Jean-Pierre e Luc Dardenne 8868220571, 9788868220570

"Siamo tutti esseri unici. È questo il fatto sorprendente. Impossibile sfuggire all'unicità e questa impossibi

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Italian Pages 196 [198] Year 2013

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Jean-Pierre e Luc Dardenne
 8868220571, 9788868220570

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Collana diretta da Roberto De Gaetano

Serie

Nomi propri

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JEAN-PIERRE E LUC DARDENNE a cura di

Alessia Cervini e Luca Venzi

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Frontiere. Oltre il cinema Collana diretta da Roberto De Gaetano Comitato scientifico Gianni Canova, Ruggero Eugeni, Pietro Montani

Proprietà letteraria riservata © by Pellegrini Editore - Cosenza - Italy Stampato in Italia nel mese di giugno 2013 da Pellegrini Editore Via Camposano, 41 - 87100 Cosenza Tel. (0984) 795065 - Fax (0984) 792672 Sito internet: www.pellegrinieditore.it E-mail: [email protected]

I diritti di traduzione, memorizzazione elettronica, riproduzione e adattamento totale o parziale, con qualsiasi mezzo (compresi i microfilm e le copie fotostatiche) sono riservati per tutti i Paesi.

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indice

Introduzione di Alessia Cervini e Luca Venzi

pag. 7

Alessandro Canadè Apertura » 17 Luca Venzi Etica » 33 Alessio Scarlato Grazia » 55 Andrea Inzerillo Immanenza » 77 Alessia Cervini Lavoro » 97

Bruno Roberti Paternità » 115

Roberto De Gaetano Umano » 141 Daniele Dottorini Vicinanza » 157

Filmografia » 179 Indice dei nomi e dei film » 191

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“Rivisto di nuovo Germania anno zero. Sempre la stessa intensità, la stessa incisività. È il nostro modello”

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INTRODUZIONE di

Alessia Cervini e Luca Venzi*1

1. Come tutti i grandi cinema che pensano «povero, semplice, nudo»1, anche quello di Jean-Pierre e Luc Dardenne è un cinema pieno di strati, di pieghe, di fondi impensati e di fitti e finissimi orditi di senso. Un cinema in definitiva molto complesso, fosse anche soltanto per il fatto che vi si addensano senza sosta temi grandi e gravi, formidabili – paternità, filiazione, attesa dell’altro, tradimento, dignità, tentazione dell’omicidio, insomma, un’interrogazione dell’umano –, gli stessi che innervano una parte larga e importante della cultura occidentale e della sua pratica artistica, pratica che (lo ha detto una volta suggestivamente Godard e i Dardenne ne converrebbero2) dell’Occidente non sarebbe stata nel

* A partire da una discussione comune dei temi di seguito affrontati, i curatori hanno così ripartito la stesura di questa Introduzione: Luca Venzi ha scritto il paragrafo 1, Alessia Cervini il paragrafo 2.

L. Dardenne, Dietro i nostri occhi. Un diario, tr. it., Isbn edizioni, Milano 2009, p. 10.

1 

Cfr. J.-L. Godard, Jean-Luc Godard rencontre Régis Debray (1995), in Id., Jean-Luc Godard par Jean-Luc Godard, Cahiers du cinéma, Paris 1998, vol. II, p. 423. Luc Dardenne scrive nello stesso periodo (1994) nel diario che l’arte si configurerebbe come «una modalità dell’istituzione dell’impossibilità di uccidere […]

2 

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JEAN-PIERRE E LUC DARDENNE

tempo altro che la morale. Dunque, un cinema arduo e alto, e insieme quanto più è possibile terrestre e materico, che incontra la stratificazione delle forme e delle figure proprio in ragione dello sforzo di fare semplice e di fare chiaro. Certo, il cinema dei Dardenne, almeno da quando trova e percorre le proprie inclinazioni e mette in pratica le proprie misure, vale a dire da La promesse in giù, fino al recente Il ragazzo con la bicicletta o fino a questo Deux jours, une nuit attualmente in preproduzione, è senza dubbio anche un modello di cinema rigoroso. E come tutti i grandi cinema del rigore ostinato, dell’austerità formativa, è un cinema aperto, pulsante e in lungo e in largo percorso da correnti di vita. Un cinema che nell’atto di raccogliersi, di proteggersi, perfino di appartarsi – e di salvaguardare la propria allure documentaristica –, trova le ragioni del proprio consistere e quelle della propria libertà. E che serrandosi attorno alle proprie ossessioni e a quelle dei propri personaggi, conformandosi come alcunché di chiuso, di compresso, di impenetrabile, si fa capace di sorprendenti momenti di apertura, di distensioni inattese, di autentiche prese del respiro. Queste zone d’aria, questi varchi, coincidono talora coi tratti conclusivi dei singoli film (i finali sfiniti di Rosetta, de Il figlio, de L’enfant, dello stesso La promesse) e per ciò stesso li liberano dalla morsa configurativa che li attanaglia, oppure, più sempliceGuardare lo schermo, il dipinto, la scena, la scultura, la pagina, ascoltare il canto, la musica, sarebbe: non uccidere», Id., Dietro i nostri occhi. Un diario, cit., p. 31.

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Introduzione

mente bucano il corpo del testo e, magari soltanto per un istante, lo costringono a girare a vuoto, a disperdere e a disfare il suo dominante stato di tensione (la corsa in go-kart di Igor ne La promesse, la pedalata notturna di Cyril dopo l’ultimo rifiuto del padre ne Il ragazzo con la bicicletta, ecc.). Questa dinamica di compressione e distensione, presa e mancanza del respiro è ciò che segna il passo, il ritmo del cinema dei Dardenne, cui spesso i due cineasti fanno riferimento e che Luc descrive talora proprio nei termini di un processo di respirazione («Il ritmo, il respiro è la nostra forma cinematografica. […] Una specie di febbre, di affanno, di frenesia, di irrequietezza interrotta da calme respirazioni ancora percorse da un brivido inestinguibile»3). In ogni caso, a guardarlo inscritto nel vasto e mosso panorama contemporaneo della produzione di immagini, il cinema dei fratelli Dardenne si presenta soprattutto e con ogni evidenza come un cinema profondamente inattuale. Nel tempo delle poderose, rinnovate attrazioni del cinema spettacolare, della performatività ludica, combinatoria, neoformalistica di molta produzione cosiddetta postmoderna, di certe stratificate sperimentazioni audiovisive, i Dardenne appaiono forse gli ultimi (grandi) eredi di un certo modo di fare e di pensare il cinema, vale a dire di una tradizione cinematografica vera e propria che nel cosiddetto cinema moderno ha avuto il suo territorio d’elezione e le sue configurazioni più compiute: quella tradizione per cui l’azione di uno sguardo è 3 

Ivi, p. 68.

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JEAN-PIERRE E LUC DARDENNE

l’unità operativa di uno stile e insieme già sempre una presa di posizione sul mondo. Immediatamente riconoscibile e per molti versi unico nell’orizzonte composito e incerto di questo nostro presente postmediale, il cinema dei Dardenne eredita dalla tradizione della modernità e in modo sorprendente la ripensa e la rifigura, esattamente come il cinema di un Eastwood fa con un’altra grande tradizione cinematografica, quella della classicità hollywoodiana: né nell’uno né nell’altro caso, è chiaro, agisce alcun tipo di istanza manierista, ma solo il timbro marcato, coerente, nitidamente fuori tempo, di una concezione del mondo e del cinema che lo mette in forma. E se è difficile pensare ad autori più distanti tra loro di quanto lo siano Eastwood e i Dardenne, è proprio sotto il segno di una vistosa e potente inattualità che pare possibile accostare i loro nomi. È allora soprattutto in ragione di questa inattualità che questo libro collettivo, in accordo con le linee portanti della serie che lo ospita – che proprio a Eastwood aveva dedicato il suo titolo d’esordio4 –, ha scelto di interrogare il cinema dei Dardenne, di rilevarne e discuterne in un disegno d’insieme i tratti individuanti, i modi, le forme caratterizzanti. Un disegno d’insieme che lavora per lo più attorno alla stagione matura dell’opera dardenniana, quella inaugurata da La promesse, non senza tuttavia ripercorrere in più di un passaggio – per rimandi, rifrazioClint Eastwood, a cura di A. Canadè, A. Cervini, Pellegrini, Cosenza 2012.

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Introduzione

ni, richiami – anche il composito e importante lavoro dei due cineasti che precede quella stessa stagione. Perché al di là dei decisivi cambi di regime discorsivo (già nei secondi anni ’80: dal documentario politico al film di finzione), delle ricerche singolari, dei disorientamenti temporanei, delle svolte, il cinema dei Dardenne, tutto intero, appare infine un cinema organico e per molti versi coeso. Un cinema che dai lavori sulla classe operaia vallona ai titoli più celebrati e importanti degli ultimi anni si è sempre sforzato di abitare il proprio tempo come una forza contraria. E che con costanza, lo rilevava acutamente M.-E. Mélon, che scriveva appena dopo La promesse, ha consegnato la propria azione e la propria presenza a un’ostinata, tenace postura di resistenza5. 2. Ci sono luoghi in cui questa resistenza tenacemente si manifesta e ci sono modalità specifiche attraverso le quali il cinema dei Dardenne, altrettanto tenacemente, dispiegandoli li rivela. Sono questi due piani che, fra le altre cose, questo volume vuol mettere in connessione, mostrando l’intreccio, per certi versi unico, che i film presi in analisi mettono in rilievo, fra il ricorrere di un nucleo preciso di temi e un modo preciso, assolutamente riconoscibile, di raccontarli. Una ragione scarna, ma senz’altro sufficiente, sulla base della quale accogliere i Dardenne fra coloro che, nel panorama del cinema contempo-

M.-E. Mélon, Les enfants de Prométhée, in “Revue belge du cinéma”, n. 41 (1996-1997), numero monografico, “Luc et JeanPierre Dardenne. Vingt ans de travail en cinéma et vidéo”, p. 5. 5 

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JEAN-PIERRE E LUC DARDENNE

raneo, sono capaci di riattualizzare, problematizzandola, l’idea stessa di “autorialità”. C’è, nel cinema dei Dardenne, una galleria omogenea di corpi (forse nessuno dei loro personaggi è davvero in grado, infatti, di contraddire questa sorta di “paradigma” fisiologico) che manifestano la loro capacità di (r)esistere per esempio nel lavoro che compiono, quest’ultimo essendo lo strumento a disposizione anche di chi è senza parole (e i personaggi dei film dei Dardenne sono spesso, per estrazione sociale soprattutto, incapaci di esporre dialetticamente – comprendendola essi stessi – la propria condizione) per sperare di ottenere un riconoscimento di tipo sociale; quel riconoscimento che, almeno in prima istanza, non si può non avere, per sperare di essere “qualcuno” per sé e per gli altri. A questo primo, essenziale, livello del discorso ciò che rivela la sua capacità di resistenza è dunque quel piano di immanenza a cui la vita è consegnata e con il quale il cinema dei Dardenne mantiene un rapporto di contiguità, così come dimostra il loro modo di usare la macchina da presa, mai esterna al racconto, sempre vicina (eppure mai indiscreta) ai corpi degli attori, ai loro gesti, alle loro più segrete espressioni. Ma c’è ancora di più, in considerazione del fatto che è esattamente nelle pieghe della contingenza assoluta, in cui la vita si dispiega, che si nasconde e si alimenta una forma di resistenza ancor più radicale. Essa ha a che fare, in questo caso, con un senso di spiritualità, che la materialità non seppellisce ma anzi rafforza, dal momento che, nella forma della grazia, esso sembra poter far capolino soltanto attraverso il silenzio del vuoto della materia. Stiamo parlando, 12

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Introduzione

evidentemente, di una spiritualità che è intrecciata e trova manifestazione nell’etica di uno sguardo che sa guardare fra le cose e trovare in esse il luogo in cui silenziosamente nasce l’umanità stessa dell’uomo. Uno sguardo capace di far questo è incardinato in una condizione che è la condizione umana, ma da “dentro” sa, al contempo, come non perdere la capacità di guardare fuori, salvaguardando quello spazio d’apertura, in cui si rivela il senso più profondo dell’essere uomo. C’è dunque una strada, facilmente rintracciabile, nel cinema dei Dardenne che conduce dalla materia allo spirito e che equivale, su un piano formale, all’alternanza di inquadrature strettissime, a ridosso dei corpi degli attori, quasi a volerne ascoltare il respiro, e un uso del fuori campo che diventa voce di un “fuori” radicale, aprendo uno spiraglio dentro e oltre la materia che il cinema mette in forma. A ben vedere, questo movimento è lo stesso che compiono gran parte, quasi tutti, i personaggi dei film dei Dardenne. Essi sono assegnati a condizioni di indigenza da cui sembrano non poter scartare; attraverso il lavoro o forme analoghe di riconoscimento sociale essi cercano un modo per ricollocarsi e vedersi restituita, attraverso gli altri, una immagine diversa di sé. Tale processo, però, è destinato a non subire scacco e a non chiudersi in un fallimento definitivo, solo se viaggia parallelamente alla ricerca di un legame che non ha garanzie societarie, ma umane soltanto. Così il cammino compiuto dai personaggi dei Dardenne non è funzionale semplicemente al loro riscatto sociale, ma punta dritto alla scoperta della loro più intima umanità, e per questo è cadenzato da incontri 13

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che dicono della necessità tutta umana di costruire relazioni d’amicizia, d’amore, di reciproca fiducia, capaci di sopperire, in molti casi, alla mancanza di padri e madri assenti. Lo dicono, fra le altre, le storie di due donne, Rosetta e Lorna. Entrambe capiscono che non può esserci riscatto per loro se non si dimostrano capaci anzitutto di scardinare la rete di dispositivi, apparentemente inviolabili, in cui – per una sorta di necessità ineludibile – sono cadute. Se vuole ottenere un lavoro e sperare soprattutto che questo coincida con il miglioramento effettivo della propria condizione, Rosetta capisce di “dover” salvare il suo “nemico” caduto nello stagno e farlo diventare suo “amico”. Lorna sa che per diventare cittadina belga non deve soltanto preoccuparsi di procurarsi un passaporto, ma anche e soprattutto di non veder compromessa la sua dignità di donna, per esempio decidendo di non assecondare il gioco di quelli che vogliono eliminare l’uomo che ha accettato di sposarla per farle avere i documenti necessari alla realizzazione del suo progetto. Lorna sa che la sua “umanità” è qualcosa di più prezioso della sua “cittadinanza” ed essa non ha bisogno di documenti che simbolicamente la certifichino, ma di gesti reali che se ne facciano dimostrazione: semplici gesti, come un abbraccio o un bacio. Costruire un discorso che prenda in carico una tale sovrapposizione di temi e scelte di stile, significa pensarlo e concepirlo (pur nella sua organizzazione interna, articolata per lemmi, che connettono l’immagine al concetto), come ritorno costante su certe note che il lettore sentirà risuonare in maniera quasi regolare. Oltre che dalla coincidenza di punti di 14

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Introduzione

vista, maturati da un confronto costante degli autori fra loro, la forma omogenea del volume dipende in questo caso, anche e forse soprattutto, dall’estrema coerenza interna di un “mondo” e un modo di fare cinema, quello dei Dardenne, che si contraddistingue per un rigore che, chiunque ne scriva, non può non rispettare.

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JEAN-PIERRE E LUC DARDENNE

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Apertura

Alessandro Canadè

APERTURA

L’uomo è sempre in trappola, nella condizione di dovere sempre fuggire, seguire delle linee di fuga. È come un topo! Luc Dardenne

Una porta si apre. La macchina da presa a spalla segue una ragazza, con un camice e una cuffia bianca, che percorre, con respiro affannoso, un corridoio. La ragazza apre un’altra porta, scende delle scale e apre ancora una terza porta. La macchina da presa, sempre incollata alla nuca della donna, la segue. Ora la ragazza si trova all’interno di una fabbrica e continua a camminare, decisa, come alla ricerca di qualcuno. Davanti a lei un uomo, presumibilmente il capo del personale, le intima di tornare nel suo ufficio; la ragazza lo dribbla e continua la sua ricerca. Si scontra con un’altra donna; a questa, e all’uomo, chiede spiegazioni sulle ragioni del suo licenziamento. L’uomo cerca di spiegarle i motivi ma la ragazza non ci sta e si scontra fisicamente con lui, picchiandolo. L’inquadratura indugia, “resta”, sul primo piano della ragazza e sul suo respiro sempre più ansimante. Stacco. La ragazza continua la fuga nel labirinto della fabbrica: cerca di aprire 17

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Alessandro Canadè

una porta, non ci riesce; prova con una seconda e poi con una terza senza successo; apre la quarta, che la conduce però in un altro corridoio e davanti a un’altra porta chiusa. Nel frattempo è raggiunta dal capo del personale e dagli uomini della sicurezza, che la inseguono. Ma la ragazza continua a correre; si chiude in una stanza e all’arrivo degli uomini rivendica il diritto a mantenere il proprio posto di lavoro. Gli uomini forzano la porta, tirano fuori la ragazza, che continua ad agitarsi; cercano di immobilizzarla, riescono infine a portarla fuori dalla fabbrica. Stacco. Esterno. Primo piano della ragazza che mangia un panino. Il cinema è una questione di respiro, e di ritmo. Potrebbe essere questa una definizione del cinema dei fratelli Dardenne. Lo mostra chiaramente questa sequenza, l’inizio di Rosetta. Al centro di essa sembra esserci esattamente il respiro: quello di Rosetta e quello della stessa macchina da presa; il suo procedere per strappi, il suo accelerare, rallentare, ripartire, fermarsi e ancora ripartire. Che rapporto esiste però tra il respiro e l’apertura? Il cinema dei Dardenne, almeno da La promesse in poi, ma in particolare proprio da Rosetta, sembra essere costituito da un doppio movimento di apertura e chiusura, che riguarda in primo luogo il modo di concepire l’immagine e che ha molto a che vedere con il ritmo del respiro. L’immagine nei Dardenne si apre e si chiude come il ritmo diastolico e sistolico del battito cardiaco, come appunto il respiro, ora tranquillo, ora ansimante dei loro personaggi. Una dinamica in cui l’apertura è sempre accompagnata da un movimento 18

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Apertura

contrario di chiusura; non esiste apertura valida senza chiusura, senza ostacolo a cui fare effrazione. Se da una parte, l’immagine sembra rinchiudersi al suo interno ed escludere il fuori (pensiamo a quell’estetica documentaristica fatta di macchina da presa a mano sempre incollata sulla nuca dei personaggi e inquadratura chiusa su di essi – un’inquadratura claustrofobica, che esclude costantemente il contesto e isola i personaggi dal paesaggio – che è ormai diventata cifra stilistica dei Dardenne), dall’altra parte, questa stessa immagine si apre, rossellinianamente, all’ambiguità reale, all’incontro con l’Altro, che trasforma il personaggio1. Apertura nei Dardenne è quindi anche sinonimo di nascita, di iniziazione. Potremmo riassumere così il percorso drammaturgico della maggior parte dei loro film: il racconto di un personaggio che vive in una situazione (scelta o imposta) da cui è impossibile fuggire; un personaggio che è responsabile delle proprie azioni o che deve imparare a diventarlo; e il suo percorso esistenziale riguarda la capacità di assumersi le proprie responsabilità e, facendo ciò, diventare “essere umano”. Ciò che il loro cinema sembra alla fine raccontare è la nascita di nuovi esseri umani. Questa “resurrezione” del personaggio, come accade in molti dei finali dei loro film, passa sempre appunto attraverso l’incontro con l’Altro, che chiude la narrazione ma nello stesso tempo la riapre verso un nuovo inizio. “Apertura” individua quindi anche una modalità di costruzione 1 

Su questo cfr. il saggio di R. De Gaetano in infra, pp. 139-153.

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Alessandro Canadè

“La sua energia si fa rabbia per resistere, perché lei si mantenga in vita. Non resta niente per tirar fuori una parola. E poi a che servirebbe parlare?”

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Apertura

drammaturgica. Aperta è quell’opera, propria della cosiddetta modernità cinematografica, che mette in questione il modo classico di concepire la narrazione come narrazione di intreccio, come catena di eventi legati da un rapporto di causa ed effetto, strutturata secondo i tre atti aristotelici, che si concludono con una risoluzione chiara e definita degli eventi. Nei Dardenne ritroviamo l’eredità di una drammaturgia che indebolisce i legami tra gli eventi, che frammenta la narrazione, che non scioglie gli enigmi. L’intreccio nei loro film è il personaggio, il suo corpo, il suo sguardo, in alcuni casi (soprattutto Il figlio), la sua nuca. “Apertura” allora nei Dardenne significa anche fuga dall’intreccio, per recuperare un’innocenza dello sguardo e del racconto. Scrive Luc Dardenne: «Essere innocenti, forse è questo: essere fuori dall’intreccio»; e poi ancora, a proposito di Rosetta: «Non costruire un intreccio, non raccontare, non organizzare uno svolgimento. Stare con Rosetta, stare con lei e vedere come va verso le cose e come le cose vengono a lei. Le situazioni giungano, sopraggiungano senza che siano preparate, come eventi imprevedibili»2. Ecco allora ancora la lezione rosselliniana nei finali di Je pense à vous (la riconciliazione tra Fabrice e Céline, che richiama molto da vicino il finale di Viaggio in Italia), La promesse (la confessione di Igor ad Assita dell’uccisione del marito), Rosetta (lo sguardo di Rosetta che, per la prima volta, “vede” Riquet), Il figlio (la ritrovata L. Dardenne, Dietro i nostri occhi. Un diario, tr. it., Isbn Edizioni, Milano 2009, p. 14 e pp. 49-50. 2 

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Alessandro Canadè

intesa tra Olivier e Francis), L’enfant (le lacrime di Bruno in prigione), Il matrimonio di Lorna (l’attesa di Lorna della gravidanza vera e/o immaginata), Il ragazzo con la bicicletta (la resurrezione di Cyril). L’incontro può assumere forme diverse (può essere un gesto, uno sguardo, una parola) ma resta sempre un “evento di immagine”, un miracolo: «Senza imporlo, senza sceneggiarlo, lasciare che sia la materia stessa del film a trovare il miracolo che salverà Rosetta»3. E il miracolo non è una questione di intreccio (i finali prima ricordati non trovano una immediata giustificazione drammaturgica, ma sono improvvisi e imprevedibili) ma, ancora una volta, di ritmo e di respiro. Ed è interessante notare come Luc Dardenne in alcune note di Dietro i nostri occhi ritrovi questa “fuga dall’intreccio” e centralità del ritmo anche nel cinema di due delle più importanti figure della classicità, Ford e Hawks: Ho appena visto Il grande sentiero di John Ford. Splendido. Qualcuno ha scritto che a questo film manca la costruzione drammatica, ritmica. È proprio questa mancanza a essere straordinaria. L’ultimo sguardo di Ford poteva vedere con gli occhi dell’altro, dell’indiano. Poteva vedere oltre l’intreccio4. Museo del cinema. Ho visto diversi Hawks. Un ritmo unico. Qualcosa che marcia al passo, accelera, rallenta, fa del surplace, si riposa, lascia esitare i

3  4 

Ivi, p. 48. Corsivo nostro. Ivi, p. 39.

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Apertura

gesti, gli sguardi, le parole di situazioni estranee all’intreccio, come un pasto, una sosta attorno a un fuoco, una canzone accompagnata da una chitarra, una ferita da curare, poi riparte con un’improvvisa accelerazione… Come se a Hawks non interessasse il ritmo dettato dall’intreccio ma qualcosa di più difficile da riprendere, qualcosa che sia come la vita. Sì, questo possiamo chiamarlo vita5.

Neanche ai Dardenne sembra interessare il ritmo dell’intreccio ma quello dettato dai gesti, dagli sguardi, dai movimenti. «Il ritmo, il respiro è la nostra forma cinematografica. Penso spesso al ritmo che Schumann riesce a dare ad alcuni movimenti. Una specie di febbre, di affanno, di frenesia, di irrequietezza interrotta da calme respirazioni ancora percorse da un brivido inestinguibile»6. Questo ritmo schumanniano sembra adattarsi perfettamente alla “partitura” di Rosetta, a quel suo procedere alternando frenesia, irrequietezza, affanno, movimento continuo e momenti di calma, di pausa. Rosetta corre, picchia, scalcia, lotta nel fango con Riquet, nuota disperatamente cercando di sollevarsi dal fango, che la spinge a fondo nel fiume dove è stata gettata dalla madre, che non vuole disintossicarsi. E la macchina da presa la segue, le sta dietro come un soldato in trincea (come nel kubrickiano Orizzonti di gloria) e poi si ferma sul suo volto, come in quella sola notte in cui Rosetta sembra poter finalmente riposare sulla 5  6 

Ivi, p. 110. Ivi, p. 68.

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Alessandro Canadè

brandina in casa di Riquet, per ascoltare quella sorta di “preghiera”, che, prima di addormentarsi, recita a se stessa: «Tu ti chiami Rosetta, io mi chiamo Rosetta. Tu hai trovato un lavoro, io ho trovato un lavoro. Tu hai trovato un amico, io ho trovato un amico. Tu hai una vita normale, io ho una vita normale. Tu non finirai in un buco nero, io non finirò in un buco nero. Buona notte. Buona notte». È una richiesta d’aria quella di Rosetta, una lotta per non soffocare, per liberarsi dai confini angusti dell’inquadratura, che preme su di lei e non le permette appunto di respirare; un desiderio di emergere, di affermazione sociale, di vita che il film figurativizza attraverso una dinamica costante di apertura e chiusura. Quella stessa dinamica e quello stesso ritmo che strutturano il pre-finale de Il figlio: dal momento in cui Olivier rivela a Francis di essere il padre del ragazzino da lui ucciso fino alla sequenza che precede la loro riconciliazione è tutto un correre e fermarsi, mostrarsi e nascondersi, andare/tornare/andare. Dopo la frase di Olivier: «Il ragazzino che hai ucciso era mio figlio», Francis corre verso il fondo del capannone della segheria dove i due si trovano; sparisce dietro una delle corsie dove sono accatastate le tavole di legno; Olivier gli corre dietro, sale in cima a una catasta per cercarlo con lo sguardo, si arrampica su un’altra fino a riuscire a scorgerlo: «Ti ho visto… scendi!»; ma Francis continua a correre, a saltare da una catasta all’altra rifiutando di venire giù. Dalla cima di una catasta lancia un ceppo contro Olivier, che lo evita per poco, lasciandosi cadere. L’inseguimento continua, il ritmo cresce: dal capannone i due passano prima nel parcheggio poi in un bosco; Francis con24

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tinua a correre tra gli alberi, Olivier adesso è appena dietro di lui; i due corrono, respirano pesantemente, affannosamente; Olivier si lancia sul ragazzo e i due cadono a terra, lottando; Francis si dibatte ma Olivier riesce ad avere la meglio; gli sale a cavalcioni bloccandogli le mani e stringendogli le sue attorno alla gola. Il suo respiro è sempre più ansimante, il suo sguardo è fisso su Francis, che a sua volta lo guarda. Olivier ora però ha lasciato la presa, le sue mani sono a terra, da una parte e dall’altra della testa di Francis. Olivier resta un momento in questa posizione, con lo sguardo sempre su Francis, poi lentamente si allontana da lui e si siede per riprendere fiato. Dopo un po’ anche Francis si rialza e si siede accanto a Olivier. E la macchina da presa si ferma e ce li mostra così, seduti l’uno accanto all’altro, con il solo suono del loro respiro a riempire la scena. Torniamo però alla sequenza iniziale di Rosetta, quella da cui siamo partiti. Qui troviamo una figura che si pone naturalmente come metafora di “apertura”: si tratta della porta, o meglio, delle diverse porte, che Rosetta tenta di aprire per fuggire dal labirinto della fabbrica e metaforicamente dalla sua condizione di marginalità sociale. Scrive Georges Didi-Huberman in L’immagine-aperta: Una porta è molto più drammatica: anche senza arrivare ai paradossi cari a Kafka, essa ci oppone una chiusura ben più violenta, alla quale non si può opporre che il carattere tagliente del gesto che l’aprirà, cosicché il nostro corpo, mosso da questa apertura, ne varchi la soglia. Non è un caso che Georges Bataille testasse l’immagine in relazione 25

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con l’idea di una porta che va in frantumi7.

Le soglie in Rosetta non sono soltanto le porte; una soglia “immaginaria” ma allo stesso tempo concreta è quella che divide la città, dove Rosetta cerca il lavoro, dal campo di roulotte dove vive, passaggio che viene sancito da alcuni gesti meccanici, ripetuti: oltrepassare il filo spinato, che separa la città dal campeggio e cambiare le scarpe “da città” con gli stivali per poter attraversare il campo fangoso; e poi ancora la tenda che separa la “stanza” di Rosetta da quella della madre. Ma pensiamo anche alle cornici delle porte, che reinquadrano i personaggi in Il figlio o in L’enfant8; cornici che dividono, e individuano, all’interno dell’inquadratura, un campo da un fuori campo, secondo un processo costante di nascondimento e di emersione. Ancora in Rosetta, quando la ragazza guarda dallo spiraglio dello sportello del chiosco delle cialde, la macchina da presa è collocata in una posizione che, pur essendo vicino al suo sguardo, non consente allo spettatore di vedere esattamente tutto ciò che Rosetta vede. L’immagine nasconde allo sguardo dello spettatore una porzione di realtà. Esemplare in questo senso è anche la sequenza iniziale del Figlio, le cui prime parole sono, non casualmente, «Vuoi vederlo?», parole che la direttrice del Centro

G. Didi-Huberman, L’immagine-aperta. Motivi dell’incarnazione nelle arti visive, tr. it., Bruno Mondadori, Milano 2008, p. 9.

7 

«Forse ci interesserà la cornice della porta» scrive Luc Dardenne (Dietro i nostri occhi. Un diario, cit., p. 128) a proposito dei sopralluoghi nella cucina dell’appartamento di Sonia. 8 

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di Avviamento Professionale, dove lavora Olivier, gli rivolge in riferimento al giovane Francis, che scopriremo successivamente essere l’assassino del figlio di Olivier. «Non posso… Già i quattro che ho sono abbastanza», risponde Olivier. Francis non è solo un ennesimo apprendista che Olivier non è in grado di gestire, è di troppo per il suo sguardo. Olivier letteralmente non vuole e non può vederlo. La sequenza successiva ce lo mostra chiaramente: Olivier cammina nel corridoio del Centro, rallenta in prossimità della finestra dell’ufficio della direttrice e in punta di piedi cerca di guardare dall’altra parte. La visione però non è chiara: una striscia traslucida sulla porta rende difficile la visione. Nascosto da un armadio, si intravede il corpo di un adolescente seduto di fronte alla scrivania della direttrice. Del ragazzo però si vedono soltanto le mani, insieme a quelle di un uomo adulto, che firmano un documento e che entrano ed escono dal quadro mentre Olivier continua a guardare. All’improvviso il ragazzo fa per alzarsi e Olivier corre indietro nel corridoio. Come nella sequenza di Rosetta prima citata, anche qui ci troviamo di fronte a una posizione “defilata” della macchina da presa che, pur stando addosso al personaggio e accanto al suo sguardo, nasconde a quello dello spettatore la visione totale del campo. La scelta estetica prevalente del film, quella di stare costantemente alle spalle e sulla nuca di Olivier risponde a questa esigenza: è tutto un nascondere e un portare alla luce; un continuo rapporto tra campo e fuori campo: ne La promesse è in fuori campo che muore Hamidou ed è sotto i calcinacci di una casa in costruzione che viene nascosto il suo cadavere, 27

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una sepoltura che ossessionerà Igor fino al momento finale, in cui attraverso la confessione ad Assita il corpo di Hamidou ritornerà metaforicamente alla luce. Nascondere quindi l’immagine e nello stesso tempo aprirla al flusso del reale. In un altro passaggio del suo diario, Luc Dardenne, citando Bazin, scrive: «“Renoir ha capito la vera natura dello schermo, che non è affatto inquadrare l’immagine quanto nasconderne i contorni”»; per poi affermare, in una vera e propria dichiarazione di poetica: «Continuare in questa direzione. Non inquadrare l’immagine quanto nasconderne i contorni»9. Anche Deleuze, riprendendo sempre Bazin e la dualità tra mascherino e quadro, guardava all’inquadratura di Renoir come a uno spazio centrifugo, “mobile” in grado di prolungarsi e comunicare con un esterno più vasto. A questo tipo di composizione contrapponeva poi un’immagine invece centripeta, un rinchiudersi di tutte le componenti, incarnata dal cinema di Hitchcock10. I Dardenne si situano lungo questa linea renoiriana di costruzione dell’inquadratura11, che si presenta quindi come un’“immagine aperta”, come un prelievo su un’area, che eccede sempre i limiti dell’immagine stessa. E dunque la loro è un’immagine che si apre

9 

Ivi, pp. 16-17.

Cfr. G. Deleuze, L’immagine-movimento, tr. it., Ubulibri, Milano 1984, p. 29.

10 

11  Il binomio Renoir-Rossellini (modello, quest’ultimo, principale di riferimento per i Dardenne, ancor più del pur importante Bresson) è istitutivo di quella modernità cinematografica, che ha ripensato il cinema come sguardo in grado di penetrare la realtà.

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al “respiro della realtà”, diventa flusso di energia, che accerchia i corpi, sta loro addosso, li attraversa, li mette in tensione, in vibrazione, danza con loro, ne segue il respiro. È quello che accade anche nel finale di Rosetta, dove ancora una volta la dialettica apertura-chiusura permea l’immagine dei Dardenne. Concentriamoci su di essa, descrivendola dettagliatamente: Rosetta è riuscita ad avere il posto di lavoro nel chiosco delle cialde e quindi a ottenere quel riconoscimento sociale cercato ostinatamente sin dall’inizio. Per fare ciò ha dovuto però tradire il suo unico amico, Riquet. Durante il suo primo giorno di lavoro, Rosetta apre il chiosco, indossa il grembiule con il suo nome ricamato, prepara il contante nella cassa, serve i clienti, tra questi anche Riquet, che la guarda con aria di sfida. Finita la giornata, chiude il chiosco con i lucchetti e, dopo essersi assicurata di non venir seguita da Riquet, si dirige verso casa, facendo il percorso e i gesti che ormai conosciamo: attraversare la strada a doppia corsia, entrare nel bosco, cambiare le scarpe con gli stivali e giungere al campeggio delle roulotte dove vive. Qui trova la madre, ubriaca, priva di sensi, appoggiata a una roulotte. A fatica riesce ad alzarla e a trascinarsela dentro casa. Prepara un uovo bollito, esce per telefonare al datore di lavoro e rinuncia all’impiego, senza dargli spiegazioni. Tornata a casa mangia l’uovo, lascia aperto il gas del fornello e si assicura che tutte le imposte siano chiuse, dopodiché si mette a letto. La macchina da presa si ferma sul suo volto, in attesa della morte. Il rumore del gas però si ferma. Rosetta allora si rialza, indossa di nuovo gli stivali, esce e attraversa il campo portando con sé la bombola esau29

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rita dal guardiano per comprarne una nuova. Compie allora il percorso inverso, questa volta però con la bombola piena. Comincia l’ultima “stazione” della Passione di Rosetta: la bombola è troppo pesante e quindi le cade più volte; fuori campo sentiamo il rumore di un motorino che man mano che si avvicina diventa più forte; è Riquet che comincia a girare ossessivamente attorno a Rosetta, che, con sempre più fatica ma senza rivolgergli lo sguardo, continua a portare la bombola. Riquet continua a girare, Rosetta, ormai stremata, lascia cadere un’altra volta la bombola. A questo punto reagisce lanciando dei sassolini contro Riquet. Riprende quindi il suo cammino ma dopo qualche passo, cade. Singhiozzando cerca di alzarsi e riprendere la bombola ma le forze l’hanno abbandonata. E scoppia a piangere. A questo punto il rumore del motorino si è fermato. Entra in campo Riquet (di lui vediamo però soltanto le braccia che la tirano su), che l’aiuta ad alzarsi. La macchina da presa resta su Rosetta, sui suoi singhiozzi, sul suo sguardo in fuori campo verso Riquet. Se Rosetta è il racconto di una nascita, «una carrellata indietro per uscire dalla materia che rinchiude, soffoca»12, questa lunga sequenza ne è la dimostrazione. Dopo aver conquistato ciò per cui aveva duramente lottato (il posto di lavoro), Rosetta lo perde (questa volta però attraverso una sua scelta) per poi riconquistare tutto nel finale attraverso un “miracolo”. E questo miracolo, ancora una volta, non è una risoluzione preparata narrativamente ma 12 

L. Dardenne, Dietro i nostri occhi. Un diario, cit., p. 77.

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un incontro, un “evento” sancito da uno sguardo. E questo sguardo è uno sguardo fuori campo, che chiude ma nello stesso tempo riapre. È il cinema dei Dardenne, che è apertura al mondo, anche se questo è ingabbiato dai limiti stretti dell’inquadratura. È la nascita di Rosetta. È il cinema, è la vita, al lavoro.

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Etica

Luca Venzi

ETICA

Un giovane uomo e un neonato in un appartamento completamente vuoto. L’uomo stringe a sé il bambino, si sfila molto delicatamente la giacca di pelle che indossa, la lascia cadere in terra, vi adagia con cura il neonato. Sistema la giacca, divenuta un giaciglio, intorno al corpo del piccolo. Si allontana e, in una stanza attigua, resta in attesa. Per alcune migliaia di euro ha appena venduto il bambino. Il bambino è suo figlio. 1. Situato nella prima parte de L’enfant, sesto lungometraggio di finzione di Jean-Pierre e Luc Dardenne, quello appena evocato è senza dubbio uno dei brani più duri, più intensi e più radicali di tutto il cinema dei due registi belgi. Uno dei passaggi in cui quel cinema, che vi è largamente incline – o che, più in profondità, in questa inclinazione presenta uno dei suoi tratti individuanti – filma il male, così avrebbe detto Daney, senza pensare male1. O ancora, e più in S. Daney, Il carrello di Kapò, in Id., Lo sguardo ostinato. Riflessioni di un cinefilo, tr. it., Il Castoro, Milano 1995, p. 31. 1 

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generale, in cui il cinema dei due fratelli si mostra capace, una volta di più, di stare all’altezza della gravità – intollerabile, atroce – di quello che rappresenta. De L’enfant e di Bruno, il suo protagonista (l’altro enfant del film, che racconta il suo doloroso percorso per diventare un uomo, meglio, per diventare umano), sappiamo tutto. Inconsapevole – di sé, del mondo, di qualsivoglia nozione di responsabilità –, marginale, preso mani e piedi dentro un circuito asfittico di piccole truffe, commerci illeciti, menzogne, Bruno ha avuto un figlio da Sonia – Jimmy, da nove giorni – e dopo aver saputo da una ricettatrice che c’è gente che paga e bene per adottare bambini appena nati, decide, improvvisamente, mentre si trova da solo con lui, di vendere il suo, all’insaputa della madre. Il brano è duro e intenso innanzitutto in ragione dell’atto che vi viene rappresentato, ma il suo tratto elevato di radicalità si segnala soprattutto per il modo con cui quello stesso atto viene propriamente composto. Più esattamente, se una delle portanti del cinema maturo dei Dardenne – di quello cioè che comincia con La promesse, come gli stessi registi hanno sempre detto – risiede in un complesso e rigoroso lavoro di essenzializzazione delle forme, in un severo prosciugamento della scrittura, tale lavoro si presenta qui in tutta la sua esemplarità e, nello stesso tempo, proprio in ragione dello sforzo di dover stare di fronte ad alcunché di inaudito, pare estremizzare i lineamenti della propria operatività compositiva. La sequenza della vendita ha propriamente avvio con Bruno che spinge la carrozzina con il bambino in cima a una salita e si reca nel punto convenuto con i mediatori dell’operazione. Poi, guidato dal telefoni34

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no, attraverso il quale qualcuno gli dà istruzioni sul da farsi (sarà così per tutta l’operazione), fa ingresso nell’atrio di un palazzo. Domanda, mentre entra, se la famiglia cui Jimmy è destinato è danarosa, mente a Sonia, sempre via telefono, sul posto in cui si trova e su cosa stia facendo – «Siamo al parco» –, attende invano l’ascensore e sale a piedi verso l’appartamento con il bimbo in collo. È la prima volta, dall’inizio del film, che lo prende in braccio. Bruno e il bambino entrano nell’appartamento. Da qui e fino al momento in cui l’uomo, da solo, lascerà l’appartamento stesso, si dispiega un unico, teso long take. Mentre lo adagia in terra sopra la sua giacca, il bimbo – incontrollabile punta di realtà nella registrazione che la registrazione non può che accogliere, in ogni senso – fa più volte sentire la sua voce. Bruno fa qualche passo per uscire dalla stanza poi torna a muovere verso suo figlio e lo spettatore può credere, per un istante, che in qualche modo stia tornando a curarsi di lui. Si tratta invece di recuperare dalla giacca il telefono, senza il quale la vicenda non potrà essere condotta a compimento. Lasciato il bambino, il giovane si reca in un’altra stanza, anch’essa del tutto spoglia: scosta una tenda per guardare fuori quindi, evidentemente eseguendo un ordine (non ci è mai dato ascoltare la voce di chi al cellulare gli dice cosa fare), chiude la porta. La macchina da presa rimane su di lui, inquadrato in mezza figura, che aspetta. Fuori campo, mentre continuiamo a guardare il ragazzo, giungono, tutt’altro che limpidi, rumori diversi: dei passi, ancora la voce di Jimmy, un breve frusciare, ancora dei passi. La macchina da presa resta immobile su Bruno, vibra leggermente 35

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“Bruno vende suo figlio. Sceglie la morte. Come ritrovare la vita?”

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insieme al respiro dell’operatore Dervaux, trema dunque, alla lettera, assieme al nostro sguardo. Ma non si stacca dal ragazzo, che, come noi, rimane in ascolto. Il telefono squilla ancora, ma stavolta Bruno non ha bisogno di dire niente. Ritorna nella prima stanza e la macchina da presa agisce come ha già fatto prima. Resta cioè essenzialmente sulla soglia e, come al momento dell’abbandono, l’inquadratura appare intaccata o come disturbata da uno stipite in campo. La stanza è la stessa, ma sulla giacca, per terra, c’è adesso una busta ed è piena di soldi. Bruno si china, estrae il denaro dall’incarto, lo infila in una tasca della giacca che è tornato a indossare e se ne va. Dunque, filmare il male (Bruno ha scelto la morte, scrive Luc Dardenne nel suo diario2, e ci vorrà l’intero percorso compiuto dal film per farlo dolorosamente tornare alla vita) e restare saldi di fronte ad esso, meglio, restare immobili – impietriti – e in ascolto. Quando Bruno ha abbandonato suo figlio lo sguardo dei Dardenne sceglie di allontanarsi con lui. Sceglie cioè da un lato di restare accanto a Bruno, di continuare ad accompagnarlo, nonostante o proprio in ragione del suo essersi tragicamente perduto in un gesto disumano; dall’altro sceglie di ritrarsi, vale a dire di negarsi la possibilità di assistere al momento in cui un figlio è fisicamente scambiato e per sempre (così è per lo spettatore nel momento in cui il gesto di Bruno si compie) con un pacco di quattrini. Lo L. Dardenne, Dietro i nostri occhi. Un diario, tr. it., Isbn Edizioni, Milano 2009, p. 116.

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sguardo dei Dardenne qualifica dunque come del tutto immostrabile l’atto che si incarica di rappresentare e incapace di contenerlo e di darne conto per qualunque via l’intero piano visuale del film. Qualifica cioè come osceno il passaggio in cui il denaro prende fisicamente il posto del bambino e traduce alla lettera – consegnandolo al fuori campo e alla vertigine informe di un’immagine sonora – questa stessa qualificazione. Questo ritrarsi dello sguardo è allora la consapevolezza dei limiti della tenuta morale di un’immagine – che sa di non potersi portare dentro l’oscenità se non vuole in definitiva rischiare di conformarsi ad essa, se non vuole cioè prenderne la forma – e insieme, mentre lo costringe controvoglia e senza via d’uscita a restare con Bruno che aspetta, la necessità di proteggere lo sguardo dello spettatore. Che pure è fino in fondo posto di fronte al male, costretto a misurarsi con esso, a restare faccia a faccia con chi lo compie – con chi lo lascia fare – e ad ascoltarlo, tendendo faticosamente l’orecchio, sforzandosi, rumore per rumore, di dargli figura. Tutto ciò che fa riparo allo spettatore è uno sguardo – una posizione su ciò che accade, un punto di vista – che teme insieme a lui. Si tratta con ogni evidenza di una scelta morale, la cui conformazione audiovisiva – il cui portato espressivo, la cui natura estetica – si dà in una marcata immobilizzazione dell’inquadratura, la quale è tormentata e come presa d’assalto da ciò che avviene lì accanto, dietro una porta, fuori campo. Etica è dunque la scelta estetica di ritrarsi e di restare. Di restare immobili accanto al male, ma anche, come già dicevo, accanto a Bruno, che adesso è davvero perduto. È l’essere con il personaggio di cui scrive 38

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Luc3, tratto formativo cruciale della scrittura filmica dei due registi, il cui sguardo è per essenza inchiodato o come incatenato addosso agli individui di cui racconta, uno sguardo che rimane loro vicino, che li accompagna senza sosta e senza giudizio, buoni o cattivi che siano, e che qui è radicalizzato e come sospinto al limite della sua stessa capacità di permanenza. Uno sguardo con e mai uno sguardo contro4. La macchina da presa muta e immobile su Bruno non è lì per giudicarlo – uno sguardo morale si dà innanzitutto al di là di qualsivoglia preordinato moralismo –, ha timore per ciò che ha fatto, ma non lo abbandona. È con lui, con cui nessuno adesso – lo spettatore, tanto per cominciare – vorrebbe restare. Lo spettatore, al contrario, vorrebbe stare con Jimmy. Sapere di lui, trovarlo, rivederlo ancora. Lui è più perduto, più indifeso, più solo di Bruno. È stato abbandonato dal padre e non lo sa. È l’ultima fibra dell’universo, che non sa nemmeno la propria innocenza. Ma i Dardenne hanno distolto lo sguardo da Jimmy, hanno smesso di guardarlo, perché sanno che il suo abbandono non è per sempre. Sembrano dire allo spettatore di attendere – con Bruno, come Bruno, 3 

Ivi, p. 54.

«Non abbiamo mai lavorato contro i personaggi, anche quelli che possono sembrare odiosi o vili», J.-P. e L. Dardenne in Extrait d’un entretien avec les Dardenne, in J. Aubenas (dir.), Jean-Pierre et Luc Dardenne, CGRI/Ministère de la Communauté francaise de Belgique, Bruxelles 2008, p. 85. L’intervista è incentrata su Falsch, il primo (e in larga parte sottovalutato) lungometraggio di finzione dei due registi, tratto da una pièce di R. Kalisky. 4 

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la cui storia non è che l’attesa del tempo in cui potrà diventare un essere umano5 –, di rinunciare a vedere (sarebbe intollerabile) e a sapere (sarebbe inutile) e quasi promettergli di esser capaci di ripagare questa pazienza – questo patire – nel momento in cui Bruno, che ancora non ha capito ma che capisce di doverlo fare per provare ad avanzare a Sonia la sua irricevibile domanda di perdono, riuscirà a riavere suo figlio restituendo tutto il denaro incassato. Quando più avanti, nel film, egli solleva la serranda del garage in cui i mediatori della vendita hanno portato Jimmy, che ricompare adagiato su un seggiolino, lo spettatore è quasi fisicamente spinto a precipitarsi su di lui e non sa che esultare. Abbandonato dal padre, l’enfant non è stato abbandonato dallo sguardo che racconta di lui. 2. Il pensiero della forma come qualcosa che non può darsi se non come pensiero morale è di fatto ciò che muove ciascuna, dalla più elementare alla più articolata, delle istanze tecnico-formali, espressive, drammaturgiche, narrative, che abbiano posto nel cinema dei due registi, o, detto in altri termini, è ciò che muove l’intero orizzonte poietico del cinema di Jean-Pierre e Luc Dardenne, almeno, in forma pienamente compiuta, da La promesse in poi. La scrittura dei due fratelli appare infatti per intero inquadrabile

L. Dardenne, Dietro i nostri occhi. Un diario, cit., p. 134; su questo punto si veda anche Scoprire l’altro. Conversazione con i fratelli Dardenne, a cura di L. Mosso, Feltrinelli, Milano 2006, pp. 42-43.

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come ciò che si compie dentro le maglie di una esplicita tensione morale. Non c’è bisogno cioè che vi siano in gioco unità di contenuto e di senso che, in ragione di una loro patente gravità, reclamino la considerazione della giustezza del comporre (sebbene il cinema dei due registi sia percorso da cima a fondo da questioni gravi e dolentissime), come avviene, nel momento della vendita del figlio, ne L’enfant, o, ad esempio, nello stesso La promesse, in cui la caduta di Hamidou dall’impalcatura, che gli darà la morte, è ancora relegata al fuori campo. Si tratta invece, più in generale, quale che sia il motivo o la situazione cui si intenda assegnare una forma, della necessità di far tornare in immagine o quantomeno di cercare nel farsi dell’immagine, la curvatura morale che la sottende o che, più esattamente, la produce: dalla scrittura della sceneggiatura, che, a dispetto delle apparenze, è, come è noto, calibratissima e ampiamente curata, alla ripresa e al montaggio, visivo e sonoro. È la grande eredità (e forse la più condivisa, nelle diverse varianti e nei diversi gradi di consapevolezza che esso ha conosciuto) di molto cinema cosiddetto della modernità, grosso modo quello che va da Rossellini a Herzog, passando per Godard, per gli Straub, per Resnais, ecc. (e per un grande regista di frontiera come Bresson). Un cinema del quale quello dei Dardenne è per molti versi un rappresentante postumo o rigorosamente e tenacemente inattuale. Come nei grandi moderni, insomma, il cinema dei Dardenne è un cinema per cui la costruzione di un’immagine – il prodotto di un desiderio in atto che muove incontro al sensibile per manipolarlo e conformarlo a sé – si fa ancora all’in41

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crocio tra la configurazione di un’istanza espressiva e la verifica della sua lealtà, tra il dispiegarsi di un gesto compositivo e l’interrogazione della sua giustezza. Ora, come già in Bresson, del quale tuttavia il cinema dei due fratelli non conosce l’istanza propriamente mistica, questa interrogazione tende a comporsi nei Dardenne come un vero e proprio sistema operativo, assume cioè i tratti rigorosi e minuziosi del metodo, e proprio in ragione di tale severa sistematizzazione si fa capace di garantire ed esibire l’organicità, la coerenza, la riconoscibilità di uno stile. Essa è cioè ciò che promuove, meglio, è ciò che essenzialmente coincide con l’ampio e complesso processo di prosciugamento delle forme che innerva il loro cinema maturo. Dunque, la verifica metodica dell’opportunità, dell’adeguatezza dei propri gesti significa – essenzialmente dopo l’esperienza bruciante di Je pense à vous, vale a dire dopo la conformazione forzata ai canoni professionali della qualità del cinema d’autore europeo – prima di tutto verificare l’umiltà dell’atto della scrittura, l’onestà della sua pratica deformante, l’autenticità della sua azione manipolatoria. Significa asciugare, impoverire, spogliare le forme e chiuderle attorno a procedure, passaggi, motivi, luoghi perfino, severamente ricorsivi, su cui qui non mi soffermerò, essendo tutti ampiamente noti. Ciò che invece pare importante rilevare è che quello che i Dardenne praticano da La promesse in poi è per così dire un lavoro di sorveglianza della scrittura, una scrittura che non soltanto deve tenersi alla più grande distanza da ciò che si intende con lo spettacolo cinematografico, sia pure di alta fattura, come proprio è Je pense à vous, ma praticare una 42

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disciplina che la metta al riparo da qualsivoglia forma di compiacimento, di semplificazione, di compromesso, fosse anche la meno vistosa, inattesa, imprevista. «Attenzione al fascino per il movimento della caduta», «Attenzione alla mia compassione per i personaggi», «Attenzione al perdono», «Attenzione a non fare…», ecc., sono espressioni che percorrono da cima a fondo, assieme ad altre del tutto consimili, il diario di Luc6. Si tratta di trovare uno sguardo che sappia stare a buon diritto addosso e perfino dentro le cose, che possa cioè meritare di starci e per ciò stesso domandare fiducia allo spettatore e aver cura di lui («La nostra domanda non è: lo spettatore amerà il film? Ma: il film amerà lo spettatore?»7). Uno sguardo che si vorrebbe fatto delle cose che filma, sprofondato nelle cose che filma, uno sguardo minerale, che esibisca, senza riguardi, tutta la propria radicalità – «Andare fino in fondo, andare fino in fondo è la sola regola»8 – e pratichi, nello stesso tempo, il più profondo riguardo per ciò che filma e per chi si troverà a guardare. Uno sguardo estremo e insieme pieno di cura. Uno sguardo che si misuri. E che si rifiuti di configurarsi come alcunché di dato, di definito, di riconoscibile a priori. Non si tratta di vagliare preventivamente il regime delle forme per rintracciarvi le più adatte, le più efficaci, le più produttive. Si tratta invece di trovare le forme a partire L. Dardenne, Dietro i nostri occhi. Un diario, cit., pp. 11, 16, 68, 123.

6 

7  8 

Ivi, p. 46.

Ivi, p. 34.

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Luca Venzi

dal proprio posizionamento (Rossellini avrebbe detto dal proprio atteggiamento) nei confronti delle cose. Dopo la stagione dei video-documentari politici che pone al suo centro un’intensa riflessione sul ruolo dei sopravvissuti, degli sconfitti, dei perduti dalla Storia e in cui la parola (quella dei testimoni e quella degli autori, sempre poste a confronto) assume un ruolo cruciale – da Lorsque le bateau de Léon M. descendit la Meuse pour la première fois a Pour que la guerre s’achève, les murs devaient s’écrouler, entrambi sulla sconfitta delle lotte operaie in Vallonia durante e dopo l’esperienza della grande grève del ‘60-’61, da Regarde Jonathan. Jean Louvet/son œuvre, sul drammaturgo vallone9, a R… ne répond plus, sulle radio libere europee – e ancora, dopo l’incontro con la finzione di Falsch, che continua a ragionare sul dramma dell’essere sopravvissuti e la disfatta di Je pense à vous, che senza lo stile della maturità è pure saturo di motivi passati e futuri del cinema dardenniano10, si tratta adesso di non aver

Fondatore di un teatro proletario a La Louvière subito dopo lo storico sciopero dei lavoratori belgi.

9 

Vi compaiono ad esempio il gatto guardiano delle rovine industriali, come in Pour que la guerre s’achève, il carnevale di Binche, già filmato in Regarde Jonathan, la figura del negriero e il lavoro nero, che saranno al centro de La promesse, l’immigrato polacco Marek come quelli di Leçons d’une université volante, oltre ovviamente al motivo della fine dell’industria siderurgica della regione di Liegi, a Seraing, alla Mosa, ecc. È inoltre da rilevare in Je pense à vous la stessa presenza di un finale decisamente dardenniano, vale a dire marcatamente improntato a una laica e ostinata croyance, un finale che richiama in modo diretto quello, 10 

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più da filmare che tracce, resti, raggi, dice Luc11, dell’umano, dove ancora è possibile, dove ancora è necessario cercarli. Si tratta di filmare gli ultimi – i sopravvissuti al collasso della società occidentale – e di restargli accanto, di accompagnarli ad «imparare di nuovo “cosa c’è di umano nell’uomo”»12. Ciò che conta è essere con i personaggi; il racconto, l’azione desiderante delle forme, lo stile, verranno di certo, a partire da questa postura, che è una postura morale. E infatti lo stile arriva e, diversamente dalle apparenze più immediate, si diversifica, talora anche molto evidentemente, di film in film: più quieto, più disteso in La promesse, ne L’enfant, ne Il matrimonio di Lorna, nello stesso Il ragazzo con la bicicletta; più frenetico, vertiginoso, selvaggio, in Rosetta e ne Il figlio, i lavori più estremi dei fratelli; uno stile teso e ruvido sempre, e scabro, incisivo, severo. Se in Rosetta e ne Il figlio la macchina a spalla di Benoît Dervaux impazzisce a forza di tener dietro ai suoi personaggi, non si separa un istante da Rosetta e da

leggendario, di Viaggio in Italia, qui evocato attraverso l’inatteso ricongiungimento della coppia in mezzo alla frastornante sfilata del carnevale. Attorno al finale di Je pense à vous è in effetti possibile misurare in absentia la potenza della scrittura dardenniana matura: senza l’essenzialità, la severità, la concentrazione delle forme, che i due cineasti troveranno compiutamente di lì a poco, questa sequenza conclusiva non si configura infatti che come un finale sorprendentemente positivo, per certi versi meccanico e almeno in parte leggibile come alcunché di giustapposto al corpo del film e ai suoi toni e modi dominanti. 11  12 

L. Dardenne, Dietro i nostri occhi. Un diario, cit., p. 46. Ivi, p. 55.

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Olivier, è cioè condannata a una visione ristretta, asfittica, quasi cunicolare, è perché sa di non potere, di non dovere sospendere, se non alla fine del percorso, l’accompagnamento di un’ossessione: avere un lavoro ed esistere; trovarsi faccia a faccia con l’assassino e ricominciare a esistere. Rosetta, hanno detto i Dardenne molte volte, è un soldato che va alla guerra. Così pure, nel 1980, dicevano, attraverso il commento over, di Edmond, l’operaio delle fabbriche Cockerill di Pour que la guerre s’achève che dal 1961 al 1969 aveva condotto la propria battaglia politica stampando, con altri compagni di lotta, il giornale clandestino “La voix ouvrière”. Anche lui andava “al fronte” ogni giorno. Senza poter in alcun modo discutere le differenze che separano la guerra di Rosetta da quella di Edmond (scorre, tra l’una e l’altra, il disfacimento economico, culturale, antropologico della società europea degli ultimi decenni), mi interessa qui rilevare come l’azione di prepararsi, uscire di casa e (con la macchina da presa alle spalle) andare, come ogni giorno “in guerra”, azione su cui si chiudeva il documentario del 1980, diventi di fatto, con Rosetta, la forma di un intero film di finzione. Nel documentario i Dardenne avevano evidentemente domandato a Edmond di ripetere i gesti di ogni giorno e di consegnarli a una rappresentazione esemplare; adesso, intorno a quei gesti – gesti che in Rosetta, e in tutti i Dardenne maggiori, assumono una funzione decisiva – si tratta di costruire dal principio una storia. E costruire una storia – per un cinema che guardi innanzitutto alla giustezza del proprio operare – può essere un campo mille volte minato. Se nella stagione dei documentari 46

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la necessità di verificare i propri tratti formativi era evidentemente orientata e almeno in parte assorbita dall’alveo etico primario, o come dire, elementare, dell’atto documentario – si deve rispetto a chi ha accettato di essere filmato e il lavoro delle forme si incaricherà di costruire, di riconfigurare, di deformare, sapendo tuttavia di non poter mancare13 al patto originario di reciproca fiducia tra soggetto e oggetto della visione –, quando fa ingresso nella finzione il cinema dei Dardenne sa di dover per così dire alzare la guardia: attorniata dal potere invasivo, divorante del regime della finzione, in un arco che va dal maggiore investimento di capitali e dalle richieste del mercato ai luoghi di istituzionalizzazione, anche elevati, delle sue retoriche, quella necessità, assai più decisamente di quanto non accada nel documentario, corre qui il rischio di smarrirsi in ogni momento e con la più grande facilità. È qui insomma che è necessario sforzarsi di fare il vuoto e di prendere le distanze da tutte le trappole dell’esplicita, diretta configurazione finzionalizzante della scrittura: il cinema che viene con La promesse è il luogo di questo svuotamento e di questo distanziamento. E allora, per tornare a Rosetta e al suo andare ogni giorno alla guerra, il film pare trovare il proprio principio di determinazione – di più: pare consistere – nei gesti della sua protagonista, vale a dire sceglie innanzitutto di non lasciarla,

13  Anche quando, ovviamente, tale lavoro si presenti particolarmente complesso, come accade ad esempio in Regarde Jonathan, senza dubbio il documentario dardenniano dalla scrittura più esibitamente mossa, multiforme e stratificata.

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di essere fisicamente presso di lei, intento con lei, immerso nel suo volto e nelle sue azioni: sa di non dover far altro che seguirla affannosamente, metro per metro, nel suo faticoso e prolungato andare, e attorno a questo elementare principio, attorno, se si vuole, a questa costrizione severa14, non negoziabile, che il film si assegna, si compone tanto l’ordine narrativo – Rosetta è la storia di una ragazza che agisce senza posa e lo fa per avere un lavoro – quanto l’ordine stilistico del film – Rosetta è un film in cui la macchina da presa si incatena furiosamente al corpo in lotta della sua protagonista. Insomma a partire dal posizionamento fisico e morale di uno sguardo – a partire dall’etica –, il racconto si fa serrato e potente e lo stile si fa esposto, marcatissimo, perfino violento (l’estetica densa e inconfondibile dei piani sequenza e dei long take, dei movimenti di macchina rapidi e intensi, dei respiri fitti e corposi, ecc., qui, come negli altri Dardenne dal 1996 in avanti). L’etica è un’ottica, dice Lévinas, e la vertigine di senso non sfugge a Luc, che (subito dopo Je pense à vous) riporta la frase nel suo diario15. 3. Si può in ogni caso sostenere che lo sguardo di «Essere con il personaggio (Rosetta) significa: rifiutare di smarcarci, di prendere la distanza attraverso un dialogo, un altro personaggio […]. Se Rosetta è totalmente occupata, ossessionata da una cosa, dobbiamo restare in questa occupazione, in questa ossessione. […] Questo limita molto le possibilità di scrittura e forse è impossibile. Tanto meglio», L. Dardenne, Dietro i nostri occhi. Un diario, cit., p. 54. 14 

15 

Ivi, p. 12.

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Jean-Pierre e Luc Dardenne tenda a definirsi, prima di ogni altra cosa, a partire da ciò che non deve essere e che non deve fare. È proprio attraverso la costrizione, l’autolimitazione, perfino il divieto – aberrazione dell’estetica moderna, ma che al cinema, almeno da Bazin in poi, ha una tradizione moderna tutt’altro che secondaria – che, assai spesso, si producono i lineamenti portanti della composizione dei due registi. Di più, che la composizione si fa spesso capace di promuovere e conseguire i più alti e complessi importi di senso. Si può prendere ad esempio un’osservazione di Luc, subito successiva alla realizzazione de Il figlio, in cui il cineasta discute dell’impossibilità, talvolta riscontrata con suo fratello, di allargare «troppo» la visione, di inquadrare i personaggi nel paesaggio, in campo lungo, qualificando di fatto questa opzione tecnico-formale come inautentica, menzognera, ingiusta: qualcosa, dice il regista, ci costringe a rifiutarla, a non darle spazio, perché rischieremmo di dare a intendere che filmare la figura nell’aperto, «in un campo di terra e cielo», equivalga per qualche via a mentire, «come se volessimo far credere alla riconciliazione tra l’uomo e la vita»16. O ancora, si pensi alla straordinaria sequenza di chiusura de La promesse. Vi agiscono, lo si ricorderà, Assita, la moglie dell’operaio africano morto a seguito di una caduta in cantiere, e l’adolescente Igor, il protagonista del film, il quale, al momento dell’incidente, è stato costretto dal padre, sfruttatore di la16 

Ivi, p. 102.

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voratori clandestini che proprio nel giovane ha il suo primo e naturale gregario, a lasciar morire l’operaio e a nasconderne il corpo assieme a lui. Segnato dalla condotta di suo padre (che nel frattempo progetta di vendere la donna e di avviarla alla prostituzione), Igor decide improvvisamente, qualche tempo dopo l’accaduto, di fuggire con Assita e con il suo bambino, senza tuttavia riuscire a rivelare alla donna la verità su ciò che è successo a suo marito. Che, per lei, è semplicemente scomparso nel nulla, forse a causa di continui debiti di gioco. Nella sequenza finale del film, dunque, Assita, il bimbo sulle spalle, e Igor, da tempo prossimi l’uno all’altra, sodali nel duro stato di precarietà in cui si trovano, compaiono sempre vicini, in una serie di inquadrature consecutive, mentre si recano alla stazione ferroviaria. Passano su un ponte, giungono in prossimità della stazione, vi fanno ingresso: i loro corpi sono sempre inquadrati l’uno accanto all’altro. Ciò tuttavia si verifica fino a un certo punto. Si tratta del punto in cui, ormai giunti alla scala che conduce la donna e il suo piccolo al binario del treno, pagando fino in fondo ciò che gli resta da pagare, come il film aveva del resto annunciato fin dalla sua primissima inquadratura17, Igor dice alla La prima inquadratura de La promesse mostra Igor accanto al distributore di benzina presso l’officina dove egli lavora come apprendista. Sul distributore compaiono in bella vista le scritte débit e à payer. Sono i Dardenne stessi a rilevarlo, subito dopo l’uscita del film, in L’offensive des Dardenne, articolo-intervista a cura di E. Burdeau, in “Cahiers du cinéma”, n. 506 (1996), p. 46 («L’addebito è la morte di Hamidou, il prezzo da pagare è il tradimento del padre»). 17 

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donna tutta la verità: Hamidou è morto, è caduto da un’impalcatura e lui, per obbedire a suo padre, non l’ha soccorso. Un istante prima della rivelazione la macchina da presa si incarica di separare, all’interno della stessa inquadratura, i due personaggi. Un lieve movimento verso destra li divide e stringe sulla schiena di Assita, che sta salendo le scale e che ora è sola nell’inquadratura. Igor comincia qui, fuori campo, la sua confessione, che immobilizza immediatamente la donna. Con un nuovo movimento, più marcato, la macchina torna su di lui che parla e che, come prima Assita, abita adesso da solo lo spazio della visione. Il movimento che isola i corpi di Assita e di Igor dentro la stessa inquadratura si ripete più volte. In questo momento il ragazzo e la donna non possono essere inquadrati insieme. Devono restare, sono, qui ancora per qualche istante, lontani l’uno dall’altra. E soli, uno con la propria colpa, l’altra con la propria disperazione. È soltanto quando Igor ha smesso di parlare (alla schiena immobile di Assita: come dire quello che deve fissandola in volto?) che la macchina da presa, sempre dentro quest’unica, sorprendente inquadratura, torna a filmarli di nuovo vicini, anzi, uno di fronte all’altra. Soltanto adesso, infatti, come nota ancora una volta Luc18, il ragazzo può ricambiare lo sguardo della donna. E soltanto adesso, infine, i due tornano a incamminarsi insieme, questa volta a ritroso e chissà verso dove, lungo la strada che hanno percorso fin lì. Il movimento improvviso e ripetuto con cui, in 18 

L. Dardenne, Dietro i nostri occhi. Un diario, cit., p. 42.

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questo finale, lo sguardo dei Dardenne separa il ragazzino e la donna è un movimento morale. La dinamica di uno sguardo che rifiuta qualsiasi atteggiamento consolatorio. È grazie all’incontro con l’altro, con Assita, che piomba nel suo universo e lo sconvolge, che Igor diventa umano. Ed è proprio attraverso il ragazzo che Assita ha trovato la possibilità di liberarsi da un brutale sfruttamento. Ma entrambi hanno pagato a carissimo prezzo, e ciascuno ha dovuto farlo da solo, le loro conquiste. Quel movimento è per molti versi assimilabile a quello che, nella prima parte del film, giunge a separare Igor da suo padre, nel momento, filmato in piano sequenza, in cui questi costringe il ragazzo ad aiutarlo a occultare il corpo di Hamidou nel cemento. Quando gli intima di scaricare la carriola sul cadavere, la macchina da presa, attraverso una brusca, breve panoramica laterale, stacca violentemente il ragazzo, che non riesce a eseguire quell’ordine, dalla prossimità fisica con suo padre e dal mondo di costui, lasciando Igor da solo e immobile nel quadro, per poi tornare all’inverso sul padre che deve effettuare l’operazione senza di lui19. Per allontanarsi davvero e fino in fondo da quel mondo – per tradire suo padre e abbandonarlo – Igor dovrà percorrere un lungo cammino. Ci vorranno uno sforzo enorme e molto coraggio perché – il

Questo stesso duplice movimento di macchina, nel piano sequenza, è immediatamente anticipato e preparato da un movimento consimile, benché assai più compassato, che ancora descrive l’obbedienza di Igor al padre, quando l’uomo gli ordina di andare a prendere la carriola.

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film lo mostra con grande incisività in un momento successivo – il legame tra il ragazzino e suo padre è un legame profondo: è l’inquadratura fissa, stretta e assai prolungata in cui padre e figlio, uniti, cantano insieme al karaoke. È da questa inquadratura – da questa comunione – che Igor sarà chiamato a fuggire. Ora, filmare i raggi dell’umano nella deriva della società occidentale è ad evidenza un atto di resistenza. E un atto di resistenza sono pure i grandi finali dei film dei Dardenne, gli approdi di tutti i loro racconti, i quali possono dirsi tenacemente inclini alla necessità di configurare luoghi e forme di apertura, ipotesi di salvezza, vie di fuga. Tenacemente intonati all’esigenza di voler credere, al dovere di praticare una credenza in questo e non in un altro mondo. Il ragazzino caduto dall’albero ne Il ragazzo con la bicicletta, allora, non può morire. Il film respinge qui qualsivoglia dinamica sacrificale e perfino ogni tipo di importo catartico. Cyril non è Mouchette e il mondo è ovunque pieno di ragazzini come lui. Il film è lì per ricordarcelo, cioè è lì per filmare il ragazzino che si rialza. E che ritorna a vivere in quel mondo, il nostro, del quale la potenza auratica del tragico potrebbe rischiare di oscurare la condizione di inaccettabilità. L’etica dei Dardenne si compone all’interno di un più ampio rifiuto, ostinato, seppure residuale, dell’ordine dell’esistente. Vale a dire è inscritta nel bel mezzo di un orizzonte ancora e nonostante tutto fino in fondo politico. Mi sono qui soprattutto soffermato sulla definizione di un’etica della scrittura filmica dei Dardenne, per lo più per il tramite di alcuni esempi. Non mi restano che queste battute finali per richiamare almeno l’at53

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Luca Venzi

tenzione su una questione sempre opportunamente ricordata e largamente discussa, e cioè che l’orizzonte dell’etica – lungi dal comporsi unicamente, in questo cinema, come la forma, come il senso dell’estetica – si configura, più in generale, come un elemento centrale dello stesso universo poetico dei due registi belgi, il fondo oscuro dei loro racconti, o insomma il tratto in cui si rapprendono molti dei temi, dei motivi, della situazioni che sorreggono i loro film. Esso è sia la frangia irriducibile di senso che innerva il rapporto con l’altro – laddove l’incontro con l’altro è sempre ciò che disfa in via definitiva l’ordine dato e si fa carico di indicare il processo, sempre dolente, verso il recupero dell’esperienza umana –, sia il teatro di micidiali cortocircuiti della volontà, in cui si tratta di scegliere e di agire. È la regione in cui Assita e il suo piccolo frantumano l’universo di Igor, Francis spinge Olivier a calcolare fino a che punto si può giungere per comprendere la propria sofferenza, Claudy libera Lorna, Samantha corrisponde alla domanda d’amore di Cyril, ecc., e insieme la regione in cui occorre decidere se “uccidere” il padre e abbandonarlo alla catena, o lasciare annegare il solo amico che si possiede ed entrare nella fortezza dei normali. È la misura del mondo del cinema dei Dardenne, il loro modo di non smettere di credere, di continuare a fare la resistenza.

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Grazia

Alessio Scarlato

Grazia

Costruire, costruire, costruire la sorpresa impossibile da costruire. Luc Dardenne

Delle mani avanzano nel buio. Alcuni rumori di spari, il frinire di cicale. Dopo pochi istanti, una fioca luce permette di vedere che le mani sono quelle di un giovane che cammina carponi, tra le file delle poltrone di un cinema. La fioca luce arriva dallo schermo. Il giovane, i capelli corti spettinati, la figura snella, si muove con attenzione, evitando di farsi notare. Si potrebbe immaginare che stia recuperando qualcosa di dimenticato, cercando di non disturbare gli spettatori. Intravede una borsa femminile aperta. Cerca una prima volta di infilarci una mano, la ritira temendo di essere scoperto, la riavvicina. Seduta accanto alla borsa, una ragazza ci guarda frontalmente, gli occhi rivolti verso lo schermo, situato quindi in quel fuori campo in cui si trova lo spettatore. È in lacrime. 1. In poco più di due minuti, quelli del corto Dans l’obscurité (tratto dal progetto collettivo di Chacun son cinéma), i fratelli Dardenne condensano il me55

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Alessio Scarlato

todo e il problema del proprio cinema. Il metodo: quello delle mani agili di un ladro, che si fanno strada nell’oscuro. Dietro l’intelligenza di quelle mani, riemerge la lezione teoretica e al contempo morale della tradizione fenomenologica. Nel ritorno alle cose stesse, interrogando il modo del loro costituirsi alla coscienza, la loro presenza si rivela non quella di un oggetto già da sempre immerso nella luce eterna del pensiero umano, ma qualcosa che ha a che fare con il farsi spazio dell’uomo, con lo sforzo di rendere ciò che si fa incontro maneggevole, di rubare alla notte qualcosa e qualcuno che sfugga all’indistinzione, attraverso un processo continuo di figurazione e rifigurazione, come quello che deve sostenere lo spettatore di Dans l’obscurité. Ma le possibilità di quelle mani sono innumerevoli e imprevedibili: Zampe che graffiano e lacerano. Ali che sfiorano e carezzano. Non dicono mai niente prima. Calde e larghe nella stretta. Fredde e chiuse nella percossa. Dare, prendere, aprire, chiudere, proteggere, strangolare, lasciare, afferrare, spingere, trattenere, lanciare, mostrare, nascondere, legare, slegare, pregare, colpire. Eterna e inquietante incertezza delle mani1.

Dietro quell’intelligenza manuale, da cui prende forma il nostro vedere, non vi è un’essenza unitaria. Contro la lezione heideggeriana, che riconduce tali L. Dardenne, Dietro i nostri occhi. Un diario, tr. it., Isbn Edizioni, Milano 2009, p. 81.

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Grazia

manifestazioni fenomenologicamente imprevedibili e contraddittorie all’unità ontologica della tecnica, la cui essenza (destinale) sarebbe nell’ordinare e, provocando, obbligare ogni cosa, ogni pezzo reso equivalente, a farsi mezzo per uno scopo, a mostrarsi nello spazio uniforme del senza-distacco, nello spazio dell’impianto (Gestell)2, va mantenuta tale pluralità inquietante. Prima di essere principio d’ordine, quelle mani affermano una posizione irriducibile, etica. Affermano un’apertura verso l’altro, verso il fuori, che ci precede, ci assedia, ci costringe. Ci impegna. Quelle mani affermano un inter-esse. Eppure, di nuovo, proprio in quanto affermazione di un interesse, tale pluralità fenomenologica potrebbe essere figurata come l’accentuazione sentimentale di un tentativo, disperato, di contrastare umanisticamente l’unità ontologica dell’impianto, in cui piuttosto ripetutamente la volontà di potenza riafferma se stessa, riducendo tutto a mezzo per uno scopo. Il problema: si può evadere dallo schema “mezzo-scopo”? O quella pluralità fenomenologica è la manifestazione di un’essenza unitaria? Dalla musica che arriva dallo schermo, l’Andante della Sonata n. 20 di Schubert che emerge tra il suono di campanacci e l’abbaiare di cani, capiamo che la giovane di Dans l’obscurité sta vedendo il finale di Au hasard Balthazar di Robert Bresson: un asinello, dopo essere passato di padrone in padrone e come loro servo aver osservato e sperimentato sul proprio Cfr. M. Heidegger, Conferenze di Brema e Friburgo, tr. it., Adelphi, Milano 2002, in particolare pp. 21-44.

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“La conversione di un individuo nel buio della sala cinematografica. Il destinatario segreto dei nostri film”

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Grazia

corpo tutti i possibili vizi e malvagità dell’animo umano, ferito a morte, si è inerpicato su una collina ed è andato a morire su quel prato che aveva assistito alla sua nascita. Senza spostare lo sguardo dallo schermo, la ragazza prende la mano del ragazzo e se l’avvicina al volto, come per cercare in essa riparo dalle lacrime. Le lacrime di Emilie Dequenne, indimenticata protagonista di Rosetta. Le mani possono quindi non soltanto essere movimento iniziale da cui prende origine l’intenzionalità della coscienza, essere ciò che afferra, che divide e distingue; possono toccare le mani di un altro, toccare uno sguardo che si abbandona alla più totale passività. Uno sguardo in lacrime, che invoca. Ma quelle lacrime sorprendono lo stesso soggetto che cerca conforto. Sono un dono. Le lacrime sono ciò che lo liberano dalla propria stessa soggettività, dalla propria volontà di potenza. Lo denudano, lo rendono tutto vulnerabile, ne attestano l’insuperabile fragilità, per cui il proprio muovere le mani è, ancor prima che movimento intenzionale, segno di un’apertura e di un’invocazione verso quell’alterità. Il soggetto in lacrime sente di essere preceduto da quell’alterità. Le lacrime non sono prevedibili. Arrivano di soppiatto, lì dove il testimone (Emilie Dequenne al cinema, Rosetta, l’asino Balthazar) non offre più alcuna resistenza all’altro, che si può così finalmente rivelare nella sua trascendenza assoluta, non più da me decidibile, trascendenza non più riducibile a strumento predisposto dagli scopi della volontà di potenza dell’Io. Dalle mani prende corpo la nostra forza, si articola quella razionalità che, nello spazio senza distanza dello scambio cerca di affermarsi 59

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contro l’altro, costruisce la propria identità nel conflitto, ruba. Ruba lavoro, denaro, vita. Il lavoro delle mani di quel ladro può però incontrare, per grazia, l’inatteso delle lacrime, che sorprendono la sua stessa vittima. «La conversione di un individuo nel buio della sala cinematografica. Il destinatario segreto dei nostri film»3. Vi è un’etica delle mani nel cinema dei Dardenne. «Facciamo ciò che sappiamo fare. Né più. Né meno»4. Nei mesi tra l’uscita di Je pense à vous e la preparazione de La promesse, Luc Dardenne, negli appunti del suo diario, descrive la ricerca e l’acquisizione di un metodo di lavoro che li conduca all’incontro con una realtà sconosciuta, senza riportarla verso ciò che è già conosciuto e riconosciuto. «Pensare povero, semplice, nudo»5: ossia piccoli budget, attori poco conosciuti, lunghi piani sequenza, film girati in Super16, con quel caratteristico tono ruvido, “abrasivo” delle immagini, la trama sonora sempre legata alla scena, con il conseguente abbandono dell’uso di musiche extradiegetiche di commento, provenienti da un fuori campo radicale (con rare eccezioni, in particolare nel Ragazzo con la bicicletta). Una povertà che vuol dire evadere dalla forza degli stereotipi, che siano quelli imposti dall’industria in cerca di consumatori o dalle regole abituali della drammaturgia in cerca di coinvolgimenti catartici.

3  4  5 

L. Dardenne, Dietro i nostri occhi. Un diario, cit., p. 26. Ivi, p. 9.

Ivi, p. 10.

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Una povertà che, come richiamato dal “discorso sul metodo” rappresentato da quei due minuti di Dans l’obscurité, è quella che ha praticato (e pensato) Robert Bresson6. Ma il rifiuto dell’estetismo, esplicitamente rivendicato da Luc Dardenne, come già in Bresson, non va interpretato riduttivamente come il rifiuto moralistico dell’immagine seducente che la forza della macchina cinematografica propone. È piuttosto la porta stretta che va attraversata per tentare di conquistare uno sguardo fenomenologico, uno sguardo in grado di andare verso le cose stesse. E, come nella fenomenologia di area francofona (Sartre, Ricœur, ma soprattutto Lévinas), tale tentativo, con ancor più forza dopo la catastrofe morale dell’Europa durante la Seconda Guerra Mondiale, vuole smarcarsi sia dal teoreticismo di Husserl, che continua ad affermare il primato della coscienza dell’Io, sia dall’ontologia di Heidegger, che legge nel nichilismo della tecnica il destino dell’essere. Da una parte, con Husserl, il ritorno alle cose stesse, in accordo con la linea fondamentale del pensiero occidentale, riafferma la centralità del soggetto che, soltanto attraverso

Vi è una profonda consonanza tra i principi estetici che Luc Dardenne delinea in Dietro i nostri occhi e il “discorso sul metodo cinematografico” di Bresson (R. Bresson, Note sul cinematografo, tr. it., Marsilio, Venezia 1986). I due personaggi di Dans l’obscurité richiamano i due modelli d’eroe bressoniani, il ribelle “abile di mano” di Un condannato a morte è fuggito e di Pickpocket e la vittima-testimone silenziosa di Au hasard Balthazar, Mouchette, Così bella, così dolce. Puramente esteriori sono invece i legami con le regole enunciate dal manifesto di Dogma 95. 6 

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mediazioni concettuali, riesce a riconoscere la realtà dell’alterità; dall’altra, con Heidegger, l’interrogazione fenomenologica è subordinata a una riflessione ontologica che, nell’interrogare la differenza tra Dasein e Sein, non offre spiragli per decifrare e distinguere (e valutare) la pluralità dell’agire umano. Lévinas, proprio insistendo sull’intenzionalità come origine dello sguardo fenomenologico, riconosce la precedenza dell’Altro, non con l’intenzione di aggiungere una riflessione etica a complemento di un’ontologia, ma per proporre al contrario l’etica come filosofia prima7. Un volto irrompe nel nostro orizzonte, ci interpella, ci costringe, ci getta fuori dalla nostra indifferenza. L’orizzonte è quello epocale della morte di Dio. Ma rispetto al contraccolpo tentato da Nietzsche, quello di imprimere al divenire il carattere dell’essere, quello di un oltreuomo che vuole il ritorno eterno dell’identico, i Dardenne, come prima Lévinas, non vogliono riempire quello spazio vuoto. Non intendono superare esteticamente l’orizzonte del nichilismo compiuto. Nell’evasione senza ritorno (verso un Dio, verso l’Essere), le mani si muovono verso ciò che è più prossimo, verso quei corpi che resistono alla volontà di potenza dell’Io. Di nuovo, come evadere dalla logica “mezzo-sco-

Tra i testi di Lévinas, quello che arriva al maggior grado di radicalità filosofica è senza dubbio Altrimenti che essere (E. Lévinas, Altrimenti che essere o al di là dell’essenza, tr. it., Jaca Book, Milano 1983). Luc Dardenne riconosce più volte nei suoi scritti il magistero e, ancor più profondamente, la riconoscenza verso l’opera di Lévinas. 7 

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po”, dalla razionalità che riduce l’alterità a ostacolo da rimuovere, in nome dell’affermazione della mia volontà di potenza? Come rendere inammissibile l’omicidio? Lo sguardo dei Dardenne si affanna attorno a dei corpi, le cui parole non esprimono un logos che permetta di renderli trasparenti e di cui non intende indagare le psicologie, perché la vita interna dei propri personaggi nulla spiega. Vi è una verità della carne dei corpi, che spesso sfugge a essi stessi, tanto che più volte i personaggi dei film dei Dardenne, posti di fronte alla domanda sul perché delle proprie scelte irrimediabili, rimangono in silenzio o, come Samantha nel Ragazzo con la bicicletta, affermano di non sapere. Non sanno perché hanno ucciso, perché hanno rubato il lavoro, perché hanno perdonato, perché hanno venduto o abbandonato il proprio figlio, o perché hanno rinunciato alla propria tranquillità e ai propri amori per farsi genitori, come appunto Samantha. Quello dei Dardenne è uno sguardo sempre in ritardo rispetto a quelle presenze magmatiche, di cui non intende risolvere il mistero, o ancora più precisamente, di cui attesta un’impenetrabilità, una ruvidezza, quasi un volgere la schiena alle pretese della macchina da presa di penetrarne e riconoscerne le ragioni profonde, come se quei corpi resistessero alla pretesa di essere ridotti a meri mezzi, per gli scopi posti da un’interiore volontà di potenza, in grado di calcolare benefici e danni del proprio agire. Di fronte a quel mistero, lo sguardo in ritardo dovrà mantenere il pudore, e lì dove si manifesta l’irrimediabile e l’irripetibile, di fronte al sesso e all’omicidio, non potrà pretendere di mantenere uno sguardo in grado di superare la distanza 63

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rispetto a quell’alterità, non potrà più assumere l’apparente neutralità del documentario che ripete eternamente l’unicità (e la grazia) della vita. Non può documentare l’omicidio, pena la sua ripetizione. Guardare fenomenologicamente, dedicarsi alle apparenze senza distruggerle, secondo quella torsione etica che è propria dell’attestazione testimoniale, ma al contempo riconoscendo la trascendenza che è l’esistenza di ognuno rispetto allo sguardo del soggetto. Non si può documentare l’omicidio, esito estremo del lavoro delle mani, che cancella l’alterità. Si potrà però raccontarlo. 2. Quei corpi e quelle mani sono corpi e mani di esclusi. Di uomini e donne senza appartenenza, neanche quella di un corpo collettivo subalterno. Di lavoratori senza classe, che non devono affermare una razionalità “minore”, perché la polis li ha esclusi, non li vede. «L’operaio è diventato un uomo solo, il membro di una specie in via d’estinzione»8. Sono gli immigrati clandestini, sono i precari senza lavoro, i ladri di piccoli furti. Lì dove questa condizione di esclusione, all’interno di un mondo dove il posto di Dio è rimasto vuoto, nei romanzi dostoevskiani è stata attraversata in un cammino senza sosta per una San Pietroburgo apocalittica da giovani intelligent, che insistevano sulla scelta ultima tra Dio e il terrorismo nichilistico; lì dove questa condizione di esclusione dalla cittadinanza ha investito le vittime del totalitarismo e nella forma più estrema il popolo 8 

L. Dardenne, Dietro i nostri occhi. Un diario, cit., p. 12.

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ebraico durante la persecuzione nazista9: è questo l’orizzonte all’interno del quale l’etica, e con essa lo sguardo dei Dardenne, nell’epoca del nichilismo compiuto, deve muoversi. Da una parte, ricordando il contraccolpo tentato da Dostoevskij, sotto il segno di un cristianesimo pensato apocalitticamente; un cristianesimo inteso come religione della libertà che ancora denuncia lo scandalo del male ma che è all’origine al contempo del furore rivoluzionario dei giovani nichilisti. Un orizzonte nel quale gli eroi dostoevskiani ricapitolano lo scontro ideologico della modernità, nelle chiacchiere senza sosta e al di fuori di ogni convenienza sostenute nelle bettole e nelle feste, anticipando nei propri scontri la rottura rivoluzionaria, l’uscita dal corso ordinario della storia. Dall’altra, cercando di risalire all’origine della catastrofe morale e politica dell’Europa, cercando di capire la costruzione di quei secolari processi di esclusione che hanno condotto alla Shoah. In questo caso, l’esclusione non è il tentativo estremo di un soggetto (rivoluzionario) di fondare su di sé l’immagine della polis, ma è piuttosto all’inverso l’esito di una desoggettivizzazione, la riduzione di quell’individuo a nudo corpo10.

Il primo film di fiction dei Dardenne, Falsch, è dedicato alla memoria della Shoah. È rimasta allo stato di progetto l’idea di un film sulla deportazione degli ebrei del Belgio, da realizzare con la collaborazione di Gérard Preszow.

9 

Il riferimento ineludibile, oltre a Lévinas, è quello dato dal concetto di paria in Hannah Arendt e dalla rilettura biopolitica offerta dal pensiero di Agamben. 10 

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Questi due movimenti di esclusione si incrociano nello spazio d’azione del cinema dei Dardenne. I loro personaggi, da Rosetta a Bruno de L’enfant, da Lorna a Hamidou de La promesse, non sono i giovani intellettuali dostoevskiani, ma neanche i lavoratori “coscienti”, che possano dar vita a un soggetto rivoluzionario, né vi è altra entità collettiva (nazione, genere) di cui sentirsi parte. Nonostante siano lavoratori, ossia individui colti nella capacità di massima autonomia, di massima manifestazione della propria umanità, sono ridotti alla sopravvivenza, uno in guerra con l’altro. Sono costretti a rubarsi il lavoro l’un l’altro, come Rosetta con lo “sconosciuto” (ma in cerca di amicizia) Riquet. Devono ripetere incessantemente il proprio nome nel buio della propria solitudine, perché qualcuno ne riconosca l’identità, come sempre Rosetta prima di addormentarsi. Sempre più spinti ai bordi della polis, li vediamo aggirarsi ai margini di una città dal profilo industriale, in strade di periferie anonime, spesso al confine di una foresta nella quale la forza residuale del diritto, del patto che stringe insieme una comunità, pare del tutto perdersi. Proprio questo spazio, che da una parte lascia gli individui senza il freno del diritto e della pena, atto a contenere la potenza distruttiva dei diversi soggetti agenti, in quanto li riconduce alla loro animalità, permette d’altro canto che questi esclusi, questi paria della società, possano esprimere ciò che viene loro negato, la possibilità di essere appunto agenti, la possibilità di dar inizio al nuovo. Rosetta vive in un camper con la madre, in un’area di sosta ritagliata all’interno di una foresta. I dolori per la fame e per il freddo spesso sono così 66

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forti che Rosetta deve interrompere il suo continuo affannarsi; deve stendersi sul letto e riscaldare la pancia con il phon. In quelle contrazioni c’è il segno, non riconosciuto dalla stessa Rosetta, di questa pulsione animale, di questo bisogno di dar inizio al nuovo. È ai margini dello spazio animale della foresta che Lorna uccide, temendo che le venga portato via il bimbo che tiene in grembo; un nascituro probabilmente soltanto immaginato, in quanto non visibile agli occhi dell’ecografia. Il segno ambiguo delle contrazioni, soltanto accennato in Rosetta, si fa centrale nel Matrimonio di Lorna. Lorna evade soltanto per pochi minuti, evade in quella notte d’amore con il giovane tossico Claudy con cui è sposata al fine di ottenere la cittadinanza, e in quell’incontro per grazia (e non per interesse) avrebbe appunto concepito il nuovo. È in Lorna che i Dardenne raggiungono il punto massimo d’incandescenza del problema. In quello scambio senza retribuzione, in quel donarsi senza perché, e quindi in quell’agire libero, fondato su nient’altro che su se stesso, c’è la dimensione politica, la dimensione di soggetto agente, che paradossalmente la polis stessa nega, imponendo ai propri cittadini l’accesso alla cittadinanza soltanto attraverso il diritto e dietro di esso, attraverso la capacità di imporre la forza del proprio interesse. Lorna aveva reclamato il proprio diritto alla cittadinanza attraverso un finto matrimonio con Claudy, attraverso il denaro. Dopo quell’incontro, inutili saranno i suoi tentativi di mediazione con i trafficanti di documenti. Dovrà fuggire, inoltrarsi nella foresta, cercare riparo, trovare per il proprio bimbo il fuoco che lo tenga in vita; e in un capanno disabitato, come nella grotta di Betlemme, Lorna 67

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si prepara a una gravidanza per immacolata concezione11. Da una parte, è il segno di una discesa nella follia, provocata dalla violenza delle contrattazioni, degli scambi, di cui si è fatta mediatrice. Ma dietro questa spiegazione razionale, ferma all’evidenza (e alla violenza) dei fatti, possiamo riconoscere una trama più complessa. La capacità di dar inizio al nuovo è sì fenomeno animale prima ancora che politico, ma farsi madre (e padre) non è risultato di un mero meccanismo biologico. Lorna è madre, in quanto è stata capace di interrompere la macchina della contrattazione e dello scambio, in quanto si è donata e ha perciò riconosciuto la trascendenza dell’altro. E di converso, non è il patrimonio genetico che costringe Bruno a riconoscere la propria paternità nell’Enfant, ma soltanto il dono, l’azione non prevedibile di sentirsi responsabile come un padre verso il suo giovane compagno di furti, aiutandolo a non annegare, anche qui con un gesto di attenzione quasi animale, imprevedibile e pressoché inavvertito nel fluire degli eventi, e quindi andandosi a costituire dopo un furto andato male, per poter così aiutare tale complice di fronte alla legge. Soltanto dopo quest’assunzione di responsabilità, Bruno potrà finalmente farsi padre di quel neonato che poche ore prima aveva addirittura venduto, ossia aveva reso disponibile al meccanismo pervasivo e mortifero, all’impianto dello scambio per interesse. Anche in questo caso, è la scoperta animale

A. Cervini, La modernità del sacro. Il matrimonio di Lorna di Luc e Jean-Pierre Dardenne, in “Fata Morgana”, n. 10 (2010), pp. 217-222.

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di una genitorialità che non deriva dalla necessità biologica né dalla forza della legge: Bruno, pur indagato, trova degli alibi di fronte all’accusa di vendita del proprio figlio e si costituisce, pur essendo scampato all’inseguimento della polizia. L’assunzione di responsabilità ci impegna e al contempo ci sorprende. Bruno finalmente chiederà di Jimmy, sentendo un legame con lui anche quando questi non è presente al suo sguardo, come nel colloquio in carcere con la compagna Sonia. Il ladro Bruno, l’abile di mano, sarà finalmente sorpreso dalle sue stesse lacrime. Quell’immacolata concezione di Lorna si prolungherà di converso nella maternità, nuovamente non biologica, di Samantha (Il ragazzo con la bicicletta). Ma lì dove con Lorna riconosciamo la follia del dar inizio al nuovo, con Samantha ne riconosciamo la gioia, la felicità, la grazia nel senso innanzitutto corporeo. In una sequenza apparentemente inarrestabile di conseguenze, provocate da un suo furto, Cyril, il ragazzo con la bicicletta, è morto. Di nuovo, un furto, il lavoro delle mani, in nome del desiderio di Cyril di essere riconosciuto da un padre “putativo”, un giovane malvivente, dopo che il padre biologico lo aveva abbandonato. E per quello sforzo di essere riconosciuto, il ragazzo non aveva risposto in occasioni precedenti alla chiamata telefonica di Samantha, la giovane parrucchiera che lo aveva preso in affidamento. Il desiderio di rivalsa, di vendetta del figlio del giornalaio da lui malmenato, spinge Cyril a nascondersi nella foresta, a salire su un albero, quindi a cadere esanime dopo il lancio di una pietra. È a terra senza vita, ma improvvisamente chiama Samantha, la donna che lo ha scelto senza perché come figlio. 69

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Lo ha scelto, senza che possa addurre al ragazzo una motivazione razionale. «Non so», risponde quando il ragazzo le chiede le cause della sua scelta, e nulla sappiamo del suo passato esistenziale o biologico che possa essere adotto a causa psicologica della scelta. Lo ha scelto, ma al contempo è stata scelta dal ragazzo; anche qui letteralmente per caso, le è piombato addosso mentre lei visitava il centro nel quale soggiornava, ma quell’iniziale richiesta di aiuto, la richiesta di poter trascorrere da lei i fine-settimana, si è trasformata nel bisogno animale di quella protezione, di quella cura. Quel ragazzo si muove senza sosta sulla sua bicicletta, ma trova continuamente porte chiuse. Dopo la notte del furto, sarà Samantha ad aprirgli di nuovo la porta della sua casa, a riconoscerlo come figlio. Nella foresta, in questo spazio sottratto alle leggi della polis, Cyril è a terra come corpo morto, ma al suono di quella chiamata si rialza di scatto, in modo innaturale, come se Samantha per grazia lo avesse riportato in vita, lo avesse fatto finalmente nascere. 3. Il posto di Dio è vuoto e tale deve rimanere. I Dardenne non fingono che l’ospite inquietante possa essere messo alla porta. Ma il ritorno nel loro sguardo della sofferenza muta degli occhi di Balthazar non è soltanto traccia delle visioni adolescenziali e dell’educazione cattolica che li ha formati. Se l’evasione è apertura alla novità, come rispettare il dolore della vittima? Esso infatti è risarcito dalla pena, dal rispetto della Legge che condanna. E che quindi inchioda al passato, incatena, vendica. Ma d’altra parte, se tale dolore venisse dimenticato, quella vittima si farebbe 70

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sacrificale, e riconfermerebbe il dispositivo dello scambio, della riduzione di ogni essere a “strumento in vista di”. La comunità potrebbe infatti ritrovare la sua unità attorno al corpo sacrificale che interromperebbe la violenza della vendetta. Se il riconoscimento della propria responsabilità e della trascendenza del volto (e del corpo) dell’Altro trova spazio nella sorpresa della nascita, il problema del perdono rischia di rappresentare uno scacco insormontabile12. Chi può, in luogo della vittima, per-donare? Di nuovo, contro la prospettiva sacrificale su cui insisteva ancora Bresson (e prima di lui Dostoevskij), trova qui senso la visione nietzscheana dell’eterno ritorno dell’identico, il fanciullo danzante che gioca nel cosmo e che abbandona qualsiasi risentimento e spirito di vendetta, il fanciullo che vive innocente nell’eterno ritorno di un presente libero dal peso del passato. Leggendo gli appunti di Luc Dardenne, dedicati alla preparazione de Il figlio, ci ritroviamo di fronte a questo plesso problematico, apparentemente irrisolvibile. Ci può

Sul tema del perdono, il dibattito contemporaneo ha trovato in Arendt il riferimento ineludibile (Vita Activa, tr. it., Bompiani, Milano 1994, pp. 174-182), proseguito, in connessione con la riflessione aperta da Mauss sull’antropologia del dono, da Derrida (Perdonare, tr. it., Raffaello Cortina, Milano 2004) e Ricœur (La memoria, la storia, l’oblio, tr. it., Raffaello Cortina, Milano 2003). Sullo sfondo, il perdono impossibile della Shoah, su cui hanno riflettuto a lungo anche Jaspers (La questione della colpa. Sulla responsabilità politica della Germania, tr. it., Raffaello Cortina, Milano 1996), Jankélévitch (Perdonare?, tr. it., La Giuntina, Firenze 1987) e soprattutto J. Améry (Intellettuale a Auschwitz, tr. it., Bollati Boringhieri, Torino 1987). 12 

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essere un perdono non sacrificale e che al contempo mantenga la memoria, ricordi lo scandalo della sofferenza di una vittima innocente? Un perdono al di là del sacrificio e dell’oblio? Olivier, un falegname abile di mani, accoglie, dopo un iniziale rifiuto, nel suo centro di recupero giovanile, Francis, un adolescente, assassino di suo figlio, che ha appena finito di scontare la pena. I Dardenne spesso riprendono Olivier dietro la nuca, come se fosse impossibile capire se il suo gesto di disponibilità estrema nasconda la possibilità di consumare la vendetta, trasmettendo perciò un senso di minaccia, di catastrofe imminente. Olivier continuamente incrocia le linee spigolose di muri e corridoi, torna indietro, lo sguardo si perde dietro degli occhiali spessi da miope, ma i suoi occhi sono attenti, capaci di misurare le distanze al centimetro. Le sue parole, come le sue mani, sono tutte concentrate nel dar forma al legno, senza mai allontanarsi dal contatto col corpo della materia; come attrezzi, indicano, distinguono i diversi tipi di legno, delimitano, segano, smussano angoli. Mettono ordine. Misurano. Ma proprio la potenza di quegli strumenti, l’ammasso di tavole e ceppi di legno danno la sensazione della forza insita in quelle mani e in quello sguardo. Una forza che può anche uccidere. Lo sguardo dei Dardenne ci costringe passo dopo passo, come in Dans l’obscurité, a un processo di continua rifigurazione. Così scopriamo che dietro quel rifiuto iniziale di Olivier, spiegato con motivazioni razionali (il numero già alto di giovani assistenti nella sua officina di falegnameria), c’era piuttosto l’insostenibile condizione di lavorare insieme all’assassino del figlio. A sua volta, Francis 72

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inizierà a lavorare con Olivier senza sapere che il proprio insegnante è il padre del bambino da lui ucciso. Anche le domande della ex-moglie non spiegano le motivazioni di Olivier. È un atto di orgoglio spropositato, come se volesse affermare la propria capacità, pressoché divina, di resistere a tutto? O sta cercando di avvicinarsi al colpevole per vendicarsi, al di là dei limiti imposti dalla Legge? L’ex-moglie, per sopravvivere all’irrimediabile, ha cercato assicurazione nei confini stabiliti dalla Legge della polis: ha accettato la sentenza, ha sciolto la famiglia, ha iniziato una nuova vita con un nuovo compagno, è rimasta nuovamente incinta. Olivier invece rimane legato a quel passato. Non sono tanto le sue parole a farcelo capire; Olivier soltanto con l’ex-moglie torna sull’omicidio. Lo intuiamo dalla sua postura, dall’intenzione di non perdere l’equilibrio, grazie alla cintura degli attrezzi che gli tiene dritta la schiena, grazie ai suoi continui esercizi addominali. Se con Rosetta è la polis a escludere, perché non riconosce la sua dignità di lavoratrice, e quindi la sua umanità, con Olivier è la memoria a escluderlo. Olivier è solo, pur continuamente lavorando insieme ad altri, perché il suo tempo è rimasto fisso a ciò che è irrecuperabile, a una memoria privata che la polis ha già giudicato e superato. La parte finale de Il figlio porta alla luce che Olivier e Francis sono abbandonati, porta alla luce che la memoria li esclude dalla vita-in-comune. Olivier dà appuntamento a Francis per andare insieme da soli nella foresta, in modo che il giovane apprendista, come i suoi compagni prima di lui, impari a riconoscere i diversi tipi di legno. Di nuovo, la foresta come 73

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spazio al di là della Legge della polis. L’ascendenza biblica dei racconti dei Dardenne ne Il figlio tocca uno dei punti massimi di incandescenza. Dietro quel viaggio, scorgiamo le sagome di Abramo e Isacco (Genesi, 22, 1-19). Ma qui il posto di Dio è vuoto, o ancor meglio, occupato dalla memoria della vittima innocente. Quel ricordo ordina a Olivier-Abramo di offrirgli in legamento la vita di Francis-Isacco13. Ma quell’offerta è onorata da Olivier non uccidendo il ragazzo, anche se la scortesia e i modi bruschi con i quali spesso lo tratta lasciano intuire che questa pulsione si agita dentro di lui. Olivier, mentre insegna a riconoscere le venature del legno, a trasportare assi in equilibrio sulle spalle, a bruciapelo rivela a Francis di essere il padre della vittima. Il ragazzo scappa spaventato, si nasconde tra le cataste di legno, grida di aver pagato il proprio debito, fugge da Olivier che, raggiuntolo e stesolo a terra, sembra volerlo strangolare. Mentre si stavano avviando in automobile verso la foresta, Olivier si era fatto raccontare, senza rivelare il motivo della sua curiosità, le cause del delitto. Era emersa la “banalità” di quell’omicidio (come forse di ogni omicidio), nonché l’assenza di un effettivo pentimento di Francis. Olivier non perdona Francis. E del resto, neanche Dio potrebbe perdonare l’imperscrittibile, l’omicidio di una vittima

13  Va sottolineato, anche in riferimento alla lettura che proporrò, che la tradizione ebraica indica l’episodio del sacrificio di Isacco con il termine di ‘aqedah, ossia “legamento”, a partire dall’espressione di Genesi 22, 9: Abramo legò (wajj’aqod) Isacco e lo pose sull’altare sopra la legna.

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Grazia

innocente, né un pentimento potrebbe modificare l’irrimediabilità di quell’atto. Ma al contempo Olivier non può ucciderlo. Come l’angelo di Dio ad Abramo sul monte Moria: Non colpire il ragazzo. Non fargli alcun male (Genesi, 22, 12). È proprio l’obbedienza alla memoria del figlio, di quella vittima innocente, che gli fa sentire l’impossibilità dell’omicidio. È un’impossibilità dettata non dal rispetto della Legge della polis, ma prima di tutto dal riconoscimento animale di un legame con quel ragazzo. Un legame che Olivier non scioglie, come potrebbe accadere se ristabilisse l’equilibrio con il passato uccidendo, secondo il rigore di una logica dell’equivalenza. Ma, pur non perdonando, non ignora questo legame e si (lo) libera da un passato che inchioda, che costringe i due a “ripeterlo”, rimanendo separati dal presente sempre incompiuto, dal presente della vita-incomune della polis. Olivier decide per grazia, senza essere obbligato da un “passato biologico”, ossia da un legame genetico, di farsi padre di colui che egli non può né perdonare né uccidere. Risponde all’appello di Francis, che gli aveva chiesto di essere il suo tutore; ma gli aveva risposto già prima, quando si era fatto insegnante di falegnameria per giovani usciti dal riformatorio, quando come un genitore si era preso l’impegno di trasmettere e condividere il sapere delle mani, il senso della misura e delle distanze. Quelle mani possono quindi non soltanto rubare (il lavoro, il denaro, la vita), ma costruire insieme. Essere genitori è aprire al futuro, far nascere, ma al contempo è sciogliere dal peso del passato. L’episodio di Isacco ci mostrava che il legame di un 75

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Alessio Scarlato

padre con un figlio, prima ancora che una necessità biologica (Abramo), è la risposta a un appello, è una scelta libera, fondata sull’invisibile, ossia su nulla (Dio). In questo caso, è risposta all’appello del passato. Olivier non cancella il passato, non accetta che tutto, anche l’omicidio, possa essere oggetto di uno scambio tra il colpevole e la polis, come se l’unicità e l’irrimediabilità di quell’atto possano essere superate. Ma resiste altresì alla forza obbligante del passato, come se, nel momento in cui tale passato venisse ricordato, obbligasse per necessità naturale a essere onorato attraverso un’equivalenza “economica” tra il delitto e la pena. E quindi, rispetto all’omicidio, soltanto una vendetta equivalente, un nuovo omicidio, permettesse di superare ciò che è stato. Francis, dopo essere fuggito, ritorna al camion di Olivier, lo aiuta a caricare le assi, e insieme legano con un filo il telo che li copre. Come un padre e un figlio, condividono il lavoro delle mani.

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Immanenza

Andrea Inzerillo

IMMANENZA

Rosetta è stesa a letto. Prova a convincersi della possibilità di una vita normale, parla tra sé e sé ripetendosi delle frasi. Non è tornata nella roulotte con la madre, si è fermata da Riquet, suo possibile amico. Poche sequenze prima gli ha chiesto della sua truffa nei confronti del padrone, ma non ha intenzione di denunciarlo: Riquet è l’unica persona che è riuscita a farla sorridere. Tu as trouvé un ami. J’ai trouvé un ami. È una scena statica, e ci dice molto sul senso della ricerca della protagonista del film. Rosetta cerca una stasi (più che una posizione) possibile. La sequenza successiva le negherà ogni possibilità: il padrone la licenzia, a causa del ritorno del figlio. Non c’è stasi per Rosetta, non c’è possibilità: cadrà nel buco, un’altra volta, com’era caduta nello stagno cercando di salvare la madre. A casa di Riquet, stesa nel letto, prova a convincersi che sia possibile non cadere più; ma non è così, il buco è lì ad attenderla, meno accogliente di quegli anfratti nella terra che nascondono i suoi unici averi, le poche armi di cui dispone per affrontare la vita: gli stivali contro il fango e le 77

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Andrea Inzerillo

lenze per pescare. La caduta di Riquet nel fiume è l’inizio dell’incrinatura nel loro rapporto, l’inizio di quel processo di deterioramento che è la vita di cui parlava Francis Scott Fitzgerald, che mette fine a ogni possibile alternativa. Il cadere, la caduta, è un tema essenziale della produzione dei fratelli Dardenne. Ma se il loro cinema fosse politico a causa delle ambientazioni delle storie che racconta, o dell’importanza conferita all’aspetto sociale di tali ambientazioni, la caduta rappresenterebbe qualcosa di simile a un declassamento; e invece è sempre innanzitutto una caduta fisica, un movimento che corrisponde principalmente all’impossibilità di stare in piedi. Sono esemplari da questo punto di vista le sequenze di Rosetta che presentano il rapporto tra la protagonista e sua madre, una relazione tutta basata su un sostegno fisico privo di qualsiasi introspezione psicologica. Le ultime sequenze del film, in cui la madre non riesce più a reggersi in piedi da sola, o la caduta finale di Rosetta sulla bombola del gas, il sostegno di Riquet e la rimessa in piedi ne sono ancora testimoni. Si può riassumere tutto il cinema dei fratelli Dardenne in questa figura: i personaggi non fanno altro che cercare di stare in piedi, ma rischiano a ogni istante di cadere. La caduta è certo anche morale: fare la spia per ottenere il posto di lavoro non rende orgogliosa Rosetta, ma la ricerca della stasi è un’istanza di vita o di morte che può spingere a compiere qualsiasi gesto. E la contrapposizione tra l’instabilità della macchina da presa portata a mano e la ricerca della stasi non fa che sottolineare il senso di precarietà e la ricerca di un rifugio possibile. Nulla di dogmatico, in questa 78

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Immanenza

precarietà: si tratta semmai di una ricerca etica fatta di piccoli passi, di approssimazioni e di distanze, di prese di misura. Ci sono almeno due modi di accostarsi all’opera dei fratelli Dardenne. Il primo consiste nel concentrarsi sul contenuto delle loro opere, lamentandone talvolta una certa uniformità, un’unica grande variazione sul tema che costituirebbe un identico scenario di dolore, sfruttamento, sopraffazione (o viceversa la scoperta di una salvezza possibile, la ricerca del riscatto, la resistenza nonostante tutto). L’altro focalizza sul metodo del loro cinema, un realismo radicale erede del cinema documentario che rappresenta in effetti la loro origine cinematografica, e che ha senza dubbio determinato il loro cammino nel cinema di fiction. Entrambi questi modi dicono molto dell’opera dei cineasti belgi ma presentano anche limiti significativi, e soprattutto mancano qualcosa di essenziale, che tiene insieme le due cose: l’idea dei fratelli Dardenne, ciò che caratterizza il loro cinema e che ci permette di riconoscere un loro film sin dalla prima sequenza. È in questo connubio di metodo e contenuto che risiede la forza del loro progetto, che è politico in ragione dell’innovazione che ha apportato nella storia del cinema più che nelle storie che vengono raccontate. Vorrei provare a nutrire queste riflessioni di due spunti esterni, che vanno presi come indicazioni di percorsi possibili. Una breve considerazione di Jacques Rancière a proposito di Europa ’51 di Roberto Rossellini potrà esserci utile; si tratta di una riflessione sulla sua personale storia di spettatore, ma riguarda in generale il ruolo dello spettatore e della discutibile contrapposizione tra 79

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Andrea Inzerillo

“È una carrellata indietro per uscire dalla materia che rinchiude, soffoca, assorbe ogni tentativo di inquadratura. Rosetta o la nascita di un’inquadratura. Un’inquadratura o la nascita di Rosetta”

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Immanenza

film progressisti e film reazionari, che lo spettatore marxista riusciva a giustificare soltanto con un’ipotetica sfasatura tra il messaggio del film e l’ideologia dell’autore. Il superamento di questa impostazione porta Rancière a un’affermazione che ci interessa qui in modo particolare: Nessuna combinazione tra i classici della teoria marxista e i classici del pensiero sul cinema mi ha permesso di decidere del carattere idealista o materialista, progressista o reazionario della salita o della discesa di una scalinata. Nessuna combinazione permetterà mai di determinare i criteri che al cinema consentono di distinguere ciò che è arte da ciò che non lo è, né di decidere del messaggio politico di una disposizione di corpi all’interno di un’inquadratura o di un concatenamento tra due inquadrature1.

La materialità del cinema dei Dardenne sembrerebbe apparentemente contraddire quest’affermazione. Si potrebbe affermare, cioè, che il metodo dei fratelli Dardenne abbia molto a che vedere con la costruzione di un cinema profondamente materico, se non propriamente materialista. Questa definizione riguarderebbe non soltanto i temi trattati, ma anche un certo modo di posizionare la macchina da presa, la sua vicinanza ai personaggi, e una certa orizzontalità della narrazione, che è tecnica ma anche stilistica, ed J. Rancière, Scarti. Il cinema tra politica e letteratura, a cura di A. Inzerillo, tr. it., Pellegrini, Cosenza 2013, p. 28.

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Andrea Inzerillo

è particolarmente chiara se paragonata ad esempio alla verticalità (tecnica e stilistica) che caratterizza altri tipi di cinema, cui faremo riferimento in seguito. Provare a determinare se è la scelta dei temi a definire un metodo narrativo o se è piuttosto uno sguardo sulla realtà a fissare la scelta dei temi rimane tuttavia un esercizio ozioso. Tout se tient. Si potrebbe verificare come questa tenuta dell’orizzontalità sia ravvisabile in ognuno dei film dei Dardenne, nei quali l’assenza di qualunque forma di plongée è frutto di una precisa visione che porta ogni superamento dell’orizzontalità a coincidere con un’incrinatura significativa nell’economia del film. È il caso de Il matrimonio di Lorna quando, dopo la morte di Claudy, Lorna è riuscita finalmente a trovare un locale adatto per aprire il bar con il suo fidanzato. L’incrinatura coincide con l’allontanamento di Lorna dalla macchina da presa precisamente in occasione della salita di una scala, a seguito della quale Lorna si accascia a terra, in preda a un malore che lei attribuisce a un’inattesa gravidanza, e che avrà conseguenze decisive sul suo futuro. E tuttavia si potrebbero facilmente trovare anche dei controesempi, e una battaglia filologica di questo tipo non ci porterebbe molto avanti nella comprensione del cinema dei fratelli Dardenne. Il termine stesso di orizzontalità, d’altro canto, non è forse particolarmente felice, anche se spero renda il senso di quel che con esso intendiamo. Uno sguardo sulla realtà che determina una visione non è altro che un metodo. Un’interpretazione umanistica del cinema dei fratelli Dardenne porterebbe a leggere i loro film alla luce di un momento di svolta, dell’avvento di una grazia, come se 82

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Immanenza

questo materialismo fosse intrinsecamente votato al superamento di se stesso fino a identificarsi con una sorta di materialismo spiritualista. Non è un caso, forse, che gran parte della critica cattolica privilegi questa lettura del cinema dei Dardenne, che certo è presente e significativa. Ma la grazia dei Dardenne è una grazia tutta umana, come esprime il pianto finale di Rosetta; è quel che Luc Dardenne riassume in una sola frase: «filmare l’apparizione dell’umano»2. Se «la vita spirituale è essenzialmente vita morale e il suo luogo privilegiato è l’economia»3, come scrive Lévinas, e se la formula che Luc Dardenne aggiunge (la vita economica, luogo della vita morale, ossia spirituale) può riassumere non soltanto il percorso di Rosetta o di Lorna, ma quello di tutti i protagonisti dei loro film, ecco allora che il raggiungimento di una grazia umana deve necessariamente passare attraverso procedimenti materiali, e che per far emergere lo spirito è necessario filmare la lettera e scavare nella materia umana. È quanto afferma anche un critico come François Bonnaud, quando sottolinea come l’estrema concretezza del loro cinema sia dovuta a una necessità, «come se per accedere al metafisico bisognasse passare necessariamente per il fisico»4. Bisognerà valutare se lo scopo di questo cinema abbia a che vedere con la metafisica o piuttosto con l’instaurazione di una politica dello spazio, una poL. Dardenne, Dietro i nostri occhi. Un diario, tr. it., Isbn Edizioni, Milano 2009, p. 45.

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3  4 

Ivi, p. 52.

Contenuti speciali del dvd Le Fils, Arte Video.

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litica dei corpi, che è fatta di movimenti e di misure, di distanze e di approssimazioni, e di considerazioni che riguardano la costruzione di vite singolari che aspirano a un’universalità. Con La promesse abbiamo preso coscienza del fatto che l’inquadratura si definisce con il corpo dell’attore o dell’attrice. Prima della Promesse, anche per i nostri documentari che in realtà erano molto teatrali, i personaggi arrivavano in uno spazio preesistente. Ora tentiamo di fare in modo che lo spazio sia definito da ciò che lo riempie. Abbiamo scoperto tardivamente questo principio, e ha cambiato molte cose. Sotto questo rispetto, si può dire che La promesse sia stato il nostro primo film5.

La politica dello spazio è particolarmente sensibile in un film come Il figlio, in cui è tutta questione di giusta misura: nei rapporti di filiazione, nelle questioni del lavoro, metonimizzati dalle assi di legno e dagli strumenti di misurazione della falegnameria. I Dardenne filmano qui un percorso di avvicinamento, che si conclude nel deposito finale, dove il lavorare assieme e le assi di legno sanciscono un contatto avvenuto, momento in cui la macchina da presa può lasciare i personaggi. Ma anche un terrain vague come quello in cui si muove Rosetta segna, come è stato giustamente notato, «la sfida di raccontare una storia filmando quasi esclusivamente il volto e il corpo di J.-P. e L. Dardenne in Il cinema di Jean-Pierre e Luc Dardenne, a cura di L. Mosso, Edizioni Falsopiano, Alessandria 2005, p. 21.

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Immanenza

una persona»6, una storia che non va letta in chiave sociale o più precisamente marxista, ma in senso più ampiamente umanista. Il legame tra i personaggi dei film dei Dardenne non è dato dal cristallizzarsi di posizioni o di centri focali ma dal movimento, dall’irrequietezza tra i poli (che non sono mai poli fissi), dalla precarietà esistenziale che è instabilità della macchina da presa e movimento frenetico dei personaggi. Uno dei temi intorno ai quali si potrebbe raccogliere il lavoro dei Dardenne è quello della fuga, come movimento incessante che caratterizza la più parte dei personaggi dei loro film. La vicinanza che si costruisce è dunque spaziale (il tipo di focale che si utilizza) ed emotiva (nella costruzione del rapporto tra i personaggi), e implica spesso una messa alla prova, un tradimento, una lotta. Bisogna imparare a conoscere l’altro, imparare a fidarsi. I rapporti umani (siano essi lavorativi o familiari) seguono un vero e proprio percorso di apprendistato che passa per regole precise, rapporti numerici, misure esatte. Il rapporto si costruisce anche attraverso continue incrinature, che sono anche ovviamente incrinature nelle riprese (la macchina a mano). I corpi che i fratelli Dardenne riprendono sono colti nel momento di sottrazione a una trappola: «movimento fisico che è movimento mentale. Ricerca di un posto, di un luogo dove andare. Finalmente riposare la mente!»7.

C. Chatrian, Se ancora di uomo si può parlare. Il cinema politico dei fratelli Dardenne, in Il cinema di Jean-Pierre e Luc Dardenne, a cura di L. Mosso, cit., p. 38.

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L. Dardenne, Dietro i nostri occhi. Un diario, cit., p. 55.

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Questo posto è per Lorna la baracca in mezzo al bosco, per il ragazzo con la bicicletta la figura di Cécile de France. La grazia umana è il luogo in cui riposare la mente, il punto di fuga dall’angoscia. Ma il movimento incessante della macchina da presa è anche ciò che allontana lo spettro del film sociale e lo cala immediatamente nell’atmosfera del thriller: chi sarà il nuovo assunto che inquieta tanto Olivier, facendoci percorrere freneticamente gli angoli ciechi dell’edificio in cui si trova la falegnameria? Perché lo segue anche fuori dal lavoro? E ancora: chi sarà il figlio del titolo? Si tratterà del feto di cui ci parla l’ex compagna di Olivier, sarà forse il nuovo assunto, o si tratterà ancora d’altro, fino a svelarci infine che un film così intitolato è in realtà un film incentrato sulla figura paterna? Qui ci piaceva soprattutto che non si sa che cosa pensi, non si sa cosa aspettarsi da lui. Il suo sguardo è sempre ambiguo; anche se dipende da come lo si filma: se lo si filma frontalmente meno, ma se lo si prende di tre quarti, quasi di profilo, è veramente spiazzante. In questo abbiamo anche utilizzato molto i suoi occhiali: se lo riprendi di tre quarti la zona tra le lenti e l’occhio, questa sfasatura dello sguardo, è molto interessante. Non sapere cosa farà Olivier era uno dei punti essenziali del film8.

Una politica dello spazio comporta anche una J.-P. e L. Dardenne in Il cinema di Jean-Pierre e Luc Dardenne, a cura di L. Mosso, cit., pp. 28-29.

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Immanenza

messa in discussione di una certa concezione del realismo cinematografico. Lo stile dei Dardenne non può certo essere considerato “realista”, se con questo termine si intende l’abolizione di un filtro tra la macchina da presa e il reale. Le inquadrature dei Dardenne sono al contrario fortemente costruite, il loro è un cinema “iperfinzionale”, frutto dell’idea che il reale stesso sia sempre effetto di una costruzione. Se si pensa a Seraing, che gli appassionati sanno essere l’ambientazione privilegiata dei loro film, si avrà la dimostrazione della costruzione di una città ideale, un luogo atopico, mai mostrato se non per sottrazione9. La costruzione di quelli che sembrano scenari “sociali” passa nei loro film per il disfacimento dell’ambientazione “sociale” e per l’attenzione alla costruzione del personaggio che opera su tale sfondo. E questa costruzione, che non è data da un approfondimento psicologico, questa invenzione fisica dell’aspetto dei personaggi non risponde affatto ai criteri di un cinema-verità, ma semmai a quelli di un cinema profondamente autoriale, un cinema che elabora uno sguardo fortemente codificato e per nulla diretto nei confronti della realtà. Esso è semmai una contestazione diretta di un concetto ingenuo di realtà: ecco il senso delle operazioni tecniche messe in campo dai Dardenne. Nel 2007 i fratelli Dardenne realizzano un piccolo omaggio al cinema, un cortometraggio presentato

C. Chatrian ha giustamente sottolineato l’assenza della città dai loro film, in Se ancora di uomo si può parlare. Il cinema politico dei fratelli Dardenne, cit. 9 

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Andrea Inzerillo

a Cannes e inserito all’interno di un film collettivo per il centenario della nascita del cinema: un piccolo gioiello che ci dice molto sulle ossessioni e sulla tradizione all’interno della quale collocare la loro cinematografia. Si è soliti leggere il cinema dei fratelli Dardenne nel solco di una tradizione cui essi fanno esplicito riferimento, e alla quale questo cortometraggio dimostra tutto il proprio debito, vale a dire il cinema di Robert Bresson. Da quest’ultimo i Dardenne riprendono non soltanto il rigore etico delle inquadrature, ma anche una precisa concettualizzazione del proprio lavoro, che in almeno due occasioni trova una dimensione pubblica e condivisa. I libri di Luc Dardenne cui abbiamo fatto riferimento sono al contempo diari di lavorazione, quaderni di appunti in cui il lavoro della macchina da presa è messo nero su bianco, e ci permettono di accedere al controcampo teorico di quel che vediamo nei film, il grande portato di riferimenti, riflessioni, contrattempi e condizioni produttive cui i registi hanno fatto fronte durante la lavorazione dei loro film. Ispirandosi allo stile aforistico degli scritti di Bresson, anche questi diari di lavorazione sono programmaticamente asistematici, per quanto rappresentino una sequenza di considerazioni spesso più lunghe di quelle di Bresson. L’utilizzo di questi libri è di fondamentale aiuto nella comprensione profonda del loro lavoro, e ci consente di provare a modificare l’apparato concettuale utilizzato finora alla luce del secondo dei nostri spunti esterni. Paul Schrader ha dedicato uno studio teorico molto importante alla questione del trascendente nel cinema, focalizzando la sua attenzione su tre autori: 88

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Immanenza

Ozu, Dreyer e Bresson. La domanda alla luce della quale intendiamo proseguire il percorso è dunque quella sulla trascendenza del cinema di Bresson e sulla sua eredità nel cinema dei Dardenne. Vogliamo provare a sperimentare una nuova dicotomia concettuale, quella fra immanenza e trascendenza, perché convinti che il cinema dei fratelli Dardenne, profondamente debitore nei confronti di quello di Bresson, abbia ben poco a che vedere con lo scenario teorico che fa riferimento alla trascendenza. Ma che cosa significa pensare un cinema dell’immanenza? Che cos’è l’immanenza al cinema? Il mondo “superficiale” e “materialistico” di Bresson non dà ragione né esaurisce l’angoscia dei suoi personaggi, scrive Schrader, perché quest’angoscia ha un’origine ultraterrena. I protagonisti di Bresson […] non riescono a esprimere la propria angoscia. Sono condannati alla solitudine: nulla sulla terra placherà la loro passione interiore, perché essa non ha un’origine terrena, ed è per questo che non reagiscono al proprio ambiente ma piuttosto a quel sentimento dell’Altro che sembra molto più vicino. Di qui la scissione: il protagonista di Bresson vive in un ambiente totalmente immanente, insensibile, materialistico, eppure, piuttosto che adattarsi, obbedisce a qualcosa di totalmente estraneo ad esso10.

P. Schrader, Il trascendente nel cinema. Ozu, Bresson, Dreyer, a cura di G. Pedullà, tr. it., Donzelli, Roma 2010, p. 66.

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Le ragioni dell’angoscia dei personaggi dei Dardenne sono invece tutte terrene e tutte sociali. Ma la risposta a queste situazioni non è affatto sociale: non è una risposta marxista e non è la costruzione di un cinema “alla Ken Loach”, per dirla con una formula. Se la situazione ha un’origine sociale (il lavoro, i soldi, ecc.), abbiamo già visto come essa non sia analizzata in chiave sociale, bensì in un modo che trascende il dato. E il punto di raggiungimento della grazia coincide sempre con la fine dell’interesse dei Dardenne nei confronti del loro personaggio, che abbandonano precisamente nel momento in cui non ha più “bisogno d’aiuto”. La domanda che ci poniamo è dunque semplice: si può chiamare immanenza questa grazia senza trascendenza che caratterizza il cinema dei fratelli Dardenne? La questione ne suscita altre immediatamente connesse, che potremmo formulare così: è possibile determinare, a partire da alcuni procedimenti formali, il delinearsi di uno stile dell’immanenza? Ed è possibile farlo a partire dal cinema dei fratelli Dardenne? Stando alla lettera schraderiana dovremmo rispondere di no, per una semplice ragione: per identificare uno stile c’è bisogno innanzitutto di una casistica diversificata, che un solo esempio non può rappresentare. Possiamo però provare a verificare l’esistenza di alcuni elementi che potrebbero portare a uno stile dell’immanenza, un’ipotesi che potrebbe essere ritrovata in altri esempi, alla luce della costruzione di uno stile dell’immanenza. È bene anche esplicitare la nascita di questa ipotesi, che deriva dall’uscita nelle sale a breve distanza di due film diametralmente opposti, per filosofia, tecnica, proget90

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Immanenza

to: The Tree of Life di Terrence Malick e Il ragazzo con la bicicletta di Jean-Pierre e Luc Dardenne. Mi è immediatamente sembrato possibile identificare il primo come una prosecuzione possibile nel cinema contemporaneo di quello che Schrader definiva stile trascendentale, e questo non soltanto rispetto al tipo di tecniche utilizzate, che prediligono un uso prevalentemente verticale della macchina da presa, ma soprattutto in riferimento al tipo di coinvolgimento che un’operazione come quella portata avanti da Malick richiede, e cioè una richiesta di fede totale, un totale affidarsi al regista che indaga le origini della vita e dispensa la sua verità, una Verità alla quale si crede o che si rifiuta in toto, non diversamente dal meccanismo tecnico della scissione di cui parla Schrader a proposito del Gusto del sakè di Ozu, in base al quale lo spettatore, preparato da un percorso preciso nei minuti precedenti, assiste a un evento decisivo che ne decide il futuro: Se uno spettatore infatti accetta questa scena – se la trova credibile e significativa – vuol dire che accetta molte altre cose. Accetta una concezione filosofica che permette la scissione totale […]. Ammette, a conti fatti, che esiste un fondamento profondo di compassione e consapevolezza a cui uomo e natura possono attingere solo a tratti. Si tratta, è ovvio, del trascendente11.

Il meccanismo della scissione ha la funzione di 11 

Ivi, p. 41.

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attivare nello spettatore una cosa come un’accettazione: ed è solo attraverso quest’accettazione che lo spettatore può accedere al trascendente. Provando a restare lontani da qualunque giudizio di valore, mi sembra che il meccanismo del film di Malick sia precisamente di questo tipo: se mi segui ti aprirò le porte del Paradiso, che altrimenti rimarranno chiuse. Il cinema di Malick chiede fede allo spettatore, domanda di affidarsi totalmente affinché sia mostrata la Verità. Ecco perché, per chi (gli) crede, il regista riesce in un’operazione che un cinema dell’immanenza non potrebbe mai nemmeno formulare: un’indagine sulle origini della vita. E questo rappresenta l’esatto opposto di un film come Il ragazzo con la bicicletta, che alle origini della vita contrappone le origini di una vita, quella di Cyril, dodicenne indomito, scontroso, irrequieto, e della sua dolorosa condizione di abbandono familiare. I registi costruiscono il loro film come un’indagine tutta orizzontale sui movimenti del corpo e dell’anima di questo ragazzino, che rimanda alle figure infantili per nulla pacificate di un certo cinema francese (dall’Antoine Doinel dei Quattrocento colpi alla banda irrequieta di Zero in condotta). Ma la forza del film risiede nella capacità di toccare vette altissime di pathos a partire da una storia del tutto lineare e da una direzione volta all’essenzialità. A partire da uno sfondo “sociale”, i Dardenne riescono a trascinare il basso della concretezza più assoluta verso l’alto delle emozioni che coinvolgono lo spettatore, mettendo in atto un’operazione di astrazione materica. Contro la spiritualità del film di Malick si pone allora la materialità di quello dei Dardenne; alla trascendenza di uno sguardo sulle origini della vita 92

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Immanenza

si oppone l’immanenza di una vita singolare, quella di Cyril, corpo in fuga dalla famiglia, dall’infanzia, dalla violenza.  La materialità degli avvenimenti non è dunque trascendibile verso uno scenario ulteriore, come avviene secondo Schrader nei film di Ozu, Dreyer e Bresson. Lo scenario di Seraing rimane tale non soltanto perché manca un piano di salvezza possibile, o perché il tentativo di sottrarsi a quella “impossibilità di qualunque possibilità” di cui parla Lévinas e che Luc Dardenne riprende nel suo libro Sur l’affaire humaine12 è sempre votato allo scacco, ma anche perché lo spessore delle cose non serve a glorificare nessuno scenario Altro, e la grazia che si può raggiungere è una grazia tutta dell’al di qua, perché non esiste nessun Altro né c’è superficie che non sia quella dell’immediatamente visibile e maneggiabile. O ancora, per il fatto che i personaggi dei film dei Dardenne sono sempre, come abbiamo detto, variazioni su un tema, o per dirla con Spinoza modi di una sostanza unica. L’ultimo scritto di Gilles Deleuze, L’immanenza, una vita, risulta allora illuminante se letto in rapporto al cinema dei fratelli Dardenne. La desoggettivizzazione dei personaggi sarebbe funzionale alla consistenza di un campo trascendentale, ovvero alla rivelazione di un piano di immanenza che potremmo sperimentare nei loro film. Come nel caso di Dickens evocato da Deleuze, la variazione sul tema che i personaggi dei film dei Dardenne rappresenta non è altro che l’estrinsecazione di una vita, che è 12 

L. Dardenne, Sur l’affaire humaine, Seuil, Paris 2012, p. 21.

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Andrea Inzerillo

quella di Cyril, o di Rosetta, o di Igor, una vita che è lotta e resistenza e che nella lotta e nella resistenza può trovare appiglio. La vita dell’individuo ha lasciato il posto a una vita impersonale, e tuttavia singolare, che esprime un puro evento affrancato dagli accidenti della vita esteriore e interiore, ossia dalla soggettività e dall’oggettività di ciò che accade. “Homo tantum” […]. È una ecceità, che non deriva più da una individuazione, ma da una singolarizzazione: vita di pura immanenza, neutra, al di là del bene e del male, poiché solo il soggetto che la incarnava in mezzo alle cose la rendeva buona o cattiva. La vita di questa individualità scompare a vantaggio della vita singolare immanente a un uomo che non ha più nome, sebbene non si confonda con nessun altro. Essenza singolare, una vita…13.

Una vita singolare, fatta di nomi precisi che non si confondono con nessun altro, ma che è vita immanente di uomini senza nome, ecceità, essenze singolari, pura potenza di vita. Rifiutando qualunque compromesso con le finzioni di altri mondi, il cinema dei fratelli Dardenne ha il potere di calarci in maniera efficace in questo scenario di “pura vita”, gettando così le basi per un cinema dell’immanenza.

G. Deleuze, L’immanenza: una vita…, tr. it., in “aut aut”, n. 271-2 (1996). 13 

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Lavoro

Alessia Cervini

Lavoro

In una falegnameria, un gruppo di giovani apprendisti impara come sollevare sulle spalle un lungo asse di legno e poi salire su una scala a pioli. Il capomastro dice loro come fare: devono inginocchiarsi, equilibrare il peso dell’asse sulla spalla, poi ruotarsi e salire sulla scala tenendo il corpo il più possibile vicino ai gradini, in modo da non sbilanciarsi all’indietro. Il respiro affannoso e tremolante della macchina da presa mostra il ripetersi di gesti e movimenti che i ragazzi devono compiere attenendosi a regole che non ammettono deroghe e suonano, sulla bocca di colui che le pronuncia, come imperativi veri e propri. Chi sbaglia cade; tutti i ragazzi ce la fanno, tranne uno, Francis. In una delle sequenze centrali de Il figlio – quella appena descritta – risiede probabilmente il senso ultimo che il lavoro assume in tutto il cinema dei Dardenne. Non è un caso, allora, che una sequenza praticamente speculare a questa si ritrovi anche in Rosetta, il film che forse più e meglio di altri mette tematicamente al suo centro la questione del lavoro. In seguito al licenziamento di una giovane donna, 95

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Alessia Cervini

Rosetta può essere finalmente assunta nel chiosco di dolci in cui da tempo desiderava lavorare. Prima di cominciare, il padrone le mostra in cosa consista la sua mansione e come dovrà svolgerla. Dovrà sollevare grandi sacchi di farina, ordinati in colonna l’uno sull’altro, abbracciandoli poggiarseli sulle ginocchia e infine, dopo averli adagiati sul bordo di un enorme recipiente, cominciare a versarne il contenuto lentamente e con movimenti circolari regolari. Le due sequenze gemelle (in entrambe, fra l’altro la figura del datore di lavoro è interpretata dallo stesso attore, Olivier Gourmet) si richiamano apertamente l’una con l’altra, non solo per il fatto evidente che entrambe mostrano due giovani alle prese con il loro primo lavoro. C’è in gioco molto di più; per esempio il modo in cui i corpi dei due giovani attori diventano la materia viva su cui la macchina cinema lavora a sua volta. C’è infatti un punto, in considerazione del quale quello del cinema può essere assimilato a qualsiasi altro lavoro: il fatto, cioè, che esso convochi a sé corpi la cui forza è uguale e contraria alla forza che l’occhio della macchina opera su di loro. Non c’è altro modo di descrivere i corpi che popolano i film dei fratelli Dardenne (fino a quello ancora in preparazione, Deux jours, une nuit, in cui la battaglia per il lavoro, tornerà, ancora una volta, attraverso la storia e il corpo di una donna), se non aggettivandoli come “resistenti”. Così, allo stesso modo, è “resistente” un cinema che con simile materiale lavora. Nelle due sequenze descritte, i corpi di Francis e Rosetta devono resistere alla forza di pesi che potrebbero schiacciarli e buttarli a terra. A quella forza quei corpi hanno, però, una forza contraria da 96

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Lavoro

opporre: è ciò che ogni lavoro fisico rende evidente, suggerendo a chiunque lo compia la straordinaria e orgogliosa bellezza del saper rimanere in piedi. In un appunto datato 24 novembre 1993, Luc riporta sul suo diario una citazione tratta da uno scritto – L’Iliade o il Poema della forza – di Simone Weil, in assoluto una nelle fonti più riconoscibili nell’opera dei Dardenne. Scrive la Weil: «La forza è ciò che rende chiunque le sia sottomesso una cosa. Quando sia esercitata fino in fondo, essa fa dell’uomo una cosa, nel senso più letterale della parola, poiché lo trasforma in un cadavere»1. Ecco dunque cosa c’è in ballo nella risposta che corpi animati, come quelli di Francis e Rosetta, devono saper opporre alla forza che su di essi operano corpi senza vita, come un asse di legno o un sacco di farina: la possibilità che si trasformino essi stessi in cose pure e semplici. E se il lavoro altro non è che la misura fisica di questa risposta, si capisce in che senso proprio nel lavoro sia in gioco la possibilità che qualcosa come la vita, o l’umanità stessa dell’uomo, si dispieghi e prenda forma. Ed in effetti, la lotta per la vita che tutti i personaggi dei Dardenne intraprendono è, in fondo, e a tutte le età, una battaglia di resistenza nei confronti di forze che vorrebbero annientarli, così come testimonia il corpicino di Cyril, il giovanissimo protagonista de Il ragazzo con la bicicletta, che dopo una rovinosa caduta da un albero si rialza, con un movimento contrario a quello della forza di gravità che lo ha spinto a terra. L. Dardenne, Dietro i nostri occhi. Un diario, tr. it., Isbn Edizioni, Milano 2009, p. 21.

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Alessia Cervini

“Il film deve essere al tempo stesso l’imminenza dell’omicidio e il suo impedimento”

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Lavoro

È per questo che l’educazione al lavoro assume i toni di una vera e propria educazione alla vita e i film dei Dardenne sono tutti, ciascuno a suo modo, piccoli, grandi romanzi di formazione, perché ciascuno di essi racconta di riscatti, più o meno possibili, che passano quasi sempre attraverso l’acquisizione di un’attitudine al lavoro, soprattutto se quest’ultimo è inteso nel modo che andiamo dicendo. Rosetta e Francis, per esempio, cercano nel lavoro il modo per affermare la loro esistenza, affrancandosi da una condizione di estrema indigenza e dagli errori commessi in passato. Per Rosetta la prospettiva di un lavoro è ciò che la allontana dall’idea della morte, dopo un primo tentato suicidio; la speranza di costruire per sé un’esistenza diversa da quella di sua madre, costretta dall’alcolismo a una vita quasi per nulla dissimile da quella di un vegetale; la possibilità di costruire un rapporto umano non garantito da legami di parentela, come quello che, sebbene rocambolescamente, unisce Rosetta e il suo collega di lavoro, Riquet. Per Francis, il lavoro in falegnameria è l’occasione per riscattarsi da un delitto grave e per certi versi inemendabile come l’omicidio di un ragazzino innocente. Uscito dal riformatorio, Francis trova infatti, nell’impiego da apprendista, una via per allontanarsi dall’errore e costruire un rapporto difficile, ma a suo modo autentico, con l’uomo che solo molto più tardi Francis scoprirà essere il padre del bambino che ha ucciso cinque anni prima. Cominciare a lavorare significa, tanto per il protagonista de Il figlio, quanto per Rosetta, cominciare o ricominciare a vivere. Viceversa, è la perdita del posto di lavoro a far 99

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Alessia Cervini

sì che Fabrice, un operaio dell’industria siderurgica belga, si dimostri incapace di sostenere il suo ruolo di marito e sopratutto quello di padre, in Je pense à vous, uno dei film in cui l’eredità della grande tradizione del cinema moderno (in questo caso, nello specifico, del Neorealismo italiano), che i Dardenne prendono idealmente in consegna, è così forte da diventare per certi versi ingombrante2. Accade così, per esempio, che nel “ri-matrimonio”3 di Fabrice e sua moglie che si ritrovano, nella sequenza conclusiva del film, non si possa non rivedere il finale celebre di Viaggio in Italia, in cui i coniugi inglesi si ricongiungono, quasi per un sorta di miracolo “laico”4. Dopo Come noto, sono stati i Dardenne stessi a prendere le distanze dalla loro produzione precedente a La promesse. In una pagina del suo diario, datato 1 gennaio 1992, a proposito del film appena concluso, Luc scrive: «Usciamo lentamente dall’infelice avventura di Je pense à vous. Fu un malinteso sin dall’inizio. Non sapevamo cosa volevamo e ci eravamo convinti di saperlo. Mai più un’esperienza simile», cfr. L. Dardenne, Dietro i nostri occhi. Un diario, cit., p. 13. 2 

Con l’espressione “rimatrimonio”, intendo riferirmi, ovviamente, a una categoria concettuale che Stanley Cavell ha utilizzato, occupandosi, nello specifico, della commedia hollywoodiana classica. A questo proposito, si confronti: S. Cavell, Alla ricerca della felicità. La commedia hollywoodiana del rimatrimonio, tr. it., Einaudi, Torino 1999. 3 

È stato Gilles Deleuze a parlare per primo del riavvicinamento dei due coniugi, nel film di Rossellini, come del risultato di un atto di “credenza” (si confronti, a questo proposito, G. Deleuze, L’immagine-tempo, tr. it., Ubulibri, Milano 2004). Voglio richiamare, però, anche le pagine che al film dedica Roberto De Gaetano, in uno dei suoi recenti libri: Tra-due. L’immaginazione cinematografica dell’evento d’amore, Pellegrini, Cosenza 2008, p. 69 e sgg.

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Lavoro

un lungo periodo di distanza, Fabrice e sua moglie si incontrano per caso, in occasione di una festa di paese. Il primo a riconoscere l’uomo fra la folla è il figlioletto. Dopo aver visto a sua volta il piccolo, Fabrice cerca con lo sguardo sua moglie, la trova. Prima i due si salutano da lontano, poi si avvicinano, si abbracciano e prendono a baciarsi, circondati da una folla scomposta e allegra di gente che sembra essere lì proprio per festeggiare la loro riunione. Ma è soprattutto il protagonista maschile del film che si sovrappone, negli occhi degli spettatori, al padre senza speranze di Ladri di biciclette, con il quale Fabrice condivide l’esperienza di un uomo che vede sottrarsi, dopo aver perso il lavoro, la sua stessa dignità, il senso profondo della sua paternità, o più in generale la sua umanità, rinunciando, almeno per un momento, alla possibilità di essere esempio per qualcuno, e in primo luogo per suo figlio. Che al lavoro, infatti, ciascun uomo attribuisca almeno una parte della costruzione della propria soggettività è ben chiaro sin dal profilarsi di una capacità apparentemente semplice, ma che sembra già definire la condizione specifica di un uomo, nella misura in cui egli si dimostri capace di opporre resistenza alla forza operata sul suo corpo da altri corpi, animati o inanimati che siano. Stiamo parlando, evidentemente, della possibilità che qualcosa come un sentimento di dignità prenda la forma, incarnandosi in essa, di un’intera esistenza o, ancor più semplicemente, si manifesti nel gesto di colui che, cadendo, sa in ogni caso come rialzarsi e poi rimanere ostinatamente in piedi, esattamente come fanno i protagonisti dei film dei Dardenne, o come facevano, in fondo allo stesso 101

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modo, i tanti anti-eroi del cinema neorealista. Forse essi non erano in grado di agire e modificare a loro favore le condizioni in cui era dato loro vivere, ma sapevano pur sempre rimanere vigili o “veggenti” che dir si voglia, capaci comunque di camminare sulle loro gambe. «Rosetta cammina fra i soldi, il lavoro, l’acqua, l’uovo, la branda, la cialda e il gas. Geografia dei bisogni dell’economia primaria. Cammina sul bordo del precipizio, cammina per non cadere»5. Rosetta è un po’ come Accattone: baraccata nella periferia grigia di una anonima città del Belgio, così come quel giovane pasoliniano vive ai margini di una città, Roma, che nel processo della sua forsennata e disorganica espansione colpevolmente dimentica chi non riesce a star dietro quella corsa, dal momento che sulle sue fragili gambe riesce solo a barcollare. La descrizione di Accattone, in una pagina del diario di Luc, assomiglia a quella – qui appena ricordata – della giovane donna, protagonista dell’omonimo film dei Dardenne: «Ho rivisto (in dvd) Accattone. Accattone è stanco. Al limite dello sfinimento. Cammina, cammina molto, sempre vacillante, sul punto di crollare»6. Accattone infine cade e muore da ladro, nella condizione di chi, senza lavoro, non è riuscito a riscattarsi. Ben lungi dall’essere semplicemente lo strumento attraverso cui provvedere al proprio sostentamento, il lavoro è infatti il luogo in cui l’esser uomo dell’uomo si rafforza e si completa, attraverso l’acquisizione 5  6 

L. Dardenne, Dietro i nostri occhi. Un diario, cit., p. 68. Ivi, p. 118.

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cosciente di un comportamento che è il frutto del riconoscimento di regole che, nel momento stesso in cui smettono di apparire semplicemente come imposizioni vuote e incomprensibili, divengono, per chi a esse si attiene, la misura di quella distanza che separa il sé dall’altro, come garanzia del carattere per nulla scontato di ogni rapporto umano. Per questo, le regole che il capomastro impartisce ai suoi apprendisti suonano, nella sequenza da cui siamo partiti, come imperativi categorici veri e propri, perché da esse dipende non solo la buona o cattiva riuscita di un lavoro, ma addirittura la possibilità stessa che qualcosa come un lavoro sia dato. Educare al lavoro significa dunque, a ben vedere, educare alla relazione che, ancora una volta, si costruisce fra corpi, dotati in prima istanza della loro intrinseca materialità. Ciò appare, con ogni evidenza, proprio in un film come Il figlio, in cui tale capacità relazionale è apertamente connessa alla facoltà, di cui ogni buon falegname deve essere dotato, di calcolare distanza e misure, equilibri e punti di stabilità. In una sequenza dello stesso film, Francis e il suo datore di lavoro si ritrovano, dopo una giornata faticosa, fuori da un ristorante in cui i due hanno comprato qualcosa da mangiare. Si appoggiano a una macchina e restano in silenzio, mentre mangiano il loro pasto. Dopo qualche attimo il ragazzo rompe il ghiaccio ed esordisce così: «È strano come abbia capito quanto sono alto solo guardandomi». In precedenza, l’uomo aveva potuto assegnare a Francis la sua tuta da lavoro, semplicemente indovinandone a occhio tutte le misure. «È l’abitudine», risponde. Così il ragazzo continua: «E da questa pietra fino alla ruota della 103

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macchina, quanto misura?». L’uomo risponde con precisione a questa e ad altre domane analoghe che il ragazzo, quasi sfidandolo, gli pone. È in quel preciso momento che Francis riesce per la prima volta a nutrire, nei confronti dell’uomo che ha di fronte, una sorta di incondizionata fiducia (la stessa fiducia che tiene legato un figlio a suo padre), cominciando a costruire con lui una relazione che, allo stesso tempo, non è dissimile da quella che mette in connessione una pietra e la ruota di una macchina, dal momento che entrambe si sostanziano in una distanza che, misteriosamente, è garanzia del loro stesso poter entrare in contatto. «Due corpi divisi da qualcosa di ignoto. Due corpi attratti da qualcosa di ignoto. Gesti, parole, sguardi che misurano incessantemente la distanza che li separa e allo stesso tempo la potenza del segreto che li avvicina»7. Solo perché non sono la stessa cosa e si mantengono distinti fra loro, due corpi possono entrare in relazione l’uno con l’altro. La vista è, fra i cinque sensi, quello attraverso cui passa la misurazione di questa distanza; il cinema l’arte che la registra e in questo modo diventa strumento atto alla costruzione di una rete di relazioni fra le forze che i corpi coinvolti operano vicendevolmente fra loro, attraendosi o, viceversa, respingendosi. Il tatto, al contrario, è lo strumento che permette di azzerare tutte le distanze, facendo in modo che due corpi si sfiorino, si tocchino, entrino in contatto fra loro. Se allora è attraverso lo sguardo che prende forma, profilandosi, lo spazio di 7 

Ivi, p. 91.

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ogni rapporto, è attraverso le mani, soprattutto, che, all’interno di questo medesimo spazio, la possibilità di una relazione può assumere la concretezza di un tocco. E il cinema sta ancora lì a guardare. Bressonianamente abbondano, infatti, nel cinema dei Dardenne, immagini di mani che si sfiorano, o toccano soldi (come nella scena iniziale de Il matrimonio di Lorna; omaggio per nulla celato a uno dei capolavori di Robert Bresson, Pickpocket), fango, arnesi da lavoro, quasi a voler sottolineare l’importanza di un commercio e di uno scambio, la cui bruta materialità nasconde, in verità, qualcosa che ha a che fare con la spiritualità stessa dell’uomo, una sfera che i Dardenne non hanno timore di invocare, mostrandone l’intima connessione con la morale. «La vita spirituale è essenzialmente vita morale e il suo luogo privilegiato è l’economia», scrive così Emmanuel Lévinas, in un passaggio citato, ancora una volta, da Luc nel suo diario8. Se è vero, infatti, che il termine economia porta inscritto in sé il riferimento a una regola (nomos), che diventa garanzia della buona amministrazione familiare (oikos), è altrettanto vero che lo stesso riferimento a una norma disciplina, come abbiamo visto, ogni azione che voglia ascriversi a quell’ambito dell’operare umano che andiamo definendo con il termine di lavoro. Nell’un caso come nell’altro, la regola è ciò che consente l’apertura di uno spazio di relazioni fra una pluralità di soggetti coinvolti, esattamente, cioè, ciò che chiama in causa qualcosa come una morale, in 8 

Ivi, p. 52.

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quel passaggio piccolo, ma per nulla indifferente, che fa di un portamento un com-portamento. Per una ragione altrettanto semplice e intuitiva, il camminare di Accattone, così come quello di Rosetta, è morale nel momento stesso in cui, camminando, essi costruiscono una relazione con il mondo che li circonda e le persone che lo abitano: «Mangiare. Bere. Alloggio. La vita economica, luogo della vita morale, ossia spirituale. Il film Rosetta sarà fatto di questo e di ciò che connette questi tre elementi: il lavoro e il denaro»9. È questo tipo di relazione fra corpi che il lavoro sa costruire, ed è per questo che esso richiede una vera e propria educazione, intesa letteralmente come il processo che conduce chiunque ne sia interessato fuori di sé, alla ricerca di un Altro, con il quale non è possibile, né auspicabile non confrontarsi. È un tema questo, qui considerato soprattutto dal versante della sua intrinseca materialità, parimenti declinabile nella direzione di una delle questioni centrali nei film dei Dardenne: l’incontro con il diverso da sé, come garanzia per l’abbandono di quella condizione di solipsismo e autocentratezza che caratterizza un’esistenza, prima che essa raggiunga quella condizione che è possibile riconoscere come propriamente umana10, e che – per le ragioni che

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Ivi, p. 53.

Sono questi, fra l’altro, alcuni dei temi, che Luc Dardenne affronta nel suo ultimo libro, nato contestualmente alla realizzazione de Il ragazzo con la bicicletta. Cfr. L. Dardenne, Sur l’affaire humaine, Seuil, Paris 2012. 10 

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andiamo dicendo – può definirsi immorale, dal momento che esclude, preliminarmente, il rapporto con la diversità. È questa uscita fuori di sé verso l’Altro, infatti, che consente, in via di principio, la costruzione di ogni tipo di relazione e, allo stesso tempo, riconoscendo l’esistenza di un fuori, è nella condizione di dover descrivere il perimetro di uno spazio comune in cui quelle stesse relazioni andranno a inscriversi. Per questa ragione il tema del lavoro manuale conferma ancora una volta la sua centralità, nel nostro discorso, ma non solo. Esso è infatti, sempre, produzione di qualcosa. Oggetti, manufatti, opere (film compresi) con i quali colui che produce intrattiene una relazione di prossimità/diversità, simile a quella che lega il sé e l’Altro da sé. Ma c’è di più, dal momento che tali prodotti dovranno necessariamente andare a occupare uno spazio che il produttore stesso avrà, almeno, preventivamente immaginato. È per questa ragione che il cinema, tanto più un cinema di corpi resistenti, come abbiamo definito l’opera complessiva dei Dardenne, non può che essere interessato a qualcosa come il lavoro. Esso si alimenta, infatti, esattamente del processo che abbiamo appena descritto e, in virtù di questo, risulta essere, già nel momento in cui esso è ancora fermo alla composizione della singola inquadratura, un’arte dedita alla costruzione e alla riformulazione dello spazio11: uno spazio che sono i corpi degli attori e le

Sulla concezione del cinema come arte dello spazio nel pensiero di un filosofo come Jacques Rancière ha posto l’attenzione Andrea Inzerillo in Lo spazio del cinema. Note su Deleuze e

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relazioni fra di essi a perimetrare. Da questo punto di vista, si può dire, infatti, che il cinema contribuisce a costruire almeno un doppio livello di piani spaziali, a cui corrispondono due distinti ordini di relazione: lo spazio interno all’inquadratura, determinato dai rapporti di forza che gli elementi in essa contenuti instaurano fra di loro, e lo spazio dell’inquadratura determinato dalla distanza, più o meno ravvicinata, che l’occhio della macchina da presa decide di mantenere nei confronti della porzione di mondo che ha di fronte. In quest’ultimo caso, il lavoro che il cinema produce è il risultato della tensione, sempre di nuovo negoziabile, fra ciò che, essendo in campo, entra nel regime della visibilità e ciò che, al contrario, rimanendo fuori campo, a quel regime si sottrae. Tale tensione diviene manifesta in quasi tutti i finali dei film dei fratelli Dardenne. Vale la pena ricordare, a questo proposito, come luoghi emblematici di quest’uso del fuori campo, almeno il finale di Rosetta (il primissimo piano della ragazza che guarda fuori campo) e quello de Il ragazzo con la bicicletta (il bambino che, dopo essersi rialzato da una caduta che avrebbe potuto ucciderlo, monta sulla sua bicicletta, si rimette in marcia e infine gira l’angolo di una strada, uscendo dal campo visivo dello spettatore, diretto verso una meta destinata a rimanere ignota). Nel rapporto dialettico fra ciò che lo sguardo del cinema decide, di volta in volta, di mostrare o escludere, si giocano forze che fanno del Rancière, in Politica delle immagini. Su Jacques Rancière, a cura di R. De Gaetano, Pellegrini, Cosenza 2011, pp. 393-409.

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cinema stesso un lavoro, finalizzato in questo caso alla costruzione di uno spazio, includente ed escludente allo stesso tempo. Ma se è senz’altro vero che il cinema è un’arte dello spazio, quest’ultimo essendo nient’altro che il risultato della disposizione scenicamente assunta da corpi, in relazione fra loro, è altrettanto vero che il cinema ha lavorato, sin dalle sue origini, in maniera assolutamente originale sul tempo, dilatandolo o abbreviandolo, reiterandolo o interrompendolo. Così, esattamente come c’è una spazialità intrinsecamente implicata nel realizzarsi di ogni lavoro, allo stesso modo c’è una temporalità che si disvela propriamente nella durata che il lavoro, inteso qui come processo, richiede per giungere alla propria finalizzazione. Di nuovo cinema e lavoro si affiancano, nell’opera dei Dardenne, senza riuscire realmente a distinguersi l’uno dall’altro; di nuovo essi operano con la stessa materia, in questo caso quella apparentemente intangibile del tempo. Di una intangibilità solo apparente parliamo, infatti, perché anche il tempo diventa materia nel cinema dei Dardenne, nella misura in cui esso si condensa e prende forma nei gesti ripetuti di un corpo al lavoro. Gesti che, ripetendosi in maniera scandita e regolare, impongono al cinema la loro temporalità, in modo che a sua volta esso affidi proprio a quei gesti la sua intrinseca ritmicità. Una ritmicità che nei film dei Dardenne funge da contrappeso all’assenza quasi totale di accompagnamento musicale, come a voler sottolineare, semmai ce ne fosse bisogno, che c’è un canto che appartiene naturalmente al cinema, perché esso è dei corpi che lo popolano, sta dentro la materia che esso mette in forma. È quel che accade, 109

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per esempio, nell’attacco del primo documentario dei Dardenne, Lorsque le bateau de Léon M. descendit la Meuse pour la première fois. Un uomo ripete per più volte un numero preciso di gesti: conclude l’assemblaggio di tutti i pezzi della sua barca e poi la mette in acqua. La voce narrante fuori campo sottolinea come Léon, il protagonista del mediometraggio di cui stiamo parlando, compisse, quand’era operaio, gesti dotati della stessa regolarità e precisione. Léon è uno dei fautori di quella leggendaria stagione di lotte sindacali e scioperi che, fra il 1960 e il 1961, aveva preso vita nella regione belga ad alta industrializzazione che si estendeva nei dintorni di Liège. Corpo, mani, gesti di un operaio: eppure la ritmicità delle movenze di Léon non ha nulla a che vedere con il procedere monotono di un comportamento alienato. Quell’uomo che mostra schivamente il suo volto alla macchina da presa sa quel che fa, è padrone del proprio lavoro, dei propri gesti, così come del suo tempo. In questo modo, la ritmicità delle sue azioni sembra, più che la risposta automatica e inelaborata a un comando, il segno della profonda familiarità di un uomo con le possibilità connaturate al suo corpo. Ripetendo ritmicamente i suoi gesti, Léon si riprende e fa suo qualcosa che appartiene alla ritmicità della vita stessa, dello scorrere di un fiume, del volo di un uccello. Léon prende la sua barca e torna sui luoghi in cui vent’anni prima aveva alzato barricate, lottando per la dignità del suo lavoro. Ritrova volti conosciuti e compagni di lotta, ciascuno dei quali riavvolge il tempo e racconta – come se tutto stesse accadendo, per la prima volta, nel momento in cui la macchina da presa registra – una pagina di quella entusiasmante 110

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Lavoro

stagione. C’è qualcosa di profondamente politico in quella ripresa memoriale, una sorta di ostinata volontà a tornare indietro per far rivivere ciò che sembrava morto o definitivamente superato; la stessa forza che si fa spazio fra i gesti ripetuti di un corpo che lavora, e nel lavoro di un cinema che quei gesti fa propri.

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Paternità

Bruno Roberti

PATERNITÀ

Ciò che hai ereditato dai padri, riconquistalo, se vuoi possederlo davvero. Johann Wolfgang Goethe

Un ragazzino corre inseguito da un ragazzo più grande. Si arrampica su un albero, il ragazzo gli tira dei sassi, lo colpisce, il ragazzino cade. Il ragazzo va verso il corpo immobile e apparentemente senza vita del ragazzino, poi, richiamato dal clacson di un’auto, torna indietro. Breve dialogo con un uomo alla guida dell’auto, il ragazzo gli dice che ha colpito l’altro con una pietra, e questo è caduto dall’albero, non si muove più. I due si affrettano verso l’albero. Si fermano per concordare una versione che discolpi il ragazzo, che torna all’auto a prendere un cellulare. L’adulto da solo si inoltra nel boschetto, va verso il corpo del ragazzino, si china a osservarlo, raccoglie la pietra da terra, fa per lanciarla lontano, viene interrotto dalla suoneria del cellulare del ragazzino, esita, poi scaglia la pietra. Si volta ad attendere il ragazzo, che intanto ritorna sui suoi passi con il cellulare, lo consegna all’adulto. Fuori campo si sente il rumore del corpo del ragazzino che si rial113

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za, i due si voltano, la macchina da presa si muove con una panoramica verso il ragazzino, che si tira su, stropicciandosi gli occhi. I due gli dicono che chiameranno un’ambulanza, ma il ragazzino rifiuta, mentre si allontana silenzioso tra gli alberi. Si avvia verso una bicicletta, raccoglie da terra un pacco e si allontana pedalando. L’“adagio un poco mosso” dal concerto per pianoforte e orchestra n. 5 di Beethoven risuona con la sua sospesa ed essenziale tenerezza. 1. La sequenza finale de Il ragazzo con la bicicletta dei Dardenne racchiude in sé alcune figure che nel loro cinema insistono da sempre: la corsa, la fuga, il corpo bambino, l’inseguimento, la caduta. Ma tutte sono come compendiate intorno a un perno invisibile, ciò su cui l’intero film ha ruotato, l’idea di paternità. Figura, questa, che, nel gesto di risalire il tronco (filogenetico) da parte di un figlio che non ha cessato fino all’ultimo di reclamare un padre assente o perduto, viene per così dire fagocitata, introiettata, come se il ragazzino, rialzandosi dal suo punto di caduta, si autorigenerasse. Fin da La promesse, il film del 1996 con cui i Dardenne ottengono la prima affermazione internazionale, si pone la questione del “Nome del padre”, o meglio dei nomi del padre, giacché il nesso padre/figlio, la filogenesi della filialità, è inscritta in molti dei loro film come continuo specchiamento, rovesciamento, tra padre e figlio, sospesi entrambi in un paradosso che si esplica nella dicotomia convergenza/divergenza, riconoscimento/misconoscimento, promessa/ tradimento. Se per Jacques Lacan nel culto del Nome del Padre, come instaurazione della legge del sim114

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bolico, si vede «manifestarsi tutta l’incidenza della cultura giudaico-cristiana»1, è dal suo Seminario del 1963, quello su I nomi del padre, che si pone una questione cruciale, nella sua scommessa paradossale: andare oltre il simbolico. Così come nello scandaloso pensiero cristiano di Kierkegaard, cui esplicitamente Lacan si richiama, è posta la vertiginosa condizione di Abramo, la singolarità assoluta in una posizione a sua volta paradossale di figlio (cui il Nome del padre conferisce una assurda chiamata dopo avergli conferito una promessa che si incarna nel figlio generato al di là delle leggi biologiche che nondimeno gli viene chiesto di sacrificare) e insieme di padre cui si chiede di sacrificare il “figlio della promessa”. In questo doppio legame, Abramo viene posto al di là dell’ordine simbolico: «Abramo rompe le leggi simboliche della dialettica del riconoscimento sulla quale Lacan aveva costruito la sua teoria del desiderio dell’Altro»2. È dunque dall’interno stesso della legge, dalla genealogia giudaico-cristiana, che sorge il nodo ambivalente di una “paternità impossibile” e di una “filialità” insieme promessa e tradita. È proprio su questo spazio che si apre dentro la solidarietà tra reale e simbolico, e si apre come fuga del reale tra le maglie del simbolico, che il cinema dei Dardenne, da Rosetta a Il figlio a L’enfant, fino a Il ragazzo con la bicicletta, si pone la domanda radicale, entro cui solca in modo assolutamente immanente e concreto 1 

M. Recalcati, Jacques Lacan. Desiderio godimento e soggettivazione, Raffaello Cortina, Milano 2012, p. 191. 2 

Ivi, p. 194.

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“L’amore di una donna, di una madre, che può interrompere questa violenza e permettere a un bambino di ritrovare la sua infanzia”

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un filmare che racchiude in sé la condizione umana come singolarità che bilica e insieme, in un incessante movimento possibile-impossibile, oltrepassa il limite della legge simbolica e tuttavia restaura il senso religioso di pietà e di incontro. È qualcosa di simile alla kierkegaardiana «sospensione teleologica dell’etica». In una tale sospensione, eppure in una fuga in avanti, che è pulsionale e insieme morale, insiste il “punto di presa” dei Dardenne: i corpi filmati (le creature escluse, marginalizzate, scartate come “pietra di scandalo”, o autosottratte e insubordinate, o ancora sottoposte a un training rispetto a una legge forclusa) sono posti in un movimento che tende, da un lato, ad espellerli dallo spazio abitato, che per loro si rende inabitabile, come fossero cacciati dalla “casa del padre”, messi fuori dalla legge del Nome, caduti dal tronco genealologico, dall’albero del paradiso originario, e dall’altro destinati, nel loro stesso moto di fuga e caduta, a una attesa, a una durata, a una postura che si raccoglie in una sorta di preghiera creaturale, proprio rispetto a quello spazio di interdizione, al cortocircuito empatico3.

3 

In tal senso il respiro del filmare nei Dardenne fa pensare certo a quello di Bresson, ma in una direzione in cui la posa dei corpi bressoniani si destina a un circuito, a un giro che diverge al solo fine del convergere, e il telos appare allora come una rinascita del corpo attraverso la ferita originaria del sacrificio solo a patto di un incontro d’amore.

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2. Il trauma dell’interdizione impone la rottura del cortocircuito incestuoso della pulsione, la quale si trova costretta a fare, come direbbe Freud, un giro più lungo per raggiungere il suo soddisfacimento. In questo contesto il padre entra sulla scena come colui che dovrebbe rendere possibile questo tragitto extrafamiliare, più lungo della pulsione4.

Il giorno prima del Seminario sopra citato, Lacan viene espulso dalla Società Francese di Psicoanalisi, il suo nome è cancellato. Lo psicoanalista rivendica l’empietà di tale espulsione come conseguenza del suo atto di pluralizzazione del Nome del padre, atto con cui le fondamenta freudiane e insieme quelle cui risale l’intera civiltà occidentale vengono messe in discussione. Eppure, come il fratello di Lacan (il monaco benedettino Marc-François) sostiene, tale atteggiamento lacaniano risponde tanto a una volontà di attraversare lo specchio «per accedere a una condizione non illusoria della verità», quanto al fondo paradossalmente cristiano del suo pensiero che «emergerebbe come presenza del Nome del padre come nome dell’Altro […]. L’uomo può rispondere all’atto della creazione riconoscendosi figlio, vincolato a un Altro che lo esorbita, oppure misconoscendo questo debito originario»5. Si tratta sempre nei Dardenne, intorno alla questione paterna o genitoriale, di una domanda 4 

Ivi, p. 142.

5 

Ivi, p. 192.

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di riconoscimento che non può nascondere ciò che vi è contenuto, cioè il misconoscimento, insomma di una promessa rimandata al proprio implicito segreto, cioè il tradimento, il suo rovescio. È questo doppio legame ad essere agito, in La promesse, dall’adolescente Igor nei confronti di una doppia figura paterna, quella misconosciuta del vero padre Roger, corrotto uomo d’affari, cui nasconde il segreto della promessa fatta all’altra figura di “padre putativo”, Hamidou, l’operaio sfruttato, escluso in quanto immigrato clandestino e caduto dall’impalcatura; doppio legame avvalorato dall’addossarsi di Igor di una doppia menzogna/segreto (verso il padre e verso la moglie dell’operaio), di un doppio e paradossale tradimento operato per tenere fede alla promessa fatta all’operaio di occuparsi della moglie, e ciò dopo la caduta dell’immigrato e prima della denuncia verso il padre che costituisce a sua volta l’infrazione della legge del Nome del padre, e quindi una ulteriore caduta, che costituisce, sul suo altro lato, la propria resurrezione, il proprio riscatto, l’introiezione del proprio ruolo in quanto figlio (ribelle/fedele, riconosciuto/misconosciuto) che assume a sua volta la funzione di padre sostituto (nei confronti di Assita, la moglie dell’operaio). Analogamente tale doppio legame si ripercuote nella paternità rimossa di Bruno ne L’enfant, non a caso interpretato da Jérémie Renier: lo stesso attore che era il ragazzino Igor, ora cresciuto fisicamente, ma implicato in un processo di crescita rifiutata, propria del puer aeternus, e di misconoscimento del proprio ruolo paterno. E precedentemente ne Il figlio la stessa endiadi padre/figlio si ripercuoteva sulla figura del tradimento e del segreto. Qui Olivier (ancora non a caso interpretato da Olivier 119

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Gourmet, che ne La promesse era il padre Roger, e ora recita con il proprio stesso nome, come a sottolineare l’incarnazione della legge nominale del padre) è il mastro falegname di giovani disadattati, esclusi e cacciati dal codice simbolico del Nome paterno, che si fa tutore, padre putativo dell’apprendista adolescente, Francis, reduce da un riformatorio e dunque espulso dal riconoscimento paterno, salvo spiarlo, osservarlo, controllarlo, istruirlo e porlo continuamente sulla sospensione di un precipizio, al limite di una caduta, nel precario equilibrio (che è quello delle enormi e pesanti assi di legno al cui peso Francis è costretto a sottomettersi, nel salire su una alta scala da cui può in ogni momento cadere); salvo riconoscerlo come colpevole dell’uccisione di suo figlio e tuttavia mantenerlo nell’indecidibilità del riconoscimento, catturarlo nella rete di una fiducia conferitagli dentro cui alligna il segreto del tradimento della stessa fiducia; salvo infine connettere (nel comune trasporto del peso dell’asse di legno, e nello stacco finale del gesto comune del legare insieme le assi) il padre “putativo” e il figlio altrettanto “putativo”, in un incontro che permette di spostare il riconoscimento/misconoscimento dell’altro su un piano più alto (tale salto trasformativo finale, in cui il sacrificio si trasforma in riscatto, in levarsi dal terreno della caduta, nel risorgere, diventa tipico del cinema dei Dardenne), dopo che implacabilmente i due corpi, del falso padre e del falso figlio, sono progressivamente scivolati in un altrettanto indecidibile tragitto di ripresa sospeso tra prossimità e distanza, convergenza/divergenza degli sguardi. È emblematica, in tal senso, la scena in cui il ragazzino misura con un metro sul selciato la distanza tra il proprio corpo 120

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e i piedi di Olivier come se fosse un segno dell’accostamento progressivo a una verità indecidibile. Ne Il ragazzo con la biciletta sembra compiersi in una limpida, teorica, intensamente semplice e archetipica introiezione questo tragitto del Nome-del-padre, che qui diventa per Cyril, il ragazzo sulla bicicletta, un lucido perseguire il riconoscimento, da parte del padre scomparso e riapparso (ancora incarnato da Renier, che è come un truffauttiano Léaud per i Dardenne), salvo farsi riconoscere da un altro figlio di un altro padre, colui su cui ha perpetrato la trasgressione (il figlio dell’edicolante rapinato e aggredito da Cyril con una mazza da baseball), su cui ha spostato la forclusione paterna, e che, ciononostante, lo induce, inseguendolo, a scalare l’albero, ad essere a sua volta colpito e a cadere al suolo per rialzarsi, risorgere e spostare su un piano ulteriore il moto cicloide del film (come la ruota della bicicletta l’intero film torna su se stesso avanzando, dal momento che è su una fuga del ragazzino, che si arrampica su un albero, che si apre, così come si chiude, il film). 3. In un suo saggio, James Hillman6 mette in luce il nesso tradimento/paternità inscritto in una filogenesi che dall’ebraismo si spinge fino al Cristo tradito, e al suo “grido” di abbandono sulla croce verso il Padre, che è insieme preghiera e imprecazione sul doppio filo dell’essere abbandonati/abbandonarsi a una nominazione possibile-impossibile. Ed è da un J. Hillman, Il tradimento, in “Rivista di Psicologia Analitica”, n. 1 (1971), pp. 177-199.

6 

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apologo ebraico che parte Hillman: C’è una storiella ebrea, molto diffusa, che dice pressappoco cosi: «Un padre insegnava al figlioletto ad essere meno pauroso, ad avere più coraggio, facendolo saltare giù da una scala. Mise il bimbo sul secondo gradino e disse: “Salta che ti prendo” e il bimbo saltò. Poi lo mise sul terzo gradino dicendogli ancora: “Salta che ti prendo”. Sebbene il bimbo fosse impaurirlo, si fidò di suo padre, fece ciò che gli era stato detto e saltò nelle sue braccia. Poi il padre lo mise sul quarto gradino, sul quinto, sul sesto, dicendo ogni volta: “Salta che ti prendo” ed ogni volta il bimbo saltò e fu preso da suo padre. E così continuarono finché il bimbo saltò da un gradino molto alto, ma questa volta il padre si tirò indietro e il bimbo cadde a faccia in giù. Mentre si rialzava, sanguinante e piangente, il padre gli disse: “Questo ti insegni a non fidarti mai di un ebreo anche se è tuo padre”7.

La caduta di un corpo bambino e il tradimento di un padre disegnano una situazione di intermittenza: la presenza paterna si fa assente nel momento in cui il corpo filiale viene sospinto sempre più in alto, riponendo fiducia, tanto nella ricorrenza dell’apprendistato a una legge del simbolico, la quale assicura che l’Altro come significante prenda il posto del desiderio fusionale della madre, quanto nella propria leggerezza, nella propria pulsionalità volatile, nel 7 

Ivi, p. 177.

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proprio istinto di fuga dalla legge (che per il puer aeternus coincide con una erranza irresistibile, un pothos, una nostalgia indifferenziata che viene originata e destinata non da un desiderio incestuoso, ma da un interdetto del luogo, della terra originaria, per cui comunque il ritorno alle Madri necessita di una situazione sospesa di puer/senex, di padre/figlio, come nel caso di Odisseo, errante alla ricerca del luogo materno e di Telemaco, errante alla ricerca del padre)8. Eppure in questo nesso fiducia/tradimento, che per Hillman sono contenuti l’uno nell’altro, la situazione è così sospesa e insieme così sempre in fuga e in caduta da potersi in ogni momento rovesciare: qualcosa appare e poi scompare in rapporto tanto all’oggetto Nel suo Il complesso di Telemaco. Genitori e figli dopo il tramonto del padre, Feltrinelli, Milano 2013, Massimo Recalcati individua nel mito di Telemaco, nel suo sguardo che “invoca” al di là del mare un “ritorno del padre”, vulnerabile ed errante quanto lui, la possibilità di un oltrepassamento simbolico del padre come Nome interdittivo e normativo, e di una giunzione tra nostalgia della legge terrena e pothos insito nell’erranza, e non manca di riferirsi al cinema: da un lato il “trono vuoto”, l’abdicare e lo svaporare del Nome del padre, il gesto destituivo e errante, che connette puer e senex, nei film di Moretti Palombella rossa e Habemus Papam, e dall’altro, in Salò di Pasolini, il godimento senza desiderio di una autorità paterna che fagocita la potenza in un potere della messa a morte, sterminando le generazioni dei figli e ribaltando l’uccisione del padre nell’orda primitiva, rovesciandone la legge comunitaria in un arbitrio totalitaristico e estremizzando idolatricamente il feticcio. Per una interpretazione di Odisseo come figura del pothos e della nostalgia del puer aeternus, cfr. anche J. Hillman, Pothos: la nostalgia del puer aeternus, in Prassi e teoria. Sapere dell’inconscio e ricerche archetipiche, a cura di D. Corradini, Franco Angeli, Milano 1980, pp. 123-135. 8 

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perduto (materno) quanto all’interdizione (paterna), come nel gioco infantile del “rocchetto” freudiano, e in tale processo di “apprendistato” alla vita e di instaurazione e costituzione della realtà sociale, in tale scambio simbolico, è sempre possibile un cadere al di fuori della legge. Infatti se «la presenza – regolarmente presente – dell’Altro significa che la realtà cosiddetta naturale è da sempre sbarrata dall’azione sublimatrice della Cultura, è già da sempre una realtà sociale»9, può non aver luogo la sublimazione, per cui irrompe un impedimento all’accesso della realtà, uno «sprofondamento nell’indifferenziato», l’irruzione di un materno che coincide con la gettatezza nel mondo, con una fusione, una empatia altrettanto volatile che abissale. Ma perché possa realizzarsi il simbolico bisogna che il padre non sia tanto assente/ presente ad intermittenza, quanto sia propriamente collocato in un Nome che ne presuppone la morte nel reale e il suo assorbimento nel simbolico. Il punto chiave è che il Nome del padre ha come sfondo la morte del padre reale: l’esistenza del Nome del padre ha come condizione la morte del padre reale […], cancella, rende assente, la figura reale del padre. Il nome del padre è presente solo nella forma dell’assenza, o, se si preferisce, è una assenza sempre presente10.

M. Recalcati, Jacques Lacan. Desiderio godimento e soggettivazione, cit., p. 142. 9 

10 

Ivi, pp. 184-185.

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E se Lacan non cessa di denotare che il padre vero è quello simbolico, il padre morto in quanto possibilità di articolarne il Nome, è a Totem e Tabù di Freud che viene ricondotto il parricidio come fondazione di una Comunità dei fratelli, di una promulgazione della legge sociale. Nei film dei Dardenne questo sfondo si articola in una condizione cionondimeno di esclusione, di comunità impossibile, dal cui interno però, proprio da un parricidio negato, da una negazione dell’accesso al simbolico, scaturisce una possibilità: quella di reintegrare, dalla parte del maschile, un femminile come potenza, cioè rovesciare il simbolico nel reale tenendo in sospeso la loro separazione, instaurare una possibilità di incontro attraverso una introiezione, o integrazione nella propria parte animica, del potere di interdizione paterno, sciogliendolo dai legami di legge e aprendo una possibilità di giocare il paterno fuori dalla legge, direttamente nel reale, aprendo una condizione amorosa di incontro nella figura paradossale del padre che continua ad essere figlio (che accetta il figlio in quanto padre, o la madre in quanto figlia, e, in nome di ciò, cioè al di fuori del Nome, riscatta amorosamente il proprio altro, che fa a meno della maiuscola, che, al di là del significante, al di là del linguaggio, in un gesto muto, scopre l’essenza dell’amore, come avviene nei finali de L’enfant o di Rosetta, e in certo qual modo anche in quello di Il matrimonio di Lorna), e che in ciò salva il proprio legame elementare con la terra, con il suolo, con la madre. In un film come L’enfant il rapporto tra Bruno e Sonia (una figura femminile che, come dice il nome, sembra discendere da Dostoevskij nel suo saper essere insieme remissiva e resistente, irriducibile e 125

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accogliente, dolce e dura al contempo, circoscrivendo l’irruzione trasformante della grazia nel soprassalto dell’angoscia) è segnato da una empatia fusionale, come mostrano i loro giochi violenti, il loro rincorrersi, le loro lotte ludiche, e come viene emblematizzato dall’oggetto/feticcio del giubbotto identico che lui compra perché possa indossarlo anche lei e che non a caso fungerà da sostituto della culla, giaciglio protettivo quando Bruno vi adagerà il neonato prima di abbandonarlo sul pavimento in attesa che venga prelevato dopo la “vendita” del piccolo. Ricorrenti nei film dei Dardenne sono tali oggetti/feticcio: l’asse di legno de Il figlio, gli stivaletti di Rosetta, fino alla bici de Il ragazzo con la bicicletta, e che saremmo tentati di spostare sul piano lacaniano dell’oggetto piccolo (a), proprio laddove Lacan oltrepassa l’articolazione totemica del “Padre animale”, del padre dell’orda, del padre anomico che sequestra il godimento, insistendo sulla contraddizione tra Padre-Legge e PadreGodimento, e segnando il passaggio dal Nome del padre all’oggetto piccolo (a), nel Seminario X. È la possibilità di una risoluzione radicale della singolarità del soggetto, a partire dal soggetto psicotico (e Bruno in tal senso sembra partire dalla psicosi ponendosi su una linea di fuga che lo farà fuoriuscire dal lato del transfert amoroso), ciò che viene agito11. Ne L’enfant

11  Scrive Recalcati che si tratta della «produzione di un desiderio singolare irriducibile all’identificazione. La nuova tesi di Lacan è che il Nome proprio del soggetto debba reperirsi nella forma dell’oggetto piccolo (a) e non nel tratto unario come eredità ricevuta dal padre edipico […] come se il Nome proprio del soggetto

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il problema del riconoscimento e della nominazione insiste sulla questione della paternità con un movimento che partendo dalla divergenza, dalla fuga, dall’erranza e dalla ricerca (è un padre che non vuole nominarsi tale quello che viene “cercato” all’inizio da Sonia, ed è un figlio che ci si è rifiutati di nominare e riconoscere che viene a sua volta “cercato” alla fine del film) si spinge sempre più verso una convergenza, che è anche “conversione” (l’incontro bressoniano delle mani che arriva nell’amore restituito come una grazia che assolve e benedice). La questione del nome viene posta dall’inizio e ritorna ancora nel film: bisogna nominare una seconda volta il figlio cui è posto il nome provvisorio di Jimmy, un nome-giocattolo, un nome-gingillo che lo assorbe in un sostituto feticistico e intercambiabile, ma l’imposizione del secondo nome (quello del “nonno” Nicolas, cioè quello del padre simbolico, dell’antenato, della Legge) viene rimandata di continuo, così come spostato ogni volta è lo stesso “enfant”, finché esso stanzia nella coalescenza tra desiderio e godimento. La posta in gioco viene allora ad essere il fatto che:

– l’indice del suo desiderio singolare – venisse detto da Lacan attraverso la figura dell’oggetto che causa il desiderio (oggetto piccolo (a)) e che condensa quel particolare più particolare custodito dal Nome proprio […]. L’oggetto piccolo (a) implica ed eccede, nella stessa scansione temporale, il Nome del padre […]. Il passaggio effettuato da Lacan conduce dal Nome del padre al Nome proprio e dal Nome proprio – come ciò che manca nell’Altro, come il singolare intraducibile che buca il sistema del grande Altro – all’oggetto piccolo (a) dove viene all’essere il soggetto nella sua singolarità desiderante», cfr. ivi, pp. 198-199.

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non è il Bene come principio morale che orienta la realizzazione del desiderio, ma il Bene è il movimento stesso della realizzazione del desiderio. L’integrazione del proprio desiderio alla sua causa concerne proprio questo movimento. […] È la figura del padre come versione singolare e non universale della Legge, del padre, come père version, come testimonianza incarnata di che cosa sia un desiderio singolare, fuori norma […]. Su questo terreno la stessa dialettica del riconoscimento deve essere ridefinita12.

Un tale riposizionamento si realizza nel film dei Dardenne nel rapporto dei corpi vivi con la camera, che è essenzialmente rapporto creaturale, processo a sua volta di riconoscimento, di spostamento della filiazione dell’immagine stessa, e del gesto vitale filmato, in una intermittenza di cura e di allontanamento, di prossimità e di distacco, di attesa conoscitiva da parte del filmare stesso, che cerca sempre la singolarità, proprio nel momento in cui sta per essere sottratta e misconosciuta («ci interessa una persona dal momento in cui la filmiamo», dicono i Dardenne in una intervista video, e anche «filmiamo queste persone come se fossero dei sopravvissuti», ed è in tale “reviviscenza” che trovano gesti vitali). Bruno non solo pare non riconoscere il neonato in quanto singolarità umana, ma non si riconosce in quanto padre, per lui l’atto di cura e di generazione può essere sempre spostato, così come per Sonia deve essere sempre 12 

Ivi, pp. 200-201.

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ritrovato (e ciò produce l’impasse dell’attendere, del bussare alla porta, dell’essere inclusi o esclusi, sottoposti a continuo tradimento di sé e dell’altro, come a una continua domanda di essere accolti e assolti, ma è proprio questa sospensione disattesa che produce la crescita della relazione). Bruno agisce il sottrarsi della paternità simbolica nel reale: è rimasto puer e nella condizione sospesa della filialità (e perciò destinata tanto alla ferita, alla pulsione di leggerezza, fuga, volo, irresponsabilità, quanto alla caduta continua, all’ala ferita, all’improvviso “peso” di cui caricarsi sottoponendosi a una legge di caduta dei gravi, dal momento che «la gravità non fa parte del suo universo, lui è molto leggero», come hanno dichiarato i Dardenne sempre nell’intervista video). Bruno procede in un alternante, e poi progressivo, fuggire-ritornare, allontanarsi-avvicinarsi, liberarsi del fardello/feticcio e cercare l’oggetto (a) perduto, scaricarsi dalle spalle (la coazione a vendere gli oggetti, sostituti identitari, segni di immagine e comunicazione, «bagliori immaginari dell’oggetto del desiderio»13: la videocamera, il cellulare, la carrozzina, il giubbotto, e appunto il neonato, quasi una catena di significanti) come caricarsi addosso la sua stessa condizione filiale di puer o di padre spostato («la paternità è fondamentale nella storia del mondo ma per lui non vuol dire niente», dicono ancora in video i Dardenne), come nella sequenza di sottofinale dello scippo e poi del rischio di annegamento del piccolo ladro, il ragazzino che ha quasi la funzione di “soccorritore”, “aiutante magico” 13 

Ivi, p. 200.

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delle favole iniziatiche. E se Bruno porta il bambino come un fardello, ma lui stesso è leggero, vuole lasciar “cadere” i pesi, le “gravità”, se l’enfant è quasi un oggetto transizionale, un feticcio o un bambolotto, ciononostante è proprio la vita ad avere una potenza transitiva, per cui (come già accadeva in Rosetta nella scena della caduta del giovane nel fiume e del gesto di salvazione di lei) Bruno arriva a caricarsi il piccolo ladro, salvato dalle acque, sulle spalle, gli strofina e riscalda i piedi, con la stessa “cura”, spostata su un piano ulteriore di salvazione, con cui si era tolto il giubbotto, vi aveva riposto il neonato, adagiato sul pavimento, prima di venderlo. 4. Nel cinema dei Dardenne sembra ritrovarsi quella radicalità transazionale da una Legge paterna biblica al paradosso evangelico, che in un certo senso presuppone l’abbandono del padre e instaura una condizione di solitudine del figlio, senza più Dio, senza più il Dio-Padre, collocato al di fuori del proprio stesso nome, eppure costretto a nominare con la preghiera e con la sospensione del nome paterno, l’invocazione di un’altra legge, un compimento della legge sacrificale nella legge del desiderio, un «sacrificio del sacrificio», che interviene, dice Lacan, a separare il desiderio dal godimento. Il punto di compimento di questa sospensione avviene con Cristo che prende il posto di Isacco e che attraverso il suo sacrificio sospende eternamente il sacrificio. È Gesù come agnello sacrificale che si sacrifica per sacrificare l’idea stessa di sacrificio. […] È la figura stessa del padre che rivela due volti 130

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inconciliabili: quello della Legge e del dono del desiderio e quello della spinta a godere del godimento14.

Ciò che Lacan, seguendo Kierkegaard, vede nel gesto di taglio, di faglia beante, di sospensione del gesto del coltello, di “taglio del taglio” da parte dell’Angelo che ferma il braccio di Abramo, è l’avvio «verso l’eccedenza del reale rispetto alla legge del simbolico» laddove «l’angoscia non è un concetto, ma ciò che ci spalanca sull’impossibilità dell’esistenza, sul suo limite costitutivo, sulla finitezza della sua libertà senza fondamento, sulla sua apertura beante»15, per cui una assunzione massima di responsabilità comporta la massima irresponsabilità, la fiducia comporta il tradimento, il riconoscimento comporta il misconoscimento, la vita riscatta la parola data, la ferita comporta il dono, l’oggetto “fallito” comporta l’oggetto “conquistato”. È la situazione in cui si pone il ragazzo Cyril de Il ragazzo con la bicicletta nei confronti del padre Guy e del sostituto materno Samantha. Cioè rispetto al padre sottratto, alla bicicletta come oggetto fallito, promesso e perduto, all’erranza e alla ricerca come passaggio attraverso l’anima, come “femminile proprio” scaturito appunto dalla trasgressione, dal tradimento, e a cui si chiede e si riconosce “ospitalità” (e qui l’interdetto al godimento della Cosa materna deve necessariamente operare un giro simbolico, trovare, dentro la Legge, il suo lato donativo e femminile, il reale che introietta, nell’aver 14  15 

Ivi, p. 203 e p. 205. Ivi, p. 202.

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cura, una legge, simbolica che è però anche quella inesplicabile della natura, che scorre come l’acqua, e il cui fenomenico è immediatamente simbolico, la cui vita si fa immediatamente linguaggio)16. In questa posizione si disegna un paesaggio radicalmente evangelico, proprio nel senso francescano, laddove diventa necessario un passaggio verso il riscatto del sacrificio da se stesso, la messa a nudo della propria solitudine creaturale (contraddicendo la legge paterna, trasgredendola nella sua cristallizzazione simbolica, ma ritrovandola nel reale, con una speciale intercessione dell’anima, del femminile), appunto nel momento in cui si vede entrare il figlio del sacrificio che porrà fine al sacrificio (a cavallo di un asino sotto i rami di palma, così come inforcando e pedalando una bicicletta per poi arrampicarsi su un albero e cadervi per risorgere). È ciò che Hillman chiama fiducia primaria, una empatia protettiva verso la propria ambivalenza, una fede nella parola che in un certo senso fugge la vita, la situazione di partenza del film, con quel

Scrive Hillman: «Questo mi porta a chiedermi se la integrazione dell’anima possa manifestarsi non solo nelle varie maniere che è logico aspettarsi: vitalità, capacità di rapporti, amore, immaginazione, sottigliezza e cosi via; ma anche divenendo simili alla natura e cioè meno attendibili, scorrendo come l’acqua nei punti di minore resistenza, cambiando le risposte secondo il vento, parlando con lingua biforcuta, come ambiguità conscia invece che ambivalenza inconscia. Il saggio o il maestro per poter essere lo psicopompo e guidare le anime attraverso la confusione della creazione, dove ogni roccia cela un pericolo ed i sentieri non sono diritti, manifesta astuzia e freddezza ed è impersonale come la natura stessa», cfr. Id., Il tradimento, cit., p. 193. 16 

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grande albero edenico, come piantato nella genealogia simbolica, verso cui Cyril fugge e si arrampica. Ma quello stesso albero è ambivalente (di conoscenza e di vita o del bene e del male) e deve essere rovesciato e riguadagnato alla fine, senza più aver paura di cadervi, col corpo bambino bersagliato dalla pietra di scandalo e precipitato sulla nuda terra. In un affresco di Giotto, Il pianto delle Clarisse, contro un cielo verde e in una natura tagliente, mineralizzata, immota, mentre Chiara e le sorelle si chinano sul corpo di Francesco disteso su una barella, un ragazzo si arrampica su un albero. Che cosa succede? Quel ragazzo è lo stesso che nell’entrata a Gerusalemme (l’entrata dell’uomo che dicono sia il Messia, su un asinello, nel giorno della Pasqua ebraica) sale su un albero a staccarne un ramo. Quell’entrata è un arbor intrat, è la festa di un giovane uomo, un ragazzino, votato al sacrificio, che cerca di tornare al Padre, il cui nome però gli è doloroso compitare, e allora, come il giovane “dio che muore”, Attis o Adone o Tammuz o Osiride (tutti ramoscelli d’albero o pianticelle senza più radici, strappate dal suolo, virgulti appena recisi), il suo corpo deve essere sottoposto a un tragitto sacrificale, a una caduta e a uno smembramento, e la sua parola deve essere negazione e insieme scelta radicale, e ciò perché la sua corporalità, la sua fisicità filogenetica possa essere distrutta e ricomposta, possa morire e rinascere, appunto in una Pasqua di resurrezione, fagocitando e mangiando le proprie stesse carni, sangue e corporalità genealogica. In Giotto questa atmosfera resurrettiva è precisa, il santo si solleva un poco, come catalettico, e il suo levarsi segna il passaggio dalla morte alla vita, e tutto ciò ha una 133

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chiarezza teorica. Il ragazzo arrampicato sull’albero, Zaccheo, che sale sull’albero del sicomoro, compie un gesto letteralmente teorico, vuole vedere, vedere di più, e nello stesso tempo il ramo staccato dall’albero, dalla discendenza genealogica, è anche il suo corpo bambino. Quella figurazione è lo stesso ragazzino che ne Il ragazzo con la bicicletta dei Dardenne compie, con la sua presenza fisica che taglia l’aria del film, un tragitto alla ricerca di un filo spezzato, di una bicicletta perduta, di un padre apparentemente scomparso, e che tradisce la sua fiducia vendendo la bicicletta. Come sovrapponendo Mouchette a Ladri di biciclette, questo percorso sacrificale viene perseguito dai Dardenne con una limpidezza che emerge cristallina insieme al passaggio musicale del concerto beethoveniano detto “dell’imperatore” (passaggio musicale che, come in quel concerto, addolcisce, e configura come dono naturale, l’imperiosa legge del padre/Re). La bicicletta non solo si configura come oggetto perduto ma compie anche il tragitto di una messa a terra del proprio desiderio, proprio attraverso il moto della forclusione (che viene agita dal rifiuto del padre a vedere il figlio e a parlargli e che è appunto intesa nel senso lacaniano di processo che destruttura psicoticamente la rimozione, «disattiva la funzione simbolica del padre e, di conseguenza, non permette al soggetto di entrare nell’ordine del senso; l’esistenza del soggetto viene rifiutata dall’Altro e respinta nel puro non-senso»17) rende l’oggetto in M. Recalcati, Jacques Lacan. Desiderio godimento e soggettivazione, cit., p. 154.

17 

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Paternità

transito dal feticcio all’“oggetto fallito”, nel senso in cui, dice Lacan, fallito è l’oggetto, diventando pura potenza ineffettuale, e purtuttavia sganciandolo dal godimento, instaurando una incolmabilità della “mancanza ad essere” e producendo un desiderio donativo che ha a che fare con l’accesso al femminile, a una madre che si sostituisce alla castrazione (è questa la funzione di Samantha, la parrucchiera che protegge il ragazzo)18. Succede ne Il ragazzo con la bicicletta, così come in Rosetta, che sia il moto proprio del corpo filmato a girare, in autonomia resistente, con un automatismo emozionale distillato, e dunque a far girare e girare il film, con una rotazione ostinata e struggente, a prescindere dalla storia raccontata, al di fuori di ogni descrittività, appunto motu proprio, trascinando con un andamento teorico il film verso la soluzione teorematica finale. Qui la caduta dall’albero (la cui figura ritornante e verticale compone con l’orizzontalità delle ruote della bicicletta, una crucialità

Scrive Recalcati: «Questo significa che l’oggetto non si presenta come ciò che può colmare la “mancanza a essere” che abita il soggetto, ma che l’incontro con l’oggetto è strutturalmente marcato da una condizione fallimentare. L’oggetto è sempre fallito, è sempre insoddisfacente, è sempre un vuoto, una lacuna. La pulsione non si chiude su di esso, ma deve farne il giro. La psicoanalisi denuncia l’oggetto come fallito, mentre il discorso del capitalista ne sostiene il potere feticistico, idolatrico, anche se astutamente ne sfrutta l’inconsistenza. Si tratta allora di pensare al padre come “resto”, non più Ideale normativo ma atto singolare e irripetibile», cfr. Id., Cosa resta del padre? La paternità nell’epoca ipermoderna, Raffaello Cortina, Milano 2011. 18 

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necessaria, il ciclo ruotante di un destino archetipico), è un movimento di precipizio metamorfico, un precipitato alchemico che non a caso introduce a un moto resurrettivo, alla ripresa del girare. Hillman scrive a proposito della fiducia e del tradimento: «L’uno contiene l’altro. Non è possibile avere fiducia senza la possibilità del tradimento. È infine il padre che lascia cadere il figlio. La promessa fatta non è mantenuta, la parola data viene mancata, la fiducia diviene inganno»19. Come nella parabola ebraica del tradimento il lasciar cadere diventa, quasi in un apologo zen, un prendere senza prendere, un aver cura della crescita e un donare nel sottrarsi, nel deporre, nel destituire, che diviene anche un custodire, un esporre. Tale è il gesto filmico stesso dei Dardenne. Il punto di presa dello sguardo è il punto in cui la presa dei corpi, del corpo bambino, si sfalda e si nebulizza (parte cioè da una evaporazione del Nome del padre, condizione che Recalcati attribuisce all’ipermodernità20), ma insieme è anche il punto di ripresa sulla cui linea si pongono i Dardenne (destituendosi come codice di sorveglianza paterna nel filmare e insieme donandosi alla flagranza del riprendere, o del ripetere differentemente, ponendosi loro stessi in una condizione di erranza e di stupore) e dove la ripresa viene resa tagliente e focalizzata secondo una linea di filogenesi in cui entra il “minimo”, l’intimo, l’impercettibile crescere dentro un alveo che 19 

J. Hillman Il tradimento, cit., p. 193.

20 

Cfr. M. Recalcati, Cosa resta del padre? La paternità nell’epoca ipermoderna, cit.

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improvvisamente espelle sacrificalmente e “getta nel mondo” quella inermità, quel dolore, quell’infinitesimo incommensurabile che è un “grano di sabbia” dentro un oceano terrestre e acquoreo (l’acqua che scorre, il fiume, il lavacro e la presa dei piedi sulla terra, la caduta, la corsa nel terreno sono gesti e figure filmiche che ritornano nei Dardenne). Si tratterebbe allora di un disegno filogenetico che supera, dentro la separazione tra godimento e desiderio, dentro la linea di fuga del reale sul simbolico, lo stesso materno e paterno, in un’altra genealogia (che Recalcati, in una intervista, non esita ad attribuire all’idea di Papa Luciani che Dio è anche Madre)21. Allora l’interdetto paterno si fa donazione, la Legge paterna rende possibile il desiderio, laddove si destituisce da una negazione puramente normativa. E la trasgressione

Cfr. La formazione passa per la via del tradimento, intervista a M. Recalcati, in “Il Manifesto”, 9 marzo 2011. Scrive Hillman che per crescere connettendo il tradimento a una sorta di nuova alleanza è necessario il «riconoscimento del lato ambivalente femminile esistente sia in Dio che nell’uomo. […] Se saltiamo dove ci sono sempre braccia per riceverci, il nostro non è un vero salto. Il rischio dell’ascesa non esiste più, a parte l’emozione del volo nell’aria, […] ma poi succede che una volta, nonostante una promessa, la vita interviene, accade l’incidente e si cade a faccia in giù. La promessa mancata è una intrusione che la vita fa nella sicurezza del Logos […]. Il padre ha risvegliato la coscienza, ha cacciato il ragazzo fuori dal giardino, brutalmente, con dolore, ha iniziato suo figlio. Questa iniziazione ad una nuova coscienza del reale passa attraverso il tradimento, attraverso il venir meno del padre e il suo mancare alla parola data […]. L’iniziazione del ragazzo alla vita è l’iniziazione alla tragedia dell’adulto», cfr. J. Hillman, Il tradimento, cit., p. 191. 21 

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e fuga, inforcando l’oggetto perduto, si fa «erranza, discontinuità, incontro, rottura del familismo. C’è sempre nel cammino di una vita una caduta da cavallo, un incontro con la terra, un faccia a faccia con lo spigolo duro del reale»22. E il pedalare inane e celibe (come la ruota di bicicletta duchampiana) è una sorta di sospensione ma anche di “sospingimento”, un hasard che è il punto di appoggio e il punto di azione, di rotazione, di un moto visivo che si fa concreto, tattile, fisicizzato. E ciò è il crescere, il ramificarsi, l’arborescere della coscienza, in cui il “punto morto” si rimette in moto, si rimette in vita, si rimette in piedi, con il sentimento della differenza, irriducibile resto. È così che l’arborescenza e lo scorrere, l’impassibilità della natura, gli spazi liminali delle radure e dei boschi, l’acqua del fiume da cui si viene salvati, lo scavare la terra (Rosetta) oppure lo smuovere l’acqua con un bastoncino (L’enfant), è così che il gesto più naturale, il peso o la leggerezza più specifica dei corpi, lo scarto di movimento più impensato e conseguente diventano, nei film dei Dardenne, una riconversione e un dono per cui ogni paternità si fa specchiamento nell’essere, come dice Serge Daney, ogni volta «cinefigli».

Cfr. La formazione passa per la via del tradimento, intervista a M. Recalcati, cit. 22 

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Umano

Roberto De Gaetano

UMANO

Una ragazza, chiusa la porta di casa dall’interno e gettata giù dalla finestra la chiave, si denuda, si avvicina al ragazzo presente nella stanza e lentamente lo spoglia. Nudi si abbracciano, intensamente, e fanno l’amore. È la sequenza chiave de Il matrimonio di Lorna, il momento in cui la ragazza “cattura” l’uomo, sposato per acquisire la nazionalità belga, il quale, appreso del sopraggiunto divorzio, decide di drogarsi nuovamente, dopo che da pochi giorni con grande sofferenza aveva smesso. Per lei, clandestina entrata in un gioco sporco per interesse, quel ragazzo magro, fragile, che la cercava e la richiedeva, non era più solo lo strumento anonimo di una cittadinanza agognata per inventarsi un futuro, ma una presenza umana vicina, che aveva bisogno di lei per vivere. Non più mezzo neutro di un interesse, quel ragazzo era il contrassegno di una umanità che nasceva in lei al suo contatto. E dunque, quando un sentimento di disperazione sembrava spingerlo nuovamente verso la droga, Lorna lo ferma con uno improvviso slancio emotivo. L’esigenza di trovare una posizione nella società 139

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(inventarsi un futuro) porta Lorna ad entrare in un meccanismo che condiziona fortemente il suo comportamento, obbligandola a fare ciò che non vorrebbe fare, un “commercio” di matrimoni per la compravendita della nazionalità belga. Prima deve sposare un tossico, per poi “rivendere”, con un nuovo matrimonio, la nazionalità acquisita a un mafioso russo. Questo gioco non è senza rischi, è una simulazione, che tocca e riguarda comunque i sentimenti, li mette alla prova, anche solo nella capacità di congelarli. Ed è allora che il vincolo del matrimonio si rivela non facilmente risolubile, o perlomeno non lo è nelle forme che sarebbero opportune, cioè senza lasciare tracce: il tossico viene ucciso con una overdose da Fabio, l’organizzatore di tutto l’affare. Colpita da ciò che è accaduto, Lorna si eclissa dal mondo e immagina di essere incinta dell’uomo che non c’è più, morto anche per sua colpa. Lo sfruttamento di ciò che, pur essendo presente non ha nome, non ha rappresentazione ma solo presentazione, passa per la costruzione di dispositivi che impongono e premono su un individuo alla ricerca di una identità sociale riconosciuta e legittimata. La contrattazione matrimoniale usata per acquisire il diritto di riconoscimento sociale (aprire un bar con il fidanzato, un connazionale che lavora in Germania) non prevedeva che nella situazione potesse emergere un incontro, cioè qualcosa che la sospendesse. Lorna, vincolata a un concatenamento di azioni e reazioni che segnano vita privata e vita lavorativa, “scopre” che quel tossico, fragile e che la cerca, non è archiviabile come mero strumento di un’operazione orientata al “profitto”. Quello strano fragile Claudy diviene, in uno slancio imprevisto e imprevedibile, 140

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riscoperto in un incontro intimo. È come se nelle strette di una situazione, tossico e albanese, vincolati da dipendenza e interessi reciproci, si riscoprissero in un incontro che permette ad entrambi di sospendere le necessità di una situazione – senza libertà e senza scelta – per accedere a ciò che li fa ritrovare insieme in una marginalità che li accomuna e che viene trascesa, in definitiva nella loro umanità. La rapidità di movimento che avvia il contatto è il segno di una irruzione e di una scoperta che, dietro la convivenza coatta, necessaria a non far scoprire alla polizia la finzione matrimoniale, crea un’apertura nella situazione. Con un unico improvviso gesto, Lorna si emancipa dalla “schiavitù” in cui si era ridotta; emancipazione che non può che pagare a caro prezzo: non riesce comunque a salvare Claudy, e fugge in una immaginaria gravidanza, unica precaria via d’uscita ad una situazione comunque segnata. Il dispositivo criminale avviato, per poter funzionare propriamente non deve lasciare tracce né resti: non si possono correre rischi. La domanda che quell’uomo aveva rivolto a Lorna era una domanda ineludibile, che nel condannarla le dava allo stesso tempo l’unica vita possibile, quella che le permetteva di scoprire in sé, in quell’incontro con l’altro, quell’umanità in comune tra lei, clandestina albanese, e un tossico belga. Lorna è come Rosetta e come gli altri personaggi dei Dardenne: la sua marginalità sociale la mette in condizioni di difficoltà, obbligandola ad occupare una posizione che elide lo sguardo dell’altro, usato per difendersi e per cercare a tutti i costi un riconoscimento sociale. Ma un riconoscimento che passa per il crimine non è tale, è una violenza che ha come 141

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“Se c’è una forma di eternità interna al tempo, è dall’amore, dal riconoscimento che proviene”

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effetto l’assoggettamento abbrutito di chi la compie. Lorna percepisce, o meglio sente progressivamente che l’acquisizione di una identità sociale riconosciuta – divenire cittadina belga – non può valere il prezzo di una vita umana, quale essa sia. E questo sentimento significa la scoperta dell’umano, sigillato nell’abbraccio fragile, quasi disperato, dei due corpi nudi vicino alla porta d’entrata. Quell’umanità aperta da un incontro, cioè da una domanda, è quanto di più prezioso ci possa accadere, ed ogni elusione sarebbe la definitiva rinuncia alla scoperta della singolarità del nostro essere (e di quello degli altri), e in un certo senso il suo definitivo risolversi in anello impersonale di un dispositivo. L’incontro con ciò che sta sotto i nostri occhi non è comunque semplice. Il soggetto, abbrutito dalla sua emarginazione e disperatamente propenso ad entrare nel gioco sociale in forma conflittuale, non ha la disponibilità per decidere di accogliere qualcuno. Quando questo accade, il dispositivo si rompe, e questa rottura comporta seri danni per chi contava di arricchirvisi. Lorna resterà insieme al suo Claudy (ucciso con una overdose) perché per lei non sarà più possibile tornare indietro. Il suo silenzio (come recita il titolo originale) è il segno di un sottrarsi ad un dispositivo non più riconosciuto e disumanizzante. È il sottrarsi ad una piccola comunità dalla quale non vuole essere più riconosciuta e che non vuole riconoscere. Anche se il tradimento di un patto criminale sarà la sua fine, è in questa fine decisa che Lorna sentirà forse per la prima volta la libertà e la forza impareggiabile di una scelta, che la porterà ad amare e a sentirsi amata: 143

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Essere anche per un momento oggetto di un amore esclusivo e infinito di un altro è il modo umano di uscire dalla paura e dall’odio, di amarci come essere separati, di riconoscere il tempo della mortalità, di vivere la relazione con l’altro senza volerlo distruggere […]. Essere salvato da un altro che mi riconosce, che riconosce “me”, che non divengo tale se non in virtù di tale riconoscimento. Nascere al mondo per l’altro che mi riconosce! Amami! Riconoscimi! Non lasciarmi preferire la morte! Aiutami ad uscire! Aiutami! Amami!1

Ora, l’umano non è un punto di partenza, non è un dato e in fondo non è neanche una facoltà, ma è un punto di arrivo, una credenza che per essere tale, per poter emergere in quanto tale, necessita di una occasione, di un incontro, di una scoperta che si rivela inizialmente come trauma, perché comporta una rottura dei dispositivi. Per Rosetta, la presenza di quel ragazzo che la cerca viene rimossa, perché tutta la sua forza è orientata verso il riconoscimento lavorativo. Rosetta attraverso il lavoro chiede un riconoscimento che la sottrarrebbe alla sua posizione di marginalità sociale; ma per giungere a tale obiettivo rischia di disumanizzarsi definitivamente. Denuncia, infatti, il ragazzo che l’ha aiutata e la cerca, per poter prendere il suo posto al lavoro, e arriva perfino ad avere un momento di incertezza prima di aiutarlo, quando sta annegando nel lago (la morte di lui le L. Dardenne, Sur l’affaire humanine, Seuil, Paris 2012, pp. 101-102.

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avrebbe garantito il posto di lavoro). Ma la cosa non può tenere: i Dardenne seguono la materialità delle relazioni e la durezza delle rivendicazioni che legano, escludendola, Rosetta al mondo. L’incontro con quel ragazzo che la cerca viene ignorato fino a quando non si tocca il punto estremo di non ritorno: un mancato suicidio perché la bombola del gas è finita, e Rosetta che piange, guardando il ragazzo che si china e l’aiuta, nonostante tutto, a rialzarsi dopo la sua caduta nel tentativo di trasportare la nuova bombola. L’umano si raggiunge alla fine di un lungo percorso, e l’approdo non è scontato: il pianto ne segnala il compimento. C’è sempre il rischio di una frantumazione, di un mondo che si dissolve e di un io che scompare prima che possa rigenerarsi. Prima di riconoscere ciò che ci apre al mondo, e che dunque ci espone in tutta la nostra fragilità, si passa per difese, armature, maschere, che ci portano ad allontanare il mondo e ad allontanarci da esso, fino a toccare il fondo: omicidio o suicidio esso possa essere (La promesse, Il figlio, Il matrimonio di Lorna). In questo anticipare la morte, per scongiurare il nostro essere mortali che una situazione di marginalità non fa che presentarci con più forza, può sorgere imprevedibile lo spazio di una nascita, della scoperta della gioia di vivere e non solo della volontà di farlo («Per vivere, l’essere umano non deve solo voler vivere ma amar vivere»)2. E nascere e rinascere sono due atti spesso sovrapposti: il soggetto deve essere pronto, nella venuta al mondo di qualcuno, a rinascere lui stesso. 2 

Ivi, p. 70.

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Cosa che non accade al padre de L’enfant, che vende il neonato come qualsiasi altro oggetto rubato, totalmente inconsapevole (una inconsapevolezza che prende le forme di una distanza radicale da ogni forma di esperienza) di che cosa sia un bambino e un figlio: tant’è che dice alla ragazza che possono farne un altro per sostituirlo. Da questa inesperienza, Bruno risale solo in forma traumatica, in conseguenza della reazione della ragazza, Sonia, che prima sviene e poi lo denuncia. Bruno riprenderà il neonato, ma il prezzo da pagare sarà alto: dovrà restituire il doppio della cifra incassata sia pur per poche ore. Cosa molto difficile, che lo costringe ad un furto arrischiato, durante il quale un suo giovanissimo aiutante viene arrestato. Bruno si consegnerà alla polizia, e il finale vedrà Sonia andarlo a trovare in prigione dove insieme piangeranno. La scoperta dell’umano, del desiderio che ci lega agli altri, e che è in primo luogo desiderio di riconoscimento, avviene solo dopo un lungo cammino, di errori, colpe e possibilità di riscatto3. E ne L’enfant questo riconoscimento presuppone quello della terzietà della legge, solo attraverso la quale Bruno può percepire i suoi propri limiti, riconoscere gli errori compiuti, e ritrovare Sonia. Il riconoscimento dell’umano nell’uomo è in primo luogo riconoscimento della condizione umana (finita e limitata) e della sua possibilità di essere

3  Qui l’analogia con il finale di Pickpocket di Bresson è chiara, quando Michel nel finale sussurra, al di là delle sbarre, all’orecchio di Jeanne: «Pour aller jusqu’à toi, quel drôle de chemin il m’a fallu prendre».

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Umano

trascesa attraverso l’incontro con l’altro, attraverso la nascita di un sentimento d’amore: C’è al fondo della fragilità dell’io un punto di gioia più intenso che ogni paura della morte, ogni paura e odio dell’altro. Questo punto di gioia in me viene da te che mi ami assolutamente, che mi riconosci. È per te che si apre l’accesso a questa gioia. Per me solo, essa mi sarebbe rimasta per sempre sconosciuta, non inaccessibile ma senza via d’accesso, inesistente4.

Ed è per questo che Lorna, rimasta sola, deve “inventare” l’altro, un figlio in grembo, per poter ritrovare quel lampo di umanità che l’incontro imprevedibile con Claudy aveva determinato. Quell’altro illusorio, immaginario, non potrà essere la via d’accesso ad una vita felice, ma il segno di un punto di fuga da una situazione senza speranza. Se da soli la nostra via di accesso alla felicità è interdetta, l’incontro con l’altro diventa la via prioritaria per scoprire l’umanità che è in noi, che ci separa unendoci, che ci unisce separandoci. La marginalità sociale dei personaggi, dunque, permette ai Dardenne non tanto di affermare prese di coscienza politica dello stato del mondo, quanto di misurare nel riconoscimento sociale la necessità, fondativa, di un riconoscimento intimo. L’importanza del denaro (L’enfant), di una presenza al mondo che sia rappresentata da un documento d’identità (Il matrimonio di Lorna), 4 

L. Dardenne, Sur l’affaire humaine, cit., p. 135.

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Roberto De Gaetano

di un lavoro come entrata in una dimensione sociale (Rosetta), di una paternità ricercata, perché assente (Il ragazzo con la bicicletta), ebbene tutte queste lotte per il riconoscimento sono vane se non contemplano un riconoscimento intimo che solo l’incontro d’amore può determinare. Questo perché il riconoscimento intimo è quello che permette ai soggetti coinvolti di trasformarsi e cambiare veramente, facendo sì che il carattere finito della vita non sia la condizione per vivere nella paura della morte ma per trascenderla, e trasformarla nella gioia di vivere qui ed ora, insieme a chi ci sta vicino, questo tempo di passaggio. L’incontro, che è in primo luogo riconoscimento del “nulla” che ci tiene insieme, e a cui bisogna fortemente corrispondere se vogliamo trovare una via di accesso alla felicità, per sottrarci alla paura di morire come paura fondativa che spinge l’umano verso la sua inumanità: «Divenire viventi è amarsi, amare se stesso e amare l’altro, amarsi come separati. Ecco lo svelamento possibile dell’affare umano!»5. Ma amare se stessi ed amare l’altro, sottrarsi ai dispositivi indifferenti che regolano la vita sociale, sia quelli segnati dal bisogno da parte dei personaggi socialmente marginali, sia quelli oliati della vita borghese, significa in primo luogo amare in sé l’infanzia come disponibilità infinita ad accogliere l’amore dell’altro e a darlo, e con ciò stesso a trovare la gioia di vivere. L’infanzia è la forza di nascere felicemente alla vita attraverso l’incontro amoroso con l’altro: «Ad ogni età, noi ci svegliamo di nuovo 5 

Ivi, p. 81.

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Umano

bambini, riattraversando il momento della paura passata, dimenticata attraverso l’amore»6. La paura e la morte si trasformano in Lorna in una gravidanza immaginaria: parto della mente più che del corpo; parto che riapre, nell’immaginare un bambino in arrivo, l’unico margine di vita possibile in un mondo che si è definitivamente allontanato. La paura di non esserci, di non poter esserci, di non esserci più, assale tutti i personaggi dei Dardenne, a partire da Rosetta, perché è la paura che il nostro essere nel mondo non sia riconosciuto dall’altro e dagli altri, non abbia cioè la necessaria sutura simbolica (lavoro, identità, amore): «Rosetta è ossessionata dalla paura di scomparire. Proprio in questa ossessione germoglia l’idea dell’omicidio. Uccidere sua madre, quella che le ha dato la vita? Riquet, il nemico? La paura è dominante, più dell’amore»7. L’infanzia, la nascita, l’apertura di un tempo umano, si oppongono a questa paura, contrariamente a molti atteggiamenti che la includono eludendola, per esempio quelli tipici dell’infantilismo irresponsabile di molti personaggi maschili: l’infantilismo, impermeabile ad ogni esperienza, di Bruno (L’enfant) prima di costituirsi alla polizia, cioè prima di pagare il suo debito simbolico che solo gli consente di (ri) trovare il mondo e la vita, o quello del padre de Il ragazzo con la bicicletta, totalmente incapace di sostenere la presenza del figlio o, sempre nello stesso 6 

Ivi, p. 157.

L. Dardenne, Dietro i nostri occhi. Un diario, tr. it., Isbn Edizioni, Milano 2009, p. 48. 7 

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Roberto De Gaetano

film, quello del compagno di lei che, narcisisticamente, sottopone alla donna l’alternativa fra lui e il ragazzo, che non avrebbe potuto che avere un’unica risposta: il ragazzo, naturalmente. L’infantilismo deresponsabilizzato è ciò che si oppone all’infanzia come venuta imprevedibile al mondo, come evento che non rientra in una logica dell’azione (dei fini e dei valori) e che ci obbliga a cambiare, ce ne dà l’opportunità. La promessa che il ragazzo fa all’operaio morente nel film omonimo, l’adolescente omicida che si trova, per caso, a lavorare nella falegnameria del padre dell’ucciso (Il figlio), l’incontro nello studio medico del ragazzo e della donna che lo “adotterà” (Il ragazzo con la bicicletta), definiscono le occasioni imprevedibili che mettono il soggetto, che si trova in disponibilità, per anagrafe, status sociale, situazione esistenziale, nella possibilità di cambiare. Senza l’imprevedibilità di un incontro la vita si trasforma in un dispositivo ferreo ed inesorabile, retto dal controllo e dall’interesse, lontano da ogni possibilità di vita felice. È la nascita, e l’infanzia come momento aurorale dell’esistenza, ad affermare la possibilità di cambiamento imprevedibile, che ci apre all’umano nel riconoscimento della singolarità separata, limitata e finita che siamo, e in questo ci dispone alla felicità di vivere, di “vivere con” (vivre avec come formula di una vita propriamente umana)8.

«Vivere con, ecco la via umana, la sola via possibile dopo la morte di Dio e degli idoli che suppliscono alla sua scomparsa», Id., Sur l’affaire humaine, cit., p. 134. 8 

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Umano

E allora l’eternità nell’esistenza non è tanto l’affermazione di una onnipotenza mortifera, quanto la scoperta del suo momento gioioso, quello che emerge in un incontro d’amore, che il bambino annuncia in tutta la sua imprevedibilità: «Il bambino sopraggiunge, sorprende. Confonde le carte. Atteso o no, trascende ciò che lo precede. Intensità di una rottura, del passaggio da un nulla ad un tutto»9. E in questo sopraggiungere il bambino fa emergere l’umano nell’uomo, il sentimento di un essere-con, di una singolarità condivisa: la nascita, come avvenimento felice carico d’alterità, dà precisamente all’umano l’esperienza di una alterità inversa a quella della sua morte che arriva, un’esperienza che può attenuare l’angoscia generata dalla prospettiva della sua morte. L’altro sconosciuto è anche colui che viene al mondo, e non solo lo sconosciuto della mia morte10.

E allora i limiti con cui si misurano tutti i personaggi dei Dardenne, la materialità del loro operare, i dispositivi ferrei che li stringono, sono le condizioni che definiscono un soggetto vincolato, e che gli fanno immaginare una situazione immodificabile se non attraverso un’azione criminale. La libertà allora emerge nel momento estremo, quando tutto sembra perso inesorabilmente: Rosetta, dopo il suicidio fallito, scoppia a piangere guardando il ragazzo che la segue Ivi, p. 166.

9  10 

Ivi, p. 167.

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Roberto De Gaetano

e l’aiuta a rialzarsi. Un pianto che è il segno del sentimento di una vita offesa, di una vita non riconosciuta, che stava per svanire sotto l’incombere di una cecità ingombrante data dalla miseria, e che viene ripresa solo per la coda, accolta in un pianto che dice tutto il dolore patito con fermezza, lo sforzo fatto con tenacia, e che ritrova nel riconoscimento dell’altro, insistente e partecipe nonostante tutto, il suo evento miracoloso, la sua rinascita. La stessa rinascita accompagnata dal pianto di Bruno nel finale de L’enfant, o la rinascita letterale del bambino dopo la “morte” per caduta dall’albero ne Il ragazzo con la bicicletta. Rinascere significa far riprendere la propria vita nel momento in cui sembrava senza via d’uscita, sentire la possibilità che il cambiamento arrivi, per effetto di un miracolo, di una scoperta, di un incontro: un accordo fra un accadimento ed una disponibilità, che arrivi al momento giusto, che è (quasi) sempre un momento prima della fine. Rinascere significa dunque scoprire in sé, per effetto dell’incontro con un altro, quell’umanità che ci permette di sottrarre la vita al suo essere un mero dispositivo con una fine assegnata. Le storie dei Dardenne sono eminentemente storie tragiche, fondate sulla inscindibilità del personaggio dall’intreccio, e raccontano il destino di una vita capace di riscattarsi (imprevedibilmente) in un finale “commedico”, dove emerge la capacità e forza che ha un soggetto, e il cinema che vuole raccontarlo, di riprendere il filo del suo percorso, quando dallo scetticismo e dalla diffidenza è capace di attivare la fiducia nel mondo e nell’altro. E questa credenza nel mondo, infranto ogni schermo illusorio, peraltro debole nei personaggi marginali dei Dardenne, e 152

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Umano

superato lo scetticismo disperato di chi non si sente riconosciuto in nulla, diventa l’unica possibilità per un individuo di riaprire un rapporto con il mondo e per il cinema stesso l’unico reale suo compito. È stato il compito dei Bresson, dei Rossellini, ed ora dei Dardenne che, in una versione religiosa o laica, non hanno assegnato al cinema che la sua missione più alta, non quella di illuderci su alcunché (come molto cinema hollywoodiano) né di elaborare e costruire una visione critica del presente (come in certo cinema intellettuale europeo), ma quella di tessere il filo che lega l’uomo al mondo, le immagini alla vita: «Missione infinita per il cineasta: far sì che il mondo sia, far sì che l’uomo sia, vedendolo e facendolo vedere. La sua solitudine è maggiore che ai tempi di Pascal, e anche il suo spavento, poiché il silenzio degli spazi infiniti adesso è nello sguardo degli uomini»11. Far sì che il mondo sia, far si che l’uomo sia, ma anche far sì che il cinema sia, è questo il compito più alto, la missione infinita a cui i Dardenne corrispondono, e a cui anche i discorsi sul cinema devono corrispondere, sottraendosi al flirt continuo con i brandelli di immaginario con cui un certo cinema gioca, e alla visione apocalittica che nel cinema legge solo i segni della fine. Inventare una storia, costruire un’immagine, raccordarla con le altre, dar vita ad un mondo e farlo abitare, è questo il compito di artisti che in ogni loro passo (film o scrittura) ci riconsegnano l’impegno e la gioia di questo sforzo, che è l’impegno e la gioia di vivere. 11 

L. Dardenne, Dietro i nostri occhi. Un diario, cit., p. 82.

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Vicinanza

Daniele Dottorini

VICINANZA

Un ragazzo arriva in motorino davanti a un edificio dove degli operai stanno lavorando. Correndo grida a tutti di andarsene, perché stanno arrivando gli ispettori del lavoro. Tutti si muovono rapidamente, la macchina da presa a mano segue il ragazzo che passa da un luogo all’altro dell’edificio passando rapidamente parola. Un uomo sta lavorando su un’impalcatura issata lungo il muro dell’edificio. Il ragazzo si affaccia alla finestra (inquadratura dal basso verso l’alto dell’esterno dell’edificio) e avverte l’uomo di andarsene e di spegnere la musica che sta ascoltando da un piccolo registratore. Stacco (inquadratura ravvicinata dall’interno dell’edificio), il ragazzo scende le scale. Stacco (inquadratura dall’esterno), l’uomo spegne il registratore e si avvia verso la scala rapidamente. Stacco (interno), il ragazzo sente un rumore e si affaccia alla finestra. Stacco (esterno, inquadratura ravvicinata sul ragazzo chino su qualcosa, è il corpo dell’uomo disteso a terra), il ragazzo dice all’uomo: «Non puoi morire». 1. Un corpo che cade a terra da una notevole altezza, un essere che muore. Il dramma che cambia la vita 155

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Daniele Dottorini

del ragazzo protagonista de La promesse dei fratelli Dardenne. Un blocco di inquadrature secche, nervose, rapide, tagliate sul movimento e caratterizzate da una macchina a mano che fatica a tenere in campo i corpi mobilissimi degli attori. È una delle scene chiave di tutto il cinema dei Dardenne, non solo perché La promesse, da cui è tratta, costituisce un turning point importante della loro opera (dopo questo film inizierà un nuovo percorso realizzativo che proietterà ben presto i Dardenne nell’olimpo del cinema d’autore internazionale), ma anche perché questa sottosequenza illumina con il suo découpage un modo di pensare il cinema, di fare cinema a partire dalla vicinanza con i corpi, vicinanza, come vedremo, non solo in termini “fisici”, ma anche, se non soprattutto, etici. Un corpo che cade. Come filmarlo? Perché filmarlo? La memoria corre ad altre immagini, ad un’altra sequenza centrale di un regista che ha inaugurato un modo di vedere e di pensare il cinema. La caduta-suicidio di Edmund in Germania anno zero di Rossellini. Anche qui un pugno di inquadrature secche – Edmund che si copre gli occhi e si lascia cadere, un’inquadratura brevissima del corpo che cade (campo lungo), il corpo di Edmund senza vita, a terra, inquadrato dall’alto. Cosa accomuna queste due sequenze? Anzitutto il rapporto tra ciò che si vede e ciò che è possibile vedere. Il corpo che cade (e muore) è in Rossellini come nei Dardenne un’immagine oscena, nel senso proprio di un’immagine che si pone al di là (o al di qua) della rappresentazione. Ogni evento tragico nel cinema del regista romano (dalla morte di Pina in Roma città aperta alla caduta del figlio di Irene in Europa ’51, fino appunto alla morte 156

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di Edmund) è un evento che passa nel flusso del film come un accento rapido, un momento del visibile che è subito proiettato indietro nel tempo, perché la regia non vi si sofferma. La morte, l’evento tragico marcano certo il cinema come la vita, ma ne fanno parte e non devono essere crudelmente sottolineate. Pina muore, ma l’inquadratura di Aldo Fabrizi che la tiene teneramente tra le braccia mentre suo figlio si dispera dura solo un istante, perché i corpi cadono in un istante e il cinema non può giocare sporco e soffermarsi su di loro, insistere voyeuristicamente sulla loro agonia. È una storia nota, questa. Ed è facile risentire nella mente le parole di Bazin sull’infilmabilità della morte e dell’orgasmo o le riflessioni di Rivette e di Daney sul famigerato carrello di Kapò di Pontecorvo, quando la macchina da presa si avvicina lentamente ad Emmanuelle Riva morta fulminata dal filo spinato elettrificato del campo di concentramento, contornando “esteticamente” il suo corpo all’interno dell’inquadratura. Si potrebbe allora pensare che la scelta di non vedere la caduta di Hamidou – l’immigrato clandestino africano che vive e lavora in nero nella casa gestita da Roger, il padre di Igor, il ragazzo della sequenza con cui abbiamo aperto questo percorso – sia una scelta anzitutto etica, legata alla necessità di non mostrare ciò che non è necessario eticamente mostrare. È così, ed è anche altro. Perché la ripresa contemporanea di un modo di filmare, di un modo di vedere e fare cinema significa avere a che fare sempre con qualcosa in più, un surplus teorico che va indagato e affrontato e che ha a che fare, in questo caso, con una forma e un principio dello sguardo cinematografico, quello 157

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Daniele Dottorini

“Come sfuggire a colui che vi ama e che voi amate? Chi vi tirerà fuori da lì? Chi permetterà che il figlio arrivi a vedere, inquadrare, creare un foro, un vuoto? Un altro. E dovrà venire da lontano, da molto lontano”

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della vicinanza, che nel cinema dei fratelli Dardenne assume, a partire da La promesse, certo, ma anche in relazione a tutto il loro cinema precedente e successivo, un ruolo centrale e determinante. 2. Luc Dardenne, nel suo testo-diario, Dietro i nostri occhi, consegna, quasi sotto forma di aforismi, una serie di riflessioni non tanto sul cinema, quanto sulle domande che il cinema (fare, pensare, vivere il cinema) pone. Testi che possono alternarsi come fuoricampo necessari alle immagini, ma anche come interrogativi posti di fronte alla visione di ogni immagine passata o futura. In un brano, datato 27 aprile 1993 (durante la lavorazione de La promesse), si legge: André Bazin scrive nel suo libro su Jean Renoir: “Renoir ha capito la vera natura dello schermo, che non è affatto inquadrare l’immagine quanto nasconderne i contorni […]. Alla struttura più tradizionale dell’immagine, al cinema aneddotico e teatrale ereditato in blocco dalla pittura e dal teatro, all’unità plastica e drammatica dell’‘inquadratura’, Renoir sostituisce lo sguardo ideale e insieme concreto della macchina da presa. Di conseguenza, lo schermo non cerca di dare un senso alla realtà, ma ce la consegna come una griglia crittografica ruotata sul testo cifrato”. Continuare in questa direzione. Non inquadrare l’immagine quanto nasconderne i contorni. Spingersi fino a nascondere l’immagine stessa, fino a perdere l’inquadratura nella materia. Che l’immagine diventi materia alla ricerca dell’inquadratura. Che la griglia crittografica non si possa più ruotare, 159

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che il documento resti cifrato1.

Proprio mentre lavorano a La promesse, i Dardenne riflettono sui fondamenti stessi del filmare, sull’idea renoiriana (ma anche rosselliniana, in fondo), che il nucleo vitale, pulsante, di ogni immagine, non sia l’inquadratura (entro la quale allora ogni elemento del mondo deve trovare spazio in una composizione interna), ma lo «sguardo ideale e insieme concreto della macchina da presa». L’inquadratura è una messa in forma, cerca «di dare un senso alla realtà», per cui bisogna spingersi in questa direzione, «fino a nascondere l’immagine stessa, fino a perdere l’inquadratura nella materia», per fare in modo che «l’immagine diventi materia alla ricerca dell’inquadratura». Ciò che sta alla base del lavoro del film è allora il movimento continuo, che scarta da ogni tentazione di chiudere il quadro intorno ai personaggi. La macchina a mano, l’ossessiva vicinanza ai corpi che non fanno che muoversi, ora lentamente ora velocemente, a scatti o in modo fluido, nervosi o disperati, preoccupati o terrorizzati, eccitati o privi di forze, lavorano in questa direzione. Il primo significato della vicinanza per i Dardenne è allora quello che ha a che fare con la necessità di muoversi, muovere lo sguardo, seguire sempre e comunque un flusso, un movimento, un personaggio. Il cinema è in fin dei conti un continuo inseguimento e una continua fuga, ricorda Marie-José Mondzain: «l’immagine è divenire, e ci mette in movimento, non L. Dardenne, Dietro i nostri occhi. Un diario, tr. it., Isbn Edizioni, Milano 2009, pp. 16-17.

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c’è riposo, né pacifica stabilità»2. Dunque la forma (che non è mai totalmente forma) più propria del cinema è il movimento continuo. Portando alle estreme conseguenze quello che è anche il punto di partenza del rapporto tra cinema e filosofia in Deleuze (la constatazione che l’immagine cinematografica è già di per sé immagine-movimento e immagine-tempo, e non un’immagine a cui si aggiunge movimento e tempo), Mondzain rintraccia nella fuga e nell’inseguimento il significato (la forma?) propria del cinema, destinata a non terminare mai (sempre che si parli di immagini e non di cliché). Avvicinarsi significa allora sfuggire alla trappola della forma, essere costretti (volere) sempre cercare l’impossibile messa a fuoco dei corpi in movimento, di una materia in continua trasformazione. Scrive ancora Luc: «Avviene un assassinio. Appare la forma. Impossibile sfuggire. Eppure qualcosa deve sfuggire»3. La forma come prigione, condanna, da cui fuggire a tutti i costi, proprio attraverso il movimento continuo della macchina da presa, attraverso l’impossibile inseguimento dei corpi, che ogni volta non riusciranno a essere totalmente dentro l’inquadratura, catturati, presi. È in questo senso che acquistano pregnanza allora tutte le riprese di inseguimento che costellano il cinema dei Dardenne, da Rosetta, inseguita alle spalle mentre furiosa si reca presso il caporeparto in fabbrica, alle corse in bicicletta di Cyril M.-J. Mondzain, L’image (à suivre), Bayard, Montrouge Cedex 2011, p. 53.

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L. Dardenne, Dietro i nostri occhi. Un diario, cit., p. 18.

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ne Il ragazzo con la bicicletta, fino allo stesso Igor in motorino, a piedi, di corsa ne La promesse. In queste riflessioni si agita una consapevolezza che crea, lo si è detto, uno scarto, una presa di coscienza nel cinema dei due autori belgi. Compiendo un salto indietro nel tempo, si potrebbero allora cogliere i segni di questo movimento dello sguardo e del cinema. In un documentario del 1980, Pour que la guerre s’achève, les murs devaient s’écrouler, il punto di partenza, il problema centrale è quello di come raccontare un evento, il grande sciopero operaio del 1960, data di inizio di un periodo di forte sperimentazione collettivistica, della nascita di giornali operai e di gruppi politici e culturali alternativi. Come raccontare un evento? – si chiede il film. Il prologo introduce tre modalità attraverso le quali si può “iniziare” un film: una prima modalità è quella di fare riferimento ad un testo, una testimonianza intellettuale, un principio teorico (su sfondo nero appare una citazione di Ernst Bloch); la seconda modalità è quella di lavorare sulle immagini d’archivio, mostrarne, grazie al commento di una voce fuori campo, la fragilità, l’impossibilità che possano dire tutto, il loro carattere anche effimero. Una terza modalità è quella di scegliere un testimone diretto, affidarsi a lui, scegliere la sua voce e il suo pensiero, lasciare che sia lui a guidare il percorso all’indietro della memoria. Ma per far questo, il film sceglie anche di “inquadrare” il suo personaggio, a casa, in strada, nei luoghi che una volta erano i suoi luoghi di lavoro. Lo mette in scena di fronte alla macchina da presa, gli chiede di ripetere i suoi gesti di allora, le sue parole, i suoi pensieri. Lo inquadra seguendo figure cinematografiche riconosciute: figura intera, piano 162

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americano, primo piano. Il suo corpo non eccede mai i limiti della rappresentazione, il suo movimento non sfugge all’occhio della macchina da presa. Ecco di nuovo l’inquadratura come “cattura”, luogo che costruisce la forma. Il passaggio dal documentario al cinema di finzione (perlomeno da La promesse in poi) avviene allora in questo senso: si tratta di un passaggio da una forma (fluida, certo, sperimentale, capace ogni volta di interrogare se stessa, ma pur sempre una forma) che necessariamente crea una distanza, a un tentativo sempre aperto di non creare una forma, di costruire una sorta di inseguimento continuo dei corpi, ricercando una vicinanza ossessiva e lasciando che i corpi si muovano in continuazione, entrando e uscendo dai limiti del quadro. È questa la prima forma delle vicinanza, quella impossibile e mobilissima che nel cinema dei Dardenne cerca di inseguire ciò che non può essere (non deve essere) catturato. Paradossalmente, allora, è proprio qui che il cinema dei Dardenne raggiunge il limite stesso del cinema di finzione e si avvicina alla forma documentaria, proprio nel ricostruire il movimento impossibile del cinema del reale, un movimento che ha a che fare con l’imponderabilità dell’evento, con la necessità di filmare al cuore delle cose, o di arrivare un attimo prima o un attimo dopo; un cinema che fa dello scacco (della forma) la sua forza e la sua potenza. Un cinema che riprende dalle teorie del cinema del reale il suo desiderio di ricerca, proprio perché è in questa modalità di pensare il cinema (quella che costruisce il suo percorso a partire dal reale), che la riflessione dei Dardenne ha inizio. Nicolas Philibert, riflettendo sul suo film Nenette, 163

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un documentario su una scimmia ripresa dentro una gabbia in uno zoo, afferma: «È un film sullo sguardo, sulla rappresentazione. Una metafora del cinema, del documentario in particolare, come “captazione” e come “cattura”. Poiché filmare l’altro vuol dire sempre chiuderlo all’interno di una inquadratura; bloccarlo, a un certo punto. Imprigionarlo»4. Mantenere aperto l’inseguimento, cercare a tutti i costi di evitare la “cattura” dell’altro all’interno dell’inquadratura. Quello che è uno dei problemi teorici e pratici del documentario diventerà nei Dardenne la modalità con cui costruire una forma possibile di cinema tout court. 3. La seconda forma della vicinanza è quella della prossimità, intesa nel senso proprio del rapporto che si instaura con il prossimo, filmandolo e raccontando, a partire da questa prossimità, una storia. In Lorsque le bateau de Léon M. descendit la Meuse pour la première fois, i Dardenne raccontano le lotte operaie in belgio attraverso un altro interlocutore, un vecchio operaio metalmeccanico che ha costruito da solo una barca e che ora si appresta a fare, sempre da solo, il suo viaggio inaugurale. Il viaggio, l’impresa, il fiume, la costruzione paziente del battello. La regia costruisce il tempo della lavorazione attraverso il montaggio, elaborando il processo di costruzione della barca mediante il montaggio che segue il principio del ritmo del martello, del trapano, del cacciavite. Le

N. Philibert, Nenette, in Catalogo del 50° Festival dei Popoli, Festival internazionale del cinema documentario, Alsaba Grafiche, Siena 2009, p. 50.

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Vicinanza

immagini della barca che naviga sul fiume fanno da contrappunto a questo movimento. I ricordi del vecchio operaio si schiudono di fronte alla videocamera e il suo racconto si riflette nelle immagini di repertorio e nelle testimonianze (filmate in piano americano o figura intera) di altri protagonisti di quegli eventi storici. Tutto costruisce una prossimità fittizia, in cui Léon, il vecchio operaio, diventa puro segno poetico di una ricerca incessante, quella di rendere visibile l’evento passato. Ciò che viene sacrificata allora è proprio la prossimità, in tutti i sensi: la vicinanza della videocamera al corpo che sta raccontando (congelato, in un certo senso, nella posizione di segno, finanche di simbolo), la vicinanza agli eventi, che non si possono raccontare se non attraverso una mediazione, a “distanza” (il piano americano o la figura intera). La forma documentaria dei Dardenne sembra allora muoversi in quel territorio che mostra i limiti della rappresentazione. Riecheggiano qui le parole di Kieslowski sul suo passaggio dal documentario al cinema di finzione, un passaggio teso a superare quelli che, per il regista polacco, erano i due limiti del cinema documentario: anzitutto un limite di tempo, legato alla durata del film documentario, che non può spingersi oltre un certo punto. In secondo luogo, e ancora più importante, esiste un limite morale che la macchina da presa non può oltrepassare. È il limite della vita privata di un individuo, che non ritengo sia giusto violare. Mostrare la vita di un individuo – una vita che è inevitabilmente manipolata dalla macchina da presa – è una responsabilità morale con cui ogni 165

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autore che realizza questo tipo di film deve fare i conti. Il discorso cambia radicalmente con gli attori professionisti, ai quali io posso chiedere senza nessuna remora di “interpretare” fino in fondo la vita privata di un personaggio, e quindi mostrarla per mezzo delle immagini5.

Nel discorso lucido e sintetico di Kieslowski sembra quindi emergere lo stesso passaggio che in fondo caratterizza il percorso dei due fratelli belgi: il limite del documentario è soprattutto “etico”, perché la prossimità essenziale di ogni sguardo cinematografico non può che arrivare fino ad un certo punto, oltre il quale l’immagine è violenza, sopraffazione, sfruttamento dei corpi filmati. Su questo limite, come si sa, il dibattito è lungo e stratificato e le posizioni contrastanti. Basti pensare alla differenza tra due film come Torre Bela di Thomas Harlan e Tarhir Liberation Square di Stefano Savona, entrambi legati alla necessità di filmare due eventi collettivi (la presa di possesso e collettivizzazione di una fattoria portoghese durante la rivoluzione dei garofani e gli eventi di Piazza Tarhir al Cairo durante la rivoluzione egiziana del 2010)6. I due film sviluppano forme diverse dell’essere “vicini”, dell’essere prossimi: se il primo lavora su un ossessivo movimento avanti e indietro della macchina da presa, che sembra tuffarsi

Conversazione con Krzysztof Kieslowski, a cura di D. Dottorini, in “Filmcritica”, n. 457 (1995), p. 344.

5 

Devo a un suggerimento di Marie-José Mondzain il confronto tra i due film, apparentemente simili eppure diversissimi.

6 

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tra i corpi dei contadini in agitazione e un attimo dopo ritrarsi spaventata, il secondo (girato con una Canon 5D, macchina invisibile e irriconoscibile di fatto) si muove tra i corpi nella consapevolezza di dover essere “adottato” dai personaggi, nella coscienza di raccontare una relazione tra sé e l’essere vivente che sta raccontando. Il movimento fluido è sì immersivo, ma capace di mantenere aperta la relazione, cercando ogni volta la “giusta” distanza. La giusta distanza. Anche per i Dardenne si è trattato, come per Kieslowski, di compiere un passaggio necessario: «Ad un certo punto […] abbiamo pensato che sarebbe stato bello raccontare le nostre storie»7. Ma per poterle raccontare c’è bisogno di pensare la prossimità come costruzione, operazione del set. Ed ecco allora, a partire da La promesse, la necessità di pensare e organizzare il piano sequenza come scrittura dell’inseguimento, del movimento capace di non rinchiudere mai un corpo in una forma-inquadratura prestabilita. Dove si colloca allora la vicinanza? Paradossalmente, ancora una volta, nella procedura totalmente documentaria che attraversa il lavoro sul set, prima ancora delle riprese: ciò che si costruisce è un’atmosfera, un ritmo vitale che è precedente alla ripresa vera e propria («convochiamo sul set i tecnici quando noi abbiamo più o meno trovato il ritmo della sequenza, gli spostamenti degli attori e la posizione della macchina da presa. A quel punto i

Scoprire l’altro. Conversazione con i fratelli Dardenne, a cura di L. Mosso, Feltrinelli, Milano 2006, p. 6. 7 

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tecnici ci raggiungono sul set, ma non prima»8). Ma una volta trovata l’atmosfera “reale” di un momento, di una scena, la prova deve essere filmata («preferiamo una prova filmata a una prova “a secco”, perché arriva il momento in cui gli attori hanno bisogno di “tuffarsi”»). Il processo è dunque complesso, la preparazione maniacale e ogni movimento di macchina difficile. Eppure la dimensione “documentaria” è già tutta in questa necessità di filmare e preparare prima, nella costruzione dell’“evento” e della sua verità. Raccontando la genesi della sequenza finale di Rosetta, il celebre “inseguimento” in piano sequenza della protagonista, Jean-Pierre Dardenne svela di fatto una modalità fondamentale del metodo di lavoro. Quella scena non faceva parte della sceneggiatura ed è stata girata alla fine – i fratelli Dardenne filmano sempre in ordine narrativo le scene di un film, perché gli attori si caricano della storia: «Alla nona settimana di riprese, gli attori, infatti, erano già carichi di tutta la storia. Erano molto più maturi, molto più morbidi, come la pelle conciata a lungo. C’è bisogno di arrivare a questo stadio per girare scene simili»9. Girare il film diventa una sorta di tempo dilatato, necessario perché i corpi e gli spiriti si modifichino, cessino di essere attori per diventare materia plasmata («morbidi, come la pelle conciata a lungo»), assumano su di sé le tracce della storia che stanno interpretando. È in questa ossessiva preparazione che allora, para-

8 

Ivi, p. 10.

9 

Ivi, p. 14.

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dossalmente, la scena può diventare imprevedibile: «La scena fu provata più volte, ma restava un ampio margine di casualità. […] E la cosa straordinaria è che a un certo punto, rispetto alle indicazioni che avevamo dato, l’operatore non sapeva più se restare su Fabrizio [Rongione, ndr] o tornare ad inquadrare Rosetta. È anche questo che dà forza alla scena»10. Il tuffarsi nella storia, il processo di immersione degli attori negli eventi che stanno vivendo/recitando, il lungo, ossessivo processo di preparazione della scena, che porta poi i tecnici ad arrivare all’ultimo momento sul set, per filmare ciò che si svolge di fronte ai loro occhi; e, infine, il risultato di una continua indeterminazione dell’immagine, della sua forma, della direzione dello sguardo. È anche questo che dà forza alla scena, dice Jean-Pierre Dardenne; ma tutto questo non è in fondo l’estremo tentativo di recuperare la forza documentaria del cinema all’interno di una storia? Ciò che paradossalmente non riusciva fino in fondo nei loro documentari (che sono però degli straordinari lavori preparatori, laboratoriali e teorici di un cinema da fare), il cogliere, senza congelarlo, il movimento vitale della realtà e farne cinema, diventa l’elemento fondante un complesso e particolarissimo “lavoro” sull’immagine e sui corpi che caratterizza il cinema di finzione dei Dardenne. 4. Dunque la dimensione documentaria del cinema (un vero cinema del reale) si raggiunge con la finzione, mentre il documentario dei Dardenne rimane ancorato 10 

Ibidem.

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a domande, questioni teoriche. Strano e bel rovesciamento. Perché? Per un riconoscimento semplice ma importante: «Il cinema mostra ciò che avvicina, ciò che si avvicina. Ha cominciato con una locomotiva, ha continuato con corpi, occhi, bocche»11, scrive Luc Dardenne nel diario. Avvicinare, avvicinarsi, ricerca della prossimità. È qui, come si è detto all’inizio, che si situa il movimento proprio del cinema. Il cinema inteso come dimensione tattile, quasi; avvicinarsi sin quasi a toccare il mondo, a rivelarlo come materia, corporeità, occhi, bocche, mani, vive, non cadaveri. Come scrive Joseph May: «I film dei Dardenne non sono compresi tanto su un piano simbolico, tramite i personaggi, le scenografie e l’illuminazione, quanto sentiti su un piano tattile ed emozionale»12. Sentire su un piano tattile, cioè lavorare su una vicinanza fisica dei corpi su un supporto immateriale. Il lavoro sul documentario degli anni Settanta e Ottanta è stato anche questo, in fondo. I documentari dei Dardenne erano lavori partecipati, discussi insieme agli abitanti dei territori che stavano filmando, la vicinanza e la prossimità si costruivano prima ancora di filmare. La forma documentaria, dunque, ritorna, ma sotto controllo, in un certo senso, di una grazia e di una provvidenza che la legittimano e di fatto ne negano alcuni aspetti. Ecco allora delinearsi un quadro chiaro di un percorso particolare e intenso come quello dei fratelli Dardenne. Proviamo, prima di tornare con una 11 

L. Dardenne, Dietro i nostri occhi. Un diario, cit., p. 24.

J. May, Jean-Pierre and Luc Dardenne, University of Illinois Press, Champaign 2010, p. IX.

12 

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torsione necessaria a quell’immagine da cui siamo partiti, a riassumerne alcuni tratti. Il cinema dei Dardenne, perlomeno da La promesse in poi (ma si è visto che il lavoro sul documentario è stato un lavoro fondamentale per lo sviluppo di questo percorso), è un cinema che pensa negativamente la forma come cattura e negazione della vita cinematografica dei corpi. Al contrario, l’immagine è già movimento e l’ossessiva presenza del movimento ad ogni livello (piano sequenza, lavoro sui gesti, mobilità degli attori, assenza del campo-controcampo, ecc.), nonché la preparazione del set come grande spazio documentario, spingono nella direzione inversa, quella di un cinema del reale sorprendente e aperto, fondato sull’idea e la pratica di una vicinanza che è di fatto impossibile (e dunque necessaria). Impossibile perché, come affermava Derrida a proposito del tratto continuo del disegno: L’invenzione del tratto non segue, non si regola su ciò che è presentemente visibile, e che sarebbe posto là davanti a me come un tema. Anche se, come si dice, il disegno è mimetico, riproduttivo, rappresentativo, anche se il modello è presentemente di fronte all’artista, bisogna che il tratto proceda nella notte. Esso sfugge al campo visivo. Non solamente perché non è ancora visibile, ma perché non appartiene all’ordine dello spettacolo13.

J. Derrida, Memorie di cieco. L’autoritratto e altre rovine, tr. it., Abscondita, Milano 2003, p. 63. 13 

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Il cinema è un avvicinamento, ricorda Luc Dardenne, una stretta di mano. Ma questo perché avvicinarsi significa essere pronti, accettare la non visibilità completa, definita una volta per tutte, del reale. Il tratto procede nella notte, come dice Derrida (e le parole del filosofo francese possono facilmente migrare in questo senso dal disegno al cinema), ed è anche per questo che esso si può interrompere, è anche per questo che il tratto del visibile può scegliere rossellinianamente di scartare dal flusso continuo per scegliere di non inquadrare, sia pure di sfuggita, ciò che è osceno, che è fuori dalla rappresentazione (la morte, la caduta di Hamidou). I due livelli della vicinanza (la vicinanza come movimento continuo verso i corpi, di un tratto che accetta di procedere nella notte, e la vicinanza come prossimità, come legame etico necessario con chi si sta filmando e in generale con il mondo) denotano la classica contemporaneità, potremmo dire, del cinema dei Dardenne. Classico perché legata a una linea che ha attraversato il cinema in profondità, da Rossellini a Kieslowski, come si è visto, ma anche a gran parte del cinema del reale moderno, così come l’euforia danzante della Nouvelle Vague o l’erranza del cinema dell’esilio (da Raoul Ruiz a Marc Scialom); contemporaneo, perché la sua “inattualità” rispetto alle tendenze più “visibili” del cinema (o post-cinema) degli ultimi anni gli permette di non essere “allineato” con la rappresentazione corrente del mondo, e di fare di questa inattualità una forza, politica ed etica, oggi quanto mai necessaria. In secondo luogo, e perfettamente connesso al primo aspetto, il cinema dei due fratelli belgi è 172

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anche volontà assoluta di controllo, costruzione del set e delle atmosfere, rimodulazione degli attori sin nelle loro più interne sensazioni. Volontà impossibile da realizzare, certo, ma necessaria per raccontare il destino e la determinazione del mondo, presenti nell’immagine quanto il mistero e l’imponderabilità dei corpi e degli eventi. Ed ecco allora tornare la caduta di Hamidou. Caduta rosselliniana, si è detto14, ma anche immagine-sintesi dello sguardo cinematografico dei Dardenne. Lasciare fuori campo la caduta significa da una parte negare il controcampo (vedere Hamidou che cade), e quindi rimanere ossessivamente su Igor, ma anche mostrare che la vicinanza è sempre una scelta che fa i conti con ciò che rimane appunto “fuori”, radicalmente “fuori”, come la morte e l’invisibilità del fuori campo, ma che di fatto determina il fato e il destino degli individui. Ancora, è in questo senso che si può parlare, a ragion veduta, di classica contemporaneità: «La promesse ovvero come un figlio sfugge all’omicidio del padre. Omicidio invisibile e così potente, così soffocante, così perfetto. Come sfuggire a colui che vi ama e che voi amate? Chi vi tirerà fuori da lì? Chi permetterà che il figlio arrivi a vedere, inquadrare, creare un foro, un vuoto? Un altro. E dovrà venire da lontano, da molto lontano»15.

Sulla caduta dei corpi nel cinema di Rossellini e sul rapporto tra fragilità, grazia e indeterminazione, si veda J. Rancière, La favola cinematografica, tr. it., Edizioni di Cineforum/Edizioni ETS, Bergamo/Pisa 2006. 14 

15 

L. Dardenne, Dietro i nostri occhi. Un diario, cit., p. 34.

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“Ho un gran ricordo di quella settimana insonne nella camera di rue des Wallons. Jean-Pierre alle immagini e Luc al suono! Che squadra! Abbiamo perso tutto ciò ma lo ritroveremo”

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Vicinanza

ELENCO DELLE IMMAGINI E DELLE DIDASCALIE

Germania anno zero, p. 6 Rosetta, p. 20 L’enfant, p. 36 Dans l’obscurité, p. 58 Rosetta, p. 80 Il figlio, p. 98 Il ragazzo con la bicicletta, p. 116 Il matrimonio di Lorna, p. 142 La promesse, p. 158 Lorsque le bateau de Léon M. descendit la Meuse pour la première fois, p. 174 Tutte le citazioni sono tratte da L. Dardenne, Dietro i nostri occhi. Un diario, tr. it., Isbn Edizioni, Milano 2009 e Id., Sur l’affaire humanine, Seuil, Paris 2012. 175

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Filmografia

FILMOGRAFIA

Le chant du rossignol. Sept voix, sept visages de résistants. Une ville (Liège) et ses banlieues Id. Regia: Jean-Pierre Dardenne, Luc Dardenne. Origine: Belgio. Durata: 52’. Anno: 1978 (documentario video, perduto). Lorsque le bateau de Léon M. descendit la Meuse pour la première fois Id. Regia: Jean-Pierre Dardenne, Luc Dardenne. Fotografia: Jean-Pierre Dardenne. Suono: Luc Dardenne. Con: Léon Masy, René Albert, Jean Coenen, Jeanine Collas, Georgette Culot, Jean Derkenne, François Dessart, Edmond Guide, François Lothist, Nicolas Moreau, Cathy Motte, Laurent Nizet, Lucien Perpette, Jeanne Princens, Maurice Princens, Cornelis Treuttens, François Van Swain, Martin Warnant, Jean-Pierre Dardenne (voce), Luc Dardenne (voce). Archivi: Frans Buyens, Fonds d’histoire du mouvement wallon, Journal La Wallonie. Produzione: Collectif Dérives, con il sostegno del Ministère de la Culture française de 177

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Filmografia

Belgique. Origine: Belgio. Durata: 44’. Anno: 1979 (documentario video). Pour que la guerre s’achève, les murs devaient s’écrouler Id. Regia: Jean-Pierre Dardenne, Luc Dardenne. Fotografia: Lucien Ronday. Montaggio: Francis Galopin. Suono: Robert Joris. Con: Edmond Guide, Jean-Pierre Dardenne (voce), Luc Dardenne (voce). Archivi: Frans Buyens. Produzione: Collectif Dérives, Radio Télévision Belge Francophone (RTBF), Fleur Maigre Coopération. Origine: Belgio. Durata: 50’. Anno: 1980 (documentario video). R… ne répond plus Id. Regia: Jean-Pierre Dardenne, Luc Dardenne. Fotografia: Stéphane Gatti, Jean-Pierre Dardenne. Montaggio: Jean-Pierre Dardenne, Luc Dardenne. Suono: Jean-Pierre Duret, Eddy Luyckx. Interpreti e personaggi: J.M. Billy, R. Chapelle, E. Luyckx, L. Menoua, V. Michel, M. Minon, R. Querrière, R. Sponar (i K), J. Sapart (l’ingegnere). Produzione: CBA – Centre Bruxellois de l’Audiovisuel, Médiaform Production, Collectif Dérives. Origine: Belgio. Durata: 50’. Anno: 1981 (documentario video).

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Filmografia

Leçons d’une université volante Id. Regia: Jean-Pierre Dardenne, Luc Dardenne. Fotografia: Jean-Pierre Dardenne. Suono: Jean-Pierre Duret. Montaggio: Jean-Pierre Dardenne, Luc Dardenne. Produzione: Marc Minon per Films Dérives, Médiaform Productions, CBA – Centre Bruxellois de l’Audiovisuel. Origine: Belgio. Durata: 47’. Anno: 1982 (documentario video). Regarde Jonathan. Jean Louvet/son œuvre. Son œuvre/Jean Louvet Id. Regia: Jean-Pierre Dardenne, Luc Dardenne. Fotografia: Claude Mouriéras. Montaggio: Guy Souphy, Jean-Pierre Dardenne, Luc Dardenne. Suono: JeanPierre Duret, Dominique Warnier. Interpreti: Jean Louvet, Catherine Bady (voce), Michel de Warzée (voce), Jeanine Louvet, Christophe Leclercq, André Lenaerts, Henri Monin, Guy Pion, Catherine Bady, François Bartels, François Beukelaers, Colette Emmanuelle, Janine Patrick, Maurice Sevenant. Produzione: Marc Minon, Lisa Niccoli per Dérives, WIP – Wallonie Image Production, No-Télé Tournai, Radio Télévision Belge Francophone (RTBF), con il sostegno del Ministère de la Communauté française de Belgique. Origine: Belgio. Durata: 56’. Anno: 1983 (documentario video).

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Filmografia

Falsch Id. Regia: Jean-Pierre Dardenne, Luc Dardenne. Soggetto: dall’omonima pièce teatrale di René Kalisky. Sceneggiatura: Jean-Pierre Dardenne, Luc Dardenne. Fotografia: Walter Vanden Ende. Montaggio: Denise Vindevogel. Suono: Dominique Warnier. Musica: Jean-Marie Billy, Jan Franssen. Scenografia: Wim Vermeylen. Costumi: Colette Huchard. Interpreti e personaggi: Bruno Cremer (Joe), Jacqueline Bollen (Lili), Christian Maillet (Jacob), Bérengère Dautun (Rachel), John Dobrynine (Georg), Nicole Colchat (Mina), Christian Crahay (Gustav), Marie-Rose Roland (Daniella), François Sikivie (Oscar), Gisèle Oudart (Natalia), André Lenaerts (Ruben), Millie Dardenne (Bela), Jean Mallamaci (Benjamin). Produzione: Dérives, Radio Télévision Belge Francophone (RTBF), Arcanal, Loterie Nationale de Belgique, Le Théâtre de la Place, con il sostegno del Ministère de la Communauté française de Belgique. Origine: Francia/Belgio. Durata: 80’. Anno: 1986. Il court, il court, le monde Id. Regia: Jean-Pierre Dardenne, Luc Dardenne. Soggetto e sceneggiatura: Jean-Pierre Dardenne, Luc Dardenne. Fotografia: Alain Marcoen. Montaggio: MarieHélène Dozo. Suono: Thierry Dehalleux. Interpreti: John Dobrynine (John), Carmela Locantore (Sonya), Christian Maillet (Christian), Pascale Tison (Sophie), 180

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Filmografia

André Lenaerts (Michel), Jean-Paul Dermont (l’autista e Marinetti), François Dysinx (l’uomo investito). Produzione: Dérives, Radio Télévision Belge Francophone (RTBF). Origine: Belgio. Durata: 11’. Anno: 1988. Je pense à vous Id. Regia: Jean-Pierre Dardenne, Luc Dardenne. Sceneggiatura: Jean Gruault, Jean-Pierre Dardenne, Luc Dardenne, da un’idea di Henri Storck. Fotografia: Yorgos Arvanitis. Montaggio: Denise Vindevogel, Ludo Troch. Scenografia: Yves Brover. Costumi: Monic Parelle. Suono: Jean-Pierre Duret. Interpreti e personaggi: Robin Renucci (Fabrice), Fabienne Babe (Céline), Tolsty (Marek), Gil Lagay (Renzo), Pietro Pizzuti (Laurent), Natalie Uffner (Solange). Produzione: Dirk Impens, Jean-Luc Ormières, Claude Waringo per Films Dérives, Favourite Films, Titane, Samsa Film, Radio Télévision Belge Francophone (RTBF), CBA – Le Centre de l’Audiovisuel à Bruxelles, con la partecipazione di: Ministère de la Communauté française de Belgique, Communauté flamande de Belgique, Région wallonne, Fonds EURIMAGES du Conseil de l’Europe, CGER, Loterie Nationale de Belgique, Canal+ France, Centre National de la Cinématographie (France). Origine: Belgio/Lussemburgo/Francia. Durata: 81’. Anno: 1992.

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Filmografia

La promesse Id. Regia: Jean-Pierre Dardenne, Luc Dardenne. Soggetto: Jean-Pierre Dardenne, Luc Dardenne. Sceneggiatura: Jean-Pierre Dardenne, Luc Dardenne, Léon Michaux, Alphonse Badolo. Fotografia: Alain Marcoen. Operatore: Benoît Dervaux. Suono: JeanPierre Duret. Montaggio: Marie-Hélène Dozo. Musica: Jean-Marie Billy, Denis M’Punga. Scenografia: Igor Gabriel. Costumi: Monic Parelle. Interpreti e personaggi: Jérémie Renier (Igor), Olivier Gourmet (Roger), Assita Ouédraogo (Assita), Rasmané Ouédraogo (Hamidou), Frédéric Bodson (garagista), Lyazzide Bakouche (Mustapha), Sophie Leboutte (Maria), Florian Delain (Riri), Hachemi Haddad (Nabil). Produzione: Jean-Pierre e Luc Dardenne, Hassen Daldoul, Claude Waringo, Jacqueline Pierreux per Les Films du Fleuve, Touza Productions & Touza Films, Samsa Film, Radio Télévision Belge Francophone (RTBF), con il sostegno di EURIMAGES, Centre du Cinéma et de l’Audiovisuel de la Communauté française de Belgique, Loterie Nationale de Belgique; con la partecipazione del Centre National de la Cinématographie (France), Canal+, ERTT (televisione tunisina); con il contributo di ACCT, FAS. Distribuzione: Lucky Red. Origine: Belgio. Durata: 91’. Anno: 1996.

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Rosetta Id. Regia: Jean-Pierre Dardenne, Luc Dardenne. Soggetto e sceneggiatura: Jean-Pierre Dardenne, Luc Dardenne. Fotografia: Alain Marcoen. Operatore: Benoît Dervaux. Suono: Jean-Pierre Duret. Montaggio: Marie-Hélène Dozo. Scenografia: Igor Gabriel. Costumi: Monic Parelle. Interpreti e personaggi: Emilie Dequenne (Rosetta), Fabrizio Rongione (Riquet), Anne Yernaux (la madre), Olivier Gourmet (il padrone), Bernard Marbaix (guardiano del campeggio), Frédéric Bodson (capo del personale), Florian Delain (figlio del padrone), Christiane Dorval (venditrice), Mireille Bailly (venditrice), Léon Michaux (poliziotto). Produzione: Jean-Pierre e Luc Dardenne, Michèle & Laurent Pétin per Les Films du Fleuve, Radio Télévision Belge Francophone (RTBF), ARP Sélection, con il sostegno di: Centre du Cinéma et de l’Audiovisuel de la Communauté française de Belgique, Région wallonne, Loterie Nationale de Belgique; con la partecipazione di Canal+, Centre National de la Cinématographie (France). Distribuzione: Key Films. Origine: Belgio/Francia. Durata: 90’. Anno: 1999. Il figlio Le fils Regia: Jean-Pierre Dardenne, Luc Dardenne. Soggetto e sceneggiatura: Jean-Pierre Dardenne, Luc Dardenne. Fotografia: Alain Marcoen. Operatore: Benoît Dervaux. Suono: Jean-Pierre Duret. Montaggio: Marie183

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Hélène Dozo. Scenografia: Igor Gabriel. Costumi: Monic Parelle. Interpreti e personaggi: Olivier Gourmet (Olivier), Morgan Marinne (Francis), Isabella Soupart (Magali), Nassim Hassaïni (Omar), Kevin Leroy (Raoul), Félicien Pitsaer (Steve), Remy Renaud (Philippo), Fabian Marnette (Rino), Jimmy Deloof (Dany), Anne Gérard (madre di Dany), Léon Michaux (l’educatore). Produzione: Jean-Pierre e Luc Dardenne, Denis Freyd per Les Films du Fleuve, Archipel 35, Radio Télévision Belge Francophone (RTBF), con il sostegno di Centre du Cinéma et de l’Audiovisuel de la Communauté française de Belgique et des Télédistributeurs wallons, EURIMAGES, Loterie Nationale de Belgique; con la partecipazione di Canal+, Centre National de la Cinématographie, Wallimage. Distribuzione: Lucky Red. Origine: Belgio/Francia. Durata: 99’. Anno: 2002. L’enfant – Una storia d’amore L’enfant Regia: Jean-Pierre Dardenne, Luc Dardenne. Soggetto e sceneggiatura: Jean-Pierre Dardenne, Luc Dardenne. Fotografia: Alain Marcoen. Operatore: Benoît Dervaux. Suono: Jean-Pierre Duret. Montaggio: Marie-Hélène Dozo. Scenografia: Igor Gabriel. Costumi: Monic Parelle. Interpreti e personaggi: Jérémie Renier (Bruno), Déborah François (Sonia), Jérémie Segard (Steve), Fabrizio Rongione (giovane malvivente), Olivier Gourmet (poliziotto in borghese), Stéphane Bissot (ricettatrice), Mireille Bailly (madre di Bruno), Anne Gérard (commerciante), Bernard Marbaix (commerciante), Frédéric Bodson (malvivente). Produzione: 184

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Filmografia

Jean-Pierre e Luc Dardenne, Denis Freyd per Les Films du Fleuve, Archipel 35, Radio Télévision Belge Francophone (RTBF), Scope Invest, ARTE France Cinéma, con il sostegno di Centre du Cinéma e de l’Audiovisuel de la Communauté française de Belgique et des Télédistributeurs wallons, EURIMAGES, Programme MEDIA Plus de la Communauté Européenne, Loterie Nationale de Belgique, con la partecipazione di Canal+, Centre National de la Cinématographie de la Région wallonne, Tax Shelter du Gouvernement Fédéral Belge. Distribuzione: BIM. Origine: Belgio/Francia. Durata: 91’. Anno: 2005. Dans l’obscurité (episodio di Chacun son cinéma ou Ce petit coup au cœur quand la lumière s’éteint et que le film commence) Id. Regia: Jean-Pierre Dardenne, Luc Dardenne. Soggetto e sceneggiatura: Jean-Pierre Dardenne, Luc Dardenne. Fotografia: Alain Marcoen. Operatore: Benoît Dervaux. Suono: Benoît De Clerck. Montaggio: Marie-Hélène Dozo. Scenografia: Igor Gabriel. Costumi: Monic Parelle. Interpreti e personaggi: Emilie Dequenne (la donna che piange), Jérémie Segard (il ladro). Produzione: Les Films du Fleuve. Origine: Francia. Durata: 3’. Anno: 2007.

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Filmografia

Il matrimonio di Lorna Le silence de Lorna Regia: Jean-Pierre Dardenne, Luc Dardenne. Soggetto e sceneggiatura: Jean-Pierre Dardenne, Luc Dardenne. Fotografia: Alain Marcoen. Operatore: Benoît Dervaux. Suono: Jean-Pierre Duret. Montaggio: MarieHélène Dozo. Scenografia: Igor Gabriel. Costumi: Monic Parelle. Interpreti e personaggi: Arta Dobroshi (Lorna), Jérémie Renier (Claudy), Fabrizio Rongione (Fabio), Alban Ukaj (Sokol), Morgan Marinne (Spirou), Anton Yakovlev (Andreï), Grigori Manoukov (Kostia), Mireille Bailly (Monique Sobel), Stéphanie Gob (infermiera), Laurent Caron (ispettore), Olivier Gourmet (poliziotto in borghese). Produzione: Jean-Pierre e Luc Dardenne, Denis Freyd, Andrea Occhipinti per Les Films du Fleuve, Archipel 35, Lucky Red, Radio Télévision Belge Francophone (RTBF), ARTE France Cinéma e ARTE/WDR, in associazione con Gemini Film e Mogador Film, con il sostegno del Centre du Cinéma et de l’Audiovisuel de la Communauté française de Belgique et des Télédistributeurs wallons, e di EURIMAGES, con la partecipazione di Canal+ e Cinécinéma, con il sostegno di: Région wallonne, Wallimage, Centre National de la Cinématographie, Tax Shelter du Gouvernement Fédéral Belge, Casa Kafka Pictures, Inver Invest, Tax Shelter ING Invest di Tax Shelter Productions, Programme MEDIA Plus de la Communauté Européenne, Programme MEDIA i2i audiovisuel, Loterie Nationale, in associazione con SofiCinéma 3. Distribuzione: Lucky Red. Origine: Francia/Gran Bretagna. Durata: 100’. Anno: 2008. 186

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Filmografia

Il ragazzo con la bicicletta Le gamin au vélo Regia: Jean-Pierre Dardenne, Luc Dardenne. Soggetto e sceneggiatura: Jean-Pierre Dardenne, Luc Dardenne. Fotografia: Alain Marcoen. Operatore: Benoît Dervaux. Suono: Jean-Pierre Duret. Montaggio: Marie-Hélène Dozo. Scenografia: Igor Gabriel. Costumi: Maïra Ramedhan-Lévi. Interpreti e personaggi: Thomas Doret (Cyril), Cécile de France (Samantha), Jérémie Renier (Guy Catoul), Fabrizio Rongione (libraio), Egon Di Mateo (Wes), Olivier Gourmet (proprietario del bar). Produzione: Jean-Pierre e Luc Dardenne, Denis Freyd, Andrea Occhipinti per Les Films du Fleuve, Archipel 35, Lucky Red, France 2 Cinéma, Radio Télévision Belge Francophone (RTBF), Belgacom, con il sostegno del Centre du Cinéma et de l’Audiovisuel de la Communauté française de Belgique e di VOO, del Centre National du Cinéma et de l’Image Animée, di EURIMAGES, con la partecipazione di Canal+, Cinécinéma, France Télévisions, con il sostegno di: Région wallonne, Tax Shelter du Gouvernement Fédéral Belge, Taxshelter.be, Inver Invest, Casa Kafka Pictures, Dexia, Making of, Sofica Soficinéma 7, Programme MEDIA de l’Union Européenne, in associazione con Wild Bunch. Distribuzione: Lucky Red. Origine: Belgio/Francia/Italia. Durata: 84’. Anno: 2011. Deux jours, une nuit Regia: Jean-Pierre Dardenne, Luc Dardenne. Soggetto e sceneggiatura: Jean-Pierre Dardenne, Luc 187

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Filmografia

Dardenne. Interpreti e personaggi: Marion Cotillard (Sandra), Fabrizio Rongione. Produzione: Jean-Pierre e Luc Dardenne, Denis Freyd per Les Films du Fleuve, Archipel 35. Origine: Belgio/Francia. Anno: 2014 (in pre-produzione).

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Indice dei nomi e dei film

INDICE DEI NOMI E DEI FILM

Accattone (P.P. Pasolini, 1961), 102 Agamben, Giorgio, 65n Améry, Jean, 71n Arendt, Hannah, 65n, 71n Au hasard Balthazar (Id., R. Bresson, 1966), 57, 61n Aubenas, Jacqueline, 39n Bataille, Georges, 25 Bazin, André, 28, 49, 157, 159 Beethoven, Ludwig van, 114 Bloch, Ernst, 162 Bonnaud, François, 83 Bresson, Robert, 28n, 41, 42, 57, 61 e n, 71, 88, 89, 93, 105, 117n, 146n, 153 Burdeau, Emmanuel, 50n Canadè, Alessandro, 10n Cavell, Stanley, 100n Cervini, Alessia, 10n, 68n Chacun son cinéma ou Ce petit coup au cœur quand la lumière

s’éteint et que le film commence (Id., AA. VV., 2007), 55 Chatrian, Carlo, 85n, 87n Chiara d’Assisi, 133 Condannato a morte è fuggito, Un (Un condamné à mort s’est échappé, R. Bresson, 1956), 61n Corradini, Domenico, 123n Così bella, così dolce (Une femme douce, R. Bresson, 1969), 61n Daney, Serge, 33 e n, 138, 157 Dans l’obscurité, 55-57, 61 e n, 72 de France, Cécile, 86 De Gaetano, Roberto, 19n, 100n, 108n Deleuze, Gilles, 28 e n, 93, 94n, 100n, 161 Dequenne, Emilie, 59 Derrida, Jacques, 71n, 171 e n, 172 Dervaux, Benoît, 37, 45 189

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Indice dei nomi e dei film

Deux jours, une nuit, 8, 96 Dickens, Charles, 93 Didi-Huberman, Georges, 25, 26n Dostoevskij, Fëdor Michajlovič, 65, 71, 125 Dottorini, Daniele, 166n Dreyer, Carl Theodor, 89, 93 Eastwood, Clint, 10 Enfant, L’, 8, 22, 26, 33, 34, 41, 45, 66, 68, 115, 119, 125, 126, 138, 146, 147, 149, 152 Europa ‘51 (R. Rossellini, 1952), 79, 156 Fabrizi, Aldo, 157 Falsch, 39n, 44, 65n Figlio, Il, 8, 21, 24, 26, 45, 49, 71, 73, 74, 84, 95, 99, 103, 115, 119, 126, 145, 150 Fitzgerald, Francis Scott, 78 Ford, John, 22 Francesco d’Assisi, 133 Freud, Sigmund, 118, 125 Germania anno zero (R. Rossellini, 1947), 6, 156 Gesù, 121, 130 Giotto, 133 Godard, Jean-Luc, 7 e n, 41

Goethe, Johann Wolfgang, 113 Gourmet, Olivier, 96, 120 Gusto del sakè, Il (Sanma no aji, Y. Ozu, 1962), 91 Habemus Papam (N. Moretti, 2011), 123n Hawks, Howard, 22, 23 Heidegger, Martin, 57n, 61, 62 Herzog, Werner, 41 Hillman, James, 121 e n, 122, 123 e n, 132 e n, 136 e n, 137n Hitchcock, Alfred, 28 Huillet, Danièle, 41 Husserl, Edmund, 61 Inzerillo, 107n

Andrea,

81n,

Jankélévitch, Vladimir, 71n Jaspers, Karl, 71n Je pense à vous, 21, 42, 44 e n, 45n, 48, 60, 100 e n Kafka, Franz, 25 Kalisky, René, 39n Kapò (G. Pontecorvo, 1960), 157 Kierkegaard, Søren, 115, 131 Kieslowski, Krzysztof,

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Indice dei nomi e dei film

165-167, 172 Lacan, Jacques, 114, 115, 118, 125, 126 e n, 127n, 130, 131, 135 Lacan, Marc-François, 118 Ladri di biciclette (V. De Sica, 1948), 101, 134 Léaud, Jean-Pierre, 121 Leçons d’une université volante, 44n Lévinas, Emmanuel, 48, 61, 62 e n, 65n, 83, 93, 105 Loach, Ken, 90 Lorsque le bateau de Léon M. descendit la Meuse pour la première fois, 44, 110, 164 Luciani, Albino (Giovanni Paolo I), 137 Malick, Terrence, 91, 92 Matrimonio di Lorna, Il, 22, 45, 67, 82, 105, 125, 139, 145, 147 Mauss, Marcel, 71n May, Joseph, 170 e n Mélon, Marc-Emmanuel, 11 e n Mondzain, Marie-José, 160, 161 e n, 166n Mosso, Luca, 40n, 84n, 85n, 86n, 167n Mouchette (Id., R. Bres-

son, 1967), 61n, 134 Nenette (Id., N. Philibert, 2009), 163 Nietzsche, Friedrich, 62 Orizzonti di gloria (Paths of Glory, S. Kubrick, 1957), 23 Ozu, Yasujiro, 89, 91, 93 Palombella rossa (N. Moretti, 1989), 123 Pascal, Blaise, 153 Pedullà, Gabriele, 89n Philibert, Nicolas, 163, 164n Pickpocket (Id., R. Bresson, 1959), 61n, 105, 146n Pontecorvo, Gillo, 157 Pour que la guerre s’achève, les murs devaient s’écrouler, 44 e n, 46, 162 Preszow, Gérard, 65n Promesse, La, 8-11, 18, 21, 27, 34, 40-42, 44n, 45, 47, 49, 50n, 60, 66, 84, 100n, 114, 119, 120, 145, 156, 159, 160, 162, 163, 167, 171, 173 Quattrocento colpi, I (Les quatre cents coups, F. 191

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Indice dei nomi e dei film

Truffaut, 1959), 92 R… ne répond plus, 44 Ragazzo con la bicicletta, Il, 8, 9, 22, 45, 53, 60, 63, 69, 91, 92, 97, 106n, 108, 114, 115, 126, 131, 134, 135, 148-150, 152, 162 Rancière, Jacques, 79, 81 e n, 107n, 173n Recalcati, Massimo, 115n, 123n, 124n, 126n, 134n, 135n, 136 e n, 137 e n, 138n Regarde Jonathan. Jean Louvet/son œuvre. Son œuvre/Jean Louvet, 44 e n, 47n Renier, Jérémie, 119, 121 Renoir, Jean, 28 e n, 159 Resnais, Alain, 41 Ricœur, Paul, 61, 71n Riva, Emmanuelle, 157 Rivette, Jacques, 157 Roma città aperta (R. Rossellini, 1945), 156 Rongione, Fabrizio, 169 Rosetta, 8, 18, 21, 23, 2527, 29, 30, 45-48, 59, 78, 83, 95, 106, 108, 115, 125, 126, 130, 135, 138, 148, 168 Rossellini, Roberto, 28n,

41, 44, 79, 153, 156, 172, 173n Ruiz, Raoul, 172 Salò o le 120 giornate di Sodoma (P.P. Pasolini, 1975), 123n Sartre, Jean-Paul, 61 Schrader, Paul, 88, 89 e n, 91, 93 Schubert, Franz, 57 Schumann, Robert, 23 Scialom, Marc, 172 Spinoza, Baruch, 93 Straub, Jean-Marie, 41 Tarhir Liberation Square (S. Savona, 2011), 166 Torre Bela (Id., Th. Harlan, 1975), 166 Tree of Life, The (Id., T. Malick, 2011), 91 Viaggio in Italia (R. Rossellini, 1954), 21, 45n, 100 Weil, Simone, 97 Zero in condotta (Zéro de conduite, J. Vigo, 1933), 92

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Indice dei nomi e dei film

Frontiere. Oltre il cinema AA. VV., Benjamin il cinema e i media

J. Rancière, Il destino delle immagini

R. De Gaetano, Tra-Due. L’immaginazione cinematografica dell’evento d’amore A. Canadè, a cura di, Corpus Pasolini

A. Badiou, Del Capello e del Fango. Riflessioni sul cinema, a cura di D. Dottorini

A. Cervini, A. Scarlato, L. Venzi, Splendore e miseria del cinema. Sulle Histoire(s) di Jean-Luc Godard A. Cappabianca, Trame del fantastico. Riflessi e sogni nel cinema

R. De Gaetano, a cura di, Politica delle immagini. Su Jacques Rancière R. De Gaetano, Nanni Moretti. Lo smarrimento del presente A. Canadè, A. Cervini, a cura di, Clint Eastwood

A. Cappabianca, Carmelo Bene. Il cinema oltre se stesso

F. Villa, a cura di, Vite impersonali. Autoritrattistica e medialità J. Rancière, Scarti. Il cinema tra politica e letteratura A. CERVINI, L. VENZI, a cura di, Jean-Pierre e Luc Dardenne

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Indice dei nomi e dei film

Fata Morgana

Quadrimestrale di cinema e visioni N. 0   Bíos N. 1   Mondo N. 2   Archivio N. 3   Trasparenza N. 4   Esperienza N. 5   Limite N. 6   Natura N. 7   Desiderio N. 8   Visuale N. 9   Disaccordo

N. 10   Sacro N. 11   Territorio N. 12   Emozione N. 13   Potenza N. 14   Animalità N. 15   Autoritratto N. 16   Origine N. 17   Rito N. 18   Comune N. 19   Credito

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Indice dei nomi e dei film

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Indice dei nomi e dei film

Stampato da Pellegrini Editore - Cosenza

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ISBN 978-88-6822-057-0 9 788868

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