in questi casi le diverse fasi della luna non nuocciono aVatto o non giovano, se nel precedente innesto non siano state trascurate o osservate con particolare attenzione quelle cautele ch’io dico. [...] Dunque vorrei che badassi bene anzitutto che il ramo sia esposto al sole, fruttifero, robusto, in modo che da esso possa scegliere il pollone. E quando hai fatto questo, non ti dar tanta pena dello scemar della luna! Non che io non approvi anche questa attenzione (poiché allora i succhi sono più concentrati e più vegeti ed hanno più glutine), ma perché non vorrei che tu attribuissi tutto alla luna, dal momento che anche l’arte ha la sua importanza in questo, avendo io sperimentato piuttosto spesso che anche con la luna piena l’innesto riesce perfettamente, giacché allora l’albero cresce più alto e più diritto, e con un aspetto più bello si protende in tondo a forma di cono. [...] E c’è ancora una cosa, ignorata da voi contadini nostrani, la quale ha grande importanza per la fecondità degli innesti, ed è la cognizione dello zodiaco, cioè il sapere quali costellazioni attraversi la luna nel tempo in cui si fa l’innesto, e da qual parte essa guardi Saturno, che è appunto l’astro che presiede alla seminagione – e per ciò fu appunto così chiamato, – poiché la scienza dice che il suo inXusso si fa sentir sulla terra e presiede ai semi. Ma in una cosa soprattutto ti disapprovo, Fagiolo mio, e ritengo che tu sia colpevole; ed è che hai trascurato di irrigare con molta acqua gli agrumi durante questa frescura improvvisamente sorta pei venti di settentrione. Se c’è una cosa che ripari dal freddo queste piante così delicate, è l’irrigarle molto anche durante i giorni più freddi; lo dice la stessa ragione, se è vero che anche durante l’inverno, e quando l’aria par si congeli per i freddi soY settentrionali, il calore che è sottoterra, non potendo evaporare perché la superWcie del suolo è gelata, si raccoglie in sé maggiormente. Allora, poiché questa pianta è molto assetata, quando è tepido il seno della terra, tanto più vogliosamente attira l’acqua alle sue radici, e dopo essersene così nutrita, reagisce più robusta contro il freddo, e non lascia inaridire i suoi succhi vitali, come se fosse stata riscaldata nel seno materno e si fosse nutrita alle sue mammelle. Inoltre questo delicato arboscello spinge quasi a Wor di terra moltissime Wbrille che direi capillari, sottilissime, le quali, aderendo alle zolle, ne estraggono e ne bevono il succo; ma come queste zolline, quando sono umide, per l’umidità stessa aderiscono alle Wbrille capillari, così, quando siano state disseccate e quasi succhiate, abbandonano quelle Wbrille, mentre un’assidua irrigazione lo impedisce. Per questa ragione tanto d’estate quanto d’inverno questa pianta va agevolata con un’opportuna irrigazione.

Il registro comico del contesto non permette di trarre troppe conclusioni da questo stravagante antecedente napoletano della Villa dellaportiana (in realtà fra le fonti di questa non poteva non esserci, come c’è, il De hortis Hesperidum), ma non mi sentirei di escludere il senso polemico contenuto nel forte ridimensionamento dell’inXusso delle fasi lunari, che è il più tipico elemento della superstizione

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popolare e della magia occulta, nei confronti dell’esperienza e di un genere di inXusso astrologico riconducibile alla scienza cosmica, lo zodiaco e la posizione dei pianeti. Pontano non poteva disconoscere il sistema planetario della sua Urania e l’esperienza meteorologica dell’altro suo poemetto scientiWco, il Meteororum liber, che si ricollegavano ad una letteratura colta di orientamento naturalistico, dove l’esperienza era confortata dalla scienza naturale, e la teoria degli inXussi ammette i simboli e la loro immagine favolosa, ma si distingue dalle credenze non fondate sul principio Wsico della causalità. Si potrà ricondurre questa precauzione alla condanna ecclesiastica delle forme di magia giudiziale, ma in realtà era questa la tradizione scientiWca del centro napoletano, generalmente ostile alle forme occulte della magia. La presenza di esse nell’ambiente rurale dell’Arcadia sannazariana è un unicum che va considerato con particolare attenzione e nel quadro della complessa formazione dell’autore legato ad un ermetismo estraneo – o episodico (si pensi a Egidio) – all’ambiente napoletano. Su questa linea mi pare che Della Porta abbia concepito la sua Villa, fondata sull’esperienza Wno al punto di conWgurare il trattato come una serie di osservazioni sul proprio podere rivisitato: è signiWcativo l’uso metaforico dell’entrare nelle varie zone della villa, «iam vineam ingredimur», ad esempio, per entrare in un nuovo argomento. Come in Pontano l’esperienza si oppone alle opinioni non veriWcate o veriWcabili, ma non alla scienza consolidata nella fabula. Il fatto che il linguaggio della scienza e il linguaggio della fabula rivestano uguale dignità, che non ci sia una selezione a favore della trattatistica speciWca e tecnica rispetto a quella didascalica e poetica, non è soltanto il frutto di una modalità enciclopedica che si avviava verso il centone – questo tuttavia non lo escluderei nel caso di Della Porta – ma è ancora il segno umanistico di una Wducia nelle verità nascoste sotto involucri signiWcanti, sub involucris latentes, dice consapevolmente il proemio. Il proposito era in realtà connotato da un impegno schiettamente scientiWco, ma di una scienza che parte dagli auctores: «Registreremo dapprima quegli esperimenti che troviamo narrati dai nostri antenati, che li hanno riferiti con grandissima e metodica scrupolosità, poi faremo seguire anche le nostre esperienze, qualora abbiamo veriWcato di persona quanto tramandatoci dagli antichi, o ne riferiremo alcuni su consiglio dei più esperti in materia». Come si vede, nei criteri è indicata perWno la possibilità di aYdarsi alla veriWca di una fonte secondaria, quando sia riconosciuta autorevole. E infatti il procedimento per accumulo di testimonianze, che oVre

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generalmente l’immagine di una compilazione, è talora interrotto da interventi personali, che tuttavia vanno visti non tanto in certe osservazioni di consenso o di riWuto o di perplessità di fronte al dato recepito, ma nell’organismo stesso della compilazione, che vuol sostituire ai frammenti di testimonianze o a testimonianze parziali una trattazione che innestandole dia loro una funzione più pienamente conoscitiva. È questa l’opera del philosophus che Della Porta attribuisce a sé. Il Wlosofo che aggiunge alla conoscenza l’esperienza e l’artiWcium e si scopre mago, ma nel senso che indaga e favorisce i processi della natura, non che li stravolge. L’agricoltura è il campo più appropriato della sua azione, perché in essa la natura si sposa – come dire – naturalmente con l’arte, ed è nel regno della pace e della produttività, opposto a quello della guerra, dove domina il miles e vige la distruzione. L’agricoltura è il modello stesso della vita umana, il regno della natura popolata dall’uomo, analogo a quel mondo bucolico che nella letteratura era tratto a rappresentare simbolicamente il travaglio dell’uomo. L’agricoltura oVriva anche al suo interno modelli simbolici dell’arte e della vita: un sotteso simbolismo permea tutto il trattato sulla Villa e direi che emerge perWno nella vicenda della composizione. Il trattato fu concepito nei suoi dodici libri, numero non casuale, numero astrale, religioso, consono all’epica classica quando intendeva comprendervi la storia del mondo, scelto da Petrarca quando volle completare la raccolta bucolica: domus, sylva caedua, sylva glandaria, cultus et insitio, pomarium, olivetum, vinea, arbustum, hortus coronarius, hortus olitorius, seges, pratum. Dodici erano del resto anche i libri del De agricoltura del bolognese Piero dei Crescenzi, composti nel primo decennio del secolo xiv, più rispondenti al titolo Opus ruralium commodorum, perché alla maniera georgica includono anche l’allevamento. L’opera era stata rilanciata da una traduzione italiana nel 1536, in un periodo fecondo di letteratura didascalica, col titolo Libro delle villerecce utilità. Della Porta aveva già concepito l’intero trattato dedicato alla sola agricoltura, quando nel 1583 e nel 1584 pubblicava separatamente il Pomarium, gli alberi da frutta, e l’Olivetum, che troveranno insieme una circolazione separata anche dopo che l’opera fu completata e pubblicata integralmente nel 1582, ma non a Napoli bensì a Francoforte. Nel titolo del Pomarium, una delle due parti anticipate, si faceva già riferimento al lavoro complessivo e si invitava il lettore ad attendere le successive trattazioni, tutte deWnite anche se citate in ordine diverso dal testo deWnitivo. Gli è che evidentemente l’importanza anche simbolica dei due libri aveva suggerito all’autore di

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dare una primizia e forse di giovarsene come segno di originalità. Non è un caso che la vigna, anch’essa notevole sul piano della simbologia, concluderà nell’opera integrale una sorta di sequenza posta al centro dell’opera: v. Pomarium, vi. Olivetum, vii. Vinea. Il gioco simbolico, da parte del nostro scrittore, non è dei più raYnati, e forse gli si fa un torto se lo mettiamo in primo piano rispetto alla trattazione che voleva rispondere a precise committenze. Ma non possiamo tacere del rilievo che assumono nel Pomarium l’innesto, nelll’Olivetum l’associazione al concetto di Minerva, e nella Vinea la cura con la quale si debba sostentere il delicato tralcio con un albero opportunamente scelto. Il tema dell’innesto sembra implicare l’operazione stessa dell’arte che attraverso la delicata e raYnata fusione delle parti ottiene un frutto nuovo. Si direbbe che quando il Della Porta parla della sua operazione di raccogliere e collegare insieme le membra sparse della scienza agricola per darne una nuova trattazione, un frutto nuovo, pensi al più importante dei lavori che richiede il pomarium. L’innesto spinge gli alberi, liberatisi dallo stato selvatico, ad allontanarsi dalla propria natura e, vinta la innata selvatichezza, a migliorare con il nostro contributo i giardini, in modo che producano frutti non solo migliori e più pregiati, ma nuovi e ignoti alla generazione precedente. In eVetti perWno la rappresentazione della sylva incompta, del pomarium inconcinnum, della vinea male ordinata ci fa pensare al trasferimento metaforico nel campo dell’arte letteraria e ad un’allusione all’opera di ordinamento che richiede la trattazione di una materia così intricata, e d’altra parte al rischio – da parte dello stesso autore che si dedica a quest’opera di ordinamento – di cadere, attraverso la molteplicità delle fonti e degli argomenti, in una selva inestricabile. Ovviamente è l’immagine della vigna sostenuta da un tronco ben saldo che sollecita più agevolmente ed esplicitamente l’analogia con la vita dell’uomo e con la necessità di sorreggerla, o di sorreggere gli esseri più deboli. Non è il caso di dar conto, in questa occasione, della puntuale ricerca già eseguita per il Pomarium e l’Olivetum ad opera di Luigia Laserra, mia allieva nell’Università di Bari, in una tesi di dottorato discussa presso l’Università di Napoli nel 1999, Per un’interpretazione della Villa di G. B. Della Porta con edizione critica dei libri V e VI (si veda il saggio della stessa studiosa pubblicato in «La parola del testo», 2000, iv 3), e continuata per la Vinea da Gianni Antonio Palumbo in una tesi di laurea discussa preso la Facoltà di Lettere dell’Università di Bari nell’anno accademico 2000-2001 (Iam vineam ingredimur – il libro VII della Villa di G. B. Della Porta). Quanto alle fonti cui Della

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Porta attinge risulta che centoquarantasette sono le opere con le quali si è potuta istituire almeno una concordanza. I primi tre libri, già pronti, sono appunto quelli che ho indicati come i più interessanti dell’intera trattazione. A Luigia Laserra si deve anche la ricognizione degli esemplari delle prime edizioni: si conoscono ora 31 esemplari del Pomarium, Napoli 1583, quindici esemplari dell’Olivetum, Napoli 1584, quarantacinque esemplari della Villa, Francoforte 1592. Né è il caso di ripetere la ricognizione delle opere sull’agricoltura che ha un senso tener presenti per valutare l’operazione del Della Porta: oltre i classici, circa centoventi prime edizioni di cose rustiche, dal 1360 (Paganino Bonafede, autore del primo poema didascalico in lingua italiana, Tesoro dei rustici), Wno al 1871 (Girolamo di Firenzuola, Dell’agricoltura, da un codice senese del secolo xvi), un enorme materiale per lo studio del genere didascalico de re rustica. Piuttosto, per concludere, avendo iniziato con l’evidenziare il rapporto fra il nostro autore e la tradizione umanistica, da cui dipende in sostanza l’impressione di trovarci di fronte ad un tipo di enciclopedismo non ancora attraversato dai problemi della nuova scienza e metodologia scientiWca, dirò che proprio il confronto con la Villa di Leon Battista Alberti, di cui il trattato ripete l’intitolazione, mostra invece la distanza da quell’ideale umanistico fondato sul recupero dell’agricoltura nell’orizzonte civile dell’otium e del negotium, del piacere e dell’utilità. Isabella Nuovo ha recentemente pubblicato un’analisi esaustiva della Villa dell’umanista Worentino del Quattrocento (Il tema della “villa” in Leon Battista Alberti e nella riXessione umanistica: dall’otium letterario allo svago cortigiano, «La parola del testo», 2000, iv 1 e 2). Della Porta, nonostante i suoi limiti verso il metodo della nuova scienza, è immerso nel problema della natura, nella curiosità per i suoi processi profondi, per l’arte come appropriazione di quei processi naturali di trasformazione. Il problema dell’utilizzazione economica dell’agricoltura è sullo sfondo, ma è in realtà demandato ad un’altra scienza che stava per aVermarsi sulla tradizione della matematica in senso lato; il problema del godimento umano della campagna è nelle premesse anche di questa trattatistica più eminentemente tecnica, ma è ormai divenuto argomento speciWco di letterati e soprattutto di poeti didascalici. La divisione del lavoro intellettuale, che l’Umanesimo aveva riWutato e che non ancora aveva propriamente intaccato la trattatistica di Della Porta, diviene sempre più un dato di fatto. Eppure il libro dellaportiano sull’agricoltura, nonostante la sua ascendenza, assume dal versante Wlologico della tradizione umanistica principalmente l’interesse per

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la nomenclatura, che è la via sulla quale si cominciano a costruire gli orti botanici e si prepara la grande scienza della classiWcazione e ovviamente quella dell’intervento – per così dire – industriale, il nuovo artiWcium. Niente più che una prospettiva, questa, per la quale era necessario fare il punto della situazione storica, di cui Della Porta è una fra le più certe testimonianze.

G. B. DELLA PORTA E L’ASTROLOGIA: LA COELESTIS PHYSIOGNOMONIA Alfonso Paolella

1.1. Il 9 gennaio 1586 Papa Sisto V emanava una bolla1 che sconfessava in qualche modo una prassi consolidata nella stessa curia pontiWcia: la proibizione di tutte le pratiche divinatorie tra cui l’astrologia giudiziaria. Pochi anni dopo il decreto papale, nel 1603, il Della Porta pubblicava, a 9 anni dalla sua redazione manoscritta, la Coelestis Physiognomonia che, tra le opere dello scienziato napoletano, è l’unica che tratti l’astrologia in maniera sistematica, ma al Wne di confutarla. 2 Intanto Wn dal 1574 il Della Porta era sotto speciale sorveglianza del Santo UYzio. 3 Un decreto (1592) del Card. Giulio Antonio Santoro, arcivescovo titolare di Santa Severina e membro inXuente del Sant’UYzio, 4 gli proibiva di pubblicare opere prive della licenza del Tribunale supremo di Roma soprattutto se contenevano «aliqua iudicia futurarum rerum», 5 sotto pena di scomunica e di una multa di 500 scudi d’oro. Lo stesso Sarnelli, d’altronde, riferisce che al Della Porta, noto come indovino 6 e sospettato di determinismo astrolo1. Constitutio S .D. N. D. Sixti Papae Quinti contra exercentes Astrologiae Iudiciariae Artem, Et alia quaecunque divinationum genera, librosque de eis legentes, ac tenentes, Romae, apud haeredes Antonij Bladij, 1586 ora in Bullarium Romanum, viii, pp. 648-650 2. Per ogni notizia che concerne la storia del testo, oltre ad altri elementi ecdotici, rinvio alla mia edizione della Coelestis Physiognomonia, Napoli, esi, 1996 3. P. Lopez, Inquisizione, stampa e censura nel regno di Napoli tra ’500 e ’600, Napoli, Edizioni del DelWno, 1974, pp. 153-160; L. Amabile, Il Santo OYcio della Inquisizione a Napoli, Città di Castello, Lapi tip.-ed., 1892, vol. i, p. 357. 4. Il disposto è custodito all’Archivio di Stato di Venezia: Fondo Santo UYzio, busta 69. Il card. Santoro (o Santori), uno dei più autorevoli esponenti della Congregazione del S. OYcio, Wnora non ha ricevuto da parte degli storici, l’attenzione che merita. Una autobiograWa fu pubblicata da G. Cugnoni in “Arch. della R. Soc. Rom. di Storia Patria”, xii, 1889, pp. 151-205. Notizie sulla sua attività si possono ricavare anche dal cit. Lopez, Inquisizione… cit.; Id. Il movimento valdesiano a Napoli: Mario Galeota e le sue vicende col Sant’UYzio, Napoli, Fiorentino 1976, da G. Romeo, Inquisitori, esorcisti e streghe nell’Italia della Controriforma, Firenze, Sansoni, 1990; da F. Tamburini, Gli scritti del card. Giulio Antonio Santoro, penitenziere maggiore ed inquisitore generale, in “Arch. Hist. Pont.” 36 (1996), pp. 107-136. Una recentissima e documentata biograWa, però, chiarisce molti aspetti oscuri di questo inquietante personaggio che condannò anche Giordano Bruno: S. Ricci, Il sommo inquisitore. Giulio Antonio Santori tra autobiograWa e storia (1532-1602), Roma, Salerno, 2002. 5. P. Lopez, Inquisizione… cit., pp. 333-334. 6. La fama di indovino è testimoniata anche da due lettere dello Stelluti, astronomo e matematico linceo, ad un ignoto destinatario, rispettivamente del 25 luglio e del 8 agosto

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gico, fosse stato «ordinato che si astenesse dai giudicii astronomici». 7 Il Della Porta, consapevole del dibattito teorico su questa spinosa materia e dei fulmini dell’Inquisizione, per allontanare anche il minimo sospetto di praticare l’astrologia divinatoria, sia nel frontespizio che nell’Introduzione mette bene in chiaro che il volume è stato redatto per confutare l’astrologia giudiziaria o divinatrice: «Coelestis / Physiognomoniae / libri sex / Ioannis Baptistae Portae / Neapolitani. unde quis facile ex humani vultus extima inspectione, / poterit ex coniectura futura praesagire. / in quibus etiam astrologia refellitur, & inanis, & ima- / ginaria demonstrantur». E nell’Introduzione ribadisce: Io sin dalla mia fanciullezza mi sentiva con sì fervente desiderio trasportare ad appararla investigando con tanta diligenza e curiosità i suoi secreti, che in tutto e per tutto mi trovava dato a questa scienza. Ma poiché, per comandamento de’ superiori, è stata tolta via dalle scienze de i cattolici, con quanto ardore prima io l’andava cercando, altretanto poi con tutto il cuore la sdegnai e discacciai dalla mia mente ed, esaminandola io con altro giuditio, di quel di prima l’avea apparata, Wnalmente trovai che l’astrologia non è se non una Wnta ed imaginaria scienza; e quanto ha in essa di verità, non l’ha d’altronde che dalla sola e mera Wsonomia. Ma gli scrittori di quella, per aggrandirla e porla in gratia de gli uomini l’han posta tra le stelle accioché, essendo inalzata a gli inXussi celesti ed a cause più nobili, fusse tenuta per una scienza celeste e più divina. Contro di questa astrologia han disputato ed aguzzato le forze del loro ingegno molti uomini di grande e non ordinaria autorità: ma, in quanto al mio giuditio, con trascurata diligenza e perspicacità, come quelli che non han toccato lo scopo, percioché, mentre si sforzano di torre via l’inXussi de i cieli, non tolgono via le cause delle divinationi, ma dimostrano ignoranza de i moti de gli orbi celesti e de i progressi delle stelle: e perciò gli è stato risposto assai bene da eccellentissimi matematici e WlosoW. Ma noi ci siamo sforzati di distruggere in altro modo la varietà dell’astrologia, peroché, quel che essi dicono che non cosa alcuna che non faccino soggetta alla potestà de i pianeti, noi diciamo che soggiace alle qualità elementari dalle quali vien formato il corpo dell’uomo. 8

Intanto se all’Università della Sapienza l’astrologia aveva acquistato dignità di materia di insegnamento Wn dai tempi di Leone X e un 1637, che raccontano una serie di predizioni attribuite al Della Porta e puntualmente realizzate (G. Gabrieli, Spigolature dellaportiane in “Rendiconti della R. Acc. Naz. dei Lincei.” Cl. di sc. mor., stor., e Wlol. 6. xi (1935), pp. 491-517 ora in Contributi alla storia dell’Accademia dei Lincei, Accademia Nazionale dei Lincei, Roma, 1989, vol. i, pp. 743-761). 7. P. Sarnelli, Vita di Giovanni Battista Della Porta in Giambattista Della Porta, ChiroWsonomia tradotta dal Sig. Pompeo Sarnelli, Napoli, appresso Antonio Bulifon, 1677. L’edizione critica dell’opera, a cura di O. Trabucco, è in corso di pubblicazione. 8. Tutte le citazioni sono della traduzione italiana dell’opera pubblicata nel 1614 e presente, in appendice, nella già citata mia edizione.

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astrologo professionista, frequentemente consultato, dimorava stabilmente alla corte pontiWcia (Giulio II sarà incoronato nel giorno stabilito dagli astrologi e Paolo III Wssa l’ora dei concistori solo dopo aver consultato l’astrologo di corte), ora, invece, la bolla di Sisto V segna un nuovo corso del papato, che muta completamente atteggiamento nei confronti delle dottrine magiche e dell’astrologia. 1.2. Sul versante ecclesiastico la posizione era chiara. Il papato aveva già sperimentato nella recente riforma luterana le conseguenze politiche, economiche e sociali che scaturivano dall’inasprimento di questioni, a prima vista, esclusivamente teologiche, come quella del libero arbitrio, approfondita poi espressamente dal Concilio di Trento, 9 e voleva porre un energico argine ad un ulteriore possibile equivoco sulla materia. Il problema del determinismo della volontà toccava l’astrologia ‘giudiziaria’ soprattutto nel suo apparato teorico, già bersaglio di attacchi concentrici anche da altri versanti: i neoplatonici, da Marsilio Ficino a Pico della Mirandola, scorgevano nella dottrina astrologica una limitazione del libero arbitrio che implicava un inaccettabile determinismo; gli aristotelici, soprattutto padovani, pur ammettendo la realtà Wsica delle inXuenze astrali (inXuenza della luna sulle maree), negavano la possibilità di individuare l’entità e la direzione degli inXussi sul corso della vita umana. 10 Non a caso il Della Porta attinge alle istanze razionalistiche le argomentazioni per confutare il partito degli astrologi: perché bisogna considerare, come dice nel Prologo della Coelestis Physiognomonia, nel computo del quadro astrale, il momento della nascita e non, piuttosto, quello del concepimento? Peroché il parto nel ventre della madre vien conceputo dalla qualità del sangue che domina al seme e dopo quaranta giorni sopraviene lo spirito: e tali costumi avrà l’uomo quali donarà il temperamento dell’embrione. Che ha che far dunque l’ora della generation co ’l parto, se i costumi già otto mesi prima erano stati 9. Cf. sessione del 17 gennaio 1547: Decretum de iustiWcatione. 10. Cf. E. Garin, Magia e astrologia nella cultura del Rinascimento, in “Belfagor” 1950, pp. 657-667; ora in Medioevo e Rinascimento. Studi e ricerche, Bari, Laterza, 1954, 19872, pp. 141157; A.a.V.v., Magia, astrologia e religione nel Rinascimento, in Atti del convegno internazionale (Varsavia, 25-27 sett. 1972), Roma, Accademia polacca delle Scienze, fasc. 65, 1974; P. Zambelli, Aut diabolus aut Achillinus. Fisionomia, astrologia, demonologia nel metodo di un aristotelico, in “Rinascimento”, xxix, vol. 18, 1978, pp. 59-86; Ead. L’ambigua natura della magia, Il Saggiatore, Milano 1991, in particolare pp. 96-118 e pp. 211-248 e relative bibliograWe.

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contratti? E perché tal tempo è ignoto, non so che cosa si vadino borbottando dell’analogia e convenienza tra il caso del seme e l’uscita dal ventre materno, non vi essendo cosa commune tra questi tempi.

1.3. Nessuno ignora che nella cultura medievale (monopolizzata dall’autorevole presenza delle Sacre Scritture e dei Santi Padri e, successivamente, dalla ingombrante WlosoWa scolastica) il poco spazio lasciato libero alla fantasia era diventato dominio delle scienze occulte, della magia, dei libri misteriosi che, a loro volta, oVrivano una decifrazione altrettanto plausibile dell’universo e dello spazio cosmico. Il prestigio delle correnti esoteriche, soprattutto orientali, ancora alto in epoca cristiana, nel medioevo si era amalgamato con il sapere scientiWco dei greci, dei romani, degli ebrei e degli arabi. 11 D’altra parte la condanna dei Padri della Chiesa che assimilavano l’astrologia, l’idolatria e la magia determinò per tutto il Medioevo un atteggiamento prudente se non sospettoso delle gerarchie ecclesiastiche verso queste dottrine. Il pensiero di Ruggero Bacone, di Alberto Magno e Tommaso d’Aquino riuscì però a far distinguere nell’astrologia un sapere scientiWco, legato al moto e all’inXuenza degli astri, e una pratica sociale legata agli scongiuri e alle invocazioni delle forze occulte. 12 Tuttavia la teoria della µελοεσα, ovvero dell’eterna ed assoluta corrispondenza tra il macrocosmo e il microcosmo, elaborata Wn dall’antichità, e fertile di propaggini soprattutto in ambito medico, 13 11. Una chiara ed ampia panoramica si può leggere in J. Tester, A History of Western Astrology, New York, Ballantines Books, 1989, pp. 57-201; tr. it. Storia dell’astrologia occidentale: dalle origini alla rivoluzione scientiWca, tr. di O. Olivieri e L. Tigliani, Genova, ecig, 1990; ma si veda anche l’ormai classico volume di F. L. Gardner, Bibliotheca astrologica: a catalog of astrological publications of the 15th through the 19th centuries, with a sketch of the history of astrology by W. W. Westcott. 2nd rev. Hollywood, California, ed. Symbols & Signs, 1977, ma anche T. Keith, Religion and the Decline of Magic: studies in popular beliefs in sixteenth and seventeenth century England, London, Weidenfeld & Nicolson, 1971; tr. it. La religione e il declino della magia: le credenze popolari nell’Inghilterra del Cinquecento e del Seicento, tr. di S. Sardi, Milano, A. Mondadori, 1985 e, più recentemente, T. Gregory, Mundana sapientia. Forme di conoscenza nella cultura medievale, Roma, Ed. di Storia e Letteratura, 1992, in particolare, il saggio: Astrologia e teologia nella cultura medievale, pp. 291-328. Per una quasi completa documentazione sulle traduzioni di testi arabi in latino si può utilmente consultare F. J. Carmody, Arabic Astronomical and Astrological Sciences in Latin Translation. A critical Bibliography, Berkeley and Los Angeles, Univ. of California Press, 1956. 12. Sull’astrologia medievale si possono consultare S. Caroti, L’astrologia in Italia, Roma, Newton Compton Editori, 1983; J. D. North, Horoscopes and History, London, Warburg Institute, 1986; P. Curry, (a cura di) Astrology, Sciences and Society. Historical Essays, Woodbridge, The Boydell Press, 1987; P. Duhem, Le système du monde. Histoire des doctrines cosmologiques de Platon à Copernic, Paris, Hermann et Wls, 1913-1959, 10 voll.

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è più che mai presente nella cultura scientiWca del Rinascimento e lo sarà ancora per molti anni. Secondo tale teoria, il futuro sarà simile al passato per la natura eterna delle leggi del cosmo che governano in maniera immutabile il carattere degli uomini. Tutto è spiegato e Wssato in maniera deWnitiva nell’eternità divina: solo i saggi, nella loro veste di astrologi, indovini, maghi, occultisti, conoscono la vera chiave interpretativa di questo meccanismo integrale e totalizzante. 14 L’antichità delle pratiche divinatrici conferisce loro un alone di dignità e di venerabilità quasi indistruttibile e, comunque, diYcile da eliminare. E la verità epistemica di queste dottrine era fondata sia sull’autorità di scritture riconosciute e accettate come divine (le Sacre Scritture), sia sul credito attribuito da altri testi in qualche modo ritenuti depositari di verità numinose, siano essi la Qabbalah o i libri della sapienza egiziana e caldea Wltrati dalla coscienza della cultura classica 15 e medievale. In tale ambito l’astrologia diventa culto astrale, WlosoWa della storia, fatalismo esistenziale. «Sapiens dominabitur astris» è l’orgogliosa convinzione dello scienziato rinascimentale. Si pone pertanto un problema cruciale nella storia dell’astrologia: se gli astri siano solo segni della realtà della vita o inXuenzino in qualche modo il mondo sublunare. La questione non è di poco conto perché la prima concezione comporta il riconoscimento del primato della volontà e della libertà della persona, a discapito dell’astrologia conWnata a dottrina che, solo in maniera marginale, orienta le scelte esistenziali; ma se gli astri inXuenzano la vita umana, sarà inevitabile postulare il determinismo della volontà e l’astrologia diventa una dottrina da condannare perché riduce la volontà dell’uomo limitandone le responsabilità. Nonostante tutto, l’astrologia possiede una sua vitalità, perché rimane una macchina con una propria grammatica e sintassi 16 e si 13. A. Bouché-Leclercq, L’Astrologie grecque, Paris 1899 (Rist. anast. Scientia Verlag, Aalen, 1979) pp. 319-325; F. Cumont, Astrologie et religion chez les Grecs et les Romains, texte présenté et édité par I. Tassignon, Bruxelles-Rome, 2000. Anche la medicina astrologica si ispirava agli stessi principi: ogni segno zodiacale minaccia e/o guarisce la parte del corpo cui è preposta la sua inXuenza (pp. 521-23). Cf. anche G. Zanier, La medicina astrologica e la sua teoria: Marsilio Ficino e i suoi critici contemporanei, Roma, Edizioni dell’Ateneo & Bizzarri, 1977; T. Katinis, Medicina e astrologia nel Consilio contro la pestilentia di Ficino in “Bruniana & Campanelliana”, vii (2001), pp. 635-644. 14. E. Garin, Lo zodiaco della vita. La polemica sull’astrologia dal Trecento al Cinquecento, Bari, Laterza, 1976, p. 19. 15. A. Bouché-Leclercq, L’Astrologie…, cit., pp. 517-21. 16. U. Volli, La retorica delle stelle. Semiotica dell’astrologia, Roma, Editoriale “Espresso Strumenti”, 1979.

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oVre, innanzitutto, come un oggetto culturale che assolve, in particolar modo Wno alle soglie dell’età moderna, e forse anche oltre, la funzione suppletiva di una scienza psicologica. 1.4. Il secolo xvi segna, quindi, l’apogeo e il trionfo dell’astrologia: ma quale era il suo rapporto con l’astronomia? Almeno in linea teorica, Wn dall’antichità, si era delineata una sostanziale distinzione tra le due dottrine: l’una analizzava i movimenti dei corpi celesti e l’altra studiava le inXuenze degli astri sui caratteri e i comportamenti umani. 17 Le due esigenze, intrecciate e confuse nel corso dei secoli, solo nel xiii secolo cominciano a distanziare gli ambiti di pertinenza, come abbiamo accennato, Wno a collocarsi, nei secoli successivi, su posizioni completamente divaricate, se non opposte. L’astrologia presenta, quindi, due distinti aspetti: uno teorico (leggi dell’universo eterne, precise e chiare) e l’altro pratico (la paura degli astri come forma primordiale di causalità religiosa) che tuttavia vengono largamente confusi e smentiti nella pratica quotidiana. 18 Nel xv secolo si praticò una più marcata divaricazione tra studiosi di astronomia matematica (‘mathematici’) e quelli di astronomia cosmologica (‘naturales’), ovvero tra tolemaici e aristotelici. Tale distinzione, netta, si legge nel proemio alle Disputationes adversus astrologiam divinatricem 19 di Giovanni Pico della Mirandola dove si tenta di distinguere la dimensione scientiWca della materia astrale da ogni altro elemento allotrio soprattutto di natura mitica, mistica o superstiziosa. Essa è molto più secca nella conclusione del Tratta-

17. C. Ptolemaei Omnia quae extant opera, geographia excepta, ed. F. Boll & A. Boer, Lipsiae, Teubner, 1957, Proem. 1s. 18. Un ampio volume di Markowski (M. Markowski, Astronomica et astrologica cracoviensia ante annum 1550, Firenze, Olschki, 1990), che raccoglie tutta la produzione libraria sull’astrologia esistente a Cracovia tra il xv secolo e la prima metà del secolo successivo, quando viene pubblicata l’editio princeps del De revolutionibus orbium coelestium (1543) di Copernico, oVre una esauriente testimonianza dell’assenza di una delimitazione di campo tra astrologia e astronomia, che, in maniera più o meno cosciente, pervadeva tutta l’Europa. La maggior parte dei 127 autori recensiti si interessano indiVerentemente di previsioni astrologiche e previsioni astronomiche (eclissi, congiunzioni di pianeti, comparse di comete, stesura di almanacchi con le fasi lunari, ecc.). In realtà siamo in presenza di una produzione magmatica che oscilla tra l’obbedienza all’autorità dei prisci auctores e il riWuto del dogmatismo dottrinario, soprattutto peripatetico, per leggere i fenomeni celesti secondo i rinnovati culti ermetici. 19. G. Pico della Mirandola, Disputationes adversus astrologiam divinatricem libri 12 a cura di E. Garin, Firenze, Vallecchi, 1946-1952.

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to contra gli astrologi (1497) del Savonarola. 20 Si mettano a confronto i due testi: Pico: Quando dico astrologia, non intendo aVatto quella che misura la grandezza e i nodi delle stelle con metodo matematico, arte sicura e nobile, piena di dignità per i suoi meriti ..., ma quella che dal corso delle stelle prevede il futuro, bugiarda speculazione ... sostenuta da ciarlatani ... i cui cultori un tempo erano detti secondo l’origine loro Caldei, o, dalla professione, genetliaci.

Savonarola: La astrologia dunque speculativa è vera scienza perché cerca di cognoscere li eVecti per le vere cause ... ma l’astrologia divinatrice, la quale tucta consiste nelli eVecti che indiVerentemente procedono dalle sue cause, maxime nelle cose humane che procedono dal libero arbitrio, e in quella che rare volte procedono dalle cause sue, è tucta vana, e non si può chiamare né arte né scienza.

Il fascino e la seduzione delle scienze occulte rendevano ancora più pesante la confusione ideologica e pragmatica di tali pratiche perché si esercitava in maniera indiVerente l’astronomia, la medicina, l’astrologia, la cabala, la geomanzia, la metoposcopia, la chiromanzia, la magia bianca e la magia nera (necromanzia, evocazioni diaboliche, Wltri d’amore, ecc.). Erano in particolare queste ultime pratiche ad essere condannate dalla citata bolla di Sisto V. D’altronde nessuna dottrina o scienza aveva ancora osato dichiararsi ‘esatta’ anche se il calcolo matematico era alla base dell’astrologia, della cabala, della geomanzia e soprattutto dell’astronomia. 21 Il calcolo 20. G. Savonarola, Scritti WlosoWci a cura di G.C. Garfagnini e E. Garin, Edizione nazionale delle opere di Girolamo Savonarola, vol. i, Roma, A. Belardetti, 1982, pp. 273370. 21. A favore dell’astrologia giudiziaria si schierarono Luca Bellanti con le Responsiones in Disputationes Jo. Pici Mirandulani (Basilea 1498) e la De astrologica veritate liber quaestionum (Basilea 1498); Giovanni Stoeffler che pubblicò a Roma nel 1521 il Libellus in defensionem astrologorum iudicantium ex coniunctionibus planetarum in piscibus 1524; le diverse opere di Luca Gaurico (Isagogicus Astrologiae, Roma 1546; Tractatus astrologicus, Venezia, 1552, ecc.); Domenico Scevolini (Discorso nel quale con le autorità de’ Gentili, come de’ Catolici si dimostra l’Astrologia Giudiziaria essere verissima et utilissima..., Venezia 1565); Jean Taisnier (Astrologiae iudiciariae ysagogica et totius divinatricis artis encomia: cum nonnullis Habrahami Iudei et Luce Gaurici dictis, Colonia 1559); Henricus Lindhout, Speculum astrologiae, hoc est in scientiam genethliacam sive physicam iudiciariam introductio. (Francoforte 1608). Ma altrettanto cospicua fu la corrente antiastrologica: il francescano Tommaso Murner, seguendo le tracce del Savonarola, pubblicò a Strasburgo nel 1499 l’Invectiva contra astrologos; il Champerius (Sinforiano Champier), sulla scia del De triplici vita di Marsilio Ficino, fece uscire a Lione nel 1507 un De quadruplici vita; Giovanni da Carmona scrisse un Tractatus an astrologia sit medicis necessaria (Siviglia 1582) e Giovanni da Lens una Oratio contra Genethliacorum superstitionem (Colonia 1580); Sisto da Hemminga un trattato Astrologia ratione et experientia refutata (Anversa 1583) e Benedetto Pereira,

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matematico inizierà il suo percorso di liberazione, in via teorica e deWnitiva, da tutte le concrezioni allotrie solo da Cartesio negli anni ’30 del xvii secolo. Infatti il passaggio dall’astrologia all’astronomia si realizza, almeno in via teorica, quando, eliminata dalla prima ogni culto astrale, si fa ricorso a una visione razionale e Wsico-matematica della volta celeste. Tale distinzione e separazione si percepisce in maniera evidente nel De naturalium eVectuum causis sive de incantationibus (1520) del Pomponazzi che, pur ammettendo l’inXuenza dei fenomeni celesti su quelli terrestri, divide nettamente l’elemento magico-demoniaco dalla legge della causalità della scienza; la simbologia matematica inizia a sostituire quella mitico-magica. 22 Proprio questa operazione ha in mente il Della Porta nel redigere la Coelestis Physiognomonia e, pertanto, non è assolutamente messa in discussione la sistemazione tradizionale dei pianeti, né dei segni dello zodiaco, ma piuttosto la loro inXuenza sui caratteri e comportamenti umani. Le teorie e le idee degli astrologi giudiziari sono riferite e utilizzate solo per essere confutate alla luce della ‘scienza’ Wsiognomica. 23 In tale ambiguo clima culturale dove domina l’indecidibilità tra l’indagine naturale e la pratica magica, maturano le sue disavventure con le autorità ecclesiastiche: l’arresto, l’interdizione di pubblicare qualsiasi testo magico o astrologico, la minaccia di una elevatissima multa e l’implicita estorsione, per evitare gli anatemi dell’Inquisizione, di un volume che sconfessasse, in qualche modo, i suoi trascorsi ‘magici’. A voler ulteriormente rassicurare il TribuAdversus fallaces et superstitiosas artes, id est, De magia, de observatione somniorum, et de divinatione astrologica. Libri tres. (Lione 1592]. Ma la polemica continuò anche dopo l’opera di Della Porta: il gesuita Alessandro de Angelis pubblicò a Roma nel 1615 il trattato In astrologos coniectores; Enrico de Bullay il Discorso della vanità dell’Astrologia giudiziaria a Venezia nel 1685; e sempre a Venezia nel 1685 Geminiano Montanari fece uscire L’Astrologia convinta di falso col mezzo di nuove esperienze e ragioni Wsico-astronomiche. 22. La realtà quotidiana è molto diversa: accanto ad astrologi professionisti come Marzio Galeotti, che vive alla corte di Luigi XI di Francia, come Cosimo Ruggieri, che inXuenza con gli oroscopi la vita politica di Caterina de’ Medici, o il Cardano, che opera anche alla corte di Edoardo vi d’Inghilterra, esistono nondimeno grandi astronomi quali TychoBrahe, Keplero o Galilei che non disdegnano, per divertimento o per mero guadagno, di redigere oroscopi. 23. Una tendenza culturale, Wn dal basso medioevo, aveva tentato di legittimare la Wsiognomica come materia scientiWca facendone oggetto di studio curriculare nelle Università. L’Achillini, in particolare, sulla scorta degli Analitici, di Aristotele, ma soprattutto della Physiognomonia pseudo aristotelica, tentò di far gravitare questa scienza nell’alveo della tradizione aristotelica (cf. P. Zambelli, Aut diabolus aut Achillinus … cit., in particolare pp. 63-66).

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nale ecclesiastico, il nostro autore pubblica, nel 1606, l’Astrologo, 24 una commedia dove, in maniera ancora più decisa, ridicolizza le pratiche degli astrologi intenti a raggirare i poveri malcapitati. Dice il protagonista: «Non sapete che la negromanzia è refrigerio di quelli miseri che si trovano in qualche strabocchevole desiderio?» 1.5. Ci si può chiedere perché il Della Porta, pur avendo notevoli conoscenze matematiche (ne sia testimone l’applicazione del metodo matematico all’ottica nel De refractione del 1593 e la soluzione proposta alla dibattuta questione della quadratura del cerchio negli Elementorum curvilineorum libri tres del 1608), 25 non avverta l’esigenza di applicare tali strumenti cognitivi allo studio degli astri. In realtà egli era uno scienziato che aveva concentrato i suoi interessi sull’astrologia e sulla magia in bilico tra sperimentalismo scientiWco e credenze magiche. Una lettera di Giovan Battista Longo mostra che anche il fratello, Giovan Vincenzo, sopra tutto fu divino nell’Astrologia sì nella parte teorica che misura i moti delle stelle, et in tutte le parti di Matematica come anco nella pratica e nella giudiziaria, ed essendo lui uomo modestissimo, soleva dire che essendo vera la trasmigratione dell’anime, lui avria ardito dire, che l’anima di Tolomeo era trasmigrata in lui. 26

Il Della Porta intendeva dimostrare, per sfuggire al determinismo astrologico, che gli astri non possono essere descritti se non nella loro nuda iconicità percettiva o nella rappresentazione segnica tramandata dalla tradizione. In tal modo Saturno è «d’un pallore scuro, overo color fosco» e «trovandosi in una sfera così grande ... Wnisce il suo moto in trenta anni». Inoltre «la sua grandezza è mediocre, e minore de gl’altri pianeti fuor che di Mercurio ... La sua sfera è vicinissima al primo mobile rapidissimo, che da levante è portato verso ponente, ella si forza far il contrario volgendosi da ponente verso levante» (ii, 2). 24. G. B. Della Porta, Teatro, terzo tomo - Commedie a cura di R. Sirri, Napoli, esi, 2002, pp. 319-404. 25. P. D. Napolitani, La matematica nell’opera di Giovan Battista Della Porta, in Giovan Battista Della Porta nell’Europa del suo tempo, Atti del Convegno (Vico Equense - Castello Giusso 29 sett. - 3 ott. 1986), a cura di M. Torrini, Napoli, Guida Editori, 1990, pp. 113-166. 26. G. Gabrieli, Giovan Battista della Porta linceo: da documenti per gran parte inediti in “Giorn. Crit. della Filos. It.” viii (1927) pp. 360-397 ora in Contributi alla storia dell’Accademia dei Lincei, Roma, Accademia Nazionale dei Lincei, 1989, vol. i, pp. 635-685; p. 683.

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Il Sole poi «tra i pianeti cammina mediocremente, né pigro, né veloce, perciò fa il suo moto in un anno» e «il suo moto uniforme non si varia, né si altera, ma sempre osserva lo stesso moto. Tra i pianeti è privato spesso di luna e patisce ecclissi». E secondo l’antico sistema tolemaico «perché sta in mezzo de i pianeti, avendone tre dalla parte superiore e tre dall’inferiore, ed è da loro d’ogn’intorno cinto e, come da un certo vassallaggio obedito, ottiene superiorità sopra tutti e rinforza tutti» (ii, 23). Giove «biancheggia tra l’oro e ‘l giallo ed è gratioso ... il suo moto appresso Saturno è il più tardo» (ii, 9) (i calcoli di Copernico lo portano a 12 anni). E così Marte «non è di corpo molto grande» e la sua stella è «lucida e a guisa di carbone acceso rilucente» (ii, 16); Venere, poi, ha «il colore tra ‘l bianco e ‘l nero ... o riluce d’un splendor di rose ... È stella grande» (ii, 30) e Mercurio risplende di «una mistura di tutti i colori degl’altri pianeti ... non è veloce nel moto, ma moderato come il Sole» (ii, 37). InWne la Luna ha «gran corpo ... un globo perfetto ed è d’esatta rotondità e proportione» e «nello spatio di vent’otto giorni fa il suo corso e si mostra con diverse facce e in ciascuna settimana varia le vicende del suo lume» (ii, 44). 1.6. I fratelli Della Porta furono condizionati dal fatto che nell’ambiente napoletano, tranne qualche eccezione, era forte l’adesione ad una ripresa dell’interesse per la meccanica, la matematica e per le teorie tolemaiche. 27 Del resto tutti i personaggi noti al Della Porta, dal Maurolico 28 al Vernalione, 29 a Giulio Cortese, a Matteo di Soleto, citato anche nella Coelestis Physiognomonia (i, 1, 14), e a Gio-

27. N. Badaloni, I fratelli Della Porta e cultura magica e astrologica a Napoli nel ’500, in “Studi storici”, 1, 1959-1960, pp. 677-715. 28. C. Dollo, Astrologia e astronomia in Sicilia: da Francesco Maurolico a G. B. Hodierna, 1535-1660, in “Giornale Crit. della Filos. It.”, 6 (3) (1986), pp. 366-398; R. Moscheo, Francesco Maurolico tra Rinascimento e scienza galileiana: materiali e ricerche, Messina, Società Messinese di Storia Patria, 1988. 29. Sembra, al dire dell’Arcudi, biografo di Giampaolo Vernalione, famoso matematico e astrologo nonché amico del nostro autore, che il «dottissimo Giovanni Battista Della Porta, diceva che gli suoi libri De Coelestis Physiognomonia gli compose ad istanza del Vernaleone, e col suo aiuto, facendogli i calcoli e disponendo le materie, in modo che ragionevolmente chiamar si potevano opera di Gio. Paolo» (G. Gabrieli, Giovan Battista della Porta linceo: da documenti per gran parte inediti in “Giorn. Crit. della Filos. It.” viii (1927) pp. 360-397 ora in Contributi alla storia dell’Accademia dei Lincei, Roma, Accademia Nazionale dei Lincei, 1989, vol. i, pp. 635-685).

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vanni da Bagnolo,30 erano imbevuti di idee magico-astrologiche. Neanche l’amicizia con il Cesi riuscì a distrarre la sua attenzione dalle ‘curiosità’ e dai ‘mirabilia’. Prova ne sia il suo ‘Museo’ che sorgeva in bilico tra l’interesse scientiWco e le ‘stranezze’ della natura. 31 In verità l’interesse prevalente del Della Porta non fu certo l’astronomia: non aveva familiarità con le eVemeridi e se parlava di allineamento o posizione dei pianeti, era per lui una osservazione Wsica constativa e poco importava il calcolo dell’angolatura. Anche se negli ultimi anni si interessò al telescopio, 32 il calcolo matematico funzionava solo da supporto complementare alle sue spiegazioni dei fenomeni. In realtà l’astrologia, la meteorologia, intesa come scienza del clima e della terra, e le arti magiche furono i suoi interessi ‘scientiWci’ prevalenti al punto di essere tacciato da Paolo Pacello addirittura come ‘negromante’. 33 2. Fonti letterarie e iconografia 2.1. Opera nova & piena di dotta curiosità si legge nel frontespizio dell’edizione italiana del 1616. E le promesse erudite del titolo sono ampiamente rispettate con un ampio ed imponente corredo di citazioni di fonti che ben oltrepassa la prassi generale e, in certi ambienti perWno doverosa ed obbligatoria, del ricorso alle ‘auctoritates’. Sorge però il sospetto che l’appello alle ‘auctoritates’, se da un lato imprimeva vigore alle aVermazioni o alle tesi riportate, d’altra 30. J. Abiosus ex Balneolo, Mundo praesens dirigit opus, & sapientibus vaticinans eventus anni MDXXIII per eclypsim primomartii, Neapoli, in aedib. Catherinae de Silvestro, 1523. Anche l’Abioso, maestro di Giovan Vincenzo, aveva la concezione del cosmo come di un grande animale dove è «dominante l’interesse per una più libera manifestazione dell’impronta astrale sul mondo terreno». Cf. N. Badaloni, I fratelli Della Porta … cit., p. 685. 31. G. Fulco, Per il ‘Museo’ dei fratelli Della Porta, in Il Rinascimento meridionale. Raccolta di studi pubblicata in onore di Mario Santoro, Napoli, sen, 1986, pp. 3-73. 32. Le stesse ricerche dellaportiane sul telescopio, come si apprende da una sua lettera al Cesi del 1610, nella quale dichiara che «l’inventione dell’occhiale in quel tubo, è stata mia inventione e Galileo lettore di Padua l’have accomidato, con il quale ha trovato 4 altri pianeti in cielo e numero di migliaia di stelle Wsse et nel rivolo latteo altrettante non viste ancora, e gran cose nel globo della luna, ch’empiono il mondo di stupore» (G. Gabrieli, Il Carteggio Linceo, Roma, Accademia Nazionale dei Lincei, 1996, p. 148 e passim) testimoniano che il Della Porta non poteva assolutamente ignorare le nuove teorie copernicane. Cf. G. B. Della Porta, De telescopio, introd. di V. Ronchi e M. A. Naldoni, Firenze, L. S. Olschki, 1962. 33. G. Fulco, Per il ‘Museo’… cit., p. 12.

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parte poteva anche essere adottata come alibi ideologico di fronte ai sospetti dell’Inquisizione. Sulla tipologia delle citazioni si apre un largo ventaglio: si leggono brani assolutamente fedeli alla fonte, ma sono attestate anche stralci di testo (in)debitamente combinate amalgamando tra loro sintagmi lontani, tuttavia sempre rispettosi del pensiero dell’autore. In qualche brano tuttavia saltano agli occhi interpolazioni collocabili al limite della manipolazione. In qualche caso, raro in verità, la citazione è errata per scorretta trascrizione, ma più spesso il riferimento è riassuntivo. Probabilmente, soprattutto per le fonti greche ed islamiche, l’autore attinge a traduzioni latine o addirittura a citazioni di seconda mano, piuttosto che alla conoscenza diretta del testo anche se, forse, conosce l’arabo. 34 Nel secondo libro, ad esempio, ricorrono spesso i nomi di Messahala (Ma-sha’-allah), Doroteo e Abdila (Abdallah) nello stesso ordine e con le stesse parole riportate dal Trattato di astronomia del Bonatti. E per quasi tutte le citazioni di Ippocrate si è servito dei rinvii che recuperava nell’edizione giuntina del 1586 delle opere di Galeno; un luogo di Plutarco, tratto dai Moralia e riferito nel iv libro, in realtà, è una citazione di seconda mano dalle Noctes Atticae di Gellio. In qualche caso la trascrizione errata ha costretto l’editore del testo critico a estenuanti ricerche, come nel caso di Psedomante (vi, 1) che, molto verosimilmente, sta per Polidamante, eroe omerico, citato in moltissimi luoghi dell’Iliade. Le citazioni derivano dalle più svariate fonti. Si leggono astrologi greco-latini (Tolomeo, Doroteo Sidonio, Firmico Materno, Igino, Manilio) e arabi (Albohazen Haly, Ma-sha’-allah, al-Kabisi, Rhasis e il geomante Abdallah, che quasi certamente leggeva nelle versioni latine del Bonatti o di Gerardo da Cremona) 35 ma anche medievali quali lo stesso Bonatti e Leopoldo, duca d’Austria, e contemporanei, come Cardano. Sono menzionati, oltre agli autori canonici Ippocrate e Galeno, anche medici meno familiari quali Paolo Egineta, EroWlo, Aezio Amideno e Oribasio. Non potevano certo mancare le opere di Aristotele e pseudo-aristoteliche o le opere di Avicenna che Wgurano accanto a brani di 34. Marco Dobelio, docente di arabo al Collegio Romano, gli dedica un componimento in arabo in occasione dell’edizione del De aeris transmutationibus pubblicato a Roma presso Zannetto nel 1610 (ed. critica a cura di A. Paolella, Napoli, esi, 2000). 35. Certamente conosceva le traduzioni di Gerardo da Cremona, forse anche di Platone da Tivoli e di Rodolfo di Bruges. In ogni caso su tale problema si può utilmente consultare E. Grant, A Source Book in Medieval Science, Cambridge (Mass.), Harvard Univ. Press, 1974.

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altri WlosoW quali Democrito, Boezio, Plotino e PorWrio. È presente anche una nutrita schiera di storici antichi e contemporanei (Plutarco, Diodoro Siculo, Pompeo Trogo, Livio, Svetonio, Elio Sparziano, Giuseppe Flavio, Niceforo, Giordane, Prisco, Eginardo, Notar Giacomo, Barlezio, Perondino, Paolo Decembrio). Pochi, invece, i poeti (Omero, Darete Frigio, Virgilio, Giovenale) oltre a scrittori di varia natura: Teofrasto, Ateneo, Plinio, Censorino, Festo, Aulo Gellio, Massimo Tirio, Cornuto, Ps.-Polemone, Solino, Temistio Eufrada, Vitruvio. 2.2. Piuttosto singolare è l’uso delle fonti, soprattutto degli astrologi. Nella trattazione della materia segue in generale la ripartizione resa canonica da Tolomeo e da Firmico Materno e seguita poi generalmente dagli autori arabi e medievali. Tuttavia mentre in un libro segue, ad esempio, la falsariga del testo di Bonatti, e gli autori vengono citati con le stesse parole e nello stesso ordine del Bonatti, in un altro libro gli stessi autori, anche se hanno trattato l’argomento con lo stesso impegno e dovizia di particolari, o sono citati poco o per niente senza un giustiWcato motivo. Nel secondo libro, infatti, prevalgono le occorrenze di Tolomeo, Ma-sha’-allah e Albohazen Haly, mentre nel quarto sono preferiti piuttosto Firmico Materno, Leopoldo e Bonatti. Se l’attenzione dell’autore, come aveva annunciato Wn dal Proemio, doveva concentrarsi sulle tesi dei medici e Wsiologi, l’uso delle fonti mediche, in particolare di Ippocrate, Galeno, Aezio, EroWlo, non è corroborato dalla prassi sperimentale come avviene, ad esempio, nella Taumatologia. 36 I medici antichi sono utilizzati solo come fonte autorevole, cui attingere forza per le proprie argomentazioni logiche. Ma a quali nozioni mediche fa riferimento il Della Porta? Sostanzialmente alla dottrina dei quattro umori mutuata dalle conoscenze dell’antichità greco-romana, quando si credeva che i quattro umori, corrispondenti agli elementi del cosmo e alle suddivisioni del tempo, controllassero tutta l’esistenza, i comportamenti umani e i caratteri degli individui. Ai quattro umori venivano associati, Wn dalle dottrine pitagoriche, i quattro elementi naturali che possedevano una certa capacità (δ ναµις), come il caldo, il freddo, l’umido e il secco. 36. Cf. E. Peruzzi, Aspetti della medicina nell’opera di Giovan Battista Della Porta, in Giovan Battista Della Porta nell’Europa ... cit., pp. 101-112.

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Ciascun umore prevaleva in una stagione: la bile nera in autunno (freddo e secco), il Xegma in inverno (freddo e umido), il sangue in primavera (caldo e umido), la bile gialla in estate (caldo e secco). E gli stessi umori contraddistinguono anche le stagioni della vita; per cui l’infanzia è Xemmatica, la gioventù sanguigna, la maturità collerica, la vecchiaia melanconica. Successivamente il collerico o il melanconico non indicarono solo stati patologici, ma anche attitudini costituzionali, attribuendone i sintomi spesso a forze occulte. 37 Pertanto la tesi centrale dell’opera dellaportiana si sviluppa sulla ipotesi che i caratteri e i comportamenti umani non derivano dagli inXussi astrali, ma come si è visto, dalle «qualità elementari delle quali viene formato il corpo dell’uomo». Esse formano sia la materia astrale che quella umana. Le tesi astrologiche vanno confutate perché si poggiano non su un accettabile determinismo di origine naturale, come riteneva la dottrina medica dell’epoca, 38 ma piuttosto su una pesante ipoteca di origine preternaturale che rasenta la magia. Per questi motivi passa in rassegna nei primi 5 capitoli le opinioni dei teologi, WlosoW, medici e astrologi per addivenire che i caratteri umani derivano non dalle inXuenze astrali, ma dalle caratteristiche e qualità conferite ai pianeti simili a quelle umane per cui noi attribuimo queste cose [le indoli] non a i pianeti, ma alle qualità: e saturnino chiameremo quello che è freddo e secco in estremo; e quel che sarà mediocremente chiameremo mercuriale; e quello che essi chiamano martiale, lo chiameremo caldo e secco in estremo; e più temperato il solare; e, allo stesso modo, il gioviale noi diremo che sia caldo e umido in maggior grado; e in minore il venereo; e perciò più vicino alla morbidezza feminile, percioché abbiamo detto che la bellezza si ritrova più tosto nell’umido che nel secco. Noi diciamo altresì che si trovano altretante forti d’indoli dal meschiamento del caldo, secco, umido e freddo, e alcuna volta accrescersi, alcuna volta diminuirsi; e quella che essi chia-

37. Cf. ad esempio, R. Burton, Anatomy of Melancholy, London, ed. Holbrook Jackson, (1932) 1968; tr. it. L’anatomia della malinconia, a cura di G. Franci, Venezia, Marsilio, 1983; J. Ferrand, A Treatise of Lovesickness. Trasl. and Edit. and with a Critical Introduction and Notes by D. A. Beecher and M. Ciavolella, Syracuse, Syracuse Univ. Press, 1990; trad. e adattamento in italiano: Malinconia erotica. Trattato sul mal d’amore, Marsilio, Venezia, 1991 a cura del Ciavolella che annota a p. xvii: «L’interesse dei galenisti per la semiotica occulta era fondamentalmente un’estensione del loro tentativo di Wssare i segni biologici e costituzionali che potevano condurre ad una pratica medica preventiva capace di aiutare coloro che vivono in pericolo di essere sopraVatti dalle proprie passioni». 38. cf. ad esempio G. Mainardi, Epistolarum libri VI, SchoeVer, Venetiae, 1542 citato in P. Zambelli, L’ambigua natura ... cit., p. 82.

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mano fortunata, noi attribuiremo a gli umori puri; e a gli impuri e fecciosi umori quella che essi chiamano infortunata. (i, 9).

2.3. Connesse all’astrologia si considerano la metoposcopia, una dottrina divinatoria che predice il futuro scrutando le linee della fronte (una sorta di «semiologia biomantica») 39 e la nevologia che indaga la corrispondenza tra gli astri e la disposizione dei nei sul corpo umano. Queste dottrine, che conobbero l’apice nei secc. xvi e xvii, 40 occupano i capp. iv-xxi (ma xxii) del v libro. Tra il 1590 e il 1594 il Della Porta scrisse un piccolo trattato di metoposcopia, conservato alla British Library di Londra, 41 dove l’autore mostra una profonda conoscenza dell’antica dottrina della µελοεσα, ovvero della corrispondenza tra i pianeti e i punti della geograWa corporea. Sebbene il manoscritto sia anteriore al 1594 e, quindi, contemporaneo a quello della Coelestis Physiognomonia, come sappiamo da una lettera del Magini inviata il 27 luglio 1594 al della Porta, 42 il nostro autore non fa esplicito riferimento ad esso: perché non fa tracimare, come avviene in altre occasioni, parte del materiale in questa opera limitandosi solo a «quattro casi, di contro a sette in cui trovano spiegazione diVerenziata»? 43 L’ipotesi dell’Aquilecchia è che il Magini e il Della Porta, lavorando sulla stessa materia metoposcopica, «raggiunsero i loro risultati di volta in volta, in parte utilizzando, in parte scartando materiale preesistente, oltre che apportando il loro contributo originale fondato su protratte osservazioni personali». 44 Se la materia è così scottante, è anche possibile che l’inter39. G. Aquilecchia, «In facie prudentis relucet sapientia». Appunti sulla letteratura metoposcopica tra Cinque e Seicento, in Giovan Battista Della Porta nell’Europa... cit., pp. 199228. 40. Un famoso trattato, il De naevis di Ludovico Settala, uscì a Milano nel 1606 presso Giovan Battista Bidellio e fu spesso ristampato nelle miscellanee dellaportiane (cf. l’elenco delle edizioni della Coelestis Physiognomonia). Successivamente uscirono, nel 1608 (ma la prima è del 1603), una edizione francofortese della Metoposcopia di Goclenius (Göckel); nel 1615 a Strasburgo una Metoposcopia di Samuel Fuch; il trattato di Cardano in francese pubblicato a Parigi nel 1658, ecc. 41. ms. Additional 22.687 (sec. xvi), cc. 100-150 in G. B. Della Porta, Metoposcopia, intr. e testo crit. a cura di G. Aquilecchia, Napoli, Istituto «Suor Orsola Benincasa», 1990, l’introduzione è apparsa ora in G. Aquilecchia, Nuove schede di italianistica, Roma, Salerno editrice, 1994, pp. 288-320. 42. G. Aquilecchia, La sconosciuta Metoposcopia di G. B. Della Porta, di una diVerenziata del Cardano e di quella del Magini attribuita allo Spontoni, in “Filologia e critica”, x, 2-3 maggio-dicembre 1985, pp. 307-324. 43. G. Aquilecchia, «In facie prudentis... cit., p. 220. 44. G. Aquilecchia, «In facie prudentis... cit., p. 221.

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detto inquisitoriale abbia potuto giocare un ruolo così pesante? Da parte di Della Porta una condanna esplicita della metoposcopia, coerentemente alla bolla di Sisto V, compare solo nel I libro, cap. i dell’edizione in 6 libri della Humana Physiognomonia del 1602. 2.4. Veniamo ad esaminare le illustrazioni che corredano alcune edizioni. L’immagine ha la funzione di mettere a fuoco un concetto; la percezione del codice iconico deve precisare al destinatario il risvolto analogico con la realtà; conseguentemente l’immagine ha il compito, come nella Humana Physiognomonia, di essere, allo stesso tempo, esempliWcativa e operativa, seguendo un atteggiamento mentale che caratterizza le forme secondo la codiWcazione topica della morale antica. Non a caso sono riciclati molti rami dell’edizione dell’Humana del 1586 e sono prevalenti le Wgure che si ispirano al bagaglio culturale del mondo greco-latino. Tuttavia l’icona deve trasmettere, nella realtà quotidiana, anche l’interpretazione del reale che l’autore propone al lettore, tramite il Wltro ermeneutico del testo. Il disegnatore, infatti, comunica, attraverso il segno iconico, le caratteristiche emotive interiori attribuite al personaggio: ogni ritratto è essenzialmente un ritratto psicologico. Nonostante la prevalente adozione di Wgure allegoriche o mitiche, in questa opera, anche se rappresentate secondo la topica ricorrente, il lettore non è esente dall’identiWcare il proprio io nei tratti pertinenti delle singole Wgure. Tale meccanismo, a maggior ragione, funziona con i testi che, come nel nostro caso, propongono una tassonomia di ritratti psicologici. Qui il signiWcato delle immagini, oltre a dare la visione delle strutture interne del carattere, svolge anche una funzione di identiWcazione dei tipi culturali. Tuttavia si ha l’impressione che nella Coelestis Physiognomonia la convenzionalità delle immagini, copie topiche di statue o di medaglie, nasconda, ancora una volta, una malcelata volontà d’osservanza dei canoni estetici e di obbedienza alle ‘auctoritates’ enunciata nel Proemio. 2.5. La Coelestis Physiognomonia fu redatta sulla traccia della precedente Humana Physiognomonia dove l’autore, sulla base del cosiddetto sillogismo Wsiognomico, aveva dimostrato la validità razionale e ‘scientiWca’ della Wsionomia. Nella Humana Physiognomonia, infatti, si fa distinzione tra segno ‘proprio’, probante, forte (il τεκµριον

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di Aristotele) e segno comune che non ha alcuna forza probatoria ed è semanticamente debole. Naturalmente il segno forte acquisisce il valore di sintomo, nel senso ippocratico del termine, se è associato ad una qualità o a una funzione Wsica. In questo modo la Wsiognomica, soprattutto nel Rinascimento, si trasforma da scienza divinatoria a metodo per interpretare la natura secondo i principi della natura stessa, ovvero secondo i suoi stessi segni («iuxta propria principia», come dirà Telesio), in una sorta di semiosi illimitata. La Wsionomia diventa così, alla stregua della medicina e delle altre scienze, una semiotica: il medico, l’astrologo, il mago sono semiologi che decodiWcano e interpretano il gran linguaggio della natura. Tuttavia il tentativo di Della Porta consiste nel dimostrare che la lettura astrologica del mondo è una ermeneutica priva di fondamento razionale, mentre la medicina e la Wsiognomica, avendo un solido fondamento scientiWco, sono le uniche scienze in grado di decrittare in maniera consapevole e corretta la realtà umana. AVerma, nella Magia naturalis, (De i miracoli … Venezia, 1572) che la medicina, in quanto studio dei fenomeni Wsici e aYne alla WlosoWa naturale, deve entrare nel bagaglio intellettuale del mago e Parimente bisogna ch’egli sappia della medicina, avegna ch’ella è compagna a questa, e quasi sorella: sì come molti dicono che la medicina, vestitasi di questo nome di Magia, è venuta fra gli huomini et gli ha così allettati, ch’ognuno desidera saperla; sì che essa gli dà con eVetto molto aiuto, perché la medicina insegna le mistioni, i temperamenti, il modo di compor le cose insieme e d’applicarle. (i, 2).

In realtà Della Porta possiede, come già abbiamo visto, poche nozioni di medicina, ma non ha una conoscenza sistematica né di anatomia né di patologia. 3. Contenuto dell’opera 3.1. L’obiettivo principale dell’opera, divisa in 6 libri, consiste, quindi, nel combattere l’astrologia giudiziaria in nome dei principi Wsiognomici. Se un aspetto Wsico indica uno o più elementi del carattere di una persona, questo non deriva dalle inXuenze astrali, ma, piuttosto, dai primitivi elementi naturali (acqua, aria, terra e fuoco) in combinazione con i canonici quattro umori: sangue, Xegma, bile gialla e bile nera. L’antichità e la sacralità delle arti del ‘dovinare’, sostiene il Della Porta nel Proemio dell’opera, ha conferito ad esse un alone di indi-

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scutibile veridicità. Tra queste arti il primo luogo spetta all’astrologia «che, dalla positura delle stelle, antivede le cose da venire» e appare, quindi, «fondata sopra più certe dimostrationi». Ma l’autore confessa, come si è già visto, il suo allineamento al nuovo corso della Chiesa, sancito dalla bolla di Sisto V del 1586, che aveva inXitto una grave incrinatura a queste dottrine ormai ritenute non più ortodosse. Se «l’astrologia non è se non una Wnta ed imaginaria scienza» (Proemio), allora essa va confutata rispolverando le vecchie obiezioni degli accademici (Eudosso di Cnido), dei neoaccademici (Carneade) e degli stoici (Panezio) che, probabilmente, il Della Porta aveva recepito attraverso la mediazione della Disputatio contra iudicium astrologorum di Ficino (1477) e le già citate Disputationes adversus astrologiam divinatricem di Pico della Mirandola (1496) dove, lo ricordiamo, gli astrologi sono deWniti ‘ciarlatani’. E se l’astrologia ha oVerto scarsa prova di sé, l’unica scienza capace di fornire sicure garanzie di verità è la Wsionomia cui è stato riconosciuto lo statuto di scienza una volta sottratta al dominio della mantica: essa aVonderebbe, secondo Aristotele, le proprie radici nella WlosoWa naturale. 45 Pertanto la pretesa degli astrologi di rivestire la propria dottrina di un alone di veridicità cade miseramente davanti alla Wsionomia perché quanto ha in essa [astrologia] non l’ha d’altronde che dalla sola e mera Wsonomia. Ma gli scrittori di quella, per aggrandirla e porla in gratia de gli uomini l’han posta tra le stelle accioché, essendo inalzata a gli inXussi celesti ed a cause più nobili, fusse tenuta per una scienza celeste e più divina. (Proemio)

Per la Wsionomia, nella corrispondenza tra anima e corpo, i segni del corpo indicano la natura dell’anima secondo un ormai canonico rapporto di analogia: un bel corpo non può ospitare se non un buon temperamento e un’anima bella; pertanto il bello non potrà che identiWcarsi con il buono. Secondo le antiche dottrine pitagoriche, 46 la forma armonica, indice di bellezza, è anche indizio di un ordine tra gli ‘umori’ mentre, al contrario, la bruttezza designa solo disordine. L’astrologia divinatrice non può quindi mostrare e descrivere i temperamenti umani come dipendenti dagli inXussi astrali perché non dipendono nemmeno, come volevano alcuni medici e WlosoW, dal ‘sangue nobilissimo’ dei grandi o ‘vilissimo’ del popolo, ma dall’equilibrio degli elementi naturali. 45. P. Zambelli, Aut diabolus aut Achillinus … cit., pp. 63-66). 46. Cf. Alcmeone di Crotone (Diels, Fragm .., Alcmeone b4).

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Ad altri polemisti, con implicito riferimento ai neoplatonici Worentini, l’autore rimprovera di non aver toccato il nocciolo della questione: la pratica della divinazione va eliminata non con la dimostrazione razionale della inesistenza degl’inXussi astrali, ma con lo stesso studio delle stelle o secondo il metodo astronomico con cui i WlosoW e i matematici osservano «i moti de gli orbi celesti e de i progressi delle stelle» o secondo quello Wsiognomico con cui ci siamo sforzati di distruggere ... la varietà dell’astrologia, peroché, quel che essi dicono che non cosa alcuna che non faccino soggetta alla potestà de i pianeti, noi diciamo che soggiace alle qualità elementari dalle quali vien formato il corpo dell’uomo. (Proemio)

3.2. Già dal primo libro il Della Porta mette in dubbio, come abbiamo già accennato, la teoria della Wsionomia dei pianeti, ovvero come, secondo gli astrologi, gli attributi dei pianeti, la posizione orientale o occidentale, la luminosità, il colore, la grandezza, i movimenti, gli aspetti, possano inXuenzare i caratteri e le fattezze umane, talché, ad esempio, se Saturno è, al momento della nascita, in posizione orientale, «fa l’uomo di color melato, cioè d’oro chiaro, di grassezza mediocre e di buona disposition di corpo»; ma se è «occidentale, lo fa di colore oscuro e nero, di corpo più macilento ed, in somma, più brutto» (i, 7). Ma la teoria è falsa perché se gli astrologi, invece di consultare solo libri, avessero osservato la volta celeste secondo le leggi naturali, si sarebbero accorti che il fenomeno della variazione della luminosità, ad esempio, dipende solo da fattori Wsici e meteorologici, come i vapori e la diversità di temperatura: Se essi avessero alzati gli occhi al Cielo, dall’aspetto dell’istessi pianeti avrebbono potuto conoscere più presto e meglio quel che hanno apparato con lunga osservatione, percioché se alcuno la mattina, prima che spunti il Sole, contemplarà i pianeti che ascendono sopra l’orizonte, vedrà quelli molto maggiori, più coloriti, di maggior maestà ed eccellenza di lume, ... Percioché nell’ora del crepuscolo l’aria, essendo per l’umidità della passata notte piena di vapori ed ancora ruggiadosa, allarga la vista de i riguardanti e ... ne appaiono più grandi e più lucenti. All’incontro, quando tramontano, percioché non vi sono più vapori e per la forza del calore del giorno risoluti in sottili aure, appaiono i pianeti senza alcuna prerogativa di splendore, privi d’ogni ornamento (i, 7).

Per tali motivi le prosperità o le disgrazie degli uomini non possono derivare dall’inXusso della posizione orientale o occidentale del pianeta, «ma dalle stesse qualità de gli elementi».

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D’altra parte gli scrittori sacri sbagliano nel ritenere i caratteri umani un dono divino e sbaglia anche quella fetta di WlosoW e medici che crede la nobiltà e la bellezza avere «origine dal purissimo e sottilissimo sangue de’ nobili, come a dire di re ed uomini grandi» (i, 7). La verità della diversiWcazione dei caratteri riposa piuttosto sulla mescidanza degli umori per cui una faccia bella, rosea, vivace e graziosa dipende esclusivamente dagli umori «sottili, lucidi, senza feccia alcuna, delicati e chiari» (i, 8) e sarà l’aspetto Wsico che contribuirà a rendere gli uomini potenti: e, pertanto, saranno costoro quelli «che sono inalzati a gli onori e che conseguiscono i magistrati, l’amicitie de i prencipi e l’impero nelle volontà di quelli con chi conversano» (i, 8). Il Della Porta sembra pertanto attirare l’attenzione su una visione più realistica e spassionata della realtà, ovvero sulla capacità dell’uomo di costruire, da solo, la propria fortuna. Solo le qualità umane presentano le opportunità di costruire la carriera e la felicità degli uomini: perché sono onesti, fedeli, benevoli, amici, prudenti, d’animo regale, disprezzatori de i perigli, secreti ed, in somma, ciò che può avvenire da costumi eroici: perciò son cari a’ re e prencipi da i quali ottengono ciò che dimandano, onori e magistrati; e con tali stromenti scampano tutte le disgrazie (i, 8).

Così, a creare la rovina degli uomini, saranno i difetti che scaturiscono dagli umori cattivi. 3.3. Al secondo, terzo e quarto libro viene aYdato il compito di confutare la teoria delle inXuenze sia dei singoli pianeti, sia dei singoli segni zodiacali e le loro reciproche combinazioni e posizioni sui caratteri e sulle malattie dell’uomo. E la materia di questi libri è articolata secondo uno schema costante: 1) rassegna delle opinioni degli antichi astrologi sugli attributi degli astri e la modalità della loro inXuenza sugli uomini; 2) dimostrazione che il carattere, le qualità e le malattie dell’uomo sono da ascrivere non agli astri, ma a cause naturali. Gli astrologi errano soprattutto nell’attribuire arbitrariamente agli astri le qualità elementari del cosmo da cui, in maniera surrettizia, fanno derivare i caratteri di coloro che sono nati sotto ciascun pianeta o combinazione tra pianeti e segni zodiacali. Nel secondo e terzo libro viene dedicato largo spazio ad un tema molto caro alla sensibilità rinascimentale: la malinconia. 47 Anche su 47. Un importante lavoro su questo argomento è senza dubbio: R. Klibansky, E. Panofsky & F. Saxl, Saturn and Melancholy. Studies in the History of Natural Philosophy, Reli-

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questo argomento l’autore, assumendo una posizione piuttosto eccentrica rispetto alla tradizione, è molto esplicito: l’indole malinconica dei saturnini non deriva dalla posizione o dalla visione di questo pianeta, ma piuttosto, come sostengono i medici, dal temperamento freddo e secco tipico dell’”humor malinconicus”. È da questo, infatti, che derivano malattie come le febbri quartane, la lebbra, l’epilessia, il cancro, l’idropisia, le emorroidi, ecc. come ritengono lo stesso Aristotele e Galeno sulla scorta di Ippocrate. 3.4. Il libro quinto poi è dedicato ai nei dove si propone di sfatare la scienza dei nei, o nevologia, come dottrina divinatoria. Secondo l’antica dottrina, che risale addirittura ai Caldei48, ogni parte del corpo subisce l’inXuenza di un segno zodiacale µελοεσα : la testa è nel segno d’Ariete, il collo nel Toro, gli omeri ne i Gemelli, il cuore nel Cancro, il petto e lo stomaco nel Leone, il ventre nella Vergine, i reni e le gionture nella Libra, la natura nello Scorpione, i Wanchi nel Sagittario, i ginocchi nel Capricorno, le gambe nell’Acquario, i piedi ne i Pesci (v, 1)

e le macchie o nei che somigliano alle costellationi delle stelle, corrispondano co ‘l numero ad esse stelle le quali, quando saranno chiare, belle e ben fatte, signiWcaranno gloria grande, non interrotta e con felice esito; ma se v’appariranno piccioli vestigii, sarà tanto minore. (Proemio).

Ovvero, se i nei appaiono nelle parti del corpo corrispondenti al segno zodiacale o alla casa del pianeta, ciò sarà segno certo del trasferimento delle qualità e attributi del segno e del pianeta alla persona che ha avuto la (s)ventura di possederlo. Così, ad esempio perché l’orecchia destra è posseduta da Saturno, si può liberamente promettere un’eredità e ricchezze a chi avrà un segno nero nell’orecchia destra (v, 5).

Gli astrologi infatti credono che la malinconia risieda nella milza cui è preposto Saturno, padrone della melanconia; e poiché gion and Art, New York, Basic Books, 1964; tr. it. Saturno e la malinconia: Studi di storia della WlosoWa naturale, religione e arte, tr. di R. Federici, Torino, Einaudi, 1983; ma si possono utilmente consultare anche gli atti del Convegno su La Malinconia nel Medio Evo e nel Rinascimento, a cura di A. Brilli, Urbino, Quattroventi, 1982; M. Ciavolella & A.A. Iannucci, Saturn from Antiquity to the Renaissance, Toronto, Dovehouse Editions Inc., 1992. 48. A. Bouché-Leclercq, L’astrologie… cit., p. 319.

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Saturno dà le infermità lunghe, e perciò saranno sempre malsani. Ma la ragion naturale è che, quei che hanno la milza gonWa o segnata di segno nero, quei tali abondaranno sempre di melanconia e l’infermità malinconiche sono sempre lunghe, mai non Wniscono e perciò sono malsani. (v, 10).

In fondo il Della Porta, pur non negando la funzione dei nei (esiste comunque una corrispondenza tra i nei sul corpo umano), sottrae loro ogni capacità divinatoria al contrario di quanto sostenevano Melampode e Cardano. E ciò avviene anche a proposito del pregiudizio, diVuso tra gli stessi medici, a proposito delle ‘voglie’ delle donne incinte secondo cui È tale la forza e potenza dell’imaginativa che quando la donna nel concepire guarda alcuna cosa troppo Wssamente o, essendo gravida, gli vien desiderio grande di alcuna cosa, imprime nel tenero corpicciuolo del fanciullo varie forme di cose come sigilli, come a dir nevi, macchie e verrucole che non di facile si possono togliere e scancellare. Allo spesso, per lo guardar Wsso un lepore, partoriscono il fanciullo co ‘l labro di sopra spartito in due. … Noi abbiamo più volte sperimentato che molte donne hanno partorito i Wgliuoli co ‘l labro diviso che mai non hanno veduto lepre; e molte, che hanno partorito i Wgliuoli con la faccia piena di vino, che hanno avuto in odio il vino, né ne hanno bevuto, né desiderato mai. Ma abbiamo certissimamente conosciuto che hanno avuti i costumi simili a quelli animali (v, 2).

3.5. È nel sesto libro che si tratta diVusamente del rapporto armonico (o disarmonico) tra l’anima e il corpo. E attingendo sempre il materiale dalla cultura classica e mitologica, passa in rassegna gli ‘exempla’ degli uomini belli e delle persone deformi. Il materiale trae spunto dalla Humana Physiognomonia che spiega cosa signiWchi avere un bel viso o un corpo deforme, essere di alta o bassa statura, essere eunuco o cieco, ecc., ma, è ovvio, la causa non può risiedere nell’astrologia giudiziaria, ma nella natura: Ci avanza la miglior parte della nostra Fisonomia celeste, cioè alcune cose che possiamo predire de i costumi e delle cose da venire da i defetti e eccessi delle parti del corpo umano. Parte nel vero diYcilissima e che avanzarà l’altre in diYcoltà e parrà ad alcuni saviuzzi, quasi una astrologia a roverso, e che non può esser tolta da altro che da i fonti della medicina e della WlosoWa. (vi, Proemio)

Anche la crescita, o la mancanza di crescita, delle persone non dipende dagli astri, ma piuttosto da una causa del tutto logica e naturale: ne i corpi piccioli, il sangue si racchiude in poco luogo, onde i movimenti sono veloci e nell’operare e nell’intendere sono assai veloci e nel corpo picciolo è picciolo il viaggio tra ‘l cuore e ‘l cervello, dove si accendono gli spiriti; perciò

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Della Porta e l’astrologia

sono più forti e anco più fortunati; per lo contrario ne i corpi grandi, essendo grande la elatione de gli spiriti, più tardi vanno alle parti di sopra e alle operationi; perciò in questi non appaiono gli spiriti vivaci e illustri, ma languidi e deboli, onde son tutti deboli, timidi e infelici in conseguire i loro desiderii più che non sono i piccioli, come più a lungo abbiamo detto nella nostra Fisonomia (vi, 5).

Allo stesso modo spiega la presenza degli eunuchi e dei ciechi. In conclusione, se gli astrologi attribuiscono le qualità dell’uomo all’inXusso degli astri, per cui la sfera economica e civile dei singoli individui è determinata a priori, la proposta del Della Porta non è meno deterministica: all’inXuenza astrale l’autore sostituisce quella dell’equilibrio (o squilibrio) degli umori nella loro combinazione con il caldo, freddo, secco e umido. È vero che l’invito ad una lettura ‘naturalistica’ della natura si ispira al metodo dell’investigazione degli elementi «iuxta propria principia», ma sorge il sospetto che l’interpretazione dei segni segua piuttosto le leggi, o meglio, quelle intuizioni panvitalistiche della cultura medica che trovano terreno fertile in alcune forme di magismo dove la perfetta corrispondenza tra uomo e cosmo elabora (o crede di elaborare) mezzi e strumenti atti a consentire il dominio dell’uomo su se stesso e sulla natura. Non a caso le stesse idee si trovano nell’Heptaplus di Pico, 49 nella De sacra philosophia del Valles 50 e sono patrimonio dell’ambiente intellettuale napoletano della seconda metà del xvi secolo.

49. G. Pico della Mirandola, Eptaplus, o La settemplice interpretazione dei sei giorni della Genesi, Carmagnola, Arktos, 1981 50. F. Valles, De iis, quae scripta sunt physice in libris sacris, sive de sacra philosophia, liber singularis. Augustae Taurinorum, apud haeredem Nicolai Bevilaquae, 1587.

APPUNTI SU ALCUNE COMPONENTI PARATESTUALI DELLE EDIZIONI DELLAPORTIANE Marco Santoro

0. Non posso nascondere che anche chi vi sta parlando, come credo tutti coloro che si sono imbattuti o che si imbattono in un personaggio così intrigante come Giambattista Della Porta, è sempre stato colpito da una serie di sollecitazioni legate alla poliedrica produzione letteraria e scientiWca del Nostro ed è stato quindi tentato più di una volta di approfondire alcuni aspetti della sua personalità culturale, in specie taluni passaggi della sua formazione nel campo della fenomenologia naturale. Nella odierna circostanza, tuttavia, essendo alla presenza di così autorevoli studiosi del testo e della Wgura dellaportiani, non solo ho valutato ostico per chi, come me, non è uno specialista dell’accademico linceo, potere elaborare qualcosa di originale sulla produzione creativa e speculativa del Nostro, ma soprattutto ho ritenuto più opportuno ricorrere alle mie speciWche competenze di carattere bibliograWco e bibliologico, in virtù delle quali sono stato cortesemente invitato a partecipare a questa giornata, così da potere recare un sia pure ridotto contributo a questa interessante e ben articolata giornata di studio. D’altro canto non si può negare da un canto che non sono frequenti, purtroppo, le opportunità di caricare di senso concreto la più volte invocata interdisciplinarietà volta ad investigare una realtà sulla base di approcci ermeneutici diVerenti, dall’altro che in eVetti proprio la produzione editoriale dellaportiana si presta paradigmaticamente ad approfondimenti, ricerche e sottolineature inerenti l’area bibliograWco-bibliologica (detto per inciso, sarà appena il caso di ricollegarsi ad alcune considerazioni espresse oggi sia da Torrini che da Tateo in merito all’esigenza avvertita da Giovambattista di “dare ordine” alla conoscenza, di comunicare secondo schemi più precisi, giacché possono richiamare alla mente clima e logiche repertoriali tipiche del Cinquecento nonché procedure classiWcatorie dello scibile che si evolvono proprio a partire dalla metà del secolo, dopo la stagione gesneriana). Devo altresì fare presente che quanto mi appresto a dire si inserisce non in ciò che comunemente si può deWnire work in progress ma addirittura in una fase di ricognizione che deWnirei, più modestamente, di work in start.

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Dunque accennerò non al Della Porta scrittore, scienziato, accademico, commediografo, drammaturgo, ecc. ma alle pubblicazioni di Della Porta nella loro esclusiva entità di oggetti materiali di comunicazione scritta, rendendovi partecipi, nei tempi stabiliti, non di approdi più o meno esaustivi di ricerca bensì di una serie di questioni che hanno stimolato la mia curiosità nel momento in cui ho cominciato a raccogliere materiale per questa mia breve relazione. Ma prima di andare avanti può essere utile una premessa. In un intervento sulla storia della stampa e gli studi storici, tenuto alla “Rare Book School” dell’Università della Virginia nel 1994, e pubblicato sulla rivista «Studies in Bibliography» nell’anno seguente, Thomas Tanselle nell’esordio precisava: Se, come ha detto Roger Colligwood, lo scopo dell’indagine storica è il “pensiero” o “l’attività mentale”, il nostro mezzo per giungere ad essi deve ciononostante essere principalmente l’esame degli oggetti Wsici; perché il pensiero non è tangibile, e quello del passato risiede principalmente nei manufatti che esso ha prodotto, dal momento che i manufatti, essendo oggetti Wsici, hanno qualche possibilità di sopravvivere […] da un momento storico all’altro. 1

Se si parte dunque dalla corretta premessa che lo studio della storia e del pensiero si sostanzia nella veriWca e nell’interpretazione di quanto è accaduto nel passato, è ineludibile la ricerca sugli oggetti materiali, su quanto, in altri termini, hanno Wsicamente prodotto la natura e l’uomo, giacché, come Tanselle avverte, «non vi può essere una storia delle idee senza una storia degli oggetti». 2 E uno di questi oggetti, tanto più bisognoso di essere investigato in quanto tra l’altro portatore del pensiero, è appunto il documento scritto, anche nella sua Wsicità, nella sua materialità, il quale consente il recupero di quella memoria storica, sulla quale Le GoV ha scritto pagine di straordinaria presa. D’altro canto, come ha lucidamente e persuasivamente evidenziato Donald McKenzie, l’indagine sul documento scritto, e in particolar modo sul libro stampato, deve presupporre non soltanto una ricostruzione il più possibile fedele dell’intero processo produttivo che trasforma tecnicamente l’opera in pubblicazione, ma anche un’accurata valutazione degli speciWci ap1. Il saggio è stato pubblicato in seguito anche in Italia e pertanto si rinvia a Th. Tanselle, La storia della stampa e gli studi storici, «La BiblioWlia», 1996, 3, p. 211. 2. Ivi, p. 212. In merito alle implicazioni legate alle prospettive e ai compiti della ‘storia della stampa’, della ‘storia del libro’ e della ‘storia dell’editoria’, mi sia lecito rinviare a M. Santoro, A proposito di ‘storia del libro’, in Id., Libri edizioni biblioteche tra Cinque e Seicento. Con un percorso bibliograWco, Manziana (Roma), Vecchiarelli, 2002, pp. 11-34.

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porti di quanti, a vario titolo, si sono resi arteWci dell’eVettiva realizzazione di un’edizione. 3 «Gli autori non scrivono libri – e mi approprio delle parole di Roger Chartier –: scrivono testi, che diventano oggetti scritti, manoscritti, incisi, stampati (e oggi informatizzati)». E aggiunge: «Questo divario, che è appunto lo spazio in cui si costruisce il senso, è stato troppo spesso dimenticato, non soltanto dalla storia letteraria classica, che concepisce l’opera come un testo astratto le cui forme tipograWche sono prive d’importanza, ma persino dalla teoria della ricezione». 4 Dunque, l’autore non scrive libri, ma testi. Si può essere d’accordo e si può anche aggiungere dell’altro. L’autore scrive testi che non sono opere Wno al momento in cui non sono lette: scrive testi, in altre parole, che intanto divengono tali allorché trovano un destinatario. «In questo passaggio dalla scrittura alla lettura, il testo si moltiplica tante volte quante sono le fruizioni e assume così molteplici e diVerenziati sensi semantici, a seconda delle modalità, dei gusti, degli interessi e delle inclinazioni con le quali è recepito. Insomma, per sintetizzare con Roland Barthes, potremmo aVermare che la nascita del lettore richiede la morte dell’autore e che un testo comincia veramente ad esistere solo quando un lettore se ne appropria». 5 Potremmo anche aggiungere, trasferendoci in un passato più lontano, che molto acuta risulta in relazione a quanto appena detto già l’osservazione di Marziale, allorché scrive: «Quel che tu reciti, o Fidentino, è mio. Ma la vile re-citazione comincia a farlo tuo». 6 Ma non c’inoltriamo in questo accattivante anche se un po’ inWdo terreno che, quasi per paradosso, può condurre alla negazione, alla polverizzazione dell’autore, e torniamo al nostro discorso. Oggi l’editore, che sia un individuo o un gruppo composto da consulenti, redattori, direttori, ecc. riveste il ruolo, precisa Cadioli, «di dare corpo materiale al passaggio dal “testo di uno scrittore” al “libro di un lettore”, e più precisamente di un lettore potenziale che deve inverarsi in un lettore reale. Muovendo da quest’ultimo 3. Cfr. D. F. McKenzie, Bibliography and the sociology of Texts, (1986), trad. italiana BibliograWa e sociologia dei testi, Milano, Edizioni Sylvestre Bonnard, 1999. 4. Cfr. R. Chartier, L’ordre des livres. Lecteurs, auteurs, bibliothèques en Europe entre XVI et XVII siècle (1992), trad. italiana L’ordine dei libri, Milano, Il Saggiatore, 1994, p. 24. 5. Cfr. M. Santoro, Appunti su caratteristiche e funzioni del paratesto nel libro antico, «Accademie e Biblioteche d’Italia», 2000, 1, p. 5. Doveroso rinviare a riguardo a R. Barthes, Miti d’oggi, Torino, Einaudi, 1974. 6. Citazione riportata anche in D. F. McKenzie, BibliograWa e sociologia di testi, cit., p. 28.

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punto si potrebbe aggiungere che il lettore preWgurato dall’editore, [soprattutto ma non esclusivamente] quando non si tratta di meri libri di consumo dal mercato ben stabilito, possiede una Wsionomia che corrisponde al modello di lettore rappresentato dallo stesso editore dal momento in cui legge un dattiloscritto o un libro del passato, decidendo se pubblicarlo o no». 7 In questo senso, l’editore è in primo luogo un lettore particolare, un “iperlettore”, come lo chiama Cadioli, sottolineando così l’importanza della lettura nel processo editoriale e nella stabilizzazione di un testo in una forma di libro, che si propone, e s’impone, come primo lettore, come garante, dal suo punto di vista, di quelle che ritiene debbano essere le inclinazioni e i gusti del pubblico al quale è destinata l’opera da trasformare in libro. L’editore iperlettore, come qualsiasi altro lettore, è condizionato dai propri gusti, i quali lo spingono ora a valorizzare ora a sacriWcare una serie di elementi. Le sue scelte quindi non solo non sono neutre ma altresì sono, rispetto a quelle del lettore comune, più o meno vistosamente vincolanti, giacché possono incidere sia sull’autore con consigli e suggerimenti (talvolta direttive) di modiWche (non sempre condivise), sia sulla struttura del prodotto concluso. In proposito Sigfried Unseld, in virtù della vasta esperienza maturata in qualità di direttore editoriale, annota: « [l’editore] è il primo partner dell’autore. È il primo partner nel dare un giudizio sul manoscritto, nel valutare gli eventuali interventi che possano portarlo al massimo livello di consistenza e di qualità di cui un autore è capace». 8 D’altro canto, quanto peso abbia avuto (ed abbia) la valutazione di un editore sulle scelte di un autore è testimoniato eloquentemente anche da numerose vicende legate alla preparazione di edizioni critiche nonché da preziosi epistolari fra scrittori e editori: ed è superXuo qui ricordare casi come quelli Gar-Pomba, Proust-Gallimar oppure Leopardi-Stella. Sia Gar che Leopardi che Proust, in eVetti, sono perfettamente consapevoli che il proprio testo non muta e che sono invece diversi sia prodotto editoriale che tipologia di fruizione condizionati dalla “forma”: e il primo impatto del desti-

7. Cfr. A. Cadioli, Lettura e editoria, in *Il futuro della lettura, a cura di Maurizio Vivarelli, Manziana (Roma), Vecchiarelli, 1997, p. 156. 8. Cfr. S. Unseld, Der Autor und sein verleger (1978), trad. italiana L’autore e il suo editore. Le vicende editoriali di Hesse, Brecht, Rilke e Walser, Milano-Verona, Adelphi-Edizioni Valdonega, 1988, p. 32.

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natario dell’opera è appunto con la forma. Il paratesto, o come lo ebbe a deWnire Borges, il vestibolo, dunque, e cioè l’insieme degli elementi che trasformano il testo in libro, costituisce sì una frangia della pubblicazione, ma è una frangia che, di fatto, può dirigere e condizionare vistosamente tutta la lettura e gli stessi processi di acquisto. «zona indecisa […] nella quale si mescolano due serie di codici: il codice sociale, nel suo aspetto pubblicitario, e i codici produttori o regolatori del testo»; «zona intermedia tra ciò che è al di fuori del testo e il testo»; «frangia del testo stampato che, in realtà, dirige tutta la lettura»: ecco alcune sintetiche deWnizioni del paratesto, rispettivamente di Duchet, Compagnon e Lejeune, alle quali sarà opportuno aggiungere quella di Genette: luogo privilegiato di una pragmatica e di una strategia, di un’azione sul pubblico, con il compito, più o meno ben compreso e realizzato, di far meglio accogliere il testo e di sviluppare una lettura più pertinente, agli occhi, si intende, dell’autore e dei suoi alleati. 9

Più pertinente, una lettura più pertinente agli occhi dell’autore e dei “suoi alleati”: e fra gli alleati, è agevole precisazione, vi è l’editore che provvede ad organizzare, a “disegnare”, talvolta a modiWcare il testo per trasformarlo in una pubblicazione, cercando sì di non ignorare la volontà dell’autore ma anche (o soprattutto) di tenere conto: 1) «della propria idea di letteratura in rapporto ad una comunità letteraria di riferimento cui lui stesso (l’editore iperlettore) appartiene o a cui vuole rivolgersi», 10 2) della necessità di vendere il libro. L’editore iperlettore può ri-costruire un testo, nella sua materialità di libro, non soltanto inserendolo in una collana o in un’altra, non soltanto deWnendone il formato, il corpo dei caratteri, ecc., ma anche intervenendo sulla struttura stessa, sulla sua articolazione in capitoli, in paragraW, ecc., sull’apparato di indici e, principalmente, sul “sovratesto”, cioè su quegli elementi di più immediato impatto sul fruitore, che sono titolo, quarta di copertina e risvolti, cioè i messaggi semantici di autopromozione. 1. Se quanto si è detto è rilevabile da ciascuno nell’editoria dei nostri giorni, è altresì enucleabile dalla realtà tipograWco/editoriale 9. Cfr. G. Genette, Seuils (1987), trad. italiana Soglie. I dintorni del testo, a cura di C. M. Cederna, Torino, Einaudi, 1989, p. 4. 10. Cfr. A. Cadioli, Lettura…, cit., p. 159.

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del periodo della cosiddetta “stampa manuale”. Ed è appunto su questa realtà, in riferimento alle edizioni dellaportiane, che mi appresto a soVermarmi, con un paio di precisazioni. La prima è che la sinergia di Wgure, e gli equilibri interni dei loro rapporti, che a vario titolo promuovono e realizzano la pubblicazione “antica” è per non pochi aspetti diVerente da quella caratterizzante la realtà moderna e, in particolar modo, quella contemporanea. Si vuol dire che laddove oggi compiti e funzioni di editori (intesi nella accezione commerciale e non Wlologica, naturalmente), di tipograW, di consulenti, di autori, ecc., cioè di tutti coloro che cooperano alla creazione delle opere, alla selezione dei testi da editare e alla loro trasformazione in libri, sono in linea di massima normalizzati da statuti professionali abbastanza ben deWniti, con l’unica eccezione, se vogliamo, dell’esatto ruolo che riveste o che può e deve rivestire l’intervento pubblico in termini di indirizzo culturale oltre che di supporto economico (ma il futuro ci riserva a riguardo sorprese non da poco!), nei secoli precedenti, e nel nostro caso nel ’500 e nel ’600, l’assunzione e l’espletamento delle competenze e degli esercizi sono più complessi, direi più confusi e incerti. Non soltanto attività, quali quelle dello stampatore, dell’editore e del libraio, sono in certi casi esercitate da una sola persona e in altre circostanze intercambiabili fra vari operatori, ma altresì Wgure determinanti, quali quelle del proto, del curatore o del consulente, spesso incidono tanto profondamente sul processo realizzativo della pubblicazione da potere essere talvolta considerate una sorta di “sovra-autori”. Vi è poi da mettere in conto il vistoso peso rivestito, a vari livelli, da coloro i quali spesso rappresentano l’atout ineludibile da giocare aYnché un progetto giunga in porto: mi riferisco alle Wgure politiche, amministrative, professionali del mondo laico e religioso, che avallano, appoggiano, caldeggiano una pubblicazione, facendosene più o meno direttamente garanti, ai quali non a caso è per altro destinato uno dei comparti più importanti, e interessanti, del paratesto cinque-secentesco: parlo, si sarà capito, delle dediche. E veniamo alla seconda precisazione. AVrontare il tema del paratesto nell’editoria cinque-secentesca comporta analizzare numerose parti del prodotto librario non necessariamente tutte presenti, tranne una (il frontespizio), su ciascuna pubblicazione: e mi riferisco alla dedica, all’apparato iconograWco, ai sommari, agli indici, ai colophoni, avvisi, saluti, componimenti encomiastici, dichiarazioni, postille, ecc. Un corredo, o se si vuole un ingombro, un intasamento, di “interventi”, che di fatto imprime una connotazione pre-

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cisa all’opera, qualiWcandone e legittimandone la speciWca edizione. Un corredo di sussidi rivendicato ed esaltato da molti revisori dell’epoca. Sintomatica a riguardo la lettera di Girolamo Ruscelli Ai lettori nel suo trattato Del modo di comporre (1559), dove la “perfetta corretione” è solo un aspetto del nuovo libro volgare auspicato dal poligrafo, che si augura libri sempre più ricchi di apporti paratestuali: Potrebbe ancor’essere che per aventura oltre à tutti i sopra nominati librari si aggiungessero gli onorati M. Gabriel Giolito, M. Tomasso et Giovan Maria Giunti, gli Scotti, gli Asoli et altri miei amicissimi, et che insieme tutti facessero una onoratissima compagnia […]. Et […] si mettessero a far ristampar tutti i libri volgari che sono già stati stampati altre volte, cioè i buoni, riducendoli a perfettione in tutte quelle cose che si convenissero e facendovi annotazioni, e dichiarazioni o avvertimenti per tutto, ove bisognassero. 11

In virtù di quanto si è detto può essere utile sondare quali possano essere le peculiarità paratestuali delle pubblicazioni dellaportiane, anche perché nel loro caso (ma non solo nel loro caso) vanno debitamente tenute presenti almeno altre due componenti: in primo luogo la discreta proliferazione delle edizioni e delle emissioni, anche straniere, in secondo luogo il rapporto non facile, per così dire, fra il Nostro e le strutture di controllo censorio della Chiesa cattolica. Dinanzi alle pubblicazioni dellaportiane, in sostanza, non possono non fare capolino una serie di interrogativi: in che misura Giambattista fu partecipe delle decisioni “editoriali” delle sue stampe? Quali furono i canali che agevolarono o addirittura resero possibile l’impressione delle sue opere? Perché alcune edizioni furono napoletane, altre veneziane, ecc. ed altre straniere? Quali le loro diVormità di autoreferenzialità? A quale pubblico intendeva rivolgersi Della Porta e a quale i suoi editori? Le modiWche paratestuali da quali fattori furono condizionate? Quali le logiche e le procedure del commercio delle edizioni dellaportiane? E si potrebbe continuare, nella consapevolezza che se è vero che varie questioni attengono precipuamente alla “fortuna” delle opere, al loro inXusso sulla tipologia di recezione diacronicamente e geograWcamente diVerenziata, è anche vero che in parte non trascurabile esse riguardano la stessa personalità culturale di Giambattista che, come in qualche modo testimonia Cesi, non fu certo insensibile al fasci-

11. Traggo la citazione da P. Trovato, Con ogni diligenza corretto. La stampa e le revisioni editoriali dei testi letterari italiani (1470-1570), Bologna, Il Mulino, 1991, p. 305.

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no del successo e della popolarità da riscuotere anche presso fasce di lettori, per così dire, non particolarmente impegnati, come dimostra, tra l’altro, il fatto stesso di avere composto non soltanto opere scientiWche, trattati, ecc. ma anche numerose commedie destinate ad un più vasto pubblico (per inciso, ovviamente in volgare), sulla scia di una tendenza certo non inusuale ma senza dubbio signiWcativa, tendenza che di lì a poco troverà ulteriori praticanti in coloro che, spesso accademici, si dedicheranno parallelamente a generi tradizionalmente più consoni alla comunità dei “dotti” ma anche al romanzo in prosa o ad altri “generi” (e basti pensare, ad esempio, agli ‘Accademici Incogniti’, Maiolino Bisaccioni e Girolamo Brusoni). Vi è poi, inWne, un’altra questione che reclama adeguata attenzione sul rapporto Della Porta – tipograWa, ed è quella attinente al suo ruolo nella fase di stampa, dove ancora una volta occorre ricorrere a speciWche competenze bibliograWche, per l’esattezza a quelle che comunemente aVeriscono alla cosiddetta “bibliograWa testuale”, in merito alla quale perentoriamente riemerge la necessità di una valutazione “materiale” dell’intero processo produttivo. Ma quest’ultima sottolineatura, dico quella legata alla doverosa attenzione nei confronti delle problematiche provocate dalle diVerenze fra edizioni, impressioni e stati e dalle varianti accidentali o da quelle conscie, come ha magistralmente dimostrato Fahy a proposito dell’Ariosto, va tenuta ovviamente presente anche indipendentemente da quello che può essere stato il ruolo precipuo del Nostro nelle diverse fasi di stampa che hanno caratterizzato le pubblicazioni delle sue opere, sia mentre era in vita sia successivamente. Alla luce di quanto si è detto, emerge con chiarezza una necessità sovrana: acquisire con la maggiore sistematicità possibile informazioni sull’esistenza (meglio dire sulla sopravvivenza, considerata l’impietosa falcidia perpetrata dall’incuria conservativa soprattutto riguardo alle opere meno “dotte”), dicevo che emerge con chiarezza una necessità sovrana: acquisire con la maggiore sistematicità possibile informazioni sulla sopravvivenza di esemplari dellaportiani, per individuarne l’ubicazione e procedere poi ad un accurato e diretto controllo testuale e paratestuale. Naturalmente molto su questo versante si è già fatto grazie a coloro che si sono Wnora prodigati nel riproporre edizioni critiche, in particolare nell’ambito dell’edizione nazionale; altre notizie possono essere catturate, per adoperare un orribile termine tecnico, da sbn o da altre banche dati (si pensi a Sudoc oppure agli opac statunitensi, tedeschi, spagnoli ecc.) oppure da repertori cartacei (quali, in riferimento al cinque-

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seicento, i lavori dei coniugi Michel, 12 il Catalogue of Seventeenth Century Italian Books in the British Library, 13 il contributo di Bruni e Wyn Evans sulle biblioteche di Cambridge, 14 ecc.), Wno a giungere ad una serie di annali tipograWci (e penso ad esempio a quelli del Manzi). Uno strumento di confronto tuttora indispensabile, anche se bisognoso di integrazioni e correzioni, è, come si sa, il contributo del lontano 1932 approntato dal Gabrieli. 15 Comunque sia, la percezione, in parte confortata da controlli Wnora condotti, è che occorre allestire una bibliograWa più aggiornata e tecnicamente più ortodossa e funzionale per attivare in modo innovativo ricerche di qualsivoglia genere, compresa quella di carattere paratestuale, sulle edizioni dellaportiane. Come avvertivo all’inizio, vi sto parlando di un work in start e quindi non sono in grado di fornire un quadro deWnitivo degli approdi enucleabili in virtù della ricerca condotta sui vari strumenti al momento disponibili: d’altra parte occorrerebbe molto più tempo di quello concessomi per esporre in modo sistematico alcune considerazioni provocate dal parziale approdo del reperimento di nuovi dati. Posso però anticipare che non sono poche le integrazioni e le correzioni che, fatti i dovuti controlli diretti, dovrebbero consentire a breve termine l’allestimento di una bibliograWa più aggiornata e tecnicamente più ortodossa e funzionale (per inciso, la scorsa settimana sono stato a Parigi dove ho potuto accertare che sono presenti all’Arsenal due edizioni dell’Olimpia, una veneziana del 1599, della quale non si aveva notizia, e l’altra senese del 1613, della quale si era già a conoscenza. Inoltre alla Mazarina, stando ad un rapido controllo sul vecchio catalogo, sembrerebbe essere conservata un’edizione della Cintia del 1602 stampata dal Somasco, lo stesso stampatore della prima edizione 1601 e di una successiva del 1606). Ponevo poco fa una serie di interrogativi, ai quali, proprio per la Wsionomia di work in start di questo intervento, non sarebbe serio tentare di dare delle risposte senza i dovuti riscontri documentari. 12. Mi riferisco a S. et P. H. Michel, Répertoire des ouvrages imprimés en langue italienne au XVIIe siècle conservés dans les bibliothèques de France, Paris, cnrs, 1967-84 ; Id., Répertoire des ouvrages imprimés en langue italienne au XVIIe siècle, Firenze, Olschki, 1970- (ma deWnitivamente interrotto al secondo volume). 13. London, The British Library, 1986. 14. R. L. Bruni, D. Wyn Evans, Italian 17th Century Books in Cambridge Libraries. A ShortTitle Catalogue, Firenze, Olschki, 1997. 15. Cfr. G. Gabrieli, BibliograWa Lincea, «Rendiconti della R. Accademia Nazionale dei Lincei. Classe di Scienze morali, storiche e Wlologiche», 3-4, marzo-aprile 1932, pp. 206277.

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Allo stato attuale pertanto posso soltanto elencare alcune annotazioni che sono emerse dalla ricerca Wnora espletata, limitatamente al cinque-seicento. 2. Gli editori-tipograW partenopei stampano per lo più la ‘trattatistica’ dellaportiana. 16 Soltanto 13, su 50 stampe napoletane, riguardano il teatro, 17 laddove a Venezia, fatte salve le numerose pubblicazioni della Magia naturale (undici sull’edizione del 1560) ci si orienta sulle commedie, in particolare La Cintia, la Carbonaria e La Fantesca (tutte stampate soltanto nella città lagunare rispettivamente con tre, quattro e quattro edizioni. In prima edizione vengono pubblicate a Venezia anche Gli duoi fratelli rivali, La turca e Lo astrologo; da sottolineare che la Trappolaria beneWcia di tre edizioni). 18 Andrà appena rimarcato che poche, veramente poche sono le edizioni teatrali pubblicate a Napoli nel ’500. A fronte di un panorama peninsulare puntellato da presenze eccellenti (e basteranno pochi riferimenti. Per la commedia: Ariosto, del quale La Cassaria e i Suppositi beneWciano di ben 15 edizioni, mentre la Lena di 12 e il Negromante di 13; Bernardo Dovizi da Bibbiena, 12 stampe della Calandria; Aretino, 14 edizioni della Cortigiana e 10 del Marescalco, meno fortunate, per così dire, la Talanta e l’Ipocrito con tre edizioni e il Filosofo con due, entrambe di Gabriel Giolito de’ Ferrari; Machiavelli ( gran successo della Clizia e della Mandragola) e ancora Ruzante, Anton Francesco Grazzini e, naturalmente, Plauto. Casi in qualche modo a parte sono quelli di Giovanni Maria Cecchi, proliWco autore di ben 21 commedie, dall’attenzione editoriale piuttosto tiepida, visto che non tutte furono pubblicate e le più fortunate furono la Moglie e la Dote con appena tre edizioni, e di Ercole Bentivoglio, del quale approdarono alle stampe soltanto Il geloso e I fantasmi, con tre edizioni ciascuna. Per la tragedia, occorrerà fare almeno i nomi del Rucellai, la cui Rosmunda fu pubblicata dallo Zoppino, dal Cesano, da Filippo Giunti e da altri, del Trissino, di Galeozzo del Carretto, di Ludovico Dolce e, soprattutto, di Seneca, le cui opere tendono a sostituirsi come modello a quelle di Sofocle e di Euripide. Ma fermiamoci qui); dunque, a fronte di un panorama 16. Su 74 edizioni cinque/secentesche di “trattatistica”, 37 sono partenopee, pari al 50%. 17. Su 43 edizioni cinque/secentesche di “teatro”, 13 sono partenopee, pari al 33%. 18. Su 42 stampe dellaportiane veneziane, 20 riguardano opere “teatrali” e 22 la trattatistica (e di queste, come detto, ben 11 concernono la Magia naturale).

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editoriale peninsulare alquanto ricco, Napoli risponde con un catalogo misero, quantitativamente e qualitativamente. Al di là di due stampe dello Stigliola 19 (il Sileno. Favola boscareccia di Alessandro Turamini pubblicata nel 1595 (sarà riedita a Siena nel 1598), strutturata in cinque atti, preceduti da un prologo e conclusi, ciascuno, con un coro; e La Reina Matilda, tragedia di Giovanni Domenico Bevilacqua, in spagnolo, del 1597, anch’essa in cinque atti, della quale non sono stati Wnora rintracciati esemplari: pertanto occorre fare riferimento alle fonti bibliograWche, in questo caso costituite dal Gagliardo e dal Toda Y Güell) possiamo aggiungere: la tragedia Protogonos di Giano Anisio, edita da Sultzbach nel 1536; la tragedia Morte di Cristo di Giovanni Domenico Lega (Suganappo, 1549); la tragedia Altea di Nicolò Carbone pubblicata dal Cancer nel 1559; dello stesso Carbone la commedia Gli amorosi inganni (Raimondo Amato, 1559); le tre tragicommedie di Anello Paulilli, del quale anche i più informati biograW non ci dicono nulla, Il giudizio di Paride, Il ratto di Elena e L’incendio di Troia, tutte in cinque atti in endecasillabi e versi sciolti, pubblicate da Giovanni Maria Scotto nel 1566. Autore semisconosciuto quindi (ma se non temessimo di essere impietosi, potremmo dire sostanzialmente sconosciuto), che tuttavia seppe procurarsi appoggi non indiVerenti, dedicando le proprie opere al viceré de Ribera e agli illustri esponenti della potente famiglia Carafa, Ferrante e Vincenzo. Detto che non a Napoli ma a L’Aquila, comunque dal tipografo generalmente attivo nella città partenopea, e cioè Giuseppe Cacchi, 20 è stampata la commedia Il Frappa di Massimo Camelo nel 1566, registriamo ancora: per i tipi del Salviani la commedia Furori di Nicola Degli Angeli nel 1590 e la favola boscareccia La Cinthia di Carlo Noci nel 1594 (edita da Carlino e Pace): quest’ultima è una delle poche opere teatrali napoletane del tempo a beneWciare di tempestive riedizioni fuori dal viceregno: per l’esattezza sono due, entrambe veneziane, del 1596 e del 1599. Domenico Maccarano la gratiWcherà di una nuova edizione partenopea nel 1631. 19. Sullo Stigliola, oltre agli “annali” del Manzi (Firenze, Olschki, 1968) e ai contributi di Carlo De Frede, si veda almeno P. Manzi, Un grande nolano obliato: Nicola Antonio Stigliola, «Archivio storico per le Province napoletane», 1973, pp. 288-312; G. Fulco, Documenti inediti per la stamperia Stigliola, in *Studi in onore di Pietro Manzi, Roccarainola, Circolo “Duns Scoto”, 1983, pp. 33-80; M. Rinaldi, L’audacia del pythio. FilosoWa scienza e architettura in Colantonio Stigliola, Bologna, Il Mulino, 1999. 20. Oltre ai noti “annali” del Manzi, si potrà segnalare M. Santoro, Cacchi, Giuseppe, in *Dizionario dei tipograW e degli editori. Il Cinquecento, diretto da M. Menato, E. Sandal e G. Zappella, Milano, BibliograWca, 1997, vol. 1°, pp. 223-227.

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Gian Giacomo Carlino 21 e Antonio Pace realizzano nel 1594 le Querele amorose di Giovanni Battista Ranucci, una commedia in prosa in 5 atti, con tanti errori di stampa da spingere l’autore ad inserire alla Wne una risentita avvertenza al lettore. Non si comprende bene, essendo una prima edizione, il senso della precisazione sul frontespizio “Opera noua, non più posta in luce”: se era un triste presagio, bisogna dare atto all’autore e ai tipograW che avevano buon intuito, visto che non godrà di rinnovata attenzione. Diverso il destino di un’altra opera edita da Carlino e Pace nel 1598, la commedia Capriccio di Francesco Antonio Rossi, che ebbe almeno la soddisfazione di essere premiata da una seconda edizione, sempre a Napoli, nel 1628 per i tipi di Ottavio Beltrano. Ed eccoci alle ultime due pubblicazioni, che rivestono un qualche interesse. La prima è Propalladia di Bartolomeo De Torres Naharro, dedicata a “Fernando Daualos de Aquino”, marchese di Pescara. Sul frontespizio, fra titolo e sommario dell’opera che sono in caratteri rosso e nero, una silograWa con le armi dei D’Avalos dentro l’arco; a sinistra una Wgura maschile (forse il Marchese di Pescara), a destra una Wgura muliebre (Vittoria Colonna, all’epoca ventisettenne). È una prima edizione (sembra proprio infondata la notizia di una precedente edizione romana) alla quale seguiranno molte altre, per lo più spagnole. Come si legge nel frontespizio, la pubblicazione nella seconda parte contiene sei commedie in versi castigliani: essa incontrò tale favore che lo stesso papa Leone X, nonostante la feroce satira del De Torres nei confronti della società romana, concesse un privilegio di stampa. La pubblicazione è di Giovanni Pasquet de Sallo, di origine francese, attivo a Napoli dopo il Mayr e il de Caneto a partire dal 1517 proprio con la Propalladia. Il suo ciclo produttivo si concluse presumibilmente nel 1524. Nel 1520 Pasquet pubblica le Novellae di Girolamo Morlini, prima edizione che comprende, oltre che 80 novelle e 20 favole, una Commedia, nella quale intervengono i seguenti personaggi: Ponticus, Leucasia, Orestes, Protesilaus, Venus, Pallas, Mars, Mercurius. La raccolta, quantunque provvista di privilegio papale decennale posto in bella mostra sul frontespizio, fu soppressa a causa delle oscenità che contiene e Wgura nell’Index librorum prohibitorum edito dai Blado nel 1559. Poco si sa dell’autore: napoletano, povero, dottore in utroque iure. Qualche scrittore lo descrive litigioso, modesto avvocato e non esperto in latino: ma 21. Anche su Carlino è d’uopo rinviare agli Annali del Manzi. Inoltre cfr. G. Monaco, Carlino, Giovanni Giacomo, in *Dizionario…, cit., vol. 1°, pp. 258-261.

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possono essere maldicenze provocate dal carattere ribelle. Sembra che un suo dramma, in latino, di carattere allegorico-politico a favore degli spagnoli, fosse stato rappresentato davanti al Gran Capitano Consalvo di Cordova. La rara raccolta, della quale un esemplare è conservato alla Nazionale di Parigi, è stata tradotta in francese almeno due volte: una nel 1878 e una nel 1904. 3. Ma è tempo di tornare al Della Porta. Può essere in qualche modo utile partire da una sintetica segnalazione (short title) delle stampe italiane cinque-secentesche delle sue opere, approntata al momento (ma, come detto, ci si ripromette di ampliare l’indagine in modo più sistematico) sulla base delle seguenti fonti: 1) opac sbn (sigla sbn); 2) BibliograWa Lincea del Gabrieli (sigla gab); 3) Voce Della Porta a cura di R. Zaccaria e di G. Romei, in Dizionario BiograWco degli Italiani (sigla dbi); 4) Le secentine napoletane della biblioteca nazionale di Napoli. A cura di Marco Santoro, Roma, Istit. PoligraWco e Zecca dello Stato, 1986 (sigla sa); 5) Annali tipograWci del Manzi. 22 Ulteriori stampe non presenti nelle cinque precedenti fonti saranno indicate in nota. 1) Magiae naturalis (quattro libri) Napoli, M. Cancer, 1558 (sbn, gab, dbi, man2 23). 24 2) Della magia naturale (quattro libri, trad. ital. di 1), Venezia, L. Avanzi, 1560 25 (sbn, gab, dbi); Venezia, L. Avanzi, 1562 (sbn, gab); Venezia, A. Salicato, 1572 (sbn, gab); Venezia, V. Bonelli, 1579 (gab); Torino, Eredi N. Bevilacqua, 1582 (sbn, gab); Venezia, M. A. Zaltieri, 1584 (sbn); Venezia, Eredi G. Simbeni, 1588 (gab); Venezia, L. Spineda, 1611 (gab); Napoli, G. G. Carlino C. Vitale, 1611 (man6); Venezia, L. Spineda, 1618 (gab); Venezia, G. Imberti, 1628 (sbn, gab); Venezia, C. Conzatti, 1665 (sbn);

22. Ci si riferisce ai seguenti «annali», tutti approntati da P. Manzi e pubblicati dalla Olschki di Firenze: Annali della stamperia Stigliola a Porta Reale in Napoli (1593-1606), 1968 (sigla man1); La tipograWa napoletana nel ‘500. Annali di Mattia Cancer ed eredi (1529-1595), 1972 (sigla man2); La tipograWa napoletana nel ‘500. Annali di Giovanni Paolo Suganappo, Raimondo Amato, Giovanni de Boy, Giovanni Maria Scotto e tipograW minori (1533-1570), 1973 (sigla man3); La tipograWa napoletana nel ‘500. Annali di Orazio Salviani (1566-1594), 1974 (sigla man4); La tipograWa napoletana nel ‘500. Annali di Giuseppe Cacchi, Giovanni Battista Cappelli e tipograW minori (1566-1600), 1974 (sigla man5); La tipograWa napoletana nel ‘500. Annali di Giovanni Giacomo Carlino e di Tarquinio Longo (1593-1620), 1975 (sigla man6). 23. Manzi fa riferimento ad una riedizione del 1569. 24. Un esemplare presente presso la Mazarina di Parigi. 25. Un esemplare presente anche presso la Bibliothèque de la Sorbonne a Parigi.

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Napoli, A. Bulifon, 1677 26 (sbn, gab); Venezia, B. Miloco, 1679 (sbn). De furtivis literarum notis vulgo de ZeWris, Napoli, G. M. Scoto, 1563 27 (sbn, dbi, man3); Napoli, 1591 (sbn, gab); Napoli, G. Sottile, 1602 28 (sbn, gab, sa). L’arte del ricordare, Napoli, M. Cancer, 1566 (sbn, gab, dbi, man2); Napoli, Eredi di M. Cancer, 1583 (sbn, gab, man2). Pomarium, Napoli, O. Salviani e C. di Cesare, 1583 (sbn, gab, dbi, man4). Olivetum, Napoli, Eredi di M. Cancer, 1584 (gab, dbi, man2). De humana physiognomonia, Vico Equense, G. Cacchi, 1586 (sbn, gab, dbi, man5); Napoli, T. Longo, 1599; 29 Napoli, T. Longo, 1601-1602 (sbn, gab, sa, man6); Venezia, 1603 (gab); 30 Venezia, 1618 (gab); Venezia, 1621 (gab); Venezia, 1652 (gab) 31 Phytognomonica, Napoli, O. Salviani, 1588 32 (sbn, gab, 33 dbi, man4); 34 Napoli, 1591 (gab); Napoli, 1603 (gab). Magiae naturalis libri XX, Napoli, O. Salviani, 1589 35 (sbn, gab, dbi, man4); 36 L’Olimpia, Napoli, O. Salviani, 1589 (sbn, gab, dbi, man4); Venezia, G. B. Sessa, 1597 (gab, dbi 37); 38 Siena, Loggia del Papa, 1613 39 (gab). La Penelope, Napoli, Eredi di M. Cancer, 1591 (sbn, gab, dbi, 40 man2); Roma, 1620 (gab); Roma, 1628 (gab), Napoli, Roncagliolo, 1628 (man2).

26. Pubblicato insieme alla ChiroWsonomia, con frontespizio autonomo. Un esemplare presente anche presso la Bibliothèque de la Sorbonne a Parigi. 27. Un esemplare presente anche presso la Bibliothèque de la Sorbonne a Parigi. 28. Un esemplare presso la Mazarina di Parigi. 29. Esemplari conservati preso la Biblioteca Angelica di Roma e presso la Mazarina di Parigi. 30. Segnalata presso la British Library un’edizione del 1610 di G. G. Carlino e C. Vitale. 31. Presso la British Library : Napoli, G. G. Carlino e C. Vitale, 1610. 32. Un esemplare presso la Mazarina di Parigi. 33. Gabrieli registra un’edizione napoletana sempre del Salviani del 1583 34. Secondo man4 ci fu una seconda edizione nel 1589. 35. Un esemplare presente anche presso la Bibliothèque de la Sorbonne a Parigi. 36. Erroneamente Manzi la scheda come “sesta edizione” e ricorda le stampe: Napoli, 1569; Napoli, Carlino e Vitale, 1611; Napoli, Bulifon, 1687. Si tratta evidentemente di edizioni delle traduzioni italiane della prima e della seconda redazione dell’opera. Tra l’altro, sarà appena il caso di precisare che l’edizione Bulifon è del 1677 e non del 1687. 37. Insieme a La Fantesca e La Trappolaria. Esemplare anche presso l’Arsenal di Parigi. 38. Presso la Biblioteca dell’Arsenal di Parigi risulta essere presente un’edizione veneziana del 1599. 39. Un esemplare anche presso l’Arsenal di Parigi. 40. Segnalata in dbi un’edizione del 1601.

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12) La Fantesca, Venezia, G. B. Bonfadino, 1592 (sbn, gab, dbi); Venezia, G. B. Bonfadino, 1596 41 (sbn, gab); Venezia, G. Battista e G. Bernardo Sessa, 1597 (sbn, gab, dbi); Venezia, G. B. Bonfadino, 1610 (sbn, gab). 13) De refractione, Napoli, O. Salviani – G. G. Carlino – A. Pace, 1593 42 (sbn, gab, dbi, man6). 14) La Trappolaria, Bergamo, C. Ventura, 1596 (gab, dbi); Venezia, G. Bat. e G. Ber. Sessa, 1597 (gab, dbi); Napoli, G. B. Gargano – L. Nucci, 1613 (sbn, gab, sa); Ferrara, Baldini, 1615 (gab, dbi); Venezia, G. B. Combi, 1626 (gab); Venezia, G. B. Combi, 162843 (gab). 15) Della Wsionomia dell’huomo (trad. dell’ediz. 1586 sotto lo pseudonimo Giovanni De Rosa), Napoli, T. Longo, 1598 (sbn, gab, dbi, 44 man6); Napoli, G. G. Carlino – C. Vitale, 1610 (sbn, gab, 45 sa, man6); Napoli, 1611 (gab); Padova, P. P. Tozzi, 1613 (sbn, gab); Vicenza, P. P. Tozzi, 1615 (sbn, gab); Napoli, 1616 (gab); Padova, P. P. Tozzi, 1622 (sbn); Padova, P. P. Tozzi, 1622 (sbn; 46 Padova, P. P. Tozzi,1623 (gab); Napoli, 1624 (gab); Vicenza, P. P. Tozzi, 1625 (sbn); Padova, P. P. Tozzi, 1627 (gab); Roma, Mascardi, 1637 47 (sbn, gab); Venezia, C. Tomasini, 1644 48 (sbn, gab); Venezia, Eredi G. B. Combi, 1652 (sbn, gab); Venezia, N. Pezzana, 1668 (sbn, gab). 49 16) Gli duoi fratelli rivali, Venezia, G. B. Ciotti, 1601 50 (gab, dbi); Venezia, F. Ciotti, 1606 51 (sbn, gab). 52 17) La Cintia, Venezia, G. A. Somasco, 1601 (sbn, gab, dbi); 53 Venezia, G. A. Somasco, 1606 (gab); Venezia, G. B. Combi, 1628 54 (sbn, gab). 55 41. Un esemplare anche presso l’Arsenal di Parigi. 42. Un esemplare presente anche presso la Bibliothèque de la Sorbonne a Parigi. 43. Un esemplare anche presso l’Arsenal di Parigi. 44. dbi reca la data 1588 45. Gabrieli riporta G. Vitale 46. Insieme alla Fisionomia celeste. 47. Un esemplare presso la Mazarina di Parigi. 48. Su questa stampa viene riportato: “In questa quinta, & ultima impressione…”. 49. In Gabrieli edizione comprendente la Fisionomia celeste. 50. Un esemplare anche presso l’Arsenal di Parigi. 51. In Biblioteca teatrale dal ’500 al ’700 di L. Cairo e P. Quilici (Roma, Bulzoni, 1981) questa edizione è segnalata come “nuova edizione” (p. 216). 52. In Gabrieli riportato solo Ciotti. 53. Dal catalogo cartaceo della Mazarina di Parigi si prende atto di un’edizione del 1602 stampata dal Somasco. 54. Un esemplare anche presso l’Arsenal di Parigi. 55. In Gabrieli solo luogo e data di edizione.

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18) La Carbonaria, Venezia, Somasco, 1601 (dbi); Venezia, G. A. Somasco, 1606 56 (sbn, gab, 57 dbi); Venezia, G. B. Combi, 1618 (gab); Venezia, G. B. Combi, 1628 58 (sbn). 19) Elementorum curvilineorum libri duo, Napoli, A. Pace, 1601 (man6). 20) Pneumaticorum libri tres, Napoli, G. G. Carlino – A. Pace, 1601 (sbn, gab, dbi, man6). 59 21) Ars reminiscendi, Napoli, G. B. Sottile, 1602 60 (gab, 61 dbi, sa). 22) Coelestis physiognomoniae libri sex, Napoli, G. B. Sottile, 1603 62 (sbn, gab, 63 dbi, 64 sa); Napoli, 1606 (gab); Venezia, 1652 (gab). 23) I duo fratelli simili, Napoli, G. G. Carlino, 1604 (gab); Napoli, G. G. Carlino, 1614 (sbn, gab, dbi, man6). 65 24) La sorella, Napoli, L. Nucci, 1604 (gab, dbi, sa); Venezia, G. Alberti, 1607 (sbn). 25) Claudi Ptolemaei magnae constructionis liber primus, [traduz. del Della Porta], Napoli, F. Stigliola, 1605 (sbn, gab, dbi, 66 man1). 26) I tre libri de’ Spirituali, Napoli, G. G. Carlino, 1606 67 (sbn, gab, dbi, sa, man6). 27) L’Astrologo, Venezia, P. Ciera, 1606 (sbn, gab, dbi). 28) La Turca, Venezia, P. Ciera, 1606 68 (sbn, gab, dbi). 29) Il Moro, Viterbo, G. Discepolo, 1607 (sbn, gab, dbi); Viterbo, G. Discepolo, 1609 (gab). 30) De distillatione, Roma, Stamperia Camerale, 1608 (sbn, gab, dbi). 31) De munitione, Napoli, G. G. Carlino – C. Vitale, 160869 (sbn, gab, 70 dbi, sa, man6). 56. Un esemplare anche presso l’Arsenal di Parigi. 57. In Gabrieli: Gerv. Ant. Somano. 58. Un esemplare anche presso l’Arsenal di Parigi. In Biblioteca teatrale dal ‘500 al ‘700, cit., questa edizione è segnalata come “ristampa” (p. 141). 59. Insieme con Curvilineorum elementorum libri duo. 60. Un esemplare presente anche presso la Bibliothèque de la Sorbonne e presso la Mazarina, Parigi. 61. In Gabrieli pubblicazione comprendente le Villae. 62. Un esemplare presente anche presso la Bibliothèque de la Sorbonne a Parigi. 63. In Gabrieli segnalata anche un’edizione, sempre del Sottile, del 1601. 64. Anche in dbi riferimento all’edizione 1601. 65. Unica edizione al momento realmente accertata. Cfr. G. B. della Porta, Teatro. Quarto tomo – Commedie, a cura di R. Sirri, Napoli, esi, 2003, pp. 183-266. 66. Opportunamente Gabrieli ritiene inesistente un’edizione del 1588, alla quale però si fa ancora riferimento nel dbi. 67. Un esemplare presente anche presso la Bibliothèque de la Sorbonne a Parigi. 68. Un esemplare anche presso l’Arsenal di Parigi. 69. Un esemplare presente anche presso la Bibliothèque de la Sorbonne a Parigi. 70. Gabrieli segnala tale pubblicazione per il 1606, anche se nel riportare le note tipograWche registra la data del 1608.

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32) La Chiappinaria, Roma, B. Zanetti, 1609 71 (sbn, gab, dbi); Napoli, G. B. Gargano – L. Nucci, 1615 (gab); Napoli, GarganoNucci, 1626 (gab). 72 33) La Furiosa, Napoli, G. G. Carlino – C. Vitale, 1609 (gab, dbi, man6); Napoli, G. B. Gargano – M. Nucci, 1618 (sbn, gab, 73 man6). 34) De aeris trasmutationibus, Roma, B. Zanetti, 1610 (sbn, gab, dbi); Roma, G. Mascardi – B. Zanetti – A. Rossetti, 1614 74 (sbn, gab); Venezia, 1615 (gab). 35) Elementorum curvilineorum libri tres, Roma, B. Zanetti, 1610 (sbn, gab, dbi). 36) Il Georgio, Napoli, G. B. Gargano – L. Nucci, 1611 (sbn, gab, dbi, sa). 37) Della magia naturale (trad. dell’ediz.1589), Napoli, G. G. Carlino – C. Vitale, 1611 (sbn, gab, dbi, sa, man6); Venezia, C. Conzatti, 1665 (gab); Napoli, A. Bulifon, 1677 (sbn, gab). 38) La Tabernaria, Ronciglione, D. Dominici, 1612 (gab, dbi); Ronciglione, A. Rossetti – D. Dominici, 1616 75 (sbn, gab). 76 39) Della celeste Wsionomia, Napoli, L. Scoriggio, 1614 (sbn, gab, sa); Napoli, 1616 (gab); Padova, P. P. Tozzi, 1616 (sbn, gab); Padova, P. P. Tozzi, 1622 (sbn, gab); Padova, P. P. Tozzi, 1623 (sbn, gab); Venezia, 1644 (gab). 40) Ulisse, Napoli, L. Scoriggio, 1614 (gab, sa). 41) Della chiroWsonomia, Napoli, A. Bulifon, 1677 77 (sbn, sa). Altrettanto utile credo possa essere registrare la presenza di “Dediche” e di “Avvisi al lettore” (sotto varie forme) nelle succitate edizioni: 78 71. Un esemplare anche presso l’Arsenal di Parigi. 72. In Gabrieli: Lucr. Gargano. Palese refuso in quanto il nome di Gargano era Giovanni Battista e invece Lucrezio era il nome del Nucci. 73. In Gabrieli viene omesso il nome di Matteo Nucci. 74. Un esemplare presente anche presso la Bibliothèque de la Sorbonne a Parigi. 75. Un esemplare anche presso l’Arsenal di Parigi. 76. Unica edizione al momento realmente accertata. Cfr. G. B. della Porta, Teatro. Quarto tomo – Commedie, a cura di R. Sirri, cit., pp. 267-354. 77. In Gabrieli questa stampa è segnalata all’interno della pubblicazione del Bulifon Della magia naturale. Cfr. n. 2. 78. Ho il dovere, gradito, di ringraziare la dott.ssa Antonella Orlandi per avere controllato sulle pubblicazioni delle commedie e delle tragedie curate da RaVaele Sirri (G. B. Della Porta, Teatro. Vol. i: Le tragedie, Napoli, Ist. Univ. Orientale, 1978; Id., Teatro. Vol. ii: Le commedie (1° gruppo), Napoli, Ist. Univ. Orientale, 1980; Id., Teatro, Vol. iii: Le commedie (2° gruppo), Napoli, Ist. Univ. Orientale, 1985) le segnalazioni ivi compre-

Marco Santoro

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1) Praefatio ad lectores; dedica del Della Porta a Filippo II di Spagna. 2) –3) Ed. 1563: Ad lectorem praefatio; dedica dello Scoto a Giovanni Soto. Ed. 1602: dedica a Giovanni Albrizio. 4) –5) dedica ad Alfonso Leva. 6) dedica del Della Porta a Fabrizio Carafa. 7) Ed. 1586: dedica del Della Porta a Luigi d’Este. Ed. 1602: praefatio ad lectorem; dedica del Della Porta a Giulio Pallavicino. 8) Ed. 1588: dedica del Della Porta a Marino Bobali. 9) Ad lectores praefatio; dedica del Della Porta a Giulio Bobali. 10) Ed. 1589: dedica di Pompeo Barbarito a Giulio Gesualdo. Ed. 1597: medesima dedica. 11) Ed. 1591: dedica di Pompeo Barbarito a Giulio Gesualdo; premessa ai lettori del Barbarito. 12) Ed. 1592: dedica di Lorio Lorij d’Udene a Luigi Bragadin. Medesima dedica nelle edizioni 1596, 1597 e 1610. 13) Ad lectores praefatio; dedica del Della Porta a Ottavio Pisano. 14) Ed. 1596: dedica di Antonio de gli Antoni a Bartolomeo Arese. Ed. 1597: dedica di Ottavio Pisano a Cesare d’Evoli. Ed. 1613: dedica di Salvatore Scarano a Giuseppe Bernalli. Altra dedica in versi di Orazio Cattaneo a Giuseppe Bernalli. Ed. 1615: dedica di Vittorio Baldini al Cardinale Serra. Ed. 1628: dedica di Vittorio Baldini al Cardinale Serra. 15) Ed. 1598: dedica del Della Porta Wrmata Giovanni Di Rosa a Marcello Cavaniglia. Ed. 1610: dedica a Pietro Ferdinando di Castro, Viceré. Ed. 1613: dedica di P. P. Tozzi a Paolo Frassinelli. Ed. 1615 e 1622: medesima dedica. Ed. 1637: saluto di Francesco Stelluti a’ benigni lettori; dedica del Della Porta al Cardinale Francesco Barberini. 79 16) Ed. 1601: dedica di Giovanni Battista Ciotti ad Alessandro Gambalunga. Ed. 1606: medesima dedica.

se inerenti la presenza di “dediche” e “avvisi ai lettori”. Sarà appena il caso di ribadire che nel prosieguo del lavoro saranno ovviamente condotti controlli diretti sulle varie stampe e che quindi potranno veriWcarsi integrazioni e modiWche al quadro provvisorio qui approntato. 79. Cfr. scheda 412 della tesi di diploma presso la Scuola Speciale per Archivisti e Bibliotecari dell’Università di Roma “La Sapienza” Le edizioni Mascardi presenti nella Biblioteca Casanatense di Rosanna Polletta, relatore Marco Santoro. Nella medesima tesi è segnalata un’altra opera edita da Giacomo Mascardi nel 1614, il De aeris trasmutationibus (scheda n. 39).

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17) Ed. 1601: dedica di Paolo Venturino a Giovanni Montoia di Cardona. Ed. 1606: medesima dedica. 18) Ed. 1601: dedica di Paolo Venturino a Portia Gentile. Ed. 1606: medesima dedica. 19) Ad lectorem praefatio. 20) Proemium ad lectorem; dedica del Della Porta a Giulio Cesare Caritano. 21) Praefatio ad lectores. 22) Ed. 1603: dedica a Giannandrea Prochnic. 23) Ed. 1614: dedica di Salvatore Scarano a Federico Cesi. 24) Ed. 1604: dedica di Lucrezio Nucci a Francesco Blanco. Ed. 1607: premessa-dedica di Giovanni Alberti a Giovanni Giunio Parisio. 25) –26) dedica del Della Porta al traduttore Juan Escribano. 27) –28) –29) Ed. 1607: dedica di Giulio Altobelli a Stefano Alessandro Segesser. 30) dedica del Della Porta a Federico Cesi. 31) –32) Ed. 1609: dedica dello Zanetti a Francesco Stelluti. 33) Ed. 1609: dedica di Salvatore Scarano a Francesco di Castro. Ed. 1618: dedica di Salvatore Scarano a Giovanni Francesco Paulella 80 34) Ed. 1610: dedica del Della Porta a Federico Cesi. 35) Ad lectorem praefatio; typographus amico lectori; dedica a Federico Cesi. 36) dedica del Della Porta a Ferrante Rovito. 37) Ed. 1677: dedica di Antonio Bulifon a Fabio Capece Galeota. 38) Ed. 1616: dedica di Antonio Rossetti a Carlo Saracini. 39) Ed. 1614: dedica di Salvatore Scarano a Bartolomeo Leonardo d’Argensole. 40) Avvertimento a’ lettori; dedica di Salvatore Scarano a Federico Cesi. 41) dedica a Giovanni Gaspare Pallotto. Solo sei opere, dunque, risulterebbero nelle loro diverse edizioni prive di dediche e di “messaggi” al lettore. Altre, nelle stampe che si susseguono, mutano il dedicatario ma non il dedicante, come ad esempio la De humana physiognomonia, che nell’edizione cacchiana del 1586 porta una dedica del Nostro a Luigi d’Este, mentre nell’edizione Longo del 1601 Wgura quale dedicatario Giulio Pallavicino. 80. Cfr. Biblioteca teatrale…, cit., p. 282.

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Altre ancora nelle diverse pubblicazioni modiWcano dedicatario e/ o dedicante. Interessanti, a riguardo, sia La trappolaria che la traduzione in italiano del De humana physiognomonia. La prima, nelle sei edizioni qui registrate presenta quattro dedicanti e altrettanti dedicatari diversi: 81 restano da controllare i dati della stampa 1626 segnalata dal Gabrieli. Per la seconda, 82 che sembrerebbe avere beneWciato di ben sedici edizioni diVerenti, qualiWcandosi quale opera dellaportiana di maggior fortuna editoriale in Italia, abbiamo quattro dedicatari diVerenti nelle sei dediche accertate grazie alla ricognizione repertoriale. Non sono inoltre rari i casi in cui non cambiano né dedicatario né dedicante, ma occorrerà in proposito veriWcare Wno a che punto si possa parlare bibliologicamente di “edizioni” diVerenti. Nell’insieme sembrerebbe emergere un dato di non trascurabile interesse concernente il ruolo di Della Porta nelle vesti di dedicatario: premesso che egli avrebbe Wrmato l’ultima dedica nel 1611 (Il Georgio), 83 Giambattista si sarebbe assunto tale compito esclusivamente per la pubblicazione delle opere di trattatistica (nn. 1, 6, 7, 8, 9, 13, 15, 20, 27, 31 e 35), ad eccezione del caso del Georgio. Da aggiungere che si tratta di edizioni quasi tutte napoletane (fanno eccezione le ultime due) e che i dedicatari sono scelti con strategica oculatezza: il re Filippo ii, Fabrizio Carafa, Luigi d’Este, Giulio Pallavicino, Marino e Giulio Bobali, Ottavio Pisano, Marcello Cavaniglia, Giulio Cesare Caritano e Juan Escrivano (e va accertato se siano sue o no le dediche del Pomarium, dei Coelestis physiognomoniae libri sex). Un caso a parte, ovviamente, è quello di Federico Cesi. Premesso che al momento non è stato condotto il doveroso esame su tutte le stampe (controllo che, ribadisco, ci si ripropone di realizzare) per accertare l’eVettiva produzione di “edizioni” bibliograWcamente diverse, alla luce della schedatura approntata è possibile estrapolare che su 41 pubblicazioni ventisette vedono la luce a Napoli in prima edizione, sette a Venezia, quattro a Roma, e una a Bergamo, Viterbo e Ronciglione. In questi ultimi tre centri vengono stampate tre commedie, rispettivamente La trappolaria (1596), Il moro (1607) e La tabernaria (1612), editate, sempre rispettivamente, da Comino Ventura, 84

81. Cfr. n. 14 del nostro elenco. 82. Cfr. n. 15 del nostro elenco. 83. Cfr. G. B. della Porta, Teatro. Primo tomo – Tragedie, a cura di R. Sirri, Napoli, esi, 2000, p. 179. 84. Noto per la varietà e la perfezione dei caratteri. Ebbe il titolo di stampatore uYciale a Bergamo. Considerevole la sua produzione anche dal punto di vista quantitativo,

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Girolamo Discepolo, 85 Domenico Dominici. 86 A Roma si devono per lo più a Bartolomeo Zanetti le prime impressioni dellaportiane (tre su quattro), fra le quali La Chiappinaria. Quanto a Venezia, le sette prime edizioni sono relative alla produzione teatrale, fatta salva quella del Della magia naturale, impressa da Ludovico Avanzi nel 1560. 87 Dunque, nella città lagunare ben sei commedie vedono la luce per la prima volta (La Fantesca nel 1592, La Cintia, La Carbonaria e I due fratelli rivali nel 1601, L’Astrologo e La Turca nel 1606). In sostanza ben dieci delle quattordici commedie del Nostro (ci si riferisce, ovviamente, a quelle approdate alle stampe e non a quelle scritte) sono oVerte al pubblico per la prima volta da stampatori-editori fuori della città partenopea. Fanno eccezione L’Olimpia (pubblicata dal Salviani nel 1589), I due fratelli simili (Carlino, 1604), La sorella (Nucci, 1604) e La furiosa (Carlino-Vitale, 1609). Completamente diversa la situazione delle prime edizioni nel campo della trattatistica. In questo caso, infatti, soltanto quattro opere sono stampate per la prima volta fuori di Napoli: la traduzione dei quattro libri Della magia naturale (come detto, da Ludovico Avanzi a Venezia nel 1560), il De distillatione (Roma, Stamperia Camerale, 1608) e il De aeris trasmutationibus e l’Elementorum curvilineorum libri tres, realizzati da Bartolomeo Zanetti a Roma nel 1610. Se ora, con tutta la cautela più volte sottolineata, riconducibile all’approdo provvisorio dell’indagine Wnora condotta nonché alla ineludibile necessità di controlli diretti sul più ampio numero possibile di esemplari superstiti, si prova a considerare la presenza complessiva cinque-secentesca delle edizioni dellaportiane, si possono enucleare i seguenti dati: in totale le stampe assommano a 117. Di queste quarantanove vedono la luce a Napoli, quarantadue a Veneall’interno della quale non latitano altre pubblicazioni teatrali quali, ad esempio, il Cianippo di Agostino Michiel, la Semiramis di Muzio Manfredi o il Tancredi di Ottaviano Asinari. 85. Fu il maggior tipografo veronese cinquecentesco. All’inizio del Seicento si trasferisce a Viterbo, dove muore nel 1615. Nella cittadina laziale stampa numerose opere teatrali (Amor pudico di Giacomo Cicognini, la Cicilia di Bernardino Turamini, la Cortesia di Angelo Badalucchi, Eutelia di Nunzio Buonagrazia Germano, il Furioso di RaVaello Riccioli, l’Idropica di Giovanni Battista Guarini, Liceo di Camillo Sbrozzi, il Pantalone impazzito di Francesco Righelli, la Stratonica di Angelita Scaramucci, Tobia avventurato di Francesco Mico, il Vecchio geloso di RaVaello Riccioli, ecc.). 86.Anche il Dominici non fu alieno dallo stampare opere teatrali. Si potranno menzionare, ad esempio, il Dario coronato di Pietro CioY o il Tartaglia di Andrea Fiamma. 87. Ascarelli e Menato indicano un totale di circa 30 edizioni dell’Avanzi. Cfr. F. Ascarelli, M. Menato, La tipograWa del ’500 in Italia, Firenze, Olschki, 1989, p. 398.

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zia, otto a Roma e a Padova, due a Ronciglione, Vicenza e Viterbo, una, inWne, a Bergamo, Ferrara, Siena e Torino. L’opera che beneWcia del più alto numero di pubblicazioni è il Della Wsionomia dell’huomo con sedici edizioni (o almeno emissioni). Segue la traduzione dei quattro libri della Magia naturale con quattordici, poi il De humana physiognomonia con sette, con sei sia il Della Wsionomia celeste (in italiano) che La trappolaria. Risulterebbe che in unica edizione siano state stampate ben diciannove opere, delle quali quattro inerenti al teatro (e, fra queste, le due tragedie l’Ulisse e il Georgio): quindici sono state pubblicate a Napoli, due a Venezia e due a Roma. 4. Alla luce di quanto sin qui registrato possono essere ipotizzate solo alcune provvisorie risposte alle domande che precedentemente ci si era posti. In primo luogo è molto verosimile che Giambattista fu in prima persona particolarmente attento a quella che potremmo deWnire la “confezione” delle sue opere, cioè alle modalità e ai criteri con i quali esse furono trasformate in prodotto editoriale. Egli in sostanza fu coinvolto nella realizzazione delle sue edizioni non soltanto, cosa per altro non insigniWcante né secondaria, per quanto concerne le procedure tipiche dell’epoca volte a garantirsi un sostegno economico ai Wni dell’approdo alle stampe del lavoro creativo e speculativo, come testimoniano eloquentemente le numerose dediche che il Nostro Wrmò personalmente (e non a caso le sue dediche, a personaggi inXuenti, va appena aggiunto, sono presenti nelle edizioni di maggiore impegno economico e tecnico sotto il proWlo tipograWco-editoriale (la trattatistica), di fruizione più ristretta e nel contempo più qualiWcata), ma anche molto probabilmente in relazione alla struttura degli altri apparati paratestuali. Si pensi, ad esempio, ai frontespizi, spesso “teatrali”, scenograWci, come nel caso della Phytognomonica, dove spicca la cornice, in quattro blocchi con piante e animali, che fa chiaramente riferimento al contenuto e presenta nella testata l’impresa dell’autore, la lince, dalla quale fu probabilmente desunto l’emblema della celebre accademia. Lo stesso corredo iconograWco proposto per lo più, comprensibilmente, nelle edizioni legate alle diVerenziate “Wsionomie” non soltanto va apprezzato, come sottolineato da Manzi, per la qualità esteticoartistica in sapiente sintonia col contesto generale, ma va anche decodiWcato in rapporto con la convinzione dellaportiana, espressa nell’Arte di ricordare, dell’utilità del gesto come ausilio mnemonico: anche l’immagine, l’oggetto, deve colpire e agevolare l’assunzione dell’informazione.

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Qualche riXessione può essere fatta anche in merito alla “fortuna” delle edizioni dellaportiane e alla loro distribuzione geograWca. Va a riguardo sottolineato che il Nostro è autore evidentemente alquanto seguito fra Cinque e Seicento, visto che quasi tutte le sue pubblicazioni godono di riedizioni o quanto meno di ristampe. In particolare il successo arride alle opere di trattatistica, considerato che, come ricordato, solo la Trappolaria, fra le sue opere teatrali, beneWcia in Italia di reiterata attenzione: sei stampe, delle quali soltanto una partenopea. Napoli, ed è circostanza per molteplici aspetti che non sorprende anche alla luce della speciWca tipologia produttiva della Capitale e in specie degli stampatori-editori impegnati nelle impressioni del Nostro (primo fra tutti Giovanni Giacomo Carlino), è il centro dove vedono la luce la maggior parte non solo delle prime edizioni ma altresì di tutte le stampe, con particolare riguardo al settore speculativo. Sul versante del settore creativo (il teatro, per intenderci) è viceversa Venezia la città dove si concentra buona parte delle pubblicazioni. Per un verso tale peculiarità può risultare moderatamente anomala. Venezia, infatti, è si il mercato ideale per le pubblicazioni di più ampia divulgazione (come potevano e dovevano essere le commedie), ma è altresì il centro dove le aziende sono in grado di garantire, essendo tra l’altro la città il crocevia del commercio librario dell’epoca, maggiore visibilità alla proprie stampe e di farsi carico di impegni economici gravosi, quali quelli necessari per la realizzazione di trattati corposi e per di più corredati da apparato iconograWco. Perché allora le pubblicazioni di trattatistica si concentrano a Napoli? Al di là di ragioni biograWche e di “presenza” culturale locale e al di là, come detto, dell’inclinazione di taluni operatori partenopei ad occuparsi di determinati Wloni produttivi, vanno considerati i legami del Della Porta con l’ambiente napoletano, come dire?, che conta, che ha peso, che può tutelarlo e appoggiare, anche Wnanziariamente, le sue iniziative. Da qui il ruolo e la funzione certamente non secondari delle “dediche” e la scelta dei dedicatari. D’altra parte il Nostro, pienamente consapevole delle logiche sottese alla procedura dell’omaggio e dell’importanza delle diverse componenti paratestuali, Wrmò non soltanto molteplici dediche legate sia alle proprie opere che a quelle di altri autori, come ad esempio quella a Luigi Carafa per le Lettere di Stanislaw Resch (1598), ma anche “presentazioni”, come ad esempio la lettera inserita nella Genealogia di Vitaliano Cornelio, nella quale consigliava la stampa dell’opera. Completamente diverso il quadro delle dediche incluse nelle opere teatrali di Giambattista. Premesso che su quarantadue prime edi-

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zioni complessive Wgurano trentatre dediche, delle quali dodici Wrmate dal Della Porta, va aggiunto che solo in un caso, il Georgio, un’opera teatrale è preceduta dal testo di omaggio steso dal Nostro, per la precisione a Ferrante Rovito. Diciassette, come è noto, sono le opere teatrali dellaportiane pubblicate: quattordici commedie, due tragedie e una tragicommedia. 88 Esse sono dedicate a Giulio Gesualdo da Pompeo Barbarico (sia L’Olimpia che La Penelope), a Luigi Bragadin da Lorio Lorij Laurio (La Fantesca), a Bartolomeo Arese da Antonio de gli Antonij (La Trappolaria), ad Alessandro Gambalunga da Giovanni Battista Ciotti (Gli Duoi Fratelli Rivali), a Giovanni Montoia di Cardona da Paolo Venturino (La Cintia), alla sig. Portia Gentile ancora da Paolo Venturino (La Carbonaria), a Federico Cesi da Salvatore Scarano ( Gli duo Fratelli Simili), a Francesco Blanco da Lucrezio Nucci (La Sorella), a Stefano Alessandro Segesser da Giulio Altobelli (Il Moro), a Francesco Stelluti da Bartolomeo Zanetti (La Chiappinaria), a Francesco di Castro da Salvatore Scarano (La Furiosa), a Ferrante Rovito dal Della Porta (Il Georgio), a Carlo Saracini da Antonio Rossetti (La Tabernaria), e a Federico Cesi da Salvatore Scarano (L’Ulisse). Soltanto due commedie (L’Astrologo e La Turca, entrambe edite da Pietro Ciera) sono prive di dedica. A diVerenza di quanto accade nelle opere di trattatistica, nel caso delle opere teatrali sono per lo più i tipograW e gli editori ad assumere la funzione di dedicatori (dal Barbarico al Ciotti, dallo Scarano allo Zanetti, ecc.), secondo una prassi alquanto consueta in occasione di edizioni inerenti la letteratura, per così dire, di consumo. Il carattere “di evasione” dell’impegno creativo dellaportiano legato alla composizione delle commedie viene espresso, secondo formule “di maniera” proprie del tempo, da Antonio Rossetti nella dedica della Tabernaria: Il Sig. Gio. Battista della Porta Napolitano, è stato Filosofo sì grande, e celebrato vniuersalmente nelle Scienze Matematiche, & Naturali, che non fà bisogno, ch’io mi sforzi à persuaderlo altrui, mentre con mille, e mille lingue, parlano delle sue alte uirtù i tanti suoi dottissimi volumi. Questo per solleuarsi alle uolte da i suoi

88. Va precisato che queste opere sono state riedite recentemente a cura da RaVaele Sirri dalle Edizioni ScientiWche Italiane. Cfr. G. B. della Porta, Teatro. Primo tomo-Tragedie, a cura di R. Sirri, Napoli, esi, 2000 (contiene: La Penelope, Il Georgio, L’Ulisse); Id., Teatro. Secondo tomo-Commedie, a cura di R. Sirri, Napoli, esi, 2002 (contiene: L’Olimpia, La Fantesca, La Trappolaria, La Cintia, La Carbonaria ); Id., Teatro. Terzo tomo-Commedie, a cura di R. Sirri, Napoli, esi, 2002 (contiene: Gli Duoi Fratelli Rivali, La Sorella, La Turca, Lo Astrologo, Il Moro); Teatro. Quarto tomo-Commedie, a cura di R. Sirri, Napoli, esi, 2002 (contiene: La Chiappinaria, La Furiosa, I Duo Fratelli Simili, La Tabernaria).

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più gravi componimenti, si ritroua ne i giorni più caldi, e più noiosi dell’Estate in vna sua amenissima Villa, doue perche egli non sapeua viuer nell’otio, si tratteneua spiegando i suoi morali pensieri co ’l rappresentare ne’componimenti Comici, e Tragici l’intricate attioni dell’humana vita, con tanta facilità, e felicità d’ingegno, che ben si uede in queste sue ricreationi ancora quanto si estendesse il suo ualore, come ci ne dan segno manifesto le sue bellissime Comedie, e Tragedie, che sono alle Stampe, piene di sentenze, di concetti mirabili, di motti argutissimi, & di pellegrine inuentioni. Hora essendomi peruenuta alle mani la presente sua comedia tabernaria intitolata, e forse in questo genere, suo vltimo parto, e giudicandola degna delle stampe, e non punto inferiore all’altre sue sedici sorelle; hò voluto perciò publicarla al mondo, & indrizzarla à V. S. prsuadendomi di farle cosa gratissima, sapendo quanto lei di simili componimenti prenda gusto, e diletto, sì per esser in quelle versatissimo, sì anco per esser ripieno di molt’altre virtù, con che si rende assai chiaro, e riguardeuole nella sua honorata patria di Fabriano. La gradisca dunque, e la riceua con quell’aVetto, con che hor gli la porgo, e dono, che oVerendomi in auenire à seruirla in maggior cose, le bacio le mani. Di Ronciglione il dì 29. Gennaro 1616. // Di V. S. Ill. AVettionatis. // Antonio Rossetti. 89

Nel contempo va anche registrato il tono diverso della dedica allo Stelluti dello Zanetti inserita nell’edizione romana 1609 de La Chiappinaria, dove da un canto si evidenziano le diVerenti modalità di ricezione del medesimo testo e, dall’altro, si rivendica la funzione educatrice dell’opera teatrale, che riesce a coniugare “utilità e piacere”: Tra più delicati cibi, che all’Intelletto si sogliono porgere da virtuosi Ingegni saporitissimi, meritamente paiono i Comici componimenti; poiche al gusto, & bisogno di qualsivoglia accomodandosi congiunta, porgono l’vtilità co ‘l piacere. Pasconsi in essi i più graui de’ morali documenti, & sentenze. I buoni della reprensione de’ vitij. I dotti dell’artiWcio del soggetto. Dell’auuilupati, & ingegnosi auuenimenti i malinconici. Delle facetie gli allegri. Delle burle, & ridicoli successi la plebe. De gli Inganni, & trappole amorose i licenziosi giovani. De scherzi i più vani. Ne è maraviglia, che ciascun troui, che goderci, poiche le humane attieni in esse pienamente sogliono per mezzi di personaggi diversissimi rapresentarsi. Quelli però tali, & altre prerogative, tanto maggiormente ottengono, quanto sono parto di non vulgari, & deboli ingegni: ma di FilosoWci, & sublimi spiriti. Quindi è, che con molta ragione io assai stimi la presente Comedia chiappinaria intitolata, che è alle mani per uscire in luce venutami, & degna la reputi d’essere inuiata, & donata a V. S. come hora faccio. E opera del Sig. Gio. Battista della Porta, del quale assai meglio sarà tacere, che dir poco, essendo douunque son Muse, douunque sono lettere, nò solo da ciascuno conosciuto, & ammirato, mà celebrato, & colmato di lodi il suo nome. Et che molto maggior glorie merti, ben’ dimostrano dodici, e più volumi, ne’ quali non hà

89. Per la trascrizione di questo testo dall’esemplare conservato presso la Biblioteca Nazionale Centrale di Roma ringrazio la dott.ssa Antonella Orlandi.

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lasciato cosa rara, & curiosa per recondita, che si fosse, ò nelle naturali, ò nelle celesti, & mathematiche scienze, che à prò, & vtile de’ Studiosi, non habbia esposto. In altre tante Comedie ancora ben si vede quali siano i frutti della sua dottrina, & che in qual si sia opera egli s’è posto, non hà potuto, ne saputo lasciar luogo ad altri d’auanzarlo. Mà à chi sono più che à lei tali cose note? che versatissima ne’ Mathematici studi, & FilosoWci essercitij, non lascia à dietro virtù alcuna, della quale non s’adorni, risplendendo in un’istesso tempo, & di nobilissimi costumi, & di scienza in quella guisa ripieno, che à perfetto huomo si conuiene. Sanlo i Dottissimi Lincei, nella cui compagnia ella amata & onorata tanto si ritroua, procurando con assidue speculazioni l’acquisto della vera sapienza. Conoscelo chiaramente trà essi l’Illustrissimo, & Eccellentissimo Signore Federico Cesi Marchese di Ponticelli dottissimo Principe, anzi heroe del secol nostro, che nelle scienze nobili trà sublimi Intelletti suole i suoi più veri solazzi prendere, & della persona di V. S. mostra far’ stima come di degnissima, & à se carissima. Ma che più? egli giornalmente dall’Autore vien’ presentato delle sue più eccellenti composizioni, come dall’opra di distillatione, uscita poco fa in luce, & dalle Aeree trasmutazioni, che hora alle mie stampe si trouano per venire presto fuori, puol vedersi. Et V. S. con gli altri Lincei, godonsi d’vna vera, & virtuosa amicizia con questo Autore, & con non men gusto, che amore, & osservanza riuolgono i suoi eruditissimi scritti. Gradisca dunque V. S. con la solita sua umanità, & gentilezza questa si graziosa Comedia, che per le sopradette ragioni parmi meriti di venirle avanti, & diale cortesemente occhio, mentre più gravi studi rallenta per solleuar’ alquanto, & ricreare la mente, & riceuendo in essa l’animo prontissimo à seruirla, risoluasi talvolta favorirmi de’ suoi commandi. // Di V. S. Illustre // diuotiss. Servitore // Bartolomeo Zannetti. 90

Sono molteplici le informazioni preziose che da questa come da altre dediche possono essere enucleate: dalla programmata pubblicazione del De aeris trasmutationibus (che Zanetti darà alla luce nel 1610) alla recente edizione del De distillatione (1608), dal ruolo rivestito dallo Stelluti nell’Accademia dei Lincei alla assidua frequentazione del Cesi col Della Porta, ecc. Si potrebbe inoltre sottolineare la presenza in questa come in altre dediche (anche nella precedente sopra riportata) dell’invito al “gradimento”, cioè all’accettazione deWnitiva da parte del dedicatario con relativa conferma del “premio” promesso per l’omaggio ricevuto, secondo prassi ulteriormente coltivata nel Settecento. 91 Ma, temendo di essermi dilungato già troppo, non vado oltre ma mi riservo, come detto, di tornare sull’argomento con maggiore e più documentata puntualità.

90. Cfr. G. B. della Porta, Teatro. Quarto tomo-Commedie, a cura di R. Sirri, Napoli, esi, 2003, pp. 4-5. 91. A riguardo si veda M. Santoro, Appunti su caratteristiche e funzioni del paratesto nel libro antico, cit. e M. Paoli, L’autore e l’editoria italiana del Settecento. Parte seconda: un eYcace strumento di autoWnanziamento: la dedica, «Rara volumina», iii (1996), 1, pp. 71-102.

TEATRALITÀ DEL TEATRO DI G. B. DELLA PORTA Raffaele Sirri

Il problema principe che si impone a chi si avvicini al teatro di Giambattista della Porta con intenti di studio e non solo di divertimento, è quello della collocazione. È un teatro tutto compreso nella cultura e nelle esperienze di Quattro-Cinquecento, o si proietta verso idee e forme teatrali innovative, tese ad una sintesi che si avrà di lì ad un secolo? Se quelle commedie pubblicate dal Della Porta negli ultimi anni del Cinquecento e nel primo decennio del Seicento avessero avuto un grande successo di pubblico, avremmo assunto quel fenomeno come elemento di prova e di veriWca. Ma un grande successo di pubblico le commedie del Della Porta non lo ebbero, nonostante le lodi che da ogni parte venivano ad esse tributate e nonostante la rilevanza del moltiplicarsi delle ristampe. Fu un successo limitato all’età sua, e riservato ad ambienti signorili o familiari, acclamato comunque come fatto straordinario; mai, sembra, come spettacolo ordinario in teatro o in luogo aperto al gran pubblico. Eppure una platea di pubblico indiscriminato quelle commedie la presuppongono come propria, a giudicare dalle scelte linguistiche e dal susseguirsi delle battute in serie, ad eVetto, e di situazioni comicamente abnormi, che sembrano non solo dettate da intento popolareggiante – il che, per altro, era tipico del genere – ma destinate al grosso pubblico. Dalle premesse di stampatori e curatori e dai prologhi dell’autore si evince che la rappresentazione di quelle commedie era esclusivamente aYdata ad attori dilettanti. L’Autore, d’altra parte, più di una volta sottolinea questo fatto, diciamo questa sorta di signorilità di rappresentazione privata, come una sorta di vanto e come opzione, non tollerando che le sue commedie andassero confuse con le zannesche. Gli attori di mestiere del suo tempo e del tempo immediatamente successivo, disdegnarono il teatro dellaportiano, intendendolo, per lo più, come teatro di letteratura, da pagina scritta, non mutuabile fuori dalla pagina scritta, e quindi non rappresentabile. E forse sbagliavano. Sta di fatto che in quel teatro, studiando e guardando dall’interno, a noi pare di scoprire aperture di lingua e di teatralità innovative, comunque antiletterarie o almeno non di maniera letteraria. Quell’uomo di straordinario ingegno e di sterminate conoscenze sembra che, come scienziato, guardasse al passato, e che in-

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vece, come scrittore di teatro, guardasse lontano e al futuro. Bisogna accertare se il prospetto di una situazione di questo genere sia suVragato da fermo calcolo di fatti o se sia suggerito da incerto accumulo di ipotesi. Che è quello che vorremmo fare. L’editore napoletano Lucrezio Nucci premette alla stampa di una commedia del Della Porta, La Sorella, una dichiarazione, sotto forma di dedica, molto interessante per senno e misura, che, a diVerenza della maggior parte delle dediche editoriali d’epoca, gonWe di elogi e di titoli, è breve e densa di cose. È una premessa, infatti, che dà notizie e accenna ad osservazioni già note illuminandole dall’interno e aggiungendo un tocco personale, per cui non è inopportuno riportarla per intero: A D. Francesco Blanco. L’aVezzione che so che tiene il Sig. Gio. Battista della Porta a V.S. e alla grandezza dell’animo suo, che suole chiamarlo il Gran Francesco e l’Alessandro Magno de’ nostri tempi, e la diligenza, che fu usata da V.S. in procurare che si reciti la presente comedia intitolata La Sorella, e in onorarla di sontuoso apparato, mi bastaranno a difendermi dall’Autore, a cui so che spiacerà ch’io abbia voluto stamparla senza sua licenza, avvenga ch’ei non vuole ch’or, nella sua vecchiaia, appaiano i scherzi della sua giovanezza; oltre che dovrebbe ancora non dispiacergli, avendo io presentito da molti, che l’hanno inteso da bocca sua, che l’ha fatta a competenza della peripazia e agnizione dell’Edipo di Sofoche, lodato tanto d’Aristotele e messo per modello delle tragedie, spiacendogli che alcuni moderni ingegni, diYdatisi di poterla uguagliare, dicano che l’istoria portò seco il successo, e non fosse per l’ingegno di Sofoche. Ricevala dunque V.S. con quell’animo col quale gliela dedico, che col medesimo aVetto mi forzarò ancora di stampare la Foriosa, la Turca e l’ Astrologo, dell’istesso, che vanno a torno disperse, scorrette e mal trattate, per non impedirsene egli punto. E a V.S. con ogni riverenza bacio la mano. Di Napoli a’ 12 d’Aprile 1604.

La deWnizione delle sue commedie come scherzi della giovinezza il Della Porta l’aveva data nel prologo della Carbonaria e l’aveva poi ripetuta nel prologo dei Duoi Fratelli rivali, entrambe del 1601. E poiché l’aVermazione ricorre in altre forme anche altrove, sembrerebbe non doversene aVatto mettere in dubbio la rispondenza al vero. Sta di fatto però che biograW ed editori, in introduzioni e presentazioni, gli attribuiscono ben 28 o 29 commedie – 28 o 29 perché due titoli, Il Negromante e L’Astrologo, che ricorrono frequentemente in elenchi e annunci, non si sa se vengano dati l’uno come variazione dell’altro o come titoli di commedie distinte –. A noi ne sono pervenute soltanto 14, che comunque non sono poche, da aggiungere a tre tragedie. Riesce piuttosto diYcile pensare che l’autore abbia prodotto questa massa drammaturgica in anni giovanili. E quando egli insiste nel sottolineare con tono risentito che la sua attività più impegnativa ed assorbente era quella scientiWca, non

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certo quella di scrittore di opere teatrali, riesce altrettanto diYcile pensare che i 31/32 testi drammatici che gli sono attribuiti, o anche i soli 17 che ci sono pervenuti, li abbia stesi in horae subsicivae. (Dell’Ulisse, comunque, dice in una lettera del 1612 a Federico Cesi che vi stava lavorando in quell’anno: v. più avanti). È vero che delle sue composizioni letterarie avesse scarsa cura, che se le lasciasse strappare facilmente di mano e consentisse che venissero date alle stampe senza controllarle con attenzione né all’ingresso dell’oYcina tipograWca né all’ uscita. L’editore Lucrezio Nucci, ricordando ciò nella premessa che abbiamo ora ora riportato, ripete notazioni che si rincorrono in numerosi scritti introduttivi e biograWci. Ad ogni modo, se è diYcile far quadrare i conti numerici dell’attività teatrale del Della Porta, un fatto è certo: che, sia polemicamente nei prologhi della Carbonaria e dei Fratelli rivali, sia a titolo di semplice comunicazione o di vanto, egli tiene a rivendicare a sé il merito di una riuscita opera di rinnovamento del teatro. Per opera sua la commedia sarebbe stata restituita allo splendore del teatro antico. Sul fondale delle scene delle sue commedie, chi sa vedere, può veder vagare, lui dice, le ombre di Menandro, di Epicarmo, di Plauto. Dunque: restituzione del teatro comico moderno allo splendore del teatro comico antico, ripresa a tutto campo della lezione plautina. È il programma su cui il nostro Autore insisterà con veemenza e continuità ininterrotta, dalla sua prima commedia, l’Olimpia, 1589 (delle opere teatrali del Della Porta, ignorando per lo più le date di composizione, diamo le date di prima stampa), all’ultima, laTabernaria, 1616 – pubblicata a Ronciglione un anno dopo la morte dell’autore –, che è la più plautina di tutte, per vivacità di plurilinguismo, per amenità di intreccio, per caratterizzazione di personaggi. E, quanto a plautismo, va ricordato che un editore di Roma, Bartolomeo Zannetti, in un avviso ai lettori posto alla Wne dell’edizione di un trattato del Della Porta sulla quadratura del cerchio – Elementorum curvilineorum libri tres, 1610 –, gli attribuisce, come opere di prossima pubblicazione, un trattato De arte componendi comoedias e un Plauto tradotto: attribuzioni che leggeremo anche in un libro di B. Chioccarello, De illustribus scriptoribus qui in civitate et regno Neapolis ab orbe condito ad annum usque MDCXXXVI Xoruerunt, Neapoli, V. Orsini, 1780, p.317. Plauto è il suo costante punto di riferimento. Il lucido e complesso congegno della peripezia all’interno di ciascuna delle sue commedie, l’espediente dell’agnizione, variamente e sempre sorpren-

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dentemente realizzato, rinviano di volta in volta, per esplicita dichiarazione, all’esempio del teatro antico. È un vanto di cui Della Porta ama cingersi con compiacimento. La sua programmazione di ritorno all’antico è impostata come mallevaria della innovazione che si propone di compiere nel presente quale autore di teatro. Il richiamo all’antico, che viene proposto in funzione innovativa dal Della Porta, più che da stimoli letterari è animato da essenziali ragioni di teatralità. Il punto a cui si mira non è la resa letteraria, la sistemazione compositiva dell’invenzione, ma la resa teatrale, l’immediatezza della comunicazione, la spettacolarità. I drammi, pensa Della Porta, sono stati scritti Wnora in funzione esclusivamente letteraria, la sede della loro azione era la pagina, la loro destinazione era la lettura. È il momento di puntare, giovandosi della lezione degli antichi, ad un teatro che abbia in prospettiva il palcoscenico e per destinazione la platea. E nasce da questa idea l’intento di privilegiare, nell’invenzione e nella strutturazione drammatica, la peripezia e l’agnizione, che è come dire l’intreccio complesso e sempre sorprendente della vicenda drammatica, in cui l’aggrovigliarsi e sciogliersi delle vicende, proiettate sul palcoscenico, cioè nei fatti, crea negli spettatori tensione e attesa. Al colmo di questa sua tensione, che dal versante dalla drammaturgia comica si estende anche, se pure con problematica convinzione, al versante della drammaturgia tragica, il Della Porta privilegia temi omerici per due sue tragedie, La Penelope e L’Ulisse, e si impegna nel tentativo, relativamente a quest’ultima, di sceneggiare con originale inventiva il cupo racconto della morte di Ulisse per mano di Teligono, il Wglio di Circe. E c’è qualche editore, come abbiamo visto, che non si perita, parlando della commedia La Sorella, di scomodare nientemeno che Sofocle. L’accenno che l’editore Lucrezio Nucci fa all’Edipo di Sofocle, richiamandosi a considerazioni formulate dallo stesso Della Porta, solo Wno ad un certo punto è da intendersi come una sorta di straripamento ammirativo. In realtà si giustiWca come riferimento alla lezione che ci viene da quel capolavoro, esemplare per la complessa peripezia, per il groviglio di casi lucidamente seguito e sciolto secondo ragione e giustizia. Ma c’è di più. Il Nucci aggiunge subito dopo che al Della Porta spiaceva che “alcuni moderni ingegni” aVermassero, col solito loro cipiglio di giudici supremi, che il successo della tragedia di Sofocle fosse dovuto al susseguirsi dell’ “historia”, cioè allo snodarsi dell’intreccio invece che all’ingegno dell’autore, cioè all’esercizio dell’arte. In altri termini, a questo punto, il Della Porta parrebbe voler sottintendere che, sì, la peripezia dei suoi dram-

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mi ha un suo valore proprio, per la tensione che la complessità dei casi ingenera in spettatori e lettori; ma senza l’arte dell’autore non avrebbe alcun pregio: che è un modo come un altro per rivendicare a sé una sicura perizia dell’arte. Sequenze di agnizioni a sorpresa, che si succedessero senza un adeguato supporto di lingua e di gesti, una peripezia che non si oVrisse alla compartecipazione degli spettatori con un intreccio convincente e con una lingua appropriata e viviWcante, non sarebbero rappresentazione teatrale, ma astratta e insigniWcante sequenza di fatti o di parole. Il Della Porta, insomma, convinto della consistenza ideale del suo programma innovativo, innesta sull’intreccio della sua poetica teatrale il problema della lingua e della teatralità, l’una come strumento dell’altra, in ultima analisi un tutt’uno. I suoi avversari ed emuli trovavano che nei suoi testi egli non si atteneva, dal punto di vista linguistico, al modello della prosa del Boccaccio, non seguiva la lezione lessicale e stilistica del Petrarca. E lui rispondeva che le sue scene non volevano far letteratura ma teatro, e realizzavano il teatro secondo un sistema costruttivo e di dizione del tutto nuovo, rispetto all’uso presente, e rapportabile solo al modello degli antichi: a Menandro, a Epicarmo, a Plauto. Sia nel prologo della Carbonaria sia in quello dei Duoi Fratelli rivali, si scuote di dosso, con risentimento, l’accusa di aver scritto in una lingua non regolata dai modelli petrarcheschi e boccacciani, e di non aver rispettato la regolistica drammatica dettata da Aristotele nella sua Poetica. Rivolto ai suoi ipercritici e malevoli lettori dice con piglio ardito: Considera prima la favola, se sia nuova, meravigliosa, piacevole, e se ha l’altre sue parti convenevoli, ché questa è l’anima della comedia; considera la peripezia, che è spirito dell’anima, che l’avviva e le dà moto; e se gli antichi consumavano venti scene per far caderla in una, in queste sue, senza stiracchiamenti e da se stessa cade in tutto il quarto atto. E se miri più addentro, vedrai nascer peripezia da peripezia e agnizione da agnizione […] Or questo è altro che parole del Boccaccio o regole di Aristotele, il qual, se avesse saputo di WlosoWa e di altro quanto di comedia, forse non arebbe quel grido famoso che possiede per tutto il mondo.

Può essere interessante notare a questo punto come la battuta Wnale di questo prologo del Della Porta sia simile all’aVermazione che si legge nel prologo di una commedia pubblicata a Venezia nel 1550 e molto vicina alla Veniexiana per sistema di impostazione teatrale e di dizione: Volgar, dunque, vi l’ha composta, accioché le femine e quelli che non sanno grammatica parimente entendano come li superciliati e dotti. In prosa e familiar

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lingua: perché le persone ch’in quella ragionaranno, non sanno rime o romanzo; non manc’hanno studiato la grammatica nova de’ petrarcheschi, o imparato l’elegante clausole d’il Boccaccio, ma in quella manera parlano come la maggior parte de’ suoi conterranei.

Si tratta di una commedia di Giovanni Aurelio Schioppi, intitolata Ramnusia, recitata nel 1530 a Verona in casa dei Nogaroli e pubblicata “In Vineggia per Pietro e Giovanmaria fratelli de i Nicolini da Sabbio ne l’anno del Signore mdl”; una commedia poco o niente aVatto conosciuta (della quale noi ci occupammo negli anni Ottanta nel corso di una serie di lezioni sul teatro del Cinquecento all’Istituto Universitario Orientale di Napoli: cfr. La Ramnusia e altri testi teatrali, a c. di R.Sirri, Napoli, De Simone, 1988, pp. 7-105), ma probabilmente nota al Della Porta, che amava Venezia e la cultura veneziana. Un rapporto fra la Ramnusia, commedia di uno scrittore del quale conosciamo al momento solo il nome, Giovanni Aurelio Schioppi, e la Veniexiana, commedia di anonimo ma famosissima fra noi, a partire dal 1928, quando fu pubblicata da Emilio Lovarini, si può delineare su vari tracciati, contenutistici, linguistici e sociali. E sul tracciato del realismo e della teatralità, nonché della polemica antiletteraria, si può delineare anche un rapporto di queste due commedie col programma innovativo del Della Porta. Ma non possiamo chiedere lumi agli scritti teorico-polemici suoi o di altri scrittori contemporanei. Una coerente argomentazione sulla lingua in commedia non si ha in nessuno scritto del Della Porta. Si hanno per lo più aVermazioni e notazioni a premessa o complemento di particolari scelte lessicali e discorsive. E non poteva non essere così. Le opzioni teoriche sono coinvolte in decisioni compositive, e bisogna ricavarle dalla interpretazione delle scelte compiute. Il Della Porta ricorre con divertita indulgenza alla tipizzazione dei linguaggi, dando marcata cadenza al diluvio delle metafore degli innamorati, alle inverosimili tirate dei capitani, dei pedanti, dei parassiti ecc. Ogni categoria ha il suo linguaggio. Ma è soprattutto interessante il suo cimentarsi a ripetizione in vere e proprie inserzioni di lingue diverse nel dialogato delle commedie. Che conoscesse lo spagnolo e facesse parlare in lingua spagnola cavalieri e gentildonne per esaltare la loro nobiltà di origine e di tratto, o che facesse parlare in spagnolo qualche capitano per deriderne le vanterie, è del tutto normale, nel Cinquecento e a Napoli. Così come era

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normale che conoscesse il latino e il greco, lui che, secondo l’uso del tempo, i suoi trattati li scriveva in latino, e dal greco traduceva in latino la Magna Constructio di Claudio Tolemeo. E altrettanto normale è che, napoletano, si divertisse a inserire brani di dialogo e sapide battute in dialetto napoletano nelle sue commedie (speciWcamente nel Moro e nellaTabernaria ). Ma è inusuale, del tutto inusuale che, primo in Europa, inserisca in due sue commedie (La Sorella e La Turca) interi brani in lingua turca. Non parodie turchesche o scimmiottamenti fonetici, ma brani organici in lingua turca inseriti in dialogo. «È un caso eccezionale ritrovare nella commedia La Sorella un dialogo completo in turco, abbastanza intelligibile, fatto che sta ancora a testimoniare, oltre alla curiosità linguistica e lessicologica dello scrittore, la sua peculiarità a calarsi nella realtà quotidiana del tempo». Così scrive, da noi interpellato, un turcologo dell’Istituto Universitario Orientale di Napoli, Aldo Gallotta, in un intervento aggiunto in Appendice al iii vol. del Teatro del Della Porta da noi curato per l’Edizione Nazionale (Napoli, esi, 2002, pp. 509-14). Il Gallotta dubitava che il nostro autore avesse conoscenza diretta della lingua turca, e ipotizzava che i brani turcheschi della Sorella e della Turca fossero stati redatti con l’aiuto di qualche schiavo musulmano, tenuto conto che a Napoli, in quel tempo, di schiavi musulmani e specialmente turchi ne vivevano molti. Ma, a giudicare dalla prontezza e disinvoltura con cui i brani turcheschi si snodano nel dialogato, specialmente della Sorella, non appare aVatto strano il contrario, che cioè il Della Porta conoscesse abbastanza bene, se non alla perfezione, la lingua turca. Eccezione per eccezione, uno scienziato che scrive tragedie e commedie, che passa da un trattato di astronomia ad uno di Wsiognomica, da uno sulla quadratura del cerchio ad uno sull’arte della memoria, dalla botanica alla criptologia, dalla pneumatica alla prospettiva, dalla scienza della fortiWcazione all’anatomia, e non è tutto, non è aVatto strano che conosca anche la lingua turca. Ma dal punto di vista teatrale importa soprattutto che inserzioni di lingue diverse e tipizzazioni del linguaggio dei personaggi vengano praticate come proiezione sul palcoscenico della realtà quotidiana. Il consuetudinario della vita sociale, i riXessi di una condizione di vita turbata frequentemente, a Napoli, dal timore delle invasioni di turchi, la presenza in città di spagnoli e di altri forestieri, l’intrecciarsi di lingue diverse, si trasformano in immagini, nelle commedie del Della Porta, di scena in scena, guidate da sicura perizia teatrale. Quando egli insiste nel sottolineare la novità della peripezia e del congegno delle agnizioni da lui attuate nelle commedie, vuole se-

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gnalare implicitamente il nuovo della lingua e il sorprendente dell’invenzione scenica. La novità del suo sistema drammaturgico, dei suoi modi di condurre e sviluppare la vicenda scenica, coincide col nuovo della lingua del suo teatro. E questo tema è sotteso ad ogni movenza della sua attività teatrale, e con polemico compiacimento viene esplicitato nei prologhi della Carbonaria e dei Fratelli rivali. La restituzione del teatro al modello plautino voleva dire mutamento non solo della scenograWa, ma anche del sistema linguistico. Oltre che un decisivo stimolo per sapide commistioni linguistiche, il Della Porta riceveva da Plauto l’invito ad abbassare la scrittura al parlato, ad elevare il parlato alla scrittura. Il disprezzo che mette in campo contro i letterati del suo tempo, ammassati nella congrega dei Pedanti – quei pedanti ai quali gli allievi, per allegra e blasfema ritorsione (cfr. p.es. Fantesca iv,5, dove si svolge un episodio che è simile a quello che si svolge anche nel Candelaio del Bruno, v,15), solevano inXiggere, ci auguriamo solo in commedia, la pena del “cavallo”, a cui venivano condannati gli allievi discoli – è un disprezzo troppo continuo e scoperto e va ben oltre il divertimento occasionale della rappresentazione. Verso quei letterati egli si volgeva col piglio che qualche volta gli capitava di usare – la modestia e la moderazione espressiva non rientravano nelle sue regole di vita – contro certi cultori di scienza che mostravano di non tenere nel dovuto conto i suoi studi, p. es. quelli di prospettiva. Nel 1612 scriveva a Federico Cesi: Tutti libri [voleva dire “tutti gli autori dei libri”] che mi ha dato V.S. dello Telescopio non sanno se sono vivi, e parlano al sproposito, perché non sanno di prospettiva; ed io, levato le mani da una tragedia di Ulisse che compongo per un signore, ci porrò le mani: lo scriverò con mille bellissime esperienze fatte, e le manderò col libro; che se fosse visto dal mondo, non arebbono scritte tante coglionarie. (G. Gabrieli, G.B. Della Porta linceo, in «Giorn. crit. della FilosoWa italiana», 1927, p. 377).

Le coglionarie degli scienziati che non sapevano di prospettiva erano in tutto simili, secondo Giambattista, alle coglionarie dei letterati che non sapevano e non volevano sapere che la lingua del teatro non poteva essere la stessa lingua della lirica o dell’oratoria. I letterati che scrivevano drammi, li scrivevano sulla pagina destinandoli unicamente alla pagina, in lingua lirica o oratoria, secondo i casi, sempre tenendo sott’occhio Boccaccio e Petrarca. Tentativi di rottura di quel sistema si erano avuti – e Della Porta li conosceva benissimo – ad opera del Machiavelli, del Bruno, del Castiglione, dell’Aretino. Ma erano tentativi, pagine di prova, non prove da palcoscenico. La lezione che Della Porta mutua da Plauto e dal suo lati-

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no è appunto questa, che la platea chiede agli attori una improntitudine linguistica che è del parlato, non della trascrizione oratoria, non della eleborazione lirica: improntitudine, cioè veemenza che tracima in facile gioco allusivo, ridanciano o drammatico, secondo i casi. Lingua in funzione teatrale, teatralità come Wnalità esclusiva della dizione, da intendere come comunicazione o come espressione d’arte, a seconda della posizione valutativa che si assume o che si vuol privilegiare. Della Porta conosceva troppo bene il latino di Virgilio per non comprendere valore e signiWcato delle inXessioni suburbane nel parlato dei personaggi di Plauto. E può non essere senza signiWcato il fatto che i discorsi dei pedanti delle sue commedie sovrabbondino di citazioni virgiliane (cfr. p.es. Olimpia ii,1-2; v,5; Fantesca iv,1; Moro ii,1). Dalla presenza, in quei testi, del latino di Virgilio, risulta più stridulo l’artiWcio del parlare dei pedanti, cioè dei classicisti vanitosi, e ovviamente più marcato il contrasto con le battute a riscontro, irriverenti e plebee, di servi e crapuloni. Ma la via battuta dal Della Porta non è soltanto quella che passa attraverso i testi di Plauto. Si potrebbe pensare che Della Porta arrivi a Plauto su suggestione della commedia dell’arte, già attiva in Italia. Ma è possibile e più convincente, o meglio documentabile, la proposta inversa, che cioè Della Porta veda nell’azione scenica dei comici di mestiere una veriWca inconsapevole dell’apparato linguistico della commedia plautina. L’azione scenica dei comici dell’arte era in parte animata da idee non dissimili dalle sue, e come tale, senza dirlo, probabilmente, la vedeva lui; ma nello stesso tempo ne sentiva l’inadeguatezza linguistica, attribuendola a incapacità dei comici dell’arte di venire fuori dai tendaggi di una lingua artefatta, sempre incerta fra oratoria e lirismo, tenuto conto che nessuno più di quegli attori era incline alla gonWezza della dizione. Perciò, se spesso ci si è chiesto che cosa la commedia dell’arte debba al Della Porta, è il momento di proporre, come già ci è avvenuto di fare molti anni fa, l’inversione dei termini di quel problema, chiedendoci che cosa quell’autore debba alla commedia dell’arte. Le compagnie di Pedrolino, di Zan Ganassa, dei Desiosi, dei ConWdenti, degli Uniti, degli Accesi, dei Fedeli ecc. ecc., sono decine e decine, già operavano mentre Della Porta scriveva commedie in lingua volgare e trattati sientiWci in lingua latina. Operavano soprattutto in città dell’Italia del Nord, ma anche a Roma e a Napoli. Ed erano noti a tutti e si ripetevano con compiacimento i nomi degli attori che andavano per la maggiore e che, per così dire, tenevano banco. Della Porta non accenna mai a nessuno di loro né alla

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loro attività. Ma, in fondo, delle Zannesche, dando per scontata la riserva per l’improvvisazione scenica, egli non trova modo di dire male. Il fatto è che il Della Porta, menando vanto per l’inusitata abilità di creare peripezie e agnizioni che tenevano desta l’attenzione della platea, stringendola nell’ansia dell’attesa, formulava, volendo o no, una chiara contiguità col sistema della commedia dell’arte. La quale però non dava consistenza organica alla peripezia e alle agnizioni, per puntare esclusivamente alle battute ad eVetto immediato, alle allusioni, al ridicolo dei fatti e delle persone, indulgendo a spropositi di lingua e di gesti. Ed è proprio a questo punto, in questo consentire e dissentire, che Della Porta dà corpo alla sua opera di restaurazione della teatralità nel teatro, secondo un programma di riassetto totale dei contenuti e dell’apparato linguistico. Che Della Porta ricorra agli stessi espedienti di linguaggio, allo stesso tipo di allusioni plebee a cui ricorrevano i comici dell’arte, e che non rinunci né a scurrili sottintesi né a battute grevi, è ben noto. L’avvenenza di certe sue scene sta proprio nell’abilità con cui servi e innamorati conducono i loro discorsi e descrivono, gli uni, le loro accese fantasie di amore, gli altri le loro non meno accese e fantastiche mariolerie. Ma si tratta di inserti, o di scene comiche incastrate entro o fra scene drammatiche. A volte il gioco della contrapposizione fra scene che danno il mondo lì lì sul punto di crollare, e scene di gioiosa baldoria, fra scene di celestiale levità di amore e scene di corrusca materialità di sensi, è artefatto, precostituito e guidato secondo risapute cadenze di toni e di fatti. È un appunto critico, questo, che è stato ripetutamente fatto. E, del resto, a tutta la sua scrittura drammatica è stata più volte estesa l’accusa di essere ripetitiva e risaputa in tutte le sue trovate. Senza andare oltre, basta risalire alle ben note considerazioni del Croce su di lui in I teatri di Napoli, Bari, Laterza, 1947, pp. 43-55 e, genericamente, in Poesia popolare e poesia d’arte (ivi, 1933, pp. 239-302). Ma le sorprese di stile e di densità di pensiero, le vibrazioni psicologiche, non gratuite, nei testi del Della Porta sono quasi in ogni pagina. In tutte le commedie del Della Porta gli innamorati parlano nel gergo degli innamorati, inWorettato di metafore e di immagini celestiali. Un esempio tratto a caso tra la miriade di passi del genere: E qual più gioconda e graziosa stella poteva oggi appresentarsi agli occhi miei? Il cui splendor ne’ suoi begli occhi con benignissimi aspetti inXuiscono nell’anima mia tante felici e sovrumane dolcezze e preziose rugiade di gioie, che vagheggiandole non posso conoscere qual sia maggiore, o lo splendor de’ suoi raggi o quel ferventissimo fuoco che apporta seco; o qual sia più la gioia di mirargli o

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l’ardore che ne succede, che non so come l’angustia del mio petto lo possa capire e ne possa godere insieme tante felicitadi. (Tabernaria ii,5)

Ma tra i Wori delle metafore sa insinuarsi il sensuoso; dalla lode dei begli occhi si sa passare alla maliziosa ammirazione per la valletta che si apre fra i seni di lei: O care mammelle, o acerbetti pomi, e quando mai negli Orti Esperidi si produssero pomi così leggiadri, custoditi con tanto rigore dal vigilante dragone? Io moro considerando quella valletta tra quei due pomi, oggetto di tutti i miei pensieri, nido dell’anima mia; or che saran l’altre cose che non si vedono? (ivi iii,1)

Gli aVamati e i crapuloni – in ogni commedia ce ne sono sempre un paio – usano un linguaggio tanto soWsticato nella descrizione della materia quanto brutale nella descrizione dell’uso delle mani sui piatti, dei denti sulla polpa. E così i capitani hanno il loro linguaggio, come i truVatori, i vecchi, le vecchie e via di seguito, per strisce e settori. Da questo punto di vista siamo in commedia dell’arte: sequenza di scene tradizionali ed esibizione di repertorio. Sta di fatto però che dalla dizione generica e anonima siamo passati alla scrittura originale e personalizzata. Le Wgure sono personaggi, nonostante la genericità dei loro nomi, per lo più ricavati dal mestiere o dalla parodia delle loro tendenze o della loro vanagloria. Parlano la lingua di tutti, ma con intonazione caratterizzata. Lingua rivolta alla platea, che tende a modellarsi sui gusti della platea, attraverso un processo che dalla letteratura, di battuta in battuta, approda al parlato, si consustanzia col parlato. Non che il parlato salga sulla scena e invada il campo. Ma la letteratura si dà un tono e un timbro particolari, abilmente coordinati con l’occasione scenica, di volta in volta. Un esempio di bravura: un marito parla della moglie, che gli è stata rapita dai turchi e che lui spera che mai più sia per ritornare, Dio liberi: – Forse non era bella? – Dico peggio. – Brutta, arcibrutta? – Peggio. – Fastidiosa, ritrosa, mal condizionata? – Peggio. – Ma che si puol trovar peggio? – Non si può dir tanto peggio, peggio che non sia mille volte più. Ella aveva una Wsiochionomia piutosto di vacca che di donna; ma era asciutta, che pareva il ritratto della peste e della carestia: gli occhi guerci, spaventosi, usciti fuori, che

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mirando te pareva mirasssero altrove; il naso tanto lungo che, volendo uscire fuori, la punta era già in piazza e la persona ancora in casa.... (La Turca i,4)

Le tirate di questo tipo, nei testi drammatici di Della Porta sono frequenti, e rispondono a intenzioni di una teatralità di basso costo, coinvolgente ma tuttavia non fuori misura, che sospende la consequenzialità dell’azione per soddisfare ad una supposta richiesta della platea. Ma non la sacriWca. Si devono riconoscere all’Autore esplicite capacità di contenimento delle intenzioni di teatralità ad eVetto entro strutture di intreccio, in equilibrio di contenuti e di interessi di misura. Il suo patrimonio tecnico è ricco e variegato. Accanto alle tirate ad eVetto sa guidare azioni o racconti di vicende non prive di spessore psicologico, veri e propri intrecci passionali. Chi legge p. es. i Duoi Fratelli rivali o la Sorella o la Turca avverte subito sul fondo dei dialoghi dei personaggi una forte tenuta drammatica, che inserti e tirate di bravuta, ben presenti e marcati, non annullano aVatto, scorrendo come pause piuttosto che come deviazioni. La teatralità dellaportiana, a parte l’arguzia delle trovate a sorpresa, consiste essenzialmente in questo tentativo di attento bilanciamento fra le parti del gioco, come tentativo di bilanciamento tra libertà di invenzione, anche sfrenata, e realtà anodina; fra tradizione e insorgenza di appetiti narrativi e rappresentativi; fra eccezionalità di intrecci e quotidianità di attese, come ritorno al reale e al normale. Ed è un discorso che coinvolge dall’interno il tema tecnico della lingua. Tornando, infatti, al discorso sulla pratica linguistica, come espressione essenziale di teatralità, possiamo dire che il Della Porta applica ai termini della questione teatrale criteri analoghi a quelli che in quel torno di tempo il Galilei praticava nella trattatistica scientiWca, abbandonando il latino e usando un italiano aperto alla comprensione di tutti, non ai soli peripatetici, ai Wluorichi, come in dialetto pavano venivano chiamati i WlosoW, quelli cioè che si riWutavano di accostare gli occhi al cannocchiale per non vedere la realtà delle cose e mettere in crisi la speculazione cartacea della loro scienza. Il problema di “scrivere come si parla” era ormai problema antico. Aveva aperto la strada il Cortegiano del Castiglione, dove, a proposito dello scriver bene e del parlar bene si legge che «le medesime regole che servono ad insegnar l’uno servono ancora ad insegnar l’altro». Dal Cortegiano (1518) alle prove di Giordano Bruno nei dialoghi WlosoWco-scientiWci pubblicati a Londra fra il 1584 e il 1585 non corrono molti anni, ma corrono Wumi di polemiche, a signiWcare l’interesse degli studiosi per i vari risvolti del problema.

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La decisione del Bruno e del Galilei di scegliere il volgare come lingua della WlosoWa e della scienza, non è condivisa in pieno da tutti. Fra gli altri, non la segue il Della Porta, non sappiamo se per ragioni contingenti o per ragioni dottrinarie. Certo è che i suoi trattati li scrive tutti in latino. Forse anche questo capitolo dell’attività del Della Porta rientra nel problema della sua collocazione critica. Non solo la sua concezione scientiWca, diciamo la WlosoWa della sua scienza, non si espande oltre il conWne dottrinario di Quattro-Cinquecento, non condividendo, o non comprendendo, l’aZato innovativo della scienza galileana; ma anche la conservazione del latino, come lingua delle trattazioni scientiWche, pare che voglia dimostrare fedeltà al passato, in diretto contrasto con la opzione del Bruno e del Galilei per il volgare. Questa sua decisione è assunta e osservata senza spirito polemico, ed anzi con una certa inclinazione al compromesso, visto che si adopera in ogni occasione perché i suoi trattati scientiWci vengano subito tradotti in volgare. Ma non è da escludere che la conservazione del latino, come lingua uYciale delle trattazioni scientiWche, implichi la volontà di conservare il discrimine tra scienza togata e scienza per non addetti. Nell’ambito dell’attività teatrale, invece, la connessione fra ideologia linguistica e istanze di teatralità, sia come problema sia come fatto compiuto, si apre ad una visione risolutiva diversa. Il processo di adeguamento dello scritto al parlato e la contemporanea opzione della commedia per una lingua sganciata dalla retorica e addirittura popolaresca, non è fenomeno che si compia in breve tratto di tempo né ad opera di un autore o di un gruppo. È fenomeno lento a presentarsi e lento a risolversi. Ogni suo momento, ogni sua svolta ha tutta una serie di antecedenti preparatorii, spesso impercettibili. Ed è paciWco che il caso della lingua dellaportiana, connesso strettamente con la tecnica della teatralità, vada studiato in concomitanza col caso della Mandragola, della Cortigiana, del Candelaio ecc. Ma la mediazione che il Della Porta opera fra lingua scritta e lingua parlata, fra lingua e dialetto, fra più linguaggi nella stessa scena, va considerato positivamente per la misura di blanda compromissione, come una sorta di proposta mediana. Alla stessa stregua gli espedienti di teatralità plebea e immediata, vicini per molti aspetti agli espedienti della commedia dell’arte, e comunque da intendere come espedienti di mestiere, codiWcati da lunga usanza, vanno valutati a misura dell’equilibrio d’arte con cui si stendono fra tradizione e innovazione, fra pulsioni di commedia improvvisa e risentimenti di

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commedia erudita, e creano una organica, convincente unità artistica, un ambiente deWnito e un armonico complesso di personaggi, tanto più armonico quanto più agitato da disuguaglianze caratteriali. Il nuovo della teatralità dellaportiana è in questa plastiWcazione del consuetudinario sulla scena; dove il carattere dei personaggi esprime la sua denotazione, o almeno tenta di esprimerla, in una lingua non più acronica, non più astratta, non più artiWciosa, ma parlata, e quindi correlata al tempo e all’ambiente. Le coordinate letterarie rimangono, ma la scena prende i colori del tempo e dell’ambiente. E qui il calcolo critico che dà come risultato un Della Porta tutto rivolto al passato e refrattario alle aperture della nuova WlosoWa della scienza, se è proponibile, con molte riserve, per l’attività scientiWca, non lo è aVatto per l’attività teatrale, visto che le sue commedie spingono ben innanzi la contestazione contro il teatro dei letterati, mettendo in campo l’argomento della teatralità e realizzandolo non in funzione di spettacolo eYmero, ma di creazione organica e duratura. Dopo le sue prove, sulle scene italiane del secolo xvii, si vedranno poche immagini in movimento. Michelangelo Buonarroti il Giovane, Andrea Cicognini, Giambattista Fagiuoli, Girolamo Gigli, Jacopo Nelli passeranno e non lasceranno tracce né sul cammino delle lettere né su quello propriamente teatrale. Certo sarebbe assurdo mettere Della Porta sulla via di un rinnovamento che direttamente meni alla caratterizzazione del teatro moderno. Ma sarebbe ancora più assurdo lasciarlo vagare fuori dell’onda innovativa che porta al teatro teatrale del Settecento.

L’EDIZIONE DELLE TRAGEDIE Paola Trivero

Nell’avviata Edizione Nazionale delle opere di Giovan Battista Della Porta, l’uscita delle tragedie (La Penelope, Il Georgio e L’Ulisse), raccolte nel primo tomo del Teatro, dovuto all’autorevole cura di RaVaele Sirri, acquista sul piano dell’editoria teatrale una particolare rilevanza. DiVerentemente dalle commedie, le tragedie hanno conosciuto, al loro tempo, una sola stampa e sono, sempre, state oggetto di una limitata esplorazione critica, come mette in luce Sirri nell’Introduzione quando, dopo aver sottolineato che l’intento dell’Edizione Nazionale è quello di «recuperare ad una corrente e corretta leggibilità tutta l’opera scientiWca e letteraria del Della Porta», speciWca che il volume in questione «si preWgge il compito di oVrire agli studiosi occasioni certe di lavoro intorno a tre testi teatrali poco noti, o meglio poco coltivati». 1 Questa la scansione cronologica della prima e unica stampa delle singole tragedie, vivente l’autore: La Penelope, Napoli, Eredi Matteo Cancer, 1591; Il Georgio, Napoli, Battista Gargano - Lucretio Nucci, 1611; L’Ulisse, Napoli, Lazaro Scoriggio, 1614. 2 Della Penelope – dedicata da Pompeo Barbarito, promotore della stampa, a don Giulio Gesualdo – esiste un unico esemplare conservato alla Biblioteca Vaticana (quello dell’edizione napoletana, appunto). 3 Del Georgio possediamo un manoscritto autografo, indicato nella presente edizione con la sigla A, e relativa stampa siglata S (dovuta alla cura di Salvatore Scarano). Sulla corrispondenza tra A e S, Sirri evidenzia come il ms A (Biblioteca Nazionale di Napoli) sia una «copia autografa di altro ms redatta dopo o mentre si svolgevano le operazioni di stampa» (p. 170), insomma il ms A è «copia del1. G. B. Della Porta, I Teatro - Tragedie, a cura di R. Sirri, Napoli, esi, 2000, p. xii. Sulla presente edizione interviene Maria Luisa Doglio rilevando, appunto, l’«indubbio spicco» di queste tragedie e l’inversa limitata esplorazione critica (in «gsli», fasc. 583, 2001, p. 477). Già alla competenza di Sirri si deve un’antecedente edizione critica delle tragedie (cfr. G. B. Della Porta, Teatro, a cura di R. Sirri, vol. i, Le tragedie, Napoli, iuo, 1978). 2. Sia il Georgio che la Penelope sono state ristampate a Wni didattici: il primo nel 1976 (Napoli, De Simone) e la seconda nel 1978 (Napoli, Ferraro): cfr. G. B. Della Porta, I Teatro, Tragedie, cit., p. xvi. 3. Di altri esemplari, per fonti indirette, RaVaelle Sirri ragguaglia nell’Introduzione al testo, p. 4.

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l’archetipo; certamente non la copia passata alla stampa» (p. 171). Pertanto, «è facile opinare che in questi casi la stampa si sia tenuta ferma alla redazione di un manoscritto diverso da quello che ci è pervenuto, e che non ne abbia tenuto conto non perché lo volesse saltare, ma perché questo, sul banco dello stampatore, non è mai arrivato; e non vi è arrivato perché non vi poteva arrivare» (ibidem). Il manoscritto conferma, come per altri elaborati dellaportiani, la «mancanza» da parte dell’autore di una «sosta meditativa dopo il getto della composizione» (p. 174). InWne, lineare è l’iter testuale dell’Ulisse: non si possiede nessun manoscritto ed esiste una sola stampa, che si deve – al pari del Georgio – a Salvatore Scarano (il quale, alle pp. 3-4, include una dedica al principe Federico Cesi). Della stampa si hanno due esemplari noti, uno conservato alla Biblioteca Nazionale di Firenze e l’altro mutilo, presso la Nazionale di Napoli: infatti, il testo s’interrompe all’atto iii, scena 5 (p. 72) e ad esso segue (pp. 73-154) un’edizione dell’Acripanda di Antonio Decio. 4 Dopo questi brevi cenni pertinenti alla storia dei testi, procediamo ad alcune osservazioni sui requisiti, in senso lato, delle tragedie. LA PENELOPE

La Penelope viene pubblicata con la denominazione di «tragicomedia», tanto che nel Prologo – nota Sirri nell’Introduzione – l’Autore mena «vanto» di se stesso «come inventore del genere tragicomico», compiacendosi della derivazione, per il proprio lavoro, dalla lezione plautina e riportando, in traduzione quasi alla lettera, tredici versi dell’Amphitruo (vv. 50-63). Giovan Battista Della Porta, insomma, dichiara di essere colui che ha preso dell’una (la tragedia) e dell’altra (la commedia) «il bello e ’l buono»: L’autor di questa ha scelto il bello e ‘l buono de l’una e l’altra, e l’ha congionto in una tragicomedia, sì ch’in un vedrete di dei, di re, d’eroi sentenze gravi, e ’n Wn lieti e festevoli successi; ond’egli il primo Wa (se non m’inganno), dopo l’AnWtrion del divin Plauto, ch’una sì fatta istoria vi propone. (vv. 30-37)

4. La tragedia è stata ripubblicata, unitamente alla Semiramis di Muzio Manfredi, da Grazia Distaso, nella collana «Biblioteca Teatrale» dell’editore Lisi di Taranto (2002).

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L’Autore, evidentemente, si ingannava poiché cancellava quasi d’un colpo la sperimentazione guariniana e taceva, egualmente, sull’analoga operazione compiuta da Giovan Battista Giraldi con la tragicommedia Altile (composta nel 1543 e stampata a Venezia nel 1583). 5 Senza voler polemizzare con le dichiarazioni di Della Porta, vediamo – in nome di una contestualizzazione letteraria – in qual modo il soggetto Penelope si inserisce nella pratica tragica. Certamente il personaggio di Penelope come Wgurazione non tanto dell’amore coniugale quanto, più particolarmente, della fedeltà coniugale non ha dato origine a una tradizione letteraria consolidata, rispetto – ad esempio – a quella musicale, anch’essa comunque non eclatante. 6 L’argomento è tratto dall’Odissea, a partire dal libro xiv (dall’incontro tra Ulisse ed Eumeo), con calchi diretti dalla fonte: alcune innovazioni (su cui tra breve mi soVermerò) o modiWcazioni situazionali non alterano la fedeltà al poema omerico ma sono da ascriversi alle prerogative del genere tragico. Un esempio: nell’Odissea, Penelope narra il proprio sogno (sogno premonitore: l’aquila che si avventa sulle oche) ad Ulisse, ancora a lei ignoto; nella tragicommedia Penelope lo racconta a Ericlea (l’equivalente dell’Euriclea omerica). Un cambio d’interlocutore che rispetta perfettamente i canoni tragici: per consuetudine, l’eroina – il personaggio alto – svela i propri arcani alla conWdente (ché, così, si pone Ericlea, «nodrice d’Ulisse»). 7 Volendo coniugare taluni aspetti della Penelope con quello che è lo scopo e l’intento dell’Edizione Nazionale nel suo complesso, e cioè il recupero della corretta leggibilità dell’opera, e proprio perché a proposito della lingua Sirri sottolinea che all’epoca «il processo della lingua letteraria italiana» era pervenuto per il settore teatrale a un livello «assai mosso e contraddittorio, con mescidanze di lingua culta e di lingua parlata dovute ora a scelta intenzionale dell’autore ora a pressione consuetudinaria del genere» (p. xii), mi piace evidenziare qualche singolare scansione della tragicommedia. Quando Sirri, a conferma di quanto detto, osserva per la Penelope un alternarsi tra «volute di commedia», «tenuta aulica e tendenza (o intonazione) colloquiale del linguaggio» e «intonazione mediana del discorso scenico» (p. 5), sono tentata dal seguente azzardo: Del5. Cfr. Introduzione, pp. x-xi. 6. Ricordo, per quest’ultima, alcuni autori: Antonio Draghi (Vienna, 1670); Nicola Jommelli (Stoccarda 1754); Nicola Piccinni (Parigi 1785); Domenico Cimarosa (Napoli 1749). Per Ulisse il pensiero va al monteverdiano Il ritorno di Ulisse in patria, Venezia 1641. 7. Cfr. Odissea, xix, v. 535-553 e La Penelope, a. i, sc. 4, vv. 764-787.

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la Porta potrebbe aver inXuito, oltre un secolo dopo, sulla Merope di Scipione MaVei. Si ricordi l’orgoglio esibito dal marchese circa le inXessioni mediane volutamente introdotte nell’interscambio dialogico della tragedia. Cito, a convalida, la chiusa della scena d’apertura dell’atto secondo, in cui Euriso e Ismene, i due conWdenti della protagonista, commentano la disperazione di Merope all’annuncio che il Wglio Cresfonte non solamente ha lasciato la casa del vecchio Polidoro (al quale la madre l’aveva aYdato, salvandolo così dall’eccidio del tiranno Polifonte) ma che di lui non si hanno più notizie. Al termine dell’accorata partecipazione al dolore materno, ad Ismene, la quale dichiara che mai proverà una simile angoscia essendo risoluta a non voler Wgli, Euriso ribatte asserendo che quel genere di soVerenza con «piacer s’acquista» e, cavallerescamente, aggiunge (alla reiterazione della fermezza della giovane) che, in ogni caso, «’l [suo] sembiante al [suo] pensier fa guerra». Su tali battute MaVei si soVermava nelle Annotazioni redatte per l’elegante edizione Ramanzini: «Non parea forse naturale, che terminasse fra due così fatte persone il ragionamento, senza qualche tratto di galanteria, e senza qualche detto obligante». 8 Il punto su cui voglio fermare l’attenzione è la ricerca della naturalezza, perseguita da MaVei, non solo nel passo menzionato ma in tanti altri della sua tragedia. E, per proseguire in un azzardo di suggestioni, si potrebbe individuare in una circostanza della Penelope un suggerimento giunto dalla Merope di Pomponio Torelli, oppure anche in senso inverso, se si pensa alle date delle edizioni dei due testi. 9 Si considerino, nella tragedia torelliana, il commento del Coro all’estasiata reazione di Polifonte, sedotto dalla visione di Merope, e, nella dellaportiana, le espressioni estatiche di Eurimaco e di Antinoo (due dei pretendenti) all’apparire di Penelope. Se si tratta di situazioni del tutto dissimili per quanto concerne la caratterizzazione psicologica dei personaggi maschili, similari sono le scansioni con cui viene enunciata la 8. La citazione dalla Merope è tratta da Tragedie del Settecento, a cura di E. Mattioda, Modena, Mucchi, 1999, tomo i, vv. 86-92. Quella di Scipione MaVei dalle Annotazioni in La Merope. Tragedia. Con Annotazioni dell’Autore, e con la sua Risposta alla Lettera del Sig. di Voltaire, Verona, nella Stamperia di Dionigi Ramanzini, 1745, p. 123. Sulla Merope (da MaVei ad AlWeri, passando per Voltaire) e su questo particolare frangente, cfr. P. Trivero, Tragiche donne. Tipologie femminili nel teatro italiano del Settecento, Alessandria, Edizioni dell’Orso, 2000, pp. 7-44. 9. L’ultima edizione della Merope, vivente l’autore è del 1605 (Parma, Viotto), altre stampe antecedenti sono rispettivamente del 1589 e del 1598 (Parma, Viotto). Pertanto se l’unica stampa della Penelope è del 1601 il percorso di inXuenza gioca nell’ottica TorelliDella Porta e viceversa.

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seduzione esercitata dal fascino femminile. Polifonte, infatti, è realmente soggiogato da Merope, mentre in forma più ambigua si pongono – rispetto a Penelope – Eurimaco e Antinoo: ma ciò che voglio valutare sono, propriamente, le cadenze relative all’eVetto suscitato dal presentarsi di un (sia pur non eguale) oggetto del desiderio. Leggiamo le riXessioni del Coro della Merope: Ma ecco la reina di ricche vesti adorna. O come la bellezza cresce per portamento! Vedi, come sfavilla ne’ begli occhi il bel guardo. A questo assalto il re non ha riparo: par che loco non trovi, par c’h’abbia ne le vene il foco, e l’esca, e negli occhi e nel cor la Wamma, e ‘l foco. 10

E, ora, gli apprezzamenti di Eurimaco, cui fanno seguito quelli di Antinoo: eurimaco Mira, Antinoo, e rimira il bel sembiante de la nostra reina, e poi t’ammira quanto più de l’usato oggi risplende. Riguarda il foco in grembo de la neve, che, per uniti starsi in quelle guancie, han tra lor fatto una union concorde. Mira la chioma d’or, che sciolta ondeggia a l’aura, e fa la fronte più serena. Or qual cuor Wa giamai che non desii morir così, sotto bei nodi avolto? […] antinoo Mira, che raggian [gli occhi] deità ed ardore, e ‘ncontro al sol si mostrano più soli. (a. ii, sc. 6, vv. 611-636)

Tuttavia, nella Penelope più che il binomio Eurimaco-Antinoo è degno di attenzione quello Eurimaco-Consigliero. L’inserimento del 10. P. Torelli, Merope, in La tragedia del Cinquecento, a cura di M. Ariani, Einaudi, Torino, 1977, tomo ii (vv. 989-998). Si tenga presente che la reazione di Polifonte invaghito di Merope non è simulata, ma reale: diversa dunque da quella, ad esempio, del Polifonte maVeiano; in AlWeri, poi, Polifonte non Wnge neanche di amare Merope, anzi dichiara di non voler ricorrere a una simile «arte», in quanto sa bene che mai Merope crederebbe a una tale dichiarazione (Cfr. V. Alfieri, Merope, ed. crit. a cura di A. Fabrizi, Asti, Casa d’AlWeri, 1968, a. i, sc 2., vv. 128-131).

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Consigliero, il quale invita Eurimaco a frenare il proprio ardore nei confronti di Penelope (ardore che non impedisce a Eurimaco d’intrattenersi con Melanto), 11 è sicuramente interessante poiché tale Wgurazione rientra nei canoni della tragedia dell’epoca. Esemplare la scena prima dell’atto secondo, in cui il vecchio Consigliero dibatte con il suo signore relativamente a una scelta ritenuta perdente («Dico che, per fedel, saggio consiglio, / di Penelope voi lasciar dovete / il poco lieto e mal gradito amore», vv. 11-13; «Ma dite, qual speranza amar ve ’nduce / donna il cui petto un duro marmo cinge, / la cui durezza ogni durezza eccede?», vv. 68-70) ed entra in un contraddittorio in cui decanta l’ineluttabilità della «possanza d’amor» (v. 26) esaltata da Eurimaco («Amore è un mal che noi stessi ’l causiamo, / e, dentro i nostri cuor, d’ozio, speranza, / di vanità, lascivia e van desio, / lusingando noi stessi, lo nudriamo», vv. 51-54) e, nella sua opera di dissuasione, giunge a ventilare la pericolosità di fronteggiare un rivale del calibro di Ulisse («Dovrebbe il nome sol d’Ulisse invitto / a mille audaci impallidir la fronte, / ché di valor, di senno e di bontade / non ebbe par, mentre che in Grecia visse», vv. 92-95). Il Consigliero smonta sistematicamente le ribattute di Eurimaco. Eurimaco aVerma che la fama di Ulisse è maggiormente legata ai suoi inganni e il Consigliero, di rimando, enumera le imprese del re di Itaca. Eurimaco si fa forte dell’ipotesi che Ulisse tornerebbe solo, pertanto impotente di fronte ai Proci uniti («S’ei verrà, verrà solo, e noi siam tanti», v. 152), e il Consigliero esibisce proprio quali armi vincenti quelle astuzie cui negativamente alludeva il suo signore («Quanto egli ne le frodi e inganni vaglia, / ha la sua fama termine col cielo, / ché, come nel valore ha il primo vanto, / non meno l’ha ne l’arte e ne l’ingegno, / al cui saver ogni saver è nulla, / e già per tante prove è noto Ulisse», vv. 160-165). Un altro personaggio introdotto è quello di Icario, padre di Penelope, che nel poema omerico viene citato sempre in forma indiretta. Nel testo dellaportiano Icario tenta, inutilmente, di forzare la Wglia a nuove nozze: un lieve tradimento alla fonte, immesso forse all’unico Wne di far risaltare ulteriormente l’incrollabile costanza di Penelope. Tra le varie ragioni addotte da Penelope per recusare la richiesta del padre, piuttosto che le variamente argomentate dichia-

11. Per il personaggio di Melanto l’autore ricalca del dettato omerico, ampliando le indicazioni del poema in cui si accenna all’ancella di Penelope che tradisce la Wducia della sua padrona e si unisce a Eurimaco (cfr. Odissea, xviii, 320 e ss.). Sul frangente EurimacoMelanto Della Porta costruisce un’intera scena (la seconda dell’atto secondo).

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razioni aventi come oggetto il legame con Ulisse, mi piace menzionare l’ultima in cui la protagonista lascia il ruolo di sposa fedelissima per recuperare gli attributi di Wglia, altrettanto fedele; Penelope riWuta l’idea del matrimonio per non abbandonare il vecchio padre: Padre, non son sì sciocca che non sappi che dovrei maritarmi in ogni modo. Ma chi sarà, se d’Itaca mi parto, che a la vostra salute attenta stia? ch’or, essendo in età grave e matura, bisogno avete d’esser governato con amor vero d’una che vi sia e Wglia e serva insieme, come io sono, che vi sono Wglia per natura e serva per voluntade; e come non mi vinse Wglia in amarvi, così non Wa mai serva che ’n servir voi mi passi inanzi.

La motivazione portata avanti da Penelope bene si ascrive all’«intonazione mediana del discorso scenico», precedentemente richiamata; in questo caso l’accento batte sulla opzione «mediana» del concetto che informa la battuta del personaggio: Penelope non ha intenzione di lasciare la sua isola poiché vuole accudire il vecchio genitore (e non si tratta di una scelta ‘alta’, all’Antigone per intenderci) e di rimando il padre, sempre in un’ottica «mediana» e quasi borghese, sbrigativamente ribatte che «non mancan serve che n’aranno cura». 12 In ultimo, è quasi scontato evidenziarlo, il canone tragico viene più che mai rispettato nel finale: la strage dei Proci non è visualizzata bensì è narrata da Eumeo (a. v, sc. 2, vv. 45-242). E per chiudere queste concise considerazioni su alcuni tratti della Penelope occorre precisare che tocca a Eumeo siglare il testo secondo una scansione che, leggendola, pare richiamarsi ai moduli della commedia (e penso ai tanti congedi della commedia classica): Eumeo rivolto agli «spettatori» li invita a «riposarsi», al modo stesso dei personaggi. 13 Sembrano, dunque, giuste le motivazioni portate avanti da Della Porta nel voler adottare la deWnizione di tragicommedia; ma si deve rilevare che un altro termine potrebbe essere, parimenti, attagliante, proprio nella prospettiva del rapporto testo-tradizione del gene12. La Penelope, cit., a. i, sc. 5, vv. 1019-1031. L’altra scena in cui i due personaggi si fronteggiano è la quinta dell’atto secondo: qui Penelope dichiara a Icario che sottoporrà i pretendenti alla prova dell’arco. 13. Ivi, a. v, sc. 7, vv. 816-823.

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re tragico: la Penelope reggerebbe già la prerogativa di tragedia a lieto Wne, che tanto favore incontrerà nel secolo seguente, a partire da Pier Iacopo Martello e Scipione MaVei (non casualmente è stata qui rammentata la Merope). IL GEORGIO

Il Georgio, conWgurato sul notissimo episodio di San Giorgio, estrapolato dalla Legenda aurea di Jacopo da Varazze, è stampato con la denominazione di tragedia, tragedia – pure essa – a lieto Wne; mentre non appropriata sarebbe (osserva RaVaele Sirri) quella di tragicommedia, proprio perché «l’elemento tragico in G predomina e il lieto Wne giunge per via miracolosa, a coronare l’eroismo di un’impresa»: insomma «il sottotitolo di “tragicomedia” sarebbe stato poco intonato sia al contenuto che allo sviluppo formale del testo». 14 Contenuto incentrato sul prodigioso intervento di Georgio «cavaliero» che doma il terribile drago in procinto di divorare la bella principessa Alcinoe ad esso destinata in sacriWcio. Inoltre, il lieto Wne viene ulteriormente raVorzato dalle nozze tra Alcinoe e il re del Marocco, Mammolino. Egualmente, per il Georgio, fermo restando la Legenda aurea la fonte primaria (e tuttavia Sirri accenna all’inXuenza di «successive ripetizioni e manipolazioni di rappresentazioni sacre e canti popolari», p. 167), si devono postillare alcune situazioni che lo collegano alla prassi e alla tradizione tragica. Ecco, allora, che il padre di Alcinoe, Sileno re di Silena, apre la tragedia dialogando con il proprio Secretario, conWdandogli tutto il dolore per l’imminente immolazione della Wglia e tentando (alla scena terza) di concertare con lui degli escamotages volti a salvarla o, comunque, a celarle sino all’ultimo l’atroce destino che l’attende. Prima è il sovrano a ipotizzare di poterla strappare all’orribile sorte ricorrendo ad una morte presunta; poi è il Secretario a suggerire di ingannare per pietà la vittima, facendole credere che verrà condotta a nozze con il re Mammolino: due accorgimenti variamente salviWci non certo inconsueti, quanto invece radicati nella memoria letteraria. Nel primo caso se pur per lo stratagemma del Wnto decesso il pensiero corre immediatamente al Romeo e Giulietta shakespiriano, penso che un ascendente più probabile sia da ricercarsi 14. Così Sirri nell’Introduzione al testo del Georgio, p. 167.

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nella novella di Matteo Bandello (notoria fonte della tragedia inglese) o in altre novelle anteriori a Bandello, e prenderei in considerazione non soltanto quella di Luigi Da Porto ma anche la xxxiii di Masuccio Salernitano. Per il secondo espediente chiara è la derivazione dal mito di IWgenia, soprattutto per quanto attiene il coinvolgimento della regina Deiopeia, moglie di Sileno e madre di Alcinoe. 15 Deiopeia, inizialmente convinta, prospetta alla Wglia un radioso futuro («Figlia, tu vai a più superbe nozze / che s’avesser potuto elegger mai», a. ii, sc. 2, vv. 56-57), un futuro tuttavia non festosamente recepito: Alcinoe è angosciata dal ricordo di un sogno in cui il padre le oVriva in sposo «un fero serpe con ali aperte e con adunchi denti» (vv. 141-142) e la madre, come si conviene, si aVretta a ribaltare il sinistro presagio in rosea profezia (la serpe non è se non l’emblema dell’Africa, la terra del promesso sposo). Ancora una volta siamo in presenza di una situazione tra le più classiche: un personaggio riferisce un proprio straziante sogno (sogno premonitore) e l’altro personaggio che con lui interloquisce si premura di oVrirne un’interpretazione positiva. Forse inconsciamente messa sull’avviso, Deiopeia si sente inquieta e incalza il consorte di domande; ma è l’incontro diretto con Mammolino (all’oscuro di ogni cosa) ad indurla ad aVrontare con veemenza il Secretario («Fermati, menzognier, d’inganni e frodi / malvagio tessitor. Ben farò io / delle menzogne tue che tu non goda», a. ii, sc. 7, vv. 506-508) al Wne di scoprire la realtà e il Secretario non si può sottrarre all’ingratissimo compito.16 Scatta, dalla rivelazione alla madre, il coinvolgimento di Mammolino poiché la regina implora il giovane re d’intercedere presso il popolo aYnché il decreto venga revocato, pronta a donare la propria vita nell’eventualità di un esito negativo. Di fronte al dolore materno (un dolore gestualmente concretizzato dell’inginocchiarsi di Deiopeia) Mammolino non soltanto acconsente ma, non avendo ottenuto – né con la preghiera né con la spada – che un reciso e

15. Per l’espediente del Wnto matrimonio cfr. la scena terza dell’atto primo (vv. 528549), in cui il Secretario espone il suo piano («Fingiam che vostra Maestate cerchi / con questo re sposarla, e che alle nozze / la principessa e la reina venghi»), assumendosene tutto l’onere. 16. Leggiamo uno stralcio della sorta di interrogatorio a cui Deiopeia sottopone Sileno: «M’usate un ragionar ch’appena basto / intenderlo. Parlatemi più chiaro, / ché le vostre parole oscure e mozze / qualche secreto dentro coprir denno», a. ii, sc. 4, vv. 342345). Alla scena sesta del medesimo atto avviene l’incontro con Mammolino e nella scena seguente Deiopeia aVronta il Secretario.

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violento diniego, ha addirittura oVerto se stesso in cambio della salvezza di Alcinoe, riportandone un ulteriore riWuto. 17 Senza averla veduta, Mammolino non ha esitato a scegliere di immolarsi per la bella principessa. Mammolino segue gli schemi cavallereschi, dal momento che si è fatto paladino della bella principessa. Se la decisione di Mammolino non scaturisce dal tipico (e cortese) innamoramento per fama, nondimeno il personaggio cede al cliché dell’innamoramento: al primo apparire di Alcinoe, Mammolino ne rimane talmente soggiogato sì da voler ritentare l’impresa. 18 Ma il compito di liberare Alcinoe spetta a Georgio quando (in apertura dell’atto quarto), informato da Mammolino circa l’orrendo destino che attende la Wglia del re, immediatamente, si ripromette di domare il drago. Georgio non frappone indugi alla propria risoluzione: dopo aver invocato la protezione divina («[…]. O sommo Dio, / ch’ogni grazia e valor vien dal tuo fonte, / tu, Cristo mio, tu mia fortezza sei; / volgi di tua clemenza in me lo sguardo: / vince chi ’n te conWda; a te si renda / gloria della vittoria. Ecco ch’io sento / la nascosta virtù che dal ciel viene. / Non di mille dragoni e mille mostri / le Werezze pavento accolte in uno. / Nel mio poco valor io nulla spero, / ma so che ’l ciel di me prenderà cura», a. iv. sc. 1, vv. 113-123), egli chiede ai suoi «sergenti» (v. 138) d’aiutarlo ad armarsi e si allontana (a spron battuto, oserei dire). 17. Questa è la sezione saliente del resoconto di Mammolino: Al Senato ed a’ giudici e alla plebbe son ito, ed operato mi son molto con ragion, con lusinghe e con gran prieghi; e veggendo che quelle valean poco, incominciai con minacciosi detti. Ma era ogni azzion mia sparsa al vento, onde al Wn mi fu forza di por mano alla spada e scagliarmi in mezo a loro, per avervi promesso voler fare l’estreme posse […]. Al Wn dissi ch’io fusse esposto al mostro, purché la principessa fusse salva. Ma con sorrisi acerbi ed occhi biechi contro me rivoltar di nuovo l’armi. (a. iii, sc. 3, vv. 219-236) 18. Alcinoe si presenta al termine del racconto del suo valoroso difensore; infatti la didascalia della scena terza (a. iii), che informa della presenza dei personaggi, indica per ultima Alcinoe, ed in eVetti essa prende la parola dopo Mammolino, Deiopeia e Sileno. Inoltre, indizio probante che Alcinoe entra in seguito, o resta come in disparte, è il fatto che Mammolino viene sulla scena esplicitamente menzionando i soli genitori: «Qui ’l re con la reina insieme veggio» (v. 206).

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Il tempo dell’attesa è colmato da due racconti: uno ediWcante e l’altro terriWcante, aYdati al Valletto e al Nunzio, entrambi in dialogo con Mammolino. Il primo mira all’esaltazione di Georgio, di cui il Valletto celebra il cristiano modus vivendi. Georgio è veramente il cavaliere senza paura e senza macchia, se il Valletto si compiace di sottolineare i castissimi costumi del suo signore: «È dagli atti di Venere assai schivo: / per che molte leggiadre illustri donne / lo desiar per sposo, e con gran dote, / ma egli tutte l’abborrisce e sprezza, / menando vita immaculata e pura» (a. iv, sc. 2, vv. 194-198). Il secondo s’incentra sulla visione del drago, narrata dal Nunzio con dovizia di particolari raccapriccianti; così a proposito del lago dimora del drago: «[…]. Vedeasi il luoco / abominoso e tetro ondeggiar tutto / di sangue e grasso e d’ossa aride e guaste, / di cadaveri tronchi e senza braccia, / di teschi igniudi e colli senza teste / […]. De’ cadaveri il lezzo e delle membra / ammazza più che non farebbe il mostro» (a. iv, sc. 3, vv. 286-303). In questo scenario viene condotta la vittima che rivela la propria regale Werezza riWutando con sdegno d’essere legata (un estremo provvedimento per evitarne la fuga) e conclamando che lei stessa si getterà nelle «immonde fauci» del «dragon» (vv. 319-320). E se pur la narrazione prosegue tutta conformata sui moduli descrittivi di certa tragedia cinquecentesca, la tragedia degli orrori, è interrotta – volutamente interrotta – al momento in cui il drago si ferma di fronte ad Alicinoe. Il Nunzio, dopo aver variamente interpretato il bloccarsi del drago (si fosse questi invaghito della bella «ch’era bastante a innamorar la morte»? v. 406), confessa di non aver avuto cuore d’assistere allo scempio della nobile fanciulla e d’essere, di conseguenza, fuggito. Voluta sospensione che lascia spazio al compianto di Mammolino e del Coro, voluta sospensione che sigla l’atto su una sorta di implicito interrogativo: riuscirà il nostro eroe a liberare la bella principessa? All’atto quinto il tempo dell’attesa è cessato: il Nunzio proclama a Mammolino (sc. 1) il trionfo di Georgio. Georgio ha domato il drago, Georgio ha liberato la bella principessa, Georgio ha ferito mortalmente il drago e poi ha chiesto ad Alcinoe di cingere con il suo «cinto» la «bestia essiziale e fera» che ora «più d’un agnello mansueta assai / segue della donzella il debil laccio» (vv. 190-196). Tutta la sequenza della vittoria di Georgio non fa che ampliare le cadenze narrative della Legenda aurea, così come il prosieguo dell’apoteosi di Georgio il quale, dopo aver ucciso il drago (nella tragedia il drago sprofonda nel lago a un imperativo del santo), ottiene che tutti i personaggi regali e l’intero popolo si convertano. E ancora, il con-

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trasto che si instaura tra il re e il portavoce del popolo, il Senatore, e il popolo stesso, non fa che ripercorrere il dettato di Jacopo da Varazze quando scrive che il popolo insorge contro il sovrano imponendogli di sacriWcare la Wglia (come tanti altri genitori sono stati costretti) . Sicuramente nella Legenda il contrasto è più diritto, mentre nel Georgio è Wltrato, appunto, dal personaggio del Senatore e, soprattutto, si colora di valenze riconducibili alla dinamica del potere. 19 Sempre nell’ottica testo tragico-tradizione, senza voler instaurare un capillare confronto tra la Legenda e il Georgio, è suYciente aggiungere che, decisiva ponendosi come fonte primaria la raccolta di Jacopo da Varazze, Giovan Battista Della Porta integra la vicenda di San Giorgio con una componente sentimentale, originariamente del tutto assente. Nella Legenda non si fa menzione né di un amante della vittima, né tanto meno di una madre: nella Legenda il compianto sul destino che attende Alcinoe viene pronunciato dal solo re di Silena. Nella Legenda è direttamente la Wglia del re (non menzionata con un nome proprio) a incontrate il santo e a rivelargli la sorte alla quale sta andando incontro, pregandolo di allontanarsi aYnché non cada anch’egli preda del drago; nella tragedia la presenza dell’innamorato Mammolino obbliga a uno scambio delle parti: Mammolino non può agire in diretta per salvare la sua bella ma deve essere, comunque, lui ad intervenire poiché diversamente non potrebbe essere degno di ambire alla sua mano. Poi nel lieto Wne Della Porta, a parte le nozze, recupera, come anticipato, il tema della generale conversione. L’ULISSE

Con l’Ulisse Della Porta si ricollega, ovviamente, ai personaggi della Penelope ma organizza un intreccio giocato di fantasia sul Ciclo Epico e su quello della Telegonia, in particolare. Ulisse è intenzionato ad uccidere Telemaco, in quanto gli è stato predetto che il Wglio lo assassinerà: «L’oracol m’ammonisce in chia19. Nella scena seconda dell’atto primo il Senatore così esordisce: «Maestà sacra, a nunziar vi vengo / che vostra Wglia sia menata al drago» (vv. 299-300). Poi, all’angosciata reazione del re, incalza rammentandogli che deve inviare Alcinoe verso il suo destino al modo già sperimentato da altri: «Come v’abbiam mandato noi le nostre» (v. 303). Nella Legenda, come accennato, il rapporto si pone direttamente tra il sovrano e il popolo (cfr. J. da Varazze, Legenda aurea, ed. crit. a cura di G. P. Maggioni, Firenze, Edizioni del Galluzzo, 1998, tomo i, pp. 392-393).

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re voci / ch’oggi debba morir per le sue mani» (a. iii, sc. 1, vv. 124125), così si rivolge al Consigliero, intenzionato – dal canto suo – a far desistere il suo signore da una simile volontà. Nuovamente Della Porta inserisce nelle «persone della tragedia» la Wgura del Consigliero, che si qualiWca pertanto come una costante della sua drammaturgia (anche il Secretario del Georgio assolve a codesta funzione). Come, egualmente, una costante si qualiWca il sogno: Ulisse narra a Penelope un proprio sogno e la regina si aVretta a rimarcare la scarsa credibilità dei sogni (in «quanto vani e fallaci», a. i, sc. 2, v. 357) ma Ulisse ne capovolge la tesi e si appella proprio al sogno fatto un tempo dalla fedele sposa (l’aquila che si avventa sulle oche). Sviato da falsi indizi, dal momento che Eumeo, ritornato da Delfo, ha confermato la veridicità dei funesti presagi, Ulisse si raVorza nella certezza che Telemaco trami contro di lui. Ulisse verrà ucciso dal Wglio, ma non da Telemaco bensì da Teligono, nato da Circe e ignoto al padre. Teligono compare all’atto ultimo: giovane e impetuoso egli traWgge il re di Itaca con un colpo di lancia, secondo un meccanismo sul quale potrebbe aver inXuito il mito edipico; tuttavia a diVerenza di quanto accade in tale mito (e non seguendo pertanto il ciclo della Telegonia che prevede un’unione tra Telegono e Penelope) Teligono e Ulisse si riconoscono, si concedono un lungo colloquio e il protagonista muore tra il compianto di Penelope e dei due Wgli. Tragedia d’invenzione, l’Ulisse, pur da questi rapidi cenni, si conferma compiutamente inserita nella tradizione e dal punto di vista linguistico più si attaglia al livello alto pertinente al genere; un rilievo evidenziato da RaVaele Sirri, allorché osserva come nell’Ulisse, rispetto agli altri due testi, vengano tralasciati i «tentativi di dizione mediana» a favore dell’«aulico della dizione»: «L’eroico si staglia sul cupo della morte, la commozione si fa strada nell’intrico di una torbida fatalità. E l’invenzione ricorre, per esprimersi e convincere, alla pompa linguistica» (p. 334). Concludendo. Per gli studiosi del teatro (e non solamente) la possibilità di leggere l’edizione dellaportiana va oltre l’essenza delle tre opere in sé, in quanto le tragedie sono foriere di agganci con il proprio recente passato e con il futuro; e tutto ciò grazie a una edizione che procede all’insegna giustissima della cautela «perché la pratica usuale dell’ammodernamento graWco (discutibile ma necessaria, almeno nel nostro caso) non trasmodi in pianiWcazione indiscriminata delle oscillazioni, delle contraddizioni, delle incertezze fonomorfologiche e sintattiche, endemiche o casuali che siano» (p. xii).

L’EDIZIONE DELLE COMMEDIE Alberto Granese

Per il quindicesimo volume dell’edizione nazionale delle opere di Giovan Battista Della Porta, interamente dedicato al teatro, RaVaele Sirri, che è tra gli autorevoli membri del Comitato scientiWco (insieme con Gianvito Resta, Luca Serianni, Francesco Tateo e Maurizio Torrini), ha condotto con acribia Wlologica un pregevole lavoro letterario, iniziato oltre venti anni fa, ma solo ora interamente compiuto. Il volume, infatti, è formato da quattro tomi, di cui uno raccoglie le tragedie (La Penelope, Il Georgio e L’Ulisse, pubblicate tra il 1591 e il 1614), gli altri tre le quattordici commedie, a partire dalle prime cinque, sistemate in rigoroso ordine cronologico: L’Olimpia (1589), La Fantesca (1592), La Trappolaria (1596), La Cintia (1601), La Carbonaria (1601: lo stesso anno di Gli Duoi fratelli rivali, ambientata a Salerno, con cui inizia il tomo terzo). Una commedia del 1616, La Tabernaria, chiude la produzione teatrale dellaportiana. Alle commedie, di cui non rimane alcun manoscritto autografo, avevano già fatto cenno i primi biograW dell’autore, da Bartolomeo Chioccarelli a Pompeo Sarnelli, attribuendogli un numero di gran lunga maggiore di opere teatrali, che avrebbero superato le trenta unità, integrando e ampliando la sua già cospicua produzione scientiWca e sperimentale. Sirri, che si muove con molta cautela, stabilisce come sicure e autentiche solo quattordici commedie, pubblicandole in edizione critica con attenta revisione dei testi e ampio apparato di note, dopo l’incompleta ristampa, da lui curata nel 197885, e le edizioni di Gennaro Muzio (Napoli, 1726) e Vincenzo Spampanato (Bari, 1910-11). La Muzio, integrale, ma non strutturata secondo l’ordine cronologico delle commedie, presenta notevoli emendamenti e ammodernamenti, cospicue aggiunte e interpretazioni, spesso disinvolte, ma non prive di interesse; la Spampanato, parziale, ma Wlologicamente più accurata, non è esente dalla tendenza a uniformare e regolarizzare; la Sirri, condotta con metodologia assolutamente autonoma e innovativa sul piano ecdotico, si confronta dialetticamente e proWcuamente con le due precedenti. Il grave inconveniente, aVrontato con prudenza e competenza dal curatore, è la mancanza non solo di testimoni autograW, ma soprattutto di revisione, da parte di Giambattista Della Porta, della ristampa delle sue commedie, sì che il testo dell’editio princeps si presenta più attendibile e corretto soprattutto a livello lessicale,

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grammaticale e sintattico. Anche se va esclusa l’ipotesi che l’autore, tutto preso e assorbito dal suo impegno principale di scienziato, abbia dovuto comporre le sue opere teatrali con fretta e disattenzione, risulta tuttavia accertato che molti testi contengono numerose inesattezze e dimenticanze, a cui si aggiungono i disinvolti e arbitrari interventi degli stampatori, Wno a rendere diYcile – per il moderno editore – stabilire la cosiddetta “ultima volontà” dell’autore, probabilmente inesistente. Si prenda, ad esempio, uno dei casi più semplici e lineari – soprattutto per quanto concerne lo stemma –, esaminati da Sirri: quello dell’ultima commedia, trascritta in questo secondo tomo, La Carbonaria, la cui editio princeps uscì a Venezia nel 1601; le altre edizioni, sempre veneziane, furono pubblicate nel 1606 e nel 1628 (quest’ultima del tutto fedele alla seconda). Sono le prime due a presentare qualche variante, ma talmente modesta, da ipotizzare la derivazione dallo stesso archetipo. Il curatore riporta in maniera particolareggiata e minuziosa tutti gli errori comuni alle tre stampe, suggerendo la lezione presumibilmente corretta e facendo notare come i refusi, nel passaggio dalla prima alla seconda, aumentino notevolmente, con l’aggiunta di varianti dovute agli interventi dello stampatore, spesso dipendenti dal sistema fonetico locale. Le ristampe della Carbonaria – come di altre commedie dellaportiane – dimostrano chiaramente il mancato intervento dell’autore, la cui frenetica attività non gli consentiva di seguire direttamente tutti i passaggi editoriali delle sue opere teatrali, le cui prime edizioni risultano pertanto più aYdabili, anche se – nel lavoro di emendazione – Sirri tiene sempre presenti e si confronta con i testi di tutte le pubblicazioni disponibili, senza trascurare le precedenti edizioni Muzio e Spampanato. Questi codices descripti – anzi, conscripti, «nel senso che al comporsi del loro testo concorrono più tendenze culturali» – non possono, quindi, essere assunti a «documenti di lezione, ma possono essere consultati» e, per certi versi e con funzioni secondarie, possono essere chiamati «al lavoro di ricostruzione dell’archetipo». Sintomatico è anche il caso dell’Olimpia, quasi sicuramente tra le prime commedie (la princeps, napoletana, è del 1589, ristampata a Venezia nel 1597 e a Siena nel 1613), i cui evidenti e cospicui interventi censori (nell’edizione veneziana) Wniscono per incidere sulla tenuta sintattica di molti luoghi del testo, soprattutto lì dove vengono sostituite dagli stampatori Sessa tutte le espressioni che indicano direttamente il nome di Dio, mentre sono liberalmente lasciate molte allusioni oscene. Non si può escludere il consenso dell’au-

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tore a tali vistose interpolazioni, ma è altrettanto impensabile ritenere una sua partecipazione diretta alla bigotta operazione correttoria, come dimostrano chiaramente i grossolani guasti sintattici, a cui il suo personale intervento avrebbe posto rimedio, anche se oscillazioni graWche e morfologiche sono dovute allo stesso sistema di scrittura dellaportiano. Naturalmente le ristampe non controllate aggiungono altre incertezze di questo tipo, spesse volte dovute anche a veri e propri compromessi tra la dizione corrente e la tradizione letteraria. In un percorso editoriale più complicato rientra La Fantesca, tra le commedie più riprodotte e, dunque, con uno stemma della situazione testuale più complesso, le cui frequenti e notevoli varianti, che Sirri registra puntualmente dalle numerose ristampe, portano a ipotizzare la presenza di almeno due diversi manoscritti, soprattutto per la netta divaricazione – rispetto alla princeps (Venezia, 1592) – dell’edizione, ancora veneziana, del 1610. Né diversamente La Trappolaria – con ben cinque stampe –, che presenta un’edizione bergamasca del 1596 (la princeps) completamente autonoma da quella veneziana (1597) e napoletana (1613), a loro volta diverse dalla ferrarese (1615) e dalla seconda veneziana (1628), tanto da far congetturare al curatore, oltre all’archetipo (da cui direttamente discenderebbe la stampa di Bergamo), due copie diVerenti, che avrebbero generato le rispettive edizioni degli altri due gruppi. Proprio La Trappolaria fornisce l’occasione a Sirri per collegare organicamente una serie di riXessioni fondamentali sulle caratteristiche del teatro dellaportiano, prendendo spunto da un passo che, eliminato nelle successive ristampe, si trova invece per intero nella prima edizione. Questo brano tagliato era rivolto soprattutto alla platea, secondo la pratica teatrale dell’«improvvisa», connessa all’irrigidimento dei ruoli e al meccanismo scenico del gioco delle parti: «… qui assistiamo al considerevole tentativo di un autore che s’ingegna a tenere il teatro nella letteratura e la letteratura nel teatro, non cedendo all’improvvisa, ma mediandone le astuzie e gli schemi di teatralità». Della Porta, infatti, come aveva aVermato nel Prologo sia della Carbonaria sia dei Duoi fratelli rivali (pubblicate a Venezia nel maggio del 1601, insieme con La Cintia) – sicuramente la sua più importante dichiarazione de arte componendi comoedias – a proposito delle «ombre di Menandro, di Epicarmo e di Plauto», vaganti sulla scena per «rallegrarsi che la comedia sia gionta a quel colmo e a quel segno dove tutta l’antichità fece bersaglio», riuscì, tra il tardo Cinquecento e il primo Seicento, tra Manierismo e Barocco, ad assimilare

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tutte le coordinate essenziali del teatro del suo tempo, volte ormai in direzione della commedia dell’arte, dopo la diVusa decadenza della commedia letteraria. Pur ispirandosi ai modelli classici, non ignorando le precedenti esperienze dell’Ariosto e dell’Aretino e il pubblico consenso tributato alla Mandragola e alla Calandria, memore anche delle splendide rappresentazioni presso la corte di Ferrante Sanseverino e delle farse giocose di Pietro Antonio Caracciolo, si impegnò in maniera non superWciale e dilettantesca nell’arte della commedia, con una non trascurabile capacità di lettura critica degli eventi storici e di sperimentazione di nuove forme teatrali, attraversate da una loro inconfondibile originalità, che in molti casi smentisce le note riserve crociane. Se si considera che molte commedie cinquecentesche presentano un andamento prevalentemente narrativo e nascono da un’ispirazione del tutto letteraria, lontana dalle vere e proprie esigenze sceniche, le opere comiche dellaportiane sono agevolmente mosse da una tecnica teatrale abile e scaltrita, in cui l’arte del dialogo e del virtuosismo linguistico assume un ruolo determinante ai Wni della costruzione – soprattutto in sede di realizzazione registica – di uno spettacolo vivo e accattivante. Caratteristica, infatti, della scrittura teatrale di Della Porta è la forzatura espressionistica del linguaggio, che immette battute con arguti e brillanti giuochi verbali nella meccanicità ripetitiva della consuetudine scenica e nella Wssità tipologica dei personaggi. Da questo punto di vista, alcuni personaggi dellaportiani hanno nomi allusivi, per così dire, “parlanti”, senza dubbio di grande eVetto sugli spettatori, a dimostrazione di come l’autore, pur senza allontanarsi completamente nelle commedia letteraria, riveli un senso teatrale vivo e spiccato. Se nell’Olimpia compaiono il parassita Mastica, il servo Squadra, il pedante Protodidascalo e nella Fantesca il capitano Pantaleone (un miles gloriosus spagnolo, «matador de panteras y leones» e, dunque, dal nome in funzione antifrastica rispetto al suo pavido comportamento), nella Trappolaria imperversano il servo Trappola e il parassita Fagone, nella Carbonaria il servo Forca e il parassita Pànfago. I loro virtuosismi verbali si addentrano in tutti gli espedienti fonici e metaforici, utilizzando assonanze, consonanze, onomatopee, argutezze, antitesi, secondo una dinamica teatrale che deve, allo stesso tempo, stupire e dilettare gli spettatori. Ciò non toglie che queste prime commedie dellaportiane, L’Olimpia, La Fantesca, La Cintia, abbiano un andamento farsesco e sostanzialmente meccanico e ripetitivo, per cui le deformazioni espressive riescono opportunamente a creare delle zone di maggiore comi-

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cità, aYdata all’inventiva e all’estro estemporaneo dell’autore, che inserisce nell’abituale Wssità delle situazioni e nella tipicità bloccata dei personaggi la mobilità delle sue impreviste costruzioni linguistiche e la varietà ritmica delle azioni teatrali. Queste innovazioni di Della Porta derivano, naturalmente, non solo da una sperimentata tecnica teatrale, ma anche dalla sua ampia cultura e soprattutto da una ben coltivata capacità letteraria: a farse di puro divertimento, semplici, lineari, evasive, seguono opere di impostazione più complessa con un maggiore intrico e coinvolgimento dell’elemento comico nel drammatico e, a volte, nel romanzesco, come avviene nei Duoi fratelli rivali, in cui prevale un moralismo didascalicamente sentenzioso e argutamente concettoso. La tecnica dell’improvvisa, la Wnale esigenza della recitazione (ben presente all’istinto teatrale dell’autore), l’equilibrato impasto di motivi della tradizione letteraria e di spunti della commedia dell’arte, l’edonistico virtuosismo verbale, spesso incline al linguaggio popolare (e che induce a ricordare grandi autori, come Pulci e Rabelais), convergono nella composita e duttile struttura della pièce dellaportiana, Wno a caratterizzarne profondamente la ricca varietà dei contenuti e delle forme in un caleidoscopico, polifonico e “carnevalizzato” (per dirla con Bachtin) pastiche di elementi picareschi e moralistici, furfanteschi e idealistici, grotteschi e macabri, espressionisticamente deformanti la vita quotidiana e realisticamente rispecchianti un ben preciso momento storico. Risultano, pertanto, segnatamente esemplari alcune scene di queste prime cinque commedie del secondo tomo: la sesta dell’atto secondo dell’Olimpia con il suo pirotecnico linguaggio, improvvisato da cinque personaggi (Mastica, Lampridio, Protodidascalo, Squadra e Trasilogo), per cui alle vacue parole del secondo, l’innamorato («O cielo, come consenti che gli occhi, sole d’ogni tuo sole, or sparghino tante lacrime?»), seguono quelle ben più concrete del primo, il parassita («Tu piangi? E che faresti vedendo rotta una pignatta in mezzo il foco vicino l’ora di mangiare?») e ridicolmente tronWe del terzo, il pedante («Sempre sta l’animo in saziar l’inesplebile aviditate del suo elefantino corpo e pascer l’ingluvie di quella vorace proboscide»); la quinta dell’atto secondo e la sesta del quarto della Fantesca, in cui compaiono, rispettivamente, il parassita Morfeo e il servo Panurgo, due incalliti furfanti, che danno una prova esemplare della loro ribalderia, non disgiunta da un certo gusto per il macabro («Panurgo: – Io ho bisogno di un ladro, infame, giuntatore, assassino… Morfeo: – Questi sono i titoli dell’arte mia. Panurgo: – … tristo, cattivo, malizioso, astuto, truVatore… Morfeo: Già già l’hai ritro-

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vato. […] Panurgo: – Così tu fossi appiccato, come più tristo uomo di te non si trova nel mondo. Morfeo: – Così tu fossi squartato, come lo meriti più di quanti vivono»), e il capitano spagnolo Pantaleone, che, dopo essersi vanagloriato nella sua lingua (presentandosi come «el capitán Pantaleón, destruydor de castillos, assolador de ciudades»), fugge non appena si tratta di «menar le mani»; la terza scena dell’atto secondo della Carbonaria con Pànfago e Forca, che danno vita a un ritmo incalzante ed esilarante di battute, quasi incatenate per automatismo l’una nell’altra («Panfago: – Come stai, Forca mio? Forca: – Per appiccarti. […] Come sopporteresti le corna? Panfago: – Così sopportassi la fame! […] Forca: Come sei amico della verità? Panfago: – Come il can delle sassate»). Sono queste, ma tante altre situazioni ancora, rappresentate nella prime cinque commedie di Giambattista Della Porta, ad oVrire una serie di inequivocabili segnali, che spiegano le ragioni del loro successo e della loro costante presenza nell’editoria teatrale da Venezia a Napoli, da Bergamo a Roma. Il paziente e raYnato lavoro Wlologico-esegetico e critico-letterario di RaVaele Sirri oVre, con l’inizio del nuovo millennio, la possibilità di conoscerle tutte in un’edizione esemplare, che ne stabilisce la lezione più autentica, circoscrivendone ed espungendone rigorosamente gli interventi esterni. Le opere riacquistano pertanto il loro speciWco valore artistico e si collocano con più persuasivo equilibrio negli interessi molteplici dell’autore, che sono veramente «tutti gli interessi dell’epoca, dalla mnemotecnica alla Wsiognomica, dalle scienze naturali e matematiche alla criptograWa», praticati «con veemenza intellettuale, ma anche, a volte, con un distacco che ha indotto più d’uno a considerarli come mossi da semplice curiosità; salvo ad accorgersi, dopo più attente considerazioni, della profonda serietà che li guidava»: con tale sintesi essenziale Sirri connota il polivalente ingegno di Della Porta nella parte conclusiva della Premessa; e intanto riesce alacremente a concludere la sua notevole operazione letteraria con l’imminente uscita, in rapida successione, degli altri due tomi delle Commedie, che completano l’intero corpus teatrale dellaportiano.

CONCLUSIONE Raffaele Sirri

Abbiamo parlato del Della Porta scienziato e del Della Porta lette-

rato, del commediografo e dell’inventore di ordigni tecnici, del trattatista e del traduttore di Tolomeo in latino e di Plauto in volgare (di Tolomeo con certezza, ci è pervenuto il primo libro della Magna constructio; di Plauto forse, ce lo dice l’editore Zannetti di Roma in un annuncio pubblicitario). Abbiamo cioè discusso di un personaggio straordinario, mettendo in evidenza il valore e la funzione innovativa dei segni che la sua presenza ha lasciato nelle varie branche dell’attività culturale. La scienza e il teatro, che sono gli spazi in cui ha operato con maggiore impegno e insistenza; lungo tutto il corso della sua vita, sono gli spazi che più luminosamente di altri trascrivono e trasmettono le immagini del suo fare e del suo pensare. Ma non è facile trattare dell’uno o dell’altro aspetto con argomentazioni interpretative che da descrittive, quali sono, si evolvano subito in paciWca deWnizione. D’altra parte la modernità e l’eYcienza del Della Porta scienziato e letterato sta proprio nella indeWnibilità della sua opera, come ci hanno detto nelle conclusioni più d’una delle relazioni lette in questa giornata di studio. Le quali, invece di fermarsi e chiudere, hanno promesso di continuare o hanno invitato altri a farlo, dando come impossibile una deWnizione se non per singoli argomenti, e non per tutti. Non occorre dire che si tratta di una condizione non del solo Della Porta ma di tutti. Nessuno scienziato, scrittore o uomo comune è mai stato deWnibile nella sua totalità. Ma si vuoi dire che il caso Della Porta è un caso a sé stante per un certo strato di ironia che stende sotto le cose di cui si occupa, per la superiorità inWngarda con cui guarda al patrimonio delle sue creazioni. E del resto l’ironia è nel suo stesso sorriso, nel volto con cui ha voluto farsi ritrarre, e che è un volto del quale non ha mai fatto oggetto di palese interesse Wsiognomico, lui che della materia si atteggiava a specialista. Le ragioni di questa superiorità ironica, ciascuna per sé, sono un capitolo particolare. Prendiamo la lingua. Il suo latino è un bel latino, duttile e franco. È il latino della scienza, che si muoveva fra esigenza di chiarezza tecnica e Xuidità convenzionale. Non è il latino dei trattati WlosoWci, non è il latino della creatività letteraria. È un latino codiWcato ma che non esclude invasioni e innovazioni personali o di costume e di ambiente, come lingua della precisione ed immediatamente comu-

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nicativa. Tutti i suoi trattati, che sono una ventina, compresa la Magia naturalis, che per numero di pagine ne vale quattro o cinque, sono redatti, secondo la norma d’uso, in latino. E si può dire che in nessuno l’autore si conceda a eversioni. Ma, attenendosi strettamente alle norme, fa sentire il suo spirito, le ragioni delle sue scelte. Nelle due paginette, p. es., della prefazione al trattatello sull’arte della memoria, cita doverosamente Proclo, Afranio, Aristotele, Cicerone, Petrarca, Seneca, Cesare. E tutte le pagine seguenti ricorrono a sovrabbondante testimonianza di autori classici. Fatto sta però che lentamente e abilmente piega l’antica dottrina del ricordare al rappresentare e al teatralizzare la nostra conoscenza per via di segni e di Wgure, quasi che il Wssare le idee e le immagini sia uno svolgersi artistico della memoria, teatralmente. E conclude il trattato con questa aVermazione: «Haec qua potui facillime et brevitate descripsi, illustriora exempla et cultiora verba Xoccipendens, mihi satisfactum iri persuadens si huius artis initiatis potius quam orationis cultoribus satisfecisse», che è un’assunzione di responsabilità dottrinale e una rivendicazione di libertà operativa. Diversamente stanno le cose relativamente alla lingua volgare, fra codiWcazione letteraria, varia e irreversibile, e il parlato, fra classicismo come perfezione data e creatività personale come perfezione in Weri. La lingua della dialogazione teatrale, poi, come lingua d’arte, deve rispondere ad esigenze di colloquialità, in modo che lo spettatore in sala avverta come riXesso nel mutamento delle scene il proprio parlato, la realtà che gli vive intorno. E questo è ora il problema principe del Della Porta, come fu già il problema di Plauto. Quello che volle lo scrittore latino, quello che vuole lo scrittore italiano è un teatro popolare animato da insonne versatilità. La traduzione delle commedie di Plauto, compiuta che sia stata, dal Della Porta, o semplicemente programmata, voleva essere, crediamo, un esercizio e una dichiarazione formulare di teatro non costruito a compasso, ma aperto ad ogni novità comica, ad ogni intervento inventivo, ad ogni dirompente astuzia popolaresca. Sì, certo, anche per lui i classici stanno lì, pronti e impennati; e se ne giova senza asservirsi. Plauto sta in cima a tutti, per imitazioni e per numero di chiamate. Ma cita tutti con grande riverenza, e ad un certo punto, nel prologo dei Duoi fratelli rivali (1606), si spinge ben oltre. Rivolgendosi al malevolo spettatore, ipercritico e perennemente scontento, gli rinfaccia: «Se non fossi così cieco degl’occhi dell’intelletto come sei, vedresti l’ombre di Menandro, di Epicarmo e di Plauto vagar in questa scena e rallegrarsi che la comedia sia giunta a quel colmo e a quel segno, dove tutta l’antichità fece bersaglio». Di Me-

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nandro e di Epicarmo, ovviamente, non conosceva nulla, ma la citazione dei loro nomi non è riempitiva: si innesta, al contrario, in un reale programma di rinnovamento della drammaturgia, a misura dell’eYcienza espressiva e del movimento scenico che in Atene e in Sicilia, negli anni aurei della cultura greca, si erano aVermati. Plauto si può dire che lo sapesse a memoria, e su lui punta tutti i suoi dadi. Ma è strano che accanto a questi tre commediograW innovatori non citi il più grande commediografo dell’antichità, Aristofane, di cui nel 1498, a Venezia, Aldo Manuzio aveva pubblicato nove commedie in una edizione che poi gli studiosi considereranno editio princeps. Se sia stata omissione casuale o volontaria non è facile supporre. Tra i problemi smossi dalle relazioni che si sono tenute in questo incontro bisogna porre anche questo, come problema non risolto e di carattere piuttosto urgente, poiché investe il concetto stesso di rinnovamento che il nostro autore aveva. Queste note su cui ci siamo fermati riguardano l’invenzione drammatica e la tecnica teatrale, non la lingua. Ma lungo questo agire scivola la questione linguistica, s’impenna e sosta, secondo i casi. Sosta soprattutto sull’impatto del parlato, che è il problema più ingannevole. Mentre, infatti, il commediografo pensa o si illude di portare in scena il parlato della strada o della piazza, scopre che la lingua teatrale può essere realistica ma non reale, perché nel momento in cui fosse reale, il teatro cesserebbe di essere invenzione artistica, creazione. Il Della Porta, appunto, insegue lo stesso proponimento che era stato di Plauto. Il processo di invenzione linguistica, che teoricamente scorre lungo il Wanco dell’invenzione teatrale, in realtà si immedesima in essa, diventando un tutt’uno. In Plauto l’incoerenza e la sconnessione delle parti, le mescidanze e le improvvisazioni poetiche che sopravanzano il regolare e il prosastico della conversazione, sono caratteristiche dell’arte plautina nella stessa misura in cui si rivelano singolari caratteristiche dell’annosa questione del parlato teatrale, forme che secondano e a tratti inverano lo svolgimento del problema linguistico. Da questo punto di vista il Della Porta mette in campo un atteggiamento compassato, intendendo modiWcare e innovare, senza scomporre e agitare. Se Plauto imitava le atellane, il Della Porta imita le commedie dell’arte, senza lasciarsene trascinare, senza avventarsi in interventi spettacolari e sconnessi come faceva Plauto (per altro dotato di una veemenza espressiva e poetica che Della Porta non ha). Rispettoso di una compostezza tecnica di tipo, diciamo così, borghese, imita Plauto dando alla molteplicità degli innesti una sorta di armonia geometrica. Si ha infatti che nel volgare letterario della commedia Del-

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la Porta immetta il napoletano (nel Moro), il turchesco (nella Turca), lo spagnolo (quasi in tutte le commedie), il parlare tondo e latineggiante dei pedanti, il conversare degli innamorati, mielato e lirico, l’arroganza verbale, solo verbale, e perciò altisonante, dei capitani, il solido e l’ineVabile di mariuoli e gaglioY ecc. ecc. Praticamente ogni tipo ha il suo linguaggio. E questo era un fatto già acquisito nella commediograWa rinascimentale. Ma in Della Porta ha la sistemazione di un composito non costitutivo ma funzionale: funzionale alla sceneggiatura e fuori della sceneggiatura. Un composito, comunque, inspirato da Plauto, ma tenuto fuori dalla scompostezza, o meglio dalla improvvisazione plautina. Ed è continuamente sottesa, ad ogni movenza, l’intenzione di tenere il parlato nel letterario e il letterario nel parlato. Quel che colpisce in tutta questa attività creativa e dirompente è la sottesa ironia, l’inWngardo dello sguardo che accompagna e compone movenze e propositi. Colpisce perché è una ironia che non dissolve, ma che al contrario compone, dando alle cose una ragione, scoprendo l’intelligenza e l’astuzia di ogni movimento. Compostezza non dissimile si nota nelle scelte scientiWche, che egli discute e annuncia con molta cautela dando la precedenza all’azione e trattenendo le considerazioni generali e speciWche. Si è detto e si ripete spesso che, a diVerenza di Galileo, Giambattista della Porta non ebbe la coscienza critica dei fatti e dei fenomeni scientiWci sui quali indagò, quasi che in lui continuasse la concezione nozionistica che nel Medioevo si aveva della conoscenza. EVettivamente i suoi trattati, dall’Ars reminiscendi alla Humana physiognomonia, dal De aeris transmutationibus al De furtivis literarum notis, dagli Elementa curvilinea alla Magia naturalis ecc., possono considerarsi delle vere e proprie bibliograWe ragionate di un tema. Più che aVrontare il problema speciWco, discuterne, scavare intorno e tentare una congettura di deWnizione, si impegna in una illustrazione di tutto ciò che si è fatto e si è detto sul fenomeno, insistendo nella nozionistica. Ma non è aVatto vero che egli si fermi a questo stadio. La concessione che indubbiamente fa al sistema tradizionale è diYcile dire se sia un velo o una blanda elusione, un cauto modo di procedere nel nuovo. Muovendo p. es. dall’Ars reminiscendi, che è uno dei primi trattati che scrive o che presenta alla stampa, e passando alla lettura dei successivi, si nota, di capitolo in capitolo, un continuo richiamarsi ai classici, riportandone passi e indicandone le ragioni. In eVetti però la conclusione, come abbiamo detto, è del tutto nuova rispetto all’antico, e nell’ Arte della memoria, p. es., presenta gli espedienti mnemonici come forme rap-

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presentative in funzione di attrazione di tipo teatrale. La Magia naturalis, che è l’opera sua che raccoglie la maggior parte delle esperienze naturalistiche accumulate, è un’opera sommamente descrittiva. Sta di fatto però che Della Porta apre alla scienza nuova, non tanto per il fatto che si concede alla tecnologia e non disdegna la costruzione di strumenti tecnici, quanto per il fatto che nella Magia naturalis come in altri trattati descrive l’opera di scavo nelle conoscenze dell’antico per comprendere meglio il nuovo, anzi, per costruirlo. Le ricerche degli umanisti avevano riportato alla vita un Platone e un Aristotele diversi da quelli che già si conoscevano, e ne riproponevano, polemicamente, le nuove interpretazioni. Ma nello stesso tempo e con gli stessi strumenti quelle ricerche avevano anche riportato alla luce Archimede e una Wtta trattatistica scientiWca che sollecitò dalle fondamenta il rinnovamento delle scienze. «L’immagine tradizionale della terra veniva infranta dalle scoperte: la concezione dell’universo era stata scossa molto prima di Galileo, da quando le premesse “psicologiche” della tesi tolemaica erano state schiantate da tutta un’annosa critica che si trovava ormai ad aVrontare le conseguenze, certo non trascurabili, di un universo inWnito, della possibilità di altri mondi abitati, di una posizione della terra non più privilegiata» (E. Garin, Medioevo e Rinascimento, Bari, Laterza, 1973, p. 96). Alla base delle ricerche degli umanisti più adulti, sta, ferma o meno ferma, ma comunque sempre presente, la convinzione che i loro studi sono rivolti a trarre dalla conoscenza del mondo antico le idee e gli strumenti per risolvere i problemi del mondo nuovo, cioè del mondo che essi stessi venivano creando. Le vie su cui si mettono, coi loro studi, coi loro scavi, con le loro scoperte, conducono ad una visione problematica e più umana delle vicende storiche, ad una concezione più aperta del vivere sociale. Ma sono anche le vie che si aprono ad una scienza nuova, e intanto individuano un metodo matematico-sperimentale sempre più eYciente. Dai loro scavi nel mondo della letteratura e della WlosoWa degli antichi deriva una nuova concezione della natura Wsica dell’universo, una più Wduciosa gestione dei mezzi tecnici per dominarne le forze e piegarle a beneWcio dell’uomo. L’interesse per le invenzioni tecnologiche a cui si dedicano scienziati di Quattro e Cinquecento – e si pensi tanto al Della Porta quanto al Galileo, scienziati e inventori di strumenti tecnici – è chiaramente rivolto alla ricerca conoscitiva e al dominio delle forze della natura. Gli studi che Della Porta conduce sui fenomeni naturali e sulla Wsiognomica, come abbiamo accennato all’inizio, hanno l’aspetto

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della rassegna; ma in realtà si concludono via via con aVermazioni di principio e indicazioni di mutamento, di concezione rispetto al passato remoto e immediato. Certo, era animato da una eccezionale curiosità, e a volte sembra che questa sormonti l’interesse scientiWco vero e proprio, inteso come conoscenza critica e come concezione WlosoWca. La sua ambizione maggiore, eVettivamente, era quella di non lasciare nulla fuori dei suoi interessi scientiWci e pratici, e aYanca alla Magia naturalis, che è un grande trattato di fenomenologia naturalistica, una serie di trattati, sulla distillazione, sulla pneumatica, sull’agricoltura, sulla fortiWcazione, sulla metoscopia ecc., imposta problemi di matematica e di Wsiognomica, studia i fenomeni celesti e l’arte del ricordare, si interessa persino di criptologia, dedicandole tre grossi volumi (De furtivis literarum notis)). Sta di fatto però che questa ambizione onniscientiWca, sostenuta per altro da attitudini mentali straordinarie, oltre che da una memoria prodigiosa, non si arresta alla catalogazione, ma irrompe nella questione dei principi. Intitolare il suo trattato maggiore Magia naturalis, mentre da una parte potrebbe sembrare un astuto indulgere alla fama che gli era cresciuta intorno, senza alcuna malizia da parte sua, è in realtà un esplicito alludere alla debolezza delle conoscenze umane rispetto alla complessità della vita naturale, e, per contrasto, alla necessità di aVrontarle nei molteplici loro campi speciWci, iuxta propria principia. È singolare, ad ogni modo, come il Della Porta, che fu uno dei primi ad aYancare Federico Cesi nella fondazione dell’Accademia dei Lincei (1610), porti con sé un duttile e forse inconsapevole retaggio dell’Accademia cosentina, nata esattamente un secolo prima (1509-1514) e animata dalla concezione naturalistica della conoscenza che Telesio aveva diVuso in funzione antiaristotelica. Siamo nell’ambito della nuova scienza, entro una visione dell’umanesimo determinata dalla connessione fra retorica e scienza: fra retorica che si richiama al Pontano e alla dimostrazione della versatilità della poesia e della sua estensione alle scienze naturali. Si trattava di estensione di tipo contenutistico, che col concetto di nuova scienza non aveva nulla a che fare, ovviamente; ma, proposta all’Accademia cosentina da Aulo Giano Parrasio come poetica nuova, si incontrava con i principi innovatori della conoscenza che in quegli anni Telesio proponeva come forma di antiaristotelismo integrale (secondo lui, in realtà Wno ad un certo punto), a cui Campanella dedicherà un forte sonetto: Telesio, il telo della tua faretra uccide de’ soWsti in mezzo al campo

Conclusione

109 degli ingegni il tiranno senza scampo: libertà dolce alla verità impetra … della mia squilla per li nuovi accenti, nel tempio universal ella soggiorna: profetizza il principio e ’l Wn degli enti.

Di antiaristotelismo, in Della Porta, se ce n’è, è limitato ad aspetti speciWci di dottrina più o meno insigniWcanti; non impegna né la visione dell’universo né la questione del conoscere. Erano, praticamente ipotesi, problemi non scientiWci, che Della Porta esclude dall’ambito dei suoi interessi. Ma c’è tuttavia un momento in cui, in tema di poetica teatrale, alza la voce: nel Prologo dei Duoi fratelli rivali, difendendo la sua arte dalle accuse dei malevoli, e mettendone in evidenza i grandi pregi, esclama: «Or questo è altro che parole del Boccaccio o regole di Aristotele! Il qual, se avesse saputo di WlosoWa e di altro quanto di comedia, forse non arebbe quel grido famoso che possiede per tutto il mondo». Ed anche questa battuta è da passare nel novero della ironia e della inWngarda visione delle cose del mondo e della cultura.

INDICE DEI NOMI

Abdallah 30.

Abioso, G. V. 29. Achillini, C. 26 n. Aezio 31. Afranio, L. 104. Al-Kabisi 30. Alberti, G., tipografo 58, 61. Alberti, L. B. 16. Alberto Magno 22. Albohazen Haly 30-31. Albrizio, G. 60. Alcmeone di Crotone 36 n. Alessandro Magno 70. AlWeri, V. 86 n-87 n. Altobelli, G. 61, 66. Amabile, L. 19 n. Amato, R., tipografo 53, 55 n. Amideno, A. 30. Anassimene 3. Anisio, G. 53. Aquilecchia, G. 33 e n. Archimede, 107. Arcudi 28 n. Arese, B. 60, 66. Aretino, P. 52, 76, 100. Ariani, M. 87 n. Ariosto, L. 50, 52, 100. Aristofane, 105. Aristotele 4, 26 n, 30, 35-36, 39, 70, 73, 104, 107, 109. Ascarelli, F. 63 n. Asinari, O. 63 n. Asoli, tipograW 49. Ateneo 31. Avanzi, L., tipografo 55, 63. Avicenna 30.

Bachtin, M. 101.

Bacone, F. 6. Bacone, R. 22. Badaloni, N. 28 n-29 n. Badalucchi, A. 63 n. Bagnolo (da), G. 29. Baldini, V., tipografo 57, 60. Bandello, M. 91. Barbarico, P. 66.

Barbarito, P. 60, 83. Barberini, F., cardinale 60. Barlezio 31. Barthes, R. 45. Beecher, D. A. 32 n. Bellanti, L. 25 n. Belloni, G. 7 n. Beltrano, O., tipografo 54. Bentivoglio, E. 52. Bernalli, G. 60. Bevilacqua, G. D. 53. Bevilacqua, N., tipografo 41 n. Bevilacqua, tipograW 55. Bidellio, G. B., tipografo 33 n. Bisaccioni, M. 50. Bladio, A., tipografo 19 n. Blado, tipograW 54. Blanco, F. 61, 66, 70. Boas, M. 1. Bobali, G. 60, 62. Bobali, M. 60, 62. Boccaccio, G. 73, 76, 109. Boer, A. 24 n. Boezio, S. 31. Boll, F. 24 n. Bonafede, P. 16. Bonatti 30-31. Bonelli, V., tipografo 57. Bonfadino, G. B., tipografo 57. Borges, L. 47. Borrelli, A. 8 n. Borromeo, F. 2 n. Bouché-Leclercq, A. 23 n., 39 n. Bragadin, L. 60, 66. Brecht, B. 46 n. Brilli, A. 39 n. Bruges (di), R. 30 n. Bruni, L. R. 51 e n. Bruno, G. 19 n, 76, 80-81. Brusoni, G. 50. Bulferetti, C. 1. Bulifon, A., tipografo 20 n, 56 e n., 59, 61 Buonagrazia Germano, N. 63 n. Buonarroti, M. 82. Burton, R. 32 e n.

Indice dei nomi

C

acchi, G., tipografo 53 e n, 55 n, 56. Cadioli, A. 45, 46 e n, 47 n. Cairo, L. 57 n. Camelo, M. 53. Campanella, T. 2 e n, 108. Cancer, M., tipografo 53, 55 e n, 56, 83. Capece Galeota, F. 61. Cappelli, G. B., tipografo 55 n. Caracciolo, P. A. 100. Carafa, F. 53, 60, 62. Carafa, L. 64-65. Carafa, V. 53. Cardano 26 n, 30, 33 n, 40. Caritano, G. C. 61-62. Carlino, G. G., tipografo 53, 54 e n, 55 e n, 56 n, 57-59, 63-64, 65. Carmody, F. J. 22 n. Carmona (da), G. 25 n. Carneade 36. Caroti, S. 22 n. Cartesio, V. Descartes R. Castiglione, B. 76, 80. Cattaneo, O. 60. Cavaniglia, M. 60, 62. Cecchi, G. M. 52. Cederna, C. M. 47 n. Censorino 31. Cesano, tipografo 52. Cesare, C. G. 104. Cesi, F. 1 e n, 2 e n, 3, 8, 29 e n, 49, 6162, 66, 68, 71, 76, 84, 108. Champerius, (Sinforiano Champuie) 25 n. Chartier, R. 45 e n. Chioccarello, B. 71, 97. Ciavolella, M. 32 n, 39 n. Cicerone, M. T. 104. Cicognini, A. 82. Cicognini, G. 63 n. Ciera, P., tipografo 58 n, 66. Cimarosa, D. 85 n. CioY, P. 63 n. Ciotti, F., tipografo 57. Ciotti, G. B., tipografo 57 e n, 60, 66. Collenuccio, P. 9-10. Colligwood, R. 44. Colonna, V. 54. Combi, G. B., tipografo 57-58. Compagnon, A. 47. Consalvo di Cordova, (Gran capitano) 55.

112 Conzatti, C., tipografo, 56, 59. Copernico 1, 5, 22 n, 24 n, 28. Cornelio, V. 65. Cornuto 31. Cortese, G. 28. Cremona (da), G. 30 e n. Crescenzi (dei), P. 14. Croce, B. 77. Cugnoni, G. 19 n. Cumont, F. 23 n. Curry, P. 22 n.

D’Aquino, T. 22.

D’argensole, L. 61. D’Avalos, F., (marchese di Pescara) 54. D’Avalos, famiglia 54. D’Evoli, C. 60. Da Carmona, G. 25 n. Da Lenz, G. 25 n. Da Porto, L. 91. Da Varazze, J. 90, 94 e n. De Angelis, A. 26 n. De Boy, G., tipografo 55 n. De Bullay, E. 26 n. De Caneto, A., tipografo 54. Decio, A. 84. De Frede, C. 53 n. De Ribera, vicerè 53. De Silvestro, C., tipografo 29 n. De Torres Naharro, B. 54. De Simone, tipografo 83 n. De’ Medici, C. 26 n. Decembrio, P. 31. Degli Angeli, N. 53. Degli Antonij, A. 60, 66. Del Carretto, G. 52. Della Porta, G. B., ix-xi, 1, 2 e n, 3 e n, 4-5, 7 e n, 8 e n, 9, 10-11, 13-18, 20 e n, 21, 26 e n, 27 e n, 28 e n, 29 e n, 31 e n, 33 e n, 34-35, 37-38, 40-41, 43-44, 49-50, 55, 58 n-59 n, 60 e n, 62 e n, 64-65, 66 e n., 67, 68 e n, 69-75, 76, 77, 80-82, 83 e n, 84, 86 e n, 88 n, 94-95, 97, 99-102, 103-109. Democrito 31. Descartes, R. 4, 26. Di Castro, F. 66. Di Castro, P. F., vicerè 60. Di Cesare, C., tipografo 56. Di Rosa, G. 60.

Indice dei nomi

113 Di Soleto, M. 28. Dini, P. 7 n. Diodoro Siculo 31. Dioscoride 10. Discepolo, G., tipografo 58, 63. Distaso, G. 84 n. Dobelio, M. 30 n. Doglio, M. L. 83 n. Dolce, L. 52. Dollo, C. 28 n. Dominici, D., tipografo 59, 63 e n. Dovizi da Bibbiena, B. 52. Draghi, A. 85 n. Duchet, C. 47. Duhem, P. 22 n.

E

doardo VI d’Inghilterra 26 n. Egidio 13. Eginardo 31. Egineta, P. 30. Epicarmo 71, 73, 99, 104-105. EroWlo 30-31. Escrivano, J. 61-62. Eudosso, di Cnido 36. Eufrada, T. 31. Euripide 52.

Fabrizi, A. 87 n.

Fagiuoli, G. B. 82. Fahy, C. 50. Favaro, A. 7 n. Federici, R. 39 n. Ferrand, J. 32 n. Festo 31. Fiamma, A. 63 n. Ficino, M. 21, 23 n, 25 n, 36. Filippo II, re 60, 62. Firenzuola (di), G. 16. Firpo, L. 1-2. Flavio, G. 31. Franci, G. 32 n. Frassinelli, P. 60. Frigio, D. 31. Fuch, S. 33 n. Fulco, G. 29 n, 53 n.

Gabrieli, G. 2 n, 20 n, 27 n-29 n, 51 e n, 55, 56 n-59 n, 62, 76. Gagliardo 53. Galeno 10, 30-31, 39.

Galeota, M. 19 n. Galeotti, M. 26 n. Galilei, G. 1, 2 e n, 3, 4, 7 e n, 26 n, 29 n, 80-81, 106-107. Gallimar, editore 46. Gallotta, A. 75. Gambalunga, A. 60, 66. Gar, T. 46. Gardner, F. L. 22 n. Garfagnini, G. C. 25 n. Gargano, G. B., tipografo 57, 59 e n, 83. Garin, E. 1, 2 n, 7 n, 21 n, 23 n-25 n, 107. Gaurico, L. 25 n. Gellio, A., 30-31. Genette, G. 47 e n. Gentile, P. 61, 66. Gesualdo, G. 60, 66, 83. Giacomo, notaro 31. Gigli, G. 82. Giolito de’ Ferrari, G. tipografo 49, 52. Giordane 31. Giovenale 31. Giraldi Cinthio, G. B. 85. Giulio II, papa 21. Giunti, F., tipografo 52. Giunti, G. M., tipografo 49. Giunti, M. T., tipografo 49. Gockel, tipografo 33 n. Goclenius 33 n. Granese, A. 97. Grant, E. 30 n. Grazzini, A. F. 52. Gregory, T. 22 n. Guarini, G. B. 63 n.

Hemminga (da), G. 25 n. Hesse, H. 46 e n.

I

annucci, A. A. 39 n. Igino 30. Imberti, G., tipografo 55. Imperato, F. 1. Ippocrate 30-31, 39.

Jommelli, N. 85 n. Katinis, T. 23 n. Keith, T. 22 n. Keplero 26 n. Klibansky, R. 38 n.

Indice dei nomi

L

aserra, L. 2 n, 15-16. Le GoV, J. 44. Lega, G. D. 53. Lejeune, Ph. 47. Lens (da), G. 25 n. Leone X, papa 20, 54. Leoniceno, N. 9-10. Leopardi, G. 46. Leopoldo, duca d’Austria 30, 31. Leva, A. 60. Lindhout, H. 25 n. Livio, T. 31. Longo, G. B. 27. Longo, T., tipografo 55 n, 56-57, 62. Lopez, P. 19 n. Lorij Lorio, L. 60, 66. Lovarini, E. 74. Lucrezio 3. Luigi d’Este 60-62. Luigi XI 26 n.

Ma-sha’-allah 30, 31.

Maccagni, C. 1 n. Maccarano, D., tipografo 53. Machiavelli, N. 52, 76. Macrobio 3. MaVei, S. 86 e n, 90. Maggioni, G. P. 94 n. Magini 33 e n. Manfredi, M. 63 n, 84 e n. Manilio 30. Manuzio, A. 105. Manzi, P., tipografo 51, 53 n-54 n, 55 e n, 56 n, 64. Markowski, M. 24 n. Martello, J. 90. Marziale 45. Mascardi, G., tipografo 57, 59, 60 n. Masuccio Salernitano, (Guardati T.) 91. Materno, F. 30-32. Mattioda, E. 86 n. Maunardi, G. 32 n. Maurolico, F. 28 e n. Mayr, S., tipografo 54. McKenzie, D. 44, 45 n. Melampode 40. Menandro 71, 73, 99, 104-105. Menato, M. 53 n, 63 n. Michel, P. H. 51 e n. Michel, S. 51 e n.

114 Michiel, A. 63 n. Mico, F. 63 n. Miloco, B., tipografo 56. Monaco, G. 54 n. Montaigne, M. de 5 e n. Montanari, G. 26 n. Montanile, M. xi Montoia di Cardona, G. 61, 66. Morlini, G. 54. Moscheo, R. 28 n. Murner, T. 25 n. Muzio, G., tipografo 97-98.

Naldoni, M. A. 29 n.

Napolitani, P. D. 4 n, 27 n. Nelli, J. 82. Niceforo 31. Nicolini, fratelli 74. Nicolini da Sabbio, tipograW 74. Noci, C. 53. Nogaroli, famiglia 74. North, J. D. 22 n. Nucci, L., tipografo 57-59 e n, 61, 63, 66, 70-72, 83. Nucci, M., tipografo 59 n. Nuovo, I. 16.

O

livieri, O. 22 n. Omero 31. Oribasio 30. Orlandi, A. 59 n, 67. Orsini, V., tipografo 71.

Pace, A., tipografo 53, 54, 57-58.

Pace, C., tipografo 57. Pacello, P. 29. Pallavicino, G. 60, 62. Pallotto, G. G. 61. Palumbo, G. A. 15. Panezio 36. Panofsky, E. 38 n. Paolella, A. 3 n, 30 n. Paoli, M. 68 n. Paolo III, papa 21. Parisio, G. G. 61. Parrasio, A. G. 108. Pasquet de Sallo, G., tipografo 54. Paulella, G. F. 61. Paulilli, A. 53. Peiresc, 2 e n.

Indice dei nomi

115 Pereira, B 25 n. Perondino 31. Peruzzi, E. 4 e n, 6 n, 31 n. Petrarca, F. 14, 73, 76, 104. Pezzana, N., tipografo 57. Piccinni, N. 85 n. Pico della Mirandola, G. 21, 24 e n, 25 e n, 36, 41 e n. Pisano, O. 60, 62. Platone 22 n. Platone da Tivoli 30 n. Plauto 52, 71, 73, 76-77, 84, 99, 103-106. Plinio 9-10, 31. Plotino 31. Plutarco 30-31. Polemone, P. 31. Polidamante 30. Poliziano, A. 9-10. Polletta, R. 60 n. Pomba, G., tipografo 46, 48. Pomponazzi, P. 26. Pontano, G. 11, 13, 108. PorWrio 31. Prisco 31. Prochnic, G. 61. Proclo, 104. Proust, M. 46. Pulci, L. 101.

Quilici, P. 57 n. Rabelais, F. 101.

Ramanzini, D., tipografo 86 e n. Ranucci, G. B. 54. Resch, S. 64-65. Resta, G. ix-x, 97. Rhasis 30. Ricci, S. 19 n. Riccioli, R. 63 n. Righelli, F. 63 n. Rilke, R. M. 46 n. Rinaldi, M. 53 n. Rizza, C. 2 n. Romei, G. 55. Romeo, G. 19 n. Ronchi, V. 29 n. Rossetti, A., tipografo 59, 61, 66, 67. Rossi, F. A. 54. Rossi, P. 1, 8. Rovito, F. 61, 66.

Rucellai, G. 52. Ruggieri, C. 26 n. Ruscelli, G. 49. Ruzante, (A. Beolco) 52.

S

alicato, A., tipografo 55. Salviani, O., tipografo 53, 55 n, 56 e n, 57, 63. Sandal, E. 53 n. San Giorgio 90, 94. Sanseverino, F. 100. Santoro, cardinale 19 n. Santoro, G. A. 19 e n. Santoro, M. x, 29 n, 43, 44 e n, 45 n, 53 n, 55, 60 n, 68 n. Saracini, C. 61, 66. Sardi, S. 22 n. Sarnelli, P. 19, 20 n, 97. Savonarola, G. 25 e n. Saxi, F. 38 n. Sbrozzi, C. 63 n. Scaramucci, A. 63 n. Scarano, S., tipografo 60-61, 66, 83-84. Scevolini, D. 25 n. Schioppi, G. A. 74. SchoeVer, tipografo 32 n. Scoriggio, L., tipografo 59, 83. Scoto, G., tipografo 60. Scotti, tipograW 49. Scotto, G. M., tipografo 53, 55 n, 56. Segesser, S. A. 61, 66. Seneca, L. A. 52, 104. Serianni, L. ix, 97. Sessa, cardinale 60. Sessa, G. Bat., tipografo 56, 98. Sessa, G. Ber., tipografo 57, 98. Settala, L. 33 n. Sidonio, D. 30. Simbeni, G., tipografo 55. Sirri, R. ix-xi, 27 n, 58, 59n-60 n, 62 n, 66 n, 68 n, 69, 74, 83 e n, 84-85, 90 e n, 95, 97-99, 102, 103. Sisto V, papa 19 e n, 21, 25, 34, 36. Sofocle 52, 70, 72. Solino, G. G. 31. Somasco, G. A., tipografo 51, 57 e n, 58. Soto, G. 60. Sottile, G. B., tipografo 56, 58 e n. Spampanato, V., tipografo, 2 n, 9798.

Indice dei nomi Sparziano, E. 31. Spineda, L., tipografo 55. Spontoni 33 n. Stella, A. F., tipografo 46. Stelluti, F. 1, 19 n, 60-61, 66, 67-68. Stigliola, N. A. 53 e n. Stigliola, F., tipografo 55 n, 58. StoeZer, G. 25 n. Suganappo, G. P., tipografo 53, 55 n. Sultzbach, G., tipografo 53. Svetonio 31.

Taisnier, J. 25 n.

Tamburini, F. 19 n. Tanselle, Th. 44 e n. Tassignon, I. 23 n. Tateo, F. ix-x, 9, 43, 97. Telesio 35, 108. Teofrasto 10, 31. Tester, J. 22 n. Tigliani, L. 22 n. Tirio, M. 31. Toda Y Guell, E. 53. Tolomeo, C. 24 n, 27, 30-31, 75, 103. Tomasini, C., tipografo 57. Torelli, P. 86 e n, 87 n. Torelli, V. 86 n. Torrini, M. ix-x, 1, 4 n, 27 n, 43, 97. Tozzi, P. P., tipografo 57, 59. Trabucco, O. 20 n. Trissino, G. G. 52. Trivero, P. 83, 86 n. Trogo, P. 31. Trovato, P. 49 n.

116 Turamini, A. 53, 63 e n. Tycho-Brahe 26 n.

Unseld, S. 46 e n. Valles, F. 41 e n.

Vasoli, C. 1. Ventura, C., tipografo 57, 62. Venturino, P. 61, 66. Vernalione, G. 28 e n. Vesalio 5. Viano, C. A. 8. Villery, P. 5 n. Viotto, tipografo 86 n. Virgilio 31, 77. Vitale, C., tipografo 55, 56 n, 57 e n, 59, 63. Vitruvio 31. Vivarelli, M. 46 n. Volli, U. 23 n. Voltaire (F.-M. Arouet) 86 n.

Walser, R. 46 n.

Westcott, W. W. 22 n. Wyn Evans, D. 51 e n.

Z

accaria, R. 55. Zaltieri, M. A., tipografo 55. Zambelli, P. 21 n, 26 n, 32 n, 36 n. Zanier, G. 23 n. Zannetti, B., tipografo 30 n, 59, 61, 63, 66, 67-68, 71, 103. Zappella, G. 53 n. Zoppino, N., tipografo 52.