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Italian Pages 414 [418] Year 2016
MIMESIS / CINEMA n. 44
Comitato Scientifico: Raffaele De Berti, Università degli Studi di Milano Massimo Donà, Università Vita-Salute San Raffaele Roy Menarini, Alma Mater Studiorum Università di Bologna Pietro Montani, Università “La Sapienza” di Roma Elena Mosconi, Università degli Studi di Pavia Pierre Sorlin, Università Paris-Sorbonne Franco Prono, Università degli Studi di Torino
Fabrizio Fogliato Fabio Francione
JACOPETTI FILES Biografia di un genere cinematografico italiano
MIMESIS
Il presente volume si pubblica come realizzazione del progetto Jacopetti Files 2014-2018 curato dal Lodi Città Film Festival.
MIMESIS EDIZIONI (Milano – Udine) www.mimesisedizioni.it [email protected] Collana: Cinema, n. 44 Issn: 2420-9570 Isbn: 9788857533858 © 2016 – MIM EDIZIONI SRL Via Monfalcone, 17/19 – 20099 Sesto San Giovanni (MI) Phone: +39 02 24861657 / 24416383 Fax: +39 02 89403935
INDICE
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DOPPIO PROLOGO Oggi Nicolas Winding Refn. Il mio “Giacopetti”
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Ieri La vita dell’uomo più avventuroso d’italia – Jacopetti racconta
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Introduzione
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PRIMO FILE Jacopetti vs. Cavara. Occhi o graffi sul mondo? 1962-1964
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SECONDO FILE Jacopetti diaspora. Dopo Mondo cane 1966-1969
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TERZO FILE Nel gorgo degli eccessi. Addio Mondo cane 1971-1979
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QUARTO FILE Le strade si dividono. Da Mondo Candido a Belve feroci 1975-1984
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Postfazione Sopravvivendo in una e. Da Mondo cane a Belve feroci
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Ringraziamenti
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Indicazioni biblio-videografiche
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Inserto fotografico
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La verità è questa: l’attualità accade in un istante. Il dovere di un cronista è quello di essere sul posto, registrare quello che è possibile registrare. Ma quando voglio raccontare qualcosa al pubblico, sono un giornalista che usa milioni di fotografie di pellicola, a cui aggiungo il commento parlato. Ora per raccontare la storia al pubblico, le cose che non si è potuto cogliere in quel momento dell’attualità ma anche perché il montaggio ha le sue esigenze, le sequenze hanno bisogno di collegamenti quindi si devono rifare determinati attacchi. Si deve tornare sulla zona dell’avvenimento e girare esattamente quei dettagli, con le stesse persone, nello stesso ambiente che si è visto nell’attualità, cercando di ottenerlo, perché spesso non è facile. Non c’è nessuna truffa. Noi siamo sempre stati presenti a quello che è accaduto, abbiamo cercato di farlo nella maniera più spericolata a volte, poi abbiamo sentito il dovere di perfezionarlo per farne uno spettacolo. Mondo cane è un documentario, era la prima volta che un documentario girava tutto il mondo, ottenendo il successo di un film di fiction. Bisognava quindi raccontarlo secondo i canoni del cinematografo, cioè dello spettacolo. Dichiarazione di Gualtiero Jacopetti raccolta da Carlo Prevosti in occasione della proiezione pubblica di Mondo cane tenuta allo Spazio Oberdan Cineteca Italiana di Milano, il 28 Gennaio 2004.
DOPPIO PROLOGO
OGGI NICOLAS WINDING REFN. IL MIO “GIACOPETTI”
Ho sempre trovato molto interessanti i film di Jacopetti e Prosperi. O almeno sono io che li trovo molto interessanti. Da ciò forse dipende la controversia che li vede protagonisti da quando hanno inventato un intero genere negli anni ’60 con Mondo cane. Con questo “docudrama” hanno creato un modello e l’hanno evoluto dopo pochissimi film e indirizzato alla realizzazione di un film come Addio zio Tom che, in un certo senso, è il film più aggressivo, disgustoso che sia stato mai fatto e di cui esistono peraltro lunghezze e versioni diverse che però non ne cambiano la sostanza. Infatti non si differenziano dai sentimenti sordidi e squallidi del film. Ma allo stesso tempo bisogna dire che Jacopetti e Prosperi sono grandi maestri di cinema, i loro film sono incredibilmente ben fatti e altrettanto fotografati e pensati e il loro è un genere completamente unico e originale. Poi, con loro lavorava un compositore, Riz Ortolani, che era il “co-gangster” che traduceva magnificamente in musica i loro film. Dunque, come detto trovo questi due registi molto interessanti, poco si conosce di loro se non che se ne parla male e non di buon occhio per la natura esplosiva di alcune delle loro opere. Di certo vi erano molte cose non chiare nella loro vita come ritengo che spesso siano stati fraintesi. E Addio zio Tom, come lo vidi, quando è uscito nei circuiti cinematografici del “grindhouse circus” d’America, era come se rappresentasse la fine di un’epoca: per la rivolta della gente che lo andava a vedere, motivo per cui è stato ritirato dai cinema. C’è da aggiungere che, in anni recenti, molti registi hanno rubato dialoghi da questo film – questo è senz’altro un punto interessante – cosa che ne fa davvero un pezzo unico della cinematografia. Poi c’è la musica. Tutta la musica di Ortolani per questi film è iniziata con la colonna sonora di Mondo cane. È semplicemente magnifica. Mi è piaciuta moltissimo e a tal proposito ho un ricordo personale: all’inizio c’era que-
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sto film, Addio zio Tom, che era più che una leggenda urbana e per vederlo dovevi fa ricorso ad una vhs giapponese. Ricordo che vidi il film a casa mia… Mio Dio pensai questo è estremo e aveva questa bellissima canzone. Me ne sono ricordato quando stavo lavoravano alla sceneggiatura di Drive; allora ho deciso che questa canzone sarebbe stata nel film. Oh My Love era la prima canzone che ho scelto per Drive, e la ascoltavo anche mentre stavo girando il film. Prima di Addio zio Tom, Jacopetti ha realizzato Africa addio, un folle film di quasi tre ore con riprese documentaristiche e riprese ricostruite; questa idea della realtà offuscata con la finzione l’ho trovata di grande ispirazione. E quando ho iniziato a fare i miei film – e cominciai con i “pusher/gangster” film a Copenhagen – ero intento a catturare il realismo fino all’estremo; m’accorsi però che tutti erano nella stessa situazione, eravamo intenti ad avere un approccio più cinematografico, che è arrivato più tardi rispetto ai miei primi film che in un certo qual modo feticizzavano la figura di Charles Bronson, passando così da come catturare ad ingrandire la realtà. E Addio zio Tom è una combinazione estrema di ciò. La più celebre locandina di Addio zio Tom era al limite dell’oltraggio, ma esteticamente è molto interessante e Prosperi e Jacopetti erano persone molto intelligenti che volevano trasmettere un messaggio che, secondo me, era forse un po’ troppo in anticipo sui tempi. In Italia, pochi hanno scritto di Jacopetti quando è morto. Insomma, un finale strano. Se è stato giusto o no, questo non lo so ed è tutto quello che posso dire. (traduzione Alexandra Kapinya, revisione Fabio Francione)
IERI LA VITA DELL’UOMO PIÙ AVVENTUROSO D’ITALIA – JACOPETTI RACCONTA
Il regista di Mondo cane, La donna nel mondo e Africa addio presenta in un’intervista concessa alla nostra inviata Edgarda Ferri il documentario privato della sua vita. Dagli anni del liceo a Viareggio alla partenza come volontario per la guerra, alle prime esperienze di giornalista, Jacopetti mostra la sua vera faccia di uomo che vive coraggiosamente allo sbaraglio e che ha sempre accettato di pagare di persona. Quando c’era la guerra in Africa, nel ’35, Jacopetti era a Viareggio e frequentava il liceo. Sui giornali non aveva ancora scritto, e questa fu un’occasione per incominciare. “Cominciai sulla lavagna della mia classe, per incarico dei miei professori. Era mio compito arrivare a scuola prima degli altri con notizie raccolte da giornali e dalla radio, e scrivere, per una classe distratta, la cronaca della guerra. Oltre che legger giornali, andavo a cercare notizie sui libri. L’Africa io me la sognavo alla notte, era per me il paradiso e la sola evasione. E cominciai a sognarla, senza averla veduta, su quella lavagna. Fu una cronaca che durò più di un anno. Quasi senza saperlo facevo anch’io il mio giornale”. Jacopetti è giornalista, ci tiene a sottolinearlo, anche se, ormai, di lui si parla soltanto per i suoi film. “Quello che raccolgo con la macchina da presa è in definitiva un articolo. È cronaca, sono fatti che accadono. Io sono un giornalista e per questo mestiere mi pare di essere nato: se per giornalismo si intende l’istinto di voler vedere e conoscere le cose che accadono, anche quelle più lontane da noi”. Fin da ragazzo infatti, aveva intuito questa sua vocazione come un senso di irrequietezza fisica. Aveva appena 17 anni, quando ebbe un piccolo incarico di collaborazione alla pagina viareggina della “Nazione”. “Dai piccoli fatti di cronaca arrivai abbastanza alla
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svelta anche a far dei corsivi, e incominciai ad essere pagato. Fu una bella sorpresa per me ricevere quattrocento lire ogni mese, quando la canzone più in voga era: Se potessi avere mille lire al mese…”. Aveva praticamente già scelto la sua strada quando sentì per la prima volta il prepotente bisogno di “andare a vedere”. Era scoppiata la guerra, aveva diciotto anni, e frequentava l’università di Pisa. Chiese subito di partire volontario. “Era in quel tempo la sola possibilità di evadere, di vedere cose nuove. L’Africa mi attirava, era stata il sogno ricorrente della mia adolescenza, non potevo lasciarmela sfuggire. Parlare di guerra a me, in quegli anni, era come parlare una lingua sconosciuta. Il pericolo non mi faceva paura, anzi avevo una certa propensione al rischio. E così per tutti ragazzi, che si sentono forti, esuberanti, irrequieti e invulnerabili. Mi attirava l’idea di espormi, era un modo per misurare me stesso e le mie forze. Diverso è buttarsi via, non tenere in conto il pericolo, in poche parole regalare la vita: io volevo invece rischiare, per vedere fino a che punto potevo”. Così chiese ed ottenne di andar subito al fronte. “Destinazione segreta”, imbarco a Bari su una nave all’apparenza diretta in Africa. “Il leone e il deserto ormai li sentivamo a portata di mano. Eravamo certi di sbarcare sulle coste di quel paese che io e i miei compagni avevamo sognato sui libri di avventure e di caccia. Ci avevano fatto indossare una divisa di tela kaki, e ci avevano affidato delle tende leggere. Finalmente si parte, finalmente si toccherà la terra promessa. Invece un mattino ci svegliano e dicono: ‘Ragazzi siete arrivati’. Guardiamo fuori e troviamo una costa grigia, di piombo, e la neve gelata attaccata e gli alberi nudi”. Li avevano portati in Albania, e l’accoglienza non fu certo incoraggiante. “Ovvio, chi faceva la guerra da richiamato ci guardava con ironia e rancore. Era facile capire quello che pensavano: ‘Ma chi ve l’ha fatto fare, cretini, di venire qui a far la guerra?’. Poi venne la notte e piantammo le tende. Erano tende che non stavano in piedi, sa il diavolo come erano fatte. Dormimmo al freddo e male. Fu una prima grave delusione”. Jacopetti si interrompe un momento per accendere una sigaretta, poi riprende a parlare con la sua voce posata e gentile. “Dall’Albania mi mandarono subito in Grecia, con il grado di sergente. Dalla Grecia mi mandarono in Italia, dove feci il corso per diventare ufficiale. Finito il corso chiesi di partire per la Russia. La mia
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esperienza laggiù fu drammatica, anche se non partecipai ad alcuna battaglia. Giunsi in tempo per la grande ritirata sul Don, e feci qualcosa come cinquemila chilometri a piedi. Tornai portando con me la bandiera del reggimento: il reggimento di corpo d’armata di stanza a Casalmonferrato, divisione Pasubio”. Di tante favolose vicende che aveva sognato, di tutte le conquiste e le battaglie costruite con la sua fantasia di ragazzo, gli rimase solo l’onore di riportare indietro la bandiera. In seguito fu mandato sulla Costa Azzurra in zona d’occupazione e si trovò oltre confine quando cominciò il caos dell’otto settembre. “A Ventimiglia, dove eravamo stati fatti passare da alcuni francesi che ci volevano a tutti i costi aiutare, rubai addirittura un treno. Il treno era lì, su un binario morto: un merci con il muso rivolto all’Italia. ‘Salite ragazzi’, dissi in fretta mentre saltavo sulla piattaforma insieme a un compagno. La nostra era la divisa delle esercitazioni militari, una tuta blu con mostrine. Togliendo le mostrine potevamo passare per operai. E per tali infatti passammo”. Con il treno rubato Jacopetti passò la Liguria e si diresse verso Viareggio. Ci furono molti scontri con le pattuglie tedesche, alcuni civili italiani uscivano di notte a portare carbone ed acqua a quel treno impazzito, ed uno di loro fu ucciso da una fucilata tedesca. “Poi quando ci fermammo a Viareggio, ognuno se ne andò dove credeva. Io andai a Torre del Lago, da mio padre e mia madre”. Nella villa, invece dei genitori, trovò i tedeschi col loro comando. L’ufficiale che gli andò incontro fu molto generoso: “Sappiamo chi sei, non puoi restare qui. Se parti immediatamente, se vai subito fuori di qui, io non ti consegno ai carabinieri e sto zitto”. La “vacanza” di Jacopetti e l’incontro con i genitori durò soltanto poche ore. Gli dissero infatti che sulle Alpi Apuane s’erano già rifugiati molti di quelli che erano stati suoi compagni al liceo. Lui li raggiunse per fare il partigiano, ma le sue idee contrastavano con quelle dei vecchi compagni che per la maggior parte erano diventati comunisti. Così passò di nuovo il fronte a Cassino e come ufficiale della Quinta armata americana si mise a risalire l’Italia. Alla fine della guerra Jacopetti era a Milano: il 25 aprile lo paracadutarono sopra San Siro, e fece in tempo ad assistere ai fatti di piazzale Loreto e alla guerra civile che iniziava.
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Nonostante la guerra fosse finita, gli americani non lo lasciarono andare. “Avevo il compito, insieme ad altri compagni, di girare con la jeep per la città e disperdere i gruppi sospetti, gli assembramenti di gente che faceva giustizia sommaria su qualche pover’uomo al grido di fascista. Caricavamo il fascista sottraendolo al linciaggio e lo portavamo a San Vittore”. Di quel tragico, confuso periodo di caccia all’uomo, Jacopetti ricorda un episodio: “In una cella insieme al ministro degli Interni della Repubblica di Salò, Buffardini Guidi, c’era il comico Nuto Navarrini. Terrorizzato all’idea di essere scambiato per un seguace di Buffardini, preso dalla febbre di dimostrare che lui era solo un attore, Navarrini recitava di continuo dei comicissimi sketches. L’atmosfera era tragica, l’uomo che recitava storielle comiche era di un incredibile grottesco”. Ed ecco un personaggio che Gualtiero Jacopetti non dimenticherà mai. “Avevo assistito al processo di un giovane ufficiale dell’aviazione italiana, concluso con la sua condanna a morte. Il ragazzo aveva dato risposte che a me erano sembrate quelle di un soldato in buonafede e coraggioso. Quando lo caricarono su un’auto per andarlo a fucilare in periferia, io salii sulla jeep e incominciai a seguirlo. Ad un certo momento riuscii a tagliare la strada alla macchina; i partigiani si fermarono, e io chiesi di consegnarmi il ragazzo. Indossavo la divisa americana, una divisa che a quel tempo metteva ancora rispetto”. Fu uno scontro violento, ma alla fine Jacopetti riuscì a caricare il ragazzo sulla sua jeep, a tutta velocità passò per le strade di una Milano deserta. Il ragazzo era ancora bendato, convinto di andare a morire. “Urlando mentre si correva per non farci raggiungere dall’auto che ci inseguiva, gli chiesi dove potevo portarlo; ma lui non voleva darmi il suo indirizzo temendo un inganno. Riuscii a vincere la sua diffidenza e la sua paura all’ultimo momento: il ragazzo arrivò da sua madre, chiuse il portone di casa un attimo prima che giungessero gli altri. Fu salvo per miracolo”. Jacopetti racconta volentieri questo episodio “Non amo la violenza e il sangue”, dice. “Nego all’uomo il diritto di uccidere, anche se è un diritto che può diventare legale. Dopo Africa addio le polemiche contro di me si sono riaccese. Mi si accusa di violenza e sadismo. Nel film c’è troppo sangue dicono. Ma proprio per denun-
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ciare la strage io l’ho fatta vedere, non potevo dire che in Africa si ammazzano 160 ippopotami al giorno, senza farne vedere almeno sedici che muoiono fra sofferenze tremende. E di tutti gli episodi di sofferenza umana, ho mostrato soltanto l’uccisione di quel giovane negro con la maglietta bianca: uno solo su tanti lo dovevo mettere. L’ho scelto come simbolo: era giovane, sano, non voleva morire. Invece lo hanno ucciso, così a bruciapelo, un assassinio inutile, che non è servito a nulla, a nessuno. Il simbolo dell’Africa d’oggi; per questo lo ho messo nel film”. Prima dell’inferno d’Africa, tuttavia a Jacopetti toccò quello del dopoguerra italiano: “Un piccolo inferno altrettanto crudele e inutile, che aumentò la confusione e lo sgomento di quei giorni”. Trasferitosi da Pisa a Pavia per essere più vicino all’università, Jacopetti si era laureato in scienze politiche. Da Pavia si spostava molto spesso a Milano: si trovava a Milano nel 1948 quando, per la prima volta dopo la guerra, l’Italia fu chiamata a votare. “Io ho sempre amato la libertà sopra ogni cosa, e capivo che la più grande minaccia alla libertà dell’Italia era rappresentata dai comunisti. Per questo svolsi, a titolo del tutto personale, una intensa campagna contro il comunismo. Svolgevo la mia campagna all’università di Pavia e a Milano, dove arrivavo di sera”. Fu ancora a Milano che una sera, salito sul monumento di piazza del Duomo per fare un improvvisato comizio, egli vide due uomini che lo ascoltavano attenti, mentre esortava un gruppo di ragazzi a non cedere al comunismo. “Erano due tipi curiosi. Uno era secco e allampanato, con la faccia lunga. L’altro era piccolo e irrequieto. Mi vennero accanto dopo che scesi dal monumento; il lungo si mise a parlare toscano, chiedendomi di dove ero e come mi chiamavo. Erano Montanelli e Longanesi”. Perché a Jacopetti nonostante la guerra, le delusioni, le avventure, era rimasto quel chiodo del giornalismo. E quello era il momento più opportuno, il momento in cui doveva decidere cosa fare nella vita. “Con i miei due nuovi amici andavamo in una birreria di via Verdi che non c’è più e si chiamava Il Covino. Erano notti di discussioni; all’alba si finiva al caffè della stazione dove loro parlavano ancora. Io non osavo parlare del desiderio di fare il giornalista. Via via che li conoscevo mi accorgevo dell’abisso di esperienza e di cultura che ci separava”.
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Di quelli che ancor oggi Jacopetti ama definire “maestri” quello che gli dava meno imbarazzo era Montanelli. Fu a lui che, alla fine, una notte, disse di avere quella passione. “Montanelli non ebbe alcun dubbio, mi disse: ‘Vai subito da qualche parte, in qualunque parte, dove sta succedendo qualcosa. Torna, scrivi, e vieni da me’ ”. Nel portabagagli di una macchina americana, riuscì a varcare il confine con l’Austria. “Mi ero stabilito a Vienna in un albergo vicino al comando russo, e il materiale raccolto era già sufficiente dopo il primo giorno. Il dramma di quella gente era cominciato proprio allora: avevano diviso un paese e c’era un popolo tagliato a metà”. Dopo quindici giorni Jacopetti tornò in Italia con sei articoli che Montanelli passò immediatamente al “Corriere della Sera”. Entrava nel giornalismo dalla porta principale. Contemporaneamente esordiva su un settimanale, con un articolo pure da Vienna. “Comincia per Anna, a Natale, una tragica luna di miele”. Per lui cominciava il vero lavoro. Il secondo servizio lo portò nel Venezuela. Al ritorno era un giornalista “arrivato”. Dopo il viaggio nel Venezuela, a Jacopetti venne fatta una proposta che lo lusingò molto: Luigi Barzini, allora direttore della “Settimana Incom” gli chiese di lavorare per lui. Barzini voleva lasciare il giornale, e intendeva che Jacopetti prendesse il suo posto, dopo un tirocinio come redattore-capo. Jacopetti andò a Roma, ma non ci rimase molto. Subito dopo essersi insediato, propose un servizio che solo a pensarci, gli faceva girare la testa: intervistare Ailé Selassié, il Negus di Addis Abeba. “Volevo in ogni modo arrivare in Africa. In fondo m’ero arruolato, avevo fatto la guerra per metterci i piedi”. Non si potevano avere permessi per l’Etiopia con cui l’Italia era ancora ufficialmente in stato di guerra. Jacopetti si imbarcò su un aereo diretto a Nairobi. Durante lo scalo, ad Addis Abeba, senza visto né lasciapassare, scese e si diresse verso la città. “Mi presero e mi mandarono dritto in prigione, convinti che fossi una spia o comunque una persona sospetta. Invece riuscii a farmi capire, trovai il modo di parlare con alcuni italiani rimasti laggiù, e dissi che cercavo solo il modo per avvicinare il Negus”. L’unica cosa
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che riuscirono a fare fu toglierlo dalla prigione e metterlo di peso su un aereo che lo riportasse in Italia. Ma Jacopetti scese a Mogadiscio e tornò ad Addis Abeba. “Questa volta ci tornai con tanto di lasciapassare e riuscii anche ad arrivare fino al Negus. Parlammo a lungo. Il Negus mi disse che gli italiani avevano lasciato un buon ricordo in Abissinia e che lui non avrebbe avuto niente in contrario se i rapporti col nostro paese fossero ripresi anche subito”. Jacopetti tornò in Italia e scrisse tali e quali le cose che il Negus gli aveva detto. In seguito all’articolo di Jacopetti l’ambasciatore Cova partì per Addis Abeba e le relazioni diplomatiche ripresero tra l’Abissina e l’Italia. Se aveva avuto fortuna in Abissinia, non ne ebbe altrettanta a Roma: “Ero partito da Addis Abeba felice, gli italiani mi avevano accompagnato all’aeroporto caricandomi di fiori, banane e lettere per i parenti in Italia. Mi pareva di toccare il cielo con le dita; invece tornai e trovai il giornale cambiato. Non sarei più diventato direttore, non sarebbe più accaduto niente di quel che avevo sperato”. Così si dimise e fondò un settimanale che chiamò “Cronache”. Invitò a collaborare gente di ogni partito e tendenza, “purché fosse intelligente e dicesse cose non ovvie”. Quello della zingarella fu un episodio clamoroso, ma Jacopetti preferisce non parlarne. “La realtà è molto più semplice di quanto si è voluto insinuare. Pur avendo molte cose da raccontare, non l’ho mai voluto fare e non intendo neppure farlo nel futuro. In un primo momento, ho avuto davvero l’impulso di reagire con vivacità. Ho rinunciato, e credo sia meglio così. Sento però il bisogno di dire che quella povera ragazza non mi ha mai dato fastidio, si è sempre comportata con discrezione”. Diventato il personaggio numero uno della cronaca nazionale fu costretto a dimettersi. “Era la sola cosa da fare, non volevo che un giornale funzionale e vitale come quello che avevo creato dovesse risentire dei miei fatti personali”. “Cronache” passò a un altro direttore poi ad un altro ancora e, con Arrigo Benedetti, cambiò nome e divenne “l’Espresso”. Il fatto mise alla prova gli amici di Jacopetti. “Rimasero quelli veri. Il primo a dimostrarsi tale fu Sandro Pallavicini, che mi offrì del lavoro quando non sapevo dove sbattere la testa. Degli altri non ho alcun rimpianto”.
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Qualcuno di nuovo invece arrivò. “Una ragazza che prima non conoscevo. Anche lei usciva da una storia molto triste. Era una bella ragazza con una voce dolce e tenera. Faceva l’attrice, stava diventando qualcuno e si chiamava Belinda”. Rinvenne con un poliziotto che gli stava infilando fra le labbra una sigaretta. Dovevano essere passate delle ore, il sole era tutto da un’altra parte, e anche l’aria era diversa. Jacopetti era accartocciato nell’auto, gli avrebbero trovato gravissime fratture. Non c’era confusione lì intorno, le macchine continuavano a correre sull’asfalto, la voce di Belinda non si udiva più, Jacopetti si spaventò. “Dov’è Belinda, la ragazza che era con me?”, chiese. Un poliziotto gli disse di stare tranquillo, la ragazza era già all’ospedale. No, non sapeva dirgli come era ferita. Prima di sera, comunque, avrebbero saputo qualcosa di più. Era passato intanto molto tempo. Sulle strade d’America è proibito agli automobilisti fermarsi a soccorrere il prossimo; tutto quello che si deve fare è avvertire il primo posto di polizia e chiamare l’ambulanza. Il poliziotto continuava a infilare sigarette fra le labbra di Jacopetti finché l’ambulanza non venne a portare all’ospedale anche lui. Tutto si svolse con molto ordine e calma, pareva che non fosse successo nulla. “Può darci notizie più precise della ragazza che era con voi?”, chiese un poliziotto, appena Jacopetti entrò all’ospedale. “Perché?”, chiese lui... “che cosa è successo? Si chiama Belinda Lee, non ve lo ha detto lei? Non vi basta?”. “È morta”, disse il poliziotto. A questo punto gli misero nella pelle l’ago della morfina. Gli americani ritengono che sia impossibile curare due cose insieme. Il dolore di dentro e quello di fuori. Prima curano quello di fuori e intanto addormentano l’altro con qualcosa che in questo caso è la morfina. Il medico dell’ospedale gli prescrisse otto iniezioni al giorno, le ferite riportate erano tante e così gravi da non poterne fare a meno. “La morfina mi annebbiava il cervello, tutte le mie sensazioni erano attenuate, svanite. Anche quando mi pareva di essere lucido, presente alle cose, avevo i riflessi come allentati. Non esistevano l’ansia, la disperazione. C’era sempre, in ogni momento, una ras-
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segnazione ad ogni cosa, accettavo senza ribellarmi, era un vivere senza emozioni. Pensavo a Belinda come a una cosa lontana.Mi dicevo: ‘Ma tu cosa sei diventato? Dovresti buttarti giù dal letto con il gesso e le ferite, urlare, cercarla. Vedere dove l’hanno sepolta, sapere tutto di lei e di come è accaduto’. Mi osservavo incredulo, deluso, persino disgustato di me. Credevo di amarla molto di più. Non pensavo che avrei potuto accettare così facilmente, così stupidamente di averla perduta. La morfina fa questo, e questa è la seduzione: sei lucido, almeno ti pare di esserlo; e vedi ogni cosa con un grande distacco, quasi tu fossi in un altro mondo dove niente ti tocca né ti commuove”. Jacopetti rimase quattro mesi nell’ospedale di Los Angeles. Aveva l’osso del collo spezzato, un gamba fratturata, un braccio che tutti dicevano “finito, non si muoverà più”. Belinda l’avevano sepolta in un gran cimitero, una tomba tra tante, e lui non sapeva nemmeno la strada da fare per andare a trovarla, quando fosse guarito. Sapeva solo che si era fatta cremare. L’aveva lasciato scritto, lo diceva sempre, e non era stato uno scherzo. Dopo quattro mesi Jacopetti tornò in Italia con un’infermiera: la sua gamba era ancora immobile, il braccio paralizzato. Nella borsa da viaggio preparata dall’ospedale gli avevano messo una scorta di morfina. Ma dal momento in cui tornò in Italia, lui decise che avrebbe cominciato a calare le dosi. “Lo volevo fare io, di mia volontà, senza l’aiuto di un medico. Mi pareva facile al principio. Mi dicevo: Me ne tolgo una fiala per volta, non me ne accorgerò neppure”. Le prime fiale, infatti, furono facili da toglier di mezzo. Da otto al giorno, in pochi mesi Jacopetti riuscì a raggiungere la dose di una soltanto. “Con l’ultima la lotta fu tremenda, e io non la vinsi. Togliersi la droga di dosso è uno sforzo che non si riesce a compiere da soli, supera qualsiasi programma, la volontà ne esce sconfitta: anzi la volontà non esiste, non c’è”. Dopo un tentativo lungo e inutile, Jacopetti decise di fare la cura del sonno. Gli avevano detto che era la sola maniera, che da questa dormita forzata si esce puliti da simili guai. E infatti fu così. “Ero guarito dalla morfina, non ne sentivo più il bisogno. Ma nello stesso momento scoprivo il dolore per la morte di Belinda, come se mi fossi svegliato allora nella strada di Los Ange-
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les, in mezzo al deserto. Era passato tanto tempo, ma io cominciavo appena a soffrire”. È il momento in cui sua madre e suo padre gli stanno vicino. “Sono sempre stato il figlio da proteggere, ora lo diventavo ancora di più”. Le sue ferite, di fuori, stavano pian piano guarendo. Guarì anche il braccio, e il primo segno fu il piccolo, improvviso movimento di un dito. Stava al sole, a Cortina, e portava ancora la gruccia per la sua gamba spezzata. Al sole guardava la mano immobile, il braccio che tutti avevan dato perduto. “Improvvisamente sentii come qualcosa che si muoveva, come se il sangue si mettesse a correre lungo il braccio e finisse nel dito, in uno solo. Allora provai a muovere la mano. La mano no, non si muoveva, era un sogno che si potesse svegliare. Però c’era davvero qualcosa. Il dito si muoveva appena, era incredibile. Con me c’era Indro Montanelli, anche lui portava una gruccia, aveva una gamba spezzata e ci facevamo compagnia. Stavamo seduti vicini e gli dissi: ‘Guarda, Indro. Guarda che faccio’. E lui ribatté, tranquillo: ‘Sei guarito, Gualtiero. Proprio guarito’. Ora, lentamente, doveva camminare, muovere il braccio, riprendere il lavoro, i contatti col resto del mondo. I genitori di Jacopetti se ne tornarono a Barga (“Vanno a custodire quello che io possiedo, io con me porto soltanto ricordi, no ho niente di più, né lo voglio”), lui tornò a Roma. Apparentemente tutto riprendeva il suo corso. Un periodo si chiudeva per sempre: felice, tragico, bello e orrendo insieme. Prima però aveva ancora una cosa da fare. Belinda era rimasta laggiù, nel grande cimitero americano; un numero di tomba fra tanti altri. “Allora io andai a prenderla. Era un’urna di cenere, e la portai in Italia. Era qui che Belinda voleva restare. Le ho trovato un bel posto, qui a Roma al cimitero degli inglesi. Le ho trovato un posto nella parte più alta, vicino alla tomba di Shelley. Appena c’è un raggio di sole la tomba si illumina. Stando nel mio ufficio io lo posso vedere quel posto. È a due passi, par di toccarlo”. Si interrompe un attimo, la commozione gli tronca la voce. “Mi era stata vicino senza far troppe domande, senza alcuna esigenza, chiedendomi solo di darmi quell’amore di cui era colma. Mi era stata vicina nel momento in cui avevo bisogno di avere una donna come lei, senza complicazioni e inquietudini. Ed è questo ricordo di lei, quest’espe-
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rienza che è stata la più grande e importante della mia vita, che mi lascia incerto, perplesso, ormai sfiduciato nei confronti di ogni altra donna”. La storia con Belinda è l’unica importante della sua vita. Delle altre preferisce non parlare, non ne vale la pena. “Non sono stato felice, in faccende d’amore. L’unica volta fu con Belinda, perché lei era speciale. Credo che sia un po’ colpa mia: forse non riesco a dare a una donna ciò di cui ha bisogno, mentre esigo molto da lei. Credo di essermi innamorato soltanto tre volte: ma la volta più sicura fu con Belinda. Dopo di lei non mi sono innamorato più. Delle donne di oggi ho una gran diffidenza, mi sembra così difficile potersene innamorare; sono troppo offerte, troppo disponibili, mentre il mio ideale di donna rimane ancora un antico ideale, che non usa più, che è ormai superato”. Questo dice l’uomo più avventuroso d’Italia, l’uomo di cui fanno ritratti che sono fra il play-boy supernavigato e il dongiovanni dal cuore durissimo: uno che incontra una donna e poi va, nel Congo o nel Cile, e non torna più. Dice queste cose con naturalezza, né sollecitato a farlo, né spinto a dare di sé questa immagine sconcertante e inedita. Intervista a cura di Edgarda Ferri, “Novella 2000”, 27 Marzo 1966
INTRODUZIONE
Partiamo da un capolavoro1... Ormai tutto si gioca sugli anniversari e sulle scomparse. La celebrazione postuma è diventata norma e il necrologio – una volta si sarebbe detto coccodrillo (peraltro dettato e messo nei cassetti delle redazioni chissà quanto tempo prima) – assurto agli onori del genere. Dunque, esaurito il quarantennale della morte di Pasolini, approssimandosi quello della dipartita di Visconti (e tranne il restauro di Rocco e i suoi fratelli poco se ne parla), più in là nel corso dei mesi arriverà il centenario di Dino Risi, restando in ambito cinematografico e in correzione di rotta – e non a caso facendo fuori i nomi citati – quest’anno cade il cinquantenario di Africa addio, il capolavoro del filone dei mondo movies – molto più di Mondo cane capostipite del genere – e dei loro creatori, il giornalista Gualtiero Jacopetti e l’ittiologo Franco Prosperi (andrebbero riletti i suoi reportages garzantiani della seconda metà degli anni cinquanta per comprendere da dove arrivano alcune suggestioni e morbosità scientifiche…). Bisogna, pertanto, giocare sul filo dell’ironia per distinguere i due registi – non va dimenticato prestati al cinema che presto li risucchierà in un vortice sensazionalistico difficilmente scalfibile anche a distanza di decenni – da ciò che hanno rappresentato per tutti gli anni sessanta e settanta con il presunto maledettismo che si sono portati dietro. Prosperi, ancora vivo, ormai ritiratosi nella sua villa-zoo nei pressi di Formia, mentre la figura di Jacopetti, scomparso qualche anno fa, sta avendo una certa rivalutazione, seppur confinata da un diffuso e incontro1
Africa addio 50 anni dopo. Intervento tenuto al Festival “Le voci dell’inchiesta”, Pordenone 15 aprile 2016 pubblicato con tagli lo stesso giorno da “Il cittadino”.
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vertibile fanatismo. Quando al contrario e come si sta tentando di fare andando a biografare il genere dei “Mondo” piuttosto che gli scandali, i processi, le polemiche che crebbero intorno a Jacopetti e sodali, spesso alimentati dalla loro stessa spregiudicatezza che era – ormai osservata dal cannocchiale rovesciato della storia – una delle loro cifre stilistiche più accreditate. Da questa prospettiva, anche i presunti “falsi”, le tragiche riprese a pagamento (far ripetere la scena di una fucilazione aprì per Jacopetti una denuncia e un processo che fece scalpore, uno dei tanti che lo coinvolse), sembrano banalizzarsi rispetto all’assunto di fondo che vede il Continente ieri come oggi immobile davanti allo strapotere prima del colonialismo ed ora del capitalismo globale. Eppure, qualcosa si sta muovendo nella parte più “nera”, mentre il Nord-Africa brucia, emergendo da un caos che Jacopetti e Prosperi, ancor prima o almeno in un comune e pur distinguo sentire giornalisti, scrittori, intellettuali e registi come Egisto Corradi, Folco Quilici, Alberto Moravia, Pier Paolo Pasolini, negli stessi anni avvertivano e denunciavano. Fortunate coincidenze o tempi maturi?2 Forse tutte e due le cose hanno fatto sì che, nel giro di pochi mesi del 2014, venissero pubblicati due libri: uno su Gualtiero Jacopetti, l’altro su Paolo Cavara, rispettivamente di Stefano Loparco e di Fabrizio Fogliato (quest’ultimo è uno dei due curatori di questo libro) dedicati, dunque, a due dei tre registi dello scandaloso Mondo cane, uscito all’inizio degli anni sessanta e testimoni – da posizioni che offrono spunti, anche, di accesa discussione – del tratto comune percorso con l’ideazione e la realizzazione di quel leggendario film che generò tutta una ridda di ipotesi fino alla loro controversa separazione artistica. Poco tempo dopo, complice il restauro del film a cura della Cineteca Nazionale e la presenza del titolo alla Festa di Roma, uscì per i tipi Bompiani con la rigorosa curatela di 2
Rielaborazione con aggiunte dell’articolo “Al tempo di Mondo cane”. Gualtiero Jacopetti. Graffi sul mondo di Stefano Loparco e Paolo Cavara. Gli occhi che raccontano il mondo di Fabrizio Fogliato in libreria, “il manifesto – Alias” 15 novembre 2014.
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Alberto Pezzotta, la sceneggiatura de L’occhio selvaggio, redatta da Paolo Cavara con Tonino Guerra e Alberto Moravia. Questo film, riprendendo le fila del discorso, ha rappresentato per Cavara il punto di non-ritorno dall’esperienza di Mondo cane e forse anche il punto più alto della sua filmografia (allora non pienamente compreso) offrendo allo spettatore una riflessione sulla violenza dei media e dell’immagine, quanto mai attuale. E nei fatti, mai come oggi, ci si rende conto di come una storia univoca del cinema non esiste. Esistono storie di cinema e di film, di paesi e di generi; esistono elenchi di registi e attori; ed esistono, infine, sistemi produttivi e distributivi che, in modo non sempre virtuoso, costruiscono con la critica il reticolo relazionale della cosiddetta “settima arte”. Almeno così dovrebbe essere, anche quando i caterpillar dell’economia demoliscono le strutture della società dell’intrattenimento – eh sì, mai scordare la funzione commerciale del cinema – nel tentativo di ricostruirle al passo con il progresso tecnico e comportamentale contemporaneo. Ma la storia non si può arrestare, semmai ci si può fermare ad osservarla nel suo dispiegarsi nel tempo e negli anni, soprattutto nei suoi incroci più pericolosi. Un deragliamento annunciato, ma foriero di magnifiche (a posteriori) fantasie cinematografiche, è stato quello tra il giornalista e scrittore Gualtiero Jacopetti (1919–2011) e lo studente di architettura Paolo Cavara (1926-1982): entrambi folgorati, per l’appunto, dal cinema, in particolare dal documentario, intraprenderanno sul finire degli anni cinquanta un percorso comune che li porterà, prima di dividersi ed avviarsi all’elaborazione di linguaggi autonomi – pur se segnati ancora tratti dall’esperienza comune (vedi il debutto de I malamondo di Cavara e ancor più L’occhio selvaggio, di cui si è detto, e Africa addio di Jacopetti) – all’invenzione di un modo nuovo, spregiudicato e politicamente scorretto, di girare documentari. La loro derivazione dal seminale Europa di notte di Alessandro Blasetti – tema che avrebbe richiesto un discorso più approfondito – va oltre l’analisi della struttura ad episodi e la ricerca di situazioni scandalose, assurde e inverosimili (riferito all’oggi ci si chiede se un regista come Ulrich Siedl nella sua ricerca dell’abnorme nella società austriaca contemporanea può non aver visto e studiato i “Mondo movies”? O se il filippino Khavn de la Cruz avrebbe potuto concepire Mondomanila, film che va al di là del sensazionalismo citazionistico e cinefilo o ancora c’è da domandarsi se una pellicola, pur connotata e
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per certi versi affondata da velleità letterarie e suggestioni autoriali, come Apocalypse now non abbia, nella sua megalomania produttiva, costruito a partire dal “set” un immaginario cinematografico che va ad intelaiarsi, tra documento e finzione, saggio e romanzo, in mescolanze di “genere”, – e si badi bene a posteriori – da attribuirsi alle “invenzioni” di Jacopetti?). Dunque, proprio a partire da Mondo cane, gemmato ne La donna del mondo e in Mondo cane n. 2 (da estendersi a I malamondo per strisciare un blocco imprescindibile di visione) e dal suo strepitoso successo, trasformatosi a più di cinquant’anni dalla sua uscita in un vero e proprio cult movie. Come hanno fatto i suoi autori (compagno insostituibile dei due è Franco Prosperi, coautore in incognito dei primi film della coppia Climati-Morra e regista – aggiungendosi una E. prima del cognome per distinguersi dal suo omonimo pure collega e autore di interessanti film di genere – del testamentario e allo stesso tempo anticipatore Wild Beasts – Belve feroci, che seguirà il regista-giornalista di Barga, fino al fallimento, nel 1975, dell’operazione Mondo Candido, per poi andare ad ingrossare le fila della diaspora jacopettiana), si può cominciare a riflettere sulla trasformazione di un genere come il documentario, nelle sue declinazioni di shockumentary e mockumentary, fino ad arrivare a quelle nuove forme di drammaturgia che contraddistinguono la produzione contemporanea che spariglia non poco festival e critica come mostrano, per l’appunto, le recenti uscite dei libri, editati dalle edizioni Il Foglio, di Fabrizio Fogliato, Paolo Cavara. Gli occhi che raccontano il mondo (rimaneggiato e integrato in nuova edizione aggiornata uscita nel Febbraio 2016), e di Stefano Loparco, Gualtiero Jacopetti. Graffi sul mondo. E gli omaggi retrospettivi del Lodi Città Film Festival, da cui deriva questo libro con la sua struttura a files, e del Lucca Film Festival che sembrano recuperare il “nemo propheta in patria”. Filologia addio Uno dei dubbi – immediatamente fugati o dalla presa di coscienza che non si poteva far virare il libro su un piano squisitamente accademico – è stato quello di abbandonare una lettura filologica dei film sondati. Infatti, ci si è resi conto che determinate urgenze critiche ed estetiche venivano negate ad esame filologico.
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Più interessanti delle versioni uscite al cinema e delle edizioni in dvd ci sono sembrati gli accostamenti, in un montaggio temporale dei sondaggi critici pubblicati da quotidiani e riviste del tempo contrapposti ad interviste ed interventi di oggi. Il cortocircuito innescato congela Jacopetti personaggio e sposta, pertanto, l’attenzione sui film, biografandone la gittata temporale che dura poco più di una ventina d’anni. Quest’operazione, per certi versi inedita, è tesa a riempire un vuoto nella storia del cinema che – a nostro avviso – è ancora possibile di futuri e ancor più inediti sviluppi più che altro indirizzati verso l’eterodossia cinematografica dei fratelli Alfredo e Angelo Castiglioni, tirati dentro nei “mondo movie” più dal sistema commerciale cinematografico che da una vera adesione ai suoi moduli espressivi3. Per tornare al discorso filologico, estraiamo dal file cancellato poche righe su uno dei più controversi e censurati film di Jacopetti e Prosperi, Addio zio Tom. Uscito il 23 settembre 1971 con una durata di 123 min. (Goodbye Uncle Tom – DVD Blue Underground – http://youtu.be/ VCtCEKzmMsQ) e con un finale mai più visto che prevede la presenza di Gualtiero Jacopetti e Franco Prosperi pronti a farsi fotografare vicino ad una catasta di corpi di schiavi abbattuti durante la caccia (in realtà trattasi di finzione perché gli stessi “cadaveri” si rialzano e si dirigono verso la m.d.p.), Addio zio Tom, il 14 Ottobre 1971 va incontro a sequestro per ordine del procuratore di Rimini che riceve una denuncia da parte dello scrittore Josep Chamberlain Furnas, autore – nel 1957 – del libro Goodbye to Uncle Tom (edito in Italia da Feltrinelli come Addio zio Tom). L’autore americano sostiene che il titolo e il contenuto del film si rifanno direttamente alla sua opera; il giudice – una volta comparati libro e film – dà ragione allo scrittore e il procuratore di Roma impone alla Euro International di cambiare il titolo del lungometraggio, cosa che avverrà in data 7 Marzo 1972. Parallelamente alla richiesta di sequestro da parte di Furnas, infatti, in tutta Italia si verificano una serie di fatti incresciosi, prima e durante le proiezioni del film, con disordini, gruppi di studenti e di neri che impediscono al pubblico di entrare, un gruppo di studenti somali arrestati mentre sta organizzando un corteo contro la pellicola per denunciarne i contenu3
Rimandiamo all’articolo “Il mondo da documentare di Alfredo Castiglioni”, “il manifesto” 17 febbraio 2016 ivi riproposto a pag. 188
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ti apertamente razzisti. Fatti che portano ad un nuovo sequestro della pellicola da parte della Questura di Bari (altre seguono in tutta Italia). Il 21 Marzo 1972 Jacopetti e Prosperi vengono assolti dal reato loro ascritto perché “il fatto non costituisce reato”. Il film esce nuovamente nelle sale a fine 1972 ma con il titolo Zio Tom e con una durata di 136 min. (Addio zio Tom – Director’s cut, DVD Blue Underground – http://youtu.be/SnVntrkTyjc). Questa versione presenta un rimontaggio ad opera dello stesso Gualtiero Jacopetti, con immagini documentarie commentate da Stefano Sibaldi che riproducono frammenti di attualità: il corteo funebre di Martin Luther King, l’attività delle Black Panthers, raduni e frammenti di vita hippies, parate e carnevali della Louisiana, immagini di celebrazioni ecclesiastiche con commento anticlericale, scontri tra neri e polizia, saccheggi e violenza dei neri commentati dalle parole di non violenza di M.L. King. Dalla nuova edizione vengono tagliate invece tre sequenze (il mercato degli schiavi, l’invettiva del nordista e la chiamata del fustigatore professionista) mentre altre – dagli accenti più marcatamente razzisti – vengono ampiamente decurtate. Va, infine, detto che la pellicola circola nel mondo in diverse versioni più o meno censurate e dal metraggio variabile: tra queste emerge quella canadese della durata di appena 103 min. Congedo provvisorio Non basta citare qualcuno per chiedersi, alfine, se ci fosse un altro modo possibile d’“interpretare” nella giusta misura e distanza questi film. Ci siamo trovati, molto spesso, guardandoli a dover usare tutta la nostra immaginazione per poter distogliere dalla mente tutte le incrostazioni ideologiche, sedimentate dagli anni, che sommergevano queste pellicole e i loro autori come un guano irrimediabilmente solidificato. Dopotutto, fuor di metafora, basta guardare questi film come solo ad uno spettacolo e non assistere ad un’esecuzione.
PRIMO FILE
JACOPETTI VS. CAVARA. OCCHI O GRAFFI SUL MONDO? 1962-1964
I film, i sondaggi critici, le testimonianze MONDO CANE (1962) Regia: Paolo Cavara, Gualtiero Jacopetti, Franco Prosperi Soggetto: Gualtiero Jacopetti, Paolo Cavara, Franco Prosperi Interpreti: Rossano Brazzi (apparizione) Fotografia: Antonio Climati, Benito Frattari Musica/c: Riz Ortolani, Nino Oliviero Montaggio: Gualtiero Jacopetti Produzione: Cinematografica RI.RE., Tempo Film Distribuzione: Cineriz durata: 108’ censura: 37042 del 28-03-1962 Edizioni in DVD: Medusa (Italia), X Rated (Germania), Blue Underground (U.S.A.) Giacomo Leopardi nel Discorso sopra lo stato presente degli italiani tra le altre cose accenna al vizio nazionale di prendersi beffa gli uni degli altri. “La raillerie, il persiflage, cose sí poco proprie alla buona conversazione altrove, occupano e formano tutto quel poco di vera conversazione che v’ha in Italia... chi si distingue in essa è tra noi l’uomo più di mondo e considerato superiore agli altri... gli italiani posseggono l’arte di perseguitarsi scambievolmente... in Italia la principale e più necessaria dote di chi vuol conversare è il mostrar con le parole e coi modi ogni sorta di disprezzo verso altrui, l’offendere quanto più si possa il loro amor proprio”. Leopardi attribuiva il cinismo della società italiana alla sua angustia, mancanza di vitalità e scarsità di mezzi. Ma non sembra che il co-
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siddetto miracolo economico abbia cambiato molto le cose. Il successo, per esempio, del teppismo verbale dei nostri cortometraggi documentari inventato, a quanto pare, da Gualtiero Jacopetti, starebbe a dimostrare che dal tempo di Leopardi gli italiani sono rimasti gli stessi. Adesso Jacopetti, dopo aver rinfrescato il cinismo nazionale con l’apporto del più recente qualunquismo, ci presenta un lungo film documentario dal titolo fin troppo modesto Mondo cane. Questo documentario è assai interessante per almeno due aspetti: sia per il materiale fotografico che vi è presentato, sia per i significati che l’autore ha voluto attribuire a questo materiale. Diciamo subito che il materiale, spesso eccellente, meritava altro trattamento, altre intenzioni. Gualtiero Jacopetti (con la collaborazione di, in ordine alfabetico, Paolo Cavara e Franco Prosperi) ha fatto il giro del mondo con lo scopo dichiarato di fare un film che fosse giusto il contrario dei tanti documentari apparsi negli ultimi anni: questi cercavano il bello; lui ha voluto riscoprire il brutto. Una simile idea, leggibile in filigrana in tutto il film, ne ha limitato in partenza la portata. Tanto più che questa ricerca del brutto non è stata fatta con l’animo dell’esteta o del moralista bensì, come abbiamo detto, con quello del commentatore giornalistico dei nostri cortometraggi. E invece Jacopetti è meglio di quanto lui stesso crede d’essere: il suo interesse per il laido, per il brutto, per il grottesco, per il contraffatto non è ozioso, ha invece un carattere ossessivo e autentico. In altri termini, caso raro, in un paese ragionevole come l’Italia, Jacopetti ha un genuino interesse per il male, di specie probabilmente patologica, ma con una sufficiente capacità di traduzione in moduli culturali. Giornalista qualunquista e superficiale quando, per esempio, accosta l’aggressività delle donne americane a quella delle selvagge della Nuova Guinea, Jacopetti rivela il suo decadentismo sincero quando descrive la guerra da pari a pari che fanno certi pescatori dell’Oceano Pacifico ai pescecani che li hanno mutilati; quando ci mostra nell’isola di Bikini la lenta agonia delle tartarughe gigantesche alle quali l’esplosione atomica ha fatto perdere il senso dell’orientamento. Un commento non già ironico o sentimentale, bensì ispirato alle scoperte più recenti dell’etnologia andava fatto alle manifestazioni religiose, cristiane e non cristiane dei primitivi della Nuova Guinea. E le moltissime sequenze dedi-
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cate alle torture che gli uomini infliggono agli animali meritavano un sottinteso di pietà e di raccapriccio invece della solita attenzione per le singolarità. Jacopetti in Mondo cane ha toccato senza rendersene conto una materia degna di Pascal con l’animo e le parole di un membro della café-society di Roma. Peccato. Restano tuttavia i fatti positivi di un non comune fiuto giornalistico e di una indubbia abilità nella ripresa cinematografica. Alberto Moravia, “L’Espresso”, 15 Aprile 1962 “Ma la censura come ha accolto Mondo cane?”, chiedo a Gualtiero Jacopetti, regista del film che si annuncia come uno dei più discussi e clamorosi di un’annata già tanto ricca di opere destinate a far parlare di sé. “Tutto è andato più liscio di quanto prevedessi”, risponde Jacopetti, che zoppica ancora in seguito al tremendo incidente automobilistico in California, nel quale perse la vita Belinda Lee. “Fecero solo qualche riserva sulla sequenza dei bambini che puliscono i teschi e le ossa conservate nella cripta dell’Isola Tiberina a Roma. Non volevano credere che fosse una scena vera, ma, dopo aver svolto delle indagini sul posto, si convinsero che l’episodio era esatto. Del resto, nell’intero film non c’è un solo metro di invenzione: tutto è rigorosamente autentico e controllabile in ogni occasione! Proprio per lasciare intatto il senso di verità che è motivo dominante di Mondo cane, ho persino rinunciato a costruire i collegamenti fra sequenza e sequenza, come di solito si usa. Il nostro vuole essere un reportage giornalistico eccezionale, un programma di avvenimenti inediti, strani e imprevedibili, svolto con piena onestà verso il pubblico. Questi avvenimenti, lo confesso, li abbiamo cercati con tutti i mezzi, ma non li abbiamo mai suscitati né alterati, neppure in minima parte”. Certo, lo straordinario documento realizzato da Jacopetti frugando per quasi due anni gli angoli ignoti di mezzo mondo è una delle opere più impressionanti che si siano viste al cinema. Su questo, a prescindere dalle discussioni sul valore estetico di Mondo cane, sono d’accordo un po’ tutti. Io stesso in quindici anni di esperienza come critico cinematografico non ho mai assistito a nulla di paragonabile a questo film, in fatto di violente e continue emozioni, di fortissimo shock per colpire gli spettatori. Per questo la domanda posta al regista circa la censura non era fuori luogo,
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non tanto perché l’opera possa essere sospettata di immoralità (le sequenze scabrose sono pochissime, e non certo fine a se stesse), quanto perché la somma di orrori accumulati in Mondo cane raggiunge punte di crudeltà che possono ferire i meno preparati o i più sensibili. Il film è naturalmente vietato ai ragazzi, ma occorre onestamente avvertire che anche fra gli adulti chi sia facilmente impressionabile dovrà fare un piccolo esame di coscienza prima di affrontare talune parti della pellicola. Mondo cane – a proposito del titolo va spiegato che si tratta di una esclamazione tra la perplessità e la stupefazione, come dire “Ma guarda un po’ che mondo!” – cominciò a nascere due anni fa quando Jacopetti, che aveva fatto il giro del globo per Mondo di notte, si accorse che il meglio non era stato messo a fuoco, ed era proprio il rovescio della medaglia di quel film. L’idea centrale fu di descrivere fatti sconosciuti, a volte paradossali, a volte grotteschi, a volte amari e terribili, con accostamenti fra i costumi di tutti i paesi, per dimostrare che gli uomini sono dovunque più o meno simili, con un fondo di gusti comuni, con lo stesso modo di mangiare, con la stessa carica di violenza e di primordialità sotto le più diverse latitudini, con lo stesso ideale di bellezza, e, perché no?, con lo stesso desiderio inconscio di essere migliori. È una dimostrazione che, in partenza, sembra molto difficile da dare, se si pensa che il parallelismo coinvolge popoli civilissimi come il nostro, l’inglese, il portoghese, l’americano, e i più selvaggi aborigeni della Nuova Guinea. Eppure qualcosa convince nella tesi di Jacopetti, anche se il suo arbitrario svolgimento la sottrae, per forza di cose, al rigore del metodo scientifico. Prendiamo l’Italia, per esempio: che dire della cruenta cerimonia della Passione di Nocera Terinese in Calabria, dove gli uomini si straziano le carni correndo per le vie arrossate del loro sangue? E che dire della processione di Cocullo, negli Abruzzi, in cui la gente porta a spasso serpenti arrotolati intorno al corpo? Sono manifestazioni di fanatismo ingenuo e mistico che sbalordiscono non meno del rito papuaso di Sing-Sing, dove ogni cinque anni, nell’appuntamento misterioso in un villaggio che cambia ogni volta, gli indigeni uccidono a bastonate i loro maiali e, dopo un’astinenza quinquennale, saziano la loro fame con un colossale banchetto. A proposito di questo rito, Jacopetti mi ha confessato di aver passato momenti difficili durante le riprese: gli isolani “cingu”
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erano diffidenti e irrequieti, ed egli poi sapeva benissimo di trovarsi in mezzo a possibili antropofagi – come si vide qualche mese più tardi dalla tragica spedizione del figlio del miliardario Rockefeller, del quale si è giunti a temere che sia stato divorato. Assediati in una capanna, armati solo di carabine calibro 22, Jacopetti e i suoi collaboratori Cavara e Prosperi, insieme con i due operatori, non si sentivano affatto tranquilli: poi a furia di regalie, i “cingu” li lasciarono andare. La Nuova Guinea, del resto, oltre a fornire alcune delle sequenze thrilling, rischiò anche in altre occasioni di riuscire fatale ai cinque cineasti italiani: nella stessa zona l’anno prima due missionari erano stati mangiati, e qui appunto cadde un aereo noleggiato dalla troupe, senza che per fortuna ci furono feriti gravi. A nuovi guai il regista andò incontro quando girò la scena delle “donne da ingrasso” di un capo locale: è tradizione infatti che questo capo, magrissimo (pesa solo 36 chili), sposi soltanto donne dai centoventi chili in su. Per impalmare le sue preferite egli le rinchiude in una gabbia, nutrendole per mesi con farinacei, finché non abbiano raggiunto la prevista obesità. Ma c’è da meravigliarsi di questo costume quando, subito dopo, Mondo cane mostra il sistema di cura dimagrante “Vic Tanny” per le donne americane oppresse dalla pinguedine e dall’età? È uno spettacolo ridicolo e pietoso insieme, una autotortura che ha le sue basi in una forma di infantilismo i cui aspetti non sono pochi negli Stati Uniti. Prendiamo un’altra scena descritta da Jacopetti: il giro turistico organizzato alle Hawai, per comitive di coniugi anziani; lì, fra le delizie di un falso paradiso terrestre, vecchi e distinti signori imparano la “hula” da finte danzatrici locali, muovendosi con ritmo grottesco e penoso. Moralmente e concettualmente questo episodio si può accostare a quello che chiude il film: il “Cargo Cult”, forse la più bella fra le sequenze di Mondo cane. Anche questa ha per sfondo la Nuova Guinea e tocca il vertice della poesia dell’opera. Gli indigeni, che da anni osservano all’aeroporto di Port Moresby l’arrivo dei grossi aerei da carico pieni di ogni ben di Dio, si sono convinti che essi vengono dal loro paradiso, e che di lassù gli spiriti degli antenati li hanno mandati loro come donativo. Ma i bianchi, più furbi, costruendo l’aeroporto hanno catturato i grandi uccelli, privandone così i papuasi. Occorre perciò costruire altri aeroporti, lassù sulle montagne inaccessibili, in modo da persuadere i sacri volatili ad
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atterrare presso i legittimi destinatari del carico. Ed ecco gli indigeni all’opera, spianare rozzamente le cime dei monti, tracciare una pista rudimentale, farvi sorgere la torre di controllo intravista a Port Moresby, e porre nel bel mezzo un “aereo-civetta” che serva di richiamo ai confratelli. Finora nessun aereo è giunto, ma chissà che un giorno qualcuno non possa essere persuaso a viaggiare sulla rotta Papuasia-Paradiso, a beneficio totale degli indigeni. Naturalmente non sempre Mondo cane è così felicemente ispirato: in qualche caso il gusto dell’orrido prevale sull’equilibrio, e la poesia, cercata un po’ affannosamente, è assente o appena sfiorata. Quando funziona soltanto come macchina per produrre emozioni violente, l’opera persuade meno, anche perché il senso del limite in questa materia è difficile da valutare. Ci sono però episodi che vanno segnalati perché difficilmente potranno cancellarsi dalla memoria dello spettatore. Anzitutto la magnifica e tragica ballata ambientata nel villaggio dei pescatori di pescecani, sulle coste orientali della Malesia che si affacciano sul Mar Cinese Meridionale. Qui l’uomo deve lottare ogni giorno con gli squali perché le pinne dei mostri, essiccate, vengono vendute bene ai ricchi cinesi ai quali servono come amuleti: il villaggio trae da questo commercio ogni sua risorsa, ma a quale prezzo! Quasi tutti gli abitanti adulti mancano di un braccio o di una gamba, e la vista di questa moltitudine di moncherini strappa un grido di orrore e fa sobbalzare il cuore. Pure, ogni tanto, gli uomini traggono sui loro nemici un’atroce vendetta; rinunciano a ucciderli, li catturano vivi e infilano nelle loro gole un riccio avvelenato che dà tremende sofferenze; quindi li lasciano liberi perché la loro agonia si prolunghi per settimane. Un’altra sequenza di grande effetto è la feroce cerimonia dei soldati Gurkha a Singapore. Fra questi indomiti montanari del Nepal l’Inghilterra ha sempre reclutato le sue truppe più fedeli e i Gurkha non hanno mai rinnegato il loro giuramento a Sua Maestà Britannica, neppure quando, venti anni fa, furono costretti ad arrendersi ai giapponesi dopo la caduta di Singapore. Per punizione, i nipponici ne decapitarono trecento e da allora, ogni anno, la festa dei Gurkha consiste nello spiccare il capo, con un taglio netto, a un certo numero di tori, di fronte al comandante e agli ufficiali del reggimento. La sera, poi, uno dei Gurkha, vestito con abiti femminili, danza per i commilitoni. Questo singolare contrasto è stato colto da Jacopetti con grande maestria. La morte domina molti
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degli episodi di Mondo cane: è la morte angosciosa della grande tartaruga marina, che negli atolli polinesiani intorno a Bikini ha perso, a causa delle radiazioni, il senso dell’orientamento e si dirige fra le sabbie assolate dell’interno anziché verso il mare salvatore: o è la fine spietata di uomini e donne, a Singapore, colpiti da malattie inguaribili, abbandonati dai cinesi in un sinistro stabilimento, perché vi passino le loro ultime ore, mentre fuori i parenti attendono banchettando. O è la macabra e allucinante visione del cimitero sottomarino, in cui i teschi occhieggiano fra le inflorescenze dei coralli della grande barriera australiana. Angelo Solmi, “Oggi” 1962 Perché il grosso documentario a colori Mondo cane suscita in molti spettatori un senso di irritazione e di fastidio? Dirò subito, ad evitare equivoci, che questa reazione non è provocata dalle cose atroci e crudelissime che si vedono ma dal modo e dal tono col quale queste cose sono presentate. Non esistono cose ripugnanti se sono viste in un certo modo, con poesia; o anche soltanto con un senso di pietà e di comprensione da parte di chi li racconta. Gli autori di Mondo cane invece ci sguazzano dentro, ti spiattellano sotto il naso le cose più rivoltanti con un certo tono sfacciato, provocatorio e superficiale, degno del più riprovevole giornalismo. Alludo a quel giornalismo, d’altronde quasi tramontato, costantemente alla caccia di orrori, di pugni nello stomaco, proteso nell’ansia di strappare il successo a qualunque costo terrorizzando gli sprovveduti lettori. Un giornalismo deteriore, vecchio stile, che punta tutte le le sue risorse sulla paura che riesce a suscitare nei lettori. In questo lungo viaggio che Gualtiero Jacopetti e i suoi collaboratori Paolo Cavara e Franco Prosperi hanno compiuto, il loro compito era di scovare in tutti gli angoli del mondo le cose più cattive, rivoltanti e sgradevoli sotto ogni punto di vista. Con quale programma? Quale era lo scopo ultimo di questo dannato viaggio? Nessuno scopo oltre a quello di ottenere successo giocando slealmente sull’emotività degli spettatori (un De Amicis alla rovescia: quest’ultimo, anche lui toccando slealmente certi tasti infallibili, puntava sulla commozione; Jacopetti toccando altri tasti ugualmente infallibili punta sull’emozione e sull’orrore). Gli spettatori non possono naturalmente rimanere indifferenti vedendo deca-
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pitare d’un sol fendente un torello il cui corpo continua per qualche passo a camminare tra flotti di sangue, mentre la testa ruzzola lontano e muove gli occhi e la lingua; e di queste decapitazioni, perché gli spettatori possano imprimersele bene in mente, ne vengono offerte parecchie una dietro l’altra. O vedendo massacrare furiosamente branchi di maiali. E come si può rimanere indifferenti nel vedere una tartaruga gigante, nella zone dell’atollo di Bikini, che avendo perduto il senso dell’orientamento in seguito all’inquinamento atomico, si dirige angosciosamente verso la terra anziché verso il mare, dove muore dopo lunghissimi strazianti annaspamenti ritratti con inesorabile insistenza, accanto alle carcasse di molte altre tartarughe morte come lei per la stessa ragione? O vedendo sbucciare serpenti vivi col metodo usato per le banane, per poi mangiarli? O ancora osservare primissimi piani di cadaveri cui viene fatto il maquillage? In questo Jacopetti e i suoi collaboratori sono rigorosissimi: se un episodio non suscita ribrezzo non lo girano. Lo spettatore non deve avere tregua. Come nella sequenza dei pescatori di pescecani che per vendicarsi delle morti e delle mutilazioni che gli squali producono fra di loro, li tirano su, caccian loro in gola un riccio velenoso spingendovelo dentro con un bastone, e li ributtano in acqua. Così i pescecani dopo una breve illusione di essere tornati liberi passeranno una settimana di orrende sofferenze prima di morire. E via di questo passo di cattiveria in cattiveria, indugiandovi con compiacenza dove c’è da far rabbrividire e accompagnando tutto con un parlato incalzante e ironico che arieggia a quello cinematografico dello stesso Jacopetti. Questo stile solletica i peggiori gusti degli spettatori che, entrati nel gioco, finiscono per scoppiare in clamorose risate a particolari macabri, a teschi, a corpi di uomini e di animali straziati. Il commento ironico sottolinea anche accostamenti del più piccolo e facile qualunquismo come quello, per esempio, tra il furore delle negre del centro Africa e le donne americane; e altri paragoni del genere. E tutto sempre sottolineato, senza un momento di respiro, senza un attimo di distensione, sempre in preda a quel corrivo giornalismo d’appendice che non guarda in faccia nessuno pur di far colpo. In sostanza a Jacopetti le atrocità che affliggono il mondo non lo interessano minimamente, non suscitano in lui alcuna reazione,
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alcuna osservazione, alcun pensiero oltre a quello di ricavarne delle sequenze atte a travolgere gli spettatori cinematografici. Naturalmente una volta messi su questa strada, si potrebbe andare molto più in là. C’è anche di peggio nella vita. Ma con quale costrutto? Vorrei aggiungere che Mondo cane non ha poi, a mio avviso, quei pregi di stile e di tecnica che qualcuno ha voluto trovarci. Tutta la sua forza e il suo thrilling stanno nella violenza degli argomenti. Se non si fosse indugiato con tanta improntitudine su tutte quelle atrocità, il suo stile sarebbe apparso di ordinarissima amministrazione, quale si rivela infatti non appena il film si sofferma su argomenti che non siano di puro orrore. Ercole Patti, “Tempo”, 28 Aprile 1962 Spregioso il titolo, spregioso il film. Gualtiero Jacopetti è un viaggiatore cinematografico di perfetto cattivo umore (proprio in senso fisiologico). Non cercate informazione o anche soltanto colore in questo film ch’egli ha messo insieme (con la collaborazione di Paolo Cavara e Franco Prosperi) dopo un lungo viaggio dall’Europa all’America, dal Mediterraneo al Pacifico, con tappe in Polinesia, Borneo, Malesia, Nuova Guinea, Cina e Giappone; ma piuttosto ironie, sarcasmi, violente angolazioni, e una sistematica ricerca, di ciò che di più bizzarro, strano, e urtante possa presentarsi a un viaggiatore maldisposto.[...] Andiamoci adagio, Jacopetti non è Swift; la sua nausea degli uomini è raccogliticcia ed epidermica, un espediente, in sostanza per divertirli. L.P., “La Stampa”, 5 Aprile 1962 Mi presi volentieri, andando a vedere Mondo cane, una soffice vacanza dai film a intreccio. Già mi aveva giovato, questa breve cura disintossicante, e fu quando mi concessi I nuovi angeli; ma che bilancetta di gioielliere sarebbe la mia, se non strizzassi l’occhio ad Alessandro Blasetti, il quale in fondo con Europa di notte, instaurò il genere? Ciao, Sandro; io e te apparteniamo a una categoria di pionieri indubbi ma jellati; se nelle deserte e molli praterie ci fossimo addentrati noi, i pellerossa ci avrebbero tolto l’iniziativa e messi, nella più favorevole delle ipotesi, a languire in una “ri-
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serva”. Amen. Rispetto a I nuovi angeli, Mondo cane ha progredito in questo: liberandosi, come una donna (infine o purtroppo) si denuda interamente, anche dell’impalpabile camicia di un tema generico. Il film di Gualtiero Jacopetti, di Paolo Cavara e di Franco Prosperi è come un ciottolo di fiumara, il quale non può non far pensare a tutta l’acqua che gli è passata, levigandolo, addosso, ma non la narra e non la giudica; l’ha vista, nitidamente, arrivare e andarsene lenta o veloce; il resto non era compito suo. Mondo cane esordisce con l’inaugurazione del monumento a Rodolfo Valentino in quel di Taranto, a Castellaneta; l’onorevole Semeraro decanta alla maniera sudaticcia di Montecitorio l’inobliabile arte del fu Guglielmi; l’onorevole Folchi annuisce con assorta gravità (in ogni circostanza, per futile che sia, gli scià della politica assumono l’atteggiamento di chi abbia appena finito, solo o accompagnato, di salvare la patria); ciò mentre gli agghindati giovani della zona, che sognano di ripetere il viaggio e la gloria del commemorato, esibiscono i loro volti approssimativi, facinorosi (una minaccia, a mano armata, di bellezza maschile) e argutamente lo speaker: “Le notti di Castellaneta, più che di messi mature, odorano di brillantina”. Il monumento al Figlio dello Sceicco è se non erro di ceramica... io spero vivamente che il sasso di qualche involontario Balilla dell’atavico buon senso pugliese lo frantumi. Dalle fataloidi sembianze di un fulgido maschio latino defunto, Jacopetti s’avventa su quelle non meno eccitanti per le fanatiche anglosassoni di Rossano Brazzi: vediamo il quasi cinquantenne Adone (che si vanta di avermi, nel ’39, sconfitto a braccio di ferro: ed è falso, ed io tuttora, dovessi rompermi l’aorta, lo sfido) agguantato e fatto a brani da un’orda vociante di commesse di negozio. Vi meravigliate? E allora eccoci d’un balzo a Kiriwina, isola beata in cui l’indigeno sessualmente pregiato è di norma inseguito e violentato collegialmente, da cinque, sei ragazze per volta; e come se la sbrighi, con l’aiuto di quale specifica divinità o droga, la fitta vegetazione equatoriale non dice; là di scoperto non abbiamo che le mammelle, dense, palpitanti, delle cacciatrici. Ma non sono gran che più vestite le bagnanti della Costa Azzurra, i motoscafi delle quali scivolano attorno a una corazzata alla fonda e causano a bordo una irrefrenabile tempesta di ormoni. Siamo all’interno della Nuova Guinea, dove una ferrea legge impone che ogni donna alla quale sia morto il neonato allatti un
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maialino. Ah quella bestia che ingordamente succhia. Per quali vie, notate, e dopo quanti millenni, la buffa specie nostra esce d’obbligo con la nutrice di Romolo e Remo. Il guaio è che questi barbari non sono coltivatori di niente; la fame li assedia, li opprime, e solo a intervalli di cinque anni s’ingozzano di carne suina. I porci vengono abbattuti a colpi di enormi randelli sul grugno, è un’atroce, agghiacciante scena, imbrattata di sangue che pare schizzi fino allo spettatore, ed acuita dal fatto che l’obiettivo, dico io, vi si attarda con una punta di sadismo. Frattanto nel cimitero canino di Pasadena (California) padroni inconsolabili piangono o addirittura pregano; vedrete con sollievo un paio di cani vivi alzare quanto occorre la zampa adatta a orinare sulle tombe dei propri simili, pur di chiedere in qualche modo a quei patetici bipedi americani: “Ehi, non fu per caso fabbricata da voi l’atomica di Hiroshima?”. Senonché, paese che vai, uso di animali che trovi: a Formosa i cani di ogni razza sono cucinati e mangiati di gusto, mentre le oche di Strasburgo vengono ipernutrite con mangime spinto nelle gole mediante un apposito imbuto a pressione: chi razionalmente esegue l’operazione è, d’abitudine, una rosea, tonda, goethiana signora; ella non ha colpa se le oche non hanno ancora provveduto a nascere senza fegato. E con ciò? A Tabor, nell’arcipelago delle Bismark dove sono molto apprezzate le veneri di centocinquanta chili, un metodo analogo permette l’ingrassamento delle compagne di giaciglio dei capi tribù. Flaccide tardone, a Los Angeles, affrontano in compenso i rulli e i vibratori e gli esercizi dimagranti: che vi possono uccidere, quanto siete laide nella vostra indomabile furia di vivere, sorretta dai facilissimi dollari dei vostri facchini del vincolo nuziale! Come non sentirsi anarchici e sovversivi dinanzi a voi? Quando tornerà, sulle piazze, la ghigliottina? E poi a Hong-Kong, milioni di cinesi indigenti si nutrono di serpi, di rospi, di lucertole, di ramarri pagati una miseria? Be’, al Colony di New York la preziosa clientela gradisce, a prezzo altissimo, formiche fritte, vermi al gratin, uova di farfalle, topi in umido, blatte farcite. Che ve ne sembra? Il dito volubile di Jacopetti si posa qua e là sulle mappe. Sotto Pasqua, a Nocera Terinese, i “vattienti” si feriscono le gambe con frammenti di vetro e arrossano le viuzze del remoto villaggio calabrese; che fa il tetano, se non il parroco o il maresciallo dei carabinieri, laggiù, per vietare questo belluino atto di fede che non piacerebbe a Gesù e che non fu ideato, lo giurerei,
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da un asceta, bensì da un apoplettico? Segue la parata delle cretine e floride bagnine di Sidney, più tetragone dei canguri al senso del ridicolo; poi gli orribili fenomeni delle inversioni degli istinti provocate dal fall-out nella fauna dell’atollo di Bikini; poi le necropoli subacquee malesi fra i taciti, fantomatici rami dei coralli; poi gli straziati, mutilati pescatori di squali, a Rajput, che si vendicano introducendogli in corpo un velenosissimo riccio e ributtandoli, a morirvi di lunghi spasimi, nell’oceano; poi certi ospedali cinesi dove gli agonizzanti sono con perentoria dolcezza invitati, dai parenti che nelle vicine osterie banchettano, ad affrettare il decesso; poi i quadri “moderni” che, a Parigi, Yves Klein dipinge bagnando nella vernice azzurra le sinuose modelle e ottenendone, per contatto, la nebbiosa immagine sulla tela; poi le gesta dei Gurkas, mercenari inglesi del Nepal, i quali con un solo colpo di scimitarra decapitano un toro (anche qui troppo indugio, la sequenza è raccapricciante e insistita, con l’aggravante degli ufficiali britannici che si felicitano – a caval donato non hanno mai guardato in bocca, gli inglesi, e nell’ultima guerra i Gurkas furono spesso avviati all’eccidio – con i feroci soldati), poi gli inauditi cavernicoli di Gorok, immobili negli evi, fermi all’alba del tempo; e, come epilogo del film, gli stessi aborigeni che, scesi dalla costa, e dopo aver ammirato gli aerei dei bianchi, ne fabbricano uno di legno sui monti e aspettano che i loro iddii lo animino e lo moltiplichino. C’è in questo brano un sommesso, fragile, quieto lirismo: la paziente e vana attesa, comune a tutti gli uomini, che un prodigio finalmente li migliori. Un film desueto, bizzarro, sul quale mi auguro che non si precipitino a dozzine gli avvoltoi dell’imitazione. Certo è più connaturato al cinema questo genere senza limiti di spazio né di argomenti, che la ingabbiata sofisticazione di interiorità perseguita dalla “nouvelle vague”; ma il cinema perirà di leucemia se continuerà a negligere i fatti armonizzati come le parti di un organismo vivente; e cioè se rinunzierà man mano al racconto. Il cinema è natura, azione, movimento; di più: il cinema è, nelle autentiche sue qualità di espressione, ubiquità, onnipresenza. Al diavolo. Quando il brullo Aristarco, dagli e dagli, intuirà questa fondamentale e dissodante verità, il suo cervello, esiguo o anomalo quanto sia, comincerà a funzionare. Ma che ha voluto dire, con Mondo cane, Gualtiero Jacopetti? Nulla e tutto. Giuseppe Marotta, “L’Europeo”, 15 Aprile 1962
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Questa volta siamo d’accordo con la pubblicità, che suggerisce prudenza e sconsiglia alle “persone particolarmente impressionabili” la visione di Mondo cane, il lungo documentario a colori realizzato da Gualtiero Jacopetti, Paolo Cavara e Franco Prosperi in diverse parti del mondo, dalla Calabria ad Hong Kong, dalla California al Borneo, dalla Germania alle isole Sandwiches.[...] Signor Jacopetti e complici, è concesso chiedere quanto c’è di gusto sadico, di raffinata crudeltà, di sottile perversione, in questo vostro bellissimo breviario a colori della cattiveria e stupidità umana? Ancora una cosa: se fosse vivo, pensate che De Amicis arriverebbe tale alla fine del primo tempo? E per finire: ci permettete di segnalare alla vostra attenzione, come futuro attore di successo, un ragazzetto dell’Ortica che si diverte pazzamente a cospargere i gatti di petrolio e poi dargli fuoco? Basta così, e grazie. Quanto a noi, l’abbiamo detto, Mondo cane è piaciuto molto. Con qualche riserva, si capisce di ordine gastrico, e con il solenne impegno di sposare la causa vegetariana. Ors., “La Notte”, 31 Marzo 1962 “Cosa ci vuole per fare del cinema? – si chiedeva Blasetti negli anni eroici della scapigliatura critica. Soltanto una macchina da presa, un po’ di campagna, una mucca. Non occorre altro”. Una corrente del cinema contemporaneo, quella dei lungometraggi a carattere documentaristico (iniziata tra l’altro, proprio con Blasetti, quello di Europa di notte), la pensa ancora così, solo che la campagna e la mucca sono diventati il mondo e tutti i suoi abitanti. Resta invariato il concetto-base: che per fare del cinema non sono indispensabili le costruzioni fantastiche, le architetture complicate, i trucchi mirabolanti, e che anzi è più interessante registrare quel che accade intorno a noi. Gualtiero Jacopetti che finora si era limitato a fornire il commento ai film degli altri, si è messo a girarne uno in proprio. Mondo cane è un’antologia di curiosità di tutto il mondo, una cavalcata attraverso modi di vita, comportamenti, costumi del mondo odierno. Ermanno Comuzio, “Giornale di Bergamo”, 22 Aprile 1962
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Mondo cane è qualcosa di diverso e di più. L’occhio non si ferma al folclore, ma tenta un approfondimento dei motivi umani, cerca di penetrare nelle pieghe della vita, con inclemenza e ferocia. È un’opera amara e malinconica, scostante, a volte irritante e cattiva. Una dichiarazione, in testa al film, mette avanti le mani: poiché tutte le riprese sono state girate dal vero, la colpa è della vita e dell’uomo che, in molte parti del mondo, vive ed opera ancora, come nella notte della creazione. Mondo cane (un titolo un po’ esterno e, forse, sguaiato) contiene episodi di grande interesse, che colpiranno per la loro violenza. Qualche immagine è un po’ insistita; al contrario del commento che non finisce mai sopra il rigo, pur senza rinunciare alle sottolineature ironiche e di costume. A.S., “Corriere d’Informazione”, 11 Marzo 1962 C’è tuttavia un brano, in Mondo cane, che basterebbe da solo a salvare qualunque film del genere, ed è quello già ricordato di Bikini. La bomba all’idrogeno ha sconvolto la natura: gli uccelli vivono ora sugli alberi, le testuggini, impazzite prive di senso di orientamento, dopo la cova non scendono più in mare, vanno a perdersi nel deserto e vi muoiono arrostite dal sole, gli uccelli covano uova che non si schiuderanno mai o hanno rinunciato per sempre a volare e vivono nascosti sotto terra come talpe. C.T., “Avanti”, 31 Marzo, 1962 Al cinema italiano mancava un regista sadico. Ora l’abbiamo. Per due anni Gualtiero Jacopetti è andato in giro per il mondo (capitalista o coloniale) alla esclusiva ricerca di sensazioni macabre o raccapriccianti. Ne ha trovate a bizzeffe negli Stati Uniti e ad Amburgo, nel Portogallo e nell’Italia centro-meridionale, in tutte le isole, le penisole, gli arcipelaghi del Pacifico e in quella che Jacopetti chiama ostentatamente Cina, ma è soltanto Formosa, Singapore o Hong-Kong. Le ha messe insieme, queste sensazioni o queste immagini, le ha montate con un particolare riguardo ai parallelismi tra società cosiddetta civilizzata e società primitiva o sub-umana (e con la riposta intenzione di mostrare che la prima non è affatto più civile della seconda), e le ha intitolate Mondo
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cane. Una didascalia iniziale avverte che tutto è vero e che, se la cronaca è amara, la colpa non è degli “imparziali” cronisti. A questo “viaggio nell’orrido” va senza dubbio ascritto il merito di essere in gran parte originale rispetto alle precedenti inchieste documentarie, e di sapere bene ciò che vuole ottenere: lo “choc” degli spettatori. Una sorta di irrefrenabile frenesia guida i passi e le scelte di Jacopetti e dei suoi collaboratori, che tramutano instancabilmente la loro visione del mondo in un panorama della degradazione, e ci offrono alcune delle immagini più crudeli che un obiettivo (o un tele-obiettivo) abbia mai registrato. Il tema, il filo conduttore al quale l’autore si dimostra più sensibile, è certamente quello della mostruosità e della “indegnità” del genere umano, con un gusto speciale per la decomposizione e per la morte. Nella organizzazione del suo materiale, egli tende ad annullare la distanza tra civiltà e barbarie, tra “comfort” moderno e nudità trogloditica, ma non vi perviene se non attraverso semplicistiche “associazioni di idee” che hanno (quando l’hanno) un risalto unicamente formale. Però non si può negare che i singoli documenti contengano, a sé presi, una sinistra ferocia la quale offre il destro ad amare considerazioni, spesso di carattere del tutto opposto a quelle espresse dal film o dal suo commento parlato. Il valore di Mondo cane consiste proprio nella implacabilità oggettiva della sua documentazione, che sovente travolge lo schema apocalittico e funereo in cui il film cerca di costringerla, per assumere significati diversi, più importanti e, in fin dei conti, più umani di quelli pretesi dalla scelta. Jacopetti, per esempio, ci dà un’immagine ripugnante della vecchiaia americana: queste vedove inconsolabili del loro cagnolino, queste sessantenni sfatte che, in seguito al loro ultimo divorzio, si mettono “in forma” coi massaggi elettrici per il loro prossimo matrimonio, queste turiste pingui dai capelli bianchi che, in compagnia dei loro vacui consorti, si scatenano sconciamente nella danza hawayana. Ebbene, più che ripugnante, è desolante questa parabola del benessere capitalistico, che infallibilmente conduce alla mancanza di rispetto verso la propria età. Prendiamo il quadro dell’abbrutimento di Amburgo, dove si rovista senza pietà nella collettiva ebrezza di uomini e donne resi animaleschi dalle libagioni di birra. Al barcollare di questi rottami, il regista fa giustamente seguire il loro “recupero” nella forma
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di una “marcia in colonna”, marziale quanto eloquente che risveglia echi dal significato premonitore. In Portogallo, com’è noto, i tori sono lasciati liberi anche per le strade, e una marea di gente si diverte a farsi schiacciare ed incornare. Tutti i gusti sono gusti, ma in Mondo cane c’è un epilogo inedito: anche i giovani di nobile famiglia, nell’arena, devono affrontare inermi gli inferociti bestioni. Il loro grado impone di uscire dal confronto più sanguinolenti dei popolani. Sugli spalti, l’ex re Umberto sorride compiaciuto al loro coraggio e alla loro bravura. In un paesino dell’Abruzzo, ogni anno si celebra il Venerdì Santo con un rito altrettanto sanguinoso, ma molto più penoso. È il corteo dei fanatici che si battono i polpacci con vetri taglienti, in modo che il loro sangue segni il cammino della passione di Gesù. Anziane donne guardano rapite al loro passaggio, e i poveracci si sentono fieri come martiri della fede. La polizia (si dice e si mostra) interviene, senza successo. I successi della polizia sono evidentemente riservati ad altri cortei (ma questo il commento non lo dice). L’episodio più potente è forse quello della decapitazione dei tori. Essa viene eseguita annualmente da un certo reparto di soldati mercenari malesi, al servizio di Sua Maestà Britannica (nella lotta anti-comunista in cui – si afferma, anche se ora li vediamo danzare travestiti da donna – essi sono particolarmente validi; e si lascia intendere che probabilmente il destino dei partigiani fatti prigionieri possa essere non troppo dissimile da quello dei tori). Di fronte al macabro spettacolo, il compiacimento degli ufficiali inglesi è qualcosa di più di un dato di costume: assume il rilievo di un giudizio storico. Il colonialismo – sembrano suggerire le immagini – è ben più feroce di qualsiasi rito dei popoli selvaggi. A queste citazioni molte altre bisognerebbe aggiungerne: come la squallida scena iniziale dell’inaugurazione del monumento di Rodolfo Valentino a Castellaneta e del discorso dell’onorevole Semeraro (con quel fregio nero in mezzo al quadro che sta ad indicare la tardiva resipiscenza del ministro Folchi, il quale evidentemente si è voluto autocensurare, una volta osservata la pessima figura che vi faceva); come la vendetta dei pescatori contro gli squali che li hanno mutilati; come l’uccisione dei maiali da parte di una tribù indigena che celebra ogni cinque anni questa eccezione alla “lunga fame”; come la comunione di un’altra tribù
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di quasi-trogloditi (che presumibilmente avrebbero bisogno d’altro nutrimento oltre a quello spirituale); come il terribile quadro della morte a Singapore. Ci troviamo insomma in presenza di “pezzi” di eccezionale giornalismo, che parlano da soli, e ai quali l’autore, purtroppo, non ha saputo dare l’inquadramento scientifico e poetico che sollecitavano. Il materiale, quasi sempre di prim’ordine, viene spesso alterato dalla determinazione di stupire a tutti i costi, piuttosto che convincere. Al suo museo degli orrori, Jacopetti non oppone che un misticismo evasivo. Ma, anche se non potremmo giurare sulla verità scientifica della spiegazione, ricorderemo a lungo, tra tanti uomini degradati a bestie, l’immagine della tartaruga di Bikini che, avendo perduto il senso dell’orientamento in seguito alle radiazioni atomiche, invece che al mare si dirige verso l’interno del deserto, dove muore sfinita dalla stanchezza e dal sole. Ugo Casiraghi, “L’Unità”, 3 Aprile 1962 Non si nega che il film così condotto eserciti una gran presa sullo spettatore, e che nei termini di un reportage beffardo Jacopetti e i suoi collaboratori abbiano dato prova d’intelligenza e alacrità; ma anche evidentemente la natura effettistica del lavoro, che rovesciando il mito folcloristico s’imbeve del fascino del brutto ed esercita una forte pressione perché lo spettatore si guardi bene dal viaggiare. Mondo cane (che poteva anche chiamarsi “Mondo boia”) ci dà una visione inquietante ma unilaterale degli uomini e delle cose; interamente composto di sequenze dal vero (bravi gli operatori Climati e Frattari), ma non sarebbe la prima volta che da tanti veri esce un falso. Un falso sia però ben chiaro, pieno d’ingegno. L. P., “Stampa Sera”, 6 Aprile 1962 Parecchi anni fa; quel grande viaggiatore di Paul Morand disse: “Rien que la terre”, per significare che il favoloso era stato espulso dalla nostra vita. Jacopetti ha voluto ricordarci che, guardando bene negli angolini, qualcosa di inedito si poteva ancora trovare. Dai cimiteri dei cani negli States alle cerimonie troppo pittoresche di certi paesotti italiani, dai banchetti cinesi
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in attesa che i vecchi passino a miglior vita, ai marinai delle portaerei americane, in sosta a Cannes, che passano da un bordo all’altro per far festa alle ragazza in bikini. Jacopetti ha tenuto conto di questo duplice filone, che significa anche una duplice esperienza cinematografica. […] La qualità maggiore di Mondo cane è giornalistica. Sono schizzi, figurine, episodi colti sul vivo da un cronista senza pregiudizi. È uno spirito vivace, quello di Jacopetti, e anche arguto, ma scevro nella “meraviglia” di un Flaherty. Il suo merito è, nella varietà e novità delle cose narrate sebbene non manchino echi di testimonianze altrui. Il grottesco USA deriva probabilmente da L’America vista da un francese, mentre il ripudio dei vecchi cinesi ricorda quella stupenda Leggenda di Narayama che fummo così in pochi ad apprezzare a Venezia. Tutta nuova, e patetica è invece la scena dei selvaggi che attendono fiduciosi che gli aerei dirottino dai campi degli uomini bianchi per posarsi, con tutte le loro ricchezze, presso di loro. “Il Giorno”, 31 Marzo 1962 L’interesse del film non è solo, però, nel valore descrittivo delle singole sequenze (frutto comunque di una tecnica sicura e provveduta), ma è anche soprattutto nella forza quasi truce dei contrasti suscitati, nel clima di desolazione e di angoscia che ne scaturisce e nell’aspra essenzialità di quel commento parlato che ferisce senza prender mai direttamente di punta e che, anche quando vuol far sorridere o ridere, lo fa con amarezza e con dolore. Gian Luigi Rondi, “Il Tempo”, 6 Aprile 1962 Mondo cane, ovvero il rovescio della medaglia. Mentre Alessandro Blasetti (Europa di notte, Io amo, tu ami) e i suoi ormai numerosi imitatori hanno girato il mondo, con la macchina da presa in cerca di gradevoli e seducenti immagini di belle donne, di meravigliosi panorami, di canzoni e di danze, di simpatia e di amore, finendo con il rappresentarci il nostro vecchio e simpatico pianeta soltanto come l’immenso palcoscenico di un “music-hall” o come una sorta di sterminata “Disneyland”, ecco che invece Gualtiero Jacopetti, con un brusco ribaltamento delle intenzioni, gira a sua
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volta il mondo solo per scoprirne gli aspetti più sgradevoli, le immagini più disgustose, i costumi più barbari e limitandosi dunque anche lui in una visione angusta e parziale di quella vita dell’uomo che, se non è solo festa o idillio, non è neppure solo un triste succedersi di violenze, di turpitudini e di follie. G.M.G., “La Gazzetta del Popolo”, 5 Aprile 1962 Jacopetti però, anche se non lo ha voluto ammettere, un suo tema da svolgere lo aveva; un tema frazionato in tanti motivi che rappresentano, come in una perfetta sonata mozartiana, altrettante variazioni sul tema stesso: la crudeltà. Crudeltà dell’uomo verso se stesso e gli altri, dell’uomo verso la natura, della natura verso l’uomo. Crudeltà emulsionata dall’idiozia, dall’incoerenza, dalla follia, dal compiacimento, dall’incoscienza. Tutto questo Jacopetti ci ha detto lanciandoci in faccia una gamma di immagini violente, sanguinose, urtanti e, talvolta, persino macabre, contrappuntate (con estrema abilità tesa ad esasperare proprio quella polemica della quale Jacopetti respinge la paternità) da sequenze che possono anche far sorridere, ma con gli angoli delle labbra irrimediabilmente volti all’ingiù. “Gazzetta Padana”, 17 Maggio 1962 Personalmente il sadismo non è di mio gusto. E c’è senza dubbio, nel film di Jacopetti, Cavara e Prosperi, una punta di sadismo, la ricerca del dettaglio penoso, sgradevole, macabro, e il piacere di rappresentarlo. Però, per quel che riguarda l’insulto alla vita, mi pare che da un pezzo dovremmo averci fatto il callo. Quali più orrendi insulti alla vita degli spettacoli di massacro e di genocidio a cui abbiamo assistito durante i lunghi anni di guerra? Filippo Sacchi, “Epoca”, 27 Maggio 1962 C’è interesse di “cassetta” anche per i documentari che non riguardano il sesso, come ad esempio i film di montaggio, vuoi di costume vuoi di impegno politico e civile. Mondo cane costituisce l’esordio nella regia, sia pur con la collaborazione di Paolo Cavara e di Franco Prosperi, di Gualtiero Jacopetti e potrebbe sembrare
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a tutta prima una ennesima variante del filone “viaggi intorno al mondo”. Posto che la “troupe”, per realizzarlo, s’è davvero spostata ai quattro angoli della Terra, dalla Cina agli Stati Uniti, da Roma alla Nuova Zelanda. Senonché gli autori mettono subito le mani avanti con una didascalia introduttiva che (cito a mente) suona pressapoco così: “Non stupitevi se il film vi lascia con l’amaro in bocca. Non siamo noi che lo vogliamo, ma è così la realtà che ci circonda, e dovere del cronista è di registrare sempre obiettivamente la realtà. Alla fine direte anche voi che questo è davvero un Mondo cane”. Non varrebbe in fondo la pena di dedicare molto spazio a detta pellicola, per la quale vale il giudizio sintetico che ne dà da Cannes Morando Morandini in questo stesso numero, se essa non consentisse di toccare con mano l’equivoco in cui ancora si attardano certi critici e studiosi di cinema di considerare un film tanto più realistico quanto più si avvicina al documentario. L’opera prima di Jacopetti – che è come poche un film “d’autore”, anche se in questo caso la definizione ha un valore negativo – dimostra “ad abundantium” come l’assenza di soggetto, di invenzione drammatica, di attori, non elimini fra la realtà oggettiva e il film che vuole rispecchiarla una mediazione insopprimibile, quella dell’autore che, come in questo caso, può a tal punto soggettivizzare quella realtà da farle perdere i contorni obiettivi e riconoscibili, forzandola e snaturandola prima con la particolare scelta del “punto di vista”, poi con la particolare organizzazione delle immagini in sede di montaggio. (Stavolta il commento è meno violento di quanto ci si possa attendere ed anzi talora, come nella sequenza della comunione di una tribù selvaggia in una cappella missionaria, il commento attenua la virulenza espressiva delle immagini; in più punti questo contrasto suggerisce l’esistenza d’una prudente autocensura.) Tali considerazioni ci fanno rigettare quindi la pretesa obiettività cronistica e restituire all’autore ciò che è suo e che va giudicato. Alcune intelligenti sequenze, d’un umorismo crudele, sì, ed irritante, ma legittimo nel voler provocare una reazione ad un costume, fanno intravvedere quella che poteva essere la strada giusta per un film del genere, e cioè la satira deformante, ma non troppo, di quegli aspetti della nostra società che più palesemente contraddicono alcuni valori fondamentali in cui crediamo, primo fra tutti quello della dignità dell’uomo. In questo senso tutta la parte iniziale, sul cimitero per cani di Hol-
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lywood (con tombe di lusso, fiori, lapidi commosse e “parenti” inconsolabili) ha una precisa funzione, e così le immagini corrosive degli esercizi dimagranti di alcune ricche signore newyorchesi o del “paradiso terrestre” di Honolulu com’è banalmente organizzato dalle agenzie turistiche per nababbi in vacanza privi di fantasia. Seguiamo Jacopetti da anni, da quando con indubbia acutezza e vivacità dirigeva un settimanale in rotocalco da cui poi ebbe vita l’attuale “Espresso”; l’abbiamo visto poi imprimere una svolta di tono (discutibile) ai cinegiornali italiani dirigendo in modo molto personale “L’Europeo-ciak”, e siamo convinti che la sua è un’intelligenza vanificata ed annullata da cadute di gusto e da un amore per ogni tipo di esperienza, anche inconsueta, che gli fanno dissolvere ogni possibile base su cui costruire qualcosa. Jacopetti è un iconoclasta, ma non è questo il punto. Prendiamo il caso di Buñuel: violento, perfino bestemmiatore, anch’egli amante dell’orrido, ma con una capacità di infondere sempre sostanza alle sue immagini in virtù d’una rivolta d’anima dolorosamente e profondamente vissuta. Possiamo non condividerlo, rilevarne limiti e insufficienze, ma non negare un dramma d’uomo che si traduce in dramma di autore, teso fra molteplici richiami e suggestioni. Quel che manca a Jacopetti è precisamente il dramma; né si dica trattarsi d’un umorista perché allora gli manca, per fare la satira, il veleno, un veleno non epidermico come il suo, da buon borghese che scandalizza il salotto senza cessare di frequentarlo, ma un veleno sottile, partecipato, vissuto, insomma, come in uno Swift. Lo Jacopetti del cinegiornale è bravo, fa ridere, ma irrita soltanto, non distrugge, e in egual maniera è l’esordiente regista di oggi, che sembra aggredire il mondo intero con un “pamphlet” alla dinamite e non riesce nemmeno a scalfirlo, puntando solo sul disgusto, come nel caso degli “snob” d’un ristorante di New York che si dilettano a mangiare mosche e scarafaggi o delle decapitazioni insistentemente ritratte in primo piano senza risparmio di dettagli e di sangue. I punti di forza spettacolari del film, in sostanza, sono quelli in cui più si dispiega il sadismo, il che non è né fare satira né documentare, ma solo puntare sulla sensazione di bassa lega. Dispiace, perché il regista, ove sapesse guardare meglio dentro di sé e con più limpido occhio verso gli altri, potrebbe davvero mettere a frutto l’intelligenza e il mestiere che non gli mancano, come dimostra la dolorosa sequenza dell’atollo di Bikini, ancora impregnato di mor-
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te dopo tanti anni, sequenza che, con quella del finto aeroporto di non so quale tribù africana, costituisce l’eccezione, in un film brutto, d’un apertura umana di qualche consistenza. Ernesto G. Laura, “Bianco e Nero”, 1962 Ci sembra superfluo fare commenti sul terzetto dei film italiani di cui due – L’eclisse di Antonioni e Divorzio all’italiana di Germi – figurano nel “palmarés”. L’invio di Mondo cane è spiegabile soltanto in base a calcoli commerciali; a parte l’accoglienza di un pubblico come quello di Cannes, veramente al livello del gusto jacopettiano, e le lodi di qualche scriteriato recensore locale, quest’antologia discretamente ignobile ha avuto dai critici francesi più qualificati la severa accoglienza che si meritava. Morando Morandini, “Bianco e Nero”, 1962 Quanto a Mondo cane, eccoci di fronte a tutto quello che fino ad oggi ogni reportage aveva trascurato, il brutto, cioè, il triste, il macabro, il doloroso, al posto dell’oleografico, dell’aggraziato, del gentile, descritti a scopo unicamente turistico (o di convenzionale folclore). Perché Mondo cane? Perché i tre registi ci descrivono tutte le contraddizioni, gli assurdi, le cattiverie, gli egoismi di cui sono spesso esempio gli abitanti di questo mondo, sotto qualsiasi latitudine si considerino. L’interesse del film, però, non è solo nel valore descrittivo delle singole sequenze (frutto, comunque, di una tecnica sicura e provveduta) ma è anche e soprattutto nella forza quasi truce dei contrasti suscitati, nel clima di desolazione e di angoscia che ne scaturisce e nell’aspra essenzialità di quel commento parlato che ferisce senza prender mai direttamente di punta e che, anche quando vuol far sorridere o ridere, lo fa con amarezza e con dolore. Troppa amarezza e troppo dolore, se vogliamo, e anche una eccessiva insistenza nel dettaglio macabro, nel clima sadico, nel particolare raccapricciante, ma son difetti che non tolgono al film il suo interesse terribile di documento, tanto più terribile quanto – ci assicurano formalmente – sempre vero dal principio alla fine. Gian Luigi Rondi, “Concretezza”, 16 Aprile 1962
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Quando sono partiti per uno di questi giri del mondo, Gualtiero Jacopetti, Paolo Cavara e Franco Prosperi, autori di Mondo cane, avevano invece le idee molto chiare, cioè avevano in testa proprio quello che il titolo esprime e volevano dimostrarlo. Mondo cane non è dunque un’antologia di esotismi o un album di piaceri proibiti ma piuttosto lo specchio inesorabile della crudeltà della razza umana. E non crediate che queste crudeltà siano andati a scoprirle tutte a migliaia di miglia dai nostri civilissimi paesi: molte le hanno trovate sull’uscio di casa o addirittura in anticamera. Insomma, chi è senza barbarie scagli la prima pietra. […] Civiltà e barbarie, passato e futuro si mescolano negli avvincenti fotogrammi di Mondo cane con una lucidità sorprendente. È un film fondamentalmente crudele (anche se cerca talvolta di mascherarsi dietro l’ironia), ma un film da vedere. È crudele come può esserlo un esame di coscienza o una ricognizione nelle pieghe più segrete della nostra anima. Certo, c’è qualche momento che potrà urtare o dispiacere, c’è qualche volta del compiacimento dove sarebbe stata meglio della pietà, ma il film è unitario e ha un carattere. Lamberto Sechi, “Il Secolo d’Italia”, 6 Aprile 1962
LA DONNA NEL MONDO (1963) Regia: Paolo Cavara, Gualtiero Jacopetti, Franco Prosperi Fotografia: Antonio Climati, Benito Frattari Musica: Nino Oliviero, Riz Ortolani Montaggio: Gualtiero Jacopetti Produzione: Cinematografica RI.RE., Tempo Film Distribuzione: Cineriz durata: 102’ censura: 38881 del 23-01-1963 Edizioni in DVD: Medusa (Italia), Spike (Giappone), Blue Underground (U.S.A.) Dopo il clamoroso successo di Mondo cane, ecco La donna nel mondo, frutto come il primo di due anni di lavoro di Gualtiero Jacopetti, Paolo Cavara e Franco Prosperi che hanno setacciato i
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quattro angoli della terra alla ricerca di curiosità, modi di vivere e costumi della donna nel mondo. Questo nuovo film si può considerare, quindi, un carosello intorno alla donna che in ogni latitudine, ama, soffre, gioisce e vive in maniera assai diversa da come gli uomini sanno o credono di sapere. Ancora una volta la macchina da presa ha pescato nell’inedito, guidata dallo stesso cronista che della realtà, crudele, curiosa, inconsueta, fa un traguardo da raggiungere. La donna nel mondo si annuncia come un film che non ricorre alle scappatoie del mito, dell’allegoria: è piuttosto un mosaico fatto di esperienze inedite e bizzarre, vissute in casa nostra o nei paesi più esotici o semplicemente più lontani dove la donna è visualizzata secondo una valutazione naturalistica che, a parere nostro, erroneamente non tiene nel conto dovuto particolarità storiche, sociali, economiche che concorrono a situare più esattamente la figura della donna nell’ambito di società ora progredite, ora condizionate ancora dal colonialismo, ora addirittura trogloditiche. Il film di Jacopetti, perciò, si propone di descrivere, soltanto dall’esterno ricalcando la formula di Mondo cane, la donna nel mondo come colei che nei confronti del suo naturale compagno migliora l’aspra architettura umana smussandone, con un intuito spesso impreveduto e con una saggezza dolorosa, ironica e amorosa, gli angoli più duri. Il successo di Mondo cane, che vanta già parecchi casi di imitazione, è comunque di buon auspicio per La donna nel mondo, realizzato in technicolor secondo gli stessi metodi organizzativi del precedente lavoro di Jacopetti, Cavara e Prosperi. SB, “L’Unità”, 18 Novembre 1962 La terra s’è fatta piccola; lo dimostra, malgrado il puntiglioso proponimento di Jacopetti, Cavara e Prosperi nel cercar cose nuove, questo film che appare meno riuscito del precedente e fortunato Mondo cane È una cosa ben fatta, si capisce da gente che conosce il mestier suo e che, allontanatasi dalla lezione di Flaherty, sa tenere nel dovuto conto gli insegnamenti della stampa pomeridiana tipo “France-soir” o “Daily Mirror”. Eppure è inevitabile un certo fastidio quando vedi sullo schermo l’operazione
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agli occhi o al petto delle giapponesi che hai seguito (per nostro conto mal volentieri) pochi giorni prima in un altro documentario, Paradiso dell’uomo. Vice, “Il Giorno”, 7 Febbraio 1963 Coi fidi collaboratori Paolo Cavara e Franco Prosperi (e c’era anche la povera Belinda Lee, cui il film è dedicato), Jacopetti ha girato il mondo – Australia, Borneo, Cina, Europa, Giappone, Isole Salomone, Isole Sandwich, Nord Pacifico, Nuova Guinea, Malesia, Palestina, Polinesia e Stati Uniti – in cerca di “sensazioni” più o meno centrate sul femminino, ma sempre puntualmente condite da un allegro sentimento d’irreparabilità, o per meglio dire di cinismo, che sfugge ad ogni conclusione e si compiace di lasciare le cose nello stato in cui le ha trovate. Come in Mondo cane, gli itinerari sono rigorosamente cancellati, il senso del viaggio non s’avverte, la materia è versata alla pazzerellona, con andamento da pallottola di roulette ed effetti di caleidoscopio. Jacopetti è anche qui bravissimo nel montaggio, il pubblico si diverte ai suoi passaggi antitetici, alle sue cesure paradossali e ha l’impressione che non lui giri il mondo, ma il mondo gli giri sulle dita. Che cosa dice La donna nel mondo che si giova delle belle immagini a colori di Climati e Frattari, delle insinuanti musiche di Oliviero e Ortolani, e di un commento parlato (dello stesso Jacopetti) sornione e beffardo? Che non è quel buon affare che si dice, nascere donna. L.P., “La Stampa”, 7 Febbraio 1963 Con gli scampoli di Mondo cane, Jacopetti ha realizzato una nuova antologia, destinata, come la prima, ad un facile successo. Niente di meglio, oggi, nel mondo del cinema, per avere successo, di questi mosaici in bilico fra la curiosità, la bizzarria, l’erotismo volgarotto che tanto piace alla platea.[...] E se anche il film non è stato fatto con gli avanzi del precedente, il risultato è il medesimo, poiché La donna nel mondo resta uno spettacolo disarticolato, ansimante, senza ritmo e senza obiettivi, tranne quelli assai banali e ovvi. C.T., “Avanti!”, 7 Febbraio 1963
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Documentario squilibrato, ma non è colpa dei realizzatori. È abbastanza chiaro che quattro mesi di permanenza in censura, sforbiciate, raccomandazioni, inviti alla prudenza, minacce di “blocco”, devono aver fatto alla pellicola più danni di un terremoto. Del resto le amputazioni si vedono e quindi si vedono anche le toppe, che sono parecchie. A momenti si ha perfino l’impressione che Jacopetti, infuriato, si aggiri dietro lo schermo sbattendo in faccia ai membri della commissione censoria la porte, delle sequenze migliori, tanto i tagli sono bruschi e irosi.[...] Dal punto di vista stilistico, La donna nel mondo manca certo di unità e coerenza; e questo è il suo difetto più vistoso, un vizio di impianto che non si può ragionevolmente attribuire all’intervento della censura.[...] Onorato Orsini, “La Notte”, 8 Marzo, 1963 È la continuazione di Mondo cane, di cui questa donna nel mondo (cane) diventa qui la parte principale, la protagonista. Come film era un’impresa pericolosa. Si poteva correre il rischio di rendersela nemica, tenacemente contraria. E invece no. È un mosaico di esperienze bizzarre, fatte nei paesi più lontani del mondo, con tutti i colori della pelle, naturali o artificiali. Non sapremmo da dove incominciare, se dalla “Casa sull’albero”, o da Las Vegas o da Copenahgen, se andare a scomodare il quieto ozio del col. Hopkins sposato quaranta volte e padre di un centinaio di figli, o se fermarci a Lourdes o in Africa o se stare con le vedove svedesi che giocano a boccette o se andare a far visita alla tesoriera degli Stati Uniti, o magari andarci a rifugiare a Magasciò. E poi, grazie al cielo, questo film è girato benissimo e parlato con la voce convincente di Stefano Sibaldi, le musiche sono di Nino Oliviero e di Riz Ortolani, e a far tutto questo e bene Jacopetti s’è valso anche dell’aiuto di Paolo Cavara e Franco Prosperi. M.P., “Corriere Lombardo”, 8 Febbraio 1963 Gualtiero Jacopetti è sempre cattivo, graffia, scarnifica, demitizza, prende il mondo e lo trova “cane”, repellente e maligno, prende la donna e se la balocca tra le mani, caleidoscopicamente, e ne mostra sempre l’aspetto più laido, più disincantato, più amaro, più impietoso. D’accordo, alla fine anche Jacopetti si lascia prendere dalla vena
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patetica e celebra la donna che urla di dolore durante il parto, che asfissia di carezze affettuose il figlio focomelico, che si dona e si dispera per la prole e davanti alla Madonna, a Lourdes, nasconde entro un grumo di pianto l’immensità dell’amore che la fa vivere o morire. Alberto Pesce, “Giornale di Brescia”, 8 Febbraio 1963 Questo secondo film di Jacopetti ha un solo vantaggio sul primo: si serve di materiale che non fu ritenuto sufficientemente macabro e orrido per Mondo cane, e perciò le sue immagini sono meno atroci e, grazie a questo, anche più verosimili. Purtroppo essendo fatto di resti, di scarti e di spezzoni, il film denuncia un montaggio più zoppicante e artificioso. Anche il commento parlato risente della difficoltà di dare un nesso a un’antologia nata non da un’idea preventiva, ma costruita con materiale destinato ad un’opera diversa. Dino Biondi, “Il Resto del Carlino”, 12 Febbraio 1963 Meno convincente, invece il bis del terzetto di Mondo cane, Gualtiero Jacopetti, Paolo Cavara, Franco Prosperi, che con La donna nel mondo (“girato” durante lo stesso viaggio in cui nacque Mondo cane) hanno tentato di dar vita a un film quasi esclusivamente costruito sui differenti modi con cui, nei singoli paesi, la donna è considerata dagli uomini, dalla società, dalle leggi. Gian Luigi Rondi, “Giornale dello Spettacolo”, 16 Febbraio 1963 Dal punto di vista narrativo il film è scucito e episodico anche se non manca, a tratti, di particolari taglienti e nel commento parlato di alcune caustiche considerazioni. […] Particolarmente efficace il brano con le misere donne arabe che rischiano la vita per raccogliere, sotto il fuoco incalzante delle artiglierie, i proiettili esplosi per poi venderli per sfamare i gracili figlioletti, o quello finale, con il toccante pellegrinaggio a Lourdes. F.C., “Eco di Bergamo”, 2 Marzo 1963 Gli autori di Mondo cane – Gultiero Jacopetti, Paolo Cavara, Franco Prosperi – mentre giravano in lungo e in largo i cinque
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Continenti per realizzare il loro film, fermarono la loro attenzione anche su altri aspetti della vita del globo che, a tempo debito, potevano costituire un utile materiale per un secondo film ed oggi, così, ci propongono un altro “taccuino di viaggio”, La donna nel mondo, quasi esclusivamente costruito sui differenti modi con cui, nei singoli paesi, il gentil sesso viene considerato dagli uomini, dalle leggi, dalla società. Un’idea senz’altro interessante che, però, non essendo stata coltivata come scopo principale del lungo viaggio dei tre autori, non risulta sempre veramente approfondita e finisce solo per offrire degli spunti ora piacevoli, ora grotteschi, ora drammatici, ora solamente ironici che, pur facendo non di rado spettacolo, sono ben lontani dall’avere l’impeto, la forza, la tragica amarezza di alcune celebri sequenze di Mondo cane. Gian Luigi Rondi, Il Tempo, 12 Giugno 1963
MONDO CANE n. 2 (1963) Regia: Gualtiero Jacopetti, Franco Prosperi Soggetto: Gualtiero Jacopetti, Franco Prosperi Sceneggiatura: Gualtiero Jacopetti, Franco Prosperi Fotografia: Benito Romano Frattari Musica: Nino Oliviero Montaggio: Mario Morra Produzione: Cinematografica Federiz Distribuzione: Cineriz durata: 95’ censura: 41488 del 23-11-1963 Edizioni in DVD: Another World (Danimarca), Blue Underground (U.S.A.) Dopo la versione femminile di Mondo cane, rappresentata da La donna nel mondo, con Mondo cane n. 2, Jacopetti ha “bissato” sbrigativamente tutta la lista di attrazioni esibita nel suo primo film, non temendo neppure di ricorrere alle più sgangherate e dilettantesche ricostruzioni in studio: alle persone che mangiano cani e serpenti, già ammirate nel primo Mondo cane, si sostituiscono quelli che mangiano panini allo scarafaggio, alle tele di-
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pinte mediante le ripetute applicazioni di modelle imbrattate di colore si sostituiscono le tele dipinte con colori precedentemente usati come gargarizzatori, alla morte delle tartarughe la morte dei pennuti, e così via: ogni “pezzo” del numero uno ha fruttato uno stanco ”bis” che ne svela il trucco e che vanifica la sensazione emotiva suscitata dal primo. Avendo basato il proprio successo prevalentemente su una accorta meccanica di disgusti, Jacopetti si è visto costretto, proprio in vista della naturale degradazione delle emozioni, a moltiplicare i propri stratagemmi: ma è proprio questa affannosa ripetizione a svelare l’esteriorità del procedimento e l’intrinseca debolezza del suo autore. Ma non è che la prima lampante conseguenza che ci viene dal Mondo cane n. 2, in questo oltre che squallida conferma sul piano della morale e del gusto, l’aperto fallimento sul piano di un certo spettacolo. C’è dell’altro. Dopo aver lanciato il “film sadico”, Jacopetti appare oggi quasi superato: oggi i suoi emuli sono giunti al connubio di “sesso e sadismo”. L’intento fustigatore, la pretesa assurdamente moralizzatrice, la retorica della sequenza rubata, del “tabù” finalmente svelato costituiscono le motivazioni sulle quali si opera un secondo rilancio dello spettacolo di “spogliarello”. Così Jacopetti, dopo aver preannunciato la ventata di sadismo nel cinema, oggi si vede scavalcato e superato dai suoi allievi. E il suo secondo Mondo cane appare già meno “cane” di altri “mondi” che spuntano all’orizzonte cinematografico. Leandro Castellani, “Rivista del Cinematografo”, 1964 La ricerca etnografica, affidata anni or sono alla cinepresa di un poeta autentico, Robert Flaherty, è diventata ultimamente monopolio di interessanti commessi dell’industria culturale. Il rotocalco e la televisione, ripetono i cinematografari, hanno reso vendibile una “merce”, riservata un tempo agli studiosi. Ma, elargendola senza discrezione, questi due mezzi di comunicazione di massa han finito col “bruciarla”. Il pubblico vuole, adesso, essere sorpreso, eccitato. Convinti di ciò, dozzine di operatori e di registi si sono messi a frugare con tanto di macchina da presa, nei misteri del mondo. I più sfacciati si abbandonano scopertamente all’erotismo; i più “impegnati” si giustificano con pezze d’appoggio sociologiche. Ma, andando oltre alle teorie (spesso tentanti)
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e stando alle prove fin qui fornite, il nuovo genere appare poco convincente. Dei troppi “reporters”, che vanno riversando sugli schermi i loro appunti di viaggio, Gualtiero Jacopetti è, ancora, il più personale e, probabilmente, il meno bugiardo. Se non altro, egli non nasconde le proprie intenzioni. Crede alla diffusione nel pianeta della razza uomo-cane, e va cercandone la traccia nei quattro continenti, e va impaginando le sequenze girate dai suoi collaboratori in un veloce giornale visivo. I tre “reportages” jacopettiani (Mondo cane, 1962, La donna nel mondo, ’63, e Mondo cane n. 2, ’63) provengono da un’unica matrice giornalistica: quella dell’ebdomandario radicale di costume, evirato però d’ogni carica moralistica, d’ogni patina intellettuale. “Cronache”, il settimanale che diede la prima fama a Jacopetti, era un “Europeo” senza alibi. Affrontava soltanto gli argomenti “dei quali si preferisce tacere”. Usava un linguaggio apparentemente spoglio d’ipocrisie, in realtà sostanzialmente compiaciuto. I “reportages” cinematografici di Jacopetti sfruttano, sia pure con diversi propositi e con vari perfezionamenti, la tecnica illustrata in una sequenza di Mondo cane n. 2. Gli “editors” della stampa gialla americana affittano una bella ragazza, la vestono con abiti succinti, la fotografano in pose sessualmente macabre; e ottengono la copertina della “horror story”. I collaboratori di Jacopetti raccolgono consuetudini bizzarre, e convincono alcuni volenterosi a interpretarle. In Mondo cane ad esempio, il brano dell’attesa dell’aereo degli antenati era chiaramente ricostruito. Il “culto del cargo” tramandato oralmente nelle isole del Pacifico, veniva, in esso, dato come una cerimonia. Meno feroce del primo numero della serie (per non spaventare il censore inglese, dice lo speaker), Mondo cane n. 2 è ricco di sequenze ad effetto di “colpi” giornalistici. Il campionario esibisce i locali frequentati dagli snob inglesi; le delizie culinarie asiatiche; le frenesie degli americani in cerca di distensione; gli svaghi sessuali di civili e selvaggi; le persistenze di culti magici e, infine, le disastrose condizioni economiche degli abitanti di alcuni paesi sottosviluppati. Tra tante sequenze comico-orride, commentate con ironia “di testa”, tre hanno un maggiore interesse: la gara italiana delle “zuccate” contro la saracinesca di un negozio pieno di generi alimentari; la tratta africana degli schiavi; la fine del bonzo sul rogo nel
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Viet Nam. Sono, però, momenti che si disperdono in una visione che, più che a convincere, tende a stupire, più che a istruire, tende a degradare lo spettatore. Francesco Bolzoni, “Cineforum”, 1964 Un altro film che in parte delude se paragonato a quelli realizzati in precedenza dai suoi autori, è Mondo cane n. 2 che Gualtiero Jacopetti e Franco Prosperi hanno realizzato sulla scia del loro fortunato Mondo cane. Questa volta – lo hanno dichiarato loro stessi – non avrebbero messo l’accento sul sangue e sugli orrori, ma soprattutto sulle conseguenze della “umana idiozia”. […] Comunque, pur avendo un mordente decisamente minore, anche questo secondo Mondo cane si lascia vedere con vario interesse, specie se lo si paragona ai tanti film che hanno cercato di imitarne il filone; è girato con ottima tecnica, è montato con sapienza e con impeto e, nonostante tutto, chiude in sé una tal carica di feroce ironia da riuscire in più punti francamente divertente. Gian Luigi Rondi, “Giornale dello Spettacolo”, 7 Dicembre 1963 Mondo cane n. 2 ovvero del trionfo della morte: in ogni fotografia trasuda la sua feroce presenza.[...] Su questo mondo invasato da una sconcertante mattana, posseduto da un senso atavico di idiozia, Jacopetti e Prosperi hanno esercitato una feroce ironia, qualche volta crudele sino alla cattiveria, ma lasciata cadere a manciate, ora di qua, ora di là, senza quell’ordine analogico e quel disegno unitario che avevano fatto la ragione e la giustificazione morale del primo numero jacopettiano di Mondo cane. Checché ne dica la pubblicità, è un Mondo cane che morde meno, o più incompostamente, latrando con abbaiamenti dispari nel tono e nel valore. Alberto Pesce, “Giornale di Brescia”, 15 Febbraio 1964 Ha ragione chi sostiene che Mondo cane non aprì una nuova strada al documentario, bensì socchiuse una speranza al cinema d’autore. Jacopetti non ha mai voluto imporre le sue perfide, crudeli, ironiche sequenze come paradigma della realtà; cineasta
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d’ingegno, cronista esulcerato, personalità inquieta, egli volle fin da principio inventare un genere di film che deformando il volto del visibile evocasse gli spiriti maligni accucciati nel sottosuolo del quieto vivere. L’operazione comportava dei rischi, perché gli elementi erano necessariamente brutali e sgradevoli, e poggiavano su una meccanica del disgusto che facilmente sembrava compenetrata di cinismo; ma l’esito fu brillante, e le prove fornite dagli stanchi ripetitori confermarono che in Jacopetti la molle dell’atroce o dello stravagante scattava grazie a un congegno molto più complesso, nel quale pietà ed esibizionismo, denuncia e compiacimento del sadico, discendevano da qualcosa che poteva anche chiamarsi nausea del mondo e della società, rabbia della civiltà e tedio del conformismo. Vice, “Corriere della Sera”, 15 Febbraio 1964 Visto il successo del primo, se c’era qualcuno che legittimamente potesse ritentare il colpo era Jacopetti stesso: anche se un artista ha, piuttosto, il dovere di rinnovarsi. Il filone orripilante e disgustoso, nel frattempo, era stato, oltretutto, sfruttato da cercatori frettolosi e distratti. Logorato il genere (sembra, veramente, che non esista più niente di inedito nella direzione dello sgradevole dopo la razzia cinematografica di questi anni), Jacopetti e amici si ripetono. A.S., “Corriere d’Informazione”, 18 Febbraio 1964 Francamente non si sentiva il bisogno di una seconda puntata delle divagazioni sadico-stomachevoli di Gualtiero Jacopetti, anche perché il suo primo capolavoro del genere ha già avuto tanti imitatori da far supporre ormai saturo anche lo spettatore più incline a questo tipo di “divertimento”. Comunque, eccolo qui il pioniere. Un po’ stanco, per la verità, e forse per questo il film è meno peggio di quel che ci si poteva attendere, anche se non mancano i soliti aspetti abbastanza ignobili. Jacopetti resta un “signor” giornalista, capace di fiutare la “notizia” nel fatterello che altri relegherebbero in poche righe e di cogliere gli aspetti essenziali di una situazione. S.Z., “Eco di Bergamo”, 20 Febbraio 1964
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Il film non ha il mordente del primo Mondo cane, il cui primo pregio fu anzitutto la novità e la conseguente sorpresa per il pubblico. Da allora, bene o male, molti altri film sullo stesso canovaccio sono stati girati o montati e molte “scoperte” sono già state fatte: trovare del nuovo è quindi impresa sempre più difficile. Buona la fotografia di Benito Frattari e appropriato, scena per scena, il commento musicale. Vice, “Il Messaggero”, 1 Dicembre 1963
I MALAMONDO (1964) Regia: Paolo Cavara Soggetto: Paolo Cavara, Ugo Gregoretti, Cesare Zanetti Sceneggiatura: Paolo Cavara, Ugo Gregoretti, Cesare Zanetti Fotografia: Ennio Guarnieri Musica: Ennio Morricone Montaggio: Ruggero Mastroianni Produzione: Titanus Distribuzione: Titanus durata: 88’ censura: 42053 del 08-01-1964 Edizioni in DVD: 01 Distribution (Italia) Il primo film che Paolo Cavara ha realizzato tutto da solo, dopo le esperienze di Mondo cane e di La donna nel mondo, porta un titolo che può far pensare alla fantascienza, ma non è così. I malamondo, infatti vuole essere la prima seria inchiesta su certa gioventù europea, nata “dopo la guerra e che oggi sono (i giovani) diventati uomini, o quasi, senza aver conosciuto quella esperienza. È il ritratto di alcuni di essi, dei pochi che non sono riusciti a trovare da soli quell’equilibrio che nessuno aveva lasciato loro in eredità”. “Il dramma vero – confessa Paolo Cavara – è che questa nuova generazione sembra uscita già bruciata dalle ceneri della vecchia.. per fortuna sono pochi a lasciarsi travolgere da una forma di corrucciata indolenza che li estrania dalla vita di tutti! Per ora sembrano attendere che accada qualcosa che dia ragione alle loro farneticazioni, vuoi in politica, vuoi in arte”. Gherardo Amidei, “La Voce di Salerno”, 26 Gennaio 1964
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Realizzato da un aiuto regista di Gualtiero Jacopetti, Paolo Cavara, questo film non fatica a seguire la collaudata formula di Mondo cane e La donna nel mondo, pur ambendo a distaccarsene, ad inaugurare, probabilmente un “genere”, sorta di connubio tra il film “sexy-cane” e il “film-inchiesta”. Pretese d’inchiesta ha infatti questo film, realizzato lungo l’Europa, sul comportamento e la condizione dei giovani d’oggi. Un tema ben preciso, quindi sociologicamente ambizioso, moralmente arduo. Ma dove comincia l’inchiesta e dove finisce l’aneddoto sconcertante, scandalistico? Questo il punto. Ragazze scozzesi alla ricerca d’un marito, la sfrenata corsa in moto dei “teddy-boys” per acciuffare le ragazze, i giovani svedesi che fanno l’amore al cimitero, il matrimonio fra svedesi e negri, i nudisti svizzeri, gli studenti imminchioniti delle università tedesche, i “clubs” esistenzialisti parigini: tutto – o quasi – fa brodo per Paolo Cavara e i suoi “cinereporters”. A cominciare dal titolo falsamente generalizzatore. F.C., “Eco di Bergamo”, 22 Maggio 1964 Paolo Cavara esordisce nella regia con questo documentario dedicato alle manifestazioni, alle ansie, ai problemi della gioventù contemporanea. L’opera “prima” di qualsiasi regista costituisce in se stessa argomento d’interesse e tale interesse si acuisce a proposito di Cavara e de I malamondo in quanto il neo-regista ha lavorato con Jacopetti (ci sembra come aiuto regista) nella realizzazione di Mondo cane e de La donna nel mondo: si poneva cioè facilmente il quesito se egli si sarebbe dimostrato un allievo di Jacopetti oppure se avrebbe seguito una propria strada. Tale quesito, a visione avvenuta del film, non ha ragion di essere in nessuno dei due sensi poiché Cavara non impronta il suo film di quel sadismo che distingue l’opera di Jacopetti né batte nuove strade: egli si limita a presentare ne I malamondo una serie di episodi che descrivono certo comportamento, determinati interessi della gioventù europea con il chiaro scopo di dimostrare come la generazione del dopoguerra abbia rinnegato i costumi dei padri, si ribelli agli stessi e combatta per una nuova realtà in cui credere, per l’affermazione di nuovi valori ricercati nel dubbio, nella confusione, nell’incertezza in un rifiuto della razionalità. La pellicola si impone all’interesse dello spettatore per la singolarità di alcuni episodi, per il loro valore di curiosità poiché
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l’assunto che sta alla sua base ha goduto fortunatamente di più appropriate e profonde considerazioni: asserire che i giovani si trovano in uno stato di crisi nelle nebbie del crepuscolo dei valori tradizionali non è cosa nuova, come non costituisce novità avanzare alcuni casi che illustrino tale asserzione. La vera novità consisterebbe in un’indagine precisa delle cause che sono alla base della confusione dei valori, indagine condotta caso per caso in quanto alla determinazione di ciascuno di essi è necessario un esame, una rassegna delle componenti sociali dell’ambiente in cui accade. Il pericolo a cui I malamondo non sfugge è di fare di alcuni eventi, di alcune circostanze un caso tipico che sia specchio di una condizione generale, ma qui si palesa un grossolano errore di metodo dato che, se il generale si nutre del particolare, quest’ultimo trova la sua validità in un contesto generale precisamente individuato. In definitiva Paolo Cavara con I malamondo si distingue dai vari “sexi di notte”, ma non dice nulla di nuovo in merito al suo assunto, ma solo si rifugia in una documentazione cronachistica quasi mai eccezionale, anche se presenta alcuni motivi nuovi e stimolanti. Vice, “Giornale di Bergamo”, 22 Maggio, 1964 Un’altra occasione sciupata. È proprio non valeva la pena di scomodare la venerabile figura di Bertrand Russell, né di registrare le sue severe parole di ammonimento. Il film abbriva decorosamente; poi sbanda, quasi subito, sulle piste più logore, alla ricerca dell’insolito e possibilmente, del crudele: magari una innocente porchetta, accoltellata in Versilia. Quello che doveva essere il tema dell’inchiesta – la gioventù nata dopo l’ultima guerra – passa in secondo piano. Vengono impaginate sequenze addirittura incomprensibili, come quella dei lanci con paracadute. Si assiste a una sfilata di numeri, neppure tutti interessanti, dai quali è assente un filo conduttore, il proposito di collaborare al chiarimento di una situazione: orgette nei cimiteri (e, con molto spirito, lo speaker commenta che “tanto l’inquilino di sotto non protesta”); tetre festicciole universitarie e troppo insistite, incursioni nel mondo che la solita voce definisce con il consueto garbo “i carbonari del sesso”. L’unica sequenza che rispetti l’impegno è quella girata a Dachau: con i giovani tedeschi posti di fronte alle terribili immagini della morte e dello sterminio.
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I malamondo (un titolo che meritava un altro contenuto) termina squallidamente su una spiaggia romagnola. Un gruppo di bravi ragazzi che finge di mordersi le labbra e una povera diavola che arrischia lo spogliarello mentre, fra le dune di sabbia, risuonano le note del “Barbiere di Siviglia”. Prima di concludere, portiamo all’asciutto almeno la musica di Ennio Morricone; e la fotografia smaltata di Ennio Guarnieri. A.S., “Corriere d’Informazione”, 19 Marzo 1964 I malamondo (un neologismo che farà rabbrividire i filologi) ovvero i disadattati. Sarebbe insomma la contrazione della frase “coloro che stanno male al mondo”. Un po’ contorto, no? Si tratta al solito di un’inchiesta sui giovani d’oggi condotta in tutta Europa da Paolo Cavara, uno dei tre registi di Mondo cane (n° 1). Strano tipo il Cavara: dev’essere uno ancora fermo a letture come Lamartine e la baronessa Orczy, a giudicare dal suo film (poi magari sa tutto su Steckel e Henry Miller, ma le apparenze spesso ingannano). Pensate un po’ andando a spasso per l’Europa nel 1963 scopre l’esistenzialismo, la delinquenza minorile, i nudisti, la libertà sessuale, la crudeltà goliardica e altre cose di secondaria importanza: aspetti del nostro mondo moderno e nevrotico di fronte al quale il Cavara “fa atti grandi di maraviglia” come scrivevano i novellieri del Medioevo. Insomma, il solito ipocrita e indisponente moralismo di certi giornali scandalistici è ancora una volta un ottimo alibi che permette di contrabbandare un po’ di merce piccante. Che significato può avere, dopo innumerevoli inchieste giornalistiche e cinematografiche, dopo libri e film a sensazione, venirci a dire che i giovani d’oggi si annoiano e cercano un impossibile rimedio nell’alcool e nel sesso? La tesi è palesemente sforzata per arrivare alla conclusione voluta, all’esibizione volgarmente spettacolare: per questo non si esita a generalizzare fenomeni chiaramente isolati, a mettere in scena effettistici episodi inventati a tavolino, con tanti saluti al documento: che indicazione può darci sull’autentica e fondata inquietudine dei giovani d’oggi, il riprendere quattro esibizionisti che si divertono a sciare nudi, le squallide orgette di artistoidi senza fantasia o gli spogliarelli proletari in Romagna? Quale significato sociologico o morale?
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Privato dell’aiuto di Jacopetti, sembra quindi che Cavara non sappia bene che cosa raccontarci: a cosa serve, allora, saper adoperare in maniera decorosa la macchina da presa? Lo spettacolo ad ogni modo non manca, per quanto convenzionale e superficiale. Vice, “La Notte”, 18 Marzo 1964 Le prime immagini del film I malamondo, di Paolo Cavara, mostrano il volto severo di Bertrand Russell che si rivolge ai giovani nati dopo la guerra, che stanno ora per diventare uomini e non hanno conosciuto quella terribile esperienza. Dopo questa introduzione il film sembra chiedersi se saranno capaci di trovare quell’equilibrio che nessuno aveva loro lasciato in eredità. O perché la scelta del materiale è stata unilaterale – ed è ciò che sembra più probabile – oppure perché gli autori non hanno trovato indizi positivi ciò che nel film si vede non permette la formulazione di una previsione rassicurante. Spostandosi da un capo all’altro del vecchio continente, frenesia e disorientamento sono sempre in primo piano. Nonostante le bombette e tube di cui fanno sfoggio i giovanotti della city londinese, ormai danno prove irrefutabili di insofferenza nei riguardi della tradizioni giudicate intoccabili. Gli studenti dell’università di Heidelberg, poi, non essendo più permessa la “Mensur” ricorrono alla lama del parrucchiere per procurarsi i segni del loro coraggio virile. In quanto all’Italia, vediamo anche come la morte crudele d’un povero maiale può insegnare qualcosa alla jeunesse blasée oppure come nasce la “canzone” d’un noto urlatore, due brani che non si possono definire edificanti. Più consolante, semmai, il comportamento delle ragazze scandinave nei confronti degli ospiti negri, benché anche lassù il gusto dei divertimenti lasci a desiderare; maniaci del suicidio, gli svedesi organizzano feste di S. Silvestro fra le tombe dei cimiteri. È, intendiamoci, un documentario per modo di dire e molti brani sono visibilmente costruiti, come quello dei “centauri” inglesi che si disputano, in una folle gara attraverso la cittadina, la ragazza-premio o quello degli sciatori privi degli indumenti in Svizzera. Ed un metraggio decisamente eccessivo è concesso alle inclinazioni “particolari”, argomento del resto già fin troppo scandagliato. Una lode va fatta al responsabile della bella fotografia a colori, Ennio Guarnieri, ed una trovata tecnicamente eccellente è quella
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della macchina da presa collocata nel casco di un paracadutista, con effetti senz’altro felicissimi. Ma non lasciamoci troppo impressionare dal pessimismo del film; ci sono indubbiamente cose più degne di essere messe in risalto; soltanto che è più difficile scovarle, e forse anche meno redditizio. Vice, “Corriere della Sera”, 18 Marzo 1964 È invalso l’uso di incrudelire contro i film di corrotta e deformata documentazione che vanno sotto l’etichetta comune di pellicole “sexy”. Si tratta di un giudizio frettoloso, perché da prodotto a prodotto le differenze sono notevoli. Prendete questo I malamondo: sotto il titolo bizzarro non c’è che una collezione di aneddoti, ora gustosi e ora piuttosto anodini, sulle stranezze del mondo attuale. Non è sadismo, né gusto dell’orrido. Il limite è quello, risaputo, di un genere troppo sfruttato: le cose fuori della comune misura bisogna ormai andarle a cercare con il lanternino. Tra le cose spassose de I malamondo, queste zitelle, in gran parte sgraziate e bruttine, che insultano un gruppo di scapoli irridenti in una città del Nord Europa; tra le improbabili e comunque troppo arrangiate, l’altra del divertimento tra ragazzi e ragazze del bel mondo in Versilia. Metteremmo in una categoria a parte la scena finale, quella dello spogliarello sulle rive del mare di Romagna. Di gusto felliniano, contiene qualcosa di innocente, di doloroso nella sua caparbietà provinciale. Vice, “Il Giorno”, 15 Marzo 1964 È ormai chiaro che i film cosiddetti sexy, che rappresentano un specie di truffa cinematografica perché nulla hanno a che spartire non diciamo con l’arte, ma anche semplicemente col “cinema”, stanno cedendo il passo a documentari apparentemente intesi ad evidenziare e a fustigare certi costumi del mondo attuale, come i vari Mondo cane, ma sostanzialmente intrisi di morbosità, di sadismo, di compiacimento per l’abnorme che è, dopotutto, una maniera abbastanza banale per contrabbandare un sensualismo forse più pericoloso di quelli dei film di spogliarello, perché più maligno e artificialmente rivestito di panni intellettualistici idonei – ma non troppo – a creare strani alibi morali.
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Così è questo documentario di Paolo Cavara (già collaboratore di Jacopetti) che si sofferma sugli aspetti meno edificanti della nostra epoca, fingendo di dare un giudizio morale, ma divertendosi invece a épater il pubblico medio e benpensante. Ci sono nel film alcune sequenze che pongono in modo drammatico un doloroso interrogativo: ma che ci stanno a fare le commissioni di censura? A che servono certe leggi contro l’osceno, il pornografico? V.B., “L’Avvenire d’Italia”, 1 Marzo 1964 Con la macchina da presa sulla spalla il regista Paolo Cavara (che fu aiuto di Jacopetti in Mondo cane e La donna nel mondo) ha girato l’Europa non a caccia di generiche “sensazioni”, ma con un proposito preciso: catturare i “malamondo” ossia gli emblemi di una gioventù smarrita (per colpa della guerra s’intende), nella società d’oggi, dai “bruciati” senza rimedio ai “bruciaticci” recuperabili a scapaccioni. Ovviamente l’indagine si diffonde sui paesi nordici, dove il sangue è più freddo e l’aberrazione più acuta; ma non mancano esempi anche nostrani di mattie giovanili, come Celentano e i suoi “ribelli”, l’uccisione di una porchetta in Versilia, e uno spogliarello aziendale, molto alla buona, su una spiaggia dell’Adriatico. Ma veniamo ai sapori forti. Due studenti francesi issati su un tetto d’un ascensore che sale, vi rimangono fino all’attimo in cui stanno per essere schiacciati contro il soffitto: è la pagina di punta dell’antologia riguardata sotto l’aspetto demenziale. Altri capitoli piccanti e, crediamo, inediti: gli studenti di Heidelberg, non potendosi più sbudellare, si fanno sfregiare dal barbiere; studentesse scozzesi protestano contro il materialismo maschile, venendo con malcelata soddisfazione alle mani con i loro avversari. Teppisti a scappamento libero di Leicester si giocano, con un infernale carosello motociclistico, una notte con la ragazza del bar; naturisti svizzeri d’ambo i sessi sciano perfettamente nudi; i cadetti di St. Cyr ballano il madison; una clinica svedese per ragazzi minacciati da deviazioni sessuali tenta di guarirli affidandoli alle cure di infermiere pin-up che generalmente non cavano un ragno dal buco (chi ha pane non ha denti) e così via per un estroso repertorio in cui l’Inghilterra mette i lazzi degli studenti di Cambridge contro le “bombette” della City, l’Olanda le feste delle matricole di Am-
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sterdam, la Svezia i suoi casi di necrofilia e di suicidio, la Francia le acrobazie dei suoi paracadutisti riprese al rallentatore da un operatore anch’egli paracadutato (un pezzo di rara bravura), e la Germania un momento di gravità coi suoi giovani pensosi davanti agli orrori del museo di Dachau. Talvolta è più il fumo dell’arrosto, e, per esempio, i parties dei giovani di Nottingham (ove crebbe il papà di “Lady Chatterley”) non sono poi così scandalosi come vogliono sembrare; talaltra affiora il repertorio coi soliti e ormai abusati capovolti e travestiti. Ma il tutto schiocca; e le immagini a colori sono assai belle e gustosamente contrappuntate, il montaggio sapiente, la presa dello spettacolo sicura. Le riserve che si possono avanzare su questo I malamondo tecnicamente irreprensibili e riguardano se mai il “genere” che impone di presentare in modo unilaterale, sforzato e ossessivo episodi di vita o per meglio dire casi limite, i quali costituiscono piuttosto un problema di morboso collezionismo che di realtà sociale; anche se il facile moralismo del commento vorrebbe farci credere il contrario. Ma a parte tale vizio di origine il film di Cavara è tra i buoni prodotti di questo tuttavia fortunatissimo filone. L.P., “La Stampa”, 7 Febbraio 1964 Aiuto di Gualtiero Jacopetti in Mondo cane e prima ancora in La donna nel mondo, Paolo Cavara ne riprende il cinismo, la sardonicità, la disperazione, ma con minore passione, con minore disincanto. Il sorriso è meno beffardo, l’amarezza meno spietata, la curiosità meno abnorme; il Mondo cane si oggettivizza in un “mondo folle” e l’alienazione diventa smarrimento dell’uomo in una società di inguaribili “malamondo”, ormai distorti lungo un comportamento aberrante, che il facile moralismo, anche quello del Cavara stesso, fa risalire e con troppa semplicioneria alle colpe della guerra. La guerra c’entra invece solo di straforo, e non può essere sempre citata come fonte delle mattane giovanili che hanno sapore goliardesco, delle urlate in piazza di Celentano e dei suoi “ribelli” ai lazzi buffoneschi della gioventù universitaria di Cambridge, e alla pesante festosità delle matricole universitarie olandesi. L’aberrazione va molto più in profondità, sa di parossismi ancestrali, come negli sfregi che gli studenti di Heidelberg esigo-
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no dal rasoio del barbiere, a surrogazione delle cicatrici ormai in disuso per l’abolizione dei duelli alla spada, sa di teppismo come per i “blouson noir” di Leicester che si contendono in una riffa motorizzata le grazie notturne della bella commessa, sa di balorda eccentricità, come per i naturisti svizzeri, nudi come Adamo, incollati su un paio di sci per una eccitante corsa tra le nevi, sa di penosa miseria come negli efebi inglesi invano sollecitati al giusto eros di natura da graziose infermiere roride di sex appeal. Eccezion fatta per l’episodio di Celentano nonché per l’uccisione di una porchetta durante una noiosa festa in Versilia e uno spogliarello casareccio su una spiaggia dell’Adriatico, le mattane, le follie, le esasperate ricerche, morbose o strane, di un anticonformismo esistenziale, vengono dal Nord, dall’Inghilterra, dalla Svezia, dalla Germania, dai Paesi Bassi, dalla Francia, dove il repertorio di genere sembra trovare sconcertanti e inediti sensazionalismi. E il regista non ha avuto difficoltà di scelta; semmai, ha avuto il torto di universalizzare il caso, di farne un emblema, più che in virtù delle parole, che cadono con una certa gravità moralistica ma scivolano sulle immagini senza scalfirle, soprattutto per la forza prepotente dei fotogrammi tecnicamente scioccanti, talora persino più in là ancora della tesi di fondo. Che è amara ma sa di pessimismo programmatico, mentre invece le immagini sono crude, graffianti, parziali, non fanno polemica ma fanno paura. Alberto Pesce, “Giornale di Brescia”, 2 Marzo 1964 È indubbio che certi film documento che mostrano al pubblico costumi contemporanei ed uso di popoli lontani hanno un loro valore, se non altro di informazione e magari assolvono anche a certe esigenze di carattere morale; il guaio è che sono nati film che non hanno un vero valore documentario perché il regista, preoccupato soltanto della cassetta e di far rientrare la propria opera in un “genere”, anziché riferire intorno a fatti realmente avvenuti, ha creato lui stesso avvenimenti che non hanno che pallidi riferimenti con la realtà: di modo che abbiamo pellicole che stanno a metà tra il documentario e il film a soggetto. Dico subito che non amo questo genere di opere. Se documentario ha da essere, allora sia fino in fondo. Si cerchi una interpretazione, un modo di narrare; ma non si sopraffaccia il
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dato reale. Quest’ultima operetta di Paolo Cavara non è esente dal vizio che ho sopra denunciato. Alcuni episodi hanno un loro scatto e, anche se sono un po’ “precostituiti”, portano ancora seco un’aderenza a certi fatti di costume che avvengono in certi luoghi del mondo; se questo film fosse rimasto entro questi confini, sarebbe stato molto più interessante e più vivo. Purtroppo, proprio l’episodio con cui termina I malamondo ci lascia irritati e ci fa chiedere: perché i registi seguono così spesso la moda, quel “che va”? Perché non hanno quasi mai la forza di andare oltre le trovate e le scoperte proprie o altrui? Quell’episodio sulla spiaggia, che vorrebbe forse far ridere (magari amaro) non è che una buffonata senza senso. Ne abbiamo abbastanza di sesso, elementare e sciocco, di costumi da bagno, di tutto un mondo che, a veder certo cinema, sembrerebbe tutto il mondo. Fortunatamente, al contrario, la vita dell’uomo non si esaurisce lì: dovrei ripetere cose consunte? Ripetiamole: c’è gente che lavora, che si affatica a tirare avanti fra le sofferenze e le gioie di un genere più intimo; ci sono magari anche i peccatori (molti), ma che hanno in sé, anche oggi, un senso di quel che fanno: ci sono giovani che cercano di andare avanti con fatica alla comprensione di quel che è la società contemporanea e cercano, con speranza di migliorarla; e invece, questi giovani del film sembrano tutti abbandonati ai propri ghiribizzi mediocri, alle proprie crudeltà (d’altra parte di forma più che di vera sostanza); ad un fondo di inerzia che non possiamo certo accettare come paradigmatico. Indubbiamente in questo film, alcuni episodi ci rivelano qualcosa di reale: voglio citarne soltanto uno: quello degli studenti tedeschi che si fanno tagliare la guancia dal barbiere per essere “degni” di entrare all’università: residuo barbaro che non depone certo a favore della nuova gioventù della Germania e che ci può far sospettare che lassù non sia ancora giudicato a fondo e odiato quello che fecero i nazisti. Piero Santi, “Giornale del Mattino”, 27 Febbraio 1964 Non sappiamo dove Paolo Cavara abbia trovato questa parola. Certo, però, è efficace. Ed efficace è anche il film che da essi s’intitola. I malamondo, pur direttamente derivando dalla serie di Mondo cane, di cui del resto Cavara è stato tra gli autori, ha una indubbia prestanza che nettamente lo distingue dalle numerose
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imitazioni del genere apparse sul mercato. Tanto per cominciare, a parte qualche rara divagazione (tra cui una “danza” di paracadutisti in volo che ad ogni modo è una bella e suggestiva pagina di cinema) esso si mantiene il più possibile fedele al suo tema; il viaggio che Cavara ci fa compiere attraverso l’Europa è tutto volto a tracciare un ritratto di quei giovani moderni che non sono riusciti a trovare da soli l’equilibrio negato loro in eredità dalla generazione precedente o che viceversa dalla generazione precedente hanno raccolto eredità talora amabilmente ridicole, talora ridicolmente fosche, talora foscamente criminali. Non elencheremo qui tutte le tappe del lungo e articolato viaggio. Si tratta generalmente di episodi ricostruiti, sì, ma con fedeltà e piglio realistico. La crudeltà della rappresentazione (dalle sinistre usanze degli studenti di Heidelberg al terribile “porchetta party” in Versilia) non è mai fine a se stessa: c’è sempre la morale in agguato. L’ironia è sottile e onnipresente (vedi le pagine riguardanti il “terzo sesso” o il commovente spogliarello finale). L’erotismo (come nel caso delle nudiste svizzere su sci) sempre contenuto nei limiti della decenza. Peccato che non tutti gli episodi siano di uguale interesse. Alcuni sono inutili doppioni, altri dicono poco o nulla. Ce n’è più che abbastanza, però, perché il film risulti di gradevole visione. Tanto più che esso è girato molto brillantemente, con ritmo spesso rapidissimo, e immagini (a colori) di notevole efficacia. Guglielmo Biraghi, “Il Messaggero”, 22 Febbraio 1964 Paolo Cavara, che è stato uno degli autori di Mondo cane e La donna nel mondo,è andato a scovare questi giovani su e giù per l’Europa, per le strade, nei bar, nei night-clubs, nei locali equivoci, nelle sedi delle più scombinate e anticonformiste organizzazioni giovanili. Li ha scovati, ma anziché offrircene il documento dal vero, ha creduto meglio ricostruirne la documentazione nella speranza di raggiungere effetti narrativamente più compiuti in sede di spettacolo. Un’idea come un’altra: il reportage di viaggio fatto con il cinema dovrebbe essere sempre riproduzione autentica di un’autentica realtà, ma non si può disconoscere ad un autore il diritto di interpretare personalmente questa realtà avviandola ai più difficili approdi del racconto drammatico; purché, s’intende, non ne falsi gli spunti e non ne travisi le conclusioni. Non sappiamo quanta autenticità vi
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sia sempre nei bozzetti sulla gioventù europea che Cavara ci ha proposto, ma è doveroso riconoscere che taluni sembrano comunque verosimili e che la loro “ricostruzione” in base ad elementi veri e ad opera di quegli stessi che realmente li hanno vissuti, ha dato qua e là convincenti risultati: come nella sequenza che, con acuto senso dell’indagine psicologica, isola in un gruppo alcune facce di giovani tedeschi annientati e stupefatti dalla contemplazione di un museo dedicato agli orrori del campo di concentramento di Dachau; come nella descrizione un po’ macabra e un po’ orgiastica di una notte di Capodanno passata da un gruppo di studenti svedesi nel cimitero di Stoccolma o come quella, sopratutto pregevole da un punto di vista tecnico, ma decisamente suggestiva, di un volo di giovani paracadutisti ripreso in modo da trasformare la caduta in una magica danza. In contrasto con queste pagine, in sé narrativamente compiute, che testimoniano in Cavara un intuito felice nel cogliere, anche nella folla, l’individuo, la sua psicologia, il suo stato d’animo, ve ne sono altre solo esteriormente dedicate alla proverbiale crudeltà della gioventù, nei confronti di se stessa e degli altri, le feroci feste delle matricole in Olanda, le orge dell’alta borghesia che si concludono con lo sgozzamento di un porcellino da arrostire poi lì per lì, le pericolose audacie dei patiti della motocicletta, le gare di coraggio compiute nel clima classico della gioventù bruciata. Qui la ricostruzione nuoce all’intensità drammatica che non sostituisce nemmeno con un concluso senso della narrazione, consentendo ai singoli episodi di disporsi l’uno dopo l’altro senza molti nessi logici, unicamente sorretti dal comun denominatore della giovane età di tutti i protagonisti. Se questo, però, è un difetto serio, cui si dovrebbe anche aggiungere l’assenza di una concezione unitaria del film – cosa vuol dire, cosa intende dimostrare, a cosa imputa i traviamenti che ci prospetta? – ed una limitatezza di indagine che non ci consente di avere un quadro approfondito e completo dei giovani europei di oggi, non si può disconoscere, almeno allo spettacolo in sé, una certa capacità di attirare l’attenzione del pubblico: per la curiosità dei temi trattati e, in più momenti, per la sensibilità con cui il regista si è sforzato di affrontarli. Con un rigore tecnico, oltre a tutto, particolarmente notevole nella pastosa e non di rado preziosa fotografia a colori e nell’originale e fertile commento musicale. Gian Luigi Rondi, “Il Tempo”, 22 Febbraio 1964
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[…] Ecco I malamondo. Queste che abbiamo descritto sono fra le più interessanti sequenze del film-inchiesta che, diretto non senza abilità da Paolo Cavara, intenderebbe portare sullo schermo gli usi e i costumi dei giovani europei di oggi, dai sedici ai trent’anni, mostrando altresì la loro inquietudine: quella di una nuova generazione uscita già “bruciata” dalla precedente. L’approssimativa indagine cinematografica di Cavara – riuscita per quanto riguarda la parte negativa della odierna gioventù (mentre i lati positivi sono pressoché ignorati) – mostra comunque un impegno non comune ed una certa serietà di intenti, per cui il film – ottimamente fotografato a colori – si distingue dalle pellicole più o meno dozzinali che ricalcano la ormai sfruttata formula inaugurata da Mondo cane. Questa di Cavara è insomma una “Europa cane”: una giovane Europa che stando almeno a quanto presentato sullo schermo, non induce certo ad ottimistiche previsioni. S.L., “Roma”, 20 Marzo 1964 Il tema del suo film sono quei giovani moderni che non sono riusciti a ottenere dalla generazione che li ha preceduti una eredità positiva, e che invece hanno raccolto gli aspetti ora ridicoli, ora foschi, ora decisamente criminali dell’eredità di chi ha vissuto la seconda guerra mondiale. [...] La crudeltà della rappresentazione non è mai fine a se stessa: l’ironia è sempre in agguato (specialmente nei passi dedicati al problema del “terzo sesso” ed allo spogliarello finale). È vero però anche che non tutti gli episodi sono ugualmente interessanti. Ce n’è abbastanza tuttavia perché la pellicola risulti gradevole, e si sollevi dalla media dei troppi films-inchiesta nati sulla scia del magistrale Europa di notte di Blasetti. I.F., “Alto Adige”, 25 Luglio 1964 Jacopetti VS Cavara. Conversazione tra Stefano Loparco e Fabrizio Fogliato FF: Mondo cane è un film tripartito – realizzato da tre autori diversi con obiettivi diversi – in cui il contributo determinante delle riprese di Paolo Cavara risulta fondamentale per trasmettere
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emotività, umanità e poesia ad immagini che rischierebbero, altrimenti, di essere solo shockanti secondo l’idea di montaggio di Gualtiero Jacopetti. I temi a cui è interessato Paolo Cavara come il cannibalismo sociale dell’occidente o l’indagare cause e conseguenze di comportamenti e tradizioni si scontrano con la volontà di Jacopetti di voler solo equiparare – con un feroce nichilismo – i comportamenti umani delle diverse latitudini per fare sensazione con un montaggio antifrastico. SL: Non è mia intenzione sminuire il lavoro di Prosperi e Cavara, le cui professionalità rimangono cristalline. Un film è un lavoro collettivo che trascende le singolarità e Mondo cane rimanda a quei nomi, tutti e senza distinzione. Detto ciò il mondo non si è “inchinato” all’emotività di Cavara o alla passione etnografica di Prosperi ma all’idea di Jacopetti – ferocemente sovversiva per il cinema di allora – di dare vita a un documentario dalle tinte forti con cui scandalizzare il pubblico. E infatti, in tutto il mondo, Mondo cane è diventato sinonimo di bizzarria, eccesso, sregolatezza e non emotività, umanità e poesia! Insomma, se ci sono vari modi di “leggere” Mondo cane – tutti legittimi, per carità – mi pare che abbiamo iniziato dall’unico marginale. Discutendone potremo certamente cogliere le diverse sfumature autorali e approfondirle. Ma quando si parla di Mondo cane si deve parlare innanzitutto di Gualtiero Jacopetti che quel film l’ha pensato, voluto e infine realizzato, assieme a Prosperi e Cavara. FF: Certamente l’idea è di Jacopetti – il titolo stesso lo dimostra – ma è innegabile che le personalità di Cavara e di Jacopetti si siano scontrate su un punto: è lecito o meno, manipolare – e soprattutto piegare alle proprie idee – per fare cassa, la crudeltà presente in natura e nel mondo? Cavara riteneva l’argomento a forte rischio equivoco e, pertanto, sosteneva che per poterlo affrontare fosse necessario un approccio meno manicheo e più problematico di quello di Jacopetti. L’effetto shock può aver funzionato all’epoca – e gli incassi sono lì a dimostrarlo – ma oggi la forza di Mondo cane risiede nella natura e nella scelta delle immagini. Pertanto, ritengo che l’atmosfera del film sia tale, non tanto per il “mitizzato” montaggio jacopettiano, bensì proprio grazie ai contrasti ideologici e stilistici di due approcci, inevitabilmente, incompatibili come quelli di Cavara e Jacopetti.
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SL: Sgombro subito una questione, la più semplice. Che Cavara abbia preso le distanze da Mondo cane è noto. Che la questione etica sia diventata un cruccio sincero nel proseguio della carriera del cineasta, altrettanto. Ma che tutto ciò si sia riverberato in Mondo cane è privo di fondamento empirico (poi, per carità, non entro in merito alle intenzionalità dei singoli). Insomma, la dimensione “umanista” di Cavara, all’epoca delle riprese, non è mai andata oltre a un legittimo esercizio dialettico che, a dire il vero, Jacopetti ha sempre stroncato sul nascere come mi è stato confermato da Franco Proseperi e Carlo Gregoretti. Con ciò intendo dire che è innegabile che la sensibilità di Cavara (e Prosperi) sia filtrata nei fotogrammi della pellicola (la sequenza delle modelle di Klein di Cavara è da manuale), ma che Mondo cane sia la risultante delle forze contrastanti di Jacopetti e Cavara è un abbaglio che, tra l’altro, nessuno dei protagonisti rimasti in vita (Prosperi e Gregoretti), ha confermato. Mi spiego meglio. Quando Jacopetti chiama a collaborare, tra gli altri, prima Posperi e poi Cavara (amici di vecchia data), il primo è un giornalista di successo (non sempre meritato!) che conosce la macchina del cinema dal di dentro, i secondi sono giovani dalle grandi potenzialità artistiche ancora inespresse senza quel “peso” contrattuale che matureranno in seguito. È inconcepibile pensare – o meglio, lo può fare solo chi non conosce bene il carattere di Jacopetti – che Propseri e Cavara potessero condizionare fattualmente le scelte del giornalista. Perché bisogna sapere che Mondo cane non è solo un film, è il progetto della vita di Gualtiero, la summa philosophiae di un giornalista che ha fatto della “contraddizione” – anche biografica – la sua stessa ragione di vita. Impossibile pensare a Jacopetti fautore di una tesi lineare. Tutte le “teorie della spiegazione” con Jacopetti implodono e, anche quando sembrano reggere, sono di brevissima portata. Ciò che interessava al giornalista prima e al cineasta poi è la contrapposizione – di tesi, di immagini, di situazioni – conscio che proprio quell’elemento dicotomico fosse alla base del successo. Chi conosce l’attività dello Jacopetti giornalista, lo sa bene. Si pensi a “Cronache”, la sua prima esperienza alla direzione di un settimanale nazionale. Anche lì, pagina dopo pagina, immagine dopo immagine, si contrappongono temi alti e bassi; fini inchieste giornalistiche e articoli al limite del gossip, acuti ritratti di uomini di stato e pezzi di costume (più morbosi) sulla nuova vedette
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del momento. Non mancano mai, inoltre, gli approfondimenti religiosi non privi di un moralismo d’accatto. Questo è stato Jacopetti. E questo è Mondo cane. Ed è perciò che Jacopetti, in fase di elaborazione della pellicola, ripeteva spesso a Prosperi, Cavara e Gregoretti: “Mi raccomando, dobbiamo far ridere e far piangere, dobbiamo far riflettere e fare incazzare. Dobbiamo rompere il ritmo”. Era la sua (astutissima) ossessione. Mezzo secolo dopo, la questione si ripresenta; a chi va il merito per il successo della trasmissione televisiva “Blob”? Alle immagini che lo compongono? o a Enrico Ghezzi? FF: Francamente ritengo che più che in “Blob” la “lezione” di Jacopetti la si ritrovi in “Striscia la notizia” e similari. Il cinismo gratuito e il qualunquismo con cui sono trattati argomenti seri e impegnati all’interno di Mondo cane sono degni della peggiore televisione odierna. Proprio l’esempio che citi – quello delle modelle di Klein – è sinonimo dell’irriverenza di grana grossa (perché di certo non fa ridere) con cui Jacopetti inscenava il suo essere “contro”. Inoltre da una mia recente chiacchierata con Franco Prosperi – oltre ad emergere l’estraneità di quest’ultimo alle beghe professionali tra Cavara e Jacopetti, – è egli stesso ad ammettere come le intenzioni autorali di Paolo Cavara venissero continuamente a contrasto con le idee jacopettiane e come – anche se indirettamente – si sia trovato un compromesso artistico in grado di conciliare i due estremi. Non si spiegano altrimenti la continuità stilistica e artistica tra alcuni segmenti di Mondo cane e La donna nel mondo (quelli girati da lui) e gli altri film di Cavara nonché il fatto che il riferimento di genere di Mondo cane – il mondo-movie – egli lo abbia preso come punto di partenza per mettere insieme l’inchiesta approfondita, asimmetrica e tagliente sui giovani europei de I malamondo. Paolo Cavara non ha mai rinnegato l’esperienza di Mondo cane ma ne ha sempre discusso le fondamenta equivoche. SL: Vediamo un po’... per quanto concerne il pensiero di Prosperi sul rapporto Jacopetti-Cavara, rimando alla lettura del mio Graffi sul mondo. Per quanto inelegante farlo, è quella la sede in cui ho trattato la questione e non aggiungo altro visto che non sono al corrente di quanto il regista abbia detto in altre sedi. Detto ciò il tuo approccio alla questione, se mi consenti, mi pare fideistico e
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nettamente antijacopettiano. Insomma giochiamo ad armi dispari perché io non sono anticavariano, tutt’altro, e non nutro particolari simpatie verso Jacopetti che considero un uomo astuto e immorale (o meglio, detentore di una morale del tutto personale). Ma da storico mi limito a esporre i fatti per come li ho scoperti. Le mie deduzioni logiche sono del tutto trascurabili e comunque non credo interessino al lettore. Fatico dunque a seguirti quando poni Mondo cane all’origine della peggiore televisione odierna o quando riporti di un Prosperi che perora le ragioni di un compromesso “indiretto” (ma cosa vuole dire??) per poi conseguirne che altrimenti non si spiegherebbe la continuità stilistica e artistica, ecc. Io riporto fatti che pongono Jacopetti al centro del disegno Mondo cane, senza mai marginalizzare l’apporto di Cavara e Prosperi (e perciò ho anche voluto dedicare un intero capitolo del mio libro a Cavara, nella convinzione che la sua figura non fosse mai stata messa nel giusto rilievo nell’impresa Mondo cane). Infine tu scrivi: Paolo Cavara non ha mai rinnegato l’esperienza di Mondo cane ma ne ha sempre discusso le fondamenta equivoche. Permettimi, ma a me pare un gioco d’equilibrio semantico troppo distante dalla mia natura. Ma anche volendo seguirti cosa dovrei dedurne; che dovremmo attribuire a Cavara la parte poetica, raffinata, umana per sottrargli quella sporca e maleodorante? È vero che secondo Wittgenstein le parole costruiscono il mondo... però... FF: Tutt’altro, anzi quella che tu chiami “la parte maleodorante” è ben presente nel cinema di Cavara – pensa solo a come vengono trattati gli omosessuali ne I malamondo o l’utilizzo nello stesso film dell’erotismo “pecoreccio” in alcune scene – quello che però lo differenzia da Jacopetti è la sua capacità di uno sguardo ampio, antropocentrico e problematico. Insomma Cavara (come d’altronde il sottoscritto) cinematograficamente parlando non è antijacopettiano a prescindere, anzi è affascinato tanto dalla possibilità di manipolazione della realtà quanto dalla forma del cinema jacopettiano – argomenti che con mirabile maestria pone al centro del seminale Occhio selvaggio – ma ciò che mette in discussione è l’assolutismo, cioè che tutto debba essere ricondotto solo e sempre ad un sensazionalismo menzognero e scioccante. In Mondo cane e soprattutto ne La donna nel mondo ci sono già i semi di quello che sarà Mondo Candido, perché la pretesa di verità di Jacopetti è
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destinata a rimanere tale e a scontrarsi con l’incapacità di rinunciare al suo cinismo ontologico e al suo nichilismo assoluto, cosa che – con la fiction di Mondo Candido – lo porta a sbandare spaventosamente. SL: Caro Fabrizio, tu corri in avanti ma mi corre l’obbligo farti notare che le tue argomentazioni, suggestive peraltro, perdono in profondità quanto guadagnano in ampiezza. Tu esplori i lidi dell’accessorio, io rimango solidamente immobile sulla questione fondante; tu ed io possiamo teorizzare tutti i Mondo cane che vogliamo. Anzi, per comodità dialettica, posso già anticipare future obiezioni con annessa risposta: Mondo cane avrebbe potuto essere maggiormente devoto alla dimensione reale? Risposta: sì. Mondo cane avrebbe potuto essere più indulgente verso l’elemento umano? Risposta: sì. Mondo cane avrebbe potuto essere più equidistante dai fatti trattati? Risposta: sì. Mondo cane avrebbe potuto essere un documentario alla Folco Quilici? La risposta è: sì. E aggiungo, Mondo cane avrebbe potuto essere queste e moltre altre cose. Ma non lo è stato. Perché? Perché Jacopetti così lo ha voluto. Un documentario – per citarti – non problematico, assolutista e sensazionalista. Come vedi i nodi sono venuti al pettine e, scartando il novero delle potenzialità che Mondo cane avrebbe potuto assumere, ti renderai ora conto che quel che ne è rimasto – e non voglio qui ripetermi nella consueta lista di aggettivi tesi a sminuire la portata del film – porta indelebile la firma di Gualtiero Jacopetti che, per dirla tutta, di una conversazione come la nostra si farebbe una grassa risata. L’ho scritto e lo ripeto: Jacopetti era anempatico, immorale e qualunquista ma con un fiuto per il successo micidiale. Il resto è fuffa. FF: Quindi, Stefano, tu parti dal presupposto che il film sia opera-omnia di Jacopetti e che Prosperi e Cavara abbiano agito uno da portaborse, l’altro da coscienza morale. Eppure non è così, perché se da un lato a Jacopetti piace ridurre le persone ad oggetti manipolabili dalla sua creatività, nonché strumentalizzare ogni vicenda per farne uno spettacolo, il punto di vista di Cavara è presente eccome: nel film c’è un che di naïf, un misto di crudeltà e ironia che appartiene pienamente al regista bolognese a cui piace rappresentare la trasgressione come forma di ricerca, di rottura delle
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convenzioni, di raggiungimento della’ “bellezza dell’inusuale”. La dimensione cavariana del film emerge dal tema dell’esplorazione inteso come la dimensione idilliaca della scoperta, la ricerca di un modello di vita alternativo capace di coniugare fatica, creatività e naturalezza. Non a caso – a proposito dei comportamenti umani che verranno ripresi – nel soggetto originale del film firmato da Jacopetti e Cavara c’è scritto: “Gli evidenti parallelismi contenuti nel nostro film vogliono appunto dimostrare...”; in fase di montaggio si parla quindi di parallelismi (con chiaro intento antropocentrico) e non di equiparazione (come invece farà poi Jacopetti) finalizzata a mostrare la comune bestialità dell’essere umano ad ogni latitudine. Punto di vista, questo, che si divarica ulteriormente ne La donna del mondo in cui a Jacopetti interessano culi e tette mentre a Cavara premono emozioni e sentimenti. Certo, mi dirai, questi ultimi, a differenza dei primi, non fanno fare cassa. Giusto ma non puoi negare che c’è una responsabilità – da parte di chi riprende – nei confronti dello spettatore, e se permetti la bellezza della sequenza dei baci alla Robert Doisneau (girata da Cavara) non può competere con i titoli di testa con il montaggio alternato tra suore e culi in primo piano. È troppo facile così... SL: Qui giriamo intorno alla questione e a questo punto credo che, poste le tesi, si possa andare oltre senza costringerci in inutili prove muscolari. Ci tengo però a chiarire un’ultima volta la mia visione di Mondo cane che è quella espressa nel mio incipit. Scrivevo: “Un film è un lavoro collettivo che trascende le singolarità e Mondo cane rimanda a quei nomi, tutti e senza distinzione”. Tutti hanno lavorato con abnegazione, tutti si sono sacrificati per portare a casa il risultato atteso (il successo del film) e per quanto riguarda Cavara – se mi permetti – ho voluto indagare il suo contributo al film – che ho scoperto essere stato fondamentale, anche in termini organizzativi – ancor prima che uscisse il tuo lavoro e quello di Alberto Pezzotta dedicato a Occhio selvaggio. Dunque il tuo commento mi pare quantomeno ingeneroso. Dirò di più. Cavara e Prosperi sono quelli che più hanno lavorato alla realizzazione materiale di Mondo cane poiché, per più di un motivo, Jacopetti è stato spesso assente dal set. Mi è chiaro, dunque, il contributo di Cavara e Prosperi come mi è altrettanto evidente che i due registi hanno lavorato alla costruzione del film secondo le proprie sensi-
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bilità, sempre all’interno di un progetto condiviso (scandalizzare il Belpaese!). Aggiungo che, conoscendo la carriera successiva di Cavara, già vedo in nuce gli elementi stilistici che meglio andranno sviluppandosi in I malamondo come è evidente, in Mondo cane, quell’amore viscerale per la dimensione etnografica e naturalistica di Prosperi. Ciononostante non confondo le parti con il tutto, gli elementi col sistema e, permettimi, ti suggerisco di non cadere vittima di un così palese errore di visione. E comunque, le sequenze girate da Cavara sono suggestive, alcune di straordinario impatto visivo. Altre, senza poterle riferire con precisione a uno dei tre autori, non sono da meno. E dunque? Lo vedi, seguendo la tua tesi, stiamo scadendo in un’analisi sterile che ci porta lontano da Mondo cane, un mero oggetto di discussione autoriferita. Fuor di metafora: ma secondo te, c’è qualcuno sul pianeta terra che abbia mai esaltato la pellicola associandola alle prodezze stilistiche – che ci sono, per carità – di cui tu tratti? (e chissà perché attribuendole al solo a Cavara quando sappiamo che – volendo essere leziosi – dei tre autori, l’unico a non aver perso un giorno di lavoro, e “l’unico capace di lavorare anche dodici-quattordici ore al giorno” – come mi ha raccontato Gregoretti – è stato Franco Prosperi). Ah, una curiosità; citi spesso le modelle di Klein e la scena dei baci, entrambe opera di Cavara. Non ti ho sentito ancora spendere una parola sui vomitanti di Amburgo o la sequenza del cimitero dei cani, sempre di Cavara? Mi piacerebbe avere un tuo giudizio sulle due sequenze, palesemente ricostruite e decisamente strumentali (anche senza il commento di Jacopetti). Due sequenze, tra l’altro, perfettamente consustanziali a Mondo cane per il senso di straniamento che hanno saputo suscitare nello spettatore dell’epoca. FF: Eh! ci mancherebbe... diamo a Franco Prosperi ciò che gli spetta. È chiaro che il suo contributo fu determinante come è chiaro che il suo voler stare lontano dal mondo del cinema non gli ha permesso di raccogliere quanto meritasse. Però vedi che se Mondo cane lo si intende come lavoro collettivo emergono le sensibilità dei tre autori e il montaggio “alla Jacopetti” diventa solo una delle componenti dello stesso. D’altra parte il montaggio antifrastico e il commento cinico – ad esempio in un passaggio de La donna nel mondo, quello con le modelle che sfilano in savana accostate alle donne Masai che provano a truccarsi – di-
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venta persino opportuno. Ritengo però che il punto focale sia un altro: secondo Cavara la macchina da presa è un “occhio selvaggio” (come intitolerà il suo film del 1967) onnivoro e cannibalico. Allora la responsabilità ricade su chi e come riprende le cose perché – il dubbio che attanaglia Paolo Cavara – è legato ad una visione esclusivamente “violenta” della realtà. Egli ritiene – a differenza di Gualtiero Jacopetti – che la violenza non debba essere l’unico motore narrativo delle vicende umane bensì qualcosa di circostanziato perché componente ineludibile della natura umana. La polemica, – più volte disinnescata dallo stesso Jacopetti riguardo agli articoli di Carlo Gregoretti, apparsi su “L’Espresso”, su Africa addio secondo me nasce proprio da questa incapacità del giornalista-regista di Barga di avere uno sguardo più ampio, un orizzonte meno manicheo ma più critico. Cosa che sul breve periodo solletica la pancia del pubblico e risulta premiale ma che alla distanza risulta sterile, limitante e improduttivo. SL: Vedi, Fabrizio, devi sapere una cosa. Sotto il profilo etico, io sono nettamente cavariano. E con ciò intendo che il dubbio metodologico e la problematizzazione dei fenomeni indagati, insomma, la visione “complessa” della realtà è il punto d’osservazione attraverso cui, da sempre, osservo il mondo e cerco di descriverlo nei miei libri. Cavara poi era un uomo dotato di una sensibilità – un’inquietudine, direi – del tutto estranea a Jacopetti e anche nel caso, la questione me lo rende affine e, in fondo, naturalmente simpatico. Un film come L’occhio selvaggio – un film importante, anche sotto l’aspetto teoretico – non sarebbe mai passato per la mente a Jacopetti. Non che il giornalista non avesse dei riferimenti etici, tutt’altro. È che Jacopetti puntava al successo anche al costo di essere scorretto; Cavara cercava anche il successo ma all’interno di una personale cornice valoriale (che, per inciso, è anche la mia). Insomma, Jacopetti non voleva apparire “critico” (men che meno, politically correct, atteggiamento da sempre sdegnato); non tendeva all’oggettività, né si poneva alla giusta distanza dai fenomeni trattati – come farebbe un filosofo o il saggio. Voleva – questo sì – propugnare la sua personale – e se vogliamo distorta – visione critica della società con l’obiettivo – non ce lo scordiamo mai – di alzare un polverone attorno i suoi film e riempire i botteghini. Prendere o lasciare. E mi pare che gli italiani abbiano “preso” in massa.
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FF: Gli Italiani hanno preso certo..., ma come? Questo è un paese che – se permetti – è sempre stato molto “ignorante” (per scelta, convenienza, pigrizia, storia) dal punto di vista cinematografico e pertanto un personaggio come Jacopetti ha potuto realizzare delle opere qualitativamente eccellenti (dal punto di vista formale), fortemente attrattive e intriganti manipolando la realtà a suo uso e consumo e mistificando (certo è che lo ha fatto alla grande) la Storia a seconda delle convenienze. Se penso ad Africa addio e ad Addio zio Tom non posso che togliermi il cappello davanti alla sua capacità di creare immagini mirabolanti e dalla potentissima carica lirica ed evocativa, ma sono altrettanto disgustato se penso alla struttura “western” di Africa addio utilizzata per spingere lo spettatore verso una visione manichea e “razzista”: bianchi buoni e neri cattivi. Altrettanto inqualificabile è lo spacciare per eventi reali fatti chiaramente ricostruiti secondo un’ottica distorta e utilizzando farmers delle colonie per fargli inscenare sequenze come quelle della distruzione delle ville inglesi. Questo, forse, è poi l’unico aspetto jacopettiano (nel senso che il regista bolognese fa riferimento evidente all’ex-collega) presente nel film L’occhio selvaggio di Cavara – dove altrimenti egli si interroga sulla liceità delle manipolazione e soprattutto sui limiti della menzogna filmica mettendo in scena se stesso (a partire dal nome scelto per il protagonista: Paolo). Quello su cui indaga Cavara, è quello che Jacopetti utilizza come metodo realizzativo dei suoi film: la nullificazione e cosificazione dell’essere umano per utilizzarlo solo ed esclusivamente a fini commerciali. Quello che per me è imperdonabile di Gualtiero Jacopetti è il suo trasformare le persone (sia quelle sullo schermo che quelle in sala) in merce per poter ottenere un tornaconto personale profondamente egotistico ed economico. SL: Questo non è un paese ignorante, questo è il paese reale! Ritengo anacronistica la funzione pedagogica dell’intellettuale – che mi pare tu propugni; funzione che, in un mondo plurale, anche le grandi agenzie culturali in tutto l’Occidente hanno da tempo dismesso. Il pubblico non è un bambino da educare e comunque non riconosco nessuna superiorità morale alla critica. In altre parole, io sono un “cauto” realista, tu – così mi pare – un critico militante. Non c’incontreremo mai, ma sopratutto ritengo che dal tuo livello d’osservazione, tu non possa davvero cogliere fino in fondo la por-
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tata del fenomeno Jacopetti. Bene ha fatto Cavara se ne L’occhio selvaggio ha voluto mettere in scena le questioni che gli stavano a cuore; già ho detto che le sue riflessioni, sotto il profilo morale, mi persuadono. Ma io non sono un moralista – o almeno non è questa la veste per cui sono stato invitato a dibattere – mentre qui parliamo di cinema. E che cinema! Vero? Falso? Verosimile? Sono domande lecite, e anch’io me le sono poste nei miei studi (credo di essere stato il primo, almeno in Italia, ad aver svelato che le vedute aeree sulle fosse ricolme di cadaveri a Zanzibar e quella in cui Jacopetti viene portato davanti a un improvvisato plotone d’esecuzione a Dar es Salaam – entrambe presenti in Africa addio – sono un’abile messinscena), ma una volta scandagliato il fondale, bisogna riemergere in superficie e il colpo d’occhio, tu stesso l’hai detto, rasenta il sublime: albe, crepuscoli, tramonti, le profondità selvagge di una savana, il volo radente di gabbiani, fenicotteri e aironi, la lenta agonia di un elefante marino o del morente vietnamita, la morte in presa diretta, i sofferenti in preghiera a Lourdes, il decadimento morale dell’Occidente; lo spettacolo della vita nel suo farsi e disfarsi. Certo, lo sguardo di Jacopetti sul “male” è compiaciuto e i suoi film si sorreggono su una logica della spiegazione a tesi, è un fatto. Ammetto anche più di una qualche sguaiataggine stilistica, in taluni casi anche per me ingiustificabile (è il caso della sequenza di Africa addio in cui alla ieratica marzialità dell’esercito inglese impegnato nelle cerimonie d’addio in Tanganyka, nel dicembre del 1962, Jacopetti contrappone un campionario di umanità nera dai tratti vagamente subumani, ripresi in atteggiamenti bizzarri quando non bestiali quali lo sputare in pubblico, grattarsi ripetitivamente il capo e sorridere sguaiatamente). Ma chi altri ci ha mostrato (con tutti gli escamotage che il cinema consente) una summa così straordinaria dello stato dell’arte del pianeta del secondo Novecento, se non Jacopetti? Tu sai benissimo, poi, che la realizzazione di quei film ha comportato immani sacrifici per tutta la troupe (le riprese di Africa addio sono andate oltre i 24 mesi; per Addio zio Tom ce ne sono voluti 18), una straordinaria pagina del cinema italiano come mai più è stata realizzata e su cui gran parte dei media internazionali dell’epoca, nel bene e nel male, hanno sentito il dovere di confrontarsi. Africa addio ti pare manicheo? Anche per me. Ma non la ritengo un’informazione utile per il lettore. Semmai cito Aldo Grasso che a proposito del film ha
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scritto: “Bisognerebbe avere un po’ di coraggio per accertare quanto di Africa addio ci sia nell’ informazione televisiva, quanta della cinica spregiudicatezza con cui sono confezionati molti servizi attuali provenga da quelle immagini marchiate dall’interdetto. Molte delle tecniche usate da Jacopetti, allora aborrite con grande scandalo, oggi sono diventate norma e nessuno più le mette in discussione”. Insomma, come dice il giornalista Marcello Bussi, “il mondo si è jacopettizzato”. Con buona pace di Fabrizio Fogliato. FF: Certo, Stefano, che il mondo si è jacopetizzato, e io stesso – senza scomodare Grasso – ti ho parlato prima di Jacopetti come del padre del “degenere” televisivo. Non mi sento (e non sono) né moralista né militante – anzi sono lontano tanto dall’ideologia che dal conformismo – ma mi limito ad osservare i fatti, ad analizzarli e – nel mio piccolo – a sollevarne le criticità. Il mondo si è Jacopettizzato, ok... allora basta questo per dovercene fare una ragione? Le cose stanno così, ha vinto lui e dobbiamo accettarlo? Mi sembra veramente miope e mortificante come prospettiva. Ritengo, invece, doveroso – questo sì (quasi) un obbligo morale (e non moralista) capire il perché le cose sono andate in un certo modo. Gualtiero Jacopetti ha intuito – prima di molti altri non v’è dubbio – la direzione che la società italiana stava intraprendendo negli anni del “boom economico”, bisogna dargliene atto. Ma secondo te è lecito cavalcare il degrado? Certo per fare cassa, più che legittimo, ci mancherebbe, ma moralmente? Ecco, quello che tu stesso hai sottolineato parlando dell’etica cavariana – e del tuo essere allineato su quel registro – stride fortemente ed è in grande contraddizione con la tua difesa di Jacopetti come mercante e come “falsificatore”. È ovvio che se questa è la tua linea non ci incontreremo mai, su questa strada – oltretutto sarebbe decisamente incoerente, da parte nostra, trovare un compromesso – ma ti chiedo, come ultima cosa: oltre agli aspetti formali eccellenti dei film di Jacopetti nel cinema contemporaneo che cosa rimane di lui? Cavara ha trovato nell’opera di Michelangelo Antonioni una corrispondenza cinematografica. Jacopetti – lontano dalla televisione – cosa ci ha lasciato? SL: Io sono un funzionalista, formato accademicamente alla scuola sociosistemica di Niklas Luhmann. E quindi? Dirai tu. E
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quindi non mi occupo, se non marginalmente, di questioni morali se non per l’impatto che queste hanno in termini di ricadute sociali. Intendo dire che fai bene tu a sollevare la questione etica se è affine alla tua sensibilità. A me interessa, invece, capire perché e come il fenomeno Jacopetti si è formato e ha “funzionato” nella società dell’epoca. Insomma, mi limito a spiegare il funzionamento della macchina-cinema jacopettiana. Lo stesso farei, permettimi la forzatura dialettica, se indagassi la figura di Stalin o di Hitler. Mi limiterei a riportare i fatti con la neutralità dell’entomologo. Altri e meglio di me spiegheranno, poi, se tutto ciò è bene o è male. Per te è male – ora lo sappiamo – mentre ritengo ininfluente che il lettore sappia la mia visione morale di Jacopetti. Anche Alberto Pezzotta mi ha bacchettato per aver difeso – a suo dire – Jacopetti. In quella sede, come in questa, respingo al mittente l’accusa. Non perché in qualche modo mi svilisca – e perché mai? – ma perché scredita il mio lavoro di ricerca. C’è di più; in Graffi sul mondo ci sono decine di rilessioni antijacopettiane. Quando ho sentito il dovere di prendere le distanze dal suo cinema, l’ho fatto e ho lasciato la mia coscienza esprimersi. Ciò non toglie che il mio è un libro sulla figura di Gualtiero Jacopetti, e per quanto lo studioso modifichi sempre l’oggetto d’osservazione, ho tentato – per quanto possibile – di limitare al massimo le mie considerazioni lasciando al lettore il compito di formarsi la sua idea. Cosa ci rimane di Jacopetti? Un’etica della responsabilità. Per quanto possa sembrare paradossale, credo che Gualtiero Jacopetti sia stata una tra le figure più coerenti del nostro paese. Ha vissuto come ha creduto e potuto, ha commesso errori – anche gravi – e ha sempre pagato il conto in prima persona, ritirandosi poi in esilio quando ha capito che il vento non girava più dalla sua parte. Senza cadere in vittimismi puerili, o facili nostalgie ma sopratutto senza scadere nelle solite teorie complottiste. Aveva semplicemente capito che il suo tempo da protagonista era finito. Giù il sipario, titoli di coda, fine.
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I film, i sondaggi critici, le testimonianze AFRICA ADDIO (1966) Regia: Gualtiero Jacopetti, Franco Prosperi Soggetto: Gualtiero Jacopetti, Franco Prosperi Sceneggiatura: Franco Prosperi, Gualtiero Jacopetti Fotografia: Antonio Climati Musica: Riz Ortolani Montaggio: Gualtiero Jacopetti, Franco Prosperi Produzione: Rizzoli Film Distribuzione: Cineriz durata: 130’ (director’s cut 139’) censura: 46402 del 29-01-1966 Edizioni in DVD: Medusa (Italia), Blue Underground (U.S.A.), Director’s Cut Blue Underground (U.S.A.) Africa addio di Gualtiero Jacopetti e Franco Prosperi è un ignobile film razzista, che tuttavia merita di essere analizzato e discusso per il grado di pericolosità sociale contenuto nella sua ideologia, nel suo successo commerciale e nei suoi procedimenti mistificatori. Abbiamo ritenuto opportuno dedicare a questa pellicola due interventi, che la redazione condivide e ha ricavato da un pubblico dibattito, promosso a Roma dalla biblioteca del cinema “Umberto Barbaro” e nel corso del quale hanno preso la parola i giornalisti Callisto Cosulich, Giorgio Signorini, Mino Argentieri e la nostra collaboratrice Rita Porena. Dei testi trascritti abbiamo, di proposito, conservato il tono discorsivo. Non v’è dubbio che Africa addio sia un film di propaganda e per di più un abile film di propaganda. La tesi che Jacopetti propone è
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razzista, in quanto mira a definire i negri d’Africa come dei subumani, dei non uomini. A prima vista, potrebbe sembrare una tesi difficile da imporre, ma in realtà dal punto di vista psicologico è più semplice farla circolare che non attingendo al solito stereotipo razzista, che proietta l’immagine del negro poco intelligente, con aspetti risibili, o associato semplicemente a rituali regrediti o primitivi, oppure sprovvisto di capacità logiche e deduttive; perché queste sono raffigurazioni mistificate, che facilmente incontrano l’ostilità del pubblico in quanto sono confutabili dall’esperienza diretta, che si può avere attraverso la conoscenza di negri che hanno conseguito, ad esempio, lauree in matematica o medicina e quindi si comportano esattamente come la nostra società vuole che ci si comporti e sono capaci di raggiungere elevati livelli di sviluppo mentale, culturale, ecc. Su questi aspetti, Jacopetti non si sofferma. La sua tesi è diversa e ruota attorno all’ipotesi che i negri rappresentino un’isola umana in cui, indipendentemente dal fattore culturale, esiste un fatto importantissimo: la violenza e l’omicidio indiscriminato. Ora questa è una tesi non facilmente controllabile per chi non sia vissuto in Africa e quindi la si può diffondere nel pubblico europeo, e in fondo anche presso il pubblico americano, perché gli americani negri sono accusati, attraverso gli stereotipi razzisti, di un altro tipo di colpe o di carenze rispetto ai negri che Jacopetti presenta in Africa addio. Qui si tratta appunto dell’elemento distruttivo e violento che sarebbe comune denominatore della civiltà africana. L’altra tesi proposta dal film è che la colpa da imputare al colonialismo sia stata di rinunciare all’Africa prima che il processo di civilizzazione (cioè di sottomissione e di sterminio dei negri) fosse interamente compiuto. Ora queste due tesi dell’opportunità, della positività e moralità del colonialismo da un lato, e, dall’altro, dell’elemento primitivo, arcaico e violento che accomunerebbe e caratterizzerebbe la civiltà negro-africana, sono presentate appunto secondo la tecnica specifica del film di propaganda. L’analisi di un film di propaganda può essere condotta a vari livelli. Io terrò presente sia il dosaggio di simboli, ai quali Jacopetti fa appello, sia la struttura del film, cioè l’interrelazione dei vari simboli positivi e negativi a proposito dei negri e a proposito dei bianchi. Perché si esaminano questi simboli e i relativi contenuti è evidente. Il film non adopera un linguaggio di tipo razionale-riflessivo, ma il suo è un linguaggio che fa appello alla sfera
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emozionale e lo fa proprio mediante la presentazione di simboli, che hanno la capacità di evocare, attraverso associazioni o riflessi, una serie concatenata di immagini che vengono a costituire una costellazione significativa per lo spettatore e lo inducono a interpretare le scene in un modo piuttosto che in un altro. In questo caso, nel modo voluto da Jacopetti. Se esaminiamo i simboli che si riferiscono alla violenza indiscriminatamente esercitata su animali o persone, noteremo che Jacopetti confonde i due piani, tendendo a presentare il cadavere dell’uomo e poi a ricostruirne l’uccisione attraverso l’uccisione dell’animale. Egli si serve, praticamente, dell’uccisione di un animale come di un rituale evocante una violenza inferta a un corpo umano. Le azioni di violenza attribuite ai negri sono quantitativamente superiori. I bianchi, quando perpetrano una violenza, appaiono in veste di giustizieri. Nel processo ai Mau-Mau, che peraltro si conclude con la condanna ai lavori forzati e non con l’inflizione della pena capitale, la loro violenza pare motivata in quanto assistiamo alla ricostruzione delle colpe dell’individuo che è punito. Le scene di violenza invece attribuite ai negri, attraverso la ricostruzione e attraverso la mistificazione dei documenti, sono in misura nettamente superiore. Presentare due situazioni interpretate in modo diverso – una con motivazione razionale e l’altra sotto il profilo di una esplosione incontrollata – e presentarle attribuendo un quantitativo maggiore a un gruppo piuttosto che all’altro, significa incidere già a priori sul giudizio dello spettatore, perché in fondo la psiche dell’individuo è sottoposta a un martellamento continuo che condiziona lo spettatore e lo induce ad accettare inevitabilmente la figura del negro come l’esecutore di queste violenze. Oltre al tema della violenza, c’è un’altra serie di situazioni stereotipe e simboliche, alle quali Jacopetti fa sempre appello per dimostrare la sua tesi. Corre lungo tutto il film una linea che assimila Africa addio al western, alla struttura del western. Questo non tanto perché in Africa addio affiori un elemento di lotta, ricorrente nel western. L’associazione con il western è più sottile e comincia con il commento musicale. Le musiche del film sono tutte ricalcate su motivi sfruttati dal western e abilmente fuse con le immagini. Al livello della percezione rapida, forse molti particolari, molta analogia, un certo lavoro di ricalco sfuggono. Tuttavia, questo
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film va esaminato attentamente per rendersi conto che, alla luce di un intento propagandistico, il suo dosaggio è perfetto. Si veda la sequenza dei boeri. Figurativamente la struttura dell’inquadratura è tolta di peso dal film western più tradizionale. Non c’è raffinatezza, né ricercatezza, non ci si rifà ai western più famosi ma si ricorre allo stereotipo più elementare del western, a una costellazione già impiantata nello spettatore abituale. I boeri guidano i carri dei pionieri, sfilano sullo sfondo di una prateria e sono ritratti su una collina, inquadrati contro il cielo mentre una musica epica, che richiama motivi western, accompagna queste scene. L’associazione sorge spontanea e immediata. Il pioniere è raffigurato come un individuo coraggioso che lotta contro la natura e gli indigeni ed è a sua volta un transfuga della propria civiltà, perché la colonizzazione americana è dovuta all’esodo degli europei perseguitati per motivi religiosi. Quindi si tratta di un pioniere coraggioso, che affronta terre deserte, cioè presentate come deserte ma in realtà abitate dagli indigeni, naturali possessori di queste terre; un individuo carico di valori positivi e le cui imprese per dominare la natura rientrano nel novero degli sforzi collettivi compiuti da una comunità retta da principî democratici. Insomma, tutto quello che noi conosciamo in merito alla retorica dell’eroe western è riesumato da Jacopetti. Inoltre, abbiamo una puntualizzazione di aspetti correlati. Si osservi come Jacopetti tratteggia le donne bianche. Le donne bianche in Africa addio sono sempre adolescenti, non s’impongono in modo aggressivo dal punto di vista sessuale e pertanto sono associate a idee di innocenza. Non a caso, la sequenza dei boeri, precedentemente citata, si conclude mostrando una ragazza molto giovane, longilinea ed efebica, che porta tristemente con sé una gabbietta ove è rinchiuso un uccellino, ultimi residui di una vita felice e serena. Altre inquadrature, in cui compaiono i bianchi, sono dello stesso genere. Vediamo una famiglia patriarcale i cui componenti, biondi, solari e tranquilli, assistono alla distruzione delle loro case e masserizie. Qui è opportuno aprire una breve parentesi. Queste masserizie e queste case non sono mai di stile coloniale, bensì di stile europeo. Le porcellane distrutte o vendute all’asta sono di Sevres e porcellane del ’700. I mobili sono antichi e di origine europea; le abitazioni in stile inglese e fotografate con carezzevoli effetti di
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flou. Ne consegue che la violenza, riversata su questi colonialisti, è una violenza che immediatamente diventa violenza perpetrata in casa nostra, poiché gli oggetti e gli edifici filmati sono i simboli più antichi della nostra civiltà, associati spesso a emblemi religiosi: le monache vestite di bianco, gli ospedali nella jungla, ecc. che tutto ciò sia una falsificazione è affatto evidente. Non v’è nessun dubbio, infatti, che le bianche non siano quelle creature efebiche che Jacopetti idealizza; e che le case non potevano necessariamente essere tutte di stile inglese con tanto di rampicanti. L’altro elemento, che apparenta Africa addio alla struttura del western, è la presentazione dei negri. C’è un momento nel film in cui il regista, dopo aver indugiato nella malinconica descrizione dei bianchi, in seguito a uno stacco netto, introduce uno sciame di negri che arrivano urlando, esattamente come gli indiani. Calano dalla cima di una collina come un’orda e sono armati di lance. Precedentemente, nel film, i negri sono stati associati a situazioni di violenza. Essi, in realtà, vanno semplicemente a caccia, ma la presentazione di Jacopetti è così artificiosamente drammatica da ricordare le tribù indiane all’assalto contro i pionieri. Ne deriva che l’atteggiamento dello spettatore non può che essere mobilitato in difesa di questi poveri bianchi, i quali, con i loro carri da pionieri rinunciano alla civiltà portata in Africa e ora insidiata da orde barbariche. I bianchi – dicevamo – sono sempre visti positivamente in Africa addio, ma Jacopetti supera se stesso allorché descrive i mercenari di Ciombe. I mercenari, lo sappiamo, sono tutti ex SS, torturatori di varia specie, soldati di ventura. Jacopetti li colloca a mezza strada tra i goliardi e la reincarnazione di uno spirito byroniano romantico-avventuroso, in cui si riflettono numerosi simboli e stereotipi tratti dal cinema narrativo. I mercenari combatterebbero per puro spirito di avventura. Infatti Jacopetti si affretta a chiarirci che essi sono stati reclutati per 300.000 lire al mese, ma non riscuotono quasi mai la paga. Alcuni di questi mercenari presentano i loro servigi a bordo di fragili e antiquati aerei e immediatamente si stabiliscono le associazioni con gli eroi di certo cinema di aviazione, in voga negli anni fra il ’30 e il ’40. La fragilità degli aerei mette in risalto lo sprezzo del pericolo, anche se si omette di precisare che gli ardimentosi dell’aria si recano a compiere massacri. E l’omissione non è casuale, poiché serve a impedire qualsiasi
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censura nei confronti dei mercenari. I quali, stando a Jacopetti, non sarebbero neppure dei mercenari perché 1) non riscuotono lo stipendio; 2) si comportano come spiriti liberi; 3) considerati individualmente, sono nient’altro che goliardi o tutt’al più somigliano – ecco un’altra associazione da rilevare – ai “marines”. E che cosa scrivono i mercenari prima di partire per queste nobilissime missioni di sterminio? Scrivono: “destinazione inferno”. Una battuta, che dovrebbe riscattarli e li apparenta allo stereotipo dell’antieroe cinico e prezzolato ma dal cuore nobile, così come si è imposto nel cinema del periodo successivo alla seconda guerra mondiale. Così una delle piaghe più vergognose della repressione dell’indipendenza africana – l’impiego dei mercenari – viene mistificata e addirittura esaltata mediante quattro o cinque associazioni non prive di efficacia. Tra l’altro, bisogna notare che questi “bravi ragazzi”, insieme all’aggeggio per aprire le bottiglie di Coca Cola o di birra, portano al collo la croce. Simbolo questo che li trasforma in crociati, accorsi a liberare terre non santificate. Poi c’è il tema degli animali. L’unica legge di cui si parla nel film concerne la salvaguardia del patrimonio faunistico. Nel film non si parla di leggi sui diritti dei negri, né sui doveri dei negri. Non c’è mai un accenno alla legislazione dei bianchi; ci si riferisce soltanto alla legislazione, che proibisce l’uccisione degli animali. Che cosa, secondo Jacopetti, hanno fatto i bianchi? I bianchi hanno protetto persino gli animali. E qui, con una esemplificazione, riprendo il discorso sul dosaggio nel cinema di propaganda. Se Jacopetti avesse citato venti leggi tra le quali questa, per la protezione degli animali, il rilievo sarebbe passato inosservato. Citata due volte nel film, essa si configura come l’unica legge umanitaria che si riferisce a un codice che pure prevede e ha imposto l’apartheid. Scomparsi i colonialisti, gli animali vengono uccisi dai negri. Ma qui Jacopetti confonde ad arte le carte, contrabbandando la lotta per la sopravvivenza e normali operazioni di macellazione sotto il profilo di un rito barbarico e vandalico. Quanto poi al fatto che anche alcuni bianchi partecipano a cacce illegali e spietate e a operazioni di bracconaggio, la citazione va a detrimento dei negri, poiché implicitamente si vuole dimostrare che i colonialisti, nella loro saggezza, erano riusciti a contenere anche i coloni peggiori, i quali invece avrebbero sollevato il capo grazie all’indipendenza acquisita dai popoli
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africani e all’incuria dei governi autonomi. Se ne deduce che se la libertà ha il potere di scatenare gli africani, la violenza distruttiva dei negri favorirebbe gli atti illegali dei bianchi più indegni. L’uccisione degli animali ha un rilievo notevole nell’economia del film e questo per due ragioni: primo, perché tradisce un carattere sadico e pervertito e soddisfa pienamente l’esigenza di mostrare violenza, sangue, distruzione, squartamenti e parti cesarei effettuati su cadaveri di animali; secondo, perché le uccisioni di animali hanno una funzione analogica in quanto costituiscono l’antefatto di quella mostra di cadaveri, che durante lo svolgimento espositivo ha luogo. Badate bene: i cadaveri sono nella maggior parte di negri, ma questo non vuol dire minimamente che i negri siano stati uccisi dai bianchi. (I bianchi, quando uccidono, lo fanno per giustizia.) Perché i negri siano stati uccisi, Jacopetti non lo dice. Due sole volte, nel film, Jacopetti si scomoda per motivare l’esplosione della violenza africana. Una, allorché afferma che le menti dei cinesi non sarebbero state estranee alla strage dei Watussi; e un’altra volta quando allude ai presunti legami fra i sovietici e il capo dei rivoltosi – mi sembra – di Zanzibar. La strage dei Watussi è l’unico momento in cui i negri sono presentati umanamente, poiché in ogni altra parte del film gli africani appaiono incontrollati nei movimenti, distruttori di oggetti, persone e cose. C’è qualche altro aspetto del film su cui ci si potrebbe soffermare, ma forse è più importante aprire il discorso sulla pericolosità di Africa addio. Il cinema, in genere, non è pericoloso. Non condivido l’atteggiamento moralistico e censorio di coloro che attribuiscono al cinema certe responsabilità nell’incremento della delinquenza giovanile solo perché qualche giovane indossa il blouson noir di Marlon Brando o di James Dean ecc. Questo è un discorso moralistico, che nasconde le vere cause della delinquenza minorile. Però quando il cinema, la radio, i manifesti, la parola e qualsiasi altro mezzo di comunicazione è abilmente adoperato come strumento di propaganda, allora ritengo che diventa pericoloso. Africa addio è indubbiamente pericoloso perché è un film che attraverso un’abilissima sollecitazione emozionale e la creazione di associazioni stabili tra la violenza e i negri d’Africa impianta nello spettatore sprovveduto (e per sprovveduto non bisogna soltanto intendere lo spettatore ingenuo) convinzioni dannose condannate dal progres-
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so. Ricostruire nel film, volta per volta, le motivazioni delle stragi descritte richiede una conoscenza e un ricordo di tutta la cronaca e di tutta la storia di questi ultimi anni. Quindi, per rimanere in un onesto ambito conoscitivo, volta per volta, bisognerebbe stabilire per quali ragioni si sono verificati certi eccidi, per quale ragione esplose la violenza, ecc. Jacopetti segue un criterio opposto: si limita a raffigurare la violenza, associandola stabilmente alla natura selvaggia e feroce dei negri. Il risultato è quello che ho potuto constatare. Interrogando alcune mie alunne, parlando con esse liberamente, ho avuto risposte significative, dalle quali non ho ricavato un’adesione al razzismo contenuto nel film. Queste ragazze mi hanno detto: “No, non è che io sia razzista, per carità, assolutamente; però in Africa non ci andrei”. Il che significa aver raggiunto un certo risultato. Comunque c’è da tenere presente questo aspetto pericoloso del film. In quanto film di propaganda, credo che Africa addio sia abilissimo. Se i nazisti e gli americani, in tempo di guerra, fossero riusciti altrettanto bene a confezionare prodotti come questo di Jacopetti, avrebbero ottenuto il successo in un campo di indagini, in cui hanno avuto invece grossi insuccessi. Suss l’ebreo, proiettato in tutta l’Europa occupata, è stato un insuccesso per i nazisti, perché non è riuscito a diffondere l’ideologia antisemita, né a consolidarla. Il film fu respinto e provocò il famoso effetto boomerang. Come mai un film così calibrato e basato sullo stereotipo dell’ebreo avido e avaro ha fallito il proprio intento mistificatorio? Ha fallito perché c’era la possibilità di contestarlo sulla base dell’esperienza diretta del comune spettatore, mentre nel caso di Africa addio manca la possibilità di una contestazione di questo tipo, e, oltretutto, perché si spacciano per pseudo-documenti evidenti manipolazioni. L’unico momento in cui c’è una rievocazione degli stereotipi razzisti è nel momento in cui il regista presenta le ragazze negre, che egli fa muovere ed inquadra in maniera tale da farle apparire più goffe, poi, immediatamente dopo, presenta ragazze bianche che fa saltare su materassini di gomma e le riprende dal basso mentre si vibrano in aria con gambe chilometriche; evidentemente l’associazione è tutta a favore delle bianche e le negre appaiono sgraziate. C’è inoltre associato successivamente un rituale evidentemente di tipo religioso, in cui appaiono donne negre mascherate in vario modo e che immediatamente associate a queste ragazze con i calzoncini di tipo bermuda appaiono – è
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evidente – esteticamente meno accettabili. È l’unica volta che Jacopetti fa uso dei vecchi stereotipi. Nei film nazisti di propaganda antinazista, gli stereotipi spesso erano esagerati e a questo si deve il fatto che ottennero l’effetto contrario. Jacopetti, dal canto suo, non ha “esagerato”, nel senso che al suo materiale ha cercato di dare l’impronta del documento inconfutabile, per chi non sappia come sono andati veramente i fatti e per chi non ne sia capace – nell’ambito di una inquadratura e di una successione di inquadrature – di cogliere l’artificio. Lo spettatore crede facilmente di assistere a una cronaca fedele dei fatti registrati dal vivo e stenta a intravvedere la mistificazione. L’unica possibilità di confutazione è al livello di una presa di coscienza critica e della indignazione. Africa addio ha un alto indice di pericolosità, fra l’altro, perché diffonde una ideologia disastrosa, distruttiva e abominevole. C’è un’altra considerazione da fare su questo film che appartiene al filone del cinema della violenza. È assodato che i film sulla violenza, che hanno tanto successo, rappresentano forme non tanto d’incitamento alla violenza quanto di compensazione (che poi la civiltà occidentale abbia da compensare tutta questa violenza, è un argomento abbastanza grave che accenniamo solo per sommi capi). Comunque, in genere, nei western e nelle storie di 007, la violenza si configura come un eccesso di difesa. Nei western, in cui il giustiziere ammazza quarantacinque persone, la violenza è distruttiva, negativa: è una violenza da rifiutare. C’è tuttavia un elemento che li distingue dal film di Jacopetti anche se non per questo li rende accettabili. Nei western, la violenza è invocata e giustificata per ristabilire l’ordine. Praticamente, la dinamica dei meccanismi psicologici è la seguente: lo spettatore viene incitato all’odio contro il nemico; il nemico è visto in modo paranoico (assistiamo, cioè, a una paranoica del male su qualcuno per legittimare i sentimenti aggressivi e distruttivi nei confronti di questo qualcuno), e lo si distrugge sadicamente. A questo punto si è verificata una composizione dialettica: dal male in lotta contro il male è nato il bene: un bene un po’ eccessivo, a dire la verità. In Africa addio, la violenza rimane invendicata. Questa è una violenza che chiede vendetta. È una violenza che mobilita sentimenti di odio e aggressività anche perché è diretta contro i colonizzatori intesi come i rappresentanti della nostra civiltà, correlati e associati a oggetti del nostro mondo.
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E questa violenza, dietro alla quale si scorge l’ombra della Cina e dell’Unione Sovietica, è una violenza che non si conclude nel film e sta per esplodere nell’ultimo lembo di una civiltà non ancora pacificata, in cui appunto ci sono sopra i bianchi e sotto i negri, secondo gli schemi più aggiornati della letteratura fantascientifica, che ipotizzano l’esistenza di razze e sub-razze e destinano queste ultime a vivere nelle viscere della terra, alla stregua di talpe operanti nella notte. I negri della sequenza finale sono inquadrati nel buio di una miniera con gli occhi lampeggianti e i martelli pneumatici rivolti verso l’alto, cioè puntati minacciosamente contro il mondo dei bianchi indifesi, simbolo trasparente di una violenza che sta per esplodere. Lo strato di terra, che divide questo elemento distruttivo, è simboleggiato chiaramente poiché sono le forze distruttive inconsce che a un certo punto avranno il sopravvento e annienteranno i pacifici bianchi dei piani superiori. Poiché questa violenza – si prevede – esploderà, essa reclama che qualcuno provveda a frenarla in tempo. Ed è per questo che il film risulta pericolosissimo, perché si riferisce alla dimensione paranoica nella quale rientra la psicologia della guerra atomica. Si proietta il male su qualcuno e il male dovrebbe giustificare una reazione sadica. Quindi lo spettatore, dopo aver assistito alla proiezione del film, ha un conto ancora da regolare ed è per questo che Africa addio, quanto a uso dei meccanismi psicologici, si differenzia dagli altri film sulla violenza i quali risolvono nell’economia stessa del film la violazione e la vendetta. “Cinema 60”, 57/1966 Su Africa addio, sul suo contenuto razzista e sui suoi procedimenti, abbiamo già espresso il nostro giudizio. Nondimeno vogliamo aggiungere qualche altra rapida riflessione sui criteri metodologici, che soprassiedono alla ricognizione di Jacopetti. Non sappiamo quale definizione dare di questo cinematografaro. È Jacopetti un play boy alle prese con problemi troppo grossi per le sue spalle, un bugiardo patentato, un caso patologico, un mistificatore per vocazione? Con molta benevolenza, ce la caviamo sostenendo che Jacopetti è un pessimo allievo di Zavattini. In quale senso? Zavattini è stato sempre fautore di un cinema d’indagine, propenso ad attuare salutari provocazioni consistenti nel
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porre i soggetti avvicinati nello stato di manifestare il massimo grado di verità attinente alla loro condizione umana e sociale. Jacopetti ribalta il suo insegnamento, il suo tipo di sollecitazione e sostituisce la provocazione zavattiniana con la prefigurazione. Insomma, inventa, ricostruisce, sulla falsariga di fatti che sono realmente accaduti, ma dei quali non fornisce una testimonianza diretta. Questo, s’intende, solo nella migliore delle ipotesi. Un buon giornalista, cinematografico o no, non impiega simili artifizi, ma Jacopetti ha il mito, l’ossessione del colpo sensazionale e, se la fortuna non gli è amica, si aiuta con i propri mezzi e con una regia impostata a tavolino. A Bangkok, tre monaci buddisti decidono, in segno di protesta, di uccidersi bruciandosi in un lento falò. Jacopetti si precipita sul posto, ma non scova bonzi disposti a suicidarsi per essere iscritti in un una puntata di Mondo cane. Presente nella città un giornalista di Roma, non si perde d’animo, fa fabbricare un manichino di plastica, somigliante a un sacerdote buddista, suggerisce all’operatore d’inquadrarlo in campo lungo, racimola qualche passante attorno al pupazzo e… oplà… un ciak è sufficiente a immortalare l’eccezionale frammento. Chi conosca le preferenze stilistiche del regista si stupirà che una scena così drammatica sia stata ripresa in maniera da sdrammatizzare la sostanza, senza ricorrere all’impiego di quei carrelli rapidi, che rispondono al nome di zoom ed equivalgono a pugni sferrati allo stomaco del pubblico. Ma tant’è: a volte, uno sguardo che frughi troppo da vicino rischia di denunziare la falsità dell’ordito. Dall’Asia all’Africa, il passo non è troppo lungo per Jacopetti, ma l’Africa è un continente battuto dai giornalisti italiani, che si svelano scomodi e occasionali compagni di viaggio. Sorgono contestazioni, che finiscono in tribunale; un articolo dell’ “Espresso” solleva un vespaio e ai giudici è demandata la parola definitiva. Che è precisa e inequivocabile: “Osserva il giudicante che dalle compiute indagini è risultato, in maniera certa, che la scena del mitragliamento dei tre giovani mulelisti fu ricostruita dai tre imputati al fine di documentare la tattica dei ribelli”; e specifica “(gli imputati – n.d.r.) hanno esitato a lungo a riconoscerlo e lo hanno fatto solo alla fine dell’istruttoria. Lo scopo di questa reticenza non potrebbe essere più evidente: non screditare il film documentario che era in corso di produzione con l’espresso riconoscimento che la scena era
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ricostruita, quando è nozione di comune esperienza che tal genere di film ha un valore in quanto le scene siano girate dal vero”. Ne ricaviamo che, al di fuori delle indiscrezioni e delle notizie confidenziali, Jacopetti non è meno dal forzare, oltre i limiti di una interpretazione soggettiva, gli spunti suggeritigli dalla cronaca. Come egli si prodighi in questo esercizio, lo constateremo esaminando alcuni stralci di Africa addio. Prendiamo un esempio. Jacopetti ci dice che nel Kenya è stata varata la riforma agraria, in seguito alla quale numerosi coloni avrebbero ceduto terre e abitazioni alla popolazione locale. E per stuzzicare la emotività dell’uditorio, ci mostra le belle fattorie dei bianchi abbandonate, robusti alberi abbattuti con cariche di dinamite, un bulldozer che arrotola un pettinato tappeto d’erba, negri vandalicamente accampati in quelle che furono le confortevoli residenze dei coloni. Le immagini tendono a colpire e a dimostrare che gli africani sarebbero stati gli unici a trarre vantaggio dalla riforma agraria. Le cose, in effetti, stanno in modo diverso. Anzitutto, la cosiddetta riforma agraria nel Kenya non è stata decretata dal governo autonomo, bensì dalle autorità britanniche prima ancora che fosse riconosciuta l’indipendenza. In secondo luogo, le misure prese dai britannici non hanno sfiorato che marginalmente il problema di una equa ripartizione delle terre a beneficio degli africani, prova ne sia che ancora oggi si rimprovera a Kenyatta di non portare alle ultime conseguenze le sue promesse a questo riguardo. In terzo luogo, contrariamente a ciò che allude Jacopetti, l’attuale ministro dell’agricoltura in Kenya è un cittadino inglese, di razza bianca. Infine c’è un altro piccolo particolare che Jacopetti ha omesso, cioè che 13.000 coloni bianchi vivono tranquillamente e beatamente nel Kenya, alcuni dei quali hanno moltiplicato e triplicato le loro proprietà terriere, grazie a una pseudo riforma agraria realizzata con il concorso di finanziamenti anglotedeschi. La distorsione della realtà, tuttavia, è ancora incompleta, poiché Jacopetti, per suscitare commozione, asserisce che neppure i cimiteri sarebbero stati risparmiati dalla ventata riformatrice. Sullo schermo assistiamo alla tumulazione di alcune salme, dissepolte da facchini di colore e caricate sui camion di una impresa funeraria amministrata da indiani. Il “pezzo” è d’indubbio effetto, ma lo tradisce un dettaglio che non sfugge neanche allo spettatore più sprovveduto. Gli indiani di Jacopetti hanno il capo avvolto in un
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turbante bianco, segno distintivo di appartenenza a una ristrettissima casta, i Sikh, che – guarda caso – non si è mai trasferita dall’India in Africa, nonostante che sul suolo africano esistano indiani dediti ai più diversi traffici e commerci. La fantasia – una fantasia fumettistica, coltivata all’insegna dei più orecchiabili stereotipi del cinema e del romanzo avventuroso – ha giocato un brutto tiro all’autore di Africa addio. Nello stesso capitolo balza un’altra incongruenza, là dove il commentatore, avvisandoci che la macchina da presa fotografa l’interno distrutto di una abitazione in cui alloggiava un allevatore inglese di cavalli, non spiega per quale ragione nel ritratto del proprietario è effigiato un ufficiale dell’aviazione francese. Quanto alla documentazione relativa al processo intentato contro un pugno di Mau Mau, rei di efferati crimini commessi nel quadro di sanguinose rivolte collettive, si è tentati – per lo meno – di contestare l’autenticità della scena, dal momento che le date non quadrano, se è vero – come è vero – che gli ultimi focolai di violenta rivolta si sono spenti nel 1958. Dalle discordanze rilevate non è azzardato trarre la conclusione che Jacopetti e i suoi collaboratori abbiano ricostruito i brani e potrebbe trovare, quindi, fondamento la voce secondo cui gli africani, che compaiono in veste di invasori degli alloggi un tempo riservati ai bianchi, sarebbero i dipendenti di un farmer italiano, tal signor Bisleri, il quale, divertito dal diversivo rappresentato dal soggiorno della troupe di Africa addio, avrebbe autorizzato i suoi lavoranti a esibirsi davanti all’obiettivo cinematografico. Fin qui le pagine sul Kenya. Altrettanto inattendibili si palesano le brucianti rivelazioni sulla strage compiuta dai Bahutu a danno dei Watussi. E non solo perché suona affatto gratuita l’asserzione dello speaker, che attribuisce l’eccidio alle mani dei cinesi, i quali – forse Jacopetti non lo sa – hanno mantenuto sempre buoni rapporti proprio con le vittime dei Bahutu e non con gli aggressori dei Watussi, ma per il motivo che la troupe di Africa addio – stando a quanto ci risulta – non sarebbe mai entrata nel Ruanda. Ci si chiede, conseguentemente, in quale località Jacopetti abbia filmato le inquadrature che figurano nel suo film, e se la nidiata di mani mozzate, che tanto raccapriccio suscita nel pubblico non affetto da inclinazioni sadiche e necrofile, non sia stata allestita con l’ausilio di materiale in plastica spedito dall’Italia tramite
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una nota d’agenzia con cui la ditta Missori e Tavani ha messo a disposizione della Cineriz i suoi servizi. Né è questo l’unico punto controverso del film se fondato è il rilievo di un italiano di Dar Es Salaam, che non ha riconosciuto luoghi a lui familiari nonostante le puntualizzazioni di Jacopetti. Qualche altra perplessità destano le sequenze ambientate nel Congo, a Boende. Anzitutto, abbiamo una sentenza della magistratura che convalida i nostri sospetti ed è di una chiarezza palmare circa i metodi documentaristici di Jacopetti e dei suoi assistenti. Ma anche se i giudici non avessero fatto luce su un episodio controverso, il più distratto fra gli spettatori di Africa addio non stenterebbe ad accorgersi che i mercenari, lanciati all’assalto, espugnano un casolare dal quale non proviene un colpo di fucile. Ugualmente, nelle scene girate in Angola, le truppe regolari portoghesi partecipano a un rastrellamento anti partigiano articolato secondo le regole di un film hollywoodiano. Vediamo alcuni soldati appollaiati sugli alberi tendere un tranello ai patrioti mediante l’uso di nastri magnetici su cui sarebbero incisi i rumori della foresta, a mo’ di esca predisposta per stanare i ribelli dai nascondigli. Numerosi giornalisti, che a lungo sono stati accanto ai partigiani dell’Angola, smentiscono la pratica di accorgimenti così risibili e paradossali, né hanno mai sentito parlare, dai diretti interessati, di un tranello – a detta di Jacopetti – insidioso ed efficace. Se ne deduce che, ancora una volta, Jacopetti si è abbandonato alla immaginazione, lavorando su un canovaccio messo in scena con l’accortezza di un cineasta che all’operatore chiede di mimetizzare la finzione, trasfocando l’obiettivo, muovendo la camera sì da fornire l’illusione di una testimonianza colta sul vivo mentre ci si comporta come cronisti di una manovra militare. La nostra diffidenza è eccessiva quando – citiamo un altro esempio – si collocano nel Congo alcune scene di saccheggio eseguite dai mercenari di Ciombé, che invece sarebbero state ricostruite nel Mozambico alla presenza di un fotografo italiano? Quando, per esemplificare ancora, ci si informa che i negri dell’Uganda caccerebbero gli ippopotami armati di lancia, allorché i conoscitori degli usi e costumi locali sono al corrente che le lance non si adottano più per la bisogna e che, per distribuirle agli indigeni, la signora Consuelo Nievo (una fra gli organizzatori del film) è stata costretta a ordinarle a Fort Portal?
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Un’ultima considerazione a proposito del genocidio di Zanzibar, il clou del film. La sequenza, interamente fotografata dall’alto – a bordo di un elicottero – lamenta non poche discrepanze. All’inizio ci si presenta una situazione chiusa, irrimediabile: morti gettati su camion che solcano le strade, interminabili colonne di musulmani scortati da guardiani in armi, inermi ammassati in attesa dell’esecuzione, fosse ricolme di cadaveri. Improvvisamente, però, apprendiamo che un centinaio di musulmani cercano scampo verso il mare. In altri termini, stranamente, da chiusa la situazione diventa aperta: i carnefici dei musulmani non controllano più del tutto gli eventi. Un piccolo salto di tempo, e l’aereo sorvola una distesa battigia disseminata di musulmani uccisi. Ebbene, in questo modo, la logica espositiva subisce uno scatto e procede per conto proprio, sia perché il mutamento degli eventi non è giustificato, sia perché i cadaveri ricondotti a riva appaiono coreograficamente bene dislocati e con le vesti in ordine, laddove è risaputo che le acque, quando restituiscono gli annegati a riva, ne scompigliano gli abiti. D’altro canto, è piuttosto strano che Jacopetti questa sequenza l’abbia montata mettendo insieme soltanto le scene riprese dall’aeroplano. Il settimanale “L’Europeo”, che in questi giorni pubblica una serie di fotografie estratte dai negativi del film di Jacopetti, conferma che il genocidio di Zanzibar è stato fotografato anche a distanza ravvicinata, da terra e – lo si riferisce in una didascalia – da un’imbarcazione. È lecito chiedersi, data la circostanza, perché Jacopetti abbia preferito licenziare alle stampe solamente le scene riprese dall’alto. Per conseguire un’unità di stile? O non piuttosto per meglio occultare l’evidenza di un episodio ricostruito di sana pianta? Crediamo, per farla breve, che a Jacopetti sia accaduto di filmare l’Africa come capita a quei cineasti che egli raffigura nel film, attratti da un esotismo di maniera e agevolati dal basso compenso destinato alle comparse. Per quanto basso, però, sia il salario delle comparse in Africa, il regista deve essersi sbizzarrito a suo piacere, se corrisponde a verità che il documentario di Jacopetti è costato 700 milioni, oltre mezzo miliardo, cifra con la quale s’imbastisce – e Jacopetti lo ha imbastito – un semi-kolossal di sicuro successo commerciale. Mino Argentieri, “Cinema 60”, 57/1966
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Leopoldville. Era un sabato, l’alba di sabato 24 Ottobre 1964. La cinquantaquattresima colonna dell’Armée Nationale Congolaise, composta di duecento soldati katanghesi, trentasei mercenari, tre jeep, due camion, un mortaio, due bazooka, qualche fusto di carburante, un pappagallo e due scimmie (oltre a tre cineasti italiani, Gualtiero Jacopetti, Stanislao Nievo e Antonio Climati), s’era appena mossa dalle rive del fiume Tshuapa, diretta a Boende, quando tre ragazzi mulelisti spuntarono lontano sulla strada; una strada lunga e dritta, fatta di terra color ruggine, aperta in mezzo ad alberi pieni di foglie, gigantesche rosa e verdi. Avranno avuto dieci anni, forse dodici, e marciavano incontro ai nemici completamente disarmati, cantando in coro il “Maj mulele”, agitando insieme la mano destra davanti al corpo seminudo, brandendo un ramo con la sinistra per pulirsi il terreno innanzi ai piedi. Sulla jeep di testa, quella che apriva la colonna, il mercenario sudafricano Ben Louw strinse le manopole della mitragliatrice e poggiò il pollice sul bottone. Poi, invece di sparare, si voltò indietro, verso il primo camion che lo seguiva a meno di due metri di distanza; vide l’operatore Climati, chino dietro la macchina da presa, l’occhio alla loupe, le mani sui diaframmi e sui fuochi; vide Nievo e Jacopetti ai suoi fianchi, tutt’e due con l’elmo sulla testa, appoggiati al treppiede per bloccarlo il più saldamente possibile: “Ready?”, chiese. Macché, non erano pronti. I ragazzi erano spuntati all’improvviso, lontani sulla strada. Ed erano ancora troppo lontani per poterli riprendere senza cambiare obiettivo. Ci voleva il “mille” o per lo meno il “trecento”. E bisognava far presto perché Louw aveva fretta. Louw si voltò indietro una seconda volta; alla terza, bestemmiando, disse che avrebbe sparato lo stesso, ma in quel momento la mano di Climati gli diede il via con uno schiocco di dita: il motore dell’Arriflex andò in moto insieme al meccanismo della mitragliatrice. E i tre ragazzi mulelisti si abbatterono uno sull’altro nella terra color ruggine. Tra un anno, forse anche meno, molti di noi andranno al cinema e si troveranno di fronte alla morte dei tre ragazzi mulelisti avvenuta all’alba del 24 Ottobre 1964 sulla strada di Boende. Sarà una scena vera, agghiacciante, brevissima, una delle cento scene, quasi tutte vere e agghiaccianti, di un grosso documentario in cinemascope e technicolor che avrà per titolo Africa addio e recherà
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le firme di Franco Prosperi e Gualtiero Jacopetti (registi), Stanislao Nievo (collaboratore alla regia), Antonio Climati (operatore). Un film interamente dedicato ai mutilamenti avvenuti in questi anni nel continente africano, dall’Algeria alla Rhodesia, dal Sud Africa al Ghana, dalla strage degli animali nei parchi del Mozambico o dell’Uganda alla strage dei Watussi sulle colline del Ruanda, dalla guerra dei nomadi sui confini tra il Kenya e la Somalia a quest’ultima guerra, la più sanguinosa di tutte, che ancora oggi si combatte nel Congo. Ma forse nessuno degli spettatori che vedrà il documentario penserà che per riprendere quella scena sono state le esigenze della macchina da presa a decidere il momento del fuoco. Ma vediamo da vicino questa guerra del Congo; o almeno un episodio di questo dramma africano che, tra i tanti risvolti bestiali ed assurdi, offre anche quello, più assurdo di tutti, di un piano militare elaborato e portato a termine in perfetta sincronia con un piano di lavorazione cinematografica. L’episodio che ci interessa, e nel quale rientra anche la morte dei tre ragazzi mulelisti, si può intitolare “La conquista di Boende”, cioè di una cittadina posta a metà strada tra Coquilhatville e Stanleyville; e si colloca nella settimana che va dal 21 al 28 ottobre 1964, circa un mese prima che i parà belgi scendessero su Stan e su Paulis. Il 21 Ottobre, poco prima del tramonto, alcuni mercenari aggregati alla 54a Colonna dell’armata ciombista (accampata a Bekili, un piccolo villaggio a Nord di Boende) stavano scavando una fossa per deporvi un loro compagno, morto il giorno stesso in seguito alla cornata d’una vacca. È stato un maledetto incidente, la parodia d’una corrida trasformatosi in tragedia davanti agli occhi di spettatori che volevano soltanto divertirsi. E mentre si spara in aria per salutare un’ultima volta lo sfortunato torero, una Chevrolet verde a strisce gialle (i colori richiesti dal comando dell’armata ciombista per permettere agli aerei di distinguere dall’alto le automobili che non appartengono ai ribelli) si arresta davanti al gruppo. Attraverso un finestrino l’operatore Climati riprende la scena; attraverso un altro, Jacopetti e Nievo si sbracciano in gran saluti ai mercenari; chiedono se possono unirsi alla cerimonia, se possono pregare anche loro per il militare caduto. Poi scendono tutt’e tre e danno una mano a seppellire la salma. Mezz’ora dopo, al campo di Bekili, il maggiore Le Mercier beve alcuni barattoli di birra insieme ai tre cineasti italiani. Le Mer-
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cier è l’ufficiale belga che comanda le operazioni militari iniziate in Ciombe l’estate scorsa per liberare il paese dai ribelli mulelisti. Ascolta il racconto del loro arrivo da Coquilhatville a bordo dell’automobile verde e gialla comprata per mille dollari; risponde alle loro domande sulle prossime mosse della 54a Colonna; dice che bisognerà prendere Boende, che anzi l’occupazione di Boende già si fa attendere da troppo tempo. Conclude che, tutto sommato, la loro presenza e il fatto ch’essi dispongono di una macchina da presa può rappresentare un elemento importante per spingere i soldati a comportarsi più seriamente. “Il solo pensiero di poter comparire, domani, su uno schermo, li indurrà a combattere meglio”. La troupe di Africa addio si rende subito conto che la sua presenza è importante. La proposta di accompagnare la 54a Colonna nella conquista di Boende trova il favore di tutti, smuove l’apatia che da qualche giorno regnava nel campo di Bekili. Avanza verso Sud, verso le rive del fiume Tshuapa, dove arriva al tramonto. Il Tshuapa è un grosso fiume, uno dei maggiori affluenti del Congo, nel quale riversa un’acqua gialla e fangosa, piena di piccole isole galleggianti formate da arbusti e ninfee. Ad attendere la 54a Colonna c’è il battello Ottignes, una specie di rudimentale ferry-boat di 4-500 tonnellate che apparteneva alla società Otraco e che ora è stato requisito per esigenze militari. È sull’Ottignes, e sui due pontoni che si porta a rimorchio, che prendono posto gli uomini e i mezzi della 54a Colonna insieme agli uomini e i mezzi della produzione Rizzoli impegnata nel Congo per le riprese del film Africa addio. Durante il viaggio, i soldati del maggiore Le Mercier provano le armi; sparano sulle bottiglie che da bordo della nave vengono lanciate nel fiume. Poi, quando le bottiglie sono finite, sparano sui bulbi delle ninfee per vederli affondare. Sparano bene, o almeno meglio che possono perché l’obiettivo li riprende. La riva opposta è a 12 chilometri da Boende. C’è una banchina di legno, sulla quale le vedette dell’Ottignes segnalano la presenza d’un grosso camion pieno di ribelli mulelisti. I mercenari puntano le armi, l’operatore Climati punta l’obiettivo, Nievo e Jacopetti si mettono in testa l’elmetto d’acciaio che non toglieranno più fino a Boende. Ma l’allarme dura poco, perché l’arrivo della nave fa fuggire i ribelli. Il primo scontro è così rimandato. L’indomani, sabato, tra le cinque e le sette di mattina i 36 mercenari, i 200 uomini dell’Armée Nationale Congolaise, il mortaio,
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i due bazooka, i camion, le tre jeep, il pappagallo, le due scimmie e i tre italiani sbarcano sul pontile, e all’inizio della strada fatta di terra color ruggine che corre dritta nella foresta fino alla cittadina di Boende. L’ordine della colonna è già predisposto nei dettagli. Avanti a tutti andrà la jeep, con un congolese al volante e il mercenario sudafricano Louw seduto accanto a lui sullo schienale per manovrare la mitragliatrice che è sistemata sul cofano. In seconda posizione viaggia un camion, un grosso Ford aperto sul davanti, privo di parabrezza. Nella cabina ci sono tre mercenari; nel cassone, oltre alla macchina da presa piazzata avanti a tutti con le batterie e gli chassis di ricambio, c’è l’operatore Climati, c’è Jacopetti, c’è Nievo, ci sono altri due mercenari, 30 soldati dell’Armée Nationale e quattro fusti di benzina. Poi vengono tutti gli altri. C’erano due strade per andare a Boende dalle rive del fiume Tshuapa, e s’era discusso a lungo, la sera prima, su quale delle due fosse più conveniente seguire; se quella più a Nord, stretta in mezzo ad alberi altissimi o quella più a Sud leggermente più spaziosa, fiancheggiata da piante le cui foglie sono variamente colorate. S’era scelta quest’ultima, su suggerimento di Jacopetti. “Noi giriamo a colori”, aveva detto “e se per voi è lo stesso preferiremmo uno sfondo più attraente”. Alle 7 in punto la colonna si muove. È uno strano esercito, fatto di bianchi e di neri, di militari e di civili, in cui ciascuno veste in un modo diverso, imbraccia le armi più disparate, dal bazooka alla pistola, dal Browning al Fal, alla pistole-machine fabbricata in Italia dalla Luigi Franchi di Brescia e che i mercenari chiamano più semplicemente “Luigi”. Cinque minuti più tardi, i tre ragazzi mulelisti, spuntano in fondo alla strada, e la loro fine la conosciamo. Poi, dopo circa nove chilometri, spuntano, di nuovo in fondo alla strada, i primi tetti di una missione cattolica che il maggiore Le Mercier ha segnato sulla sua carta topografica come primo obiettivo da raggiungere. Sul primo camion c’è atmosfera di grande vigilia, si controlla il motore dell’Arriflex, si toglie la polvere dalle lenti degli obiettivi, gli uomini preparano le armi, mandano in canne le pallottole. E quando si arriva al centro del piazzale, inizia il nuovo “si gira”. È una scena catastrofica, la scena d’un forte assalito dagli apaches dopo che la fame o la pestilenza ne abbiano ucciso tutti gli occupanti. Gli uomini della 54a Colonna si gettano urlando contro un
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nemico inesistente, abbattono le porte a colpi di bazooka, fanno scoppiare bombe a mano lanciate attraverso le finestre, tengono il dito premuto sui grilletti del mitra disegnando rosari di buchi sulle pareti bianche di calce. Ma gli assediati non sono morti né di fame né di peste. Sono frati e suore missionarie che hanno vissuto per qualche mese in compagnia dei mulelisti e che ora, abbandonati dai ribelli, si sono rintanati nelle cantine, in preda a un terrore che prima d’ora non avevano mai conosciuto. “Venite fuori”, urlano alcuni mercenari. “Siamo qui per liberarvi”. Ma nessuno risponde. Dopo un poco, timidamente quattro frati con la tonaca bianca s’affacciano da una botola. Altri li seguono quasi subito uscendo di corsa da una capanna nella quale è appena scoppiata una bomba a mano. Non riescono a pronunciare parola, non sanno dove si trovano, né quale sia il loro destino, né chi siano quegli uomini che da mezz’ora stanno cercando di ucciderli. Dal piazzale, montata sul camion numero 2, la macchina continua a girare. Riprende l’incontro – tra i missionari e il maggiore Le Mercier – di chiarimento dell’equivoco, di abbracci, le lacrime, l’uscita d’una dozzina di suore scovate da un mercenario dietro l’altare della chiesa. Il mercenario, accompagnato da Nievo, aveva intravisto qualcosa che si muoveva tra le credenze e i candelieri, stava già pronto per sparare, il mitra aveva iniziato l’arco per la sventagliata. Nievo riuscì a fermarlo appena in tempo. La liberazione dei missionari si conclude poco prima di mezzogiorno nel solito clima di festa che segue di solito a tutte le imprese di questo genere: la birra, le scatolette di carne, i cori, la corsa d’un paio di mercenari attraverso le stanze della missione alla ricerca della cassaforte che andrà sfondata e ripulita prima che se ne accorgano i missionari. Nel pomeriggio la colonna deve ripartire per Boende, ma Jacopetti s’oppone: “C’è poca luce”, dice, e spiega al maggiore Le Mercier che il risultato fotografico rischierebbe di venire compromesso dalla dominante rossa, caratteristica delle ore che precedono il tramonto. Meglio rimandare tutto all’indomani. E infatti i bollettini di guerra emessi dal Ministero dell’Interno a Léopoldville annunceranno che Boende, importante centro sulla strada di Stanleyville, è stata conquistata domenica 25 Ottobre. Non diranno naturalmente che è stata conquistata così. Alle 8 di mattina con la più bella luce che il cielo possa offrire sul paral-
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lelo equatoriale, la jeep, il primo camion, il secondo camion e le altre due jeep passano davanti alle case piccole e basse, col tetto coperto di lamiera, seminate alla periferia della città. Le esigenze della produzione cinematografica ormai dominano incontrastate. Stanislao Nievo suggerisce di occupare per prima cosa l’aeroporto, non perché strategicamente questa operazione sia più importante dell’occupazione materiale della città, ma perché poter disporre dell’aeroporto nel più breve tempo possibile significa poter accelerare l’atterraggio e il decollo di aerei militari attraverso i quali spedire prima a Léopoldville e poi a Roma la pellicola che è già stata impressionata. Sul campo i mulelisti hanno seminato un curioso sbarramento, decine e decine di bidoni pieni di terra piazzati lungo la pista per metterla fuori uso. C’è anche, proprio al centro, una grossa buca provocata dall’unico colpo di mortaio che sia stato sparato (per errore) durante tutta l’operazione. E Nievo, insieme a Jacopetti, a Climati e ai katanghesi dell’Armée Nationale lavorerà l’intera mattinata a tappare la buca e rimuovere i bidoni. Resta un’ultima cosa da fare, occupare la città. E occupare la città significa percorrerne a piedi le strade, sfondare le porte della case a colpi di bazooka, entrare nei negozi e uscirne portandosi dietro tutto ciò ch’è possibile. La tecnica è sempre la stessa, ed è cinematograficamente suggestiva. I mercenari puntano alle banche, agli uffici postali, alle casseforti. I soldati katanghesi, più modesti, s’accontentano dei negozi, si fanno riprendere dall’obiettivo di Climati mentre corrono carichi come elefanti da lavoro: uno si porta via dieci secchi di plastica, secchi celesti infilati l’uno dentro l’altro; un altro una dozzina di caschi coloniali, un terzo un gabinetto. Ma c’è anche chi si porta sulle spalle un intero salotto e chi s’allontana goffamente su una bicicletta nuova fiammante, col telaio ancora fasciato di carta e priva di pedali. Poi ci sono le fucilazioni. Tre giorni di fucilazioni, ma anche di linciaggi, di torture, di urla, di terrore. I ribelli hanno perso, Boende è liberata. L’ultimo mulelista, rastrellato chi sa dove, ha un timpano rotto, un braccio spezzato e la pelle nera chiazzata di lividi gialli. Deve essere fucilato sul posto, ma è notte, e per far cosa gradita ai cineasti italiani un mercenario prende l’iniziativa di rimandare tutto all’indomani. Trascina il ribelle con sé in una casa in riva al fiume e
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lo lascia dormire in un angolo sotto la vigilanza d’un soldato katanghese. Il ribelle muore durante la notte e il giorno dopo, all’alba, il teleobiettivo da “trecento” coglie ancora un’immagine della guerra di Boende: la scena di un uomo chiazzato di giallo, con il braccio piegato in tre punti e un grosso sasso legato al collo, che viene buttato nell’acqua fangosa del Tsuhapa. Un’acqua fangosa sulla quale si muovono piccole isole fatte d’arbusti e di ninfee. Carlo Gregoretti, “Una guerra privata in Cinemascope”, L’Espresso, 20 Dicembre 1964 Roma. Con un’improvvisa decisione, resa nota nel pomeriggio di sabato 6 Agosto scorso e motivata dal contrasto tra il contenuto del film documentario Africa addio e gli indirizzi interni e internazionali del governo italiano (oltreché le sue personali convinzioni), il ministro per il Turismo e lo Spettacolo Achille Corona ha rinunciato a partecipare alla serata conclusiva della XII Rassegna Cinematografica Internazionale di Taormina: una serata che si sarebbe svolta solo poche ore più tardi nell’arena del teatro greco-romano, e durante la quale il ministro stesso avrebbe dovuto consegnare i premi David di Donatello assegnati, per il 1965, a una rosa di esponenti del mondo cinematografico italiano e straniero tra i quali, appunto, il produttore milanese Angelo Rizzoli, socio dei documentaristi Gualtiero Jacopetti e Franco Prosperi nella produzione del film Africa addio. Rimbalzata in un attimo dalla Sicilia in tutto il resto del paese, la notizia del rifiuto del ministro e del conseguente annullamento della trasmissione in ripresa diretta della manifestazione a suo tempo predisposta dalla Rai-Tv per i canali eurovisivi ha avuto un’eco notevole. La mattina dopo, domenica, tutti i giornali italiani ne hanno diffusamente parlato, tutti hanno riportato e commentato il testo della dichiarazione di Corona: e, salvo un paio di goffe eccezioni, tutti dal “Corriere della Sera” all’“Unità”, si sono mostrati d’accordo sull’inopportunità che un rappresentante del governo avvallasse con la sua partecipazione la premiazione d’un film “di contenuto e d’ispirazione colonialista e razzista”. Sul contenuto e l’ispirazione del documentario Africa addio, i lettori di questo giornale vennero informati per primi fin dal Dicembre 1964, cioè con oltre un anno d’anticipo sull’inizio delle
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programmazioni che hanno fatto registrare, a tutt’oggi, un incasso superiore al miliardo di lire. Si tratta, come molti sanno, d’una pellicola realizzata con larghissimi mezzi finanziari dagli stessi autori di tre altri documentari a sensazione (Mondo cane, La donna nel mondo, Mondo cane n. 2), e legata a un episodio gravissimo di cui dovette occuparsi la magistratura. Le bugie del vescovo: nel Dicembre 1964, infatti, “L’Espresso” denunciò all’opinione pubblica i particolari d’una macabra avventura della quale uno dei realizzatori del documentario (Gualtiero Jacopetti) s’andava vantando d’essere stato protagonista in una sperduta regione del Congo settentrionale, tra il villaggio di Bekili e quello di Boende. Aggregato a un gruppo di mercenari bianchi stipendiati dall’allora prima ministro Moise Ciombe, Jacopetti ne aveva seguito per alcuni giorni le gesta; aveva cioè accompagnato, con il mitra in una mano e la macchina da presa nell’altra, le operazioni di “nettoyage” del paese da parte delle truppe mercenarie, la loro caccia al mulelista, le loro furiose sparatorie contro indigeni per lo più disarmati o al massimo armati di frecce, i saccheggi dei “nettoyeurs” ai danni di missioni, di banche, di uffici postali, le loro razzie, le fucilazioni in massa di prigionieri che sarebbe stato troppo fastidioso custodire. Tra l’altro si vantava d’aver girato una scena di gran pregio, nella quale i futuri spettatori di Africa addio avrebbero potuto vedere tre ragazzi mulelisti spuntare di lontano, in fondo a una strada di terra, avanzare agitando frasche verso le prime vetture della colonna militare, e quindi cadere, uccisi da una sventagliata di pallottole, grazie a un felice sincronismo tra l’azione del mercenario addetto alla mitragliatrice e quella dell’operatore addetto alla macchina da presa. Invitato a comparire di fronte al magistrato (che, nell’uccisione dei mulelisti da parte del mercenario aveva visto, com’era logico, data la giovanissima età delle vittime, non già un episodio di guerra ma un vero e proprio omicidio; e che, per conseguenza, nella ripresa cinematografica dell’omicidio, concertata, sia pure quanto ai tempi, col suo autore, aveva visto un reato di concorso nello stesso terribile delitto) Jacopetti reagì negando sdegnosamente di aver mai raccontato a qualcuno una storia simile e di aver mai ripreso una scena come quella descritta nell’articolo pubblicato da “L’Espresso”. Mobilitata nella difesa di Jacopetti, e, insieme del futuro sfruttamento d’una pellicola che era già costata, a quell’epoca,
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oltre mezzo miliardo di lire, la casa di produzione Cineriz si prese anche cura di diffondere attraverso la stampa una dichiarazione scritta del vescovo cattolico della provincia congolese di Boende nella quale l’alto prelato non aveva alcuna difficoltà ad affermare di non aver mai avuto notizia dell’uccisione di tre ragazzi mulelisti nel territorio della sua diocesi, e anzi di poter essere certo che durante le operazioni per la “liberazione” di Boende non s’era verificato alcun episodio sanguinoso. Senonché, sia il regista (e socio di Rizzoli nella produzione dello stesso film), sia il compiacente testimone, vescovo di Boende, mentivano. Col procedere dell’istruttoria, infatti, il magistrato penale ordinò il sequestro di tutto il materiale girato in Africa dalla troupe di Jacopetti (circa 130 mila metri di pellicola in cinemascope a colori che si trovavano presso lo stabilimento Technicolor di Roma), pretese che si stampasse tutta la parte relativa al Congo, passò lunghe ore davanti a uno schermo o a una moviola. E alla fine la scena saltò fuori, impressionante, crudele, identica alla descrizione che ne era stata fatta sulle colonne di questo giornale, con i tre ragazzi seminudi che vengono avanti di lontano agitando fronde di pianta, ragazzi giovanissimi e disarmati che avanzano verso un obiettivo e una canna di mitragliatrice, fino a quando la canna di mitragliatrice non comincia a vibrare, a far fumo, e loro s’abbattono uno sull’altro nella polvere. Insieme a questa scena, e con buona pace del vescovo di Boende, altre scene mostravano numerosi terribili aspetti del bagno di sangue africano che aveva caratterizzato il soggiorno dei mercenari bianchi in quel disgraziato villaggio; un bagno di sangue che (come avrebbe scritto il giudice istruttore Salvatore Zhara Buda nelle sentenze del 24 Gennaio 1966 con le quali venivano archiviati sia il procedimento penale contro i realizzatori di Africa addio, sia quello contro “L’Espresso” accusato di diffamazione) poteva rivelarsi inequivocabilmente attraverso “numerose altre sequenze raffiguranti, con particolari impressionanti e raccapriccianti per la loro crudezza, le sevizie, le fucilazioni e la morte di altri congolesi”. Ma allora come mai, nonostante il ritrovamento della scena dell’uccisione dei tre ragazzi che confermava parola per parola quanto “L’Espresso” aveva scritto e comportava come conseguenza la decisione di non doversi procedere contro questo giornale, anche gli autori di Africa addio hanno potuto essere prosciolti?
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La risposta è nota, o almeno dovrebbe esserlo, anche se le reazioni degli interessati al rifiuto del ministro Corona di premiare, sia pure per conto terzi, i produttori d’un film di questo genere, non sembrano tenerne gran conto. Ed è una risposta che si legge nella stessa sentenza del giudice istruttore presso il tribunale di Roma, là dove dice: “Questo giudice istruttore, dopo aver visionato la pellicola Africa addio presso la società Cineriz, disponeva il sequestro del negativo originale del film, e la stampa integrale del film stesso. Mentre nella pellicola visionata presso la Cineriz non figurava la scena del mitragliamento dei tre mulelisti, nella pellicola stampata a cura dell’ufficio tale scena risultava…”; e dove aggiunge che gli imputati prima “negavano i fatti e successivamente (dopo diversi mesi, n.d.r.) finivano per ammettere che la scena del mitragliamento era stata ricostruita, e cioè girata con comparse, e che essa perciò non riproduceva un avvenimento reale…”; o dove aggiunge ancora che “… i prevenuti, sia pure dovendo rispondere della gravissima imputazione di omicidio, hanno esitato a lungo a riconoscerlo (cioè a riconoscere che si trattava d’una scena falsa, n.d.r.), e lo hanno fatto solo alla fine dell’istruttoria. Lo scopo di questa reticenza non potrebbe essere più evidente: non screditare il film documentario che era in corso di produzione, con l’espresso riconoscimento che la scena era ricostruita, quando è nozione di comune esperienza che tal genere di film ha un valore in quanto le scene siano state girate dal vero…”. Dunque, di contenuto e di ispirazione colonialista e razzista, il film al quale un’“autorevole giuria” composta da alcuni soci del circolo romano Open Gate ha assegnato un premio che i produttori Rizzoli e Jacopetti avrebbero voluto ritirare dalle mani stesse del ministro socialista dello Spettacolo è anche, e forse soprattutto, un film falso. Falso, si potrebbe dire, per sentenza del tribunale di Roma, che lo ha definito così, almeno nella parte relativa ai tre ragazzi di Boende. Ma c’è dell’altro, anzi ci sono tante falsità che sarebbe difficile elencarle tutte senza un esame comparato, un riferimento costante, sequenza per sequenza di molte delle scene che da diversi mesi vengono presentate nelle sale cinematografiche italiane come un “documento coraggioso, spregiudicato, attualissimo, della nuova realtà del Continente Nero”. C’è per esempio la sequenza, girata dall’alto, di una “macabra marea di vittime”, come si poteva leggere nella dicitura di una foto-
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grafia pubblicata da un settimanale di Rizzoli al momento del lancio del film e tratta da un fotogramma del film stesso: una macabra marea di morti strappati dall’oceano all’isola di Zanzibar e depositati sempre dall’oceano sulla spiaggia di Bagamoyo, nei pressi di Dar Es Saalam, in Tanzania, tutti bocconi, tutti cadaveri con una mano sotto al viso (come s’addice a un cadavere-comparsa, specie se per caso è africano e può venire pagato pochi centesimi l’ora), tutti cadaveri con le vesti ancora in ordine, dopo aver percorso galleggiando sui flutti almeno cinquanta chilometri d’un mare infestato dagli squali e aver superato la barriera corallina che corre lungo tutte le coste del paese. “La mia sincera stupefazione”, ha scritto un ingegnere italiano che vive da oltre sei anni a Dar Es Saalam (si chiama Carlo Martelli) dopo aver visto quelle immagini, “è accresciuta dal fatto che, oltre a non aver mai avuto notizia di stragi, di eccidi e di tappeti di cadaveri insanguinanti le strade di Dar Es Saalam dove anch’io mi trovavo in quel periodo (cioè nei giorni tra il 20 e il 25 Gennaio ’64 durante i quali, nella vicina Zanzibar, l’ammutinamento di due battaglioni di soldati che reclamavano un aumento di paga provocò atti di vandalismo, saccheggi e purtroppo anche dieci morti, ma non di più, su una popolazione indigena di 150 mila abitanti), ho cercato invano di riconoscere le località, gli edifici e lo stesso lungomare di Dar Es Saalam, che pure mi sono ben noti”. E prosegue accennando all’“allarme che tale ‘documento unico’ (e davvero ‘unico’ in quanto i fatti descritti non trovano riscontro nella realtà) potrà provocare tra le famiglie dei quasi duemila italiani che in Tanzania hanno trovato un lavoro apprezzato e rispettato”. Poi ci sono i massacri degli animali, anche questi arbitrariamente costruiti acquistando i capi da sacrificare alla furia cieca e selvaggia di altri africani-comparse. E ci sono i documenti di tipo ameno, c’è la zebra volante, c’è lo scimmione paracadutista; c’è anche il turista miliardario, appassionato di caccia grossa ma pressato dal tempo e dagli affari, che arriva da Londra o da New York e cala in elicottero sulla savana, per abbattere “quell’elefante” e ripartire. Nel suo volto, un “professional white runner” che vive in Mozambico e che alcuni mesi fa, di passaggio per Roma, ha avuto modo di vedere Africa addio, ha riconosciuto il volto di un suo collega, cacciatore professionista come lui, e ne ha indicato nome cognome e indirizzo in una dichiarazione firmata.
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La stessa cosa, cioè che molte altre persone hanno fatto o potrebbero fare nel caso in cui a qualcuno venisse voglia di conoscere che la strage degli ippopotami sul lago Edoardo, in Uganda, non avviene a colpi di lancia o di “machete”, né ha origine nella sete di sangue di selvaggi, ma è semplicemente dettata dalla necessità (in armonia con le raccomandazioni della FAO) di ridurre periodicamente il numero di questi animali, che altrimenti si riprodurrebbero troppo in fretta compromettendo il patrimonio ittico del lago e la moderna industria della pesca, messa in piedi dai “selvaggi” locali proprio dopo la conquista della indipendenza. Oppure, nel caso in cui qualche spettatore appassionato di antropologia volesse spiegarsi come mai il soldato negro che si può vedere nella scena del saccheggio di Boende (cioè in Congo) nell’atto di squagliarsela con una tazza di gabinetto sulle spalle, ha caratteristiche somatiche tipiche di un africano del Mozambico, dove appunto la scena è stata girata per comodità. La protesta di 14 stati: ma a parte tutto questo, il film del quale l’editore-produttore Rizzoli, in una dichiarazione riportata dal “Messaggero” di Roma martedì 8 Agosto scorso, ha detto che “è nato senza pregiudizi e ha cercato soltanto di documentare una realtà”, può avvalersi, per quanto riguarda il suo carattere di documento di realtà, anche d’un altro paio di attestati. E sono due documenti, questi sí conservati negli archivi del Ministero degli Esteri alla Farnesina, dove sono giunti nell’Aprile scorso. Nel primo, che è una lunga nota del governo del Kenya indirizzata al ministro degli Esteri Fanfani attraverso il nostro ambasciatore a Nairobi, è contenuta la protesta formale per i falsi cui i realizzatori del film Africa addio hanno fatto irresponsabilmente ricorso, senz’altro risultato prevedibile che non sia quello di disinformare la parte meno avvertita dell’opinione pubblica italiana, abbagliandola con una serie di immagini altrettanto sensazionali che fantastiche. Nel secondo, presentato sempre al ministro Fanfani dall’ambasciatore del Senegal Edouard Camille Basse, è contenuta un’analoga protesta, firmata, stavolta, dagli ambasciatori di quattordici stati africani, che sono l’Algeria, la Libia, la Liberia, la Costa d’Avorio, la Rau, il Senegal, la Somalia, la Tunisia, il Ghana, la Nigeria, il Congo, l’Etiopia, il Marocco e il Sudan. Certo qualche paese non s’è fatto vivo, qualche stato africano non ha protestato; all’elenco manca per esempio il Mozambico, oppure l’Angola, o la
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Rhodesia, o il Sud Africa: paese, quest’ultimo, che appena poche settimane fa il senatore americano Robert Kennedy ha pubblicamente definito “an Unhappy Country”, e che invece i realizzatori di Africa addio, più informati, ci indicano come l’ultima spiaggia della civiltà, l’ultimo rifugio della democrazia e del progresso in terra d’Africa. Decisione in extremis: in queste condizioni domandarsi come ha fatto il produttore Rizzoli se possa “definirsi libero e democratico il comportamento” di un rappresentante del governo italiano che decide di tenersi lontano dal contagio; oppure suggerire, come ha fatto Gualtiero Jacopetti, una presunta aderenza del presidente della Repubblica Saragat al contenuto della sua infelice pellicola, potrebbe dirsi solo un po’ sciocco o ridicolo se non fosse anche d’una goffaggine sinistra. Resta ancora da chiedersi perché mai il ministro socialista Corona abbia deciso solo all’ultimo momento (cioè nel pomeriggio di sabato 6 Agosto) di non poter consegnare la statuetta del premio Donatello destinata fino all’8 Giugno al film Africa addio; perché mai abbia permesso che si potesse dubitare tanto a lungo delle sue intenzioni; e perché non abbia sentito anche il dovere di evitare, lui ministro dello Spettacolo, che lo si incontrasse di continuo, durante i giorni della rassegna di Taormina, in atteggiamenti di esibita familiarità con i produttori cinematografici presenti: sempre a pranzo con loro, sulla spiaggia con loro, fotografato, in mutande e col bicchiere in mano, sui loro lucidissimi panfili. Ma questo è un altro discorso. Riguarda solo un profilo di sensibilità o di eleganza, uno dei tanti che il personale politico del nostro civilissimo paese non sembra sempre capace di esprimere. E per il quale, forse, davanti alle giovani società del Continente Nero, dovremmo vergognarci un po’ di più di quanto già non dobbiamo fare dopo un film come Africa addio. Carlo Gregoretti, “Un documentario costruito con le comparse”. “Ecco i falsi di Africa addio”, “L’Espresso”, 14 Agosto 1966 In questo articolo, al tempo stesso pacato e polemico, il produttore Angelo Rizzoli precisa alcune circostanze sull’assegnazione del “David” al film di Jacopetti, illustra l’atteggiamento del ministro Corona a Taormina e mette a fuoco le intenzioni documentaristiche
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e umanitarie che accompagnarono tutta la lavorazione della pellicola più applaudita e discussa dell’anno. Le polemiche attorno all’ormai famosa serata di sabato 6 Agosto, a Taormina, non si sono ancora placate. Continuano soprattutto i commenti, spesso fantasiosi e malevoli, sul comportamento del ministro del Turismo onorevole Corona e sulle ragioni che mi hanno indotto a non ritirare il “David di Donatello” assegnato al film Africa addio. Su entrambi gli argomenti sento il dovere di esprimere pubblicamente, a mente serena, una mia opinione e di chiarire alcuni particolari rimasti oscuri. Innanzitutto a chi mi chiede se, non presentandomi a ritirare il “David”, io abbia rinunciato al premio assegnatomi con libera votazione da ventisettemila persone qualificate, posso dare una sola risposta: assolutamente no. Quella sera, partendo sia pure da posizioni contrastanti, io intesi compiere soltanto un genere di correttezza e di rispetto nei riguardi del ministro del Turismo. E mi spiego. L’onorevole Corona aveva da tempo manifestato la sua non solidarietà con chi aveva assegnato quel premio. Tuttavia (ma questa è solo una mia interpretazione), essendo la materiale consegna del “David” un atto più turistico che politico, con qualche riserva accetto di essere presente. Quello di Taormina viene definito giustamente “il festival della cordialità” per la sua atmosfera festosa, per la stupenda bellezza dei luoghi, per l’assenza di manovre segrete, di rivalità, di ansiose attese. Tutto vi si svolge all’insegna della serenità, alla luce del sole. Così, infatti, per desiderio unanime, sarebbe stato anche questa volta. Ma i guai cominciarono quando taluni giornali di sinistra vollero dare alla manifestazione, squisitamente turistica, un carattere politico, pubblicando articoli che suscitarono qualche perplessità nel ministro, fino a indurlo ad astenersi dalla consegna materiale dei premi. Si è voluto a torto discutere sulla tardiva decisione dell’onorevole Corona. Ma, per essere obiettivi, il rimprovero dovrebbe toccare piuttosto a chi volutamente ha atteso l’ultima ora per suscitare una polemica, che avrebbe potuto essere iniziata almeno due mesi prima, quando i giudici del “David di Donatello” fecero conoscere il loro voto. Preso alla sprovvista, accusato d’intenzioni che non aveva mai avuto, gratificato di un atteggiamento politico che gli era del tutto
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estraneo, l’onorevole Corona mi chiamò (non venne da me, come arbitrariamente si è scritto) per comunicarmi la sua decisione di non partecipare alla serata. La discussione che seguì fu serena, come si usa fra persone per bene. Non mancai di far presente che le ventisettemila persone del “David” avevano votato liberamente, che democraticamente la sua decisione non era giusta, che si trattava di una manifestazione turistica e non politica e che, soprattutto, non aveva senso giudicare razzista e colonialista un film come Africa addio. Ma le ore passavano, non vi era di mezzo neanche una notte che normalmente porta consiglio, e così ci lasciammo da buoni amici, ciascuno fermo sulle proprie opinioni, con il solo dispiacere, almeno da parte mia, che il ministro dovesse rinunciare alla progettata gita al mare. Concordai poi con gli amici del premio “David”, data la mancata presenza del ministro, di non presentarmi a ritirare il premio. Mi sembrava (e lo ritengo tutt’ora) un gesto di correttezza verso l’onorevole Corona, diciamo pure verso il suo atteggiamento, anche se (come ho ripetutamente spiegato) non potevo condividere la sua decisione. Desideravo inoltre evitare che fischi e applausi, suscitati dalla mia presenza, potessero turbare la serata e guastare la progettata ripresa televisiva in Eurovisione. Fu comunque stabilito (ed è questa una delle ragioni della lunga chiacchierata, di cui chiedo scusa ai lettori) che il “David” mi sarebbe stato consegnato in una prossima occasione. Chiarito, almeno lo spero, il mio atteggiamento per la serata di sabato 6 Agosto, vorrei ora mettere a punto qualche questione riguardante Africa addio. Per fare questo non ho che da ripetere le osservazioni condensate in un comunicato da me consegnato alla stampa e già pubblicato da alcuni giornali romani: – Il film Africa addio nacque su proposta di Jacopetti circa quattro anni fa. Voleva essere un grido d’allarme in difesa del patrimonio faunistico africano, che già allora stava subendo danni gravissimi. Voleva inoltre rappresentare le fasi di una frettolosa trasformazione che andava cancellando irrimediabilmente perfino il ricordo di quel favoloso continente che per tante generazioni aveva acceso la fantasia e incoraggiato lo spirito d’avventura di milioni di giovani. – Ma negli anni che seguirono la cronaca africana s’impose sempre di più all’attenzione di tutto il mondo. Dal continente africano, che era stato silenzioso per secoli, cominciarono a levarsi grida
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di dolore. E da quel momento l’attenzione di Jacopetti, e quindi del film, si fissò decisamente e doverosamente sulla drammatica e sanguinosa attualità di cui l’opinione pubblica europea, spesso per ragioni di opportunità politica, era soltanto in parte informata. – Perciò questo film, nato senza pregiudizi, non vuole e non ha mai voluto crearne dei nuovi. Ha cercato soltanto di documentare una realtà che dimostrasse come il sangue versato da qualsiasi parte rappresenti una ricchezza perduta per tutto il mondo. – Il film non è di ispirazione razzista, infatti Jacopetti ha volutamente ignorato episodi che avevano tragicamente colpito l’opinione pubblica mondiale e che avrebbero facilmente determinato una reazione questa volta decisamente razzista. Per esempio nel film non è stato ricordato l’orribile dramma di Kindu nel quale fu fatto scempio di tredici aviatori italiani che erano stati inviati dall’Onu nel Congo a portare non armi, ma viveri e medicinali a tutti gli africani bisognosi, senza discriminazione di politica, di religione e di razza. Nessuno saprà mai quanta parte dei loro corpi straziati contengano oggi le tredici urne di Pisa. – Del resto nessuna tra le persone che conosco, sia nel mondo della politica, sia della cultura o del cinema, mi ha mai espresso critiche sul presunto carattere razziale del film. Perfino la commissione di censura che ha approvato il film, e che, come è noto, non è tenuta ad esprimere giudizi politici, ha avuto parole di lode per questo nostro lavoro. Fra i tanti pareri positivi, soltanto alcune riserve mi sono state fatte per l’eccessivo realismo con cui erano state filmate le stragi di animali. Di queste riserve, che in parte condivido, ho informato Jacopetti il quale, a sua volta, in parte le ha raccolte eliminando alcune scene tra le più impressionanti. – Il premio “David”, del resto, può essere considerato il più popolare e il più democratico del mondo. Infatti è il risultato dello spoglio annuale di ventisettemila schede e della libera valutazione di una giuria composta da centinaia di professionisti, letterati, personalità del cinema e della cultura. – Africa addio è già uscito in alcuni paesi stranieri e con grande successo. Nessuna manifestazione di protesta è avvenuta, tranne che a Berlino dove, come comunica l’ANSA nel suo bollettino numero 20 dell’8 Agosto 1966, “tra i dimostranti si trovavano alcuni dirigenti della SED (partito operaio unificato) e di organizzazioni giovanili comuniste” oltre a “numerosi membri del Partito comu-
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nista”. Non bisogna inoltre dimenticare che l’apposito comitato cinematografico governativo tedesco ha attribuito al film la qualifica di “artisticamente pregevole”, qualifica che comporta una notevole riduzione degli oneri fiscali. Comunque, il film non è stato né sequestrato né ritirato: soltanto la programmazione in un cinema di Berlino è stata interrotta, mentre in tutto il resto della Germania continua indisturbata e con grande successo. – Qualcuno ha affermato che il film è stato ritirato a Vienna dalle autorità austriache. La notizia è falsa: il film non è stato ancora sottoposto al vaglio della censura. Inoltre un quotidiano ha affermato che Africa addio è stato proibito in Gran Bretagna. Anche questa notizia è falsa: l’edizione inglese non è stata ancora approntata. È vero invece che in Portogallo e in Giappone Africa addio è stato presentato in versione integrale e sta ottenendo da tempo uno strepitoso successo. Soltanto la censura spagnola ci ha chiesto di “alleggerire” alcune scene. – Concludendo, la maggior parte del pubblico, che ha compreso il messaggio di allarme e di pacificazione contenuto nel film, non solo non ha protestato, ma ha chiaramente manifestato la sua approvazione. Soltanto una parte, politicamente ben qualificata e isolata, non ha voluto capire accusando il film di sostenere tesi che i suoi autori e il suo produttore non hanno mai sostenuto. Perché è evidente che le colpe, sia in questa come in altre tragedie della storia, non sono mai imputabili a una parte sola. In Africa in special modo le colpe sono collettive. Non si possono minimizzare quelle degli antichi colonialisti che in un secolo hanno fatto troppo poco per gli africani. Ma neppure quelle dei nuovi colonialisti che vogliono distruggere quel troppo poco che è stato fatto e alimentano l’odio tra le razze per ben precise finalità. – Questi erano i nostri propositi: il pubblico onesto lo ha compreso assicurando uno strepitoso successo al film che oggi noi difendiamo in nome della libera manifestazione del pensiero in un mondo libero. Poiché alcuni giornali hanno faziosamente amplificato i modesti incidenti di Berlino, mi limito semplicemente a riportare una notizia pubblicata dal quotidiano “La Notte” in data 12 Agosto: “L’ufficio del pubblico ministero di Berlino ovest ha archiviato l’indagine aperta in seguito all’accusa rivolta al film italiano Africa addio di violazione della legge tedesca contro l’insulto e l’istigazio-
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ne all’odio razziale. Un comunicato del pubblico ministero che non è stato trovato nulla che possa giustificare l’accusa formulata da cinque studenti tedeschi e africani che avevano partecipato la settimana scorsa alle dimostrazioni di protesta per la presentazione del film in un cinema del centro. Le proiezioni di Africa addio vennero sospese venerdì scorso, dopo due notti di dimostrazioni di protesta. L’ufficio del pubblico ministero ha affermato che il film conserva un carattere documentario anche nelle scene di violenza e che uno spettatore obiettivo non può ravvisarvi una diffamazione della razza negra, dal momento che nella pellicola si vedono bianchi e negri insieme coinvolti in atti di violenza. D’altro canto, conclude il comunicato, non risulta giustificata l’accusa che il film potrebbe suscitare nella razza negra odio e violenza contro i bianchi”. Infine Panfilo Gentile, l’illustre storico e commentatore politico, in un articolo sul “Corriere della Sera” del 13 Agosto scorso, dedicato alle confuse opinioni correnti sul razzismo e sul colonialismo, così conclude: “Gli italiani soni incurabilmente declamatori. Alla retorica imperialista del ventennio è succeduta adesso la retorica dell’anticolonialismo in ritardo. E, soprattutto, non ci sembra che sia il caso di tirar fuori il razzismo, come arma polemica. Se taluno, ad esempio, sostiene che certe popolazioni dell’Africa equatoriale accusano immaturità all’autogoverno, se si rileva che certe popolazioni senza storia non possono essere considerate alla stessa stregua di quelle che hanno migliaia d’anni alle spalle, non si fa nessun razzismo. Tanto più che esistono molte popolazioni bianche che si trovano in analoga situazione. Non è questione di razza, di bianchi e di neri. È questione di storia, di età, se volete, di giovani e di vecchi. E il razzismo non c’entra per niente. Esistono anche nazioni bianche, a quel che sembra, immature per la libertà e la democrazia. Ringrazio sentitamente l’insigne scrittore, anche se il suo articolo penso non volesse assumere la difesa del film Africa addio. Angelo Rizzoli, “Perché difendo il film Africa addio”, “Oggi”, 1966 Diciamo francamente una cosa: lo stupore e l’indignazione suscitati da Africa addio ci sembrano piuttosto illogici. Non perché non vi sia motivo di stupirsi e di indignarsi di fronte al fatto che una certa capacità tecnica venga utilizzata per un basso ed ignobile servizio, ma perché il film di Jacopetti non
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ha niente di clamoroso e di fuori dell’ordinario: è semplicemente un’abile raccolta dei luoghi comuni più coltivati e sfruttati da tutti i vecchi mentori del conservatorismo nostrano, quotidianamente pontificanti dalle colonne della “grande” stampa e dalle tribune di vario genere. Evitiamo di cadere anche noi nella trappola delle provocazioni jacopettiane, destinate solo a tenere in vita il cliché dell’“enfant térrible” al quale il Nostro tiene tanto, e guardiamo alla sostanza del discorso: ci accorgeremo che, prima di essere razzista, Africa addio è un film paternalistico e antidemocratico, il prodotto tipico di una mentalità decrepita e tenacemente abbarbicata ai propri schemi fossilizzati, così patologicamente assorbita nella difesa degli interessi costituiti da sentire come un’autentica ossessione ogni passo in avanti della storia, ogni prospettiva di rinnovamento delle strutture sociali.
Quale è, infatti, la tesi di fondo del film? Non ci vuol molto per individuarla, perché è espressa a chiare lettere in una delle sequenze iniziali e ritorna come un leit-motiv lungo tutta la pellicola, anche se l’orgia delle immagini sembra sommergerla in un discorso (anche questo equivoco e truffaldino, come vedremo più avanti) sulla violenza: un procedimento scaltro, ma abbastanza comune, per cacciare in testa alla gente quel che interessa maggiormente di farle pensare, senza che essa quasi se ne accorga, infilando continuamente e sommessamente l’argomento-base fra altri in apparenza più vistosi od urlanti. La tecnica degli effetti subliminali, insomma, o, se vogliamo, quella più semplice dei cartelloni pubblicitari che colpiscono con l’immagine vistosa di una bella ragazza, per imprimere nella mente di chi guarda la bottiglietta di Coca-Cola che questa tiene in mano. L’Africa – ecco la tesi di fondo – è come un bambino che finora è stato affidato alle cure della balia (l’europeo, il bianco, la potenza coloniale) e questa “lo abbandona, ancora inquieto, proprio nel momento in cui ha tanto bisogno di lei”. Indro Montanelli – che il discorso odierno di Jacopetti lo sta conducendo da molti più anni e non ha bisogno di fare il sadico per incantare la gente con i suoi giochi di parole – ha afferrato al volo il succo del film e si affretta a renderlo appetibile con i sofismi in cui è maestro: “Noi abbiamo dato all’Africa l’indipendenza perché altro non si poteva né si doveva fare. Ma solo per questo motivo di necessità. Ritirandoci ci siamo comportati da
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gente furba, ma non magnanima né tanto meno ‘progressista’ perché l’Africa, con l’indipendenza, ha fatto, è vero, un salto di secoli; ma all’indietro, non in avanti. E non illudiamoci che si tratti di una crisi transitoria. Gli africani si sentono liberi solo di ridiventare dei boscimani (notiamo per inciso che il brillante giornalista ignora perfino che “boscimani” non significa affatto cannibali o qualcosa del genere, come egli sembra immaginare, ma semplicemente “uomini della macchia”, nome di derivazione olandese dato ad un ben definito gruppo di minoranza dedito principalmente alla caccia, che, fra l’altro, non è neanche classificato etnologicamente come negride, per cui è un po’ impossibile che gli africani “ridiventino” quello che nella stragrande maggioranza non sono mai stati: ma queste sono le licenze poetiche di chi affronta i problemi dell’Africa con tanta serietà! – n.d.r.) e di trasformare il loro continente in una giungla, qual era prima che i bianchi ci arrivassero”. Ecco il punto: è con la libertà che sono incominciati per l’Africa tutti i guai, mentre, senza la libertà, le cose andavano per il meglio. Qui il ragionamento, prima ancora di essere razzista, ripetiamo, è antidemocratico, oscurantista, ottusamente reazionario, indipendentemente dal colore della pelle di quelli cui è applicato. Ed è un ragionamento che abbiamo sempre sentito fare anche in casa nostra, tutte le volte che si discute sull’attuazione di un’autentica democrazia. Prendiamo qualche tema per caso. Le autonomie locali? Certo sarebbe una bella cosa svilupparle, ma gli italiani sono ancora immaturi; se la gestione della cosa pubblica andasse in mano di tutti, finiremmo nel caos economico. Quindi, per adesso, è ancora necessario stare attaccati ad un potere centralizzato e ad una burocrazia onnipotente, finché il popolo non sarà più maturo. I diritti dei lavoratori? Nessuno li nega. Ma i lavoratori non sono ancora maturi per essere lasciati liberi di far valere le loro idee nell’interno delle fabbriche e per aver voce in capitolo nella direzione dell’economia. Il dibattito delle idee? Certo sarebbe una bellissima cosa, ma va controllato con estrema cautela, perché il popolo non è ancora preparato e non sa discernere il buono dal cattivo; quindi la Magistratura deve stare attentissima ai “reati d’opinione” anche a costo
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di lasciar ammucchiare nei suoi uffici le pratiche relative a tanti altri reati. L’obiezione di coscienza? È vero, tutti i paesi civili lo ammettono e anche il Concilio Ecumenico si è pronunciato in tal senso, ma gli italiani non sono ancora maturi: se lo si ammettesse rischieremmo di restare senza esercito. L’elenco potrebbe continuare. E sempre con questa musica: gli italiani non sono maturi, la libertà va data col contagocce, perché in dosi troppo forti può far male. E, alla fine, c’è sempre la gran sentenza: “Libertà sì, ma purché non diventi licenza”. Naturalmente col sottinteso che a stabilire qual è il punto in cui la libertà si trasforma in licenza devono essere i ceti dirigenti in carica, i soli che sono sempre “maturi” a sufficienza per essere completamente liberi. La libertà come concessione magnanima (i termini usati da Montanelli sono quanto mai indicativi, bisogna riconoscerlo) e non come diritto che ogni uomo deve riconoscere agli altri uomini; la libertà come regalo più o meno parsimoniosamente elargito dalla autorità, e sempre revocabile, e non come condizione naturale e indispensabile per ogni individuo. Naturalmente, messe le cose su questo piano, vien poi fuori l’uomo (o la razza) che si sente investito del potere di decidere che dose di libertà può giovare agli altri, e alla fine che questa dose va ridotta a zero, perché solo lui è abbastanza “maturo” per trarne beneficio. È la parabola del fascismo, non è necessario, evidentemente, arrivare all’ultimo stadio per farsene sostenitori: basta incominciare con i primi stadi, con i ragionamenti alla Jacopetti e alla Montanelli, appunto; con i ragionamenti (e con la conseguente azione, che purtroppo non manca) di tutto un vecchio mondo dominato dalla paura della libertà, dall’ossessione di perdere i propri privilegi o anche solo di dover rinunciare al proprio comodo conformismo mentale. E questo vecchio mondo, purtroppo, è più duro a morire di quanto si pensasse, ha più radici e diramazioni di quelle che appaiono allo scoperto nei movimenti politici o para-politici dichiaratamente nostalgici e reazionari: ecco perché diciamo che non è il caso di stupirsi e di indignarsi quando viene in luce in un film come Africa addio. È la stessa mentalità, la stessa propaganda che si può trovare ogni giorno fra le pagine della “grande” stampa na-
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zionale controllata dal potere economico: vale a dire nell’ottanta per cento, suppergiù, delle informazioni e delle note formative ammannite agli italiani. Di suo, Jacopetti vi ha aggiunto solo gli ingredienti sado-masochistici di cui ama fare sfoggio. Ma non sono una novità e, tutto sommato, si adattano nel migliore dei modi alle caratteristiche fondamentali dell’operazione. Questa, infatti, tende sostanzialmente ad eliminare il confronto delle idee e ad escludere ogni stimolo alle facoltà critiche del pubblico, puntando invece su sollecitazioni esclusivamente emotive: Jacopetti si limita ad accentuare la cosa in senso viscerale. L’indirizzo è quello, in più c’è solo il cattivo gusto. Si tratta delle letture di ogni giorno, dicevamo. Guardate le immagini elegiache delle ville e dei giardini dei coloni inglesi nel Kenya, ritagliate e isolate accuratamente dal contesto dell’Africa miserabile: c’è dentro tutta la nostalgia per il bel tempo che fu dell’Italia umbertina, linda, ordinata e felice, ignara della trascurabile cornice dei contadini mietuti dalla pellagra, degli operai che lavoravano dodici ore al giorno e della mortalità infantile che raggiungeva percentuali spaventose. E il contrasto fra la patetica smobilitazione dei battaglioni coloniali e la sarabanda delle prime elezioni politiche, con le facce dei negri deformate dai maligni colpi di “Zoom”? Anche qui è facile ritrovare la nostalgia per i tempi felici in cui il suffragio universale non era ancora giunto a turbare l’ordine sereno custodito dalle regie truppe del generale Bava Beccaris e – come ha vantato anche recentemente l’on. Malagodi – “il frutto delle sagge deliberazioni politiche era dovuto ad una ristretta élite”. Ancora: i bellissimi giardini sconvolti dal bulldozer, non sono forse un’eloquente condanna alla dissennatezza di ogni riforma agraria? Il negro costretto a far da volpe per le cacce dei signori non è forse una “bestia infida” come ogni uomo del popolo-bestia, incapace di comprendere quanto sia bello far da oggetto ai raffinati piaceri dei potenti e così ingrato da covare istinti di rivolta? I ribelli di Mozambico, attirati nella trappola mortale dei parà portoghesi con il nastro che ha registrato le voci della foresta, non hanno forse il torto di non capire che il loro massacro fa rivivere per un attimo la “gloria dei vecchi secoli”? Forse, parlare di mentalità antidemocratica e reazionaria, a questo punto è ancora poco. Qui siamo addirittura fermi a prima della
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rivoluzione francese, alle inclinazioni abbiette dei tirannelli seicenteschi rimescolate col gusto pacchiano dei borghesi arricchiti e intrise di decadentismo dannunziano. Siamo all’“estetica” delle squadre d’azione, messa insieme con tutti i rimasugli del provincialismo culturale e con le velleità aristocratiche dei bottegai in camicia nera. Al fondo di Africa addio, insomma, c’è tutta la meschinità morale, lo squallore intellettuale, il qualunquismo politico del conformista piccolo borghese che, per non rivelarsi tale, mescola al suo decrepito e trito discorso tutti gli espedienti intesi proprio ad épater le bourgeois. Detto questo – stabilito, cioè, che si tratta di un film in cui si sedimentano, prima di tutto, i più tipici elementi di una mentalità chiusa alle ragioni dell’uomo e della sua dignità, indipendentemente dal colore della sua pelle – si può anche, si deve, controbattere quanto c’è di ottusamente razzistico nelle manipolazioni jacopettiane, spacciate per documenti attraverso un collage svincolato da qualsiasi prospettiva storica (tale non può certo considerarsi, seriamente, la nostalgia per i giardini all’inglese e per la “gloria dei vecchi secoli” dello schiavismo) e da ogni sforzo d’interpretazione. Da questo punto di vista, non c’è che il malinconico imbarazzo della scelta. A cominciare dall’impudente affermazione secondo cui l’Europa “ha dato all’Africa assai più di quanto abbia preso”. Basta confrontare la prosperità delle Potenze coloniali con le condizioni in cui le stesse hanno lasciato l’Africa, quali risultano dalle pur fugaci notazioni del film al riguardo, per convincersi di quanto c’è, non diciamo di falso, ma di inverecondo, in una affermazione del genere. E il “miracolo” del Sud Africa, con la schiera delle bionde fanciulle che possono opporre la lirica dei bikini alle immagini sanguinose delle altre regioni, mentre la biancheria intima delle negre diventa simbolo di corruzione? Dopodiché è chiaro che l’apartheid diventa, oltretutto, uno strumento provvidenziale impiegato per salvare la moralità delle seconde nell’ascetica miseria delle baracche, mentre le prime, povere martiri, si sacrificano a frenare entro i limiti dei grattacieli e delle spiagge di lusso la loro prorompente vitalità di bionde vichinghe!
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Il gusto di barare al gioco, del resto, va oltre la lavorazione del film. “C’è una sola scena – proclama Prosperi, anche a nome di Jacopetti, su un rotocalco fascista – in cui si veda un omicidio in atto: è un bianco che uccide un negro. Si vedono degli avventurieri che tagliano le gambe alle zebre per non sciuparne la pelle: si tratta di bianchi. Nel commento si dice che in Africa c’è un solo animale feroce, l’uomo. Questa frase è pronunciata dopo una sequenza in cui si vede un cacciatore di frodo dai capelli biondi: inequivocabilmente un bianco. Ripeto: Africa addio è un film contro la violenza, da qualunque parte venga”. È una vera sequenza di quelle classiche mezze verità che risultano più false della menzogna. A parte il fatto che a quell’unico omicidio in atto da parte di un bianco se ne contrappongono innumerevoli altri, già compiuti, ad esclusivo carico dei negri, Prosperi finge di dimenticare che quello stesso bianco e i suoi colleghi, in altra parte del film, sono presentati in una simpatica luce di soldati di ventura, dediti prevalentemente ad opere di salvataggio e ad imprese epiche, dalle quali esulano i trascurabili cadaveri dei molti altri negri caduti sotto le loro raffiche a pagamento. Quanto alle uccisioni di animali, Prosperi trascura di ricordare, anzitutto, che il film non perde occasione per farne risalire la responsabilità ai nuovi dirigenti negri, senza stare a chiedersi una sola volta se le popolazioni africane abbiano effettivamente bisogno di quella carne, come gli europei hanno bisogno di carni bovine, suine ed ovine, e fino a prova contraria, se ne servono. Inoltre, in vena di dimenticanze, il nostro paladino della nonviolenza sorvola sul fatto che le scene destinate a suscitare maggior ripugnanza hanno dei negri per protagonisti: sono loro che squartano gli animali uccisi, a cominciare dalle femmine gravide; sono loro che, barbari, ricorrono ancora alle lance strazianti (qualcuno potrebbe essere indotto a far paragoni con le banderillas impiegate dai civilissimi europei per il gusto di veder soffrire il toro nelle arene, ma qualche rischio bisogna pur correrlo…) invece di ricorrere alle pietose carabine dei bianchi. E queste sono sequenze su cui il film insiste con particolare compiacimento, ad esclusiva prova della “barbarie” africana che si accanisce contro i “santuari della natura”. A questo punto si potrebbe anche ricordare, come ha fatto Lattuada, che basterebbe andare con una Arriflex a spalla in un
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normale macello di casa nostra per mettere insieme scene anche più orripilanti; si potrebbero anche ricordare i metodi usati per far scoppiare il fegato alle oche, e documentati dallo stesso Jacopetti in Mondo cane, ad esaltazione del palato dei buongustai tedeschi; si potrebbe ricordare che questo tipo di pietà per gli animali, ignara delle necessità degli uomini, è classica delle zitelle egoiste che non tireranno mai fuori un soldo per un bambino affamato e si trovava con estrema facilità fra i guardiani dei campi di sterminio nazisti. Ma non è questo il punto. Il fatto è che la parte dedicata alle uccisioni di animali – non a caso prevalente nell’economia complessiva del film – rivela più chiaramente di tutte le altre l’atteggiamento “morale” di questa gente che pure afferma che “non vale la pena di discutere sul piano morale” quanto sta avvenendo in Africa. Un atteggiamento di rinuncia a qualsiasi tentativo serio sta avvenendo in Africa. Un atteggiamento di rinuncia a qualsiasi tentativo serio di analisi razionale dei fatti, in pro di un’esclusiva forzatura emotiva, basata sulla nostalgia per un’ Africa identificata con “sovrana armonia” e con il “divino equilibrio” dei grandi parchi riservati alle gioie dei cacciatori bianchi. Che tale sovrana armonia e tale divino equilibrio fossero edificati, per dire, sui dodici milioni di schiavi razziati dai soli portoghesi e sulle mani dei minatori congolesi indisciplinati mozzate dai colonizzatori del “buon” re Leopoldo (quelle dei Watussi, esibite con tanto fervore documentaristico da Jacopetti, hanno pure avuto degli illustri precedenti!) non importa: è questa l’Europa – neanche quella neocapitalistica, ma addirittura l’Europa dei negrieri che facevano spazio alle riserve di caccia – che dovrebbe continuare a tenere a balia “l’irrequieto e immaturo” bambino africano. Anche qui c’è da stupirsi e da indignarsi? Forse. Ma bisognerebbe prima riuscire a superare la pena e l’avvilimento che si provano nel constatare che queste cose sono dette da un film italiano e nel vedere che trovano naturali consensi su una stampa che si ricorda ancora di un’aureola di “autorevolezza” ed influenza effettivamente una buona parte dell’opinione pubblica. Il caso di Africa addio è un po’ particolare, e anche noi ci concediamo un discorso almeno in apparenza un po’ fuori dalle consuetudini. E desideriamo, innanzitutto, esprimere la nostra profonda
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irritazione per l’assunto retrivo e miope di Gualtiero Jacopetti e Franco Prosperi che hanno scritto e diretto il film alla fine di rendere un non richiesto omaggio alla vecchia e tranquilla Africa dei buoni colonizzatori bianchi. Ha scritto bene Leo Pestelli: “Fondatore del thriller etnico-sociologico, ossia d’un nuovo film a soggetto, avente per soggetto la realtà truccata, Jacopetti con la collaborazione di Franco Prosperi e dell’impavido operatore Antonio Climati, ha esteso il suo terrorismo pessimistico (significato una volta per tutte dal titolo Mondo cane) ai nuovi Stati africani colti nel momento critico del loro trapasso all’indipendenza e all’autogoverno; momento che per l’autore s’identifica con un ritorno agli istinti ferini. Quindi è che l’‘addio’ è rivolto all’Africa tradizionale degli esploratori e dei colonizzatori, e con una cotal vibrazione patetica (si veda all’inizio, quando gli Inglesi, deposte le bandiere, se ne vanno in punta di piedi da Nairobi, generando un ‘vuoto’ di poi riempito da eccessi), che ha potuto esser facilmente accusata di complicità, nostalgia e qualunquismo”. Pestelli, dopo aver chiesto di non investire il regista di “eccessive responsabilità”, così tuttavia continua: “certo la sua visione, per ciò stesso che è legata al presente (e a un presente accuratamente cercato nelle dimostrazioni peggiori) è angusta, e compiacendosi di registrare una sequela di orrori – i processi dei Mau-Mau, i massacri dei Watussi nell’Uganda e degli arabi nello Zanzibar, i feroci macelli di elefanti e d’ippopotami nei parchi nazionali britannici, le sanguinose giornate del Congo con la conquista e il sacco di Boende da parte dei mercenari ciombisti, e così via, salvo rare pause ricreative, ma sempre acri, quali i diporti di Capetown, la distribuzione di mutande nel Sudan, l’emancipazione delle giovani zulù, il boom industriale di Johannesburg – finisce col non provare altro se non che la Storia quando s’accinge a disfare qualche cosa (qui appunto l’Africa tradizionale), lo fa sempre con le maniere brusche. D’altra parte, in sede ideologica, il film si potrebbe difendere con questo argomento: un bell’elogio, in verità, esso ci va facendo del colonialismo e del suo potere d’incivilimento, se dopo tanti secoli, al venir meno di quello, sono potute e possono accadere di queste cose!”. Malgrado qualche benevolo tentativo di salvataggio… in extremis, il giudizio di Pestelli è inequivocabile, e ci trova consenzienti. In realtà, l’assunto di Jacopetti è condotto avanti con superficialità, presunzione, vittimismo, facile e falsa ironia, irritante e cattivo
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spirito di bassa lega, senza ombra di humour. Gli stessi giochi di parole sono letti alla maniera del cinegiornale “Ieri oggi e domani”, per intenderci, dove gli accostamenti sono casuali e opportunistici, quando non addirittura truccati e offensivi. L’irritazione cui abbiamo accennato deriva appunto anche da questo: dal dispregio assoluto per la verità e per la buona fede, per quello stesso rispetto umano che Jacopetti e Prosperi fingono di provare, dalla confusione storica e politica che, voluta o no, è alla base delle “dimostrazioni” unilaterali, incomplete, tendenziose, sfacciate, frammentarie di Jacopetti e Prosperi. Sul piano tecnico il film punta, ovviamente, su un ampio fascino spettacolare, inciso in brani che colpiscono emotivamente lo spettatore, o col sangue o con la violenza o con l’erotismo o con un falso pietismo o col sentimentalismo provinciale, coi controluce, gli effetti luminosi, i pianti, gli abbracci, i grandi e simpatici animali uccisi dall’uomo cattivo. Il racconto non è privo, così, di un fascino ancora più nocivo e deteriore – a parte il fastidiosissimo, elementare abuso di pancinor e di teleobiettivo – perché al servizio di contraddizioni e di superficialità. Non manca il tentativo di catturare anche la religione, ma non è stato obiettivamente possibile, nei tempi in cui c’è già un cardinale africano e in cui sono i negri del Sudafrica e degli Stati Uniti a essere minacciati nei loro sacrosanti diritti civili, portare a vantaggio di questa tesi dei motivi validi. La presenza dei sacerdoti in Africa, così, dell’opera missionaria dei cattolici, è completamente sottaciuta, mentre assistiamo a pochi brani frettolosi, saluti o benedizioni a vessilli in partenza. E i casi sono i seguenti: il regista vuol mostrare i preti reazionari e cattivi, e allora non deve commentare in modo pietistico e commosso il loro saluto alle bandiere; il regista crede che l’opera dei sacerdoti sia stata utile in Africa, e allora avrebbe dovuto dimostrarlo con brani filmati o dirlo con le parole, chiarendo soprattutto come mai la loro utilità sia poi sfociata in conseguenze così negative al momento della partenza dei bianchi; il regista non crede sia influente la presenza dei sacerdoti cristiani in Africa, e allora avrebbe dovuto dirlo, anziché indulgere con un falso moralismo su situazioni collaterali, rispetto a quelle pur sempre di fondo, parlando di uomini, cioè il pensiero, la cultura, la vita politica. E la “pietà” del regista, così “viva e sensibile” verso gli animali, è pressoché inesistente nei confronti degli uomini, che con
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malcelato compiacimento egli ci mostra preda delle più crudeli e spietate emozioni e violenze. Africa addio, del resto, riscuote un successo di pubblico perché ha le stesse componenti dei western fatti in casa e degli 008 dei nostri giorni: gratuita violenza e superficialità di racconto di circostanze psicologiche, assoluta assenza di problematica morale. E ha goduto e gode tuttora di una catena di pubblicità diretta e indiretta, che ha coinvolto, come tutti i periodici editi dallo stesso industriale che ha prodotto il film, in particolare uno di essi, “L’Europeo”, che consideravamo e tuttora consideriamo un settimanale fra i meno banali, fra i meno corrosi del nostro panorama pubblicistico. “L’Europeo” ha infatti pubblicato una serie di servizi sorprendentemente sulla linea e sulla impostazione del film – giovandosi non di rado dello stesso materiale fotografico – appena attenuando, e non sempre, il testo del commento, col rivedere i superficiali giudizi di Jacopetti e Prosperi. È nota, d’altra parte, la polemica che coinvolse, nel dicembre 1964, Jacopetti e “L’Espresso”, e che si concluse nel gennaio scorso con una sentenza di non luogo a procedere sia verso il settimanale, sia verso Jacopetti, sospettato di concorso in omicidio. Le due sentenze di archiviazione stabilirono comunque che Jacopetti e i suoi collaboratori avevano con la fantasia ricostruito scene che poi fanno parte del film quali documenti. Il caso di Africa addio, in ogni modo, è uscito così dall’ambito strettamente cinematografico come da quello dei quotidiani e dei settimanali, per essere stato oggetto anche di un dibattito televisivo, nel corso del quale uno studente africano ribadì che le necessarie, a volte tragiche esperienze di libertà sono sempre preferibili a un fittizio ordine di polizia e di colonialismo, proprio in vista di una maturazione che, dall’interno, ha tutte le possibilità di essere più radicata e profonda. E il “Corriere della Sera”, in una lettera del Gen. Valentino Vecchio, presidente del Gruppo Vittorio Bottego di Milano, dopo avere sottolineato come sia possibile e auspicabile, civile, normale, anche un rapporto di convivenza fra europei e africani, fra bianchi e negri che vada oltre le strutture di colonialismo e di odio e di contrasto, ma si ponga sul piano del lavoro in comune e dello scambio reciproco di esperienze, così sottolinea: “(…) e si potrebbe concludere con un’ultima dura, amara riflessione: che salvo le stragi di zebre, elefanti, ippopotami che da noi non esi-
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stono, lo Jacopetti avrebbe potuto attingere, anche in Europa, ad orrori che è giusto forse dimenticare ma che è bene rimangano di ammonimento per contribuire ad un futuro costruttivo di pace per i popoli d’ogni colore”. Il film è stato accolto con una quasi unanime riprovazione dalla critica italiana, specie da quella più qualificata e approfondita: ancora una volta, tuttavia, ci sono state superficialità e accondiscendenze, magari sotto forma di non-impegno, di indifferenza, di colpevole frettolosità, da parte di alcuni grandi fogli di informazione: quotidiani romani, settimanali di ogni grado e diffusione. Le notevoli possibilità di ammaestramento almeno morale, se non strettamente critico, di questi mezzi di comunicazione di massa sono spesso annullate in un disimpegno che diventa veicolo di indulgenza al gusto più deteriore del pubblico e degli autori. E poi oggi che di cinema parlano e scrivono tutti – dai settimanali di moda a quelli per ragazzi – occorrerebbe davvero, anche da parte di coloro che scelgono i propri collaboratori per gli articoli di questa materia, la consapevolezza di una responsabilità che viene assolta invece con eccessiva disinvoltura. Quando non accade di peggio. Giacomo Gambetti, “Bianco e Nero”, 1966 Africa addio è dunque un documento, una testimonianza sulle trasformazioni e sugli avvenimenti di molti paesi africani. È cronaca, una cronaca scelta e montata secondo una tesi ben chiara. Jacopetti è del parere che è stolto proclamare che tutto quanto i bianchi hanno fatto in Africa deve essere distrutto. Insieme a pagine di speculazione, di malvagità, di crudeltà nel corso del tempo sono state scritte dai bianchi pure delle pagine degne di ricordo; certe conquiste bianche devono dunque essere salvate. Ed invece, dicono Jacopetti e Prosperi, l’Europa abbandona l’Africa e se ne va più in fretta possibile lasciando tutto – iniziative economiche, opere, strutture, stato – nelle mani di popoli giovani che in nome di questa conquistata, o regalata, “uburi” [n.d.c.] (= libertà) si inebriano del gusto della distruzione e perfino del fratricidio, in odio al vecchio colonialismo, fatto di dominio diretto, e senza accorgersi di quello nuovo, fatto di “consiglieri militari”, di “addetti diplomatici”, di “trattati di amicizia”. Da qui prendono le mosse i due registi
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per mostrare una interminabile e sconvolgente serie di violenze. […] Il netto limite del film ci sembra consista nel fatto che su un materiale di cronaca gli autori hanno voluto, attraverso il montaggio e il commento parlato, tentare un’interpretazione storica. Già nelle precedenti pellicole si era notata in Jacopetti e Prosperi (allora affiancati da Cavara) una completa assenza di una precisa dimensione e sensibilità storica. In Africa addio ci sembra che i due registi abbiano presunto troppo dalla propria opera. In essa non c’è, in effetti, “storia”, perché vi mancano molte componenti – culturali, religiose, economiche, ecc. – ben presenti in Africa e che magari, a volte, vengono raccontate dal commento. Rispetto ai film precedenti, tuttavia, è evidente una più rigorosa impostazione tematica, una meno dispersiva trattazione, una più coerente scelta del materiale. Inoltre, mentre in quelli venivano allusivamente o apertamente accostate crudeltà di popoli primitivi e di popoli civili in un’affermazione di un mondo davvero “cane” ad ogni livello di civiltà, in Africa addio la barbarie e la crudeltà sono fatte direttamente discendere dall’arretratezza, dall’inciviltà, dalla ribellione, dall’esplosione di istinti primordiali spesso sobillati da interessi estranei ma comunque resi possibili proprio dall’assenza dell’ordine e della civiltà. E ci verrebbe di dire all’“anarchico” Jacopetti (così egli ama definirsi) che il suo è un film che condanna inequivocabilmente l’anarchia. […] Semplice e stupendo a un tempo il commento di Riz Ortolani – duttile e preciso in ogni occasione ed in ogni momento – che con il direttore della fotografia Antonio Climati ha formato un tandem di collaboratori veramente insostituibile nella realizzazione del film. Alessandro Garbarino, “Rivista del Cinematografo”, 1966 Le ragioni del successo commerciale sono dovute riteniamo alla facile trovata di far assistere a scene di violenza senza spingere a fondo l’irritabilità delle persone per bene, usando riprese talmente banali da apparire – anche quando mostrano l’atroce squartamento di un’elefantessa incinta – innocue; e a scene erotiche – il vestimento con biancheria di nylon delle danzatrici negre, distraendo sempre quel pubblico per bene, con uno sciocco commento umoristico alla “Ieri, oggi, domani”. Il film non sembra meritare dunque nessuna attenzione per questa maniera vecchia con cui è
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costruito, pensato, svolto. Si pensi alle fotografie a colori riprese con velatino, per dare immagini sfuocate alle belle ville di sogno degli aristocratici colonialisti; o i primissimi piani deformati sin alla caricatura dei volti dei negri-selvaggi. Merita invece attenzione per il ripugnante atteggiamento fascista di cui è pervaso; attenzione della magistratura, per il reato previsto di apologia. Edoardo Bruno, “Filmcritica”, 166/1966 Un film di Jacopetti è come una riunione di pugilato che veda ogni incontro finire per k.o. Oppure per squalifica, o come una corrida dove tutti i toreri finiscano incornati. Il sangue e la violenza ne sono elementi determinanti, mentre il filo conduttore è offerto da una visione deprimente dell’uomo che potrebbe esprimersi così: l’uomo è il disgusto e la vergogna del creato. Tale era il tessuto connettivo di Mondo cane e de La donna nel mondo. Esso torna in Africa addio, con uno sviluppo che lo diversifica ulteriormente: gli uomini qui sono essenzialmente i negri, e le azioni che gridano vendetta, quelle avvenute nel continente africano. Questa concezione jacopettiana ha come conseguenza un tipo di cinema a forti tinte, con la ricerca continua di avvenimenti eccezionali e un inseguimento della barbarie e della primitività umana. Jacopetti e i suoi collaboratori per tre anni hanno braccato da presso gli accadimenti africani e ne hanno tratto un sensazionale reportage che deve la sua qualità sia alla puntualità giornalistica sia alla capacità della macchina di Antonio Climati di essere sempre dentro alla situazione. Un film “avvincente”, tutto lavorato al corpo dello spettatore, con colpi mancini allo stomaco che tolgono ogni possibilità di respiro. Di un orrore quasi viscerale (non alludiamo qui alle viscere di uomini od animali, liberamente effuse all’aria aperta con un’abbondanza priva di pietà che rivela un segreto compiacimento) e di un fiuto magistrale per tutto ciò che fa sensazione. Per essere quello che è, cioè un’opera di reportage, realizzata con una troupe ridotta al minimo e spesso in situazioni di emergenza, Africa addio è un film di singolari qualità formali, di taglio disinvolto e aggressivo, composto di immagini spesso ricercate, stilisticamente piacevoli. L’uso di grandangolari, già presente in Mondo cane, è qui ancora molto più sviluppato, porta a dare ai vol-
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ti deformazioni sinistre o spettacolari. Un estetismo ricercato dà il tono al documento. Dove Africa addio offre il fianco alla critica è nella sua intonazione di fondo, molto più vicina alle posizioni di un Werwoerd o di un Salazar che a quelle di un Wilson o un De Gaulle. “L’Africa agli africani”, questo slogan divenuto una realtà politica, sembra ripugnare a Jacopetti se i tre quarti del suo film sono dedicati a una descrizione impietosa dei massacri umani, o della decimazione della fauna, avvenuti dopo la conquista della indipendenza. D’accordo sulle stragi dei Watussi e sulle altre, ma cos’è avvenuto in Europa durante la seconda guerra mondiale? E le stragi delle minoranze non sono storia di ieri nell’Europa civilizzata? Per quanto riguarda il massacro della fauna, qualcosa di simile avvenne nei parchi alla fine della guerra da noi. E del resto gli eccidi della fauna sembrano accompagnarsi alla cosiddetta civiltà, dato che in tempi lontani anche in Europa esistevano le fiere. Jacopetti guarda con poca pietà a questa crisi africana di crescenza che probabilmente procurerà altri drammi e che ha la terribilità di tutti i nuovi parti della storia. Il suo film è unilaterale nello scegliere solo gli elementi di choc e nel trascurare di studiare le questioni di fondo della società africana, quali si vanno determinando. È possibile che sia tutto massacri, sangue e confusione? Che non nasca niente di buono dall’emancipazione di un popolo? Ma forse chiediamo troppo a Jacopetti. Il titolo dice la prospettiva precisa del film, che è quella di un rimpianto dei bianchi per la terra che hanno abbandonato. E Jacopetti non vuole neppure essere una storiografo e un cronista sereno, perché in fondo quello che gli preme è portare ulteriormente pietre al suo edificio dedicato alla malvagità dell’uomo; edificio cominciato a costruire con Mondo cane. Dall’Africa ha preso tutto ciò che gli poteva servire a questo scopo e non ha troppo guardato il resto. Il suo destino di regista cinico lo ha portato a simpatizzare e a identificarsi con i mercenari ciombisti che conquistarono Boende: questa accolita di volontari bianchi, una specie di legione straniera tutta fatta di ex, ex parà, ex studenti, ex cacciatori, con il suo coraggio e lo spregiudicato cinismo, ha affascinato Jacopetti che l’ha quasi proposta nel film come un compendio delle virtù dei bianchi. Dunque, una prospettiva più passionale che storica. Con tutto questo (fermo restando il troppo spazio dedicato all’eccidio della
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fauna), un film aggressivo, crudele, girato con maestria in condizioni spesso impossibili, con un senso di scommessa beffarda e di mistificazione cinica. Sergio Frosali, “La Nazione”, 6 Marzo 1966 Le sequenze iniziali del film Africa addio, frutto di tre anni di permanenza sul Continente nero di Jacopetti e Prosperi, con i loro tecnici, non avrebbero bisogno della firma degli autori; se ne riconosce immediatamente lo stile, l’aggressività, l’ormai celebre “cattiveria” anche nelle annotazioni più innocue. […] Tema del film è la trasformazione, quasi fulminea, d’un Continente, che è assetato di civiltà, ma dove ormai esistono due razzismi, due intolleranze, città nelle quali ai negri è ancora interdetto l’accesso e città nelle quali è già proibito di entrare ai bianchi. Le immagini, che spesso sono provocatorie nella loro crudeltà, montate con il consueto nervosismo, testimoniano il talento di Antonio Climati. Ammirevoli in particolare quelle di Johannesburg, delle sue miniere, della borsa, e le panoramiche, riprese dall’elicottero, della foresta e della savana, in colori di indubbia suggestione. In quanto alla ben nota massima secondo cui l’uomo sarebbe l’animale più feroce della terra, il film fa di tutto per dimostrarne la fondatezza. E ci riesce anche troppo bene purtroppo. Vice, “Corriere della Sera”, 19 Febbraio 1966 Forse Jacopetti e Prosperi pensavano di scandalizzare qualcuno: la loro è una fatica inutile, ridicola addirittura nel tentativo spudoratamente infantile di far dell’Africa un gioco delle tavolette da baraccone. Lo fanno con una tale lentezza che non tarderebbe ad accorgersene anche chi vedesse il film a velocità raddoppiata. Anzi non è un film, non è un documentario, è una ripresa “dal vero” di una serie di fatti di cronaca nera africana visti come avvenimenti politici e di avvenimenti politici visti come scandali. Per nascondere la palese deformazione soggettiva procedono all’“italiana”: un colpo alla botte e uno al cerchio. Al cerchio un colpetto, alla botte una mazzata. Virgilio Baccalini, “Avanti!”, 19 Febbraio 1966
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Scaduto il leone ad attrattiva turistica, in “Africa, il solo animale feroce è l’uomo”. Questo è bene un aforisma di Gualtiero Jacopetti, che quand’anche non fosse puntualmente espresso nel “commento” di Africa addio, si potrebbe facilmente dedurre da ogni inquadratura di questo documentario o fantasia documentaria a colori. […] Fondatore del thriller etnico-sociologico, ossia d’un nuovo film a soggetto, avente per oggetto la realtà truccata, Jacopetti con la collaborazione di Franco Prosperi e dell’impavido operatore Antonio Climati, ha esteso il suo terrorismo pessimistico (significato una volta per tutte dal titolo Mondo cane) ai nuovi stati africani còlti nel momento critico del loro trapasso all’indipendenza e all’autogoverno; momento che per l’autore s’identifica con un ritorno agli istinti ferini. Quindi è che l’“addio” è rivolto all’Africa tradizionale degli esploratori e dei colonizzatori, e con una cotal vibrazione patetica (si veda all’inizio, quando gl’inglesi, deposte le bandiere, se ne vanno in punta di piedi da Nairobi, generando un “vuoto” riempito poi da eccessi), che ha potuto esser facilmente accusata di complicità, nostalgia e qualunquismo. […] Riguardato come “spettacolo” (vietato ai minori di 14 anni) Africa addio non smentisce la bravura del regista di Mondo cane e La donna nel mondo, la sua facoltà di portare la macchina da presa all’ultimo e spesso rischioso confine dell’indiscretezza, e ciò facendo, mescolare il vero e l’artefatto in maniera che l’occhio non s’accorge della differenza (se ne accorgerà a posteriori, il buon senso dello spettatore), sì che il film, con tutta la sua carica di violenza e crudeltà, spesso scopertamente gratuite, per rispetto alla fattura è opera calcolata, riposata e figurativamente armoniosa. L’occhio cinematografico di Jacopetti eccettuatone un certo abuso negli effetti di avvicinamento e allontanamento dell’oggetto si esalta nel pericolo (le atroci pagine di Lèopoldville e Stanleyville, con implicazioni personali), e per la decisione del taglio e la forza di presa è eccellente così negli orridi particolari come nelle vedute di insieme, di cui basterà citare la caccia dei bracconieri nella savana e l’esodo dei Watussi. Leo Pestelli, “La Stampa, 18 Marzo 1966 Jacopetti e Prosperi, si sono accostati all’incandescente crogiuolo che è l’Africa attuale. Il loro intento come il titolo è stato quel-
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lo di: documentare, cioè, la realtà che lievita ed esplode in ogni campo ma vista per un verso dimensionata da un fenomeno di vastità, estemporaneità e portata inimmaginabili e, per altro verso, smaltata dalla presaga nostalgia per un intatto mondo primitivo, favoloso, avventuroso che sta scomparendo, l’ultimo e il più suggestivo. […] Costellato di brani di eccezionale drammaticità, di tragici, crudi documenti che fanno vacillare paurosamente il trono del cosiddetto re del Creato, il lungometraggio – montato in modo impeccabile – ha il valore di un’inconsueta testimonianza resa con vigore polemico ma con indubbia autenticità d’intenti. Se si poteva dire qualcosa di anticonformista sull’Africa e sui problemi che la travagliano, questo qualcosa l’han detto Jacopetti e Prosperi, e con loro Antonio Climati il cui talento fotografico appare qui più che mai evidente. “Il Tempo”, 24 Febbraio 1966 Uscendo dalla sala in cui si è visto proiettare questo film inchiesta non si riesce a capire più nulla tanto si è frastornati dal susseguirsi di scene una più terrificante dell’altra, una più incredibile dell’altra; Jacopetti e Prosperi uccidono lo spettatore con le loro incredibili documentazioni fotografiche. […] Non possiamo negare di aver visto un bel film, perché non solo era bello ma era un capolavoro di fotografia, montaggio e sonorizzazione ed aveva anche il pregio di essere un ottimo reportage giornalistico, ma certo non è un film che tutti possono vedere per la durezza e la crudeltà delle immagini, specialmente quelli che come oggi avevano il coraggio di sghignazzare davanti a un tale spettacolo di miseria umana. A.T., “L’Ordine”, 21 Aprile 1966 Impietosissimo, l’obiettivo di Jacopetti e Prosperi vola su queste e altre atrocità, in una sorta di museo degli orrori grande come un intero continente. Faremmo come erroneamente si dice dello struzzo, che nasconderebbe la testa nella sabbia per non vedere? Certamente no; accetteremo invece la lezione di civiltà che può scaturire per contrasto, dalla denuncia di tanta inciviltà. Tanto più che la documentazione è quasi sempre insospettabile; poche scene, e non le più tremende, possono essere state ricostruite con
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volontaria mistificazione. Nella sua sostanza documentaria il film è veritiero; e documenta anche i pericoli a cui devono essere andati incontro i suoi realizzatori. Gil., “Il Gazzettino”, 3 Marzo 1966 […] Ed è anche soprattutto questo che Jacopetti e Prosperi tentano di dirci con il loro straordinario, crudele, atroce, affascinante documentario su un continente che nasce e che muore e rinasce mostrandoci l’Africa di ieri e l’Africa di domani: quella romantica e favolosa che non vedremo mai più, e quella che le svariate immagini del film ci consentono appena di immaginare, con un brivido di sottile inquietudine Il materiale, nel complesso, si può definire eccezionale. Sia che i cineasti appuntino le loro attenzioni sugli avvenimenti della cronaca viva, sui tumultuosi eventi successivi alla dichiarazione di indipendenza nei vari stati africani, moti di piazza, linciaggi massacri, orrende violenze di ogni genere (a esempio l’incredibile strage di musulmani compiuta a Zanzibar), sia che rincorrano con la macchina da presa le immagini di quel che fu una specie di paradiso terrestre destinato a scomparire per sempre, la suggestione è ugualmente fortissima, irresistibile, ammaliatrice. L’operatore Climati, poi, si dimostra autentico maestro del primissimo piano, capace di far parlare le cose, gli oggetti, e di trarre da essi effetti che sono talvolta di una inimmaginabile intensità emotiva. Certo l’insieme è crudo, spesso addirittura orripilante, e non di rado vi si scorge traccia di quel cinismo, di quella vaga inclinazione sadica che sembrano accompagnare le imprese di Jacopetti, sempre, anche le più sincere e sofferte come questa. Ors., “La Notte”, 19 Febbraio 1966 Il discorso è discutibile (con ben altra lucidità Folco Quilici sta affrontando per la televisione il complesso argomento) anche perché si finisce con il fare di ogni erba un fascio, mentre l’Africa, come l’Europa, non sopporta un discorso unico. Del continente nero qui si rimpiange la “riserva” di caccia, il serbatoio di ricchezza, mescolando in una stessa nostalgia e in un solo raccapriccio lo
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sterminio di elefanti e di africani. Curiosamente (e tipicamente) Jacopetti adopera il destino cruento del grande parco zoologico come riferimento visivo e amplificazione degli eccidi umani. Come gli ippopotami, i coccodrilli, le zebre, gli elefanti, caduta la legge di protezione, sono stati macellati, così le popolazioni arabe, e non solo quelle, hanno trovato nella conquista dei diritti politici (l’Africa agli africani) l’origine dell’immane scempio. G.B.C., “L’Avvenire d’Italia”, 2 Marzo 1966 Il meno che si possa dire di questo lungo e filaccioso documentario di Jacopetti, l’autore éclatant di Mondo cane e La donna nel mondo, è che si tratta di un film superficiale, che affronta un fatto grosso e complesso come l’affrancazione [affrancamento] del “continente nero” dal colonialismo, con una disinvoltura sconcertante e l’intento primario di sorprendere, di sconvolgere, di “fare spettacolo” (e, in questo caso, significa speculare, con buona dose di malvagità, sul dolore e sulla morte altrui). Montato con minor scaltrezza dei precedenti lavori di Jacopetti, Africa addio mostra spesso, nella sua narrazione arruffata e ampollosa, la corda di un para-romanticismo d’accatto ammantato in pari dosi, di aulicità e di efferatezza. F.C., “Eco di Bergamo”, 8 Maggio 1966 Africa addio ci offre delle immagini crude, spietate, inesorabili, delle scene d’una violenza inaudita per dimostrarci che 350 milioni di negri sono in crescente fermento, non placati dalla libertà che ad essi è stata concessa, ma resi ancora più feroci da questa idea confusa che hanno del loro destino e pronti a giungere ai più incredibili eccessi per difendere qualcosa che essi stessi non riuscirebbero a definire, ma che è dentro di loro come il marcio di una piaga purulenta. C’è, quindi, da segnalare l’impetuosa vitalità di talune scene, la terrificante violenza di certe altre, e il mestiere eccellente con cui le immagini sono state riprese; ma c’è anche da dire che la cattiveria di Jacopetti non si smentisce e che, questa volta, egli è anche stato più cattivo. Il colore è stupendo, come si richiedeva in un film, in cui, gratta gratta, il sangue fa da protagonista. Vice, “Il Mattino”, 3 Marzo 1966
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La scadenza è ogni due anni: Mondo cane 1962, Mondo cane n. 2, febbraio del ’64; ed ora Africa addio che continua con lo stesso linguaggio della violenza e della cattiveria, il discorso sulle debolezze, i vizi, le crudeltà dell’uomo, presentato come il “più nocivo degli esseri”. Africa addio aggredisce la coscienza dello spettatore, ne provoca la sensibilità fino alla nausea; è un documento inusitato della liquidazione di un’epoca, l’elegia e l’inno funebre, per migliaia di uomini bianchi e neri, lo spaventoso rapporto sull’ecatombe di animali consumata in Africa. Risulteranno, per molti, insopportabili le sequenze più crudeli, con primi e primissimi piani, il teleobiettivo che fruga fra le membra martoriate, lo “zoom” che sbatte sotto gli occhi i particolari più repellenti, il microfono che raccoglie il barrito dell’elefante colpito, l’agonia della gazzella che fugge zampillando sangue, il tam-tam impazzito del cuore del povero ragazzo, o la grandine di piombo dei fucili, dei mitra, delle mitragliatrici; le “vendemmie” degli elefanti e degli ippopotami, nel 1964; gli scontri fra le tribù, con intere popolazioni annientate. Nel groviglio, emergono gli “eroi” di questa stagione africana di piogge di sangue: da Kenyatta a Ciombe. I volti dei “Mau-Mau” si mischiano alle immagini di un decoro frantumato: le belle residenze dei bianchi, dentro le ragnatele del passato, la caccia alla volpe sugli altipiani, la caccia all’uomo, dappertutto, al grido di “huhuru”, che vuol dire libertà. Il film, ideato, scritto e diretto da Jacopetti e Prosperi, fotografia di Antonio Climati, ha richiesto tre anni di lavoro. Il materiale montato, a volte, purtroppo con ambiguità, artificio e parzialità, dura più di due ore. Della drammatica “rivolta del grosso bambino nero contro la balia bianca”, si ignorano, per forza, degli aspetti. Nella scelta, la quantità (di sangue, o violenza, o morte) si sarebbe potuta contenere. Un’operazione stilistica, affidata all’intensità, e all’emblematicità: che, solitamente, riescono a lavorare più a fondo nel cuore dell’uomo. Alberico Sala, “Corriere d’Informazione”, 19 Febbraio 1966 Jacopetti, malgrado le calorose affermazioni che Mondo cane è un’altra cosa, proprio i moduli di Mondo cane ha riadoperato; ha scelto cioè la via del documentario-spettacolo, sacrificando il sale stimolante dell’imprevisto, l’asprezza ma anche la verità delle immagini per un discorso tecnicamente compiuto e conclu-
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so, piuttosto gonfio e barocco, con i suoi bravi effetti speciali, i suoi colori, le sue zummate (e quante ce ne sono, fino all’abuso!), i suoi intuibili e pazienti appostamenti. E dopo i moduli estetici di Mondo cane anche quelli ideologici; la costante ricerca del goffo, del macabro, del male, l’insistenza continua sugli istinti di distruzione dell’uomo, a sostegno della tesi che egli, pur avendo il cervello, è più animale degli animali. E così, essendo il tema circoscritto all’Africa e non zigzagante tra meridiani e paralleli come in Mondo cane, e la sua dimostrazione ambigua, ecco che si arriva al predominio dell’alta macelleria, a un’antologia della morte che da un certo momento, data la mole massiccia dei suoi ritornelli perde molto della intenzionale efficacia e non commuove, non impietosisce quasi mai. M.A., “Il Piccolo”, 26 Febbraio 1966 Africa addio è uno di quei film di cui non si può tacere, perché obbliga a reagire, a difendersi, provoca scandalo o irritazione, per le ragioni più diverse magari, ma sempre ragioni dalle quali non ci si può staccare e che non permettono neanche un discorso a freddo di tipo meramente tecnico od estetico. Qualcuno ha definito Jacopetti e Prosperi i “cronisti delle fogne del mondo”. Può anche essere vero, ma visto che di queste fogne si parla, i casi sono due: o si tappano le orecchie (in questo caso si chiudono gli occhi) oppure, prese le debite precauzioni, si deve cercare di capire dove finisce il canale, per scoprire l’idraulico che lo ha congegnato. Perché è chiaro che si tratta di un progetto ben definito; cominciamo infatti col dire che questo film non è documentario. È difficilissimo sostenere questa tesi, perché le immagini sono vere; ma è molto pericoloso confondere le immagini con il contenuto, dato che il cinema non è solo linguaggio di immagini, ma di immagini in movimento, di immagini montate in funzione di una idea. Se l’idea è quella di studiare la realtà e di tradurla in immagini si ha il documentario; ma se l’idea è quella di cercare nella realtà gli aspetti utili a sostenere una propria interpretazione della stessa realtà, allora non si ha più un documentario, ma un film a soggetto, realizzato con immagini prese dal vero anziché dalla finzione scenica.
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Un film come Africa addio può essere scritto in Italia e girato in Africa, ma dopo, quando il testo è già pronto; basta mettere nella colonna delle immagini, nella sceneggiatura, per esempio: scena di un bianco che uccide un negro, oppure: scene raccapriccianti di negri contro i bianchi o gli arabi. Poi le immagini si trovano. A duro prezzo, si capisce; a rischio della vita magari e con l’impiego di mezzi e di abilità eccezionali. Così Jacopetti e Prosperi, per essere sicuri di avere tutto il necessario, hanno rischiato la vita, hanno girato centosettantamila metri di pellicola e hanno montato il loro film di tremila metri. Il risultato? Un lavoro tecnicamente quasi perfetto, sostenuto da una fotografia di Antonio Climati di livello molto notevole, un mestiere giornalistico consumato, di evidente esperienza, un potere d’urto selvaggio come le immagini che lo producono. Detto questo però aggiungiamo subito che il film merita la quasi totale disapprovazione da un punto di vista di giudizio storico e morale. Quel quasi limitativo significa che forse un merito il film lo può rivendicare, ed è quello di proporre al mondo il problema africano, anche se in termini sbagliati. Forse non c’è nessuno tra gli spettatori di questo film in Italia che sappia con certezza ciò che avviene in Africa; ma il fatto che il mondo sappia che in Africa avvengono anche cose viste nel film è già importante, se serve a risvegliare il senso di solidarietà degli uomini verso gli altri uomini, verso quelli che soffrono la fame, l’ingiustizia, la violenza il sopruso, chiunque essi siano. Basta però che tutto questo non serva invece a speculazioni di tipo politico o razziale. La storia contemporanea dell’Africa, secondo il film di Jacopetti e Prosperi, si potrebbe riassumere in questi fatti: i bianchi colonizzatori hanno abbandonato l’Africa come una balia abbandona il bambino quando non è ancora svezzato. I negri hanno voluto fare i grandi e hanno giocato alla politica e alla guerra e il gioco è diventato feroce con tutti e contro tutti: bianchi, Arabi, Watussi: perfino contro gli africani bianchi. Ora la situazione in Africa è la seguente: non ci sono più i bianchi buoni, quelli che avrebbero garantito l’ordine con le loro leggi; sono rimasti solo pochi capisaldi di civiltà bianca qua e là (ma deve essere difesa con le armi purtroppo e, naturalmente, solo dopo aver fatto la Comunione) ma specialmente in Sud-Africa, sono rimasti quei pochi bianchi cattivi (succede anche nelle migliori famiglie)
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e tutti i negri che tagliano le mani alla gente, mangiano il fegato ai morti, saccheggiano i vinti anche dopo le ventiquattro ore in cui si fa il saccheggio legale, squartano i poveri animali, rovinano le aiuole. Certo anche i bianchi qualche volta fanno queste cose, ma, cattivelli, sono i mercenari a farle, oppure anche i soldati, ma quando vi sono proprio costretti. Poi ci sono anche i Missionari, Sacerdoti e Suore, che non parteggiano per nessuno, però abbracciano i mercenari dopo la strage. Forse nella loro vita avranno anche fatto qualche altra cosa più bella e importante; però serviva farli vedere lì, commossi fino alle lacrime, subito dopo la strage. Invece i negri sono tutti cattivi, anche quelli che combattono dalla parte dei bianchi, perfino quelli civilizzati, le loro donne che sanno fare i balli selvaggi a un tanto all’ora, ma poi si rivestono e partono in coupée e quelli del SudAfrica che, moltiplicandosi in proporzione di cinque a uno rispetto agli africani bianchi, mettono in pericolo la stabilità delle loro miniere e delle loro borse. Un discorso così ottuso è come la manna per i teorici della lotta di classe estesa alle razze; è un razzismo vecchio e tragico che non può che non provocare il nuovo razzismo alla rovescia. Perfino la preghiera è utile al discorso; quella patetica preghiera finale dei poveri africani bianchi, disarmati e indifesi come un branco di pinguini sperduti tra due oceani. Sarebbe stato interessante sentire la preghiera degli africani neri; ma nel film non c’era. Queste nostre considerazioni non vogliono avere nulla in comune con le critiche in malafede di certe parti politiche; vogliono semplicemente esprimere il disgusto per la fondamentale disonestà di un film che si presenta con il coraggio della verità e invece non è che una parziale interpretazione di una realtà immensamente più complessa e difficile e anche diversa nelle sue componenti tragiche. E già questa considerazione ci porta a un giudizio morale negativo. Ancora negativo e severo si fa il giudizio morale se si pensa al rapporto che si stabilisce tra il pubblico e il film in forza di quelle immagini, non solo tragiche, ma sadiche e compiaciute fino al disgusto; tanto più se si pensa che le immagini sono vere. È facile rispondere che il paludamento della verità non appartiene al coraggio anticonformista; ma si può seriamente giusti-
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ficare la visione delle scene di Jacopetti e Prosperi per milioni di persone? E, domanda ancora più grave, si può, con lo scopo di riprendere e diffondere una cosiddetta verità, giocare con cavalletto e macchina da presa a un metro dagli occhi di un uomo durante il suo massacro? È vero che si può rispondere che il massacro lo fanno gli altri e non l’operatore o il regista; ma c’è un modo di guardare alle tragedie che per il fatto di essere freddo e impietoso diventa immorale. Dobbiamo concludere allora che, se il problema sollevato dal film deve necessariamente essere affrontato dal mondo e da ogni uomo, per la parte di responsabilità che ognuno vi porta, il film deve essere sconsigliato a tutti per l’ambigua parzialità della tesi e per la profonda immoralità di molte scene. Claudio Sorgi, “L’Osservatore Romano”, 23 Febbraio 1966 Cerchiamo di dimenticare le polemiche sorte durante la lavorazione del film; cerchiamo di dimenticare le gravi accuse di crudeltà e di cinismo “professionale” da cui gli autori, Jacopetti e Prosperi, sono stati d’altronde prosciolti ufficialmente. Teniamoci soltanto al risultato delle loro fatiche: giudichiamo Africa addio. Diciamo subito che questo lungo (due ore e venti di proiezione) ma serrato cinemascope a colori, realizzato nel Continente Nero – lungo l’arco di quasi tre anni – da uomini dotati di un’ autentica passione per la testimonianza d’attualità e di un indubbio coraggio personale, ha in sé una tale carica di emotività e d’interesse, da non deludere certo le attese. Lo consideriamo, anzi, nettamente superiore ai precedenti reportages di Gualtiero Jacopetti. Qui troviamo infatti una compattezza di racconto, che le antologie di Mondo cane non avevano; qui la violenza del documento, lo choc che le immagini colte sul vivo di una cruda e drammatica realtà producono sull’animo dello spettatore hanno quasi sempre una giustificazione, si sottraggono quasi sempre (insistiamo tuttavia sul quasi) alle tentazioni di quel sensazionalismo fine a se stesso, che pareva divenuto purtroppo la regola di questo giornalismo cinematografico. D.Z., “Il Resto del Carlino”, 3 Marzo 1966
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Jacopetti non ha idee politiche, non fa l’albionico per passione, non spezza lance in favore dei colonizzatori, forse non è della loro pasta, Jacopetti è anarchico, pessimista, incattivito. […] Le pagine del film, singolarmente, non sono menzognere, lo è la struttura, lo è l’ispirazione, pregiudiziale, precisa che corre come un rivolo tematico in cui tutto deve confluire, ad ogni costo, ogni pagina, ogni sequenza, costruite tutte con abilità, con apparenza di spontanea autenticità, come pagine colte dal vivo, come una realtà contemplata nel suo fieri, anche se in vitro, con una suggestione paurosa che ha la stessa violenza reattiva della carica spettacolare e sadica, di cui ormai Jacopetti è maestro. Africa addio è l’ultima eco di un Mondo cane che non conosce frontiere. “Giornale di Brescia”, 30 Aprile 1966 Dopo tanti film di maniera sull’Africa, confezionati a volte con sincerità, altre volte con intenti affaristici, ma quasi sempre con volontà di deformazione, arriva sui nostri schermi un film vivo, Africa addio. Un film vivo, e sebbene sia in realtà una sagra della morte, ma appunto per questo capace di illuminare, con coraggio quasi irritante, il dramma che si sta svolgendo nell’Africa attuale, e non solo questo: Africa addio finisce per essere un documento, magari discutibile ma sincero, della malvagità umana. […] Il merito maggiore del film, che rende marginali le discussioni sul terreno politico, risiede nei suoi valori cinematografici. Il sapiente montaggio conferisce alle immagini un ritmo incalzante, molte scene sono di grande bellezza, per non parlare poi delle qualità giornalistiche: “pezzi” come la rivolta di Dar es Salaamn, nella quale lo stesso Jacopetti rischiò la fucilazione, o come la battaglia di Boende con l’esecuzione dei mulelisti da parte dei mercenari, sono di valore eccezionale. [...] L’operatore Climati ha compiuto un lavoro egregio: alcune sequenze, come quella della bestiola salvata e trasportata in salvo dall’elicottero, danno un’emozione lirica. Lo stesso desiderio di dare all’immagine un significato politico, cioè di fare del cinema nel senso più alto della parola, si trova ad esempio nella lunga marcia dei discendenti dei boeri. Queste immagini preziose, alternate a quelle più realistiche, contribuiscono a darci un volto dell’Africa non convenzionale. Jacopetti ha spartito la sua fatica
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con Franco Prosperi, un giovane biologo assistente all’Università di Roma che già al tempo di Mondo cane abbandonò la scienza per il cinema. L’équipe comprendeva altre due persone, l’operatore Antonio Climati e l’organizzatore Stanis Nievo, pronipote dello scrittore. In qualche momento alla troupe si è aggiunto Riz Ortolani, autore delle musiche suggestive, che qui raggiungono veramente la funzione di commento. Jacopetti e i suoi sono rimasti in Africa tre anni, girando centosessantamila metri di pellicola.[...] Il film è venuto a costare circa trecento milioni, ma si tratta indubbiamente di un film da vedere, magari per discuterne. In questi giorni sono stati apportati alcuni tagli alle uccisioni degli animali, ciò ci sembra una decisione saggia: oltre a rendere il film meno lungo e le scene meno ripetute, i tagli servono a eliminare quel sospetto di compiacimento del sanguinoso che in qualche momento si provava. Domenico Campana, “Gente”, 9 Marzo 1966 La ripresa, affidata al valente giovane Antonio Climati, si avvale dei mezzi tecnici più moderni, con uso abbondante del trasfocatore e del teleobiettivo che permettono un’introspezione a grande distanza, potendo cioè vedere senz’esser visti, per cogliere i momenti più genuini ed originali dei fatti. Per contro, nelle riprese incalzanti di eventi che si svolgono a due passi dall’operatore, la resa figurativa è spesso aberrata con l’uso di grandissimi angolari per accrescerne il clima drammatico. Le tecniche del film-inchiesta e del cinema-verità usate da Jacopetti e Prosperi in questo film son portate all’applicazione più compiuta ed intelligente ed anche se qualcosa, molto o poco non sappiamo, sia stato costruito o ricostruito, non ce ne avvediamo. Elio Finestauri, “Giornale dello Spettacolo”, 19 Marzo 1966 Africa addio racconta gli ultimi tre anni della vita africana. Onestamente riteniamo di non avere mai visto sullo schermo una storia di cinema così sconvolgente. E difficilmente ne vedremo mai più: tutta l’immensa tragedia di questo continente che ci sfugge dinnanzi, l’Africa antica, misteriosa, solenne, che si trasforma in una sterminata, sanguinosa, cupa, landa; l’Africa
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nella quale noi non riusciremo a rientrare mai più. Questa nostalgia, questa enorme catarsi umana, questa vendetta della storia, questa vigliaccheria di noi uomini bianchi, questo immane bluff delle libertà distribuite per interesse politico e non per coscienza umana: quella strage di elefanti dolorosa ed epica come una battaglia, quelle folle di donne, bambini, vecchi che fuggono urlando e cadono, muoiono tutte, tutta una pianura grande come la piana di Catania resta gremita di cadaveri.[...] Girato con una intelligenza amara e triste con un coraggio fisico che fa onore, con una abilità tecnica addirittura mostruosa, Africa addio resta un esempio altissimo delle possibilità infinite del cinema che può diventare anche un disperato documento della storia e della condizione umana. Giuseppe Fava, “Espresso Sera”, 26 Febbraio 1966 Gualtiero Jacopetti e Franco Prosperi hanno una delle qualità fondamentali del grande giornalista: sono sempre puntuali all’appuntamento con i fatti, e pronti a riprenderli con la macchina da presa. Questa volta l’appuntamento era con l’Africa inquieta e insanguinata di questi ultimi anni, con le lotte intestine e le stragi, con i mercenari e i nazionalisti africani, con i continui rivolgimenti e i bagni di sangue che hanno inorridito il mondo. Il loro limite di giornalisti sta nell’incapacità di inserire quei fatti in un contesto storico e psicologico che non sia uno schema superficiale e nostalgico, e in buona parte falso. Secondo questo schema l’Africa, paese beato ai tempi del colonialismo bianco, è diventato un inferno appena i bianchi hanno ceduto il potere agli uomini di colore. I quali sono poveri, stupidi e incivili, e quindi incapaci e anzi indegni, di governare qualsiasi paese, compreso il loro ovviamente. Ora è vero che ogni persona civile è stata sconvolta dall’orrore per le inumane stragi compiute dagli africani, siano queste quelle dei Vatussi, o degli arabi a Zanzibar, o delle eroiche e generose missioni cattoliche nel Congo, ma è pur vero che quelle stragi hanno origini recenti sì ma anche lontane: e affondano le loro insanguinate radici in secoli di oppressione e sfruttamento. Esprimiamo dunque tutto il nostro raccapriccio e la nostra indignazione: è più che giusto, ma chiediamoci al tempo stesso se una diversa politica avrebbe potuto dare reazioni diverse.
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Questo è un problema che Jacopetti e Prosperi non si pongono. Per loro l’Africa non è un continente che faticosamente, fra sussulti e disordini, fra incertezze e violenze deve prendere il suo posto fra le nazioni civili. È un continente perduto, cui si dice addio, e del quale oggi meritano di sopravvivere solo, come lascia intendere il film, le colonie portoghesi e le nazioni dell’apartheid (e dei campi di concentramento). Né ci sentiremmo di far colpa agli africani di uccidere ippopotami ed elefanti, se quelle popolazioni hanno fame, né di seminar grano dove prima si coltivavano tulipani. Ammiriamo dunque l’intuito giornalistico e la bravura tecnica di Jacopetti e Prosperi. Respingiamo, con estrema fermezza, le tesi che quelle immagini vogliono contrabbandare. Paolo Valmarana, “Il Popolo”, 24 Febbraio 1966
MAL DAFRICA (1967) Regia: Stanis(lao) Nievo Fotografia: Antonio Climati Musica: Riz Ortolani Montaggio: Francesco Attenni Suono: Aldo Ciorba, Fausto Ancillai Produzione: Rizzoli Film Distribuzione: Cineriz durata: 90’ censura: 50044 del 12-10-1967 Tra i molti peccati cinematografici, gli italiani, secondo certi critici stranieri, avrebbero commesso anche quello di piegare il documentario a fini spettacolari, giustificati da un’ideologia qualunquistica. Se è certo che molti dei documentari che abbiamo visto in questi anni si discostano senza remissione dalla lezione di un Flaherty, è altrettanto certo che il nuovo corso iniziato da Gian Gaspare Napolitano con il suggestivo Magia verde non ha avuto che rampolli troppo diversi dal modello originale. L’eresia rispetto agli archetipi attuata da Jacopetti ha ottenuto successo di cassetta e rimproveri dalla critica più responsabile. Mal D’Africa si pone a mezza strada; sembra piuttosto neutrale, una sorta di risultato
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da “scuola dello sguardo”, e blandamente moralista.[...] Lo aveva previsto Baudelaire circa cento anni or sono: “l’industria, facendo irruzione nell’arte, ne diventa la più mortale nemica”. Baudelaire alludeva alla fotografia, di cui il cinematografo è l’erede. Vice, “Il Giorno”, 25 Gennaio 1968 Non è il Mal d’Africa di tipo fascista, ma la malattia politicosocial-culturale che il Continente Nero sta attraversando per trovare finalmente una sua dimensione politica e morale dopo aver ottenuto la libertà e conosciuta la democrazia. Stanis Nievo su questo motivo ha pertanto creato un documentario che tenta di enucleare ed illustrare le grandi contraddizioni dell’odierna Africa ex-coloniale, mediante una serie di visioni, alcune piuttosto inedite ma nel complesso abbastanza ovvie, che passando dalle rivolte alle guerre, dai parchi nazionali all’estrazione del petrolio, dal razzismo alla stregoneria, dai diamanti alle fucilazioni e ai saccheggi offra allo spettatore un panorama attendibile di eventi, di uomini e di cose. Il fatto è che l’operazione è riuscita soltanto a metà, nel senso che non sempre il commento è giustificato dalle immagini e che molto spesso si danno certi effetti particolari, facendo risalire tutto a cause molto generali e vaghe, talvolta anche confusamente espresse. D’altronde, a meno di non voler fare un Africa addio, cioè un falso clamoroso, fornire l’aspetto di un intero continente in movimento in un paio d’ore di proiezione è impresa disperata e ingenua allo stesso tempo. Con questo non vogliamo dire che il film non abbia un suo interesse e una sua serietà, nonostante certi atteggiamenti un po’ equivoci, ma rilevare soltanto che “Africa” è un nome troppo generico e grande per poter essere spiegato in breve, senza che si generino confusione ed approssimazione. Da un punto di vista strettamente formale il documentario non è privo di meriti: il ritmo è buono, la retorica cartolinesca è quasi assente, l’impeto polemico è misurato, non indugia sul macabro né comunque sull’abnorme. Forse qua e là i movimenti di macchina sono un po’ eccessivi e l’uso delle dissolvenze e del teleobiettivo non sempre appropriato, cosicché il film rischia di stancare un po’, dal punto di vista prettamente “visivo”, lo spettatore non molto abituato ad una certa forma di linguaggio cinematografico. Vice, “Avvenire d’Italia”, 14 Settembre 1967
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Per ora è un continente che cerca disperatamente se stesso e il film diretto da Stanis Nievo vuole darcene una rappresentazione fedele. Ci sono sequenze assai belle come l’esplodere della musica nel cuore di ogni negro. È vero che se un flauto suona a Zanzibar tutta l’Africa balla fino ai grandi laghi. Il continente nero esplode letteralmente nella musica. E il negro nasce, vive e muore nella musica. Nella musica piange e ride, a suon di musica esce dalla giungla e va in trincea e muore ammazzato. Sia Nigeria, Ghana, o Kenya le guerriglie e i colpi di Stato non si contano tanto il ritmo è vertiginoso. Basterebbe forse prendere Ciombè come termometro dei mali d’Africa. O Kenyatta, forse il personaggio africano oggi più popolare. È il Garibaldi dell’est africano. Alza il dito lui e tutti gli vanno dietro. Interessanti anche le scene di caccia, né mancano le sequenze raccapriccianti di Africa addio. Ma nel complesso il film è disorganico e, per troppo voler dire, non approfondisce niente. Ma questo non era neppure nelle intenzioni. La bella e funzionale (per quanto ormai usatissima in questo genere) musica di Riz Ortolani accompagna senza interruzione il film che si giova di un corretto commento e di magnifici colori. Il film è vietato ai minori. Vice, “Italia”, 25 Gennaio 1968 Questo documentario lungometraggio è di un debuttante, Stanis Nievo, già piuttosto scaltrito in fatto di tecniche di ripresa e di montaggio, anche se non troppo sicuro e non troppo lucido nella scelta delle sue posizioni morali. Fare un documentario sull’Africa d’oggi ci sembra debba esigere appunto, soprattutto, più purezza di atteggiamenti che scaltrezza di cineasti. Ora, sulle orme di Jacopetti (quello dei vari “mondi cane”, veramente, più che quello di Africa addio), il giovane Nievo è più attento agli aspetti macroscopicamente scandalistici del Continente Nero che all’illustrazione pacata, serena e spoglia di retorica dei suoi problemi. Intendiamoci: se c’è un problema complesso, questo è proprio quello dell’Africa, punta di diamante del Terzo Mondo, per cui è assurdo pretendere da un film la definizione delle ragioni e dei torti: si vorrebbe solo che i problemi africani fossero esposti con ordine e con serenità, non sommersi come sono qui negli effetti e nei compiacimenti.[...] Pensavamo che il
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vezzo jacopettiano degli spunti impressionistici, delle frenetiche virtuosità dei teleobiettivi e delle “zoomate”, dei collegamenti tenuti insieme dalle battute di spirito fosse esaurito. Invece ha fatto nuovi proseliti. “Giornale di Bergamo”, 10 Febbraio 1968 Occhiate sul Continente nero, dietro la macchina da presa che fu già di Gualtiero Jacopetti, a documentare di sfuggita le contraddizioni, i sussulti, gli isterismi, il sangue, le lacrime, le nostalgie, le speranze, l’insidia della barbarie e gli allettamenti della civiltà di massa che travagliano la difficile adolescenza dell’Africa. Ma Stanis Nievo, ex aiuto di Jacopetti, ha meno spiccato e prepotente il gusto sensazionalistico, e più vivo l’interesse cronistico. Si vede, cioè, che Nievo fissa nel suo ricco e molto mosso documentario le immagini del presente (e qualcuna del recente passato) pensando però al futuro, e riflettendo con pacato senso di responsabilità sull’immane carico di dolore, sacrificio, fatica, che accompagna quasi, ora per ora, la nascita di una nazione. Senza ombra di retorica, senza ambiguità né sospetti di razzismo; sopratutto quel fastidioso atteggiamento fra lo scettico e il paternalistico che in genere rende sospetti questi pretesi documenti cinematografici d’impronta social-esotica. Mal d’Africa ci è parso, al contrario, nonostante i vincoli che le esigenze dello spettacolo impongono, un lodevole e onesto tentativo di cercare fra le sparse ceneri del recente, tumultuoso passato dell’Africa e i troppi cocci del suo incerto presente, qualche indicazione riguardo al futuro, non immediato, di un continente che si può definire appena adolescente se non più bambino. E di prevedere le linee maestre di quella società in formazione e il suo assetto di domani, allorché il Continente nero sarà finalmente uscito dalla febbre che lo sta divorando. Il risultato della indagine di Stanis Nievo è, in fondo ottimistico. Ciò che più nuoce all’Africa, ammonisce l’autore del documentario, è la memoria degli uomini, il ricordo degli anni di asservimento colonialistico durante i quali i bianchi non colonizzarono il paese nel senso migliore della parola, educando i negri e migliorando il loro livello in senso generale, ma si limitarono a sfruttarne le risorse in modo indiscriminato.
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Ogni speranza di pace e di un ordinato sviluppo sociale ed economico è quindi fondata sulla probabilità di integrazione razziale nei prossimi 50 anni. I bambini di oggi, bianchi e neri, non hanno ricordi, non hanno memoria, non sono ottenebrati da pregiudizi. È da essi che sorgerà forse la nuova Africa, sfinita da decenni di febbre, di dolore di odio, di sacrificio; ma libera e purificata, finalmente, dall’antico odio che ne ha avvelenato l’esistenza. Questo di Nievo non è dunque un addio all’Africa, ma un arrivederci sorretto dalla sottile speranza di un domani migliore. Bellissime le immagini – una parte però è materiale di recupero, ricavata dall’ultimo viaggio africano di Jacopetti di cui Nievo ne era l’aiuto e Climati il bravo operatore – e molto efficace il montaggio che è serrato, tambureggiante, tesissimo e non concede allo spettatore un momento di respiro. Ciò, nonostante che gran parte del materiale stesso sia già stato visto in precedenti, analoghi lavori. Vice, “La Notte”, 25 Gennaio 1968 Il successo di Africa addio di Jacopetti si giovò, a parte il piccolo “scandalo” di Taormina, della diffusa disposizione a considerare la “rivoluzione africana in una luce negativa”.[…] Era logico aspettarsi un Africa addio numero due, sia pure con le debite cautele, e invece Jacopetti ha preferito restarsene zitto, lasciando che a occuparsi della cosa fosse l’amico e antico collaboratore Stanis Nievo che, utilizzando una minima parte del materiale girato all’epoca della spedizione Jacopetti e lavorando attorno a pellicole più recenti, realizzate in maniera autonoma, ci dà adesso Mal d’Africa.[...] La frattura ideologica è sopratutto nel montaggio e nel commento parlato che s’industriano di offrirci il volto di una realtà inquietante, ma modificabile, anzi decisamente evolventesi in senso positivo. Grosso modo Nievo fa questo discorso: l’Africa è ancora in buona misura un bubbone, ma il tempo lavora per la sua guarigione. Vice, “Il Resto del Carlino”, 12 Novembre 1967 Mal d’Africa riapre la parentesi cinematografica sul continente nero chiusa indegnamente ma spettacolarmente da Africa addio riproponendo ad un livello, diciamo così, ideologico il discorso sull’Africa che cambia.
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Si ricorderà che Jacopetti nell’opera citata aveva colto e descritto, in un’ottica deformata e deformante, il delicato e tumultuoso passaggio delle nazioni negre dalla dominazione coloniale all’indipendenza come una fase sanguinosa e regressiva causata dalla fretta degli europei di abbandonare la polveriera africana e dalla connaturata sete di violenza dei “selvaggi-cannibali” del continente. Questo Mal d’Africa, pur portando il marchio di fabbrica (Rizzoli) uguale a quello usato da Jacopetti, è certamente più sfumato, quanto a razzismo e incomprensione, di Africa addio e ha, qua e là, lodevoli spunti d’apertura, anche se tutto il discorso si impernia su un sociologismo di terza mano e su un materiale visivo intercambiabile e non tipico. P.P., “Avanti!”, 25 Gennaio 1968 Mal d’Africa è il fratello minore di Africa addio. Scantona dalla violenza a piene mani e dalla ricerca sensazionalistica del film di Jacopetti, ammanta il suo dire (e il suo mostrare) di una qual certa “imparzialità” (comprensione per Lumumba ma anche per Ciombè), ma i negri rimangono “ribelli” e incerto e precario il loro futuro senza l’apporto illuminato e determinante dell’uomo bianco. D’altronde il regista Stanis Nievo è stato aiuto di Jacopetti (sfrutta anzi qui una certa parte del materiale girato in Africa dal “maestro”) e troppo forte era la tentazione di ripresentare il Continente nero in quei toni esotici, romantici e crepuscolari (evitando stavolta i brividi) a quel pubblico che decretò il successo dell’ingannevole ma seducente “documentario” di Jacopetti. F.C., “Eco di Bergamo”, 18 Febbraio 1968 Il regista di questo film è un giovane all’esordio: Stanis Nievo, friulano. Mal d’Africa non segue le orme di Africa addio; e occorre dire subito che la strada infilata dal giovane Nievo è meritevole di essere seguita. Non si specula sulle ben note tare del Continente nero; non si fa spettacolo con le immancabili brutture; non si banchetta sul cannibalismo dei “poveri” negri. Il materiale è quello che sappiamo, gli appunti non possono evitare i “luoghi deputati” di una lunga e minuziosa osservazione. Ma il resoconto visivo di questo film –
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senza scartare ciò che Jacopetti ha sbandierato – è sorretto da una obiettività che spesso rinuncia allo spettacolo a favore della serietà cronistica e anche storica. “Il Cittadino”, 17 Novembre 1967 Jacopetti ha fatto scuola. Questa volta è Stanis Nievo a tentare la sua strada. Ma per ricavare da un documentario uno spettacolo che t’inchiodi sulla seggiola, ci vogliono il coraggio, la spregiudicatezza, il cinismo, la genialità di Jacopetti. Costui è un autore che si può discutere, portare alle stelle o distruggere, ma anche i suoi nemici non potranno disconoscere che ha intelligenza da vendere. Questo Mal d’Africa è attento, rigoroso, sorvegliato, alcune pagine non mancano d’una loro estrosa ispirazione, ma difficilmente vi si cercherebbe l’unghiata del leone che risolva. La corsa attraverso il Mal d’Africa comincia nel Mediterraneo, prosegue verso l’Africa Nera, e di qui verso il Congo, il fiume Zambesi, dove oggi finisce l’Africa Nera e comincia l’Africa bianca. È un lungo e faticoso viaggio, del quale, comunque, dobbiamo dare atto ai realizzatori del film, i quali si sono studiati di seguire qualcosa di nuovo in un continente che, ormai, non ha quasi più nulla di inedito. Mal d’Africa è ben fotografato, arricchito da colori gradevoli e musiche suggestive di Riz Ortolani. Vice, “Il Mattino”, 9 Dicembre 1967 Ci si chiede, dopo aver visto Mal d’Africa, se Stanis Nievo (che fu collaboratore di Gualtiero Jacopetti nella realizzazione di Africa addio) abbia tentato di riscattarsi moralmente o se, piuttosto, non si sia limitato a riproporre un tema scabroso per pura speculazione commerciale. Diciamo subito che in un caso o nell’altro, Nievo ha commesso parecchi errori, primo fra tutti quello di creare una sconcertante contraddizione fra immagini e commento: le une (in parte scampoli di Africa addio) chiaramente razziste, l’altro pieno di comprensione e d’incoraggiamento per la gente africana “che cammina faticosamente verso la luce”.[...] La costruzione del film è documentaristica, con momenti di intensa drammaticità e squarci lirici (la cavalcata notturna sulla spiaggia deserta, le vele che fuggono verso un’immaginaria meta di felicità, il battesimo nella
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palude), ma è spesso frettolosa e si sofferma inutilmente su particolari orripilanti con la costante morbosità tanto cara a Gualtiero Jacopetti. Fra gli elementi positivi del film, vanno inserite l’ottima fotografia di Antonio Climati (faceva anch’egli parte della troupe di Africa addio) e la colonna sonora di Riz Ortolani. Vice, “Gazzetta del Popolo”, 14 Novembre 1967 Mal d’Africa. […] Piace, nel documentario per grande schermo a colori diretto da un giovane regista esordiente, il friulano Stanis Nievo, l’impostazione ideologica, che è ben diversa da quella unilaterale e retriva di Africa addio: qui le tante piaghe (ma non quelle soltanto) del Continente Nero, posto come oggi si trova tra il vecchio e il nuovo, sono scrutate con uno spirito di imparzialità che se mai si colora di simpatia per una secolare progenia di oppressi. Sul piano stilistico, invece, il film di Nievo risente di qualche seduzione di tipo jacopettiano, che non sostenuta da uguale destrezza nuoce all’ordine e alla chiarezza dell’esposizione. Vice, “La Stampa”, 4 Novembre 1967 Alcune inquadrature sono suggestive nella loro spoglia drammaticità, in primo luogo quelle dell’esodo sulle primitive barche a vela e quelle del battello fluviale col suo carico di soldati. Mal d’Africa non raggiunge la densità e l’abilità del suo modello, ma nel complesso è un documentario di dignitosa fattura.
Vice, “Corriere della Sera”, 25 Gennaio 1968 Intervista a Consuelo Nievo Lei ha seguito suo marito, Stanislao Nievo, nella lavorazione di tutti i film di Jacopetti da Mondo cane a Africa addio? Sì, ho seguito Stanislao in tutti i film. Nievo come venne coinvolto nell’organizzazione di Mondo cane? Lui era amico di Fabrizio Palombelli che, mi sembra di ricordare, lo presentò a Jacopetti e Stanislao fu preso come organizzatore delle riprese. Lui di solito partiva prima. Io lo seguivo e andavamo
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in quei posti molto prima di tutti e lì scovavamo le cose più interessanti che poi Jacopetti e gli altri avrebbero girato. Qual era la figura di riferimento che Nievo aveva all’interno del gruppo di lavoro di Jacopetti? Mio marito era amico, fin dai tempi della scuola, con Franco Prosperi; più tardi siamo diventati amici anche di Jacopetti. Dai diari di Paolo Cavara, per quello che è stato trascritto, emerge un legame molto stretto con Nievo per quanto riguarda la fase organizzativa, ed anche per l’aspetto burocratico. Qual era il rapporto con Paolo Cavara? Che ricordo ne ha? Molto amichevole. Eravamo molto uniti. Lo era specialmente con Stanislao Quali erano i rapporti tra Nievo e Gualtiero Jacopetti? Come si sono evoluti nel tempo? Sono stati sempre buoni. Cosa voleva dire allora organizzare film come Mondo cane e La donna nel mondo? Ecco, bisognava trovare cose strane e allo stesso tempo molto interessanti e quindi bisognava andare in giro e molto; dopo, Jacopetti e Prosperi magari le modificavano, del tutto o in parte, ma Jacopetti aveva anche delle idee naturalmente sue, già sapeva cosa andavamo a cercare, però molte volte Stanislao trovava delle cose nuove. Quali erano le difficoltà maggiori che si incontravano nel cercare quei luoghi, le notizie, quelle lontane realtà? Adesso non saprei dirle, ma soprattutto il girarle era la cosa più difficile da risolvere. Trovarle, segnalarle, ma poi girarle non erano cose tanto simpatiche, tanto legali; c’era però forse qualcuno che non voleva essere coinvolto. Quindi c’erano delle difficoltà? Qualche volta. Anche nella richiesta dei permessi?
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Sì, senz’altro sì. Come venne a Stanislao l’idea di realizzare Mal d’Africa e quanto l’influenza di un film come Africa addio fu determinante per la realizzazione di questo film? Jacopetti e Prosperi gli diedero del materiale che era rimasto da Africa addio; poi lui girò altre scene per conto suo, cercando di dare al film un tono diverso da Africa addio, un tono meno aspro, meno duro. Stanislao condivideva l’approccio di Jacopetti e Prosperi? No, non sempre. Ma interveniva nel merito? C’erano delle discussioni tra loro? Mah! Di questo ora non ricordo. No, forse discutevano, ma non mi sembra poi tanto. Come dicevo non mi ricordo esattamente. Lei che ricordo ha di tutta quest’esperienza vissuta in giro per il mondo? Io in Mondo cane seguivo soltanto, perché Jacopetti non voleva nessuna donna. Quindi seguivo in silenzio. Poi dopo, invece, quando mi ha conosciuto, abbiamo lavorato insieme per Africa addio dove aiutavo Stanislao, e facevo un po’ di tutto al pari degli altri della troupe. Dal punto di vista organizzativo, qual è il ricordo di quest’esperienza per molti versi avventurosa? Come no, specialmente in Africa addio. Ci sono state delle difficoltà, siamo rimasti tre mesi in Nuova Guinea che non è un posto molto civilizzato per cercar delle cose, giravamo a piedi, in posti molto scomodi, quindi abbiamo avuto parecchie difficoltà. A un certo punto però Stanislao intraprende altre strade, sembra che il cinema non gli interessi più? C’è stato il processo per Africa addio e poco dopo Stanislao si separò da loro. Quindi, la separazione avviene a seguito del processo? Dopo Africa addio sì.
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Ricorda come fu quel processo che fece molto scalpore? Fu una farsa, molto pesante perché mi ricordo che Stanis e io eravamo a Parigi quando il Ministro Reale aveva detto che se tornavamo in Italia mio marito poteva venir arrestato come complice di assassinio. Perché c’era stato quell’articolo di Gregoretti, che era amico sia di Jacopetti sia di Cavara, ma era anche amico nostro: insomma di tutti. Ma aveva scritto che noi spostavamo i condannati a morte in favore di luce, per avere la luce migliore di ripresa. Pertanto tutti sono stati accusati di omicidio vero e proprio. Comunque finì tutto in farsa, perché né Jacopetti né Gregoretti in seguito non hanno detto che non era vero, ma conveniva far così. Però Gregoretti e Jacopetti, come ha detto, erano amici? Sì, Gregoretti veniva in Africa, veniva sempre a trovar Jacopetti e noi; era grande amico. Ha fatto questo articolo pensando di fare pubblicità, e l’ha fatta, mettendoci nei guai. Dunque, è stato un grosso fraintendimento, anche molto grave, rispetto a quelle che erano le reali intenzioni di Gregoretti? Sì, credo proprio di sì. Dopo Mal d’Africa, Nievo ha mai pensato di realizzare altri film sulla scia di Mal d’Africa? No, no. Non più.
L’OCCHIO SELVAGGIO (1967) Regia: Paolo Cavara Soggetto: Paolo Cavara, Fabio Carpi, Ugo Pirro Sceneggiatura: Paolo Cavara, Tonino Guerra, Alberto Moravia, Fabio Carpi Interpreti: Philippe Leroy (Paolo), Delia Boccardo (Barbara Bates), Gabriele Tinti (Valentino), Luciana Angiolillo [Luciana Angelillo] (mrs. Davis), Giorgio Gargiullo (Rossi), Lars Bloch (John Bates) Fotografia: Marcello Masciocchi Musica: Gianni Marchetti Scene: Pier Luigi Pizzi
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Montaggio: Sergio Montanari Suono: Venanzio Biraschi Produzione: Cavara Film Distribuzione: Medusa durata: 93’ censura: 49686 del 11-08-1967 Edizione in DVD: MCP (Germania), Mustang Enterteinment (Italia) Ex documentarista, assistente di Jacopetti per Mondo cane e La donna nel mondo, regista di I malamondo, ambiziosa inchiesta sulla gioventù europea, Paolo Cavara è passato al cinema narrativo con il ritratto di un cineasta. Se ogni uomo di cinema è un “voyeur” il Paolo di Cavara lo è in modo molto particolare. Professionalmente è un documentarista, ma di un genere speciale che ha attecchito soprattutto nel cinema italiano e che potremmo chiamare “documentarismo a sensazione”. Quel che cercano questi registi, quando girano per il mondo con una macchina da presa, è il sensazionale, l’abnorme, l’impressionante. Come lo stesso personaggio di Cavara dice, in ogni spettatore c’è un sadomasochista che desidera appagarsi con quel che vede sullo schermo. A questo cinico Paolo, insomma, non interessa far da specchio a quel che succede nel mondo; gli preme quel che nella realtà “fa spettacolo”. Assistito da Tonino Guerra e da Moravia nella sceneggiatura, Cavara ha inserito questo personaggio in una vicenda che è poco più che un pretesto narrativo. Fa capo a una giovane donna americana che, per una sorta di affascinazione sensuale e insieme masochistica, lascia il devoto marito, per seguire il regista nel suo itinerario afro-asiatico. Pur con qualche concessione troppo scoperta al romanzesco (l’attentato a ora fissa nel “nigth-club” di Saigon ci è parso improbabile), L’occhio selvaggio è un film che ha ambizioni critiche, ma ha il torto di esporle in modo schematico. Quella di Cavara è una sincerità non esente da rozzezza culturale e da semplicismo psicologico. Philippe Leroy è un protagonista monocorde che riesce a dare al suo personaggio anche una certa grandezza malefica; Delia Boccardo è volenterosa ma attrice troppo esile per reggere la parte, mentre Gabriele Tinti che recita con il cuore in mano è un operatore verosimile. Vice, “Il Giorno”, 1 Settembre 1967
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Per cominciare da principio: Paolo Cavara, documentarista e autore di un lungometraggio-inchiesta, I malamondo è al fianco di Gualtiero Jacopetti per Mondo cane e per La donna nel mondo. Ora, da solo, gira questo Occhio selvaggio, che come protagonista ha un regista cinematografico tutto teso al “reportage” d’effetto, da colpo nello stomaco, in giro per il mondo alla ricerca del sensazionale da dare in pasto ad un pubblico mai sazio (dice lui) di sensazioni violente. Difficile credere al caso quando si riscontra che le caratteristiche del personaggio della finzione sono molto vicine a quelle del personaggio in carne ed ossa, cioè a quel Jacopetti che ha firmato pseudo-documentari, lungometraggi tutti incentrati sul basso sensazionalismo, e nei quali anche Cavara ha la sua parte di responsabilità. Cavara dice di no, che lungi da lui l’idea di fare del suo ex-socio una testa di turco, ma i risultati parlano da soli. Risulta anzi chiaro che la cosiddetta trama del film è poco più di un pretesto romanzesco, e che il vero soggetto del racconto e la concezione distorta che ha il protagonista (si chiama Paolo, tra l’altro, come Cavara) del cinema come veicolo non di conoscenza o di sano divertimento ma di sadismo a pagamento. Eccolo questo Paolo imbastire in Africa situazioni-choc in cui immischia estranei e se stesso, eccolo nel Siam inventare situazioni che nella realtà non trovano riscontro, eccolo nel Vietnam intervenire sui fatti (le fucilazioni dei Vietcong) ed esporsi ad avvenimenti che compromettono non soltanto la gente che gli è estranea ma i suoi stessi compagni, la sua stessa donna. Quando costei muore, vittima di un’ultima impresa all’insegna del cinismo spinto alla follia, Paolo si fa riprendere mentre piange sul corpo di lei, in un finale giustamente ambiguo: piange perché capisce finalmente quello che fa, o piange perché, sullo schermo, emozionerà gli spettatori? Un soggetto dunque enormemente interessante, cui hanno messo mano talenti come quello di Tonino Guerra e di Moravia, ma che tuttavia manca di progressione drammatica, e propone un caso limite, un personaggio-mostro: difficile credere che un essere pensante possa giungere a tali eccessi. La dimostrazione ne viene così alquanto compromessa: comunque L’occhio selvaggio resta sempre una fatica originale, un rispecchiamento coraggioso di certo cinema che si giudica da solo e si fa orrore, oltre che un chiaro invito – agli spettatori dei futuri film-inchiesta o film-réportage – a pensarci bene, prima di prendere per oro colato quello che vedono sullo schermo,
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con tutta l’apparenza della realtà. È lo stesso cinema, che lo confessa, che ammette come il cinema tradisca spesso la sua missione per farsi strumento della menzogna. Da meditare. Ermanno Comuzio, “Il Giornale di Bergamo”, 28 Settembre 1967 È come i film di guerra americani di qualche anno fa, dove gli orrori del conflitto e le reazioni bestiali dei belligeranti venivano denunciati ma descritti in maniera tanto minuziosa e spettacolare che la guerra in definitiva risultava affascinante. Così ci sembra faccia il regista Paolo Cavara, il quale prende di mira un certo tipo di cinematografaro (leggi Jacopetti, di cui è stato per qualche tempo collaboratore) anatomizzandone le pretese, il cinismo e la bassa astuzia. Paolo (Philippe Leroy) è a caccia di immagini sbalorditive in Estremo Oriente. Poiché trova la realtà assai monotona, cerca di mistificarla, organizzando situazioni allucinanti: dirige una fucilazione di un partigiano vietnamita e fa perfino riprendere dall’operatore la morte della sua donna (strappata ad un marito un po’ troppo compassato), che è rimasta coinvolta in un attentato terroristico da lui stesso organizzato. La sua meta, insomma, è lo spettacolo raccapricciante, perché così piace al pubblico, ma soprattutto ai padroni, e lui è dalla loro parte. La denuncia rivolta a questo deprecabile individuo risulta, però, equivoca. Il regista impiega, infatti, gli stessi mezzi dell’imputato: cioè fa spettacolo con il suo cinismo. Con il risultato di rendere Paolo simpatico e confondendo così le idee alla platea, che applaudirà probabilmente il film come è successo, il luglio scorso, al festival di Mosca. Vice, “L’Unità”, 1 Settembre 1967 Paolo Cavara condivise con Gualtiero Jacopetti l’esperienza di Mondo cane e contribuì alla nascita di quella formula ch’essi chiamavano fra loro, con un certo orgoglio, “mondocanistica”. Jacopetti poi l’ha portata avanti da solo fino ad Africa addio. Cavara se ne era staccato nel frattempo forse per differenza di opinioni, forse per indifferenza, forse per ambizione di indipendenza. (Come vedremo, tutto questo ha una certa importanza per L’occhio selvaggio.) Anche Franco Prosperi, altro collaboratore di Mondo cane, si
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è staccato da Jacopetti. Ultimamente ancora un dissidente: Stanis Nievo che, dopo aver lavorato ad Africa addio, ha realizzato per conto proprio un Mal d’Africa più o meno direttamente in polemica con Jacopetti. Mondo cane ha creato un genere, Jacopetti ha formato degli allievi: tutti lasciano e continuano a modo proprio la formula, facendo finta o credendo di denunziarla. È questo il caso de L’occhio selvaggio. A chi sia appena dentro alle faccende del cinema viene fatto di pensare che Cavara, narrando la storia di un regista cinematografico di documentari impegnato fino allo spasimo nel fermare sulla pellicola la realtà del suo tempo (e nel falsificarla), abbia offerto una libera interpretazione del personaggio Jacopetti, e insomma abbia inteso fare un ritratto critico dell’ex maestro. Cavara – si direbbe – ha impiantato una specie di processo ad un certo tipo di regista, ne ha documentato lo stile di lavoro, lo ha accusato, poi senza accorgersene l’ha assolto, lasciando trasparire un’ammirazione inconscia, ma non per questo meno trasparente, per “la grinta” dell’uomo. Ecco dove il film è non solo ambivalente, ma addirittura ambiguo e ideologicamente confuso. Che L’occhio selvaggio sia una specie di biografia fantastica di Gualtiero Jacopetti, non lo vorranno certo ammettere né lo stesso Jacopetti né tanto meno il Cavara. Ma, al di là della parte inventiva del film, ecco i fatti. C’è un regista che si mescola con la sua piccola agguerrita troupe agli eventi più drammatici del terzo mondo e per stare addosso alla cronaca si lascia anche ferire; che vuol fornire un’immagine peggiorata, e sostanzialmente razzistica, dei popoli non bianchi, mostrandoli condannati alla decadenza dovunque non siano sostenuti dalla presenza bianca; che, dove la realtà non l’aiuta, improvvisa e inventa, cioè falsifica; che professa la teoria del cinema come violenza sado-masochistica sul pubblico, da perseguire con ogni mezzo; che è intelligente e quindi sa di essere strumento di una falsificazione della realtà chiesta dai padroni dei mass-media, ma si vanta della propria posizione ideologica di mercenario intellettuale, in quanto conscia, mentre quella degli altri è elusiva; che vive allo sbaraglio sia la propria esistenza sentimentale che quella professionale, mescolando l’una all’altra; che è governato in tutto da una specie di furore, copia lontana e decaduta, in tempi di cultura di massa, del furore che animava gli avventurieri nichilisti dei primi romanzi di André Malraux. Un intellettuale esasperato, prigioniero di una visione cinica dell’umanità e quindi
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schiavo obbediente delle proprie peggiori passioni. D’altra parte Paolo Cavara non sa resistere alla tentazione di vedere nel protagonista de L’occhio selvaggio il rappresentante di una specie di mito dell’eroe moderno déraciné, un campione del non impegno e di un individualismo protervo di tipo quasi rinascimentale; e finisce col fare suo malgrado, per ambivalenza affettiva nei riguardi del personaggio, un omaggio a questo avventuriero del cinema, a questo intellettuale votatosi all’esaltazione della non verità. Lo stesso stile di ripresa tradisce la dipendenza di Cavara da Jacopetti. Col pretesto si seguire la vita del personaggio-regista, Cavara dà per ambiente al film quel genere di situazioni, fucilazioni, violenze, declassamento dell’uomo, al quale Jacopetti era molto attaccato. Mentre denunzia i risvolti tragici o cinici di un certo modo di inseguire (o di tradire) la realtà, se ne fa partecipe e tradisce la sua impossibilità di respirare aria diversa. Jacopetti ha di che sorridere di questo ex-allievo ribelle. Sergio Frosali, “La Nazione”, 29 Novembre 1967 L’occhio selvaggio è qui da intendersi quello della macchina da presa d’un documentarista cinematografico tanto abile quanto privo di scrupoli. Questo Paolo, in compagnia di un operatore e di una ragazza, ha l’ambizione di realizzare un film che faccia sensazione ambientandolo in quella parte del nostro pianeta che, per una ragione o per un’altra, è infelice, sottosviluppata. Cinico quanto basta, e fors’anche di più, per svolgere il suo mestiere non badando a trucchi e cogliendo ogni occasione per ricostruire abilmente sequenze audaci o allucinanti, egli vorrebbe dimostrare che nulla è in “movimento” anzi le condizioni attuali di quel mondo che va esplorando fanno male sperare per il futuro e destano nostalgie del passato. Una tesi, ovviamente, quanto mai discutibile (come la stessa materia del film, del resto) che, tuttavia, si dimostrerà falsa all’“occhio” del nostro documentarista proprio attraverso le vicende che egli vive spostandosi febbrilmente dall’Algeria, alla Malaysia, al Vietnam. Da principio, Paolo è pronto a tutto: paga il necessario per avere informazioni di prima mano, recluta comparse per ritrarre scene di abbrutimento, di disperazione, di degradazione; gli capita anche d’aver fortuna e di poter quindi imprigionare nella macchina da presa sequenze di reale tragicità; ma non è
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soddisfatto, manca la grande occasione, quella che dovrà innalzare alle vette più alte il tono del suo reportage di celluloide. Dopo aver furbescamente “ricostruito” le miserie morali di un sultano caduto in povertà (che tuttavia, con un ultimo barlume di dignità umana, si rifiuterà di vendergli una delle proprie mogli per pochi dollari), Paolo approda nel Vietnam dove le occasioni per la gloria cinematografica non mancano davvero. Tale parte del film, la conclusiva, è la più ambigua, ma anche la più impegnata sul piano formale. Paolo corre con l’addolorato e sensibile operatore a “cinematografare” esecuzioni di vietcong, attende – dietro misteriose e ben pagate informazioni – attentati in luoghi pubblici; viene picchiato a sangue, mentre, appostato con il teleobiettivo, riprende un breve, sanguinoso scontro fra ribelli e truppe regolari Non gli basta. Ha saputo che una bomba dovrà demolire un nigth. Rifiutatosi il giovane operatore di seguirlo, entra egli stesso nel locale, inseguito disperatamente dalla ragazza che lo ama (e lo disprezza insieme). Va a finire che l’ordigno uccide proprio l’innocente giovane. Accorre anche l’operatore. Paolo piange; sembra finalmente e addolorato e partecipe conscio della realtà; ma subito dopo prega il cinereporter di riprendere la scena, la “sua” gran scena, con quella povera ragazza fedele e innamorata che gli è morta fra le braccia. E per che cosa? Per il cinismo, l’immensa ambizione di lui che guarda il mondo attraverso un occhio distaccato e “selvaggio”. Film ambizioso, discutibilissimo, ambiguo e pur interessante. Lo ha realizzato un ex collaboratore di Jacopetti, Paolo Cavara, e non sappiamo fin dove arrivi la sua polemica e fino a qual punto sia veritiera. Una critica dei metodi usati dal proprio “maestro”, una giustificazione? Un esempio del tipo di lavoro che attende coloro che si avventurano in reportage a cavallo fra cronaca – vera o falsa – e politica? Onestamente non sapremmo rispondere ai quesiti. Ma un po’ di malafede affiora senza dubbio, “mitigata” dall’uso sapiente della macchina da presa (quella vera, trattandosi pirandellianamente di un film nel film), da alcune “rigorose” sequenze dal tratto drammatico ed anche dalla buona prova offerta dagli attori: Philippe Leroy, Gabriele Tinti e Delia Boccardo. Un’opera che farà discutere il pubblico, oltre che i recensori, un’opera, quindi, almeno sotto questo aspetto non inutile. Ran., “Gazzetta del Popolo”, 1 Settembre 1967
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“La realtà è noiosa, la bugia è divertente” spiega il protagonista di questo film, un regista in cerca di sensazioni negli angoli più remoti della Terra. Se questo è il suo “credo” non desta meraviglia che i “réportages” si svolgano con tutti i mezzi leciti e illeciti, brutalizzando quasi sempre la realtà con cui egli viene a contatto, distorcendo e amplificando artificiosamente la poesia di cui si nutre la natura. È un po’ la storia, se vogliamo, di tanti registi che si sono buttati sulla scia di Jacopetti producendo il deterioramento di un filone documentaristico per molti versi interessante. Ma Cavara, che pure è stato un collaboratore di Jacopetti, ha esplicitamente negato ogni riferimento al regista di Mondo cane. Il suo è un modo di fare del cinema nel cinema, che tuttavia non si sottrae al sospetto di un moralismo di comodo. Ma è anche, la sua, un’opera di notevole polemica sulla base di problemi quanto mai attuali. Quando il protagonista vorrebbe spingere un bonzo a darsi fuoco sullo sfondo di due amanti che si baciano, trova subito la scappatella morale; che male c’è se si mescola l’amore e la morte mentre nel mondo migliaia di persone combattono e si uccidono a vicenda? Forse per questi non troppo velati motivi pacifisti, L’occhio selvaggio ha ottenuto il più lungo e polemico applauso al recente festival di Mosca. Ma erano e sono consensi meritati. Come già si scrisse in quella occasione su queste pagine, il debuttante Cavara rivela una sapienza figurativa e una suspense cronistica non comuni; coadiuvato in ciò da un Leroy, puntuale, preciso e malizioso sul piano espressivo. Più sacrificata, invece, è Delia Boccardo, assai bellina, in una parte che nemmeno l’intervento di sceneggiatori quali Tonino Guerra, Fabio Carpi e Ugo Pirro è valso a rendere meno posticcia. Vice, “La Notte”, 1 Settembre 1967 Protagonista del cinemascope a colori L’occhio selvaggio è Paolo, un documentarista incallito, che il mestiere ha reso cinico. Il suo slogan, “la realtà è noiosa, la bugia è divertente”, spiega perché egli non abbia ritegno a ingannare lo spettatore mostrando non la verità intima o eterna di certi aspetti del mondo o dell’umanità ma le deformazioni effettistiche, magari crudeli e grandguignolesche. L’occhio del suo obiettivo è non “selvaggio” soltanto ma risentito e velleitario. Il regista Paolo Cavara, autore con Carpi del sogget-
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to, sceneggiato poi con la collaborazione di Tonino Guerra e l’assistenza di Moravia, ha dato efficace consistenza al personaggio e lo fa agire in un racconto un poco lento nella prima metà, assai più teso nella seconda. Questa ambientata nel Vietnam mostra Paolo pronto a sacrificare anche se stesso pur di dare le immagini sconvolgenti (e minuziosamente predisposte) d’un attentato. Per un miracolo egli sopravvive mentre soccombe la sua donna, che della spregiudicatezza professionale di Paolo era asperrima nemica. Realizzato con impegno in luoghi “caldi”, dove la vita e la morte degli uomini hanno una relativa importanza, L’occhio selvaggio alterna immagini lucidamente autentiche ad altre visibilmente “ricostruite” non trascurando in alcuni punti di mostrare il rovescio della medaglia di certo cinema documentaristico che ama piegare il documento a troppo palesi esigenze spettacolari. Vice, “La Stampa”, 1 Settembre 1967 “La realtà è noiosa, la bugia è divertente”. All’insegna di questo slogan, lo spregiudicato regista Paolo Cavara si propone di documentare le effettistiche deformazioni di certi aspetti del mondo e dell’umanità, cogliendone l’attimo abnorme, sensazionalmente impressionante. Così dove non trova ciò che desidera, egli lo ricostruisce con ogni mezzo, anche a rischio della propria vita e di quella altrui. E dapprima organizza per un gruppo di inconsapevoli turisti un safari con lo scopo di filmare la drammatica realtà di quelle persone stremate dalla sete e dalla marcia nel deserto e salvandole all’ultimo momento. Poi passa in Malesia e nel Vietnam, dove gli capita di architettare o provocare altri “servizi” sensazionali e sconvolgenti, quasi sempre predisponendone i particolari, perfino un attentato a un “night-club” di Saigon, in cui ci rimette la pelle la donna che lo amava e lo odiava allo stesso tempo. L’occhio selvaggio vorrebbe essere un contrappunto critico a quel documentarismo grandguignolesco e a volte subdolo e contraffattore che abbiamo visto realizzato da Jacopetti in Mondo cane ma soprattutto in Africa addio. L’autore, Paolo Cavara, è stato collaboratore di Jacopetti e – l’idea non era priva di interesse – voleva dare corpo al personaggio di un regista senza scrupoli, deciso ad ogni costo a offrire immagini da far fremere lo spettatore, ma con un calcolato disprezzo d’ogni valore umano fino a rasentare il
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cinismo più brutale – selvaggio – e con mezzi quasi sempre menzogneri. Ma voleva anche profilare l’idea di una ricerca della verità “vera”, che alla fine diventa catarticamente più cocente e dolorosa, quasi mostruosamente paradossale, al limite della mistificazione (il pianto del protagonista per la morte dell’amica e, nello stesso tempo, il suo ordine all’operatore di girare la scena). Ma il discorso partito bene (anche se metricamente un po’ lento), diviene poi involuto, da ambizioso velleitario, da concettoso patologico. Spettacolo a forti tinte, L’occhio selvaggio scorre tuttavia con un ritmo teso e drammatico, ricco di effetti a volte eccessivi, sfruttando bene lo sfondo esotico. Philippe Leroy alterna accenti credibili con altri di maniera, ben assecondato da Gabriele Tinti e da Delia Boccardo, oltre a Giorgio Gargiullo e Lars Bloch. Eccellente la fotografia in technicolor e techniscope. Santalucia, “Gazzetta del Mezzogiorno”, 13 dicembre 1967 L’occhio selvaggio è quello della macchina da presa: l’obiettivo che scruta, che indaga, che rivela verità lontane e nascoste ma spesso anche le deturpa, le falsifica, indegnamente asservendole a secondi fini. L’“occhio” diviene così, oltre che selvaggio, anche bugiardo e ipocrita. Il regista di questo film, Paolo Cavara, fu stretto collaboratore di Jacopetti, insieme con Prosperi per Mondo cane e La donna nel mondo, ed è interessante vedere qui con quali intenti e con quale “tecnica” vennero girati quei film cosiddetti “documentari” e gli altri, innumerevoli, che, con eguali metodi e intendimenti, vennero realizzati dagli imitatori, nonché l’ultimo, e più clamoroso, lavoro dello stesso Jacopetti, Africa addio (nel quale però Cavara non mise mano). Giacché questo Occhio selvaggio vuole appunto denunciare – in una sorta di autocritica scaturita, si suppone, dai numerosi e provocatori “falsi” di Africa addio che ebbero anche strascichi giudiziari, purtroppo senza esito alcuno – questo modo “selvaggio” di fare del cinema, di contrabbandare per documento, per verità vissuta, la menzogna e l’eccitazione sado-masochistica. Lo dice chiaramente il protagonista del film, Paolo (non per nulla lo stesso nome di Cavara), un regista che gira i continenti con una piccola “troupe”, alla ricerca del sensazionale e del morboso, dell’allucinante e dello sconvolgente; se non lo trova, lo provoca, lo inventa. “La realtà – dice – è noiosa, la bugia
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è divertente”. E poi: “bisogna assecondare gli istinti del pubblico. Bastano cinquanta metri di pellicola eccitante per fargli digerire gli altri duemila”. Questo Paolo (in cui può ravvisarsi, appunto, lo Jacopetti, collega di Cavara) si inoltra nel Sahara con una jeep e, nonostante abbia con sé altra gente, fa in modo di bloccarla a cento chilometri nel pieno del deserto, sotto il sole a picco e senza acqua, per il gusto sadico (e per lui inebriante) di riprendere inquadrature di uomini vacillanti e di labbra screpolate. A Singapore, in una casa di cura per tossicomani, fa scorticare qualcuno di questi disgraziati a suon di randellate (e dietro lauto compenso) per dimostrare agli ignari “come si guarisce dalla droga”; ad Aden costringe un povero “sultano” ridotto al lumicino dalla miseria ad ingoiare farfalle e a simulare di cadere in letargo; a Saigon provoca la fucilazione di un Vietcong per fissare sulla pellicola gli attimi di angoscia. (Si ricorderà l’accusa mossa a Jacopetti di aver orchestrato, per Africa addio, l’esecuzione di tre ragazzi mulelisti da parte dei mercenari di Ciombé.) Un cinema fatto di colpi allo stomaco, di interessate e ciniche contraffazioni; un cinema tecnicamente abile quanto orrido e ripugnante. Purtroppo Cavara, che ha il merito di aver posto sotto accusa questo cinema e anche se stesso, non ha la forza penetrante, insinuante e astuta, di coloro a cui strappa la maschera. Il suo film parla spesso chiaro, ma morde poco. E rischia, questo il guaio, di somigliare – per quanto va, sia pure con altri propositi, via via mostrando – ai modelli aborriti. L’occhio selvaggio, evidentemente, non è facile da raddrizzare. E i favori del pubblico sono sempre in causa. Franco Colombo, “Eco di Bergamo”, 20 Settembre 1967 Un regista può piegare la realtà? Peggio, può superarla – inventando – per il suo infernale obiettivo? Tutti ricordano le polemiche a proposito dell’ultimo film di Jacopetti Africa addio. Ora, Paolo Cavara, che è stato al fianco di Jacopetti, ha messo al centro del suo film proprio un regista senza freni, che fa di tutto perché le immagini da lui riprese siano sempre più da choc. Ed eccolo in un deserto a documentare orrori autentici o provocati; ma poi l’esaltazione lo degrada. Non è più un regista, sia pure discutibile, e quando la sua donna gli muore accanto, lui grida all’operatore: “via, riprendi questa scena”. A non tener conto di questo difetto di fondo, il film
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ha scatto ed inventiva. Il protagonista piuttosto monotono è Philippe Leroy. Vice, “Corriere d’Informazione”, 2 Settembre 1967 Cinismo, insensibilità, calcolo, disprezzo di qualsiasi valore umano, esaltazione dell’“io” – posto sul piano della più spiccata presunzione derivante da una sorta di filosofia secondo la quale l’individuo non è altro che un semplice oggetto di cui si può e si deve disporre a piacimento per la propria utilità – sono i motivi predominanti di questo film e sono quelli che informano il carattere del personaggio principale. Questi, Paolo, è un regista, in giro per il mondo con tre compagni di lavoro, alla ricerca di spunti eccezionali per la realizzazione di un documentario e il desiderio di filmare scene di grande effetto è tale che non esita egli stesso a creare le condizioni ideali purché l’accostamento alla realtà sia pressoché perfetto. Così in Africa dove, condotti in pieno deserto i suoi uomini, una donna e una coppia di sposi, invitati con il pretesto di una battuta di caccia, costringe il gruppo ad una estenuante marcia di ritorno di due giorni al solo scopo di riprenderli sfiniti e assetati come veri e propri dispersi cui non rimane che attendere la morte, sin quando un’auto predisposta secondo il piano, non verrà a trarli d’impaccio. Degli inconsapevoli attori, la giovane sposa, Valentina [Barbara n.d.r.], accende la fantasia di Paolo che decide così di toglierla al marito per servirsene non soltanto sotto il profilo sessuale quanto, e soprattutto, come elemento di contrasto nelle scene che egli intende girare in Malesia e nel Vietnam. La donna cede, vinta dalla brutalità e dalla forza di carattere dell’uomo e lo segue come ipnotizzata, reagendo solo debolmente alle sue crudeli manifestazioni. Nell’animo di Paolo pietà e amore sono assolutamente inesistenti al punto che durante le riprese di un attentato, allorché Valentina [Barbara n.d.r.] rimarrà uccisa travolta da una trave, egli pur consapevole di ciò che ha perduto, non esiterà ad invitare l’esterrefatto operatore ad inquadrarlo chino sul cadavere. Se lo scopo che si proponeva il soggettista era quello di mostrare fino a qual punto un individuo possa rivelarsi impietoso, esso risulta ampiamente raggiunto se non superato in eccesso. Vice, “Il Messaggero”, 1 Settembre 1967
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La cosiddetta civiltà dei consumi strumentalizza anche l’orrore, anche il dolore, anche la morte per farne spettacolo, per potenziare e rinnovare costantemente i prodotti dell’industria culturale: in questo modo la verità viene tradita, la mistificazione gabellata per realtà, come in Africa addio, esempio ormai classico di un certo tipo di cinema, che sfrutta sapientemente, sotto il profilo tecnico, ma fraudolentemente sotto quello storico morale, le infinite possibilità di suggestione della macchina da presa. Paolo Cavara, appunto, ci mostra l’itinerario mentale e pratico che percorre una specie di Jacopetti indemoniato che vuole donare attraverso riprese “dal vero” al pubblico cinico e feroce delle odierne platee il brivido del ribrezzo della paura, dell’assassinio, del sadismo. Costui, che è impersonato assai bene da Philippe Leroy, insegue tutto ciò che è abnorme attraverso i continenti senza arrestarsi davanti alle crudeltà più rivoltanti, coinvolgendo in questa repellente e sanguinosa ricerca i propri compagni di lavoro, sino al punto di utilizzare anche la morte della donna che ama per ricavarne una sequenza impressionante. Il film è spietato in questo senso, è una sintesi di quanto alcuni recenti documentari hanno sadicamente offerto al pubblico (da Mondo cane ad Africa addio), però non riesce a suggerire una catarsi, un recupero qualsiasi (anche se alla fine il feroce personaggio piange sulla inquadratura che si appresta a riprendere) perché Cavara pur disprezzando ciò che rappresenta non si mantiene sufficientemente distaccato dalla materia che tratta. Si comporta, insomma, come il pubblico della civiltà dei consumi che pone sotto accusa: pecca, infatti, di masochismo e sadismo al medesimo tempo, per cui ogni scena del suo film sottintende una specie di impietoso compiacimento che tende a coinvolgere gli spettatori, a farli quasi correi di tanto orrore. In questo modo la denuncia si liquefà in una paradossale e moralmente ammalata esibizione del “male” e del “dolore” in cui la polemica diventa indiretta e quindi ambigua anche perché non sorretta da un’ideologia precisa. Come sempre avviene in queste produzioni, che sono proprio l’esempio tipico di ciò che a parole vorrebbero condannare (fanno l’irritante e scandaloso effetto di chi bestemmia per inveire contro i bestemmiatori), la tecnica narrativa è buona, gli effetti cromatici efficaci, la recitazione oltre che del protagonista anche di Delia Boccardo, Gabriele Tinti e dei minori centrata. Il che in definitiva aggrava la posizione moralmente e culturalmente negativa del film. V.B., “L’ Avvenire d’ Italia”, 8 Settembre 1967
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[...] In quanto all’Italia, non le fanno onore né il premio “per la migliore commedia” ricevuto grazie alla farsa di Dino Risi Operazione San Gennaro, né il successo di simpatia riportato da L’occhio selvaggio di Paolo Cavara. Quest’ultimo poteva fare a meno di scomodare un gruppetto di sceneggiatori di buon nome (Carpi, Guerra e Moravia) per un racconto dalle ambizioni ambigue, oltre che mal strutturato da un regista di buona pratica, fino a ieri soltanto nel campo documentaristico. Dopo essere stato “aiuto” di Jacopetti per Mondo cane e La donna nel mondo, Cavara aveva realizzato nel 1963 il “film-inchiesta” I malamondo tentando di imporre alla formula tracciata dal “maestro” un carattere più impegnativo (ricordiamo che Bertrand Russell in persona introduceva l’indagine sugli squilibrati stati d’animo di certa gioventù europea nata dalla guerra), ma senza andare molto oltre l’enunciazione del tema. Di analogo velleitarismo risente L’occhio selvaggio che, abbozzando il ritratto di un cinico regista teso alla ricerca ad ogni costo di immagini sconvolgenti, senza rinunciare a predisporle, se necessario, o a sacrificare per esse i valori più autentici vorrebbe essere una condanna di certo “documentarismo a sensazione” ben noto specialmente in Italia; mentre invece, a causa del sommario disegno psicologico, il film si risolve in un raccontino schematico, il quale non evita di speculare, alla fin fine, sugli stessi effettismi che vorrebbe deplorare. Leonardo Autera, “Bianco e Nero”, 1967 Paolo Cavara, documentarista e autore di un lungometraggio-inchiesta (I malamondo), è co-autore, con Gualtiero Jacopetti, di Mondo cane e La donna nel mondo. Da solo con la collaborazione di Tonino Guerra per la sceneggiatura, ha girato questo Occhio selvaggio che si aggancia con perentorietà, ma in modo polemico, ai due film jacopettiani ora citati e a tutta la concezione “jacopettiana” del cinema in generale. Il protagonista del film è infatti un regista cinematografico tutto teso al “réportage” d’effetto, da colpo nello stomaco, in giro per il mondo alla ricerca del sensazionale da dare in pasto ad un pubblico mai sazio, secondo la sua comoda filosofia, di sensazioni violente. Le caratteristiche del personaggio della finzione sono
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molto vicine a quelle del personaggio in carne ed ossa, cioè a quel Jacopetti che ha firmato pseudo-documentari lungometraggi tutti incentrati sul basso sensazionalismo, e nei quali anche Cavara ha la sua parte di responsabilità. Quest’ultimo naturalmente dichiara che non si è per nulla ispirato al suo exsocio, ma i risultati sono chiari. È chiaro anche che la cosiddetta trama del film è poco più di un pretesto romanzesco, e che il vero soggetto del racconto è la concezione distorta che ha il protagonista del cinema come veicolo non di conoscenza o di sano divertimento, ma di sadismo a pagamento. Eccolo, questo Paolo di professione regista, imbastire in Africa situazioni in cui immischia estranei e se stesso, eccolo nel Siam inventare situazioni che nella realtà non trovano riscontro, eccolo nel Vietnam intervenire sui fatti (le fucilazioni dei Vietcong) ed esporsi ad avvenimenti che compromettono non soltanto la gente che gli è estranea, ma i suoi stessi compagni e la sua stessa donna. Quando costei muore, vittima di un’ultima impresa all’insegna del cinismo spinto alla follia, Paolo si fa riprendere mentre piange sul corpo di lei, in un finale ambiguo: piange perché capisce finalmente la portata di ciò che fa, o piange perché sullo schermo gli spettatori si emozioneranno? Un soggetto dunque enormemente interessante, ma che tuttavia manca di progressione drammatica, e propone un caso-limite, un personaggio mostro: difficile credere che un essere pensante possa giungere a tali eccessi. Questo finale del disastro in cui è coinvolta la donna, per esempio, ripreso dall’“occhio selvaggio” della macchina su comando del protagonista, è francamente grottesco. La dimostrazione ne viene così alquanto compromessa senza dire dei grossi difetti di struttura del film e delle sue soluzioni di comodo (la vicenda della donna attratta e respinta ad un tempo dal protagonista) o di difficile credibilità (l’attentato ad ora fissa). Ma nondimeno L’occhio selvaggio è un film stimolante e piuttosto originale in quanto in esso per la prima volta è lo stesso cinema a giudicare quel tipo di cinematografo sado-masochista che ha trovato nel documentario lungometraggio di questi ultimi anni la sua affermazione più vistosa (per passare poi, almeno in parte, nel “western all’italiana”) inserendosi così nella tendenza tutta moderna del cinema che assume se stesso a materia di trattazione, non nel senso “hollywoodiano” dei termini – luci
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ed ombre dell’attività e dell’esistenza privata dei cineasti, anche se come abbiamo detto non mancano concessioni, nel film di Cavara, a questo tipo di invenzioni – ma in quello più vigoroso dell’autore di cinema che si interroga sull’essenza del mezzo da lui usato per esprimersi. Qui, appunto, il regista del documentario si fa protagonista, e trascendendo dai significati che il film può avere occasionalmente – voglia essere o no un attacco diretto a Jacopetti – L’occhio selvaggio diventa una presa di posizione sulle possibilità espressive della macchina da presa e, di conseguenza, sull’etica di colui che la impugna. L’uomo con la macchina da presa – si chiamava un film di Dziga Vertov, il padre del cinema-verità” colui che sosteneva l’onnipotenza dell’obiettivo rispetto ad una realtà che doveva essere accettata così com’è, senza diaframmi, ma i cui film – basati su un montaggio personalissimo e vigorosamente costruttivo – contraddicevano il “miracolismo” della macchina. Il “cine-occhio” è sempre lo strumento di una volontà, che deve essere anzitutto rispettosa della realtà, anche quando vuol restare vergine, “selvaggio”; e lo dimostra un film americano visto a Venezia nel 1959 che si intitola proprio, prima della fatica del Cavara, The savage eye, ossia L’occhio selvaggio, registi gli indipendenti Sidney Meyers, Ben Maddow e Joseph Strik. È la storia di un “pedinamento” per le vie di una grande città, retto da una specie di “pietosa neutralità” che dice come l’uomo con la macchina da presa possa e debba essere anzitutto uomo. A questo si riduce, in definitiva, l’etica di ogni professione. Ermanno Comuzio, “Cineforum”, 70/1967 Ricordate Charlie Tatum, il reporter protagonista dell’Asso nella manica di Billy Wilder? Era un personaggio cinico, spietato, disumano, che non esitava a giocare con la vita altrui pur di “costruire” la notizia ad effetto (nel caso specifico Tatum lasciava morire un messicano, rimasto sepolto sotto la volta franata di una vecchia miniera, per sfruttare sino in fondo il diritto all’“esclusiva”). Televisione, cinema-verità, inchieste filmate. Si scrive sempre di meno. Oggigiorno molti giornalisti hanno abbandonato la penna per la macchina da presa, ma anche sostituendo l’immagine alla parola la loro tecnica rimane la stessa adottata da Tatum: quando la
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notizia non c’è allora la si fabbrica, indipendentemente dal fatto di calpestare la verità, l’etica professionale, la dignità e addirittura la vita umana. Ne deriva quel tipo di cinema-menzogna col quale, purtroppo, abbiamo fatto conoscenza in questi ultimi tempi; quel cinema che, tutto teso alla ricerca di effetti sensazionalistici, si basa esclusivamente sull’artificio e sulla mistificazione. Il “cinema-menzogna” è l’antitesi del “cinema-verità”, anche se indirettamente si riallaccia a questa tecnica particolare. Secondo la teoria di Dziga Vertov la macchina da presa doveva essere lasciata completamente libera, libera di riprendere oggettivamente la realtà, così come questa si presenta a occhio imparziale. Ma la realtà è noiosa, mentre la bugia è interessante. E allora sotto con l’inganno: ecco che la verità viene distorta, le scene vengono ricostruite, la realtà manomessa pur di offrire a spettatori in vena di emozioni violente una visione scioccante, orrida, crudele dei fatti. All’occhio oggettivo della macchina da presa si sostituisce in tal modo l’occhio soggettivo dell’autore; alla visione naturale delle cose si sostituisce la visione selvaggia di una finzione creata appositamente per far colpo. Gioco pericoloso, tuttavia, che può arrivare a tragiche conseguenze se si tira troppo la corda (e infatti, nell’Asso nella manica, il messicano muore perché Tatum vuole trascinare alle lunghe il suo grosso colpo giornalistico). Ho fatto questa premessa per meglio inquadrare il film L’occhio selvaggio (da non confondersi con l’omonimo di Ben Maddow, Sidney Meyers e Joseph Strik) diretto da Paolo Cavara, presentato nel mese di Luglio al Festival di Mosca e uscito ora sui nostri schermi. Questo di Cavara è un film personale e duramente polemico. Personale in quanto, pur raccontando una storia a soggetto, Cavara ci rende partecipi di esperienze in un certo senso vissute; polemico perché si mette in una posizione critica nei confronti di questo giornalista per immagini. Già collaboratore di Jacopetti in Mondo cane e La donna nel mondo, autore di I malamondo (film-inchiesta sulla gioventù europea), con L’occhio selvaggio Cavara è rimasto fedele alla formula del giornalismo cinematografico e del reportage pur raccontando una storia a soggetto. Ha raccontato infatti una vicenda portandovi le sue vicende personali e guardandola dal di dentro; ha realizzato un’opera in cui si fa vedere come nascono e come vengono girati certi film-inchiesta; ha denunciato certi sistemi di realizzazione, ha condannato un ben individuato filone e la sua anima nera. Autoconfessione o
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complesso edipico? Forse un po’ di tutto. Paolo (tale non è soltanto il nome dell’autore del film, ma anche quello della vicenda impersonato da Philippe Leroy) è appunto un regista senza scrupoli che gira il mondo alla ricerca di situazioni orripilanti e crudeli. Cinico fino ad essere disumano, quando non si imbatte nella sensazione forte Paolo non esita a provocarla, talora perfino a crearla egli stesso. È un tipo ambizioso e arrivista, che pur di raggiungere il suo scopo non indietreggia di fronte a qualsiasi ostacolo, che non fa distinzioni fra lavoro e sentimenti: sfrutta cose e persone sempre a proprio tornaconto. Così non esita a portare nel deserto africano un gruppo di conoscenti e fingere di aver finito benzina e acqua per riprendere i loro volti disperati; a pagare un gruppo di infermieri perché bastonino alcuni vecchi oppiomani; a riprendere la fucilazione di un partigiano viet-cong e a far spostare il condannato sullo sfondo di un muro bianco perché la ripresa sia effettuata nelle migliori condizioni di luce; a filmare un attentato, di cui è stato preventivamente informato, in un locale di Saigon. Anche nella vita privata, questo essere disumano si lascia governare dal più disgustoso cinismo; tormenta una giovane donna, la strappa alla pace coniugale, la trascina nelle sue imprese e quando questa, alla fine, rimane travolta dalle macerie e muore nell’attentato al locale notturno di Saigon versa una lacrimuccia, sì, ma subito dopo ordina all’operatore di riprenderli in primo piano. Il pubblico, il suo pubblico, avrà così un’altra sensazione forte... e questa volta senza la fatica di ricostruirla. È chiaro che Cavara si rivolta contro il suo stesso maestro e indirizza una aspra critica allo “jacopettismo”, tuttavia l’assunto del film è grossolanamente moralistico nel suo facile schematismo, nella sua scontata prevedibilità, nel suo rozzo e forzato manicheismo di stampo populista e tutto ciò a causa di una sceneggiatura che denuncia un’impostazione eccessivamente letteraria (e non per nulla Moravia è uno degli autori) e un’intelaiatura piuttosto semplicistica nel disegno dei caratteri dal taglio acerbo e psicologicamente inconsistente. Nettamente migliore la parte documentaristica, nella quale Cavara ha avuto modo di sfruttare a fondo le sue ottime qualità di cinereporter. Fra gli interpreti, oltre al già ricordato Leroy, Delia Boccardo e Gabriele Tinti. Quest’ultimo, nei panni dell’operatore, è il personaggio più convincente e credibile di tutta la storia. Enzo Natta, “Rivista del Cinematografo”, 11/1967
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AFRICA SEGRETA (1969) Regia: Angelo Castiglioni, Guido Guerrasio, Alfredo Castiglioni Soggetto: Alfredo Castiglioni, Angelo Castiglioni, Guido Guerrasio Sceneggiatura: Alfredo Castiglioni, Angelo Castiglioni, Guido Guerrasio Fotografia: Alfredo Castiglioni Musica: Angelo Francesco Lavagnino Montaggio: Guido Guerrasio Produzione: Sahara Film di Alfredo Castiglioni, Angelo Castiglioni, Oreste Pellini e Co. Distribuzione: Indipendenti Regionali durata: 103’ censura: 54306 del 21-08-1969 Con l’aiuto di Alfredo e Angelo Castiglioni, Guido Guerrasio ha curato un documentario sull’Africa nera ricco di motivi inediti. L’Africa è un argomento inesauribile; negli ultimi dieci anni, specialmente da parte dei francesi, abbiamo visto più di un’opera di vivace interesse. Guerrasio, che è un colto e abile uomo di cinema, ha riunito in un montaggio suggestivo spezzoni di diverso interesse. Il buono si alterna con il mediocre o il banale. Certe confluenze e alcuni raccordi sembrano dettati da preoccupazioni d’ordine spettacolare più che culturale e etnografico. Anche per questa ragione la citazione all’inizio di Claude Lévi-Strauss sembra superflua, deviante.[..] Quando s’era poco più che ragazzi la conoscenza a livello cinematografico dell’Africa nera con il Viaggio al Congo di Marc Allégret, che vi aveva accompagnato André Gide, ci aprì nuovi orizzonti. Il confronto con quel vecchio documentario è ricco di sorprese: volti pieni di dolore, oggi come ieri. Con la differenza che ai tempi del documentario di Allégret i segni dell’espansione consumistica, che affiorano in Africa segreta erano ancora lontani. Vice, “Il Giorno”, 22 Novembre 1969 Verso il 1910, o giù di lì, il mondo fu vivamente attratto dalle ricerche che studiosi tedeschi, sotto la spinta di un grande dotto, Frobenius, andavano compiendo sulla vita dei popoli africani.
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L’Africa non era in quel momento che un enorme scacchiere aperto alle gelosie coloniali delle grandi potenze europee: una pura dimensione geografica nella quale contavano solo i chilometri quadrati che si riusciva ad occupare. Frobenius, che era dotto e tedesco, ma con un grano di poetica follia perché tra le tante cose aveva cercato di scoprire l’ubicazione precisa dell’Atlantide, era stato il primo a percorrere in lungo e in largo il Continente Nero (prima di stabilirsi sul Lago Maggiore, all’Isola Bella, dove morì) non per studiarne la botanica o il corso dei fiumi, ma l’anima delle genti che lo abitavano. Egli aveva raccolto, alle volte trascrivendoli direttamente dalla tradizione orale, un cospicuo numero di testi mitici o genealogici, o rituali che, tradotti, uscirono poi nel corso del decennio successivo in una collana pubblicata apposta da un grande editore, il Dietrich di Jena col titolo, tipicamente frobeniano, di Atlantis. Da allora, gli studi africanisti dovevano fare passi da giganti. Però non so se molto è progredita da allora, mi intendo nella massa della media opinione occidentale, la conoscenza autentica dell’Africa. Salvo forse quel felice momento di riscoperta che rappresentò il viaggio al Congo di Gide e i documentari di Allégret alle altre opere “di genere” manca quel respiro, quel nodo organico di interesse capace di assicurare limiti e unità. Ora non c’è dubbio che questo film lo possiede: già mi pare un precedente significativo il fatto che i tre coautori (i fratelli Castiglioni e Pellini) avessero anni prima, ancora ragazzi, compiuto in motoretta la traversata del Sahara. Questo prova che l’idea del film non è il risultato di una scelta di opportunità, ma di una spinta interna e maturata, se così si può dire, di una vocazione africanista. È la garanzia che è partito insomma da un impegno personale. Questo impegno è anche nell’impostazione del film, nello sforzo che è stato fatto per dirigere il discorso sopra un obiettivo preciso. E intanto nel delimitarne geograficamente i confini. Gli autori, proponendosi di cogliere certe forme essenziali della vita e del costume africano, hanno portato la loro ricerca su quella parte dell’Africa dove ancora esistono allo stato puro: quel blocco centrale e occidentale che comprende all’ingrosso Nigeria, Niger, Ciad, Camerun, Togo, Dahomey e Gabon. E dirigendo l’attenzione a quel mondo, pur diversissimo, si sono sforzati di illuminar-
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ne sopratutto un lato, che è poi il più geloso e, per la nostra testa di tecnicizzati, più bizzarro e incomprensibile: la sopravvivenza degli antichissimi culti tribali. È questa differenza primaria con i lavori di Allégret e di Poirier, per i quali l’Africa rimase per un pezzo ancora il continente folcloristico per eccellenza, che forniva vispe negrette al varietà e selvaggina per i safari dei milionari. Nemmeno le vicende della sopravvenuta emancipazione hanno servito molto ad avvicinare l’Africa al mondo bianco che si è messo subito ad armarla, e continua ad armarla, anzi dal fatto che avendo le armi le adopera, né più né meno di come facciamo noi, ne cava nuovi motivi di incomprensione. Perciò mi sembra doveroso segnalare con interesse il film Africa segreta che tre volonterosi, Alfredo e Angelo Castiglioni e Oreste Pellini, appoggiandosi al consiglio e all’assistenza registica di Guido Guerrasio, hanno cavato fuori da una campagna di esplorazione cinematografica durata due anni. Com’è inevitabile, nemmeno Africa segreta si sottrae, come è fatale in opere di questo genere, al pericolo dell’osservazione empirica e quindi del frammentarismo, a scapito di una trattazione metodicamente organica. Ma è chiaro che un film, che rappresenta un costo cospicuo, deve arrivare al grande pubblico, non può non tenere conto delle esigenze spettacolari, e concedere a queste esigenze (se no, chi lo paga? I professori di etnologia?). Basta che ci sia un obiettivo preciso e una ricognizione nell’umanità indecifrabile, in quelle zone crepuscolari dell’umanità quando cielo e terra, amore e morte, carne e spirito erano magia, e l’uomo circolava perennemente in un mondo di simboli. Tutto è rito e sacrificio per l’uomo primitivo, e poiché è sacrificio è sangue: e l’impressione più profonda che lasciano le più nuove e lancinanti di queste immagini è la presenza costante del dolore e del sangue, quasi retaggio primordiale dell’umanità. Citerò le scene di tatuaggio e di circoncisione, il funerale Kirdi, la conversazione col cranio dell’avo, i singolari metodi clinici dello psichiatra stregone nel manicomio della foresta, la fustigazione periodica con cui i giovanotti Peuls sono periodicamente allenati al dolore, con quel bellissimo tipo che danza loro intorno con passi di una leggerezza e fantasia che gli invidierebbe Nurejev, e poi di scatto, girandosi, vibra una tremenda scudisciata sulla schiena nuda del paziente che gli porta via la pelle.
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Ecco forse cosa è, in fondo, Africa segreta: una passeggiata nella preistoria. Non rideteci troppo, probabilmente la nostra preistoria non è stata molto diversa, dolore e sangue. E la storia? Filippo Sacchi, “Epoca”, 7 Dicembre 1969 Lodevole idea quella di girare un film sui costumi dei popoli primitivi tenendo presente che il loro modo di vedere, interpretare e organizzare la realtà non è necessariamente meno interessante o attendibile del nostro. Nel caso di Africa segreta, tuttavia, dispiace dover constatare che l’intenzione non va molto al di là di una citazione da Lévi-Strauss riportata dopo i titoli di testa. Ben presto, il desiderio di rappresentare e capire lascia il posto a quello di impressionare lo spettatore; il contenuto informativo viene sopraffatto dalla funzione emotiva: e ci troviamo alle prese col solito effettismo truculento, alla Jacopetti, con le solite sequenze sconsigliabili alle persone deboli di nervi o di cuore, insomma col solito modo acritico e scandalistico di far apparire come raccapricciante e pruriginoso ciò che è semplicemente “diverso”. Peccato: perché sotto questo risultato abbastanza banale e sconfortante è possibile cogliere le tracce di una sensibilità e di un’impostazione culturale tutt’altro che dozzinali. Voglio dire che Guido Guerrasio, autore del soggetto e del testo, e gli altri realizzatori del film, non sono affatto degli ignoranti o dei sadici “in proprio”; sono degli intellettuali che volevano fare un certo tipo di ricerca e che hanno finito, obiettivamente, col fare un’altra cosa, presi nel consueto ingranaggio della speculazione commerciale, delle “ragioni del pubblico”, ipotizzato, tanto per cambiare, come un’assemblea di maniaci e di imbecilli. Vice, “Avvenire”, 5 Novembre 1969 Da Africa addio in qua, i film sul continente nero, sulle sue contraddizioni e i suoi tanti problemi insoluti si sono susseguiti a ritmo sostenuto. L’ultimo della serie è Africa segreta, ampio reportage a colori realizzato da Guido Guerrasio, Alfredo e Angelo Castiglioni e Oreste Pellini in due anni di permanenza in vari stati dell’Africa centrale. Si tratta di una carrellata non priva di novità e raccomandabile a chi ami l’avventura. Vice, “Il Resto del Carlino”, 7 Dicembre 1969
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A colmare la lacuna hanno provveduto Guido Guerrasio e i fratelli Alfredo e Angelo Castiglioni con questo crudo, sconvolgente documentario a colori realizzato nel Dahomey, nella Nigeria, nel Camerun, nel Ciad e in altre regioni, lungo un viaggio che ha toccato zone non ancora “contaminate” e dove vigono, quindi, leggi e costumi che nulla hanno perduto delle loro primitive caratteristiche. Una documentazione sconcertante, ricca di notazioni ora patetiche ora terrificanti e redatta, tra l’altro, senza mai indulgere alla facile retorica o al malsano compiacimento, che trova nelle stesse immagini la sua più efficace eloquenza. Riti magici, pratiche di stregoneria, inumani tatuaggi, orripilanti interventi, bestiali metodi per curare la follia e molte altre “curiosità” sono alcuni dei pezzi del mosaico che dà la misura del grado di inciviltà in cui parte dell’Africa ancora vive. Un’inchiesta, insomma, impressionante, e per questo di eccezionale interesse, che il Guerrasio è riuscito a rendere ancora più efficace con un montaggio ben ritmato del vasto, prezioso materiale raccolto non senza fatica dai Castiglioni. Vice, “Il Messaggero”, 13 Dicembre 1969 Un’Africa segreta, ma anche un’Africa senza storia, senza una vera identità geografica, sociale, politica e umana, un’Africa sperduta e dolente, apatica e demoniaca. Non siamo sul livello mistificatorio e di nostalgia schiavista di Africa addio di Jacopetti, ma certo non si può dire che Guerrasio renda un buon servigio a quei popoli sulla travagliata via dell’indipendenza mostrandone solo i lati orrorifici e traumatizzanti. Dopotutto, se un cineasta africano approdasse nella “civiltà bianca” potrebbe, alla stessa stregua, cogliere aspetti ancora più orrendi e disumani, non certo a nostro vanto. F.C., “L’Eco di Bergamo”, 16 Dicembre 1969 Dopo la serie di pellicole all’insegna del Mondo cane firmate da Jacopetti si ha l’impressione che più nulla ci sia di abbastanza mostruoso, truculento e raccapricciante (fra i ritratti vivi del mondo e dell’umanità) da poter afferrare l’interesse pubblico e giustificare un film.
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Gli autori di Africa segreta – i fratelli Castiglioni, Guerrasio e Pellini – giocano appunto una carta che l’interesse deve necessariamente muoverlo nello spettatore; se non altro l’interesse viscerale: rivoltargli lo stomaco. I registi e gli operatori non espongono infatti notizie ed episodi con scelta giornalistica. Le notizie che essi reperiscono sono poche e scarsamente stimolanti. Essi puntano su ripetizioni massacranti della scena sanguinosa, fino a quando lo spettatore più emotivo lascia la sala o ha già deciso di andare avanti a yogurt per un paio di giorni.[...] I.R., “Avanti!”, 25 Novembre 1969 Il titolo Africa segreta è pertinente. Nei molti discorsi che si fanno sul “terzo mondo”, la sconvolgente realtà illustrata con rigore etnografico nel documentario a colori di Guido Guerrasio e dei fratelli Alfredo e Angelo Castiglioni è spesso ignorata o, quanto meno, non sufficientemente valutata nella sua vera portata sociologica. Essa sta ad indicare, tra l’altro, la somma di contraddizioni nella quale si rischia di incorrere affrontando (come altri film finora hanno fatto) il problema della emancipazione dell’Africa secondo un’angolazione generalizzatrice. Senza montare in cattedra, gli autori di Africa segreta propongono implicitamente una maggiore riflessione sul delicato argomento; e, secondo noi, il loro discorso è tanto più convincente quanto più si esime dal giudizio soggettivo (del resto presente soltanto in poche battute del commento e in due minuti di troppo nel finale) per affidarsi alla sola eloquenza delle immagini. Vice, “Corriere della Sera”, 22 Novembre 1969 Nessuna pretesa di dare un inquadramento ideologico – se si eccettua una citazione dell’etnologo Lévi-Strauss contro la cultura dei bianchi – ma un costante senso dello spettacolo e un discreto ritmo da reportage. Molti di questi pregi sfumano però nella memoria degli spettatori più sensibili, certamente urtati dai parecchi momenti di sadismo e dall’insistere su feroci stragi di animali: l’immagine finale di una giraffa in libertà nella savana sembra quasi una liberazione. Vice, “La Stampa”, 9 Dicembre 1969
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Chiedendosi cosa sia rimasto di “genuino” del Continente Nero a contatto con la civiltà tecnologica, un gruppo di cineasti italiani ha percorso buona parte dell’Africa equatoriale realizzando un documentario vivo ed interessante. Animismo e feticismo sono le componenti principali, quasi il leitmotiv, della particolare umanità esaminata. Il quadro che ne risulta è la vera Africa, primitiva, misteriosa: un’affascinante dimensione dove il clan tribale è il centro vitale e lo sciamano il tramite con le potenze occulte. Ai realizzatori (Guido Guerrasio, Oreste Pellini, Alfredo e Angelo Castiglioni) il merito di aver trattato la materia con molta serietà. Colore. “Il Tempo”, 14 Dicembre 1969 È un “excursus” nell’Africa primitiva, quella della magia e dei riti pagani che ancora fa muro all’incalzare della civiltà. La matrice del “reportage” girato in luoghi “proibiti” da due giovani autori [milanesi n.d.r.], i fratelli Alfredo e Angelo Castiglioni, non è comunque quella jacopettiana: senza cioè quella carica di violenza gratuita e (quel che più conta) non è sospetta di contraffazione della verità. Vice, “Il Popolo”, 21 Dicembre 1969 Africa segreta è un film che merita di essere preso brevemente in considerazione per due ragioni: da un lato per evitare che vada confuso tra i prodotti deteriori di un filone in auge fino a qualche tempo fa; dall’altro, per rilevare i limiti obiettivi di questo tipo di documentarismo, anche quando sia coltivato con onestà di intenti. Guido Guerrasio, Alfredo e Angelo Castiglioni, Oreste Pellini hanno raccolto, in effetti, una massa notevole di materiale, in buona parte anche inedito, e lo presentano in termini correttamente informativi, fra l’altro con un commento che ci risparmia il solito spirito di rapa e che evita i toni pietistici e melodrammatici. L’influenza esecrabile dello “jacopettismo”, purtroppo, si fa ancora sentire in vari momenti (non c’è rito sacrificale, e se ne vedono parecchi, in cui la macchina da presa non si soffermi insistentemente sugli animali sgozzati, facendo schizzare in faccia al pubblico le solite immagini sanguinolente), ma nel complesso si può riconoscere che i realizzatori si mantengono abbastanza alieni allo
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sfruttamento degli stimoli emotivi offerti dalla realtà presa in esame. [...] Ricordiamo, per esempio, che Jean Rouch dedicò un intero film alla caccia del leone, come viene praticata da una sola tribù, per approfondirne i significati rituali e le motivazioni pratiche, riuscendo in tal modo a far penetrare lo spettatore nella mentalità di quegli uomini, nel loro retroterra religioso, culturale e civile. [...] Senza motivazioni, senza neanche il tempo di chiedersi il perché di certi riti e di certi costumi, senza poter chiarire la distanza che corre fra la “barbarie” e la semplice “diversità” da quello cui siamo abituati noi. Col che l’operazione finisce per essere involontariamente razzistica. S.Z., 7 “Giorni”, 28 Dicembre 1969 Intervista ad Angelo e Alfredo Castiglioni Durante la composizione di questo libro sono scomparsi due dei protagonisti dell’irripetibile stagione dei Mondo Movie, Antonio Climati e Alfredo Castiglioni. Le tristi occasioni hanno originato due articoli: l’obituary dedicato a Climati è collocato quale appendice dell’intervista concessaci da Mario Morra, mentre quello dedicato ad Alfredo Castiglioni lo ripubblichiamo con qualche piccolo taglio come premessa all’intervista realizzata a Varese, nel Museo Castiglioni di Villa Toeplitz, il 20 Novembre 2015. “Mostrare, a quei tempi, realtà poco conosciute, o indagate superficialmente, ci ha fatto scoprire un mondo che stava scomparendo rapidamente e che ora non esiste quasi più. Meritava tuttavia essere indagato con maggior attenzione in quanto rappresentava una fetta di umanità non indifferente. Un mondo da documentare in libri, foto, film…”. A parlare della propria passione per l’Africa, condivisa con il fratello gemello Angelo, è Alfredo Castiglioni scomparso a Gallarate il 14 Febbraio scorso per un attacco di cuore. Il 18 Marzo avrebbe compiuto ottant’anni, era nato a Milano nel 1937. Con il fratello erano da poco tornati da un’ennesima spedizione archeologica. Gli scavi archeologici e le indagini sulle civiltà del passato sono stati il loro ultimo approdo di studio dopo essere stati esploratori, etnologi, fotografi, documentaristi e scrittori. Infatti, Alfredo e
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Angelo hanno costituito una delle “ditte” intellettuali più eclettiche del secondo Novecento. La loro curiosità li ha spinti a viaggiare e ad incontrare popoli e genti dell’Africa più nascosta e sconosciuta e lo hanno fatto in tempi in cui spostarsi non era semplice. Spinti dall’avventura, giovanissimi arrivarono nel Continente Nero attraversando il Marocco e l’Africa sahariana in Lambretta; per arrivare in Guinea, addirittura, s’imbarcarono come lavoratori su un mercantile. Si era negli anni cinquanta, educati da letture colte, influenzati da reportage giornalistici come “Africa a cronometro” di Egisto Corradi, i due fratelli s’inventarono un mestiere. Cominciarono ad organizzare spedizioni. Il loro approccio all’etnologia fu aiutato anche dalla lettura dei diari dei primi esploratori, in più ci misero la tecnologia, dapprima usando la fotografia, successivamente le cineprese 16mm. Proprio questo e una serie di fortunate coincidenze fecero sì che tutti i materiali girati, invero grezzi, finissero nelle mani della Cineriz che allora – e siamo nella seconda metà degli anni sessanta – si godeva il successo dei “mondo cane”. Rizzoli e compagnia fiutarono l’affare e infilato Guido Guerrasio come coordinatore e montatore del girato dei Castiglioni realizzarono un autentico e sottovaluto capolavoro, Africa segreta, il primo dei cinque film a loro accreditati dal 1969 al 1982. Il successo di Africa segreta fu enorme e del film e dei due successivi – Africa ama e Magia nuda, quest’ultimo addirittura con il commento di Moravia che allora “prestava” le sue lettere africane anche a Ultime grida della savana – si può dire che la conta nel filone inventato da Jacopetti per certi versi può star stretta per come i Castiglioni erano lontani dall’idea di cinema e non solo del giornalista-regista di Barga. Infatti, rivisti oggi, non negandogli la spettacolarità delle immagini né la furbizia del montaggio, che furono anche le basi inscindibili del successo dei film di Jacopetti & co., e considerando allo stesso tempo attenuatasi la pruderie di quegli anni per l’esotico, i due cineasti-esploratori lombardi sembrano allentare consapevolmente il loro rigore di studiosi, capendo che il cinema è altro rispetto al libro, e lo fanno condividendone le regole d’ingaggio una volta accettata la distribuzione del film. L’importante era mostrare che esistevano altri modi di vita, che l’Occidente non era il mondo. Tutto ciò troverà conferma anche
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negli ultimi due film, Addio ultimo uomo e Africa dolce e selvaggia, anche se realizzati fuori tempo massimo e quasi un canto del cigno del genere che avrà qualche altro sussulto, con altri protagonisti e in direzioni estreme e differenti. È difficile scindere la vita di Alfredo da quella di Angelo, anche ora che il primo non c’è più. Si integravano alla perfezione; i loro racconti affascinanti per la duplicazione e l’intersezione delle loro voci erano qualcosa di unico. Ad Angelo, il più cinematografico dei due, toccherà ora raccogliere la parte d’eredità intellettuale di Alfredo. Alfredo: Quando il giornalista Filippo Sacchi venne a visionare il nostro primo film (1969), la sua critica fu molto lusinghiera – e stiamo parlando del critico cinematografico del “Corriere della Sera”. Ma Sacchi era stato in Africa? Mi pare durante la guerra d’Etiopia… Alfredo: Ricordo che mi elencò i viaggi e le attività svolte in Africa, con uno scopo ben preciso, quello del giornalista che osserva la realtà, l’annota e la spiega. Mi fu però evidente che non aveva approfondito le indagini etnologiche, quelle che a noi hanno sempre interessato. Angelo: Sacchi non era entrato nell’anima africana, con i suoi riti, i suoi costumi, le sue usanze. Cosa che invece abbiamo fatto noi. Devo aggiungere che il discorso politico non ci è mai interessato, perché noi siamo sempre stati orientati a conoscere la vita delle popolazioni. Quando siamo arrivati in Africa la prima volta – e stiamo parlando del 1958-1959 – non era quella odierna. Oggi io paragono l’Africa a un mandarino, nel senso che la gente si muove molto di più, viaggia, i turisti sono sempre più numerosi... e poi ci sono i trekking che raggiungono zone anche lontane. L’Africa è diventata piccola. Ma quando siamo arrivati le prime volte in questo continente, l’Africa era un’anguria: era veramente immensa e c’era ancora molto da scoprire: c’erano ancora zone in cui si poteva scrivere “hic sunt leones”. E, soprattutto, c’era un mondo – che ci ha subito affascinato –, quello dei piccoli gruppi etnici che vivevano nel deserto, nella foresta, nella savana che erano sconosciuti, o, quantomeno, poco noti. Le notizie riportate nei libri erano frammentarie. Andavamo
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nelle biblioteche a cercare documenti per conoscere le popolazioni che volevamo avvicinare in regioni sovente lontane. Non c’era molto. E allora ci siamo detti: perché non approfondiamo questo aspetto della vita del primitivo? E sto usando un termine improprio. Perché dovrei dire: popolazioni tecnologicamente arretrate. Quali erano i testi di riferimento per le vostre ricerche? Alfredo: Leggevamo soprattutto i resoconti e i diari degli esploratori dell’Ottocento. Poi le testimonianze di missionari (molti di loro erano anche studiosi degli idiomi e della vita delle popolazioni). Poi c’erano i resoconti degli amministratori delle Colonie e di chi, come i coloni, viveva in quei paesi. C’era sovente tanta fantasia e aspetti dell’Africa non veri ma, tra le righe, c’erano anche informazioni che potevano conoscere solo questi personaggi che vivevano lì. Insomma, questa scrittura di servizio vi è servita poi per scodellarvi i copioni per la realizzazione dei film? Alfredo: Desidero ricordare una frase pronunciata da Léopold Sédar Senghor, il presidente-poeta del Senegal che servì ad indicarci la strada da seguire per le nostre ricerche. Disse rivolgendosi ad un gruppo di giornalisti: “Uomini bianchi, andate nei perduti villaggi della mia terra con i vostri registratori e documentate la vita di tutti i depositari di una lunga tradizione umana custodita nelle loro menti, perché quando essi moriranno sarà come se per voi bruciassero tutte le biblioteche”. Perché, aggiungo, il sapere presso alcuni gruppi etnici – che non conoscono la scrittura – è nella memoria degli anziani. Questa è la citazione che si trova in apertura di Addio ultimo uomo… Alfredo: Sì, per noi, come ho detto, è stata molto importante. Mostrare, a quei tempi, realtà poco conosciute, o indagate superficialmente, ci ha fatto scoprire un mondo che stava scomparendo rapidamente e che ora non esiste quasi più. Meritava tuttavia essere indagato con maggior attenzione in quanto rappresentava una fetta di umanità non indifferente. Un mondo da documentare in libri, foto, film, ecc.
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È molto interessante questa cosa, perché mentre i nostri antropologi De Martino, Carpitella e altri come Alan Lomax percorrevano l’Europa e l’Italia meridionale alla scoperta di tradizioni ormai diventate “clandestine”, voi, invece, andavate al di fuori… Angelo: Abbiamo scoperto realtà che ci hanno fatto riflettere. Alcuni gruppi etnici da noi avvicinati avevano una loro profonda cultura e valori che abbiamo documentato. Tuttavia alcune sequenze hanno preso una direzione diversa, perché condizionate da esigenze commerciali. Dietro ad ogni film c’è un produttore che investe dei soldi ed evidentemente vuole un risultato. Resta comunque il fatto che siamo riusciti a documentare aspetti di vita da noi dimenticati. Per esempio è fondamentale per loro rispettare gli anziani. Qui da noi l’anziano è sovente visto come un peso sociale. In Africa, invece, abbiamo visto anziani che, proprio per la loro età avanzata e per le conoscenze accumulate durante la vita, venivano rispettati, direi quasi venerati. I giovani si rivolgevano agli anziani per sapere quando seminare, quando raccogliere. Erano visti come grandi saggi, portatori di un sapere al quale attingere per conoscere e risolvere i problemi e le difficoltà della vita. Poi, ci ha sempre colpito questo vivere in comunità. Faccio un esempio: quando nasceva un bambino era una festa per tutto il villaggio; in questo microcosmo non era solo una festa familiare. Capitava di far festa anche quando costruivano una capanna con la partecipazione di tutti. Questo mondo si è modificato negli ultimi tempi e, sovente, è del tutto scomparso... Dunque, partecipavate alla vita della comunità quando eravate là per le vostre missioni. Qual è stato il vostro impatto con le culture africane di cinquanta-sessant’anni fa? Alfredo: Voglio raccontare un episodio riguardante il senso religioso di queste popolazioni per ribadire quanto detto da mio fratello. Diciamo chiaramente che noi siamo più dei “Prudenti” che dei “Credenti”. Loro hanno invece veramente la certezza del Divino. Sentono che esiste una continuità tra i vivi e i trapassati. Ed è per questo che abbiamo scritto un libro dal titolo Babatunde che vuol dire “il padre ritorna” perché per loro la vita è una parabola che non finisce con la morte ma continua nei nuovi nati. Noi abbiamo dei dubbi, loro invece hanno certezze.
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L’ultima sequenza di Addio ultimo uomo è esattamente questo. Lì avete realmente documentato questo rispetto enorme per l’anziano. Alfredo: Questa osservazione mi fa piacere perché – come diceva Angelo – va al di là del fatto che il prodotto finale del film è commerciale – per ovvi motivi di carattere economico. Questo è bello che voi lo dichiarate, perché molti invece nascondono l’aspetto commerciale del cinema... Angelo: Noi abbiamo fatto ricerche basandoci su studi precisi sulla vita di queste popolazioni. È però evidente che se faccio vedere un uomo che zappa il terreno con uno strumento che risale ancora alla preistoria, sono immagini che posso tenere sullo schermo per pochi istanti, poi alla gente non interessano più. Questo lo puoi mostrare in un Congresso – come ci è capitato di fare più volte e dove abbiamo portato filmati che andavano bene in un contesto scientifico – però quando si trattava di immagini dirette al grande pubblico, e dietro c’era il produttore che metteva soldi e un’organizzazione, era necessario cercare materiale che incuriosisse la gente e che, quindi, richiamasse il pubblico. Abbiamo comunque sempre cercato di mantenere le basi di una seria ricerca etnologica. È indispensabile capire che al pubblico, piuttosto che vedere l’uomo che zappetta, interessava ciò che è inusitato e lo colpisce di più, come i rituali magici che talvolta sfociano in sacrifici di animali. Però, dal punto di vista etnologico, tutte e due le azioni hanno lo stesso valore. I materiali di Africa segreta a che epoca risalgono? A quanto tempo prima della realizzazione del film? Angelo: Già nel ’59 noi facevamo delle riprese. Quindi come è nata l’idea di farne un film? Quando vi è venuto in mente che il materiale che avevate girato avrebbe potuto, come poi è accaduto, essere utilizzato per un lungometraggio? Angelo: L’idea del film è venuta molto dopo ed è nata in maniera un po’ strana. All’inizio della nostra avventura africana, l’obiettivo fu quello di coltivare la nostra passione per lo studio e la documentazione delle popolazioni. E per ottenerla nel modo più preciso possibile, il mezzo insostituibile era senza dubbio la cinepre-
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sa. Nel corso delle riprese, durate anni, ci siamo resi conto, che queste culture tecnologicamente arretrate stavano rapidamente modificandosi e scomparendo. Allora ci siamo chiesti: perché non documentare questo inevitabile passaggio fissandolo su supporti che potessero resistere nel tempo, quindi sui fogli dei nostri diari, sulle fotografie e, soprattutto, sulle pellicole cinematografiche? Già durante gli anni ’59-’60 impressionammo molta pellicola. Poi ci siamo posti un’altra domanda: come avremmo potuto utilizzarla? Noi non eravamo partiti per girare un film ma con lo scopo di documentare unicamente la vita delle popolazioni primitive con le quali venivamo in contatto. Quindi quel materiale l’avete lasciato decantare per dieci anni e poi da lì è nato Africa segreta. Angelo: Io e mio fratello realizzammo un pre-montaggio, semplicemente incollando tra loro alcune sequenze Poi lo completammo con un semplice commento. Successivamente, rendendoci conto che non avevamo i mezzi economici per completare il lavoro, ci siamo messi in cerca di un produttore. E, quasi per caso, abbiamo incrociato il direttore commerciale della Cineriz. Gli mostrammo questo nostro pre-montato. Lo guardò con attenzione e ci disse che il materiale era interessante, che erano immagini mai viste e che ne poteva venir fuori un buon prodotto. Aggiunse poi: voglio che questa mia ipotesi sia avallata anche da Angelo Rizzoli, il patron della Cineriz. Così, alcuni giorni dopo, una sera in via Del Gesù a Milano ci riunimmo con Angelo Rizzoli al quale mostrammo la pellicola. Alfredo: C’è da dire che noi eravamo molto giovani e, spinti dal nostro entusiasmo, in apertura del film, avevamo messo tutta una serie di nomi di persone che avevano partecipato alle riprese. Nel silenzio della saletta, appena apparvero i nomi, sentimmo Angelo Rizzoli chiedere: “Chi sono questi qui?” – evidentemente non ci conosceva. Così, dal fondo all’unisono rispondemmo: “Siamo noi” ed egli si girò sorpreso a guardarci. Alla fine, ci disse: “Beh, devo dire una cosa: si vede che questa gente crede veramente” – lui era agnostico, e non ne faceva mistero. Poi aggiunse bonariamente: “Ah, io darei un dito per credere”. Poi iniziò a elencare ciò che, secondo lui, andava bene e ciò che doveva essere modificato.
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Angelo: Diceva: questa sequenza bisogna accorciarla, quest’altra va tagliata, e continuò di questo passo. Ci accorgemmo che Rizzoli, pur avendo capito la validità del film, volesse far pesare la sua personalità. Così dopo un ulteriore, “taglia questo, aggiungi quest’altro”, gli dicemmo: “Senta, Commendatore, prima di darle una risposta ci lasci riflettere per qualche giorno, anche se siamo lusingati che la Cineriz abbia preso in considerazione il nostro lavoro”. Per noi era già stato molto gratificante che fosse venuto Rizzoli in persona a visionare il film. E qui è entrato in campo Guerrasio. Alfredo: No, Guerrasio all’epoca c’era già, faceva parte del nostro gruppo. Noi avevamo fatto le riprese e lui aveva dato una mano nel montaggio. Quindi il film è uscito nel ’69 ma la gestazione è stata molto lunga, quasi dieci anni. Angelo: Certo, anche perché noi eravamo andati in Africa non con lo scopo di fare un film, e quindi dovendo rispettare precisi tempi di produzione e di edizione. Noi avevamo lo scopo – come abbiamo già detto – di raccogliere una documentazione etnologica. Tuttavia nel corso degli anni ci rendemmo conto che il materiale girato, nel corso del tempo, si accumulava e diventava sempre più interessante e apprezzato dalle persone alle quali lo avevamo proiettato. Quindi pensammo che, forse, avrebbe potuto diventare un lungometraggio. Per fare questo avevamo comunque bisogno di un produttore e di un distributore e fu così che arrivammo ad Angelo Rizzoli, con il quale ci accordammo per un periodo di riflessione. Nel frattempo il direttore commerciale della Cineriz che aveva visto per primo il film e che gli era piaciuto fece circolare la voce dell’esistenza di questo materiale. Fu così che venimmo a conoscere un certo Commendatore Penotti, direttore della CEIAD Columbia Italia, il quale si disse interessato a visionare, con i suoi distributori, il nostro film. Alfredo: Per noi era un’alternativa ad Angelo Rizzoli. Devo dire che in Penotti trovammo una persona di un’apertura mentale straordinaria – nonostante fosse molto anziano. Vide il film, gli piacque e così decidemmo di affidare a lui la distribuzione.
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Voi siete etnologici, il vostro approccio con la materia che poi trattate nei film è quello degli scienziati. Da questo punto di vista quale obiettivo avevate quando realizzaste il primo film? Che cosa volevate comunicare al pubblico? E cosa vi aspettavate che il pubblico vedesse nel vostro lavoro? Alfredo: Era quello di far conoscere un mondo che all’epoca ben pochi avevano visto. Suscitò fin dalla prima uscita uno straordinario interesse, come dimostrano le fotografie scattate davanti al cinema Durini a Milano, dove la folla si assiepava in attesa di entrare, bloccando persino la strada. Il film tenne il cartellone per oltre 2 mesi, fino al Febbraio del 1970. Tra l’altro il 12 di Dicembre ci fu anche la strage di Piazza Fontana e il cinema era molto vicino alla Banca dell’Agricoltura. Alfredo: Sì, dopo la paura, seguirono molte preoccupazioni e inquietudini. Tra l’altro, ci sono delle testimonianze dell’epoca, che riportano come uomini e donne di colore – che andavano al cinema a vedere il film – fossero molto contente di vedere sullo schermo la vera Africa. Alfredo: Questo è vero, perché noi abbiamo avuto testimonianze di persone che avevano apprezzato il fatto di aver portato a conoscenza la realtà, anche se con immagini crude e violente: una realtà non falsificata e questo lo hanno detto anche persone che occupavano posizioni di notevole rilievo. Ciò ci aveva gratificato. Ci rendemmo conto di essere diventati testimoni di una sconosciuta realtà africana. Noi, infatti, in Africa abbiamo addirittura partecipato ad un censimento in Camerun che all’epoca era una colonia sotto mandato francese. Le autorità francesi organizzarono una spedizione per effettuare il censimento delle popolazioni che abitavano sui monti Mandara ai confini tra il Camerun e la Nigeria. Venimmo così a conoscenza che c’era una spedizione militare che andava su quei monti a raccogliere dati. Una fortuna insperata per noi, visto che avremmo avuto la possibilità di aggregarci a loro. Il censimento fu divertente e patetico. Quindi, anche attraverso questa esperienza, ci fu data la possibilità di portare sullo schermo immagini mai viste prima e questo era esattamente l’obiettivo che, come etnologi, ci eravamo prefissati fin dall’inizio delle nostre spedizioni. Inoltre,
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rammento che molto del nostro materiale è stato utilizzato da istituti di ricerca etnologica e antropologica. Gli studiosi all’epoca come reagirono ai vostri film? Alfredo: Bene. Pensi che il nostro ultimo film, Africa dolce e selvaggia, ha avuto il commento di Guglielmo Guariglia, allora Docente di Etnologia e Antropologia culturale all’Università Cattolica di Milano. Angelo: Quando abbiamo elaborato i testi dei film, abbiamo sempre avuto l’appoggio della professoressa Giovanna Salvioni, che ancora oggi tiene la cattedra di Etnologia e Antropologia alla Cattolica di Milano. Con lei abbiamo scritto anche diversi libri. Perché non è mai accreditata nei vostri film? Angelo: La Salvioni è una persona molto riservata e non ha mai voluto apparire. Però ha sempre lavorato alla stesura dei testi, anche perché era importante spiegare alcuni rituali non facilmente comprensibili dal pubblico e che potevano generare l’idea di “selvaggi” in coloro che li praticavano. Parola dispregiativa che non dovrebbe mai essere usata. Ricordo che in Camerun, nella regione del nord, abbiamo filmato un rito funebre presso una popolazione, i Kapsiki, durante il quale al cadavere veniva tolta la pelle. Abbiamo il filmato integrale del rituale la cui visione è veramente difficile da sopportare, per non parlare dell’odore emanato dal corpo in avanzato stato di decomposizione. Scusi, ma questo è realmente l’aspetto mancante. A parte che avete montato questo rituale funerario nella coda di Addio ultimo uomo. Perché la fascinazione esercitata dai vostri film – che a nostro avviso nello spettatore rischia quasi di ingenerare una forma di dipendenza – affonda nelle nostre radici, cioè in quelle dell’uomo, ecco allora l’aspetto mancante per chi guarda – che noi chiaramente non possiamo percepire – è proprio quello dell’odore. Voi come facevate a sopportare quelle situazioni? Angelo: Devo dire che, dopo tanti anni durante i quali abbiamo assistito a rituali stranissimi e sovente sanguinolenti, ci eravamo abituati a vedere certe immagini. In altre parole c’eravamo fatti la “cotenna”. Per tornare al discorso precedente – con riferimento alla professoressa Salvioni – noi sapevamo che ogni rituale svolto da
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quelle popolazioni ha un suo profondo significato, anche se, pur continuando ad effettuarlo, non ne conoscevano più il significato e lo scopo: lo facevano seguendo una tradizione orale, trasmessa da padre in figlio. Al ritorno della missione in Camerun, ci siamo messi, con la professoressa Salvioni, a cercare di capire i motivi che inducevano i Kapsiki a “spellare” i cadaveri. Ed ecco la spiegazione: il bimbo africano quando viene alla luce è bianco. Esce dal ventre materno e, quando muore, deve tornare nel ventre della “Grande Madre” che è la Terra ancora bianco. Ed per questo che viene “spogliato” della sua pelle nera. Inoltre nel filmato si vede che il cadavere, viene messo in una specie di utero scavato sottoterra e composto in posizione fetale. Dunque questo rito ha un significato, ha – nonostante le immagini difficili da vedere – un suo profondo significato: il desiderio dei vivi di aiutare il defunto a “rinascere”. Questo è un esempio per far comprendere che abbiamo sempre tentato di trovare un significato a tutto ciò che filmavamo e, in questo, la professoressa Salvioni ci è sempre stata di grande aiuto. Alfredo: Tra gli altri, anche Alberto Moravia ha contribuito al nostro lavoro scrivendo il commento di Magia nuda. Come siete entrati in contatto con Moravia? Alfredo: Tramite la PEA, e il produttore Alberto Grimaldi. Angelo: Moravia all’epoca, scriveva reportage per il “Corriere della Sera” in cui parlava dei suoi viaggi africani. Quindi, quando l’abbiamo conosciuto lui era già un amante dell’Africa e delle sue popolazioni. Avendo visionato le immagini dei nostri film si è entusiasmato e ha deciso di scrivere il testo di Magia nuda, che giudicò un film interessante dal punto di vista etnologico. L’ha scritto interamente lui. Angelo: No. Una parte l’abbiamo scritta noi, una parte Guido Guerrasio e una parte l’ha scritta lui. Mimi Ferrari, vedova Guerrasio, nonché segretaria di edizione del film, sostiene che Moravia abbia solo cambiato poche parole del testo, peraltro scritto da suo marito e poi si sia attribuito in toto la paternità del commento.
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Angelo: Che Guerrasio abbia partecipato alla stesura del testo, è indubbio. Tuttavia, in questi lavori, il risultato finale è sempre frutto della collaborazione di tutti. Ognuno ci mette del suo, poi Moravia ha fatto anche la revisione finale del testo. Ha elaborato la parte giornalistica, e persino poetica del commento al film. Come ho detto questi film sono il frutto di un lavoro collettivo e il raggiungimento di un buon risultato è merito della collaborazione di tutti. Durante le riprese non seguivamo sempre la “scaletta” preconfezionata. Alcuni avvenimenti venivano registrati nel momento in cui si verificavano. Nel finale di Africa ama c’è una donna che partorisce, e quello è un evento difficile da preventivare. Colpisce molto nei film la totale assenza di giudizio nei confronti di ciò che mostrate – anche nelle situazioni più forti –, il che denota come il vostro sia realmente un approccio da scienziati. Secondo voi il pubblico perché vi ha seguito? Angelo: Questo è un fatto per noi molto importante, ed è giusto sottolinearlo. Devo dire che ho visto film in cui il commento era legato al modo di vedere la realtà di chi lo aveva redatto. Mi ha sempre dato molto fastidio. Noi abbiamo descritto la realtà con la cinepresa senza trarre conclusioni: abbiamo sempre fatto un discorso semplicemente descrittivo. Esprimere un giudizio è profondamente sbagliato nei confronti dello spettatore. È solo lui che deve trarre le conclusioni e i giudizi. A noi è sempre solo interessato realizzare una documentazione e farla vedere così come è. Quanto materiale avete montato di tutto quello che avete ripreso? Fino a quale anno avete continuato a girare e poi avete smesso? Alfredo: Forse un 50%; no, no, anche molto meno. Abbiamo girato fino agli anni Ottanta, fino all’ultimo film, Africa dolce e selvaggia. In realtà poi abbiamo continuato a filmare ma è subentrato un altro fattore. Quando ci siamo resi conto che lo studio etnologico si era esaurito, ci siamo interessati all’archeologia. Se si vuole questo è anche un processo logico: dalla ricerca sull’uomo vivente siamo passati allo studio del passato. In questo campo abbiamo avuto anche la fortuna – sempre, però, dopo anni di studi e ricerche – di scoprire nel 1989 una città dimenticata nel deserto nubiano sudanese: Berenice Pancrisia. Un ritrovamento che ha suscitato un notevole interesse e l’avallo dei maggiori studiosi di
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archeologia. In seguito poi abbiamo continuato le ricerche nel deserto nubiano dove abbiamo effettuato nuovi ritrovamenti. A proposito di Nubia, avete mai incontrato Leni Riefenstahl? Angelo: Sì, l’abbiamo incontrata a Khartoum. In realtà ci siamo solo incrociati all’Acropole Hotel dove – se non ricordo male – lei era lì per fare una ricerca che non rammento, mentre noi avevamo avuto una concessione archeologica dal governo sudanese per continuare le nostre ricerche. Credo fossero gli inizi degli anni Novanta. Recentemente è stato ripubblicato, un bellissimo reportage del ’50 sulla “Mille miglia nera” di Egisto Corradi dal titolo “Africa a cronometro”. Alfredo: Ah! Meraviglioso. “Africa a cronometro” l’ho letto e riletto proprio perché c’era la penna di un grande giornalista, di uno scrittore molto bravo. Ed Egisto Corradi è stato uno di quelli che ha stimolato le nostre ricerche, perché si sentiva nei suo scritti la passione e, soprattutto, sapeva descrivere mirabilmente i grandi spazi che percorreva. Tuttavia descrisse solo superficialmente le genti incontrate. Angelo: C’è da dire che lui era maggiormente concentrato sul percorso che doveva seguire. Tuttavia anche le sue pagine sono servite a farci amare l’Africa. E quindi poi siete partiti per questa vita avventurosa. Angelo: No. La passione per i viaggi è nata in una maniera particolare. Finita la guerra i giovani volevano conoscere cosa c’era al di fuori del mondo in cui erano cresciuti. E allora c’è stato un periodo in cui con una Lambretta qualcuno si è spinto fino a Capo Nord, altri si erano diretti verso l’Oriente. Noi pensavamo all’Africa e abbiamo detto: proviamo ad andarci. La Vespa è stato il primo mezzo meccanico che ci ha permesso di entrare in contatto con l’Africa – con un viaggio decisamente difficile e avventuroso. Così, in tre mesi di peripezie – durante le quali uno di noi si ruppe un braccio – arrivammo quasi fino a Dakar. Abbiamo iniziato a percorrere la costa italiana, francese, spagnola e raggiungemmo il Marocco che allora era diviso in due: c’era quello francese e quello spagnolo. Poi siamo andati sempre più a
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Sud. È stato un viaggio avventuroso che ci ha fatto vedere un mondo a noi ancora sconosciuto. Avevate allora mezzi finanziari? Avevamo sì dei mezzi finanziari molto limitati, per cui il viaggio successivo l’abbiamo fatto a bordo di un mercantile, con cui abbiamo navigato il Golfo di Guinea, fino a Douala in Camerun. Partiti da Marsiglia, siamo arrivati ad Algeri dove ci siamo trovati in mezzo alla lotta d’indipendenza algerina – e lì abbiamo rischiato non poco – perché… Alfredo: Abbiamo avuto l’incoscienza di entrare nella Kasbah senza renderci conto che allora, se incontravano un europeo, lo avrebbero fatto a pezzetti. Quando uscimmo dalla Kasbah, i militari francesi sbarrarono gli occhi e ci chiesero come avevamo fatto ad essere ancora vivi. In conclusione, si può dire che i vostri cinque film fotografano tutti un momento ben preciso, cioè la fine di un mondo. Oggi non c’è più niente di quell’Africa lì. Giusto? Alfredo: Certamente. L’Africa che abbiamo conosciuto, amato e filmato, ora non c’è più. Oggi è tutto diverso. Io ho grande nostalgia dell’Africa di un tempo. L’Africa dei grandi spazi, dei piccoli villaggi sepolti nelle foreste, disseminati nel deserto, arroccati sui monti. Era il “mal d’Africa”. Noi soggiornavamo per mesi nei villaggi per non fare violenza a questa gente con la fretta di noi occidentali... Loro lo capivano perché sono molto più sensibili di noi e ci accettavano... Come entravate in contatto con le realtà locali? Come riuscivate a convincere la popolazione a farvi riprendere quello che avete ripreso? Pensiamo, ad esempio, a quella sequenza meravigliosa, ma sconcertante, del manicomio in mezzo alla foresta di Africa segreta. Alfredo: È facile e difficile allo stesso tempo. Prima cosa non devi andare lì a far violenza, nel senso che non devi puntare la cinepresa appena arrivi. Devi dare a loro il tempo di abituarsi a te e te di abituarti a loro. Per riprendere il manicomio avevamo fatto il campo nelle vicinanze... Sapevamo che si trovava in mezzo alla foresta, ma non potevamo certo andare subito a filmare. Ci volle del
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tempo. Devi saper aspettare. Sono poi loro ad accorgersi che non nutri ostilità nei loro confronti. Diventano disponibili e ti aprono il loro mondo. La fortuna più grande in queste spedizioni è trovare uno della stessa etnia, che mastichi qualche parola di inglese o di francese, per averla appresa in qualche missione. Allora puoi spiegargli cosa vuoi fare e lui fa da tramite presso gli altri. Angelo: Per la scena finale di Africa ama, quella in cui la donna partorisce seduta su un sasso, siamo rimasti per due mesi in cima ad una montagna nel suo villaggio, ad attendere l’evento... Loro parlavano di lune e quindi non potevamo sapere quando la donna avrebbe partorito. Il fatto di aspettare con loro ci ha, come dire, amalgamati, e ha fatto capire loro che le nostre intenzioni erano buone. Ci hanno accettato e ci hanno fatto assistere a tutte le fasi del parto e ai riti connessi, anche di carattere magico... Con queste popolazioni ci vuole rispetto e pazienza, poi loro ti permettono di assistere a tutto quello che fanno con naturalezza e spontaneità. Guido Guerrasio al lavoro con i fratelli Castiglioni Conversazione con Mimi Ferrari Ci può raccontare quale è stato il rapporto di lavoro tra suo marito e i fratelli Castiglioni? Mio marito lavorava per Angelo Rizzoli. Per lui ha fatto parecchi documentari e ha montato anche parecchi film. So che ad un certo momento i fratelli Castiglioni erano andati a far vedere a Rizzoli qualche pezzo di un film che avevano girato. Rizzoli si è rifiutato di vederlo, ma l’ha dato a mio marito, chiedendogli se ne poteva fare qualche cosa. Il girato era da buttare via, però abbiamo pensato di farne, comunque, qualche cosa. Abbiamo provato a montare qualche primo pezzo per vedere se si riusciva a ingrandirlo perché era girato a 16mm e così abbiamo cominciato a collaborare con loro. Suo marito era in sala di montaggio con lei o faceva la direzione di montaggio? No, mio marito montava e io gli ero vicina come segretaria di edizione. È stato un lavoro lungo e faticoso perché si doveva lavorare su un formato piccolissimo per migliaia di metri.
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Dava anche lei suggerimenti di cambi di piano; interveniva direttamente nel montaggio o si dava al lavoro di… No, io seguivo mio marito; lui ha fatto tutto il montaggio. Se tagliava un pezzo e poi lo ricercava glielo davo io. Ha fatto tutto mio marito. La parte creativa era la sua mentre lei era solo di collaborazione? Sì, esatto. Il lavoro sul commento che poi è stato utilizzato nei film è stato un lavoro fatto interamente da suo marito o in collaborazione con i fratelli Castiglioni? No – non so che notizie avete avuto dai Castiglioni – i commenti li ha sempre e solo scritti lui. Tutte le parti sono state scritte da lui, per i documentari come per altri film, ha sempre scritto solo lui. Guerrasio aveva delle conoscenze etnografiche? Cioè era competente nella materia che affrontava durante il montaggio? Si era interessato, aveva cercato di farsi un’idea procurandosi dei libri – soprattutto francesi – insomma, si era informato anche lui. Comunque la verità è che i fratelli Castiglioni erano attirati soltanto dalle cose più violente, cioè la parte diciamo dolce dell’Africa in quei lavori non c’è. Come detto Guerrasio lavorava per Rizzoli, e questi produceva i film di Jacopetti. Con il regista di Mondo cane vi siete mai incontrati? Guerrasio si è mai confrontato con Jacopetti oppure non si conoscevano affatto? No, lo escludo assolutamente. Jacopetti aveva fatto veramente il cinema vero, in grandi alberghi, tutta la troupe ecc… qui no, si cercava di fare una cosa assolutamente nuova. Africa segreta è un film straordinario, soprattutto nel lavoro di montaggio ed edizione che Guerrasio ha fatto. Visto più volte dà l’opportunità di cogliere quell’indipendenza e quel coraggio con cui è stato fatto ed è veramente un film incredibile, un capolavoro ancora pienamente da riscoprire ed ancora oggi è bellissimo.
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Sì, lo so. È bello ancora oggi. Lo so. Avete fatto un lavoro di montaggio reale – non eravate una produzione come quella di Jacopetti – ma avete fatto un film di alto livello qualitativo. Come è stato accolto poi nelle sale cinematografiche, che strategia di marketing avete adoperato? Rizzoli non l’ha voluto neanche vedere perché era spaventato solo all’idea di vedere alcune sequenze; era abituato a vedere cose dolci. Dunque mio marito è riuscito a parlare con uno degli uomini di Rizzoli che si occupava di distribuzione e allora era molto importante. L’aveva visto e aveva detto no, non è possibile far passare un film così. È troppo violento. Se lei riesce a farlo passare allora glielo distribuisco io per tutta la vita. E ha fatto questo. Il primo giorno è stato qualcosa di incredibile, è stato il giorno che c’è stato quell’attentato a Milano. Sì, Piazza Fontana? Sì. Comunque dissero c’è stato un grosso attentato e la gente entrava a valanga e noi pensavamo che era perché c’era l’attentato… Il cinema invece era pienissimo mattina e pomeriggio, pienissimo alla sera fino a mezzanotte. Non sapevamo più dove mettere i posti e poi dopo di allora tutto è partito… La campagna fotografica dei manifesti del film l’avevate ideata voi due insieme al distributore o è una trovata del distributore? Mio marito le ha fatte. Le ha fatte tutte mio marito. Quindi si è occupato anche della promozione commerciale, della distribuzione del film? È stata fatta con il “Corriere”, è stato il primo nudo dell’uomo sullo schermo. Era stato accolto molto bene sia a Milano che a Roma. A un certo punto subentra nel rapporto tra suo marito e i fratelli Castiglioni anche Alberto Moravia a cui viene chiesto di scrivere il commento di Magia nuda. Come è stato questo rapporto? Non parliamo di questa cosa perché mi arrabbio. Perché a un certo punto, non contento di quello che aveva scritto mio marito, Rizzoli aveva dato l’incarico di fare il commento a Moravia
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e Moravia ha cambiato solo tre parole. Una cosa scritta da me e depositata dal notaio. Scritto da chi? Scritto da lei il commento? No, mio marito l’ha scritto. Quello che ha fatto Moravia non è stato altro che copiare, cambiando due tre parole stupide che ci siamo accorti e questo pezzo è andato a finire da un notaio, ed è depositato dal notaio, perché non era giusto che Moravia facesse una cosa del genere. Mi dispiace dirlo ma è stata proprio veramente una cosa indecente. Ma l’avete incontrato di persona oppure… No. Senza incontrarlo di persona. Loro pensavano di migliorare il testo e l’hanno dato a Moravia e io non l’ho mai accettato. Questo è avvenuto da parte della distribuzione? O dai fratelli Castiglioni? I fratelli Castiglioni. Quindi è anche per questo che si deteriora, si interrompe il rapporto di lavoro tra suo marito e i fratelli Castiglioni dopo Magia nuda? No, perché abbiamo fatto prima Africa segreta poi Africa ama e poi Magia nuda. Allora come mai il loro rapporto si interrompe? Beh, perché fatto uno fatto due, fatto tre, cosa si andava ancora a cercare? Non c’è niente da trovare di nuovo. Credo anche che mio marito era anche stanco. Voleva di sicuro fare altro. Nel secondo film compare anche Oreste Pellini accreditato come autore e regista… Africa ama è stato fatto con Grimaldi. Sì. Però la distribuzione accredita come registi Guerrasio, i fratelli Castiglioni e Oreste Pellini. Oreste Pellini era sempre con loro. Dunque Pellini era sempre con i fratelli Castiglioni. Ci dice qualcosa di lui? Una bellissima persona, veramente molto buona.
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Come reagì suo marito al successo inaspettato di Africa segreta? Ne fu sorpreso, spiazzato o l’aveva previsto? Previsto non si poteva prevederlo. Comunque ci ha creduto fino in fondo. I film realizzati da suo marito con i fratelli Castiglioni sollevarono polemiche, alimentate soprattutto da studiosi e critici dei problemi africani. Ci fu qualcuno che si lamentò della crudeltà e della brutalità di alcune scene. So solo che dopo Africa ama, qualcuno che era in Africa, insomma qualcuno si era un po’ seccato di questa cosa. Altro non so. Mentre invece devo dire che c’erano molte donne africane che andavano con i figli a far vedere qual era la loro Africa e ringraziavano mio marito per aver fatto il film. Ci furono altri progetti a cui Guerrasio e i fratelli Castiglioni lavorarono che però poi non andarono in porto? Altri progetti? No, dopo non ne ha più fatti. Dopo ne ha montato solo un altro che si chiamava... ma adesso non mi ricordo più il vero nome che gli avevano dato con un’altra società. Africa nuda, Africa violenta di Mario Gervasi dove è accreditato come collaboratore? Sì, ma aveva guardato solo qualche cosa perché era stufo di fare quei film. Lei, invece, che ricordo ha dei fratelli Castiglioni come persone, con cui ha collaborato, come professionisti? C’è stata un’ottima amicizia, niente da dire. Siamo orgogliosi tant’è che altrimenti non avremmo fatto tre film insieme. Guido Gerrasio è morto a Milano, il 3 Maggio 2015. Quella che segue è forse la sua ultima intervista rilasciata a “Cinecittà News” durante il Festival del Cinema di Venezia del 2012. Sollecitato dall’intervistatore Guerrasio parla anche della sua esperienza di “africanista” – come con felice sintesi la chiama – svolta accanto ai fratelli Castiglioni nella realizzazione di Africa segreta, Africa ama e Magia nuda.
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Immortale davanti al Palazzo del cinema mentre si leva il cappello per “un riconoscente grazie alla Mostra”. Perché proprio al Lido è cominciato il viaggio di Guido Guerrasio, classe 1920 e milanese, nel mondo del cinema dal lontano 1942, quando partecipò come giovane critico alla Mostra, per poi ritornarvi come autore di cortometraggi e ancora come giurato internazionale per un concorso di corti. Oltre 130 i cortometraggi e i documentari realizzati da Guerrasio: da Amalfi del 1948, fino a Catene di smontaggio del 1996, e tra i premi ottenuti il Nastro d’argento nel 1979 per i film sull’arte. Autore, regista, documentarista, come preferisce essere chiamato? Cineasta, perché il termine indica una persona completa. Il cineasta può essere regista, critico, sceneggiatore, montatore. Nel mio caso avendo ideato, scritto, girato, montato, musicato i miei lavori, non posso che definirmi tale. I suoi lavori spaziano dall’ambito artistico a quello industriale e di costume. Sì, ho affrontato un po’ tutti i temi, qualcuno mi è stato commissionato. La maggior parte dei miei cortometraggi, come quelli su Milano e quelli sull’arte, sono stati paragonati da un critico un po’ alla terza pagina, agli elzeviri, perché eleganti, colti, anche se attenti a comunicare con il grande pubblico. Nella sua produzione troviamo anche alcuni documentari come Africa segreta del 1966 e Africa ama del 1971. Come nasce questo interesse verso quel continente? In verità in questa occasione non ho lavorato come un regista classico, il produttore Angelo Rizzoli mi aveva segnalato questo materiale girato in 16 millimetri da alcuni miei amici viaggiatori spericolati e matti per l’Africa, Angelo e Alfredo Castiglioni, Oreste Pellini. Non sapevo come comportarmi, perché si trattava di materiale realizzato da dilettanti, impossibile da mostrare così come si presentava. Ho avuto allora l’intuizione, che ha fatto la fortuna di film come Africa segreta, di capovolgere quello che era il classico documentario girato in Africa come nel caso di Gualtiero Jacopetti che si portava dietro una troupe vera e lavorava solo in esterni.
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Come è intervenuto su quel girato? Dalle immagini consegnatemi traspariva una brutale sensazione di verità che ho pensato di trasformare in un nuovo modo di fare documentario: uno sguardo naif sull’Africa, nessuna ricerca sociale. Mi sono impadronito del materiale, poi ho diretto con una sorta di sceneggiatura quello che ancora restava da realizzare. Scorrevano le immagini di usi e costumi di numerose tribù del Centro Africa che non erano mai state visitate, per esempio i pigmei. E allora scene di vita quotidiana, come il manicomio all’aperto dove vengono curati i pazzi, il sesso. In fase di montaggio, io e mia moglie, che ha sempre lavorato al mio fianco, abbiamo moderato alcune sequenze, come quella della circoncisione femminile. E quando i due film sono usciti, hanno sbancato il botteghino: oltre 3 mesi la tenitura di Africa segreta al cinema Durini. Per non parlare della gente che ha cominciato a viaggiare e scoprire quella terra. Con grande sorpresa dei tanti che non credevano al successo di film di questo genere… Mostrai Africa segreta a Rizzoli, nella sua casa di via Gesù a Milano, ma al primo nudo maschile la moglie, presente alla proiezione, se ne andò. Rizzoli mi rimproverò: “Non mi aspettavo questo da te che hai fatto un film così delicato come Dal sabato al lunedì”. Tutto il suo entourage a Roma durante la proiezione privata se ne era andato e aveva pronosticato che il film non avrebbe fatto una lira. La sera dell’uscita in sala di Africa segreta arrivò la notizia del tutto esaurito e di un incasso di 3 milioni e 300mila. Merito anche della promozione da lei ideata? Ho fatto pubblicare sul “Corriere della Sera” il classico flano, questa volta un uomo nero nudo coperto dalla scritta “Africa e segreta, in questo film vedrete…”, inoltre ho fatto distribuire 100mila cartoline dentro e fuori lo stadio di San Siro in occasione del derby. E che mi dice de L’Italia in pigiama. Costumi sessuali nelle tribù italiane, realizzato nel 1977? L’ho fatto quasi per dispetto, per togliermi di dosso l’etichetta di “africanista” che mi avevano dato. L’Italia in pigiama è la storia di due ragazzi che si amano e vanno dallo psicologo, ma soprattutto
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è la storia di come i costumi sessuali venivano visti e vissuti nelle diverse parti del nostro paese. Per esempio al Sud era morta l’ultima consolatrice, cioè colei che consolava le mogli degli uomini emigrati in Germania, o vi era la consuetudine che il promesso sposo mostrasse ai futuri suoceri la sua virilità con una prostituta; oppure al Nord si teorizzava il sesso di gruppo. Alla fine il Sud sorrideva del Nord e viceversa. Stefano Stefanutto Rosa, “Cinecittà News”, 20 Settembre 2012
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I film, i sondaggi critici, le testimonianze ADDIO ZIO TOM (1971) Regia: Gualtiero Jacopetti, Franco Prosperi Soggetto: Gualtiero Jacopetti, Franco Prosperi Sceneggiatura: Gualtiero Jacopetti, Franco Prosperi Fotografia: Claudio Cirillo, Antonio Climati, Benito Frattari Musica: Riz Ortolani Montaggio: Gualtiero Jacopetti, Franco Prosperi Suono: Carlo Diotallevi Produzione: Euro International Films Distribuzione: Euro International Films durata: 123’ (director’s cut 136’) censura: 58880 del 09-09-1971 (riedito come Zio Tom) Edizioni in DVD: Blue Underground (USA), Director’s Cut Blue Underground (USA) L’interesse di Addio zio Tom risiede in un fattore obiettivo: la disgregazione, la degenerazione della società capitalistica occidentale è arrivata a tal punto, che oggi i cineasti come Jacopetti e Prosperi, dei quali essa aveva ragione di vantarsi perché ne erano l’effluorescenza mostruosamente spettacolare, diventano dei contestatori spietati dei suoi valori. L’occasione è fornita dalla storia dello schiavismo americano. Pur conservando il loro modo di esprimersi, la loro volgarità e il loro sadismo, i due autori di Africa addio giungono a risultati diametralmente opposti: sposano clamorosamente la causa dei negri e denunciano senza mezzi termini le colpe e i delitti dei bianchi, le armi impiegate per violentare e
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castrare il popolo buono, completamente indifeso di fronte a tali “civili” sistemi di dominio. Il loro attacco è, naturalmente, più viscerale che ragionato, più esibizionistico che lucido, ma che importa? Non si può ancora chiedere ai cineasti di Mondo cane – che tuttavia compiono qui notevoli progressi sulla strada della razionalizzazione dei loro impulsi di gentiluomini – di avere della discrezione e del buon gusto. Tanto più (o tanto meno) quando essi si incontrano con dei predecessori, con dei mercanti di carne umana protetti dalle leggi (bianche) degli uomini e di Dio, che di cinismo e di brutalità ne ebbero infinitamente più di loro. Di fronte a tanti insuperabili mostri della speculazione e dello sfruttamento, Jacopetti e Prosperi si sentono modesti e finalmente superati. Reagiscono ancora buttandosi con disinvoltura nella mischia, compiacendosi di ogni attrattiva morbosa e d’ogni spettacolo fieristico. Ciò, del resto, secondo il loro ben sperimentato costume. Senonché stavolta (come già nei pezzi più allucinanti di Mondo cane) scatta una molla che li coinvolge e, tutto sommato, li obbliga a drizzare la rotta. Altro è il “gioco” che vogliono oggi: non più sputare su un mondo in cancrena, ma riscoprire il meccanismo della giostra di interessi che l’ha incancrenito. Il sistema adottato nella schiavizzazione li interessa quanto gli orrori della schiavitù, la sua “pianificazione” quanto l’abbrutimento delle vittime. Perciò, da reporters dell’avvilimento umano, dell’abnormità e dell’orrore, quali erano, si trasformano in panflettisti, in furibondi inquisitori della violenza fisica e morale codificata. Ne vien fuori un film che gronda cinismo nelle immagini, ma è razzista nel fondo; una inchiesta che può essere enfatica nei dettagli, ma risulta attendibilissima nella sostanza. Forse, per scendere nell’abisso, per rovistare in questo inferno che fu la colonizzazione dei negri e il loro genocidio, occorreva proprio della gente che non avesse paura del fetore e del sangue, necessitavano dei cinematografari primitivi senza peli sulla lingua, senza misura né grazia, senza il timore di varcare i cancelli del pudore e della vergogna. In un certo senso, Jacopetti e Prosperi erano gli individui adatti. Avendo già abbondantemente frugato nelle immondizie dell’umanità, potevano esorcizzare senza patemi la parabola di infamie che caratterizza il periodo da loro preso in esame; e se quest’ultimo
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termine “esame” suscita qualche obiezione, diciamo pure il periodo preso a soggetto del nuovo bagno di nequizie. È l’arco che, dai primi carichi di schiavi africani consegnati dai mercanti genovesi al largo delle coste del Sud, arriva – attraverso la trafila delle disinfestazioni, delle torture, delle corruzioni, attraverso l’organizzazione del “materiale grezzo” e la metamorfosi in una razza spuria ancor più prona alla volontà e alla lussuria dei bianchi, e contemporaneamente attraverso gli ancor più sinistri adattamenti e “progressi” delle leggi alle nuove regole e circostanze di sfruttamento – fino ai primi tentativi di rivolta coronati dalla sconfitta e dal massacro, fino alla marea montante di odio che i bianchi, neppur oggi troppo disarmati o pentiti, hanno saputo alimentare nella rabbia negra che si risveglia. Addio zio Tom, cioè addio al cane fedele, alla vittima consenziente. Come si vede è un arco lungo e frastagliato, una panoramica piuttosto complessa, che gli autori appiattiscono e semplificano in un solo, ma tuttavia pertinente, urlo di bestialità. Fin dall’inizio i negretti sotto la tavola padronale appaiono come cuccioli alla catena, da zittire con gli ossi. Similitudine animalesca che prosegue per l’intero corso del film, dove niente è trascurato per avvalorarla: “capi di bestiame” da trattare ed educare in recinti, “greppie” con pastoni per calmare gli affamati, atletici schiavi da marchiare o aizzare come stalloni, femmine in “calore” da “coprire” secondo i metodi più remunerativi, “allevamenti” razziali da commerciare o da pervertire programmaticamente, “belve” in libertà da abbattere, “esemplari” sottoumani da analizzare come cavie (e qui c’è un riferimento piuttosto preciso a certe teorie “scientifiche” belluine, emerse anche recentissimamente negli Stati Uniti). L’importante però è che tutto questo – se pure attraverso le deformazioni del sordido e del cinico tipiche dell’incolto espressionismo jacopettiano – non è mai “deformato” fino a tradire la realtà storica effettiva, anzi è visto sempre come proiezione e come effetto del potere economico e religioso dei bianchi. I quali, melliflui o dispotici, “onesti” borghesi o ministri del Signore, negrieri o impresari di case di tolleranza, servono tutti la legge inflessibile del profitto colonialista, i cui paragrafi vengono snocciolati e illustrati dall’inchiesta a edificazione di una società, alla quale tutti noi protesteremo di appartenere, mentre gli stessi autori se ne dichiarano apertamente corresponsabili. L’allegoria finale che purtroppo con gli stessi mezzi impiegati per gli schiavisti vuole esprimere la giu-
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sta rivolta negra, è una variazione sul romanzo storico Le confessioni di Nat Turner di William Styron, imperniato su uno schiavo che nel 1831 guidò un’insurrezione in Virginia massacrando una famiglia padronale, non delle peggiori, e una ragazza bianca da lui amata: e nel quale un suo erede odierno, capelluto e contestatore si identifica. Alle polemiche suscitate dal libro negli Stati Uniti, si aggiungeranno certamente quelle che provocherà in Italia il film, assai più schematico e violento. Tuttavia molto potrà essergli contestato, salvo l’estrema civetteria degli autori che, pur non avendo mai realizzato in passato un “vero” documentario, ma sempre dei reportage sensazionalistici, questa volta che fanno davvero sensazione con il loro pamphlet storico, osano più legittimamente – a uso e consumo del pubblico borghese – chiamarlo “documentario”, perché basato su fatti avvenuti e su personaggi esistiti. Ugo Casiraghi, “L’Unità”, 4 Ottobre 1971 Sulle tracce di uno schiavismo legale, ormai tramontato da poco meno di un secolo, Jacopetti e Prosperi tentano di disegnare una carta topografica della sofferenza dei negri negli Stati Uniti, fino all’avvento di Lincoln e alla guerra di secessione tra gli Stati Uniti e la confederazione del Sud, cioè fra schiavisti e antischiavisti; e per converso, una carta topografica dei delitti dei bianchi: razzismo, ntolleranza, propensione a vedere i negri come animali, ignoranti, selvaggi, una sottospecie animale con i suoi caratteri ereditari, la sua bestialità, la sua insolenza e sottomissione; la sua mancanza di intelligenza, la sua ferocia, la sua capacità prodigiosa di espansione, la sua forza inarrestabile di riproduzione. Un po’ di convenienza e un po’ di paura, un po’ di cattiveria e un po’ di falso pietismo, un po’ di criminalità e un po’ di malintesa religione, sono tutte le ragioni e i torti di questa secolare “guerra al negro” prima di tutto perché negro, poi perché metteva paura, suscitava ribrezzo, metteva addosso gravi complessi di inferiorità, con la sua forza vergine e selvaggia, con i suoi istinti primordiali, con i suoi attributi virili mostruosamente “imbarazzanti”.[...] Odio come religione, odio come violenza fine a se stessa. E l’odio genera l’odio, e la violenza, la violenza. Come il film dimostra largamente, con scene di agghiacciante realismo, ma non compiacimento. Vice, “La Notte”, 1 Ottobre 1971
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Gli autori definiscono questo film un documentario. Documentario, se si vuole ma all’italiana. Come un western all’amatriciana, girato cioè in Ciociaria o nei pressi di Granada, può avere certe somiglianze con quelli autentici di John Ford. Diciamo con più proprietà che Addio zio Tom vuol essere una ricostruzione storico-aneddotica delle sofferenze, dei travagli, delle mortificazioni, insomma, delle sventure che coglievano i negri fatti schiavi da mercanti dal cuore di cartone in Africa, deportati in catene nelle Americhe e ivi impiegati nelle piantagioni di cotone e di caffè. Considerati umani di infima categoria, trattati come bestie da lavoro, dovevano subire i capricci, le smanie, le tendenze malefiche dei padroni. Il trattamento distratto o crudele delle ore del giorno, subiva spesso variazioni di tutt’altra violenza nelle ore del buio. Per cui si creavano strane alleanze e solidarietà: la tortura, la sferza e il capestro coprivano nei peggiori dei casi misfatti e male azioni che nulla avevano a spartire con la giustizia, l’umanità e anche il comune buon senso. Partendo da dati conosciuti, da pagine di nuovi e vecchi libri, da referti medici e giudiziari, Jacopetti e Prosperi, noti per questo tipo di operazioni, sono ritornati all’esercizio prediletto: il pretesto della schiavitù serve a mostrare scene irritanti, spiacevoli, spesso sadiche. Né vale la scusa che si tratta di cose vere. A parte che la finzione documentaristica su avvenimenti, sentimenti ed emozioni del passato elude il nocciolo della questione e rifiuta lo splendore del vero trasformandolo in grottesco e parodia (gli autori con frequenti accenni hanno sentito il bisogno di fare l’occhietto allo spettatore...), infastidisce in Addio zio Tom un che di malsano, un sentore di lenzuola fradicie. Vice, “Il Giorno”, 1 Dicembre 1971 Jacopetti fu il cronista (anche se, spesso, sollecitava la realtà; anche se, talvolta, il vero non sembrava verosimile) non della violenza ma della brutalità, delle estreme abiezioni, della bestialità. Il titolo del suo primo film del resto diceva tutto: Mondo cane. Ed eccolo, ora, rimestare (è la parola esatta) nel fondo di un passato doloroso, lo schiavismo, quando i negri – strappati dall’Africa – erano violentati fino nella loro essenza umana, degradati a cose, a merci di scambio. Jacopetti dice che quei fatti, o fatti simili a
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quelli, sono rigorosamente storici, ma è la loro interpretazione (e rappresentazione) che offende. E non parliamo soltanto dell’immonda, continua coprologia, della voluttà del sangue, dell’erotomania, delle deviazioni (come in un calendario dell’orrore) ma del quadro storico distorto, dell’ambigua compromissione fra carnefici e vittime, del sospetto tentativo di dimostrare che, in fondo, zio Tom era responsabile – quanto i sensali e i padroni crudeli – della sua triste, disumana sorte. E che significa, infine, quel riflusso nei giorni nostri, nel paradiso di Miami Beach col negro intellettuale che legge le memorie di Nat Turner e poi fa scoppiare il pallone di una bimba bianca? Che l’integrazione (non tiene neppure conto di aggiungere che oggi si fa anche differenza fra black e negro) è difficile? Ma per Jacopetti, zio Tom è uscito dalla sua capanna? Vice, “Corriere d’Informazione”, 2 Ottobre 1971 Con il pretesto di tracciare un excursus storico della bieca pratica dello schiavismo, e per arrivare alla conclusione che lo schiavismo rivive oggi in tutti noi vittime della costrizione del lavoro, la coppia Jacopetti-Prosperi, già abbondantemente sperimentata in imprese del genere, ha realizzato uno dei film più detestabili che ci sia mai capitato di vedere. Violenze di ogni genere, cascate di sangue, stupri, sadismo, bestialità, erotismo, turpiloquio sono le componenti, profuse con incontrollata voluttà, di questo sedicente “documentario”, che è in realtà un film tutto inventato, costruito, premeditato con un cinismo pari alla sfrontatezza di chi vuol gabellarlo come opera di meditazione su un fenomeno doloroso, ma che meritava ben altri “storici”. […] A questo punto, poco importa aggiungere che il film immagina che due “inviati speciali”, i precipitati Jacopetti e Prosperi, abbiano la possibilità di compiere una specie di viaggio a ritroso nel tempo, per indagare come negli Stati Uniti sia maturato e abbia prolificato il fenomeno dello schiavismo; e che questo viaggio costituisce il pretesto per profondere a piene mani l’orrorifica visione del mondo che, sin dal significativo Mondo cane, caratterizza i due cineasti.[...] Sono tempi questi in cui c’è chi predilige farsi dare pugni nello stomaco. Addio zio Tom, questo è certo, glieli dà con la forza e la bestialità di un Monzon. G.C., “Il Resto del Carlino”, 3 Ottobre 1971
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È inventato, per di più, da fantasie sguazzanti nel torbido e nell’orrido come quelle di Jacopetti e Prosperi, già autori di una sfilza di “documentari” di questo tipo, l’ultimo dei quali, Africa addio, rimpiangeva addirittura il colonialismo. Qui viene a galla senza possibilità di dubbio (se vi è ancora qualcuno che ne ha) quanto false e di tutto comodo siano le prese di posizione e i “messaggi” del tandem registico citato. Addio zio Tom vuol essere la storia dello schiavismo in America, dell’obbrobriosa colpa dei bianchi seviziatori e delle angherie subite dai poveri negri fino al loro lento trasformarsi dalla condizione di bestie in quella di “Pantere nere”, pronti a far pagar care all’uomo bianco le sue turpi prepotenze. Per far ciò Jacopetti e Prosperi immaginano assurdamente loro stessi (cioè l’obiettivo della loro macchina da presa: forse è questa l’“obiettività” di cui parlano) che, fin dall’Ottocento, intervistano personaggi e visitano luoghi dove la schiavitù imperversa barbaramente, dove il grasso bianco domina con il più inaudito sopruso e lo staffile e il negro – uomo, donna, bambino che sia – è appaiato alla bestia e come tale trattato (anzi mal... trattato). […] La gran parte di questa pellicola è realizzata ad Haiti, e il fatto che alla fine Jacopetti e Prosperi ringrazino caldamente Francois Duvalier, il presidente tiranno di quella povera isola, è un altro elemento dolorosamente chiarificatore. F.C., “Eco di Bergamo”, 3 Maggio 1972 Dopo l’addio nel modo contestabile che ricordiamo all’Africa coloniale, la coppia Gualtiero Jacopetti e Franco Prosperi oggi saluta lo zio Tom, cioè l’America schiavista, e puntualmente torna a farci ribrezzo. Gli anni e le polemiche sembrano dunque trascorsi invano; seppure abbiano perso una certa grinta pseudo-ideologica (quella che procurò loro le fondate accuse di razzismo), i due cineasti hanno continuato imperterriti a tirare pugni nello stomaco del pubblico, a fuggire dal buon gusto e a dipingere il mondo come un sozzo albergo di crudeltà. Venduta alla cassetta, insieme all’anima, una certa virtù di visionari che avevano agli inizi, la loro idea della vita è ormai quella dei cinici che trovano negli orrori della storia, un pretesto per irridere la pietà. Addio zio Tom ha un’aggravante, rispetto ad Africa addio, nella quale almeno la maggior parte delle scene erano prese dal vero:
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pressoché tutte le sequenze del nuovo film sono ricostruite, ispirate ad un sarcasmo che tocca le vette della provocazione alla fine, quando una didascalia vuole convincerci che abbiamo assistito a un documentario. Si tratta invece, sulla scorta di qualche libro, e citando figure realmente esistite, di un viaggio attraverso l’infamia dello schiavismo compiuto legando insieme (maldestramente) episodi di varia attendibilità, interpretati da attori in costume e da gruppi di negri di Haiti costretti a fare la parte delle vittime. Nulla è vero, dunque in Addio zio Tom, salvo l’inverocondia con cui Jacopetti e Prosperi mettono la loro abilità di fotografi al servizio di istinti esecrandi, del proprio sadismo e della piccola tesi che la schiavitù non è stata affatto abolita, essendo ancora schiavi, tutti noi del lavoro. Assunto fin dall’inizio un tono ironico, destinato ben presto a scivolare nel beffardo, con l’immaginare che due reporter cinematografici italiani di oggi siano andati a condurre un’inchiesta negli States del Sud nel primo Ottocento, il film si sviluppa secondo il vecchio schema che risale a Mondo cane: una corona di fatti turpi e sensazionali, sgranata con l’occhio sempre attento al ferino e all’erotico, e alternata a soavissime immagini di liliale innocenza. I nostri “inviati speciali” cominciano col salire su una nave d’un genovese che trasporta un carico di schiavi, e siamo già nel cuore dell’inferno. Presa al volo l’occasione per mostrarci le brutalità inflitte agli infelici pigiati nella stiva, si passa a un centro-raccolta dove fra altre nequizie la merce è lavorata e ingrassata. Dopo averci informati che i preti, nonché biasimarli, benedivano il mercato, è la volta delle torture imposte da parte di bianchi specializzati nell’evirare, stuprare e frustare gli schiavi, e del loro sfruttamento come servi nelle case dei ricchi. Fatta visita a un bordello, buttato l’occhio in chiesa, in una fabbrica di efebi e in un baraccone di fenomeni viventi, eccoci a intervistare uno scienziato ebreo che sostiene l’inferiorità della razza negra. Una breve sosta in una palude per ricordare il massacro degli schiavi che tentavano di fuggire, e viene alla ribalta un grassone che ha impiantato un allevamento dove stalloni e manze sono uomini e donne. Poi, di colpo, si salta ai giorni nostri con un negro civilissimo che rievoca le stragi compiute da Nat Turner e immagina di ripeterle sui bianchi di cui è circondato: epilogo sibillino, utile soltanto per accrescere la ferocia e il disgusto.
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Abbiamo detto che il sapore di fondo di Addio zio Tom è sarcastico. Ora aggiungiamo che tutto il film vuol essere una parodia delle inchieste etnografiche e sociologiche (e, in certi passi, di Fellini). Questo però non basta a renderlo accettabile. L’umorismo di Jacopetti e Prosperi, di qualità spesso nefanda, infatti si arresta di fronte alla voluttà dello scandalo: la caricatura dei bianchi, affidata sovente a immagini goliardiche e a dialoghi penosi, non può perciò ripagare la sostanziale odiosità di un film che – mentre sembra volersi servire del ridicolo e dell’assurdo per condannare lo schiavismo – ricorre poi al realismo più crudo quando sono di scena i “poveri negri”. Sicché non soltanto rifiuta il minimo cenno di commozione e di vergogna ma totalmente si infischia del problema razziale, nelle sue implicazioni storiche e morali anche d’attualità, e prende pretesto da quella piccola cosa che fu il mercato di carne umana per una sorta di Hellzapoppin in cui ovviamente si insiste con abbondante turpiloquio su molte schifezze, e si fa larga mostra di natiche e seni e inguini e cosce di sventurate comparse di colore, miseramente sfruttate dal neocolonialismo cinematografico. Addio zio Tom avrà un successo proporzionato alla sua anima plebea. Chi si giova s’accomodi, ma poi non si lamenti se soffre di nausea. Giovanni Grazzini, “Corriere della Sera”, 1 Ottobre 1971 Dopo aver chiuso con Africa addio (1966) l’infame capitolo dei “reportages” ad alto potenziale scandalistico – dove la laida speculazione commerciale, la calcolata ambiguità ideologica e l’abissale malafede venivano contrabbandate come “rispetto del documento e della cronaca” (e si è poi visto che razza di documenti artefatti e di cronaca sollecitata erano quelli di Mondo cane e di Africa addio) – il duo Jacopetti-Prosperi (Paolo Cavara col capo cosparso di cenere ha fatto nel frattempo l’autocritica – vedi L’occhio selvaggio – ed è andato a Canossa a caccia di tarantole col ventre nero) – apre un nuovo capitolo, quello del film che è anche un’inchiesta ma sopra un materiale del passato: insomma, per dirla con una formula, il capitolo dell’inchiesta-ricostruzione storica.Vediamo subito in cosa consiste: tema di Addio zio Tom è la storia dello schiavismo in America, una pagina della storia del secolo scorso oggettivamente vergognosa e degna quante altre mai di meditazione. Ma come
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dare un’idea cinematografica, si devono essere chiesti i due autori, di fatti del passato per i quali si sono consumati fiumi di inchiostro ma, ahimè, nemmeno un metro di pellicola? Tenacemente fedeli alla loro missione di cronisti con la macchina da presa e col grandangolo, i due hanno travolto spavaldamente l’ostacolo e, visto che il materiale documentaristico non c’era, se lo sono finto, ricorrendo all’artificio (un po’ da televisione per ragazzi, un po’ dal “Reader’s Digest”) della cronaca del passato filmato “come” se si svolgesse per la prima volta sotto l’occhio implacabile dell’obiettivo. Ma dopo aver rinunciato in questo modo al solito alibi del “documento” e del “brandello di vita”, Jacopetti e Prosperi si sono affrettati per cercarne altri per giustificare culturalmente e storiograficamente la loro furba (ma non abile) operazione, usufruendo all’uopo di sparse citazioni di storici o di protagonisti del triste mercato umano e sbandierandole quasi ad ogni inquadratura in maniera però che potessero essere usate in tutti i modi, da destra, da centro e da sinistra, da Ronald Reagan a Eldrige Cleaver. Ne è uscito un ignobile centone di volgari mistificazioni in confronto alle quali lo scaltro paternalismo di Africa addio fa nella nostra memoria un figurone. Ma c’è di più: l’abissale volgarità di Addio zio Tom non si limita al contenuto delle immagini ma coinvolge tutti i materiali del film. “Avvenire”, 2 Ottobre 1971
AFRICA AMA (1971) Regia: Alfredo Castiglioni, Angelo Castiglioni, Guido Guerrasio, Oreste Pellini Fotografia: Alfredo Castiglioni, Angelo Castiglioni, Oreste Pellini Musica: Angelo Francesco Lavagnino Montaggio: Guido Guerrasio Produzione: P.E.A. – Produzioni Europee Associate di Grimaldi Maria Rosa, Sahara Film di Alfredo Castiglioni, Angelo Castiglioni, Oreste Pellini e Co. Distribuzione: P.E.A. durata: 95’ censura: 59113 del 21-10-1971
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Edizione in DVD: Seven Eight (Giappone) Nota: nel 1972 Alfredo e Angelo Castiglioni con Vittorio Franchini pubblicarono per la Sugar un libro con il medesimo titolo. Il motivo conduttore generale del film Africa ama vorrebbe essere la tesi secondo cui il comportamento dei primitivi africani segue docilmente le leggi di natura, in netta contrapposizione con la civiltà che di essa è soltanto una deviazione. Tesi indubbiamente suggestiva e importante se Guido Guerrasio non l’avesse esemplificata alla Jacopetti, e cioè mostrando scene particolarmente violente e dedicandosi con gusto particolarmente morboso a riprendere scene di iniziazioni sessuali, di parti, di riti funerari, di vita sessuale, di tecnica della infibulazione e della circoncisione, di spruzzi di sangue fuori e dentro (sic!) le sale operatorie ecc. Tra il dire e il fare c’è di mezzo il mare, recita un vecchio adagio popolare. Tra Rousseau e Guerrasio c’è di mezzo il fascio. Anche il povero ginevrino, infatti, si era proposto di dimostrare una tesi più o meno simile, solo che (ecco perché “poveretto”) non gli era mai venuto in testa di esaltare il suo “primitivo” descrivendocelo mentre è tutto intento ad assaporare un distillato di... sterco di mucca, né aveva creduto (altro grosso errore, a quanto pare) di poter comprendere i motivi che portavano il buon selvaggio a comportarsi in un determinato modo, se non facendo riferimento a tutto il contesto storico e sociale in cui era inserito. D’accordo, anche lui è finito poi per diventare un idealista ante-litteram, ma almeno ci ha provato con una certa serietà. Guerrasio invece ha adoperato criteri del tutto diversi per costruire il suo film, criteri che, tra l’altro, difficilmente vanno d’accordo con le definizioni di film “storico”, “etnografico”, “sociologico” che di Africa ama sono state date. Prendiamo per esempio il termine “storico”, che forse è il più soggetto di tutti ad equivoci e confusioni. La storia infatti (a meno di non attribuirle il significato usuale di quando si dice “non venire a raccontare storie”!), è non solo la collocazione precisa nel tempo di fatti realmente accaduti, ma è anche l’analisi di questi fatti in rapporto alle cause che li hanno determinati. Se prendiamo in considerazione poi il termine “etnografico”, ci accorgiamo che esso sta a significare lo studio dei popoli e delle loro tradizioni in
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rapporto alle condizioni geografiche, politiche, demografiche, ecc. Quanto alla “sociologia”, tutti sanno che è lo studio della società in tutte le sue forme costitutive e dei presupposti (naturali o provocati) che ne sono la causa. Nel film di Guerrasio, invece, non solo non c’è neppure la regoletta cronachistica del “come” e “perché” (che in fin dei conti sarebbe stato pur sempre qualcosa), ma manca completamente l’analisi dei fatti che tenga conto del quadro generale (politico, sociale, culturale, geografico) in cui essi sono in realtà inseriti, nonché il minimo criterio di scelta dei fatti in base al “particolarmente significativo”. In Africa ama, cioè, non solo le sequenze sono state studiate in funzione dello spettacolo truculento e ad effetto (e non del significativo), ma vana sarebbe ogni ricerca di legami tra la “realtà” mostrata, e la situazione sociale e politica in cui si sono venuti a trovare gli indigeni africani per colpa (passata e presente) della politica colonialista della civiltà dei bianchi. Anzi ai bianchi – e ai missionari in primis –, sono dati solo attestati di merito. Guerrasio, è vero, afferma di voler dimostrare quanto la nostra civiltà sia ormai “deviata” dallo stato di natura, ma egli gioca sull’equivoco, giacché se da una parte vorrebbe far credere che lo stato di natura è l’unico non “deviante” per l’uomo, dall’altra, e con ben altro impegno, finisce per ridurre lo stato di natura ad uno stato di barbarie. Col che, è evidente, la nostra civiltà, proprio perché devia dallo stato di natura, è una società civile e moderna. Né sapremmo come altrimenti giudicare immagini che per sottolineare un “originario” vivere naturale ci mostrano scene tendenti a far sgomentare e inorridire, e che, per “criticare” la deviazione della nostra civiltà da una simile forma di vita, ci mostrano (o fanno riferimento) a città moderne e ad uso di gran lunga meno “crudeli”. Africa ama, insomma, non fa altro che approfittare di una ambigua enunciazione antropologica e sociologica, per portare acqua al mulino del razzismo (solo delle bestie come i negri possono continuare a vivere ai giorni nostri in siffatti modi!) e del colonialismo (da soli che saprebbero mai fare?). Ma di che dobbiamo stupirci se, come hanno affermato le cronache, il nostro rappresentante all’ONU si è astenuto su una votazione che condannava i regimi razzisti della Rhodesia e del Sudafrica? Il film, ad ogni modo, non è solo un avvallo del peggior razzismo, e di una “cristiana” e “democratica” politica estera naziona-
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le, ma è anche sotto sotto un ottimo antidoto per la contestazione della nostra civiltà. Come sarà possibile, infatti ora che abbiamo visto quanta strada ci separi da quelle povere “bestie” con sembianze umane, ora che abbiamo visto che un ritorno alla natura significherebbe un ritorno alle barbarie, contestare ancora la bontà del nostro sistema sociale, e chiedere il ritorno a forme di vita più naturali. Bruno Damiani, “Cineforum”, 109/1971 Il successo insperato di Africa segreta ha aperto il borsellino dei produttori e distributori, i quali hanno permesso ai tre patiti dell’Africa (i fratelli Castiglioni e Oreste Pellini) e all’abile Guido Guerrasio di proseguire il discorso sul continente nero. Ma già in partenza l’idea mirava a sfruttare l’andazzo commerciale del mercato cinematografico internazionale: si dovevano documentare i costumi e le tradizioni sessuali delle ultime tribù primitive. Fortunatamente gli autori posseggono una passione etnografica così autentica che la violenza dei riti antichissimi, le pratiche di iniziazione e e la magia del sesso che aleggia su quei paradisi in via d’estinzione non sono diventate altrettante sequenze morbose ma, pur “choccando” i meno informati, hanno sottolineato la millenaria comunione con la natura di quelle sperdute popolazioni. Vice, “L’Unità”, 6 Novembre 1971 [...] Un motivo di dibattito è comunque offerto anche dal commento di Guido Guerrasio, coautore del film. Se certe sue fastidiose battute di spirito potrebbero essere facilmente espunte (sarebbe da sforbiciare anche un’orgetta all’hashish aggiunta evidentemente per le grosse platee) contestabile resta tutto l’assunto del parlato. Per via del commento, il film pecca a parer nostro di superficialità e di ambiguità ideologica, mosso dalla nostalgia d’un mondo e di modi di vita che soltanto in qualche caso meritano di essere rimpianti, carichi come sono di usanze barbariche e crudeli. Giovanni Grazzini, “Corriere della Sera”, 6 Novembre 1971 Ancora una volta assistiamo ad un saccheggio dell’Africa. Quella primitiva chiarisce lo speaker. Il pretesto è sempre quello dell’in-
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chiesta documentaria, della indagine di costume, della ricerca pseudo-scientifica, ma in realtà ci si preoccupa sopratutto di collezionare immagini sensazionalistiche, che si basano su fatti di sadismo e di violenza che nella loro essenza non sono tali, poiché inseriti in un contesto di tradizione, primitiva e arcaica fin che si vuole, ma comunque non gratuita. Vice, “Avanti!”, 6 Dicembre 1971 Certo il materiale è pregevole, tutto rigorosamente autentico, non camuffato, né contrabbandato per ottenere effetti, che del resto ci sono già, in abbondanza. L’Africa vera è qui, da quella più orribile, dei riti di sangue e di morte, a quella che tra pochi anni non ci sarà più. Ors., “La Notte”, 6 Novembre 1971 Anche per il materiale ampiamente inedito, il film riveste un notevole valore etnografico; ma l’assenza di pietà, certi indugi possono anche far sospettare. Comunque, le riprese sono di vivo interesse, girate senza troppo badare alla calligrafia. La realtà ancora appartata dell’Africa parla da sé, in immagini spesso conturbanti o repellenti. A.S., “Corriere d’Informazione”, 7 Novembre 1971 Tipico esempio di cinema etnologico della crudeltà, che se ha il pregio di non essere realizzato con fondi di magazzino riappiccicati con mal grazia, nasce comunque in peccato mortale dato che punta più o meno scopertamente sui cattivi istinti degli spettatori. Pure la malizia morale, presente anche nel titolo, viene nel complesso riscattata dalla ampia ricchezza del materiale offerto, dalle novità effettivamente mostrate, dall’indubbia fatica che l’indagine deve essere costata ai quattro autori-operatori. Vice, “La Nazione”, 7 Novembre 1971 Con tecnica cinematografica non sempre molto felice, comunque, con delle immagini a colori abbastanza scialbe, comuni, con
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un tono diffuso di improvvisazione un po’ grezza, quasi le esigenze immediate, le complicazioni e i disagi di un reportage in zone impervie e lontane abbiano pesato negativamente sull’accuratezza e l’impegno delle riprese, sulla fotografia, sulle luci. Di effetto, la musica di A.F. Lavagnino, ispirata, ma senza folclorismi, ad autentici ritmi africani. Gian Luigi Rondi, “Il Tempo”, 11 Novembre 1971 Che il nostro pubblico, col palato guasto da tante farsacce erotiche, riesca ad apprezzare, sia pure senza travolgente entusiasmo, un simile film è senza dubbio confortante. Ma a diffidarci dal generalizzare arriva a buon punto Africa ama, un documentario dovuto agli stessi realizzatori del fortunato Africa segreta (Angelo e Alfredo Castiglioni, Oreste Pellini e, per il coordinamento e la strutturazione cinematografica, Guido Guerrasio). Qui anche se le immagini sono drammatiche, improntate al più crudo realismo, c’è di che guastare definitivamente il palato. Africa ama è il prodotto di una tipica operazione mercantilistica. Se Africa segreta ha incuriosito il pubblico, perché non insistere nella medesima direzione? Perché non raccogliere dalle superstiti costumanze e dai riti sacri di tribù primitive quanto di più orrendo esse possano offrire, con il pretesto di una documentazione di raro valore etnologico? “Epoca”, 21 Novembre 1971 È difficile dire, in sede culturale, se Africa ama derivi da un autentico interesse etnografico o, in giovani avventurosi, da quella tendenza in crescente aumento in questi anni verso il filone esistenziale primitivo o arcaico che ha dato opere egregie e mediocri, sempre sostenute però da una polemica sottintesa contro la civiltà dei consumi. Vice, “Il Giorno», 6 Novembre 1971 Come molte pellicole dello stesso argomento che l’hanno preceduto (anche se non insiste su significati ideologici com’era il caso di Africa addio di Jacopetti), anche questo Africa ama (un’Africa, poi, che non ama affatto ma, se mai, si flagella e si dissangua) isola
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le sequenze che presenta – colte con accanita insistenza su particolari raccapriccianti – da tutto il contesto storico e sociale che le contiene. Ne esce quindi un’ Africa profondamente falsata nella sostanza e lontana dalla realtà vera – ben diversamente sofferta – del Continente Nero. F.C., “Eco di Bergamo”, 10 Marzo 1972 No, non siamo d’accordo con questo film in particolare e con questo tipo di film in generale. L’intenzione degli autori (l’operatore Oreste Pellini, gli esploratori fratelli Castiglioni, il montatore e commentatore Guido Guerrasio) è quella di farci vedere quegli ultimi sprazzi di Africa primitiva che ancora resistono nel Continente Nero, all’avanzata della civiltà. Intenzione, quindi, di fare un film serio, dai precisi valori etnografici, che non rifugge dalle riprese esplicite, crudeli o sgradevoli nel supremo interesse della scienza. Anche perché dice un passo del commento, le popolazioni africane non hanno una tradizione scritta che tramandi ai posteri il significato dei loro costumi e delle loro abitudini, e la pellicola si incarica appunto di documentare, cioè di fissare nel tempo, tali manifestazioni. “Gazzettino di Bergamo”, 9 Marzo 1972 Il successo di Africa segreta – che come forse si ricorderà aveva saputo evitare in certa misura gli atteggiamenti triviali e sconci di solito assunti dagli “esploratori” europei nei confronti dell’Africa – deve aver incoraggiato Guido Guerrasio e gli altri realizzatori di questo film a ritentare la sorte. Ecco infatti questo Africa ama, ordinata rassegna di altri “documenti” (sulla cui autenticità complessiva non ci sembra lecito dubitare) raccolti in regioni non ancora toccate, o soltanto sfiorate, dal “progresso” dei bianchi: l’Alto Volta, il Dahomey, e certe zone del Togo, del Camerun, del Ciad. [...] Perché, insomma, Africa ama è un film mancato, e in buona parte, anche disonesto? 1) Perché gli autori non hanno saputo (o voluto) tener conto che il cinema è, tra tutte le forme di comunicazione, la più aggressiva e traumatizzante. 2) Perché il dato anatomico e raccapricciante se fornito ripetutamente, non solo non ci “informa” di più sulla sua esibizione isolata, ma desta il fondato sospetto di un compiacimento gratuito. (Oltretutto, non si tratta di materiale
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etnologico assolutamente “raro”: le circoncisioni, le inumazioni, le danze erotiche si sono viste altre volte.) 3) Perché, infine, l’accumulazione dei fenomeni più vistosamente “abnormi” e “crudi” dell’Africa, staccati da un contesto umano sicuramente assai più vasto e complesso di quanto qui non appaia, giunge a stravolgere – operandone in effetti una vera e propria correzione sadica – la “innocenza” di quel costume che si dice di voler rispettare. Vice, “Avvenire”, 7 Novembre 1971 Si sapeva dopo le prime esperienze di Jacopetti che il pubblico era sensibile alla crudeltà dei riti “selvaggi”, trovandovi forse l’immagine speculare delle sue violenze represse, Africa ama porta adesso al limite consentito delle consuetudini cinematografiche quella feroce documentazione, infilando la via comoda dei costumi sessuali che garantiscono di trasformare, se occorre, la violenza in sadismo. Vice, “La Stampa”, 28 Novembre 1971 Tutto sommato, o gli episodi sono una condanna di sapore razzista verso i “primitivi” che si sono ingenuamente prestati all’indiscrezione della cinepresa, oppure sono un’incredibile proposta di spettacolo traumatizzante a beneficio non di una informazione scientifica, bensì di un immorale gusto per l’abnorme. “L’Osservatore Romano”, 19 Dicembre 1971 All’origine, dunque, del razzismo italiano c’è l’idea del “cattivo selvaggio”, irrimediabilmente portato ad essere “primitivo”. Quest’idea, è vero, non ha trovato espressione che in un particolare filone del nostro cinema documentario, il cui iniziatore è stato Jacopetti. Ma se si riflette che il cinema è, per antonomasia, arte di massa e che i film razzisti sull’Africa sono piaciuti al pubblico delle domeniche come alle giurie di certi premi, si capirà che l’indicazione sociologica e psicologica fornita dal successo di questi film non è poi così irrilevante. Queste riflessioni ci sono venute in mente assistendo alla proiezione del documentario Africa ama di Angelo e Alfredo Castiglioni, Oreste Pellini e Guido Guerrasio. Nel giornale il film è annun-
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ciato come un “Viaggio di più di centomila chilometri alla ricerca di riti e abitudini di vita in Africa”. Sì, questo è il pretesto. In realtà si tratta di un prodotto sensazionalistico di tipo sadico, nel quale i “cattivi selvaggi” sono tartassati senza pietà con l’accusa dell’informazione antropologica. “L’Espresso”, 12 Dicembre 1971 Basta vedere il film insieme agli altri spettatori, quando la sala è affollata all’inverosimile, per rendersi conto di come funziona la faccenda. Le risate fanno tutt’uno con i fremiti di orrore, i commenti grassi si mescolano alle sentenze indignate di chi sbotta in un virtuoso “bisognerebbe ammazzarli tutti”. Non è colpa degli autori, se nel pubblico allignano stati d’animo e chiusure mentali da “maggioranza silenziosa”. Alt, un momento: il cinema è un fatto di comunicazione, non se ne può parlare senza tener conto dei meccanismi attraverso i quali agisce sullo spettatore; sono parte integrante di ogni film, non un “di più” di cui si può trattare a parte. L’opera cinematografica non esiste in astratto, su una pellicola da vedersi in privato, ma è tutta lì, nel suo rapporto con il pubblico. Sandro Zambetti, “L’Espresso”, 12 Dicembre 1971
MAGIA NUDA (1975) Regia: Alfredo Castiglioni, Angelo Castiglioni, Guido Guerrasio Soggetto: Guido Guerrasio Sceneggiatura: Guido Guerrasio Fotografia: Alfredo Castiglioni, Angelo Castiglioni Musica: Angelo Francesco Lavagnino Montaggio: Guido Guerrasio Produzione: P.E.A. – Produzioni Europee Associate di Grimaldi Maria Rosa, Zarai Distribuzione: 20th Century Fox durata: 100’ censura: 65758 del 24-12-1974 Edizioni in DVD: Seven Eight (Giappone), Intermedia Video/ Woodhaven Enterteiment (U.S.A.), Massacre Video (U.S.A.)
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La voga del terzo mondo fu inaugurata mezzo secolo fa a Parigi da una grande esposizione d’arte e dalla Anthologie Nègre dello scrittore Blaise Cendrars. Se oggi guardiamo indietro, non troviamo più quel panorama primitivo e spontaneo. In Africa sgorga il petrolio, sono state costruite allucinanti metropoli, i safari sono organizzati e confortevoli, la democrazia ha perfino prodotto il generale Amin. È dunque perduto il continente misterioso? Per restituircene l’immagine i fratelli Alfredo e Angelo Castiglioni hanno ubbidito alla vocazione del grande réportage. Hanno percorso 300.000 chilometri per raggiungere i più lontani e segreti recessi della magia nera, hanno speso tre anni di vita coraggiosa, si sono avvicinati a un tiro di lancia a bufali ed elefanti inferociti, hanno ripreso in primo piano i riti degli stregoni. Hanno portato a casa centomila metri di pellicola, che includono le loro diversioni in altri due continenti (Asia e America), sempre alla ricerca del “rapporto magico” tra le popolazioni, la natura e i miti che la circondano. Più che spettacolare, questo film deve essere considerato come un grosso documentario etnografico. P.F., “Il Giornale”, 25 Gennaio 1975 I documentari Africa segreta del 1969 e Africa ama del 1971, nonostante l’evidenza mercantile delle produzioni, ci avevano interessato per la passione etnologica dimostrata dagli autori. Il commento, la scelta degli episodi, l’angolazione scientifica, anche se non riuscivano a spiegare tutto, davano un’impronta di serietà all’insieme. Il mestiere di Guerrasio e l’amore per l’Africa dei gemelli Castiglioni smorzavano poi anche le cose più ostiche e rivoltanti. C’era una specie di risarcimento ideale degli autori, verso quelle popolazioni in via di estinzione. Questa nuova fatica, quindi, avrebbe dovuto continuare il discorso, allargandolo verso altri gruppi etnici primitivi, i quali, come quelli africani, vivono oggi forse la loro ultima stagione. Senonché gli autori, con tanto materiale ancora a disposizione, spinti dalle più ovvie ragioni (cassetta, spettacolo e moda), hanno “riscoperto” nel tutto quale primario motore il substrato magico dei riti e dei costumi. In sostanza assistiamo agli stessi fatti degli altri documentari, visti e commentati in rapporto al loro contenuto magico e demoniaco. I.P., “L’Unità”, 25 Gennaio 1975
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Come Africa ama di tre anni fa, anche Magia nuda dei fratelli Castiglioni e di Guido Guerrasio ha una sua dignità formale e un evidente interesse etnografico. La documentazione su usi e costumi di paesi lontani, ancora selvaggi al di qua della deformazione occidentalizzante, ancora fermi a uno spontaneo contatto tra uomo e natura e a una valutazione del sesso in termini di fecondità e di magia sacra, suggestiona e fa riflettere. Anche se qualche sequenza può nascondere tra le pieghe dell’indagine sociologica una curiosità morbosa e la meraviglia lasciar posto ad una scaltra tentazione spettacolare, il film non approfitta dell’indagine per innestare, come era vizio un tempo, il commento scipito e maliziosamente banale. Alberto Pesce, “Giornale di Brescia”, 20 Marzo 1975 L’inizio è promettente: belle inquadrature, colore usato con sapienza, un “taglio” generale di carattere etnografico. Ma cominciano le stonature: non si arriva a capire perché, dopo aver assistito con una certa pena alla caccia al bufalo e all’elefante da parte di Manduri – i primi “selvaggi” che si vedono sullo schermo – a forza di tante freccine conficcate una dietro l’altra, con lunghissima agonia dell’animale, si debba poi assistere alla completa macellazione, estrazione dei visceri, scuoiamento, ecc. Poi il “perché” arriva sin troppo presto e lampante: in sostanza la pellicola è stata girata per una platea di conti Dracula, cavalieri Masoch, Elisabette Esteherasy (la contessa ungherese che credeva di trattenere la giovinezza con abluzioni del sangue delle sue ancelle), marchesi De Sade et similia. L.M., “Paese Sera”, 30 Marzo 1975 Il rapporto magico che questi popoli (in Africa, in Asia, come in America) hanno con la natura e con gli animali è una loro condizione storica e non una curiosità per chi al cinema ama la sensazione violenta. Quando il film s’adegua al primo concetto abbiamo immagini affascinanti (le due uccisioni dell’elefante, prima con il rito tribale, poi con quello “civile” del safari), mentre il racconto si fa anemico e un po’ fastidioso quando, per catturare la curiosità della maggioranza, si affida ai richiami stantii delle usanze erotiche o gastronomiche. Squarci di stagione
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e grandi cieli tutt’intorno e all’uopo, musiche di Lavagnino, e voce suadente di Riccardo Cucciolla. Maurizio Porro, “Corriere della Sera”, 25 Gennaio 1975 La formula dei documentari-verità, di tipo antropologico, è ulteriormente sfruttata dopo Africa ama e Africa segreta da Guido Guerrasio e dai gemelli Angelo e Alfredo Castiglioni. Si tratta di una formula dedicata ai riti primitivi e con solide giustificazioni culturali. È basata sulle regole del cinema-veritè, con la macchina da presa usata come imparziale registratore. A differenza di altri documentari del genere, la sua prerogativa sta nel ribaltare una certa tradizione seguita finora con immagini molto curate e rese suggestive da particolari accorgimenti. Guerrasio e i Castiglioni, servendosi di spezzoni a passo ridotto e senza malizie, si destreggiano a mettere insieme una realtà che ha il sapore di una scoperta visiva piuttosto grezza e non inutile. E difatti Magia nuda, terzo film della serie (dovrebbe essere l’ultimo in quanto Guido Guerrasio ha annunciato il suo ritorno al film a soggetto abbandonato dopo Dal sabato al lunedì), insiste nel discorso sulla società primitiva attraverso momenti magico-rituali in Africa e America. Vice, “Momento Sera”, 1 Aprile 1975 I Castiglioni e Guerrasio volti a mostrare soprattutto la tendenza coprografica dell’uomo che nelle condizioni arretrate di civiltà sembra si riveli in tutta la sua inquietante portata. I primitivi – secondo questi nostri cineasti – non fanno quasi altro che crogiolarsi negli escrementi, quando non si dedicano al cannibalismo, alla violenza, all’uso “magico” delle droghe e ad altre squisitezze. Immagini dell’Africa, dell’Amazzonia, delle Filippine, di Ceylon si accavallano in un montaggio affrettato, disperatamente alla ricerca del grandguignol antropologico, che le parole di Moravia colorano appena di nozioni sull’importanza locale degli usi e dei riti “sconvolgenti” dei popoli di colore (dallo schermo presentati con feroce evidenza). Magia nuda propone, così, il mito del “buon selvaggio” alla rovescia: un selvaggio magari sadico, anche se non peggiore dell’uomo civilizzato. M.C., “Corriere Mercantile”, 16 Aprile 1975
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Trentasei mesi di lavoro (di cui ben tredici per le sole riprese), la collaborazione di un imponente manipolo di antropologi, la passione che per il cinema documentario continuano a nutrire i cineasti Angelo ed Alfredo Castiglioni e Guido Guerrasio, il commento attento ed illuminante di Alberto Moravia, fanno di questo Magia nuda un film estremamente interessante, che testimonia con secco stile giornalistico gli ultimi residui tribali, gli ultimi riti magici nelle più remote comunità.[...] Gli autori, attingendo ad una vasta letteratura antropologica – da Levy Strauss a Laplantine – hanno tenuto la rappresentazione ad un livello decorosamente scientifico, evitando di cedere alle lusinghe dello spettacolo di marca jacopettiana; e se qua e là affiora qualche caduta di gusto, gli adescamenti del genere “pittoresco” (tipo cinematografia al neon) risultano ben presto rintuzzati dalla serietà etnografica del racconto. Ed in tal senso, il razionale commento di Moravia ha una sua validissima funzione (l’illustre scrittore è, si sa, un osservatore acuto del Terzo Mondo e dei suoi misteri). Vice, “Il Domani”, 19 Giugno 1975 Il risultato è un’accozzaglia di scene “costruite” a scopo scandalistico (si ricordi Jacopetti), fra le quali si possono cogliere alcune sequenze di indubbio interesse.[...] La gratuita inserzione di molte scene erotiche o raccapriccianti denuncia comunque chiaramente gli intenti della pellicola, a cui poco riescono a giovare la voce fuori campo di Cucciolla e la penna di Moravia, inspiegabilmente compromessa nella stesura del testo. A. Sa., “Avanti!”, 25 Gennaio 1975 Il risultato dovrebbe essere “scientifico”, ma non è così. Di cose strane ne vediamo molte in Magia nuda I tagli delle ugole, le operazioni chirurgiche a mani nude, l’endocannibalismo (già illustrato in precedenti film), le flagellazioni rituali, gli esorcismi, le cure medico-animistiche; ma soprattutto vediamo sangue che scorre e curiosità esotiche (che rimangono tali, a livello di “turismo” particolare) sul sesso, sulla verginità, sulla masturbazione, sulle cure
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del fallo e così via. Ancora una volta siamo non all’urto del documento puro ma allo “choc” dell’effettismo. “Giornale di Bergamo”, 20 Marzo 1975 I Castiglioni (avvalendosi ancora una volta della collaborazione di Guerrasio) hanno portato le loro macchine da presa in giro per il mondo (dall’Africa equatoriale alle foreste dell’Amazzonia, dal Niger alle Filippine), puntandole solo su quei particolari atti a soddisfare il sadico razzismo del peggiore spettatore europeo. L’apparenza di documentario etnografico è solo una facciata esteriore: manca ogni volontà di conoscenza e la realtà appare sempre falsificata dall’isolamento dei dettagli o dalle arbitrarietà del montaggio. Vice, “Il Secolo XIX”, 16 Aprile 1975 Il risultato è buono: un’esplorazione attenta e lucida, non mai spettacolarmente sofisticata, di alcuni aspetti, i più segreti di quel Terzo Mondo che va acquistando sempre più peso fra gli interessi culturali del nostro tempo. Il filo che unisce queste immagini di Africa, Asia e America (frutto di due anni di preparativi e di tredici mesi di lavorazione) è indicato dal titolo: il “rapporto magico” che intercorre da sempre fra le popolazioni così dette “primitive” e la natura e i miti che la circondano; l’assidua “comunione” dell’uomo selvaggio con gli spiriti che regolano ogni suo atto e ne governano anche il sesso e la medicina. L.P., “La Stampa”, 4 Maggio 1975
ULTIME GRIDA DALLA SAVANA (1975) Regia: Antonio Climati, Mario Morra Soggetto: Antonio Climati, Mario Morra Sceneggiatura: Antonio Climati, Mario Morra Fotografia: Antonio Climati, Mario Morra Musica: Carlo Savina Montaggio: Antonio Climati, Mario Morra Produzione: Rafran Cinematografica, Titanus Distribuzione Distribuzione: Titanus
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durata: 91’ censura: 65409 del 23-10-1974 (uscito inizialmente con il titolo “La grande caccia”) Edizioni in DVD: 01 Distribution (Italia), Sinergy Enterteinment (U.S.A.) Ultime grida della savana è la risposta italiana a E tutti vivono felici e contenti, un film che abbandona i canoni delle pellicole alla Disney sulla natura in cui gli animali non sono gli assassini di propri simili, ma cari e simpatici amici. Ega, “Il Messaggero”, 30 Agosto 1975 Per non citare il brano (che vien garantito essere autentico, girato da un altro visitatore in 16 mm, e poi “gonfiato” a 35 per la proiezione) in cui si vede un turista sbranato dai leoni sotto gli occhi dei familiari in una riserva sudafricana.[...] Montato con scioltezza (Mario Morra è un montatore professionista) ma con un’andatura saltabeccante che non riesce a nascondere le vere intenzioni del film Ultime grida della savana. [...] Il commento sociologizzante di Moravia gli conferisce una sorta di alibi culturale, spesso scipito – non è nella sostanza e nella forma molto diverso da tanti altri prodotti del genere. Vice, “Corriere Mercantile”, 6 Settembre 1975 “Tutto ciò che vedrete è assolutamente vero”, annuncia la pubblicità. Da Jacopetti a oggi il nostro cinema documentario ha allenato gli spettatori a digerire anche i bocconi più pesanti, anzi a ricercarli con gusto quasi masochistico. Nell’intenzione di Climati e Morra, come nel commento di Alberto Moravia si avverte chiaramente una denuncia ecologica, una difesa degli animali che scompaiono per la furia sterminatrice dell’uomo. Ma il cinema è fatto di immagini, non di parole. […] Eccoci spettatori atterriti della tragica fine del turista Pitt Doenitz, sbranato da un leone in un parco africano.[…] La maggior parte del pubblico non sembra però turbata da questi episodi di atroce violenza. E coglie nel complesso soltanto il positivo messaggio ecologico rimasto sullo sfondo del film. Patrizia,
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studentessa 23 anni, dice:”Mi piacciono molto i documentari e li seguo tutti. Questo ha momenti davvero terribili, ma l’ho trovato molto interessante ed educativo”. “È pieno di belle scene e ha anche momenti di poesia”, aggiunge l’amica Antonella, di 19 anni, studentessa. “L’episodio del turista sbranato non mi ha colpito eccessivamente. È la verità e bisogna accettarla così, senza commenti”. Un signore di mezza età spiega: “Sono venuto a vederlo da solo perché mia moglie non sopporta le immagini di violenza. Penso di aver fatto proprio bene”. Per Sandro, 18 anni, studente, il film dimostra che “gli animali sono migliori dell’uomo”. La “maschera” della sala, 55 anni, conferma l’indice di gradimento della platea. “La gente esce soddisfatta – dice – il film piace. Alcune sequenze sono violentissime. Passo la vita al cinema e posso dire che raramente ho visto cose tanto forti. Comunque il pubblico sembra gradirle e quando esce non protesta”. Anche la cassiera non ha ricevuto alcuna lamentela: “Non ci sono trucchi e gli spettatori non fanno reclami. Sanno quello che vengono a vedere. Dicono che ci sia una scena di leoni che sbranano un uomo. Penso che non mi fermerò mai in sala per vederla”. L.P., “La Stampa”, 6 Settembre 1975 Spettatore avvisato, è il caso di dirlo, mezzo salvato: il film contiene due spezzoni documentaristici che sono fra i più agghiaccianti che ci sia mai stato dato di vedere. Il primo è lo strazio che alcuni leoni fanno di un incauto turista, avventuratosi fra loro per riprenderli più da vicino, durante un safari fotografico in Africa. La terribile scena è stata minuziosamente ripresa da un altro turista, sotto gli occhi della moglie e dei figlioletti della vittima. Il secondo brano, anche questo autentico, si riferisce alla caccia che alcuni mercenari bianchi danno nelle foreste dell’Amazzonia, agli indios, che cercano di ostacolare il cammino di una strada nei loro territori. I sanguinari mercenari (di questi sconvolgenti episodi, se non ricordiamo male, si ebbe un’eco anche all’ONU) fanno letteralmente scempio dei poveri indios. Li evirano ancora vivi e tolgono loro gli scalpi per mostrarli cinicamente all’obiettivo cinematografico. [...] Forse un po’ tirato per i capelli, anche perché deve fare i conti con altri brani documentaristici estranei al tema, il commento di Alberto Moravia si attiene a questa linea di oggettivo realismo, salvo un francescanesimo di recupero nella scena finale, quella del
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tedesco che familiarizza coi lupi. [...] I due registi Antonio Climati e Mario Morra (con lunghe esperienze del genere, alle loro spalle) ne garantiscono, peraltro la verità e conviene dunque stare al loro gioco, che sul piano degli effetti è di ampia suggestione. (Per la cronaca, il film è già stato proiettato l’anno scorso in qualche altra città col titolo La grande caccia, ma è stato interamente rimontato, con l’inclusione, fra l’altro, dei due brani rabbrividenti di cui si è detto all’inizio: da soli valgono a staccarlo dalla media.) Gianni Castellano, “Il Resto del Carlino”, 5 Settembre 1975 Quella dei film “documentaristici-d’attualità” con intenti chiaramente ed esclusivamente sensazionali è una moda che, raggiunta la sua massima fortuna con le opere di Jacopetti, si era per fortuna attenuata negli ultimi anni. A rinverdirla provvede ora questo documentario, dal titolo Ultime grida della savana, di Antonio Climati e Mario Morra, che si avvale del commento di Alberto Moravia. Sotto l’abile e capziosa scusante dello sterminio faunistico che l’uomo, con grande follia, va attuando in ogni parte del globo (ed è questa una tesi che ci trova pienamente consenzienti), il film di Climati e Morra contrabbanda però un campionario di atrocità e di immagini repellenti che contrastano fortemente con gli scopi, umanitari e culturali della pellicola stessa. Senza contare che il commento, prendendo di petto tutta la produzione di Walt Disney realizzata sul mondo degli animali, considerata falsa e di maniera, propugna una serie di tesi e argomentazioni a dir poco qualunquiste. Sarebbero bastati un senso della misura ed una maggiore sensibilità nei confronti dello spettatore per rendere questo film, di cui non poche scene costituiscono dei rari e preziosi documenti, un’opera accettabile nei suoi contenuti tematici. I.S., “Il Popolo”, 2 Settembre 1975 Un nuovo documentario che sotto le apparenze di un discorso etnografico e ecologico nasconde il morboso compiacimento per la distorsione raccapricciante e per gli effetti più appariscenti della violenza. D’altra parte Antonio Climati è stato educato alla scuola di Jacopetti, per cui ha firmato la fotografia di Addio zio Tom. Meno perdonabile è il fatto che, ancora una volta (Magia nuda),
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Alberto Moravia sia stato disponibile ad avallare la scientificità dell’operazione, redigendo un commento a sostegno di un discorso costantemente contraddetto dalle immagini (raccolte in giro per il mondo o acquistate da cineamatori). A.V., “Il Secolo XIX”, 6 Settembre 1975 Muovendosi sulle limacciose piste del documentario del raccapriccio inaugurato da Jacopetti (da Mondo cane a Addio zio Tom) il duo Climati (operatore)-Morra (montatore) ha realizzato questo zoologico-orrorifico Ultime grida della savana. Come nei film jacopettiani l’apparenza è moralistica (salviamo gli animali dai fucili e dall’inquinamento) quanto è falso e mistificatorio il discorso che di fatto appare sullo schermo. Gli autori sfoggiano un’indubbia scaltrezza tecnica, ma la suggestione che scaturisce da alcune sequenze (la caccia sanguinosa dei condor, la corsa dei ghepardi contro gli struzzi, gli orsi bruni che sbranano i salmoni ecc.) non fa che aggravare, anziché dipanarla, la gravità e la beceraggine che inficiano gran parte del film. […] Tutto sommato è un vero peccato che Climati e Morra abbiano preso lezione da Jacopetti – votato non alla cronaca ma al distorcimento morboso di essa, e tanto meno stimolato da pungoli etici – poiché la loro fatica, tecnicamente prestigiosa, poteva risultare, se correttamente impostata e condotta, una valida lezione sull’idea sbagliata che gli uomini hanno degli animali, considerate creature a loro servizio in vita e in morte, e un’utile riflessione (seppur utilitaristica anche questa) sul fatto che è più l’uomo a dover dipendere dagli animali che gli animali dall’uomo. Vice, “L’Eco di Bergamo”, 14 Settembre 1975
SAVANA VIOLENTA (1976) Regia: Antonio Climati, Mario Morra Soggetto: Mario Morra, Antonio Climati Sceneggiatura: Mario Morra, Antonio Climati Fotografia: Mario Morra, Antonio Climati Musica: Guido De Angelis, Maurizio De Angelis, Leandro Leandri
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Montaggio: Mario Morra, Antonio Climati Suono: Armando Bondani, Leandro Leandri Produzione: Titanus Distribuzione Distribuzione: Titanus Distribuzione durata: 99’ censura: 68980 del 21-08-1976 Edizioni in DVD: 01 Distribution (Italia) Una volta c’erano Jacopetti e Prosperi, ora ci sono Climati e Morra. La scuola è la stessa (Climati fu operatore di Mondo cane), il materiale filmato mescola con uguale dosaggio sesso e violenza, il richiamo pubblicitario identico: “Vi mostreremo fatti sensazionali” e raccapriccianti. Una sfida sottintesa al pubblico, del quale si proverà la resistenza con sequenze orripilanti ora autentiche, ora in odore di fasulla ricostruzione. Vice, La Stampa, 2 Settembre 1976 Partiti anni fa per un documentario sulla caccia nel mondo, Climati e Morra hanno finito coll’approdare ad una specie di Mondo cane di jacopettiana memoria. Un mondo che è cane per gli uomini e anche per i cani, se prendiamo questi ultimi come simbolo di tutti gli animali perseguitati dagli uomini e sbranati dalle bestie. Come si ricorderà, Ultime grida della savana era stato una riedizione arricchita del primitivo documentario sulla caccia: ora si vede che aveva fatto da trampolino a questo salto alla Jacopetti. C.B., La Notte, 3 Settembre 1976 In fondo i protagonisti veri sono i cosiddetti “cacciatori di immagini”. Si ha un bel dire che la farina non può essere tutta dello stesso sacco, di Climati e Morra o di Alonso de Calvado; che gli autori del film non possono avere il dono dell’ubiquità. Il film è fatto di episodi incalzanti e brevi, che talvolta non superano le misure di uno “spezzone”. La provenienza delle immagini – qualunque sia – non toglie effetto al risultato emotivo, che è pur sempre il prodotto di una ricerca e di un montaggio, che danno luogo ad una testimonianza ed uno stile narrativo diversi – ma non inferiori – del-
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la creatività immaginativa. Come i film congeneri, questa Savana violenta è da considerare pertanto un lavoro di tutto rispetto. Un giorno qualcuno – in una storia del cinema – dedicherà un capitolo ai cinereporter, razza intrepida che non annovera un John Ford né un Visconti, ma che ha lasciato in tutti i sentieri del mondo le tracce del suo coraggio e della sua fedeltà al documento visivo, ha avuto le sue perdite in Africa e in Asia, i suoi prodi ed i suoi Don Chisciotte. Paolo Fabbri, “Il Giornale”, 3 Settembre 1976 Rifacciamo un po’ la storia dei film di Climati e Morra (che sono complessivamente tre) e pensiamo che ne valga la pena specie davanti a un dato – che sfiora la fenomenologia psicosociologica e di costume – che è quello dei quasi due miliardi incassati nella stagione appena trascorsa dal loro prodotto precedente, Ultime grida della savana. Dunque i due abili e scaltri cineoperatori un paio d’anni fa escono con un film che s’intitola La grande caccia e che è un discreto reportage segnatamente sul mondo animale. Il film non va un granché quando, qualche mese dopo, eccolo riuscire col titolo di Ultime grida della savana: per una buona metà si tratta della riproposta di La grande caccia ma vi è anche l’aggiunta di nuove sequenze e saranno queste a decretarne il grosso successo di pubblico. […] Ma c’è da aggiungere un fatto nuovo e clamorosamente polemico nelle ultime ore su questo film; cioè una denuncia di un componente la troupe secondo il quale alcune delle sequenze più eclatanti di questo e degli altri film non sarebbero autentiche ma girate con comparse addirittura nei dintorni di Roma. Se ciò fosse vero (e potrebbe tecnicamente esserlo) allora il “documento unico e agghiacciante” diverrebbe un comico e cialtronesco falso “all’italiana”. M. Ca., “L’Avanti”, 5 Settembre 1976 Antonio Climati e Mario Morra sono gli autori di Ultime grida della savana, un “documentario” che raggiunse nella scorsa stagione cinematografica tre miliardi e mezzo di incassi, una cifra del tutto notevole. Tale successo li ha indotti a licenziare Savana violenta, un’opera in cui il sesso si accompagna alla violenza ed in cui si propongono immagini sensazionali e raccapriccianti con
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l’intento di “documentare” particolari situazioni ed accadimenti. Il vero “documento” però manca. “Il Giornale di Bergamo”, 6 Settembre 1976 Siano vere o prefabbricate le sequenze della pellicola, è chiaro l’obiettivo principale dei registi: ottenere risultati positivi sul piano commerciale. Un film di cassetta, insomma, nel quale Climati e Morra hanno inserito di proposito gli elementi adatti per attirare il pubblico. Sesso, solo apparentemente senza malizia, violenza, immagini spettacolari. Gli intenti ecologici sono, dopo tutto, un bel pretesto. Belle comunque molte scene. Vice, “Roma”, 7 Settembre 1976 L’eclatante successo di Ultime grida della savana non poteva restare un’appendice. Ecco quindi Antonio Climati e Mario Morra, i due cinereporter autori del film citato, riprendere il cammino intorno al mondo (48 mila chilometri e 150 mila metri di pellicola impressionata) per offrire dopo un anno Savana violenta. Tuttavia, se nel primo documentario la nota fondamentale era il problema ecologico (il puntuale commento, si ricorderà, era di Alberto Moravia) in questo secondo lavoro, bandito ogni assunto, si è badato soprattutto a cercare (alla rinfusa) il sensazionalismo, l’orripilante, il disgustoso, l’allucinante. V.S., “Il Resto del Carlino”, 30 Agosto 1976 Vietato ai 18, privo del commento di Alberto Moravia, ecco il nuovo documentario-collage di Climati e Morra. Il primo loro film, Ultime grida della savana, oltre a favolosi incassi, collezionò anche una miriade di polemiche, tutte imperniate sul tema: il cinema e la violenza. Nel film dei seguaci di Jacopetti, colpì (ma non fu forse anche la ragione del suo successo di cassetta?) l’abbondanza di materiali tremendi, di scene di bestiali sevizie di cui si garantiva, con una pignoleria un po’ sinistra, l’autenticità. R.P.R., “La Nazione”, 3 Settembre 1976
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Come già avevano fatto in Ultime grida della savana, i due documentaristi sono andati in un viaggio, lungo questa volta 48.000 chilometri, a stanare orrori, disgrazie, violenze, sopraffazioni primitive capaci di sconvolgere l’uomo e di condurlo sotto la spinta di un esorcismo spesso morboso, nel buio di una platea ove, annichilito o sadicamente soddisfatto, lo spettatore assiste all’antica, eterna applicazione della legge del più forte. G. Gs., “Il Corriere della Sera”, 5 Settembre 1976 Riprendendo i sentieri della precedente savana (Ultime grida della savana, ma le grida non erano evidentemente le ultime), Climati e Morra allungano – occorre dire con maggior oculatezza che nel primo film – la serie di fatti e misfatti (ma sono più questi ultimi), ripresi in luoghi sperduti e lontani, dove hanno portato la macchina da presa. La tecnica – avverte una didascalia iniziale – è quella del “cinema verità” e l’intento è quello “nozionistico”. Non è vera né l’una né l’altra cosa. Il “cinema verità” è una tecnica (non disgiunta da finalità espressive: si vedano i registi della passata “nouvelle vague” francese) che consiste nel riprendere spicchi di vita all’insaputa di chi li sta vivendo (e quindi celebrare l’autenticità) e in Savana violenta questo non accade che raramente visto che chi è ripreso, animali compresi, partecipa attivamente alle riprese e poi perché su certi episodi non ci sarebbe proprio da mettere la mano sul fuoco. Vice, “L’Eco di Bergamo”, 8 Settembre 1976 Lo spettatore ricorderà i civili accenti di Ultime grida della savana, inconsueto documentario in cui la testimonianza ecologica si univa, splendidamente, alla visione sorprendentemente autentica di una natura catturata nella sua immacolata realtà istintuale. Il secondo capitolo dell’inchiesta filmata da Antonio Climati e Mario Morra non è inferiore al primo per tenuta narrativa ed impegno di ricerca; si potranno lamentare, se mai, una meno organica orchestrazione del materiale e una meno lucida, più stanca ispezione del suo profondo significato: la rappresentazione, antidisneyana della spietata lotta per la sopravvivenza, accompagnata da gustosi flashes e ad esclamativi episodi di vita animale. Vice, “Il Domani”, 23 Settembre 1976
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Come il film di Jacopetti e il precedente Ultime grida della savana, anche Savana violenta è una pellicola di montaggio: cioè tutte le sue sequenze, sono realizzate tramite la concatenazione di brevissime inquadrature, riprese da angolazioni diverse e messe insieme in modo tale da dare l’idea di una situazione o un avvenimento. Per questo, e indipendentemente dai legittimi dubbi sui luoghi dove sono state riprese le immagini, il film contraddice le sue pretese documentarie, rivelandosi subito come un’opera di finzione. […] Questa volta i registi si sono scritti da soli il commento, senza bisogno di cercare l’avallo di uomini di cultura (tipo Moravia), e lo hanno affidato alla voce suadente di Sergio Fantoni. A.V., “Il Secolo XIX”, 10 Settembre 1976 Esiste un “colonialismo delle immagini” molto pericoloso, in quanto operazione decisamente reazionaria. Con l’alibi del documentario-verità, si smercia, sotto una forma spregiudicata (apparentemente), tutto il vecchio ciarpame relativo ai popoli del terzo mondo visti, in genere, come un’accozzaglia di “selvaggi”, al fine di tranquillizzare lo spettatore benpensante, ovvero a convincerlo che la “sua” realtà è la migliore possibile. E ricorrendo a un sensazionalismo di bassa lega, si sviluppa un discorso che non ha un minimo di logica (dal punto di vista antropologico-culturale), il cui unico obiettivo è fare cassetta, sfruttando l’antico cliché di stampo manicheo che vede come “cattivo” o “strano” (ma sempre in negativo) tutto ciò che non è “bianco”, cioè “civile”. Savana violenta è da respingere senz’altro, perché “etnologicamente” subdolo, quindi pericoloso come e più di un “film d’ordine”, anche se su un piano diverso. A. Ma., “Rivista Cinematografica”, 1-2 /1977
ADDIO ULTIMO UOMO (1978) Regia: Alfredo Castiglioni, Angelo Castiglioni Soggetto: Alfredo Castiglioni, Angelo Castiglioni Fotografia: Alfredo Castiglioni Musica: Franco Godi Montaggio: Rita Olivati Rossi Suono: Oreste Pellini, Armando Bondani
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Produzione: Cast di Angelo e Alfredo Castiglioni, P.E.A. – Produzioni Europee Associate Distribuzione: Indipendenti Regionali durata: 91’ censura: 72570 del 08-11-1978 Edizioni in DVD: Seven Eight (Giappone) Nota: nel 1977 Alfredo e Angelo Castiglioni pubblicarono per la Rusconi un libro con il medesimo titolo. Vent’anni fa André Bazin scriveva: “Non si dirà mai abbastanza male del neodocumentarismo al quale dobbiamo imprese tanto seducenti quanto infami come Continente perduto e L’impero del sole... se è vero che i Folco Quilici, gli Enrico Gras hanno saputo offrirci documenti umani o naturali straordinari, non ne hanno in alcun modo il beneficio morale perché quelle ricchezze non le hanno meritate e guadagnate: non ne sono degni... Hanno organizzato a colpi di capitali e di tecniche la tratta dell’esotismo. Lo splendore di un documento e la sua poesia non sono indipendenti dalla sua verginità. È certo che una donna violentata rimane bella, ma non è più la stessa donna”. Si sa dove ha portato negli anni Sessanta il neodocumentarismo all’italiana con le sue correzioni alla realtà: alle scelleratezze di Jacopetti e C., alle vergogne dei suoi imitatori. Dove si colloca il documentarismo africano dei fratelli Castiglioni di cui è entrato ieri in circolazione il quarto film, Addio ultimo uomo? Cominciamo col dire che i Castiglioni sono esenti dal reato più grave che si possa imputare ad un documentarista: la falsificazione del documento, la contraffazione della realtà per scopi spettacolari e sensazionali. Tranne, forse, qualche momento nei riti erotici, legati al Legba, feticcio fallico, il materiale di cui è composto Addio ultimo uomo sembra autentico. Qua e là s’avverte un principio di regia più o meno visibile, di messa in scena, di ricostruzione. Nel documentario la ricostruzione è ammissibile a due condizioni:1) che non si cerchi di ingannare lo spettatore; 2) che la natura dell’avvenimento non sia in contraddizione con la sua ricostruzione. Nel film dei Castiglioni non si notano palesi trasgressioni a queste due regole del codice etico del documentarista.
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Qui, però il discorso si sposta dai contenuti alla forma, e allora cominciano le perplessità. Perché nel filmare la bella danza d’amore dei Niuba, la cinepresa sta così addosso ai corpi flessuosi e oleati delle ragazze nude, sacrificando la grazia coreografica dell’insieme alla messa in rilievo della loro anatomia? Che bisogno c’è, nel filmare l’evirazione di un guerriero nemico, di riprendere con insistenza il particolare in primo piano? Al cinema, specialmente nel documentario, i problemi tecnici o di linguaggio sono indissolubilmente legati a quelli morali. Come conciliare l’esigenza legittima di far vedere meglio possibile un avvenimento e quella di rispettare le persone che si filmano e quelle a cui ci si rivolge, ossia gli spettatori? Fin dove arriva lo scrupolo della documentazione (quella di cui parla lo statista e poeta Leopold Senghor, citato nei titoli di testa) e dove comincia la necessità di fare spettacolo, quella che Bazin chiama la “tratta dell’esotismo”? Sono contraddizioni che i Castiglioni non hanno affrontato con la necessaria lucidità e coerenza. Le loro buone intenzioni non sono in discussione. Uno dei motivi conduttori del film – sottolineato, non senza qualche enfasi, dal commento scritto da Vittorio Buttafava che talvolta cede anche alla retorica – è l’invito alla comprensione degli usi e costumi primitivi. Per soprammercato i Castiglioni sono ricorsi ai parallelismi: alla ferocia delle guerre tribali contrappongono quella, tecnologicamente amplificata e moltiplicata, delle nostre guerre; i loro costumi erotici sono confrontati alla nostra pornografia dove il sesso è degradato a merce; il loro rituale del tatuaggio alla nostra chirurgia plastica, l’uccisione degli animali alla vivisezione e così via. L’intento didattico è esplicito. Ma è anche corretto? In che misura è anche un alibi? O una speculazione sensazionale? Sono domande che è difficile non porsi davanti alla macelleria sanguinolenta di alcuni frammenti. Una volta di più si pone il problema del legame indissolubile tra forma e contenuto: il significato di certe immagini cambia a seconda del contesto in cui le vediamo. Ciò accade anche per quelle dei documentari chirurgici. Per non parlare del commento musicale dove il condizionamento commerciale non è più sottinteso: le musiche alla Morricone di Franco Godi, la canzoncina “Why” invece di musiche africane autentiche. All’attivo di Addio ultimo uomo rimangono l’interesse etnologico e antropologico, e anche la bellezza di parecchi fram-
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menti. Citiamo specialmente i due riti funebri all’inizio e alla fine del film. Morando Morandini, “Il Giorno”, 17 Novembre 1978 Sono ormai lontani i tempi in cui l’Africa faceva solo da sfondo folclorico a film europei e americani che la prendevano a pretesto per raccontare vicende ad essa estranee e lontane. La nuova realtà del Continente nero ha obbligato il cinema a ben altri atteggiamenti, ed oggi i film africani svariano dall’indagine etnografica all’illustrazione dei nuovi regimi sorti dopo la prima fresca indipendenza: i primi spesso distaccati e asettici, gli altri, in genere, inclini alla demagogia arruffona. Questo discorso (che ovviamente non si riferisce alle cinematografie africane autoctone) non sembra riguardare i film dei gemelli Angelo ed Alfredo Castiglioni, milanesi quarantenni che da quattro lustri battono in lungo e in largo il Continente africano. Si tratta di viaggi che abbinano all’esplorazione e alla scoperta di vestigia di un mondo affascinante la realizzazione di documentari che vanno da Africa segreta a Africa ama, da Magia nuda fino a questo Addio ultimo uomo. I Castiglioni sanno far coesistere l’aspra obiettività del documento imperniato su rituali macabri o allegri con una vena affettuosa che individua i valori superstiti che hanno cementato quelle società. E si tratta di una ricerca certosina, scavata con tenacia, ma pur sempre condizionata da scelte e guidata da un’ottica “occidentale” che, nei loro film, privilegia due fenomeni ormai usurati del cinema nostrano, violenza e sesso, contrassegnata da un gusto per la crudezza della rappresentazione che raggiunge punte provocatorie spesso inaccettabili. Addio ultimo uomo è un peregrinare attraverso le ultime popolazioni che, pur mantenendo i superstiti valori della civiltà negra, stanno pian piano evolvendo verso i nuovi costumi. Attraverso i riti delle tribù Kapsiky dell’Africa centrale e Nuba del Sudan vengono esaltati i valori della religione, del culto dei morti, la socialità, il rispetto per la terra e la natura, la febbre del desiderio sessuale. Queste “stazioni” si esprimono con danze, duelli e processioni ed hanno come tratto comune lo sprigionarsi di forme di feroce crudeltà istintiva che gli autori, per sottolinearne l’innocenza,
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mettono a confronto con quelle più sofisticate, ma non meno macabre, generate dalla “nostra” civiltà. È un parallelo spesso inutile perché risaputo, che non fa che potenziare al quadrato la carica complessiva di violenza data da immagini che mostrano corpi martoriati o altri stretti in amplessi erotici ora candidi ora depravati. Questo doppio binario si risolve in uno squilibrio che investe lo stesso assunto che è alla base dell’opera. La funzione di amalgama viene così affidata al commento parlato di Vittorio Buttafava, esemplare per misura e incisività. Alfio Cantelli, “Il Giornale”, 13 Novembre 1978 L’opera di documentazione cinematografica dei fratelli Angelo ed Alfredo Castiglioni (già noti al pubblico per i documentari Africa segreta, Africa ama e Magia nuda) acquista particolari benemerenze, tanto più che essa fa sfoggio di una disinvolta scioltezza che la rende perfettamente assimilabile dal grosso pubblico. In questo lavoro, realizzato tra alcune delle più antiche tribù sparse tra il Tropico del Cancro e l’Equatore, assistiamo a un cospicuo, spesso inedito inventario di riti e di abitudini in via di estinzione: dalle cerimonie funebri dei Kapsiky che spogliano il defunto della sua pelle per riconsegnarlo alla terra in posizione fetale, alle prove del coraggio dei Nuba, dai tatuaggi propiziatori dei Shilluk, alle pratiche religioso-erotiche dei Legba, e via andando, di “curiosità” in curiosità. L’unico appunto che si può muovere ai due registi (Alfredo è anche il direttore della splendida fotografia) è di aver voluto giustapporre un po’ di polemica, un po’ per ossequio alla cassetta, a queste immagini di vitalità primitiva talune eccentricità morbose della nostra “civiltà”, dalle “torture” dei saloni di bellezza alla pornografia.
M.G., “Il Resto del Carlino”, 10 Gennaio 1979 Le tinte forti, diciamolo subito, non saranno gradite a tutti: ci sono scene di eccezionale violenza, testimonianze crude di una realtà primitiva, non facile da capire per la nostra mentalità. Del resto questo è un documentario e i “documenti” che ci mette davanti agli occhi sono veri, è vita vissuta, per quanto cruda e a tinte forti.
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Trovandosi a contatto diretto con le tribù africane della fascia del Tropico del Cancro, i fratelli Castiglioni che cos’altro dovevano filmare se non nascite, iniziazioni, matrimoni, funerali, tutti fatti salienti, che implicano cerimonie spesso spettacolari e che sono essi stessi “cultura”? […] I fratelli Castiglioni si difendono dicendo di aver cercato onestamente di dare documenti di realtà vissuta, e noi ci crediamo. Ma sono andati oltre; agli spettatori che, toccati dalla crudezza di certe immagini, si coprono gli occhi, dicono: “C’è poco da scandalizzarsi per questi ‘selvaggi’; guardate un po’ cosa succede nella nostra cosiddetta civiltà”. Nat., “La Notte”, 17 Novembre 1978 Questa volta il loro film è però forse un po’ carico di scene tanto care a Gualtiero Jacopetti e Franco Prosperi, i sadici del cinema italiano. Pur non discutendo della veridicità delle immagini e del diritto di documentare ogni momento della vita dell’uomo, riteniamo però di cattivo gusto immortalare omicidi, squartamenti e cose dello stesso tenore. Resta il fatto che ancora una volta i fratelli milanesi hanno dimostrato di essere dei completi documentaristi, col gusto del particolare ma anche con la capacità di non perdere mai di vista un discorso più generale. C. Cuz., “Corriere Mercantile”, 13 Novembre 1978 […] Nel senso che, accanto alla proposta di avvenimenti e comportamenti destinati fatalmente a scomparire, i due fratelli registi mettono insieme un bel campionario di orrori. La realtà è questa, noi ci siamo limitati a fotografarla, potrebbero dire. Nossignori, non è vero. Posto che si tratti di cose tutte autentiche, c’è modo e modo di farle vedere. […] Ci sono anche momenti interessanti, pochi, e alcune pagine liricheggianti (la navigazione sul fiume raccontata a colpi di obiettivo e sull’onda di una canzone, condita con i maledetti vocalizzi che hanno l’età di Magia verde e di Continente perduto). Il resto, quasi tutto, è compiacimento dell’effetto, e non solo africano, visti i gratuiti contrappassi sugli orrori occidentali. Vice, “Il Giornale di Bergamo”, 24 Gennaio 1979
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Resuscitato da Morra e Climati (Ultime grida della savana), il documentario esotico italiano obbedisce ancora alle regole stabilite da Jacopetti, che più di quindici anni fa insegnò a sfruttare sesso, esotismo, crudeltà per dei collages di immagini “a tema”. Oggi l’accento batte soprattutto sulla crudeltà, diventa l’elemento d’attrazione esclusivo dei recenti film pseudo-antropologici. Per una pellicola come Addio ultimo uomo, parlare di sadismo è cosa fin troppo ovvia. […] Ma intanto, nel montaggio di tutte queste efferatezze, si disperde e si frammenta quello che doveva essere il nucleo originario del film (e senz’altro l’unica cosa interessante), un reportage sui Nuba, la stupefacente tribù sudanese resa celebre dalle fotografie di Leni Riefenstahl. R.P.R., “La Nazione”, 21 Gennaio 1979 A questo documentario sulle esotiche reliquie di una africanità in fase decrescente, sopravvivenze di riti e costumi costretti dall’avanzata occidentale all’ultima spiaggia di una lunga storia umana ridotta a materiale spettacolare e curioso, giova il commento serio e pacato di Vittorio Buttafava. Quello di Guido Guerrasio, nei documentari precedenti dei fratelli Angelo e Alfredo Castiglioni insinuava tra le pieghe dell’indagine sociologica una suggestione morbosa e lasciava sfilacciare il discorso ideologico, quasi sempre tenuto su un registro equivoco, verso arguzie al limite della barzelletta facile e scipita, stonate rispetto alla terribilità austera e ferma delle immagini. Soprattutto Africa ama non sfuggiva ad un pregiudizio razzistico con una golosa ammirazione per le spontanee inverecondie dei primitivi selvaggi cui sembravano concesse sfrenate godurie della carne inibite invece alle comunità occidentali salite a livello civile e cortese. E Magia nuda, pur con una filtrata pulitezza di discorso, con minore malizia voyeristica, si lasciava sfuggire qualche scaltrezza spettacolare. Qui, invece, l’interesse etnografico di per sé è preminente. “Il Giornale di Brescia”, 21 Marzo 1979 Secondo noi, si deve dire addio a queste forme di speculazione cinematografica che possono sollecitare istinti sado-masochisti.
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Non ci meravigliamo che il film di Angelo ed Alfredo Castiglioni sia stato denunciato come razzista, anche ammesso che le intenzioni fossero diverse. Jacopetti in questo senso sapeva fare di meglio e il suo disegno era più coerente. Poteva ripugnare certo, e ripugnava ideologicamente e materialmente. Il risultato di Addio ultimo uomo non è che induca a pensieri più “democratici” anche se, come ripetiamo, si capisce che non c’è dietro un disegno reazionario ma solo inadeguatezza espressiva a rendere un mondo per altro complesso e contraddittorio. Au. Sa., “Paese Sera”, 15 Aprile 1979 Già altre volte il duo Angelo e Alfredo Castiglioni ha affrontato il tema dell’Africa, in una angolazione che era sì propensa al sensazionalismo, ma sempre rispettosa di sviluppare un serio discorso antropologico. Film come ad esempio Africa segreta o Africa ama, pur con tutti i loro innegabili difetti di fondo, dimostravano una certa coerenza sul piano, sempre affascinante, dell’antropologia culturale. Il generale sapore aspro dell’insieme era così riscattato dal ben più importante e suggestivo valore di testimonianza etnologica. […] Fatto salvo il valore del documentario sul piano puramente cinematografico, resta come un vago (e speriamo ingiustificato) timore, che sia mancato quel “ristretto” del quale parlava Ernesto De Martino, il nostro massimo antropologo, condizione necessaria per accostare una cultura “diversa”. A.M., “Tempo”, 17 Aprile 1979 Ora, quattro anni di lavorazione, 100.000 metri di pellicola impressionati e viaggi per complessivi 80.000 chilometri (tali le credenziali con cui il film si presenta) avrebbero potuto dare ben altri risultati. Non staremo a discutere sul fatto che la ditocotomia ultimo uomo-nuovo uomo, come ogni manicheismo, è piuttosto discutibile, e il “rifiuto della civiltà” che ne deriva è forse sentimentalmente affascinante, ma scarsamente costruttivo. […] Poco di nuovo, insomma: e soprattutto si punta sull’effetto truculento, più che alla divulgazione scientifica. È piuttosto infelice ci pare la trovata di contrappuntare la violenza “primitiva” a quella del nostro mondo tecnologico (forse con il bel risultato di giustificarle
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entrambe?). Così si sciupa anche la sequenza più bella del film, la danza d’amore dei Nuba. Vice, “L’Unità”, 17 Novembre 1979 Un’altra interessante puntata “africana” a colpi d’obiettivo, artefici i fratelli Angelo e Alfredo Castiglioni, già noti per Africa ama e altre pellicole di intento documentaristico-scientifico su usi e costumi della “gente nera”. Qui siamo al centro del Continente nero, alla ricerca delle “tribù” più sperdute, alla ricerca soprattutto dei riti più primitivi, più lontani nel tempo, che oggi si possono ancora registrare su pellicola. La tecnica è sempre più smaliziata e sicura e assicura ai due una efficace resa in proiezione sul piano spettacolare. C’è un indubbio interesse etnologico-scientifico, appassionato e anche appassionante, nella pervicace azione “esplorativa” dei due fratelli cineasti uniti dalla magia dell’Africa e da quella della macchina da presa. […] Anche qui, tuttavia, si infiltra nella pellicola come in altre occasioni il bacillo del sensazionalismo crudele e del compiacimento erotico, ereditati dal Jacopetti di Mondo cane e di Africa addio, bacillo che è sufficiente a mantenere in un clima di ambiguità, i risultati pur apprezzabili di Addio ultimo uomo. U. Bo., “La Prealpina”, 21 Gennaio 1979 In testa al documentario, una citazione del poeta e uomo politico senegalese Léopold Senghor ne giustifica l’assunto, che è quello d’ascoltare le parole degli stregoni e dei cantastorie, dei vecchi saggi che governano tribù antichissime per ricavare dai loro detti testimonianze irripetibili. I fratelli Castiglioni hanno ascoltato e, al tempo stesso, guardato e registrato con scrupolo e diligenza: la “camera”, maneggiata con grande abilità tecnica da Alfredo, ha filmato, più e più volte con accentuato realismo, riti millenari, cerimonie primitive, manifestazioni crudeli. A.V., “La Stampa”, 15 Marzo 1979
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Conversazione con Mario Morra Qual è stata la sua formazione? Ho cominciato a occuparmi di cinema a 26 anni. Ero impiegato alla Federconsorzi. Poi per una delusione amorosa ho mollato tutto e volevo partire. Andare via, in America e fare delle cose fuori dalla grazia di Dio e invece poi un mio amico, Sergio Montanari – un montatore molto bravo –, mi ha detto se vuoi vieni, stai un po’ con noi e vedi com’è il cinema; se ti piace o no. Mio padre, che era un comandante dell’esercito, vedeva il cinema come una cosa di malaffare. Per questo non ero molto convinto, ma Montanari insistette dicendomi – ma noi siamo tecnici, quindi vieni. Lui lavorava come assistente di Roberto Cinquini; mi raccontava che il montaggio era molto creativo, positivo, bello, e si guadagna anche bene. Allora alla Federconsorzi guadagnavo circa 37, 38 mila lire al mese, nel cinema si veniva pagati 50 mila lire alla settimana come assistente o come aiuto. Quindi l’interesse per il montaggio è cresciuto poco per volta, partendo dalla questione economica? Proprio così. È cresciuto un po’ per volta e comunque la mia grande e unica fortuna fu quella di iniziare con alle spalle Cinquini, il quale ha montato una quantità incredibile di film: un maestro di vita, una persona intelligente, dolce e squisita, che mi ha veramente fatto capire cosa significava il montaggio. Veramente. Perché se fosse capitato avendo alle spalle uno qualsiasi probabilmente avrei anche abbandonato. E da lì in poi è cominciato tutto quanto: piano piano, prima aiuto e assistente, poi l’assistenza al montaggio e poi cominciai a montare i miei primi film che sono appunto Mondo cane n. 2 e un altro, Stregoni in tight (1965) di Marino Marzano. Lei come viene coinvolto nel progetto Mondo cane? Volevano qualcuno che montasse la musica del film La donna nel mondo, e così Cinquini mi chiese – sapendo che conoscevo la musica perché suonavo il pianoforte – di dargli una mano a completare questo lavoro. Così montai questa musica e solo allora sia Jacopetti sia Prosperi mi chiesero di occuparmi del montaggio finale di Mondo cane n. 2. Ci furono delle difficoltà perché io venivo dal cinema di finzione, sceneggiatura, storie, attori; dunque
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mi trovai non particolarmente bene nel montare il film. Jacopetti che in questo era veramente molto bravo dette una ricontrollata al montaggio perché conosceva il gusto del pubblico. Ecco come lavorai a questo primo film. Dopo questo, un altro, poi un altro; insomma facevo tutti questi film documentari. Poi ho lavorato anche in televisione per un anno, forse un anno e mezzo, e realizzai degli speciali, quelli che duravano un’ora, e montai un sacco di cose; mi accorsi che anche i giornalisti più interessanti volevano lavorare con me. Poi incontrai Gillo Pontecorvo che stava montando La battaglia d’Algeri, con il re dei montatori Mario Serandrei, una persona estremamente colta. Mentre, per me, Roberto Cinquini era il principe. A proposito di questo argomento, è risaputo che lei è, in Italia, forse, uno dei pochi montatori intellettuali. Ha mai scritto qualcosa in materia: testi, pubblicazioni sull’argomento o anche solo degli articoli? No, era una cosa che avrei voluto fare in realtà. Avrei voluto scrivere un libro sul montaggio con vari capitoli, con tutte le mie esperienze, i vari produttori, scenografi, operatori, da Climati a Lombardi ed anche quelli minori per dire; e ancora vari attori con alcuni dei quali eravamo diventati amici. Avrei voluto fare questo libro sul montaggio, cercando di spiegare che cos’è il montaggio, che è un lavoro tecnico ma non è solo questo. No, non ho mai scritto nulla anche perché avvertivo di non essere uno scrittore. Tornando a Mondo cane n. 2 i suoi rapporti con Jacopetti com’erano? Jacopetti quel film l’ha sempre disconosciuto dicendo che gliel’hanno fatto fare perché era una richiesta della produzione. È così? Tutto ciò risponde al vero. Lui non l’ha mai riconosciuto, ma in effetti ci hanno lavorato lui e Franco Prosperi. Poiché non partiva da una sua idea non l’aveva vissuto come gli altri film. Pertanto, non l’ha mai amato molto. È durante la lavorazione del montaggio di Mondo cane n. 2 che incontra e conosce Antonio Climati? Sì, incontro Antonio Climati: una persona abbastanza difficile caratterialmente, ma di una bravura spaventosa, la macchina da
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presa sembrava veramente una continuazione delle sue mani. In un minuto faceva azione e stop, le cose di un secondo, era veramente bravo, ed era uno che voleva fare strada. L’ho conosciuto e mi ha parlato di quest’idea che aveva e che era La grande caccia: era una sua idea e gli ho detto va bene, vediamo che succede. Ne parlo con il produttore di allora che lavorava molto con Giusy Basile e abbiamo cominciato con loro a fare questo film. C’erano con Climati, Stanislao Nievo e altre persone. Che tra l’altro provenivano dal gruppo di lavoro di Mondo cane e quindi era una sorta di proseguimento di quel lavoro – a distanza di tempo, se così possiamo dire? Sì, poi si cominciò a girare in varie regioni che francamente non ho mai saputo quali fossero; si aveva molto materiale e non si sapeva cosa farsene. Io conoscevo Lombardo e parlandogliene mi chiese di far vedere questo materiale; allora feci un montaggio e ci misi della musica sotto; era musica di repertorio e Lombardo mi disse parliamone e ne parlammo. Dunque combinai di far questo film con la Titanus. Avrebbe dovuto essere un film violento e invece successe che mentre noi giravamo uscì un film in francese che parlava di animali e cose così ed era divertente e con Lombardo decidemmo che era un’idea geniale di cambiare la politica del film. Non era più un film aggressivo, violento ma divenne divertente. Per cui, alla fine, La grande caccia non fu né carne né pesce. Uscito da pochi giorni andò malissimo, dopo di che decidemmo con Lombardo di rimetterci le mani sopra, facemmo qualche altra cosa, rimontammo, inserendo altre scene, il film e in questa seconda fase, definitiva, mi aiutò molto Franco Prosperi. Dunque, il film fu integrato con un po’ di violenza, di sesso e uscì con un nuovo titolo: Le ultime grida dalla savana. Il titolo lo scelse Limentani, uomo della produzione Titanus e il film andò bene. Non bene, benissimo; fu una cosa enorme perché uscì nello stesso periodo de Il padrino parte II e non so quale altro film e il nostro incassava più degli altri. Fu un grande successo. Secondo lei perché ci fu questo grande successo così insperato per un film che non nasceva con questa ambizione? Ah, sarebbe bello saperlo; forse perché, a mio avviso, l’idea iniziale era buona, era stata istituita quella violenza, quella cattiveria,
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anche se oggi non farei mai un film del genere e inserendo scene di sesso che funzionano sempre e tutto questo unito a una fotografia straordinaria, a delle immagini stupende, divenne un film bellissimo. L’episodio fondamentale del film, quello che poi servì proprio da lancio, era quello del turista Pitt Doenitz che viene sbranato dai leoni: le acquistaste quelle immagini oppure… No, poi c’è stata una specie di processo. Volevano addirittura metterci nei guai perché avevamo girato una cosa del genere e noi dicemmo che la scena del film, quella scena era stata costruita con un “animalaro” che aveva questi leoni e la cosa si calmò. Però non era vero. Tornando a Mondo cane n. 2, in realtà quelle immagini compaiono anche in un film Il pelo nel mondo di Marco Vicario del ’64. Insomma, due film che hanno in comune delle immagini che appartengono al girato di Mondo cane n. 2, e lei è montatore di tutti e due i film. Jacopetti ha più volte dichiarato che fu lui, tramite la Cineriz, a dare quel materiale a Marco Vicario per realizzare il film. Lei venne coinvolto in questo, in quanto faceva parte del gruppo di Jacopetti oppure erano due cose separate per cui c’era stato semplicemente un acquisto di materiale poi montato da lei? Io fui chiamato in seguito a fare il montaggio di questo film e dissi a Marco guardate che nel girato di Jacopetti e Prosperi c’è un sacco di materiale, di roba, che non è stata proprio usata. Per cui se volete che io faccia da tramite parlo con loro e se vogliono vendere delle cose; e lui mi disse si parlarne con me e così comprarono diverso materiale. Quindi fu lei il tramite per far sì che il materiale fosse venduto? Sì giusto! Ultime grida dalla savana presenta il commento di Alberto Moravia. Come venne coinvolto Moravia in quest’operazione? Noi avevamo finito il film che era tutto quanto pronto, chiamammo Lombardo che a sua volta chiamò Moravia che disse che voleva prima vederlo e che poi, forse, si sarebbe occupato di scrivere il commento. Ne La grande caccia il commento era stato scritto
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da Ugo Gregoretti ed era stato recitato da Enrico Maria Salerno che era un mio carissimo amico. Moravia vide il film, gli piacque e disse va bene. Allora gli dicemmo che noi avevamo già buttato giù un commento; Franco Prosperi aveva già buttato giù una falsariga del commento per cui non è che doveva ricominciare da capo. Gli dicemmo ma lo guardi, lo legga… Moravia accettò questa cosa, scrisse alcune cose e firmò il film. Dolce selvaggio, girato così a distanza di tempo rispetto a Savana violenta e Ultime grida dalla savana, come nasce? È un’altra idea che mi è venuta, di fare un film di forti contrasti e di mettere delle scene dolci belle brave, in contrasto con altre, per l’appunto, molto selvagge. Quindi eravate rimasti molto amici lei Morra con Climati e Prosperi? Sì! Il film è firmato da voi due, il commento di Prosperi. Sì! Ma Prosperi no! Franco e gli altri erano spariti, ma rimanemmo comunque amici. Poi vennero a crearsi degli screzi con Antonio perché era diventato un personaggio difficile e purtroppo dovetti sciogliere il binomio con Climati. Mi guardò molto male, si incavolò, e disse che sarebbe stata una stupidaggine e dopo di allora io non ebbi più nulla a che fare con lui. Dunque, sciolta la ditta con Climati continua da solo in certo modo il filone iniziato con i Mondo cane e proseguito con i successi di Ultime grida dalla savana e Savana violenta, realizzando Dimensione violenza. Il film è un collage di materiale che era già in giro che doveva trovare una collocazione oppure nasce proprio da un’idea sua? No, nasce da un’idea che avevano in Giappone. Io lavoravo anche con un produttore giapponese della Uanchi Corporation. E mi disse che voleva un film molto violento. Io tentai di fare un film su commissione, ma alcune cose le girai io, proprio io, andai fuori, cose che non avevo mai fatto prima, mentre altre sono state comprate di repertorio. Ed è venuto fuori un film che aveva alcune cose carine e altre molto brutte.
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Tornando a Mondo cane, lei ha anche collaborato con Paolo Cavara montandogli ben tre film, La tarantola dal ventre nero, Los amigos e Virilità. Cosa può dire di Cavara che faceva parte della primissima squadra che realizzò il film e come si sviluppò la vostra collaborazione? Sì, lui faceva parte del trio. Dei tre. Jacopetti, Prosperi e Cavara. Ma non aveva nulla a che vedere con Jacopetti e con Prosperi. Quelli erano più “selvaggi”… lui no… Perché era un uomo dolcissimo, un uomo molto buono. Io ho lavorato molto bene con lui. Molto, molto bene, e mi ricordo che mi dispiacque molto che per uno degli ultimi film che fece non riuscii a montarlo, perché in quel periodo ero pieno di lavoro, al contrario di oggi. Mi sono trovato molto bene con lui, era un personaggio straordinario. Dolcissimo. Paolo veniva in sala montaggio, si sedeva e guardava. Io gli chiedevo: vuoi che faccia questo oppure faccio quest’altro. Io chiacchieravo sempre, forse troppo. Il montatore sei tu, mi diceva lui. Io mi metto qua e fai quello che vuoi. Se c’è qualcosa che non va te lo dico. Voglio dire che mi lasciava molto libero, questo sì. Appendice. Antonio Climati La meravigliosa e ogni giorno sempre di più sorprendente storia segreta del cinema italiano conta tra i suoi più appartati e misconosciuti protagonisti l’operatore e regista Antonio Climati, morto a Roma, dov’era nato nel 1931, il 9 Agosto scorso in coincidenza con l’anniversario dello sgancio atomico del “grassone” su Nagasaki. Bizzarrie della vita che lo avrebbero senz’altro incuriosito come lo è la sua filmografia. Forse pochi, pochissimi lo ricorderanno come, per tutti gli anni sessanta, lo sperimentale operatore dei film “mondo” di Gualtiero Jacopetti e Franco Prosperi, cui prestò la sfrenata peripezia alla macchina da presa. Impossibile oggi pensare il valore dato da Climati a Mondo cane e seguiti, Africa addio, forse il capolavoro della coppia, e Addio zio Tom che di fatto affossò il binomio Jacopetti-Prosperi con buona pace dell’escursione voltairiana del sottovalutato Mondo Candido. Ma si era già nel 1975. I gusti del pubblico si facevano ancor più smaliziati con l’avvento delle prime tv locali. Molti invece accrediteranno Climati, a metà degli anni settanta, lasciata alle spalle l’ingombrante
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presenza di Jacopetti, ma non di Prosperi, come lo spregiudicato regista, insieme al montatore Mario Morra, di Ultime grida dalla savana e Savana violenta e di altri film condotti sulla medesima falsariga che confermeranno la decadenza del genere negli anni ottanta. Il primo addirittura con il commento di Alberto Moravia. Lo scrittore di A quale tribù appartieni? e di Lettere dal Sahara non era nuovo a prestazioni di firma per così dire alimentari. Qualche anno prima firmò anche la sceneggiatura del controverso film, di recente restaurato dalla Cineteca nazionale, L’occhio selvaggio. Il regista Paolo Cavara, già cofirmatario con Jacopetti e Prosperi di Mondo cane, fu il primo ad avviare quella diaspora jacopettiana che avrà tra i suoi ultimi protagonisti anche Climati.
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LE STRADE SI DIVIDONO. DA MONDO CANDIDO A BELVE FEROCI 1975-1984
I film, i sondaggi critici, le testimonianze MONDO CANDIDO (1975) Regia: Gualtiero Jacopetti, Franco Prosperi Soggetto: dall’omonimo romanzo di Voltaire Sceneggiatura: Gualtiero Jacopetti, Franco Prosperi, Claudio Quarantotto Interpreti: Christopher Brown (Candido), Jacques Herlin (dott. Pangloss), Michelle Miller (Cunegonda), Richard Domphe (Cocambo, negro), José Quaglio (inquisitore), Gianfranco D’Angelo (barone), Alessandro Haber (amante di Cunegonda), Marcello Di Falco (cavaliere/carrista inglese), Steffen Zacharias (saggio), Giancarlo Badessi (governatore spagnolo), John Stacy (capitano nave), Valerio Ruggeri, Sonia Viviani, Lorenzo Piani, Annick Berger, Mauro Perrucchetti, Giancarlo Cortesi, Carla Mancini Fotografia: Giuseppe Ruzzolini Musica: Riz Ortolani Costumi: Franco Carretti Scene: Franco Vanorio Montaggio: Franco Letti Suono: Gaetano Testa Produzione: Perugia Cinematografica Distribuzione: Euro International Films durata: 107’ censura: 65978 del 01-02-1975 Edizioni in DVD: Camera Obscura (Germania) Jacopetti e Prosperi, registi di Mondo Candido (di cui sono anche sceneggiatori, insieme con Claudio Quarantotto, critico cine-
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matografico del settimanale fascista “Il Borghese”) per il loro rientro ufficiale, dopo gli anni di silenzio seguiti ad Africa addio, si sono rifatti nientemeno che a Voltaire e al suo Candide. Questo Candido cinematografico ripercorre, grosso modo, le orme del suo illustre modello filosofico-letterario, dal piccolo castello in Westfalia (che chissà perché il film trasforma inutilmente in una reggia sfarzosa), alle disavventure tra i Bulgari, al rapimento di Cunegonda, al viaggio in America e così via sino alla visita al derviscio. Gli sceneggiatori, comunque, sono abbondantemente intervenuti sull’opera originale: così il viaggio in America è ambientato nel nostro tempo, i rapitori-violentatori di Cunegonda sono motociclisti che amano scorrazzare, rivestiti di armature, per le sale del castello; Candido e i suoi compagni, invece che in Turchia, concludono il loro viaggio in un paese vagamente orientale, abitato da hippies disfatti dalla vecchiaia e seppellitori di ideali, dopo esser passati attraverso le macerie, il sangue e le carneficine di Belfast e della Palestina. Voltaire è dunque quasi solo un pretesto narrativo, che fornisce la base per un’operazione spettacolare e ideologica che niente ha a che vedere con lui: tuttavia il confronto con il Candide è utile in quanto, per contrasto con la dimensione culturale e politica dell’illuminista, si evidenziano con estrema chiarezza il significato e il valore del lavoro di Jacopetti, Prosperi e Quarantotto. Il Candido voltairiano è il convinto discepolo del “grande” filosofo tedesco Pangloss, il quale “insegnava la metafisico-teologocosmoloidiotologia”. Secondo questa dottrina, nel mondo, “poiché tutto è fatto per un fine, tutto è necessariamente per il miglior fine. Notate che i nasi – argomentava – son fatti per accavallarvici gli occhiali, e infatti abbiamo gli occhiali; le gambe sono evidentemente conformate per essere imbracate e noi abbiamo le brache”. Tale visione del mondo – finalistica, ottimistica e teocentrica – è né più né meno, solo con l’aggiunta di una molto sensata ironia, la filosofia di Leibniz, la cui formula più indicativa e universalmente famosa, è che il nostro sarebbe “il migliore dei mondi possibili”. Ed è questo, appunto, il principale articolo di fede di Pangloss: esso non significa che il mondo che noi sperimentiamo sia, pur con tutte le sue vergogne, quello che, in buona fede e con il massimo impegno, un dio volenteroso è riuscito a mettere insieme; significa piuttosto che in esso si è espresso e continua a esprimersi, tra tutti
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i modelli di mondo logicamente possibili, il migliore in assoluto. Tutto questo – con sconfinata ammirazione e cieco abbandono “Candido ascoltava e innocentemente credeva”. Un tal discepolo di tanto maestro – per inciso si noti che il rapporto discepolomaestro nel film di Jacopetti è andato sostanzialmente perduto, e con esso quindi anche il suo significato filosofico – un tal discepolo, si diceva è l’arma di cui Voltaire si serve per colpire, con la forza distruttiva dell’ironia, l’assetto politico-sociale consolidato nell’Europa del suo tempo, che in Leibniz trova appunto l’ideologo pronto a giustificarlo e a dimostrarne l’assoluta rispondenza alla verità filosofica. L’attacco era condotto in analogia in tutta l’opera teorica dell’illuminismo, sopratutto francese, che, dal liberalismo moderato di Montesquieu al radicalismo democratico di Rousseau, si scagliava contro i pregiudizi e i privilegi di una classe superata dall’ascesa economico-sociale della borghesia, ma ancora tenacemente abbarbicata al potere politico. In Mondo Candido, tuttavia, il discepolo quasi non esiste, perché non esiste il maestro – Pangloss non è niente di più che un vecchio libertino con alcune strambe idee – per di più l’ingenuità, che nel libro è programmaticamente finalizzata alla critica, sfuma in un’assenza totale di un qualsiasi punto di vista. Il Candido cinematografico è solo uno sprovveduto, uno stupido che continuamente sbalordisce di fronte all’assurdità del mondo, o di quelle che a lui (per suggerimento degli sceneggiatori) sembrano tali. In definitiva, e certo senza che Jacopetti, Prosperi e Quarantotto lo abbiano voluto o anche solo se ne siano accorti, è divenuto qualcosa che ricorda irresistibilmente una caricatura dell’“uomo qualunque”. Riproporre oggi, in un mondo totalmente cambiato, il punto di vista di Voltaire, farne, senza le opportune precisazioni che valgano a collocarlo in una prospettiva corretta e gli ridiano la sua precisa dimensione storica, l’emblema di una critica ai costumi del nostro tempo, tutto ciò è certo un’operazione di retroguardia, se non addirittura reazionaria. Per Jacopetti, Prosperi e Quarantotto la questione è tuttavia ancora più grave: il loro Candido sarebbe stato decisamente qualunquista, e perciò reazionario, anche ai tempi di Voltaire. La conclusione cui gli sceneggiatori vogliono portare gli spettatori è che “tutto ciò che ha fatto l’uomo è fallito”. In definitiva il Candido dei tre suddetti, dopo non essere stato discepolo di un Leibniz-Pangloss credibile, diviene seguace di un volgare Leibniz
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rovesciato. La filosofia dell’ottimismo a ogni costo è tramutata in quella del pessimismo, altrettanto a ogni costo. Non solo per questo non è il migliore dei mondi possibili, ma addirittura ogni mondo, scelto tra quelli possibili, è sempre “il peggiore”. Ovviamente tutto questo non ha niente a che vedere con il ragionevole pessimismo di Martino, l’altro filosofo del Candide: quanto Martino esprime con dignità (quella che gli lascia l’ironia di Voltaire, naturalmente) la propria sfiducia in un mondo che ben conosce e che altrettanto bene critica a partire da una propria visione precisa, tanto il Candido dell’ultima parte del film esprime la qualunquistica (e sempre stupida) resa di fronte alle difficoltà di dare un proprio giudizio sulla realtà. Il mondo – ecco il partito preso dei tre sceneggiatori – è dominato da una violenza assurda, totale, senza volto, uguale a tutte le latitudini, una violenza cui tutti sottostanno e di cui nessuno è il responsabile: questa opinione, ovviamente, significa complicità ideologica con coloro che responsabili lo sono ampiamente. Mentre cercano così di portare acqua al mulino del qualunquismo, Jacopetti, Prosperi e Quarantotto trovano il modo di formulare una propria “originale” proposta politica, anche se la tengono nascosta tra le immagini e le parole, occultata furbescamente dietro il paravento della nostalgia piena di pathos. Il rimpianto per il tempo in cui le chiese “non erano vuote e comandavano ancora”, non è forse il segno che i tre sognano il ritorno del medioevo (naturalmente di quello che, di solito, una certa opinione incolta immagina interessatamente sia stato il medioevo), come una bacchetta magica capace finalmente di creare “il migliore dei mondi possibili”? Per dare al tutto un’aria un po’ più convincente, costoro introducono, poi, il tocco magistrale del riferimento problematico alla tematica della “morte di Dio”, ovviamente senza neppure la parvenza di quella dignità con la quale il problema è stato affrontato tanto dalla cultura religiosa che da quella laica. A parte questi riferimenti “ideologici” – meglio sarebbe dire “teocratici” – ogni ideale è comunque considerato fallito, quel che resta è solo il senso della fine della possibilità di avere, appunto, ideali. L’interessante è che – diplomaticamente – tra tutti gli ideali ricordati attraverso i loro simboli, Jacopetti e soci non hanno inserito il socialismo: in primo luogo sarebbe stato difficile farne un unico “fascio” con gli altri, soprattutto, poi, in tal modo il valore
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politico reazionario del loro lavoro sarebbe stato palese a chiunque. Conveniva tacere: perciò si è taciuto. Conclusione di tutto ciò. Se ogni mondo, tra tutti quelli possibili, è sempre il peggiore, non c’è nulla da farci se non “grattarsi”. Questa è la raffinata risposta che a Candido dà un derviscio, ritenuto un gran sapiente. A parte il fatto che il film dà a lui un’importanza spropositata rispetto a quella riservatagli da Voltaire, la questione fondamentale è un’altra. Questo invito a “grattarsi” è di fatto la tesi ideologica di Mondo Candido: il Candide, al contrario, si concludeva con un “bisogna che lavoriamo il nostro orto”. Al di là di ogni vuota speculazione metafisica, al di là di ogni pregiudizio, più o meno interessato, sull’essenza e sulla natura del mondo, l’uomo voltairiano costruisce la propria vita e il proprio benessere con la modestia, la pazienza e la tenacia del proprio lavoro. Non c’è da stupirsi che questa non sia la conclusione di Jacopetti & c.: l’ideologia della borghesia in ascesa, fiduciosa per buone ragioni storiche nei risultati della propria attività, per altrettante buone ragioni storiche non può più essere condivisa da quella borghesia che si sente minacciata e incalzata da una nuova classe. A questa, semmai, oggi appartiene di buon diritto il “lavoro” nel senso che al termine attribuiva il Candide. La violenza, per Jacopetti, Prosperi e Quarantotto dunque non ha volto. Mentre apparentemente dicono questo, i tre con le immagini suggeriscono un diverso giudizio. Certo la violenza uccide tanto i fedayn che le soldatesse israeliane, li uccide persino insieme: la simpatia degli autori, però, va a queste ultime, come è ampiamente dimostrato dal modo di fotografarle e dall’interessamento del film ai particolari quotidiani della loro vita (disturbata dai fedayn). Palestinesi ed israeliane ignude muoiono allo stesso modo, ma non è nello stesso modo che lo spettatore è indotto a vedere la loro morte. Uso “ideologico” della cinepresa, questo, che non è certo una novità per i registi di Africa addio (un piccolo capolavoro di “ipocrisia per immagini”). Neppure nuovo, del resto, è l’abuso del rallentatore – della cui facile e superficiale retorica Jacopetti e Prosperi sembra non possono farne a meno – senza correre il rischio di apparire chiaramente, anche agli occhi dell’osservatore distratto, banali e piuttosto volgari. Sempre allo scopo di occultare una sostanziale mancanza di sensibilità cinematografica e di originalità espressiva – se si prescinde da una certa furbizia nel manipolare le immagini,
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che vengono agitate nell’intento di far credere di avere uno stile – regia e sceneggiatura ha saccheggiato film famosi che, pur nel loro diversissimo valore estetico-culturale, hanno una propria spiccata individualità formale. Dai satanassi-motociclisti e dalla relativa commistione di violenza e sessualità al misticismo colorato e vagamente surrealista degli hippies (si tratta di un surrealismo imbellettato, che mostra chiaramente di essere il cadavere rabberciato di quello storico) la lezione di uomini come il Kubrick di Arancia meccanica e lo Jodorowski di La montagna sacra è persino troppo evidente. È appena il caso di aggiungere che il (positivo anche se vagamente astorico) moralismo del primo è stato sommerso ed annullato da una volgarità compiaciuta e gratuita che la pur vuota e fine a se stessa inventiva formale del secondo è scaduta in una stanca e piatta caricatura maldestra. In complesso questo Mondo Candido non è neanche a livello tecnico (pure non eccezionale, certo) dei precedenti Mondo cane e Africa addio: ciò che è stato superato, semmai, è la tendenza alla volgarità estetico-ideologica, che, in questo film, raggiunge spesso il livello usuale di certi periodici di estrema destra. Meglio, si arriva persino all’infantilismo più deprimente: si ricordi, ad esempio, la ripetizione esasperata della meschina ideuzza dei grandi “americani” – da Colombo in poi – che all’atto di imbarcarsi come normali passeggeri, forniscono le proprie generalità posponendo il nome al cognome. Vuoto compiacimento, volgarità e infantilismo sono certo lontanissimi dalla sottigliezza ironica di Voltaire. Questa disparità estetica non è solo da imputare alla pure enorme differenza di statura intellettuale ed artistica tra l’autore del Candide e i suoi epigoni cinematografici: esso è il portato necessario del tipo di opinioni che Jacopetti e soci devono comunicare. L’ideologia (si fa per dire) del qualunquismo, oggettivamente, può essere comunicata solo con il linguaggio del qualunquismo. Ogni favola – si usa dire – ha la propria morale. Certo la favola raccontata da Voltaire ne aveva una, preludio ideologico, anche se molto moderato, della Rivoluzione francese. Anche Mondo Candido, nel suo piccolissimo, ha la propria, nella quale un certo tipo di borghese non ha difficoltà a riconoscersi. Essa infatti conferma una delle sue opinioni più radicate (e più comode): poiché – come è evidente a tutti – il mondo, comunque lo si consideri, è un immon-
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dezzaio, tanto vale chiudersi nel proprio orticello (non, certo, di voltairiana memoria) e difendere accanitamente i propri privilegi Roberto Escobar, “Attualità cinematografiche”, 47/1975 L’idea di rivisitare il corrosivo racconto filosofico di Voltaire l’aveva già avuta il regista teatrale Roberto Guicciardini, che qualche anno fa cavò dal Candide uno splendido spettacolo messo in scena dal “Gruppo della Rocca”. Ci hanno pensato ora anche Jacopetti e Prosperi, che dopo l’abominevole serie delle inchieste sadiche, razziste e fascistoidi aperta da Mondo cane (1962) e chiusa da Addio zio Tom (1973), sono passati alla “fiction” ispirandosi liberamente (come hanno precisato) al romanzo di Voltaire. Scelta furbetta, come è nelle abitudini dei due, perché l’operazione sembra consentire agli autori di scaricare sulle spalle di Voltaire la responsabilità ideologica del film. Ma ho scritto “sembra” perché in ultima analisi allo spettatore non sfugge il carattere mistificatorio dell’impresa e la natura pretestuosa della scelta “illuministica” di Jacopetti e Prosperi. Che cosa diventa infatti il Candide nella loro riduzione? Nient’altro che un canovaccio per far scatenare nella prima parte del film un barocchismo di riporto, volgare e morboso, scopiazzato (da Carmelo Bene, per esempio) e mortalmente noioso: e nella seconda parte, preso lo slancio e dimenticato il testo letterario, per mettersi in cattedra e spiegare ai “candidi” spettatori che il mondo in cui viviamo è ancora e sempre “cane” a dispetto di quello che vorrebbero farci credere i Pangloss di oggi, gli ideologi e i potenti. Visitiamo così l’Irlanda della guerra civile (dove i bimbi si divertono a gettare le bombe) e gli Usa (dove tutto è mercificato) e Israele (dove le soldatesse ignude mitragliano e si fanno mitragliare al rallentatore in un campo di papaveri dai fedayn): nell’ultima sequenza la corrente di un fiume porta via i simboli del potere politico degli ultimi anni. È la morale della favola cialtronesca e gaglioffa nel suo qualunquismo da quattro palanche. E tanto perché non ci siano dubbi sulla matrice ideologica di questo Mondo Candido segnalo che la sceneggiatura è firmata, oltre che da Jacopetti e Prosperi, da Claudio Quarantotto, direttore del mensile “La destra” e abituale collaboratore del settimanale fascista “Il borghese”. S.R., “Avvenire”, 22 Maggio 1975
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Jacopetti e Prosperi passano dallo pseudodocumentarismo sensazionalistico all’ambizioso film di finzione, ma non si può dire che i risultati, sul piano ideologico nonché su quello per così dire estetico siano migliori. I due registi hanno addirittura avuto la pretesa di “ispirarsi” a Voltaire e al suo splendido Candido o dell’ottimismo, stravolgendo non solo il tessuto narrativo (il che è legittimo) ma anche il senso storico di un’opera nata da una precisa rivendicazione razionalistica. L’amaro pessimismo voltariano diventa qui sberleffo qualunquistico, elogio dell’irrazionalità del mondo che continuerà a prendere tutti i calci nel sedere come succede al povero Candido (ma lo spettatore rischia spesso di perdere il filo di questa banale e al tempo stesso proterva moraletta nei meandri della noia). La sostanza fascistoide del film, comunque, non sta tanto nell’assunto quanto piuttosto nel materiale usato, che rinvia a tutta l’anticaglia di un immaginario regressivo, vera e propria parata necrofila costantemente in bilico tra kitch e clinica psichiatrica; nonché nella miseria e nella degradazione dell’immagine, segno esemplare di un’ideologia reazionaria assai più del modo ignobile con cui il film ci presenta la guerriglia in Irlanda o il conflitto israelo-palestinese. S.P., “L’Avanti”, 1 Marzo 1975 Gualtiero Jacopetti, regista ancora una volta in coppia con Franco Prosperi per il loro primo film interamente “di finzione” dopo la nota serie di documentari sensazionalistici, sosteneva ieri mattina, in privata sede, che con Mondo Candido non ha inteso minimamente fare un discorso politico. Rivisitando il celebre personaggio voltairiano, e prolungandone le peregrinazioni, intessute di stupori quanto di irriducibile ottimismo di fronte ad ogni sorta di prevaricazioni e di sopraffazioni, dal castello della Westfalia di mezzo Settecento fino alle vicende dei giorni nostri, Jacopetti si sarebbe soltanto proposto di rispettare in tutto lo spirito del testo di Voltaire, ivi compreso naturalmente il sotteso pessimismo dell’autore in polemica col “falso profeta” Leibniz (Pangloss nel libro). Ma che significato ha, oggi, una simile operazione? Se la fede sempre salda di Candido nell’amore e nella bontà (nonostante i tradimenti di Cunegonda) e l’irrisione di Voltaire erano certamen-
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te, nell’età dei lumi, forme avanzate di rivolta alle istituzioni civili e religiose, come dovremmo denominare oggi quello stesso spirito critico, divenuto astorico e improduttivo, se non “gretto qualunquismo”? Come non può rendersi conto Jacopetti, che con il suo continuo piagnisteo in veste grottesca, con la sua astratta pietà per i “poveracci” in buona fede che finiscono sempre a pedate sul sedere e peggio, col suo ostinato rifiuto di ogni minima scelta con la sua ambiguità portata avanti in ogni situazione troppo delicata tanto da non poter essere tacciato apertamente di fascista, si fa strumento del più stolto dei giochi politici? È però nostra opinione che Jacopetti e con lui Prosperi e il cosceneggiatore Claudio Quarantotto, non sia il “candido” e l’ingenuo che vuole far credere. Troppi elementi del film concorrono a smentirlo. Lasciamo stare la prima parte di Mondo Candido, quella in costume, alquanto faragginosa e noiosa, e arriviamo ai tempi nostri. Qui si irride all’“impostura” della democrazia americana e si mostra Cristoforo Colombo che fa la pubblicità di un whisky per la Tv. Si passa alla guerriglia in Irlanda del Nord e si vede un bimbetto il quale scopre allegramente che anche lui può uccidere i soldati inglesi. Sulle rovine di una chiesa distrutta dalle bombe si declama: “La Chiesa non conta più; angeli, vergini e santi sono fuggiti”. Altrove un vecchio inquisitore aggiornato accusa Cunegonda, ritratta su una vetrata con le sembianze della Vergine di essere passata dalla parte dei giudei, traditori di Cristo. Eccoci allora in pieno conflitto arabo-israeliano, con le soldatesse (ignude) di Dayan e i fedayn che si massacrano a vicenda, e al rallentatore, in un campo di rossi papaveri. Verso l’epilogo vediamo Candido (con a fianco il saggio Cacambo, un negro) che contempla rattristato i simboli delle varie ideologie (in primo piano la croce uncinata e il fascio littorio) che vanno alla deriva sulle acque di un fiume. Ma di marxismo, per esempio, non si parla mai, quasi fosse cancellato dalla faccia della Terra. Visto che nient’altro è salvato dalla facile ironia degli autori, si potrebbe pensare che sia il marxismo l’ultima ancora di quello “strano animale che si chiama uomo”. L’ipotesi è paradossale, e la verità è invece che Jacopetti si guarda bene dall’esprimere con chiarezza le proprie opinioni. Proprio come al caffè, quando il benpensante abbozza un discorso con qualcuno che non conosce.
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Sotto il profilo tecnico e figurativo Mondo Candido è una grossa féerie carnevalesca di un barocchismo che nella prima parte tocca punte alquanto stucchevoli. Negli episodi moderni, piu densi e svelti, sono invece frequenti le discordanze di tono, spaziando il racconto da momenti di taglio documentaristico a voli liricizzanti di effetto abbastanza ridicolo. Di buona qualità, in ogni caso, la prestazione dei vari attori, la fotografia di Giuseppe Ruzzolini e le musiche di Riz Ortolani. L.A., “Corriere della Sera”, 22 Febbraio 1975 Composto nel gennaio 1757, Candido o dell’ottimismo affronta, come Zadig e Il mondo come va, il tema del male, innestandovi una saporita demistificazione del detto leibniziano “tutto va nel migliore dei modi nel migliore dei mondi compossibili” (assioma che, ovviamente, non poteva reggere il confronto con l’amaro pessimismo voltairiano). Meraviglia che l’aureo libro di Francois-Marie Arouet ispiri, sia pure “liberamente”, un cineasta quale Gualtiero Jacopetti, la cui propensione allo spettacolo esclamativo è tale da suggerirgli, addirittura, l’apposizione di un Mondo che, alterando il titolo del lucido scritto, intende ammiccare disinvoltamente ai precedenti di una filmografia che in Mondo cane e nella Donna nel mondo ha probabilmente i suoi episodi meno contestabili. È ovvio che la tematica è discretamente aggiornata, muovendosi il Candido 1975 in una realtà turbata dalla violenza e dalla dittatura, segnata a sangue dall’arrivismo di oligarchie dominatrici, massificata nel gusto, martirizzata da furenti sciabolate repressive che non sfigurano, in senso negativo, neanche davanti ai foschi ricordi dei crimini del Sant’Uffizio. Tuttavia, esala dal film un effluvio abbastanza equivoco sia per la compiaciuta ridondanza con cui, nella prima parte si descrivono i crimini dell’Inquisizione, senza estrapolarne un preciso giudizio storico verso le responsabili gerarchie ecclesiastiche; sia per il qualunquismo con cui, nella seconda parte, il personaggio di Candido viene ribaltato sui guai del consumismo americano, e sulle tragiche frontiere mediorientali. La deliziosa Cunegonda, vittima ed erinni, sacerdotessa violata e, ad un tempo, scatenata ninfa del piacere, non esprime certo una convincente condanna dei falsi profeti che attentano alla sua virtù. E alcuni episodi altalenanti tra
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la barzelletta e l’oltraggio, riescono soltanto a infamare alcuni tra i più tragici ed inestricabili capitoli della storia contemporanea; il clou della blasfemia è nell’episodio della guerra di indipendenza, combattuta dagli irlandesi, dove un untuoso umorismo tenta di spartire tra i due fronti colpe e denunce, attingendo un esito tristemente pecoreccio (il bambino che, avendo ucciso involontariamente due soldati inglesi viene rimproverato dalla madre: “guarda cosa hai combinato”). Preferiamo tutto sommato Jacopetti che tenta di imitare Ken Russel – il Russell de I diavoli – anche perché qui può contare sul mestiere di José Quaglio (l’Inquisitore) e di quel Jacques Herlin (Pangloss) che è forse alla sua prova migliore dopo il breve ruolo assolto nello Straniero di Visconti. Altrove manca assolutamente un minimo giudizio storico dei grandi temi affrontati. Candido, ottimista destinato a perenni delusioni, avrebbe dovuto trarre parecchi motivi di amara riflessione dai grandi eventi del nostro tempo, che sembrano strutturalmente votati alla frustrazione di ogni speranza ed alla sconfitta di ogni solidarietà per gli umili. Ed invece, il suo diario è epidermico, blanda la sua protesta. L’artificio dell’operazione è confermato dal disarmante edonismo di alcuni capitoli finali, dove la condanna della guerra e della violenza non è affatto esplicita, e dove la rappresentazione di un dramma magari credibile (i corpi seminudi delle soldatesse israeliane che giacciono privi di vita accanto ai fedayn sullo sfondo di un campo di garofani) è destituita delle necessarie connotazioni storiche (in tal senso, anche la sconfitta del movimento hippy, esiliato in una sorta di fievole eden, avrebbe meritato un maggiore approfondimento). M. Ro., “Il Domani”, 25 Settembre 1975 Una cavalcata attraverso i secoli per dimostrare che assolutamente non viviamo “nel migliori dei mondi possibili”, come vorrebbero farci credere gli ideologi e i potenti. Jacopetti e Prosperi, quindi, indossati i modesti panni di Voltaire, ovvero consci di aver capito il loro tempo in tutte le sue sfaccettature, ci raccontano della nefasta influenza dell’umanità dei vari sapientoni tipo Pangloss, mostrandoci le perigliose disavventure del giovane Candido. Il quale, sempre ignaro e mai ammaestrato dalle esperienze, insegue la felicità (o la ragion d’essere) nelle “bellissime” sembianze di Cunegonda.
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Questa invece si adatta piacevolmente anche alle più tragiche vicissitudini che la “storia” le presenta, e sempre sfugge al cospetto del suo amato, senza però mai sapere dove ciò la condurrà. Il film vede tutto, dall’inquisizione ai nostri giorni, con pessimismo integrale, in un orgiastico gioco di umorismo nero, di forzato sarcasmo, di irrisione programmatica e di gusto per la violenza. Ogni oggetto, ogni fatto, ogni battuta dovrebbe, nelle intenzioni, acquistare la forza (polemica) di un simbolo. Ma poiché agli autori manca, in assoluto, la capacità di sintesi, accade che la cronaca divenga ripetitiva oltre che oscura e fine a se stessa. Crediamo che questa volta non ci sarà bisogno di rimaneggiamenti nel montaggio. Il qualunquismo scaturisce da solo dallo spettacolo costruito sì con dovizia di mezzi (e di nudi), ma povero di idee, nonostante l’illustre ispiratore. I.P., “L’Unità”, 22 Febbraio 1975 Una grossa occasione perduta da Jacopetti e Prosperi: dopo qualche anno di separazione i registi di Mondo cane sono ritornati a collaborare realizzando un film tanto ambizioso quanto irrisolto. Eppure l’occasione (ed il soggetto) era stuzzicante, nientedimeno si trattava di aggiornare il capolavoro voltairiano rapportandolo con la problematica odierna; si doveva, in altri termini, condurre con mano sicura il protagonista nel suo lungo peregrinare fra fantasia e realtà, attraverso paesaggi singolari, guerre, dogmi religiosi, scoperte di nuovi continenti. Un’operazione praticabile o per immagini poetiche – alla Fellini, per intenderci – ovvero con rigoroso, anche se crudo, realismo. Né poesia né sintesi realistica invece: solo erotismo sboccato e sgangherato secondo gli schemi della più vieta grossolanità in cui il nostro cinema, se vuole, è maestro. I lodevoli assunti del film vengono così ad immiserirsi ed a stemperarsi: Voltaire deve cedere le armi ad un grossolano autore di vicende erotiche. Specialista in immagini ciniche e brutali proprie di un documentarista disincantato, Jacopetti sembra muoversi a disagio in un film a soggetto, dove invece Prosperi ha maturato una lunga esperienza di mestierante, specializzandosi in film grondanti sesso e violenza da tutti i fotogrammi. Occasione perduta, si diceva, ed è un vero peccato anche perché non manca qualche pregio stilistico: dall’ottima fotografia di
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Ruzzolini all’accuratezza di scene e costumi, anche se talvolta di riporto. In altri termini di buono v’è solo la copertina. Vice, “Corriere Mercantile”, 5 Luglio 1975 Per il loro primo film a soggetto Gualtiero Jacopetti e Franco Prosperi (la coppia mai abbastanza vituperata, di Mondo cane e Africa addio) hanno scelto addirittura il Candido di Voltaire, vale a dire il libro più famoso del più famoso scrittore dell’età dei Lumi. Parte in costume, il film ambientato in un agreste Settecento percorso da guerre di rapina, e di colpo Candido è tra noi, ai nostri giorni: vede Colombo che fa Caroselli, assiste alla guerriglia in Irlanda e al conflitto arabo-israeliano. Le stragi sono all’ordine del giorno, efferate, e non v’è nemmeno l’Eldorado dai ciottoli gemmati, per questo Candido di oggi. Se Voltaire lo mandava a finir la vita coltivando il suo giardino, “lavorando senza pensare”, Jacopetti lo fa retrocedere nel tempo, verso il maniero turingio di Thunder-ten-Tronckh dopo aver contemplato con il negro Cacambo il fascio littorio e la croce uncinata alla deriva sulle acque di un fiume. Sceneggiato assieme al giornalista Claudio Quarantotto, il film è abilmente girato e prestigiosamente fotografato da Ruzzolini (il commento musicale è di Ortolani), ma riesce stucchevole, gelido nella fattura e presuntuoso negli svolazzi pseudo liricheggianti. Qualche momento di taglio documentaristico non maschera lo squallido qualunquismo dei due autori, pervicacemente ancorati al loro astratto e astorico piagnisteo, al loro ambiguo e reazionario rifiuto d’ogni scelta. “Momento Sera”, 3 Marzo 1975 “Candido? Ma sono io”. Intervista con Jacopetti Mondo Candido, l’ultimo film di Gualtiero Jacopetti, è stato accolto da un diluvio di polemiche. Il regista si difende qui dalle accuse più feroci (e più facili). E contrattacca spiegando il perché della sua ingenua, incrollabile, pessimistica sfiducia nelle ideologie. Gualtiero Jacopetti è di nuovo nell’occhio del tifone. L’apparizione sugli schermi del suo quarto film, Mondo Candido, ha ride-
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stato ostilità sopite, diffidenze non confessate, pregiudizi antichi. Lo schieramento dei critici ufficiosi, devoti al potere in carica e a quello futuro, si è diviso: c’è stato chi ha preferito di parlare poco e chi ha scelto di parlare male. Alcuni hanno reagito con il silenzio, altri con l’aggressione. In realtà più che il film è in discussione la persona del regista. A Jacopetti non si rimprovera tanto il suo modo, feroce, disincantato, impietoso, di fare il cinema quanto la riluttanza ad associarsi ai gruppi che di fatto monopolizzano ogni attività culturale. Non le amicizie che ha quanto quelle che rifiuta. Non le idee che professa ma le coperture politiche che gli mancano. Tenacemente affezionato alla propria libertà, scarsamente rispettoso delle convenzioni e delle mode vigenti, Gualtiero Jacopetti s’è fatto cucire addosso un abito di personaggio spregiudicato, cinico, spietato che non gli piace e non gli si attaglia; s’è esposto a contumelie e a linciaggi che non meritava; s’è fatto assegnare ruoli che non gli competono, idee che non gli appartengono, precedenti che non lo riguardano. Perfino un’adesione alla Repubblica di Salò che non dette mai, dal momento che in quegli anni tumultuosi militava, come ufficiale di collegamento della V armata, dall’altra parte della barricata. Parliamo di Jacopetti con Jacopetti, cominciando da Mondo Candido. Film non conformista ma certamente importante: per il ritmo di favola allegra, per le invenzioni di sceneggiatura e di regia, per le splendide immagini ma soprattutto per le verità che dice (o per le menzogne che confuta). Il più grave degli addebiti mossi al regista per quest’opera unica nel suo genere è di aver liquidato sbrigativamente le aspirazioni e le ideologie del nostro tempo, senza indicare alternative, di proporre insomma diagnosi senza terapie. Secondo capo di imputazione, il pessimismo senza speranza con cui Jacopetti guarda e giudica le illusioni e gli ideali del nostro tempo. Terzo, il qualunquismo rivelato dal rifiuto delle ideologie che confortano il presente e illuminano il nostro avvenire. Quarto peccato capitale, l’ambiguità delle scelte e del linguaggio, il riferire senza esprimere giudizi netti e definitivi, la denuncia non seguita da condanna. Jacopetti. Pessimista? Il pessimismo è ormai una necessità, un dovere. Il pessimista è vittima, non causa, delle prevaricazioni e delle scelleraggini che affliggono l’umanità. Non sono io a pro-
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vocare la violenza, le ingiustizie, la corruzione di cui parlano le cronache. Solo chi è inserito nel sistema può fingere ottimismo: è ovvio del resto che chi trae profitto da una situazione sia portato a giudicarla con benevolenza. Si dà il caso che gli inseriti, almeno dalle nostre parti, siano in maggioranza degli incapaci e dei falliti ma potrebbe anche trattarsi di una coincidenza. Continuo a meravigliarmi ogni volta che un personaggio noto per i dissesti che ha provocato viene premiato con incarichi di consigliere delegato o presidenze varie. La mia meraviglia è della stessa natura di quella di Candido. Vuoi sapere perché ho scelto per fare un film il racconto di Voltaire? Perché in realtà mi identifico ancora oggi con Candido. Mi piace vivere, comunicare, ridere, credere nel prossimo, mi piacciono le donne, i tramonti, l’arte; mi piace anche credere in un domani più sereno e onesto. Candido, con le mazzate che ha preso, dovrebbe essere distrutto e invece resiste, continua, si ostina. In sostanza è tutt’altro che un pessimista senza speranze. Non lo sono neanch’io. Penso che il nostro tempo sia un tempo di transizione. Non siamo all’epilogo, anche se gli uomini, accecati dalle conquiste scientifiche e tecnologiche, dai rapidissimi cambiamenti avvenuti negli ultimi trent’anni, si sono convinti di vivere in una fase importantissima, conclusiva della storia dell’umanità. Non credo che sia così e questo rende meno amaro e disperato il mio pessimismo. Il pessimismo che ti viene attribuito deriva anche e soprattutto dalla sfiducia pubblicamente proclamata nelle ideologie. Nel film si vedono i simboli dei maggiori movimenti politici di questo secolo andare alla deriva, perdersi fra i rifiuti. È stata rilevata da qualcuno l’assenza dei simboli marxisti, altri hanno riconosciuto la falce col martello insieme al fascio, alla svastica e via dicendo. Hanno visto bene gli uni o gli altri? Che cosa significa il naufragio dei simboli? Che le ideologie sono ormai tramontate, che non c’è più posto per i profeti e gli apostoli? La falce e martello c’è, fra i simboli che vanno alla deriva. A qualcuno può essere sfuggita, altri possono non aver visto la svastica: sta di fatto che non ho voluto escludere nessun simbolo, ti dirò anzi che ne dovevo mettere altri, non ho potuto per difficoltà pratiche, di tempo e di organizzazione. Veniamo alla sostanza. La scena di cui stiamo parlando come tutte le altre del film non sono una
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manifestazione di sfiducia nelle ideologie; vogliono dare invece il senso della transitorietà. I tempi cambiano, cambiano i problemi, cambiano i programmi. Ciò non significa che non si debba credere, al contrario. Bisogna credere in qualcosa se vogliamo che le nostre azioni e le nostre ambizioni abbiano un senso. Il mio atteggiamento non è quello del nichilista, insomma. Per sgombrare il campo da ogni equivoco: qual è l’ideologia che ti è più congeniale? C’è qualcosa in cui credi veramente? Credo nella libertà. Penso che la libertà sia per ogni uomo il sommo bene, il dono massimo. Forse l’ideologia che potrei sentire più vicina alle mie vocazioni è quella anarchica, nel suo valore di utopia, nella sua funzione liberatoria. In una situazione senza speranza, in uno stato imputridito irrimediabilmente, sento il bisogno di distruggere tutto, di far saltare la costruzione delle fondamenta. Si capisce che distruggerei per poi ricostruire. Ma la prima cosa da fare è abbattere, non si può ricostruire se le fondamenta sono marce; né potrei accettare che una classe dirigente corrotta interferisse nella mia vita, regolasse le mie scelte. Questa necessità di distruzione è conseguenza di una situazione anomala. Voglio dire che non mi sentirei anarchico se fossi cittadino della Repubblica di Platone, lo sarei invece nella Roma del Basso Impero. Sarei anarchico in Russia o in Cile, ma sarei un ottimo cittadino in America. Trovo l’America un paese straordinario: un paese che piange quando si accorge che il Presidente gli ha mentito, e lo allontana è un paese vitale democratico nel senso più pieno. Sono anarchico nei confronti della cultura italiana di oggi, piatta, conformista, già rinunciataria, già sottomessa alle sinistre, cioè al potere di domani. A questa cultura che parla per ammiccamenti, attraverso riviste lette solo dagli addetti ai lavori, mi sento estraneo; così mi sento lontano dagli scrittori che scrivono per se stessi o per i propri amici. Ritengo che la cultura debba essere portata senza farla notare, con eleganza. Questa gente si comporta come gli arricchiti che a tavola bevono con il mignolo alzato. Prova fastidio quando sente parlare un linguaggio comprensibile, come allo stregone a cui hanno scoperto i trucchi. Ci sono persone colte che hanno l’abitudine di farsi capire da tutti, come Montanelli o Barzini: gli intellettuali col mignolo alzato le detestano.
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Torniamo al punto di partenza: ti sei accorto girando Mondo Candido, di parlare un linguaggio ambiguo, di preparare il terreno ai successivi dubbi dello spettatore, o sei persuaso di aver enunciato verità nette e spiegate? Non ho presunzioni di questo tipo, mai. Il film è realmente ambiguo, perché i fatti sono ambigui, perché le informazioni che riceviamo non sono univoche e definitive, perché il mondo d’oggi è pieno di ambiguità. Lasciamo da parte le ragioni per cui l’informazione è ambigua: a mio parere, per il cinquanta per cento vuole esserlo, per l’altro cinquanta per cento non può non esserlo. Il risultato è comunque l’impossibilità, per chi voglia comportarsi onestamente, di giudicare. Nel film ho portato Candido in Irlanda e in Medio Oriente e ho descritto un fatto certo: l’assuefazione degli irlandesi come degli israeliani e degli arabi alla guerra, stanno fra le esplosioni come Calindri nel traffico in un famoso Carosello. Ma sulle cause di quelle tragedie, le informazioni che abbiamo forse non sono sufficienti. D’istinto, io sono dalla parte di Israele ma non sono sicuro di saperne abbastanza per pronunciare una sentenza irrevocabile. Né me la sento di prendere partito a favore dei cattolici o dei protestanti irlandesi. I ruoli sono facilissimamente invertibili fra assassini e vittime, fra prevaricatori e prevaricati, fra derubati e ladri. Ci vuol poco a far passare la pirateria per eroismo e viceversa. Ecco perché il film è ambiguo. Non lo fu invece Africa addio, dove descrissi fatti che avevo visto e verificato con i miei occhi: realtà semplici, verità chiarissime. Come forse ricordi, fui violentemente contestato, aspramente condannato per quel film. Vinsi un David di Donatello ma il ministro socialista dello spettacolo, Corona, giunto a Taormina per consegnare i premi si allontanò prima della premiazione perché il giornale del suo partito lo aveva attaccato accusandolo di incoraggiare un film reazionario e colonialista. Il premio fu consegnato da un vice, mi pare un sottosegretario: ma quando fu chiamato Africa addio né io né il produttore, che era Angelo Rizzoli, ci presentammo e dovettero mandarcelo per posta. Da Africa addio nacquero polemiche, accuse, speculazioni di ogni genere: mi accusarono perfino di strage, non voglio ricordare fatti noti e sgradevoli. Tutto questo perché avevo descritto fatti non smentiti da nessuno, verità incontestate, come la strage degli animali che gli inglesi, nei paesi da loro amministrati, avevano sempre impedito.
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E per il futuro? Come vedi l’avvenire dei molti Candido che vivono in questa Repubblica? Non sono ottimista, non credo che gli italiani considerino ormai la libertà come il bene più prezioso. Temo anzi che si preparino a barattarla in cambio di una scuola che funzioni, di un sevizio postale meno meteoropatico, di una polizia in grado di svolgere le sue funzioni istituzionali. Questi discorsi sul compromesso storico, sul comunismo che non è più quello di una volta, mi sanno di resa e discrezione. Il soldato che si prepara a buttare il fucile comincia sempre col dire al commilitone che il nemico, in fondo, non è poi tanto cattivo come sembrava... Piero Palumbo, “Il Settimanale”, 13/29 Marzo 1975
AFRICA DOLCE E SELVAGGIA (1982) Regia: Alfredo Castiglioni, Angelo Castiglioni Soggetto: Alfredo Castiglioni Sceneggiatura: Alfredo Castiglioni Fotografia: Alfredo Castiglioni Musica: Franco Godi Montaggio: Luisa Baruffini Produzione: Cast di Angelo e Alfredo Castiglioni Distribuzione: Difilm durata: 96’ censura: 78166 del 24-09-1982 Sarà poco originale dirlo, ma di riti tribali nel continente nero e misterioso avevamo fatto definitivamente provvista con Africa addio di Gualtiero Jacopetti. lnvece i fratelli Castiglioni, che da anni esplorano diligentemente l’Africa, ripropongono senza approfondirli i fatti più crudeli che vanno a ripescare in migliaia di chilometri di pellicole impressionate senza complessi di sorta: un “mondo cane” in nero che colpisce ma non commuove lo spettatore. Non basta certo il commento di un etnologo a rendere culturali le curiosità della cinepresa in occasioni di impressionanti circoncisioni e clitoridectomie. I poveri bambini di colore piangono e su-
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dano sangue (non si fa per dire), i registi Castiglioni non si tirano certo indietro per compunzione. Ci sono poi, e qui la novità si direbbe assoluta, maestri catturatori di serpenti e scorpioni i quali mostrano a volenterosi allievi come ci si mitridatizza. Gli episodi si susseguono in tono acritico finché giungiamo, per l’aggiornamento dato dalla permissività, alla sequenza hardcore: in un rito della fertilità lo stregone (partner?) insinua nella vagina della consenziente un serpente vivo e profanatore. Questa sarebbe l’Africa dolce e selvaggia. P., “La Stampa”, 30 Novembre 1982 l gemelli milanesi Castiglioni sono arrivati al loro quinto lungometraggio, continuando con accanita applicazione quel lavoro di ricerca e di documentazione sugli usi, costumi e riti dei popoli primitivi che avevano cominciato in Africa segreta (1969). Il loro film di maggior successo fu Africa ama (1971); quello che, come autori, amano di più è Addio, ultimo uomo. Il tema conduttore di Africa dolce e selvaggia sono i riti di iniziazione che sanciscono il passaggio da un’età all’altra o da un gruppo sociale all’altro. Ma sono anche riti di fecondità ed espiazione, prove di coraggio e addestramento (alla caccia dei rettili velenosi, per esempio), pratiche scaramantiche e magiche. I devoti di San Sadomaso, i delibatori di emozioni violente, gli emofans più o meno perversi hanno pane per i loro denti. C’è da intenerirsi sulla circoncisione di bimbetti piangenti, da svenire per la scalpellatura dei denti incisivi, da fremere per operazioni estetiche di scarificazione con lametta, da impietosirsi sulla castrazione dei dromedari per trasformarli in “mehari” da corsa, da rabbrividire alle visioni di rettili micidiali. C’è anche un bel momento di cinema all’improvviso con un cobra che colpisce una guida negra. Ma è soltanto una dimensione del film che, in bilico tra spettacolo e documentazione etnologica, è sostenuto dal rispetto per gli usi e i costumi che descrive, da un’apprezzabile rinuncia al sensazionalismo fine a se stesso, da un ragionevole assillo informativo. Sono qualità che si trovano nel misurato e limpido commento dell’etnologo Guglielmo Guariglia dell’Università Cattolica di Milano, detto dalla sobria voce di Riccardo Cucciolla, e nelle immagini, sempre di alto livello professionale (Eastmancolor, 16 mm.), talvolta di
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suggestiva bellezza, spesso di asciutta funzionalità. È un film che dà informazioni, soddisfa curiosità, comunica emozioni ma che insegna anche a capire, a non respingere a priori quel che è diverso soltanto perché tale, a prendere atto che la presenza del sacro e il rapporto con la natura possono avere modi e forme diverse dalle nostre. È un film che tiene fede al suo titolo. Non è poco. Morando Morandini, “Il Giorno”, 1 Ottobre 1972 Angelo e Alfredo Castiglioni sono due documentaristi che senza dubbio amano l’Africa, anche se hanno un occhio più attento alle curiosità che non ai veri problemi di quel travagliato continente. Di loro infatti ricordiamo Africa segreta, Africa ama, Magia nuda, Addio ultimo uomo, documentari realizzati in collaborazione anche con altri autori. Tutto sommato, pure questo Africa dolce e selvaggia dimostra che la vecchia lezione del discutibilissimo e per molti versi falso Africa addio di Jacopetti e Prosperi non si è ancora esaurita. Infatti Angelo e Alfredo Castiglioni non indagano con il loro documentario nelle drammatiche pieghe del Continente nero, ma ricercano piuttosto gli aspetti più abnormi e impressionanti soffermandosi, con troppa compiacenza, su circoncisioni, scarificazioni, uccisioni cruentissime di animali, balli, stregonerie e alte piacevolezze del genere senza mai un accenno approfondito alle condizioni morali, sociali, politiche, culturali in cui vivono quei popoli. Il film così, pur non mancando di aspetti curiosi e spettacolari, non fornisce un’idea reale dell’Africa. Il commento di Guglielmo Guariglia è impettito e qua e là anche un po’ retorico. Buona la fotografia specie quando riprende certi suggestivi effetti di miraggio. V.B., “Il Resto del Carlino”, 26 Settembre 1982 Nel campo del documentario i fratelli Angelo ed Alfredo Castiglioni si sono affermati da tempo per quei loro densi ritratti antropologici del Continente Nero. L’Africa che vive, palpita, soffre, ama e muore, l’Africa con i suoi residui animistici, l’Africa con i suoi valori ancestrali, l’Africa non ancora acculturata che oppone fieramente una “sua” identità ai deliri consumistici dell’Occidente: questa Africa genuina fino alla crudeltà, talora incomprensibile,
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tuttavia “pulita” è l’Africa che da molti anni ci viene raccontata dai Castiglioni. Ma se all’inizio la ricerca antropologico-culturale era la vera giustificazione di ogni film, in seguito l’aspetto puramente sensazionalistico ha preso il sopravvento, Qual è il significato del tribalismo africano oggi? Che rapporto esiste fra il clan, con la sua legge ereditata dai Padri, e la non lontana città, filiazione del colonialismo destinata ad erodere una stratificazione “morale” vecchia di secoli? E, ancora, l’Africa, costretta a subire moduli di comportamento estranei alla propria cultura, agonizza o è capace di sviluppare un linguaggio suo, cioè la “negritudine” cara a Senghor, Cesar ed altri, come forma di riscatto? Sono problemi di portata vastissima, storica, che i Castiglioni hanno praticamente affrontato nei loro primi lavori, con un discorso di tipo deduttivo (ma sempre da europei, però), poi sfiorandolo per lasciare spazio ad un’immagine fine a se stessa. Ed ecco la delusione di questo Africa dolce e selvaggia, summa di violenza su uomini ed animali, gratuita esposizione di riti di sangue il cui insieme parla solo di superstizione. È un vero peccato, perché di materiale ve n’era abbastanza da tentare, pur nella necessaria brutalità di taluni particolari (ma il tribalismo è ‘anche’ questo, solo che bisogna spiegare perché), una suggestiva tipologia primitiva. A.M., “Il Tempo”, 10 Ottobre 1982 Ma non muore mai questa benedetta Africa dolce e selvaggia, libidinosa e crudele, struggente e “iniziatica” dei fratelli Castiglioni? È da anni che s’annuncia, da parte dei due documentaristi milanesi, il luttuoso evento della fine delle tradizioni tribali del Continente nero. Da anni si lamenta l’imminente passaggio del feretro, e lo si accompagna con le lacrime poetiche di Leopold Sedar Senghor; e purtuttavia, nonostante lo spreco d’olio consacrato impartito anticipatamente agli “ultimi uomini” dell’Africa nuda, il corteo funebre tarda ancora ad apparire all’orizzonte, a giudicare almeno dalle vivaci sequenze di questo nuovo film-documentario realizzato in ossequio allo schema ormai logoro che esige sangue, sesso e disgustosi obbrobri vietati ai minori di diciott’anni. Etnologi, antropologi e africanisti in genere non ci vogliano male. Vorremmo, se potessimo, abbracciare con slancio fraterno
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tutti i bimbi negri e i sapienti Tuareg visti all’opera nel film dei Castiglioni. Non si può, infatti, assistere senza angoscia all’agonia di una cultura così antica e ricca di suggestioni e di miti. Ma il discorso è un altro, di carattere esclusivamente tecnico, estetico, cinematografico. I due fratelli milanesi, coraggiosi e bravi nel loro mestiere scientifico-spettacolare, hanno tuttavia dimenticato una regola assai elementare del “mercato delle immagini”: le vecchie formule devono essere sostituite con idee nuove, con arditi cambiamenti di rotta, e non ripetute fino alla monotonia e all’ossessione. Monotone e ossessive sono le scene cruente di circoncisione, clitoridectomia, sgozzamento di animali, ingurgitamento di insetti repellenti e velenosi, castrazioni, incisioni nella carne viva eccetera eccetera. Vecchie balle, ormai. Repertorio abusato di una cinematografia che vive, senza ragione, con l’incubo folle di “non riuscire a creare abbastanza emozioni, di non fare abbastanza spettacolo”. Peccato davvero. Perché i colpi in canna, per i fratelli Castiglioni, potrebbero essere ancora assai numerosi e validi, assai più veritieri e avvincenti di queste stracotte pietanze sanguinolente. Sarà forse un caso che non può dare adito a statistiche, ma il pubblico in sala, quando abbiamo assistito alla proiezione, sbuffava puntualmente in coro ogni qual volta s’annunciava una scena di truculenza. Tutta colpa dell’Africa? Massimo Jevolella, “Il Giornale”, 30 Settembre 1982 Il quinto film dei fratelli Angelo e Alfredo Castiglioni è il quinto capitolo di un medesimo discorso portato avanti con ammirevole coerenza in risposta all’appello del poeta e leader senegalese Leopold Senghor affinché l’uomo bianco che ne avesse la possibilità raccogliesse con ogni mezzo e consegnasse ai posteri le ultime testimonianze viventi di quei costumi e tradizioni delle genti africane altrimenti destinati, dietro l’incalzare di civiltà estranee, a rimanere cancellati dalla storia. I Castiglioni non sono certo i soli né i primi ad impegnarsi in questo genere di ricerche e documentazioni. Prima del loro Africa segreta (1969) il cinema etnologico aveva già una storia, tra l’altro segnata dal contributo non indifferente del francese Jean Rouch. Ma caratteristica dei fratelli milanesi è quella di saper tradurre in
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forma di spettacolo una materia che, per lo scrupolo di verità che la sovrintende e che non viene mai tradito, resta altrettanto valida per lo studioso. Garanzia di autenticità di quanto ci viene mostrato in Africa dolce e selvaggia è, tra l’altro, il commento alle immagini dovuto al professor Guglielmo Guariglia, direttore dell’Istituto di Etnologia dell’Università Cattolica di Milano. Argomento principale del “capitolo” sono i “riti d’iniziazione”, dalla fanciullezza all’età adulta, praticati in varie tribù localizzate tra il deserto e la savana dell’Africa del Nord. Sono riti spesso cruenti, che vanno dalla circoncisione collettiva dei bambini (per togliere loro un supposto residuo di femminilità) alla resezione del clitoride delle femmine (considerato, all’opposto, un residuo di mascolinità, ma praticato anche per un atavico principio maschilista che tende ad escludere la donna dal piacere sessuale). Non può sorprendere che la maggior parte delle pratiche iniziatiche si basino sul sesso, primo emblema e fonte di vita. Ma forse qui, come nei riti per propiziare la fecondità della donna, i Castiglioni hanno ecceduto nell’insistenza sui dettagli. Ed è il solo appunto che deve esser fatto ad un film altrimenti ricco di meno sconcertanti testimonianze di costume. Le prove di coraggio nei confronti dei più insidiosi animali del deserto (vipere della sabbia, cobra, scorpioni) trasmesse dai vecchi alle nuove generazioni, sono tra le pagine più suggestive del documentario, assieme a quelle dell’incontro della “troupe” con una carovana di tuareg e dell’apparizione davanti all’obiettivo, con la massima evidenza, della mitica “fata morgana”. Ma molte altre sono le curiosità inedite di Africa dolce e selvaggia, frutto di tre anni di ricerche (quanto i Castiglioni non avevano impiegato per i loro film precedenti) e di una più che mai sapiente elaborazione in sede di montaggio del vastissimo materiale ripreso in immagini di nitidissima resa cromatica. Pregevole la scansione dei vari episodi in ritmi appropriati ai rispettivi contenuti, mentre le pause che concorrono all’unità compositiva sono fornite da belle aperture sul paesaggio o dal motivo degli automezzi della “troupe” che si sposta da una tappa all’altra dei centomila chilometri esplorati. I.A., “Il Corriere della Sera”, 29 Settembre 1982
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Questo ennesimo documentario sull’Africa Misteriosa (ma non sarebbe ora di cominciare a considerare anche il nostro paese altrettanto misterioso?) è, se possibile, ancora più irritante dei vecchi e bistrattati film di Jacopetti (che, per lo meno, avevano il pregio di essere i primi del genere) e di quelli dei suoi epigoni e imitatori, anch’essi pronti a manipolare la realtà, anche la più drammatica, a fini spettacolari. Irritante perché estremamente presuntuoso nel suo presentarsi come opera dagli intenti rigorosamente scientifici, che niente concede alle leggi del mercato cinematografico. Garanzia di tanto zelo e di tanto rigore dovrebbe essere il commento alle immagini raccapriccianti, che sfilano senza tregua e senza un minimo rispetto per le capacità di sopportazione al disgusto del pubblico: esso, infatti, letto da Cucciolla, è stato elaborato dal professor Guariglia, direttore dell’Istituto di Etnologia dell’Università Cattolica di Milano. L’espediente è astuto ma presto rivela tutta la sua inconsistenza: la scrupolosità e l’esattezza scientifica del testo non bastano a giustificare la scelta di un materiale visivo (e quindi, a monte, di un orientamento registico) al limite, sempre, del repellente, nonché il costante incalzare degli orrori, quasi che il povero spettatore, violentato dalla visione di fiumi di sangue, rituali barbarici, operazioni chirurgiche rudimentali e primitive (con tanto di “dettagli” di corpi dilaniati da lamette e organi asportati di netto, per non dire di poveri animali sgozzati davanti alla cinepresa) non abbia neanche diritto ad un momento di pausa. Per lo meno Jacopetti aveva l’accortezza di alternare scene disgustose a scene idilliache e accattivanti. Coerentemente al loro assunto ipocrita, invece, Angelo e Alfredo Castiglioni, autori del documentario Africa dolce e selvaggia, ribadiscono, fino alla fine, la loro volontà di “mostrare” senza prendere partito (e quindi senza compiacimento sadico) una realtà i cui aspetti più terrificanti sono sempre necessari e il loro distacco dal “girato”. Comunque, prima di arrivare al sollievo dei titoli di coda, bisogna sorbirsi: circoncisioni, escissioni di clitoridi, squarci sul volto e sul corpo, uccisioni di dromedari, stregoni che si cibano di scorpioni e altre amenità della stessa serie. Per., “Il Messaggero”, 10 Ottobre 1982
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Africa dolce e selvaggia è il quinto film-documentario dei fratelli Castiglioni sulle civiltà che inevitabilmente sono destinate a scomparire entro breve tempo. Questo film è costato però 40.000 metri di pellicola e più di centomila chilometri percorsi, tra deserto e foreste. Il filo conduttore di questo film è la ricerca e la documentazione dei “riti d’iniziazione”, quei riti che sanciscono il passaggio dei giovani della tribù dalla fase infantile a quella adulta; un po’ come noi che attendiamo la “maggiore età”. Danze, sacrifici propiziatori, rituali segreti, cerimonie che esprimono il bisogno dell’anima primitiva di trovare un contatto con la divinità buona e una difesa contro quella cattiva. A proposito dei sacrifici propiziatori, nel corso del film appare chiara come possa essere vera la frase che qualcuno scrisse: “La gallina è l’animale più sfortunato che abbia mai calpestato il suolo d’Africa: serve per tutti i sacrifici”. E così si vedono galline sgozzate, aperte, distrutte anche solo con le mani: il tutto per conoscere se la divinità è propiziata a questa o quella cerimonia. Esempi classici di “gallinicidio” sono presentati infatti in apertura di ogni rito, che invece, con violenza, viene praticato sull’uomo. Abbiamo così le immagini della circoncisione, della escissione, che permetteranno a bambini e bambine di diventare uomini e donne. Abbiamo i riti di... bellezza, quelli che si fanno praticare le giovani donne per sembrare più belle, attraverso segni dolorosissimi che vengono incisi con lamette da barba sul corpo, sul seno, sul viso. Abbiamo i tagli (stessa tecnica) che vengono praticati sul viso di tutti per dimostrare l’appartenenza ad un determinato clan di una tribù. La partecipazione collettiva ad ogni attività tribale è sancita anche dal rifiuto fisico di quelle persone che, al tempo debito, si erano rifiutate di sottoporsi ai riti dell’età, quali appunto l’escissione e la circoncisione. Grande efficacia hanno ancora le immagini relative all’insegnamento del cacciatore di serpenti: i suoi allievi guardano stupiti come il vecchio si metta in bocca il serpente, come mangi il pungiglione dello scorpione, lo sezioni a mano ancora vivo e lo gusti quasi fosse un cocktail di gamberetti. Anche la scena della riparazione alla sterilità della donna (sempre con il serpente), ripresa con luce assai soffusa per la delicatezza dell’argomento, fa parte della mentalità che considera il serpente come una sorta di
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divinità e va quindi trattato di conseguenza. E il coccodrillo vecchio, quello che vive sulle sponde del Niger a difesa del villaggio (dicono loro), che resta nei pressi degli abitanti perché regolarmente gli portano cibi propiziatori (la solita gallina, ma anche porcellini), racchiude in sé l’anima di tutti i vecchi che vegliano su tutti. Alla fine del film alcuni potrebbero dire che “è troppo forte”, addirittura una violenza. Certo l’emotività di ciascuno viene senz’altro scossa ma, come dicono, i Castiglioni, “L’aggressività etnologica dei popoli a noi sconosciuti esiste, e i riti di iniziazione non sono certo dei suoni di violino”. E la conoscenza, secondo noi, è senz’altro più importante di un’ora e mezzo di scene che secondo civiltà puritane e civili restano tuttora incomprensibili. Nulla da dire sulla professionalità dei Castiglioni, che con la loro annosa esperienza (il loro primo film, Africa segreta, è del ’69) sanno riprendere queste scene crude con abilità scenografica di registi vissuti. Ancora nulla da riprese della natura, con i suoi tramonti, il tremolio delle temperature oltre i 50 gradi, i paesaggi lunari, gli animali, l’inesistente vegetazione. Forse, e questa può essere l’unica pecca (se così si può chiamare) del film, il montaggio avrebbe meritato un’accuratezza alla Benvenuto Cellini. F.V., “La Notte”, 28 Settembre 1982 La moda dei piatti cinematografici eccessivamente carichi di spezie non risparmia il documentario. Per la verità l’andazzo è vecchio: lo inaugurò vent’anni fa il più famigerato che famoso Mondo cane di Gualtiero Jacopetti. Oggi la gente ha fatto il callo alle emozioni forti, ma il documentario è sempre impressionante in quanto rappresenta non una finzione spettacolare ma la realtà (anche se poi ci sono cento modi per forzare, manipolare, adulterare e truccare la realtà). Da una dozzina d’anni due nipotini di Jacopetti, milanesi pure loro, i fratelli Angelo e Alfredo Castiglioni, si sono specializzati in réportages sul Continente Nero. Dopo Africa segreta, Africa ama, Addio ultimo uomo ecco questo Africa dolce e selvaggia, dedicato quasi esclusivamente ai riti di iniziazione, pubertà, fecondità, espiazione e simili. Il che consente agli autori di sciorinare tutto un cruento e spesso raccapricciante repertorio di circoncisioni, re-
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scissioni vaginali, scarificazioni, scalpellature dentali, fustigazioni e torture varie, nonché sacrifici di animali, castrazioni di dromedari ed altre piacevolezze del genere. Un dotto (e verbosetto) commento del prof. Guariglia dell’Università Cattolica fornisce supporto e giustificazione culturale al film che – come viene ribadito all’epilogo – non intende condannare razzisticamente né idealizzare come “ultimo paradiso” (ci mancherebbe) una realtà etnologica in via di estinzione con tutte le sue crudeli tradizioni, ma darne soltanto una fedele e obiettiva testimonianza “a futura memoria”. Sarà; ma poiché conosciamo i nostri polli, vi preghiamo di badare da un lato alla compiaciuta e pervicace insistenza sui particolari più abnormi e traumatizzanti, e di notare nel contempo la mancanza di chiarimenti storici, geografici, politici, morali, religiosi e sociali sulla vita di quei popoli. Per il resto il film è di buon livello professionale (anche se girato in 16 mm.), raggiunge notevoli effetti spettacolari e fotografici nelle parentesi non sanguinolente rubando immagini magiche alla natura e può insomma costituire un passatempo apprezzabile dagli stomaci robusti. Ma non cerchi di gabellarsi per un’opera scientifico-didattica: in tal caso è ancora preferibile Walt Disney. “La Libertà”, 8 Ottobre 1982 Assortimento di curiosità etnologiche con prevalenza netta d’immagini cruente. I fratelli Angelo e Alfredo Castiglioni dichiarano d’essersi impegnati in tre anni di ricerche per portare a termine questo cocktail di sangue all’africana e si appellano alle parole nobili del poeta Leopold Senghor secondo il quale ogni usanza umana va conosciuta e rispettata per favorire la civile convivenza dei popoli. È lecito però dubitare che la registrazione a vanvera d’usanze crudeli e pericolose possa servire la causa della pace universale; sembra piuttosto un espediente per provocare in platea brivido e disgusto. Guardando il film si può avere l’impressione che le attività più diffuse in terra d’Africa siano lo sgozzare gallinacei, l’offrire in pasto maialetti ai coccodrilli, il circoncidere bambini in cerimonie collettive che non prevedono precauzioni contro setticemia ed altre probabilissime infezioni. Le femminucce della tribù vengono invece “iniziate” con una vera e propria amputazione sessuale intesa a eliminare dai loro genitali ogni traccia di ‘maschilità’.
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Simili usanze saranno certo significative di quelle culture, ma l’insistenza ossessiva della cinepresa sui particolari d’ogni operazione risulta a esclusivo beneficio di chi gode alle emozioni morbose. Il “documentario” trascura d’indicare il percorso della spedizione e tutte le informazioni che potrebbero servire a inquadrare anche intellettualmente le immagini sullo schermo. Vice, “Il Mattino”, 24 Marzo 1983 Non sarà molto professionale, ma io Africa dolce e selvaggia l’ho visto sempre con la testa abbassata, sbirciando tra le mani quando finissero i momenti truculenti. Non finivano mai, e così alla seconda ondata di circoncisioni ho tagliato la corda. Ma eravamo già un bel pezzo avanti: di tagli del prepuzio ce n’erano stati già un centinaio; poi c’era stato il rito del serpente nella vagina di una ragazza per propiziare la fecondità, lo scalpellamento degli incisivi, il drink a base di acqua sporca delle mani di un morto (funerale di lusso), la caccia ai serpenti velenosi, le fasi del mitridatismo raggiunto con dosi sempre maggiori di veleno di vipere e scorpioni velenosissimi, il pasto propiziatorio ai coccodrilli con l’offerta di porcelli e galline, altre galline variamente spaccate sempre per necessità tribali. E così andando avanti senza tregua, con piccolissime parentesi su situazioni ad uso di una platea di sadici (devono essere molti, perché a questi richiami le sale si riempiono). I fratelli Castiglioni saranno pure dei rigorosi studiosi degli usi e costumi dei popoli primitivi (sono al loro quinto lungometraggio, da Africa segreta ad Addio, ultimo uomo arrivando a questo documentario), ma il risultato dei loro film diverge da quelli di Jacopetti solo perché non deformano la realtà, sono meno sensazionali e più noiosi... L’insistenza con cui mostrano al pubblico solo i lati più cruenti delle loro ricerche, inoltre, non mi sembra di più pure intenzioni. Il commento dell’etnologo Guglielmo Guariglia poco supplisce ai vuoti d’informazione del profano. Solo per fortuiti accenni si viene a sapere d’essere nell’ansa interna del Niger o nel Dogon, i cambiamenti di colore della pelle dei protagonisti unica indicazione di variazione geografica. L’Africa è grande e la sua realtà complessa: anche volendo attenersi alle sopravvivenze etniche primitive, ci vorrebbe minore approssimazione nel presentarne l’attuale dimensione. E quanto al titolo, ma dov’è l’Africa dolce? Santuari, “Paese sera”, 11 Ottobre 1982
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DOLCE E SELVAGGIO (1983) Regia: Antonio Climati, Mario Morra Soggetto: Antonio Climati, Mario Morra Sceneggiatura: Antonio Climati, Mario Morra Fotografia: Antonio Climati Musica: Daniele Patucchi Montaggio: Mario Morra, Antonio Climati Produzione: Racing Pictures Distribuzione: Titanus durata: 93’ censura: 79093 del 12-08-1983 In coppia, al solito, con Climati, Mario Morra (che inevitabilmente si ricorda come collaboratore di Jacopetti per La donna nel mondo e Mondo cane) firma ora questo nuovo documentario à sensation, da inserirsi nel filone cui già appartengono, degli stessi autori, Savana violenta e Ultime grida della savana. Il film è una sfilata di atrocità e di violenze – il lato “selvaggio” della documentazione che non indugiamo a specificare – mostrate in parallelo o in alternativa a immagini meno impressionanti, se non proprio “dolci” come il titolo dice. In esse, per attenuare il raccapriccio suscitato da talune sequenze, le più barbare, non mancano, con pretesti vari, inserti sexy con giovani donne spogliate. Riferimenti all’attualità più orrida e agghiacciante hanno tuttavia preponderanza, riferite a uomini e ad animali in un’opera di montaggio non priva di abilità, ma talvolta enfatica come la voce del commentatore. A.V., “La Stampa”, 20 Ottobre 1983 L’uomo, di fronte alla natura, mostra con ostinata alternarnanza un volto dolce o selvaggio. Su questa elementare constatazione, più stiracchiata nel film-reportage susseguenti al famoso Mondo cane di Jacopetti, Antonio Climati e Mario Morra hanno costruito il loro ultimo documentario. Il primo si è occupato delle riprese, l’altro dei montaggio, mentre il commento è stato affidato a Franco E. Prosperi. A sobbarcarsi la maggior mole di lavoro questa volta è stato Morra. Lo ha fatto con spregiudicatez-
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za, inserendo spezzoni di pellicola tutt’altro che inediti. Dolce e selvaggio si avvale così di un assemblaggio che giova al ritmo dello spettacolo, sebbene dia l’impressione che siano le immagini a commentare il testo, come sempre infarcito di ecologia spicciola e di dubbio interesse antropologico. Abbondano ancora le scene orripilanti: un cadavere fatto a pezzi e gettato in pasto agli avvoltoi, varie atrocità sui prigionieri irakeni caduti nelle mani dei soldati di Komehini, un rito folkloristico andino a base di sanguinose vergate, tanto per citarne alcune. Altre sequenze, girate tempo fa negli Stati Uniti, hanno invece il taglio della diretta televisiva. Mostrano il tragico volo di uno stunt-man e quello di un funambolo temerario. Per concludere, gli autori di Ultime grida della savana esibiscono come di regola il fatto edificante: una scimmietta che ha ridato il sorriso ad una handicappata grave, accudendola al pari di una infermiera professionale. Per rincuorare gli spettatori ci vuote ben altro. Alfredo Boccioletti, “Il Resto del Carlino”, 6 Agosto 1983 Quando, alcuni anni fa, Antonio Climati e Mario Morra, insieme ad altri documentaristi, iniziarono le loro ricerche etnologiche su aspetti inconsueti e/o rituali del mondo “selvaggio” i risultati furono senza dubbio interessanti. Soprattutto l’Africa, ritratta in modo suggestivo anche se crudo, con un taglio antropologico deciso, taglio che, purtroppo, in seguito si è andato gradualmente perdendo. L’idea-base è sempre quella di focalizzare prospettive poco note della dimensione primitiva, proponendole in modo di darle il sapore di lato oscuro della nostra coscienza (vedi i documentari africani), ma è brutalmente mutato il “come” mostrarle al pubblico. È vero che oggi tutto è violenza ed è anche vero che la vita a contatto con la natura, modellata su suoi stessi ritmi, contiene in sé una mostruosa potenzialità di violenza (in Natura, lo sappiamo, vige la legge del più forte), tuttavia insistere con compiacimento su questo, chiamiamolo così, “specifico”, non ha molto senso. Voglio dire che mostrare, come già visto in film precedenti, rituali primitivi dove il sangue ne costituisce il nucleo essenziale (per esempio talune prove iniziatiche), può essere sgradevole ma ha un preciso significato antropologico, culturale, mentre soffermarsi in
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cerca dell’effetto fine a se stesso credo davvero non abbia alcuna giustificazione. “Numeri” quali lo squartamento del prigioniero o il defunto dato in pasto agli animali danno solo fastidio, soprattutto perché fanno parte di un discorso nel quale compaiono anche quegli aspetti crudi ma suggestivi di cui parlavo all’inizio. E, mi chiedo, puntare la camera su quei particolari più raccapriccianti di una data cultura non è un modo di farle violenza (quasi coloniale, direi), contravvenendo a quanto diceva il grande De Martino, che parlava di “rispetto”, allorché ci si accostava ad una cultura “altra”? A.M., “Il Tempo”, 16 Settembre 1983 Più di vent’anni fa Gualtiero Jacopetti inaugurò con Mondo cane il reportage esotico al cinema, le scorribande in paesi lontani, di preferenza l’Africa, per descriverne costumi ancora ancestrali e aspetti di varia e bizzarra tradizione. Fu un successo, che trascinò altri “Mondi cane”, altre savane, altre umanità sepolte dalla civiltà avanzante. I successori di Jacopetti che pur ci aveva offerto un propiziante Africa addio, non si persero di coraggio, e con la scusa dell’indagine etnografica o dello studio del folklore continuarono a battere quelle contrade puntando l’ispirazione (se così si può dire) sulla crudeltà di certi riti o sulla componente erotica di altre abitudini. Banalità per gli interessati all’argomento, esca un po’ sadica per quelli alla ricerca di emozioni facili; Antonio Climati e Mario Morra, nell’approntare Dolce e selvaggio fanno conto che gli anni non siano passati, si fidano della corta memoria dello spettatore facendo centro al botteghino perché, almeno a Roma, il loro film si colloca alle prime posizioni della classifica degli incassi. “Per l’esasperato realismo di molte sequenze, avvertiamo il pubblico che potranno verificarsi malori assolutamente incontrollabili” recita la pubblicità di Dolce e selvaggio scatenando la curiosità di coloro che i malori riescono, invece, a controllarli, anche se debbono sacrificare il buon gusto e sorvolare sulla ostentata commercialità dell’operazione. D’altra parte il commento che accompagna le immagini, cattedratico con licenze spiritose e doppi sensi da barzelletta, ci avvisa che il tema del film è “il duello affascinante per la vita, con la morte protagonista”. Quale duello possano ingaggiare gli struzzi, catturati dall’uomo, prima sottoposti a supplizio con le piume strappate una a una e poi
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ammazzati barbaramente torcendogli più volte il collo, lo speaker non lo spiega; in compenso vediamo delle ragazze nude addobbarsi di piume, mantenendo in mostra i punti strategici del loro corpo. Sotto l’Annapurna, invece, il corpo del defunto viene portato in processione, poi sezionato con la mannaia, e i tronconi offerti ai grati avvoltoi. Un iracheno fatto prigioniero dagli iraniani ci viene mostrato trascinato da una jeep mentre gli si stacca un braccio e, ridotto ad un ammasso sanguinolento, trova ancora qualcuno disposto a sparargli il colpo di grazia. E non c’è sosta per gli spettatori di Dolce e selvaggio esenti da malori, perché si spazia da un continente all’altro, dal mattatoio dove i bovini vengono sgozzati e, ancora palpitanti, il loro sangue viene raccolto e bevuto seduta stante da gente che così crede di allungarsi la vita, alla mattanza giapponese di delfini, tirati a riva e finiti a bastonate. Uomini e animali seguiti nelle loro convulsioni da una macchina da presa che sembra ubriacarsi nel descriverne l’agonia. C’è tanta violenza nel mondo, ci viene proposta in cento modi tutti i giorni, perché non portare un po’ di rispetto per le sue vittime? Alfio Cantelli, “Il Giornale”, 22 Settembre 1983 Il quarantacinquenne Mario Morra, ex montatore di film come La battaglia d’Algeri e Anonimo Veneziano, ex collaboratore di Jacopetti per La donna nel mondo e Mondo cane n. 2, fa ormai da tempo coppia con Antonio Climati nella realizzazione di più o meno validi film di documentaristico montaggio. Passato dai rivisitati e agrodolci anni Cinquanta (Un sorriso, uno schiaffo, un bacio in bocca) alle atrocità di Le facce della morte, Morra ha pensato questa volta di offrire lo zuccherino e il bastone alle platee attratte dalla spesso agghiacciante verità umana e sociale della nostra sporca epoca. Al “selvaggio”, dunque, viene sempre contrapposto un aspetto dolce, o perlomeno confortevole, del nostro vivere; al primitivo viene paragonato il tono civile delle comunità ricche o povere; alla violenza corrisponde l’armonia che l’uomo ha saputo conquistare o strappare alla natura. Film come Dolce e selvaggio si rivelano interessanti se riescono, con spezzoni inediti e rari nei loro toni documentaristici e folkloristici, a parlarci di civiltà lontane, del dramma degli indios, delle emarginazioni delle minoranze,
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della violenza perpetuata dall’uomo sul patrimonio naturale, del fanatismo religioso e pagano. Purtroppo, la pellicola di Morra e Climati propone poco in questo senso – a parte l’intermezzo di un rito pagano celebrato sull’Himalaya e dove i brandelli di carne di un uomo diventano pranzo succulento per condor e falconiformi – e ancora una volta privilegia riprese apparentemente sensazionalistiche nei parchi nazionali e nelle riserve africane, sequenze di ginnastica aerobica interpretate in chiave sessuale, rituali primitivi che si celebrano con bevute di sangue fresco di animali sgozzati. Il film, dunque, nonostante i suoi spostamenti da un continente all’altro, offre poco sia da un punto di vista sociale sia spettacolare e risulta oltremodo fastidioso e datato il retorico e compiaciuto commento di Franco E. Prosperi. Va, però, registrato il sincero interesse da parte delle platee più giovani, e variamente attratte dall’antropologia culturale, dall’etnologia, dall’etologia e dallo strutturalismo, per spettacoli come questi, che dovrebbero rivelarsi educativi, coscienziosi e informativi e che si rivelano o confermano, invece, perlopiù speculativi. G. Gs., “Il Corriere della Sera”, 23 Agosto 1983 Già collaboratore di Jacopetti fin dai tempi di Mondo cane, Antonio Climati ha proseguito la sua attività di documentarista in giro per il globo insieme a Mario Morra. I due paladini della cinepresa lanciata allo sbaraglio hanno realizzato Savana violenta prima, Ultime grida dalla savana poi. L’esotismo, ricercato con tutti i mezzi, è il loro Eden. Essi ricercano scene barbariche e immagini scassanervi, praticano “zoomate” sopra particolari orridi e paesaggi inconsueti, rapidi stacchi di montaggio incrociato e primi piani “rubati” col teleobiettivo. L’ultimo sforzo di Climati e Morra s’intitola Dolce e selvaggio. È un ennesimo giro del mondo in groppa alla pellicola. Il documentario allinea, tra altro, le seguenti “primizie”: un uomo fatto a pezzi e dato in pasto a cani e avvoltoi, la caduta d’uno “stunt-man” da un grattacielo; una scimmietta che fa da infermiera a una paralitica; lo squartamento d’un ribelle trainato tra due camion; il bacio d’una balena; un massacro di prigionieri; un funerale in mare; una strage di delfini... Ci si crede il motivo di tanto peregrinare (i due registi hanno perlustrato l’Africa, l’Australia, l’Asia, le due Americhe, l’Europa) quando è ben noto che il massi-
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mo dell’insolito si annida nel quotidiano apparentemente più banale. Questi “avventurieri del sensazionalismo” non conoscono i documentari di De Seta? Bastano le immagini d’una tonnara o di quattro casupole arroccate su un monte per fare un bel film. Qui, invece, si cerca di sorprendere, di far colpo. La parola “discrezione” sembra ignota ai due cacciatori dell’inedito. Eppure gli spettatori sono ormai assuefatti a ogni “altrove”. Gli aerei corrono veloci; la televisione via satellite, anche. Le sopravvivenze di tribalismo e di ferocia, superficialmente descritte e decorate in technicolor, interessano meno d’un ricetta di cucina. Giuseppe Saltini, “Il Messaggero”, 14 Settembre 1983 Sono passati oltre vent’anni dacché Jacopetti inaugurò con Mondo cane il filone del documentario a sensazione, del film che spazia fra i cinque continenti con il pretesto di fare sociologia e antropologia, ma che in realtà intende soddisfare chi nutre morbose curiosità nei confronti del macabro e della morte. Un genere deplorevole, ma che resiste, al quale si ricollega anche questo Dolce e selvaggio dal titolo denso di ambiguità e contrapposizioni (amo gli aggettivi con cui un poeta del Terzo mondo definì la natura umana) e che potrebbe far supporre ben altro della solita carrellata di atrocità, violenze nei confronti di uomini ed animali, sia pure intervallate di tanto in tanto da qualche sprazzo men crudo. Un documentario (non ci avventuriamo sul terreno dell’estrema veridicità o meno di quanto mostrano le immagini) fatto di spezzoni, spesso velocissimi, recuperati in vari modi, talora vecchi, spesso tecnicamente difettosi, tutti comunque che giocano sul contrasto, conditi da un commento di Franco Prosperi dai toni retorici ed irritanti talora, che scivola anche nella barzelletta idiota, o nel doppio senso. Si ha un bel mostrare il leit-motiv, dell’ex-soldato di ventura che si è messo a tutelare gli animali della savana, o una scimmietta che aiuta una paralitica: le sequenze che restano impresse di più sono quelle del cadavere tagliato a pezzi e dato in pasto agli avvoltoi; del soldato iracheno trascinato da una jeep, mentre un’altra gli strappa un braccio, poi infine ucciso; del cecchino irakeno giustiziato (mentre Africa addio suscitò polemiche per
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scene similari Dolce e selvaggio può essere visto anche dai minorenni...); dell’acrobata che precipita da 60 metri; dei macellatori andini che bevono il sangue fresco dei tori; delle sofferenze degli struzzi, le cui piume vanno a coprire, non coprendo, le nudità femminili e altro ancora. Compresa la ginnastica aerobica che acquista connotazioni erotiche. È proprio vero, comunque: nel film si chiede ecologicamente misericordia e pietà per gli animali del film, ma non si ha che scarso o nullo amore per l’uomo. Marco Bertoldi, “Il Giornale di Brescia”, 25 Settembre 1983 Avevamo letto sulla locandina l’avviso di prammatica per i film a base di visceri al vento e antropofagi ruspanti: “Per l’esasperato realismo di molte sequenze avvertiamo il pubblico che potranno verificarsi malori assolutamente incontrollabili”. Così, essendo la vostra cronista una trepida femminuccia, c’eravamo premurati di chiedere l’assistenza di un volonteroso fidanzato. Nelle scene cruciali noi ci saremmo coperti gli occhi, lui avrebbe fatto una fedele cinecronaca. Precauzione inutile. L’unico uso che abbiamo fatto del palmo delle mani è stato per mascherare sfrenati, sbadigli. Non è la solita “jacopettata” come tutto lasciava credere (ovvero l’ennesimo tentativo di rifacimento di Mondo cane), ma un documentario abbastanza noiosetto sui fasti e i nefasti di animali para-selvaggi e cacciatori intronati, con un paio di scene truculente, ma tali da venir agevolmente sopportate anche dalle anime più sensibili. C’è, sì, una panoramica di cadaveri di guerriglieri rhodesiani, tutti sforacchiati e grigiastri, e c’è il macello pubblico dove si usa il sangue fresco delle bestie come un Gerovital macrobiotico, c’è, anche, lo squartamento, da qualche parte sui monti di un qualche paesetto sperso in oriente, del cadavere, per distribuire i pezzi freschi del caro estinto agli avvoltoi, e il linciaggio di un cecchino iracheno alla maniera dei persiani di Dario (via le gambe e le braccia, da vivo), ma è davvero tutto qui. Con – fortunatamente – scarsa insistenza sui particolari più macabri, tagli veloci e una fotografia grigiastra che confonde le idee e la vista (del sangue). Il resto potrebbe entrare in uno di quei barbosissimi documentari che fanno fischiare il pubblico impaziente, prima che inizi il film in programma. Con l’aggravante di un commento sdolcinato
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e non attentissimo alla sintassi, qualche bel seno bianco, tanto per gradire, e un pugno di “penoni” (maxi-peni) di guerrieri Masai o giù di li. Tanto si sa che i genitali del continente nero fanno documentario colto. Quelli bianchi, invece, incorrono nei fulmini della censura. A proposito: perché?
Vittoria Peroni, “La Notte”, 22 Settembre 1983 Antonio Climati e Mario Morra, dei quali la pubblicità ricorda film recenti quali Savana violenta e Ultime grida dalla savana, tornano alla ribalta con un altro collage di situazioni-limite raccolte nei cinque continenti. Si tratta per lo più di immagini sconosciute al comune viaggiatore sia perché non rientrano nella vita di tutti i giorni, sia perché alcune sequenze sono state acquistate da operatori locali come, per esempio, quelle del linciaggio del cecchino sul fronte della guerra Iraq-Iran. Scritto da Franco E. Prosperi, il film – una collezione di atrocità e di miserie – è di quelli che gratificano i sedentari i quali alla fine penseranno che l’Italia è il migliore dei mondi possibili. Purtroppo il desiderio di sorprendere è tale che gli autori mescolano di tutto in questo calderone che mostra gli storpi di Benares accanto alle graziose allieve delle lezioni di ginnastica aerobica impartite da Jane Fonda; un corpo squartato e dato in pasto agli avvoltoi accanto al ballo dei centenari di Vilcabamba; una morte alla Cartouche sul fronte Iraq-Iran seguita da immagini di nudi stile “Playboy” ripresi dal fotografo Tunas. Il film s’intitola Dolce e selvaggio, un paradigma per gli autori che intervallano le immagini delle atrocità con scene curiose o liete. Il carattere episodico del racconto, però, non può darne che un’idea parziale e falsa. D’altronde sono trascorsi oltre vent’anni da quando Gualtiero Jacopetti girò Mondo cane e nel frattempo la televisione ha concesso larghi spazi ai documentari che sono sicuramente più articolati e più istruttivi di Dolce e selvaggio, e hanno, rispetto al film, il pregio di mostrare tutto, ma nel rispetto della vita e della dignità dell’uomo, con una scelta di tempi e montaggio tesi a non insistere sull’orrido, accennandovi eventualmente e soltanto quanto basta a dare un’informazione corretta. Come dire ai registi che esistono cose che, tutti sanno e delle quali nessuno parla perché giustamente ritenute di scarso interesse? E invece ce ne sono che si industriano per mostrare alcune
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autentiche nefandezze stravaganti, oltre che inutili, per le quali chiedono allo spettatore le cinquemila lire del biglietto. Renzo Fegatelli, “la Repubblica”, 22 Settembre 1983
WILD BEASTS – BELVE FEROCI (1984) Regia: Franco E. Prosperi Soggetto: Franco E. Prosperi Sceneggiatura: Franco E. Prosperi Interpreti: John Aldrich (Rit), Lorraine De Selle (Laura), Ugo Bologna (ispettore Nat), Louise Lloyd (Suzy), John Stacy (primo guardiano zoo), Enzo Pezzù (secondo guardiano zoo), Monica Nichel (madre bambina in metrò), Stefania Pinna (bambina in metrò), Simonetta Pinna, Alessandra Svampa, Federico Velocia (ragazzi a scuola), Alex Freyberger (ragazzo), Gianfranco Principi (giornalista), Tiziana Tannozzini (ragazza), Pasquale Martino, Giancarlo Triberti Fotografia: Guglielmo Mancori Musica: Daniele Patucchi Montaggio: Mario Morra Suono: Giuseppe Testa Produzione: Shumba International Corporation Distribuzione: 20th Century Fox durata: 89’ censura: 78783 del 29-04-1983 Edizioni in DVD: CGHV – CineKult (Italia) Prima di rivelarsi per quello che realmente è Wild beasts parte quasi come un documentario zoofilo sulle belve in cattività, con un giovane veterinario che amorevolmente se ne prende cura e una leggiadra giornalista con cui il nostro ha in corso una “love-story”. Poi, di colpo, la sterzata su un percorso completamente diverso: dapprima un branco di orripilanti topacci che aggrediscono e sbranano due ragazzi che amoreggiano in macchina, per continuare con la rivolta delle bestie dello zoo che evadono dalle loro gabbie e seminano il terrore in città (una grande città del nord, ci viene detto senza ulteriori precisazioni, ma i personaggi hanno quasi
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tutti caratteristiche molto mediterranee) e via di questo passo. Addirittura, un gruppo di bambini risulterà in preda ad una folle eccitazione simile a quella che ha contagiato gli animali, e anche qui con esiti mortali. La spiegazione dell’imprevedibile scoppio di violenza si avrà solo sul finire del film, cosicché per la sua quasi intera durata la vicenda è costruita sul crescere della tensione senza che se ne conoscano le origini e, quindi, che si possano prendere adeguati provvedimenti. Una didascalia iniziale asserisce che nessun tipo di tortura è stata inflitta agli animali per la realizzazione del film. Sarà; ci sono però un paio di sequenze che sembrano smentire l’affermazione. Wild beasts, svelati suoi veri intendimenti, tenta di reggersi sul clima di “suspense” dato dalla situazione che è tutt’altro che originale per quanto riguarda l’affidamento della drammaticità alle bestie, ma che è invece abbastanza nuova per la trovata di coinvolgervi animali di ogni sorta. Per cui lo spettatore può andare in sollucchero gustandosi le sfumature che contraddistinguono le unghiate mortali del leone da quelle, altrettanto letali, dell’orso bianco. D’altra parte qui sono proprio le bestie che meriterebbero la citazione come veri e decisivi interpreti del film. Mario Milesi, “Bergamo Oggi”, 29 Febbraio 1984 Qualcosa di strano contamina l’acquedotto di una città tedesca, qualcosa che rende terribilmente aggressivo chiunque ne beva l’acqua. Primi a risentirne sono gli animali: un esercito di topi massacra letteralmente una coppia di giovani, nel frattempo tutte le bestie dello zoo fuggono uccidendo i guardiani; elefanti, orsi, felini furiosi sono a spasso per la città seminando morte e panico. Il dottor Rip Berard, poco plausibile scienziato, e la dottoressa Schwartz, quasi altrettanto poco credibile giornalista, cercano le cause di tale disastro e, individuata nell’acqua quale unico elemento comune l’origine di tale ferocia, scoprono in essa la presenza di “Polvere d’angelo”, pericolosissima droga. Fortunatamente il suo effetto è temporaneo. Prima però che un comunicato ANSA, dattiloscritto sullo schermo, ci tranquillizzi sul lieto fine della vicenda e sulla calma ristabilita (senza peraltro spiegare da dove la droga prove-
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nisse) c’è un ultimo colpo di scena: la dottoressa Schwartz, recatasi a prendere la figlia a scuola, si trova a fronteggiare una turba di “bambini feroci”: anch’essi hanno bevuto l’acqua e conseguentemente ucciso una delle maestre. Non c’è però da preoccuparsi, rinchiusi in una stanza, ritorneranno buoni in breve tempo anch’essi, come d’altra parte gli animali, adesso mansueti nelle loro gabbie. “Abbiamo corrotto il nostro ambiente e il cancro che vi abbiamo immesso si ritorce contro di noi” è la frase che durante il film pronuncia solennemente uno scienziato in occasione di una conferenza su Darwin. Attenda quindi, il genere umano, una tremenda e giusta punizione. In questi termini chi meglio di bambini e animali (persino il cane del cieco!) può incarnare la vittima innocente di una società degenerata? Chi, di conseguenza, meglio di loro può farsi giustiziere di una natura offesa? Tutto questo sta alla base di quel grandioso pasticcio che è Belve feroci, un pasticcio fatto di carneficine evidentemente a basso costo, di duelli uomo-animale dove solo i primi sembrano prendersi sul serio tanto è evidente che gli altri stanno giocando; il tutto basato su di una sceneggiatura (dello stesso Prosperi) che passa con disinvoltura da discorsi sui problemi della donna a frasi come “Chiudi i finestrini, cara” di fronte ad una carica di elefanti. Il peggio del film, in definitiva, non è però dato dalla lampante scarsità dei mezzi o dall’inverosimiglianza generale; Prosperi introduce infatti, per compiacere più vaste platee (o forse perché è profondamente italiano e profondamente cattolico), l’aspirazione alla “tesi” assolutamente esterna al genere. Dopo una prima sequenza stranamente studiata nella scelta delle inquadrature e nel montaggio sonoro, il film non è altro che il rimescolamento dei peggiori stilemi del cinema horror sradicati dal loro tessuto e rimescolati senza motivo. Due sole cose emergono da tali e tante macerie: l’incredibile John Aldrich che, non cambiando espressione dall’inizio del film, offre forse la prova di un’umanità tanto ottusa da essere inattaccabile; e, infine, il suggerimento che “magnanimamente” viene offerto, probabilmente per non lasciarci completamente senza speranza: “Dio aiutaci” è l’ultima tremenda battuta della tremenda dottoressa Schwarz, in primo piano, alla fine del film. Giulia D’Agnolo Vallan, “Film”, 33/1984
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Può la natura impazzire? Sì, se una mano gliela dà l’uomo. Ne è convinto Franco Prosperi che in Wild Beasts – Belve feroci ha immaginato una vera e propria rivolta di animali di ogni tipo contro la società moderna che ha fatto di loro fenomeni da baraccone. Una vera crociata di pantere, elefanti e orsi bianchi tutti stufi di stare in gabbia, che per un improvviso “richiamo della foresta” sfondano le sbarre delle gabbie e se ne vanno in giro per la città. Il guaio è che l’insurrezione non ha i caratteri di un’allegra manifestazione di libertà, ma si tinge subito di sangue e di morte. E tutti i protagonisti a quattro zampe sono carichi d’odio e hanno l’aspetto di terrificanti creature dell’orrore. Tutto incomincia nell’attraente e superattrezzato zoo di una città tedesca dove vivono un etologo (John Aldrich) e una giornalista interessata al comportamento degli animali (Lorraine De Selle). In una sera calda e umida, quasi “tropicale” tutte le bestie feroci impazziscono, sfondano le cancellate, sbranano i guardiani. Andando avanti su questa falsariga è facile immaginare la lunga serie di scene ben poco gradevoli che il film riserva allo spettatore; “assalito” da ruggiti e urla strazianti delle povere vittime. E la regia si diletta a raffigurare sangue colante e membra squarciate con una frequenza noiosa. Ma nello stesso tempo il film ha le pretese di un giallo con qualche pizzico di suspense qua e là che precede prevedibili e ineluttabili massacri e intreccia le fasi di questa ribellione degli animali con una storia personale, la difficile relazione tra la giornalista e sua figlia, bambina abbandonata nei kinderheim da una genitrice troppio indaffarata che rispecchia una situazione familiare molto comune nelle società avanzate. Wild Beasts vuole essere una denuncia alla “cattività” imposta nel nostro mondo agli animali e ai bambini. Ma questa accusa si perde tra le sequenze esageratamente spettacolari e i dialoghi da telenovelas. Alessandro Cannavò, “Il Giornale”, 16 Febbraio 1984 Mediocre horror animalesco ed “ecologico” pieno di debiti con Hitchcock, Dario Argento, Lucio Fulci. Le bestie feroci dello zoo comunale all’inizio s’accontentano di rosicchiare sanguinanti teste equine, ma dopo aver bevuto acqua inquinata da sostanze eccitanti cominciano ad aver fame d’uomini, donne e bambini. Gab-
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bie e muri di cinta sono ostacoli irrisori se ci si mette d’impegno un elefante arrabbiato, e in breve la città si trasforma in un luogo d’agghiaccianti agguati. Al macello ripugnante partecipano tigri, bovini in branco, orsi bianchi, e topi di fogna che vanno a divorarsi una coppietta in amore dentro un’automobile. Un giovane biologo armato di pistola a siringhe pattuglia la città al fianco d’un solerte commissario di polizia, e tenta di rimediare all’assoluta inespressività del proprio volto sfoggiando qualche sorriso da pubblicità per dentifricio nei momenti che dovranno essere più angosciosi. Intanto una giornalista che s’era rivelata mamma snaturata comincia a ravvedersi, giunge ansiosa nella scuola dove con un bicchier d’acqua i bimbi sono diventati assassini, salva a stento la sua figlioletta, che per fortuna aveva bevuto una salutare Coca-Cola. Il ghepardo famelico che rincorre un’automobile, la tigre che fa risuonare passi minacciosi sul tetto d’un vagone della metropolitana, potrebbero essere trovate divertenti se non fossero compromesse dall’esecuzione sempre frettolosa e approssimativa dello spettacolo. Il regista-sceneggiatore Franco Prosperi è stato in passato collaboratore di Gualtiero Jacopetti e negli ultimi anni s’è dedicato a B-movies di vario genere. S.V., “Il Mattino”, 16 Maggio 1984 Una produzione italiana è andata negli States per ambientarvi questo film a metà tra lo zoo esotico e l’horror sovraccarico di “trucchi speciali”. Un costante, ripetitivo “effetto straniante” si propaga nelle varie scene finché la suspense e la sorpresa ricercate perdono ogni loro appiglio. Gli animali selvaggi e titolo compaiono in mezzo a scenografie metropolitane, dinanzi a sfondi di grattacieli e subway. Volendoci abbandonare ad ardite fantasie potremmo pensare che essi siano l’incarnazione dei nostri grovigli irrazionali, proiezioni di incubi sinistri e intollerabili. Ma le loro smorfie, i ruggiti, gli assalti hanno tutti i tratti del gioco gratuito e superficiale. “Violentata dall’uomo la natura si ribella”. Questa frase della pubblicità, che si legge sui flani del film ne spiega ampiamente il contenuto. Suggerisce le ferine, burrascose atmosfere in cui lo spettatore si trova sommerso. Chi attendeva qualcosa come King Kong, dove uno scimmione costretto in catene riusciva a liberarsi
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e a seminare il panico nelle strade di New York, resterà peraltro deluso. Perso il fascino “rétro” di quel film, ora resta la plateale esibizione di belve inferocite. Anche un raffronto con Cujo, il recente film scritto da Stephen King, non porta lontano. Franco E. Prosperi, che ha diretto questo Wild Beasts, non ha la concentrazione orrorifica dell’autore americano. I suoi “attori” – umani o animali che siano – si muovono come marionette in uno spettacolo da grand-guignol. Il cortocircuito tra quotidianità e paura qui non genera alcun lampo. Trionfano, invece, le truculenze più vistose, i rumori stridenti, la musica spacca timpani. G. Salt, “Il Messaggero”, 16 Febbraio 1984 In una città come Francoforte, ricca, gelida, quasi asettica, l’equilibrio ambientale è turbato dalla droga. I tossicomani disseminano di siringhe le banchine della metropolitana, mentre le industrie inquinano le falde acquifere con acidi più potenti dell’Lsd. Tutto questo accade nel film Wild Beasts – Belve feroci ed ha subito conseguenze terrificanti. Ad un tratto sembra che gli animali siano intenzionati a vendicare la natura, scatenando la loro aggressività primordiale. Per cominciare entrano in azione i topi di fogna, che dilaniano due fidanzatini distratti dalle rispettive effusioni amorose. Poi le belve feroci escono dalle gabbie dello zoo comunale squassate da una carica degli elefanti. L’effetto che fa è disastroso. Il panico dilaga, la gente viene sbranata per le strade. Mamme e bambini vedono spalancarsi le fauci di tigri e leoni ad ogni angolo della città. Particolarmente prese di mira sono le persone che più stanno a cuore a Rip Berner, il veterinario dello zoo, il quale non perde tuttavia la calma e l’abitudine di fare del pessimo umorismo. Sarà lui a dare una spiegazione (incredibilmente puerile) al fenomeno. E non mancherà la sorpresina finale, con assurde pretese moralistiche. Tra gli interpreti l’unica abbastanza disinvolta nella recitazione è una stupenda tigre siberiana. Ancora una volta il regista Franco E. Prosperi prende a pretesto un tema confusamente naturalistico per riempire lo schermo di inutili atrocità. Alfredo Boccioletti, “Il Resto del Carlino”, 25 Febbraio 1984
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Wild beasts è arrivato ieri a Milano illustre sconosciuto. Però nel resto del mondo sta circolando da molti mesi e con risultati in fondo lusinghieri. L’anno scorso a Cannes furoreggiò al “Mercato” del cinema (dove l’horror spadroneggia da decenni). Più tardi è passato gloriosamente attraverso tante rassegne della “fantasy” e del “mystery”. La più raffinata rivista per i fan di Dracula e di Frankenstein “Cinefantastique” azzarda aggettivi iperbolici con cui manco Fellini sarebbe stato onorato negli anni belli. In realtà è un “trash film” (film spazzatura) effettistico e grossolano, con passaggi orripilanti da far sembrare il vecchio Grand Guignol un teatrino dei pupi. Però costruito con innegabile professionismo e, a tratti, con notevole inventiva. Il genere sarebbe ancora quello, ormai fuori moda, degli “animali aggressivi” (dieci, quindici anni fa sull’idea degli Uccelli di Hitchcock, Hollywood sfornò almeno una trentina di film sul tema della natura che si ribella all’uomo). Ma lo stile adottato è quello dei documentari esotici tipo Savana violenta (festival degli sbudellamenti dove sadismo e oscenità si danno la mano, con risultati spesso deleteri per la digestione dello spettatore). Non a caso il regista è Franco Prosperi (coautore nei vari Mondo cane di Gualtiero Jacopetti); non a caso il montatore è Mario Morra coregista delle ultime efferatezze dalle savane. Il film parte (o sembra voler partire) da benemerite istanze ecologiche (l’inquinamento industriale che arriva anche alle risorse idriche delle metropoli) per poi scatenarsi con i massacri a ruota libera. Che diavolo si porta l’acquedotto delle città del film (tedesca c’è parso)? Un mucchio di porcherie che, combinate insieme (qui si combinano purtroppo), danno la cosidetta “polvere d’angelo”, la droga più infernale che esista. Pensate a che succede con la “polvere” nell’abbeveratoio dello zoo comunale. Gli animali in gabbia, quei paciosi sonnacchiosi che emettono sì e no un ruggito al mese, “bombati” all’ennesima potenza, partono per un trip terrificante, spaccano sbarre e muri, uccidono i custodi, dilagano nella città, uccidendo e terrorizzando. La metropoli va in black out, il numero dei morti sale di minuto in minuto. È la fine? Ma no: si placa l’effetto della droga e le bestiacce ridiventano bestioline, micioni da coccolare.
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Il film dura poco più di 90 minuti, quasi tutti tirati alla morte. Merito del montaggio di Morra che ha impresso alla narrazione ritmi selvaggi. Ma guardatevi (è un consiglio) dai film con i montaggi frenetici. Nove su dieci, le frenesie nascondono il timore (fondato) che altrimenti vengano allo scoperto le mille incongruenze, le rozzezze e volgarità dello scenario. E la cattiva fede dei realizzatori: è chiaro come il sole già dopo venti minuti (l’assalto dei topi alla coppietta) che il bersaglio principale era orripilare con le carneficine. Va dato atto comunque che le trovate non mancano, e forse meritavano un film migliore (più onesto, più articolato). Gli elefanti che sbarrano la pista d’atterraggio all’aereo di linea è bella invenzione, e idem come sopra la scena dei macello comunale (con gli animali, condannati, che liberati dai loro colleghi “bombati” scorrazzano per la città come in una “stampede” da film western). Infine, l’atroce colpo di scena dell’ultimo rullo, il climax alla scuola di ballo. Anche se preparato, anche se infastidito dall’uso protervo del “ralenti”, confesso che ho rattrappito. Vergognosamente rattrappito, come quasi trent’anni fa da ragazzino al primo Dracula. Giorgio Carbone, “La Notte”, 16 Febbraio 1984 A scoppio ritardato sui film catastrofici e su quelli che hanno bisogno del supporto della terza dimensione quali Lo squalo 3D e Venerdì 13, Franco E. Prosperi ha realizzato Wild Beasts, vicenda tanto demenziale quanto ridicola. Scritto e sceneggiato dallo stesso Prosperi, il film è imperniato sulla fuga di alcuni animali dallo zoo e sulla improvvisa invasione di voraci roditori, improvvisamente impazziti a causa dell’inquinamento dell’acqua. L’apertura ricalca gli schemi dei film dell’orrore mostrando due innamorati sorpresi in macchina da un’orda di ratti famelici che li divorano. Il volto scarnificato di una delle vittime lascia presagire altri orrori, ma “pasti” di leoni e tigri vengono appena accennati perché il racconto volge già al catastrofico. Lungo le strade di Francoforte trotterellano quattro elefanti. Si è smarrito anche un ippopotamo. All’aeroporto i pachidermi ostacolano l’atterraggio di un aereo che prende fuoco andando a sbattere contro i tralicci ad alta tensione, e un blackout interrompe la corsa della metropolitana dove irrompe una tigre.
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Quando l’intervento della polizia sembra porre fine alla catastrofe, il racconto volge al demenziale: una madre va a prendere la figlia in una clinica neurologica e viene assalita da bambini armati di coltello. Avvalendosi del montaggio di Mario Morra (Dolce e selvaggio), Franco E. Prosperi illustra in maniera abbastanza noiosa uno spettacolo cruento dove il primo piano è riservato agli animali che, per quanto ammaestrati, risultano più autentici dei personaggi. R.F., “la Repubblica”, 28 Febbraio 1984 Un genere che muore Alla fine degli anni Settanta – come per ogni genere cinematografico in auge all’epoca – anche per il mondo movie viene il momento di fare i conti con l’inflazione di titoli che nel corso del tempo hanno affollato le sale cinematografiche. La bulimia produttiva ha portato questo genere verso la deriva irreversibile della finzione tout court, in cui nessuno va più in giro per il mondo a girare immagini straordinarie ma quelle stesse vengono ricostruite alla bene e meglio direttamente negli studi cinematografici. Accade così che anche coloro che più di ogni altro hanno fatto del genere il punto imprescindibile della loro carriera artistica – nonché della loro fama – si trovino a realizzare opere che rappresentano l’atto conclusivo (e destrutturante) del loro percorso cinematografico. Il Mondo Candido (1975) di Jacopetti e Prosperi solo nel titolo fa riferimento all’esperienza primigenia per poi abbandonarsi ad una finzione voltairiana in cui tutti i topoi del mondo movie vengono rivisitati in chiave grottesca, estremizzati e persino ridicolizzati. Il solo Prosperi con il suo Wild Beasts – Belve feroci (1983) realizza un pamphlet ecologico grossolano e improbabile in cui quegli stessi animali a cui fino ad un film prima l’uomo dava la caccia sono ormai divenuti cacciatori feroci e ostinati pronti a cancellare l’uomo dalla faccia della terra. Il duo Climati-Morra chiude la trilogia con Dolce e selvaggio (1983) in cui si mescolano indistintamente erotismo patinato alla “Playboy”, immagini di repertorio acquistate da televisioni di mezzo mondo e episodi al limite del paradossale – per la loro ferocia – che fanno sorgere più di un dubbio sulla loro veridicità. Solo i fratelli Castiglioni con Africa dolce e selvaggia
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(1982) sembrano rimanere fedeli al loro imprinting scientifico – in questo caso avvalendosi del commento del direttore del Dipartimento di Etnologia della Cattolica di Milano Guglielmo Guariglia. In realtà giunti al termine del loro percorso etnologico e alle porte della nuova avventura archeologica i due fratelli costruiscono un film in cui si mescolano le loro due vocazioni. Africa dolce e selvaggia elegge il primo piano, il dettaglio a elemento stilistico con l’intento di riversare sullo spettatore – in modo il più ravvicinato possibile – tutto il disgusto, il sangue, la violenza e gli eccessi che il film mostra senza lesinare reiterazioni delle immagini più raccapriccianti, facendo ricorso alla slow motion per mostrare di più e mostrare meglio, avvicinando più possibile l’obiettivo al gesto violento (e/o rituale) in modo che il sangue deflagri sullo schermo. Operazione questa che sembra definire la direttrice sui cui si muovono gli ultimi fuochi del mondo movie e affini: l’ambiguità. Scelta per certi aspetti inevitabile, dato che tutto il cinema di genere italiano a partire dal 1975 intraprende un vertiginoso declino di carattere degenerativo e promiscuo in cui si mescolano a casaccio orrori e romanticismo, erotismo patinato e sessualità esplicita. Gli artefici del mondo movie non fanno niente altro che allinearsi alle richieste oltranziste del pubblico: il quale è sempre più smaliziato e avvezzo a visioni estreme per cui chiede al cinema (alle porte della nemesi televisiva) di osare sempre di più e di mostrare l’impensabile. Alla penuria di idee subentra una crisi economica che rende la realizzazione di ogni film decisamente sproporzionata secondo il principio in cui alle relative ambizioni non corrispondono i necessari mezzi economici per poterle sostenere. È così che escono nelle sale opere che vivono esclusivamente sull’accumulo di effettacci e che per risultare accattivanti cercano di confondere le acque dal punto di vista morale. Accade così che Mondo Candido, Dolce e selvaggio e Wild Beasts – Belve feroci si ritrovino accomunati tra loro sia dagli scarsi mezzi economici necessari alla realizzazione compiuta delle idee dei loro autori, sia da vicende produttive che ne dilatano i tempi di produzione inficiando il risultato finale e sia che il loro contenuto accantoni idee e inventiva per lasciare spazio alla ripetizione e riproposizione (concettualmente pornografica) degli aspetti più degenerativi e immorali dei comportamenti umani. Africa dolce e selvaggia, invece, prende le distanze da questi aspetti formali, sia per la confezione “ricca” e ineccepibile con cui
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il film è realizzato, sia per il contenuto documentario (discutibile fin che si vuole) di rilevante interesse etnologico. Quella dei Castiglioni, in definitiva, sembra essere esclusivamente un’operazione commerciale necessaria per allinearsi ai tempi e alle richieste spettatoriali di inizio anni Ottanta. La fine del mondo movie è pertanto ingloriosa ma non differentemente dall’estinzione di ogni genere popolare alle porte degli anni ottanta. Con il cinema, infatti, muoiono i generi e il subentrante mercato televisivo rende impossibile la proliferazione del mondo movie in virtù della censura preventiva che impone, alle opere prodotte, di essere in linea, per contenuti e modo di rappresentarli, con i parametri – ancora in via di definizione – dello spettatore da piccolo schermo. Non sorprende quindi che, tra la fine degli anni settanta e l’inizio degli anni ottanta, Jacopetti, Prosperi, Climati, Morra, i F.lli Castiglioni – cioè coloro che hanno costituito la spina dorsale del genere – realizzino il loro ultimo film e abbandonino il cinema: le loro ultime opere vogliono essere quasi una sorta di testamento cinematografico.
POSTFAZIONE. SOPRAVVIVENDO IN UNA E. DA MONDO CANE A BELVE FEROCI
Conversazione con Franco Prosperi Dov’è nato e quali sono stati i suoi studi? Sono nato a Roma. Ho frequentato il liceo classico, poi mi sono iscritto all’Università e mi sono laureato in scienze naturali e biologiche. Ho preso in seguito la specializzazione in ittiologia. Come è riuscito ad organizzare le prime spedizioni etnologiche? Sono stato molto fortunato perché a scuola ho incontrato degli amici che avevano la mia stessa passione. Insieme condividevamo il poter viaggiare e conoscere il mondo, soprattutto dalla prospettiva naturalistica e biologica. Devo aggiungere che da ragazzi, ognuno di noi si assegnò un compito: così ci fu chi si specializzò in mammologia perché interessato ai mammiferi, chi in malacologia perché aveva studiato i molluschi e via dicendo, in modo che – quando ci capitò l’occasione – eravamo tutti ben preparati. Chi erano questi suoi amici e quali specializzazioni seguirono? Dicevo: eravamo un gruppo di giovani con idee in comune: Stanislao Nievo (il pronipote di Ippolito Nievo che diventerà uno scrittore celebre), Carlo Proia, Fabrizio Palombelli. Tutti sin dall’infanzia eravamo decisi a diventare esploratori. Il mammologo era Stanis, così lo chiamavamo; Carlo Proia, seguendo le orme di famiglia, divenne entomologo, mentre Palombelli malacologo. Infine, io – come detto – mi specializzai in ittiologia. Mettemmo assieme i nostri studi e le nostre forze e ci buttammo all’avventura. Lei conosceva i primi documentari che c’erano già all’epoca: quelli di Giangaspare Napolitano e Folco Quilici? Quest’ultimo poi – nel
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corso degli anni – ha molto mitigato il giudizio sferzante che diede all’inizio sul cinema suo e di Jacopetti. Conoscevo i loro documentari, come tutti. Quei film rappresentavano modelli ai quali guardare, documentari che avrebbe potuto fare oppure riteneva che fossero poco interessanti? Certamente offrivano degli spunti. Però noi volevamo fare qualche cosa che fosse contrario ai clichè con i quali venivano mostrati i diversi paesi. Lo sguardo cadeva sempre sul loro lato migliore, mentre la parte nascosta non si vedeva mai. Faccio un esempio che riguarda Mondo cane e il segmento con i turisti alle Hawaii, con le hawaiane che ballano con una specie di tamburella per accogliere i visitatori, sono comparse, tutta gente che viene dall’Illinois, dal Kansas o dall’Ohio. Insomma questo è l’aspetto diverso che noi intendevamo far vedere. Come nasce la vostra collaborazione con Paolo Cavara e Carlo Gregoretti e poi com’è che nel tempo i rapporti tra lei e Jacopetti da una parte, con Cavara e Gregoretti dall’altra, si incancreniscono, si rovinano, si disarticolano? Che cosa è successo? Con Cavara e Gregoretti c’è sempre stata amicizia. Con Cavara fino all’ultimo e con Gregoretti c’è tutt’ora. Comunque il fatto era che io avevo questo desiderio di poter viaggiare. La prima occasione che noi avemmo, capitò perché – e ricordo che io lavoravo come assistente all’Istituto di Zoologia dell’Università di Roma – il mio professore, nonché direttore dell’Istituto mi disse che gli americani volevano sperimentare un prodotto che fosse nuovo ed efficace contro gli squali. Perché gli americani volevano questo? C’è un episodio che non tutti conoscono: l’incrociatore – che trasportò la prima bomba atomica nelle isole Marianne dove poi fu armata sull’Enola Gay, l’aereo che la sganciò su Hiroshima – al ritorno, ripassando nello stesso punto fu silurato e affondato da un sommergibile giapponese. E di tutto l’equipaggio – forse più di mille persone – se ne salvarono solo poche perché la maggior parte di loro fu attaccata e divorata dagli squali. Dunque si prospettava, grazie a questa tragedia del mare, la possibilità di sperimentare un prodotto che era a base di rame con l’obiettivo di evitare attacchi di squali. Quindi c’era la possibilità di avere del denaro,
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delle forti sovvenzioni – perché naturalmente l’università italiana già allora non aveva molti finanziamenti – e quindi colsi la palla al balzo – anche perché avevo acquisito una grande esperienza subacquea, soprattutto di ricerche subacque, insieme a Gregoretti e a Cavara. Quest’ultimo avrebbe dovuto anche curare la parte fotografica e cinematografica. Partimmo dopo aver scelto una zona particolarmente infestata dai pescecani che era a Sud dell’attuale Sri Lanka – allora si chiamava Ceylon – e quell’esperienza, che ebbe molto successo, ci fece partecipare all’organizzazione di altre spedizioni. Matea Mora e Gran Comora sono i suoi primi documenti di cinema, oltre ad essere anche due libri, peraltro pubblicati dalla Garzanti, con molte fotografie e pure ristampati come Gran Comora. Tornando ai documentari sono oggi reperibili e visibili? Non c’è nessun rapporto particolare tra Gran Comora e il film di Mediani. Considerato che io dirigevo una delle tante spedizioni nell’Oceano Indiano proponemmo alla Fenix Film – in cambio di un certo supporto economico – di aiutare Mediani affinché ci seguisse e riprendesse quello che stavamo facendo. Eravamo semplicemente dei collaboratori, la troupe cinematografica lavorava indipendentemente riprendendo – come se fossero dei paparazzi – la spedizione scientifica. Comunque, non credo che esista – come dire – una biografia di me come regista cinematografico. Prosperi, lei è l’ultimo testimone dell’esperienza maturata con i cosiddetti Mondo movies. Con Jacopetti, Cavara, Nievo, Climati e pochi altri ha inventato un genere che ha dettato legge per circa un decennio per poi frammentarsi in vari sottogeneri, segnati perlopiù dall’eccesso del mostruoso. Questi sono alcuni dei motivi che ci interessa proprio focalizzare al pari dell’attenzione su di lei come cineasta. È sempre sembrato che io non sia mai esistito nel mondo del cinema, perlomeno quello cosiddetto importante; al massimo ero visto come un personaggio alquanto misterioso, la cui esistenza era ritenuta puramente concettuale anche se poteva essere provata unicamente dalla presenza del nome sui titoli di testa di alcuni film. Questo è un fatto, ma devo fare un mea culpa, dato che non ho mai amato frequentare gli ambienti del mondo dello spettacolo
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e quindi tutto ciò è la conseguenza del mio atteggiamento che mi ha portato lontano dalla mondanità. Comunque il fatto è questo appunto. Mi diedi alla ricerca, partecipando a numerosissime spedizioni scientifiche: una ad esempio delle più importanti fu quella che ci portò alla ricerca di un continente scomparso – spedizione fatta per conto della Società Geografica Italiana. Questo continente che univa, un tempo, l’India all’Africa si chiamava Lemuria e da questi viaggi e da queste ricerche, riuscì a realizzare alcuni documentari. Non ci misi molto tempo ad accorgermi che il tornaconto economico che avevo dalla realizzazione di questi documentari era molto superiore a quello che invece ricevevo come ricercatore biologico e naturalista. Ciò mi spinse a girare altri documentari finché non capitò la grande occasione. Gregoretti era amicissimo di Gualtiero Jacopetti e Jacopetti era uno dei personaggi più in voga nel mondo dello spettacolo di allora. Fu allora che grazie a Gregoretti divenni suo amico; non esitai a proporgli un film che credevo interessante, avrebbe dovuto chiamarsi L’amore nel mondo che ambiva a rappresentare l’amore di tutti gli essere viventi del pianeta, gli uomini, le donne, gli animali, le piante e i fiori e così via. A Jacopetti piaceva l’idea di fare questo film – tra l’altro lui aveva appena terminato di scrivere il commento per Europa di notte di Alessandro Blasetti. Inoltre aveva anche da condurre i cinegiornali della rubrica “Ieri, oggi e domani” e quindi non poteva andar via dall’Italia, per cui aveva bisogno di qualcuno che conoscesse il mondo e che avesse viaggiato molto e, soprattutto, che avesse un programma. Cioe’ che potesse fare appunto un programma di riprese. Quel qualcuno ero io appunto. Dunque, è così che nacque la nostra collaborazione. Ma quando vi siete incontrati, Jacopetti sapeva che cosa aveva scritto e quali erano state le sue ricerche? Peraltro, Prosperi, lei già conosceva come ha detto il lavoro di Jacopetti come commentatore di cinegiornali. Sì come ho detto, Jacopetti era intimo di Carlo Gregoretti e io pure di Carlo ero intimo quindi fu Gregoretti a presentarmelo. Poi Jacopetti era già una figura nota; aveva avuto il processo per la famosa avventura con la zingarella ed era finito in carcere. Per questo era allora diventato un personaggio molto noto, soprattutto ai rotocalchi popolari e scandalistici. Lui di me conosceva tutti i
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viaggi, oltre al fatto che di quelle spedizioni era stato girato anche un film – non da me – ma da una casa di produzione che allora esisteva che si chiamava “La Fenix” di un certo Grigliani che poi accettammo anche come collaboratore. E io su quei viaggi pubblico due testi. Certo, i due libri pubblicati da Garzanti – tra l’altro questo ci dà un’idea anche di una casa editrice che all’epoca era un’impresa editoriale che curava lavori di grandi autori ma che era molto attenta a tutte quelle che erano le innovazioni che giungevano da indirizzi anche di carattere più popolare. Incontrò Livio Garzanti? Ci fu una loro richiesta perché allora il successo dei nostri viaggi era abbastanza noto da attirare l’attenzione di un editore. Dunque io Livio Garzanti lo incontrai a Milano e si programmò questo primo libro che era appunto Gran Comora e che poi tra l’altro ebbe anche un successo internazionale, e fu tradotto e pubblicato in Germania, in Svezia, in Sudafrica e in altri paesi. E quindi, sia i due film Matea Mora e Gran Comora sia i due testi sono oggi sono di difficile reperibilità? Si, appunto credo che sia molto difficile trovare i film; per i libri forse è più facile, Gran Comora ha avuto anche diverse edizioni e anche un’edizione tascabile. A chi si deve il titolo Mondo cane? Il titolo fu scelto da Jacopetti: voleva fare assolutamente questo Mondo cane – che era un po’ un’esclamazione toscana. Jacopetti era toscano, era di Barga vicino a Lucca e a lui venne in mente questo titolo. Ma c’erano dei titoli all’inizio che avevate pensato, avete discusso oppure è andata subito come ha detto? Già dal primo incontro Gualtiero mi propose, o meglio mi impose, oggi ci rido su, questo titolo e non se ne discusse più. E lei come reagì? Ah! Come detto, io ero andato all’incontro con tutte altre idee, però imparai presto che nel cinema bisogna cogliere subito la palla al balzo. Di certo io non conoscevo produttori disposti ad ascol-
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tarmi e a finanziarmi i progetti; mentre Jacopetti sì e poi aveva la particolare dote di procurarsi anche del denaro. Era un po’ il cocco di Rizzoli che, allora, ci offriva la possibilità economica di poter affrontare la realizzazione di un film che si prospettava come qualcosa di nuovo. A pensarci bene con la nostra collaborazione si unirono due cose molto utili per entrambi: la sua tecnica cinematografica e la sua capacità di trovare finanziatori e la mia esperienza di viaggio – in fondo, all’epoca – pur giovane avevo già alle spalle un’esperienza notevole. Capitò così, per entrambi, l’opportunità di fare qualcosa che ci piaceva e che avrebbe potuto garantire un ritorno economico non indifferente. Si può dire che il racconto di Mondo cane è visto più dalla prospettiva dello zoologo che dell’antropologo? Quindi sceglie di raccontare lo studio, l’osservazione dei comportamenti umani dal punto di vista animale? Eh beh, d’altra parte questa è anche un po’ colpa mia no! Perché essendo io uno zoologo – tra l’altro deve sapere che adesso io vivo in un parco naturale archeologico e se lei venisse a casa mia, dunque vedrebbe una casa che gli amici chiamano una casa-museo, appunto piena dei ricordi dei miei viaggi naturalistici, zoologici. Fare il naturalista è stata la mia passione iniziale, ed era esattamente questo che volevo e sono tornato a fare Quindi possiamo dire che è proprio quello il punto di vista con cui poi alla fine il racconto è stato costruito? Certamente. Sì, certamente. D’altra parte prima di partire alla volta della realizzazione di Mondo cane, dovetti fare una specie di calendario delle riprese che avremmo fatto – perché dovevamo andare per il mondo secondo un certo giro: partire da una zona e poi man mano che si raggiungevano gli altri continenti, girare quello che ci interessava – e le diverse tappe vennero scelte in funzione proprio di quest’idea. Ma lei ha partecipato in fase di scrittura? Qual è stato il suo contributo? Con Jacopetti prendevate delle decisioni concordate? Cioè praticamente, adesso senza vantarmi appunto, la stesura di ciò che avremmo fatto per Mondo cane fu fatta da me con l’aiuto dei miei ex compagni che poi non parteciparono al film Fabrizio
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Palombelli e Stanislao Nievo i quali si ritirarono – come anche lo stesso Carlo Gregoretti – forse spaventati dal fatto che per girare quel genere di film allora ci si impiegava molto tempo. Per Mondo cane passammo più di due anni lontani da casa per realizzarlo. Quindi quel trattamento che viene presentato più volte e poi rivisto in commissione di censura, possiamo dire che è sostanzialmente opera sua? Sì. Il lavoro si svolgeva in questo modo: la sera sceglievamo le situazioni a casa di Gregoretti: io portavo proposte di quello che avremmo dovuto girare e si approvavano o si disapprovavano; poi io stilavo il calendario delle riprese. E infine si partiva all’avventura. Dal punto di vista invece del lavoro sul set, quali erano le sue mansioni? Io dirigevo, facevo l’autore, il regista come appunto lo era Gualtiero; certo, e noi eravamo alla pari, lui ed io. Questa è una cosa molto interessante, anche perché poi in realtà la sua figura l’ha detto anche lei stesso per un suo mea culpa è stata fagocitata da quella di Gualtiero Jacopetti Eh ma, vede dopo Africa addio, che fu il nostro peccato originale, avemmo gran parte del mondo di sinistra contro di noi e contro il film, che a mio avviso è stato un film profetico. Africa addio è forse il miglior film che io abbia mai girato. Dopo quel film io mi separai da Jacopetti, perché avevamo altre idee; veramente girammo altri film; girammo Addio zio Tom, girammo Mondo Candido. Ma già non eravamo più così affiatati come prima. Poi ci separammo e allora cercai la mia via e mi rivolsi alla Titanus dove c’era Goffredo Lombardo che era anche lui un nostro vecchio amico perché aveva la stessa passione per le immersioni subacquee come me e Gregoretti. Lombardo mi propose di girare un altro film, che era Ultime grida dalla savana, però mi disse: “Mio caro Franco dato il casino che è sorto dopo Africa addio io non posso affidarti questo film se tu lo firmi”. E allora, dunque, io accettai di girare Ultime grida dalla savana – che fu un grandissimo successo anche dal punto di vista economico – ma di non firmarlo come regista.
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Quindi il film è firmato Climati e Morra, ma in realtà l’ha girato lei? Climati cominciò a girare un documentario che lui chiamò La grande caccia e lo produsse Lombardo, con la Titanus; quando il film uscì fu subito ritirato: fu un insuccesso completo. Solo allora Climati pregò Lombardo di contattarmi e di convincermi a mettere le mani in quel film – però come ho detto precedentemente noi eravamo colpevoli del peccato originale, cioè avevamo realizzato Africa addio ed eravamo messi al bando dalla sinistra politica italiana – quindi Lombardo pensò che sarebbe stato meglio che io non figurassi nella realizzazione del film. Quindi Prosperi è l’autore della versione del film conosciuto come Ultime grida dalla Savana, uscito nel 1975 con enorme successo di pubblico? Sì sì certo certo. E quali sono le differenze tra i due film, quali sono le parti che realizzò? Io ripresi il primo documentario di Climati e intervenni su ognuna di quelle scene, ricostruendo alcune parti importanti. Successivamente poi realizzammo delle scene nuove, tra l’altro mi detti da fare per acquistare il girato del leone che uccide il turista. Sì, ma quella scena lì è un po’ controversa nel senso che ci sono delle parti... È sempre controverso; tutto quello che abbiamo fatto è stato controverso. D’accordo, ma ci sono delle parti che sono, sembrano reali e parti che appaiono ricostruite. Quindi dove sta la verità sostanzialmente? La verità è questa: spesso noi acquistavamo dei film che ci interessavano, in 8mm o 9mm, e aggiungevamo dopo averle gonfiate a 35mm delle scene per completare il film. Infatti una delle cose che colpisce molto è che ci siano diversi formati all’interno del film. Questa pratica era una scelta abilmente calcolata in partenza oppure semplicemente frutto dell’assemblaggio di materiali diversi?
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No, quando c’era qualche film sul mercato, qualcosa di interessante che era stato girato, noi altri provvedevamo ad acquistarlo. Naturalmente siccome molte volte era materiale girato da dilettanti, allora, per commercializzarlo, per dargli una forma più appetibile dal punto di vista cinematografico giravamo e la completavamo con altre scene. Così, dopo girai anche Savana violenta che fu quasi come un premio che mi assegnò Lombardo, dandomi l’occasione di fare un altro film. Questa è anche l’occasione per ricordare Antonio Climati, scomparso di recente. E purtroppo sì. Antonio è stato una delle colonne, forse una delle colonne più importanti nella realizzazione dei nostri documentari. Eravamo molto amici; molto amici – al di fuori del lavoro non è che ci frequentassimo molto – ma durante il lavoro eravamo molto affiatati nel senso che ci davamo del tu, mentre Jacopetti ci teneva moltissimo che Climati si rivolgesse a lui con il “lei”. Quindi a partire da quei film per poi arrivare a Wild Beasts possiamo parlare di “prosperismo”, cioè di un modo di fare il documentario diverso da quello di Jacopetti? Beh, non credo che fosse diverso in realtà perché prima di tutto i film precedenti non furono tutti di Gualtiero ma... Tra gli esempi di “prosperismo” vale la pena citare una scena di Wild Beast che pare ispirata alla scena del ghepardo che c’è nel finale di Ultime grida dalla savana e si ritrova nella corsa dello stesso animale che insegue il pulmino. Ah sì! Sembra proprio che quella scena di Wild Beasts con il ghepardo sia presa da questa esperienza. Sì, ma c’era un’esperienza generale, evidentemente ogni volta che si girava qualcosa si attingeva alle esperienze precedenti; però finché Gualtiero ed io lavorammo insieme riuscimmo a realizzare dei film, quando poi ci separammo, Gualtiero non realizzò quasi più niente. Certo. E invece Savana violenta che lei ha definito come il premio che Lombardo le diede con la possibilità di girare questo film, fu,
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dunque, per il successo di Ultime grida dalla savana o perché c’era ancora del materiale pronto ad un nuovo utilizzo? Sì, c’era ancora del materiale. Fui autorizzato ad usarlo e poi io accettai per ragioni economiche. Sì, accettai di girare questo nuovo documentario dato il successo del primo. Mentre invece in Dolce selvaggio dal punto di vista della regia lei non entra minimamente? No, assolutamente no. Lei si è occupato semplicemente in quel caso di co-produrre e creare il commento? Sì, esatto. Nell’operazione Ultime grida dalla savana, come venne coinvolto Alberto Moravia? Il fatto è che quando girai Ultime grida dalla savana – sempre per il solito fatto del binomio Jacopetti-Prosperi che sembrava proibito allora – Lombardo disse che la cosa migliore per il commento sarebbe stata quella che lo scrivessi io ma che lo firmasse Moravia, perché Moravia aveva un nome ben diverso, e quindi, anche, un supporto politico molto diverso. Quindi io – insieme ad un ispettore della Titanus – incontrai Moravia a Sabaudia, dove lui aveva una casa, e gli mostrai il commento. Moravia non ebbe niente da dire, incassò cinque milioni di allora, cinque milioni di lire da parte della Titanus per firmare il film. E così nacque il testo “così detto” di Alberto Moravia. Lei è un uomo di scienza, quindi un uomo che si basa sulla ricerca empirica, che si basa sulle certezze, possiamo dirlo giusto? Sì. L’approccio con il cinedocumentario che in realtà possiamo definire, tra virgolette, un genere equivoco – nel senso che c’è per forza di cose una manipolazione della realtà, c’è per forza di cose un ricostruire, magari delle cose che sono successe realmente ma che con i tempi cinematografici necessitano di essere ricostruite e di essere manipolate – come si concilia con questo suo approccio scientifico?
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Il fatto è questo, che è chiaro che, appunto, nel cinema come nei documentari, in qualsiasi cosa, nella letteratura c’è sempre l’influenza di chi scrive o di chi realizza anche il film. Però la consuetudine che vuole che in Mondo cane cia siano ricostruzioni di episodi a tavolino è falsa, è sbagliata. Lo è perché, se uno avesse dovuto lavorare a quel film come si fa con le normali produzioni cinematografiche, il film sarebbe durato poche settimane; mentre noi ci impiegammo degli anni: due, addirittura tre anni con La donna nel mondo. È vero, invece, che per Mondo cane n. 2 ci furono dei richiami di invenzione e di ricostruzione, che facemmo noi perché la casa di produzione voleva seguitare anche a guadagnare andando dietro al successo di Mondo cane imponendoci così il numero 2. Quindi, ha vissuto Mondo cane n. 2 come un imposizione. No, proprio no, l’accettammo nel senso che a noi la parte economica ci faceva comodo e molto. Sì, però Jacopetti poi l’ha disconosciuto dal punto di vista come dire del suo marchio di fabbrica. Eh eh, però l’ha girato. In questo lavoro, in questa collaborazione con Gualtiero Jacopetti i suoi obiettivi come uomo di scienza quali erano? Cioè a parte l’aspetto economico che l’abbiamo visto, a parte la possibilità di fare del cine-documentario... Ma, guardi, come uomo di scienza, l’aspetto economico è dirimente e non secondario: non sono mica ipocrita! Per avere la possibilità di fare quei viaggi naturalistici – che poi ho seguitato a fare – avevo bisogno di un supporto economico e quindi la cosa che mi interessava era poter proprio avere un successo cinematografico che mi portasse una base economica piuttosto rilevante, e ciò è avvenuto. Quindi questo è poi anche il motivo perché il suo ruolo è sempre stato più defilato dal punto di vista del nome. È dipeso soprattutto dagli ambienti che frequentavamo Gualtiero ed io; ambienti che erano completamente diversi. Io appena potevo scappare lo facevo ritirandomi in questa casa che ho nel
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parco – che adesso è diventato parco naturale – oppure nell’isoletta di Ventotene, oppure partivo per altri viaggi. Non partecipavo a quella mondanità che invece era così utile a Jacopetti, anche per procurarsi denari. Certo, per creare le relazioni che poi.... Eh caspita, lui era bravissimo a fare questo. Con Africa addio, eravate consci della portata di quel lavoro? Cioè eravate consapevoli del fatto che stavate fotografando un istante irripetibile del Continente nero e che in qualche modo presagiva poi tutto quello che sarebbe venuto dopo? Sì, sì, eravamo molto consapevoli. Dunque io ero andato in Africa e vi ero stato a lungo; ci avevo passato almeno una decina di anni da quelli parti, specialmente ad Est, in Tanganica, Ghana, Zambia e Rhodesia – quella che adesso è lo Zimbawe. Sì era un film che era fatto con grande nostalgia, di un mondo che scompare e come se adesso io dovessi girare un nuovo film invece di Africa addio, direi Europa addio. Perché la mia Europa, il mondo che ho conosciuto secondo me sta scomparendo. Ma quando voi siete partiti per quell’esperienza sapevate che avreste comunque ripreso esattamente quello che poi c’è nel film? Cioè che quello era il momento giusto? Oppure il progetto è nato prima e ha avuto poi delle evoluzioni? Beh, l’idea era appunto quella di andare in Africa così, poi è chiaro che noi seguivamo l’attualità. Se capitava che in quel momento il governatore del Tanganica abbandonava il Tanganica e il paese aveva, dunque, l’indipendenza giravamo in quel momento l’avvenimento. Se poi venivamo a sapere che in Congo stavano attaccando e distruggendo le varie città congolesi o che in Mozambico stavano distruggendo tutti i parchi nazionali e ammazzando un sacco di animali a colpi di bombe a mano o di mitragliatrici è chiaro che andavamo a girarlo. Quindi avete vissuto delle esperienze realmente pericolose, insomma da rischiare la vita? Pericolose, molto pericolose. Per tante ragioni. Ci sparavano addosso, infatti le nostre macchine erano crivellate di colpi, alcune le
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riportammo in Italia. Una, in particolar modo, era completamente rovinata e da buttare. Quella posizionata davanti al cinema per promuovere il film? Certo! Allora... Lei l’ha vista! A Jacopetti e a lei, Prosperi, sono sempre state rivolte delle accuse per il vostro modo di essere contro; vi hanno rivolto delle accuse che poi erano veramente anche di carattere personale quindi decisamente sgradevoli, soprattutto su una vostra mancanza di etica, sulla vostra spregiudicatezza, nonché accuse di razzismo. Rivolte appunto contro Gualtiero. Come si è sentito quando accadevano queste cose? Come ha vissute ciò sulla sua pelle, e soprattutto vi sentivate responsabili nei confronti del pubblico quando realizzavate i vostri film? Che Gualtiero avesse appunto una vita piuttosto turbolenta questo era un dato di fatto. Io mi ricordo che quando stavamo girando Mondo cane e ad un certo punto io ero in Australia perché volevo girare quella scena dei pescecani. Stavo lì e anche Gualtiero avrebbe dovuto poi raggiungermi. Avevo affittato anche un battello, avevo preso a bordo degli aborigeni; insomma stavo lì ad aspettare e ad un certo punto Jacopetti non si presentò, non venne. Non capivo perché, ero anche un po’ scocciato e tentavo di telefonare alla produzione a Roma, dove tergiversavano, finché, ad un certo punto, per calmarmi e tranquillizzarmi – perché io ero arrabbiato ma completamente all’oscuro di quanto stava succedendo – mi mandarono Carlo Gregoretti, gli pagarono il viaggio affinché venisse da me per dirmi: “Guarda che Gualtiero, per caso, invece di fare il viaggio diretto dall’Italia all’Australia, ha fatto un viaggio passando per Hong Kong e lì, a Hong Kong, mentre scendeva dall’aereo e passava per l’aeroporto è stato colpito dall’elica di un piccolo aereo da turismo ed è ricoverato in ospedale, quindi gli altri vorrebbero che tu continuassi a girare mentre Jacopetti si rimette in salute”. Invece, che era successo? Che Jacopetti aveva avuto un processo perché si era interessato un po’ troppo di una ragazzina cinese: era stato arrestato ed era stato messo in galera.
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E quindi gli attacchi al vostro cinema dal punto di vista di quelli che erano i contenuti – indipendentemente appunto dalla vita turbolenta di Jacopetti – come erano vissuti? Eh d’altra parte non c’era altro che subirli. Che dovevamo fare? Noi sapevamo com’erano le cose in Africa e come sarebbero andate a finire e se gli altri non lo capivano, c’era poco da dire, che dovevamo fare? Qual era il suo rapporto con Paolo Cavara? Perché questa è una cosa di cui di solito non si parla, di cui si sa poco o nulla? Beh vede, noi avevamo fatto questa specie di triumvirato all’inizio con Gualtiero Jacopetti, Paolo Cavara ed io che avremmo dovuto girare Mondo cane. Ora, Paolo non era molto portato per questo genere di cinema – lui tra l’altro voleva fare il cinema vero, il cinema appunto del set, quello con attori – e questo già lo aveva messo in cattiva luce con Gualtiero. Insomma tra lui e Gualtiero c’era maretta, c’era qualcosa che non andava e quindi non facevano altro che beccarsi dalla mattina alla sera. Poi Paolo fu particolarmente sfortunato, perché ebbe tanti incidenti, non si rimise mai dall’incidente aereo che avemmo in Nuova Guinea, quando precipitammo con l’aereo e morì il pilota. Ne ricavò una spalla lussata e lo shock fu tale che poi non volle più viaggiare in aereo. Insomma, comunque, Paolo si allontanò dal set, scomparve, praticamente, dal set di Mondo cane. Ma sull’aereo precipitato alle isole Trobriand c’era anche lei. Come avvenne l’incidente? Lì ci sono montagne altissime. Noi tentammo di sorvolarle e quando, non riuscendoci con il nostro velivolo, il pilota provò una sterzata all’ultimo momento, toccò la roccia con un’ala e precipitammo. Il Cessna aveva i serbatoi in alto, per cui una volta toccato il suolo venimmo inondati di carburante, io e l’operatore Benito Frattari portammo il pilota fuori dalla carlinga senza accorgerci che questo poveraccio era già morto. La nostra attenzione era rivolta alla benzina perché pensavamo che il velivolo potesse esplodere da un momento all’altro, cosa che, invece, non si verificò. Non so come, non so perché ma io mi feci solo un piccolo taglio con una lamiera.
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E Cavara? Mi ricordo, dunque, in America – dopo che ebbe il secondo incidente, quello in cui morì Belinda Lee – io lo assistetti, lo portai sino a New York per farlo imbarcare su una nave che lo riportasse in Italia, sempre perché per lui viaggiare in aereo era diventato un problema; non ne voleva più sapere. Poi ho seguitato sempre a vederlo – tra noi è rimasta sempre una grande amicizia – tra l’altro avremmo dovuto fare anche un film che poi non si realizzò, che era quello che seguiva il racconto di una giornalista che precipitava con l’aereo in un luogo molto sconosciuto dell’Africa e conosceva un guerriero africano: un film del genere che poi alla fine non si fece perché in quel momento la Cineriz aveva dei problemi, Rizzoli era morto. Comunque con Paolo fino all’ultimo siamo stati amici, la nostra amicizia è sempre continuata. Come si è spiegato lei quell’imprevisto e clamoroso successo di Mondo cane e poi dei film a seguire – non solo qui in Italia – ma in tutto il mondo? Alcuni studi sostengono che il successo del mondo-movie in Italia è dovuto al fatto che venne promulgata la Legge Merlin e che, insomma, le vie per vivere il voyeurismo, per vivere l’aspetto anche erotico e quello della violenza erano sempre più ristrette dal punto di vista pubblico e quindi il cinema diventava la valvola di sfogo di queste cose. Fatto che in realtà non spiegherebbe – anche se fosse, ma non lo è – il successo planetario del film? No, era un film completamente diverso. Insomma, oggi giorno quando guardiamo la televisione noi usiamo – molti usano fare – lo zapping, passano da un programma ad un altro perché si annoiano. In Mondo cane anticipammo questa tecnica: non raccontavamo come i vecchi documentari della storia del posto dove si andava, ma sceglievamo, semplicemente, un avvenimento di quel posto e lo mostravamo. Questo avvenimento se era crudele, veniva seguito da un altro documento che invece era allegro e tirava su il morale e così via con l’alternarsi di scene che duravano non più di tre minuti e così via. Questo, lo avevate pensato in partenza questo lavoro sul segmento? Perché la vera forza di Mondo cane e dei cinedocumentari è quella di lavorare in maniera molto importante sul segmento, proprio sul segmento narrativo…
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Sì infatti, effettivamente era così. Però per quanto riguarda poi il successo planetario – ricordiamoci che in America ebbe un successo enorme – il fattore determinante fu la novità. Mi ricordo che una volta – quando facemmo il viaggio con Rizzoli per andare a New York – lui quando scese sulla Quinta strada ci mostrò un palazzetto, con sopra la libreria che lui aveva fondato giovanissimo a New York e disse: “Sapete, questo palazzo l’abbiamo fatto con i soldi di Mondo cane”. Anche Africa addio in America ebbe un successo clamoroso. Addirittura è stato pubblicato solo per gli Stati Uniti – il diario di lavorazione del film firmato John Cohen e pubblicato dalla Cineriz. Sì, tra l’altro in America il film fu manipolato e ne fecero diverse edizioni, fu trasformato, cambiato, anche perché allora loro avevano anche dei problemi razziali, che da noi ancora non erano molto sentiti. Da Africa addio c’è tutta un filiazione di film, alcuni firmati da Stanis Nievo, alcuni firmati dai fratelli Castiglioni, alcuni firmati appunto dai Castiglioni con Guido Guerrasio. Conosceva anche queste altre persone e i loro lavori? Nievo era un amico di infanzia, era uno degli amici con cui avevo fatto i primi viaggi. Lui era un naturalista, il mammologo della spedizione scientifica. Tra l’altro Stanis era un fratello più che un amico: avevamo passato la nostra giovinezza insieme e a partire dalla quarta elementare in poi eravamo stati sempre insieme, fino a quando, poi, lui si è separato dal gruppo e ha poi girato per conto suo due film. Ricordo che avevamo del materiale avanzato da Mondo cane e da La donna nel mondo e da Africa addio, gli demmo l’incarico di girare altre cose in modo da poter fare staffetta. Poi lui si separò perché aveva quell’idea così letteraria – evidentemente data dai suoi trascorsi famigliari – e divenne direttore dei parchi letterari italiani. Sugli altri, conoscevo i loro lavori ma devo dire che non li ho mai incontrati. Il progetto Zio Tom – che forse è quello più discusso e più discutibile di tutta la vostra carriera cinematografica – nasce con quelle reali intenzioni oppure c’era qualcosa di diverso che volevate dimostrare che poi è stato frainteso?
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Beh, credo che sia stato frainteso perché dopo le critiche fortissime di fascismo, razzismo, avute per Africa addio volemmo dunque girare un film che indicasse quali erano le vere radici di questo rapporto tra bianchi e negri, specialmente in America e negli Stati Uniti. Noi volevamo girare un film da un romanzo – che era appunto Mandingo – i cui diritti li aveva comprati un produttore che si chiamava Malenotti, il quale, quando noi volevamo fare un secondo film, fu rapito e scomparve tanto che poi credo fu ucciso dai suoi rapitori. Allora, dunque, io pensai – fui io a pensare – perché invece di girare qualcosa sulla falsariga di un romanzo, non mostriamo che siamo dei viaggiatori – sempre dei documentaristi – che capitano nel XIX secolo in America e descrivono qual è la vera situazione tra bianchi e negri in America. Un’operazione senza sapori nostalgici tipo La capanna di zio Tom o cose lacrimose di questo genere, ma la vera realtà, quella appunto che mostrava un allevamento di negri per produrre altri negri per aver altri schiavi e così via… Capisce? E questo fu il discorso… mentre, invece, si credette che noi volessimo basarci più che altro su questa situazione strana, di strani costumi tra americani e neri. Quindi ritiene di aver commesso degli errori però nel realizzare quel film? Sì, credo di sì, perché il primo errore era la mancanza di storicità, cioè se noi avessimo avuto degli storici – per indicare più documentatamente come si svolgevano quei fatti e quali erano le fonti letterarie di tradizione anche di quei fatti – il film avrebbe avuto insomma un sapore diverso. Quindi avete peccato un po’ di presunzione? Certamente sì. Con Mondo Candido si consuma la rottura con Jacopetti… Sì, Mondo Candido era un suo sogno. Cioè lui [Jacopetti n.d.r.], come me, sognava di viaggiare e da giovane voleva leggere geograficamente l’opera di Voltaire, per cui ha sempre voluto fare questo film. Io non feci altro che appoggiarmi a quest’idea – non che avessi appunto un particolare desiderio di fare questo tipo di film.
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Però la rottura venne sull’aspetto economico giusto? Sì, esattamente, sì avvenne per quello, perché – in poche parole – lui fece una specie di truffa ai miei danni, nel senso appunto che si fece pagare una somma superiore da Spagnoli – che era il produttore – dicendo a me di aver ricevuto meno. E poi vi siete rivisti dopo la rottura oppure non c’è stata più occasione? L’ho rivisto eccome… D’altra parte avevamo passato molti anni insieme e quindi – per quanto sia stato grosso quello screzio – in me è rimasto sempre un forte senso di amicizia verso un uomo che valeva, che aveva un forte valore. Anche durante la sua lunga degenza in ospedale sono andato spesso a trovarlo e siamo stati insieme fino all’ultimo giorno. Veniamo al suo Wild Beasts. Come nasce l’idea di realizzare questo film? L’idea viene da un episodio accaduto in Congo mentre io mi trovavo lì per lavorare. Un’autobotte che trasportava acido lisergico ebbe un incidente, si rovesciò e andò a finire in un corso d’acqua. Gli animali si abbeverarono all’acqua del fiume e impazzirono: distrussero un villaggio e ammazzarono delle persone. Dunque da lì, ci chiedemmo se per caso un fatto simile fosse accaduto in una città europea che cosa sarebbe successo? La sceneggiatura iniziale era questo che voleva mostrare, oppure venne cambiata in corso d’opera? La sceneggiatura no, rimase quella, invece la produzione – partita nel 1980 – subì una lunga serie di traversie. In realtà questo film, deve sapere, doveva essere girato in Rhodesia, perché allora i produttori sarebbero stati dei rhodesiani, poi invece quando cominciammo a prendere i primi contatti per poter girare ci fu appunto la guerriglia; scoppiò la guerra contro il regime e quindi non se ne fece più niente. Noi stavamo in un hotel vicino alle rovine di Zimbabwe dove fummo attaccati dai terroristi – per la verità non noi personalmente, ma l’albergo ebbe dei danni. Dopo un po’ ci spostammo in Sudafrica, perdendo, però, la parte di produzione rhodesiana, per vedere se in Sudafrica potevamo fare qualcosa del genere, ma anche lì non ricavammo nulla di positivo. Il “nostro” peccato originale
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era Africa addio ed eravamo etichettati come gli autori di un film scandalo, gente pericolosa e la stampa locale – pensando chissà che cosa potessimo fare – ci attaccò violentemente, creandoci non pochi problemi per i permessi, anche se in un primo momento riuscimmo comunque a girare delle scene come la sequenza del ghepardo. Le difficoltà comunque crescevano giorno per giorno, per cui dovemmo ritornare in Italia e girare praticamente tutto il film qui. Come mai il film è così selvaggio? Perché? Era questo che esattamente lei voleva oppure le è sfuggito di mano ad un certo punto? Selvaggio nel senso appunto di voler colpire nel rappresentare questo fatto che il mondo animale, ad un certo punto, si sarebbe rivoltato. Un po’ alla Hitchcock come in Uccelli c’era questo fatto che ad un certo punto il mondo degli animali si sarebbe rivoltato contro i suoi persecutori. Intendevo selvaggio proprio in questo senso, cioè c’era l’intenzione di voler – come dire – di lanciare una sorta di allarme nei confronti del comportamento dell’uomo nei confronti degli animali e di quello che stavano diventando gli anni ’80 anche? Sì, sì certo chiaro. Sì senz’altro. L’unica cosa appunto poi che i mezzi economici con cui girai – tra l’altro il produttore era mio nipote – non erano molti, non erano quelli cui eravamo abituati per girare – e quindi ci fu una grande fatica per poterlo realizzare. C’erano altri progetti cinematografici che avrebbe voluto realizzare dopo la rottura con Gualtiero Jacopetti e che poi non ha realizzato? Dunque, pochi lo sanno, ma io dovevo fare il Marco Polo con la Rai e poi la storia del capitano Blade dopo l’ammutinamento del Bounty, quando il capitano venne abbandonato dagli ammutinati e fece un viaggio straordinario, di tremila miglia su una scialuppa. Però, dunque, sempre per il fatto di aver fatto Africa addio la Rai ci chiuse le porte. Quindi, Africa addio più di Mondo cane, divenne veramente una sorta di marchio di fabbrica negativo che in sostanza vi fece chiudere e sbattere molte porte in faccia? Sì, quello era il nostro marchio, non c’era niente da fare. Qualsiasi cosa si facesse. Un marchio che poi tra l’altro ci seguì anche
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in Brasile, dove, in un primo tempo, doveva essere girato Zio Tom. Avevamo ottenuto tutti i permessi, la troupe partì dall’Italia per andare a girare ma prima di arrivare in Brasile atterrammo a New York, per prendere l’aereo che ci avrebbe portato a Rio de Janeiro – qui sopraggiunse il divieto di poter girare da parte del ministro brasiliano Donatello, il quale ci ritirò i visti lasciandoci veramente in brutte acque perché non sapevamo più dove andare, avevamo già preparato tutti i set in Brasile e avevamo sulle spalle la troupe intera. Così rimanemmo a New York. Prosperi, lei ha poi pubblicato dei libri, un romanzo come Due vele per un sogno che è un racconto di avventura, storia, leggenda. Come intende questa sua vocazione letteraria? Un qualcosa che la appassiona tutt’ora? Beh è così, d’altra parte ci sono un mucchio di cose che sono delle prove contro se stessi no e ti dici: “va beh voglio vedere se riesco a pubblicare dei libri diversi da quelli pubblicati con Garzanti, o come lo stesso Africa addio realizzato con Rizzoli”. Quindi, spedii questo racconto alla Mursia che l’ha pubblicato. Due vele per un sogno parla di un’avventura di una coppia di navigatori genovesi i quali partirono – circa settanta, ottant’anni prima dell’impresa di Cristoforo Colombo – sempre con lo stesso scopo di trovare una via per l’importazione delle spezie e delle droghe visto che diventava sempre più difficile per il fatto che l’Islam stava chiudendo tutte le vie di traffico delle droghe stesse e questi due navigatori partirono, dunque, per l’Africa e scomparvero. E io, appunto, durante i miei viaggi ho trovato delle prove della loro esistenza, di quello che fecero, e di quale fu la loro vera fine in Africa. Doppio finale L’imminente mostra di Venezia ha l’occasione di ricordare un regista che essa ha ignorato per ragioni politiche, anche se i suoi documentari hanno segnato politicamente la storia del cinema: si può immaginare Semptember 9/11 di Michael Moore senza Mondo cane di Gualtiero Jacopetti? E ci sarebbe, in tv, “Striscia la notizia” di Antonio Ricci, senza il cinegiornale “Ieri oggi domani”, ancora di Jacopetti?
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Probabilmente i riconoscimenti sarebbero fioccati su Jacopetti se non avesse girato Africa addio (1966). Aver accomunato nell’irrisione e nell’orrore negri e bianchi, quando la decolonizzazione – quella cupa mascherata – era di moda, gli valse un’ostilità che non si è spenta prima che si spegnesse la sua pur lunga vita. Gualtiero Jacopetti è infatti morto ieri: avrebbe compiuto novantadue anni il 3 settembre. Stava per farcela ancora una volta: dopo la caduta con varie fratture, dopo la polmonite, al conte Giovanni Volpi, amico di una vita, aveva detto qualche giorno fa: “Sto rischiando di… guarire!”. In fondo era passato solo mezzo secolo da quando era sopravvissuto – tra una raffica di fratture e la conseguente dipendenza da morfina – all’incidente stradale in California, dove invece morì il suo amore, l’attrice britannica Belinda Lee, che da lui aspettava un figlio. Ora saranno presto di nuovo tutti accanto, nel cimitero per gli stranieri di Roma. Solo un anno fa Jacopetti aveva avuto – me l’aveva mostrato con amaro umorismo – l’autorizzazione a essere sepolto accanto a loro. Intanto nelle redazioni, oggi, ci si chiederà chi fosse Gualtiero Jacopetti. Qualcuno lo scambierà con Ugo Gregoretti. Qualcun altro per Tatti Sanguineti. I più, alla notizia, avranno detto: “Ma non era già morto?”. La carriera cinematografica di Jacopetti si era infatti interrotta da tempo, dopo Mondo Candido (1975), malriuscita rivisitazione dell’apologo voltairiano. La vera vena di Jacopetti era infatti quella dell’avventuriero, nelle due versioni del seduttore e del giornalista. Il primo ha avuto le donne più belle, il secondo ha escogitato “Cronache” (matrice dell’“Espresso”) e un cinema impegnato in senso liberal-conservatore. Il problema è che il pubblico liberal-conservatore non aveva un’identità forte. Ne aveva invece una, fortissima, quello progressista, ideologico, settario. Poiché Jacopetti non voleva raddrizzare le gambe ai cani, lasciò il cinema grazie ai soldi che aveva fatto con gli incassi dei suoi successi mondiali. Si era dato così all’attività che più gli piaceva: divertirsi. Se c’è stato un italiano cui si addice la definizione, anche, di playboy, è Gualtiero Jacopetti, non Gianni Agnelli. Per il suo essere brillante Jacopetti piaceva anche a Silvio Berlusconi, che fece circolare il suo nome come primo direttore del nascente Tg5. In realtà Berlusconi non aveva pensato seriamente a lui: ma sapeva che a ogni socialista, anche a Bettino Craxi, il nome di Jacopetti dava l’orticaria.
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“Nominare” e “destituire” Jacopetti era solo un modo per simulare un favore a Craxi, facendogli pesare ben di più la successiva nomina di un altro direttore. Uomo di mondo, Jacopetti non aveva nemmeno fatto causa a Berlusconi per l’inganno, seppur proprio quell’ultimo l’avesse incoraggiato a procedere, onde avere l’obbligo di risarcirlo. Si sa: senza obbligo, un imprenditore non paga. Diversa, e sincera, fu l’amicizia di Indro Montanelli per Jacopetti. Cominciò da un incontro casuale in piazza del Duomo a Milano, durante la campagna elettorale del referendum monarchia-repubblica, primavera 1946. Quasi trent’anni dopo, alla fondazione del “Giornale” (1974), Montanelli lo invitò a collaborare, cosa che Jacopetti faceva saltuariamente, per lo più dalla Thailandia, dove passava gran parte dell’anno. Jacopetti non seguì Montanelli alla “Voce”, né proseguì la collaborazione al “Giornale”: dell’effimero quotidianino nato e morto nel 1994, non gli piaceva l’orientamento; del “Giornale” non gli piaceva il contrasto del presente col passato. Poiché è il tempo, non la critica egemone, a dire se un’opera vale, Jacopetti ha avuto la fortuna di vivere tanto da vedersi rivalutato proprio dal “Giornale”. Così aveva manifestato la sua gratitudine a Maurizio Belpietro. Gentiluomini si nasce. E si muore. Jacopetti non ha voluto funerale, come se avesse intuito che altrimenti avrebbe scomodato gli amici dalle vacanze, che erano state la condizione di vita più cara anche per lui. Perfino in guerra aveva trovato un magnifico modo di passare primavera ed estate del 1943: alle isole di Lèrins, davanti a Cannes, dove – bella coincidenza – nel 1962 Mondo cane si sarebbe imposto al pubblico. Se ci fossero state esequie pubbliche, non sarebbero servite parole: sarebbero bastate le note di “More”, il motivo conduttore di Mondo cane. Maurizio Cabona, “Se n’è andato un grande intellettuale”, “Dagospia”, 18 Agosto 2011 Del Mondo da Cani Gualtiero Jacopetti ne ha fatto un inno. Oggi ha circa novant’anni e vive volutamente in disparte. È un uomo libero, un avventuriero elegante, un grande seduttore, un borghese vero, dai mille volti, un apostolo dell’antiretorica e un uomo inafferrabile. Ha fatto la guerra, passando da una parte all’altra, poi è stato giornalista, ha fondato “Cronache”, dalla quale redazione
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è nato “l’Espresso”, è stato sceneggiatore, autore di newsreal, poi viaggiatore, documentarista e cineasta. La sua vita è stata scandita da imprevisti, incidenti dolorosi e scandali che hanno contribuito a costruire di lui, come intellettuale e uomo, un’immagine spesso fasulla. L’abbiamo incontrato nella sua casa, un attico a due passi dal cielo. Con lui abbiamo rivisto Mondo cane, il film che nel 1962 lo ha reso celebre. Lo abbiamo commentato, divagando sui cani, il sesso, l’arte, la morte, la franchezza e il vantaggio di essere un personaggio scomodo. Perché i cani? Perché questo titolo? La ragione è molto semplice. Alla mia epoca c’erano i cinegiornali, tutta roba divorata dai partiti e di una noia mortale. Io li trasformai e cominciai a prendere in giro tutto questo universo fatto di tagli di nastri e di retorica. Mondo cane nacque dall’esigenza di allargare al mondo un newsreal che veniva fatto in Italia. L’imprecazione mondiale era rivolta a tutto quello contro cui si può imprecare non in modo rabbioso, ma con senso dell’umorismo. Poi c’era l’assonanza con la vita da cani. Sappiamo che i cani alla fine fanno una vita migliore di quanto sembri. Però ci sono anche cani che fanno una bruttissima vita. Ma non avresti potuto parlare del lato bello della vita da cani? C’è anche quello. I cani sono ricorrenti nel mio film. C’è una scena su un cimitero dei cani. Ci sono le tombe, chi li ricorda e li seppellisce con garbo. Naturalmente insieme ai padroni del defunto c’è il suo successore. Però il cane è sempre un cane e quando arriva sulla tomba ci fa pipì sopra. È il suo naturale omaggio al sepolcro. Io per quella scena sono stato insultato. Invece, è un atto di tenerezza. La pipì vuol dire il suo mondo, il suo confine, la sua carta d’identità. Poi nel film seguono scene meno digeribili, dove i cani vengono mangiati. È un piatto prelibato degli orientali, che hanno la preferenza per i chow chow. Certo, queste sono cose scomode da vedere soprattutto per chi ama questi animali. Non puoi nascondere però che c’è un certo gusto per il bizzarro… Ma questa maniera è in fondo anche un omaggio; si tratta di non prendere le cose troppo sul serio. C’è sempre un’esagerazione
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di comodo nell’interpretare i fatti. Allora mi pare non si parli di cinismo, né di scetticismo, si parla di franchezza. Di qualcosa di inevitabile che appartiene alla vita e al mondo. Io amo i cani, però se qualcuno li mangia io lo racconto. Quindi qual era il tuo scopo? Far vedere alla gente le cose insolite, scomode. L’idea di Mondo cane nasce con Blasetti, che mi diede l’incarico di trovare degli spettacoli in giro per il mondo. Cosa che già in principio mi annoiava. Per me l’avanspettacolo e il varietà sono fasulli. Il vero spettacolo di quei viaggi fu l’umanità. Io sono un giornalista, un uomo curioso, con una tendenza all’insolito, al bizzarro. È nel mio temperamento. Mi sono entusiasmato nel vedere un mondo che non conoscevo. È come se io fossi stato spettatore di Mondo cane prima degli spettatori stessi. Era un mondo che si prestava ad essere ripreso? Vorrei tornare a quei tempi, perché delle cose difficili erano facili. Non avere intorno un produttore, un direttore di produzione, un rompiscatole che ti dice cosa devi fare. Io ebbi la fortuna di fare quello che volevo. Rizzoli, questo vecchio signore milanese cosiddetto “incolto”, fu invece un grande innovatore anche in questo. Poi all’epoca, la gente era tutta entusiasta nell’essere ripresa, non temeva le fregature. In Mondo cane ci sono due episodi dedicati a due sex symbol di allora: Rodolfo Valentino e Rossano Brazzi. Perché hai scelto gli uomini? Ai tempi c’era un maschilismo molto forte. Il sesso era l’uomo. La donna era l’accessorio necessario per completarlo, ma tutto girava intorno al macho, al maschio. Non avrei potuto scegliere la donna, perché la donna non era abbastanza franca nell’esercitare il proprio sesso. L’uomo faceva tutto quello che voleva. Voi siete cresciuti in fretta, mentre io sono invecchiato con molta lentezza. Ma all’epoca il sesso era fallico: tutto era fallico. In Mondo cane passi dalle star del cinema alle tribù indigene. Come sono nate queste associazioni?
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Avevo letto che nel Golfo di Carpentaria c’era un pesce rarissimo, con degli organi sessuali notevoli, che era il simbolo del sesso bestiale per le tribù del posto. Questa fu una delle prime ragioni. Però quando viaggi, basta un pretesto, poi è tutto una scoperta. Quelli erano mondi intatti, di una bellezza incredibile, anche felici e allegri in un certo senso. Scoprimmo anche che nel mezzo di quel nulla, vicino alle isole Salomone, c’era una tribù di cannibali. Hai girato scene di cannibalismo? Ma no, il cannibalismo per queste tribù era mangiare i cadaveri dei caduti in guerra. Li mangiano con un rito che non ti sto neanche a descrivere, ma è terribile. Non ho mai fatto queste riprese, lasciamole alle ricostruzioni di Mondo cane numero 20, dove mettono la gente in salamoia. Con ironia hai messo in discussione anche l’arte contemporanea. Penso all’episodio su Yves Klein. Klein era una persona molto simpatica, ma un gran figlio di mignotta in questo senso. Un uomo alla ricerca di pubblicità. Ai tempi era sulla bocca di tutti. Gli proposi questo film e lui accettò subito, senza nessuna garanzia. Da come lo ricordo io era un avventuriero. Gli spiegai qual era la chiave; gli dissi che stavo facendo un film satirico e che non potevo fare un film di esaltazione sulla sua pittura. Lui capì e mettemmo i lenzuoli, l’orchestra e le modelle nude che si spiaccicavano sulle tele. C’è chi sostiene che dopo la prima a Cannes del film, per la delusione, Klein ebbe un infarto in albergo. Seguito qualche tempo dopo da altri due che gli furono fatali. Sì, certo, Jacopetti è il solito assassino. Senti, io Klein non l’ho mai più visto, non sapevo neanche ci fosse a Cannes. Sono tutte balle. Avrebbe avuto l’infarto anche senza conoscermi. Tutto quello che ho fatto sul capitolo di Klein è fatto con lui, consenziente e complice. Lo vedi dalle immagini. Abbiamo riso tantissimo. Queste belle modelle tutte imbrattate di blu. Con quel limite di pudore che c’era ai tempi, cercavano di coprirsi con la vernice il più possibile in modo da non far vedere troppo quelle parti lì.
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Sei sicuro fosse un imbroglio? Quello che ho filmato io era un imbroglio con la partecipazione dell’autore. T’ho detto tutto. Poi per un blu assoluto di Klein non do neanche tre lire, perché non lo voglio appeso sulla parete. Vuoi che dica anche questo? Sarebbe vanità. A me dà fastidio quando il valore intellettuale deve essere suggerito e non viene spontaneo. Io voglio l’emozione diretta. Sono sempre andato a naso. Annuso la situazione, il personaggio, come i cani da caccia. Annuso l’imbroglio e non mi sono mai sbagliato. Tu disconosci il filone Mondo Movies. A cosa hai ceduto nel firmare Mondo cane n. 2? Al denaro? Onestamente sì, al denaro. Ma non mi sento l’autore di quel film. Per me era una speculazione. Fu messo il mio nome per ragioni commerciali e non potetti dire no a Rizzoli; il mio sembrava un capriccio. Sono situazioni un po’ delicate ed è difficile spiegarle. Tanto per rimanere sul tema, Mondo cane è un film che va all’osso, che racconta gli aspetti più essenziali della vita: il cibo, il sesso, la ritualità, la morte. Certo, questa è la vita. È naturale. La retorica è un elemento inquinante. Forse in questo senso, come dicevi prima, torniamo alla vita da cani, che cacano, pisciano, mangiano, trombano e muoiono. Poi ci metti qualche cosa che salva la faccia, ma la vita insomma è carne. Mondo cane è carne. A quale scuola di giornalismo ti senti di appartenere? Sono per la scuola ignorante alla Hemingway, per la scuola non frequentata, quella istintiva. I vari Barzini, Montanelli erano personaggi che andavano sereni a coprire una situazione e portavano a casa risultati inaspettati. Mai partire con un concetto di fondo. Semmai con un sentimento di partenza, che è tutta un’altra cosa. Sono un imprudente al quale le cose sono andate bene. Però persone così pagano sempre di persona. Ma non ti sei mai preoccupato di toglierti di dosso certe etichette. Mai, fa parte del mio carattere. Non mi interessa il giudizio degli altri. Dell’opinione pubblica non me ne frega nulla. Poi sai, ho
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avuto molta gelosia intorno. Sono anche un po’ vittima delle mogli o compagne di altri uomini, con le quali poi non ho fatto assolutamente nulla. Stupidaggini, che però hanno creato delle inimicizie. Però a te ha portato anche molta fortuna. Certo, sarei stato alla briglia anche io. Il titolo che hanno dato ad un documentario girato recentemente sulla mia vita: L’importanza di essere scomodo, mi sembra molto azzeccato. È un’idea giusta perché la scomodità ha la sua importanza ed è un’eccezione. Anzi io avrei detto: “Il vantaggio di essere scomodo”. Lorenzo Gigliotti, “Mondo cane”! “Conversazione con Gualtiero Jacopetti”, “Rolling Stones”, 30 Luglio 2010
RINGRAZIAMENTI
L’idea del libro non è di oggi, ma è il tratto finale di un percorso iniziato cinque e più anni or sono e andatosi realizzando intorno alla filmografia di Gualtiero Jacopetti solo nel 2013 grazie al Lodi Città Film Festival che ha inteso raccogliere la provocazione degli Jacopetti Files e così facendo ha generato la presente “biografia” cinematografica. Molti sono coloro che ci hanno accompagnato sua nella stesura. Qui li ringraziamo: Franco Prosperi; Angelo, Alfredo e Marco Castiglioni; Mario Morra; Mimi Ferrari; Consuelo Nievo; Stefano Loparco; Gabriele Giuli; Piero Steffenoni; Riccardo Costantini, “Cinemazero” e “Le Voci dell’Inchiesta”; Domenico Monetti e Luca Pallanch della Cineteca Nazionale; Silvia Savoldelli – S.A.S. Bergamo; Maurizio Cabona.
INDICAZIONI BIBLIO-VIDEOGRAFICHE
Infine, diamo conto dei materiali sia video sia bibliografici usati oltre i film già citati: Bettinetti Andrea (regia), L’importanza di essere scomodo. Gualtiero Jacopetti, 2009, Dvd Istituto Luce, 2012. Bussi Marcello, Mondo cane Addio. Un delirio su Gualtiero Jacopetti, Lulu, 2011. Castiglioni Alfredo e Angelo e Franchini Vittorio, Africa ama, Sugar Editore, Milano, 1972. Castiglioni Alfredo e Angelo, Addio ultimo uomo, Rusconi, Milano, 1977. Castiglioni Alfredo e Angelo, Quarantanove Racconti d’Africa, Nomos, Busto Arsizio, 2011. Castiglioni Alfredo e Angelo, Ricordi d’Africa, Edizioni Lativa, Varese, 2013. Cavara Paolo, Guerra Tonino, Moravia Alberto, L’occhio selvaggio, a cura di Alberto Pezzotta, Bompiani, Milano, 2014. Cohen John, Africa addio, Rizzoli/Ballantine Books, New York, 1966. Corradi Egisto, Africa a cronometro. Cronaca della “Mille Miglia Nera”, nuova edizione a cura di Paolo Dal Chiele e Paolo Giusti, Corbaccio, Milano, 2015. Fogliato Fabrizio, Paolo Cavara. Gli occhi sul mondo che raccontano il mondo, Il Foglio, Piombino, 2014, 2016 (nuova edizione riveduta integralmente). Gregory David (regia), Godfather of Mondo, 2003, Dvd Blue Underground, 2013.
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Jacopetti files
Loparco Stefano, Gualtiero Jacopetti. Graffi sul mondo, Il Foglio, Piombino, 2014. Moravia Alberto, A quale tribù appartieni?, Bompiani, Milano, 1972. Moravia Alberto, Passeggiate africane, Bompiani, Milano, 1987. Moravia Alberto, Lettere dal Sahara, Bompiani, Milano, 1981. Nievo Stanislao, Storie di un viaggiatore. Cinquant’anni intorno al mondo, a cura di Mariarosa Santiloni, Gaspari Editore, Udine, 2014. Quilici Folco, Africa nera, Cappelli editore, Bologna, 1973. Quilici Folco, L’Africa, Mondadori, Milano, 1994. Quilici Folco, Terre d’avventura. Amazzonia, Sahara, Kahalari, Lapponia, Congo, Melanesia, Mondadori, Milano, 2009. Prosperi Franco, Matea Mora, Garzanti, Milano, 1953. Prosperi Franco, Gran Comora, Garzanti, Milano, 1955, 1971. Prosperi Franco, Due vele per un sogno, Mursia, Milano, 2009.
INSERTO FOTOGRAFICO
Gualtiero Jacopetti posa davanti al manifesto di Mondo cane.
Locandina americana di Mondo cane.
Jacopetti files
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Manifesto polacco di Mondo cane.
Inserto fotografico
Manifesto de La donna nel mondo, regia di Gualtiero Jacopetti, Paolo Cavara e Franco Prosperi, 1963.
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Jacopetti files
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Locandina di Mondo cane n. 2, regia di Gualtiero Jacopetti e Franco Prosperi, 1963.
Fotobusta di Africa addio, regia di Gualtiero Jacopetti e Franco Prosperi, 1966.
Inserto fotografico
Manifesto di Mal d’Africa, regia di Stanis Nievo, 1967.
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Jacopetti files
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Stanis Nievo.
Manifesto di Mal d’Africa.
Inserto fotografico
Paolo Cavara sul set de L’occhio selvaggio.
Foto busta della versione americana de L’occhio selvaggio.
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Jacopetti files
Manifesto di Africa segreta, di A. e A. Castiglioni e G. Guerrasio, 1969.
Inserto fotografico
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Foto busta di Africa segreta.
Foto busta di Africa segreta.
Jacopetti files
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Foto busta di Africa segreta.
Foto busta di Africa segreta.
Inserto fotografico
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Foto busta di Africa segreta.
Foto busta di Africa segreta.
Jacopetti files
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Foto busta di Africa segreta.
Foto busta di Africa segreta.
Inserto fotografico
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Africa segreta, flano commerciale.
Jacopetti files
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Locandina di Africa segreta.
Inserto fotografico
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Locandina di Africa segreta.
Jacopetti files
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Africa segreta, flano commerciale.
Inserto fotografico
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Box Office incassi di Africa segreta.
Jacopetti files
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Box Office incassi di Africa segreta.
Inserto fotografico
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Puzzle di articoli su Africa segreta.
Jacopetti files
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Fotobusta di Addio Zio Tom dopo la censura, 1972.
Gualtiero Jacopetti sul set di Addio Zio Tom, 1971.
Inserto fotografico
Franco Prosperi e Gualtiero Jacopetti sul set di Addio Zio Tom.
Gualtiero Jacopetti sul set di Addio Zio Tom.
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Jacopetti files
Africa ama, 1971, fotonotizia del “Corriere della Sera”.
Inserto fotografico
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Fotobusta di Africa ama, regia di A. e A. Castiglioni, G. Guerrasio e O. Pellini, 1971.
Fotobusta di Africa ama.
Jacopetti files
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Fotobusta di Africa ama.
Fotobusta di Africa ama.
Inserto fotografico
Africa ama, fotonotizia del “Corriere della Sera”.
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Jacopetti files
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Fotobusta di Africa ama.
Fotobusta di Africa ama.
Inserto fotografico
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Fotobusta di Africa ama.
Fotobusta di Africa ama.
Jacopetti files
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Fotobusta di Africa ama.
Fotobusta di Africa ama.
Inserto fotografico
Alfredo e Angelo Castiglioni, Vittorio Franchini, Africa ama, Sugar Editore, Milano, 1972.
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Jacopetti files
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Africa ama, flani commerciali.
Africa ama, flano commerciale.
Inserto fotografico
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Africa ama, flano commerciale.
Jacopetti files
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Africa ama, fotonotizia del “Corriere della Sera”.
Inserto fotografico
Spettatori in attesa di entrare alla proiezione di Africa ama, Cinema Durini, Milano.
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Jacopetti files
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Fotobusta di Addio ultimo uomo, 1979.
Fotobusta di Addio ultimo uomo.
Inserto fotografico
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Fotobusta di Addio ultimo uomo.
Fotobusta di Addio ultimo uomo.
Jacopetti files
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Fotobusta di Addio ultimo uomo.
Fotobusta di Addio ultimo uomo.
Inserto fotografico
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Edizione inglese di Addio ultimo uomo.
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Jacopetti files
Edizione inglese di Africa dolce e selvaggia, Angelo e Alfredo Castiglioni.
Inserto fotografico
Manifesto inglese di Africa dolce e selvaggia.
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Jacopetti files
Locandina di Mondo Candido, regia di Gualtiero Jacopetti e Franco Prosperi, 1975.
Inserto fotografico
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Fotobusta di Mondo Candido, regia di Gualtiero Jacopetti e Franco Prosperi.
Manifesto tedesco di Mondo Candido.
Jacopetti files
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Locandina di Africa dolce e selvaggia, regia di Angelo e Alfredo Castiglioni, 1983.
Locandina di Dolce e selvaggio, regia di Antonio Climati e Mario Morra, 1983.
Inserto fotografico
Manifesto francese di Wild Beasts – Belve feroci, regia di Franco E. Prosperi, 1984.
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Jacopetti files
Fotogrammi da Wild Beasts – Belve feroci, regia di Franco E. Prosperi.
Manifesto di Wild Beasts – Belve feroci, regia di Franco E. Prosperi.
Inserto fotografico
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Franco Prosperi, Gualtiero Jacopetti e Riz Ortolani.
Gualtiero Jacopetti e Franco Prosperi.
Jacopetti files
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Copertina dell’edizione in dvd de I malamondo, regia di Paolo Cavara.
Inserto fotografico
Copertina dell’edizione giapponese in dvd di Mondo cane n. 2, regia di Gualtiero Jacopetti e Franco Prosperi.
Cofanetto edizione Usa in dvd contenente Africa addio, Addio Zio Tom e il documentario The Godfathers of Mondo.
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Jacopetti files
Copertina del libro di P. Cavara, T. Guerra e A. Moravia, L’occhio selvaggio, Bompiani, Milano, 2014.
Inserto fotografico
Copertina dell’Lp della colonna sonora di Africa addio.
Copertina dell’edizione Usa in dvd di Addio Zio Tom.
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Jacopetti files
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S. Loparco, Gualtiero Jacopetti. Graffi sul mondo, Ass. Culturale Il Foglio, Piombino, 2014.
Inserto fotografico
45 giri della colonna sonora di Ultime grida dalla savana.
Edizione in cd delle colonne sonore di Ultime grida dalla savana e Savana violenta.
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Jacopetti files
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Locandina di Ultime grida dalla savana, regia di Antonio Climati e Mario Morra, 1975.
Inserto fotografico
I fotogrammi più celebri di Ultime grida dalla savana.
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Jacopetti files
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Locandina francese di Ultime grida dalla savana.
Inserto fotografico
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Fotobusta di Magia nuda, regia di A. e A. Castiglioni e Guido Guerrasio, 1975.
Fotobusta di Magia nuda, regia di A. e A. Castiglioni e Guido Guerrasio.
Jacopetti files
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Magia nuda, flano commerciale.
Inserto fotografico 401
Fotobusta di Magia nuda.
Fotobusta di Magia nuda.
Jacopetti files
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Locandina di Magia Nuda.
Inserto fotografico
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Fotobusta di Magia nuda.
Fotobusta di Magia nuda.
Jacopetti files
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Locandina di Savana violenta, regia di Antonio Climati e Mario Morra, 1976.
Inserto fotografico
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Manifesto di Savana violenta, regia di Antonio Climati e Mario Morra.
Jacopetti files
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Angelo e Alfredo Castiglioni, Addio, ultimo uomo, Rusconi, Milano, 1977.
45 giri della colonna sonora di Addio ultimo uomo.
Inserto fotografico
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Edizione giapponese della colonna sonora de I malamondo, musica di Ennio Morricone.
Lp della colonna sonora di Africa addio.
Jacopetti files
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Guido Guerrasio.
Alcuni ritratti fotografici di Franco Prosperi.
Inserto fotografico
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Antonio Climati sul set.
Franco Prosperi in Godfathers of Mondo, regia di David Gregory, 2003.
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Jacopetti files
La Festa del Cinema di Roma omaggia Gualtiero Jacopetti, 26 novembre 2009.
Copertina del dvd L’importanza di essere scomodo. Gualtiero Jacopetti, regia di Andrea Bettinetti, 2009.
Inserto fotografico 411
A sinistra: locandina della 16a edizione di Lodi Città Film Festival (29 sett. – 5 ott. 2014) contenente il primo file, Jacopetti vs Cavara, della retrospettiva dedicata all’invenzione di un genere come i mondo movies. A destra: locandina della 17a edizione di Lodi Città Film Festival (2-8 ott. 2015).
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Jacopetti files
F. Fogliato, Paolo Cavara. Gli occhi che raccontano il mondo, Ass. Culturale Il Foglio, Piombino, 2014.
Inserto fotografico
F. Fogliato, Paolo Cavara. Gli occhi che raccontano il mondo, Ass. Culturale Il Foglio, [seconda edizione], Piombino, 2016.
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Jacopetti files
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Gualtiero Jacopetti negli ultimi anni.
Angelo Castiglioni
Alfredo e Angelo Castiglioni.
Cinema Jean-Luc Douin, Dizionario della censura nel cinema. Tutti i film tagliati dalle forbici del censore nella storia mondiale del grande schermo 2 Massimo Donà, Abitare la soglia. Cinema e filosofia 3 Angelo Moscariello, Breviario di estetica del cinema. Percorso teorico-critico dentro il linguaggio filmico da Lumière al cinema digitale 4 Dziga Vertov, L’occhio della rivoluzione. Scritti dal 1922 al 1942 5 Enrico Biasin, Giovanna Maina, Federico Zecca (a cura di), Il porno espanso. Dal cinema ai nuovi media 6 Thomas E. Wartenberg, Pensare sullo schermo. Cinema come filosofia 7 Roland Quilliot, La filosofia di Woody Allen 8 Andrea Panzavolta, Lo spettacolo delle ombre. Un itinerario tra cinema, filosofia e letteratura 9 Francesco Ceraolo, L’immagine cinematografica come forma della mediazione. Conversazione con Vittorio Storaro 10 Luca Taddio (a cura di), David Cronenberg. Un metodo pericoloso 11 André Bazin, Jean Renoir 12 Andrea Rabbito, Il cinema È sogno. Le nuove immagini e i principi della modernità 13 Alessandra Spadino, Pasolini e il cinema ‘inconsumabile’ Una prospettiva critica della modernità 14 Raffaele De Berti, Il volo del cinema. Miti moderni nell’Italia fascista 15 Valentina Re, Cominciare dalla fine 16 Damiano Cantone, I film pensano da soli 17 Marco Senaldi, Rapporto confidenziale. Percorsi tra cinema e arti visivee 18 Marco Boscarol (a cura di), Tetsuo: The Iron Man. Il cinema di Tsukamoto Shin’ya 19 Luca Cosci, Monica Innocenti, Abcinema: abbecedario della settima arte 20 Andrea Panzavolta, Passeggiate nomadi sul grande schermo. Saggi sul cinema da Ingmar Bergman a Tim Burton 21 Francesco Zucconi, La sopravvivenza delle immagini nel cinema. Archivio, montaggio, intermedialità 22 Gianni Volpi, Alfredo Rossi e Jacopo Chessa (a cura di), Barricate di carta. «Cinema&Film», «Ombre rosse», due riviste intorno al ’68 23 Cosetta Saba, Archivio, Cinema, Arte 24 Cristina Formenti, Il mockumentary. La fiction si maschera da documentario 25 Stefania Schibeci, Le Phénomène de l’extase di Salvador Dalí. Surrealismo, fotografia, montaggio 26 Roy Menarini (a cura di), Cinema senza fine 27 Ivelise Perniola, L’era postdocumentaria 28 Leonardo Gandini, Voglio vedere il sangue 29 Giancarlo Alviani, Un’aspirina e un caffè con Bernardo Bertolucci 30 Valentina Re, Alessandro Cinquegrani, L’innesto. Realtà e finzioni da Matrix a 1Q84 1
31 Alfredo Rossi, Elio Petri e il cinema politico italiano. La piazza carnevalizzata. Contiene lettere e scritti di Elio Petri. Interventi di Goffredo Fofi, Franco Ferrini e Oreste de Fornari 32 Christian Uva, L’immagine politica. Forme del contropotere tra cinema, video e fotografia nell’Italia degli anni Settanta 33 Sara Martin, Streghe, Pagliacci, Mutanti. Il cinema di Álex de la Iglesia 34 34° Premio Sergio Amidei. Catalogo 35 Alessandro Cadoni, Il segno della contaminazione. Il film tra critica e letteratura in Pasolini, Prefazione di Hervé Joubert-Laurencin 36 Andrea Parlangeli, Da Twin Peaks a Twin Peaks. Piccola guida pratica al mondo di David Lynch 37 Andrea Rabbito, L’onda mediale. Le nuove immagini nell’epoca della società visuale 38 Deborah Toschi, La ragazza del cinematografo. Mary Pickford e la costruzione della diva internazionale 39 Marco Dalla Gassa, Orient (to) express. Film di viaggio, etno-grafie, teoria d’autore 40 Paolo Bertetto, Il cinema e l’estetica dell’intensità 41 Davide Persico, Decostruire lo sguardo. Il pensiero di Jacques Derrida al cinema 42 Nicola Dusi, Contromisure Trasposizioni e intermedialità 43 Alberto Castellano (a cura di), Paul Schrader. Il cinema della trascendenza
Finito di stampare nel mese di agosto 2016 da Digital Team – Fano (PU)