Un nuovo cinema politico italiano? Lavoro, migrazione, relazioni di genere [Vol. 1] 1780885415, 9781780885414

The book is the first to examine contemporary Italian cinema from a socio-political perspective, drawing on the expertis

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Italian Pages 248 Year 2013

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Un nuovo cinema politico italiano? Lavoro, migrazione, relazioni di genere [Vol. 1]
 1780885415, 9781780885414

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UN NUOVO CINEMA POLITICO ITALIANO?

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Copyright © 2013 Troubador Publishing Ltd The moral right of the author has been asserted. Apart from any fair dealing for the purposes of research or private study, or criticism or review, as permitted under the Copyright, Designs and Patents Act 1988, this publication may only be reproduced, stored or transmitted, in any form or by any means, with the prior permission in writing of the publishers, or in the case of reprographic reproduction in accordance with the terms of licences issued by the Copyright Licensing Agency. Enquiries concerning reproduction outside those terms should be sent to the publishers.

Troubador Publishing Ltd 9 Priory Business Park Wistow Road Kibworth Beauchamp Leics LE8 0RX, UK Tel: (+44) 116 279 2299 Email: [email protected] Web: www.troubador.co.uk

ISBN9781780885414 A Cataloguing-in-Publication (CIP) catalogue record for this book is available from the British Library.

Typeset in 10pt Bembo by Troubador Publishing Ltd, Leics, UK

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UN NUOVO CINEMA POLITICO ITALIANO? VOLUME I

LAVORO, MIGRAZIONE, RELAZIONI DI GENERE

a cura di William Hope Luciana d’Arcangeli Silvana Serra

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Indice Ringraziamenti Introduzione: Un nuovo cinema politico italiano? William Hope

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Relazioni industriali e luoghi di lavoro nel cinema del nuovo millennio

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Introduzione: Lavoro e alienazione nel cinema del XXI secolo William Hope

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Crisi, lavoro e sindacato nell’Italia di oggi Fabiana Stefanoni

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Donne al lavoro: il precariato e la femminilizzazione del lavoro nei film Signorina Effe di Wilma Labate, Mi piace lavorare – Mobbing di Francesca Comencini e Riprendimi di Anna Negri Bernadette Luciano e Susanna Scarparo

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La commedia del precariato in Tutta la vita davanti di Paolo Virzì Maria Elena D’Amelio

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Una politica dal volto umano: le Parole sante di Ascanio Celestini Paolo Chirumbolo

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‘Lasciate ogni speranza, o voi ch’entrate’ nella ThyssenKrupp. La messa in scena della realtà Flavia Laviosa

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Modernità liquida, lavoro e identità in Baci e abbracci di Paolo Virzì Marco Paoli

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Genere, sessualità e identità sociale

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Introduzione: Un’altra metà del cielo: genere, sessualità e identità sociale nel cinema italiano Luciana d’Arcangeli

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La sconosciuta di Giuseppe Tornatore: la rivendicazione della soggettività materna Piera Carroli 84 L’inetto e il melodramma maschile: L’uomo che ama di Maria Sole Tognazzi Rebecca Bauman

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Polis polisemica: Saturno contro di Ferzan Ozpetek con la sua polisemia micropolitica Mattia Marino

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Nuove donne di mafia sugli schermi Luciana d’Arcangeli

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Migrazione, multiculturalismo e relazioni interetniche

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Introduzione: Migrazione, mercificazione e integrazione nel Ventunesimo Secolo William Hope

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Nessuna ‘giusta distanza’ fra immigrati e nativi. La lotta degli immigrati che ‘non vogliono nascondersi’ Patrizia Cammarata

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Nuove narrative sull’Altro: arabi e musulmani nel cinema italiano contemporaneo Michela Ardizzoni

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Nostalgia e migrazione ne Il vento fa il suo giro di Giorgio Diritti Sabine Schrader

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Bianco e Nero di Cristina Comencini: i nuovi italiani – questioni di identità e di marginalizzazione William Hope e Mafunda Lucia Ndongala

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La diaspora africana in Italia: immigrazione e identità nazionale in Waalo Fendo di Mohammed Soudani ed in Western Union: Small Boats di Isaac Julien Shelleen Greene

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Appendice Intervista a Giuseppe Tornatore: Cinema, Società, Politica a cura di William Hope

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Biografie degli autori e dei curatori

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Indice dei nomi

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Ringraziamenti I curatori di questo volume desiderano esprimere il loro ringraziamento al Arts and Humanities Research Council per aver concesso i fondi dal suo Research Networking Scheme al presente progetto: A New Italian Political Cinema? I nostri ringraziamenti vanno anche a tutti coloro che hanno contribuito all’organizzazione degli eventi previsti dal progetto, svoltisi a Londra, Adelaide, Cremona e Manchester, dal novembre 2010 al gennaio 2012. Desideriamo inoltre esprimere la nostra gratitudine a: Giuseppe Tornatore per aver gentilmente concesso l’intervista per questo volume; a Patrizia Muscogiuri per la sua collaborazione nelle fasi finali del progetto.

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William Hope

Introduzione: Un nuovo cinema politico italiano?

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uando si parla di cinema politico in Italia, l’espressione evoca la relazione simbiotica tra cambiamenti fondamentali nella forma e nei contenuti del cinema ed epoche di fermento politico e trasformazione sociale. Esattamente come, nell’immediato dopoguerra, la lotta personale e collettiva del proletariato italiano per la sopravvivenza e l’autodeterminazione politica ispirò l’estetica e le trame sia del cinema di genere che di ciò che venne poi denominato il canone neorealista, così le scelte stilistiche radicali del cinema fine anni Sessanta articolarono l’opposizione di settori della società italiana verso l’establishment politico e altre istituzioni, un’opposizione galvanizzata dalle lotte rivoluzionarie dell’epoca in zone come il Sud America e l’Asia. Nell’Italia del XXI secolo diventa problematico parlare di un cinema politico in un contesto caratterizzato da diffusa disillusione nei confronti della politica dominante, dove ideologie come il comunismo non sono più rappresentate in parlamento e dove il panorama della politica progressista è stato caratterizzato dalla personalità di individui come Antonio Di Pietro, Nichi Vendola e Beppe Grillo. Ai loro partiti e movimenti non solo è mancata una filosofia politica immediatamente identificabile e costruttiva che contrastasse la corruzione del berlusconismo, la xenofobia della Lega Nord e l’ingerenza della Chiesa cattolica, ma, volendo guardare al di là dei loro leader carismatici in cerca di qualche talento portante, sono anche stati caratterizzati da una mancanza di spessore. La compattezza del centrodestra ha agevolato il suo dominio della politica parlamentare agli inizi del XXI secolo, portando ad un consolidamento del potere che ha intaccato la libertà d’espressione in tutti i campi della vita italiana, inclusa la cultura nel suo insieme e il cinema in particolare. Osserva Vito Zagarrio che l’influenza politica e mediatica di Silvio Berlusconi ha creato “un sistema perfetto di repressione in cui ogni cineasta è diventato ‘poliziotto di se stesso’, autocensurandosi e autoreprimendosi” (Zagarrio, 2006: 18); quei registi che non hanno adottato questa linea d’azione, hanno talvolta visto la distribuzione delle loro opere – in particolare se attinenti a Berlusconi o alla sua carriera – rinviata e, in alcuni casi, a tempo indeterminato1. ix

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Ma, nonostante l’assenza di un’ideologia politica radicale e influente cui attingere e il rischio di censura in un paese che, al momento della pubblicazione di questo libro, era sceso al sessantunesimo posto nella classifica mondiale della libertà di stampa2, a partire dal nuovo millennio il cinema italiano ha mostrato segni di un nascente impegno che, anche se incoerente e di variabile efficacia, è riscontrabile dal mainstream ai margini. Le sezioni successive di questa introduzione generale al volume illustreranno alcune delle possibili caratteristiche di un cinema politico efficace nel contesto specifico e problematico dell’Italia del XXI secolo, sulla base del presupposto che una maggiore politicizzazione dell’arte è il necessario antidoto contro una sempre più cospicua estetizzazione della politica e contro la neutralizzazione istituzionale delle spinte progressiste contro-egemoniche nell’ambito della cultura e della società – una forma di depoliticizzazione perpetrata dallo Stato, da interessi economici privati e dagli organi di informazione che servono i loro interessi. Il riferimento alla politicizzazione dell’arte e all’estetizzazione della politica, termini evocati nella parte finale del saggio di Walter Benjamin “L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica”, scritto durante la fascistizzazione insidiosa di varie aree dell’Europa pre-bellica, è del tutto pertinente al clima politico e culturale italiano del primo decennio del XXI secolo. Questa introduzione esamina gli approcci che vari progetti cinematografici hanno dovuto adottare e dovranno continuare ad adottare, in queste circostanze sociopolitiche, al fine di relazionarsi con parti di pubblico che non sono più necessariamente predisposte ad un coinvolgimento intellettuale e politico con la cultura. Verranno esaminati sia gli effetti delle attuali configurazioni del potere politico in Italia sul medium del cinema – e su generi specifici come il documentario – sia l’efficacia di diversi approcci estetici che vanno dal realismo al grottesco. Si esplorerà anche l’importanza di un impegno politico nell’ambito del mainstream e del cinema di genere, con una panoramica dei vantaggi strategici e dei punti deboli insiti nell’articolare la categoria del ‘politico’ attraverso questo medium. La tesi di questa introduzione è che in un contesto in cui la libertà di informazione è stata limitata – scenario esacerbato dalla monopolizzazione e dalla censura di televisione e stampa da parte del centrodestra, favorite dall’acquiescenza del centrosinistra – un film che aspiri ad essere politico, deve, per definizione, essere interpretativo e propositivo, al fine di sensibilizzare il suo pubblico e sfidare le élites politiche ed economiche d’Italia, piuttosto che essere meramente descrittivo e documentativo. Come verrà illustrato più avanti in questo saggio e in punti diversi del volume, sebbene il cinema italiano sia attualmente costellato di barlumi del ‘politico’ in opere individuali, e sia spesso caratterizzato da chiari impulsi di trasformazione e veemente dissenso antiistituzionale, è inappropriato parlare di un cinema politico del XXI secolo nel senso tradizionale di un medium culturale che trae energia da una realtà ideologica esterna di gradimento di massa e a sua volta la consolida. In un’epoca di crisi socio-economica causata dalla speculazione finanziaria e dall’accumulazione capitalistica del profitto, è troppo comodo sostenere che le x

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rappresentazioni cinematografiche delle relazioni interpersonali degli individui all’interno della loro comunità o polis sono in qualche modo ‘politiche’, senza indagare come e perché la realizzazione del potenziale degli individui, a livello micro, è compromessa da determinanti politici ed economici a livello macro, e senza esaminare dove – a livello sociale – esistono aspetti conflittuali tra gli interessi della maggioranza e quelli di una ristretta élite politico-economica. Periodi di prosperità uniti al consumismo e all’esasperazione dell’estetica alimentati dai media hanno modificato la natura delle aspirazioni della gente, cancellando un qualunque senso di coscienza di classe, secondo la concezione marxista tradizionale del concetto, in particolare nel proletariato. In Tutta la vita davanti (2008) di Paolo Virzì, questa mentalità è sintetizzata brillantemente in una battuta di un dialogo secondario tra le telefoniste di un call center – una delle categorie più sfruttate d’Italia – in cui una ragazza scarta l’idea di finire insieme ad uno dei suoi colleghi maschi perché è “troppo proletario”. È quindi importante che un medium come il cinema svolga un ruolo nell’aumentare la consapevolezza, soprattutto da parte delle giovani generazioni, dello sfruttamento istituzionale della loro vulnerabilità socio-economica nella società contemporanea. Nelle situazioni di censura e repressione statale suddette, il cinema ha mantenuto un’autonomia intellettuale e creativa, nonché una serie di punti di distribuzione – attraverso circuiti di cinema, festival stranieri, e attraverso Internet – che il mezzo televisivo non possiede, essendo estremamente soggetto agli interessi del potere politico a livello locale e nazionale. Maria Buratti ha discusso del modo in cui il cinema ha rapidamente riconosciuto che la televisione era “inevitabilmente destinata al servilismo nei confronti del potere” citando il film poco noto di Felice Farina Bidoni, del 1995, che raccontava come uno scandalo riguardante i rifiuti tossici fosse stato messo a tacere in seguito all’acquisto, da parte di un politico, della rete televisiva che aveva scoperto la notizia (Canova, 2005: 42-43). Questo piccolo scenario immaginario rifletteva tuttavia il colossale conflitto di interessi che alla fine ha paralizzato l’autonomia e l’obiettività della televisione italiana, dal momento in cui la televisione terrestre privata ha finito per essere dominata dai canali Mediaset di Berlusconi e dalle loro diramazioni regionali e l’influenza di Berlusconi si è estesa anche alle reti televisive statali della Rai allorché giornalisti, presentatori e dirigenti indipendenti sono stati sostituiti da propagandisti pro-Berlusconi3.

Giungere al ‘politico’ attraverso il personale: dalla fiction al documentario L’analisi condotta da Gianni Canova sul ruolo della tecnologia nella società, in particolare sul modo in cui il cinema italiano ha rappresentato il rapporto tra individui, tecnologia e i social media che ora fungono da interfaccia nelle relazioni interpersonali, evidenzia l’accresciuto senso di individualismo narcisistico che è risultato da queste xi

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forme di interazione sociale. Canova sostiene che oggigiorno “la tecnologia serve tutt’al più in quanto protesi dell’io, non come incubatrice del noi” (Canova, 2005: 10). Questo concetto importante riemerge in modo allarmante in momenti chiave di diversi film – esempi efficaci di film politici moderni per il modo in cui risalgono alle cause profonde delle mutate prospettive comportamentali nella società italiana – che richiamano l’attenzione sul modo in cui Berlusconi ha usato il suo impero mediatico, in particolare la televisione, per proiettare un sistema di valori basato sul glamour, la celebrità e il consumismo che ha influenzato le aspirazioni di molti italiani. Ne Il caimano (2006) di Nanni Moretti, una panoramica spassionata dell’industria cinematografica e delle fasi iniziali della carriera politica di Berlusconi, emerge in modo esplicito l’osservazione su quanto gli italiani siano stati cambiati in peggio dalla loro esposizione ai canali televisivi di Berlusconi, anche se molti pretendono che non sia così. Videocracy di Erik Gandini (2009), un altro film che è stato sottoposto a pressioni istituzionali a causa del suo contenuto4, contiene una sequenza in cui un regista televisivo parla della “compenetrazione” tra il personaggio di Berlusconi e il contenuto colorito, stridente, sessualizzato dei programmi che vanno in onda sulle sue reti, a tutti gli effetti un’estensione della propria personalità o “una protesi dell’io”. Seguendo le audizioni di Riccardo, un operaio abbagliato dalla celebrità che desidera abbandonare ciò che egli considera uno stile di vita poco attraente per ottenere il riconoscimento pubblico attraverso la televisione, e tracciando il percorso della carriera di individui come Mara Carfagna, una ex-showgirl che Berlusconi ha successivamente nominato suo ministro per le Pari Opportunità, il film sottolinea l’effetto insidioso dei valori dell’estetica esasperata, della ricchezza e della celebrità proiettati quotidianamente nelle case di milioni di persone dalla televisione e altri media odierni5. Individui come Riccardo dimostrano la frattura psicologica creata tra questi ‘valori’ propagati dai media e le vite proletarie della maggioranza della popolazione, e come questi ideali assecondino il narcisismo di chi è facilmente influenzabile. In assenza di una meritocrazia funzionante e di adeguate ricompense nel mondo del lavoro, questi individui aspirano ad una carriera di successo personale e fulmineo nel mondo dello spettacolo, come le veline in un’altra delle trasmissioni immancabilmente popolari di Mediaset, e, come Riccardo e le telefoniste in Tutta la vita davanti, finiscono per disprezzare ogni identità proletaria. È quindi importante tenere presente che ogni forma di cinema che cerchi di ristabilire un senso della realtà e di denunciare la manipolazione e lo sfruttamento di settori della popolazione si troverà, alla sua ricezione, ad affrontare una desensibilizzazione politica a livello di massa. Da un punto di vista politico, pertanto, nei primi anni del XXI secolo l’Italia è stata caratterizzata da una frammentazione della politica progressista di centrosinistra e da sporadiche proteste localizzate come la campagna “No TAV” e le manifestazioni del Popolo Viola, ed è mancata una nuova ideologia unificante in grado di galvanizzare un’opposizione collettiva a una casta politica che include centrodestra e centrosinistra. Allo stesso modo, anche se le loro critiche marxiste dei difetti sistemici del capitalismo xii

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e del neoliberismo si sono continuamente rivelate profetiche e accurate, i partiti extraparlamentari di estrema sinistra sono ancora lontani dall’essere punti focali di opposizione di massa. Televisione e cultura di massa si basano sull’individuale e sull’emozionale piuttosto che sul collettivo e sul razionale6, e, insieme con i media, continuano ad essere monopolizzate, per quanto riguarda l’Italia, dall’influenza delle élites politiche, economiche e religiose. È in queste difficili circostanze che i film politicamente orientati hanno dovuto operare e che un cinema politico per il XXI secolo deve affermarsi, al fine – a livello immediato – di contrastare i resoconti depoliticizzati e ritoccati da parte dei media di fenomeni che vanno dal terremoto dell’Aquila nell’aprile 2009 e le sue conseguenze, alla violenza a Genova al tempo del vertice del G8 nel luglio 2001. Il cinema è uno dei pochi media culturali in grado di far uscire lo spettatore dal guscio del proprio individualismo e qualunquismo e di generare una consapevolezza della rete di interessi politici ed economici che cospirano per diminuire la qualità della sua educazione, delle sue condizioni di lavoro, della sicurezza ambientale, dell’assistenza sanitaria e pensionistica. Affinché il cinema possa realizzare questo, vanno adottate precise strategie artistiche al fine di coinvolgere in modo significativo gli spettatori permettendo loro di relazionarsi. Mentre il cinema sperimentale – il cinema dei margini – ha un ruolo da svolgere nella ricerca incessante di innovazione estetica e nel mettere in luce contesti sociali raramente esplorati, il mainstream culturale è verosimilmente il terreno adatto per un cinema politico del XXI secolo per sfidare egemonie esistenti. In particolare, l’uso del cinema di genere e il filtro del personale sono senza dubbio approcci artistici che hanno prodotto lavori incisivi e stimolanti negli ultimi tempi. Il filtro del personale è forse l’approccio migliore da adottare nel contesto di un’Italia in cui, come si vede in Videocracy di Gandini, ogni senso di appartenenza collettiva dovrà essere accuratamente ricostruito, ma, sia che questo assuma la forma di una presenza registica riconoscibile in generi come il documentario, o di stretto allineamento con i processi mentali di un protagonista nella fiction drammatica, deve essere utilizzato come una tecnica per collegare eventi a livello micro, intimo di un film con i determinanti politici ed economici a livello macro della vita reale. Se eseguita correttamente, questa strategia cinematografica genera nello spettatore una comprensione orientata verso l’esterno, e quindi intellettuale, degli interessi egemonici che condizionano la vita delle persone. Un film come Birdwatchers: la terra degli uomini rossi (2008) di Marco Bechis, un dramma basato sulle condizioni di vita reale del popolo Guarani dell’America del Sud, ottiene questo risultato perfettamente, catturando lo spettatore con momenti intensamente intimi e stilizzati, come le riprese stridenti e accelerate quando Osvaldo, uno dei Guarani, sente la presenza di uno spirito maligno vicino all’accampamento dei Guarani, e anche con toccanti, devastanti campi lunghi di donne Guarani che hanno commesso il suicidio per impiccagione. Ma la prospettiva del film diventa più volte centrifuga, volgendosi verso un’analisi sociopolitica delle strutture di potere che assoggettano i Guarani, principalmente i xiii

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proprietari terrieri locali che temono costantemente una rivoluzione degli “indios” contro le dure condizioni di lavoro. Meno riuscito dal punto di vista del cinema politico, pur condividendo alcune analogie stilistiche e tematiche con il film di Bechis, è Sangue vivo (2000) di Edoardo Winspeare. Ambientato in Puglia, il film è anch’esso molto folkloristico e stilizzato in sequenze che ricreano – attraverso riprese in slow motion e mescolando immagini – lo stato di trance del musicista protagonista, Pino, quando suona la tarantella. Una gamma di questioni socio-economiche pressanti si manifestano all’interno dell’economia alternativa che il film porta in scena: traffico di esseri umani, quando Pino porta una donna dalla costa albanese in Italia con la sua barca, abuso di droga, contrabbando di sigarette e rapina. Ma lo sguardo intimista del film alla fine si ripiega su se stesso e le sue problematiche socio-economiche si fondono con l’arido paesaggio pugliese come se fossero sempre state parte di esso, quando la narrazione avanza verso un climax tragico risultante da un trauma familiare latente. Nei documentari, giungere al ‘politico’ attraverso il personale è una strategia che rende meno astratto il soggetto di film come Draquila – l’Italia che trema (2010) di Sabina Guzzanti e Carlo Giuliani, ragazzo (2002) di Francesca Comencini. Entrambi i documentari sono propositivi e interpretativi, e lo sono in maniera quasi pressante, costretti ad abbandonare ogni nozione di oggettività nella loro ansia di comunicare informazioni soppresse dalle istituzioni statali e dalle loro fonti mediatiche. In un clima in cui il giornalismo investigativo si era quasi estinto a causa della censura politica, il cinema documentario ha dimostrato in misura crescente di essere uno dei pochi canali attraverso cui tali informazioni possono essere diffuse, un cambiamento significativo nel ruolo del genere.Tuttavia, proprio perché utilizzano il filtro del personale, entrambi i documentari non sono privi di difetti. Il film della Comencini è vulnerabile all’accusa di presentare una visione unilaterale degli eventi che portarono all’uccisione di Carlo Giuliani nel corso delle manifestazioni anti-globalizzazione durante il vertice del G8 di Genova e di focalizzarsi a lungo sulla testimonianza commovente della madre Haidi, ma occorre ribadire che il film doveva diventare, quasi per necessità, un esercizio di controinformazione in un particolare contesto storico in cui i dettagli della brutalità della polizia a Genova erano stati, e continuano ad essere, nascosti da parte dello Stato. Allo stesso modo, l’indagine della Guzzanti sui lucrativi progetti di ricostruzione e sulla censura della stampa, che hanno caratterizzato il periodo immediatamente successivo al terremoto in Abruzzo, è fortemente influenzata dalla sua ostilità personale nei confronti di Berlusconi per aver ostacolato la sua carriera satirica. A volte non è facile conciliare il ruolo della Guzzanti come performer – desiderosa, in quanto artista, di attenzione e dell’approvazione del pubblico – con il principio del documentarista di non intervento nel contesto sociale in corso di analisi7. Quando arriva all’Aquila vestita come Berlusconi e ne fa l’imitazione, inquadrata su un cumulo di macerie mentre la gente locale canta una versione ironica di “Meno male che Silvio c’è”, c’è da chiedersi se questo sensibilizza o esaspera lo stato d’animo della gente del posto, persone che vengono intervistate nel documentario. xiv

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Tali situazioni sono indicative di come il clima politico oppressivo in Italia abbia indirettamente provocato dei cambiamenti nel cinema e in generi specifici come il documentario. Dal punto di vista di un cinema che cerca di sensibilizzare, informare e denunciare, film come Draquila illustrano l’importanza di estrarre il significato politico da eventi come il terremoto in Abruzzo, piuttosto che neutralizzarli. Invece, poco dopo questo disastro naturale, le acque si erano a malapena calmate quando ci fu un precipitarsi di registi verso la regione, tra cui Mimmo Calopresti e Ferzan Ozpetek, e la nascita di un progetto intitolato L’Aquila 2009 – Cinque registi tra le macerie (2009). Sebbene testimoni il formidabile spirito di umanità in tali circostanze, la frettolosa immersione emotiva del film nelle immediate conseguenze della tragedia è emblematica della debolezza di progetti che toccano fugacemente questioni sociali che fanno notizia e, non possedendo un impeto intellettuale per esaminare le implicazioni di ciò che ritraggono, stabiliscono una prospettiva mediatico-culturale depoliticizzata del problema in questione. Per quanto riguarda il diverso approccio stabilito in seguito dalla Guzzanti in Draquila, se, come Maurizio Fantoni Minnella suggerisce, uno dei modi per valutare l’incisività politica di un film “consiste nel valutare l’impatto con il potere dominante e la censura messa in atto da quello stesso potere” (Fantoni Minnella, 2004: 10), allora le proteste e le minacce da parte del governo italiano prima della proiezione di Draquila al Festival di Cannes 2010 fanno pensare che il film era andato vicino alla verità riguardo a chi avrebbe tratto dei benefici finanziari dagli effetti del terremoto (Brunelli, 2010).

L’ideologema: proiettando antagonismi socio-economici La cultura dominante è un terreno di scontro fondamentale in cui un cinema politico progressista deve affermarsi e sfidare il potere egemonico esistente in Italia. La stessa cultura dominante è di per sé un esempio di ciò che Fredric Jameson chiama un ideologema, un termine che descrive i punti di conflitto all’interno di testi in cui forze reazionarie politiche e sociali si scontrano con impulsi più progressisti e rivoluzionari. L’ideologema è dove si condensano le due contrastanti visioni del mondo e costituisce un campo di battaglia per la lotta di classe (Jameson, 1989: 85-87). Ad esempio, il declino della cultura televisiva raffigurato in Videocracy, con gli spettatori ridotti a consumatori acritici dei vari prodotti delle società di Berlusconi, contrasta nettamente con i palinsesti televisivi informativi e d’alta qualità della Rai dell’era della televisione pre-commerciale. L’uso di generi popolari, in questo caso generi cinematografici, come veicolo di idee che mettono in discussione gerarchie consolidate, è un sistema di vecchia data per comunicare ideologie progressiste ad ampie fasce della popolazione e si tratta di una strategia pertinente ad un cinema politico italiano del XXI secolo. In ambito letterario, è stata convalidata da Trotsky quasi un secolo fa nella sua analisi del lavoro di Demyan Biedny, il cui riutilizzo di forme e schemi narrativi prerivoluzionari xv

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erano “an invaluable mechanism for the transmission of Bolshevist ideas” (Trotsky, 2005: 175). Per quanto riguarda il cinema, negli anni ’60 e primi anni ’70, interrogati sul loro uso di generi popolari, diversi registi italiani difesero pure “l’utilizzo dei codici del cosiddetto cinema di genere come strumento efficace, talvolta perfino infallibile, per veicolare taluni contenuti politici che altrimenti […] non risulterebbero immediatamente comprensibili al grande pubblico” (Fantoni Minnella, 2004: 165). Nel cinema italiano del XXI secolo, il riciclaggio di determinati generi e approcci estetici si è già rivelato efficace a fini progressisti. I thriller polizieschi, col loro rivelare gradualmente reti di interessi nascosti, possiedono un notevole potenziale politico quando dirigono il proprio sguardo all’establishment, come dimostrato da opere seminali tipo Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto (1970) di Elio Petri, un potenziale enfatizzato – ma non ancora pienamente realizzato – dai film più recenti come Almost Blue (2000) di Alex Infascelli, con la sua rappresentazione dei problemi affrontati dall’ispettrice di polizia Grazia Negro, esperta di informatica, il cui lavoro è ostacolato dall’incompetenza istituzionale e dal sessismo delle forze di polizia di Bologna. Allo stesso modo, la natura regressiva di tanta commedia convenzionale che celebra, convalida e normalizza il materialismo becero e continua a rappresentare gruppi minoritari secondo cliché, può essere facilmente convertita in satira se all’umorismo diegetico di un film viene data una direzione centrifuga in modo tale da illuminare realtà socio-politiche esterne. Questo è quanto realizza Qualunquemente (2011), scritto in collaborazione da Antonio Albanese e Piero Guerrera e diretto da Giulio Manfredonia, film che traccia i tentativi di un’imprenditore calabrese, di dubbia integrità e in combutta con la mafia, di forgiare una carriera politica. Utilizzando personaggi standard, espedienti narrativi e l’estetica trash di commedie popolari come il cinepanettone, il film dirige la volgarità corrosiva del suo umorismo verso le amministrazioni di centrodestra realmente esistenti a livello locale e nazionale, e diventa più di un semplice prodotto cinematografico redditizio. Così come il genere, anche l’estetica e la forma hanno avuto una funzione importante nei nuovi film del millennio ad orientamento politico; diversi critici hanno espresso valide riserve circa l’estetica realista nel cinema contemporaneo, sottolineandone la tendenza “to immobilize the world, locking people and structures into their existing states in a way that could only be reactionary”, mentre il reale filmico dovrebbe portare in superficie la violenza socio-economica ed essere un mezzo “to figure agency, to inscribe struggle, to recreate possibility, and to rebuild systemic critique” (O’Shaughnessy, 2007: 157, 180). Nel particolare contesto del cinema italiano, Mariagrazia Fanchi è altrettanto scettica riguardo a quello che lei chiama “un realismo di maniera […] da cui è espunto ogni estremismo”, in cui il conflitto sociale è ridotto al minimo e attraverso cui persino contesti sociali economicamente svantaggiati sono “rappresentati come comunque dignitosi” (Fanchi, 2007: 115-117); inoltre, Alan O’Leary e Catherine O’Rawe discutono il “pervasive and obstructive investment in realism as a value category”, soprattutto dal punto di vista degli studiosi di cinema, e xvi

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giustamente criticano il modo in cui il neorealismo italiano in particolare è stato additato a “specchio” della nazione (O’Leary e O’Rawe, 2011: 109). Se da un lato queste valutazioni sono legittime, chiaramente il realismo ha ancora un ruolo da giocare in opere cinematografiche animate da un impulso documentario e politico di divulgazione, ad esempio nei film che ritraggono il grado di emarginazione sociale nelle zone abbandonate dagli interessi del capitale – esistenze emarginate come quelle dei giovani aspiranti mafiosi Marco e Ciro nell’episodio finale di Gomorra di Matteo Garrone (2008). La discordanza di tali sequenze con stili di vita convenzionali è di per sé talmente inquietante che un’estetica del surreale, dell’iperreale o del grottesco le renderebbe stilisticamente sovraccariche e comprometterebbe il loro effetto. Per contro, nel contesto di molte commedie all’italiana di oggi, un’estetica realista – o più precisamente il tipo di “realismo di maniera” discusso da Fanchi e prevalente nelle fiction televisive che ora fungono da modelli stilistici per tanto cinema mainstream – ridirezionata verso gli spettatori, rafforza immancabilmente lo status quo egemonico. Due film sul tema dello sfruttamento di giovani laureati, Generazione 1000 euro (2009) di Massimo Venier e Fuga dal call center (2008) di Federico Rizzo, il primo con un approccio stilistico basato su un realismo di maniera e il secondo che mescola realismo, il grottesco e il surreale, illustrano ancora una volta le implicazioni o del politicizzare o del neutralizzare un determinato argomento. Nel secondo caso, Generazione 1000 euro evidenzia inoltre le conseguenze di narrazioni che si piegano introspettivamente su se stesse, portando a soluzioni artificiose a livello micro, a differenza di altre strategie che spostano l’attenzione di un film oltre i confini del testo per illuminare gli abusi sistemici sull’individuo e i meccanismi dello sfruttamento. L’ironia d’osservazione autodenigratoria di Generazione 1000 euro, che potremmo definire una commedia dell’inevitabile, e la rassegnazione cupa dei suoi protagonisti, placano antagonismi sociali come quelli causati dai problemi delle raccomandazioni e dei bassi salari che il film solleva. Il protagonista Francesco fa una battuta su un amico il cui contratto non è stato rinnovato e che è tornato a casa dei suoi genitori in Molise – facendo così emergere questo periodo storico come l’unico in cui la gente è riemigrata in Molise; questo esempio dell’umorismo nero del film, seppur percettivo, incapsula l’acquiescenza di una generazione per la quale un ritorno alla casa dei genitori è una strategia di default in tempi di crisi, piuttosto che il confronto sociale. Ancor più grave è che il film utilizzi un meccanismo narrativo in base al quale un altro protagonista, Matteo (Alessandro Tiberi), rafforza la sua posizione precaria in un’azienda dopo aver avuto una relazione con Angelica (Carolina Crescentini), un’attraente manager bionda con uno stile di vita cosmopolita, e successivamente usa la sua influenza per accertarsi che a un collega venga rinnovato il contratto. Questa variazione narrativa reazionaria ed escapista sul concetto di andare a letto con qualcuno per arrivare al successo, nel proporre una soluzione personale a livello micro oppure una svolta del destino come mezzo per sfuggire all’assoggettamento socio-economico di una generazione di lavoratori, tradisce una totale mancanza di consapevolezza xvii

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politica e di coscienza di classe. Questo espediente narrativo inevitabilmente trova una risonanza nell’individualismo e nel narcisismo dello spettatore, e rafforza il concetto dei favori personali come la chiave per l’avanzamento di carriera, piuttosto che la lotta socio-politica. Invece di nascondere la spaccatura tra capitale e lavoro, come avviene con la relazione tra Angelica e Matteo nel film di Venier, in Fuga dal call center Rizzo accentua il divario tra dirigenti presentati come incompetenti, lascivi e isterici, e l’idealismo e serietà dei laureati impiegati in un call center. La tattica del regista è quella di alternare sequenze che hanno una progressione narrativa lineare a parti surreali o grottesche, creando un’inattesa sensazione di dissonanza cognitiva come quando, ad esempio, l’assurdità di test psicologici durante i colloqui di lavoro viene evidenziata. All’improvviso, la normalità si sposta in quello che sembra un universo parallelo, a volte letteralmente, come durante le scene in cui Rizzo stacca dal call center fatiscente su un luogo senza nome dove, grazie a una telecamera nascosta, dei giocatori d’azzardo piazzano scommesse su quale dipendente del call center otterrà i migliori risultati. Inoltre, brevi interviste con veri impiegati di call center sono montate nel film, interrompendo la narrazione e dirigendo l’attenzione al mondo esterno, invitando gli spettatori a riflettere sul modo in cui la politica e l’economia del mondo industrializzato sono incentrate sui capricci di svariati ‘capitani d’industria’ e ‘creatori di ricchezza’. L’approccio estetico di Rizzo, chiaramente basato su interruzioni di stile brechtiano del coinvolgimento emotivo dello spettatore con la narrazione, ma comunque congruo con il mainstream cinematografico che ha assorbito gran parte dello sperimentalismo e dell’autoconsapevolezza che un tempo erano appannaggio dei film d’essai, è una delle strategie politicamente più efficaci in termini di forma cinematografica. Per contro, lo stile autoriflessivo da cinéma vérité che si trova in un film come Riprendimi di Anna Negri (2007) – la storia di due cineasti che girano un documentario su come il lavoro precario minacci la relazione di una giovane coppia; un film caratterizzato da riprese con camera a mano e frequenti sguardi incerti verso l’obiettivo da parte della protagonista Lucia (Alba Rohrwacher) – non impegna la capacità critica dello spettatore riguardo al presunto tema, nel film, del precariato. Ogni volta che la cinepresa sobbalza, consapevolmente e ostentatamente, l’attenzione dello spettatore è semplicemente ridiretta, come anestetizzata, verso il mondo diegetico del film e il crescente attaccamento di Lucia a Eros, il cameraman. Quando nel cinema mainstream emergono problematiche e vicende sociopolitiche intricate, come avviene con sempre maggior frequenza, spesso i risultati finali possono essere divergenti; Fantoni Minnella (2004: 155-156) solleva la questione se sia “il cinema di genre, appunto, ad impadronirsi della cronaca politica quotidiana facendone una pura fiction o se invece siano gli autori ad utilizzare schemi narrativoformali già codificati”. Forse è legittimo provare disagio quando i filmati di alcuni degli eventi più complessi e traumatici della storia recente, come ad esempio il periodo immediatamente successivo all’attentato della stazione di Bologna nel 1980, vengono xviii

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utilizzati quasi a scopo decorativo, spogliati delle loro risonanze socio-politiche, per aggiungere un senso evocativo di veridicità storica al più stereotipato e apolitico dei progetti cinematografici, come Romanzo criminale (2005) di Michele Placido. Parimenti, un problema altrettanto comune come quello della depoliticizzazione cinematografica di questioni socio-politiche è quello della loro distorsione. Come indicato più avanti in questo volume nell’introduzione alla sezione “Migrazione, multiculturalismo e relazioni interetniche”, molti progetti cinematografici tradizionali – condizionati dalla necessità di intrattenere e di generare profitti al botteghino – si concentrano sugli aspetti più spettacolari, emotivi ma non rappresentativi di un dato problema sociale, spesso trascurando le conseguenze altrettanto gravi ma meno evidenti di una questione. Ma la tesi che sottende questa introduzione, come pure le sezioni successive di questo volume che esaminano i temi dell’occupazione e del luogo di lavoro, del genere e dell’identità sociale, e dell’immigrazione nel cinema italiano, è che un gran numero di film del XXI secolo mostrano una spiccata sensibilità politica nel tentativo di risalire alle origini sistemiche dei fattori socio-economici che influenzano gli individui. In assenza, nel frammentato panorama politico d’Italia, di una ideologia esterna ispiratrice, o di quella che è stata descritta come una “overarching totalizing vision that can connect local and specific struggles to a broader narrative of emancipation” (O’Shaughnessy, 2007: 9-10), molti dei film più efficaci riescono strategicamente ad avere una risonanza personale per lo spettatore, prima di ampliare la loro prospettiva al di là della diegesi del film. L’Italia continua ad attraversare un periodo caratterizzato dalla lotta per l’egemonia politica e culturale, un’epoca in cui una serie di ostacoli istituzionali sono stati utilizzati per impedire la creazione e la distribuzione di un cinema di denuncia. I film discussi nei saggi raccolti in questo volume, ciascuno dei quali fa onore alla responsabilità assunta da singoli registi nel portare alla luce questioni delicate e controverse, sono testimonianza importante dei livelli di ingiustizia, disuguaglianza e repressione nella società italiana e nel mondo industrializzato, dai luoghi di lavoro ai centri di identificazione ed espulsione. Mettendo in evidenza questi problemi in forma cinematografica, e portandoli al centro del dibattito contemporaneo, è stato fatto un passo importante verso la creazione di un nuovo cinema politico e verso la sensibilizzazione politica di una generazione disabituata a mettere in discussione e contestare le azioni delle élites politico-economiche d’Italia.

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Per un resoconto del destino di film come Bye Bye Berlusconi (2006) di Jan Stahlberg, si veda Marco Giusti, “Chi li ha visti?”, Il Venerdì di Repubblica, 8 agosto 2008, 60-63. Si veda il sito web dell’organizzazione Reporters without Borders: http://en.rsf.org/ pressfreedom-index-2011-2012,1043.html Giornalisti illustri come Enzo Biagi sono stati licenziati senza tanti complimenti e notiziari principali come il Tg1 hanno subito un processo di depoliticizzazione sotto l’influenza di xix

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direttori come Clemente Mimun e Augusto Minzolini. Louis Bayman, “The Resistable Rise of the Videocracy”, Socialist Review, settembre 2010. http://www.socialistreview.org.uk/article.php?articlenumber=11373 Film mainstream come Ricordati di me di Gabriele Muccino (2003) e Reality (2012) di Matteo Garrone hanno anche affrontato il tema dell’ossessione della gente con la celebrità. Per una discussione delle conseguenze dello ‘stupore emozionale’ della gente nell’ambito di contesti culturali e mediatici, si veda William Hope,“Introduction” a Italian Film Directors in the New Millennium, 3-5. Si veda Bill Nichols, Representing Reality, p. x., per una discussione della necessità dei documentaristi di giustificare e dar conto della loro presenza dietro la macchina da presa e del loro effetto sulla vita delle persone che vengono riprese, osservazioni che sollevano domande interessanti nel caso di Sabina Guzzanti.

Bibliografia Bayman, L. (2010) “The Resistable Rise of the Videocracy”, Socialist Review online, settembre 2010. http://www.socialistreview.org.uk/article.php?articlenumber=11373 Ultimo accesso, settembre 2012. Brunelli, R. (2010) “Bondi: ‘Draquila offende l’Italia’ ”, L’Unità online, 8 maggio 2010. http://www.unita.it/sociale/bondi-quot-draquila-offende-l-039-italia-quot-cannes-ilministro-declina-l-039-invito-e-scoppia-la-polemica-con-i-finiani-1.3471 Ultimo accesso, ottobre 2012. Canova, G. (2005) (a cura di) Il lato oscuro delle macchine, Roma: Carocci. Fanchi, M. (2007) “Il cinema italiano nei contesti di visione” in Casetti, F., e Salvemini, S. (a cura di) È tutto un altro film, Milano: Egea, 113-124. Fantoni Minnella, M. (2004) Non riconciliati: politica e società nel cinema italiano dal neorealismo a oggi, Torino: UTET libreria. Giusti, M. (2008) “Chi li ha visti?”, Il Venerdì di Repubblica, 8 agosto 2008, 60-63. Hope, W. (2010) Italian Film Directors in the New Millennium, Newcastle: Cambridge Scholars Publishing. Jameson, F. (1989) The Political Unconscious, London: Routledge. Nichols, B. (1991) Representing Reality, Bloomington and Indianapolis: Indiana University Press. O’Leary, A. & O’Rawe, C. (2011) “Against realism: on a ‘certain tendency’ in Italian film criticism”, Journal of Modern Italian Studies, 16: 1, 107-128. O’Shaughnessy, M. (2007) The New Face of Political Cinema: Commitment in French Film Since 1995, New York, Oxford: Berghahn. Trotsky, L. (2005) Literature and Revolution, a cura di Keach, W., Chicago: Haymarket Books. Zagarrio, V. (2006) (a cura di) La meglio gioventù: Nuovo cinema italiano 2000-2006: Venezia: Marsilio.

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Relazioni industriali e luoghi di lavoro nel cinema del nuovo millennio

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William Hope

Introduzione: Lavoro e alienazione nel cinema del XXI secolo

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in dalla metà degli anni Novanta, i governi di centro destra e di centro sinistra che si sono succeduti hanno sostenuto ed approvato diverse leggi in materia di lavoro, quali la Legge Treu del 1997 e la Legge Biagi/Maroni del 2003. Queste iniziative hanno rappresentato un vero e proprio smottamento sismico nella natura delle relazioni industriali italiane ed hanno privato ampi settori del mondo del lavoro di una serie di diritti, primo fra tutti quello relativo alla nozione di ‘posto fisso’. Elementi della Costituzione italiana che vanno dal concetto di lavoro come diritto – e non un privilegio – a quello per il quale i lavoratori devono ricevere una retribuzione proporzionale alla quantità e qualità del lavoro svolto, sono stati, come ha osservato Marco Rovelli, cinicamente erosi (Rovelli, 2008: 5). Questo processo, a parte sporadiche proteste localizzate, è stato in generale assimilato con rassegnazione e remissività. Il cinema del nuovo millennio, all’interno di entrambe le sue forme – commerciale e non – ha registrato i cambiamenti nel panorama socio-economico italiano e in esso si può discernere una chiara volontà da parte di molti registi di indagare gli eccessi, le assurdità e le oscenità causate dalla crisi del sistema capitalistico. La trattazione cinematografica dei dannosi effetti sociali di fenomeni quali i contratti a tempo determinato, la vittimizzazione e le morti nei posti di lavoro – queste ultime allusivamente chiamate morti bianche 1 – hanno ristabilito la visibilità di situazioni umane che sono spesso confinate all’anonimità e all’astrattezza delle statistiche ufficiali (laddove esse esistano), nonchè alla limitata copertura che i media e la stampa dedicano in genere alle questioni del lavoro. L’esplorazione di dette questioni nell’ambito del cinema commerciale ha avuto il merito di sensibilizzare gli spettatori contemporanei verso tali problematiche. Ma, come indicato nella precedente introduzione generale a questo volume, quest’impulso progressista è stato talvolta viziato da una pedissequa ripetizione di formule strutturali proprie dei generi popolari – come la commedia – e da prospettive che rimangono invariabilmente borghesi. In particolare, l’ormai logoro scenario di studenti universitari idealistici formanti quella parte che Marx chiamava 3

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“the industrial reserve army” (Marx, 1999: xxi); una vasta riserva di lavoratori precari o disoccupati, usati per abbattere i salari e per massimizzare i profitti. Il purgatorio personale di tale riserva è spesso rappresentato da call center o da luoghi di lavoro open-space sperzonalizzanti (Fuga dal call center di Federico Rizzo (2008), Tutta la vita davanti di Paolo Virzì (2008) e Generazione 1000 euro di Massimo Venier (2009)). Anche altri elementi della vita lavorativa moderna hanno avuto una certa risonanza nel cinema italiano; lo smantellamento del settore manufatturiero ed il superamento di altre forme tradizionali di produzione, sono stati esplorati in film quali Baci e abbracci di Paolo Virzì (1999). La conseguenza di questi processi – cioè la necessità costante per l’individuo di dover reinventare se stesso al fine di soddisfare la domanda di flessibilità totale imposta dall’odierno mercato del lavoro – costituisce il centro focale del saggio di Marco Paoli in questa sezione del volume. Allo stesso modo, questioni come la continua migrazione da aree economicamente deprivate dell’Italia, dell’Europa e dell’Africa in cerca di lavoro, nonchè la difficoltà a stabilire nuove forme di imprenditorialità e di meritocrazia a fronte delle gerontocrazie e dei monopoli italiani, sono state affrontate in alcuni film; in particolare in Cover Boy: l’ultima rivoluzione (2008) di Carmine Amoroso, la cui trama condensa tutti questi fenomeni. Il film è incentrato sulle tribolazioni di Ioan, un intraprendente immigrato rumeno, e di Michele, un italiano in bilico tra un lavoro di pulizie precario e la disoccupazione. I due si rendono conto di quanto la burocrazia di Stato e le istituzioni finanziarie blocchino le iniziative imprenditoriali del proletariato, a differenza di quanto invece esse facilitino le élites economiche del Paese nel loro sfruttamento del ‘libero’ mercato – in termini di delocalizzazione dei loro affari e capitali in tutto il mondo – alla ricerca di profitti immediati. Come conseguenza, Ioan e Michele concludono che forse la Romania potrebbe essere il luogo più adatto a realizzare il loro progetto di aprire un locale. Invece, il documentario di Francesca Comencini In fabbrica (2007) usa filmati di repertorio nel suo ripercorrere in senso cronologico la diminuzione del ruolo sia dello Stato italiano che dell’industria nella creazione di nuove opportunità di lavoro, come pure nel miglioramento dello sviluppo personale e professionale dei lavoratori e delle loro comunità. Anche In fabbrica ritrae il crescente senso di frustrazione vissuto nei luoghi di lavoro, attraverso la dequalificazione dei lavoratori. E una variazione significativa e sempre in aumento di questo stato mentale, così come rappresentato nel cinema contemporaneo, è l’alienazione che colpisce anche singoli imprenditori e dirigenti, come descritto in Cuore sacro (2005) di Ferzan Ozpetek e L’industriale (2012) di Giuliano Montaldo. Questi lavori – insieme agli altri film del sottogruppo sopracitato, centrati sul disinganno delle nuove generazioni di laureati – indicano un crescente malessere della classe media italiana ed una consapevolezza della propria vulnerabilità nel contesto del capitalismo del XXI secolo. Un contesto dove i colletti bianchi si ritrovano ad essere sacrificabili come gli operai, senza riguardo alle differenze socio-economiche delle loro posizioni, e dove la possibilità di un impiego statale sicuro appare sempre più remota. Mentre la natura ‘politica’ di molti dei film italiani contemporanei scaturisce dal 4

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loro indagare le difficoltà socio-economiche affrontate dagli individui, partendo dal micro livello per risalire al macro livello dei fattori politici, ci sono relativamente pochi esempi di opere propositive, didattiche e capaci di galvanizzare il pubblico; opere che mettano in rilievo, per esempio, l’importanza della solidarietà collettiva a fronte del deterioramento delle condizioni di lavoro. Tuttavia, film commerciali quali Il posto dell’anima (2003) di Riccardo Milani e Signorina Effe (2008) di Wilma Labate mettono in primo piano il concetto della resistenza di gruppo nel difendere gli interessi dei lavoratori. Mentre in ambito non-commerciale emerge un’opera veramente interessante, realizzata dagli operai dello stabilimento Ferrari di Modena. Il loro A zupp’ e fasul’ (2012) è un documentario provocatorio, girato per sensibilizzare il pubblico alla loro lotta contro l’imposizione di condizioni di lavoro peggiorative. Grazie alle nuove possibilità date dalle tecniche digitali e dai software per il montaggio filmico, l’iniziativa dei metalmeccanici ha potuto bypassare i problemi che il cinema incontra spesso quando vuole rappresentare la vita della classe lavoratrice, in quanto esso è “incline per un verso a ritenere la figura dell’operaio un soggetto assai poco avvincente da raccontare sullo schermo, e per l’altro a esaltare tale figura in quanto portatrice di valori ‘di classe’” (Fantoni Minnella, 2004: 76). A zupp’ e fasul’ è un instant movie totalmente indipendente, girato senza nessun condizionamento commerciale e senza nessun’agenda intellettuale. Esso riveste un significato particolare per il suo mostrare direttamente l’attivismo del sindacato contemporaneo. Infatti, la figura del sindacalista nel cinema italiano del XXI secolo è, nel migliore dei casi, elusiva. Sullo schermo sono passati ritratti agiografici di sindacalisti-martiri appartenuti alle prime fasi storiche del sindacalismo italiano, come nei film di Pasquale Scimeca Placido Rizzotto (2000) e Giuseppe Ferrara Guido che sfidò le Brigate Rosse (2007); mentre altri film e documentari come Signorina Effe e In fabbrica hanno avuto una risonanza storico-politica nel loro ripercorre il sindacalismo dall’apice della sua influenza, nel periodo che va dalla fine degli anni Sessanta agli inizi degli anni Settanta, al suo declino agli inizi degli anni Ottanta. Declino verificatosi in conseguenza sia dell’alienazione della classe operaia provocata dall’azione delle Brigate Rosse, sia dalla cosiddetta Marcia dei quarantamila a Torino nell’ottobre 1980, durante la quale migliaia di impiegati e quadri della Fiat indebolirono in modo drammatico le azioni di sciopero dei loro colleghi operai. Un evento che segnò un punto di non ritorno per il potere di influenza del sindacato. In merito all’evoluzione e successiva involuzione delle relazioni industriali e delle condizioni di lavoro in Italia, la Fiat continua a ricoprire un punto di riferimento iconico nella coscienza dei lavoratori e anche sullo schermo. Il ruolo storico della Fiat non solo nel fornire posti di lavoro localmente, ma anche nel rafforzare il tessuto sociale di zone del sud Italia come la Basilicata, è rivisitato nel documentario di Daniele Vicari Il mio paese (2006) e nel film di Vincenzo Marra Vento di terra (2004). Il mutamento nell’equilibrio delle relazioni tra il sindacato e la dirigenza della Fiat, provocato dagli eventi dell’ottobre del 1980, e la successiva erosione dei diritti dei lavoratori formano lo scenario socio-politico del film Le ragioni dell’aragosta (2007) di Sabina Guzzanti e 5

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del documentario Sic Fiat Italia (2011) di Daniele Segre. Il documentario indaga le implicazioni del ‘referendum’ imposto ai lavoratori dell’impianto Fiat Mirafiori di Torino nel gennaio 2011, dove essi furono forzati a scegliere tra peggiori condizioni di lavoro o la chiusura dell’impianto. Questa forma di ricatto – autorizzato dallo Stato italiano in quanto nessuna ripercussione legale fu messa in atto sul responsabile, Sergio Marchionne, amministratore delegato del Gruppo Fiat – esemplifica un tema ricorrente che trascende le rappresentazioni nel cinema italiano dei diversi problemi che affliggono il mondo del lavoro, cioè quello del capitalismo criminale. Esso si manifesta, per esempio, attraverso la creazione di luoghi di lavoro non regolamentati, dove i lavoratori diventano sempre più sacrificabili nella corsa al profitto. Un tema, questo, che è al centro della restante parte di questa introduzione.

I lavoratori e il capitalismo criminale Il termine ‘criminale’ è usato deliberatamente nei paragrafi che seguono, per enfatizzare il crescente parallelismo tra quasi ogni settore industriale – dal bancario all’edile – e la tradizionale associazione del termine stesso alle organizzazioni criminali. Il “principio della ‘non-ingerenza’ negli affari”, così come identificato da Trotsky già nel lontano 1938, continua a rendere tutti i tentativi per stabilire principi di trasparenza e responsabilità “farse patetiche finché i proprietari privati dei mezzi sociali di produzione potranno nascondere a chi produce e a chi consuma i loschi meccanismi dello sfruttamento, del saccheggio e della frode” (Trotsky, 2008: 84). A questo riguardo il film di Francesca Comencini A casa nostra (2006) raffigura la protervia delle intoccabili élites politico-finanziarie italiane. Mentre L’ora di punta (2007) di Vincenzo Marra è un ritratto esteticamente elegante ma desolato dell’alto livello di corruzione all’interno della Guardia di Finanza. La fusione di interessi economici privati – quali quelli di Silvio Berlusconi come conseguenza dei suoi successi elettorali – con gli apparati dello Stato, ha garantito il graduale smantellamento di molte leggi a tutela della dignità dei lavoratori sui luoghi di lavoro. Le gravi conseguenze generate da tale contesto malato ricorrono nelle storie di molti dei film del nuovo millennio. A un livello puramente economico, questa mancanza di protezione dei lavoratori incoraggia pratiche senza scrupoli, come quella di obbligare i nuovi assunti a frequentare corsi di formazione senza essere pagati. Una condizione satirizzata da Rizzo nel suo Fuga dal call center. Oppure quella di penalizzare economicamente i lavoratori se gli ‘obiettivi’ di lavoro – tipo condurre ogni telefonata entro un tempo prestabilito – non vengono raggiunti. Un fenomeno esplorato da Ascanio Celestini in Parole sante (2007), un documentario strutturato intorno ad interviste ai lavoratori del call centre Atesia di Roma, e che forma la base del saggio di Paolo Chirumbolo in questa sezione. Protette dalla connivenza dello Stato, sezioni dell’industria italiana oggi si rifiutano semplicemente di riconoscere sindacati come la Fiom-Cgil, (Ariis, 2012), mentre si 6

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verificano numerose situazioni di aziende che usano metodi intimidatori per scoraggiare la presenza dei sindacati al loro interno (Rovelli, 2008: 127-133). Una situazione intollerabile che, comunque, non ha provocato nessuno sciopero generale da parte dei maggiori sindacati italiani. La mancanza di sicurezza collettiva nei luoghi di lavoro ed il drammatico effetto della conseguente vulnerabilità, e quindi timore, provati dai lavoratori, sono stati indagati in film incentrati sia su drammi individuali dei lavoratori, come Mi piace lavorare – Mobbing (2004) di Francesca Comencini, analizzato qui da Bernadette Luciano e Susanna Scarparo, sia sul soggiogamento di un’intera forza lavoro, come esemplificato in Tutta la vita davanti di Virzì. In particolare nella sequenza che mostra la visita del sindacalista Giorgio Conforti (Valerio Mastandrea) all’azienda Multiple. Nel suo giro, il sindacalista viene scortato dal dirigente dell’azienda che gli preclude così qualsiasi possibilità di parlare con le telefoniste nervose e spaventate. Mentre il film getta luce sulla sconcertante adesione delle lavoratrici alle pratiche repressive dell’azienda, un fenomeno discusso da Maria Elena D’Amelio nel suo saggio sul film, il modo in cui Virzì applica alla narrativa una cornice da favola e usa una messa in scena basata sul luccicante simulacro di un call centre tutto popolato da ragazze attraenti, appare incongruente rispetto alle testimonianze incluse in Parole sante di Celestini. Nelle loro testimonianze i centralinisti di Atesia ammettono che fu proprio la prospettiva di lavorare con colleghe carine ad indurli a fare domanda di assunzione presso l’azienda. Tutt’altra la realtà che avevano trovato: un luogo deprimente, con condizioni igieniche inesistenti dove i guasti alle attrezzature erano la norma. Se si eccettuano occasionali iniziative del governo, solitamente di reazione piuttosto che di prevenzione – tipo il lieve aumento del numero degli ispettori del lavoro nel 2008, dopo il disastro industriale della ThyssenKrupp avvenuto nel dicembre del 2007, e i piccoli incentivi messi a disposizione degli imprenditori, da destinare ad una migliore formazione dei propri dipendenti in materia di salute e sicurezza (Sorbetto, 2011: 28) – l’impressione prevalente che si evince sia dagli schermi che dalla realtà è quella di lavoratori che ricevono una tutela trascurabile da parte dello Stato. Di contro, gli imprenditori hanno la libertà di ricavare il massimo profitto dal processo di produzione e di delocalizzare le loro imprese in aree dove la manodopera è più a buon mercato, senza incorrere in nessuna sanzione. Un fenomeno evidenziato nel documentario/road movie La strada di Levi (2006) di Davide Ferrario. Lo sguardo sprezzante di un’operaia di una fabbrica in Romania, in risposta alla richiesta di esprimere una sua opinione sul suo datore di lavoro del Veneto, è uno dei molti incontri significativi durante il film. La strada di Levi, con la sua succinta descrizione di come un imprenditore italiano si approfitta della delocalizzazione, rappresenta una eccezione importante nel contesto di una tendenza, predominante nei film di finzione, dove sono invece le aziende italiane a passare nelle mani di cinici dirigenti stranieri. Figure, queste, incarnate dall’amministratore scozzese che licenzia i dipendenti a suo piacimento in Generazione 1000 euro di Venier; dai freddi dirigenti francesi e asiatici che obbligano Marco Pressi 7

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(Giorgio Pasotti) a licenziare oltre un quarto dei propri dipendenti in Volevo solo dormirle addosso (2004) di Eugenio Cappuccio, e dagli investitori cinesi che rilevano un’azienda italiana ne La stella che non c’è (2006) di Gianni Amelio. Questa tendenza verso la creazione di una opposizione manichea tra spietate incarnazioni estere del Capitale e la loro sottomissione di affabili simboli italiani del Lavoro, esemplifica un ricorso a stereotipi di convenienza nell’ambito di certi film di finzione commerciali; un approccio ottuso che non rileva la natura transnazionale delle élites e dei cartelli politicoeconomici. Facendo eco a questo senso di elusività e inafferrabilità della natura del Capitale, una sensazione di extraterritorialità pervade anche certe zone dell’Italia stessa, le quali sembrano essere al di là del controllo dei pochi ispettori del lavoro. Alcune di queste zone hanno fatto da sfondo a film contemporanei, in particolare la vasta regione del Gran Sasso in L’orizzonte degli eventi (2005) di Daniele Vicari, un film centrato parzialmente su un pastore albanese costretto a lavorare nella regione da suoi connazionali mafiosi. Gomorra (2008), di Matteo Garrone, è una panoramica di aree off-limits della Campania, dove il lavoro in nero è la norma piuttosto che l’eccezione. L’aspro realismo delle sequenze che mostrano queste forme di lavoro ricorda le scene di produzione industriale descritte da Marx ne Il Capitale; le carrellate su dozzine di operai cinesi mentre in misere condizioni producono abiti eleganti, richiama alla mente l’osservazione di Marx su come la potenzialità del lavoro umano abbia la caratteristica di essere capace di produrre un valore più grande di quello che esso stesso ha (Marx, 1999: xvii-xviii). La mancata capacità, e a volte volontà, di far rispettare le norme, seppure inadeguate, a protezione dei lavoratori, fa sì che si verifichi uno sfruttamento illimitato di questa potenzialità del lavoro. Più avanti nel film, quando mostra il designer e sarto Pasquale osservare sconsolato una delle sue creazioni venire indossata in televisione, Gomorra implicitamente ribadisce il punto di vista di Marx sull’astrazione del lavoro. Nell’analizzare l’effetto sulla popolazione di tali merci desiderabili, Marx osserva che è fin troppo facile “[to] put out of sight both the useful character of the various labour embodied in them and the concrete forms of that labour” (Marx, 1999: 15).

I lavoratori e la lotta per la sopravvivenza Ci sono altre conseguenze, ancora più pericolose, che derivano dall’attitudine liberista dello Stato verso la produzione industriale e il conseguimento ad ogni costo del massimo profitto degli azionisti. Sebbene le acciaierie Ilva siano vitali per l’economia della città di Taranto, esse sono sotto accusa per non aver rispettato le norme sulla salute e la sicurezza sul lavoro, e per aver violato le leggi antinquinamento. Comportamenti che magistrati, analisti e attivisti ritengono responsabili per l’alta incidenza di problemi respiratori e di tumori che si verificano nel territorio (Balduzzi, 2012; Casula, 2012). Una parte de Il mio paese di Vicari cattura una simile atmosfera piena di tensione. Ciò 8

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avviene durante le riprese di un’assemblea pubblica a Porto Marghera, dove la comunità si divide sulla questione di una fabbrica locale che causa un forte inquinamento, ma che è anche la loro fonte di sostentamento. Una risorsa di lavoro con cui la popolazione non può letteralmente nè convivere nè vivere senza. L’importanza del lavoro nonostante i suoi rischi potenziali è un concetto reso visivamente efficace da Daniele Segre, attraverso struggenti inquadrature in campi lunghi della protesta dei lavoratori sardi oggetto del suo documentario Asuba de su serbatoiu (Sul serbatoio) (2000). I lavoratori sono ripresi sul tetto di una cisterna di gas che si innalza per molti metri sul desolato territorio sardo battuto dal vento; un gesto che fa parte dei disperati tentativi della comunità di Villacidro, vicino Cagliari, di conservare i loro posti di lavoro presso una fabbrica di batterie. Come per Vittorio De Seta prima di lui, i lavoratori e il loro rapporto con il posto di lavoro sono stati spesso la fonte di ispirazione per i film di Segre. Temi che si ritrovano anche in Morire di lavoro (2008), un’indagine, basata su interviste, sulle morti nei cantieri edili di varie regioni italiane, dalla Campania al Piemonte. In quest’ultima regione, la terribile esplosione allo stabilimento ThyssenKrupp del dicembre 2007 – una tragedia dovuta ancora una volta alla criminale negligenza dei responsabili dell’azienda – ha costituito la base per due film: La fabbrica dei tedeschi (2008) di Mimmo Calopresti e ThyssenKrupp Blues (2008) di Pietro Balla e Monica Repetto. Quest’ultimo viene analizzato in questa sezione da Flavia Laviosa. La strategia narrativa del film è imperniata sulla personale testimonianza di Carlo Marrapodi, un sopravvissuto all’esplosione, la cui vulnerabile umanità individuale risulta importante nel combattere la già citata tendenza all’astrazione da parte delle istituzioni, dell’industria e della stampa. Ancora più importante quando ci sono di mezzo vittime delle politiche economiche neoliberiste, quali le morti bianche. L’opera di smantellamento da parte dello Stato dei diritti che i lavoratori si erano conquistati nell’arco di settant’anni – un peggioramento delle condizioni di lavoro che viene analizzato da Fabiana Stefanoni nel suo saggio in questa sezione – trova sempre più riscontro nel cinema italiano, attraverso la rappresentazione di personaggi le cui vite sono condizionate o addirittura stroncate a causa del lavoro che fanno. Un’articolazione comune di questo concetto viene data attraverso la rappresentazione degli effetti devastanti dello stress e delle umiliazioni sopportati sul posto di lavoro. Una forma di brutalizzazione che viene assorbita interiormente dai personaggi, per poi riemergere ad erodere le loro relazioni interpersonali. Anche questo fenomeno colpisce sia la borghesia che la classe lavoratrice, come esemplificato dal liquidatorio trattamento del manager Michele (Antonio Albanese) in Giorni e nuvole (2007) di Silvio Soldini, dove il conseguente licenziamento di Michele stravolge il suo matrimonio mettendolo a repentaglio. Anche Riprendimi (2008) di Anna Negri scandaglia come il lavoro precario mini la relazione di una giovane coppia. Altri film hanno reso più esplicito il segno indelebile lasciato sui lavoratori da ambienti di lavoro che hanno causato loro danni fisici anzichè psicologici. Di questo tema tratta Due amici (2002) di Spiro Scimone; il regista usa come meccanismo narrativo la persistente tosse di cui è 9

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affetto l’immigrato Nunzio, in conseguenza dei fumi da lui respirati sul suo posto di lavoro. Anche in Volevo solo dormirle addosso di Cappuccio la narrativa è caratterizzata dalla presenza di un trauma latente nella back story del protagonista Marco Pressi, e precisamente la morte di suo padre per cancro connesso, appunto, alle inalazioni tossiche respirate sul lavoro. La morte di protagonisti legata al problema di guadagnarsi da vivere e migliorare le loro vite rimane un finale comparativamente raro nel cinema italiano contemporaneo, nonostante l’alto numero di incidenti mortali sui luoghi di lavoro e l’inquietante fenomeno dei suicidi, sia di piccoli imprenditori messi nelle condizioni di non poter tenere a galla le loro aziende, sia di dipendenti licenziati2.Tuttavia qualche esempio c’è, come Sul mare (2010) di Alessandro D’Alatri che include un incidente mortale in un cantiere edile – il tipo più comune di fatalità sul lavoro – e Vento di terra di Marra. Qui il protagonista è Vincenzo, un giovane che con autodeterminazione sceglie di perseguire una carriera nell’esercito piuttosto che farsi coinvolgere nelle attività del crimine organizzato che controlla il suo paese, Secondigliano. Dopo essere sopravvissuto ad una pericolosa spedizione in Kosovo,Vincenzo scopre che la sua salute cagionevole è legata all’esposizione all’uranio avvenuta durante il suo servizio nei Balcani. Questa forma di beffa, dopo l’odissea personale di Vincenzo in cerca di un lavoro dignitoso, sicuro e retribuito, così come sancito dalla Costituzione del suo Paese, illustra fino a che punto la nozione di lavoro sia diventata anche un ideologema, secondo l’analisi di Jameson. Un punto di conflitto, già discusso nell’introduzione generale a questo volume, dove le forze reazionarie politiche ed economiche si scontrano con impulsi più progressisti. Il Lavoro è un terreno di scontro per il conflitto di classe, percepito o come un mezzo per massimizzare il profitto per le élites, le corporazioni e gli azionisti – come pure per consolidare o estendere l’egemonia politica – o come pietra angolare della dignità umana, della possibilità di espressione individuale e autorealizzazione. Queste contrastanti ed inconciliabili percezioni del lavoro nella società italiana del XXI secolo sono state ripetutamente ed efficacemente convogliate nel cinema del nuovo millennio, attraverso il filtro del ‘personale’, per illustrare l’effetto profondo sulle vite private degli individui provocato dal deteriorarsi delle condizioni di lavoro. Di conseguenza, come discusso nell’introduzione generale, è possible affermare che nel contesto del tradizionale legame tra periodi di fermento socio-politico e radicalismo cinematografico – due elementi che hanno solitamente caratterizzato epoche in cui un cinema politico riconoscibile si è evoluto in Italia – molti film centrati sul tema del lavoro si sono caratterizzati per una coerenza rigorosa e incisiva e per uno spirito di denuncia che la frammentata sinistra parlamentare non è riuscita finora ad emulare.

Note 1

Rovelli giustamente mette in discussione la semantica di questo termine: “Chi ha

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cominciato a usare l’espressione ‘morti bianche’ ha contato sull’accettazione condivisa della naturalità e ineluttabilità della morte per estenderla alle morti sul lavoro […] nessuno è responsabile, le responsabilità sono lavate via con uno straccio di parola, un aggettivo che purifica e cancella ogni macchia, cosicché nessuno sarà chiamato a rispondere per un evento naturale e ineluttabile”. (Rovelli, 2008: 14). Vedere il blog gestito da L’Osservatorio Indipendente di Bologna morti per infortuni sul lavoro: http://cadutisullavoro.blogspot.co.uk/

Bibliografia Ariis, T. “Fiom fuori dall’azienda ma è lo stesso la più votata”, Messaggero Veneto, 19 maggio 2012. http://messaggeroveneto.gelocal.it/cronaca/2012/05/19/news/ fiom-fuori-dallazienda-ma-e-lo-stesso-la-piu-votata-1.4814889 Ultimo accesso, settembre 2012. Balduzzi, E. (2012) “Ilva di Taranto: l’inquinamento che uccide”, Diritto di critica, 2 marzo 2012. http://www.dirittodicritica.com/2012/03/02/ilva-taranto-inquinamento-perizia-82012/ Ultimo accesso, settembre 2012. Casula, F. (2012) “Ilva di Taranto, perizia choc: “90 morti all’anno per emissioni nocive della fabbrica”, Il Fatto Quotidiano, 2 marzo 2012. http://www.ilfattoquotidiano.it/ 2012/03/02/ilva-taranto-emissioni-inquinamento/194928/ Ultimo accesso, ottobre 2012. Fantoni Minnella, M. (2004) Non riconciliati: politica e società nel cinema italiano dal neorealismo a oggi, Torino: UTET libreria. Marx, K. (1999) Capital, an abridged edition, a cura di McLellen, D., Oxford: Oxford University Press. Trotsky, L. (2008) Programma di transizione: l’agonia mortale del capitalismo e i compiti della Quarta Internazionale, traduzione di Fabiana Stefanoni, Bolsena, Massari editore. Rovelli, M. (2008) Lavorare uccide, Milano: BUR. Sorbetto, C. (2011) “Lotta al lavoro nero e alle morti bianche”, La Sicilia, 10 agosto 2011. http://www.inail.it/repository/ContentManagement/information/ N1328745953/131TXE.pdf Ultimo accesso: novembre 2012.

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Fabiana Stefanoni

Crisi, lavoro e sindacato nell’Italia di oggi

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e è vero, come diceva Marx, che l’essere determina la coscienza, è vero anche che il cinema italiano non può che riflettere la realtà sociale dell’Italia. Non a caso, sono sempre più i film che rappresentano la crisi economica. Spesso la farsa prevale sulla tragedia, quasi a voler edulcorare l’amara realtà: a dimostrazione che l’industria culturale non rinuncia, ove necessario, a svolgere il ruolo di pompiere del conflitto sociale. I film che hanno come tema il lavoro parlano di precarietà, disoccupazione, futuro incerto. Basti pensare, a titolo di esempio, a Tutta la vita davanti (2008) di Paolo Virzì, un film che descrive la precarietà del lavoro come un morbo in grado di contagiare tutte le sfere della vita, dalle relazioni sentimentali a quelle amicali. Il fatto che in Italia non abbiano ancora preso vita grandi lotte di massa si riflette anche nelle vie d’uscita suggerite dai film che parlano della crisi: si tratta sempre di scappatoie individuali, spesso l’unica soluzione implicitamente suggerita è:‘guardate le cose con uno sguardo diverso, siate rassegnati e ottimisti’. Il ripiegarsi sugli affetti privati è l’opzione più gettonata: dove non può il lavoro, riescono l’amore e la famiglia. Pensiamo, ad esempio, a Giorni e nuvole (2007) di Silvio Soldini, dove la crisi economica di una coppia diventa l’occasione per riscoprire l’affetto e l’amore tra marito e moglie. Alla perdita del lavoro non c’è soluzione concreta, ma dall’angoscia che ne deriva si aprono nuove possibilità di riscatto morale. Probabilmente solo l’ascesa delle lotte potrà favorire la rinascita del cinema italiano, esattamente come è avvenuto nel secondo dopoguerra (sull’onda della Resistenza) e negli anni Sessanta e Settanta (sulla spinta delle grandi lotte operaie e studentesche). In questo saggio mi soffermo ad analizzare quali sono le caratteristiche del mondo sociale italiano (in particolare sul versante politico e sindacale) che fino ad oggi hanno impedito lo sviluppo di lotte di massa e, quindi, indirettamente, la ‘rinascita’ del cinema italiano.

Crisi economica e mondo del lavoro La crisi in cui è sprofondato il sistema capitalista si traduce in attacchi pesantissimi alla 12

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classe lavoratrice, a partire dai suoi strati più oppressi e sfruttati: immigrati, donne, precari. È la peggiore crisi economica dal 1929, che ha avuto inizio nel 2007 con lo scoppio della bolla speculativa nel mercato immobiliare degli Usa; fatto che ha messo in luce la fragilità del sistema bancario e finanziario statunitense e internazionale, innescando un crollo a catena delle economie di tutto il mondo. A differenza di quanto molti economisti cercano di farci credere, la crisi non è solo finanziaria. Se è vero che la crescita economica degli anni precedenti si è fondata su uno sviluppo abnorme del settore finanziario – con la conseguente moltiplicazione di fenomeni speculativi – le ragioni di questa crisi sono strutturali. La base di ogni crisi economica, nel capitalismo, è quella che Marx chiamava la “caduta tendenziale del saggio di profitto” 1, cioè un fenomeno intrinsecamente connesso al sistema capitalistico, che si può aggravare in presenza di un’“ipertrofia del sistema finanziario mondiale” 2. La crescita abnorme del settore speculativo riflette la tendenza strutturale del capitalismo ad essere sempre meno produttivo e sempre più speculativo e parassitario. La crisi del sistema fin da subito si è concretizzata, anche in Italia, nel crollo della produzione industriale, con il conseguente fenomeno dei licenziamenti di massa. Parallelamente, i governi hanno iniziato a lanciare megapacchetti di aiuti alle banche e ai mercati finanziari, per un valore economico pari al 40% del Pil mondiale. Questo ha determinato l’aumento del debito pubblico di molti Paesi europei, inclusa l’Italia (in particolare i cosiddetti Piigs, Portogallo, Irlanda, Italia, Grecia, Spagna: ma la crisi del debito non risparmia nessun Paese europeo). Oggi l’Italia si trova con il secondo debito pubblico più alto d’Europa, dopo la Grecia. È un debito che deriva dal fatto che il governo Berlusconi, in continuità con le politiche del precedente governo Prodi, aveva elargito finanziamenti, diretti e indiretti, alle banche e alle industrie. Oltre a ricevere consistenti pacchetti di aiuti diretti, i capitalisti italiani hanno beneficiato di finanziamenti indiretti a sostegno dei loro profitti: basti pensare agli incentivi alla Fiat, o alle decine di miliardi di euro per gli ammortizzatori sociali. In Italia, l’utilizzo su larga scala degli ammortizzatori sociali (cassa integrazione, mobilità, ecc.) è stato uno dei mezzi con cui i governi (Prodi, Berlusconi, Monti) hanno utilizzato i soldi pubblici – cioè, in ultima istanza, i soldi dei lavoratori – per sostenere i profitti padronali. Si tratta, in poche parole, di forme di finanziamento indiretto che i governi elargiscono alle aziende o per sostenerle nei momenti di crisi di mercato (lo Stato paga agli operai, al posto dell’azienda, un salario ridotto, chiamato appunto cassa integrazione ordinaria) o per accompagnarle nelle operazioni di dismissione e chiusura di stabilimenti (in questo caso si parla di cassa integrazione straordinaria, cassa in deroga, mobilità, ecc.). Di fatto, una quantità enorme di soldi pubblici – pagati con le tasse dei lavoratori – è stata regalata ad aziende che hanno poi chiuso o spostato la produzione all’estero. Il caso più noto ed eclatante è quello della Fiat che, dopo aver ottenuto quasi 8 miliardi di finanziamenti sotto forma di incentivi e decine di miliardi nella forma degli ammortizzatori sociali, ha poi annunciato la dismissione di gran parte degli 13

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stabilimenti in Italia per trasferire la produzione all’estero (Brasile, Serbia, Polonia) dove la forza-lavoro costa meno. Grazie alla complicità delle burocrazie sindacali il finanziamento degli ammortizzatori sociali ha permesso anche di conservare nel nostro Paese una condizione di relativa pace sociale, ostacolando l’organizzazione di una risposta di massa della classe lavoratrice ai pesantissimi attacchi di governo e Confindustria. Quando parliamo di burocrazie sindacali, ci riferiamo in particolare agli apparati dei tre più grandi sindacati italiani: la Cgil, la Cisl e la Uil. Si tratta di tre grandi confederazioni sindacali, che raggruppano milioni di lavoratori di tutte le categorie, dai metalmeccanici ai chimici ai lavoratori del pubblico impiego. La Cgil, la più grande confederazione sindacale italiana, ha circa 6 milioni di iscritti. Nata nel 1906, poi sciolta durante gli anni del fascismo, è stata ricostituita nel dopoguerra. Ha sempre mantenuto un forte legame col Partito Comunista Italiano e ora la sua dirigenza è vicina al Partito Democratico. Da due scissioni interne sono nate, negli anni Sessanta, la Uil e la Cisl, tradizionalmente più vicine ai partiti della destra. I lavoratori e le masse popolari negli ultimi anni hanno subito un vero e proprio massacro sociale: smantellamento dei servizi pubblici (scuola, sanità, trasporti), privatizzazioni, licenziamenti di massa, smantellamento dei diritti conquistati con le lotte degli anni Sessanta e Settanta. Il governo Monti è stato definito un governo tecnico, cioè super partes, ma si tratta di una menzogna, come è evidente dai ministri che lo compongono, da Corrado Passera, ex amministratore delegato di Intesa-San Paolo, all’ammiraglio Giampaolo Di Paola, ex presidente del Comitato militare della Nato, e dal fatto stesso che è un governo sostenuto dal Popolo della Libertà e dal Partito Democratico. Dopo che il governo Berlusconi ha varato la manovra finanziaria più pesante della storia del dopoguerra – la famigerata ‘legge di stabilità’ che smantella definitivamente i servizi pubblici locali e introduce il licenziamento anche tra i lavoratori non precari del pubblico impiego – Monti ha rincarato la dose: aumento dell’età pensionabile fino a 70 anni, aumento dell’Iva, introduzione di una super tassa sugli immobili (prima casa inclusa), della dismissione del patrimonio dello Stato. Di fronte alla necessità di pagare il debito per rivalutare le azioni dei capitalisti italiani, nessun governo prende nemmeno in considerazione la possibilità di un piano di finanziamenti per i servizi pubblici. Ciò che procede, costantemente, a larghi passi è la cancellazione dei diritti, anche di quelli democratici, che sono stati conquistati con le lotte degli anni Sessanta e Settanta. In Italia in quegli anni ci fu una stagione di mobilitazioni di massa, con occupazioni di fabbriche e scioperi prolungati. Quelle lotte portarono al varo dello Statuto dei lavoratori nel 1970, che introduceva una serie di diritti e garanzie per i lavoratori che a partire dagli anni Ottanta sono stati progressivamente smantellati con ‘riforme del lavoro’ (si pensi alla riforma del lavoro del 2012, che ha lasciato il via libera ai licenziamenti indiscriminati) o ‘accordi tra le parti sociali’ (come il patto del 28 giugno 2011 tra Cgil, Cisl, Uil e Confindustria). 14

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La piaga del lavoro precario Molti film italiani parlano di lavoro precario. Anzi, nei film recenti è difficile trovare personaggi che al contempo siano giovani e abbiano un lavoro stabile. È da anni che si parla della precarietà: con il passare del tempo le misure del capitale contro il lavoro si fanno sempre più pesanti e le condizioni delle fasce giovanili della società sempre più disastrose. Gli ultimi dati Ocse al proposito sono drammatici: la disoccupazione giovanile ha raggiunto la triste cifra record del 28% mentre il 46,7% dei lavoratori tra i 15 e i 24 anni ha un impiego temporaneo3. Questo percorso di progressiva precarizzazione ha un preciso inizio: il Patto per il lavoro interconfederale siglato agli inizi degli anni Novanta dai sindacati (Cgil in primis) e tramite cui si introduceva il cosiddetto lavoro interinale, cioè il ‘lavoro in affitto’: agenzie private fanno da intermediarie tra il lavoratore e le aziende, il lavoratore quindi è sotto un doppio ricatto. Un accordo che sarebbe poi confluito nei fatti nella legge n. 196/1997, più nota come Pacchetto Treu, varata dal primo governo Prodi. La legge dava per la prima volta la possibilità a società private di costituirsi in – come è scritto nel testo della legge – “imprese fornitrici di prestatori di lavoro temporaneo per il soddisfacimento delle esigenze di imprese utilizzatrici”4 sancendo così l’abolizione dei vecchi uffici di collocamento e introducendo una sorta di caporalato legalizzato tramite le esternalizzazioni lavorative. Legge che fu votata anche dai parlamentari di Rifondazione Comunista, un partito che a parole si diceva contro il lavoro precario ma che, facendo parte della coalizione di governo di centrosinistra, votò a favore di quelle misure. Il pacchetto Treu è considerato la prima legge precarizzante del mondo del lavoro e non a caso è stata partorita da un governo di centrosinistra. Un’ulteriore accelerazione si è avuta nel 2003, col secondo governo Berlusconi, con l’approvazione della Legge 30, elaborata dal giuslavorista Marco Biagi e firmata dall’allora ministro alle politiche sociali, Roberto Maroni. Questa legge ha reso il mondo del lavoro una giungla selvaggia irta di una moltitudine di tipologie contrattuali, l’una più precaria dell’altra: il contratto di inserimento, con cui un’azienda può assumere un lavoratore a due livelli retributivi più bassi rispetto a quello che spetta ad un lavoratore stabile per le stesse mansioni e la cui durata può raggiungere un massimo di 18 mesi; il contratto a progetto, finalizzato alla realizzazione di un servizio specifico e che non può essere utilizzato per ottenere dal collaboratore una prestazione a tempo indeterminato; il famigerato apprendistato, che nelle sue varie forme non supera la durata di sei anni e il cui compenso è ugualmente inferiore di due livelli se confrontato con un contratto stabile; e il lavoro per somministrazione che è l’evoluzione del preesistente lavoro interinale. Accanto a queste tipologie contrattuali, sono sorte molte altre forme di lavoro accomunate tutte dal loro carattere fortemente precarizzante. In parallelo a queste misure economiche, la classe borghese diffondeva il ‘verbo’ della globalizzazione attraverso i suoi canali mediatici e le sue istituzioni culturali, facendo apparire il lavoro a tempo determinato come qualcosa che avrebbe 15

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rivoluzionato la società garantendo la fine della disoccupazione e un futuro alle giovani generazioni. Nel giro di qualche anno tutti i lavoratori hanno avuto modo di capire, sulla propria pelle, com’è andata effettivamente. Ci troviamo così, oggigiorno, a dover affrontare una situazione ancora più complicata, a causa della crisi strutturale in cui versa il capitalismo e dei mille modi, uno più subdolo dell’altro, in cui gli stessi padroni che hanno fallito cercano di far pagare i costi del loro fallimento ai lavoratori, e in particolare a quelli più giovani, più indifesi, più ricattabili. Per comprendere le condizioni reali nelle quali si trovano ragazzi e giovani laureati al loro ingresso nel mondo del lavoro, un esempio su tutti: il caso della Atesia, il call-center più grande d’Italia, che da anni paga gli operatori relativamente all’esito delle telefonate fatte e ricevute (si tratta di quello sfruttamento a cottimo che sembrava scomparso da più di un secolo). Stiamo parlando di quattromila lavoratori atipici che non hanno mai avuto permessi, diritto a malattie, ferie pagate e liquidazioni, vivendo di contratti dalla durata di pochi mesi. In particolare le giovani lavoratrici che entravano in maternità si sono viste licenziare al loro rientro: “siamo spiacenti, contratto concluso”. Una situazione che si riflette anche in un aumento del numero dei suicidi, perlopiù giovani che dopo aver studiato anni e anni si ritrovavano senza nulla in mano e con il baratro davanti. Così accanto a una precarietà lavorativa assistiamo anche a una precarietà esistenziale, che intacca profondamente le vite di migliaia di giovani, senza speranze e senza nemmeno la possibilità di immaginarsi un futuro. Come è debole il loro contratto di lavoro e sono deboli le loro prospettive di vita, così anche il loro pensiero è debole. E tuttavia molti gruppi di studenti e di precari hanno più volte dimostrato con le lotte di non essere più disposti ad accettare queste logiche e di voler superare radicalmente questo stato di cose. Se sul versante ‘governativo’ nulla può cambiare (e noi non nutriamo illusioni) il versante della lotta di classe è molto più imprevedibile e ha visto crescere negli ultimi tempi, grazie alle rivoluzioni arabe e agli Indignados, una forte disillusione nei confronti del sistema in generale e al tempo stesso la nascita di numerosi focolai di lotta che per quanto sparsi promettono delle stagioni molto ‘calde’. Basti citare gli esempi straordinari delle lotte dei giovani spagnoli a partire dal 2010 (con l’occupazione di Puerta do Sol per svariate settimane), dei giovani studenti canadesi e cileni nel 2011 e 2012, con manifestazioni di massa e occupazioni prolungate degli istituti scolastici.

I forti limiti del sindacalismo in Italia La fine della stagione delle lotte degli anni Sessanta e Settanta in Italia e il “riflusso degli anni Ottanta” – espressione con la quale si indica il clima di pace sociale e il calo drastico delle ore di sciopero a partire dal 1980 – hanno contribuito a determinare un arretramento delle condizioni di vita e di lavoro della classe lavoratrice italiana. La 16

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progressiva burocratizzazione degli apparati delle organizzazioni sindacali italiani è stata parimenti il riflesso dell’arretramento delle lotte: le confederazioni sindacali hanno perso sempre più le caratteristiche originarie di organismi democratici di rappresentanza dei lavoratori per diventare delle vere e proprie aziende. I funzionari sindacali sono aumentati di numero e le istanze provenienti dalle realtà di lotta nelle fabbriche sono state progressivamente subordinate alle esigenze degli apparati burocratici. Gli anni Ottanta sono stati caratterizzati da un progressivo smantellamento di tutti i diritti che erano stati conquistati con le lotte nei decenni precedenti. Il già citato accordo del 31 luglio 1992 tra governo e Cgil, Cisl e Uil ha rappresentato il culmine di questa offensiva con l’eliminazione della scala mobile dei salari, cioè di quel meccanismo che permetteva l’adeguamento automatico dei salari all’aumento dei prezzi e del costo della vita. Con l’accordo del 23 luglio 1993 iniziava ufficialmente la fase del modello contrattuale concertativo: il sindacato si faceva carico degli “interessi generali” e delle “compatibilità di sistema”5 Gli apparati burocratici dei sindacati concertativi Cgil, Cisl e Uil hanno rappresentato il principale alleato dei capitalisti e dei governi in questo processo. Le conseguenze sono note: perdita costante dei salari, dei diritti e delle tutele. Il governo Berlusconi ha spezzato, parzialmente, l’unità sindacale di Cgil, Cisl e Uil, costringendo la Cgil – la cui direzione è strettamente legata al Pd – a collocarsi all’opposizione, sebbene solo di facciata. I sindacati gialli Cisl, Uil e Ugl, appendici servili del padronato, sono stati, in questi anni, il principale sostegno alle politiche padronali del governo Berlusconi. Ma se in Italia la lotta di classe si dispiega in modo frammentario ancora oggi – diversamente che in altri Paesi europei, come la Spagna o la Grecia (Torre, 2012: 5-10) – è anche merito della burocrazia del più grande sindacato, la Cgil. Esattamente come quelle di Cisl e Uil, anche la burocrazia della Cgil dipende strettamente dallo Stato. L’immenso patrimonio di cui godono Cgil, Cisl e Uil – patrimonio investito, non a caso, in cooperative, agenzie interinali, fondi pensione, ecc. – fa di questi tre sindacati delle vere e proprie aziende (apparati con migliaia di dipendenti, tra funzionari e distaccati sindacali) che mirano anzitutto alla propria conservazione. La Cgil, in questi anni, nonostante l’opposizione di facciata al governo Berlusconi, ha dato prova ai capitalisti di grande affidabilità. Ai padroni è stata garantita la possibilità di licenziare e trasferire la produzione all’estero; il governo ha avuto in dono la pace sociale; la burocrazia Cgil è stata legittimata come interlocutore affidabile, in vista di una nuova stagione concertativa. L’apparente opposizione della Cgil alle politiche del precedente governo Berlusconi aveva un fine ben preciso: tornare al tavolo della concertazione, e così è stato. La burocrazia Cgil, all’apice della crisi economica, ha firmato il famigerato accordo del 28 giugno 2011, sottoscritto definitivamente a settembre 2011: è un accordo che prevede la deroga al contratto collettivo nazionale di lavoro, che addirittura lasciava al presidente di Confindustria, allora Emma Marcegaglia, il ruolo di ‘portavoce 17

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unico’ delle cosiddette parti sociali (termine infelice, che sottintende l’idea truffaldina che vi sia una comunanza di interessi tra lavoratori e padronato). I pochi scioperi generali proclamati dalla Cgil hanno avuto come unico fine, nelle intenzioni della burocrazia, quello di dimostrare al padronato che la Cgil è indispensabile per contenere il conflitto sociale continuando a dissanguare i lavoratori: non a caso, sono stati organizzati cortei locali, che si sono trasformati in innocue parate. Mentre in tutta Italia milioni di lavoratori scendevano in sciopero (si pensi al grande sciopero del 6 settembre 2011), a Roma si procedeva indisturbati a varare le manovre finanziarie: nessun assedio ai palazzi del potere, sull’esempio della Grecia, è stato lanciato. Successivamente, Susanna Camusso, la segretaria generale della Cgil, si è detta disposta a offrire una ‘tregua sindacale’ al governo Monti. Lo stesso Monti si è vantato al cospetto del presidente Obama di aver varato la più pesante ‘riforma’ delle pensioni degli ultimi decenni con solo tre ore di sciopero: una dimostrazione di quello che rappresentano in Italia i sindacati burocratici di Cgil, Cisl e Uil.

Il sindacalismo ‘alternativo’ in Italia: potenzialità e limiti All’interno della Cgil, una menzione a parte merita la Fiom-Cgil, cioè il sindacato che raggruppa i metalmeccanici della Cgil. La Fiom, per la sua base operaia combattiva, ha sempre assunto posizioni più radicali rispetto al resto della confederazione. Recentemente, di fronte al discredito in cui è caduta, soprattutto agli occhi di tanti attivisti della Cgil, la burocrazia che ruota attorno alla Camusso (soprattutto dopo la posizione assunta nella vicenda Pomigliano e Mirafiori, dove la Camusso ha di fatto lasciato sola la Fiom nella battaglia contro Sergio Marchionne), la Fiom è parsa a tanti come un ‘baluardo’ contro l’opportunismo. La vicenda della Fiat è nota ai più: Marchionne, l’amministratore delegato della Fiat, ha imposto a tutte le aziende del gruppo un nuovo contratto (noto come ‘modello Pomigliano’, dal nome della prima fabbrica dove è stato applicato) che prevede, tra l’altro, l’esclusione dalla rappresentanza sindacale in fabbrica dei sindacati non firmatari, tra cui la Fiom (nonostante la Fiom sia il sindacato più rappresentativo, in termini di tesserati, nelle fabbriche italiane della Fiat). Il prestigio della Fiom è andato al di là del settore metalmeccanico: strati sempre più ampi di lavoratori e giovani hanno visto nella Fiom la possibilità di un’alternativa sindacale. Indipendentemente dallo spirito combattivo di tanti operai della Fiom e di alcune Rsu locali, la direzione maggioritaria della Fiom (Maurizio Landini e Giorgio Airaudo) ha agito anche negli ultimi mesi da pompiere del conflitto di classe, rinunciando a rilanciare una lotta prolungata per respingere i pesanti attacchi alla classe operaia (Madoglio, 2012: 5). A partire in particolare dagli anni Ottanta, con l’accelerazione sul versante della concertazione e della svendita dei diritti dei lavoratori da parte della Cgil, si sono sviluppati in Italia sindacati alternativi, che sono stati giustamente definiti ‘di base’ 18

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perché nascevano da realtà di lotta, con scissioni dagli apparati burocratici degli altri sindacati (Cgil e Cisl). Tra questi i principali erano: Cub (Confederazione Unitaria di Base, radicata tra i metalmeccanici), Rdb (Rappresentanze Sindacali di Base, presenti nel Pubblico Impiego), Cobas (radicati nella scuola e nei trasporti). Progressivamente, questi sindacati hanno conosciuto processi di fusione e scissione, perdendo in gran parte il loro carattere ‘di base’ e diventando apparati più o meno chiusi, con talvolta propensioni settarie. Non di meno, gli attivisti del sindacalismo di base hanno rappresentato, con la loro militanza e generosità nella lotta, uno degli aspetti più vivaci del panorama sindacale italiano dagli anni Ottanta agli anni recenti. Oggi, tuttavia, il sindacalismo di base non è stato in grado di rappresentare un’alternativa credibile per i lavoratori. A sinistra della Cgil c’è uno spazio enorme, che tuttavia è rimasto in gran parte sprecato. Usb, Cobas, Cub, Unicobas, Usi, Si.Cobas, Slai Cobas, ecc.: le sigle del ‘sindacalismo di base’ aumentano di anno in anno, spesso frutto di scissioni o microscissioni. In realtà, si procede nel senso opposto rispetto a quello verso cui si dovrebbe andare: anziché unificare sindacati più conflittuali in un unico sindacato (richiesta questa che è molto sentita tra gli attivisti), i gruppi dirigenti hanno spesso oggi anteposto la conservazione di microinteressi all’interesse generale della classe lavoratrice. In definitiva, l’assenza in Italia di un grande sindacato di classe (cioè realmente rappresentativo degli interessi dei lavoratori) e di massa è il principale ostacolo allo sviluppo di una stagione di lotte come quelle che avvengono in altri Paesi europei, come la Spagna e la Grecia.

Cinema e lotta di classe Voglio concludere questo saggio con una domanda e un abbozzo di risposta. Basterà l’ascesa delle lotte nel continente europeo (e speriamo presto anche in Italia) a determinare una rinascita della produzione cinematografica? Se è vero che dalla crisi economica sorgono le lotte, è anche vero che crisi economica significa tagli alla cultura e, quindi, anche al cinema. Io penso che la risposta a questa domanda possa essere positiva. Dalle lotte, probabilmente, nascerà un nuovo modo di fare cinema: con meno risorse ma anche privo di condizionamenti politici e sociali. La nuova generazione che si affaccia alla lotta e che è protagonista di straordinarie mobilitazioni di massa – dalla Spagna al Cile al Canada – ha tutte le carte in regola per tornare ad essere, come già fu nel Sessantotto, una generazione rivoluzionaria e, quindi, massimamente creativa.

Note 1

Marx analizza il concetto di “caduta tendenziale del saggio di profitto” in particolare nel terzo libro del Capitale. Nella monumentale opera di critica dell’economia politica

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definisce così questo concetto: “L’aumentata massa dei mezzi di produzione destinati ad essere trasformati in capitale ha sempre a sua disposizione, per sfruttarla, una popolazione operaia accresciuta e perfino eccessiva. Nell’evoluzione del processo di produzione e accumulazione deve dunque esservi aumento della massa del plusvalore acquisita e suscettibile di esserlo e quindi della massa assoluta del profitto acquisita dal capitale sociale, ma le stesse leggi della produzione e della accumulazione aumentano in proporzione crescente, insieme alla massa, il valore del capitale costante più rapidamente di quanto avviene nella parte variabile del capitale convertita in lavoro vivo. Le stesse leggi producono quindi per il capitale sociale un aumento della massa assoluta del profitto e una diminuzione del saggio del profitto” (Il Capitale, Libro III, Einaudi, Torino 1975, 308-309). L’evoluzione del capitale in capitale finanziario – con i connessi fenomeni di “ipertrofia” – è stata analizzata da V.I. Lenin, in particolare nell’opera Imperialismo, fase suprema del capitalismo, pubblicata nel 1917. Si veda la sintesi del rapporto OECD a questo indirizzo: http://formazionelavoro. regione.emilia-romagna.it/lavoro-per-te/notizie/allegati/OCSE_SintesiItalia.pdf. Si veda il testo completo della legge: http://archivio.pubblica.istruzione.it/ argomenti/autonomia/documenti/legge196.htm http://www.camera.it/temiap/Protocollo_23_07_1993_Concertazione.pdf.

Bibliografia Lenin,V.I. (1917) Imperialismo, fase suprema del capitalismo. http://www.marxists.org/italiano/lenin/1916/imperialismo/index.htm Ultimo accesso, ottobre 2012. Madoglio, A. (2012) “Fiom: Landini alla resa dei conti”, Progetto Comunista n.34, 5. http://www.alternativacomunista.it/dmdocuments/giornali%20progetto/pc_n34_low.pdf Ultimo accesso, ottobre 2012. Marx, K. (1975) Il Capitale, Libro III, Einaudi, Torino. OECD, (2012) OECD Employment Outlook 2012: La situazione dell’Italia. http://formazionelavoro.regione.emilia-romagna.it/lavoro-per-te/notizie/allegati/ OCSE_SintesiItalia.pdf. Ultimo accesso, novembre 2012. Torre, V. (2012) “Europa dei banchieri o dei lavoratori?”, Trotskismo Oggi, rivista marxista rivoluzionaria di teoria, politica e cultura, n.2, 2-11.

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Bernadette Luciano e Susanna Scarparo

Donne al lavoro: il precariato e la femminilizzazione del lavoro nei film Signorina Effe di Wilma Labate, Mi piace lavorare – Mobbing di Francesca Comencini, e Riprendimi di Anna Negri

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all’inizio del nuovo millennio, nel cinema italiano si assiste a un rinnovato interesse al mondo del lavoro che ha come tema la diffusa pratica della precarizzazione del lavoro, un crescente motivo di preoccupazione in Italia come in altri paesi post-industriali. Nonostante le condizioni di lavoro a tempo determinato non siano un fenomeno nuovo nelle società industriali, Michael Hardt e Antonio Negri (2000) sostengono che le forze contemporanee dell’oppressione di classe, la globalizzazione e la mercificazione dei servizi (del terziario) hanno creato una forza lavoro flessibile che si è spostata dai margini al centro. Anziché offrire un modello di libertà o flessibilità per gli individui, come sostenuto dai riformatori delle istituzioni pubbliche e private, Richard Sennett (1998) sostiene che questo nuovo modello economico è alla base di diffusi traumi sociali ed emotivi1. Gli effetti negativi del nuovo capitalismo e l’impatto sul carattere e l’identità degli individui esaminati nello studio di Sennett vengono ripresi sul grande schermo da diversi film italiani in cui vengono indagati gli aspetti di sfruttamento del lavoro ‘precario’ ed il loro impatto sulle famiglie, sui rapporti interpersonali e sulle aspirazioni individuali.Tra questi film si annoverano Giorni e nuvole (Silvio Soldini, 2007), Tutta la vita davanti (Paolo Virzì, 2008), Fuga dal call center (Federico Rizzo, 2008), L’orizzonte degli eventi (Daniele Vicari, 2005), Volevo solo dormirle addosso (Eugenio Cappuccio, 2004), Generazione 1000 euro (Massimo Venier, 2008) e L’industriale (Giuliano Montaldo, 2011). Molti di questi film tendono a rappresentare una generazione giovane condannata a una perenne insicurezza nel lavoro e nella vita; altri invece indagano le proporzioni endemiche della precarietà che coinvolge individui di diverse classi sociali, di diverse età e di entrambi i sessi. Nonostante la crescente presenza di protagoniste femminili e una panoramica 21

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nazionale che include donne nel mondo del lavoro segnino una trasformazione rispetto alla predominanza maschile nella rappresentazione cinematografica della forza lavoro dei decenni precedenti, esiste un numero limitato di studi critici incentrati sulla complessità e contraddittorietà della situazione delle donne in un mercato del lavoro ‘femminilizzato’. In questo capitolo esaminiamo il modo in cui viene resa la transizione dell’Italia dal periodo industriale a quello postindustriale, attraverso la creazione e codificazione della lavoratrice come soggetto femminile nei film Signorina Effe (2007) di Wilma Labate, Mi piace lavorare–Mobbing (2004) di Francesca Comencini e Riprendimi (2008) di Anna Negri. Il concetto di ‘femminilizzazione del lavoro’ non si riferisce soltanto alla crescente presenza numerica delle donne nel mondo del lavoro, ma anche all’“utilizzo di qualità, competenze ritenute ‘naturalmente’ femminili” (Melandri, 2010: 5) e che vengono apprezzate nella “nuova economia” (Vercellone, 2006; Fumagalli, 2007). Nei quotidiani vicini alla Confindustria, come il Sole-24 Ore, la femminilizzazione del lavoro viene interpretata come trasferimento del ‘valore femminile’ dalla sfera privata a quella pubblica. Segna la trasformazione del lavoro delle donne a un ruolo di lavoro di cura, come nella sfera domestica così in quella lavorativa, in cui ci si aspetta una dedizione completa alla cura filiale dell’azienda ventiquattr’ore su ventiquattro, sette giorni su sette. Paradossalmente, per le donne ne risulta una flessibilità inflessibile. I film che analizziamo mettono in primo piano il modo in cui la femminilizzazione del lavoro ha portato a deteriorare i diritti ottenuti dal femminismo con conseguenze notevoli sui rapporti familiari, sulla percezione di se stesse e sulla propria autonomia. Questi film mettono in evidenza come la pratica della ‘flessibilità’, che produce nuove strutture di controllo senza il supporto di adeguate strutture sociali, risulti nell’incompatibilità tra il lavoro e l’essere donna in Italia, continuando a relegare le donne al prevalente, tradizionale ruolo domestico.

Un’economia in transizione: Signorina Effe Il film Signorina Effe inizia con immagini di archivio2, un documentario promozionale in cui una giovane coppia arriva allo stabilimento della Fiat Lingotto di Torino per assistere alla produzione della loro macchina, dall’inizio alla fine, che culmina con il collaudo dell’auto sulla riconoscibile pista di prova sul tetto dello stabilimento. Il Lingotto diventa il simbolo del film, la fabbrica è immortalata nei suoi suoni distinti e attraverso immagini di scalinate, corridoi e cancelli che ne riflettono la struttura gerarchica, e che creano un’immagine della Fiat come di un mondo a sé stante. Nel film la fabbrica viene rappresentata in tre particolari momenti storici: all’apice del successo produttivo, nelle scene d’inizio; agli inizi del declino nel 1980, per la maggior parte del film; ed infine nell’epilogo del film, nella sua reincarnazione post-industriale come centro commerciale a cui lo stabilimento è stato adibito dal 2007. Nel film 22

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Signorina Effe, il Lingotto rappresenta i momenti chiave della storia del movimento operaio in Italia ed invita ad una riflessione sui processi che hanno segnato la transizione verso l’economia post-industriale, particolarmente per le donne. Nel film vengono documentati i licenziamenti alla Fiat dei primi anni Ottanta e l’inizio di una nuova epoca. Secondo Wilma Labate (2008), gli scioperi di massa che bloccarono l’attività della Fiat per 35 giorni, e che sono al centro della narrativa del film, rappresentano un momento significativo nella storia del movimento operaio che potrebbe aver segnato la nascita della ‘flessibilità’ o del ‘precariato’. Quella che molti considerano la fine del movimento operaio in Italia si svolge nel contesto di una storia d’amore che fa da metafora ai momenti cruciali del movimento operaio e di quello femminista. Mentre negli anni Sessanta e Settanta si era sviluppato un forte movimento sindacale come voce collettiva degli operai – che risultò in una solidarietà tra i lavoratori e portò a notevoli conquiste nel campo dei diritti del lavoratori – un decennio più tardi il ruolo politico e sociale del movimento sindacale era in crisi (Ginsborg, 2003: 57). Nei decenni esclusi dal film (tra il 1980 e il 2007), alla Fiat si assiste ad una drastica diminuzione della forza lavoro e ad un drastico passaggio dai metodi di organizzazione della produzione di modello fordista a quelli della nuova economia basata su operai più specializzati e flessibili. (Ginsborg, 2003: 54-55). Contemporaneamente agli eventi che coinvolgono il movimento operaio, anche le conquiste del femminismo degli anni Settanta ed Ottanta sembrano segnalare una nuova epoca, che permette alle donne più istruite l’accesso a nuove opportunità nel mondo del lavoro grazie alle leggi di pari opportunità. Ma il film della Labate appare meno ottimista, segnalando gli ostacoli che allora come oggi impedivano alle donne di avanzare nella sfera pubblica. Nonostante la crescente presenza numerica delle donne nel mondo del lavoro, la loro presenza non presenta effetti rivoluzionari, in quanto ricoprono generalmente ruoli di scarso prestigio e di minor reddito. Ciò anche perché spesso accettano il compromesso di ruoli meno impegnativi ma più flessibili, che permettono loro di conciliare il lavoro fuori casa e quello domestico (Ginsborg, 2003: 34-45). La protagonista del film Emma Martano, una giovane donna istruita, figlia di immigrati del Sud, incarna il potenziale di mobilità di classe e di genere. In procinto di laurearsi in matematica, viene assegnata a quello che oggi definiremmo il settore informatico della Fiat. Emma è la donna emancipata sulla soglia di ottenere quella ‘parità’ che le permetterebbe di accedere a una sfera professionale tradizionalmente maschile e ad una mobilità ascensionale facilitata anche dal fidanzamento con un dirigente della fabbrica (vedovo con una figlia). Emma è l’archetipo di ciò che l’emancipazione rappresenta per una giovane donna della generazione del ‘doppio sì’: in altre parole, la conciliazione tra il lavoro e la famiglia. Gli scioperi in fabbrica, però, scompigliano la percezione che Emma ha del mondo. Nel settembre del 1980, durante lo storico sciopero dei 35 giorni – iniziato in seguito all’annuncio della ditta di voler licenziare 15.000 dipendenti – Emma incontra Sergio, un operaio militante che lavora alle presse. Il primo incontro tra i due, 23

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durante il quale le mani di lui sporcano la camicetta bianca di Emma che si è ‘persa’ ai piani inferiori dove si svolge la produzione della fabbrica, suggerisce l’inizio di quella che può venir interpretata come la seduzione o corruzione di Emma oppure il momento della sua presa di coscienza. Emma inizia a mettere in questione la cieca lealtà di suo padre ad una vita di dipendente, basata sul timore dei propri superiori; una vita senza dignità che mette persino a rischio la salute dell’individuo. Sempre meno tollerante nei confronti del padre e del fidanzato che cercano di controllare il suo destino, sfida il piano di avanzamento di carriera e di classe fuggendo con Sergio. La ribellione di Emma nella vita privata, però, come quella dei lavoratori in sciopero, è di breve durata. La Labate usa filmati d’archivio dell’epoca come testimonianza di quella che successivamente viene interpretata come la sconfitta della lotta di classe dei lavoratori e dei sindacati. Dopo che 40.000 impiegati scendono in strada per la prima volta, per rivendicare il proprio diritto al lavoro, lo sciopero viene revocato, e durante il loro ultimo incontro Emma dice a Sergio “hanno vinto loro”. Questa vittoria costituisce la sconfitta delle battaglie politiche contro le istituzioni del potere costituito, l’indebolimento dei sindacati e la fine della relazione tra Emma e Sergio. Al commento di Emma segue l’addio finale della coppia, ed Emma, indossando un cappotto bianco, esce dalla fase trasgressiva e rientra attraverso il cancello di quella ‘prigione’ che è la Fiat. Emma, che aveva pensato che i cambiamenti in campo personale e politico fossero possibili, deve rinunciare all’autonomia e alla mobilità. Si sente disillusa dalla nuova ideologia che aveva scoperto ed anche dall’uomo amato che la personificava. Delusa e rassegnata, Emma ritorna ai ranghi superiori dell’istituzione e accetta un futuro predeterminato nella vita professionale come in quella personale, che la porta verso la sicurezza economica e l’ascesa sociale garantitale dall’uomo che sposerà. La scena finale del film Signorina Effe si svolge quasi trent’anni più tardi. La fabbrica Fiat del Lingotto, pur mantenendo le vestigia della struttura originale, è stata trasformata in un centro commerciale contemporaneo, il centro per eccellenza del consumismo contemporaneo. Nell’Italia del postfordismo, in cui gran parte della produzione industriale è stata trasferita o si tenta di trasferirla all’estero, gli spazi che erano adibiti a fabbriche vengono a rappresentare ora la nuova economia. Un’Emma elegante di trent’anni dopo, che appare essersi lasciata alle spalle le sue umili origini, esce dal centro commerciale con tanto di borse con gli acquisti e ferma un taxi, al volante del quale c’è il suo ex-amante e ex-operaio, Sergio, che ha trovato lavoro nel terziario. Il senso di sconfitta per entrambi, sia sul piano politico che personale, viene messo in evidenza nelle immagini finali. Mentre nel resto del film la storia veniva narrata attraverso numerosi intensi primi piani e riprese in campo e contro campo che illustravano le scelte sentimentali e politiche di Emma, nella scena finale la cinepresa si allontana, quasi esitando a riconoscere Emma, e rivelando solo parzialmente il volto di Sergio nello specchietto retrovisore. La cinepresa indugia sull’espressione del volto di Emma e poi su un meno esplicito profilo di Sergio. Il film chiude con un senso di 24

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rinuncia e torpore, confermando la morte dell’ideologia, l’impossibilità di comunicare e di relazionarsi con gli altri, e un modello conservatore di femminilità in cui si riflettono le frustrazioni del femminismo. La storia del film della Labate ipotizza la fine delle speranze femministe trasformando la protagonista, da donna istruita, a stereotipo femminile negativo. Per Emma l’ascesa sociale, ottenuta per meriti non propri, ma attraverso il matrimonio e il ritorno all’ambiente domestico, non costituiscono il prodotto di una presa di coscienza femminista, ma di una società gestita da imprescindibili valori patriarcali. Nonostante la morale apparentemente scoraggiante per le donne, il film di Wilma Labate non è uno sguardo nostalgico sull’era pre-fordista, ma un invito alla presa di coscienza per il futuro e un monito sui pericoli dell’accettazione passiva, dell’arrendersi alle istituzioni del potere costituito.

La violenza della Nuova Economia: Mi piace lavorare – Mobbing3 Mi piace lavorare – Mobbing è il primo film italiano dedicato al problema del mobbing, fenomeno che nei paesi anglofoni viene definito in termini di ‘bullismo’ sul posto di lavoro che porta all’isolamento e all’esclusione (Maier, 2003: 27). Il film, in cui, oltre alla protagonista Nicoletta Braschi, gli interpreti sono la figlia della regista e molti attori non professionisti (membri della Cgil), rappresenta un valido documento sociale che ambisce a mettere in guardia gli spettatori sulla violenza del mobbing e le sue devastanti conseguenze, particolarmente per le donne. La decisione di girare un film di finzione, invece che un documentario collettivo, ha permesso alla regista di rappresentare l’inestricabile nesso tra l’intimidazione nella sfera pubblica e l’isolamento sul lavoro e le sue conseguenze nel privato, attraverso una storia che si svolge in parallelo a quella tra il posto di lavoro e la casa che la protagonista divide con sua figlia, e mette in evidenza gli effetti del mobbing sulla relazione madre–figlia. Nella scena d’apertura del film, ripresa con macchina a mano, lo spettatore, nel ruolo di osservatore, vede la protagonista, Anna, ad una festa aziendale durante la quale i dirigenti presentano la nuova filosofia dell’azienda. Il rapido movimento della cinepresa da un primo piano all’altro dei volti degli impiegati rivela nelle espressioni vacue, stanche e scettiche, un clima di tensione nel film. L’uso di una metafora che identifica la nascita di una nuova ditta con quella di un bambino, illustra come la dirigenza dell’azienda impieghi il linguaggio della ‘femminilizzazione del lavoro’ secondo la quale dai lavoratori ci si aspetta che – da buone madri – siano pronti a sacrificarsi per il bene dell’azienda anche a rischio di recidere le proprie relazioni umane. La terminologia che usano i dirigenti aziendali è la stessa che impiegano gli studiosi del fenomeno del mobbing per descrivere un clima di competitività tra i lavoratori in luoghi di lavoro in cui il mobbing è prevalente.Viene usata una terminologia di stampo militarista: si fa riferimento alla ‘conquista’ di nuovi mercati e alla ‘difesa’ del proprio 25

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posto di lavoro. A livello individuale la filosofia aziendale mette i lavoratori gli uni contro gli altri, creando un clima in cui ognuno ha bisogno di ‘difendere’ il proprio lavoro sobbarcandosi una mole di lavoro non sostenibile. Anna si presenta per ultima ai dirigenti, dicendo che lei è nel “reparto contabilità”– definizione che si presta ad una duplice interpretazione: come semplice descrizione delle sue mansioni lavorative, ma anche nel senso di responsabilità. Anna, infatti, è una lavoratrice ligia ai suoi doveri e che si sente ‘responsabile’ se c’è qualche problema al lavoro, come pure ha un forte senso di responsabilità nei confronti della figlia e del padre malato. Il film di Francesca Comencini mette in evidenza lo stress che scaturisce dal dover gestire contemporaneamente il lavoro e la famiglia in scene che rivelano l’incompatibilità tra la sfera del privato e le esigenze della nuova economia, in cui la dirigenza impiega le tecniche del mobbing come strategia per isolare le donne e forzarne l’abbandono del posto lavoro. Il fatto che la nuova azienda non dia spazio ai rapporti famigliari appare evidente dalle brevi telefonate tra Anna e sua figlia Morgana fatte sottovoce. Gli effetti del mobbing sulla vita privata, e particolarmente sul rapporto madre–figlia, vengono messi in evidenza dai numerosi ed improvvisi cambi di scena tra l’ufficio e l’ambiente domestico. L’inconciliabilità tra i due ambienti viene messa in luce dai filtri usati per filmare le scene: in quelle ambientate in ufficio viene usato un filtro blu che rende l’idea di un ambiente freddo ed impersonale, in cui si vedono stanze sterili, computer e relazioni anonime e ostili, mentre l’ambiente domestico viene ritratto in toni sfumati di color arancio, a riflettere il calore della relazione tra madre e figlia. Nonostante le avversità, madre e figlia riescono a sostenersi a vicenda, condividendo le attività domestiche e talvolta uscendo insieme. La Comencini però è attenta a non idealizzare troppo il loro rapporto. In seguito alle crescenti pressioni del mobbing – che vanno dall’essere assegnata a mansioni di grado inferiore come fotocopiare, all’esclusione di Anna dai processi decisionali, fino alle minacce di violenza fisica da parte degli operai che deve controllare – anche la tensione tra madre e figlia aumenta, esasperata dalle difficoltà economiche e dagli oneri che entrambe si devono assumere. Anna, che vive tra gli spazi chiusi dell’ufficio e quello più rassicurante ma pur sempre chiuso dell’appartamento, si allontana sempre più dall’unica persona con cui ha contatti umani, sua figlia. In seguito al deterioramento della sua salute, Anna non è più in grado di sostenere né se stessa né tantomeno la figlia. Anna, con l’aiuto della figlia e dei sindacati, trova infine la forza di ribellarsi al dirigente che l’aveva assillata dicendole che era incapace di gestire il lavoro e le esigenze familiari. La Comencini sostiene la necessità di agire attraverso il ruolo di un’altra donna, la rappresentante sindacale, che fa da portavoce al messaggio politico del film. All’interno della diegesi del film, il personaggio si rivolge alle donne impiegate nell’azienda, riguardo all’errore di sentirsi obbligate a scegliere tra il lavoro e la famiglia. Ma il suo messaggio è rivolto anche agli spettatori e alle spettatrici, sui pericoli di cedere alle richieste irragionevoli che l’apparato dirigenziale pretende dalle donne, forzandole a scegliere tra la famiglia e il lavoro; un apparato che trae forza dal porre le 26

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proprie vittime in condizioni d’isolamento, rendendole così più fragili e soggette al mobbing. Attraverso la rappresentante sindacale, la Comencini sintetizza i danni che causa il mobbing e si rivolge a tutte le vittime incitandole a combattere per il rispetto del valore fondamentale della dignità umana e per il fondamentale diritto civile alla giustizia. All’improvvisa fine del racconto, segue una scena che ha luogo un anno dopo. Un’impiegata, dandole un assegno, dice ad Anna “Hai vinto”. “Se si può chiamare vincere”, risponde Anna per l’ultima volta. Accompagnata dalla triste colonna sonora, Anna attraversa l’ufficio dove non potrà più lavorare perchè in effetti la dirigenza ha vinto, raggiungendo il proprio scopo di eliminarla dall’azienda. Nella commovente scena finale di Mobbing, Morgana stringe la mano della madre ancora convalescente incitandola a correrle dietro, verso un futuro più promettente del passato. Nonostante la vittoria legale, la Comencini è prudente nel suo ottimismo. Ci presenta infatti Anna, da prima esitante, correre dietro e non davanti alla figlia, la quale cerca di rassicurarla dicendo: “Smettila di aver paura, ci sto io con te.” La fine del film – in cui il mobbing e la perdita del lavoro per Anna sono alleviati dalla prospettiva di un futuro fondato su forti relazioni interpersonali con Morgana – rappresenta un invito alla resistenza rivolto alle donne, a combattere il mobbing e a riappropriarsi del diritto al lavoro mantenendo contemporaneamente i rapporti umani. Un messaggio forte, la cui realizzazione sembra possibile solo se verrà trasmessa alle Morgane del mondo – alle generazioni future di donne.

Inquadrando un mondo precario: Riprendimi Nei film di cui si è trattato finora il concetto di lavoro rientra nei parametri di un contesto storico in cui viene considerato quale diritto inviolabile e inalienabile. Per questo motivo i dialoghi e le discussioni in questi film spesso presumono un contesto in cui nozioni quali il lavoro sicuro, la salute e la dignità dei lavoratori sono considerati diritti acquisiti; come pure il diritto ad una distinzione tra lavoro e vita privata, che permetta di trovare un equilibrio tra i due. Di conseguenza il nuovo ambiente di lavoro ‘flessibile’ rappresenta l’antitesi di quella che è la definizione storica del lavoro retribuito. Nel film di Anna Negri, Riprendimi, questa concezione del lavoro non ha più rilevanza. Come sostiene la Negri nel descrivere il contesto storico del film, l’economia del precariato ha già trasformato le strutture sociali e condiziona i rapporti umani: Si racconta con ironia la perdita di una dimensione collettiva, quella del luogo di lavoro; l’aumento della precarietà tende ad isolare l’individuo, le persone sono sempre più sole, fragili e di conseguenza più oppresse e spaventate dai propri problemi personali, che diventano proiezione di un disagio collettivo. La precarietà produce, infatti, un mondo di eterni adolescenti, che in assenza 27

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di punti di riferimento stabili, non riescono a crescere da un punto di vista sociale e, di conseguenza, non raggiungono neanche una maturità emotiva. (2008: 2) Piuttosto che rappresentare una generazione che non è capace di crescere, il film della Negri ci presenta una generazione perduta in bilico tra un rapporto ambiguo con i valori tradizionali e il desiderio di maggiore flessibilità e mobilità. La questione della precarizzazione è ulteriormente complicata dal fatto che il film della Negri ha come protagonisti professionisti dell’industria cinematografica, per i quali il lavoro precario rappresenta una scelta che permette di far parte di un’industria altamente creativa. Come per i cinquantamila giornalisti e quarantacinquemila ricercatori che in Italia sono impiegati con contratti precari (Morini, 2007: 50). In effetti, questo film semi-autobiografico tratta di coloro che, come la protagonista Lucia, non percepiscono la propria come una situazione di precariato, o meglio i quali intendono il precariato come la norma: “Io col precariato cosa c’entro?” dice Lucia. Lucia appartiene a una generazione post-femminista di donne che non vogliono il posto fisso per trarne sicurezza, ma un lavoro che permetta di costruire la propria identità. Come sostiene Laura Fantone: A precarious existence is not a solely negative phenomenon for the generation of women in their twenties and thirties who chose to do creative work, to teach or to emigrate. In these cases a different sense of precariousness is starting to emerge. (2007: 87) Molte delle femministe italiane della terza generazione che sono a favore di cambiamenti sociali e politici, sono a favore di una ‘vera’ flessibilità, non solo del posto di lavoro, ma anche come mezzo per porre rimedio ai difetti di quelle istituzioni rigide, interpretandola inoltre come opportunità che permette di sovvertire la tradizionale divisione dei ruoli (Morini, 2007: 41). Per le femministe della terza generazione, di Sconvegno, Precis, A/matrix, e Sexyshock, la sfida che propone la precarizzazione non sta nel suo superamento, ma nel rendere il precariato sostenibile e nel mettere in evidenza il fallimento delle istituzioni statali e dei valori sociali nell’offrire alle giovani opportunità pratiche per creare vite decorose per se stesse (Fantone, 2007: 8). A differenza delle storie intime dei due film di cui si è trattato finora, Riprendimi si può definire quale film corale che esce dai confini dei personaggi principali includendo le vite delle persone con cui interagiscono e l’intera industria cinematografica. Il film inizia con un primo piano della protagonista Lucia con in braccio il suo bambino, un filmino amatoriale, un ‘autoritratto’. Il filmino che Lucia ha creato e montato da sola è un resoconto ‘entusiastico’ di un anno di vita in comune della coppia, che dà l’idea di armonia all’interno della loro vita privata nonostante il caos e l’incertezza delle loro rispettive vite professionali. Il documentario – una 28

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dichiarazione d’amore che Lucia offre in regalo al marito per celebrare il successo del loro primo anno di vita in comune – si basa su una premessa che viene immediatamente messa in dubbio dalla reazione di Giovanni che, subito dopo aver visto il film, decide di lasciare la moglie ed il figlio. Perciò il ‘documentario’ d’apertura e la reazione del compagno di Lucia sottolineano la natura arbitraria e l’inaffidabilità del genere, in quanto Lucia nella sua ricostruzione ha chiaramente rappresentato soltanto la propria versione della ‘realtà’. Il film continua a seguire una linea d’indagine introspettiva usando il tropo riconoscibile di un film all’interno di un altro. Un giovane cameraman e un fonico, loro stessi lavoratori precari e con un budget limitatissimo, decidono di rischiare tutto. Subaffittano il proprio appartamento per poter produrre un documentario in cui esplorare gli effetti del precariato su una giovane coppia che lavora nel mondo del cinema: Giovanni è un attore, di solito costretto ad accettare ruoli secondari in programmi televisivi mentre vorrebbe lavorare nel teatro; Lucia si dedica con passione al montaggio dei film, rimettendo insieme ritagli di storie. In seguito alla crisi della relazione tra Lucia e Giovanni anche la troupe che lavorava al documentario si separa, per seguire ciascuno uno dei protagonisti con l’ostinata e onnipresente cinepresa. La trama sconnessa che si muove tra le vicende dei due protagonisti, alterna diversi punti di vista per riflettere la natura ostile della separazione. La storia della fine del rapporto di coppia dirotta ben presto il centro della storia, distraendo gli spettatori dalla tematica iniziale della precarietà. Persino i membri della troupe che lavorava al documentario confessano di aver loro stessi perso il filo della storia, sullo sfondo di un crescente senso di confusione e desolazione che viene a dominare il film. Ciò nonostante, il film rimane decisamente un film sulla generazione ‘precaria’: tutti i personaggi, sia uomini che donne, sono precari sia nella vita privata che in quella professionale. Nel film la concentrazione claustrofobica ed ossessiva sulla vita di Lucia, che non accetta la fine della sua ‘grande storia d’amore’, e su quella di Giovanni, che nonostante proclami il proprio desiderio di libertà e mobilità – in simbiosi con il copione del monologo teatrale che recita – non esita a mettersi con un’altra donna, viene intercalato da diverse tecniche visive: dal reality, all’intervista, a video filmati con il cellulare. La compresenza di queste tecniche permette alla regista di illustrare l’isolamento e le conseguenze devastanti che il precariato può avere, in particolare per le donne. La situazione di precarietà di Lucia si rispecchia (e il suo futuro viene predetto) attraverso una schiera di sue amiche. Quello che lei è o potrà diventare si riflette in vari modelli di donne in bilico tra la tradizione e il post-femminismo: dall’amica che per paura di rimanere da sola non ha il coraggio di porre fine a una relazione infelice, a quella che è in procinto di partorire e non sa pensare ad altro che alla maternità imminente, ad un’altra che non avrà mai un figlio, ed infine la vicina affetta da disturbo bipolare, destinata a vivere tra gli alti e i bassi di una relazione distruttiva che la porterà al suicidio. Anna Negri sembra metterci in guardia sui pericoli che presentano le 29

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immagini e le tematiche che ritraggono le donne contemporanee come ancora alla ricerca del ‘principe azzurro’, e che si fanno influenzare dai miti delle pubblicità del Mulino Bianco e delle merendine che esaltano le virtù delle famiglie tradizionali. Alla fine del film, però, Lucia (ri)prende la cinepresa dalle mani del cameraman che filmava la sua storia, e che mentre la riprendeva se ne è innamorato. Prendendo possesso e controllo della cinepresa, Lucia s’impossessa della propria vita, non da vittima com’era stata filmata, ma da donna che ricostruisce se stessa, che monterà la propria storia di vita, offrendoci una nuova trama che mette fine alle immagini idilliche del filmino dell’inizio del film. Riprendimi appare convincente nella dichiarazione auto-riflessiva in cui si sostiene che un film sul precariato che ha al centro l’industria cinematografica piuttosto che un padre disoccupato con tre figli a carico, può riuscire ad offrire un modo più discreto di rappresentare un mondo di persone sole, senza certezze nel campo del lavoro, senza un senso di appartenenza, un mondo di eterni bambini che, nelle parole del personaggio Eros, “recitano invece di vivere”. Allo stesso tempo il film riesce a mettere in luce una società che, attraverso le immagini dei mass media troppo spesso in favore dei valori patriarcali, imprigiona le donne continuando a propinare loro messaggi radicati in codici di comportamento tradizionali. Eppure, il forse troppo lieto fine basato sulla nuova relazione tra Lucia e Eros in qualche modo indebolisce il messaggio del film, in quanto anche Lucia, a conti fatti, si ‘riprende’ quando si scopre innamorata del suo nuovo principe azzurro, il quale, non a caso, si chiama Eros.

Un mondo del lavoro (in)flessibile Nei tre film presi in esame in questo capitolo le protagoniste sono donne forti in grado di affrontare lo spazio sia pubblico che privato, ma che vengono contenute dalle costrizioni di un mondo del lavoro (in)flessibile che sottopone le donne ad eccessive aspettative, abusando di quegli stessi valori femminili che si pretende di apprezzare. Aspettarsi che le donne sacrifichino la vita personale e il ruolo di madre per prendersi cura del proprio lavoro, riflette gli atteggiamenti della società nei loro confronti e delle istituzioni che non provvedono un sistema di sostegno che permetta l’integrazione delle donne nella forza lavoro. La predominanza di immagini di spazi chiusi e soffocanti, dall’ufficio alla camera da letto di Mobbing, all’appartamento di Riprendimi, agli interni della casa di famiglia del film Signorina Effe, sembrano soffocare le protagoniste nonostante due dei film abbiano un finale ottimista. I finali di Mobbing e Riprendimi propongono una possibilità di mobilità e cambiamento – passando ad un nuovo lavoro o vivendo una nuova relazione – attraverso il riappropriarsi della capacità di agire in maniera autonoma. Nonostante Francesca Comencini e Anna Negri salvino le proprie protagoniste dall’esclusione dal mondo del lavoro e dall’isolamento della società in cui vivono, esse 30

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rappresentano eccezioni piuttosto che il risultato di una società realmente flessibile, pronta a venire incontro alle necessità delle donne e delle madri che lavorano. Questi film mettono in rilievo la necessità di confrontarsi con la precarizzazione che domina l’economia e il mondo in cui viviamo. Il precariato potrà diventare sostenibile per le donne solo se in Italia vi saranno migliori servizi sociali e di cura dei bambini, ma le statistiche a riguardo sono preoccupanti ed indicano che c’è ancora tanta strada da fare: l’Italia ha una tra le più alte percentuali di donne con un elevato livello di istruzione, delle quali però solo il 45% fa parte della forza lavoro e soltanto il 7% svolge mansioni dirigenziali. Per quanto riguarda i diritti delle donne, l’Italia è al 74esimo posto nella classifica mondiale, con un sessismo di fondo che permea l’economia e la vita quotidiana. Le previsioni ottimiste della Fantone che auspicano la creazione di lavori che siano veramente flessibili, come la capacità di Lucia di prendere possesso della cinepresa e cambiare la propria vita alla fine di Riprendimi, dipenderanno dalla realizzazione di notevoli cambiamenti sociali. Ciò appare difficile “when social policies, social welfare and public services do not function accordingly or where, like in Italy, the predominant societal logic is the antithesis of speed, innovation and flexibility” (2007: 6). In tutti e tre i film viene affrontata la problematica della femminilizzazione del mondo del lavoro attraverso le storie di protagoniste alienate dal mondo in cui abitano, portando alla luce questioni irrisolte e a volte allarmanti sul futuro delle donne nello spazio nazionale italiano, ancora fortemente segnato da istituzioni patriarcali e atteggiamenti di superiorità nei riguardi delle donne.

Note 1

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3

Le due principali ‘riforme’ di mercato che hanno permesso la proliferazione di contratti a breve termine e del precariato in Italia sono la riforma Treu e quella Biagi, rispettivamente del 1997 e 2003. Signorina Effe appare in calce a diversi documentary sulla Fiat, compresiTutto era Fiat (1999) di Mimmo Calopresti e più recentemente nel più ampio documentario di Francesca Comencini In fabbrica, che si ispira a Signorina Fiat, un documentario di Giovanna Boursier ambientato nei primi anni ‘90 e che ha come protagonista una giovane donna, Maria Teresa Arisio, che perde il lavoro. Per un approfondimento sul film della Comencini e la denuncia della violenza psicologica che le donne subiscono sul lavoro si veda Luciano, 2006.

Bibliografia Fantone, L. (2007) “Precarious changes: Gender and Generational Politics in Contemporary Italy”, Feminist Review 87: 5-20.

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Fumagalli, A. (2007) Bioeconomia e capitalismo cognitivo.Verso un nuovo paradigma di accumulazione? Roma: Carocci. Ginsborg, P. (2003) Italy and its Discontents: Family, Civil Society, State 1980-2001, London: Penguin Books. Hardt, M. e Negri, A. (2000) Empire, Cambridge, MA: Harvard University Press. Labate, W. (2008) Intervista, Signorina Effe. , – 01 Distribution. DVD. Luciano, B. (2006) “Mobbing: A Cinematic Indictment of Psychological Violence against Women in the Workplace” in Violent Depictions: Representing Violence Across Cultures, a cura di Scarparo, S. e McDonald, S., Newcastle: Cambridge Scholars Publishing. Maier, E. (2003) “Il mobbing come fenomeno psicosociale” in Mobbing: Quando la prevenzione è intervento: aspetti giuridici e psicosociali del fenomeno, a cura di Depolo, M., Milano: Franco Angeli, 13-61. Melandri, L. (2010) “Lo spazio pubblico si femminilizza ma scompare il conflitto tra i sessi” in L’emancipazione malata: Sguardi femministi sul lavoro che cambia. Milano: Edizione Libera Università delle Donne. 20-35. Morini, C. (2007) “The Feminization of Labour in Cognitive Capitalism”, Feminist Review 87: 40-59. Negri, A. (2008) Pressbook completo Riprendimi. http://www.mymovies.it/dizionario/ pressbook.asp?id=49644 Ultimo accesso, agosto 2011. Sennett, R. (1998) The Corrosion of Character: The Personal Consequences of Work in the New Capitalism, New York: W.W. Norton & Company. ————— (1999) L’uomo flessibile: le conseguenze del nuovo capitalismo sulla vita personale, Milano: Feltrinelli. Vercellone, C. (2006) Capitalismo cognitivo, Roma: Manifestolibri.

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Maria Elena D’Amelio

La commedia del precariato in Tutta la vita davanti di Paolo Virzì

T

utta la vita davanti è un film di Paolo Virzì uscito nel 2008, che ha come tema principale la condizione di precariato lavorativo che molti giovani italiani subiscono a causa dei vari contratti a progetto – contratti a tempo determinato senza garanzie di assunzione e con contributi minimi – che sono diventati spesso la norma di assunzione nel mercato lavorativo italiano. Il film è una favola nera raccontata attraverso gli occhi di Marta, giovane e brillante neolaureata in filosofia teoretica, che non trovando lavoro finisce a fare la centralinista precaria in un call center. Marta è studiosa, idealista e convinta che la aspetti una brillante carriera accademica. Ma il film apre subito con una serie di disillusioni per Marta: l’università italiana è fatta di baroni universitari, cioè professori che gestiscono cattedre e dipartimenti come se fossero feudi personali, di raccomandati e di concorsi truccati, e per una studentessa brillante ma naïve come Marta non c’è posto. Dopo una serie di curricula mandati a vuoto a case editrici specializzate in testi teoretici, Marta incontra una ex compagna di università, di famiglia facoltosa, che non ha finito la laurea, ma ha trovato subito posto come redattrice nella casa editrice della compagna di suo padre. Di lì a poco, Marta scoprirà che tutti i compagni ‘di sinistra’ che hanno lasciato l’Università sono stati piazzati dai potenti genitori in qualche avamposto culturale: chi in case editrici, chi in giornali e chi in televisione. Scoraggiata anche dalla lunga fila per un posto da insegnante di liceo, Marta ottiene la sua prima offerta di lavoro da Lara, la figlia di sei anni di Sonia, una ragazza sbandata e ‘leggera’ che la assume come baby-sitter e la introduce nel mondo della Multiple – un call center che usa tecniche al limite della legalità per vendere un costoso depuratore d’acqua a casalinghe e anziani. Alla Multiple, Marta scoprirà un sottobosco di ragazze di periferia sottopagate e sfruttate, che parlano solo del reality show Grande Fratello e sono abbagliate dalla personalità di Daniela, la direttrice del call center, che lo governa a suon di premi, canzoncine motivazionali e umiliazioni pubbliche. 33

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Tutta la vita davanti prende spunto dal libro della blogger sarda Michela Murgia, Il mondo deve sapere (2006), che racconta la reale esperienza dell’autrice in un call center. Il film uscì nelle sale italiane in concomitanza con il documentario di Ascanio Celestini Parole sante, che racconta la vita di un gruppo di precari dell’Atesia, il più grande call center italiano, inserendosi nel dibattito politico e sociale sul precariato giovanile. Un tema molto dibattuto e controverso in Italia, soprattutto negli ultimi anni, da quando è entrata in funzione la famosa legge Biagi, che rende legale il co.co.pro, cioè una tipologia di contratto che prevede l’assunzione solo ai fini di un progetto ben definito e con prestazioni lavorative della durata massima di un anno. La legge 30, chiamata anche legge Biagi (Legge 14 febbraio 2003, n. 30 o, più brevemente, legge 30/2003) – “Delega al Governo in materia di occupazione e mercato del lavoro” – fu varata dal secondo governo Berlusconi. La legge prende il nome dal giuslavorista Marco Biagi che vi ha contribuito come consulente e che è stato assassinato il 19 marzo 2002 a Bologna dalle nuove Brigate Rosse. Molti però pensano che il Governo abbia tradito le originarie motivazioni di Biagi e preferiscono chiamarla come legge 30 o legge Maroni, dal nome dell’esponente di Governo che l’ha varata. Le principali critiche alla legge riguardano il fatto che il contratto co.co.pro esclude la possibilità di essere assunti a tutti gli effetti e dunque accresce le incertezze sul futuro lavorativo dei giovani, che già difficilmente riescono a trovare lavoro dopo anni e anni di studi. Beppe Grillo, comico, attore e attivista politico, fondatore del movimento politico 5 Stelle, a proposito di questa legge dice: “Ha introdotto in Italia il precariato. Una moderna peste bubbonica che colpisce i lavoratori, specie in giovane età. Ha trasformato il lavoro in progetti a tempo. La paga in elemosina. I diritti in pretese irragionevoli. Tutto è diventato progetto per poter applicare la legge Biagi e creare i nuovi schiavi moderni”1. E Schiavi moderni è anche il titolo di un e-book scaricabile in rete dal sito di Beppe Grillo, che racconta le storie di ordinaria precarietà di tantissimi giovani italiani. Il fine della legge 30 era quello di ridurre la disoccupazione rendendo più flessibile il mercato del lavoro. Il più grave difetto che però gli è stato attribuito è quello di non aver fatto seguire alla prevista flessibilità una riforma perpendicolare sugli ammortizzatori sociali, tramutando di fatto una situazione di lavoro flessibile in una situazione precaria, aggravata da un quadro economico che non permette una rapida e fluida mobilità lavorativa. Questa è dunque l’attualità su cui poggia il film di Virzì, che oltre al precariato tocca anche altri temi nevralgici a esso collegati: l’incapacità di molti sindacati di gestire questa nuova forma di sfruttamento; la totale assenza di coscienza di classe nei nuovi sfruttati; la cronica mancanza di lavoro per i neolaureati soprattutto in materie umanistiche. Ma non solo. La critica di Virzì si sofferma anche su altri tipi di precarietà: quella dei sentimenti, dei valori, della cultura. E lo fa attraverso il modulo ormai classico della commedia all’italiana, quella amara di Dino Risi e Mario Monicelli, riflettendo sulla difficile rappresentabilità dell’Italia di oggi. Una delle più note definizioni di commedia all’italiana è di Masolino D’Amico: “un certo tipo di satira, di costume e 34

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anche, seppure non sempre esplicitamente, politica, dall’impianto realistico e molto attenta ai fatti del giorno, con qualche puntata nella storia ‘scomoda’ del Paese. I suoi soggetti sono di regola storie che si sarebbero potute trattare anche tragicamente” (1985: 99). La commedia all’italiana deriva il suo impegno sociale e politico dalla stagione del neorealismo e trova il suo apice negli anni Sessanta, con registi come Dino Risi, Mario Monicelli, Ettore Scola. Dal punto di vista attoriale il genere si lega ai volti dei cinque protagonisti comici del periodo: Alberto Sordi,Vittorio Gassman, Ugo Tognazzi, Marcello Mastroianni e Nino Manfredi, definiti i “cinque moschettieri” della commedia all’italiana da Gian Piero Brunetta (2001: 138). Il film di Virzì è un tentativo di ricostruire il binomio impegno-risate che definiva la commedia all’italiana, riflettendo su quello che è tuttora uno dei più importanti problemi sociali dell’Italia contemporanea: la cronica mancanza di opportunità lavorative per i giovani, laureati e non. Il tono grottesco di Tutta la vita davanti si avverte già dalla sequenza iniziale, con Marta che immagina le persone sedute con lei sul bus ballare sulle note dei Beach Boys, e la voce fuori campo di Laura Morante che spiega: “Da un po’ di tempo Marta Cortese si immaginava che le persone iniziassero la giornata di lavoro con una lieta coreografia collettiva”. Il sogno a occhi aperti di Marta sfocia poi nella canzonetta da villaggio vacanze del call center in cui lavora, dove le ragazze ogni mattina danzano un balletto motivazionale davanti alla caporeparto Daniela. Si balla e si canta, dunque, sul luogo di lavoro, come se fosse un villaggio vacanze o qualche programma televisivo, dove la felicità sembra essere a portata di mano per tutti. Ma il ballo e il canto, la finta allegria, sono maschere che servono a coprire la disperazione di una società in bilico sul baratro. Marta, infatti, grazie al bagaglio culturale che le sue colleghe non possiedono, si rende ben presto conto che il call center è un sinistro Paese delle Meraviglie, dove tante inconsapevoli Alice vengono trasportate e illuse dalla promessa di carriera, soldi, gloria, e dove invece la realtà viene deformata dagli specchi dei training motivazionali e delle premiazioni ed eliminazioni tipiche dei reality show. Il call center è gestito da Daniela – interpretata da una brava Sabrina Ferilli – come se fosse un programma televisivo. Si viene ‘nominati’ come nel Grande Fratello, il programma di cui tutte parlano. Si viene premiati quando si è popolari, e si partecipa ad uno psicodramma collettivo quando qualcuno viene non licenziato ma ‘eliminato’. “Abbiamo volutamente tracciato un parallelo con i reality show perché in qualche modo indicano l’orientamento del nostro paese” dice Francesco Bruni (cosceneggiatore di Tutta la vita davanti insieme allo stesso Virzì). “Non vogliamo dire che non esiste più la solidarietà, perché c’è anche nei reality, ma di fronte alla nomination o all’eliminazione la logica del gioco è mors tua vita mea, una regola che ormai vige anche nella vita reale”2. Altro tema centrale del film è dunque l’onnipresenza della televisione e dei suoi programmi trash, specialmente il Grande Fratello e i suoi protagonisti, dei quali tutte le colleghe di Marta conoscono nomi e azioni. L’atmosfera da villaggio vacanze in cui dipendenti e centraliniste sono immersi nasconde infatti 35

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sfruttamento e mobbing, cioè varie forme di prevaricazione o di persecuzione psicologica sul luogo di lavoro nei confronti dei lavoratori, di cui gli stessi dipendenti non sono consapevoli perché spesso ingenui e irretiti dai reality show, cui il call center si ispira nelle dinamiche relazionali. Il confronto tra la filosofia di Heidegger, le dinamiche tra le lavoratrici di un call center e quelle in atto nei reality show televisivi diventerà poi il nucleo del saggio che Marta scriverà per una rinomata rivista inglese: “Heidegger e la distruzione della storia dell’ontologia”. L’assuefazione ai programmi spazzatura diviene così una delle cause, secondo il film, della totale assenza di coscienza di classe delle impiegate del call center, ricordando non poco le tesi pessimiste di Adorno e Horkheimer sulla società di massa. Nel loro testo fondamentale, La dialettica dell’Illuminismo (1947), Adorno e Horkheimer coniano il termine industria culturale per definire i rapporti umani nell’era del capitalismo monopolistico, dove la standardizzazione dei beni culturali produce falsi bisogni e riduce le masse alla passività e all’alienazione sociale. Nel modo in cui le masse del call center sono rappresentate c’è molto delle tesi di Adorno e Horkheimer, a partire dalla locandina di Tutta la vita davanti che richiama il celebre quadro di Giuseppe Pellizza da Volpedo “Il Quarto Stato”. Il dipinto, realizzato nel 1901, rappresenta una marcia di lavoratori in sciopero, che avanza seria e compatta verso la luce. La locandina di Tutta la vita davanti sostituisce ai seri e organizzati lavoratori di inizio Novecento un moderno Quarto Stato composto dai giovani precari dei call center. Invece dello sguardo determinato degli operai di Volpedo, però, i precari marciano festanti, col sorriso sulle labbra, senza alcuna consapevolezza di classe, con la disperata allegria di chi non sa dove sta andando. La finta allegria e i falsi sorrisi che pervadono il film mascherano dunque l’abissale solitudine delle ragazze e dei ragazzi sfruttati nel call center, che sono però incapaci persino di riconoscere la loro condizione di ‘schiavi moderni’ e si credono parte di un progetto collettivo di successo. Se per Marx la religione era l’oppio dei popoli, per Virzì l’oppio sono i reality show e la società dell’apparenza e dell’arrivismo promossa dal capitalismo rampante della Multiple: i ragazzi sono sottopagati e costretti a vendere il depuratore d’acqua della Multiple a famiglia, amici e parenti, e i loro diritti come lavoratori (dall’andare in bagno all’avere la copertura sanitaria) sono o rifiutati o concessi come favore personale, sotto il mantra di essere alla Multiple per diventare ‘persone di successo’, come i protagonisti dei reality show televisivi, famosi senza essere nessuno.Tutto questo viene progressivamente svelato da Marta con l’aiuto del sindacalista dei precari Giorgio, interpretato da uno stropicciato Valerio Mastandrea. Giorgio è un personaggio-chiave del film, in quanto raffigura il fallimento e la disillusione degli ideali della sinistra che si batteva per ottenere condizioni migliori per i lavoratori, poiché è rifiutato in primo luogo proprio dalle persone che vorrebbe difendere. Giorgio è introdotto nel film da una sequenza in cui cerca di entrare nel call center della Multiple e viene bloccato dalla sicurezza, mentre tutte le centraliniste ridono di lui. Poco dopo, all’uscita del turno, Giorgio cerca di distribuire volantini sindacali sul bus che riporta le lavoratrici 36

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a casa, tra le prese in giro e gli sguardi di disprezzo delle interessate. Ritornando al paragone con la commedia all’italiana degli anni Sessanta, Giorgio ricorda Nino Manfredi nel ruolo di Antonio nel film di Ettore Scola C’eravamo tanto amati (1974), film elegiaco che venne salutato all’epoca come la summa e al tempo stesso l’epitaffio della commedia all’italiana (Brunetta, 2001: 386). Il film di Scola è non a caso citato direttamente nel film, nella scena in cui Marta e sua madre, malata di cancro, ne guardano una scena in televisione in ospedale. La sequenza in questione è proprio quella in cui Antonio, il personaggio interpretato da Nino Manfredi, ritrova Luciana e le fa capire che è l’unico dei tre amici che non è cambiato. L’atteggiamento di Antonio, l’ex partigiano rimasto fedele alle sue idee politiche e alle sue battaglie, che però sono ormai percepite come datate e si devono misurare con la ristrettezza della vita quotidiana, è rievocato nelle parole di Giorgio a Marta durante una loro conversazione notturna. Quando Marta, disgustata da come Daniela ha licenziato alcune colleghe, si confida finalmente con Giorgio, gli chiede anche come mai ha deciso di diventare sindacalista. Giorgio pronuncia il solo discorso apertamente politico del film, intriso di nostalgia per un passato più battagliero, dove i lavoratori erano uniti e non divisi dallo sfruttamento capitalista. Giorgio dice: “Alle manifestazioni sindacali al tempo di mio padre ci andavano tutti i 9.000. Erano belli, erano forti. Erano allegri, con le tute blu, i cartelli, gli striscioni. Era bellissimo. Lì anche l’ultimo arrivato si sentiva invincibile, perché se toccavano uno, toccavano tutti”. Al che Marta risponde che il discorso è “retorico e anticamente patetico”, mostrando a Giorgio come alcuni sindacati abbiano fallito nel tentativo di raggiungere i lavoratori precari proprio perché sono rimasti ancorati ad un’idea di lavoro e di unione sindacale che appartiene al passato, che non corrisponde più ad una società frantumata come quella odierna. A fare da contraltare a Giorgio c’è Claudio, interpretato da Massimo Ghini, il rampante manager che in realtà è pieno di debiti, è stato cacciato di casa dalla moglie e non può vedere i figli. Ghini ricorda certi personaggi tratteggiati da Vittorio Gassman nei film di Dino Risi, specialmente ne Il sorpasso (1962): sbruffone, apparentemente sicuro di sé, cinico e amante delle belle donne, ma in realtà solo e fallito. Una sequenza in particolare ricorda il Gassman de Il sorpasso: Claudio chiede a Marta di salire in macchina con lui per una commissione, senza dirle dove sta andando. Per tutto il tragitto Claudio cerca di impressionare Marta con citazioni (errate) di latino e filosofia spicciola su come ottenere successo e soldi, mentre Marta maschera perplessità e imbarazzo con timidi sorrisi. Alla fine del viaggio in auto, però, non c’è il fatale incidente che chiude il film di Risi, bensì l’amara scoperta che Claudio è un padre cacciato di casa, che deve usare la sua dipendente anche per recuperare i vestiti dal suo armadio. Virzì utilizza due dei più popolari attori della televisione italiana, Massimo Ghini e Sabrina Ferilli, per interpretare i due ‘cattivi’ della sua favola nera, il capo e la direttrice del call center. Ma come ne Il sorpasso, nella tradizione della commedia all’italiana e 37

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degli attori e registi che l’hanno resa celebre, da Gassman a Tognazzi, da Risi a Monicelli, anche i ‘cattivi’ di Tutta la vita davanti sono personaggi di cui alla fine provi pietà, perché sono essi stessi vittime di un modello sociale dominante che produce falsi valori in cui riconoscersi. Lo stesso Virzì infatti afferma: È vero, in Tutta la vita davanti anche i cattivi sono delle vittime. Non è un caso che abbia fatto laureare Marta, la protagonista, sul pensiero arendtiano. Quando la Arendt – dopo essersi prodigata per aiutare gli esuli ebrei della Germania nazista – assiste al processo del gerarca nazista Eichmann, e se lo trova di fronte, vede un uomo che aveva condotto il campo di concentramento di Auschwitz con la stessa pignoleria di un rivenditore d’auto. Vede un ragioniere e prova compassione per lui. La stessa che prova Marta nei confronti dei suoi superiori e dei suoi colleghi. Il suo non è uno spirito di condanna. I personaggi interpretati da Sabrina Ferilli e Massimo Ghini sono due disgraziati, due patetici, che non riescono ad assurgere al ruolo di veri cattivi3. Virzì costruisce personaggi complessi e sfaccettati, comici e tragici a un tempo, tutti disperatamente umani e autentici. Come la sua protagonista,Virzì utilizza uno sguardo lucido ma non giudicante, direi anzi compassionevole, per riflettere sulle spaventose dinamiche del mondo moderno. Come afferma Grande in La commedia all’italiana, una delle sue caratteristiche è l’accentuazione dei caratteri e la crisi della rappresentazione del verosimile, forzando la realtà rappresentata verso la farsa e il grottesco, attraverso personaggi-maschere (2002: 49). E di personaggi-maschere è pieno il mondo di Tutta la vita davanti. Uno dei più riusciti è senza dubbio quello di Sabrina Ferilli, nel ruolo di Daniela, la donna ‘arivata’, con una erre sola come la pronunciano le ragazze di borgata impiegate nel call center. Daniela, tutta vezzi e vestiti sadomaso, nasconde una relazione col capo sposato, una gravidanza scomoda e una solitudine abissale. Daniela è un personaggio odioso ma anche patetico: è lei che obbliga le centraliniste a cantare e ballare ogni mattina, che favorisce le ragazze che vendono di più ma che umilia pubblicamente e licenzia quelle che non prendono abbastanza appuntamenti. Nello stesso tempo, è una donna sola, amante del capo che usa moglie e famiglia come scusa per non rendere pubblica la loro relazione, ma che non le ha mai confessato di essersi già separato da tempo. Daniela è spesso ripresa in piano americano, stretta in vestiti attillati e con un onnipresente microfono con il quale esorta, comunica, sgrida le impiegate come fossero bambine, invece che donne adulte. Ma Daniela è tutta apparenza, perché dietro il successo dei suoi vestiti e dei suoi modi da donna in carriera, è una donna sola, come si trova presto a scoprire Marta. In una sequenza del film, Marta è invitata dalla direttrice alla festa di inaugurazione del suo nuovo appartamento. Quando arriva, la ragazza assiste a varie telefonate di altri ospiti che prendono scuse per la serata, tanto che alla fine Marta è l’unica ospite di Daniela. Marta si accorge della solitudine che circonda la temutissima 38

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direttrice del call center, resa ancora più acuta dai colori freddi e dagli spazi angolari del nuovo appartamento. Mentre Marta siede impacciata sul divano, Daniela entra nella stanza con una carrozzina, confessando che aspetta un figlio da Claudio, di cui è l’amante, e che si aspetta che lui lasci presto la moglie per stare con lei. In una sequenza successiva, Marta capirà che Claudio è già stato lasciato dalla moglie tempo prima e che non ha nessuna intenzione di sposare Daniela, cosa che porterà al tragico e insieme grottesco finale. Il personaggio di Daniela dunque è rappresentato dal regista come carnefice e vittima al tempo stesso, donna apparentemente di successo ma vuota e sola. A farle da contraltare è Sonia, una ragazza-madre con pochi soldi e poca testa, che arriva a prostituirsi dalla disperazione, ma che lo fa per amore della figlia. Sonia è un’altra maschera, estrema e grottesca nel suo essere tanto bella quanto completamente priva di cervello e irresponsabile, con i suoi perizomi a vista, i tatuaggi, e il suo italiano sgrammaticato e dall’inflessione pesantemente romana. Ma Sonia, a dispetto di Daniela, ha un cuore, e una bambina che l’adora. Ed è la rappresentazione, in chiave marxista e tendenzialmente paternalista, della classe lavoratrice succube e sfruttata senza neppure sapere di esserlo. Se Tutta la vita davanti è un film marcatamente di sinistra nella critica al capitalismo selvaggio che non tutela i lavoratori, soprattutto giovani,Virzì tuttavia non risparmia critiche nemmeno alla cosiddetta sinistra intellettuale, nelle vesti privilegiate dei ricchi ex compagni di corso di Marta, così come aveva già fatto in Ovosodo (1997). Ragazzi intelligenti ma privilegiati, gli ex compagni d’università di Marta non hanno avuto bisogno di finire gli studi perché le famiglie facoltose li hanno sistemati in centri di potere editoriale e mediatico. Non saranno mai precari né sapranno cosa vuole dire; figli di una sinistra borghese che cita Althusser senza sapere di essere lei stessa creatrice dell’ideologia dominante. Uno dei momenti di critica più amara e corrosiva, infatti, è la sequenza della cena tra ex compagni di corso, in cui Marta scopre che due dei suoi amici sono tra i creatori del famigerato Grande Fratello: la trasmissione continuamente citata dalle sue illetterate compagne di sventura al call center, e colpevole di rendere le lavoratrici totalmente succubi di una mitologia collettiva, per dirla con Barthes, basata sulle meccaniche televisive, come abbiamo visto. La favola nera di Virzì quindi accetta l’eredità della commedia all’italiana, nella forma dei personaggi-maschere e nella critica sociale in forma di satira. Ma citando Scola, Virzì ammette che oggi fare commedia all’italiana può essere difficile, forse impossibile, perché è cambiato il pubblico, è cambiato il sistema produttivo cinematografico, e forse è cambiata anche la sensibilità a certi temi e certe pellicole, mentre il modulo della commedia è giunto a un impasse e non costituisce più una forza vitale capace di influenzare la società italiana4. Tutta la vita davanti si pone dunque come riflessione sulla rappresentabilità o meno del reale nel cinema italiano di oggi, sul senso del fare denuncia attraverso il riso, sulla capacità del mezzo cinematografico di essere ancora strumento di riflessione sul reale. 39

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Questo è evidente nella sequenza che chiude il film: Marta, stanca e in colpa per quello che ha visto nel call center, decide di fare visita alla signora Franca, un’anziana conosciuta tramite il call center, che le aveva confessato di aver perso una nipote, morta suicida perché non trovava lavoro. Dopo un pianto liberatorio nelle braccia di questa nonna gentile, Marta si ferma a pranzo dalla signora insieme a Sonia e Lara. La macchina da presa si sofferma su questa scena di ritrovata serenità quotidiana che, come una favola, fa ritrovare insieme i personaggi più positivi del film: Marta, la protagonista, che ha per tutto il film uno sguardo ironico, ma pieno di pietas. Non giudica, ma nello stesso tempo non perde di vista i meccanismi di inautenticità propri della quotidianità, per dirla con Heidegger, che regolano la sua vita e quella delle sue compagne; Lara e Sonia, unite da amore materno; e la signora Franca che si affeziona a Marta, rivedendo in lei le stesse fragilità che hanno portato la nipote a suicidarsi. Le quattro donne, di generazioni diverse, sono per un attimo serene, unite intorno alla tavola imbandita, lontane dal mondo. Sembra di sentire, in lontananza, la voce di Laura Morante che recita ‘E vissero felici e contenti’. Ma al posto della voce fuori campo il commento è lasciato a una canzone anch’essa un po’ fiabesca, Que Sera, Sera (Whatever Will Be,Will Be), mentre la macchina da presa si alza a mostrare il cortile dove le donne stanno pranzando, e poi tanti altri cortili simili a quello, in fila, alla periferia romana. Il finale fiabesco e sospeso dimostra che il modulo della commedia ha perso la forza d’integrazione che aveva negli anni Sessanta, e non riesce a dare più risposte in una società liquida, per usare le parole di Bauman, dove l’omogeneizzazione si crea attraverso il ridurre l’individuo a mero consumatore di beni e la frenesia dell’accumulo produce la frammentazione dei rapporti (2007). Come afferma Northrop Frye in Anatomia della critica, il tema base del genere comico è il percorso di integrazione in un dato sistema sociale, che assume la forma dell’incorporazione di un personaggio centrale nella società stessa, un movimento da un vecchio ad un nuovo sistema sociale (1957: 280). In molte commedie all’italiana degli anni Sessanta il movimento era chiaro, seppur doloroso: il passaggio da una società arcaica verso il nuovo sistema sociale dell’Italia del boom. Nel finale agrodolce di Tutta la vita davanti, però, non c’è nessun passaggio, nessun ‘progresso’, seppure caro da pagare. C’è, semmai una stasi, una sospensione, rappresentata dallo spazio atemporale del giardino dell’anziana signora, una sorta di Eden senza tempo e senza peccato. Nessuno sa cosa accadrà a Marta e Sonia, il finale è sospeso. C’è comunque una speranza, che quel giardino e quel momento possano far nascere una nuova consapevolezza. Come Lara, che – cresciuta a pane e Grande Fratello – da grande, ha deciso, farà la filosofa.

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Beppe Grillo: http://grillorama.beppegrillo.it/schiavimoderni/ In Tutta la vita davanti: l’odissea del precariato. http://www.mymovies.it/cinemanews/

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2008/2995/ In Tutta la vita davanti: l’odissea del precariato. http://www.mymovies.it/cinemanews/ 2008/2995/ Bondanella, P. “La comédie métacinématographique d’Ettore Scola”, CinémAction, n. 42, 98. Citato in Gian Piero Brunetta. Storia del cinema italiano, volume quarto. Roma: Editori Riuniti, 2001, 386.

Bibliografia Adorno, T. e Horkheimer, M. (1997) Dialettica dell’illuminismo, Trad. it. di R. Solmi, Torino: Einaudi. Barthes, R. (1994) Miti d’oggi, Torino: Einaudi. Bauman, Z. (2007) Liquid Times: Living in an Age of Uncertainty, Cambridge: Polity. Brunetta, G.P. (2001) Storia del cinema italiano, volume quarto, Roma: Editori Riuniti. D’Amico, M. (1999) La commedia all’italiana, Milano: Mondadori. Frye, N. (1969) Anatomia della critica, Torino: Einaudi. Grande, M. (2002) La commedia all’italiana, a cura di Caldiron, O., Roma: Bulzoni Editore. Murgia, M. (2006) Il mondo deve sapere. Milano: Isbn Edizioni.

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Paolo Chirumbolo

Una politica dal volto umano: le Parole sante di Ascanio Celestini

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n uno studio uscito nel 2001 dal titolo Il costo umano della flessibilità, il sociologo italiano Luciano Gallino ha analizzato la situazione lavorativa venutasi a creare in Italia ed in altre parti del mondo1 in seguito all’introduzione di norme giuridiche finalizzate a rendere più flessibile e funzionale il mercato del lavoro, e si è interrogato sui vantaggi e gli svantaggi di tali politiche occupazionali. I sostenitori di tale flessibilità, scrive Gallino, sono soliti usare due argomenti. Il primo si basa sulla necessità che hanno le imprese contemporanee (Gallino, 2001: 4) di “far variare i costi diretti e indiretti del lavoro in relazione stretta con l’andamento dei mercati” al fine di poter reggere una competizione che oggi più che mai è sempre più globale. Il che significa, tradotto in termini pratici, utilizzare una forza lavoro che sia sempre in armonia con i ritmi della produzione. Il secondo argomento addotto a sostegno di questa politica è quello che afferma che la nuova flessibilità lavorativa (Gallino, 2001: 8) favorisce in ogni caso l’aumento della occupazione ed è dunque lo strumento più efficace per combattere il fenomeno, sempre più dilagante, della disoccupazione, in particolare della disoccupazione giovanile. I problemi legati ad un tale approccio politico sono, per Gallino, numerosi e di grande impatto sociale. Innanzitutto, sostiene il sociologo, dietro queste nuove norme si scorge (2001: 14) “un attacco generalizzato al diritto al lavoro”, un attacco cioè contro tutte quelle norme che a partire dal 1945 hanno garantito i diritti di milioni di lavoratori. Le conseguenze di questa aggressione sono gravi e profonde: non solo essa produce quella che Gallino stesso ha definito (Gallino, 2005: 3) “l’impresa irresponsabile”, un’azienda cioè che mette al primo posto sempre e soltanto i propri interessi economico-finanziari e mai quelli degli impiegati, ma produce anche il fenomeno della frammentazione / disgregazione sociale (Gallino, 2001: 15) “delle classi lavoratrici e delle loro forme associative.” Inoltre, ed è questo l’aspetto più preoccupante, quello su cui Gallino si sofferma con maggiore veemenza, la flessibilità comporta (Gallino, 2001: 22) “rilevanti oneri personali e sociali, a carico dell’individuo, della famiglia, della comunità.” Ed è da qui che bisogna partire: da quelle

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(Gallino, 2001: 22) “ferite dell’esistenza” che vengono al giorno d’oggi prodotte dal frastagliamento del mondo del lavoro contemporaneo; da quei lavori a progetto, a chiamata, intermittenti che, per diverse migliaia di persone, rappresentano al giorno d’oggi l’unica fonte di sussistenza e, fatto ancor più grave, fonte interminabile di ansia, preoccupazione, precarietà. È in questo contesto sociale e politico fatto di incertezze e di progressiva erosione dei fondamentali diritti del lavoro che va inserito il documentario di cui ci si occupa in questa sede, Parole sante (2007) di Ascanio Celestini, secondo episodio di una trilogia di opere dedicate al lavoro precario cominciata con lo spettacolo teatrale Appunti per un film sulla lotta di classe (2005) e culminata con la pubblicazione del romanzo a quattro voci Lotta di classe (2009)2. Il documentario racconta con grande sensibilità e delicatezza e senza mai cadere nella facile retorica la lotta politica del collettivo PrecariAtesia di Roma. Il collettivo rappresenta i lavoratori dell’Atesia (il più grande call center italiano e uno dei più grandi d’Europa) che tra il 2005 e il 2007 sono stati al centro di una serrata vertenza contrattuale durante la quale numerosi operatori telefonici, di fronte ad alcune decisioni dell’azienda (in particolare quella di penalizzare di cinque centesimi chi superava il limite massimo di due minuti e quaranta secondi a telefonata, imponendo così un abbassamento del compenso) hanno deciso di protestare, fare sentire la propria voce e cominciare così una battaglia in difesa dei propri diritti. Celestini, artista da sempre sensibile ai problemi di ordine sociale3, cantastorie immerso linguisticamente e culturalmente nel mondo che lo circonda, si è avvicinato a questa storia con grande discrezione e rispetto, riuscendo in tutte e tre le occasioni a trasformare la mera cronaca, quanto accaduto in Atesia, in poesia, entrando in tal modo nelle pieghe non solo del lavoro precario ma anche, e soprattutto, in quelle della precarietà esistenziale dei singoli individui, di coloro cioè che pagano in prima persona, per tornare a Gallino, i “costi umani della flessibilità”. Come ha affermato provocatoriamente il cantastorie romano (Celestini, 2008: 43): “Il lavoro precario non esiste. La flessibilità non esiste, ma nemmeno il lavoro per sempre, il posto fisso. Non esiste il mercato del lavoro. Anzi potremmo dire che non esistono né il mercato né il lavoro. Non ci sono l’economia, gli investimenti, le banche con i capitali, le leggi di mercato, la globalizzazione, il trend. Ci sono gli esseri umani con nome e cognome.” Ed è proprio di questi “esseri umani con nome e cognome”, di questi uomini e donne con storie da raccontare e volti da mostrare che l’artista romano si è voluto occupare. Celestini, come è suo costume, ci mette la faccia, non ha paura di esporsi, entra nel documentario in prima persona e interagisce con i protagonisti. Ma non lo fa, come ha notato Curzio Maltese (Celestini, 2008: 7) “alla Michael Moore”, mettendosi cioè sempre in prima fila a difendere, novello Robin Hood, i deboli di tutto il mondo. Lo stile narrativo-cinematografico di Celestini è diverso, più limpido e leggero, e intende lasciare la scena ai veri protagonisti della storia, gli operatori del call center di Atesia. L’analisi di Parole sante deve necessariamente partire dalla sua cornice, dallo stupendo monologo della goccia d’acqua che apre e chiude il film4, e che conferisce 43

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all’opera la propria dimensione ideologico-politica. Il documentario comincia con Celestini che – ripreso in primissimo piano con lo sguardo fisso rivolto verso lo spettatore, quasi a volerlo chiamare direttamente in causa, a interpellarlo in prima persona – racconta la storia dell’uomo seduto confortevolmente nella propria stanza che osserva il rubinetto perdere acqua, goccia dopo goccia. L’uomo, dice Celestini, comincia a preoccuparsi. Vero, pensa, sono gocce piccole, ma una dopo l’altra esse faranno traboccare il vaso, inonderanno la stanza, allagheranno tutto il palazzo, l’acqua affogherà le macerie. Insomma, l’uomo guarda la goccia e vede il diluvio, avverte il pericolo imminente. Tuttavia, sceglie di ignorare il problema, e si dice, no, non è possibile, non succederà niente. Seduto sul suo letto, si gira verso il muro, sorride, e si addormenta serenamente. Se il monologo di apertura rappresenta un vero e proprio atto di accusa nei confronti di chi, conscio di vivere una situazione di emergenza (nel caso specifico la fine delle garanzie occupazionali), sceglie coscientemente la strada della in-azione e del disimpegno, il monologo finale, che utilizza la stessa messa in scena e lo stesso tipo di inquadratura fissa sul viso dell’attore, critica con grande forza satirica il sistema di (non)rappresentanza politica vigente in Italia. Seduto nella stanza, l’uomo continua ad osservare il rubinetto che perde e pensa che forse dovrebbe fare qualcosa per chiuderlo. Ma l’uomo di cui parla Celestini non crede nell’autorganizzazione, nell’intervento individuale5, e si aspetta che siano le istituzioni a risolvere il problema della goccia. Immagina così diverse soluzioni: l’uomo di destra e quello della sinistra moderata (Celestini crede, polemicamente, che tra le due posizioni politiche non vi sia alcuna differenza) userebbero i metodi forti, salderebbero il rubinetto e la goccia smetterà di cadere. L’uomo di sinistra radicale a sua volta consiglierebbe all’uomo di alzarsi dalla sedia e chiudere il rubinetto da sè. Tuttavia, e qui la critica politica di Celestini si fa al vetriolo, ciò sarebbe in contrasto con le posizioni della sinistra moderata per cui bisogna sempre essere cauti e responsabili, per non correre il rischio di fare cadere il governo (Celestini, 2008: 55): “Chiudere il rubinetto per arrestare la caduta della goccia è un’ottima soluzione, ma non è la strada percorribile. Perciò aspettiamo.” Resterebbe il sindacato, pensa l’uomo, potrei rivolgermi a loro. Ma anche in questo caso più che una soluzione il sindacalista offre unicamente una mediazione tra le diverse posizioni politiche e dunque, in un’ultima analisi, ulteriore immobilismo. Incapace di agire in prima persona e tradito dalle istituzioni che dovrebbero risolvere il problema del rubinetto, all’uomo non resta che contemplare le gocce d’acqua, addormentarsi e affogare con serenità. Posta all’inizio e al termine del documentario l’allegoria della goccia assume una valenza assolutamente centrale e rappresenta un chiaro invito all’azione, alla partecipazione, all’autorganizzazione sociale, tutti quegli elementi cioè che hanno fatto della lotta del comitato PrecariAtesia un episodio importante e paradigmatico della storia politica italiana del nuovo millennio. Al contrario dell’uomo seduto nella stanza che viene travolto serenamente dagli avvenimenti, i protagonisti di Parole sante hanno avuto il coraggio di alzarsi dalle loro sedie e hanno cercato di chiuderlo loro quel rubinetto, 44

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con le proprie mani, rischiando in prima persona e, soprattutto, senza contare sull’aiuto delle istituzioni preposte a tale scopo. Il viaggio di Celestini all’interno della realtà di Atesia comincia con l’incontro con alcuni membri dell’Assemblea Coordinata e Continuativa Contro la Precarietà (primo collettivo autorganizzato ad entrare in contatto con gli operatori del call center) e con alcuni dei protagonisti della lotta politica in Atesia. Sono ragazzi semplici, come tanti altri, dai nomi comuni. Si chiamano Maurizio, Mara, Cecilia, Christian, Peppe, ed entrano nel call center con la speranza che sia solo un’esperienza temporanea, un lavoro part time, la prima occupazione di una vita da dedicare al lavoro. Ma si sbagliano: per molti di essi quell’impiego fatto di telefonate, di postazioni mal funzionanti, di orari impossibili, diventa ben presto il lavoro, quello cui affidarsi per pagare le bollette, mantenere una famiglia, costruire una vita, fare dei progetti. Artista affamato di realtà, Celestini vuole capire cosa è un call center, come funziona, come ci si entra, che tipo di lavoro si fa al suo interno e, aspetto molto interessante, quale sia la sua collocazione spaziale. Il palazzo dell’Atesia, un imponente palazzo a vetri che sembra “un autogrill spaziale” (Celestini, 2008: DVD), si trova nel quartiere Cinecittà di Roma, proprio di fronte al centro commerciale Cinecittà 2. Per Celestini questa prossimità spaziale acquista una rilevanza simbolica, su cui riflettere. Scrive l’autore in ‘I cinesi di Cinecittà’ (Celestini, 2008: 12): “Non si capisce il call center senza conoscere la porzione di città che lo circonda.” Vero. Le due strutture, Cinecittà 2 e Atesia, non sono solo il prodotto della medesima cultura imprenditoriale che ha distrutto le periferie (“due colate di cemento figlie della stessa cultura palazzinara”; Celestini, 2008 DVD) imponendo un nuovo tipo di socialità fondata sul consumismo più sfrenato (la piazza, il luogo di aggregazione per eccellenza, è stata sostituita dallo shopping center, dalle sue merci e dalle sue illusioni;6), ma rappresentano anche le due facce della stessa medaglia, dello stesso sistema economico-commerciale che intende sfruttare e illudere consumatori e lavoratori: dal fast food al fast job, dal cibo economico al lavoro a basso costo. Se una critica può essere in questo frangente rivolta al Celestini regista di Parole sante essa riguarda non l’intuizione, brillante, che pone Cinecittà 2 e Atesia sullo stesso piano urbanistico e sociologico, quanto piuttosto la mancata traduzione visiva, in immagini, di questo rapporto. Qui, a mio parere, l’autore denota la propria immaturità cinematografica, perdendo così la grossa occasione di esplorare con maggiore profondità il contesto urbano in cui si inserisce la storia raccontata, aspetto che avrebbe conferito al documentario un’ulteriore pregnanza sociale, politica e culturale, oltreché cinematografica7. Celestini, abile cantastorie, ripercorre le varie tappe del contenzioso, e lo fa da un lato attraverso le interviste ai protagonisti del Collettivo PrecariAtesia, dall’altro affidando alla propria voce il compito di raccontare, spiegare le varie fasi della lotta, cucire tutto il narrato, sempre però senza saccenza e senza enfasi retorica, ma anzi con tocco lieve e leggero. Celestini scandisce così le tappe del contenzioso che, cominciato nel maggio del 2005, produce tutta una serie di eventi impensabili all’inizio dello scontro tra il collettivo e l’azienda: scioperi, proteste, mancate riassunzioni dei membri 45

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del collettivo, vessazioni di vario tipo, un’indagine dell’ispettorato del lavoro che dà ragione ai lavoratori di Atesia, il ricorso al TAR dell’azienda, il referendum del sindacato, la vittoria-sconfitta dei lavoratori, costretti a scegliere tra un contratto parttime e la non-riassunzione. Le interviste, il vero cuore emozionale del documentario, sono tutte girate all’interno della sede del comitato PrecariAtesia, un semplice sottoscala di un palazzo ubicato sull’Appia8. L’enfasi cade ovviamente sui lavoratori, e lo sguardo dell’autore si concentra sulle loro facce (frequenti sono i primi e i primissimi piani), sulle loro espressioni cariche di rabbia, frustrazione, disillusione. È, questo, uno degli aspetti più interessanti e meglio riusciti di Parole sante. Attraverso un sapiente lavoro di costruzione delle immagini Celestini intende riportare il soggetto precario al centro dell’inquadratura. Se nella prima parte dell’opera infatti i vari protagonisti intervistati occupano per la maggior parte uno spazio marginale del quadro, occupano cioè solo un lato dello schermo, appaiono cioè letteralmente scentrati, con il proseguire della narrazione e degli eventi essi conquistano sempre di più il centro della scena e dell’inquadratura. L’immagine diventa cioè una metafora del mondo sociale e politico, delle conquiste seppur velleitarie ottenute mediante la lotta. Messo letteralmente al margine e alla periferia del sistema produttivo ed economico (a margine della vita stessa) il soggetto riesce dunque a riscattarsi, a dimostrare che attraverso l’autorganizzazione è possibile salvaguardare la propria dignità di lavoratore e la propria identità soggettiva. Le parole di Maurizio, uno dei membri più attivi del comitato PrecariAtesia, servono a chiarire meglio il senso profondamente liberatorio, quasi catartico, della protesta. Creato il collettivo bisognava essere d’accordo su alcuni aspetti fondamentali e, soprattutto, darsi una struttura e una disciplina. Dice Maurizio (Celestini, 2008: DVD): si sono prese una serie di decisioni del tipo “nessuno agisce più di testa sua. Tutto quello che si fa si decide dentro l’assemblea, e quello che esce dall’assemblea si mette in pratica, si fa.” Poi, riferendosi all’autorganizzazione ed ai suoi principi, Maurizio aggiunge: “Quali sono i passaggi dell’autorganizzazione? Sono quattro: sapere, fare sapere, sapere fare, fare.” In un sistema di lotta autorganizzata è dunque fondamentale il momento della conoscenza, dell’informazione, dell’apprendimento, e, soprattutto, quello dell’azione. È su questo, spiega ancora l’ex operatore dell’Atesia, che ci si è concentrati: sul fare (Jansen, 2010: 199), sulla concretezza dell’azione politica e di protesta. È il ritorno ad una politica dal volto umano in cui tocca al lavoratore prendere l’iniziativa, alzarsi per chiudere il rubinetto ed evitare che tutto vada alla deriva. L’ideologia politica, quella tradizionale, quella fatta da politici professionisti e dai loro inconcludenti discorsi pieni di parole e privi di fatti tangibili, totalmente separati dalla realtà, scompare, con tutta la sua inadeguatezza (in Parole sante, detto per inciso, la presenza delle Istituzioni Politiche è rappresentata unicamente da Rosa Rinaldi, all’epoca dei fatti sottosegretario al Ministero del Lavoro del governo di centro-sinistra guidato da Romano Prodi9). Per sottolineare questa esigenza di 46

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concretezza Celestini indugia spesso con la macchina da presa sulle mani degli intervistati. È una strategia narrativa mediante la quale la voglia di pragmaticità assume un correlativo oggettivo-visivo, quasi a voler rimandare al significato etimologico della parola ‘mano’ (dal sanscrito ‘mâ-nam’, ossia ‘quello che misura, si estende, abbraccia, costruisce’). Le mani sono il simbolo per eccellenza del lavoro fatto in prima persona. Sono anche, come del resto testimoniano alcune espressioni ricorrenti nella lingua italiana (prendere in mano la situazione, sporcarsi le mani, rimboccarsi le maniche), il mezzo tramite cui riprendersi i propri diritti e rimettersi al centro della narrazione. Rappresentano insomma un forte invito all’azione, ad assumere il controllo del proprio destino. Soprattutto quando non si ha più nulla da perdere. Verso la fine del documentario, Celestini diventa autoriflessivo e si lascia andare ad un commento metalinguistico apparentemente privo di significato su cui viceversa è interessante soffermarsi. Parlando del proprio film, l’attore romano dice (Celestini, 2008: DVD): “Da queste interviste viene fuori un documentario un po’ loffio, un po’ moscio. Non ci stanno inseguimenti, sparatorie, ma nemmeno le tragedie della guerra, i casi umani disastrosi. Se ci stava un po’ di violenza magari ci tiravamo fuori qualcosa di diverso. Ma questi precari quando l’intervisto sorridono pure. Fanno le battute”10. L’autore di Parole sante, con l’auto-ironia che gli è consueta, pone un problema di ricezione cui va prestato ascolto, perché di grande rilievo culturale e sociale. Conscio dei gusti imperanti del pubblico medio italiano, che sembra prediligere da un lato il cinema di intrattenimento di marca hollywoodiana, fatto di inseguimenti, sparatorie, esplosioni, omicidi, e dall’altro i programmi televisivi nazional-popolari, in cui si narra di pietosi casi umani con il solo fine di aumentare gli ascolti e gli introiti pubblicitari, Celestini vuole indicare un modo molto personale di fare cinema e di raccontare le storie che gli stanno a cuore. Un cinema minimalista, molto vicino alla narrazione orale (fatta di molte ripetizioni – Possamai, 2010: 299 – e di lunghi monologhi), magari non sempre capace di sfruttare a pieno le potenzialità del mezzo specifico11, di certo però di grande efficacia poetica ed empatica. Parole sante, come del resto tutta l’oeuvre di Celestini, rappresenta un’eccezione all’interno del panorama culturale nazionale che ha il pregio di porsi come discorso politico che si oppone allo status quo, di rompere, come ha sottolineato Raul Mordenti (2012), “l’omologazione neo-totalitaria del pensiero unico berlusconizzato” e di fare sentire le voci altrimenti mute di decine di lavoratori alle prese con le proprie miserie quotidiane. Si arriva così alle ultime sequenze del documentario. Sono immagini tratte dal Festival Bella Ciao (8 settembre 2007) organizzato a sostegno del comitato PrecariAtesia. Celestini, accompagnato dalla propria band, intona “Parole sante”, canzone-manifesto che riassume i fatti salienti della lotta contrattuale: parla di precari del lavoro, di Resistenza, e si chiude con un enfatico “lo deve sapere il popolo!”. Ecco, mi pare che in questo invito si ritrovi tutta l’importanza del documentario. C’è la voglia di denunciare e documentare una situazione che, al di là dei problemi specifici legati al mondo Atesia, si è fatta oramai insostenibile, una storia, per dirla con Celestini 47

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(2008: DVD), che “ci sta succedendo”, e che riguarda tutti. C’è la voglia di dare voce a quelli che definirei i “nuovi vinti” dell’economia flessibile. La voglia di impegnarsi e dare il proprio contributo e a metterci la faccia anche solo con una poesia, una canzone o un documentario, di passare cioè dalla irresponsabilità aziendale e istituzionale alla responsabilità individuale, anche dello spettatore. C’è, soprattutto, voglia di resistenza, libertà, indipendenza. E di speranza.

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Marco Panara, riferendosi alla crisi del lavoro, ha infatti parlato di (Panara, 2010: 7) “malattia dell’Occidente”, di un’infezione cioè che negli ultimi venticinque anni ha aggredito il mondo del lavoro delle nazioni del ricco occidente. In questo particolare contesto socio-economico, la rappresentazione del call center ha acquistato nel corso degli ultimi anni una speciale rilevanza. Assurto a simbolo del postfordismo e della “smaterializzazione” (Rorato, 2010: 89) industriale del terziario, e trasformatosi in luogo in cui sperimentare diversi tipi di contratti, il call center ha, quasi ineluttabilmente, attirato l’attenzione di numerosi narratori, scrittori (e registi) che ne hanno messo in evidenza il carattere alienante e paradossale.Tra i film si segnalano il breve documentario di Christian Manno La fabbrica dei polli (2006), Fuga dal call center (2008) di Federico Rizzo, Tutta la vita davanti (2008) di Paolo Virzì. Tra i romanzi vanno almeno ricordati Viva il call center (Paolo Amadio, 2005), Call center (Angela Ceraso, 2005), Il mondo deve sapere (Michela Murgia, 2006), Voice center (Zelda Zeta, 2007). Per quanto concerne gli aspetti più strettamente storico-teorici legati al mondo dei contact center, l’unico testo che si occupa di tali problematiche è quello di Claudio Cugusi dal titolo Call center. Gli schiavi elettronici della New Economy (2005). Tra le opere di Celestini più rilevanti in tal senso vanno ricordate almeno Fabbrica, scritto per il teatro nel 2002 e poi pubblicato da Donzelli nel 2005, La pecora nera. Elogio funebre del manicomio elettrico spettacolo che ha esordito nel 2003 ed è diventato lungometraggio nel 2010, La fila indiana. Il razzismo è una brutta storia, serie di racconti sul razzismo scritti per il teatro e poi pubblicati per i tipi dell’Einaudi (Io cammino in fila indiana, 2011), lo spettacolo teatrale Pro patria. Senza prigioni senza processi (spettacolo che ha debuttato nel 2011). Da notare come, seppur in forma lievemente modificata, la storia della goccia sia stata ripubblicata in Io cammino in fila indiana. Anche in questo caso, a ulteriore conferma della sua pregnanza politica, la storia è usata come cornice delle varie storie raccontate da Celestini. (Celestini, 2008: 53) “Io sono un democratico e penso che il cittadino elegge i suoi rappresentanti perché si occupino di problemi importanti. Io non sono mica uno di quelli che non credono più nelle istituzioni e fanno i comitati e i collettivi e si vogliono organizzare da soli!” (Celestini, 2008: 11-12) “Questa è la città visibile dove tre-quattromila persone respirano allegramente l’aria condizionata, si guardano le vetrine, parlano con i commessi sorridenti e gentili, bevono l’orzo al ginseng. Questo è il posto dove si viene a passeggiare, dove i 48

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ragazzi si danno il primo bacio, dove fumano la prima sigaretta. Si viene qui perché a Cinecittà non c’è altro posto.” 7 Lo stesso può dirsi per ciò che concerne l’interno del call center di Atesia. Anche in questo caso Celestini mostra solo brevemente gli interni dell’azienda, i suoi open space, le sue famigerate postazioni, quando avrebbe potuto indugiare su questo aspetto un po’ più a lungo. 8 A questo proposito è interessante sottolineare il ruolo che, nella messa in scena delle interviste, assumono i manifesti che si trovano posti alle spalle degli intervistati. Essi sono riferimenti intertestuali che raccontano di analoghi momenti/movimenti di protesta e resistenza. Raccontano di scioperi, manifestazioni, proteste, collettivi autorganizzati, tutte iniziative cioè finalizzate alla difesa dei diritti dei lavoratori. 9 Altrettanto problematica è la presenza/assenza del sindacato, di quell’organo cioè preposto alla difesa dei diritti dei lavoratori. Nel caso specifico della vertenza Atesia la CGIL ha preferito accettare un accordo discutibile (secondo il quale Atesia si impegnava ad assumere i lavoratori con un contratto part time di 550 euro al mese) nonostante i lavoratori del call center romano avessero votato a grande maggioranza contro quel compromesso. 10 Sull’ironia quasi giocosa di alcuni degli intervistati si veda Jansen (Jansen, 2010: 201). 11 Un netto miglioramento in tal senso si è verificato con La pecora nera (2010) opera in cui Celestini, grazie anche al lavoro sulla fotografia di Daniele Ciprì, dà maggior spazio al linguaggio delle immagini, al contesto visuale della storia di cui l’attore romano è anche il protagonista principale.

Bibliografia Celestini, A. (2008) I precari non esistono, Roma: Fandango. ———— (2008) Parole sante, Roma, Fandango Doc. DVD. Ceraso, A. (2005) Call center, Roma: AndreaOppureEditore. Cugusi, C. (2005) Call center. Gli schiavi elettronici della New Economy, Genova: Fratelli Frilli Editore. Gallino, L. (2001) Il costo umano della flessibilità, Roma: Laterza. ——— (2005) L’impresa irresponsabile, Torino: Einaudi. Jansen, M. (2010) “Reconstructing the ‘Bond’ of Labour through Stories of Precarietà: Storytelling According to Beppe Grillo, Aldo Nove, and Ascanio Celestini,” Romance Studies,Vol. 28, luglio, 191-202. Mordenti, R. (2012) “Ascanio Celestini al Palladium. Pro patria. Senza prigioni e senza processi: uno spettacolo da non perdere,” (online): http://www.liberaroma.it/word/storie/ ascaniocelestini-al-palladium%E2%80%9Cpro-patria-senza-prigioni-e-senza-processi%E2%80%9 D-uno-spettacolo-da-non-perdere/ Ultimo accesso, marzo 2012. Murgia, M. (2006) Il mondo deve sapere, Milano: ISBN Edizioni. Panara, M. (2010) La malattia dell’Occidente. Perché il lavoro non vale più, Roma-Bari: Edizioni Laterza. Possamai, I. (2010) “Ascanio Celestini e la Fabbrica di Parole sante: appunti per una Lotta di classe”, Narrativa. Letteratura e azienda. Rappresentazioni letterarie dell’economia e del lavoro nell’Italia

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degli anni 2000,Vol. 31/32, 293-302. Rorato, L. e Brancaleoni, C. (2010) “Dalla fabbrica al call center: la smaterializzazione della metropoli contemporanea”, in Narrativa: Letteratura e azienda. Rappresentazioni letterarie dell’economia e del lavoro nell’Italia degli anni 2000,Vol. 31/32, 89-100. Zelda Zeta (2007) Voice Center, Milano: Cairo Editore.

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Flavia Laviosa

‘Lasciate ogni speranza, o voi ch’entrate’ nella ThyssenKrupp. La messa in scena della realtà

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ilm e documentario rappresentano due traiettorie dello stesso tipo di arte, le cui linee diventano sempre più porose e fluide. I confini tra documentario e servizio giornalistico sono invece molto più marcati, perché catturare le immagini in tempo reale – secondo i canoni di un reportage televisivo – è qualitativamente diverso dal curare la regia di un documentario che invece restituisce alla realtà la sua complessità. La recente e vasta produzione di documentari in Italia è il risultato di un nuovo bisogno di andare oltre la versione filmica del reale o del rapsodico servizio di cronaca. Pertanto i registi italiani rispondono a questo interesse del pubblico con una più attenta riflessione sui fenomeni sociali prediligendo la regia di documentari. Questo articolo è un’analisi tematica ed estetica di ThyssenKrupp Blues (2008) di Pietro Balla (Poirino, Torino 1956)1 e Monica Repetto (Roma 1965)2. Il film è un esempio di cinema sulla tematica del lavoro e della morte sul lavoro3, un cinema di denuncia sociale e di impegno politico. I registi interpretano un doloroso aspetto dell’Italia contemporanea; sviluppano una narrazione in prima persona seguendo gli eventi attraverso la prospettiva soggettiva di Carlo Marrapodi, operaio metalmeccanico alla ThyssenKrupp, e usano la realtà come ispirazione per la loro drammaturgia dell’esistenza umana. Bruno Roberti (Bruno et al., 2009: 27) definisce il lavoro di Balla e Repetto un cinema di “ripresa di vita, di parola, di testimonianza […] che passa attraverso una coscienza della messa in scena, una presa di coscienza dialettica di ciò che nel cinema si fa a rischio del reale”. Roberti (Bruno et al., 2009: 32) inoltre mette in risalto il fatto che i due registi intervengono “nel momento in cui il reale si dà alla visione […] come drammaturgia”, e che quindi lavorano con “l’idea di riprendere – sia nel senso della ripresa cinematografica che in quello proprio di un riappropriarsi – di una dimensione del tempo umano”. Pertanto, Balla e Repetto non sono registi, come Michael Moore, che dimostrano la realtà addomesticando e sottomettendo fatti e personaggi alla storia, ma, come sostiene Bruno Roberti, sono autori che 51

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rossellinianamente mostrano la realtà con l’abilità artistica di enucleare e orchestrare la forza espressiva del reale nel suo divenire (Bruno et al., 2009: 27). ThyssenKrupp Blues è un film in cui il sociale, il politico, e il personale vengono presentati ed interpretati da Carlo Marrapodi, protagonista del reale e attore nella messa in scena filmica. All’1.30 della notte tra il 5 e il 6 dicembre 2007, un’onda di fuoco e olio bollente, nel tunnel della linea n. 5 di uno dei nastri ancora produttivi delle Acciaierie ThyssenKrupp di Torino, causa una delle più gravi stragi sul lavoro nella storia recente d’Italia: sette operai di turno muoiono carbonizzati4 dopo atroci sofferenze durate in alcuni casi molti giorni. I colleghi arrivati in loro soccorso non possono intervenire perché gli estintori non funzionano. La notte dell’incendio, la squadra che lavorava alla linea n. 5 aveva già terminato il turno di otto ore ed era arrivata alla quarta ora di straordinario. I turni massacranti, cominciati con la riapertura della fabbrica, erano dovuti al fatto che gli operai richiamati al lavoro, dopo un periodo di cassa integrazione, erano meno della metà del numero originale. È intorno a questo tragico evento5 che Balla e Repetto hanno realizzato nel 2008 il documentario ThyssenKrupp Blues. Presentato alla 65esima edizione del Festival di Venezia nella sezione Orizzonti, il film non è mai stato distribuito ed è stato proposto solo in circuiti off. Balla e Repetto iniziano le riprese del loro film6 il 1 maggio del 2007, quando scelgono come protagonista Carlo Marrapodi, 30 anni, calabrese, che lavora per la ThyssenKrupp Acciai Speciali Terni dal 2000. I registi intervistano, mesi prima della tragedia, gli operai che denunciano i contratti irregolari, protestano contro le lunghe ore dei turni, accusano i dirigenti di aver omesso di effettuare le opere di manutenzione prescritte dalla ASL nel 2006 dopo aver eseguito i controlli dell’impianto e si preoccupano di lavorare in un impianto in via di dismissione. Il dubbio di una strage annunciata diventa così certezza. Nell’aprile del 2007 la dirigenza della ThyssenKrupp decide di smantellare lo stabilimento torinese entro quindici mesi, costringendo gli operai a scegliere tra il trasferimento a Terni e il licenziamento. Gli operai protestano contro questa decisione considerata “una deportazione di massa” (Portelli, 2008: 159). Carlo (ThyssenKrupp Blues, 2008: 8) dichiara che per i dirigenti della fabbrica “era normale che insieme ai bulloni, alle fasce, ai rulli ci impacchettavano e ci portavano a Terni. Io non sono un pezzo dei loro impianti” ed esprime la sua contestazione ideologica indossando una T-shirt con la scritta “No alle deportazioni di massa.” L’11 giugno Carlo, insieme ad altri 99 operai, riceve una lettera che annuncia la cassa integrazione di tredici settimane con decorrenza immediata. Gli operai organizzano una serie di manifestazioni per bloccare la chiusura della fabbrica, rivendicare una continuità contrattuale e denunciare la negligenza nella mancanza dei controlli delle misure di sicurezza e di manutenzione dell’impianto. Riescono ad essere convocati dal sindaco Sergio Chiamparino, dall’amministrazione regionale e dai rappresentanti dei sindacati. Tuttavia i cortei e gli incontri con le autorità non 52

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sortiscono nessun effetto. Carlo non può continuare a vivere a Torino con il sussidio statale che corrisponde a metà del suo stipendio e quindi parte per la Calabria e vi rimane per circa quattro mesi. Questa situazione segna un drammatico momento di rottura con la regolarità del lavoro, la stabilità economica, la sicurezza degli affetti privati. Nella vita di Carlo si apre uno spazio vuoto e oscuro, quello della sospensione, della crisi esistenziale e di grave incertezza del futuro. Improvvisamente, in seguito ad un guasto allo stabilimento di Terni, l’azienda richiama 200 lavoratori per portare avanti la produzione. Il 3 ottobre Carlo viene riassunto come rimpiazzo per svolgere diverse mansioni all’interno della fabbrica7. Tuttavia la produzione procede contemporaneamente alle operazioni di smantellamento e Carlo (Marrapodi, 2009: 8) racconta: “per capire che quella non era una condizione di lavoro sicura non ci volevano certo degli ingegneri, eppure a nulla sono valse tutte le denunce che abbiamo fatto noi operai”. Carlo (ThyssenKrupp Blues, 2008: 8) inoltre spiega che “portavano via impianti, treni di laminazione, vere e proprie campate. Con cantieri, con gru esterne. A poche centinaia di metri noi continuavamo a lavorare”. Ciò nonostante, per non perdere il diritto alla liquidazione, gli operai si sottopongono a turni massacranti in condizioni di sicurezza precarie. Il 5 dicembre Carlo aveva svolto il turno pomeridiano che terminava alle 22.00. Una telefonata all’alba lo avverte del disastro. Lo stabilimento chiude definitivamente e Carlo è costretto a ritornare in Calabria8. La tragedia nella ThyssenKrupp avviene a riprese avviate, con tutta la prima parte del film già montata. Gli eventi del 6 dicembre interferiscono inaspettatamente con la realizzazione del documentario e Balla e Repetto si confrontano con un imprevisto e tuttavia presagito ground zero. I registi devono scegliere se procedere oppure se sospendere le riprese. Decidono di continuare, pur consapevoli che gli eventi imporranno inevitabilmente una nuova direzione al progetto. I volti degli operai intervistati che compaiono nel film sono quelli delle vittime della tragedia. Il film intendeva documentarne la vita e il lavoro, ma ora si confronta con la loro morte e deve procedere verso un esito narrativo incerto a causa della loro pesante assenza. ThyssenKrupp Blues prosegue con il racconto e il pianto di Carlo. In questo modo il documentario assume il punto di vista del protagonista che parla anche per le vittime, fondendo la rabbia con l’ironia, la perdita con la rassegnazione, e assumendo un tono dolorosamente intimo, emotivamente partecipativo e profondamente rispettoso della tragedia. ThyssenKrupp Blues è quindi il risultato di questo improvviso cambiamento di rotta. Con la difficile decisione morale di portare avanti il film e la ponderata scelta narrativa di rimanere sul personaggio di Carlo, Balla e Repetto si assumono la responsabilità storica di documentare la crisi del capitalismo in Italia e di rappresentare il lutto civile e morale della nazione. Il loro film acquisisce quindi una forte valenza di militanza cine-politica. Nella seconda parte i registi ricompongono le immagini di repertorio dei telegiornali, dei programmi televisivi9 e delle testate dei quotidiani 53

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inerenti al tragico evento, con l’intenzione di raccontare una storia di speranze deluse e di precarietà a Torino. Su fondo nero all’inizio del film compare la premessa “Questa storia non è stata scritta”. I registi quindi anticipano una narrazione in divenire, una “scrittura in atto, politica in fieri delle immagini” come la definisce Bruno Roberti (Bruno et al., 2009: 28). Daniela Turco (Bruno et al., 2009: 28) sostiene che il film esprime in pieno “la dimensione devastante di una realtà che fa irruzione nel cinema e ne stravolge il disegno iniziale”. La morte sul lavoro infatti scompagina la narrazione e lacera il film in due parti: il prima e il dopo l’incendio, con l’esperienza personale di Marrapodi, epicentro narrativo della lotta di classe e della sua sconfitta politica, che sutura lo squarcio tra questi due tempi del documentario. Paolo Chirumbolo (2011: 157) definisce ThyssenKrupp Blues un documentario di tipo observational applicando la teoria dei modi di rappresentazione di Bill Nichols (2001), perché la prima parte è articolata sull’osservazione degli interpreti ripresi nel quotidiano da una cinepresa invisibile. Tuttavia a questa categorizzazione è necessario aggiungere che il film presenta anche la modalità di un documentario di tipo participatory, in quanto sviluppa il rapporto tra il regista e il personaggio attraverso le interviste. ThyssenKrupp Blues incomincia con la voce fuori campo di Marrapodi che accompagna lo sfondo nero e i primi titoli di testa, e che poi, nella prima ripresa a mezzo-busto, si presenta rivolgendo lo sguardo a volte alla telecamera, altre al regista che gli ha chiesto di dire nome, cognome, età, professione e città di origine. Da questo incipit sgorga il resto del film. Inoltre, il film presenta anche le caratteristiche di un documentario di tipo performative in quanto mette in rilievo la soggettività e l’intento del regista di sortire un impatto emotivo sul pubblico. ThyssenKrupp Blues ha infatti un intento sociale ed è incentrato su una narrazione esclusivamente soggettiva ed emotiva portata avanti da Carlo Marrapodi. Filmata con uno stile di cinéma vérité, in tempo reale, la prima parte del film è lenta e metodica. Lo spettatore segue Carlo durante lunghi percorsi in auto, nei gesti abituali e nei rituali delle giornate lavorative – dal faticoso risveglio al mattino fino all’arrivo al lavoro, passando per la spesa al supermercato. Ne racconta i momenti di solitario riposo in casa, l’affettuoso e malinconico dialogo con la compagna Melita, gli incontri con gli altri operai, le loro discussioni di denuncia, intrise di rabbia mortificata e tagliente ironia, e la protesta in piazza. Il tempo del presente realistico e razionale della prima parte è scandito dalla regolarità del quotidiano; cinematograficamente narrato, mediante una successione lineare di momenti della vita lavorativa e privata di Marrapodi; precisamente tracciato con una cronologia progressiva, e poeticamente incorniciato da un sapiente montaggio musicale di testi diegetici10, perché i registi vogliono che la musica sia legata al momento filmato – che si tratti di una canzone sentita alla radio o cantata, o di un brano musicale eseguito dal vivo. Tuttavia, questo tempo è costruito intorno a un crescendo emotivo che definisce il prima, ne tratteggia gli aspetti umani, ne demarca i limiti politici e ne anticipa inesorabilmente il dopo. La 54

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regolarità dei gesti e delle attività di Carlo, in un’alternanza di eventi concreti in fabbrica o nelle piazze e di prospettive incerte, crea un clima di impaziente attesa e ansiosa tensione; diventa presagio di catastrofe e infine culmina nella tragedia. D’altro canto, lo stabilimento della ThyssenKrupp non viene mai ripreso perché inaccessibile. Balla (Bruno et al., 2009: 35) spiega: “la fabbrica ci era preclusa […] perché ci è stato radicalmente impedito di girarvi alcunché. La fabbrica ancora una volta ha dimostrato di essere un luogo di reclusione in cui la società normale, civile, non può entrare […]. La fabbrica è un posto off limits”. Luogo del lavoro, centro del disfacimento del capitalismo industriale, epitome della dissoluzione della classe operaia, soggetto colpevole della tragedia, e spazio infero dove si consuma la strage sul lavoro: la ThyssenKrupp diventa un luogo di morte collettiva. La prima parte del film è inoltre caratterizzata dalla drammaturgia del corpo di Carlo. Atletico, tatuato, testimone e scultorio nella sua possente teatralità è costantemente posizionato al centro delle riprese.Turco (Bruno et al., 2009: 28, 39) lo definisce “una presenza conflittuale, spesso in contraddizione anche con l’inquadratura”, un corpo “resistente”, perché esprime la volontà morale e il vigore fisico di “resistere”. Proprio per questo motivo, Carlo si innesta bene nel cinema di Balla e Repetto, un cinema che si oppone ad ogni forma di cliché. Il contatto filmico e la prossimità fisica con Marrapodi, realizzati con primi piani accentuati e lunghe riprese ravvicinate, stabiliscono un rapporto di intimità psicologica, di empatica partecipazione alle sue frustrazioni e di solidarietà con la sua rabbia. La vera forza del film consiste nel fatto che i due registi insieme a Marrapodi ne sono gli autori. Balla (Bruno et al., 2009: 38) spiega: “Carlo ci ha messo in scena la sua vita; anzi si trovava in una perenne messa in scena”. In realtà, Carlo è un attore amatoriale11 e, come sostiene Repetto (Bruno et al., 2009: 41): “è effettivamente più attore che operaio, e in questo suo essere attore è molto più operaio di tanti operai”. Marrapodi quindi accetta che la sua vita diventi una storia, che la realtà della sua esperienza si fondi con la ricostruzione che il cinema comporta. Da documentario classico e rigoroso che cronicizza gli eventi, dopo la tragedia il film cambia registro e si trasforma in un testo sperimentale, libero e provocatorio. La prima parte si conclude con la cena di addio a Melita a casa di Carlo, la sera del 4 luglio con sullo sfondo i fuochi di artificio nel cielo di Torino per festeggiare la nuova Fiat 500. Il passaggio alla seconda parte è segnato da una dissolvenza in nero che inaspettatamente colloca lo spettatore tra due deflagrazioni, quella dei fuochi di artificio prima e quella dell’incendio in fabbrica dopo. Uno stacco muto, uno spazio nero e un tempo morto, seguiti da un drammatico e silenzioso primo piano di Marrapodi in lutto, catapultano lo spettatore nella dimensione del dopo. Carlo si fa quindi carico del lutto collettivo nel tentativo di trasformarlo in una testimonianza che rimanga scolpita nella storia d’Italia. I lavoratori che nessuno aveva ascoltato fino a quel momento appaiono sulle prime pagine dei quotidiani e su tutte le reti televisive. Nella ricostruzione dell’incidente, 55

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Balla e Repetto continuano a utilizzare la voce di Carlo e la morte non viene mai mostrata, ma solo evocata attraverso il ricordo delle immagini e delle voci dei compagni defunti. I registi evitano il vampirismo mediatico, i toni sensazionalistici e di stampo giornalistico. Roberti (Bruno et al., 2009: 32) sostiene che l’idea del tempo morto in questo film si riferisce sia “al fatto che gli operai morti alla ThyssenKrupp lavoravano fuori tempo, erano dei turnisti in straordinario, che a Marrapodi, un operaio in cassa integrazione, dunque fuori dal tempo lavorativo”. Il montaggio della seconda parte del film, che ricompone gli infiniti frantumi in cui si è ridotta la vita di Marrapodi e dei suoi compagni, secondo Turco (Bruno et al., 2009: 28) è “duro, non riconciliato”. Sebbene disgiunta e frammentata, dopo la tragedia la narrazione diventa poetica e si sviluppa mediante un montaggio espressionistico, associativo ed evocativo. Pur presentando i fatti tragici del 6 dicembre, il racconto prima lineare e concreto, ora si sgretola; trascende la realtà materiale e supera la separazione spazio-tempo, creando un dedalo di nuovi tempi e assemblando diversi luoghi narrativi. Il film procede in avanti e torna indietro, seguendo un ritmo incalzante di flash-back e flash-forward, dalle sequenze sul treno Torino-Reggio Calabria mentre Carlo prepara la cuccetta, agli sguardi rivolti verso l’orizzonte aldilà del finestrino dello scompartimento, alle sequenze del suo soggiorno a Pazzano. Queste riprese attraversano un groviglio di cronologie, quella dei fatti tragici e dei tempi dissociati dell’anima, e di geografie sovrapposte, legate ai sentimenti della partenza definitiva da Torino e al senso di sconfitta nel ritorno in Calabria. Il montaggio della seconda parte del film è profondamente emotivo e, nell’intento di ricomporre i brandelli dell’anima di Carlo, procede con la scelta estetica delle sistematiche riprese dal basso che gli restituiscono dignità civile, gli conferiscono la statuaria autorità morale dell’eroe e gli attribuiscono la forza evocativa del poeta. Durante il viaggio di ritorno, il racconto assume la funzione di un cammino nella memoria, di intima elaborazione del lutto e di sfogo della rabbia. Carlo esprime la consapevolezza di una crisi personale moltiplicata: la perdita dei compagni di lavoro e quella coatta del posto in fabbrica, il distacco da Melita e un profondo smarrimento identitario. Le riprese del viaggio in treno svolgono la funzione di un refrain che segna ritmicamente lo spirito avvilito della seconda parte del film. L’aria E Lucevan le Stelle di Mario Cavaradossi da Tosca eseguita da un amico alla tromba, i versi poetici di un soliloquio dall’Amleto12 che Carlo recita accanto alla stufa e l’eco delle grida dei compagni in lotta fanno da colonna sonora alla seconda parte del film. Questa è la voce della morte che non si può filmare, una voce che assedia la mente di Carlo durante il suo pellegrinaggio solitario sulle alture di Pazzano, mentre guarda smarrito e sconfortato la valle rocciosa. La vocalità di Carlo entra in rapporto con il silenzio di un tempo immobile e con lo spazio ammutolito della sua anima, oggettivati nella natura aspra e montuosa. Da film corale, con la polifonia di un gospel sulla lotta di classe nella prima parte, ThyssenKrupp Blues assume il lirismo del blues nella seconda e diventa un assolo dalla straordinaria forza drammaturgica (Nepi, 2012). 56

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Con l’esperienza personale di Carlo come epicentro della lotta politica ed economica di classe, il film è una testimonianza umana della storia degli operai della ThyssenKrupp, prima e dopo la tragedia. Il montaggio espressivo, segnato da inversioni di tempo e spazio, suggerisce il dislocamento emotivo e inconciliabile di Marrapodi sia come fortuito superstite alla tragedia che come emigrante disoccupato. Questo stile narrativo produce una traiettoria inquietante e circolare di eventi che drammaticamente porta al sentimento di umiliazione di una classe operaia non più necessaria. Nel post-150esimo anniversario dell’Unità d’Italia, il film riapre una vecchia ferita e scatena un nuovo dibattito sulla rimozione degli operai meridionali, la cui unica possibilità è spesso stata quella di emigrare al Nord, e che oggi si confrontano con l’inesorabile sconfitta di un ritorno forzato al Sud. Le geografie economiche, del Nord e del Sud, nel film sono sovrapposte e problematizzate dalla presenza degli spazi della memoria e del dolore. ThyssenKrupp Blues incomincia in una stazione ferroviaria e finisce esattamente nello stesso luogo in una inquietante circolarità di ritorno al punto di partenza. Marrapodi aspetta il treno che lo porterà a Reggio Calabria e infine al suo paese di origine, Pazzano. Nel viaggio emotivo, che attraversa l’intera penisola in un tempo espanso,Torino diventa un luogo di non-ritorno e Pazzano una destinazione di ineluttabile ritorno. La tragedia del dicembre 2007 costituisce l’essenza etica di un ground zero nazionale: la morte, il dislocamento socio-economico, la violazione dei diritti dei lavoratori, l’obliterazione di una società civile, la fine della classe operaia. In chiusura, un’immagine in bianco e nero legge: “Torino è sola”. ThyssenKrupp Blues, spaccato dalle geografie storiche del Nord e del Sud, scisso in morti e in sopravvissuti, combattuto tra la lotta per i diritti e la sconfitta della giustizia sociale, è un film diviso in due atti simmetrici e assonanti: quelli di una tragedia dai toni epici messa in scena con la teatralità e la poesia del reale.

Note 1

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Pietro Balla, autore televisivo e critico cinematografico, dal 1985 realizza documentari e programmi Publimania per Rai 3 e Supergiovani per Rai 2. Dirige i documentari Illibatezza (1994), 1949 nelle Terre di Dio (2000), Dérive Gallizio (2001), le docu-fiction I Campioni di Olimpia (2004) per Arte, History Channel, Casa Pappalardo per Rai 2, e per Fox Crime International Channels Italia idea e produce insieme a Monica Repetto la serie con Michele Placido sui foto-reporter Scatti di Nera. Inoltre co-dirige e produce con Repetto il documentario Operai (2008) per Rai 3, e cura i documentari Cocaina e La Vittima e il Carnefice, prodotti da H24 film per Rai 3. Cura anche la regia, soggetto e sceneggiatura dei documentari Amori in Fiamme (2002) e Torino-Vanchiglia (2003). Monica Repetto, regista, autrice e produttore cine-televisivo, dal 1997 al 2002 è autrice del programma tv Destinazione Serie, magazine quindicinale dedicato alle serie televisive in onda su Canal Jimmy. Nel 2002 fonda con Pietro Balla la società di produzione indipendente Deriva Film con la quale produce e dirige diversi documentari tra cui la serie 57

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Amori in fiamme. Nel 2003 è tra gli autori della docu-sitcom Casa Pappalardo di Rai 2. Dirige il documentario Deep Throat to You All (2004) e dirige e produce il documentario La vera storia di Marianne Golz (2007) per Fox International Channels Italia, History Channel. Inoltre realizza il documentario Falck, romanzo di uomini e di fabbrica per Rai 3. Nel 2009 produce il documentario Donne di Francesca Fini, un road movie che racconta le avventure di un gruppo di drag kings italiane, e il documentario Imam di Emmanuele Pinto. Nel 2010 realizza il documentario La Forza delle Idee sulla storia e il pensiero dell’economista Ezio Tarantelli, assassinato dalle Brigate Rosse negli anni Ottanta, raccontato attraverso la voce del figlio Luca. 3 Ogni anno in Italia ci sono 790.000 infortuni sul lavoro e di questi 1.050 sono morti. Carlo Lucarelli, “La morte sul lavoro”. Lucarelli racconta. Rai 3, 20 dicembre, 2010. 4 Antonio Schiavone di anni 36, Roberto Scola 32, Angelo Laurino 43, Bruno Santino 26, Rocco Marzo 54, Rosario Rodinò 26 e Giuseppe Demasi 26. 5 La tragedia della Thyssen ha ispirato altri due documentari: La classe operaia va all’inferno (Simona Ercolani e Paolo Fattori, 2008) e La fabbrica dei tedeschi (Mimmo Calopresti, 2008). 6 Il film nasce dal documentario Operai (2008) commissionato da Rai 3 che racconta la vita di due operai di Mirafiori. 7 Marrapodi spiega che lui svolgeva diverse mansioni all’interno della Thyssen, “sostituivo un po’ tutti, anche i lavori che non sapevo fare. Per esempio chi lavorava al finimento si ritrovava magari alla laminazione, lavoravamo con un solo capoturno per tutto lo stabilimento. Eravamo la metà di quelli che eravamo prima” (ThyssenKrupp Blues, 2008: 8). 8 Sentenza della Corte di Assise di Torino, 15 aprile 2011: Amministratore delegato Harald Espenhahn condannato a 16 anni e 6 mesi per omicidio volontario. I cinque manager Gerald Priegnitz, Marco Pucci, Raffaele Salerno e Cosimo Cafueri condannati a 13 anni e 6 mesi, e Daniele Moroni a 10 anni e 10 mesi, tutti per omicidio colposo. La ThyssenKrupp Acciai Speciali Terni Spa è accusata di essere responsabile civile ed è condannata al pagamento della sanzione di 1 milione di euro, esclusione da agevolazioni e sussidi pubblici per 6 mesi, divieto di pubblicizzare i suoi prodotti per 6 mesi e confisca di 800mila euro. 9 Dopo il funerale del primo operaio morto, Marrapodi è invitato ad una puntata di Annozero Rai 2 con Beatrice Borromeo alle riprese torinesi e Michele Santoro a Roma insieme agli altri ospiti in studio. 10 Canzoni di Franco Battiato, Vinicio Capossela, Enrico Ruggeri, Fausto Rossi, Modena City Ramblers, Bandabardò, Domenico Modugno, Gianluca Missiti e Coram Populo Res Publica Mediterranea. 11 Sesto figlio di un giostraio di Pazzano, Carlo lascia la famiglia a 16 anni per inseguire il suo sogno di recitare a teatro. Si trasferisce a Milano dove si unisce a piccole compagnie teatrali alternative. Durante gli anni a Torino, si divide tra il lavoro in fabbrica e le prove con una piccola compagnia teatrale. 12 Carlo recita in italiano i versi “Oh il servile buffone e la canaglia che sono! È mostruoso che un attore, pur fingendo, in un sogno di passione possa forzare l’anima a un concetto… ora io sono solo”. “Oh, what a rogue and peasant slave am I! Is it not monstrous that this player here, But in a fiction, in a dream of passion, Could force his soul so to his own conceit… Now I am alone”. Amleto, Atto 2, Scena 2.

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Bibliografia Bruno, E., Roberti, B. e Turco, D. (2009) “ThyssenKrupp Blues. I tempi morti” Filmcritica, 591/592, 27-44. Chirumbolo, P. (2011) “From heaven to hell: The representation of the ThyssenKrupp tragedy in contemporary Italian documentary film-making” Studies in Documentary Film, 5: 2-3, 157-167. Lucarelli, C. “La morte sul lavoro”. Lucarelli racconta. Rai 3, 20 dicembre 2010. Marrapodi, C. (2009) “Solitudine operaia” in ThyssenKrupp Morti Speciali S.p.A. Di Virgilio, A. e De Carli, M., Pordenone: BeccoGiallo. Nepi, L. “Morte (bianca?) a Venezia” www.drammaturgia.it 6 settembre 2008. Nichols, B. (2001) Introduction to Documentary, Bloomington: Indiana University Press. Portelli, A. (2008) Acciai Speciali Terni, la ThyssenKrupp, la globalizzazione, Roma: Donzelli Editore. ThyssenKrupp Blues (2008) “Intervista a Carlo Marrapodi”, 65 Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia, Orizzonti.

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Marco Paoli

Modernità liquida, lavoro e identità in Baci e abbracci di Paolo Virzì

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opo La bella vita (1994), Ferie d’agosto (1995) e Ovosodo (1997), Paolo Virzì affronta il tema del lavoro nella società post-industriale raccontando in Baci e abbracci (1999) la storia di Renato, Luciano e Tatiana, tre ex-operai che hanno trasformato il casale di famiglia nella Val di Cecina in un allevamento di struzzi. Oppressi dai debiti, i tre neo-imprenditori sperano di ricevere finanziamenti da parte della Regione, che nel racconto si concretizza nell’attuale compagno di Patrizia (sorella di Luciano e della moglie di Renato), Mario Marelli, assessore appunto alla Regione Toscana1. L’altro personaggio centrale del film è Mario, un quarantenne in profonda crisi matrimoniale, il cui ristorante specializzato in cucina tradizionale è costretto a chiudere per mancanza di clienti. Un disagio tanto estremo da condurlo a due tentativi di suicidio. Confuso e disorientato, Mario si ritrova alla stazione di Cecina dove incontra Renato e Luciano che attendono l’arrivo dell’assessore Mario Marelli. Per una serie di coincidenze, innescate dall’omonimia e dall’aspetto, i due scambiano Mario per l’assessore regionale dal quale dipende il futuro della loro azienda e quindi anche quello delle rispettive famiglie. L’equivoco porta i personaggi a trascorrere il giorno della vigilia di Natale in un contesto surreale, con i tre neo-imprenditori pronti a soddisfare ogni desiderio del presunto assessore. Alla fine del film, la grottesca situazione sfocia nello sconforto dei tre quando Mario rivela la sua vera identità. In realtà, come mettono in risalto Accardo e Acerbo (2010: 106-107) “gli struzzi non sono che un pretesto narrativo per raccontare di un gruppo di lavoratori disoccupati che devono reinventarsi un lavoro e un’identità […] Il ritratto di un’Italia di provincia sprovveduta e sedotta dalla modernità”. Saranno quindi due le tematiche ad essere al centro di questa analisi: il rapporto tra lavoro e identità, e come questo possa essere influenzato dall’appartenenza ad una determinata fascia sociale, e il connubio tra realtà/pessimismo e illusione/ottimismo. Nel suo Cinema e lavoro Elisa Veronesi (2004: 89-92) sottolinea l’importanza e il 60

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valore del lavoro in quanto esperienza sociale fondamentale che plasma e influenza la vita quotidiana di gran parte dell’umanità. In particolare,Veronesi sottolinea quanto la posizione lavorativa possa influenzare i rapporti sociali e il vissuto delle persone, riferendosi particolarmente alle fasce sociali più deboli: i giovani, le donne, gli immigrati e i disoccupati. Per i giovani, soprattutto per quelli appartenenti alle classi sociali più popolari, il lavoro significa riscatto e riaffermazione del proprio valore come persone nel periodo che ne segna il passaggio da ragazzi ad adulti. Questo si nota ad esempio in Ovosodo di Virzì, Santa Maradona (2001) di Marco Ponti e Cresceranno i carciofi a Minongo (1996) di Fulvio Ottaviano. Per le donne invece il lavoro significa emancipazione: come non fare riferimento a vari film del dopoguerra e in particolare ai numerosi film con Franca Valeri, attrice simbolo dell’emancipazione femminile a cui Sabina Guzzanti ha dedicato un film/documentario Franca la prima (2011). In tempi più vicini, benché risulti tuttavia difficile trovare recenti opere cinematografiche in questo senso, potremmo menzionare Pane e tulipani (1999) di Silvio Soldini o Ricordati di me (2003) di Gabriele Muccino. Nella realtà degli immigrati l’esperienza lavorativa rappresenta speranza di riscatto e aspirazioni ad una vita e a un futuro migliori, spesso in situazioni precarie o particolarmente difficili, come si vede ad esempio in Vesna va veloce (1996) di Carlo Mazzacurati, La ballata dei lavavetri (1998) di Peter Del Monte e Elvis e Merilijn (1998) di Armando Manni. Sono però i disoccupati coloro per cui il lavoro è ancor più fondamentale, indipendentemente dalle necessità economiche. La prospettiva di perdere il lavoro o la totale assenza del lavoro, spiega Veronesi, ha come conseguenze: mancanza di autostima, difficoltà organizzative del tempo, dei rapporti con gli altri e di qualità dei rapporti familiari, che talvolta possono portare a gesti estremi, come ci ricordano i tentativi di suicidio di Mario in Baci e abbracci, ma anche in Sud (1993) di Gabriele Salvatores e ne Il toro (1994) di Mazzacurati2. A tali categorie dobbiamo aggiungere la categoria più vulnerabile e senza alcun dubbio la più marginalizzata e praticamente assente dal grande schermo, appunto invisibile, cioè i profughi. Una categoria alla quale viene completamente negata un’identità, poichè i profughi in quanto tali vengono legalmente relegati in quelli che originariamente furono chiamati Centri di Permanenza Temporanea (CPT) e che in tempi più recenti sono stati rinominati Centri di Identificazione ed Espulsione (CIE)3. Il periodo in cui viene prodotto Baci e abbracci (1999) è concomitante alla fase storica in cui il rapporto tra lavoro e identità cambia radicalmente4. Fino alla fine degli anni ‘80 il lavoro inteso come stabile e duraturo definiva l’identità personale e sociale degli individui, garantendo un’integrazione sociale, in particolare nei ceti operai, che è venuta, e viene, però a mancare con il diffondersi del lavoro precario. Precarietà, instabilità e incertezza che vanno naturalmente oltre la realtà lavorativa, come ci mostrano Tutta la vita davanti (2008) dello stesso Virzì, Parole sante (2007) di Ascanio Celestini o Generazione mille euro (2008) di Massimo Venier. Zygmunt Bauman spiega che l’uomo postmoderno vive nella modernità liquida, cioè un mondo in continuo movimento e cambiamento che produce una condizione di insicurezza, dallo stesso 61

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Bauman espressa con il termine tedesco Unsicherheit che indica insicurezza sociale, esistenziale e personale. L’uomo quindi è pronto ad assumersi i rischi necessari, spinto dal desiderio di certezza e di identità coerente e definitiva che il lavoro precario non riesce a soddisfare proprio per la sua natura instabile, limitata nel tempo e nello spazio. Un desiderio che può anche diventare effimero perché provoca l’ansia del definitivo di fronte alle grandi possibilità offerte dall’essere liberi di scegliere5. Tuttavia va sottolineato che una netta maggioranza non è libera di scegliere il proprio lavoro e quindi di decidere della propria identità. In Baci e abbracci i tre neo-imprenditori affrontano il problema della disoccupazione prendendo altissimi rischi e cioè aprire in proprio, partendo da zero, un allevamento di struzzi. Questo proprio per evitare una vita di perpetua incertezza e instabilità. I tre personaggi preferiscono rincorrere un sogno che Tatiana riassume in una frase interrogativa ed ironica: “Ma non si doveva diventare ricchi a sfare?”, incarnando così la figura degli eroi popolari, cioè coloro che rischiano, che si mettono in gioco pur sapendo che “tra il sogno e l’incubo non si possa mai dire quando uno si trasformi nell’altro” (Vecchi, 2003: 34). Per i tre exoperai, ora neo-imprenditori allo sbaraglio, la possibilità di plasmare e scegliere la propria identità è resa possibile solo dai rischi che la scelta imprenditoriale comporta. Bauman infatti spiega che la possibilità di scegliere l’identità è un privilegio delle classi sociali abbienti, mentre le classi deboli si trovano a dover accettare un’identità imposta dagli altri. La facoltà di costruirsi un’identità socialmente prestigiosa può essere in questi casi compromessa dalla paura che una scelta sbagliata possa condurre ad un’identità fallita per noi stessi e agli occhi degli altri (Bauman, 2003: 43). E l’attenzione di Virzì si concentra proprio su questa fase di transizione che conduce da un’identità imposta dagli altri, condanna dei gruppi sociali più vulnerabili, a un’identità ricomponibile a piacimento, privilegio delle classi elitarie che detengono di fatto il potere socioeconomico di un paese regolato dal sistema capitalista. Nell’identificazione e analisi dei fattori che influenzano il modo in cui Virzì in Baci e abbracci esplora i problemi sociali nell’Italia contemporanea possiamo adottare una intenzionalità autoriale conscia e inconscia. L’approccio conscio si riflette nell’esplicita squilibrata relazione tra ceti sociali che emerge nel film e che rivela il tentativo del regista di affrontare la questione del rapporto tra l’autorità dominante e l’individuo sottomesso. L’autorità dominante è rappresentata inizialmente dal direttore di banca e in seguito dall’assessore regionale. Entrambi infatti detengono il potere di decidere del futuro altrui (in Baci e abbracci il futuro a rischio è quello di Mario, Renato, Luciano e Tatiana e quello delle rispettive famiglie) semplicemente perché il sistema su cui è basata la società contemporanea li posiziona in un rango di superiorità nei confronti di Mario e dei tre neo-imprenditori. Per questo Mario, Renato e il resto della combriccola vivono di fatto una condizione di inferiorità proprio perché il loro futuro è nelle mani dell’autorità dominante. Questo rapporto squilibrato tuttavia è conscientemente accettato da entrambe le parti, dominanti e sottomessi, e il regista si concentra sulla rappresentazione di questo stato di inferiorità che si materializza nelle 62

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azioni dei personaggi sottomessi e accondiscendenti: Mario si mette il vestito più elegante, quello del matrimonio, per andare in banca e offrire un cesto di Natale al direttore nell’inutile tentativo di salvare il ristorante; i tre allevatori di struzzi accolgono in modo caloroso, tanto eccessivo quanto innaturale, Mario, senza sapere che in realtà non è l’assessore regionale, mostrando così servilismo e sottomissione nei confronti della presunta autorità dominante. Altrettanto si può dire del comportamento di tutta la grande famiglia che gravita attorno al casale. Particolarmente significative le scene dell’improvvisata preghiera prima del pranzo della vigilia di Natale e le insistenti offerte di cibo e bevande: “Le preparo un panino col prosciutto? Colla mortadella? Un caffé? Un poncino bello cardo?” Ma colpisce soprattutto il modo di agire di Renato con i suoi tentativi insistiti e artificiosi di compiacere Mario, che culminano nell’inutile quanto grossolano regalo di Natale, la pacchiana sveglia parlante. In pratica questa esperienza di sottomissione è il prezzo da pagare per combattere l’incertezza del futuro, diventare imprenditori affermati e potersi costruire un’identità solida da plasmare a piacimento. Nonostante il fatto che questo rapporto ineguale tra ceti sociali venga esplicitamente espresso e volontariamente esasperato e portato all’eccesso dal regista, è solo in modo inconscio e implicito che emergono le aspirazioni dei tre imprenditori, fatta eccezione l’esplicita affermazione di Tatiana sull’importanza del valore retributivo dell’ambizioso progetto lavorativo. I rischi corsi e lo stato di sottomissione che l’impresa lavorativa comporta sembrano infatti avere due scopi fondamentali: il primo è quello di poter finalmente far parte di quella classe sociale tanto desiderata, guadagnandosi la facoltà di godere a pieno dei principi su cui si basa la società odierna e cioè consumismo, materialismo, modernità e ricchezza. Il secondo scopo, naturale conseguenza del primo, è raggiungere una posizione dominante che permetterebbe loro di abbandonare la condizione ‘servile’ alla quale si stanno conformando proprio per il raggiungimento del loro scopo. Prevedendo infatti un epilogo positivo (come sembra suggerire la scena finale del film e cioè che l’allevamento di struzzi possa infine avere successo, portando la sperata ricchezza economica ai tre imprenditori e possibilmente anche a Mario con l’apertura di un nuovo ristorante al casale), la conclusione implicita è che quei semplici e innocenti personaggi, inizialmente inferiori, si conformeranno alle regole dello stesso sistema che li aveva condannati al rango di sottomessi. Questo sviluppo politico che emerge nel finale del film sembra prevalere proprio per la mancanza di quella solidarietà di classe e di reciproca cooperazione che appartiene ad un’epoca ormai superata in cui, come vedremo, i partiti politici fungevano da punto di riferimento per molti. Un’epoca offuscata dall’individualismo imprenditoriale dei protagonisti e da una conseguente perdita di qualsiasi forma di coscienza di classe. E nel film in questione questo si concretizza innanzitutto con lo ‘sfruttamento’ di altri, di coloro che rimangono semplici e innocenti e di conseguenza ‘inferiori’. Ad esempio Renato mette il fratello (Edoardo Gabbriellini) e i suoi amici a lavoro appena giunti al casale: “Ragazzi ce la fate a da’ una bella sistemata in venti minuti […] Ragazzi la roba che 63

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va conservata va messa laggiù dietro, quella da buttare via nei cassonetti in fondo al vialetto. Prima s’incomincia e meglio è”. In seguito lo stesso Renato rivela al fratello di avere già progetti per ‘impiegarli’ nella futura espansione dell’allevamento: “O bellino, io ti sto offrendo un lavoro, te mi dovresti ringrazia’. Incominciate a puli’ la stalla che se le cose vanno come dìo io, qui a Pasqua si riempie di pulcini”. Un altro personaggio sfruttato sentimentalmente e ulteriormente sfruttabile da un punto di vista lavorativo è Annalisa, la segretaria e amante di Renato. Annalisa coltiva la speranza di ottenere dal suo ruolo di segretaria/amante innanzitutto un posto di lavoro, con l’illusione di poter avere un futuro con un uomo che in passato oltre a metterla incinta l’ha costretta ad abortire. Questo aspetto emerge in particolare nella scena in cui Mario e Annalisa confessano le proprie tragiche esistenze in macchina e Annalisa scoppia a piangere nella consapevolezza che la sua relazione con Renato difficilmente avrà un esito positivo. Renato, dal canto suo, approfitta della giovane e appariscente segretaria, mostrando tratti di machismo, arroganza e volgarità che riflettono in parte, come vedremo, la livornesità del personaggio. Annalisa quindi vive una speranza che la realtà trasforma in una mera illusione, la quale a sua volta mette in risalto uno degli aspetti centrali della commedia tipicamente italiana, il pessimismo. La Toscana plebea e popolare di Baci e abbracci viene infatti descritta attraverso il filtro della commedia e come conferma Virzì molti paralleli si possono tracciare con la commedia all’italiana degli anni sessanta6: elementi tipici come lo scambio d’identità, malintesi, giochi di parole e, nel caso di Baci e abbracci, espressioni vernacolari, assicurano che lo spettatore possa sorridere e allo stesso tempo riconoscere il lato umano della commedia proprio attraverso l’umanità dei personaggi che porta lo spettatore a riflettere sugli avvenimenti che si svolgono sullo schermo e, inevitabilmente, ad adottare una prospettiva pessimista sul destino dell’essere umano. Ciò si concretizza nel senso di fallimento che si avverte per tutta la durata del film, annunciato già dalla prima scena nel dialogo telefonico in cui Renato cerca di trovare un compromesso per saldare gli ingenti debiti con uno dei creditori, il Dottor Giuliani. Non a caso al casale niente sembra funzionare correttamente: salta la luce, il riscaldamento non funziona perché la bolletta del gas non è stata pagata, manca la legna per il camino (che verrà comprata a credito), il telefono si guasta per via della centralina digitale che dovrebbe permettere all’azienda di collegarsi ed avere una certa visibilità su internet. Anche la gioventù è rappresentata da un gruppo di musicisti precari da cui emerge la figura di Alessio, il fratello minore analfabeta di Renato. Il coro “È Natale non si soffre più” durante la cena della vigilia di Natale, dopo la toccante recita della poesia da parte del figlio di Renato, sembra infatti un tentativo melodrammatico di esorcizzare questo radicato senso di fallimento che, tuttavia, emerge in modo ancor più deciso nelle vicissitudini dell’altro protagonista del film, Mario, interpretato da Francesco Paolantoni, uno dei pochi attori professionisti del cast7. La disperata situazione finanziaria del ristorante di Mario si concretizza nel pignoramento dei beni da parte 64

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degli ufficiali giudiziari inviati dalla banca. I tentativi di ricostruire una relazione con la moglie e il figlio e di ristabilire buoni rapporti con la banca non danno i risultati sperati e culminano in due tentativi di suicidio, che in quanto tentativi implicano un ulteriore fallimento, di più, un doppio fallimento. Il sentimento generale di fallimento si acuisce poi nel momento in cui i tre imprenditori apprendono che Mario non è l’assessore regionale tanto venerato per ottenere i finanziamenti necessari per saldare i debiti accumulati. Ed è proprio in questa parte finale del film che il rapporto tra superiore ed inferiore si interrompe, ricreando così un rapporto di eguaglianza tra ‘inferiori’ poiché gli interessi degli imprenditori nei confronti del presunto assessore cessano di esistere. Il finale del film però si presta anche ad una lettura meno cinica: se è vero che il film riflette il fallimento di un sistema contorto, basato sul clientelismo e sulla perdita della coscienza di classe, è anche vero che nelle scene finali del film Mario esprime la sua gratitudine per la gentilezza – benché dettata da un interesse economico ed espressa con toni esagerati – dei tre imprenditori, che di fatto l’ha aiutato a superare un periodo difficile della sua vita. Questo aspetto sembra quindi suggerire che il servilismo dettato dal sistema capitalista non sia capace di produrre alcun esito positivo, mentre la solidarietà di classe, dettata dall’umanità e dalla naturalezza dei rapporti interpersonali, possa essere una delle poche armi a nostra disposizione per difendersi proprio da un sistema incentrato esclusivamente sullo sfruttamento e il servilismo. Molti, infatti, gli aspetti che mostrano il tentativo del regista di introdurre un tocco di ottimismo che, tuttavia, sembra basarsi sull’illusione, o meglio sul bisogno di illudersi dei personaggi più ingenui. Un ottimismo e un’ingenuità che trapelano in vari elementi del film: l’enfasi sul colore locale, tramite l’uso del vernacolo e della livornesità dei personaggi interpretata quasi esclusivamente da attori non professionisti labronici come Massimo Gambacciani e Piero Gremigni; il tono fiabesco del film che aiuta a far emergere la semplicità e l’innocenza di personaggi dei ceti popolari come Luciano, Annalisa, il nonno Nelusco e Alessio, il fratello analfabeta che sembra riflettere una certa influenza Pasoliniana8; l’uso della colonna sonora e in particolare di “I Will Survive” di Gloria Gaynor in versione acustica. Virzì afferma che lo scopo di raccontare una storia che si svolge nella provincia livornese è proprio legato alla volontà di mettere in risalto un’umanità locale, alla base di una coscienza di classe tipicamente radicata in molte città e province toscane. Come lo stesso regista ha affermato: “Qui non si tratta di compiacere una Toscana ricca ma di proporre sul grande schermo una Toscana plebea, povera, proletaria e contadina che porta in sé il germe dell’umanità che emerge anche in modo ‘angelicato’ in una figura rozza come quella di Renato”9. L’aspetto umano è infatti un ingrediente fondamentale della commedia all’italiana e in Baci e abbracci emerge nella livornesità dei personaggi che, quindi, non serve solo come semplice fonte di comicità. Renato ad esempio sembra incarnare la quintessenza della livornesità nel modo in cui emana volgarità, arroganza, impulsività, intraprendenza, eccessiva melodrammaticità e una spiccata mania di 65

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grandezza che sfocia nella pottata, termine che il Devoto-Oli definisce semplicemente ‘grandezzata’ benché il lemma in sé ricopra in realtà un significato ben più complesso impregnato di spirito labronico10. L’umanità e la semplicità emergono in modo evidente anche in personaggi come Annalisa, Luciano e il nonno Nelusco e nei loro spontanei e volgarmente candidi modi di fare e di dire. Si veda ad esempio la scena in cui Annalisa invia il fax, ma per finta, ed espressioni come “so una sega io”, “òiòi” o “che boccalona”; il fatto che il nonno guardi la partita di biliardo alla goriziana sul canale televisivo locale,Tele Granducato, e mandi indistintamente tutti “a fare in culo”; o ancora Luciano che ignora quale sia il suo segno zodiacale (alla domanda di Renato “che segno sei?” risponde “non lo so, non me lo sono fatto calcolà’ ”), che videoregistra la trasmissione sbagliata e che nei dialoghi con la figlia ancora adolescente sembra lui essere il bambino, ed infatti si addormenta mentre la figlia gli racconta la trama di un romanzo, Matilde di Roald Dahl, che sta leggendo. Ed è proprio questa spiccata semplicità e l’umanità dei personaggi a renderli inadeguati al contesto socioeconomico in cui cercano così faticosamente di integrarsi. Una inadeguatezza che li porta ad intraprendere un’impresa economica chiaramente al di sopra delle loro possibilità e capacità, e che riflette le contemporanee illusioni e manie di grandezza alimentate dalla società post-industriale. Insomma, una vera e propria pottata post-industriale. L’unica soluzione sembra essere infatti ‘corrompere’ l’assessore regionale, benché anche qui emerga l’inadeguatezza dei personaggi ad entrare in sintonia con le contemporanee pratiche di ‘pubbliche relazioni’. Ciò non fa che incrementare l’alienazione socioeconomica dei protagonisti alla quale va aggiunta la confusione politica che si è venuta a creare in questo periodo storico. Siamo nella seconda repubblica, negli anni post-Tangentopoli in cui emergevano nuovi partiti politici (Forza Italia e Lega Nord), mentre i vecchi partiti cambiavano identità, simboli e nomi ad una rapidità mai vista prima, per distaccarsi da un passato scomodo che li vedeva associati a corruzioni e tangenti. La confusione politica del dopo Tangentopoli si nota nella scena in cui Luciano rimprovera a Renato di aver detto a Mario, il presunto assessore regionale, “Anche se ora non usa più… [se non ci aiutiamo] tra compagni…”. Successivamente, infatti, Luciano spiega: “Per me hai sbagliato prima a fagli quel discorso […] ma quella cosa che siamo sempre stati tutti compagni […] ma capace è dell’Ulivo ma ’un è comunista, capace è cattolico del PP, CCT vai a sape’ insomma velli lì”11. La caotica ricerca d’identità dei partiti tradizionali e dei nuovi partiti emergenti si riflette quindi nei personaggi del film che non sanno come orientarsi nella loro disperata ricerca di un sostegno finanziario che di fatto dipende dalla politica in un paese in cui il clientelismo è sempre stato fortemente radicato. Ai protagonisti non rimane che cercare rifugio nell’illusione, che difatti rappresenta un altro elemento fondamentale del film di Virzì. Ad esempio Mario si illude che la moglie, da cui è separato, gli stia dando una seconda possibilità e questo sembra dovuto non solo alla situazione di malinteso che si è creata ma anche al vino bevuto, i 66

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medicinali ingeriti e il gas inalato in uno dei tentativi di suicidio. Illusoria la calorosa accoglienza riservata a Mario non appena arriva al casale di famiglia. Illusoria la scena dei ‘falsi’ funghetti allucinogeni che provocano improbabili ‘visioni’ in cui i ragazzi pensano di immaginare una nevicata o addirittura di vedere Maria, Giuseppe e l’asinello. Illusoria, infine, la storia d’amore tra Annalisa e Renato. Emerge così una tipica dicotomia gramsciana che vede da un lato la realtà e la ragione da cui scaturiscono il sentimento collettivo di fallimento e di sofferenza dei vari personaggi e il conseguente pessimismo, e dall’altro il tono fiabesco e il bisogno di illusione che produce una felicità illusoria proprio per combattere lo stato di sofferenza e un certo grado di ottimismo parzialmente evanescente. Gli unici elementi ottimistici così tangibili da produrre un seme di speranza emergono nelle fasi finali del film: la luce e il telefono vengono riallacciati, fiorisce una vera storia d’amore tra Annalisa e Mario e, soprattutto, si schiudono le uova di struzzo nell’ultima scena del film. Far emergere gli elementi di ottimismo più lucidi e concreti nelle fasi conclusive, e in genere dopo scene di alta drammaticità – come la scena in cui Mario rivela di non essere l’assessore regionale e la conseguente reazione emotiva di Renato e Annalisa – è una caratteristica tipica dei film di Virzì e proprio per questo il regista livornese è stato spesso accusato di buonismo. A tali critiche Virzì replica: “Ci piace la bontà? Ebbene sì, ci piace voler bene ai nostri personaggi, anche se non ci piace il melenso. E più un personaggio è bastonato, più gli si vuole bene. Una versione cattivista [di Baci e abbracci] non mi sarebbe venuta bene: non sono capace di infliggere botte di pessimismo agli spettatori.”12 Si può concludere che, pur cercando di evitare il pericolo di essere coinvolti nel circolo vizioso della modernità liquida e del lavoro precario, la possibilità prospettata da Renato di aprire il ristorante come attività alternativa o interna all’allevamento di struzzi alla fine del film riflette a pieno la fase transitoria tipica della modernità liquida descritta da Bauman e cioè il continuo tentativo di reinventarsi un futuro, e nel caso specifico di creare un connubio tra i valori tradizionali (un ristorante come quello di Mario e il concetto di azienda a gestione familiare) e il mondo moderno in continua evoluzione13. Renato, preso come personaggio rappresentativo del gruppo, emerge quindi come esempio del tipico uomo della società postmoderna, intraprendente e pronto ad assumersi i rischi delle proprie scelte benché indebolito dalla spiccata mania di grandezza e dall’inadeguatezza al contesto socioeconomico e politico per aver scelto di appartenere ad un ceto sociale, quello imprenditoriale, che non gli appartiene. Per dirla con Magatti (2004: 42) “l’uomo non è più la posizione che occupa nella società ma ha l’illusione di poter essere ciò che vuole”. Questo ci porta a concludere che Baci e abbracci riflette in modo conscio e inconscio la grave crisi economica e sociale, alla quale va aggiunta una profonda crisi politica, che di fatto sta attraversando la società italiana e non solo. Le vicissitudini degli sconclusionati protagonisti sono, quindi, il sintomo di un cambiamento delle modalità di definizione dell’identità attraverso il lavoro, che nel caso specifico rappresenta il tentativo di resistere ad una società sempre 67

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più flessibile e quindi instabile e precaria, caratterizzata dalla paura di non poter dare un senso al futuro.

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Come afferma lo stesso Virzì, la storia è ispirata da una iniziativa di tre ex-operai che aprirono un allevamento di struzzi nella provincia livornese con la speranza di diventare miliardari in poco tempo. Si veda a tal riguardo l’intervista a Paolo Virzì nel DVD Baci e abbracci e Accardo e Acerbo (2010: 106). Da notare anche che nella prefazione al volume Cinema e lavoro di Elisa Veronesi, Paolo Tarchi e Maurizio Ambrosini lamentano il ruolo marginale del lavoro nel mondo della comunicazione e della rappresentazione mediatica e il binomio tra l’importanza del lavoro nella vita delle persone e la scarsa rappresentazione cinematografica di un elemento tanto fondamentale quanto negletto.Veronesi (2004: 7-14). Vedasi il Ddl 733-bis del 23 maggio 2008 diventato poi legge n. 94 il 15 luglio 2009. Ciò è dimostrato dal fatto che le opere di sociologi come ad esempio Zygmunt Bauman, Richard Sennett e Claude Dubar ispirate a questa fase di cambiamento sono pubblicate tra gli anni ’90 e i primi anni del nuovo millennio. Si vedano a tal riguardo Bauman 1999 e 2002. La trama è ispirata a Ispettore generale di Gogol che a sua volta aveva ispirato Anni ruggenti (1962) di Luigi Zampa. Intervista a Paolo Virzì: http://www.italica.rai.it/scheda.php?scheda =baci_intervista&cat=cinema Come spiega Virzì, “serviva un personaggio stordito, disorientato, che non si sentisse a suo agio in un contesto plebeo labronico”, Intervista a Paolo Virzì nel DVD Baci e abbracci. “Gli operai e i ceti popolari sono una miniera di humour e di poesia. E poi, ai furbi e ai cinici, preferisco gli innocenti, persino un po’ immaturi”. Intervista a Paolo Virzì: http:// www.italica.rai.it/scheda.php?scheda=baci_intervista&cat=cinema Intervista a Paolo Virzì nel DVD Baci e abbracci. Per un approfondimento sul suddetto termine e sul concetto di livornesità si veda tra gli altri Marchetti, G. (2007) Il terzo Borzacchini universale, Milano: Ponte alle Grazie, oltre alla rivista mensile Il Vernacoliere. Da notare anche il riferimento a ‘Struzzopoli’ in uno dei dialoghi tra i giovani musicisti nella stalla del casale. Intervista a Paolo Virzì: http://www.italica.rai.it/scheda.php?scheda=baci_intervista&cat= cinema A tal riguardo si vedano i capitoli dedicati al difficile rapporto tra Virzì e la critica e al ricorrente ‘lieto fine’ in Accardo e Acerbo (2010: 276-302). Virzì infatti mette in risalto un altro concetto fondamentale, una conseguenza inevitabile dell’era post-moderna e cioè che i vecchi valori tradizionali lascino spazio ai nuovi. Ad esempio, il ristorante tradizionale di Mario (“L’antica macina”) non trova spazio in una società che preferisce riempirsi di pizza e patatine dal Risto-Pizza “Da Giovanni”. Inoltre il film evidenzia l’evoluzione degli allevamenti di bestiame come sottolinea il reporter di ‘Rimbocchiamoci le maniche’ quando dice che un tempo qui dove si allevava la mucca Chianina adesso si allevano struzzi. 68

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Bibliografia Accardo, A. e Acerbo, G. (2010) My name is Virzì, Genova: Le Mani. Bauman, Z. (1999) La società dell’incertezza, Bologna: Il Mulino. ————— (2002) Modernità liquida, Bari: Laterza. Jameson, F. (1981) The Political Unconscious: Narrative as a Socially Symbolic Act, London/New York: Routledge. —————— (1992) The Geopolitical Aesthetic: Cinema and Space in the World System, Bloomington: Indiana University Press. Magatti, M. (2004) “Cittadinanza responsabile e globalizzazione” in AAVV, Educare ad una cittadinanza responsabile, Milano: Paoline, 33-52. Marchetti, G. (2007) Il terzo Borzacchini universale, Milano: Ponte alle Grazie. Sennett, R. (1999) L’uomo flessibile. Le conseguenze del nuovo capitalismo sulla vita personale, Milano: Feltrinelli. Vecchi, B. (a cura di), (2003) Intervista sull’identità, Bari: Laterza. Veronesi, E. (2004) Cinema e lavoro, Torino: Effatà. Zecca, F. (a cura di), (2011) Lo spettacolo del reale. Il cinema di Paolo Virzì, Ghezzano: Felici Editore. Intervista a Paolo Virzì in: http://www.italica.rai.it/scheda.php?scheda= baci_intervista&cat=cinema Ultimo accesso: settembre 2012. DVD Baci e abbracci (2000) Cecchi Gori Home Video.

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Genere, sessualità e identità sociale

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Luciana d’Arcangeli

Introduzione: Un’altra metà del cielo: genere, sessualità e identità sociale nel cinema italiano

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d un primo rapido esame della situazione del cinema italiano nel nuovo millennio potrebbe apparire di assistere alla nascita di una nuova, anche se limitata, età dell’oro per quanto riguarda il cinema italiano declinato al femminile, l’espressione di sessualità ‘alternative’ ed identità sociali che resistano in un’epoca ‘liquida’ alla deregolamentazione e flessibilizzazione dei rapporti sociali1. In Italia il numero di professioniste del cinema (attrici, costumiste, musiciste, registe e produttrici) non è mai stato così alto e lo stesso si può dire delle direttrici artistiche di film festival che aiutano a promuoverne i prodotti. Il cinema italiano non è mai stato così libero di ritrarre la sessualità in tutte le sue diverse sfaccettature e di mostrare l’attuale fluidità dell’identità sociale dell’individuo – alle prese con l’allentamento e la trasformazione, se non proprio lo sgretolamento, degli istituti sociali, religiosi e lavorativi. La presente introduzione si propone di effettuare una panoramica sui film ed i dati più significativi del cinema italiano, dal 2000 ad oggi, rispetto ai temi di genere e sessualità, illustrando, ove possibile, i progressi fatti e quelli ancora da fare. Solo in questi ultimi anni, dopo aver partecipato alla creazione del cinema italiano fin dagli albori, le donne che vi hanno lavorato stanno ricevendo un’attenzione continuativa con studi dedicati alle dive2 piuttosto che alle registe e personalità femminili a tutto tondo3. Gli stessi studi d’italianistica hanno dedicato al cinema di genere iniziative come “La sottile linea rosa” che propone il cinema italiano al femminile4. Il 2011 si è anche aperto con il lancio del libro che finalmente ne ‘istituzionalizza’ la presenza nell’industria: I Morandini delle donne: 60 anni di cinema italiano al femminile5. Morando Morandini Jr, co-autore con l’omonimo senior, mette due donne sul ‘piedistallo iconico’ del cinema italiano: Sofia Loren e Anna Magnani6. Senza nulla togliere a queste due importantissime star viene spontaneo chiedersi come 73

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mai il cinema italiano non riesca ad andare oltre, a creare altre figure femminili importanti. È innegabile come queste due attrici ed i loro personaggi siano rimasti impressi nell’immaginario nazionale (ed oltre), basti pensare all’esempio di improbabile eroismo della popolana Pina in Roma città aperta. Il personaggio si basava su un simbolo della resistenza romana, Teresa Gullace – uccisa dai nazisti mentre tentava di parlare con il marito prigioniero. Eppure se Anna Magnani e Roberto Rossellini l’hanno impresso per sempre nella nostra memoria cinematografica perchè ci è stato riproposto di recente nel docu-film Anna, Teresa e le resistenti (2011) di Matteo Scarfò? L’importanza della Resistenza è innegabile oggi, quando si tenta anche di riscrivere la storia, ma c’è davvero bisogno di rifugiarsi in un passato più o meno remoto per ricordare “un esercito di volontarie della libertà che restituirono senso e valore al ruolo della donna nella società italiana” e per traslato ricordarlo alle donne di oggi?7 Questo non è un esempio isolato: Eravamo Donne Ribelli – Narrazioni Femminili della Resistenza (Primo Giroldini, 2005), Innamorate della libertà (Remo Schellino, 2005), Staffette (Paola Sangiovanni, 2006), Bandite (Alessia Proietti, 2009) per non parlare di chi guarda ancora più indietro, a Il Risorgimento delle donne (Michele Imperio e Fabio Pagani, 2011).Tutti documentari che volgono lo sguardo indietro ad un periodo nel quale la donna ha lottato rischiando tutto per la libertà. Di tutti. Bisogna sempre guardare indietro nel tempo per trovare delle donne “esemplari”? Sembrerebbe proprio di sì, se l’uscita del film Il primo incarico (Giorgia Cecere, 2010) ha portato la critica Claudia Morgoglione ad esultare “Finalmente un film al femminile”8. Scrivendo della Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia del 2010, infatti, si è soffermata sulla pellicola “diretta da una donna, la debuttante Giorgia Cecere, prodotta da una donna, Donatella Botti, tutta centrata su un personaggio femminile forte, volitivo, determinato, poco convenzionale”. Si tratta della storia di Nena, una maestrina meridionale che, nel 1953, deve lasciare casa per andare ad insegnare nell’entroterra arretrato. Per aver interpretato questo ruolo la Morgoglione nomina Isabella Ragonese la “madrina militante” del festival cui spetta, “presenza tradizionalmente poco più che decorativa […] portare una ventata di cinema dalla parte di lei”, insistendo – a ragione – su come “tra i ben 41 titoli in cartellone alla Mostra, i ruoli femminili forti sono davvero pochi”. Non c’è, forse, da stupirsi che siano pochi i women’s films visto che al Box Office Il primo incarico ha incassato solo €194,509 contro gli oltre €43 milioni del primo film in classifica 2010/119. Eppure lo studio del 2008 “Women @ the Box Office: A Study of the Top 100 Worldwide Grossing Films” conferma che quando i cineasti hanno budget simili per i loro film i risultati al Box Office sono simili, ovvero il genere del cineasta non determina una differenza a livello di incassi; lo stesso dicasi di protagonisti di genere diverso. La differenza sta nel budget: maggiore l’investimento, maggiore l’incasso10. Eppure è innegabile che i film che hanno più donne in ruoli importanti, dietro o davanti la macchina da presa, ottengono budget minori, soffrono di una minore distribuzione e minori tempi in sala. Questo negli USA come in Italia. 74

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Vito Zagarrio nel suo libro La meglio gioventù ha identificato due fattori nell’ultimo cinema italiano: l’emergere di donne in posizioni chiave nell’industria cinematografica e l’aumento nella produzione di documentari11. I numeri sono inequivocabili: dal 2000 al 2008 le registe italiane hanno girato 88 film, 119 documentari, 109 cortometraggi e 4 animati; prima del 2000 avevano girato un totale di 46 film, 74 documentari, 120 cortometraggi e 7 animati12. L’alto numero di film mostra come, nonostante le difficoltà di accesso ai fondi e alla distribuzione, oltre che all’industria in generale, il passaggio dai cortometraggi e dai documentari ai feature films sia diventato più permeabile. Il documentario – un genere cinematografico la cui natura ‘personale’ permette alle registe di dedicarsi a temi loro vicini – già dagli anni Sessanta era un trampolino di lancio per le donne dietro la macchina da presa, percorso che fece, ad esempio, Liliana Cavani. E lo è ancora oggi, come testimonia Marina Spada, che alterna documentari come Poesia che mi guardi (2009) ai suoi lungometraggi Come l’ombra (2006) ed Il mio domani (2011)13. Il suo sguardo si sofferma su esperienze al femminile che gettano un ponte tra la poetessa di ieri e l’artista di oggi, tra un’italiana ed una straniera – ambedue ombre che vivono e muoiono in una realtà che sembra ignorarle – e tra il vuoto dell’oggi ed un possibile domani altro, diverso. Da segnalare, tra l’altro, come uno dei pochi casi in cui il cinema italiano non evita la penosa consapevolezza del presente a favore di un passato migliore ma piuttosto di un futuro migliore. D’altronde il presente non è particolarmente roseo se Lorella Zanardo, Marco Malfi Chindemi e Cesare Cantù ne Il corpo delle donne (2009) documentano il ruolo che le immagini femminili trasmesse in televisione negli ultimi 50 anni hanno avuto nello svalutare la donna nella società italiana; o se Marcello Garofalo è stato spinto, proprio dalla televisione, a scrivere Tre donne morali (2007) proponendo un intreccio di interviste “sulla morale della televisione, del cinema e dell’ambiente artistico” a tre brillanti personaggi femminili tanto colti quanto necessariamente fittizi tanto per la cultura ed il rigore espressi quanto per il loro background particolare14. E ancora, se nel mezzo del cammin della vita, ovvero nel momento della menopausa, le donne nate nel periodo del Femminismo debbono “reinventarsi”, come nel film Ciliegine (Laura Morante, 2012), in quanto la cultura italiana “non prevede una visibilità particolare per le donne che passano quell’età”, come dichiara Angela Finocchiaro, protagonista del film Eva dopo Eva (Sophie Chiarello, in uscita nel 2013)15. O se le donne si trovano ancora ad interrogarsi sulla differenza di età che le separa da un partner più giovane, come in Parlami d’amore (Silvio Muccino, 2008), quando il contrario è da sempre ben accetto; se come categoria ‘debole’ pagano un prezzo alto sul lavoro – come si evince dal capitolo di Susanna Scarparo e Bernadette Luciano nella precedente sezione di questo volume – e se, quando invece godono di anche un minimo successo in questo campo, rischiano di pagarne uno ancora più alto nel privato, come illustra Elsa in Giorni e nuvole (Silvio Soldini, 2007) che, ripreso a lavorare, si ritrova a lottare per non perdere il rapporto d’amore con il marito. Ed infine, se un documentario si trova ad avere il titolo Una su tre (Claudio Bozzatello, 2012), un diretto riferimento alle 75

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statistiche che indicano come “una donna su tre ha subito e subisce violenze dal partner” in un paese che nei primi dieci mesi del 2012 può contare quasi una donna uccisa ogni due giorni, ovvero 98 vittime di quello che, con termine particolarmente infelice, viene definito nei media nazionali “femminicidio”16. In Italia la vita delle donne è più dura per via delle cure richieste dai membri della famiglia – siano essi anziani, malati o minori – per la mancanza di servizi sociali, per il difficile accesso al lavoro17. Lo è ancora di più ai margini della società, dove il cinema si sofferma ad indagare il fenomeno dell’immigrazione e dello sfruttamento, come ben illustra il capitolo di Piera Carroli dedicato a La sconosciuta di Giuseppe Tornatore (2006), piuttosto che quello della criminalità organizzata, e l’adesione o il rifiuto femminile della stessa, cui è dedicato il capitolo “Nuove donne di mafia sugli schermi”. Due ambiti in cui il cinema italiano riesce ad essere ancora fortemente politico, nel senso pasoliniano del termine. Eppure al di fuori di una generica sensibilità verso le questioni di genere, il Femminismo non attira il grande pubblico (o l’elettorato) femminile, tutt’altro. L’unico momento di aggregazione femminile post anni Settanta è stato il movimento “Se non ora quando?”, nato nel gennaio 2011 dall’appello di alcune donne in risposta agli scandali a sfondo sessuale che hanno coinvolto l’ex-premier Silvio Berlusconi, sfociato in una manifestazione il 13 febbraio dello stesso anno18. Questo, nonostante una generalizzata voglia di cambiamento ed emancipazione che tocca anche il cinema. L’attrice Carolina Crescentini in un’intervista ha commentato: Da noi sono molto rari i ruoli femminili a tutto tondo, le donne nei film sono sempre la spalla, il riflesso del protagonista maschile. Ma le domande che questa situazione genera dovrebbero probabilmente essere poste agli sceneggiatori, più che ai registi. Oltretutto in Italia di solito sono le donne che trascinano gli uomini al cinema, e quindi sembrerebbe evidente che, se non altro da un punto di vista esclusivamente commerciale, bisognerebbe avere più attenzione per l’universo femminile e creare dei personaggi più ricchi di sfaccettature19. I numeri le danno ragione. Infatti stando all’articolo “Dati cinema 2012: Il box office è nelle mani delle donne” il pubblico dei “fedelissimi” è composto principalmente di “donne fra i trenta e i quarantanni”20. Sorge quindi spontanea la domanda: se il pubblico è donna perché non chiedere più cinema al femminile? Non si tratta di Maschi contro femmine (2010) o di Femmine contro Maschi (2011), come vorrebbero i titoli delle commedie di Fausto Brizzi, piuttosto di dare maggior sostegno ai film scritti e girati da donne, far spazio ad un maggior numero di professionalità al femminile e produrre film che riflettano la complessità e le contraddizioni della vita di oggi e non perpetuino stereotipi di genere legati esclusivamente all’immaginario maschile. Difficile che un cambiamento di tale portata possa attuarsi spontaneamente in tempi brevi mentre si cerca di difendere lo status quo, se non di migliorare lo stato dei sussidi governativi al cinema, degli studi di Cinecittà, delle professionalità del cinema, 76

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per non parlare della stessa identità della sua parte maschile sugli schermi. Una recente mostra fotografica di immagini di attori italiani intitolata “Ciao maschio” – in omaggio all’omonimo film di Marco Ferreri del 1978 – sembra voler salutare più che celebrare il vecchio modello macho del passato21. Infatti nel cinema contemporaneo si sta assistendo ad una rinascita del personaggio dell’inetto d’ispirazione sveviana, sia nell’ambito classico della commedia, come ad esempio in Pranzo di ferragosto (2008) e Gianni e le donne (2011) di Gianni di Gregorio, sia più inaspettatamente in un discorso tragico come quello del melodramma domestico22. L’uomo qui prende il posto che tradizionalmente era riservato alle donne, come dimostra Rebecca Bauman nel capitolo dedicato a L’uomo che ama (Maria Sole Tognazzi, 2008). Il protagonista maschile, quindi, viene ‘femminilizzato’ attraverso lo sfruttamento dei codici del melodramma nei quali il maschio è la forza centrale, anche se passiva, all’interno della narrativa; questo sembrerebbe indicare uno scambio di ruoli, o quantomeno un’ambiguità degli stessi all’interno della coscienza di genere italiana ed al suo studio che, almeno all’estero, si è allargato e comprende sessualità, queer e GLBT23. Per quanto riguarda l’approccio cinematografico alla complessità delle identità sessuali, negli ultimi dieci anni si è assistito ad un progressivo proliferare di opere che in vario modo affrontano questa realtà. Se da un lato film di considerevole interesse come Il compleanno (2009) di Marco Filiberti trovano distribuzioni in sala difficoltose e periferiche, l’autore più importante che in questo ambito sta sviluppando una sua poetica nel panorama del cinema italiano rimane Ferzan Ozpetek che, invece, ha conseguito un crescente successo di pubblico e di critica. Dal 1997 con il suo Il bagno turco (Hamam), il regista ha portato sul grande schermo personaggi che si trovano ad esplorare la propria sessualità latente o a viverla segretamente – Le fate ignoranti (2001) – o a confrontarsi con il rifiuto della stessa – Mine vaganti (2010). Nella presente sezione, Mattia Marino ne esamina il film Saturno contro (2007) ed in particolare l’uso che il regista fa dei cliché, che permettono allo spettatore medio di avvicinarsi, tra gli altri, a tali temi. Sia il film del 2001 che quello del 2007 sono stati riconosciuti come d’interesse culturale nazionale dalla Direzione Generale per il Cinema del Ministero per i Beni e le Attività Culturali italiano ed hanno successivamente goduto di vari passaggi nei palinsesti televisivi nazionali. La televisione italiana, notoriamente più conservatrice ed altamente legata ai dati dell’audience, ha tardato ad accettare questi temi ma già nel 2003, a quasi dieci anni dalla prima manifestazione nazionale del Gay Pride avvenuta Roma nel 1994, è approdata in TV in Italia la situation comedy americana Will & Grace. Creata da David Kohan e Max Mutchnick per la NBC nel 1998, la serie ha protagonisti e personaggi secondari e ricorrenti gay e bisessuali; partita con un ritardo di cinque anni rispetto alla sit-com statunitense, le otto stagioni sono andate in onda su Italia1, Fox Life e La5 tra il 2003 ed il 2006. La nuovissima e più controversa serie televisiva The New Normal (creata da Ali Adler e Ryan Murphy per la NBC nel 2012), che vede una coppia gay affrontare tematiche più impegnative quali la famiglia omosessuale (con madre surrogata), è stata vista in Canada (CTV) ed in Gran Bretagna 77

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(E4) ma non è ancora approdata in Italia e non ci sono notizie in merito. In uno Stato in cui la condizione giuridica delle coppie gay è oggi uguale a quella del 1945, temi così attuali vengono respinti da un visibile soffitto di cristallo. Allo stesso tempo diventa invece possibile affrontare temi rimasti a lungo latenti quale, ad esempio, il lesbismo che in termini di visibilità a livello cinematografico, ma anche letterario, accademico e sociale, è stato a sua volta marginalizzato anche dall’omosessualità maschile24. Lo studio di Daniela Danna “Lesbiche italiane sulla scena pubblica negli anni duemila” conferma come tuttora “le donne lesbiche si nascondono nel privato”25. Il paradosso della rappresentazione dell’‘amore saffico’ (come Guido da Verona o Pitigrilli lo avrebbero probabilmente definito) è evidente: nel cinema mainstream, prevalentemente americano, la rappresentazione della omosessualità femminile viene spesso usata come parentesi di stampo prettamente voyeuristico (vengono in mente le sequenze di film come The Hunger (1983) di Tony Scott, dove Susan Sarandon e Catherine Deneuve, in un’orgia di veli e filtri flou si scambiano carezze sulla musica di Delibes, o Mulholland Drive (2001) di David Lynch, dove la scena di passione tra Naomi Watts e Laura Harring di certo nulla aggiunge al plot del film). Donne giovani, belle, fotografate con gli stessi artifici tecnici di luci ed effetti che si ritrovano nelle pagine patinate di riviste come Playboy, e nessun tentativo di rappresentare una sessualità altra, alternativa a quella legata all’immaginario maschile. Da questo punto di vista, è encomiabile il tentativo, innovativo nel panorama italiano, di raccontare la normalità del rapporto d’amore tra donne che ricalca una simile tendenza anche in letteratura: al maschile Sciltian Gastaldi con Angeli da un’ala soltanto (2004) e Tutta colpa di Miguel Bosé (2010) e al femminile Elena Stancanelli con Benzina (1998) che dichiara “io non riconosco neanche la differenza tra eterosessuale e omosessuale; davvero non so di cosa parliamo quando diciamo normalità”26. Il suo romanzo è stato tradotto nell’omonimo film da Monica Stambrini, nel 2001, e “la leggerezza con cui è raccontata la nascita di un amore ‘diverso’, cresciuto in un’anonima stazione di servizio, è forse il carattere più forte e indimenticabile di un film che descrive in realtà una tragedia”, ovvero la morte accidentale della madre di una delle due ragazze per mano dell’altra e la loro fuga dal luogo del delitto27. Eppure la ‘normalizzazione’ è un lusso recente, come ricorda il film Viola di mare (Donatella Maiorca, 2009), tratto dal libro Minchia di re di Giacomo Pilati, i cui titoli fanno riferimento al pesce ermafrodita chiamato Donzella di mare che nasce femmina e muore maschio, proprio come la protagonista della storia d’amore dell’Ottocento (vera ma totalmente reinventata nella fiction) che sta alla base della trama: Pina deve diventare Pino e sposare Sara, l’oggetto del suo amore, per evitare lo scandalo ed abbracciare la finzione per il resto della sua vita. Più recentemente il film Il richiamo (Stefano Passetto, 2011) cerca di immaginare la nascita di un sentimento ‘diverso’ nella vita di due donne coinvolte in rapporti eterosessuali. Nel film Lucia e Lea, durante un viaggio in Patagonia che le allontana dai normali rapporti e restrizioni sociali, si innamorano. Il finale ambiguo è comunque positivo per Lucia, la più grande delle due donne guarita nel finale da un tumore, tanto da far dire al suo medico “io credo che lei sia una donna normale, con normali risorse 78

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a cui l’esistenza ha dato la possibilità di nascere per la seconda volta”. È evidente come questa seconda nascita non sia solo ad una salute ritrovata ma anche ad una nuova sessualità. La stessa seconda nascita apparirebbe essere vissuta dal cinema italiano che, negli ultimi anni, ha iniziato a presentare sempre più spesso opere centrate sulle tematiche GLBT e non più mero utilizzatore di stereotipi, più o meno grotteschi, come nella tradizione della commedia all’italiana. Il tratto comune di tutte queste opere è quello dell’analisi minimalista, dello sguardo rivolto al microcosmo degli eventi personali che aprono squarci di prospettiva sugli effettivi, macroscopici cambiamenti che la società italiana sta attraversando nel nuovo millennio. Manca però il salto di qualità verso una vera e propria critica della società: si rimane rinchiusi all’interno di questo personalismo e spesso, anzi, l’apparente proposta è quella di una risoluzione personale, sovente positiva e rassicurante, che volutamente ignora le più ampie responsabilità civili. Le potenzialità sono indubbie, ma altrettanto indubbia è la resistenza che gli viene opposta. Ad un’analisi quantitativa, quindi, sembrerebbe che il cinema italiano al femminile stia attraversando proprio un’età dell’oro: nuovi registi, nuove produzioni, nuove tematiche. Eppure l’apparente floridità nasconde una realtà fragilissima e precaria: budget bassi, distribuzione e promozione carente continuano a marginalizzare i film che vedono le donne al centro della loro produzione. Il discorso non è diverso per quanto riguarda le produzioni legate a tematiche minoritarie. Più in generale, analizzando le principali fonti di finanziamento utilizzate nella realizzazione di film in Italia, il dato evidente è l’importanza del Fondo Unico dello Spettacolo e dei contributi statali quali canali privilegiati per tutte le produzioni non immediatamente ‘popolari’. È quindi un dato preoccupante quello che rivela essere il cinema italiano “al minimo storico di investimenti dal Fus: il cinema, dati alla mano, è l’industria meno sostenuta dallo Stato”28. L’investimento privato, in leggero aumento, predilige produzioni mainstream ed un rientro ‘garantito’, come testimoniano il numero di film che utilizzano personaggi rubati alla televisione e tematiche di evasione. Questa situazione, accentuatasi con il crescente ruolo di quasi monopolio rivestito da Medusa Film, la casa di produzione legata al gruppo Mediaset di proprietà di Silvio Berlusconi, associata alla cronica lentezza con cui avvengono i cambiamenti a livello sociale e di diritto in Italia, da sempre ostacolati dai media, dalla classe politica e dalle influenze della Chiesa, danno il quadro di un paese che tende sempre di più ad autoconfinarsi ai margini del novero delle Nazioni Occidentali più avanzate. L’Italia ed il suo cinema faticano a confrontarsi con la modernità ‘liquida’ del XXI secolo e con la sempre più crescente ansia di cambiamento che si avverte ‘spingere’ dal basso.

Note 1

Bauman, Z. (2003) Modernità liquida (Laterza, Roma-Bari).

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Dalle Vacche, A. (2008) Diva: Defiance and Passion in Early Italian Cinema, University of Texas Press, Austin.Vedi anche la ricerca di Stephen Gundle sulla bellezza, le dive e lo star system – http://www2.warwick.ac.uk/fac/arts/film/staff/gundle/ Ad esempio Elvira Notari, cui dal 1987 al 2002 il Festival del Cinema di Venezia ha dedicato il premio omonimo (in seguito Premio Lina Mangiacapre), è una poco nota cineasta dei primi anni del cinema italiano studiata da Giuliana Bruno in Rovine con vista: alla ricerca del cinema perduto di Elvira Notari (Dalai editore, Milano, 1995); piuttosto che Lina Wertmüller di cui Tiziana Masucci ha scritto la biografia I Chiari di Lina (Edizioni Sabinae, Rieti, 2009) o Liliana Cavani che Gaetana Marrone ha studiato nel suo The Gaze and the Labyrinth: The Cinema of Liliana Cavani (Princeton University Press, Princeton, 2000) o Suso Cecchi D’Amico cui nell’anno della sua scomparsa è stato dedicato da Tullio Kezich e Alessandra Levantesi il libro Una dinastia italiana. L’arcipelago Cecchi D’Amico tra cultura, politica e società (Garzanti, Milano, 2010). Hipkins, D., “Why Italian Film Studies Needs a Second Take on Gender” in Italian Studies, 2008, Vol.63 (2), 213-234. Per quanto riguarda iniziative al femminile vedere “La sottile linea rosa” – http://www.cinemaitaliano.info/news/09293/evelina-de-gaudenzi-vinceil-concorso-il.html – la nuova rassegna culturale Spazio Libero dal titolo Storie di donne. Donne nella storia – http://it.paperblog.com/storie-di-donne-donne-nella-storia-staseraall-isola-del-cinema-1295730/ - ed il Festival internazionale di cinema e donne http:// cinefestival. blogosfere.it/2009/11/cinema-e-donne-a-firenze-il-festival-dal-17-novembre-premiate-sylvie-veheyde-barbara-cupisti-e-aissa.html Iacobelli, Roma, 2011. Mazzocchi, S., ‘“I Morandini delle donne” cinema italiano al femminile’ ne La Repubblica, 22 gennaio 2011, http://www.repubblica.it/spettacoli-e-cultura/2011/01/22/news/ il_morandini_delle_donne-11532798/ Dal trailer http://www.youtube.com/watch?v=nbKSWAEMLvc. Morgoglione, C., “Isabella, la madrina militante ‘Finalmente un film al femminile’ ’’, La Repubblica, 8 settembre 2010, http://www.repubblica.it/speciali/cinema/venezia/ 2010/09/08/news/ragonese_2-6876605/ Al 31 dicembre 2011 - http://www.imdb.com/title/tt1724553/ e http://www.movieplayer.it/ film/boxoffice/stagione-2010-2011_734/ di Lauzen, M.M. (2008) – http://womenintvfilm.sdsu.edu/files/ Women%20@%20Box%20Office.pdf Zagarrio,V. (a cura di, 2006) La meglio gioventù: Nuovo Cinema Italiano 2000-2006,Venezia, Marsilio, ed in particolare, al suo interno, Paternò, C., “Un cinema al femminile”, 135142. Scarparo, S., Luciano, B., “The Personal is Still Political: Films ‘By and For Women’ By the New Documentariste”, Italica, 87.3, Autumn, 2010, 488. Bertozzi, M., “Scusi, dov’è il documentario?” in Zagarrio,V. (a cura di, 2006) La meglio gioventù: Nuovo Cinema Italiano 2000-2006,Venezia, Marsilio, 115-122, e (2008) Storia del documentario italiano. Immagini e culture dell’altro cinema,Venezia, Marsilio, 293-297 e Scarparo, S., Luciano, B., “The Personal is Still Political: Films ‘By and For Women’ By the New Documentariste”, Italica, 87.3 (Autumn 2010) 488. Garofalo, M., “Note di regia del film Tre Donne Morali” –http://www.cinemaitaliano.

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info/ news/00500/note-di-regia-del-film-tre-donne-morali.html 15 Anon., ‘Angela Finocchiaro: “Eva dopo Eva è un film di donne”’, 19 giugno 2011. http://www.cinemaitaliano.info/news/13354/angela-finocchiaro-eva-dopo-eva-e-unfilm.html e Anon.“Una donna uccisa ogni due giorni: femminicidio, 98 vittime nel 2012”, La Repubblica, 7 ottobre 2012. http://www.repubblica.it/cronaca/2012/10/07/ news/una_donna_uccisa_ogni_due_giorni_femminicidio_98_vittime_nel_201244054644/?ref=search 16 Griseri, C., (2012) Una su tre, 9 luglio 2012 – http://www.cinemaitaliano.info/news/ 13676/una-su-tre-la-dura-realta-della-violenza.html, ed anche Iacona, R. (2012) Se questi sono gli uomini, Milano Chiarelettere. 17 Istat (2007) L’uso del tempo. Indagine multiscopo sulle famiglie ‘Uso del tempo’: anni 2002–2003, Roma. 18 Non senza contestazioni da parte delle femministe cosiddette storiche.Vedi l’appello online – http://www.petizionepubblica.it/?pi=mobdonne. Cfr. Ronzoni, M., “Se non ora quando: ma è proprio solo moralismo?” in MicroMega, 25 maggio 2012 - http://temi.repubblica.it/micromega-online/se-non-ora-quando-ma-e-proprio-solo-moralismo/ 19 Crescentini, C., “In Italia le donne sono in bianco e nero” intervista di Greco, M., Paese Sera, 10 ottobre 2011 – http://www.paesesera.it/Cultura-e-spettacolo/Cinema/CarolinaCrescentini-In-Italia-le-donne-sono-in-bianco-e-nero 20 Gallozzi, G.,‘Dati cinema 2010: Il box office è nelle mani delle donne’, l’Unità, 6 novembre 2011 – http://www.indicinemaitalia.it/notizie-indicinema/48-dati-cinema-2010-il-boxoffice-e-nelle-mani-delle-donne.html 21 Tenutasi alla Casa del Cinema di Roma dal 13 luglio all’11 settembre 2012 – http://d.repubblica.it/argomenti/2012/07/13/foto/mostra_attori_roma-1144238/1/ 22 Per la teoria sul concetto di mascolinità nel cinema vedi Reich, J. (2004) Beyond the Latin Lover: Marcello Mastroianni, Masculinity, and Italian Cinema, Bloomington, Indiana University Press, 27, per il ruolo dell’‘inetto’ vedi 104. 23 Ross, C., Scarparo, S., “Introduction” in Italian Studies,Vol. 65, n. 2, luglio 2010, 160-163. 24 Tommasina, G., “An apology for Lesbian visibility in Italian literary criticism”, Italica, 87.2, 2010, 253. 25 Danna, D., “Lesbiche italiane sulla scena pubblica negli anni duemila”, Italian Studies,Vol. 65, n.2, luglio, 2010, 219-234. 26 Ross, C. (2004) “Queering the Habitus: Lesbian Identity in Stancanelli’s Benzina”, Romance Studies, 22, 247. Si ringraziano Sciltian Gastaldi ed Alessandro Vecchiarelli per le discussioni preliminari ed i suggerimenti avuti nella stesura della presente introduzione. 27 Nucci, M. (2002) Benzina, 31 maggio 2002 – http://www.film.it/televisione/notizie/recensione-benzina/ 28 Mangione, M. (2011) “Riflessioni sul cinema italiano 2010: vera ripresa o specchietti per le allodole?”, 15 febbraio 2011 – http://moviebrat.altervista.org/index.php/riflessioni/53riflessioni-flash/1211-riflessioni-cinema-italiano-2010-ripresa-o-specchietti-per-le-allodole.html – e Anica (2011) “Il cinema italiano in numeri. Anno solare 2010. Sintesi dei commenti tecnici alla presentazione” – http://www.anica.it/online/news/ ANICA_sintesi_commenti_dati_cinema_2010.pdf

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Piera Carroli

La sconosciuta di Giuseppe Tornatore: la rivendicazione della soggettività materna Introduzione Inquietante e provocatorio, La sconosciuta catapulta lo spettatore dentro al dramma di Irena, una straniera perseguitata da un passato traumatico nel Sud, che cerca di rifarsi una vita in una città del Nord Italia. La sua vicenda individuale è difatti costruita sullo sfondo della questione globale del traffico sessuale e riproduttivo. Ripreso e ricomposto in un collage di generi che ne aumenta la suspense e l’impatto emotivo, il film narra una storia inconsueta nella cinematografia di Tornatore: lo sfruttamento fisico, psicologico, economico e emotivo della donna straniera, servendosi di una sequenza di brutali e veloci flashback che mettono alla prova le aspettative del pubblico. Le violente schegge filmiche assediano la sconosciuta quanto lo spettatore, il quale viene immerso prepotentemente nel passato martoriato della protagonista. Pensando di essersi sbarazzata del magnaccia Muffa e della vita da incubo a cui l’aveva costretta, Irena cerca di farsi assumere prima come donna delle pulizie di un elegante palazzo, e, in seguito, come domestica di una ricca famiglia di orafi che vi abita, gli Adacher: Valeria e Donato, separati, e la figlioletta Tea. Il palazzo e la famiglia sono oggetto dell’osservazione minuziosa di Irena che, per riuscire a prendere il posto della vecchia domestica Gina, l’avvicina, diventa sua amica, e se ne libera. La protagonista, avendo vissuto traumi profondi, commette lei stessa atti violenti, inizialmente inspiegabili per lo spettatore, spinta da un disegno che si rivelerà illusorio. Il mistero della sconosciuta si dipana lentamente nell’intersecazione narrativa dei diversi piani temporali, svelando a scatti la sua storia. La protagonista Irena Yaroshenko, ucraina, incorpora la donna dell’Est ingenua e sfruttata, ma rappresenta anche la ribellione e ritorsione del soggetto offeso che, pieno di rabbia, vuole riprendersi ciò che le è stato rubato. Con il suo percorso di ricerca e riappropriazione della soggettività, Irena ‘figura’ possibili rivendicazioni della straniera sfruttata – prostituta, badante, colf. Simultaneamente il film ammonisce sia ‘straniere’ sia ‘italiani’ contro i pericoli e le conseguenze della globalizzazione. La struttura narrativa e la scenografia, fortemente stilizzate, e il genere noir-giallo84

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melodrammatico mettono in luce l’impatto psicologico delle violenze subite e le conseguenze del passato sul presente. La vicenda di Irena richiama l’esperienza dello sfruttamento di altre straniere, senza facili generalizzazioni, proponendo possibili incontri tra ‘altri’: la bambina italiana affetta da una strana malattia e la colf straniera. Pertanto il film dialoga con la realtà immergendosi nelle problematiche più sporche del mondo globalizzato, seguendo modalità diverse dalle linee di tendenza realiste o documentarie di altri film che trattano temi simili. A questo proposito,Tornatore (2006) sottolinea che il suo è un film di genere, una storia individuale che non si propone scopi moralistici né politici. La sconosciuta può perciò situarsi nel “nuovo cinema di genere” (Uva, 2009: 306), un cinema ibrido che rappresenta l’indecifrabilità della globalizzazione e delle sue conseguenze in modo obliquo tramite generi che mettono in luce il mistero e l’assurdo, e che, contemporaneamente, sono familiari al pubblico (giallo, noir, melodramma). Questi generi servono quali fattori di ingaggio (Uva, 2009) e di forte presa emotiva per avvicinarsi allo spettatore (Fanchi, 2007). Con queste nuove modalità di rappresentare la straniera, Tornatore, “autore colto e popolare, versato nell’affabulazione poetica di storie molto diverse, sempre capace di colpire al cuore, di commuovere lo spettatore” (Iarussi, 2006) è riuscito a cogliere ‘a tradimento’ il vasto pubblico1. Al contrario dei film ‘di migrazione’, spesso a diffusione limitata, La sconosciuta ha riscosso un ampio successo di pubblico se non sempre di critica, proponendo un ritratto complesso, enigmatico e ambivalente della prostituta / straniera che si contrappone all’immagine appiattita dei media e alle rappresentazioni vittimistiche dell’emigrata del filone realistico2. Incentrata sulla protagonista Irena e sullo sfondo socioculturale, l’analisi del film guarda a ‘la sconosciuta’ attraverso le lenti del genere, prendendo spunto in particolare dalla critica cinematografica femminista (Mulvey, 1975; de Lauretis, 1987) e da studi di soggettività femminista (Braidotti, 2002a). Usando in particolare la logica dello sguardo (Mulvey, 1975, 1998, 2007), con l’analisi della scena iniziale si mira a dimostrare che questa sconosciuta, pur essendo condizionata e guidata dal suo passato, è diversa3. Intenta a riprendersi la sua maternità rubata, da feticcio e oggetto di piacere Irena si trasforma in ‘agente’ e ‘watcher’, da spiata a spia, da vittima a ‘agente’, da oggetto migrante preda di sfruttatori e dell’ossessione con il passato, a soggetto legittimo, consapevole e responsabile.Agli spettatori che guardano la pellicola attraverso gli occhi di Irena viene negato il piacere o il voyeurismo perché, anziché concentrarsi sul suo corpo, si identificano con la sua inarrestabile missione guidata dall’indistruttibile istinto materno che è anche il motore dell’evoluzione narrativa del film.

Contesto Cinematografico e Sconosciuta La sconosciuta si distacca da altri film con protagoniste immigrate per il genere, il registro e lo svolgimento narrativo. La scelta del genere noir e del registro duro e ‘sporco’“si 85

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adatta ad un film violento e incalzante” (Tornatore in Starace 2006) e all’intenzione del regista di avvolgere la storia di mistero4. […] sono soprattutto il noir, il thriller, l’horror, la detective story i territori nei quali tanto cinema italiano rinnova le proprie modalità d’espressione, trovando in tali generi classici un’ulteriore possibilità di approccio alla realtà […]. Se esempi come quello di Almost blue (2000) di Alex Infascelli […] adottano in maniera esplicita i codici dei generi citati (spesso mescolandoli), […] ci sono altri casi in cui questi ultimi vengono piegati ad un discorso autoriale maggiormente calato in un contesto sociale, come avviene nel duro quanto intenso La sconosciuta (2006) di Giuseppe Tornatore […] (Uva, 2009: 313). Inconsueto per la storia e il contesto globale (anziché locali/regionali), La sconosciuta si riallaccia alla filmografia precedente del regista per quanto riguarda la capacità di coinvolgere il pubblico con accattivanti trame, lo stile raffinato ed emotivo, e straordinari protagonisti e attori. Questa “favola nera dei nostri tempi” (Tornatore, 2006) deve molta della sua forza emotiva al casting di Ksenija Rappoport e alla sua viscerale interpretazione della sconosciuta. L’italiano stentato e il “volto non noto che rappresenta[sse] la sconosciuta al centro degli eventi e un coro di volti famosi attorno a lei” (Tornatore in Starace 2006) rendono più autentico il personaggio, accrescendo contemporaneamente la carica perturbante del film e lo straniamento nello spettatore. La fotografia di Zamarion, in particolare i chiaroscuri che tagliano il volto della protagonista a metà, fanno risaltare l’enigma della sconosciuta, vicende passate e intenzioni presenti, mentre i primi piani illuminati ne mettono in risalto la vulnerabilità e l’innocenza. L’intelligente uso della macchina da presa e il montaggio abbinati alla lacerante colonna sonora di Morricone suscitano forti e coinvolgenti emozioni, attivando “affective mimicry” [una sintonizzazione affettiva] (Hope, 2006: 7). Per esempio, i flashback solari e felici con Nello, l’unico amore della sua vita, accompagnati dal motivo delle fragole, simbolo dell’innocenza stravolta e dell’amore negato, si alternano alla ninna nanna del babbo lontano, richiamano il passato di emigrazione, sradicamento e smarrimento di tanti italiani oltre che della sconosciuta. L’allineamento affettivo con la sconosciuta avviene, nonostante le sue colpe, perché Tornatore riesce a creare una struttura narrativa sorretta da tecniche visive e uditive che ne esaltano l’innocenza e la nobiltà della missione oltre l’odissea infernale, contrapponendole la madre italiana che delega la cura dei bambini alla straniera. Non più nostalgia, ma fuga e recupero di ciò che si è perso, il passato, anche ne La sconosciuta “overshadows and influences not only the present but the lives of individuals whose growing awareness of a sense of personal loss shapes their behaviour” (Hope, 2006: 2). A nostro parere la sconosciuta di Tornatore è diversa dalle raffigurazioni di prostitute in film ‘di migrazione’ che usano meccanismi sadici giustificandoli secondo 86

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la logica patriarcale del realismo narrativo che eroticizza e vittimizza la sofferenza dell’emigrata dall’Est europeo5. Le violenze passate, messe in scena con velocissimi flashback senza soffermarsi sul suo corpo, avvicinano chi guarda alla protagonista perché illuminano sia lo sfruttamento sia l’enorme vuoto lasciato dalla perdita di Nello e della maternità. La complessità della struttura narrativa può indurre il critico a interpretare gli atti violenti di Irena solo come sete di vendetta. Un’analisi più attenta dei flashback rivela che Muffa muore accidentalmente e che il tentato omicidio è inanzitutto un attacco autodifensivo, oltre che rivalsa per lo sfruttamento subito, l’omicidio di Nello, le gravidanze forzate, la maternità negata e la sterilità. Dapprima Lucrezia, la levatrice, ammonisce Irena che, in seguito, trova un paio di forbici sotto il cuscino di Muffa.Tra Irena e Muffa, come nei film western, il duello è all’ultimo sangue: sopravvivere per non soccombere. Oltre a distanziare chi guarda dal personaggio, la rappresentazione da incubo di Muffa evita anche di romanticizzare il ruolo infame del magnaccia. Il ritratto caricaturiale di Muffa, spoglio di umanità, incarna una malvagità disumana, indispensabile e inevitabile, per chi diventa strumento e profitta di organizzazioni globali che si arricchiscono tramite la mercificazione dell’essere umano. Il riemergere di Muffa nel presente di Irena, la quale lo credeva morto, oltre ad essere coerente con i ricorrenti incubi del noir, sottolinea l’insidiosa invadenza delle organizzazioni criminali dedite al traffico di esseri umani e la difficoltà di liberarsene. L’intessitura del percorso misterioso della sconosciuta, pur essendo costruita e irreale, richiama tematiche comuni all’esperienza di tante donne che migrano: l’isolamento, la solitudine, la violenza.

Contesto Socioculturale e Sconosciuta: non “Morire di Marciapiede” Dietro l’apparenza di opera di passaggio e senza troppe pretese, e nascosto tra le pieghe di una struttura di genere (thriller, noir) e quindi astratta, non realistica […], c’è uno spaccato attuale e allarmante sulle nuove dinamiche tra ricchi e poveri nelle società occidentali. […] Non si può negare che sia un film violento, ostico, portatore di disagio. (Nepoti, 2006). La realtà non risparmia nessuno. Il paese dove la violenza, lo sfruttamento, il taglieggiamento e lo sradicamento familiare viene perpetrato è il nostro. Vittime le badanti, colf, prostitute, lavoratrici […]. Le scene colpiscono alimentando il bisogno di reagire. (Monti, 2006). Denominato “Nuovo cinema inferno” per lo sfondo sociale, l’ambientazione realistica e i flashback brutali, La sconosciuta nasce da “una suggestione di un 87

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semplicissimo fatto di cronaca, una donna che faceva figli su ordinazione” (Starace, 2006) e da testimonianze raccolte dal regista. Pur non trattandosi di un film di denuncia sociale, il film, incentrato sul percorso di Irena dalla disperazione alla speranza, mette a nudo l’abuso della straniera in Italia. Considerate come non persone, senza nessun diritto, né cura né appello, soggette alla compravendita (fuori) legge, tante donne dell’Est vengono adescate con promesse di lavoro e, una volta in Italia, costrette alla prostituzione6. Il più delle volte giovanissime e clandestine, queste donne vengono spesso costrette ad una doppia schiavitù da clienti e ‘protettori’, soggette a torture e, a volte, vittime di delitti orrendi. Eppure per i media e per la popolazione locale sono puttane straniere di cui non importa niente a nessuno, i cui delitti rimangono spesso irrisolti (Fiumi 2011), e i cui corpi vengono riportati in patria in una cassa7. Non questa sconosciuta. Lei ha un nome, una storia e un futuro. Incentrato sulle difficili transizioni di Irena da oggetto a soggetto legittimo, la prospettiva teorica del presente saggio si allinea, quantunque con cautela8, a studi femministi che pongono l’attenzione alla soggettività, al divenire e all’agency (Braidotti, 2002a) e a studi sulla migrazione e sul traffico sessuale che adottano prospettive soggettiviste per sottolineare che “abusive working arrangements in the sex sector are not permanent or monolithic” (Andrijasevic, 2010: 3) e che non tutte le prostitute sono vittime, o perlomeno non lo sono per tutta la vita – tenendo conto, però, che per molte donne non è possibile fuggire né rifarsi una vita. Come Irena, passano la frontiera nascoste in TIR a Trieste, simbolo dell’eleganza e dell’ordine mitteleuropeo, in seguito al crollo dell’ex blocco comunista. Camilleri coglie con amarezza e ironia tagliente le conseguenze del passaggio dal comunismo alla globalizzazione capitalista: “La carne fresca in maggioranza proveniva dai paesi dell’est, finalmente liberati dal giogo comunista che, come ognun sa, negava ogni dignità alla persona umana: tra i cespugli e l’arenile della mànnara, nottetempo, quella riconquistata dignità tornava a risplendere”9. Le donne dell’Est lavorano anche come ‘badanti’ o domestiche, un mercato che rispecchia lo stravolgimento socioculturale della società e famiglia italiana in cui le conquiste delle femministe italiane vengono pagate con la sottomissione delle straniere (Scarparo e Luciano, 2011). Tali lavori però permettono loro la transizione da clandestina a cittadina, come avviene per Irena Yaroschenko che, nella sua traiettoria evolutiva, incorpora figure di donne emblematiche: la prostituta, la prostituta-incubatrice; la colf; l’immigrata con scopi misteriosi; e infine la madre ‘migliore’. Il tema della migrazione è in diretta relazione all’osservazione di profondi cambiamenti nella società italiana, in particolare il ruolo della famiglia e del ‘mothering’. “Ogni giorno noi donne emancipate e privilegiate del Primo mondo possiamo permetterci di essere come siamo e fare ciò che facciamo proprio perché dietro a ognuna di noi c’è un’altra donna, dalle nostre stesse capacità ma più svantaggiata […]. Insomma la nostra emancipazione e libertà sono possibili solo grazie al sacrificio di un’altra donna10.” A questo proposito, Valeria e l’ambiente rarefatto 88

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dell’alta borghesia triestina sono l’emblema di un’Italia e un’Europa ipocrite che vogliono mantenere una divisione ferrea tra ‘cittadino’ e ‘straniero’, pur lasciando loro la cura e non solo dei familiari, sfruttando la donna del ‘terzo’ mondo per essere appieno donna (e uomo) del ‘primo’ mondo. L’unica ‘famiglia felice’ nel film, composta di una sconosciuta, di un padre adottivo e di una figlia adottiva ‘malata’ nell’episodio del circo, si rivela effimera e illusoria. La dimensione emotiva si collega al contesto socioculturale italiano e suscita riflessioni sui cambiamenti degli ultimi cinquant’anni: “Uno dei temi del film mi ha preso molto, ovvero la tendenza a delegare tutto della nostra vita. Mi ha portato a chiedermi ‘cosa può succedere se finiamo per cedere anche i nostri affetti?’” (Tornatore, 2006a). L’istinto materno della straniera che riesce dove fallisce l’iperprotezione della madre italiana altoborghese che, troppo presa dal lavoro e da altri affetti, delega la cura della bambina alla sconosciuta, interroga questioni fondamentali quali il ruolo della soggettività femminile e materna nel nuovo panorama europeo “to produce a viewing experience that simultaneously engages and elicits both emotional and intellectual responses” (Hope, 2006: 3).

Analisi e Contesto Critico: Everyone Looks in the Cinema (de Lauretis, 1987: 98) Il film si apre con corpi dal volto mascherato allineati e guardati da potenziali acquirenti da uno spioncino – nello sfondo una finestra sbarrata. Inizialmente si ipotizza, erroneamente, che si tratti di una compravendita a scopi sessuali. Tornatore è riuscito nel suo intento di “iniziare con qualcosa che lasciasse il segno” (2006a). La brutalità dei flashback subliminali colpisce allo stomaco lo spettatore quanto Irena, con veloci sciabolate della camera. Pur essendo inquietanti, i flashback violenti, scatenati dall’ansia o da oggetti, come pure quelli solari con Nello, sono le chiavi per capire Irena. Servono inoltre per entrare in empatia con la sconosciuta e condonarle i mezzi di cui si serve per raggiungere il suo fine. Sebbene l’impatto visivo e emotivo del film possa risultare ambiguo e persino manipolativo, sorprende e mette alla prova preconcetti e stereotipi del fruitore con l’evoluzione della logica dello sguardo.

L’occhio misterioso – Irena è guardata Lo sguardo oggettificante dell’incipit riproduce la tradizionale “to-be-looked-at-ness” (Mulvey, 1975), l’essere passivamente guardata e mostrata: la cinepresa si focalizza sui corpi delle donne, le quali, seminude e mute, dalle sembianze di manichini per accentuare la freddezza con cui si svolgono tali pratiche, sono guidate dalla voce maschile del magnaccia, inizialmente fuoricampo. Attraverso due fessure nella parete che salvaguardano l’anonimato dei committenti, si vedono due occhi, un occhio contemporaneamente alla voce maschile che dice: “va bene lei” e un altro occhio11. In un altro flashback si sente la voce della donna che conferma: “Sí va bene”. Non 89

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sappiamo chi siano gli acquirenti né conosciamo i loro scopi, l’ipotesi più comune è che si tratti di sesso scambista, ma Tornatore ci sorprende.

L’occhio del pubblico che guarda Irena L’incipit fa entrare chi guarda nel trauma di Irena calandoci nei suoi panni. I flashback ri-costituiscono il frammentario racconto del suo passato. Sono contemporaneamente la chiave di un passato di cui vuole liberarsi e sono la spinta motore del suo presente. Le dinamiche dello sguardo sono complesse e non dipendono solo dal genere (Mulvey, 1975) né dal sesso. Il pubblico non è né eterogeneo né eterosessuale (Mulvey 1998, 2007). È possibile che spettatori sadici si identifichino con la scopofilia della scena iniziale, altri ‘corretti’ ne siano ripugnati, e che a spettatrici (sic) agguerrite e impegnate venga la voglia di sbarazzarsi dei Muffa di questo mondo e/o dedicarsi al volontariato. Il film provoca reazioni diverse e contrastanti soprattutto perché la sconosciuta non è una protagonista stereotipa né statica, s/fugge e si evolve: da feticcio-oggetto a soggetto agente.

Lo sguardo femminile La sconosciuta problematizza lo schema patriarcale classico del piacere filmico fin dalla scena iniziale, dietro lo spioncino c’è infatti anche l’occhio di una donna. Inoltre, da guardata Irena diventa ‘guardante’ per indagare le abitudini della famiglia Adacher e spiare Valeria, la madre adottiva di Tea. La situazione si ribalta ulteriormente quando Valeria, insospettitasi, inizia a spiare Irena e scopre il suo segreto.

“Chi non cade non sa rialzarsi”: Dalla maternità negata al ‘fare la mamma’ “la bambina è un piccolo personaggio […] che poi si rivela il motore di tutto” (Tornatore, 2006a). A livello narrativo il film problematizza schemi patriarcali e monoculturali: l’eroe-ina è la straniera, con tutti i suoi difetti e le sue colpe. Con la sua odissea, la sconosciuta figura una nuova epica al femminile, un’eroina che non è il femminile di Ulisse e che osa tutto non per conquistare il mondo ma per far la madre. Il percorso di Irena diventa credibile e giustificabile quando si scopre la meta che si prefigge: la rivendicazione della soggettività incentrata sul recupero della maternità. Oltre alla confessione alla polizia, l’evoluzione del personaggio si spiega anche tramite i particolari del suo passato che Irena rivela a Gina, con la consapevolezza critica del presente, e il dialogo con Tea all’ospedale quando convince la bambina a mangiare dicendole che potranno rimanere vicine scrivendosi lettere. Il superamento di ogni ostacolo è accompagnato da una serie di transizioni verso la formazione di una propria soggettività legata alla pratica del fare la mamma, una pratica messa in secondo piano dal personaggio della madre italiana e delegata alla donna straniera. La “mostruosità” (Braidotti, 1996) e la normalità si scontrano e i valori ‘normali’ vengono ribaltati: chi è il mostro, la madre disposta a 90

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uccidere per recuperare la maternità che ha partorito nove figli in dodici anni, tutti venduti, o le madri che comprano figli su ordinazione? Solo in apparenza madremostro, per evitare che anche la presunta figlia finisca succube della violenza altrui, la sconosciuta, la figura della differenza deviante (ibrida, immigrata, prostituta, corpo usato per la procreazione) è rappresentata come la madre che sa essere madre. Il materno, rappresentato nel film come l’aspetto più importante della femminilità, diventa il modo per riscattarsi, per lavarsi delle offese e delle colpe. Gli iconici primi piani di Irena e le inquadrature che ne illuminano il pallore e lo sguardo supplichevole richiamano il simbolo della maternità divina: la Madonna. Il ruolo materno e la pratica del mothering sono aspetti molto discussi dal femminismo, da rivisitare alla luce dei cambiamenti in corso nella famiglia italiana e dei processi migratori femminili in Europa e nel mondo. Nel film si propone la maternità come ruolo classico, essenziale della donna e, allo stesso tempo, modi diversi di far la madre ispirati dal nuovo panorama socioculturale europeo: la sconosciuta ex prostituta è la madre che riesce nel ‘mothering’ e che diventa ‘madre’, consapevole di non essere la madre biologica. È grazie a lei che Tea ‘guarisce’. Il personaggio della madre italiana invece rappresenta la madre incapace di essere madre (Tornatore, 2006a), un giudizio duro che viene espresso nello svolgimento narrativo con l’eliminazione di Valeria. La madre italiana ha tutto e perde tutto; la sconosciuta che all’inizio non ha niente, alla fine trova la speranza. Insomma, l’incontro che salva la bambina italiana è quello con la straniera, visto che l’educazione in apparenza brutale di Tea, basata sull’autodifesa, il cui motto è ‘alzati e reagisci’, ha esiti positivi. È uno “strano” incontro (Ahmed, 2000) che guarisce entrambe, Tea dalla sua strana malattia e Irena dal passato. L’ambivalenza e la minaccia nel film (Nathan, 2010), oltre ad essere imposte dal genere del film, risultano perciò insite nel vuoto lasciato dai cambiamenti nella famiglia italiana e dalla delega del ruolo materno, non nella sconosciuta. La morte della madre italiana, orafa altoborghese del Nord, per necessità narrative, pare simboleggiare la morte della percezione della maternità come l’aspetto centrale della vita della donna occidentale. Ecco perché il difficile percorso di riappropriazione della sconosciuta, esclusivamente rivolto verso se stessa e la bambina, e l’educazione della bambina – le cui forme sono inizialmente foriere di terrore per la bambina come per lo spettatore – alla fine trovano un ritorno nello sguardo di Tea ormai grande.

Lo sguardo di Tea Il film si chiude con Tea che sorride e guarda Irena, la donna che ha saputo ‘esserle madre’, capace di amarla e curarla pur non avendola partorita. Dopo averle insegnato a difendersi, le ha insegnato anche a nutrirsi e, tramite corrispondenza, a vivere. Presumibilmente Tea ha anche capito che il peso delle ingiustizie e violenze subite fa da contrappeso alle colpe di Irena, facendo pendere la bilancia a favore della donna. 91

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Il finale: “una carezza che non ci meritiamo?” (Starace, 2006) Definito troppo bonario, corretto o intellettuale, lo scioglimento narrativo, secondo Monti (2006), allevia il senso di colpa dello spettatore e smorza la spinta a reagire. A nostro parere invece il finale lascia una speranza a chi si ribella allo sfruttamento e figura un possibile ritorno per chi tanto investe nella cura degli altri per conto di altri: “La protagonista fa un grosso investimento affettivo e mi sembrava giusto che le servisse a qualcosa, al di là della drammaticità della storia” (Tornatore, 2006b). Irena, la sconosciuta che attraversa l’orrore per avvicinarsi alla bambina, viene rappresentata come la madre che sa amare, oltre il dolore, le ossessioni, la biologia. Irena, non più sconosciuta, alla fine del film si avvia verso una definizione ‘normalizzante’ e sostenibile del sé. In tal senso il finale rientra in ottiche ed etiche affermative dell’incontro.

Conclusioni Innovativo e ambivalente, La sconosciuta si inserisce nel nuovo cinema di genere, il quale utilizza trame e registri che riescono a “interessare fasce sempre più ampie di spettatori”, e pur essendo meno “di testa” (Casetti e Salvemini, 2007: 4) prende spunto da spinose tematiche globali. Lo svolgimento narrativo della storia di Irena intensifica il suo percorso di oppressione e resistenza, dominio e agency, coinvolgendo il pubblico a livello affettivo e intellettuale. Attraverso la funzione performativa del linguaggio del cinema si esprime la potenza dell’agency della sconosciuta e una potenziale produzione di agency di risposta nel fruitore del film. Pertanto, La sconosciuta è capace di far immaginare e attivare nuovi percorsi e processi verso una nuova percezione e partecipazione della straniera oltre a una cittadinanza europea, flessibile e inclusiva (Braidotti, 2002b). Il passato è quindi solo il preludio a ciò che Francesco Rosi chiama un futuro anteriore (anteriore al vero o prossimo futuro) se non a futuri perfetti (Braidotti, 2002c).

Note 1

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Il film, uscito in ventisette paesi, ha vinto tre ‘Audience Awards’ (European Film; Moscow e Norwegian Film Festival; cinque David di Donatello; candidato italiano per l’Oscar nel 2007 e pre-selezionato per l’Oscar nel 2008; incasso primo weekend in Italia (20-22 ottobre 2006): 3.864.000 euro. Per esempio: Tereza (ceca) in Vesna va veloce (1996) e Alia (russa) in Un’altra vita (1992) di Mazzacurati; Cinzia (bulgara) e Cristina (russa) in Portami via (1994) di Tavarelli; Malvina (rumena) in Occidente (2000) di Salani; Ileana (rumena) in Elvis & Merilijn (1998) di Manni); Amina (araba) ne La straniera (2008) di Marco Turco. Secondo Ponzanesi invece (2011: 84) “La sconosciuta is not different. It tells the story of Irina (sic) […]”. 92

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“Mystery, rather than mere exposition of discrimination and injustice […] is a device that effectively questions the moral standpoint of the viewer without being didactic” (Nathan, 2010: 267). 5 Diversamente da quanto sostengono O’Healy (2007) e Ponzanesi (2011). Per i film si veda la Nota 2. 6 “La storia del film è dura e quando abbiamo girato, le comparse erano ucraine e da loro ho sentito un sacco di storie non altrettanto tragiche ma quasi” (Ksenija Rappoport in Starace 2006). 7 Si veda a questo proposito il romanzo con voce narrativa postuma, Sole bruciato di Elvira Dones (Milano: Feltrinelli, 2001). 8 “Noi critiche femministe dobbiamo essere molto attente quando usiamo le teorie del divenire per donne ai margini dell’impero” (Zaccaria, 2004: 46). 9 Camilleri, A., La forma dell’acqua (Palermo: Sellerio, 1994), 12. 10 Daniela Persico, “Intervista a Alina Marazzi e Silvia Ballestra”, in Le rose, Marazzi, A. (a cura di), (Milano: Feltrinelli, 2008: 34); citato in Luciano e Scarparo (2010: 202). 11 Non è l’occhio del magnaccia come sostiene Ponzanesi (2011: 84).

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Rebecca Bauman

L’inetto e il melodramma maschile: L’uomo che ama di Maria Sole Tognazzi

I

n anni recenti si è assistito ad un ritorno di una delle caratterizzazioni più tipiche della commedia all’italiana, cioè quella del cosiddetto ‘inetto’1. L’inetto, figura fondamentale del cinema italiano degli anni Cinquanta e Sessanta, è descritto dal critico Jacqueline Reich come un attacco contro un mito predominante nella cultura italiana, quello del latin lover: “Underneath the façade of a presumed hypermasculinity is really the anti-hero, the Italian inetto (the inept man), a man at odds with and out of place in a rapidly changing political, social and sexual environment” (Reich, 2004: xii). Questa figura, spiega la Reich, era sintomatica di cambiamenti senza precedenti nell’identità di genere che accompagnava il Miracolo Economico. In quel periodo l’esperienza maschile di lavoratore, marito, e padre era stata modificata radicalmente dall’emigrazione di massa, dal passaggio da un’economia prevalentemente agraria ad una industrializzata e dallo scoppio della cultura del consumo. Tutto questo aveva portato all’estraniazione dell’uomo italiano dalle strutture lavorative e sociali tradizionali e ad una maggiore indipendenza sia della gioventù che delle donne, producendo un effetto destabilizzante sull’autorità patriarcale. Di conseguenza, attraverso la comicità delle esperienze vissute dall’inetto, possiamo leggere tutto il senso di frustrazione e l’insicurezza rispetto alla vita politica e sociale d’Italia nel periodo in cui essa ha subito il suo cambiamento più profondo. Ci sono tracce dell’inetto nella tradizione comica del ventunesimo secolo. Forse l’esempio più eloquente è la commedia romantica di successo L’ultimo bacio (Gabriele Muccino, 2001), un film che raffigura il desiderio del suo protagonista maschile di abbandonare i suoi doveri nei confronti della sua fidanzata e del loro bambino non ancora nato e di perdersi in un’avventura amorosa e in un cameratismo giovanile. L’ultimo bacio rivela l’incapacità del maschio italiano contemporaneo di definirsi attraverso i rapporti eterosessuali e la paternità e ritorna ad un’idea di adolescenza permanente dell’uomo italiano che si trova nel film I vitelloni (1954) di Federico Fellini. Mentre la pellicola felliniana lascia aperta la futura risoluzione dei problemi dei protagonisti, la conclusione de L’ultimo bacio è più convenzionale: dopo una breve 95

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evasione dai ruoli di padre e marito che gli erano stati assegnati, il protagonista torna all’ambiente familiare. L’inetto è stato anche incarnato da attori come Nanni Moretti, Roberto Benigni, Silvio Orlando e, più di recente, da Fabio De Luigi, che hanno interpretato eroi sventurati la cui passività innata e l’incapacità di esercitare la propria autorità generano la simpatia e persino l’identificazione dello spettatore. Di recente però l’inetto si è manifestato in un nuovo contesto che è strettamente melodrammatico, uno sviluppo che drammatizza la crisi di mascolinità del nuovo millennio in una maniera spesso intensificata. In questi film l’inetto è rappresentato come l’uomo che non riesce o che stenta ad aderire all’idea del patriarca infallibile. Questa figura debole è spesso minata dalla moglie, dai colleghi e dai suoi stessi figli, che sono tutti più eloquenti e sicuri di sé e quindi più autodeterminati. Mentre non era raro nella commedia all’italiana degli anni ’60 trovare la figura paterna impotente e istrionica, in quest’ultimo decennio il padre fallito è visto più spesso in modo tragico. Oltretutto questi personaggi maschili sono al centro delle storie invece di essere personaggi periferici. Ricordati di me (2003), una più drammatica meditazione mucciniana sui rapporti sessuali, è un pezzo corale che illustra lo scioglimento dei legami familiari a causa delle crisi individuali e delle ambizioni contraddittorie. Il punto principale risiede nel ruolo del padre, la cui insoddisfazione professionale e l’alienazione crescente dalla moglie e dai figli lo spingono verso un rapporto extramatrimoniale che minaccia di dissolvere il gruppo familiare per sempre. Le chiavi di casa (Gianni Amelio, 2004) è un film che si concentra su un giovane padre incapace di badare al proprio figlio handicappato la cui madre è morta durante il parto. Dopo molti anni di assenza, il padre fa i primi difficili passi verso la creazione di un legame affettivo con il bambino e l’accettazione del ruolo paterno da lui precedentemente rifiutato. Giorni e nuvole (Silvio Soldini, 2007), un dramma che ritrae le vicissitudini di una coppia benestante di mezza età che si trova davanti al fallimento finanziario, si concentra perlopiù sulla disintegrazione emozionale dell’uomo, causata dalla perdita del lavoro e dall’incapacità di trovare un altro posto adeguato. Questo smacco professionale e sociale lo spinge a rivalutare se stesso come marito, padre, e membro della media borghesia. Questo tema fa parte di quello che Thomas Schatz aveva definito “male weepies”, un filone melodrammatico degli anni ’50 che tendeva a concentrarsi su uomini alle prese con la perdita di potere a livello sociale e professionale (Schatz, 1981: 239). Infatti, uomini che sono spesso raffigurati come portatori di sofferenza non mancano al genere melodrammatico, come dimostrano tanti studi sul cinema hollywoodiano di Douglas Sirk, Nicholas Ray, e Vincente Minnelli. Ad ogni modo, quel che vi è di insolito nel cinema melodrammatico italiano contemporaneo è la figura del maschio come vittima romantica, la cui crisi è articolata all’interno di rapporti eterosessuali. Questo tema emerge in L’uomo che ama (2008) di Maria Sole Tognazzi, un film che si focalizza esclusivamente sull’afflizione del protagonista maschile; afflizione causata da una storia romantica fallita. Sebbene altri film italiani 96

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abbiano raffigurato uomini nel pieno di una crisi personale, L’uomo che ama è l’unico ad utilizzare il linguaggio cinematografico del genere melodrammatico per narrare in ogni dettaglio il tormento psicologico di un uomo nei suoi momenti di vulnerabilità. In questo capitolo vorrei analizzare gli elementi sia narrativi che formali che fanno di L’uomo che ama un melodramma. Così facendo, porrò la seguente domanda: cosa vuol dire mettere l’uomo al centro di questo tipo di storia e che cosa potrebbe indicare sull’idea di genere nell’Italia contemporanea? La narrativa della Tognazzi misura lo stato sentimentale del protagonista in una struttura cronologica a rovescio. Il film inizia con la scena in cui Roberto, farmacista torinese, fa l’amore con Sara (Ksenija Rappoport), assistente manager in un hotel, con la quale Roberto ha di recente iniziato un’appassionata relazione amorosa. L’accoppiamento è presentato senza dialogo e l’immagine si sofferma sui corpi dei due personaggi. Tognazzi riduce l’enfasi sulla nudità femminile e indugia invece sul corpo di Roberto, ponendolo come oggetto idealizzato dello sguardo dello spettatore. Subito dopo questa scena muta appare un titolo, ‘Settembre’, che segnala la dimensione temporale del rapporto. Durante il successivo montaggio del corteggiamento della coppia la prospettiva rimane centrata su Roberto, che vediamo mentre contempla allegramente la sua amante e si sofferma a guardarla quando va a lavoro. Nel momento in cui Sara improvvisamente lascia Roberto per tornare da un vecchio amante, Roberto passa attraverso tutte le possibili reazioni al tradimento. Diventa sempre più incapace di condurre una vita piena e soddisfacente: si assenta dal lavoro, soffre d’insonnia e vaga per le strade della città senza meta fino a tarda notte. La presenza della star Pierfrancesco Favino rafforza l’identificazione dello spettatore con Roberto, anche se il comportamento bizzarro e quasi demente del personaggio è inquietante. La crisi sentimentale di Roberto dimostra una mancanza di controllo: inizia perfino a spiare Sara e, in un tentativo disperato di riaccendere il loro amore, la segue in macchina e tenta di impedire la sua partenza. Tutto ciò crea l’effetto di un isterismo maschile: Roberto è diventato vittima dei propri sentimenti e, in questi vani tentativi di recuperare quello che ha perso, è ridotto a un inetto. Dopo tutte queste raffigurazioni del malessere di Roberto, all’improvviso, verso la metà del film, questi è felicemente preso dalla nuova storia d’amore con Alba (Monica Bellucci), con cui convive. La cronologia degli eventi è indicata dopo una scena d’amore con un titolo che annuncia ‘Marzo’ e che induce lo spettatore a credere che sia la primavera dell’anno seguente. Questa nuova avventura è promettente: Alba e Roberto hanno intenzione di comprare una casa insieme e stanno provando a concepire un bambino. Ma quando accadono avvenimenti già menzionati nella prima metà del film, lo spettatore si rende conto che si tratta di un flashback e che l’idillio tra Alba e Roberto precede il rapporto tra Roberto e Sara. A quanto pare, Alba e Roberto stanno insieme da anni, ma lui è inspiegabilmente a disagio e improvvisamente la lascia. Il film finisce quando Roberto incontra Sara per la prima volta, e le ultime scene dei primi giorni del corteggiamento presagiscono un rapporto profondo e duraturo, una promessa che sappiamo non essersi realizzata. 97

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Questo insolito mezzo narrativo, come ha spiegato la Tognazzi, ha l’intenzione di dimostrare che le vittime possono anche essere gli aguzzini (Tognazzi, 2008). Nell’eguagliare il comportamento di Sara a quello di Roberto, il film suggerisce che le differenze di genere non contano quando si tratta degli aspetti fondamentali delle relazioni amorose. Persino nello stesso titolo, che dichiara la centralità dell’uomo nella storia,Tognazzi rovescia le consuete trame del melodramma perché Roberto è trattato come un’eroina melodrammatica. L’effetto richiama i guai dell’inetto: Roberto è spesso visto in un atteggiamento passivo, incapace di controllare i propri sentimenti o cambiare la propria vita. Al lavoro è annoiato e insoddisfatto e viene frequentemente rimproverato dal suo capo imperioso, una Marisa Paredes cinica e dalla lingua tagliente. Col crescere della sua angoscia, Roberto diventa perfino persecutorio: segue Sara al suo lavoro e rimane a spiarla sotto casa sua tutta la notte. Questo lo mette nella posizione passiva di voyeur e rinforza l’idea che Roberto non sa controllare né se stesso né il suo ambiente. Laura Mulvey ha descritto il voyeur maschile sullo schermo come sostituto allo spettatore (anche maschile). Così prevale la soggettività maschile e la donna viene oggettivata (Mulvey, 1989). Detto questo, anche se è sempre Roberto a guardare, di rado il film ricorre al classico campo-controcampo che di solito invita lo spettatore a guardare l’oggetto femminile insieme al protagonista maschile. In altre parole, la macchina da presa rimane su Roberto il voyeur e trascura volutamente i personaggi femminili. Infatti, anche quando Roberto è l’osservatore, i frequenti primi piani del volto di Favino e le immagini privilegiate della sua vulnerabilità (mentre fa la doccia, vomita nel water, fa l’amore, ecc.) fanno diventare lui l’oggetto principale dello spettacolo stesso. Queste inquadrature–punto di vista intendono non solo mostrare il desiderio del protagonista e la sua incapacità di agire, ma anche illustrare i suoi rapporti familiari. Roberto è più passivo rispetto a suo fratello Carlo, il che dimostra che anche se Roberto è il fratello maggiore, la sua posizione è inferiore a quella del fratello più fortunato in campo sentimentale. In una scena dopo la partenza finale di Sara, Roberto arriva angosciato a casa di Carlo e cerca consolazione nelle braccia del fratello, il quale vive una stabile relazione amorosa con un uomo. Il mattino seguente, quando Roberto si sveglia, spia suo fratello e l’amante mentre dormono abbracciati: così Roberto è spettatore dell’immagine del rapporto ideale che lui desidera ardentemente. La dipendenza emozionale di Roberto è un altro aspetto della maniera in cui Tognazzi femminilizza e indebolisce la statura sociale del suo protagonista. Mentre nei film come L’ultimo bacio il malessere maschile è convogliato nell’evasione in compagnia di soli uomini, Roberto non sembra aver amicizie maschili. Anzi, i suoi unici rapporti intimi con uomini sono ristretti a suo padre e a suo fratello: un fatto che sottolinea la sua dipendenza dall’ambiente familiare e riconferma il suo isolamento dal mondo esterno. Quando Roberto arriva con il cuore infranto a casa dei genitori sul Lago di Garda, si confida non con la madre ma con il padre, che è il primo a riconoscere l’angoscia del figlio. Roberto parla della sua pena varie volte con Carlo e, infatti, è il 98

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fratello che gli consiglia di dimenticare Sara e voltare pagina. L’ironia sottile in tutto ciò è che il fratello minore, per di più omosessuale, prende una posizione di superiorità e esorta suo fratello maggiore ad essere uomo. Così anche nella gerarchia tradizionale della famiglia, Roberto ha rinunciato a qualsiasi affermazione della sua autorità. Tanti critici concordano nel dire che il melodramma domestico dimostra che la famiglia è la prima arena in cui si manifestano le crisi sociali (Elsaesser, 1972; Schatz, 1981). Eppure nei melodrammi degli anni Cinquanta la famiglia era fonte di tensione, mentre in L’uomo che ama la famiglia è un’alternativa consolante se paragonata ai pericoli dell’amore per l’altro sesso. La casa dei genitori di Roberto sul Lago di Garda è uno spazio privilegiato, che favorisce la riflessione sentimentale e il raggiungimento di una consapevolezza che sono integrali al genere cinematografico a cui il film della Tognazzi appartiene. La casa di famiglia è l’ambiente che favorisce conversazioni intime e in cui i due figli trovano un sostegno. È infatti lì che Carlo rivela la sua omosessualità ai genitori, che dimostrano grande comprensione, e a Roberto di essere ammalato di cuore. Ecco quindi che il film innova per il ventunesimo secolo il contesto melodrammatico di rapporti romantici e di legami familiari, ma mantiene la convenzione secondo la quale l’ambiente naturale è il luogo in cui le verità sentimentali vengono alla luce. Nel melodramma tradizionale la dialettica tra gli spazi interiori e quelli esterni è spesso un metodo chiave per visualizzare i conflitti personali del personaggio (Mulvey, 1989: 73-74). L’uomo che ama si serve di questo metodo nello stabilire un contrasto forte tra la casa sul lago e l’appartamento di Roberto. Lo spazio domestico di Roberto rappresenta il suo mondo privato e interiore, in cui lui si nasconde nella sua autocommiserazione e solitudine. Di conseguenza la maggior parte dell’azione nel film si svolge su questo sfondo. Lo spettatore assiste a numerose carrellate del suo ultramoderno appartamento da scapolo, scarsamente arredato e decorato con colori scuri, in cui Roberto langue dopo che Sara l’ha abbandonato. L’appartamento è severo e, dopo la partenza di Sara, questo spazio diventa per lui una prigione. Persino i piccoli lavori domestici diventano espressioni dello strazio interiore del personaggio: ad esempio, una mattina, lo svogliato Roberto tenta di fare il caffè, ma è così assorto nel suo dolore che dimentica la caffettiera sul fornello e questa esplode. Questo incidente può essere letto come un’acuta metafora domestica per rappresentare il crollo emotivo e la crescente perdita di controllo del personaggio. Oltre ai tradizionali metodi formali del genere melodrammatico sopra menzionati, elementi inerenti la trama stessa, e benché privo d’azione, L’uomo che ama richiama anche alcuni elementi manipolativi del melodramma hollywoodiano, specificamente i film di Sirk. Nella seconda metà del film si sa che Roberto soffre d’insonnia, un disturbo con origini non diagnosticate finché Roberto rivela che è scontento del suo rapporto con Alba. Roberto va dal dottore che gli prescrive sonniferi, mettendolo nella posizione di paziente impotente, di farmacista che non sa neanche prescrivere le proprie medicine. Il tema della malattia s’intensifica quando l’accento si sposta sulla 99

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drammatica storia del pericoloso intervento chirurgico di Carlo. Il trauma dell’ospedale, un elemento stereotipico del melodramma domestico, aiuta Roberto a mettere in prospettiva l’importanza dei legami sentimentali e di mettere fine al rapporto con Alba. Bisogna chiedersi perché Roberto sia così infelice con Alba, specialmente dato che Alba è interpretata da Monica Bellucci2. La condotta piuttosto illogica di Roberto non viene mai chiarita, ma il film suggerisce l’idea che lui stia aspettando l’arrivo di un amore intenso, magari infelice, ma superiore a tutto. L’allontanamento dal realismo riafferma il patto melodrammatico di esagerazione per cui i sentimenti hanno la precedenza sulla ragione. La metafora della malattia si riferisce non solo al contesto melodrammatico ma implica anche la messa in pericolo dei codici maschili. Roberto l’inetto non è capace di guarire e nemmeno consigliare il fratello malato (anzi Carlo gli dice, “Sei solo farmacista, non medico” quando Roberto prova a minimizzare la serietà della diagnosi). Roberto è lui stesso vittima di una malattia indefinita: l’insonnia da cui è afflitto durante il periodo della sua relazione con Alba riappare dopo la rottura con Sara, minaccia la stabilità psichica del protagonista e indica una costante crisi ontologica. Il tropo è inerente al genere, ma raramente si manifesta nei protagonisti maschili (Landy, 1991: 15). L’uomo che ama si rivela un melodramma maschile nel pieno senso della parola, e così solleva la questione di come le donne appartengano a questa nuova preoccupazione per la soggettività emozionale degli uomini. Alcuni decenni fa in uno studio del melodramma maschile Ellen Seiter ha avvertito: “The erasure of women’s point of view as the dominant one on the family, and the displacement of women characters signals a retrograde move for the genre” (Seiter, 1983: 27). Tuttavia, questa nuova onda di film nel contesto italiano indica uno spostamento più generico in cui i ruoli maschili e femminili sono spesso scambiati; testimonia questo fenomeno l’ascesa delle eroine in generi tradizionalmente maschili come il poliziesco. La comparsa del melodramma maschile potrebbe suggerire una liberazione dagli archetipi del genere basata su questioni di genere, una tendenza rafforzata dal rilievo sempre crescente di registe come la Tognazzi stessa. Certo che le donne in L’uomo che ama non sono conformi a tutti gli stereotipi del comportamento femminile: la padrona di Roberto comanda a bacchetta il suo impiegato, e anche sua madre gli rivela di essersi interessata poco dell’educazione dei propri figli e di non aver sentito nessun istinto materno. Si nota anche che le due donne amate da Roberto nel film sono entrambe brillanti donne in carriera, maggiormente gratificate di Roberto. Perciò si può leggere la situazione emozionale di Roberto entro una struttura in cui non solo la sua posizione sentimentale, ma anche quella sociale ed economica sono minacciate dalla sempre crescente indipendenza femminile. È proprio in questo contrasto tra il soggetto melodrammatico maschile e i personaggi femminili che la questione della mascolinità entra in gioco. Gli storici sociali e i sociologi confermano che la mascolinità è fondamentale alla definizione che si dà una società, e l’arrivo del ventunesimo secolo ha portato con sé sfide 100

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impreviste alle definizioni tradizionali della mascolinità (Connell, 1995; Mosse, 1996; Dell’Agnese e Ruspini, 2007). In particolare Mosse sottolinea la maniera in cui, alla fine del Novecento, la mascolinità dell’Europa occidentale si trovava “sotto pressione” non solo per la marcata indipendenza della “nuova donna” dopo i movimenti femministi degli anni Settanta, ma perché gli uomini stessi incominciavano a mettere in discussione lo stereotipo maschile (Mosse, 1996: 184). Spesso gli stereotipi venivano rifiutati non solo per il loro valore simbolico, ma perché i cambiamenti nell’esperienza maschile richiedevano una rivalutazione di tali valori. Gli studiosi italiani sostengono che le aspettative per il comportamento maschile in Italia sono insolitamente diverse nel nuovo millennio, particolarmente in vista della diversificazione dei ruoli lavorativi, per non parlare della maggiore partecipazione dell’uomo all’allevamento dei bambini (Bellassai, 2004; Dell’Agnese e Ruspini, 2007). Sicuramente questi cambiamenti epocali sono responsabili di aver suscitato l’ansia maschile non solo in Italia: basti ricordare che negli anni Ottanta e Novanta il contraccolpo alla crisi di mascolinità nel mondo anglosassone ha dato origine al “Men’s Movement”; un avvenimento che suggeriva un tentativo reazionario di riaffermare l’autorità patriarcale minacciata dallo spettro dell’ascesa femminile. Con lo stesso spirito si nota che di recente la cultura italiana ha prodotto simili sforzi per appoggiare concetti tradizionali dell’identità maschile italiana (vale a dire bianco, eterosessuale, borghese) insidiati dall’instabilità economica, l’immigrazione, l’autonomia delle donne nel mondo del lavoro e la presenza sempre in aumento dell’attivismo gay nella società italiana. Un esempio convincente è il giornalista-psicoterapeuta Claudio Risé che ha pubblicato libri popolari sulla paternità e i rapporti eterosessuali, confermando ai lettori maschili il loro sospetto di essere intrappolati nella lotta per preservare la loro mascolinità, in una società sempre più pluralistica ed eterogenea definita in modo dispregiativo “femminizzata” (Risé, 2000). Proprio come il poeta americano Robert Bly esortava gli uomini a riprendere la loro superiorità attraverso un ritorno agli archetipi mitopoetici, Risé sostiene il potere del fallo, promuove il cameratismo e incoraggia sia gli uomini che le donne a ritornare alle loro nature più “selvatiche” (Risé, 2000: 2002). Sicuramente il rallentamento economico delle potenze occidentali ha contribuito alla destabilizzazione dell’autorità maschile nella sfera pubblica e, di conseguenza, anche in quella privata. Le realtà che stanno di fronte agli uomini italiani (in particolare alla nuova generazione), come la prevalenza di lavoro precario e part time, stipendi bassi, e minori opportunità di promozione, sono in forte contrasto con le condizioni più stabili godute dalla vecchia generazione. Chiara Saraceno suggerisce che questi cambiamenti in sostanza servono a femminilizzare gli uomini italiani non perché li subordinano alle donne, ma perché li mettono in una posizione economica vulnerabile simile a quella femminile: “Queste condizioni, specie nella sfera economica, si sono indebolite non per la concorrenza che oggi viene dalle donne […] Anzi, l’evocazione della concorrenza delle donne serve a mascherare il fatto che alcune condizioni di 101

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lavoro, precarietà, inadeguatezza del reddito, dipendenza economica da familiari, oggi fanno assomigliare gli uomini, specie delle generazioni più giovani, alle donne di tutte le generazioni” (Dell’Agnese e Ruspini, 2007: xiii-xiv). Se così è, i pianti per la perduta supremazia maschile a cui si assiste nella cultura popolare potrebbero riferirsi alla sorprendente presenza prolungata di Silvio Berlusconi, icona di una stereotipica mascolinità italiana. Nonostante la consapevolezza crescente della serietà della crisi finanziaria e l’imbarazzo a livello internazionale per le frequenti gaffes di Berlusconi, la popolarità del premier sembrava soddisfare un desiderio latente di virilità indiscussa e di supremazia maschile assoluta. La maniera in cui l’immagine politica di Berlusconi dipendeva dalla sua presenza visiva e aurale, attraverso le pubblicità, i mailing di massa e le frequenti apparizioni in televisione e alla radio, lo rendeva una star a livello nazionale che non solo personificava una certa ideologia, ma esercitava anche il potere effettivo per promulgarla. Inoltre, la sua ricchezza personale, in continuo aumento anche negli anni in cui l’Italia era sull’orlo di un possibile default, accresceva la sua aura di onnipotenza. Ciò nonostante, la reputazione instabile di Berlusconi negli ultimi due decenni e le sue dimissioni nel 2011 suggeriscono l’agonia di uno stereotipo maschile che è sempre meno pertinente alla società italiana. L’enfasi sull’immagine fisica del primo ministro e le sue prodezze sessuali richiama l’Italia del primo Novecento, quando l’inetto era una figura maschile con cui non ci si poteva identificare. Ma, negli ultimi anni, la tendenza del cinema italiano indica che il modello berlusconiano di mascolinità è in declino, e l’emotività dei protagonisti maschili è l’espressione più evidente dei profondi cambiamenti avvenuti nella concezione del comportamento maschile nella società di oggi. Perciò la nuova iterazione dell’inetto, più che modelli virili tradizionali, potrebbe rappresentare la realtà com’è veramente vissuta. Restano da vedere le implicazioni più importanti di questa tendenza cinematografica, ma se si accetta la formulazione di Reich che l’inetto è l’apoteosi del malessere sociale in termini generici, bisogna riguardare i melodrammi maschili più attentamente. Anche un film come L’uomo che ama, che si limita ad una sfera di esperienza strettamente interiore, implica che le crisi sentimentali dei protagonisti affrontano anche i ruoli di genere in un panorama sociale ed economico italiano in continuo cambiamento. Quindi lo spostamento dell’inetto dalla commedia al dramma non è sorprendente, è anzi inevitabile. Con la diffusione dei melodrammi maschili nel cinema contemporaneo italiano, la focalizzazione sui sentimenti degli uomini in un campo prima riservato alle donne suggerisce un cambiamento non solo nei gusti del pubblico, ma significa un tentativo di ridefinire le aspettative della mascolinità italiana.

Note 1

Ringrazio Patrizia Palumbo per l’aiuto nella traduzione italiana di questo saggio.

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2 Alcuni critici si meravigliavano di questo fatto e lo consideravano un elemento che ostacolava la verosimiglianza in un film altrimenti realistico (cf. Natalia Aspesi, “Bellucci sexy e rifiutata ora il mito è l’amore gay,” La Repubblica, 24 ottobre 2008).

Bibliografia Bellassai, S. (2004) La mascolinità contemporanea, Roma: Carocci. Connell, R.W. (1995) Masculinities, Berkeley: University of California Press. Dell’Agnese, E. e Ruspini, E. (a cura di) (2007), Mascolinità all’italiana. Costruzioni, narrazioni, mutamenti, Torino: UTET. Elsaesser, T. (1972), “Tales of Sound and Fury: Observations on the Family Melodrama”, Monogram, 4, 2-15. Riprodotto in Landy, M. (a cura di) (1991), Imitations of Life: A Reader on Film and Television Melodrama, Detroit: Wayne State University Press, 68-91. Landy, M., (a cura di). (1991), Imitations of Life: A Reader on Film and Television Melodrama, Detroit: Wayne State University Press. Mosse, G. (1996), The Image of Man:The Creation of Modern Masculinity, New York and Oxford: Oxford University Press. Mulvey, L. (1989), Visual and Other Pleasures, Bloomington and Indianapolis: Indiana University Press. Reich, J. (2004), Beyond the Latin Lover: Marcello Mastroianni, Masculinity, and Italian Cinema, Bloomington: Indiana University Press. Risé, C. (2000), Essere uomini, riscoprire la virilità in un mondo femminilizzato, Como: Red Edizioni. Risé, C. (2002), Il maschio selvatico, Como: Red Edizioni. Schatz, T. (1981), Hollywood Genres: Formulas, Filmmaking, and the Studio System, Philadelphia: Temple University Press. Seiter, E. (1983), “Men, Sex and Money in the Family Melodrama”, Journal of the University Film and Video Association, 35:1, 17-27. Tognazzi, M.S. (2009), Interview, Open Roads: New Italian Cinema, 6 giugno, Film Society of Lincoln Center: New York.

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Mattia Marino

Polis polisemica: Saturno contro di Ferzan Ozpetek con la sua polisemia micropolitica

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cambiamenti socio-politici rappresentati dal cinema e nei media all’inizio del ventunesimo secolo coinvolgono ambiti quali salute, famiglie ed etnie. Il film Saturno contro del 2007 di Ferzan Ozpetek affronta questi temi in un modo polivalente, attraverso il suo testo polisemico che unisce leggerezza da soap opera a impegno politico. Questa analisi discute di seguito in tre parti esattamente i tre problemi di salute, famiglie ed etnie nel film, sottolineandone le soluzioni situazionali relativiste aperte e relative a molteplici sovversioni delle norme invocate in date situazioni quotidiane. Proprio questa polisemica moltitudine di piccoli, minuscoli, fragilissimi sovvertimenti quotidiani assume le dimensioni di una potente strategia micropolitica evocata dal film – ed esposta come salvifica. Una trama in apparenza banale cela uno sfondo di riflessione impegnata. Il gruppo di personaggi al centro della narrazione costituisce una polis in miniatura. Come in un microcosmo in cui si dipanano, sotto la lente del microscopio cinematografico, i sottili fili aggrovigliati nel macrocosmo socio-politico italo-europeo attuale, la storia dei personaggi principali offre un volo panoramico su questioni micropolitiche quotidiane contemporanee. Lo scrittore di fiabe Davide e il giovane Lorenzo abitano nell’agio di una villa borghese a Roma. I loro rispettivi confidenti sono il bancario e compagno di nuoto Antonio, sposato alla psicologa antifumo Angelica con due figli, e Roberta, una collega e coetanea di Lorenzo dedita sia a oroscopi e astrologia, sia al consumo e allo spaccio d’alto bordo di droga leggera e pesante. Coetanei o poco meno giovani di Davide sono il suo ex Sergio e l’interprete turca Neval, sposata al poliziotto Roberto. La cerchia si allarga a comprendere anche Paolo, un medico specializzando coetaneo di Lorenzo e ammiratore delle fiabe di Davide, che emula nei racconti che scrive. Proprio durante una serata in compagnia, l’eterna bipolare euforica e depressa Roberta scopre di avere Saturno contro per vari calcoli astrali e Neval si mostra molto severa con 104

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Lorenzo, rimproverandogli che sembra avere un attaccamento ossessivo ai fine settimana tutti insieme come se fossero un impegno fisso e inderogabile. Intanto Lorenzo nota anche con preoccupazione che Antonio ha una relazione extraconiugale con l’attraente fioraia Laura; cosa che disillude profondamente Lorenzo rispetto ai suoi ideali di sicurezza e legami eterni. Sconfortato dalla distanza severa di Neval e dal pericolo di un divorzio tra Antonio e Angelica, Lorenzo trova sollievo solo nella leggerezza e negli stupefacenti di Roberta, sempre pronta a sdrammatizzare anche quando tutto sembra sbagliato, e le dice che vorrebbe essere come lei. Quando sono riuniti a tavola, Lorenzo sviene ed entra in uno stato di coma che Roberta, in segreto e con strazianti sensi di colpa, attribuisce proprio alla droga. Mentre si avvicinano l’ineluttabile decesso di Lorenzo e, quindi, il lutto di Davide, Angelica chiede ad Antonio di separarsi e sembrano prossimi al divorzio. Dopo il funerale, tutti si preoccupano per Davide, che non risponde alle chiamate insistenti. Quando si decidono a imporsi tutti da lui al mare, finalmente ricominciano a raccontarsi storie e a scherzare, anche giocando a pingpong una mattina che gli astri appaiono meno avversi. Questo misto di apparente leggerezza e impegno diluito – ma non pertanto sminuito – appartiene alle caratteristiche che costellano il vasto panorama del cinema d’arte. La leggerezza prossima al banale funge da filtro di riflessioni socio-politiche attualissime. Come spiegano Rosalind Galt e Karl Schoonover1, questa combinazione di temi e stili volutamente stridenti, che ricorre in svariate varianti nel neorealismo italiano come anche in film ibridi europei del ventunesimo secolo, costruisce spettatori distinti da un carattere – in senso lato – ‘impuro’ (2010: 8). Sia il puro impegno intellettuale degli spettatori, che il loro a dir poco meno sublime o talvolta persino patetico o grottesco coinvolgimento emotivo, sono stimolati da questo tipo di film, che suscita un distanziamento estetico intrecciato come in uno scambio continuo con risposte emotive viscerali, che consentono un avvicinamento virtuale agli Altri esclusi dalle norme dipinte, parodiate e caricaturate, con atte sfumature ironiche. I film di Ozpetek non fanno eccezione. Superare la classificazione di Saturno contro come esempio calzante di tipico melodramma sdolcinato consente una lettura attenta ai suoi messaggi politici. Occorre tuttavia iniziare a svolgere questo compito proprio con un esame, sebbene succinto, degli elementi che in apparenza lo confinano al genere melodrammatico e potrebbero rischiare di escluderne la valenza sociale. Inquadrature corali e primi piani teatrali affollano le scene del film. Frequenti pianti e sfoghi plateali di emozioni accentuate condiscono il tutto in salse stomachevolmente rosastre e dolciastre da fotoromanzo. Le ambientazioni domestiche in dimore riccamente ammobiliate dominano lo schermo. Battute e situazioni comiche prevedibilissime e sottofondi musicali strappalacrime aiutano ad accogliere gli spettatori in un film che si presenta come facile opera da intrattenimento. Ciononostante, forti segni di critica sociale mostrano quanto sia desiderabile leggere oltre il leggero, leggerissimo di questa spessa superficie 105

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del banale fine a se stesso, sotto la cui pelle smodatamente profumata si agita una moltitudine straripante di semi di fruttuosa contestazione, proficue scelte promozionali a parte.Vale la pena sbucciare questo ambivalente testo filmico e assimilarne i succulenti messaggi ancorati al sociale. Saturno contro sfonda le categorie sociali di cui sfoglia stereotipi e luoghi comuni come pagine del libro della micropolitica delle situazioni quotidiane, in cui i fondamenti di dati per scontati sono svelati come deboli e fluidi. Gianni Vattimo2 sottolinea proprio il misto di straniamento e coinvolgimento lungo il quale sfila lo sfondamento di dati per scontati fortemente radicati in situazioni socio-politiche, seguendo l’intento critico rispetto ai valori morali e moderni tracciato da Friedrich Nietzsche3 e, lungo percorsi concettuali diversi, Martin Heidegger e Hannah Arendt. Il continuum di fondamenti illusori morali e moderni esposto da Nietzsche fa leva sulla regolamentazione morale e medico-giuridica dei sessi storicizzata da Michel Foucault4 e capillarizzata nella micropolitica sovvertiva individuata sia da Jacques Derrida e Michel de Certeau, sia da Gilles Deleuze e Félix Guattari, oltre che da Judith Butler. Seguendo queste tracce teoriche, che si servono di un’ampia documentazione storica, i sistemi socio-politici con ideologie morali e moderne hanno in comune un’esigenza intrinseca di fondamenti solidi, riconducibile al controllo delle scelte quotidiane mediante i due modelli di genere, polarizzato come maschile o femminile. I sovvertimenti di questo ordine nel film consentono di sfondare i dati per scontati che ne tessono la trama. Il film tratta delle storie private di una cerchia agiata per mostrare una serie di questioni di carattere pubblico, in una micropolitica del quotidiano che si lascia cogliere lungo queste tracce teoriche. In particolare la contestazione della distinzione dei generi ai poli femminile e maschile svolge una funzione intermediaria tra le sfere del privato e del pubblico, specialmente attraverso il luciferino triangolo capovolto dei personaggi senza legami polarizzati Roberta, Sergio e Paolo, dipinti sullo schermo con audaci chiaroscuri caravaggeschi. Come spesso in Ozpetek, questa contestazione avviene anche mediante un’esplorazione di desideri sessuali che sovvertono le norme morali e moderne regnanti sui due generi. Fermarsi ai generi polari del film significherebbe, tuttavia, rischiare di arenarsi ancora a una sua semplice classificazione con l’etichetta del genere melodrammatico o come film ibrido di immigrazione e da sottocultura sessuale metropolitana. Ovvero dei generi di film che – oltre a privilegiare il privato – tipicamente escludono del tutto qualsiasi commento di carattere pubblico che non sia insito nelle sempre uguali categorie stesse e nelle generalizzazioni dilaganti adottate da tali generi filmici, con riferimento ai generi femminile e maschile. Invece, Saturno contro trascende i generi melodrammatico e da sottocultura etnica e sessuale proprio partendo dalla sovversione dei generi femminile e maschile per, quindi, sfondare in un modo simile alle teorie cui sopra accennato; categorie sociopolitiche quali classe economica e salute medica, oltre a maturazione e adolescenza 106

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come processi socio-legali di iniziazione proprio ai due generi polari. Anche con attenzione alle intersezioni di queste distinzioni sottolineate da Kimberley Crenshaw5, seguono qui gli esami dei tre temi di salute, famiglie ed etnie nel film, con osservazioni sul ruolo svolto dalla classe economica e con come punto di partenza proprio la categoria di salute regolamentata dalla medicina e dal diritto, per poi dare lo spazio dovuto anche a differenze di maturazione e scelte sessuali, tra i due generi ed etniche. Dai primi piani e dagli interni claustrofobici con lo sconsolato, sublime corpo~cadavere di Lorenzo, alle inquadrature corali in cui trionfa la forza creativa camaleontica – incarnata sia dalle fugaci fiabe sfornate dalla fantasiosa mente di Davide, sia dal fiero e grottescamente cornucopico corpo di Neval – questo ordine consente di individuare la critica socio-politica della perpetuazione di norme moraliste nella moderna medicalizzazione giuridica del corpo~mente sano o meno sia dell’individuo, sia dei collettivi di individui legati da vari tipi di unione il cui status come famiglia o meno ha conseguenze notevoli e, quindi, degli individui che occupano posizioni molteplici rispetto a collettivi etnici storicamente distinti. Questo sovversivo triangolo tematico capovolto scava nella morale politica quotidiana di questa favola audace.

Biopolitiche saturnine Come personaggio secondario che rappresenta il sistema medico-giuridico moderno fa la sua spettrale comparsa la pallida e apatica infermiera e capo-reparto di Lorenzo. Si instaura qui un nesso simbolico tra la pratica bandita dell’eutanasia e le due pratiche magiche da strega, discreditate da convinzioni moderne e coltivate dalla confidente di Lorenzo, Roberta, ovvero l’astrologia e la lotofagia, o – per spiegare questo eufemismo omerico alle origini delle culture occidentali – l’uso di sostanze proibite per raggiungere dionisiaci, caotici e panici stati di estasi. Lotofagia, astrologia ed eutanasia vanno contro sia la morale dominante, sia il sistema medico-giuridico moderno. La giovane strega~ninfa~baccante metropolitana e l’infermiera sono i personaggi fiabeschi che incarnano nel loro contrasto l’idea eponima del tetro pianeta e feroce dio pagano Saturno in posizione astrale avversa al continuamento delle cose mortali morali e moderne secondo il loro corso attuale. Da un lato, la strega lotofaga e astrologa mostra il mostruoso carattere effimero di ogni stato a Lorenzo, che invece spera tutto duri in eterno e quindi va in coma profondo. D’altra parte, l’infermiera moderna inscena l’impiegata mediocre per antonomasia che paradossalmente abusa di alcool durante le ore notturne e con non poca ipocrisia si ostina a sottolineare che per la legge “gli amici non contano un cazzo [sic]” anche se gli amici di Lorenzo si preoccupano dei desideri dei suoi genitori, oltre a rispondere con un loquace silenzio indignato quando Angelica sonda il terreno per un’eventuale interruzione illegale delle tecniche che ne tengono il corpo in vita. Il 107

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regime medico-giuridico deve seguire il suo perfetto corso secondo le categorie ideologiche della scienza moderna denunciate anche da Patricia Hill Collins (1998: 145-146), anche se altre forze gli si oppongono6. Il passaggio dal calore mitico policromo delle feste iniziali al candore esangue degli angusti spazi ospedalieri sottolinea visivamente il contrasto tra, da una parte, la magia dell’apertura a qualsiasi inattesa complicazione che devii il corso degli eventi seguendo molteplici vie tortuose e, dall’altra parte, la biopolitica antisaturnina della cristallizzazione sterilizzata e paralizzante che domina nei sistemi morali e moderni racchiusi nell’apparato di stato medico-giuridico. Il corpo di Lorenzo segna questo passaggio attraverso il transito dalle feste al coma. Non a caso proprio il giovane corpo sublime di questo personaggio si sacrifica al vorace Saturno, mostrando che nulla dura in eterno. La disgrazia diventa un’occasione per riflettere su quanto inesorabilmente situazionale sia ogni individuo e, in particolare, su quanto fragile sia il privilegio di classe quando si interseca con lo svantaggio della mancanza di legami riconosciuti giuridicamente come costitutivi di una famiglia. In aggiunta, oltre a riaprire la questione della legalizzazione, le conseguenze catastrofiche dell’abuso di stupefacenti nella fascia agiata della popolazione hanno due forti implicazioni politiche. Innanzitutto, confermano l’alienazione che colpisce anche le classi economiche media e alta in un contesto industrializzato e capitalista. Inoltre, sottolineano la presenza di pratiche illegali e nocive alla salute in queste fasce della popolazione, contrariamente a stigmatizzazioni dirette alle fasce meno agiate o povere, aventi il fine ideologico di giustificare il sistema socio-economico competitivo ed emarginante. Questo spiega che, come Cuore sacro, Saturno contro si sofferma nei sontuosi interni borghesi solo per denunciarne il tanto marcio occultato da lusso ed eleganza. La presenza di un personaggio femminile associato a pratiche magiche che sovverte le norme borghesi costituisce un motivo ricorrente anche negli ultimi film del regista danese Lars von Trier, nei video musicali dell’italo-americana Lady Gaga e nei romanzi recenti di Isabella Santacroce, e, nel film di Ozpetek, ha una chiara funzione di critica sociale. Roberta prende alla leggera ogni imperativo del quotidiano borghese e ironizza continuamente su qualsiasi situazione che sembrerebbe seria, compresa la presentazione del medico fumatore Paolo al gruppo di personaggi comprendente la psicologa antifumo Angelica, riuniti a casa di Davide e Lorenzo proprio nelle prime scene. In una scena rivelatrice della sua propensione a biopolitiche saturnine nel cortile dell’ospedale con un sottofondo musicale mozzafiato, Roberta offre un tiro di sigaretta clandestino a un’anziana sulla sedia a rotelle che la ringrazia con un intenso sguardo complice. Diversamente da Lorenzo, non ha nostalgia di sicurezza e conforto, ma solo di qualche successo che non ha avuto la fortuna di incontrare. La sua prontezza a seguire l’opposizione astrale per cui tutto deve cambiare si allaccia a un atteggiamento di apertura ai cambiamenti socio-politici necessari al superamento di norme morali e moderne su cosa sia sano e cosa no nel ceto medio borghese. 108

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Corpi celesti per}{versi avversi L’assistente domestica filippina che tenta invano di aprire gli occhi ad Antonio, il quale non bada ai litigi dei suoi figli lasciati senza compagnia da genitori troppo impegnati, condensa l’ironia del contrasto tra, da un lato, lo scisma del divorzio che minaccia la famiglia eteronormativa e, dall’altro, l’edonismo erotico e giocoso regnante a casa di Davide e Lorenzo. Gli scherzosi virtuosismi dei dialoghi tra i personaggi riuniti da Davide e Lorenzo lasciano intravedere la forza del reinventarsi raccontandosi storie, ben oltre le resistenze dei freni inibitori morali e moderni. La narrazione di fiabe e aneddoti intorno a una tavola imbandita si scopre come potere onnipresente che consente la creazione di legami paradossalmente non meno degni dello status di famiglia rispetto a nuclei normativi come quello di Antonio e Angelica. Allo sguardo clinico e bigotto rivolto da oppositori di famiglie non tradizionali a personaggi come Davide e Lorenzo, in quanto due uomini uniti da legami tradizionalmente riservati a coppie che possono concepire figli, la cinepresa di Ozpetek preferisce una scorsa ironica che svela i fondamenti aleatori dei dati per scontati di turno e ne sfonda le certezze fortemente radicate nel sistema morale e moderno di famiglia. Mentre lo sguardo (gaze) della morale e della medicina riduce i legami famigliari al concepimento di figli, la scorsa (glance) dell’ironia mostra la mostruosamente vasta moltitudine di legami che meritano lo status giuridico di famiglia in varie situazioni sociali micropolitiche, nei termini foucauldiani usati anche da Mieke Bal e Ernst van Alphen (2005: 99-100)7. Invece di dare una sbirciata voyeuristica a Davide e Lorenzo come soggetti riprovevoli o patologici, il film articola i legami famigliari di fatto tra i due e con altri personaggi nel corso degli eventi avversi annunciati dalla congiuntura astrale saturnina. Il fatto che si tratti di un’ironica scorsa sguarnita, piuttosto che di un ostile sguardo scostante, si traduce scenicamente nelle frequenti inquadrature con riflessi in uno o molteplici specchi in varie scene, che sottolineano la continua costruzione e ricostruzione nella condivisione e suddivisione dell’individuo in molteplici sfaccettature dell’io e degli Altri, attraverso un’opera di narrazione e reinvenzione incessante, ben oltre qualsiasi ideale morale o moderno di leggi di natura assolute e universali. In situazioni diverse, l’individuo indossa un io differente, relativo ai suoi legami con gli Altri di turno. Con un omaggio musicale e cromatico in rosso alla Spagna del regista Pedro Almodóvar, la metamorfosi licantropica di Antonio per strada segue un erotismo che trascende gli imperativi famigliari borghesi. Il maturo pater familias Antonio si smaschera come succube dell’amante Laura, come in Mine vaganti dello stesso Ozpetek. Da genitori modello, Angelica e Antonio finiscono per farsi dispetti infantili a vicenda – a discapito dei loro bambini. Da famiglia unita, il gruppo di personaggi resta una cerchia di amici senza diritti sul corpo in coma. Questa scorsa ironica lascia intravedere come altre forme di unioni meritino altrettanti diritti quanto famiglie il cui status giuridico si fonda sulla conservazione del creato con la riproduzione della specie. 109

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Che l’io in~dividuale – compresone il genere maschile o femminile – sia un effimero genere narrativo di identificazione situazionale, relativa ai legami enunciati e costruiti con sempre altri Altri riecheggia nella scena in cui Davide rimprovera ad Antonio di non sapere inventare la sua storia famigliare secondo il genere enunciativo e performativo fiabesco del discorso tradizionale scelto da lui e Angelica. La luce bassa e i colori scuri della stanza sono segnali semiotici del peso della scena. Il breve monologo ammonisce che il film stesso sperimenta proprio con il superamento dei generi maschile e femminile e dei generi melodrammatico e da sottoculture sessuali ed etniche, proprio inscenando una fiaba che sfida e sfonda le attese di una soluzione con un principe e una principessa per sempre felici e contenti. Come in un romanzo di Luigi Pirandello, Italo Calvino, Umberto Eco, Gianni Celati o Alessandro Baricco, il testo narrativo del film riflette sull’opera narrativa stessa come unica fonte da cui sgorgano molteplici, fluide versioni dell’io individuale e sociale, ben oltre qualsiasi fondamento normativo dal valore imperituro e universale. Come suggerisce la desolante ripresa rotatoria del finale al suono sinistro della reminiscente voce fantasma di Lorenzo che spera tutto resti tale quale per sempre – con al centro il tavolo da pingpong, prima circondato dai personaggi che giocano pronti a rinascere dopo gli astri avversi, poi abbandonato all’azione inclemente degli elementi – e come manifesta anche il testo della canzone di chiusura con la metafora del vento in fuga: nessuna forma di famiglia, uomo, donna, bimbo o altrimenti definito soggetto, individuale o collettivo, dura in eterno.

Interneestranee a~nce~strali Meno che mai eternamente durano distinzioni ancestrali di interni ed estranei di etnie esposte a saturnine influenze astrali. Il pianto a dirotto di una ragazza in ospedale, dopo una breve conversazione in una lingua di un Paese dell’ex blocco comunista, e l’immediata empatia viscerale dei personaggi principali raccolti in un’inquadratura corale traducono eloquentemente il messaggio politico di somiglianza transnazionale trasmesso dal film. Suoni, sapori e colori orientaleggianti accentuano la vicinanza delle culture turca e italiana sin dalle prime scene a casa di Davide e Lorenzo. Che Neval sia turca si palesa platealmente solo tardi nel film, quando la moglie del padre di Lorenzo arriva in ospedale e, sentendone il nome, le chiede, “Straniera?”, e riceve l’esilarante risposta, “No, turca”, che racchiude una polisemia politica ben in tono col film. Il cinema europeo contemporaneo si occupa spesso proprio di flussi migratori dal sud e dall’est, come osservato da Dina Iordanova (2010: 51)8. Che da turche o balcaniche non si sia solo straniere nel Mediterraneo e in Europa e che da straniere si sia pur sempre originarie di altrove sono messaggi quasi dati per scontati, ma con forti implicazioni politiche. Se il regista tedesco Fatih Akın preferisce soffermarsi sulla violenza dell’ideologia 110

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maschilista turco-europea, Ozpetek chiaramente sceglie di esporre somiglianze positive tra questo candidato a entrare nell’Unione e uno dei suoi membri fondatori. Colori e sapori mediterranei attenuano le differenze e accentuano quanto Neval sia un’estranea molto interna rispetto al collettivo etnico dominante. Come in Le fate ignoranti e altri film ozpetekiani, le allegre tavolate sono cruciali proprio come momenti di narrazioni molteplici, con vertiginose reinvenzioni degli io e Altri di turno, anche con istanti di polemica e momentanee rotture. Infine, l’uso frequente di canzoni in lingue straniere e cantate da interpreti allofoni permette alla colonna sonora di tradurre l’intraducibile ibridazione di un’Italia aperta al globale senza anglismi o americanismi hollywoodiani o bollywoodiani. Come antidiva di questo tripudio globale e locale splende proprio il personaggio di Neval, come donna emancipata sia attraverso una celebrazione autoironica di un corpo reso grottesco e abietto dal suo peso classificato come eccessivo da morale ascetica e medicina moderna, sia per la sua condizione di moglie felice di un uomo mite nonostante faccia il poliziotto, Roberto, e, in aggiunta, senza figli – contrariamente a imperativi moderni e morali. Se Neval rappresenta una straniera che ha smesso di fare la straniera, Sergio – l’ex di Davide – continua a fare il ‘frocio’.Tuttavia, le sue battute esilaranti sono molto prossime al superamento di distinzioni ancestrali incarnato da Neval, che similmente continua con orgoglio a fare la parte della donna in carne. Infatti, Sergio dimostra con i suoi registri e stili versatili che, proprio come le straniere possono smettere di fare le veline, anche chi fa scelte sessuali giudicate perverse ha il potere di smettere di fare la parte del perverso, per grazia dell’ironia relativista che scorge classificazioni ideologiche dove le norme dogmatiche si limitano a guardare dall’alto in basso. Il rifiuto dell’etichetta di straniere si estende a ogni etichetta individuale o collettiva, in questo film di interni estranei sessuali ed etnici – come ribadito anche da Paolo in una delle scene iniziali sui suoi legami intimi sia con donne, sia con uomini. La risposta a tono di Neval, viceversa, estende il rifiuto implicito nel film proprio dell’etichetta di non-famiglie o non-uomini, ovvero ‘froci’, alla condizione degli immigrati recenti in Italia ed Europa. Sulla prima etichetta non mancano osservazioni sagaci sin dalla rivoluzione sessuale come quelle su “i froci e i loro amici” (Mitchell, 1977: 109-110)9, che riassumono con eloquenza il messaggio politico del film a favore dello status giuridico adeguato di legami non fondati sul concepimento di figli e ne introducono il nesso chiave con il messaggio sulla discriminazione etnica in un modo tanto forte da meritare una breve escursione senza digressioni. Secondo queste osservazioni raccolte in uno scritto polemico degli anni Settanta, froci e amici trovano sicurezza nel loro stile sovversivo solo provvisoriamente. Un giorno dovranno capire che gli uomini continueranno a combatterli fintanto che si sentono minacciati dai loro stili sovversivi. Ma mentre gli uomini non hanno altro da fare che combattere i sovversivi froci e amici, questi capiranno che possono porre una fine a questa lotta. Gradualmente e gandhianamente, faranno a meno di alimentarsi e di drogarsi, per poter farlo senza esserne dipendenti solo quando proprio lo vogliono. Astenendosi dal sesso, smetteranno di dipendere dalla 111

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vicinanza di un altro corpo caldo per sentirsi veri e inizieranno a fare l’amore solo quando lo desiderano veramente. Cessando gradualmente di essere diversi, destabilizzeranno gli uomini fino a farli temere di stare impazzendo. Infatti, non potendo continuare a vedere nell’inquietante specchio distorto di froci e amici la loro immagine capovolta, ovvero chi non sono, gli uomini perderanno il potere di distinguere la norma dall’abnorme. Gli uomini hanno bisogno di froci e amici per mantenere questo potere, ma froci e amici impareranno finalmente a fare a meno di sovvertire le norme degli uomini e solo allora le cose potranno iniziare a cambiare. Come interna~estranea, Neval ha un ruolo centrale in Saturno contro. L’interprete funge da intermediario proprio in quanto amica di froci che hanno smesso di fare i froci, straniera che ha smesso di fare la straniera, amica di una ‘sfigata’ (Roberta) che ha smesso di fare la sfigata, moglie eteronormativa che ha smesso di fare la moglie eteronormativa e amica di una coppia eteronormativa (Angelica e Antonio) che ha smesso di fare la coppia eteronormativa. Neval inscena l’unione mediterranea ed europea sotto il segno del pensiero meridiano di Franco Cassano, che Tiziana Ferrero-Regis trova anche nei film di Gianni Amelio e Giuseppe Tornatore (2009: 214)10. Il suo alter ego Angelica risulta come personaggio affascinante proprio diventando a poco a poco anticonformista come l’adorabilmente diabolica Neval. Con la psicologa, tutte le spettatrici e tutti gli spettatori sono invitati ad aprirsi agli Altri di turno riconoscendoli come estranei di fatto interni al proprio io individuale e collettivo, anche ricordando che, per la loro storia di emigrazione, l’Italia e l’Europa sono composte da stranieri. Questa magia funziona esattamente inscenando froci che hanno smesso di fare i froci e straniere che hanno smesso di fare le straniere, sguarnendo ogni sguardo indiscreto.

S~a~turni pol~is~emici A turni polemici si alternano vari voraci Saturni polisemici nel film. L’infermiera, la domestica filippina e la straniera sconosciuta all’ospedale invitano il pubblico ai grandi temi di questa minifavola ozpetekiana densa di significato socio-politico. La luce diafana in ospedale, i primi piani agli specchi e la colonna sonora multilingue disarmano distinzioni di essenze assolutiste di salute, famiglia ed etnia. Il film smaschera e denuncia il moralismo delle politiche mediche contro l’eutanasia e l’uso di stupefacenti, la discriminazione delle famiglie non riconosciute tali e l’esasperazione quotidiana di differenze etniche a cui sono sottoposti gli immigrati del Ventunesimo secolo. Personaggi femminili stregoneschi come Roberta e Neval e la graduale trasformazione di Angelica sono cruciali nell’individuazione di una micropolitica polisemica per le situazioni quotidiane, in cui, invece di accettare facili etichette, ci si crea e ricrea strategicamente in termini di volta in volta Altri da quelli normalizzati. Ad astri avversi, avverse magie. 112

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Note 1

Galt, R. e Schoonover, K. (2010) “The Impurity of Art Cinema”, in Galt, R. e Schoonover, K. (a cura di) Global Art Cinema, New York: Oxford University Press. 2 Vattimo, G. (1989/2000) La società trasparente, Roma: Garzanti. 3 Nietzsche, F. (1887) Zur Genealogie der Moral, Frankfurt: Zahllose Ausgaben. 4 Foucault, M. (1969) L’Archéologie du savoir, Paris: Gallimard. 5 Crenshaw, K. (2005) “Intersectionality and identity politics: learning from violence against women of color”, in Kolmar, W. K. e Bartkowski, F. (a cura di) Feminist Theory. A Reader, New York: McGrawHill. 6 Hill Collins, P. (1998) Fighting Words: Black Women and the Search for Justice, Minneapolis: University of Minnesota Press. 7 Van Alphen, E. (2005) Art in Mind, Chicago: University of Chicago Press. 8 Iordanova, D. (2010) “Migration and Cinematic Process in Post-Cold War Europe”, in Berghahn, D. e Sternberg, C. (a cura di) European Cinema in Motion. Migrant and Diasporic Film in Contemporary Europe, Londra: Palgrave Macmillan. 9 Mitchell, L. (1977) The Faggots and Their Friends Between Revolutions, New York: Calamus Books. 10 Ferrero-Regis, T. (2009) Recent Italian Cinema. Spaces, Contexts, Experiences, Leicester: Troubador Publishing.

Bibliografia Crenshaw, K. (2005) “Intersectionality and identity politics: learning from violence against women of color”, in Feminist Theory. A Reader, a cura di Kolmar, W. K. e Bartkowski, F., New York: McGrawHill. Ferrero-Regis,T. (2009) Recent Italian Cinema. Spaces, Contexts, Experiences, Leicester:Troubador Publishing. Foucault, M. (1969) L’Archéologie du savoir, Paris: Gallimard. Galt, R. e Schoonover, K. (2010) “The Impurity of Art Cinema”, in Global Art Cinema, a cura di Galt, R. e Schoonover, K., New York: Oxford University Press. Hill Collins, P. (1998) Fighting Words: Black Women and the Search for Justice, Minneapolis: University of Minnesota Press. Iordanova, D. (2010) “Migration and Cinematic Process in Post-Cold War Europe” in European Cinema in Motion. Migrant and Diasporic Film in Contemporary Europe, a cura di Berghahn, D. e Sternberg, C., Londra: Palgrave Macmillan. Mitchell, L. (1977) The Faggots and Their Friends Between Revolutions, New York: Calamus Books. Nietzsche, F. (1887) Zur Genealogie der Moral, Frankfurt: Zahllose Ausgaben. Van Alphen, E. (2005) Art in Mind, Chicago: University of Chicago Press. Vattimo, G. (1989/2000) La società trasparente, Roma: Garzanti.

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Luciana d’Arcangeli

Nuove donne di mafia sugli schermi

Q

uando si pensa alla figura femminile legata alla tradizionale iconografia mafiosa, due sono le immagini che vengono immediatamente alla mente, entrambe saldamente piantate nella tradizione della ‘onorata società’: la madre/moglie/sorella inequivocabilmente congiunta per sangue all’uomo ‘d’onore’, e la custode e riproduttrice dei disvalori e dei modelli culturali di mafia. Questi ruoli però stanno attraversando un processo di cambiamento. Criminologhe e ricercatrici (Marina Graziosi, Giovanna Fiume, Anna Puglisi, Sandra Rizza) hanno rilevato come negli ultimi anni la figura ed il ruolo della donna nelle associazioni mafiose, nonostante rimanga a lei preclusa l’affiliazione formale alla mafia, si stia evolvendo in due direzioni diverse: da una parte con il diretto coinvolgimento nelle attività criminali tradizionalmente maschili, e dall’altra con l’investitura come portavoce nelle attività ‘comunicative’ di difesa dell’organizzazione nei confronti di media e Stato. L’ex-presidente della Commissione parlamentare Antimafia Luciano Violante commenta, da una parte, proprio il crescente fenomeno che si manifesta nella ‘scomunica’ dei collaboratori di giustizia da parte delle donne facenti parte delle loro famiglie – fenomeno che sembrerebbe essere “una nuova strategia comunicativa di Cosa Nostra” – e dall’altra le statistiche che dimostrano come “è in netto aumento il numero delle donne denunciate per associazione mafiosa e risale al 1996 la prima applicazione ad una donna del regime carcerario ‘duro’ previsto dall’articolo 41bis” (Violante, 1997: 5-6). Nella lotta antimafia lo Stato, quindi, ha contrattaccato in ambito giudiziario, valutando caso per caso le responsabilità personali delle donne per i reati di cui vengono accusate e non ritenendo applicabile l’articolo 384 del codice penale che antepone tutti i legami familiari all’obbligo di collaborare con la giustizia. Contemporaneamente, in ambito mediatico, lo Stato ha favorito la rinascita di una stagione di critica antimafia ‘militante’ con notizie di attacchi diretti ed indiretti alle associazioni mafiose, ovvero amplificando il rumore creato da arresti, dalla confisca dei beni e loro reimmissione nella comunità ed, ovviamente, dal pentitismo. In questo braccio di ferro comunicativo, particolare rilievo ricopre il crescente numero di donne 114

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che, scegliendo di collaborare con la giustizia, si trovano a contribuire alla lotta che lo Stato ingaggia quotidianamente con il crimine organizzato in due modi distinti: il primo e più evidente, fornendo informazioni che giocano un ruolo importante nell’azione giuridica; il secondo, più sfumato ma per certi versi ancor più dirompente, dando una personale rappresentazione dell’effettiva frattura dei tradizionali codici di omertà, vendetta e legami ‘familiari’. Questa disamina si propone di analizzare se e come queste due evoluzioni femminili, ovvero verso attività criminali vere e proprie oppure verso attività comunicative a difesa o accusa dell’attività mafiosa, vengano rappresentate sugli schermi italiani dell’ultimo decennio nei quattro film che hanno al centro della narrazione delle figure femminili: Donne di mafia (Giuseppe Ferrara, 2001), Angela (Roberta Torre, 2002), Galantuomini (Edoardo Winspeare, 2008), e La siciliana ribelle (Marco Amenta, 2009). La disamina valuterà, inoltre, l’importanza che queste rappresentazioni della mafia al femminile possono avere a livello culturale e politico nella lotta antimafia. Gli stereotipi della rappresentazione cinematografica mainstream della mafia poggiano su basi che risalgono al cinema muto – un esempio per tutti At the Altar (D.W. Griffith, 1909) – dove la rappresentazione degli immigrati italiani o degli oriundi prevedeva una esasperata (e preoccupante) carica di sensualità e violenza mentre le donne rimanevano silenziose ed obbedienti sullo sfondo. Nel saggio “The Mafia: New Cinematic Perspectives”, Luana Babini (2005: 229-250) illustra come la rappresentazione della mafia nel cinema abbia subito diversi trattamenti negli anni, passando dalla ‘glamorizzazione’ all’ironizzazione, alla banalizzazione ad opera di diversi registi. Nonostante questo, il ruolo delle donne di mafia nella cinematografia italiana è rimasto sostanzialmente invariato, andando a scostarsi quindi dalla realtà socio-politica del fenomeno a livello nazionale. L’obiettivo ha incluso le donne nelle storie di mafia quando la routine della soap opera americana The Sopranos (sei stagioni TV dal 19992005) ne ha operato una vera e propria trivializzazione televisiva integrando l’aspetto domestico/familiare dei malavitosi. Questa serie ha sì continuato a dar vita agli stereotipi negativi – con tutte le controversie del caso – ma ha comunque banalizzato il personaggio mafioso togliendogli qualsivoglia aura di epicità, ed andando a frugare nella vita privata dei componenti della famiglia mafiosa, soffermandosi sulle sue disfunzioni. La serie televisiva ha aperto quindi una finestra sulle donne di mafia, principalmente attraverso il personaggio di Carmela Soprano, moglie del boss Tony, tanto da meritare l’epiteto di primetime feminism, ovvero femminismo da prima serata, non fermandosi ai soliti tradimenti e litigi domestici ma affrontando, seppure con superficialità, temi importanti quali l’istruzione nell’emancipazione femminile, le difficoltà dell’accettare le attività criminali del marito e la legittimazione del crimine mafioso da un punto di vista religioso1. Anche in Italia lo sguardo televisivo nel nuovo millennio è volto al femminile con il drammatico film TV Donne di mafia (Giuseppe Ferrara, 2001), tratto dall’omonimo libro di Liliana Madeo che spiega: 115

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Nel mio libro ho raccontato storie vere, ho parlato di donne di lignaggio mafioso che hanno compiuto un cammino per andare contro i boss. I primi a credere nell’importanza delle donne di mafia non come controfigure sono stati Falcone e Borsellino. Durante il mio lavoro di ricerca, il procuratore aggiunto di Palermo Guido Lo Forte mi disse: ‘Lo scriva questo libro, non sa quanto potrà esserci utile. Sappiamo così poco di questo mondo’. Ci sono donne che hanno contribuito a far pentire i mariti, e hanno condiviso il loro destino. Sicuramente c’entra la potenza dell’amore, ma anche un grande senso civico, la consapevolezza di dover assicurare una vita migliore ai propri figli. (Fumarola: 2001) La giornalista, quindi, ha voluto sia commentare sull’importanza del ruolo delle donne nella lotta alla mafia, sia offrire una varietà di punti di vista e di ruoli non solo realistici ma che sembrano trarre sostanza direttamente dalla realtà mafiosa così come ‘raccolta’ nei processi e nelle dichiarazioni rilasciate da collaboratori di giustizia. La novità è proprio in questa ispirazione che si traspone nel film, ne risulta la centralità delle protagoniste e del loro interagire rispetto alla trama. Infatti in Donne di mafia la figura femminile viene presentata in modo variegato e da diverse interpreti, non più solo nell’accezione radicata nell’immaginario collettivo, ovvero di donna quasi priva di identità, piegata dalla nascita ai voleri della famiglia di sangue o acquisita, scevra di potere e di voce, ovvero quella che Teresa Principato e Alessandra Dino (1997: 14) definiscono la “vittima di una cultura intrisa dei valori della mascolinità in modo così esasperato e […] quasi caricaturale”. Il film segue la vicenda del rapimento di Nicolino Sorrentino – ispirata al rapimento avvenuto nel 1993 dell’undicenne Giuseppe Di Matteo – concentrandosi sui personaggi femminili: Cosima Sorrentino, la moglie del pentito Vito Sorrentino e madre di Nicolino; Maddalena Pennisi, sorella del pentito Sorrentino e moglie del mafioso Salvo Pennisi che sequestra e uccide il bimbo; Teresa Uncini, amica delle due donne e moglie del ‘picciotto’– l’uomo di mafia dal grado più basso, Gaetano; ed Antonietta Pennisi, la moglie del boss che ordina il rapimento e l’uccisione del bambino. Cosima preferisce disconoscere il marito e conformarsi alle esigenze della morale mafiosa pur di fare appello all’intangibilità della famiglia, vale a dire delle mogli e dei figli dei mafiosi, ovvero sua e di suo figlio. È il pentimento di Vito, cioè la sopravvenuta assenza della figura maschile, a dare voce alla donna. Cosima, nel rifiuto di quella che viene ritenuta una ‘infamia’, ovvero nel distacco più o meno plateale dal marito, va “a difesa dell’integrità dell’assetto e delle tradizioni dell’organizzazione”. Nonostante nel film il personaggio non si rivolga ai media, Cosima è un esempio di quello che la criminologa Marina Graziosi (2005: 1) definisce il nuovo e più importante ruolo che le donne di mafia hanno acquisito: quello di comunicare attraverso la loro appartenenza alla mafia il potere della stessa al mondo esterno. Rinnegare i propri mariti o figli pentiti, mettendo quindi in discussione valori sacri 116

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quali il matrimonio e la maternità, sposare un uomo carcerato e condannato a uno o più ergastoli, e dare dei figli ad un latitante, sono dichiarazioni pubbliche della forza della mafia ed insieme una sfida al potere dello Stato. Nel film – e nella realtà cui esso si ispira – la dimostrazione di fedeltà della donna non basta a fermare la feroce punizione dimostrativa a protezione dell’onore e degli interessi mafiosi, sempre primi nella scala prioritaria delle cosche. Ed il bambino viene ucciso, in quanto si vuole mostrare proprio il volto peggiore della mafia – forse anche a bilanciare l’eccessivo glamour mostrato da location, attori ed autovetture nella messa in scena – così come il forte disagio cui viene sottoposta la donna di mafia. L’atmosfera che si cerca di creare nel film è di continua tensione, mostrando come nessuno sia al sicuro e come le leggi non scritte della mafia risultino indecifrabili a chi non è ‘nato nella famiglia’ come Teresa Uncini, unica vera protagonista del film (personaggio interpretato da Tosca D’Aquino e ispirato alla figura della moglie del collaboratore di giustizia Antonio Calderone). Dopo l’ennesimo passo falso che mette in pericolo tutta la famiglia, lei confessa al marito Gaetano il suo smarrimento: “Qua ogni cosa buona che fai, ogni cosa che in un altro posto sarebbe una cosa bella, una cosa umana in questa gabbia di matti diventa uno sbaglio…”. Il personaggio di Teresa, emancipato anche dal lavoro all’interno di una scuola che la espone quotidianamente ad un ambiente esterno alla famiglia ed ad un contatto con il pubblico, in qualche modo rappresenta il cambiamento introdotto dall’emancipazione femminile all’interno del chiuso contesto mafioso e, di conseguenza, l’elemento più ‘instabile’ nel mondo femminile, già di per sé ritenuto tale. Il personaggio di Teresa rifiuta la logica di morte che la circonda e cerca di ‘infettare’ chi le sta vicino: è l’unica che non solo riflette tra donne degli avvenimenti che la circondano, ma ne parla anche con il marito ed il suo socio, interrogando se stessa e loro a proposito della ferocia criminale di Salvo che ha ucciso il proprio nipote a sangue freddo: “Se Salvo è una bestia, noi cosa siamo?”. I due uomini rifiutano qualsiasi addebito morale mentre nella donna si fa sempre più chiara la barbarie che la circonda e la sua responsabilità anche nella passività della sua situazione che sfocia nella domanda “Perché noi donne sempre mute dobbiamo stare?”. Muta, ovviamente, Teresa non lo sarà e riuscirà a convincere suo marito a pentirsi, pentendosi lei stessa di aver scelto di ignorare l’evidenza per amore, quieto vivere e convenienza, sfatando il mito delle donne che ‘non sanno niente’. Quello che questo personaggio mostra qui è la forza della donna all’interno della famiglia mafiosa. Stando alle testimonianze raccolte da Antonio Manganelli, nel momento di rottura dall’organizzazione mafiosa e dal territorio di appartenenza, è la donna che ricentra la coppia e la famiglia, coadiuvando gli sforzi anche psicologici del marito e fornendo le basi su cui ricrearsi un’identità ed una nuova vita2. Questa forza viene riconosciuta nel film dalla giudice Giulia Marotta in un dialogo con Teresa; le spiega chiaramente perché l’obiettivo si sia spostato sulla donna: “Io qualche anno fa ho avuto il privilegio di lavorare con il giudice Falcone e lui dava grande importanza alle mogli e alle compagne degli uomini che facevano 117

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parte dell’organizzazione. Per lui rappresentavano un segno di cambiamento, una cultura di vita, una sfida: la sfida delle donne”. Lo stesso Falcone (1991: 85-86) riconosceva alle donne anche la forza contraria nello schierarsi contro ‘la cultura della vita’, in particolare facendo riferimento alla moglie di Vincenzo Buffa che convinse il marito a ritrattare e a non collaborare oltre con la giustizia, organizzando anche una rumorosa protesta contro i giudici durante il maxiprocesso del 1997 a Palermo. Il personaggio di Antonietta Pennisi, dura e inflessibile moglie del boss, bene interpreta il ruolo di moglie che vive e si fa forte di luce riflessa – con una patina di perbenismo dato da vestiti, gioielli, automobili e villa di lusso. Quando le vengono arrestati marito e figlio lei in un accorato appello televisivo – rappresentata proprio come nei veri processi di mafia americani con i capelli perfettamente pettinati, vestito nero elegante, perle, occhiali neri – chiede la liberazione del suo innocente ‘bambino’ non ancora maggiorenne che “paga solo per il nome che porta” – indicando con questa famosa frase come il personaggio sia liberamente ispirato a Antonietta ‘Ninetta’ Bagarella, sorella del boss Leoluca e moglie di Totò Riina. La donna invoca “giustizia, giustizia per la mia famiglia contro tutte le infamie che ci vennero buttate addosso, soprattutto da chi approfittò del nostro affetto e della nostra generosità”, ma si intuisce come stia chiedendo una giustizia mafiosa o al massimo divina, in quanto coincidenti per i mafiosi, non certo quella amministrata dall’Autorità Giudiziaria di uno Stato non riconosciuto o rispettato. Questa dichiarazione di appartenenza all’organizzazione mafiosa e di rifiuto dello Stato è un momento di visibilità pubblica e politica che viene contrastato nel film dalla dichiarazione di pentitismo di Teresa, e seguito da un accorato appello, sguardo diretto in macchina da presa: Avete il coraggio di dire basta? Voi che campate ancora dentro a queste famiglie mafiose trovate la forza di convincere a vostro padre, a vostro marito, di cangiare così come ho fatto io. Però se loro rimangono come sono, allora è meglio che lo abbandonati. L’omo o lo raddrizzi o lo lassi perdere. Questo finale da sé mostra quanto il pentitismo femminile sia diventato un momento comunicativo importante avendo in sé il morbo debilitante della ribellione del più debole, dell’essere che dovrebbe essere ‘inanimato’. Il regista Giuseppe Ferrara ha dichiarato: Il cinema sulla mafia, compreso il mio [vedi Il sasso in bocca (1969) e Cento giorni a Palermo (1984)] è sempre stato maschilista. Il cambio di prospettiva con [Donne di mafia (2001)], questa storia al femminile che mette le donne in primo piano e gli uomini sullo sfondo, può dare maggior impatto all’impegno civile che mi ha sempre guidato. […] Spero che le donne di mafia che lo vedranno abbiano un’incrinatura nelle loro convinzioni. (Fumarola: 2001) 118

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Di stampo molto diverso il film Angela di Roberta Torre (2002) che offre di nuovo un punto di vista femminile della mafia mettendo al centro della narrazione cinematografica la protagonista omonima, ma in veste di co-organizzatrice e corriere del giro di droga di suo marito Saro a Palermo. La donna è sì il braccio destro dell’operazione, che ne sfrutta per le consegne di cocaina l’‘invisibilità’ – data dalla quotidiana ripetizione banalizzante dei suoi passi, e delle riprese, che la mostrano andare e venire dalla base del loro negozio di scarpe verso i luoghi di consegna – eppure la donna non ha libertà alcuna. Pauline Small (2008) ha notato come lo spazio venga rigidamente e gerarchicamente definito dalla mafia e questo viene dimostrato dal desiderio della protagonista di uscire nonostante non ci sia bisogno per lei di fare consegne, solo per poter lasciare la metaforica claustrofobia del negozio. Infatti per Angela si tratta sempre degli stessi spazi, fino a quando la donna non trasgredisce il suo ‘confino’ con l’amante Masino. La delega di potere alla donna è necessaria nel momento in cui l’allargamento delle attività criminali dovute al narcotraffico richiedono il coinvolgimento di un maggior numero di persone, ma questa delega risulta essere limitata e solo temporanea, infatti viene revocata non appena lei ne rompe i vincoli. Questo viene sottolineato anche dalla cinematografia che, come ha notato Catherine O’Rawe (2011: 331-332), tende ad escludere la donna dal centro del potere, mostrando solo parzialmente gli spazi occupati dagli uomini e non penetrando mai il buio degli spazi che essi riempiono, dando così l’idea della sola visione parziale della protagonista. Angela viene quindi limitata all’enterprise syndicate, ovvero alle attività criminali affaristiche, ed esclusa dal power syndicate, ovvero dalla struttura di potere capillare territoriale – così come proposto dal criminologo Alan Block (1980) per descrivere la suddivisione di potere criminale a New York ed in seguito applicata alla città di Palermo dallo storico Salvatore Lupo (1996: 223). La donna perderà quel potere che le era stato temporaneamente concesso appena tradirà il marito in quanto la sua ‘servitù’ è, secondo Verónica Saunero-Ward (2011), legata alla sua sessualità. Lo scrittore Roberto Saviano (2009) in un suo articolo sulle donne nelle mafie racconta: Essere donna in terra criminale è complicatissimo. Regole complesse, riti rigorosi, vincoli inscindibili. Una sintassi inflessibile e spesso eternamente identica regolamenta il comportamento femminile in terra di mafie. È un mantenersi in precario equilibrio tra modernità e tradizione, tra gabbia moralistica e totale spregiudicatezza nell’affrontare questioni di business. Possono dare ordini di morte ma non possono permettersi di avere un amante o di lasciare un uomo […] La donna esiste solo in relazione all’uomo. Senza è come un essere inanimato. Un essere a metà. Angela, nel finale del film, rimane come ombra, sospesa tra il ruolo di ex-moglie di Saro ed in attesa del suo amante Masino; indefinita, come la pioggia che batte sui vetri del bar del porto. Il colore rosso, predominante nella prima parte del film, l’ha 119

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ora lasciata a favore del bianco. O’Rawe (2011: 331) nota come l’applicazione della Giustizia statale e del codice di mafia scolori la donna cinematograficamente, spogliandola del suo ruolo di femme fatale. La donna di mafia sola è già morta, non è nulla senza un uomo. Donatella Finocchiaro interpreta anche Lucia Rizzo, la violenta protagonista del film di Edoardo Winspeare, Galantuomini (2008), descritta dal critico Valerio Caprara (2008) come “crudele e carnale come vogliono le regole del noir, ma anche (morbosamente) vera come le pregiudicate che capita a tutti di guardare sulle pagine dei giornali o nei servizi dei tg”. Quest’ultima è il braccio destro di Carmine Zà, un boss della Sacra Corona Unita – l’organizzazione mafiosa che ha il suo centro nella regione Puglia. Negli anni ’90 in cui il film è ambientato, questa era “ancora sul nascere” come viene spiegato durante una conferenza, e la Puglia “non è più un’isola felice, non è più un territorio immune dal fenomeno criminale, fenomeno della mafia”. Questa graduale formazione di una nuova mafia locale va di pari passo con quella della protagonista, che rappresenta una delle “donne sempre più consapevoli, che assumono un ruolo sempre più di rilievo in un processo di emancipazione ‘negativa’ intesa come omologazione ai modelli maschili violenti”3. Eppure il contemporaneo allargamento delle attività del gruppo mafioso e l’ascesa al potere di Lucia sono di carattere opportunistico piuttosto che pianificato. Particolarmente efficace è la metafora cinematografica di Edoardo Winspeare che narra, con colori sempre in tonalità fredde tra il grigio e il blu, il percorso di entrambe. Il regista, infatti, riprende la donna mentre sul letto racconta una fiaba al suo bambino in un raro momento di pace: In paradiso c’era un angelo bellissimo, con le ali bianche come la neve. Un giorno questo angelo decise di scendere sulla terra e cadendo si sporcò tutte le ali. Lui cercò di pulirle ma non ritornarono più bianche come prima. E tutti gli angeli lo prendevano in giro e gli dicevano “angelo dalle ali nere”. Ma Gesù gli voleva bene più di tutti. Era il suo preferito. Mentre la voce della protagonista narra la favola, il montaggio alterna la scena familiare ad immagini di crescente violenza: gente che si arma, un’autobomba che esplode ed un’esecuzione nelle vie cittadine. La macchina da presa si ferma sulla donna che, consapevole di come il bimbo ormai dorma, scandisce le ultime parole solo per sé. La recente morte per overdose dell’amico d’infanzia Fabio Bray l’ha portata a capire dove lei stessa è arrivata, forse solo per spirito di sopravvivenza. Al funerale di Fabio va anche Ignazio De Raho, l’ultimo del terzetto di bambini che giocavano per le vie e sui tetti del paese, ormai diventato giudice e rientrato da poco in Puglia. La distanza sociale e di scelta di vita che da grandi separa i due vecchi amici sembra incolmabile per Lucia, mentre i sentimenti dell’uomo nei confronti di quella che era comunque anche una vecchia fiamma tornano ad accendersi proprio mentre sta nascendo una guerra tra bande. 120

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Nel film la decostruzione cinematografica dello stereotipo femminile tradizionale è costruita ad arte: da bambina Lucia è ribelle e mal si adatta alle ferree regole che regimentano la vita sociale e questo atteggiamento lo si ritrova anche nella scelta dell’uomo, un criminale, con cui ha fatto un figlio al di fuori del matrimonio. La protagonista è una madre single che fa la rappresentante di profumi, una donna emancipata, e la scelta di inserirla nella Sacra Corona Unita non è casuale in quanto mafia di più recente costituzione, meno tradizionalista e più pronta ad accettare quelle che Leela Jacinto (2010) chiama godmothers. Lucia non opera ai margini dell’organizzazione criminale, vi cresce all’interno ricavandosi un proprio spazio: una leader naturale. Nonostante dia gli ordini, sovrintenda al traffico di armi e droga, sia presente a torture e non lontana in caso di esecuzioni, la protagonista non viene mai ripresa mentre impugna una pistola fino a quando non viene aggredita e minacciata di stupro. Nonostante ci siano prove indiziarie che indicano il coinvolgimento di Lucia con la mafia, Ignazio, il giudice incaricato di far luce sulla morte di Fabio, inizialmente rifiuta di riconoscere il coinvolgimento della donna nel crimine organizzato per pregiudizio culturale ed affettivo. Questo mostra appieno il rifiuto dell’intera società di accettare quella che Principato e Dino (1997: 60) hanno chiamato la “cattiveria” delle donne ed il suo risvolto, quello che Ombretta Ingrascì definisce “paternalismo giudiziario” (2007: 97), ovvero la difficoltà che la Giustizia, qui rappresentata da Ignazio, ha di riconoscere la responsabilità personale della donna in questioni di mafia. La protagonista rimarrà l’unica sopravvissuta della sua cosca e cercherà rifugio a casa di Ignazio dove i due si regaleranno delle ore di felicità (sessuale e non) ma la realtà che li separa porterà Lucia a lasciare le calde tonalità solari della casa di lui per tornare nell’ombra, scegliendo di allontanarsi da lui. Di stampo molto diverso il film La siciliana ribelle (2009), del documentarista e regista Marco Amenta, che si basa sulla storia vera della giovane pentita Rita Atria che negli anni Novanta trovò il coraggio di denunciare chi le aveva ucciso il padre ed il fratello. Anche Amenta mostra cinematograficamente il percorso psicologico della protagonista con l’uso del colore rosso: segna i momenti più felici – la bambina, infatti, veste di rosso nei momenti spensierati passati sola con il padre, come nella loro gita in motocicletta – così come i più disperati – il sangue sul vestito bianco della comunione della bambina è il più agghiacciante. La bambina, per mostrare al padre che ha imparato a scrivere, imbratta vivacemente con il rosso della passata fresca di pomodoro un lenzuolo bianco con le parole “ciao papà”, ma la morte dell’uomo le scolora il mondo e porterà la ragazza a dichiarare come “ormai anche i pomodori sapevano di sangue per me”. Quella vendetta attesa a lungo, richiesta anche nelle intime preghiere in compagnia di un rosario di gocce rosse, viene pregustata in chiesa dalla ragazza che, per l’occasione, sfoggia un maglioncino rosso, ma il corpo che viene ripescato dal mare è quello del fratello maggiore. L’unica vendetta ormai possibile per lei è quella di vedere in carcere gli assassini della sua famiglia ed il mezzo le viene fornito proprio dalle sue parole, con le quali ha annotato rigorosamente per anni tutto ciò che le 121

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accadeva intorno. La ragazza diventa collaboratrice di giustizia solo per vendetta, scoprendo, infine, attraverso il rapporto con il giudice, valori diversi da quelli di mafia: “Mi rendo conto che mio padre e mio fratello non erano migliori di quegli assassini. È vero, sono venuta qui per avere vendetta, ma adesso chiedo giustizia. Ho capito che non è la stessa cosa”. L’unica persona coraggiosa del villaggio, quindi, è una ragazzina, una giovane donna che fornisce un’immagine positiva del pentitismo al femminile, aiutata da “stupidi che combattono contro i mulini a vento”. Infatti i rappresentati delle forze dell’ordine e di giustizia sono disposti all’estremo sacrificio pur di mostrare ai mafiosi, nelle parole del giudice, “la forza interiore di cui siamo fatti: sì, dobbiamo accecarli. Abbagliarli”. Il regista stesso (2009) spiega come la protagonista debba essere d’esempio per tutti, infatti la ragazza ha davanti: Un percorso psicologico interiore enorme che deve fare, e da un certo punto di vista per me è simbolico di un possibile cambiamento. Cioè, se questa ragazzina di diciassette anni ce l’ha fatta a cambiare la sua mentalità, a cambiare questi valori criminali a valori di giustizia, allora tanti altri giovani ce la possono fare. Allora tutti i siciliani, tutto il meridione d’Italia, tutta l’Italia può cambiare e cambiare valori. La caratura morale che qui il regista attribuisce alla giovane non si basa sulla volontà di collaborare con la giustizia che, come abbiamo visto, nasce da un’esigenza di vendetta e di elaborazione del lutto. Queste, come ha affermato la criminologa Giovanna Ruffin (2010) nell’incontro “Donne di mafia, donne antimafia”, sono le due ‘leve’ maggiori che portano alla collaborazione, come nel primo e famoso caso di Serafina Battaglia (del 1963) o proprio come nel caso della vera Rita Atria. Non di pentitismo ‘morale’ si tratta, quindi, piuttosto di riscatto finale: infatti alla fine del film il giudice viene ucciso con una bomba ed alla donna viene offerta salva la vita in cambio di una sua ritrattazione ma lei preferisce buttarsi dal balcone “perché se io muoio le prove restano, il processo va avanti… e lui [Don Salvo, il mandante degli assassinii] si becca l’ergastolo”. Nel cinema italiano degli ultimi anni, quindi, alla figura negativa, criminale e violenta di mafioso, politicamente stanca ed inefficace, si affianca una controparte femminile che proprio per la sua appartenenza di genere fa discutere, e le si contrappone una figura positiva ed universale di ex-donna di mafia altrettanto forte e pregna di messaggio socio-politico. Questo cambiamento di genere del corpo politico a rappresentazione della mafia, ora non più maschile bensì femminile, si spera dia frutti tangibili. Angela Dalle Vacche sostiene che i film sono una tecnologia “sociale” che offre ai propri spettatori la maniera di identificarsi, l’immagine nella quale rispecchiarsi per poter accedere ad un’identità nazionale ed immaginare il proprio ruolo all’interno del processo storico, e questo include anche i ruoli negativi 122

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(1992: 254). È innegabile, infatti, che gli appartenenti alle cosche mafiose cerchino un modello cinematografico cui rifarsi che sia appealing e glamorous. Un esempio per tutti: villa ‘Hollywood’ del vero boss di Camorra Walter Schiavone, ora confiscata e demolita, era una perfetta replica della casa del finto boss di cartello Tony Montana così come presentata nel film Scarface (Brian De Palma, 1983). Non a caso quella stessa villa è stata utilizzata come set nel film Gomorra (Matteo Garrone, 2008) per girarvi le scene dove i due adolescenti scissionisti Marco e Ciro scimmiottano proprio i gangster del film Scarface nel tentativo di trovare una loro identità criminale. Pierpaolo Antonello (2010), nella sua analisi del film, nota come una serie di citazioni cinematografiche da altri film di mafia vogliano mostrare proprio il cortocircuito tra realtà e finzione, ovvero il fortissimo desiderio dei mafiosi di essere rappresentati sugli schermi ed il loro successivo copiare quello che vi vedono rappresentato, in un identificarsi con l’immaginario collettivo. Nel tentativo di spezzare questo circolo vizioso i registi italiani si prestano solo parzialmente al gioco, ovvero concedono poco ai canoni dell’iconografia classica del cinema mafiologico, scegliendo una rappresentazione iper-realistica o la docufiction, evitando possibili rappresentazioni positive o spettacolarizzate dei luoghi, delle azioni e dei mafiosi stessi. Di contro viene fornita dalla cinematografia contemporanea un’immagine forte di donne al potere nella mafia – difficile da accettare e replicare in un sistema fortemente omosociale ed omofobico come la mafia – ed una altrettanto forte e positiva della collaboratrice di giustizia – più facile da non condannare di quella maschile, in quanto la donna è spesso vittima di un sistema cui viene piegata. Un’immagine che assume una valenza universale in tutto simile, anche se tardiva, a quella che lo Stato cerca di darle per via mediatica. Insomma, il cinema offre in questo caso la possibilità di immaginare un’Italia diversa, anche attraverso eroine improbabili in cui immedesimarsi, come Rita Atria le cui parole chiudono il film di Marco Amenta: Forse un mondo onesto non esisterà mai. Ma ci impedisce di sognare? Forse se ciascuno di noi prova a cambiare, forse ci riusciremo.

Note 1 Merri Lisa Johnson (2007: 269-296).Temi successivamente toccati anche dalla serie reality tv Mob Wives (2011), che segue la vita di alcune vere mogli e/o figlie di criminali incarcerati a Staten Island per reati connessi con la criminalità organizzata – nonostante la critica abbia avuto pareri discordi, sono previsti una seconda serie ed uno spin-off, Mob Wives: Chicago. 2 Antonio Manganelli è stato direttore del Servizio Centrale di Protezione dei collaboratori di giustizia fino a marzo 1997 ed ha presentato la relazione in “Protezione dei collaboratori di giustizia: la donna come soggetto della tutela” al convegno “La donna nell’universo mafioso”, tenutosi l’8-9 febbraio 1997 a Palermo. 123

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“Donne custodi dell’omertà”, episodio di La storia siamo noi: http://www.lastoriasiamonoi.rai.it/puntata.aspx?id=342

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Migrazione, multiculturalismo e relazioni interetniche

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William Hope

Introduzione: Migrazione, mercificazione e integrazione nel Ventunesimo Secolo

N

el contesto specifico dell’Italia, la questione della migrazione continua ad essere offuscata da contraddizioni e paradossi derivanti da una amnesia selettiva riguardo agli imponenti spostamenti di individui e famiglie che hanno marcato la storia del Paese, in relazione sia all’immigrazione interna verso il nord industriale che all’emigrazione. Una tendenza ricorrente che non mostra segni di diminuzione, visto il numero di italiani che continuano a doversi trasferire altrove per cercare un lavoro che sia rispondente alle loro competenze ed esperienze. Il concetto generale di migrazione, nel contesto di un ruolo minore dell’Italia come Paese destinatario di immigrazione, è stato alla base della propaganda della Lega Nord, la quale, nonostante abbia fatto parte delle istituzioni politiche italiane per oltre due decadi, ha adottato una posizione populista e anti-costituzionale per sfruttare la paura della gente circa l’impatto dell’immigrazione sul mercato del lavoro in Italia. In questo modo è stata perpetuata la nozione fuorivante che l’Italia, una delle maggiori potenze economiche e militari del mondo, sia in qualche modo incapace di controllare i propri confini e di determinare il livello di immigrazione che il suo sistema capitalista richiede ad ogni dato momento. Come afferma Michael Shapiro: “A combination of political and economic factors are primarily implicated in creating flows of people from one to another global location […] They can be understood in terms of the demands of commercial producers and the collaboration of governments, which, in varying degrees, comply with these demands […] Anti-immigrant sentiments continue to obscure the structurally induced complicity between entrepreneurs and government with many politicians reliant on the ‘patronage’ of business interested in cheap nonunion labour” (Shapiro, 1999: 43, 45). L’analisi di Roberto Silvestri è particolarmente incisiva e più specifica: “In Italia, la piccola e media industria del nord e l’agricoltura del sud, senza lavoro extracomunitario, sarebbero a gambe all’aria, per non parlare del mercato di carne umana, con relativo ‘piacere’ a basso costo est e sud, e sgretolamento dei livelli di potere ‘simbolico’ e reale delle donne tutte” (Cincinelli, 2009: 12). Quindi,

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il recente contesto socio-economico è stato caratterizzato, da un lato, da un esodo incontrastato delle industrie italiane verso paesi dell’Europa dell’est, dove il costo del lavoro è più basso e poco sindacalizzato e, dall’altro, dall’aumento di immigrati provenienti da Africa, Asia ed Europa dell’est che ha prodotto l’espansione dell’“esercito industriale di riserva” e la depressione dei salari – come indicato nell’introduzione “Lavoro e alienazione nel cinema del XXI secolo” – a tutto beneficio di quegli imprenditori che non hanno potuto delocalizzare le loro attività. Di conseguenza, la classe lavoratrice italiana bianca che ha costantemente votato per la Lega al governo, ma che ora è alle prese con disoccupazione e povertà, forse dovrebbe chiedere a se stessa quali interessi siano stati protetti e che cosa abbia ottenuto in tal senso il Partito1. Nel riaffermare ciò che è stato delineato in “Un nuovo cinema politico italiano?”, l’introduzione generale a questo volume, sia all’interno di testi cinematografici che nella vita reale, gli immigrati e la nozione di migrazione costituiscono un ideologema, un punto di conflitto dove forze socio-politiche reazionarie collidono con forze più progressiste e rivoluzionarie: un microcosmo di conflitto di classe su larga scala. Di conseguenza, una visione del mondo opportunistica che cerca il capro espiatorio e lo sfruttamento degli immigrati incontrerà l’inesorabile opposizione delle forze che riconoscono i benefici della migrazione e dello scambio interculturale all’interno della società. Il cinema ha potenzialmente una grande funzione di costruttiva divulgazione all’interno di queste forze polarizzate: non solo per il suo ruolo nel sensibilizzare gli spettatori, rivelando loro le reti di soggiogamento che intrappolano gli immigrati e i rifugiati, ma anche per il suo importante ruolo – ancora una volta – nel contrastare l’astratto con il particolare, creando attraverso le sue storie un senso di individualità umana concreta, opposta al persistente allarmismo delle notizie di cronaca e al cinismo politico che circondano la questione della migrazione. Quest’ultimo aspetto fa riferimento allo studio di Graziella Parati laddove viene rivisitato il lavoro della filosofa Adriana Cavarero in un contesto di migrazione. Parati discute il modo in cui il lavoro culturale sulla migrazione crea un senso di “whoness”, “the unrepeatable individuality of a self that has little space in philosophy and finds its ideal location in narratives, in the process of telling a story” (Parati, 2005: 18). Ciò contrasta con il senso di “whatness”, generato da una prospettiva istituzionalizzata incentrata sullo status dell’immigrato, quale l’essere o no in possesso dei documenti, o sul suo valore economico per la società che lo ospita. Ad ogni modo, la rilevanza politica e il carattere progressista di un film dipendono dalla costruzione identitaria a cui viene sottoposta la figura dell’immigrato, come pure dal modo in cui il personaggio viene collocato in una narrazione. Mentre il destino degli immigrati è stato costantemente esaminato nel cinema italiano sin dai primi anni Novanta, alcuni film del nuovo millennio mettono in scena un ragguardevole senso di ansietà, mediante narrative che prendono una direzione sinistra una volta che l’immigrato oltrepassa la soglia di una casa borghese italiana, come avviene nel film di Francesco Munzi Il resto della notte (2008), nel quale 130

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gli eventi diventano incontrollabili dopo che una domestica rumena viene licenziata. Invece, nella trentina di film esaminati in questa introduzione, principalmente del nuovo millennio, si getta luce sulle diverse fasi dell’esperienza dell’immigrato, dal primo impatto con il territorio italiano in poi. In tal modo emergono concetti politicamente significativi, che vanno dall’alleanza tra il proletariato e sottoproletariato italiano e gli immigrati, alla denuncia delle mentalità e dei valori della provincia italiana. In ultima analisi, comunque, questa introduzione al cinema sulla migrazione echeggia la tesi presentata altrove in questo volume per cui, nonostante film individuali presentino critiche molto incisive alle istituzioni dello Stato ed alla loro legislazione, appare prematuro parlare di un cinema politico italiano del XXI secolo, fino a quando questi impulsi non si coaguleranno intorno ad una struttura esterna di opposizione politica più coordinata. I film che saranno discussi di seguito fanno parte sia del cinema sperimentale, di grande valore per il suo interessarsi ad aspetti inquietanti dell’esperienza del migrante che raramente vengono incorporati in lavori più commerciali, sia del cinema mainstream, dove certi aspetti – ma in nessun caso tutti – dell’interazione tra italiani ed immigrati sono alla base di molte narrative. Il modo in cui la migrazione viene rappresentata dai media e dalle fonti di informazione controllati politicamente, a cui si è già fatto riferimento in questo volume – in particolare la distillazione in immagini impressionanti ma riduttive di questioni geopolitiche complesse, nonchè di indescrivibili drammi umani – incapsula bene il problema di inquadrare queste questioni entro le tipiche narrative da novanta minuti del cinema mainstream. Un cinema che, configurandosi come intrattenimento commerciale, deve inevitabilmente privilegiare gli aspetti più traumatici e spettacolari dell’esperienza dell’immigrazione. Come conseguenza, questioni meno prominenti, ma che paradossalmente colpiscono un numero molto più grande di individui, tendono ad essere trascurate, ad esempio le difficoltà che la seconda generazione di immigrati ha nell’ottenere la cittadinanza italiana. Nel tentativo di stabilire una tassonomia del modo in cui il cinema europeo in generale ha trattato le varie fasi dell’esperienza di immigrazione, Yosefa Loshitzky (2010) ha proposto le seguenti categorie: il viaggio spesso rischioso verso l’Europa occidentale; l’accoglienza all’arrivo dell’immigrato e suo sfruttamento; alienazione dell’immigrato o sua integrazione nella società, quest’ultima in particolare a partire dalle seconde generazioni in poi. Nel contesto specifico del cinema italiano, e per gli scopi della presente introduzione, propongo di considerare il viaggio e l’arrivo come un’unica fase, in quanto sono relativamente pochi i film del nuovo millennio esaminati in questo particolare campione che contengono rappresentazioni di queste importanti fasi iniziali dell’esperienza migratoria. Dedico una sezione ai film che sono incentrati sugli stenti dei migranti e sui modi in cui le loro vite vengono mercificate dal Paese ospitante. La sezione successiva esplora le rappresentazioni filmiche della nascente interazione sociale, che prende forma quando l’immigrato riesce a soddisfare i bisogni economici primari; la sezione conclusiva esamina un altro significativo, seppur piccolo, 131

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gruppo di film, nei quali il coinvolgimento emotivo degli spettatori nel microlivello delle azioni dei personaggi viene ripetutamente spostato verso un più visibile macrolivello intellettuale che fa emergere il punto di vista del regista su questioni quali il multiculturalismo e la storia dell’emigrazione2.

La materializzazione dell’immigrato Durante un’intervista, quando è affiorata la questione delle rappresentazioni cinematografiche della migrazione contemporanea, il regista Giuliano Montaldo ha affermato: “Bisognerebbe partire dal loro paese di origine per capire perché vengono qui, bisogna partire dalla loro realtà […] Se lo spettatore vedesse al cinema le condizioni di vita di quello che è sulla barca, capirebbe di più” (Fantoni Minnella, 2004: 324). Questo volume sostiene che è imperativo per i film rintracciare e denunciare il complesso di fattori che compromette la vita degli individui; un processo che, seppur non arrivando a costringere le élites socio-economiche mondiali a rendere conto delle loro azioni, può almeno rendere di pubblico dominio questioni che devono essere seriamente analizzate. È comparativamente raro trovare film del XXI secolo che focalizzino sulle fasi della vita dell’immigrato relative alla sua esistenza prima del viaggio, al viaggio stesso e all’arrivo. A questo riguardo, il modo inaspettato in cui la figura del rifugiato o dell’immigrato per motivi economici si materializza all’interno di un film milita contro una comprensione maggiore da parte del pubblico delle forze che determinano l’emigrazione di massa. Le ragioni per queste assenze nella catena di causa ed effetto all’interno delle narrative sono molteplici; i deterrenti maggiori sono di natura economica, in quanto quei registi interessati ad includere nelle loro storie la fase anteriore al viaggio ed il viaggio, si troverebbero ad avere bisogno di finanziamenti per gli spostamenti logistici, per le riprese in loco, nonchè per il pagamento di un alto numero di comparse per le scene sulle imbarcazioni in mezzo all’oceano. Non secondari appaiono anche eventuali problemi di creatività, legati al bisogno di filmare gli arrivi via barca o treno in modo originale e coinvolgente. Si può ragionevolmente presumere che sarebbero pochi i registi che si sottoporrebbero a paragoni dall’esito facilmente sfavorevole con film iconici degli anni Novanta quali Lamerica (1994) di Gianni Amelio e La leggenda del pianista sull’oceano (1998) di Giuseppe Tornatore, dove figurano rappresentazioni epiche delle traversate migratorie. I viaggi via terra degli immigrati rivestirebbero anche una potente risonanza storica nel contesto del fenomeno migratorio interno – dal sud al nord – verificatosi nel XX secolo e ritratto più volte in film che vanno da Il cammino della speranza (1950) di Pietro Germi e Rocco e i suoi fratelli (1960) di Luchino Visconti a Così ridevano (1998) di Gianni Amelio. Tuttavia, film quali L’ospite segreto (2002) di Paolo Modugno hanno fornito rivelazioni in merito ai fattori che spingono il migrante lontano dalla propria terra. Marco Tullio Giordana, nel suo Quando sei nato non puoi più nasconderti (2005), fin dalle prime 132

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sequenze – nelle quali il giovane Sandro si trova alle prese con l’apparizione di un anziano africano fortemente a disagio nel contesto urbano – cerca di condurre una ricostruzione quasi marxista delle fasi che hanno portato al degrado fisico e mentale dell’immigrato. Significative in questo senso sono le sequenze che ritraggono il silenzio spaventato degli immigrati durante la traversata in mare, la loro paura di attirare l’attenzione degli individui senza scrupoli al comando delle barche. Immagini a cui fa seguito la descrizione visiva delle procedure disumanizzanti messe in atto al loro arrivo nei centri di identificazione. Qui i rifugiati, senza alcun riguardo ai legami familiari, vengono separati per genere, inviati alle docce e sottoposti al prelievo delle impronte digitali. A volte, è necessario andare oltre il cinema mainstream per catturare la fragilità e la mortalità dei migranti, come pure le tracce evanescenti del loro approdo sul suolo italiano, che qualche volta rappresenta il loro ultimo atto come esseri umani. Due cortometraggi di Carlo Michele Schirinzi usano approcci estetici opposti per rappresentare proprio quel momento. In Notturno stenopeico (2009) immagini fugaci di volti, ora degli affreschi del Diluvio Universale nella chiesa di Santa Caterina a Galatina nel leccese, ora di migranti veri, emergono da un fondo nero come la pece, la loro umanità individuale sommersa immediatamente dall’oscurità e dai suoni discordanti ed atoni della colonna sonora. Con Mammaliturchi! (2010) Schirinzi cattura, attraverso riprese mute degli interni di un ex centro di identificazione abbandonato, i postumi della prima esperienza in Italia degli immigrati, invitando gli spettatori a ricostruire l’impatto che tali ambienti clinici abbiano avuto sulla psiche già traumatizzata di un rifugiato. Una delle immagini fugaci in Notturno stenopeico mostra il cadavere rannicchiato di un migrante, uno sguardo atipico sulla realtà, visto che raramente si trascende l’approccio spersonalizzante, statistico e astratto usato dai media quando riportano il grado di mortalità sempre in aumento dei migranti durante le traversate. All’interno del cinema mainstream sembra che ci sia una riluttanza a far sì che lo spettatore si confronti con quei migranti i quali, nel tentativo di raggiungere ciò che percepiscono come un luogo di rifugio, trovano la morte. Le eccezioni includono Io, l’altro (2006) di Mohsen Melliti, nel quale il corpo esangue di una donna africana finisce nella rete di due pescatori – un film analizzato in questa sezione nel capitolo di Michela Ardizzoni – e Terraferma (2011) di Emanuele Crialese, nel quale viene ritratto il dilemma dei pescatori quando, alle prese con migranti in pericolo di annegare, sono combattuti tra il desiderio di salvarli ed il timore di trasgredire le severe leggi dello Stato in materia di assistenza ad immigrati clandestini. Nessun altro film ritrae lo scontro tra le nozioni del “whoness” e del “whatness” in maniera così drammatica, e – a differenza della riluttanza degli altri film a rendere la migrazione una questione di vita o di morte – esso viene qui distillato nella sua essenza critica, dato che il film segue il più politico degli impulsi e proietta i suoi sguardi oltre il suo mondo di finzione cinematografica verso i fattori responsabili della creazione di tali atrocità: “the juridical procedures and deployments of power” (Loshitzky, 2010: 136), 133

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che prendono anche la forma di accordi con Paesi Terzi per rimpatriare i rifugiati prima che raggiungano l’Italia3.

Sopravvivenza economica e sfruttamento Il cinema del nuovo millennio ha dedicato una copertura considerevole alla vulnerabilità economica degli immigrati, una condizione esacerbata da normative quali la legge Bossi-Fini del 2002, che collegava i visti di ingresso ai “labour contracts that, once expired, would automatically cause the visa to expire. Such a bill gave disproportionate power to employers who could then dictate the terms of contract renewals because the migrants would have no leverage in the negotiations” (Parati, 2005: 149). Fulvio Vassallo Paleologo descrive una inevitabile implicazione di tale norma sulla dignità della figura dell’immigrato “costretta a nascondersi se priva del documento giusto, abbandonata allo sfruttamento dei nuovi schiavisti, esclusa dall’accesso ai diritti fondamentali, come la famiglia, la salute, l’istruzione, la casa” (Cincinelli, 2009: 291). Ed ulteriori conseguenze socio-economiche sono delineate nel saggio di Patrizia Cammarata incluso in questa sezione. Film quali Cover Boy – l’ultima rivoluzione (2006) di Carmine Amoroso, ritraggono il modo in cui l’esistenza precaria di individui come il rumeno Ioan sia destinata allo sfruttamento, nonostante l’integrità morale dell’immigrato e il suo desiderio di guadagnarsi onestamente da vivere. Dopo aver cercato senza successo una stabilità economica lavorando come meccanico e lavavetri – un periodo in cui si rifiuta di ricorrere alla prostituzione – a Ioan viene offerto un lavoro da modello per una fotografa, Laura (Chiara Caselli), con la quale ha una storia. Ma successivamente Ioan è disgustato nello scoprire che l’immagine del suo corpo nudo è stata mercificata per pubblicizzare una casa di moda su un poster che reca il logo EXILE – WEAR THE REVOLUTION. Ioan ha vissuto la rivoluzione rumena contro Ceauşescu e patito l’uccisione del padre, per cui le sue esperienze di vita, insieme alla lotta di un’intera nazione per l’autodeterminazione, sono da lui viste completamente depoliticizzate ed estetizzate dall’Occidente, ridotte a un’immagine su un poster per vendere vestiti. Purtroppo l’istanza di denuncia che il film porta avanti è indebolita dal suo stesso operare un gratuito voyeurismo ed oggettificazione del personaggio di Ioan e del giovane attore sconosciuto che lo interpreta, Eduard Gabia. In termini di classe, qualsiasi sessualizzazione del debole economicamente, laddove esista uno status diverso tra le parti in questione, farà fatica ad essere percepita come progressista a prescindere che si tratti di realtà o finzione. Altri film hanno raffigurato l’efficienza con la quale organizzazioni criminali straniere operano sul territorio italiano, sfruttando i propri connazionali. Fra tutti, quelli di Daniele Vicari L’orizzonte degli eventi (2005) e di Francesco Munzi Saimir (2004); quest’ultimo è uno dei molti film che hanno evidenziato la mercificazione delle donne dell’est europeo, i cui destini vanno dall’essere spose ordinate per 134

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corrispondenza – una posizione rappresentata dalla materialistica Galja nel film di Carlo Mazzacurati La giusta distanza (2007) – all’inevitabile discesa di molte nel girone della prostituzione. Un meccanismo narrativo, questo, usato anche nel precedente film di Mazzacurati Vesna va veloce (1996) e che è riemerso regolarmente nei film del nuovo millennio, per esempio in A casa nostra (2006) di Francesca Comencini. Insieme con La sconosciuta (2006) di Giuseppe Tornatore, il film della Comencini identifica l’estrema mercificazione della donna: la maternità, ricostruendo la difficile vita di Bianca, una prostituta incinta che viene ridotta in coma irreversibile da una aggressione, e descrivendo i tentativi di un corrotto finanziere (Luca Zingaretti) per ottenere la custodia del nascituro. Nel contesto dei problemi socio-economici più grandi che affliggono l’Italia, la dura vita degli immigrati rappresentata sullo schermo è talvolta ridotta al livello di un incontro fugace che avviene quando questi incrociano le vite di personaggi italiani economicamente più forti, illuminando brevemente – nello stile neorealistico dei film del dopoguerra – il funzionamento della società ed i suoi cambiamenti. L’orizzonte degli eventi di Vicari configura proprio uno di questi incontri fortuiti. In Luce dei miei occhi (2001) di Giuseppe Piccioni, oltre al suo lavoro di autista per un usuraio locale, Antonio (Luigi Lo Cascio) si ritrova inaspettatamente con il compito di andare a riscuotere gli affitti dai lavoratori asiatici che vivono in condizioni sovraffollate e di trasportarli nei luoghi di lavoro in giro per la città. Un dramma umano allarmante, ma che tuttavia rappresenta solo un aspetto dell’immersione negli affari criminali dell’usuraio, che Antonio affronta nella speranza di attenuare i debiti contratti con lui da Maria (Sandra Ceccarelli), la donna con la quale Antonio spera di mettere su famiglia.

Alleanze multiculturali e rinnovamento della società Quando nei film del nuovo millennio sugli immigrati il centro narrativo si sposta dagli stenti alle loro esistenti (e potenziali) relazioni sociali con i nativi italiani, emergono alcune interessanti – sebbene contrastanti – prospettive. Si è argomentato in questo volume che una delle funzioni di qualsiasi film che si possa considerare ‘politico’ è quella di identificare punti di conflitto tra interessi conservatori ed egemonici e forze progressiste e di trasformazione sociale che cercano di rovesciare lo status quo. Si sostiene qui che un cinema politico del XXI secolo deve ristabilire la nozione di ‘classe’, tenendo presente che all’interno della storica dicotomia tra Capitale e Lavoro sezioni della borghesia si trovano ora in una fase di transizione, avendo perso ogni residuo vestigio di sicurezza del lavoro e prosperità al punto che esse stanno sperimentando la stessa vulnerabilità economica dei salariati e degli immigrati. I film politici devono ridefinire i confini ora sfocati tra i diversi interessi socio-economici. Alla luce dei criteri qui proposti, il cinema del nuovo millennio sulla migrazione dipinge un quadro variegato di relazioni in evoluzione tra gli immigrati e diverse 135

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sezioni della società italiana, identificando – nelle sue forme progressiste – nascenti collaborazioni ed alleanze tra gli immigrati e il proletariato e sottoproletariato italiano, ed evidenziando le qualità che gli immigrati possiedono. Inoltre alcuni film denunciano come la mentalità reazionaria prevalga nella provincia italiana, e come essa condizioni i rapporti tra gli immigrati e la piccola borghesia e classe media che abitano quei luoghi. La mentalità della classe media che emerge in certi film è significativa, dato che, come Lola Young suggerisce,“a cinematic context cannot be attributed exclusively to those directly involved in its production but should be analysed as part of a complex web of inter-related experiences, ideas, fantasies and unconscious expressions of desire, anxiety and fear that need to be located in their historical, political and social contexts” (Young, 1995: 175). Questo punto teorico, inizialmente centrato sul testo prima di muoversi analiticamente all’esterno, verso concreti fattori socio-economici (piuttosto che all’interno verso speculazioni psicoanalitiche), pone questioni significative quando viene applicato a narrative che esplorano l’attitudine borghese in tandem con esempi di comportamenti da parte degli immigrati, scenari che spesso risultano in quello che è stato definito come “incontro-scontro” (Fantoni Minnella, 2005: 105). Certi film evocano inavvertitamente le paure borghesi di una minaccia al loro status quo socio-economico posta dagli stranieri, quando questi agiscono autonomamente al di fuori dei parametri degli interessi egemonici dell’Europa occidentale. Conseguenze narrative preoccupanti emergono da contatti interculturali ravvicinati tra i borghesi italiani e l’etnicamente Altro. Molti immigrati arrivano nell’Europa occidentale colpiti da trauma, ed esempi cinematografici di queste situazioni sono il passato da omicida di Tobias, nel film di Silvio Soldini Brucio nel vento (2002); gli effetti su Shandurai dell’arresto di suo marito in L’assedio (1998) di Bernardo Bertolucci, dove l’agitazione mentale del personaggio contrasta con la calma dell’appartamento di Roma dove lavora; Irena, la traumatizzata madre surrogata trasformata in bambinaia in La sconosciuta; nonchè Fatima, la cameriera d’albergo in Valzer (2008) di Salvatore Maira, la cui fragilità mentale dovuta all’uccisione della sua famiglia in Palestina viene esacerbata dall’assalto gratuito di un uomo d’affari ospite dell’albergo, portandola al collasso nervoso. Questi personaggi sono spesso fonti di tensioni, ma anche quando i comportamenti degli immigrati non sono condizionati da traumi evidenti, il loro contatto ravvicinato con borghesi italiani conduce il più delle volte a risultati inquietanti. Questo accade fuori dal cinema mainstream, come nel film di Filippo Ticozzi Dall’altra parte della strada (2009), dove l’insegnante Marina viene aggredita dal fidanzato geloso per aver preso a cuore la situazione di uno studente arabo. Ma anche nel cinema mainstream, come esemplificato dai film di prima generazione sugli immigrati, per esempio Pummarò (1990) di Michele Placido, dove figura un attacco razzista ai personaggi di Kwaku ed Eleonora. Pummarò ben configura il modo in cui frequentemente gli eventi sfuggono al controllo una volta che l’immigrato oltrepassa la soglia di una casa borghese, e questa nozione è ribadita in Quando sei nato non puoi più nasconderti dal furto operato dai giovani immigrati rumeni 136

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nella casa della famiglia italiana che li ha accolti; dal duro trattamento della piccola Tea da parte della bambinaia disturbata in La sconosciuta; dalla morte di Mara a seguito del suo legame con Hassan in La giusta distanza; dal tentativo di furto nella villa di una famiglia borghese, dopo il licenziamento della domestica rumena in Il resto della notte; e dalla crisi del matrimonio di una coppia italiana in Bianco e nero (2008) di Cristina Comencini – analizzato in questa sezione da William Hope e Mafunda Lucia Ndongala – quando nasce una storia d’amore adultera tra Nadine, una donna senegalese, e Carlo, un tecnico informatico, dopo che la coppia italiana ha conosciuto ed invitato Nadine a casa propria. Se da un lato questi film pongono questioni legittime sulle limitazioni poste agli immigrati nelle loro interazioni con la società italiana e conseguentemente sulla loro possibilità di integrazione, dall’altro un cinema progressista e di denuncia non dovrebbe cadere nella trappola di limitarsi a reiterare le strumentalizzazioni degli immigrati operate dai media italiani controllati politicamente, perchè così facendo finisce col rinforzare le paure di parte della popolazione. Mentre c’è del vero nell’affermare che la classe lavoratrice non è riuscita a “renew itself in some of its old bastions by incorporating immigrant groups and passing on traditions” (O’Shaughnessy, 2007: 77-78), a causa di gruppi come la Lega Nord che, attraverso le sue politiche, è riuscita ad erigere una barriera tra le classi lavoratrici bianche e le comunità di immigrati – due gruppi che sono ora oppressi allo stesso modo dal punto di vista socio-economico nell’Italia del XXI secolo – è pur vero che ci sono stati esempi di collaborazione di classe tra questi gruppi sia nella realtà che sullo schermo. Non sorprende che siano stati i gruppi politici con la concezione di classe più chiara e marxista ad aver organizzato queste iniziative, quali la campagna elettorale per le elezioni a sindaco di Verona che ha visto un immigrato africano, Ibrahim Barry, ottenere quasi mille voti (Ricci, 2012). Questa nascente solidarietà è stata rispecchiata anche sullo schermo per la crescente consapevolezza da parte di alcuni registi del modo in cui lavoratori, disoccupati, immigrati e le componenti più fragili della società, si trovano a collaborare sempre di più contro l’indifferenza o l’oppressione delle istituzioni. Nel film A cavallo della tigre (2002) di Carlo Mazzacurati lo sviluppo dell’amicizia tra Guido e Fathi, un turco imprigionato per un crimine di passione, si rivela essere il rapporto più autentico nella vita dell’italiano; una simile alleanza emerge tra Otello, un benzinaio, e le persone a carico di Bianca, una prostituta rumena, in A casa nostra – in cui la formazione di una famiglia non convenzionale rispecchia le economie del nuovo millennio che rendono problematiche le nozioni tradizionali di matrimonio, mutui e genitorialità. Tuttavia, in Io e l’altro di Melliti, le relazioni tra i pescatori Yousef e Giuseppe illustrano come il bigottismo latente possa facilmente essere infiammato dai media, e la narrativa attira insidiosamente lo spettatore dentro la stessa rete di pregiudizio latente che avvolge Giuseppe. La trama deliberatamente connota Yousef come inaffidabile e sinistro, attraverso il suo cambiare tifo per le squadre di calcio, la sua sfacciata disonestà durante la partita a carte, e la sua occasionale incapacità con le reti. Un’impressione rafforzata dal modo in cui Melliti 137

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usa la cinepresa che, per esempio, rivela inaspettatamente Yousef origliare Giuseppe mentre questi parla attraverso la radio di bordo. Altri film quali Cover Boy, Il resto della notte, Terraferma e Valzer esplorano questa fragile ma irresistibile solidarietà tra le classi lavoratrici italiane e gli immigrati. Il cinema recente offre numerosi esempi di come le qualità degli immigrati diano un nuovo senso alle esistenze degli europei occidentali di cui incrociano le vite. Scenari che frequentemente rivelano anche che gli immigrati appaiono meglio equipaggiati per le sfide del capitalismo del XXI secolo, in termini di capacità e di resistenza in generale. Un ufficiale navale insicuro trae beneficio dal tempo speso in compagnia del migrante Hadì, recuperato dall’oceano in L’ospite segreto, e il solitario Kinsky acquista nuova fiducia in se stesso attraverso il suo coinvolgimento nei tentativi di liberare il marito di Shandurai nel film di Bertolucci L’assedio. Pane e tulipani di Silvio Soldini è un esempio affascinante del concetto indagato da Parati (2005, 120-121) secondo il quale “identity is constituted by the plural glances of others looking at me: it is an identity rooted in contextual and reciprocal relationships”. Nel frequentare un colto cameriere islandese che vive e lavora a Venezia, un mondo lontanissimo dalla sua monotona esistenza di casalinga, Rosalba (Licia Maglietta) riscopre tutta una serie di passioni preziose per lei, come la musica, che erano state soppresse nel suo essere totalmente presa da un matrimonio tedioso. Anche il documentario di Agostino Ferrente L’orchestra di Piazza Vittorio (2006) è un pezzo di cinema progressista, che esplora la simbiosi creativa tra italiani e immigrati nella formazione di un’orchestra multietnica, nonostante la differenza abissale delle loro condizioni di vita mostrata in alcune sequenze. Riguardo alle abilità attraverso le quali gli immigrati sono tradizionalmente valutati dagli agenti di frontiera, i criteri sono gli stessi a cui anche gli italiani sono stati soggetti. Esperienze umilianti che registi come Emanuele Crialese, che in Nuovomondo (2006) ha ritratto la migrazione degli italiani verso l’America dei primi anni del Novecento, hanno tentato di reintrodurre nella memoria collettiva. A questo proposito Yosefa Loshitzky nota, nella sua analisi dell’implicazione economica degli asili politici, che la logica dell’asilo è “inseparable from the logic of global capitalism” (Loshitzky, 2010: 73). Gli immigrati sono valutati in base al loro valore di mercificazione umana e alla loro utilità per l’economia del Paese ospitante. Sia che essi entrino in un Paese legalmente o siano spinti nella clandestinità perchè i loro permessi di soggiorno sono scaduti, gli immigrati si ritrovano spesso in una sorta di limbo sociale, dove pregiudizi razziali o stili di vita in isolamento impediscono loro di potersi integrare come vorrebbero, nonostante la loro intelligenza e capacità. I protagonisti dei film di Bertolucci L’assedio, Comencini Bianco e nero, Amoroso Cover Boy e Melliti Io e l’altro sono tutti affetti da tali problemi in certa misura. Invece, riguardo alle abilità degli immigrati che riescono ad integrarsi, il film di Giordana Quando sei nato non puoi più nasconderti presenta una scena significativa, centrata sul senso di inferiorità provato da alcuni europei quando paragonano le loro abilità e la loro determinazione con quelle 138

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degli immigrati. Quando Sandro cade dalla barca di suo padre, si verifica un allineamento narrativo e prospettico con la consapevolezza del ragazzo. Le riprese sott’acqua mostrano Sandro che mentre sta annegando visualizza il suo compagno di scuola africano Samuel nell’atto di nuotare dietro di lui e superarlo: precedentemente le doti di nuotatore di Samuel erano state lodate più delle sue dal loro insegnante. Ancora molti fattori continuano ad ostacolare l’interazione tra immigrati e nativi italiani, ed alcuni dei film del nuovo millennio hanno denunciato, tra questi, la mentalità prevalente nei luoghi, come le province italiane, nei quali gli immigrati raggiungono una sufficiente stabilità economica. Benchè questa posizione permetta loro di contemplare la possibilità di relazioni interpersonali più arricchenti, la grettezza mentale dei locali fa sì che essa rimanga un’aspirazione appagata raramente. Questa situazione emerge in modo straordinario ne La giusta distanza; in Io sono Li (2011) di Andrea Segre ed anche ne Il vento fa il suo giro (2005) di Giorgio Diritti. Quest’ultimo, analizzato da Sabine Schrader in questa sezione, presenta Philippe, un ex insegnante, mentre cerca invano di stabilirsi in un remoto villaggio delle alpi italiane, nonostante porti quel tipo di vitalità e spirito di iniziativa essenziale per la sopravvivenza di quelle stesse comunità.

Identità, Comunità e Storia in contesti post-migrazione Una critica che può essere legittimamente rivolta in pari misura a tutte le forme di cinema che cercano di indagare il fenomeno della migrazione in Italia, riguarda il loro essere immerse nell’immediatezza emozionale degli eventi che colpiscono i personaggi, senza inquadrare le storie in contesti storico-geografici più ampi ed indurre così negli spettatori un grado di riflessione intellettuale sulle questioni post-migrazione. Come per esempio “the complexity of looking different but being familiar with the Western culture in which one is raised” (Parati, 2005: 16). Tali approcci sono interamente compatibili con il cinema commerciale e possono prendere la forma di meccanismi narrativi che spostano temporaneamente l’attenzione dello spettatore dall’immediatezza della storia verso una più distaccata, duplice percezione, vissuta dall’immigrato in merito ai contrastanti stili di vita del primo e terzo mondo. Questo effetto si verifica in Quando sei nato non puoi più nasconderti, in una sequenza girata nella fabbrica del padre di Sandro, nel momento in cui la domanda retorica del padre, se cioè il suo successo economico non significhi che egli meriti una nuova Porsche, incontra l’annuire educato e imbarazzato dei molti lavoratori extracomunitari che stanno mangiando in mensa. Lo stesso avviene ne La giusta distanza, quando alla giustificazione di Mara per la sua partenza verso il sud America di voler svolgere un lavoro umanitario – un esercizio borghese per eccellenza per sentirsi con la coscienza a posto – fa riscontro la risentita osservazione di Hassan su come lui abbia dovuto lasciare il suo paese a undici anni per potere garantire un reddito alla sua famiglia. 139

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Storie intere, come quella de L’assedio, sono basate sulla duplice consapevolezza dell’immigrato circa gli aspetti triviali dell’esistenza occidentale rispetto agli scenari di vita o di morte in essere nel suo Paese di origine. Infine il cinema commerciale ha esplorato con sensibilità questioni relative allo sdoppiamento di identità del trasmigrante, e Lezioni di volo (2007) di Francesca Archibugi ne è un esempio efficace. Uno dei giovani protagonisti, Marco, un ragazzo nato in India e cresciuto a Roma dai suoi genitori adottivi italiani, viaggia attraverso il suo Paese d’origine. Archibugi immerge il personaggio nella povertà opprimente delle metropoli indiane e lo guida in un rito di passaggio alternativo, cioè non legato ad esperienze sessuali, ma all’acquisizione di un senso più profondo del suo retaggio etnico, attraverso cui la sua identità di adulto si completa. Altri film hanno invece generato con successo una consapevolezza storica dell’Italia, e della Sicilia in particolare, come terra di confine tra Europa e Africa, un territorio attraversato dai migranti per secoli. Un contributo notevole a questo particolare aspetto è arrivato da registi non italiani, nello specifico Isaac Julien con il suo lavoro sperimentale e multimediale Western Union – Small Boats (2007) e Mohammed Soudani con Waalo Fendo (1997), entrambi discussi nel saggio di Shelleen Greene che chiude il volume. Tra i registi italiani è da citare Roberta Torre con il suo Sud Side Stori (2000): una spumeggiante fusione di generi commerciali quali il musical e la commedia, perfettamente appropriati al trattamento consapevolmente kitsch di Palermo come crogiolo di razze. Il film, basato su una rielaborazione in salsa multietnica della storia di Romeo e Giulietta, crea in modo intelligente fusioni di culture a vari livelli, fino al desiderio del protagonista, Toni, di cantare come Elvis Presley – emblematica incarnazione di confluenze musicali bianche e nere. Il registro giocoso del film non impedisce tuttavia di attirare continuamente l’attenzione del pubblico su un senso di storia collettiva, una storia caratterizzata dalla mai interrotta interazione tra gli italiani e le altre nazionalità ed etnicità. Mentre gli altri film esaminati in questa introduzione offrono penetrazioni rivelatorie negli aspetti dell’esperienza contemporanea della migrazione, non si può non notare l’importanza di opere cinematografiche che – contro i desideri delle élites italiane sia politiche che economiche – offrono un prezioso contesto storico-sociale che mette in evidenza le tradizioni della migrazione e dell’integrazione all’interno del territorio italiano.

Note 1

2

Indagini sull’uso improprio dei fondi ai partiti, basati sul dossier intitolato “The Family”, hanno rivelato chi esattamente ha beneficiato dagli anni al potere della Lega Nord.Vedere ad esempio l’articolo “Caso Belsito: ‘Denaro ai Bossi e a Calderoli’ ‘Renzo ha amici peggio di Cosentino’ ” in Il Fatto Quotidiano, 4 aprile 2012. Vedere Torben Grodal, Moving Pictures (Oxford: Oxford University Press, 1997, 279-280) per un’analisi delle macro-strutture (macro-frames) come filtri intellettuali che condizio140

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nano il modo in cui lo spettatore vive gli eventi ritratti nei film. Vedere la valutazione di Amnesty International dell’accordo siglato nel 2012 tra Italia e Libia e delle sue nefaste implicazioni sul trattamento dei rifugiati in fuga dalle persecuzioni dei loro paesi, come ad esempio l’Eritrea. http://www.amnesty.it/accordo-italia-libia-inmateria-di-immigrazione-mette-a-rischio-i-diritti-umani Ultimo accesso: ottobre 2012.

Bibliografia Cincinelli, S. (2009) I migranti nel cinema italiano, Roma: Kappa. Fantoni Minnella, M. (2004) Non riconciliati: politica e società nel cinema italiano dal neorealismo a oggi, Torino: UTET libreria. Grodal, T. (1997) Moving Pictures, Oxford: Oxford University Press. Loshitzky,Y. (2010) Screening Strangers: Migration and Diaspora in Contemporary European Cinema, Bloomington and Indianapolis: Indiana University Press. O’Shaughnessy, M. (2007) The New Face of Political Cinema: Commitment in French Film Since 1995, New York, Oxford: Berghahn. Parati, G. (2005) Migration Italy: The Art of Talking Back in a Destination Culture, Toronto: University of Toronto Press. Redazione Il Fatto Quotidiano. (2012) “Caso Belsito: ‘Denaro ai Bossi e a Calderoli’ ‘Renzo ha amici peggio di Cosentino’ ”, Il Fatto Quotidiano online, 4 aprile 2012. http://www. ilfattoquotidiano.it/2012/04/04/lega-atti-dindagine-belsito-200mila-euro-figlibossi/202393/ Ultimo accesso, ottobre 2012. Ricci, F. (2012) “Elezioni amministrative. Primo bilancio”, Partito di Alternativa Comunista – Progetto Comunista online, 8 maggio 2012. http://www.alternativacomunista.it/ content/view/1637/51/ Ultimo accesso, novembre 2012. Shapiro, M.J. (1999) Cinematic Political Thought: Narrating Race, Nation and Gender, New York, New York University Press. Silvestri, R. (2009) Prefazione a I migranti nel cinema italiano, a cura di Cincinelli, S., Roma: Kappa, 11-13. Vassallo Paleologo, F. (2009) Postfazione a I migranti nel cinema italiano, a cura di Cincinelli S., Roma: Kappa, 291-293. Young, L. (1996) Fear of the Dark: Race, Gender and Sexuality in the Cinema, London and New York: Routledge.

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Patrizia Cammarata

Nessuna ‘giusta distanza’ fra immigrati e nativi. La lotta degli immigrati che ‘non vogliono nascondersi’

P

otremmo chiamarla la ‘giusta distanza’, come il titolo del film di Carlo Mazzacurati1. Una ‘giusta distanza’ che nel film si riferiva a quella che il giovane Giovanni non aveva saputo usare nel suo lavoro di giornalista, a causa del coinvolgimento personale rispetto alla morte di Mara, ma che noi riferiamo, invece, alla situazione di apartheid nella quale vivono gli immigrati in Italia, ‘distanti’ dalla vita dei nativi. Una distanza ritenuta ‘giusta’ per le necessità di divisione della classe operaia e delle masse italiane sfruttate a vantaggio del padronato: è stata messa una ‘giusta distanza’ fra la vita dei lavoratori immigrati in Italia e la vita del resto della classe lavoratrice nativa. Una ‘giusta distanza’ funzionale al sistema capitalistico e alla demagogia di partiti come la Lega Nord2, che ha costruito la sua fortuna elettorale sulla paura del diverso. Una ‘giusta distanza’ basata su discriminazioni e leggi razziste. In Italia sono state attuate leggi sull’immigrazione a favore dei padroni, come ad esempio il ‘contratto di soggiorno’, che stabilisce la necessità per l’immigrato di stipulare un contratto di lavoro al fine di poter ottenere il rilascio o il rinnovo del permesso di soggiorno. Si è trattato di un vero e proprio ricatto trasformato in legge. La legge “Turco-Napolitano” (legge 6 marzo 1998 n.40, varata dal governo di centrosinistra), è stata la base della successiva legge “Bossi-Fini” (legge 30 luglio 2002 n. 189, varata dal governo di centrodestra) e ha inaugurato la serie delle ‘leggi-ricatto’, leggi che hanno reso sempre più difficile il soggiorno degli immigrati in Italia, congelando i salari e peggiorando le condizioni di lavoro, a scapito della sicurezza e dei diritti. Il cosiddetto ‘pacchetto sicurezza’ ha definitivamente criminalizzato i lavoratori irregolari. In molte città d’Italia, i lavoratori immigrati vivono in una condizione di oggettivo apartheid; basti pensare ai numerosi casi di Rom che hanno perduto e continuano a perdere la vita in seguito alle politiche razziali, a causa della mancata protezione dal freddo e dalle intemperie, come nel caso dei piccoli Raul 142

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Mircea, Fernando, Patrizia e Sebastian (Pomella, 2011)3, a causa di malattie, di stenti, delle tragiche condizioni igienico-sanitarie, della violenza e delle incursioni razziali di gruppi neo-fascisti e neo-nazisti. Una ‘giusta distanza’ quella che esiste fra lavoratori nativi ed immigrati che – come ci ricordano le testimonianze di Moustapha Wagne e Tahar Sellami, due immigrati addetti all’assistenza sociale nel territorio di Verona, le cui testimonianze formano la base di questo capitolo4 – è destinata ad accorciarsi a causa della crisi economica internazionale e dei provvedimenti dei vari governi. Ad esempio, il Governo Monti, nel 2011, ha approvato una durissima manovra finanziaria che ha aumentato le tasse dirette (“Irpef ”: imposta sulle persone fisiche) e indirette (“Iva”: imposta sul valore aggiunto, tassa che incide sui consumi); ha approvato un decreto sulle liberalizzazioni che, lungi dal favorire un calo di prezzi e tariffe, permette la creazione di nuovi monopoli, condannando all’impoverimento ampi strati della piccola borghesia e ha approvato una riforma delle pensioni che da un giorno all’altro ha allungato in modo considerevole gli anni di lavoro. Con la riforma sulle pensioni “Monti-Fornero” infatti, un’intera generazione di uomini e donne che aveva cominciato a lavorare giovanissima, si è vista scippare il diritto alla pensione e concluderà la propria esistenza lavorativa alle soglie dei 70 anni; una generazione che in sostanza non conoscerà il significato di una vita i cui tempi non siano scanditi dai turni di lavoro; una generazione che è costretta a consegnare la sua intera esistenza ai profitti del capitale, mentre, nel frattempo, l’impoverimento si estende. Sulla base della sua personale esperienza nel cercare di aiutare la comunità di immigrati a Verona, Moustapha Wagne evidenzia l’impatto che le misure adottate dal governo hanno avuto non solo sui migranti, ma anche su altri settori vulnerabili della società italiana: Una condizione di vita caratterizzata da sfratti, rischio di incorrere in reati e sanzioni, licenziamenti, impossibilità di pagare le bollette, di curarsi, di pagare la scuola per i propri figli, sta diventando la quotidianità di un numero sempre maggiore di persone, anche italiane. Qualche tempo fa la forbice che calcolava la differenza di condizione di vita fra immigrati e italiani indicava una differenza del 40%; ora si sta riducendo progressivamente e la stima che io faccio è che siamo arrivati al 20%. La condizione materiale del proletariato nativo sta avvicinandosi progressivamente alla condizione del proletariato immigrato: una vita fatta di sfruttamento, incertezza, povertà e, spesso, disperazione. Prevedo che ci sarà una grande esplosione sociale, anche in Italia. Padronato e governo ne sono consapevoli, loro lo sanno, sono consapevoli del loro fallimento e per questo piangono5. Al momento di quest’esplosione bisognerà essere preparati. Per questo è importante ed urgente la costruzione del sindacato di classe, che possa contribuire alla crescita e all’organizzazione di lotte reali, e del partito rivoluzionario che possa organizzare una risposta e 143

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una prospettiva in senso socialista e internazionale, nel momento in cui quest’esplosione sociale avverrà. Queste parole sono confermate dalle proteste che anche i lavoratori italiani hanno attuato. Come quella di Napoli, dove i lavoratori della metro il 15 febbraio 2012 sono saliti sulla gru per manifestare la propria disperazione. Infatti, dopo l’inaugurazione della linea 6 della metropolitana di Napoli – quella che collega piazza Mergellina a piazza Municipio – è arrivata la notizia del licenziamento di 88 operai dipendenti della Riviera Scar (capofila Ansaldo), che la ditta manda a casa perché il Comune non paga: l’appalto vale 160 milioni. Una protesta che ci ricorda quella dei due ragazzi, un marocchino e un egiziano, entrambi senza permesso di soggiorno, che il 10 settembre 2011 salirono sulla torre termica di piazzale Selinunte nella zona San Siro di Milano per protestare contro la ‘sanatoria truffa’ (legge 102/09) e più in generale contro la vita di paura, precarietà e sfruttamento di migliaia d’immigrati in Italia. Nel 2010 c’era stata un’iniziativa simile che aveva avuto una grande visibilità mediatica: il 30 ottobre 2010 sei lavoratori immigrati erano saliti sopra una gru in Via San Faustino a Brescia e vi erano rimasti per 17 giorni. A Milano, pochi giorni dopo, il 5 novembre, cinque lavoratori immigrati salirono sulla vecchia torre dell’ex ‘Carlo Erba’, nel ‘Maciachini Center’ di via Imbonati (Cammarata, 2011b). Queste iniziative avevano lo scopo di denunciare la cosiddetta ‘sanatoria truffa’ che fece intascare migliaia di euro allo Stato e ad intermediari, mentre gli immigrati rimanevano senza permesso di soggiorno e di conseguenza senza diritti, dovendo accettare qualsiasi condizione lavorativa pur di sopravvivere. Per comprendere le ragioni degli immigrati sarà bene ripercorrere brevemente la genesi della ‘sanatoria truffa’. Nel 2009 il governo varò una sanatoria per gli stranieri che lavoravano come colf o badanti, che non mancò di suscitare immediate polemiche per la sua valenza discriminante rispetto ad altri settori lavorativi. Non potevano accedere alla sanatoria solo coloro i quali fossero stati condannati per pericolosità sociale. Potevano invece accedere gli immigrati colpiti da un provvedimento di espulsione e su questo aspetto si andò anche oltre. Infatti, il 29 settembre del 2009 sul sito del Ministero dell’Interno vi era la seguente precisazione: “Si può fare la richiesta per un lavoratore che ha avuto un decreto di espulsione però non lo ha rispettato ed è rimasto in Italia anche se successivamente è stato trovato di nuovo dalle forze dell’ordine e condannato” (Gubbini, 2010). Ciò spinse molti immigrati che si trovavano in quella situazione a presentare la domanda di regolarizzazione che richiedeva il pagamento di 500 euro. Esborso che fu pagato da loro o dai loro datori di lavoro. In tutto i soldi incassati dallo Stato grazie alla sanatoria ammontarono a 147 milioni di euro. In un mese, dal 1 al 30 settembre del 2009, furono presentate 294.742 domande. Ma poi vennero dettate nuove regole, dopo aver incassato i soldi pagati dagli immigrati, che di fatto invalidarono le domande presentate da coloro che non avevano rispettato il secondo provvedimento di 144

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espulsione. Infatti una circolare del capo della polizia dichiarava per questi soggetti l’impossibilità di fare richiesta del permesso di soggiorno, poichè il non rispetto del provvedimento di espulsione era un reato punibile con la reclusione da uno a quattro anni. Un contrordine che inaspettatamente vanificava tutti gli sforzi di quanti desideravano acquisire una posizione regolare. Contro questa circolare si schierarono diverse realtà associative e sindacali che al capo della polizia chiesero di rivedere le nuove disposizioni, denunciando che nella circolare non solo l’interpretazione della norma era particolarmente restrittiva, ma anche che l’accusa di presenza illegale sul suolo italiano era stata accorpata con altre concernenti più gravi reati penali. Come risposta nessuna retromarcia dello Stato, che si guardò bene, però, dal restituire i soldi già presi. Una truffa, per l’appunto, che ha provocato disperazioni e proteste. È necessario ricordare che durante la protesta di Brescia, davanti alla disperazione delle lotte e delle richieste degli immigrati, nonostante il suo ruolo di segretaria della Cgil, la più grande organizzazione dei lavoratori in Italia, Susanna Camusso si è limitata a fare “appello al Ministro dell’Interno Maroni affinché i migranti sulla gru siano ascoltati” (Berizzi, 2010). Il 29 marzo 2012 a Verona, ancora un segno della disperazione sociale: un giovane operaio edile di origine marocchina si è dato fuoco davanti a palazzo Barberi, sede del municipio ed è stato ricoverato con gravi ustioni alla testa e alle gambe all’ospedale Borgo Trento. Un gesto estremo dovuto all’insostenibile situazione economica, dopo quattro mesi di mancato pagamento del salario.

Gli immigrati che non si nascondono e lottano Tahar Sellami segnala come la povertà socio-economica sia causa anche di altre conseguenze molto gravi: “Ci sono tanti immigrati che vivono in Italia e che si ammalano spesso a causa del disagio, perché si sentono respinti e perché hanno paura. Fra gli immigrati i forti disagi materiali causano un’altissima sofferenza psichica, gli immigrati si sentono sradicati e soli. Anche gli esperti dicono che esiste un vero intreccio tra rischio psicopatologico e rischio infettivo”6. Moustapha Wagne e Tahar Sellami hanno combattuto il disagio e la paura con la lotta. “Noi pensiamo che la nostra battaglia vada fatta a tempo pieno: siamo dei militanti a tempo pieno. Mentre facciamo colazione, a casa, con gli amici, abbiamo sempre un pensiero, noi pensiamo sempre alla battaglia”, dice Wagne. Il Coordinamento Migranti di Verona ha attuato le sue battaglie nella città del sindaco leghista Tosi, anche se, afferma Sellami, “Anche con Paolo Zanotto, ex sindaco di centrosinistra, non era facile, avevamo gli stessi problemi, molte difficoltà, moltissimi problemi di sfratti. Anche con lui abbiamo dovuto intraprendere la stessa dura lotta che poi abbiamo combattuto con Flavio Tosi”. Chiedo loro di indicarmi, oltre ai problemi di cui si parla con più frequenza come il lavoro, il permesso di soggiorno, il diritto alla casa, quale altro bisogno assilla gli immigrati in 145

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Italia. “Il diritto di voto”, risponde Wagne. “Dobbiamo fare una battaglia per il diritto di voto, perché questa è una questione niente affatto simbolica che trascina con sé tanti altri diritti e anche il rispetto stesso dell’immigrato. Come pure il diritto alla cittadinanza. I bambini nati in Italia, ad esempio, non hanno la cittadinanza italiana”7. Proprio perché la Cgil non difende e non organizza gli immigrati come a parole dice di voler fare, Moustapha Wagne, già funzionario della Cgil nel settore internazionale ed immigrazione, dalla Cgil se ne è andato. Ecco come descrive il momento in cui ha deciso di portare a uno stadio più avanti la sua personale responsabilità: Prima del 2003, dopo essermi dimesso dalla Cgil, ho aperto un ufficio come libero professionista, facevo assistenza agli immigrati ed ero anche vicepresidente di una cooperativa. Un giorno è entrata nel mio ufficio una delegazione di lavoratori immigrati che mi ha posto una sola, semplice domanda chiedendomi “Vuoi fare da solo o vuoi collegarti alla lotta popolare?”. Io ho chiesto loro una settimana di tempo per pensarci. A quel tempo guadagnavo bene ed avevo appena firmato con la Confartigianato di Bergamo un accordo per avviare alcuni corsi per imprenditori immigrati. Ho deciso di fare una scelta di classe: ho lasciato la cooperativa, la Confartigianato, e mi sono unito alla lotta dei lavoratori. Wagne ha deciso, quindi, di non nascondersi, di affrontare insieme alla sua gente la difficile vita: una vita a cui non puoi sfuggire evitando di fare le tue scelte, come ricorda il titolo del film di Marco Tullio Giordana, Quando sei nato non puoi più nasconderti8. Wagne ha deciso di non sottrarsi alla lotta contro un sistema che opprime soprattutto le fasce più deboli della popolazione; una lotta contro il razzismo, contro i soprusi, attraverso l’informazione e le mobilitazioni di cui lui e Tahar Sellami sono attivi protagonisti. E fra le mobilitazioni, molte hanno avuto come obiettivo la denuncia del ruolo dei Centri di identificazione ed espulsione (CIE), prima denominati Centri di permanenza temporanea (CPT). Questi centri furono creati a seguito della legge Turco-Napolitano (L40/1998 art. 12) per custodire gli immigrati “sottoposti a provvedimenti di espulsione e o di respingimento con accompagnamento coattivo alla frontiera” nei casi in cui non fosse stato possibile eseguire subito il provvedimento. In essi le persone vengono trattenute per accertarne l’identità, in attesa di un possibile provvedimento di espulsione, cioè a dire in attesa di una espulsione certa. Questa loro configurazione si spiega con la volontà politica che informa tutto il complesso di leggi sull’immigrazione varato negli ultimi anni. La creazione dei CIE, infatti, rappresenta un fatto nuovo nell’ordinamento di giustizia italiano, in quanto per la prima volta si istituisce una detenzione preventiva di individui non accusati di reati penali. La violazione delle più elementari regole umanitarie, il sovraffollamento, i soprusi che sono avvenuti all’interno dei Centri sono stati denunciati ripetutamente, come sono 146

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state denunciate le violazioni del diritto d’asilo e il trattenimento illegale di minori non accompagnati. Per la sua collaborazione nella gestione dei CIE la stessa Croce Rossa Italiana è stata contestata. A tutte le altre organizzazioni, parlamentari e non, è stato reso difficilissimo l’accesso ai Centri, emblematico in tal senso l’autorizzazione costantemente negata ad Amnesty International, come pure ai giornalisti. Difficoltà notevoli incontrano anche gli avvocati; difficoltà tese ad ostacolare prima la nomina degli stessi da parte degli immigrati, e poi l’effettivo svolgimento dell’assistenza legale. Secondo Amnesty International (2005: 20, 23): C’è stato un certo numero di denunce di abusi di matrice razzista, aggressioni fisiche e uso eccessivo della forza da parte degli agenti di pubblica sicurezza e da parte del personale di sorveglianza, in particolare durante proteste e in seguito a tentativi di evasione.Vari procedimenti penali sono in corso laddove i detenuti sono stati in grado di sporgere querela […] Raramente c’è chiarezza fra i detenuti su come e a chi dovrebbe essere rivolta una denuncia, o una preoccupazione riguardo al trattamento dei compagni di prigionia da parte o del personale o degli agenti di pubblica sicurezza; la maggior parte di loro non avrebbe pieno accesso a meccanismi di denuncia né a consulenze indipendenti. Talvolta, ad alcuni detenuti che intendevano denunciare qualcosa è stata offerta la possibilità di accedere al sistema di giustizia penale da parte di avvocati, Ong o parlamentari in visita, ma la maggior parte delle presunte vittime sarebbe riluttante a sporgere denunce per abusi mentre si trova ancora nei Centri, per paura di ritorsioni. Tahar Sellami precisa: “Come Coordinamento Migranti di Verona ci siamo sempre battuti anche contro i CIE, prima chiamati CPT, e abbiamo sempre denunciato questi Centri e cosa rappresentano. Purtroppo assistiamo spesso all’ipocrisia di organizzazioni politiche di sinistra che denunciano ed organizzano iniziative pubbliche contro i Centri, che vengono alle nostre iniziative sventolando la loro bandiera, ma che quando erano al governo hanno votato a favore della loro istituzione”9. E Moustapha Wagne commenta con graffiante ironia: “Ci ammazzano di notte e vengono a farci le condoglianze di giorno”. Mentre nel Mediterraneo continuano a morire annegati donne e bambini che nei viaggi della disperazione tentano di arrivare in Italia, continuano ad essere rinchiusi nei CIE sia gli immigrati irregolari neoarrivati, sia i richiedenti asilo, sia quelli col permesso di soggiorno scaduto. I CIE sono delle galere chiamati Centri, delle galere nelle quali sono rinchiusi degli innocenti, colpevoli spesso solo di fuggire da fame e guerra. Siccome la detenzione non è dovuta a condanne penali, il linguaggio usato è ipocrita e non corrispondente alla realtà dei fatti: gli immigrati nei CIE non sono chiamati ‘detenuti’ ma ‘ospiti’. In diversi CIE non vi è nessuna attività ricreativa e la struttura è controllata all’esterno dalla Polizia di Stato, che si avvale anche dell’ausilio 147

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di altre forze dell’ordine (carabinieri, esercito, guardia di finanza). Se l’impunità all’interno delle galere per gli abusi ed i pestaggi nei confronti dei detenuti è appurata, è spaventoso immaginare, o ascoltare le testimonianze come quelle pronunciate dalla nigeriana Joy Omoruy10, di cosa possa avvenire in questi luoghi che non dispongono nemmeno dello status giuridico di un carcere. Sellami continua: La repressione, il razzismo, gli abusi contro gli immigrati sono innumerevoli. Sui lavoratori immigrati si continua a scatenare l’ingordigia del capitalismo in crisi, che, con la nuova tassa sul permesso di soggiorno11, aggiunge un altro anello alla lunga catena di sfruttamento subita dagli immigrati che rappresentano la fascia più debole ed esposta della classe proletaria. Una catena che comprende la detenzione nei CIE, lo sfruttamento nei posti di lavoro, la sottrazione dei figli. Infatti la realtà nascosta degli immigrati è fatta di tante storie, spesso tristissime, e Sellami e Wagne ci possono parlare di affetti strappati, di bambini tolti ai loro genitori da istituzioni che, anziché scegliere di aiutare la famiglia in difficoltà, danno l’impressione di scegliere a tavolino la via della rottura, l’allontanamento dei bambini. A Verona, quello che sta facendo nascere dubbi e sospetti sull’operato dei Servizi Sociali è soprattutto il modo con cui si arriva alle adozioni definitive. Il sospetto è alimentato dalla consapevolezza della forte richiesta di bambini da adottare, da parte di coppie italiane che non riescono a procreare, e dal senso d’inferiorità in cui cadono spesso le persone in difficoltà in una realtà ostile per gli immigrati. Una realtà in cui è troppo facile raccontare ‘mezze verità’, sfruttare la difficoltà di linguaggio, la non conoscenza di tutti i diritti, la mancanza di contatti che suggeriscano a chi affidarsi per farsi tutelare. E il sospetto è alimentato dal numero di casi che, anche per il forte dramma personale che rappresentano, non sempre sono denunciati o socializzati e quindi messi in correlazione ad altri (Cammarata, 2011a)12. Moustapha Wagne ricorda come il 2011 si sia concluso con una fiammata di violenza razzista contro gli immigrati: dalla devastazione contro il campo rom della Continassa di Torino, scatenato in base ad accuse rivelatesi in seguito totalmente false, agli omicidi di due giovani senegalesi a Firenze: Il 13 dicembre, a Firenze, un militante di estrema destra ha ucciso Samb Madou e Diop Mor, due lavoratori senegalesi, mentre vendevano la loro merce al mercato, ferendone gravemente altri tre, Moustapha Dieng, Sougou Mor e Mbenghe Cheike. Samb e Diop erano arrivati in Italia per aiutare i familiari e sono ritornati in Senegal con la bara. L’escalation razzista non è solo da ricondurre all’opera di un ‘esaltato’, un ‘folle’ di estrema destra che, dopo aver attuato la carneficina, si è suicidato prima di essere arrestato. Ricordiamo che solo alcuni giorni fa un campo rom è stato devastato a Torino da squadre di 148

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razzisti. Dobbiamo essere consapevoli che è il capitalismo che contamina l’atmosfera di tutto il mondo con l’odio nazionale e razziale. Per respingere le leggi razziste e xenofobe dobbiamo denunciare le vere cause del pregiudizio razziale e di tutte le forme e manifestazioni dell’arroganza nazionale ed è necessario organizzare l’unità delle lotte dei lavoratori nativi ed immigrati. I tanti episodi di arroganza nazionale, i tanti drammi causati dalle leggi razziste applicate in Italia, avrebbero bisogno di essere raccontati di più e con più forza. È necessario che registi ed attori, che artisti coraggiosi e alla ricerca della verità guardino alla vita degli immigrati fino in fondo. Sarebbe necessario che l’arte si facesse portavoce e strumento per raccontare queste vite, queste sofferenze, che l’arte aiutasse la denuncia, che l’arte parlasse con la voce che più le è consona: quella della verità e della rivoluzione. Anche questo è urgente, necessario, e quindi possibile.

Note 1 2

3

4

5

6

La giusta distanza è un film del 2007 diretto da Carlo Mazzacurati. Il film, drammatico, parla dell’incontro tra Hassan (un meccanico tunisino) e Mara (giovane maestra italiana). Lega Nord, partito che rappresenta gli interessi della piccola e media impresa, e ha un grande radicamento nell’Italia del Nord, dove è riconosciuta anche dalla classe operaia come ‘partito del popolo’, occupando lo spazio lasciato vuoto da decenni da una sinistra governista in sfacelo. La Lega Nord aizza gli italiani del nord, considerati onesti e lavoratori, contro gli italiani del sud, considerati assistiti dal governo centrale e da ‘Roma ladrona’, nonostante molti dei suoi parlamentari siedano comodamente negli scranni romani. I leghisti vantano un’inesistente fedeltà ‘al popolo’. La Lega Nord soffia sul fuoco del disagio sociale provocato dalle migliaia di licenziamenti che avvengono nelle città industrializzate e spinge gli operai italiani ad accusare gli immigrati di sottrarre posti di lavoro. Raul Mircea, Fernando, Patrizia e Sebastian, i quattro bambini rom morti la sera del 6 febbraio 2011 a Roma nell’incendio del riparo di fortuna in cui abitavano, in un accampamento nei pressi della via Appia. Moustapha Wagne e Tahar Sellami sono rispettivamente segretario generale e vicepresidente del “Coordinamento Migranti di Verona”, entrambi membri della Segreteria del “Comitato Immigrati in Italia” ed iscritti al P.d.A.C. (Partito di Alternativa Comunista, sezione italiana della L.i.t.-C.i. Lega Internazionale dei Lavoratori-Quarta Internazionale). Moustapha Wagne è, inoltre, componente del Consiglio nazionale del P.d.A.C. e responsabile nazionale della Cub–Immigrazione (sindacato Cub-Confederazione Unitaria di Base). L’intervista a Wagne e Sellami si è svolta a Verona il 5 marzo 2012. Il riferimento è a quanto accaduto durante la conferenza stampa del 4 dicembre 2011 quando Elsa Fornero, Ministro del Lavoro del Governo Monti, è scoppiata a piangere mentre illustrava i provvedimenti del governo, non riuscendo a terminare la frase che si riferiva ai sacrifici chiesti sul versante delle pensioni. Questa affermazione di Sellami è confermata dal rapporto ISS (Istituto Superiore di Sanità) 149

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diffuso nel febbraio 2012 che rileva lo scarso livello di salute degli immigrati in Italia. Da questo rapporto si evince che oltre 7 immigrati su 10 nel nostro Paese vivono in condizioni di grave disagio e più del 10% soffre di disturbi psicologici. www.immigrazione.aduc.it/ .../scarso+livello+salute+immigrati+rapporto+iss Ultimo accesso, novembre 2012. 7 La cittadinanza italiana è oggi basata sullo ‘ius sanguinis’, il diritto di sangue, e non prevede lo ‘ius soli’, il diritto che si acquisisce per nascita sul suolo italiano indipendentemente dalla cittadinanza dei genitori. 8 Quando sei nato non puoi più nasconderti è un film del 2005 diretto da Marco Tullio Giordana ed è tratto dall’omonimo romanzo di Maria Pace. Il titolo del film è la traduzione di un’espressione africana (Ebar Soraya iti dogon in mandingo significa Quando sei nato non puoi più nasconderti), espressione sentita dal protagonista Sandro da un migrante incontrato nella sua città. Espressione che vuole significare che la stessa nascita segna il passaggio ad una vita difficile che devi affrontare con le tue forze e a cui non puoi sfuggire nascondendoti, evitando di fare le tue scelte. 9 Sellami si riferisce al fatto che tutta la sinistra governista ha votato a favore della legge Turco-Napolitano che ha istituito questi centri che sono stati da subito dei centri di detenzione, subendo poi un inasprimento con il governo di centro-destra (legge Bossi-Fini) e trasformandosi in CIE. Anche il partito della Rifondazione Comunista e dei Verdi, come anche Nichi Vendola, l’attuale leader di Sel (Sinistra Ecologia e Libertà) o l’attuale sindaco di Milano Giuliano Pisapia, hanno contribuito con il voto alla loro approvazione. Infatti, nella “Votazione Nominale del DDL n. 3240 – Disciplina dell’immigrazione e norme sulla condizione dello straniero” (in relazione alla creazione dei C.p.t.) seduta del 19 novembre 1997 presieduta da Violante Luciano, questo è stato l’esito della votazione di quei partiti a cui si riferisce Sellami: Rifondazione Comunista – hanno votato a favore Boghetta Ugo, Bonato Francesco, De Cesaris Walter, Giordano Francesco, Lenti Maria, Malentacchi Giorgio, Mantovani Ramon, Nardini Maria Celeste, Pisapia Giuliano, Rossi Edo, Valpiana Tiziana,Vendola Nichi. Per i Verdi hanno votato a favore Boato Marco, Cento Paolo, De Benetti Lino, Galletti Paolo, Gardiol Giorgio, Leccese Vito, Procacci Annamaria, Scalia Massimo, Turroni Sauro. 10 Pochi giorni dopo l’entrata in vigore del pacchetto sicurezza, che prolunga la detenzione, nei CIE d’Italia dilaga la protesta. A Milano, nel CIE di via Corelli, si scatena una rivolta, repressa in modo brutale. Joy Omoruy, nigeriana di 28 anni, insieme ad altri 22 tra donne e uomini, è arrestata. Alla prima udienza del processo, che finirà con la condanna a sei mesi di tutti i manifestanti del CIE, Joy Omoruy denuncia di aver subito abusi sessuali da parte di un ispettore di polizia del CIE di via Corelli, nell’agosto 2009. Durante il processo molte testimonianze si susseguirono sulle violenze e i soprusi all’interno dei CIE. L’ispettore fu assolto in seguito con formula piena. 11 Questa tassa è decisa in una norma apparsa sulla Gazzetta Ufficiale del 31 dicembre 2011 e impone agli immigrati un contributo variabile tra gli 80 e i 200 euro che si aggiungono ai costi amministrativi della pratica. 12 Alcuni di questi casi sono stati riportati nel reportage e nelle interviste a cura di Patrizia Cammarata “Figli strappati: storie di bambini rubati agli immigrati – le adozioni sospette nel Comune di Verona” (periodico Progetto Comunista, estate 2011).

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Bibliografia Addabbo, F. (2010) “Cie di Bari, class action per chiusura immediata: ‘Accertata violazione dei diritti dell’uomo’” Il Quotidiano Italiano online. http://bari.ilquotidianoitaliano.it/ attualita/2012/03/news/cie-di-bari-class-action-per-chiusura-immediata-accertataviolazione-dei-diritti-delluomo-8377.html/ Ultimo accesso: settembre 2012. Amnesty International. (2005) “Italia: presenza temporanea, diritti permanenti. Il trattamento dei cittadini stranieri detenuti nei “centri di permanenza temporanea e assistenza” http://www.amnesty.eu/static/documents/Italy_detention_report_Italian_final.pdf Ultimo accesso: agosto 2012. Berizzi, P. (2010) “A Brescia cariche, appelli e arresti: tensione per gli immigrati sulla gru”. La Repubblica online. http://milano.repubblica.it/cronaca/2010/11/08/news/immigrati_blitz8866653/ Ultimo accesso: settembre 2012. Cammarata, P. (2011a) “Figli strappati: storie di bambini rubati agli immigrati – le adozioni sospette nel Comune di Verona”, Progetto Comunista n. 31, 13. http://www.alternativacomunista.it/dmdocuments/giornali%20progetto/pc_n31_estate_2 011_low.pdf Ultimo accesso: ottobre 2012. Cammarata, P. (2011b) “La lotta degli immigrati non si ferma!”, Progetto Comunista n. 32, 5. http://www.alternativacomunista.it/dmdocuments/giornali%20progetto/pc_n32_ottobre _2011_low.pdf Ultimo accesso: ottobre 2012. Gubbini, C. (2010) “L’ordine del Viminale: espulsi, niente permesso”. Miccia Corta – una storia di Prima linea online. http://www.micciacorta.it/archivio/articolo.php?id_news=2163 Ultimo accesso: settembre 2012. Pomella, A. (2011) “L’indifferenza che brucia”, Il Fatto Quotidiano online. http://www. ilfattoquotidiano.it/2011/02/07/morire-un-giorno-a-roma/90623/ Ultimo accesso: settembre 2012.

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Michela Ardizzoni

Nuove narrative sull’Altro: arabi e musulmani nel cinema italiano contemporaneo

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li eventi dell’11 settembre 2001 hanno rinforzato la posizione della differenza (etnica, culturale, religiosa) al centro dei processi identificatori sia in ambienti rurali che in quelli urbani, riuscendo così a fomentare ampi dibattiti sull’incompatibilità culturale e animando ansie, già pre-esistenti nella società italiana, sul potenziale scontro di civiltà discusso da Samuel Huntington all’inizio degli anni Novanta (Huntington, 1993). La tesi portata avanti da Huntington negli ultimi tre decenni sostiene che le differenze fra le varie civiltà, e in particolar modo fra le civiltà nord-occidentali e quelle sud-orientali, sono talmente intrinseche nella natura di ogni società da impedire qualsiasi forma di fusione, mescolanza, o anche solo armonizzazione delle diverse culture. Nell’era della globalizzazione la presa di posizione di Huntington ha riscontrato un notevole successo nelle ideologie neoconservatrici, suscitando allo stesso tempo numerosi ed importanti interventi da parte di intellettuali che hanno più volte respinto la visione omogeneizzante di questa tesi, offrendo invece alternative socioculturali più idonee a rappresentare la società globale del ventunesimo secolo (Amartya Sen e Edward Saïd, fra gli altri). L’incertezza e la fluidità culturale incentivate dai flussi migratori, dai cambiamenti linguistici che vedono una crescente presenza di anglicismi, insieme ad una quotidianità caratterizzata da numerosi incontri con l’Altro, hanno contribuito all’indebolimento dei margini ideologici e metaforici delle nazioni (Appadurai, 2006). Come sostiene, in modo elegante e persuasivo, Arjun Appadurai in Fear of Small Numbers, questo stato di incertezza che contraddistingue la società contemporanea crea non tanto l’huntingtoniano scontro di civiltà quanto piuttosto una civiltà di scontri in cui la logica nazionalistica e populistica dei governi, basata sul principio dell’esclusività (ed inevitabile superiorità), fomenta scontri culturali che spesso sfociano in conflitti locali o regionali. Questo diventa particolarmente evidente nei paesi dell’Europa occidentale, dove la co-abitazione con i cittadini musulmani ha, per anni, anche prima dell’11 152

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settembre, dato origine a scontri urbani e tensioni interculturali. L’Italia non è rimasta immune da tali invettive; infatti, dalla fine del 2001, nelle immagini della maggior parte dei mass media figuravano storie sulla criminalità degli immigrati, sulle differenze irreconciliabili e sulla mancanza di integrazione da parte dei cittadini musulmani. Come ricorda Ottavia Schmidt di Friedberg: After September 11, graffiti against Islam and Muslims in Italian cities have replaced those on politics or soccer. In bookshops the translation of Huntington’s work on the clash of civilisations is sold out, while studies on the Arab world are selling well. Classics on Islam are dug out and transferred from the highest bookshelves to the window displays, while studies quickly thrown together are popping out everywhere. In bars and on TV exotic words like ‘jihad’ and ‘mullah’ have become common language. Nell’Italia del nuovo millennio, il discorso pubblico, in particolare quello imperniato sui dibattiti televisivi e radiofonici e sulla carta stampata, rimane dominato da una visione stretta e limitata e da una logica manichea che affronta le questioni sulla differenza culturale seguendo un modello intransigente e orientalistico. Tale approccio del Noi vs. Loro (Us vs. Them) fu reso più accettabile, e quindi meno controverso, da alcuni avvenimenti che riempirono le testate giornalistiche negli anni duemila. Qui, basta citarne due. Il primo evento di notevole importanza nell’ambito di questa discussione fu la pubblicazione del libro di Oriana Fallaci La rabbia e l’orgoglio (2006). Iniziato come un articolo sollecitato dal Corriere della Sera per avere una visione intima ed italiana dell’11 settembre (la Fallaci abitava al centro di Manhattan, poco distante dalle torri gemelle del World Trade Center), questo scritto si è successivamente sviluppato in un libro di grande successo che ha fatto discutere critici e lettori in varie parti del mondo a causa delle idee forti, dirompenti, provocatorie sull’Islam, che viene così definito: “[q]uella Montagna che da millequattrocento anni non si muove, non esce dagli abissi della sua cecità. Non apre le porte alle conquiste della civiltà, non vuol saperne di libertà e giustizia e democrazia e progresso” (Fallaci, 2006). In questo testo, la Fallaci assimila lo scontro di civiltà (e di religioni) e ammonisce il pubblico contro ciò che viene da lei considerato una tragedia imminente: la propagazione dell’Islam. Non capite o non volete capire che se non ci si oppone, se non ci si difende, se non si combatte, la Jihad vincerà. E distruggerà il mondo che bene o male siamo riusciti a costruire, a cambiare, a migliorare, a rendere un po’ più intelligente cioè meno bigotto o addirittura non bigotto. E con quello distruggerà la nostra cultura, la nostra arte, la nostra scienza, la nostra morale, i nostri valori, i nostri piaceri… Non vi rendete conto che gli Usama Bin Laden si ritengono autorizzati a uccidere voi e i vostri bambini perché bevete il vino 153

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o la birra, perché non portate la barba lunga o il chador, perché andate al teatro e al cinema, perché ascoltate la musica e cantate le canzonette, perché ballate nelle discoteche o a casa vostra, perché guardate la televisione, perché portate la minigonna o i calzoncini corti, perché al mare o in piscina state ignudi o quasi ignudi? (Fallaci, 2006). Come si può facilmente dedurre dal brano riportato qui sopra, la visione sul mondo islamico è caratterizzata da uno sguardo omogeneizzante sull’Altro, che collima con il Male, l’arretratezza e la naturale incapacità di funzionare nel mondo moderno occidentale. Il secondo evento italiano che svolse un ruolo assai importante nel discorso pubblico e mediatico sull’Islam fu la conversione al cattolicesimo di un noto giornalista italiano di origini egiziane, Magdi (Cristiano) Allam. Vicedirettore del Corriere della Sera, nel 2008 Allam annunciò la sua conversione al cattolicesimo e venne battezzato dal Papa il giorno di Pasqua. In varie parti del mondo, la notizia fece scalpore come una delle più note conversioni di un musulmano al cristianesimo, come attestano i titoli di alcune testate giornalistiche: “Pope baptizes prominent Italian Muslim” (Washington Post), “L’ex musulmano battezzato dal Papa accusa l’Islam di violenza” (Agence France Presse), “Il Papa battezza un giornalista musulmano” (Die Welt). Nell’ambito italiano, invece, la conversione di Allam assunse un tono leggermente diverso sia per la popolarità del giornalista, una presenza fissa nelle trasmissioni televisive post-11 settembre, sia per le dichiarazioni schiette e controverse dello stesso Allam, che così giustificò la sua decisione con una lettera pubblicata dal Corriere della Sera: Ho così dovuto prendere atto che, al di là […] del fenomeno degli estremisti e del terrorismo islamico a livello mondiale, la radice del male è insita in un islam che è fisiologicamente violento e storicamente conflittuale […] la mia mente si è affrancata dall’oscurantismo di un’ideologia che legittima la menzogna e la dissimulazione, la morte violenta che induce all’omicidio e al suicidio, la cieca sottomissione e la tirannia, permettendomi di aderire all’autentica religione della Verità, della Vita e della Libertà. (Allam, 2008) Come lo scritto della Fallaci, anche la posizione di Allam è incentrata su un discorso di differenze assolute ed irreconciliabili che pongono la religione musulmana al centro di questi scontri ideologici e raggruppano tutti i praticanti musulmani attorno alla stessa ideologia violenta ed estremista che ha portato agli attacchi dell’11 settembre. Ciò che manca da queste prospettive sull’Islam che hanno dominato il discorso mediatico italiano negli anni duemila è una concezione sfumata, aggiornata e meno appiattente dell’Altro, una concezione che rimetta in discussione anche l’identità nazionale ed il ruolo dell’Io italiano nell’era della globalizzazione. 154

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L’obiettivo dell’analisi che segue è di esaminare la rappresentazione cinematografica del rapporto tra musulmani e non musulmani in Italia, cercando di valutare se (e in quale modo) questa rappresentazione si differenzi dalle immagini e dal discorso televisivi e giornalistici.Tramite l’analisi di due film, Io, l’altro e La giusta distanza, questo capitolo si propone di riflettere sui seguenti interrogativi: riesce il cinema italiano contemporaneo ad offrire spunti per una visione alternativa dell’Altro? I mezzi e gli strumenti cinematografici permettono di affrontare l’Alterità in modo più approfondito, cogliendo le sfumature negate dai mass media? Io, l’altro è un film del 2007 diretto da Mohsen Melliti, un autore e regista di origini tunisine, che si trova in Italia dal 1989. Questo lungometraggio, che rappresenta il debutto cinematografico di Melliti, è ambientato al centro del Mediterraneo, su un peschereccio che rappresenta la mancanza di fissità e la fluidità dei rapporti sociali e delle identità. La macchina da presa esamina il rapporto di amicizia tra due pescatori, il siciliano Giuseppe e l’omonimo collega tunisino Yousef, amicizia che viene messa alla prova quando la radio annuncia la scomparsa (e conseguente ricerca da parte delle forze dell’ordine) di un terrorista islamico responsabile degli attentati in Spagna. Il caso di omonimia tra il pescatore tunisino ed il terrorista ricercato sfocia in una serie di incomprensioni e fraintendimenti destinati a sconvolgere, per sempre, la longeva amicizia tra i due uomini. La questione dell’identità è indubbiamente al centro del discorso presentato in questo film, in cui, già dal titolo, si percepisce la mancanza di barriere e confini netti tra i protagonisti. La fratellanza che anima il rapporto tra Giuseppe e Yousef viene indebolita soltanto dalla eccessiva amplificazione delle posizioni anti-arabe nei media occidentali. Come sostiene Àine O’Healy nella sua analisi del Mediterraneo nel cinema italiano contemporaneo: Io, l’altro draws attention to the potential affinities between populations of different Mediterranean shores, and suggests that these affinities are being thwarted or negated by ideological forces originating elsewhere. It also implies that anti-Arab political discourses in the West are amplified and ‘naturalized’ by the power and reach of contemporary media. Thus, from the film’s perspective, far from a matter of insurmountable cultural differences, the tensions and disagreements that arise between ‘brothers’ from different Mediterranean lands are brought into being by the politically charged sensationalism favored by popular media sources. (2010: 11) Il secondo film preso in esame è La giusta distanza (2007) di Carlo Mazzacurati, un veterano del cinema italiano contemporaneo, abituato a rappresentare, sfidandola, la provincia italiana nel secondo millennio 1. In questo film, è la provincia veneta a fare da sfondo alle vicende di Mara, una giovane insegnante appena trasferitasi in paese, Giovanni, un aspirante giornalista presso la testata locale, e Hassan, un meccanico tunisino residente in Italia da parecchi anni e, apparentemente, ben integrato nella 155

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società alquanto chiusa di Concadalbero. Dopo una breve relazione con Hassan, Mara viene uccisa e l’accusa, veloce e senza prove, cade sul meccanico musulmano, che sembra rappresentare il giusto alibi per l’intera comunità. Professatosi sempre al di fuori dei fatti, Hassan si suicida in prigione, non prima, però, di aver lasciato un biglietto in cui riafferma, ancora una volta, la sua innocenza. Il denouement avviene quando Giovanni, non convinto della sentenza per Hassan, riesce ad affrontare l’indagine mantenendo ‘la giusta distanza’ tra il suo Io giornalistico e il suo interesse per Mara. Nel momento in cui le prove portano a Guido, il giovane autista dell’autobus, come il violentatore e killer di Mara, la compattezza della comunità di Concadalbero viene infranta e gli stereotipi verso gli stranieri (sia di origine musulmana – come Hassan – sia italiani di un’altra regione, come la toscana Mara) rivelano la bieca paura dell’Altro che caratterizza vari spazi della provincia italiana. Le indagini che conducono al vero assassino destabilizzano la superficiale tranquillità ed omogeneità di un paese del nord-est italiano, che si era chiaramente accontentato dell’accusa di Hassan, senza richiedere ulteriori prove accusatorie. Agli occhi dei cittadini di Concadalbero, l’identificazione del criminale con il musulmano Hassan rientrava in un copione ben conosciuto e, quindi, ben accetto, che raffigurava l’Altro come il capro espiatorio. In un’intervista con il magazine Cult Frame, Mazzacurati ribadisce la necessità di un film che metta in discussione la realtà italiana contemporanea, ponendo interrogativi interessanti sull’identità dei suoi protagonisti: La mia speranza ogni volta che giro un film è quella di riuscire a coniugare una narrazione classica con tutto quello che assorbo dalla realtà come una spugna.Voglio abbinare una dimensione classica all’esistenza vera. Certo, quello che si racconta è quello che si vede tutti i giorni. È un ragazzo di città che vuole diventare giornalista, una giovane che arriva dalla città per fare la maestra ma che il suo sogno è di fare la maestra in una favela con tutte anche le sue illusioni da ragazza. E poi anche un giovane uomo tunisino, un personaggio che ho veramente incontrato, molto lontano dal cliché dell’immigrato molto arrabbiato e disperato, ma piuttosto una persona riservata e molto equilibrata. Ecco, per me questa è la realtà. Ma volevo anche allontanarmi da quella ‘verità’ che ci propinano i media, la tv o la fiction e persino i telegiornali che tentano di creare degli eroi positivi o negativi, ma affidandoci alla quotidianità senza veramente essere interessati ad essa. (Roumeliotis, 2007). Quello che emerge dalla rappresentazione del rapporto tra italiani e musulmani in Io, l’altro e La giusta distanza sono due temi fondamentali, che propongo di esaminare nella seconda parte del capitolo: il primo è il tema dell’isolamento – fisico, psicologico, culturale – dei protagonisti, una strategia narrativa e visiva adottata da Melliti e Mazzacurati per commentare i cambiamenti socio-culturali dell’Italia contemporanea; 156

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il secondo tema è la critica rivolta ai mass media e all’approccio allarmistico che viene spesso adottato per rappresentare l’Altro. Il leitmotiv dell’isolamento, e conseguente solitudine, è, in entrambi i film, collegato all’uso dello spazio nelle inquadrature e diviene un elemento centrale della trama. Lo spazio ampio delle acque mediterranee e della pianura padana così come gli spazi angusti del peschereccio e del minuscolo paesino di Concadalbero sono simbolicamente usati come metafora del rapporto tra identità complesse, fluttuanti ed innegabilmente precarie. Come osservano Aitken e Zonn nel loro studio sulla geografia del cinema, “The descriptive and narrative rhythm of film works continually to transform place once more into space as landscapes are decentered to accommodate action and spectacle. It seems, then, that there is in film a significant tension between the place in film and the space of film. There is, however, a way in which this tension is transcended by the animation of landscape as part of the narration […] Place becomes spectacle, a signifier of the film’s subject, a metaphor for the state of mind of the protagonist” (1994: 17). Il rapporto tra l’uso dello spazio e la caratterizzazione dei protagonisti appare evidente nella prima parte di Io, l’altro, in cui la colonna sonora di Louis Siciliano accompagna, dolcemente, le immagini del Mediterraneo al cui centro – visivo, ma anche concettuale – viene situato il peschereccio. Una scena in particolare sembra conferire all’imbarcazione lo stesso valore patriottico che viene generalmente associato alla ‘casa’ (come ‘home’, piuttosto che ‘house’). La scena dell’amicizia tra Giuseppe e Yousef inizia con una melodia dai ritmi e toni che rimandano alle coste mediterranee e che riesce ad inquadrare l’immagine del peschereccio in mezzo al mare. In queste immagini, si percepisce chiaramente il ruolo di questo mare come il terzo vero e proprio protagonista del film di Melliti. È il Mediterraneo, infatti, a fare da sfondo geografico, ma anche culturale e metaforico, a questa amicizia così forte quanto problematica. Per oltre un minuto, lo spettatore viene proiettato all’interno di questa abitazione ondeggiante, in cui i protagonisti si dividono i compiti di una normale convivenza (il bucato, la cura del peschereccio, cucinare, ecc.), ma in cui riescono anche a creare un’atmosfera di convivialità, che li vede farsi scherzi a vicenda, giocare a carte e sfogliare riviste pornografiche. In queste immagini, le inquadrature fisse, i campi medio-lunghi per riprendere il posto della barca in mezzo al Mediterraneo, assieme ai piani americani e ai primi piani dei protagonisti, ci permettono di cogliere l’ampiezza di vedute – l’immensità del Mediterraneo e la liberalità ideologica dei due pescatori – e l’intimità del loro rapporto di amicizia, in cui la comunicazione avviene tramite poche parole o anche solo uno sguardo. Nelle scene iniziali, il rapporto tra Giuseppe e Yousef viene caratterizzato da un’amicizia di lunga durata, che si estende anche alla famiglia siciliana di Giuseppe, non priva, però di momenti di sottile tensione tra i due pescatori: nonostante l’evidente affetto verso Yousef, Giuseppe rimane sempre conscio delle differenze etno-culturali che lo separano dal collega tunisino e che, occasionalmente, usa per schernirlo. 157

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In queste scene, l’isolamento dei protagonisti, entrambi emarginati nella società italiana, assume una connotazione assolutamente positiva: la natura poetica del Mediterraneo, calmo e soleggiato, lo sfondo musicale che ondeggia seguendo il ritmo dei flutti, e le risate complici dei due amici contribuiscono a fare del peschereccio, isolato al centro del Mediterraneo, un terreno neutro al di là di qualsiasi tipo di categorizzazione imposto dalla società contemporanea. In questo senso, e come si vedrà nelle scene successive, è proprio grazie all’isolamento che tale ‘oasi’ riesce ad esistere, anche se per una durata alquanto breve. Infatti, non appena Giuseppe e Yousef rientrano in contatto con la terraferma, tramite le notizie trasmesse alla radio, l’atmosfera di serena complicità e di assoluta libertà in mezzo al mare cessa di esistere quasi repentinamente. L’anonima voce radiofonica rivela il possibile caso di omonimia tra Yousef ed il terrorista islamico e questo servizio di pochi minuti è sufficiente a fare tremare (e forse crollare?) le fondamenta di una amicizia pluridecennale. In queste scene, la macchina da presa si sofferma sugli spazi angusti ed asfissianti all’interno del peschereccio; in particolare, il primo piano del profilo di Giuseppe, mentre cerca, freneticamente e concitatamente, di mettersi in contatto con i colleghi in Sicilia, rivela la mancanza di libertà in questo frangente: con un’inquadratura centrale fissa, la macchina da presa sottolinea la mancanza di spazio per Giuseppe, che riesce appena a muoversi fisicamente (la sua testa sfiora quasi il soffitto del peschereccio e l’apertura dietro di lui è piccola e stretta) ed è, allo stesso tempo, incapace di trovare qualsiasi tipo di sfogo e conforto dalla terraferma. Il panico suscitato dalle ultime notizie sul terrorismo islamico viene sottolineato dal cambiamento della colonna sonora: brani dai toni sinistri ed inquietanti punteggiano i movimenti della macchina da presa, il cui uso di primissimi piani ed inquadrature molto strette sottolinea la fondamentale importanza di tutti i movimenti e le espressioni dei pescatori. Certi spostamenti e gesti finora considerati banali vengono ora trasformati in dettagli essenziali per sciogliere l’enigma che coinvolge l’ignaro Yousef. In questa scena, della durata di ben quattro minuti, assistiamo a varie forme di isolamento. Giuseppe si sente isolato in mezzo ad un mare non più amico e confidente, ma trappola da cui la fuga sembra impossibile. Le immagini del Mediterraneo vengono qui limitate ai brevi lembi di mare che fanno da cornice al nefasto peschereccio: l’ampiezza delle visioni precedenti è stata ridotta ad alcuni scorci che sembrano soffocare i personaggi all’interno dell’imbarcazione. In questa scena, si assiste ad una preponderanza di immagini d’interno al cui centro figura quasi esclusivamente Giuseppe: mentre cerca di contattare terra, seduto sul letto mentre decifra un sospetto foglio di giornale che ha trovato nella tasca di Yousef, oppure seduto a contemplare la situazione ed avvolto in una nube di fumo, che rende l’atmosfera ancora più fosca. L’apice dell’isolamento, fisico e metaforico, avviene alla fine di questa scena, quando Giuseppe ordina a Yousef di scendere in ghiacciaia per controllarne il funzionamento. Questa richiesta si rivela immediatamente un pretesto da parte di Giuseppe per riuscire a rinchiudere l’amico (ormai diventato l’Altro agli occhi del 158

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siciliano) nell’unico spazio isolato e ‘sicuro’ del peschereccio. Lo spazio delineato in Io, l’altro rappresenta una forma di identità simbolica che tende a riflettere le lotte interne dei personaggi e mette in dubbio linee di appartenenza ritenute, fino a quel momento, indissolubili ed affidabili. Il confine tra l’Io e l’Altro, tra Insider ed Outsider, tra Verità e Menzogna cessa di esistere agli occhi dei protagonisti e degli spettatori: le identità che parevano inscindibili ed irremovibili vengono ribaltate e rimesse in gioco tramite un uso penetrante della macchina da presa, che tende ad alternare i punti di vista di Giuseppe e Yousef. Come afferma Melliti in una delle numerose interviste rilasciate dopo l’uscita del film, “[p]rotagonista insidioso di questo epos è appunto una forza sovraumana, che tramite la radio, unico arbitro tra questi due figli del popolo, sconvolge la storia di due uomini, mentre le trasmissioni galleggiano da una stazione all’altra, orchestrando notizie, commenti, musica. Il mondo li incita a divenire due belve – grazie ad un assurdo caso di omonimia – appropriandosi dei loro destini e frantumandoli tra le sue dita.” (Giurato, 2007). Lo stesso tipo di ambivalenza tra l’Io e l’Altro e la mancanza di categorizzazioni precise caratterizzano i protagonisti di La giusta distanza. Come nel film di Melliti, anche in questo lungometraggio il senso di appartenenza ad una comunità (o di emarginazione dalla stessa) subisce notevoli mutamenti nel corso della trama ed è, comunque, sempre accompagnata da un isolamento fisico e/o psicologico dei personaggi. Nella scena di apertura, lo spettatore viene lentamente proiettato nel cuore della pianura padana: tramite campi lunghi e lunghissimi la macchina da presa sconfina tra le acque calme del Po e il verde dei campi circostanti, mentre la colonna sonora sottolinea la serenità nostalgica di queste terre. Per tre minuti la visione dall’alto è quella di un territorio addormentato, quasi paralizzato, in cui l’unica forma di movimento è rappresentata dall’autobus regionale che collega tra di loro i vari paesini caratteristici dell’entroterra italiano. L’inquadratura zooma lentamente sul veicolo che porta Mara, la giovane insegnante in trasferta, a Concadalbero. Il suo arrivo in paese getta un colpo di colore alle immagini: la silhouette del suo cappotto rosso che sfila per il centro di Concadalbero si staglia nettamente dal grigiore e dalla monotonia delle case circostanti e fa girare gli sguardi degli abitanti, anch’essi appiattiti dagli stessi colori pallidi. Sin da queste primissime sequenze, Mara viene posizionata al di fuori della comunità di Concadalbero e il suo isolamento viene ulteriormente sottolineato dai problemi tecnici che le impediscono di collegarsi ad Internet e ad una vita/identità lasciata in Toscana2. Paradossalmente, almeno dal punto di vista dei media, l’italianissima Mara è inizialmente più emarginata del tunisino Hassan, che appare invece ben integrato nella piccola comunità. In un apparente tentativo di appartenenza, Hassan dichiara di preferire la pasta al couscous3 e segue religiosamente le gare della Ferrari in Formula Uno.Tale processo di assimilazione rievoca il concetto di “mimicry”4 usato da Homi Bhabha nel suo studio teoretico sull’ibridità culturale, The Location of Culture (1994). Nel capitolo dedicato all’analisi del discorso coloniale (“Of Mimicry and Man: The Ambivalence of Colonial Discourse”), Bhabha definisce “colonial mimicry” come: 159

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The desire for a reformed, recognizable Other, as a subject of a difference that is almost the same, but not quite. Which is to say, that the discourse of mimicry is constructed around an ambivalence; in order to be effective, mimicry must continually produce its slippage, its excess, its difference.The authority of that mode of colonial discourse that I have called mimicry is therefore stricken by an indeterminacy: mimicry emerges as the representation of a difference that is itself a process of disavowal. Mimicry is, thus the sign of a double articulation; a complex strategy of reform, regulation and discipline, which ‘appropriates’ the Other as it visualizes power. Mimicry is also the sign of the inappropriate, however, a difference or recalcitrance which coheres the dominant strategic function of colonial power, intensifies surveillance, and poses an immanent threat to both ‘normalized’ knowledges and disciplinary powers. (1994: 87) Appare proprio questa, infatti, la strategia adottata da Hassan nei confronti della società italiana: la scelta di uno stile di vita culturalmente complesso, non lineare, ma in grado di esprimere un doppio senso di identità ed articolazione che rispetta, a tutti gli effetti, la posizione ambivalente occupata dall’immigrato musulmano, a cavallo tra culture, tradizioni e religioni. In questo senso, le categorizzazioni di ‘insider/outsider’, spesso usate dai mass media e fatte coincidere con la nazionalità (e la religione), assumono lineamenti molto più malleabili e giungono a divergere dal punto di vista pubblico. L’Io e l’Altro diventano interscambiabili nel contesto di Concadalbero e la loro posizione rimane fluttuante durante tutto il corso del film. L’integrazione di Hassan è infatti contrastata dagli episodi di razzismo subiti dal cognato Mohammed nel bar in cui lavora, una strategia narrativa, questa, usata da Mazzacurati per catturare la varietà di esperienze migratorie nel nord-est italiano. Al contrario della versione omogeneizzante presentata dai media nazionali, quella riflessa in La giusta distanza è una realtà dai toni molto più sfumati, in cui i concittadini musulmani sono soggetti di vicende diverse e sono in grado di esprimere (con la propria voce e nella propria lingua5 ) l’individualità del processo migratorio. Come ci ricorda Bhabha nel passaggio sopracitato, il discorso di “mimicry” è incentrato sull’ambivalenza e l’incertezza, caratteristiche fondamentali del rapporto tra Mara e Hassan, ma anche di quello tra Mara e il giovane Giovanni. Queste relazioni umane, incorniciate dal provincialismo di Concadalbero, riaffermano, ancora una volta, la complessità della società italiana contemporanea e l’impossibilità di conoscere l’Altro solo tramite la lente nazionalistica e religiosa. La giusta distanza si conclude con la rivelazione di un processo fallace che aveva mandato dietro le sbarre (la forma più assoluta di isolamento) un innocente meccanico, il cui nome e nazionalità lo rendevano troppo sospetto e scomodo. L’analisi di Io, l’altro e La giusta distanza rivela una realtà cinematografica in Italia che sembra essere più ricettiva e sensibile verso gli inevitabili cambiamenti socio160

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culturali del ventunesimo secolo. In questi lungometraggi, Melliti e Mazzacurati sono riusciti ad usare felicemente gli strumenti cinematografici per proporci una visione dell’Italia contemporanea che si contrappone agli stereotipi anti-arabi che popolano la quotidianità del discorso pubblico e mediatico. Nonostante i due film siano ambientati in spazi diametralmente opposti (la provincia vs. il Mediterraneo, il nord vs. il sud), sono entrambi ugualmente consci delle diversità culturali e dell’impraticabilità di una visione omogenea dell’italianità. Ciò che trapela, invece, da queste opere, è un rinnovato apprezzamento per l’ibridità e l’ambivalenza culturali destinate a caratterizzare il futuro della società italiana.

Note 1

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3

4

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Spesso definito il ‘cantore della provincia’, Mazzacurati ha ambientato vari suoi film nell’entroterra italiano: La passione (2010), L’amore ritrovato (2004), La lingua del santo (2000), tra gli altri. L’interessante scelta di ‘viacolvento’ come password per accedere alla posta elettronica contribuisce ad enfatizzare la separazione di Mara dal luogo di origine e dall’identità adottata fino a quel momento. La pasta e il couscous, entrambi simboli di orgoglio nazionalistico, sono stati spesso usati da partiti politici con tendenze xenofobe, come la Lega Nord, per promuovere le tradizioni settentrionali ed opporsi a quella che viene percepita come un’invasione dei cibi stranieri. In questo contesto, l’uso del termine inglese ‘mimicry’ appare più adatto e consono ad introdurre il concetto di Bhabha. La possibile traduzione del termine con ‘mimica’, ‘imitazione’ o ‘parodia’ non rende sufficientemente le sfumature di significato insite nel corrispondente inglese. L’uso di sottotitoli quando i personaggi tunisini conversano in arabo è una scelta abbastanza unica del cinema. Infatti, nella maggior parte dei programmi televisivi in Italia, gli immigrati usano quasi esclusivamente la lingua italiana, indipendentemente dal loro livello di conoscenza. Come ho esaminato altrove (Ardizzoni, 2007), questa tattica porta ad un atteggiamento condiscendente ed infantilizzante verso l’Altro.

Bibliografia Aitken, S. e L. Zonn (1994) Place, Power, Situation and Spectacle: A Geography of Film. Lanhma, MD: Rowman and Littlefield. Allam, M. (2008) “Approdo di un lungo cammino. Decisivo l’incontro con il Papa”, Corriere della Sera, 23 marzo. http://www.corriere.it/cronache/08_marzo_23/conversione_ magdi_allam_34d0d06-f8ac-11dc-8874-0003ba99c667.shtml Ultimo accesso, ottobre 2012. Appadurai, A. (2006) Fear of Small Numbers. Durham, NC: Duke University Press. Ardizzoni, M. (2007) North/South, East/West: Mapping Italianness on Television. Lanham, MD: 161

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Lexington Books. Bhabha, H. (1994) The Location of Culture, New York: Routledge. Fallaci, O. (2006) “La rabbia e l’orgoglio”, Corriere della Sera, 16 settembre. http://www.corriere.it/Primo_Piano/Cronache/2006/09_Settembre/15/rabbia6.shtml Ultimo accesso, ottobre 2012. Giurato, R. (2007) “Intervista a Mohsen Melliti” 35mm.it. 3 maggio. http://news.35mm.it/ notizie/intervista-a-moshen-melliti.html Ultimo accesso, settembre 2012. Huntington, S. (1993) “The Clash of Civilizations?” Foreign Affairs, Summer. O’Healy, A. (2010).“Mediterranean Passages: Abjection and Belonging in Contemporary Italian Cinema”. California Italian Studies Journal, 1(1). http://escholarship.org/uc/item/2qh5d59c Roumeliotis, N. (2007) “La giusta distanza. Incontro con Carlo Mazzacurati. Cinema – Festa Internazionale di Roma 2007” Cult Frame. Schmidt di Friedberg, O. “Building the Enemy: Islamophobia in Italy”. http:// inhouse.lau.edu.lb/bima/papers/Ottavia.pdf Ultimo accesso, novembre 2012. http://www.cultframe.com/2007/10/la-giusta-distanza-incontro-con-carlo-mazzacuraticinema-festa-internazionale-di-roma-2007/. Ultimo accesso, ottobre 2012.

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Sabine Schrader

Nostalgia e migrazione ne Il vento fa il suo giro di Giorgio Diritti Introduzione

C

hersogno, al primo sguardo, è un idillico borgo immerso nell’aspro paesaggio delle Alpi occidentali italiane. I suoi abitanti, in gran parte anziani, parlano ancora l’occitano e vivono soprattutto del turismo estivo che ancora riesce a sottrarre il paese all’abbandono. Philippe è un ex-insegnante francese che ha smesso la professione per dedicarsi alla pastorizia, un modo per iniziare una vita in armonia con la natura; con i familiari e il suo gregge di capre decide di stabilirsi a Chersogno. Dopo un’iniziale diffidenza i nuovi arrivati vengono accolti calorosamente, ma presto l’umore del piccolo villaggio ricade nel sospetto, nell’invidia e nell’intolleranza. Il paesaggio, magnifico e quieto nella messa in scena, diviene contrappunto all’impossibilità di una convivenza pacifica: Philippe e la sua famiglia, al termine della vicenda, si risolvono a lasciare il paese. E l’aura fai son vir/Il vento fa il suo giro (2005) è sotto molti aspetti un film degno di nota: racconta di terre e luoghi raramente frequentati dal cinema italiano, recuperandone l’idioma, la lingua d’oc, una scelta che fa del lavoro di Diritti, per quanto ci è dato sapere, il primo lungometraggio occitano in assoluto. La trama permette poi al regista di indagare i limiti e le potenzialità della convivenza transculturale non solo facendo uso dei codici dissimili di immagine, suono e narrazione, ma anche mettendo in campo incroci e contrasti tra le ineluttabili antinomie di identità e alterità, natura e cultura, movimento e stasi. In una topografia concentrata, in un campione di dimensioni assai limitate, si offrono i grandi temi della contemporaneità: globalizzazione, migrazione, ricerca e cura della Heimat e nostalgia. E l’aura fai son vir/Il vento fa il suo giro riunisce due tendenze presenti nella cinematografia italiana contemporanea: l’una orientata a una “ricomposizione del cinema italiano per aree geografiche” (cf. Zagarrio, 2000: 14; cf. Martini, 1998), ossia un cinema attento alla complessità e alla ricchezza delle regioni, e spesso nostalgico (come per esempio il cinema pugliese di Sergio Rubini o Edoardo Winspeare); l’altra 163

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il cui punto focale è il fenomeno delle migrazioni, che ha dato vita a un filone sviluppatosi soprattutto nell’ultimo ventennio. In quest’articolo porremo in evidenza le condizioni non comuni che hanno inciso sulla produzione e la distribuzione del film, per poi porre l’attenzione su temi ed argomenti interpretando gli accenti nostalgici che danno il timbro a Il vento fa il suo giro.

“Sorpresa delle sorprese” – produzione e distribuzione Il vento fa il suo giro viene realizzato nel 2005 e segna l’esordio di Diritti nel lungometraggio; in precedenza l’autore bolognese – formatosi in Ipotesi Cinema, la scuola-laboratorio fondata da Ermanno Olmi – aveva al suo attivo soltanto tre cortometraggi. L’opera prima viene presentata in oltre 60 festival nazionali e internazionali riscuotendo numerosi riconoscimenti, ma questo non impedisce che il film debba attendere più di due anni prima di ottenere una distribuzione in Italia. Il tono riflessivo del racconto e l’opzione per il multilinguismo (dialoghi in occitano, italiano, francese) rendono ardua la ricerca dei possibili distributori. Diversamente, il film è accolto con ammirazione nei festival internazionali e la piccola sala d’essai milanese Cinema Mexico lo programma per oltre un anno a partire dal 6 giugno 2007. La sua popolarità cresce prima sottotono attraverso il passaparola, per poi giungere all’attenzione della stampa solo in un secondo momento. Il successo si propaga in altre città finché nel 2008 è candidato a cinque nomination al David di Donatello, e battezzato come “sorpresa delle sorprese” (Zonta, 2008: 19). In seguito il film ottiene finalmente una distribuzione nazionale e internazionale. Il vento fa il suo giro è una produzione a basso costo, non avendo potuto usufruire di finanziamenti né dallo Stato né dai network televisivi. I resoconti dei comunicati stampa e delle recensioni riferiscono che i collaboratori si sono autofinanziati, fondando una cooperativa che a sua volta ha ricevuto il sostegno economico della popolazione occitana. La troupe stessa si è occupata delle locations, dell’ambientazione e dell’alloggio, provvedendo tra l’altro a reperire le capre per il gregge1. Alcuni membri della popolazione sono stati reclutati anche come attori, fatto reso necessario non solo dalle ristrettezze economiche ma anche dalla necessità di disporre di interpreti capaci di esprimersi correttamente in occitano. Questa riuscita messa in scena paratestuale dell’azione collettiva e della solidarietà si riflette nella finzione stessa, seppure la trama degli accadimenti si incarichi piuttosto di mostrare la crisi di antichi modelli di comportamento quali quelli del rueido, ossia di quel principio che comporta l’impegno individuale e solidale per il bene comune; usanza che nel film si rivela essere nient’altro che un mito del passato (cf. Bernard, 1996: 365-367). Nonostante ciò, è indubitabile che le condizioni produttive abbiano felicemente contribuito a rafforzare la stessa autenticità narrativa del film, che coerentemente si propone come un progetto di risoluta vocazione culturale non preoccupato da logiche commerciali. 164

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Essere altrove Con il termine migrazione s’intende lo spostamento di un uomo o di un gruppo sociale. Anche se Il vento fa il suo giro fa di questa il suo argomento cardine, nelle due accezioni di immigrazione ed emigrazione, nel film quest’ultima viene soltanto sporadicamente suggerita, ed è presente piuttosto come iato narrativo, la cui precisazione è affidata all’immaginazione dello spettatore. È il caso, ad esempio, dei figli degli abitanti del paese che apprendiamo essersi trasferiti a Torino, in Svizzera o in Francia per trovare un lavoro che la povera agricoltura locale non è in grado di offrir loro, e che tornano soltanto d’estate come turisti con le loro grosse automobili. Le persone di maggiore spicco della comunità, un musicista e il sindaco, stabiliscono legami differenti con i luoghi: per il primo il paese rappresenta poco più che un rifugio dove ritirarsi tra un concerto e l’altro; per il secondo, che “vive in città” (5° min.) come detto, non senza sarcasmo, da un compaesano, nient’altro che la sede di lavoro. Chersogno è destinato a svuotarsi sempre di più, e non è un caso che proprio il sindaco e il musicista, ossia coloro che si trovano di fatto sospesi tra mondi apparentemente inconciliabili, figurino come i più attivi sostenitori della causa di Philippe e quindi dell’accoglienza della sua famiglia, aiutandolo nella ristrutturazione della casa e appellandosi a ciò che ritengono l’elemento fondamentale e distintivo della cultura occitana, il già menzionato rueido. Non solo per il paese, ma anche per i suoi costumi e le sue tradizioni è forte il rischio di una progressiva dissoluzione, al pari della lingua. L’occitano oggi è una lingua minoritaria, parlata solo in poche aree del sud della Francia, nella Val d’Àran in Catalogna e in alcune valli delle Alpi Piemontesi2. È indicativo come il film si apra, ancor prima della comparsa del titolo, con un breve dialogo in occitano che subentra al rumore iniziale di un’auto in movimento. Immersi nell’oscurità di una galleria, allo scorgersi della luce che invade il paesaggio, prende avvio il dialogo fuori campo tra i due passeggeri sul rueido, del quale sta riferendo una trasmissione alla radio. Un avvio di tale forza, tanto nel commento parlato quanto nelle immagini, allude – da un lato – alla potenza originaria della parola, che accompagna l’uscita dal buio della galleria ancor prima che appaia l’uomo parlante, dall’altro, lascia intuire la nostalgia del passeggero più anziano, il cui struggimento si rivolge ad una consuetudine che è oramai solo pretesto, spunto per inchieste radiofoniche. Dalle reazioni degli abitanti all’arrivo di Philippe si può misurare il loro disorientamento: “Una volta erano i nostri che andavano in Francia” (15° min.). Il film fa un uso molto parco dei dialoghi, che tuttavia proprio per questo consentono di trasmettere le argomentazioni in modo secco e conciso. “No, bisogna conoscere la gente che viene” (14° min.), afferma un’anziana signora: la sobrietà di questa e tante altre esternazioni è sufficiente a rendere esplicita l’estensione in negativo del campo semantico del termine ‘straniero’, ovvero il non familiare, lo sconosciuto (cf. Jostes, 1997). Philippe rappresenta, per lei e per gli altri, l’estraneo per eccellenza giacché 165

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‘non facente parte’. È come l’annuncio o il segnale dell’invasione, dell’occupazione del diverso, secondo la profezia dall’accento criminalizzante del “Poi verranno gli albanesi” (14° min.) mediato e ripetuto dalla televisione. Ma in fondo il sospetto non riesce a sopire completamente l’istinto collettivo e la casa in cui Philippe e i suoi familiari si trasferiscono verrà poi ristrutturata dalla comunità. Dalle conversazioni, gli abitanti del paese, e con loro gli spettatori in sala, apprendono la storia di Philippe. Una storia segnata dalla volontà di sfuggire ad una vita e ad un ruolo, quello dell’insegnante, avvertiti con crescente disagio e insoddisfazione, e dalla risoluzione quindi a porre in atto un nuovo inizio, una nuova vita.Tuttavia il suo primo tentativo sui Pirenei delude le sue aspettative: l’imminente costruzione di una centrale nucleare nei dintorni lo persuaderà all’ennesima fuga, a continuare la ricerca, fino ad approdare a Chersogno. L’identità del personaggio di Philippe è stata costruita come quella di chi, al fine di perseguire una maggiore armonia con la natura, allenta i suoi vincoli e i suoi legami con la civilizzazione, armonia rappresentata nel film dalla condivisione della cultura occitana, del sapere umanistico e dell’operosità, vale a dire un anticonformista. Una tipologia di migrante, dunque, assai distante da quella che domina gli spazi dei media: non già la persona forzata all’esilio dal bisogno economico o dalla violenza della guerra, ma piuttosto chi si mette in cammino in seguito a una libera scelta, qui speranza di una ‘vita autentica’.Volendo distinguere tra migrazione sub-nazionale (ovvero di coloro che chiedono asilo) e sopra-nazionale (cosmopolita) – una differenziazione proposta da Thomas Elsaesser (cf. Elsaesser, 2005) – Philippe e la sua famiglia possono essere considerati come appartenenti al secondo gruppo, ossia come coloro che decidono di valicare i confini nazionali recando con sé il proprio bagaglio culturale e formativo. Con ciò la figura di Philippe partecipa della crisi delle identità collettive tradizionali, nonostante egli paradossalmente recuperi un lavoro antico – il governo degli animali – rifiutato dalle generazioni più giovani del borgo montano oramai sedotte da modelli comportamentali diversi. Cultura, per Philippe, è fatto sincronico e di tutti; essa trova radice non nel ricordo ma nella frequentazione reciproca, nello scambio e nell’incontro quotidiano. Attraverso Philippe e la popolazione del paese, della quale più volte il musicista e il sindaco si fanno portavoce, sono messe a confronto anche due declinazioni dell’identità collettiva: mentre per i paesani è soprattutto la lingua il primo degli orizzonti comuni, per Philippe le tracce della memoria non sono altro che appigli per una nostalgia di nessun valore per la comunità: M.: Il popolo per essere se stesso deve continuare a salvaguardare la propria cultura, parlare la propria lingua. È la lingua che dice che delle persone hanno vissuto assieme per migliaia di anni. // P.: No. La cultura nasce dalla convivenza.Vivere assieme. Jour après jour. // […] E cos’è rimasto della cultura occitana? La nostalgia è rimasta. (38°-39° min.) 166

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La nostalgia La critica di Philippe nei confronti della nostalgia è assoluta: a suo sentire essa è indice di una cultura inerte, resa inattuale dal referente unico della tradizione, e quindi irrevocabilmente destinata a soccombere. Ma Philippe stesso non ne è immune e proprio da questo tratto di ambiguità Diritti e il suo operatore fanno sorgere il tema centrale del film. Il termine composito nostalgia salda il nostos, il ritorno a casa ovvero la casa stessa, ad algia, l’aspirazione dolorosa. Il termine fu creato da Johannes Hofer, che nella sua Dissertatio medica De Nostalgia oder Heimwehe (Basilea, 1688) ne individuava i sintomi sulla base del disagio osservato nei mercenari svizzeri, costretti a soggiornare a lungo lontano da casa, in paesi stranieri. Questo carattere patologico è decaduto nel lessico contemporaneo, così come non è più presupposta una distanza oggettivabile tra la terra natia e l’estero. In un mondo globalizzato e quindi nell’epoca dell’annullamento delle discontinuità spaziali e temporali essa testimonia piuttosto l’anelito verso i tempi trascorsi, i luoghi e le persone del passato capaci di assumere il ruolo di punti stabili di riferimento, ed è diventata, sotto alcuni aspetti, un fenomeno quanto mai diffuso: There is a no less global epidemic of nostalgia, an affective yearning for a community with a collective memory, a longing for continuity in a fragmented world. Nostalgia inevitably reappears as a defense mechanism in a time of accelerated rhythms of life and historical upheavals. (Boym, 2001: XIV) Si potrebbe dire, in analogia all’interazione tra globalizzazione e nostalgia, che quanto più i meccanismi del capitalismo globale provocano sradicamento, tanto più tende ad affiorare con maggior forza il sentimento della Heimat ed il richiamo verso di essa. Heimat possiede una dimensione geografica e storica e una dimensione sociale che designa piuttosto un luogo metaforico in grado di garantire autenticità, intimità e sicurezza – ed è proprio la ricerca di questa Heimat ad animare l’avventura di Philippe. Per gli abitanti del paese, come in precedenza sottolineato, la Heimat coincide con la lingua e la cultura millenaria ad essa ancorata, un patrimonio messo in pericolo dall’emigrazione dei giovani. Si applica qui un’interessante traslazione, se consideriamo che il ‘sense of loss’ nel cinema transnazionale della migrazione e della diaspora usualmente è proprio dei migranti e non della popolazione sedentaria (Ezra/Rowden, 2006: 7). Agli antipodi della perdita si pongono la preservazione e la cura di ciò che è dato, vale a dire dello stato di fatto; un riguardo che la convivenza con Philippe rende sempre più difficile, vista la scarsa considerazione di quest’ultimo delle usanze ereditate, pari soltanto alla mancanza di riguardo delle sue capre per i confini di proprietà dei campi. È reso chiaro nel film che la pratica del rueido non ha futuro, poiché il vivere comune è come irrigidito, congelato. Svetlana Boym contrassegna questo fenomeno come restorative nostalgia, una nostalgia che attribuisce un significato assoluto alla prima 167

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parte della parola e tenta, indipendentemente dalle circostanze storiche, di conservare il domestico, il consuetudinario (Boym, 2001: 41). È una nostalgia che, nel riempire la storia di musei e monumenti, si chiude alla condizione presente e nella quale, come l’autrice giustamente fa notare, trova origine il nazionalismo. Jean Améry, consapevole di come allo sradicamento si associno sempre anche il disordine etico e il perturbamento, mette in guardia dalla possibile deriva reazionaria della nostalgia: Vivere nella Heimat significa che il già noto si manifesta ripetutamente davanti a noi in tenui variazioni. Questo può portare a un impoverimento morale e allo scadimento nel provincialismo se nient’altro si conosce se non la propria Heimat. (Améry, 1980: 83) In questo senso appare appropriata la critica di Philippe alla gente di Chersogno, che a suo parere confonde la cultura con la nostalgia. Ma anche nell’aspirazione di Philippe stesso verso un mondo non più alienato è inevitabile scorgere un’impronta nostalgica. Come pastore egli sembra incarnare il movimento stesso, un migrante per eccellenza, con il suo nomadismo continuo di pascolo in pascolo al seguito del suo gregge. La Heimat è dunque per lui atto volitivo, un processo di assimilazione esperito non passivamente attraverso la socializzazione e l’apprendimento, ma al contrario formatosi attivamente e in sintonia con la natura. In senso positivo si potrebbe parlare, riprendendo con questo la terminologia di Vilem Flusser, di una freedom of the migrant, nel senso di una libertà che per i migranti sopra-nazionali consiste quantomeno nella possibilità di scelta: “For me heimat consists of people I choose to be responsible for” (Flusser, 2003: 11). Il mestiere di pastore rimanda però anche ad una tradizione di tutt’altro genere, ossia a quella della lirica bucolica, che confluisce poi nel romanzo e nella poesia pastorali, una tradizione fortemente italiana. Il centro dell’idillio agreste è occupato dalla natura innocente e idealizzata dell’Arcadia, che, al pari dell’età dell’oro, si definisce sempre in opposizione alla corte o alla città. È un luogo della nostalgia e del desiderio nell’arte e nella letteratura fino al XVIII secolo inoltrato: arte e letteratura che, in quanto scaturite sempre e comunque dall’occasione contingente, non possono che essere partecipi di quella reflective nostalgia che implica il sogno e l’immaginazione di un luogo altro (Boym, 2001: 50). Ne Il vento fa il suo giro questo desiderio viene descritto attraverso Philippe, il quale lascia dietro di sé i saperi e la civilizzazione, ma anche (e di conseguenza) il capitalismo. La Heimat diventa per Philippe il momento nel quale si cessa di correre e di accumulare soldi, e ciò può accadere ovunque. Così la macchina da presa si sofferma più volte sul suo lavoro, sulle occupazioni di una famiglia felice e sul gioco dei bambini; una famiglia che per breve tempo si fa essa stessa Heimat per coloro che sono condannati ai margini della comunità e non ne condividono per questo i pregiudizi – nel concreto un disabile mentale e un giovane 168

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in perpetuo conflitto con il padre. Sono immagini idilliche, ma anche fatte in un modo esagerato. Su Philippe e la sua famiglia si proiettano inoltre le inquietudini dell’unico abitante del paese obbligato ad assentarsi periodicamente da esso, il musicista. Per lui la famiglia francese, libera com’è dai vincoli del business culturale a cui egli è sottoposto, è lo spazio del desiderio nostalgico, un’ansia che trova modo di placarsi nella fugace relazione con la bella moglie di Philippe. La nostalgia di Philippe si orienta anche verso un modo di essere autentico, un’idea esistenziale che il XX secolo carica di attributi quali originale, vero, genuino, schietto, e che si nutre in fin dei conti del sogno di una vita totalmente coerente e in equilibrio con la natura. Qui la nostalgia assume a mio avviso tratti reazionari, esprimendo però al contempo la sana e imprescindibile aspirazione verso una condizione dell’essere che trascenda le attribuzioni culturali. Di conseguenza Philippe nega la valenza della cultura autoctona nel sottrarsi ai suoi riti, come nell’episodio della benedizione pasquale della casa alla quale preferisce non assistere. È un comportamento destinato a suscitare la diffidenza della maggior parte dei paesani con tale veemenza da portarla infine a precipitare in una decisa ostilità. La tolleranza, afferma Philippe in un colloquio con il musicista, è una parola che non ama, poiché, a suo parere, se si deve tollerare qualcuno significa che non c’è uguaglianza (43° min.). Il principio di uguaglianza di Philippe è universalista, è un principio che nega le differenze, indipendentemente dalle differenze individuali, il cui risvolto è un universalismo indifferenziato, tendenzialmente egemonico ed incline a disconoscere le differenze. Una volta che il conflitto è degenerato Philippe diserta l’incontro riconciliatorio organizzato dal sindaco e abbandona definitivamente il paese assieme alla famiglia. Un gesto drammatico chiude il film, quasi a voler pronunciare un verdetto negativo sulla presupposta consistenza del principio della Heimat. Dopo l’allontanamento della famiglia francese, il disabile mentale sceglie il suicidio, il giovane ribelle si trasferisce nella casa di Philippe e alla radio continuano le trasmissioni sulla cultura occitana. La sintassi del film, nel suono e nell’immagine, crea invece essa stessa reflective nostalgia, rimanendo sino alla fine fedele all’aspirazione ad una vita transculturale che risarcisca della generale e pervasiva perdita di senso, spaziale quanto temporale. Diversamente dagli antagonismi tra Philippe e gli abitanti di Chersogno, il film accoglie la diversità culturale attraverso la scelta stessa di un’edizione plurilingue. Anche se l’italiano rappresenta la lingua della comunicazione, sono presenti l’occitano nelle conversazioni degli abitanti del paese e il francese nelle scene familiari. L’occitano e il francese sono sottotitolati, evitando così di livellare i salti linguistici attraverso una italianizzazione dei dialoghi o un eventuale doppiaggio. Il vento fa il suo giro evoca però la reflective nostalgia soprattutto per mezzo delle immagini. La macchina da presa indugia sovente sullo stupefacente paesaggio alpino attraverso inquadrature prolungate, registra l’alternarsi delle stagioni, il disegno delle nuvole e il bagliore notturno della luna con un istinto, soprattutto in quest’ultimo caso, quasi romantico. Alla vista di una natura di siffatta bellezza, imponente ed eterna, la macchina da presa sembra volerci persuadere 169

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che i conflitti, anche interculturali, non possono che avere un’importanza modesta. Le inquadrature, in campo lungo o campo medio, sono impostate spesso da una prospettiva leggermente abbassata, e aprono figurativamente così uno spazio del possibile in contrappunto con la narrazione. Accanto a questo tipo di riprese del paesaggio orientate al monumentale e vicine all’estetica di stampo critico-sociale dei nuovi Heimatfilm, il regista Diritti applica anche gli accorgimenti del procedimento filmico autentificante, senza con questo perder d’occhio il carattere inevitabilmente artificiale della rappresentazione cinematografica del vero. Il vento fa il suo giro è una finzione che anche grazie alla presenza di attori dilettanti occitani si mostra prossima talvolta alle movenze del documentario. Ma è soprattutto l’estetica cinematografica del regista stesso a rivelarsi funzionale alla messa in scena dell’autentico, ottenuto questo, grazie all’applicazione di strategie filmiche specifiche volte a stimolare il coinvolgimento affettivo dello spettatore e che, come bene descrive lo studioso di cinematografia Matías Martínez, sono in grado di destare in lui l’impressione del genuino: Autenticità in questo secondo senso [è, n.d.a.] sempre un effetto di forme ben precise di artificiosità, è il risultato di messinscena estetica, convenzione artistica e strategia del controllo affettivo, tanto che si può parlare qui di “finzioni autentiche”. (Martínez, 2004: 41) Appartengono alla categoria delle strategie di autentificazione, accanto alle prolungate inquadrature panoramiche, anche i riferimenti cronologici, che, oltre a fornire agli spettatori le coordinate temporali della vicenda, contribuiscono al riconoscimento dell’autentico, garantendo quella che Barthes definisce “l’esattezza del referente” (Barthes, 1968). Anche nella scelta calcolata delle riprese, nel loro alternarsi in registri quando apparentemente obiettivi e distaccati, quando schiettamente soggettivi, trova espressione la ricerca della veridicità filmica. Ne fanno parte ad esempio i già citati movimenti di macchina attraverso le gallerie alpine: l’oscurità, che avvolge gli spettatori non diversamente dagli automobilisti, e il suono in presa diretta sono qui gli elementi destinati ad evocare l’esperienza concreta e dichiarare al contempo in modo efficace la sincerità del racconto. Particolarmente riuscita nella ricerca visuale della reflective nostalgia risulta la spettacolare scena di benvenuto della comunità paesana, costruita con l’uso esclusivo di immagini e musica, nella quale Philippe e i suoi familiari vengono accolti con una fiaccolata e un rustico buffet. Di proposito il buio della notte non viene rischiarato dall’illuminazione elettrica – le uniche fonti di luce sono offerte dalle torce – rivelando al pubblico in sala uno scenario apparentemente senza tempo, arcaico, nel quale una vita in comune sembra progetto attuabile. La presentazione della comunità alpina trova la sua sintesi nell’immagine di una Urlandschaft, un paesaggio primigenio, puro e non violato dalla civilizzazione. La presenza immutabile della natura è messa in risalto dalla 170

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musica, modulata solo su poche tonalità. Con la stessa rassicurante circolarità cui allude anche il titolo del lungometraggio essa compare nella melodia iniziale, per poi svilupparsi attraverso sottili variazioni e delinearsi infine come il tema principale ricorrente. In chiusura la macchina da presa torna sulla grandiosità del paesaggio come visione, ma stavolta, diversamente da altre scene precedenti, in ripresa a volo d’uccello. Questa prospettiva, usata non di rado quale commento visuale ad uno spirito audace e disinvolto, intende qui certo incoraggiare alla sospensione del giudizio, suggerendo l’espandersi – non solo materiale – dello spazio del possibile.

Nostalgia e migrazione Il vento fa il suo giro presenta l’incrocio di comportamenti marginali radicalmente critici nei confronti dei processi di globalizzazione. Si tratta di un antagonismo declinato secondo accenti distinti: da una parte la tradizione minacciata dell’occitano e dall’altra la figura di un anticonformista, che coltiva il desiderio di una vita affrancata dai modelli della formazione basata sul capitalismo. Entrambe, tuttavia, nell’aspirazione ad un mondo diverso, si paralizzano in una forma di nostalgia che Boym definirebbe come restorative nostalgia, poiché si ostinano a separare il proprio dall’altro e non sono in grado di concepire il presente come un patteggiamento con la storia. Le osservazioni degli studi postcoloniali sull’idea stessa di cultura autentica ne hanno ripetutamente rimproverato l’implicita impostazione egemonica, destinata ad indurre il depauperarsi delle differenze (Spivak, 1993: 193-202). Il film rende propria una tale argomentazione, tralasciando però quella che in senso intersezionale rappresenta un’ulteriore marginalità del mondo globalizzato, vale a dire quella del mondo femminile. La costruzione dei generi de Il vento fa il suo giro presenta indubitabilmente toni di stampo borghese: la moglie di Philippe, la cui autonomia è impedita sia dalla mancata padronanza linguistica sia dalla dipendenza economica dal marito, assume un ruolo limitato esclusivamente alla sfera del privato. Dea del focolare, musa e amante del musicista in una notte d’estate: un’immagine della donna anacronistica persino per i vagheggiamenti dell’arcadia. Pur con queste limitazioni il messaggio implicito del film rimane in fondo, nonostante l’esito della vicenda, paradossalmente ottimista. Non pochi elementi della trama lasciano infatti intravedere le possibili strade da percorrere, certo ardue ma pur sempre presenti, in grado di conciliare Heimat e migrazione, stasi e movimento, strade che vengono però presto abbandonate o ignorate per intransigenza, cocciutaggine, incomprensione, ma anche per puro caso, trasformando l’occasione in occasione mancata. E, se vogliamo, è alla fotografia del paesaggio che il regista affida il compito di rivelare l’energia latente degli spazi e dei tempi del racconto, che rendono di per sé disponibile quel third space nel quale l’interferenza tra soggetti e culture diverse potrebbe aver luogo. 171

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In conclusione si può affermare che Il vento fa il suo giro si mostra opera interessante, particolarmente nel suo riunire con intelligenza non comune, come accennato in apertura, due tendenze presenti nella cinematografia italiana contemporanea: una prima costituita dal cinema delle regioni, che mette in scena lo specifico locale disdegnando l’immaginario patinato della televisione nell’epoca berlusconiana, ed evitando di conformarsi ai canoni della produzione internazionale di cassetta; una seconda rappresentata dal cinema della migrazione, che tenta di affrontare, anche attraverso un procedimento autentificante, le dinamiche multiformi della transculturalità3.

Note 1 2

3

Cf. le recensioni sul film: URL: www.ilventofailsuogiro.com. Si stima che in Italia sopravviva una popolazione di circa 50.000 persone, distribuite in 14 valli, ancora in grado di parlare questo idioma che, pur essendo riconosciuto e protetto dallo stato italiano, ha pressoché cessato di rappresentare un mezzo di comunicazione riferibile a un territorio unitario (Brauns, 1989: 57-66). L’articolo è una versione rielaborata del mio articolo: (2012) “La fine dei sogni bucolici ovvero ‘Dicono che vengono gli albanesi’ ”: Il vento fa il suo giro (2005, R.: G. Diritti), in Pagliardini, A. e Vranceanu, A. (a cura di) Migrazione e patologie dell’humanitas nella letteratura europea contemporanea. Francoforte s.M.: Peter Lang, 151-163.

Bibliografia Améry, J. (1980) “Wieviel Heimat braucht der Mensch?” (1966), in Jenseits von Schuld und Sühne. Bewältigungstrategien eines Überwältigten, a cura di Améry, J., Stuttgart: Klett Cotta, 74-101. Barthes, R. (1968) “L’Effet de réel”, Communications, n. 11, 84-89. Bernard, G. (a cura di) (1996) Lou saber: Dizionario enciclopedico dell’occitano di Blins, Venasca (CN), Ousitano Vivo. Boym, S. (2001) The Future of Nostalgia, New York: Basic Books, XIV. Brauns, P. (1989) “Versuch eines konstruktiven Nachrufs auf das Okzitanische”, in Historische Sprachkonflikte, a cura di Nelde, P. H., Bonn: Dümmler, 57-66. Elsaesser, T. (2005) “Double occupancy and small adjustments: Space, place and policy in the New European Cinema since the 1990s”, in European Cinema: Face to Face with Hollywood, a cura di Elsaesser, T., Amsterdam: University Press, 108-130. Ezra, E. e Rowden, T. (2006) Introduction in Transnational Cinema:The Film, a cura di Ezra, E. e Rowden, T., New York: Routledge, 1-13. Flusser, V. (2003) The Freedom of the Migrant. Objections to Nationalism, Champaign: University of Illinois Press. Jostes, B. (1997) “Was heißt hier fremd? Eine kleine semantische Studie”, in Was heißt hier “fremd”? Studien zu Sprache und Fremdheit, a cura di Naguschewski, D. e Trabant, J., Berlin: Akademie Verlag, 11-76.

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Martínez, M. (2004) “Authentizität als Künstlichkeit in Steven Spielbergs Film Schindler’s List”, Augen-Blick 36: Neue Kinematographie des Holocaust, 39-61. Martini, G. e Morelli, G. (a cura di) (1998) Patchwork. Geografia del nuovo cinema italiano,Vol. II, Milano: Il Castoro. Schmitt-Roschmann, V. (2010) Heimat. Neuentdeckung eines verpönten Gefühls, Gütersloh: Gütersloher Verlagshaus. Schrader, S. and Winkler, D. (a cura di) (in stampa) The Cinemas of Italian Migration. European and Transatlantic Histories. Newcastle: Cambridge Scholars Publishing. Spivak, G. C. (1993) “‘Questions of Multiculturalism’ – An Interview with Gayatri Chakravorty Spivak and Sneja Gunew”, in The Cultural Studies Reader, a cura di During S., New York: Routledge, 193-202. Türcke, C. (2006) Heimat. Eine Rehabilitierung, Springe: Klampen. Zagarrio, V. (2000) “Il cinema della transizione. Cronache di fine secolo”, in Il cinema della transizione. Scenari italiani degli anni Novanta, a cura di Zagarrio,V.,Venezia: Marsilio, 1-29. Zonta, D. (2008) “Ragazzi, quanto è piaciuto Caos calmo ai David di Donatello”, L‘Unità, 21 marzo, 19. Da Internet: www.ilventofailsuogiro.com.

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William Hope e Mafunda Lucia Ndongala

Bianco e Nero di Cristina Comencini: i nuovi italiani – questioni di identità e di marginalizzazione

N

el primo decennio del XXI secolo, Cristina Comencini, regista e scrittrice i cui anni di formazione si collocano nel radicalismo di sinistra degli anni 70, si è affermata come regista di film drammatici ben costruiti, seppur basati su questioni familiari di natura piuttosto intimista, come ad esempio Il più bel giorno della mia vita (2002) e La bestia nel cuore (2005). Tuttavia la realizzazione dei suoi progetti successivi, come ad esempio il documentario Il nostro Rwanda (2007) e Bianco e nero (2008) – una rielaborazione della commedia all’italiana in cui vengono analizzate le relazioni interrazziali nell’Italia contemporanea – suggerisce che il lavoro della Comencini inizia ad essere caratterizzato da un impegno socio-politico più marcato. Bianco e nero è articolato in un formato mainstream, le cui implicazioni sono state messe in rilievo nella parte introduttiva di questo volume. Il film rappresenta un tentativo relativamente atipico del cinema italiano di esaminare argomenti quali la problematica integrazione sociale dei migranti e gli ostacoli che condizionano le relazioni interrazziali nella società italiana contemporanea. La sua narrativa è incentrata sulla storia d’amore tra Carlo – un italiano bianco, tecnico informatico e padre di famiglia – e Nadine, una sofisticata addetta diplomatica senegalese che parla tre lingue ed è madre di due bambini. Si incontrano ad un evento di beneficenza per la raccolta di fondi per l’Africa organizzata da Elena, moglie di Carlo, e da Bertrand, marito di Nadine. Tra loro è subito simpatia che sfocia in seguito in una passione. Bianco e nero si distingue dalla maggior parte dei film che hanno trattato il tema del contatto interculturale, perché esclude dalla linea narrativa determinanti quali povertà economica e sfruttamento capitalista. Eliminando ogni elemento legato ad eventi drammatici basati sulla sopravvivenza quotidiana, che invece informano le dimensioni narrative di opere come Pummarò (1990) di Michele Placido e Quando sei nato non puoi più nasconderti (2005) di Marco Tullio Giordana, il film di Cristina Comencini si concentra più su questioni di razza, classe ed egemonia sociale. 174

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Questo saggio si prefigge di chiarire come l’intento progressista del film risulti fortemente attenuato da scelte stilistiche e concettuali che hanno origine proprio nella mentalità borghese che il film vuole denunciare. Da un lato, l’analisi delle dinamiche che rendono Bianco e nero un’opera progressista partirà dall’osservazione di come la micro-realtà della storia d’amore interrazziale raccontata, riesca a toccare questioni sociali e realtà esterne più ampie. Per esempio quella della presenza sempre più cospicua in Italia di una popolazione nera socialmente mobile e con un alto grado di istruzione: una porzione sempre più consistente della società, che vive sul territorio e si identifica più come italiana che appartenente al Paese di origine e che è oggetto di una ricerca empirica condotta in Piemonte tra italiani di origine sub-sahariana1. Indicherà come il film catturi l’incertezza esistenziale degli immigrati che provano a conciliare i valori delle proprie origini africane con quelli dei Paesi europei ospitanti, tra cui l’Italia, come nel caso di Bertrand nelle vesti di mediatore culturale. Evidenzierà come, nel film, la rielaborazione progressista della commedia all’italiana metta in luce i lati nascosti dell’egemonia borghese, nonché quel senso di superiorità subdolamente celato dietro una facciata di liberalismo bianco illuminato. Dall’altro lato l’analisi metterà in luce come, nonostante gli elementi positivi elencati fin qui, le strutture visive e cognitive del film, insieme al telos (ovvero l’orientamento verso il risultato finale) della linea narrativa e dei personaggi, siano centrati su una percezione prevalentemente bianca e borghese. Inoltre, indicherà come nel film si presentino diverse occasioni in cui gli stereotipi mediatici generali sui neri e sui migranti vengono paradossalmente rafforzati. Segnalerà come la totale assenza di questioni politiche ed economiche nella linea narrativa di Bianco e nero, per dar spazio invece ad un concatenarsi di incomprensioni e scontri socio-culturali, allontani completamente il film dalla realtà delle prime, seconde e terze generazioni di immigrati in Italia; nonché dai pregiudizi tangibili e dagli ostacoli che hanno condizionato il progetto stesso di Cristina Comencini durante la sua produzione.

Impegno e sovversione del genere della commedia Il film rientra dichiaratamente nel filone del cinema mainstream, con la scelta di attori popolari come Ambra Angiolini e Fabio Volo che garantiscono al film visibilità e un maggior incasso al botteghino, oltre a creare un rapporto diretto tra il pubblico, prevalentemente di italiani bianchi, e due dei suoi protagonisti. La scelta in Bianco e nero di utilizzare la posizione mainstream per trattare temi delicati come quello dell’integrazione razziale nell’Italia del XXI secolo costituisce uno dei suoi punti di forza. Il film adotta inoltre estetica e messa in scena realistiche per replicare le case eleganti della borghesia bianca italiana e per creare una sottile ma pervasiva atmosfera di disagio quando Nadine e i suoi figli si materializzano in questi ambienti. Grazie alla sua posizione centrale rispetto ai canoni italiani della cultura popolare cinematografica, 175

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che gli permette di beneficiare sia di una maggiore distribuzione nelle sale che di una pronunciata esposizione televisiva e mediatica, il film rappresenta una valida mossa strategica in un contesto di continua lotta (seppur ad armi impari) per il controllo della cultura italiana2. Si tratta di un film che, sebbene abbia punti deboli, riesce ad avere un impatto maggiore rispetto alle decine di opere, politicamente più radicali, che languiscono in silenzio ai margini della cultura italiana. La scelta della Comencini di utilizzare il genere della commedia offre al film accesso ad un pubblico più vasto, il quale, come viene dimostrato da alcune ricerche effettuate3, ha sviluppato un’avversione verso documentari e certi film drammatici che sollecitano riflessioni su tematiche socio-economiche, ma sono considerati pesanti e didattici. È bene notare che Bianco e nero non è interamente soggetto alle limitazioni generalmente imposte dalla commedia. Da una parte fa uso di alcuni elementi tipici della commedia, come ad esempio le limitazioni intellettuali che caratterizzano la figura dell’alazon, le cui vedute ristrette e la cui opinione boriosa di sé fanno in modo che il personaggio che lo rappresenta diventi una fonte di umorismo simile a quelle presenti nelle commedie classiche greche e dei periodi successivi. Questa figura infatti riemerge in Bianco e nero nel personaggio di Alfonso, il papà di Elena: un ex colonialista la cui esperienza in Africa e la conseguente percezione delle donne africane crea momenti di imbarazzante umorismo. Dall’altra parte il film rielabora la commedia all’italiana spostando i riflettori dagli elementi tradizionali, come esperienze, speranze e tensioni della gente comune, per puntarli sulla popolazione nera. La cinepresa si muove tra i personaggi di origine africana mentre litigano al parco, parlando un italiano con forte cadenza romana. In questo modo il film offre visibilità sia a nozioni della cultura nera italiana che a quell’identità ibrida che non vengono rappresentate neppure dai settori mediatici italiani più all’avanguardia. Allo stesso modo, uno dei meccanismi classici della commedia romantica, il colpo di scena per cui i due protagonisti superano situazioni di indifferenza per creare un legame, riceve una contestualizzazione contemporanea quando Carlo supera il suo disinteresse e partecipa all’ennesima serata di beneficenza organizzata dalla moglie Elena. Qui incontra Nadine, anche lei costretta a presenziare all’evento, seppur contraria al modo in cui tali convegni perpetuino gli stereotipi sull’Africa e alla maniera in cui, citando le parole usate dalla Comencini, mascherino “un pietismo che poi, in fondo, è sempre un complesso di superiorità” (Colaiacomo, 2008). Anche il finale del film si oppone alla tendenza della commedia a ripristinare lo status quo. Dopo aver subito l’ostracismo sociale come conseguenza dell’adulterio commesso, Nadine e Carlo ritornano senza convinzione alle rispettive famiglie. Ma quando si rincontrano per caso in un parco, il loro sentimento riesplode intatto. La fine del film non fa alcun tentativo di appianare gli antagonismi sociali e razziali precedentemente evidenziati e il film si conclude con l’autodeterminazione della coppia ancora oppressa dalle strutture familiari borghesi e razziali. Non a caso la colonna sonora del film amplifica il suono dei rispettivi figli che bisticciano, quasi a enfatizzare quanta strada abbiano 176

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ancora da fare le relazioni interrazziali in Italia. Per alcuni aspetti, l’analisi di Sonia Cincinelli sulle implicazioni dell’amore interculturale nel film di Silvio Soldini, Un’anima divisa in due (1993), rispecchia anche Bianco e nero: Quando il cinema racconta una storia d’amore, mette in scena l’incontro tra due mondi che è modellato sul bisogno comune a tutte le culture di conservare l’ordine e di garantire la sua propagazione. Se si innamorano due individui appartenenti a mondi separati, socialmente e culturalmente, l’ordine è minacciato dal rischio di un cambiamento radicale. (Cincinelli, 2009: 29) Sicuramente, il messaggio che traspare nel punto cruciale del film è che la profondità della relazione tra Nadine e Carlo è riuscita a trascendere i confini invisibili e le linee di demarcazione che separano i diversi gruppi etnici in Italia, quantomeno partendo dalla prospettiva borghese del film. E in merito a tale prospettiva, si vedrà come la regista utilizzi il sistema di valori idiosincratico e prettamente tipico dell’etnia bianca, nonché come tale sistema influenzi diverse sequenze del film e lo sviluppo dei personaggi neri. Difatti, il film non riesce a dissociarsi dall’egemonia borghese bianca che continua a dominare la vita socio-culturale in Italia e sembra rimanere all’oscuro della stretta interazione creatasi tra le diverse etnie nell’ambito della classe operaia. In quanto commedia commerciale, il film risulta ricco di situazioni imbarazzanti impostate su gaffe e pregiudizi della borghesia bianca italiana, quando si tratta di dover interagire con individui di origini africane di pari livello sociale ed economico (se non a volte addirittura superiore, come nel caso di Nadine). Attraverso l’uso del registro comico Bianco e nero sconvolge in maniera intelligente strutture gerarchiche già consolidate. Allontanando la narrativa da questioni convenzionali come la povertà economica dei migranti e la loro vulnerabilità e dipendenza dalla carità, il film riesce ad enfatizzare il modo in cui le istituzioni sociali in Italia, in questo caso la famiglia borghese, tollerano il ‘diverso’ solamente a patto che le regole e le strutture delle élites rimangano immutate. Nella scena in cui Elena confessa ai genitori l’infedeltà di Carlo, Adua, la madre di Elena, si lancia in un’invettiva dagli effetti esilaranti su come gli italiani invitino “loro” a casa propria, diano “loro” un lavoro, e di come “loro” invece ne approfittino per rubare le Barbie ai bambini e i mariti alle figlie. In questo sfogo emotivo sull’interazione tra immigrazione e società italiana, vengono brillantemente condensati una serie di pregiudizi e stereotipi in una diatriba che fa di tutta l’erba un fascio (indipendentemente dalla considerazione se gli immigrati siano appena arrivati in Italia, o siano nel paese da dieci anni, o siano nati sul suolo italiano) e che presuppone una deferenza socioeconomica da parte degli immigrati verso gli italiani bianchi. La beata ignoranza che caratterizza questo sfogo improvviso, verbalizzato in presenza della colf nera di Adua, Farida, tradisce quel malinteso senso di benevolenza che maschera una realtà in cui gli immigrati vengono considerati merce di scambio, integrati nella società in ruoli di subordinazione che convengono principalmente agli italiani bianchi; 177

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dai migranti ci si aspetta che sappiano stare al proprio posto e siano riconoscenti per quello che gli viene dato. Tali sequenze aprono con tono radicale e di denuncia un panorama sulla totalità sociale che, secondo le parole usate da Fredric Jameson, supera i confini della dimensione narrativa4, rivelando diverse questioni, tra cui l’identità personale, l’integrazione e i pregiudizi. Questioni che sono effettivamente emerse dalla ricerca empirica precedentemente menzionata. Nel 2009, poco dopo la produzione del film, è stato intervistato un campione di 40 italiani di origini sub-sahariane, residenti principalmente in Piemonte e in un’età compresa tra i sedici e i quarant’anni. Il 45% degli intervistati ha dichiarato di sentirsi altrettanto italiano quanto congolese (o appartenente al proprio Paese di origine), e un ulteriore 30% addirittura più italiano, in termini di identità. Alla domanda “Ti senti parte integrante della società italiana?”, il 55% degli intervistati ha dato una risposta affermativa: una percentuale piuttosto elevata, considerato il razzismo istituzionalizzato che ha continuato a pervadere il sistema politico e mediatico nel primo decennio del XXI secolo. Situazione derivata dalla presenza in ruoli ministeriali di alcuni esponenti della Lega Nord e del partito ex-fascista Alleanza Nazionale.Tuttavia non è un caso che l’82% degli intervistati abbia identificato la discriminazione nel mondo del lavoro e nella vita di tutti i giorni come la difficoltà più grande tra quelle affrontate, oltrepassando di gran lunga altri problemi quali ostacoli burocratici per l’ottenimento della cittadinanza o difficoltà legate alla riconciliazione delle tradizioni familiari con quelle della società italiana. Le statistiche indicano che gli intervistati sentono una forte affinità con l’Italia, un senso di appartenenza che tuttavia viene attenuato dagli episodi di pregiudizio razziale che marcano le loro vite, episodi che vengono ricostruiti nel film quando ad esempio Nadine e Carlo arrivano in un hotel e l’impiegato alla reception dà per scontato che Nadine sia una escort pronta a lasciare la stanza la mattina dopo, prima della colazione.

Bianco e nero: un esercizio di orientalismo contemporaneo? Bianco e nero, scritto da Cristina Comencini insieme a due co-autrici italiane bianche, è il tipico esempio di film di cultura popolare che risulta progressista in alcune delle sue rielaborazioni della commedia, ma la cui struttura visiva e narrativa spesso rievoca, seppur involontariamente, fenomeni basati sullo sfruttamento e sull’egemonia culturale che risalgono a centinaia di anni fa. Se analizzato all’interno dei parametri dell’arte contemporanea, Bianco e nero rimane esposto al tipo di critica che Stuart Hall riserva per quelle caratteristiche meno emancipatrici della cultura popolare postmoderna, con il suo “deep and ambivalent fascination with difference – sexual difference, cultural difference, racial difference and, above all, ethnic difference”; una percezione culturale che gode “a taste of the exotic” in quanto caratterizzata da una specie di “licensing of the gaze”, partendo da ciò che è identificabile come “the West’s fascination with the 178

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bodies of black men and women from other ethnicities” (Hall, 1997: 124-125). Esiste un legame evidente tra l’ambivalenza del postmodernismo e le tendenze culturali precedenti come ad esempio l’orientalismo. Il fenomeno dell’orientalismo, come viene descritto da Edward Saïd, è un esempio del modo in cui la cultura occidentale riproduce la realtà socio-politica dell’imperialismo europeo in Africa e nell’oriente, con la sua reazione impulsiva di ‘possedere’ l’Altro in tutti i sensi, partendo dal controllo territoriale per arrivare all’accumulo della conoscenza etnografica degli usi e costumi sociali dei popoli extraeuropei, finendo col desiderare di sperimentare l’Altro sessualmente (Saïd, 2003: 109-110, 187). La prossima parte di questo saggio delinea il modo in cui la Comencini non riesca a separare Bianco e nero da queste posizioni di egemonia socio-culturale, perdendo così l’opportunità di offrire una visione della vita dei cittadini italiani di origini africane più incentrata sul loro punto di vista. I problemi intrinseci del film partono dalla prospettiva visiva delle sue riprese, dall’allineamento cognitivo prolungato nel caso di personaggi bianchi come Carlo, nonché dal contrasto tra la relativa immobilità dei protagonisti neri e l’impeto dato alla narrativa dai personaggi bianchi più attivi.Yosefa Loshitzky (2010: 9, 75) sottolinea la tendenza attraverso la quale l’occhio della cinepresa, nel momento in cui si focalizza sugli individui per renderli “spectacles to be consumed”, può caricarli di esotismo e idealizzarli, e questo accade in particolare con le donne immigrate. L’ingresso nella narrativa di Bianco e nero di Nadine (la voluttuosa attrice Aïssa Maïga) che, sigaretta tra le dita, emerge con sensualità dal buio vicino alla struttura in cui ha luogo l’evento di beneficenza e si dirige verso Carlo, attiva immediatamente una serie di tropi che vanno dall’evocazione dell’appellativo di ‘pantera nera’, usato per indicare le donne di alto profilo come Naomi Campbell e tanto amato dai media italiani (un’idea reiterata dal viscido collega di Carlo, Dante), a una più sfumata associazione all’immagine cinematografica della femme fatale dei film noir. La scena investe il personaggio di Nadine di un’avvolgente sensualità, mettendo in moto i desideri e le curiosità di diverse sezioni del pubblico, anziché evidenziarne altre qualità come ad esempio le facoltà intellettive. A questo riguardo la prospettiva della cinepresa – strutturata in base al punto di vista di Carlo – stabilisce il tono del resto del film. Si contano ventiquattro sequenze sul punto di vista dei personaggi bianchi verso i personaggi neri o verso la manifestazione dell’Altro, come ad esempio le immagini di donne africane nei calendari di beneficenza. Sono prospettive che assorbono e accumulano informazioni secondo la tradizione orientalista e che non ricevono uno sguardo di risposta da parte dei personaggi neri. Al contrario le sequenze sul punto di vista dei protagonisti neri e che assorbono informazioni sul mondo dei bianchi sono solo undici. Per quanto riguarda l’allineamento tra spettatori e personaggi, un termine coniato da Murray Smith (1995: 6, 83-84) per sostituire la vaga nozione di ‘identificazione’ e definirla invece come il modo in cui le narrative offrono agli spettatori accesso – a livello spazio-temporale – ai pensieri, alle azioni e reazioni dei personaggi, è evidente che l’allineamento dello spettatore sia più vicino ai personaggi bianchi del film. Vi è 179

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una proliferazione di scene di questo genere, tra le quali si ricorda quella della festa di compleanno di Giovanna (figlia di Carlo ed Elena) in cui Carlo osserva mortificato le gaffe commesse dai genitori di Elena e dagli altri ospiti quando ad esempio porgono bicchieri vuoti a Nadine: sequenze che costituiscono il 31,3% della durata del film. Mentre – sebbene il film contenga un numero simile di personaggi neri dialoganti – le sequenze di allineamento di questi con lo spettatore rappresentano solo il 22,4% della durata della pellicola. Le scene che mostrano un allineamento doppio, come ad esempio quella di Nadine e Carlo all’hotel, costituiscono il 46,3% del film. Se si confrontano le sequenze più lunghe e più frequenti, come quelle in cui personaggi come Carlo e Elena riflettono sull’assenza nelle loro vite di un’interazione sociale con persone di etnie diverse, con le scene decisamente più brevi che presentano la reazione emotiva di Nadine, Bertrand e più in seguito Amadou (cognato di Nadine) all’adulterio commesso dalla coppia, si nota una netta separazione di tipo cognitivo/emotivo nella struttura del film e nello sviluppo dei suoi personaggi. La sensazione è quella di vedere i personaggi neri posizionati strategicamente in una serie di situazioni narrative, per essere usati come un meccanismo che permetta ai personaggi bianchi (e di conseguenza a spettatori e regista bianchi) di esplorare le contraddizioni e le insicurezze presenti all’interno della psiche della borghesia bianca. Un input diretto (piuttosto che indiretto) da parte di un collaboratore nero durante la stesura della sceneggiatura5 avrebbe forse favorito un maggior equilibrio strutturale e percettivo della linea narrativa. Bianco e nero dunque presenta pochi esempi che permettano allo straniero di osservare e valutare gli aspetti della cultura dominante del paese ospitante; un tipo di approccio adottato invece da Rachid Benhadj in L’albero dei destini sospesi (1997). James Snead (1997: 26) ha analizzato le implicazioni della passività dei personaggi neri sullo schermo, facendone notare la “almost metaphysical stasis” agli inizi del XX secolo, con la loro frequente passività nelle narrative dei film che diventa un codice per rammentarne il “continuing economic disadvantage”. È dunque interessante notare come, in un film in cui – giusto o sbagliato che sia – le questioni economiche sono state cancellate dalla narrativa, si mantenga la stessa tendenza. In Bianco e nero, è Nadine a fare il primo passo verso Carlo durante la serata di beneficenza, ma il personaggio viene successivamente messo in una posizione di passività. È Carlo che la ‘soccorre’ durante la penosa sequenza della festa di compleanno; è lui che prende le redini della loro storia d’amore, invadendo il territorio dell’appartamento di Nadine per abbracciarla. Una delle scene chiave del film, quella della Fontana di Trevi, viene anch’essa marcata dalla passività nera6. Durante una passeggiata notturna, Carlo e Nadine si avvicinano alla fontana; quando Nadine si lamenta del fatto che anche Carlo abbia l’immagine della femminilità bianca scolpita in testa, lui la solleva, entra nella fontana, e la getta in acqua. Con questo esplicito riferimento alla celeberrima scena de La dolce vita di Fellini (1960), la Comencini appare implicare che le donne nere possono entrare a far parte dell’iconografia del desiderio collettivo del maschio bianco. 180

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Tuttavia il valore progressista di tale sequenza – ovvero stabilire le credenziali di una donna nera nell’essere oggetto del desiderio maschile – è davvero discutibile, particolarmente se paragonato alle dinamiche emancipatrici che caratterizzano la scena originale de La dolce vita. Il personaggio di Anita Ekberg, Sylvia, anche lei straniera, fa un ingresso da dea nelle acque della fontana, ed è la sua intensa spontaneità volitiva che porta il cinico Marcello (Marcello Mastroianni) ad entrare in acqua nella sua scia e a riconoscere che la concezione esistenziale di Sylvia è quella giusta. In termini di ‘rappresentazione del nero’ in un predominante contesto socioculturale italiano bianco, la scena della fontana di Trevi in Bianco e nero rappresenta un esempio di un approccio molto enfatico e didattico sia sotto l’aspetto visivo che narrativo. Le osservazioni di Snead sulle connotazioni razziali presenti durante i primi tempi del cinema di Hollywood appaiono tuttora sorprendentemente pertinenti a un film moderno come Bianco e nero: “We seem to find the color black repeatedly overdetermined, marked redundantly, almost as if to force the viewer to register the image’s difference from white images. Marking makes it visually clear that black skin is a ‘natural’ condition turned into a ‘manmade’ sign” (1997: 28). Troviamo questo concetto esemplificato nel film della Comencini in una delle riprese precedenti, che ritrae una inquieta Nadine con un altro iconico monumento italiano sullo sfondo: il Colosseo. Una serie di complicate problematiche personali e sociali viene così distillata in un’unica ed enfatica immagine. La scena ha un aspetto artificioso se paragonato al più sfumato senso di alienazione emotiva ed allontanamento sociale dall’ambiente italiano, di cui sono permeati altri film sull’immigrazione. Nella pellicola di Carlo Mazzacurati La giusta distanza (2007), Hassan, un meccanico del Nord Africa, sembra isolato dalla chiusa, seppur rispettosa, comunità della regione Veneto dove lavora: una regione spesso avvolta dalla nebbia. Ne La sconosciuta (2006) di Giuseppe Tornatore, Irena, una donna ucraina e madre surrogata di diversi bambini che spera di rintracciare, prova a mettere radici, seppur temporaneamente, in un’austera metropoli dell’Italia settentrionale. Un altro film in cui gli ambienti vengono utilizzati abilmente allo scopo di intensificare l’isolamento socio-affettivo dei personaggi è L’orizzonte degli eventi (Daniele Vicari, 2005): un clandestino albanese, Bajram, la cui triste esistenza è controllata dalla mafia albanese, viene spesso inquadrato da Vicari in campo lunghissimo, mentre cerca di sbarcare il lunario lavorando come pastore sui desolati pendii del Gran Sasso. Oltre a una sua propria rappresentazione narrativa dei personaggi neri, come ad esempio l’inquadratura di Nadine di fronte al Colosseo, Bianco e nero utilizza anche immagini di individui appartenenti ad etnie diverse tratte da altre fonti mediatiche. Queste rappresentazioni costituiscono poco più che un superficiale collage di immagini mentre vengono osservate da alcuni personaggi della storia, come ad esempio Carlo, colti in momenti di contemplazione personale. Contribuiscono cioè all’intimistica prospettiva socio-culturale attraverso la quale il film generalmente opera, visto che esso si mantiene lontano da problemi politici ed economici più ampi. I vari 181

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poster, calendari e libri di beneficenza che Carlo esamina in diversi momenti del film implicano una crescente consapevolezza ed un maggior interesse da parte del protagonista. Ma nessun vero tentativo viene fatto per mettere in discussione (attraverso un dialogo tra i personaggi) il diritto di mercificare le immagini di donne africane quali icone di povertà, attraverso il loro utilizzo su svariati beni di consumo. Pur riconoscendo che questo utilizzo scaturisce da intenzioni del tutto onorevoli, come quelle per la raccolta fondi, esso rinforza inevitabilmente il sinonimo Africa/povertà. In un altro momento del film, la prospettiva dello spettatore viene improvvisamente immersa in un sito pornografico con l’immagine di una donna nera, e la linea narrativa trattiene brevemente l’identità dello spettatore diegetico, che alla fine si rivela essere il ripugnante Dante. Questa è la vivida rappresentazione di un altro processo di mercificazione e consumo che si autoperpetua, ma ancora una volta, nel risvegliare involontariamente l’interesse del pubblico verso la sessualità esotica, il film rafforza il tropo della sessualità della donna nera che aveva già imprudentemente stabilito con la sensuale entrata in scena di Nadine durante l’evento di beneficenza.

Da innovazione a distorsione; stereotipi insormontabili Per quanto riguarda una delle domande poste nell’introduzione di questo volume – ovvero fino a che punto i registi italiani scelgano di dotare i propri lavori di un messaggio socio-politico coerente e progressista, con l’intento di sensibilizzare il pubblico in un era di depoliticizzazione e censura – alcune delle interviste di Cristina Comencini indicano una serie di intenzioni lodevoli per Bianco e nero, molte delle quali realizzate. Ma in altri momenti il modo di pensare della regista e lo sviluppo del progetto sembrano mancare di chiarezza. In un’intervista a cura di una rivista online (Colaiacomo, 2008) la Comencini mostra una presa di coscienza degli stereotipi mediatici che gravitano intorno alla tematica scelta per il film, citando in particolare il cliché della ‘pantera nera’ in riferimento alla sessualità femminile della donna nera. Tale atteggiamento porta a chiederci allora perché il personaggio di Nadine venga introdotto con una scena basata sulla sensualità fisica (e perché il film continui a privilegiare in particolar modo questo aspetto), anziché utilizzare una sequenza che ne metta in rilievo intelligenza, status sociale e raffinatezza linguistico-culturale. In un altro momento dell’intervista, la regista suggerisce che gli uomini neri sono inclini all’adulterio, includendo anche gli uomini bianchi nello stesso cliché. Presenta anche altre generalizzazioni in riferimento alle preferenze da parte di spettatori di diverse etnie o origini geografiche per un certo tipo di cinema. Non sorprende così che il film, sebbene risulti innovativo nel suo modo di rappresentare una borghesia nera che vive in Italia (“questo tipo di classe sociale non viene mai rappresentato”)7, abbia meno successo nel mettere in discussione e smantellare stereotipi profondamente radicati come quelli sulla sessualità nera. 182

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Per il genere utilizzato e la posizione mainstream, il film rimane ancorato a questioni intime legate a pregiudizi personali e all’alienazione, senza tuttavia trascendere questi limiti ed evolversi in una denuncia dei determinanti socioeconomici che hanno condizionato anche la produzione del film stesso. I commenti della Comencini, espressi durante la conferenza stampa per il lancio di Bianco e nero circa le difficoltà riscontrate nell’ottenere sponsor e aziende disposte a provvedere abiti e altri accessori per gli attori neri del film, furono divulgati ampiamente8. Perlomeno un caso così serio di discriminazione venne denunciato pubblicamente dalla regista, ma avrebbe potuto essere evidenziato anche nel film. Si poteva magari includere una sequenza nel negozio di Carlo, che presentasse per esempio l’ingresso di un rappresentante per la consegna di alcuni cataloghi di vendita; l’arrivo di Nadine per ritirare il computer riparato; l’entusiastico suggerimento di Carlo al rappresentante di rinnovare l’edizione successiva del catalogo con foto di Nadine come ‘testimonial’; il conclusivo silenzio imbarazzato del rappresentante come risposta. Una sequenza del genere avrebbe efficacemente puntato i riflettori su come gli influenti interessi politico-economici siano governati da un sistema di valori reazionario, che continua a sopprimere la realizzazione personale di molti individui. A questo proposito, i critici come Lola Young hanno sollevato preoccupazioni a proposito del modo in cui i registi bianchi mostrino spesso la tendenza a rappresentare il razzismo da parte dei bianchi “as the behavioural/psychological aberration of a particular individual: rarely is racism seen as systemic or institutionalized” (1996: 185). Una strategia narrativa che enfatizzasse in Bianco e nero l’effetto di un pregiudizio sistemico sui singoli personaggi avrebbe potuto respingere questo tipo di critica. Bianco e nero è influenzato da prospettive ed estetiche d’autore, ma non trae necessariamente vantaggio dal fatto di avere le proprie tematiche sociali trasmesse attraverso la visione del mondo di Cristina Comencini. Girato dopo Il più bel giorno della mia vita e La bestia nel cuore, con il loro ritratto dell’influenza manipolativa e repressiva delle famiglie sulle vite degli individui, Bianco e nero è pervaso da temi simili. Ciò è comprensibile se si parte dalla prospettiva della regista, i cui anni di formazione coincidono con la crescita in Italia dei movimenti per l’emancipazione delle donne. Tuttavia queste nozioni risultano potenzialmente problematiche se trasferite in maniera automatica in un contesto sociale ‘nero’, come accade a volte nel film quando Nadine e Bertrand sentono la pressione da parte della famiglia, oppure quando Nadine subisce l’ostracismo del cognato Amadou dopo aver rivelato di avere una relazione con Carlo. Bandita dalla famiglia e con sua sorella Veronique incapace di intervenire o offrirle ospitalità, Nadine si ritrova a vivere sola in una stanza-magazzino in Piazza Vittorio. Nelle discussioni sui diversi aspetti del femminismo degli anni 70, Young (1996: 14) nota il modo in cui la visione predominante della famiglia in quanto fonte di oppressione per le donne fosse in netto contrasto con l’opinione di gruppi di donne nere, le quali sostenevano che “far from being an oppressive institution, for many black people, the family has been a source of strength in hostile situations”. Il ritratto nel film 183

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del modo in cui i parenti di Nadine reagiscono al tradimento nei confronti di Bertrand risulta in qualche modo fuorviante: sebbene nella vita reale l’infedeltà di Nadine susciterebbe sicuramente disapprovazione, l’implicita ostilità razziale di Amadou verso Carlo e verso il concetto di un’unione interrazziale non viene confermata da prove empiriche. Tra le persone intervistate nel sondaggio effettuato in Piemonte (nel quale la maggior parte degli intervistati proviene, come Amadou, dal proletariato) l’87% ha partner caucasici, in genere italiani bianchi. In Italia, tra le comunità nere, questa viene considerata una scelta di vita naturale e convenzionale. Il 40% di questo sottogruppo di intervistati ha già dei bambini, di cui l’80% sono di etnia mista. Pertanto un’interazione personale e culturale ravvicinata fra diversi gruppi etnici è già una realtà concreta in Italia, soprattutto tra il proletariato. Alla luce di tutto questo, le recriminazioni da parte della coinquilina di Nadine in Piazza Vittorio sui comportamenti arroganti degli ex fidanzati bianchi vengono contraddette dalle statistiche del sondaggio, che indicano una notevole presenza di relazioni interrazziali funzionanti. Riepilogando, la segregazione etnica della classe sociale di Cristina Comencini (la borghesia bianca) – e tale isolamento è forse dovuto in parte all’assenza di una sostanziale borghesia nera in Italia – viene usata incorrettamente in Bianco e nero come esempio universale per il ritratto delle relazioni interrazziali nell’Italia contemporanea. Tuttavia uno dei punti di forza del film è l’analisi degli elementi che condizionano le vite dei personaggi come Felicité e Christian, i figli di Nadine. I bambini costituiscono, nelle parole di Fredric Jameson, un ideologema, ovvero un punto nodale, o segno, strattonato in diverse direzioni da forze socio-economiche e politiche contrastanti. L’influenza dell’estetica occidentale bianca su Felicité è evidente quando desidera fortemente di volersi far stirare i capelli, quando prova a tingere di biondo i capelli della propria bambola, e quando, fortemente suggestionata dal consumismo che viene intenzionalmente rivolto ai bambini, ruba una Barbie a Giovanna, figlia di Carlo. In contrasto, i genitori tentano di inculcare valori alternativi nei propri figli: Bertrand esita a cedere al materialismo occidentale non comprando la Barbie alla figlia, mentre Nadine mantiene un senso di coesione comunitaria, portando i figli nel negozio di parrucchiera di sua sorella Veronique: un luogo di incontro per le donne e i bambini senegalesi. Questi elementi inclusi nella linea narrativa indicano una profonda consapevolezza dell’esistenza di diversi fattori che influenzano la vita delle diverse etnie in Italia. Certi film infatti, nel momento in cui prendono forma, possono risultare in anticipo sui tempi nel visualizzare configurazioni sociali che non si sono ancora materializzate. Il ritratto in Bianco e nero di una coppia nera relativamente benestante e cosmopolita, appartenente alla classe media, permette di intravedere una realtà socioeconomica che non si è ancora del tutto sviluppata in Italia. Il film risulta percettivo anche nel suo modo di concettualizzare le barriere sociali ed individuali che rimarranno anche quando i diversi gruppi etnici presenti in Italia avranno avuto accesso ad opportunità personali e professionali che al momento rimangono privilegio esclusivo della borghesia italiana bianca. 184

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Come viene indicato nel saggio, per questo sondaggio sono stati intervistati quaranta italiani di origine subsahariana (principalmente congolese). Sono state fatte undici domande tra cui le seguenti, le cui risposte vengono discusse nel contesto del film: a) Ti senti più italiano o più appartenente al tuo paese di origine? b) Ti senti parte integrante della società italiana? Se no perché? c) Qual è secondo te la difficoltà più grande a cui i figli dell’immigrazione fanno fronte? Probabilmente la forma più aperta di questo conflitto si è manifestata a mezzo televisivo, trasformando la Rai in un campo di battaglia durante la fase finale del quarto governo di Silvio Berlusconi (2008-2011). Ciò ha portato al trasferimento di conduttori televisivi di sinistra quali Serena Dandini su canali come La7. http://www.ilfattoquotidiano.it/2011/ 11/21/dandini-firma-gennaio-parte-nuovo-programma/172118/ Vedere il saggio di Mariagrazia Fanchi, “Il cinema italiano nei contesti di visione”, in È tutto un altro film, a cura di Francesco Casetti e Severino Salvemini (Milano: Egea, 2007), 113-124. Vedere Mike Wayne (2005: 109-110) per una discussione sulle letture di Jameson relative a testi nei quali alcuni dettagli fungono da via di accesso a una serie di determinanti socioeconomici posizionati oltre la portata del testo. Cristina Comencini dichiara di aver incluso nei dialoghi del film le testimonianze di alcuni amici africani (Colaiacomo, 2008). In modo analogo, è Elena a fare la prima mossa con Bertrand per un tentativo, seppure vano, di intimità, tecnicamente reso da una carrellata che mostra la sua mano emergere dietro Bertrand per accarezzargli il collo. Vedere i commenti di Comencini da 14’20” a 15’15” su Colaiacomo, 2008. http://www.immigrazioneoggi.it/archivio/comencini/index.html. Vedere, ad esempio, http://www.rainews24.rai.it/it/news.php?newsid=77380, da cui si può citare:“‘Non c’è stato nessuno sponsor italiano che ha voluto sponsorizzare gli africani. È una cosa assurda e fa capire come sia lontana l’immagine degli africani da noi’. Questo lo sfogo di Cristina Comencini durante la conferenza stampa. Nonostante i toni leggeri e comici del film, ribadisce la regista, sembra non abbia funzionato con gli sponsor: ‘Mentre – dice la regista – ho trovato gli sponsor per gli attori italiani, anche per le piccole cose che servono per fare un film, nessuno ha voluto investire sugli africani. Ma, se ha dato fastidio a loro, significa che il film funziona’”.

Bibliografia Cincinelli, S. (2009) I migranti nel cinema italiano, Roma: Kappa. Colaiacomo, A. (2008) Intervista a Cristina Comencini, regista e scrittrice: Le interviste di Immigrazione Oggi, edizione n. 19, 8 febbraio 2008. http://www.immigrazioneoggi.it/ archivio/comencini/index.html. . Ultimo accesso, giugno 2012. Fanchi, M. (2007) “Il cinema italiano nei contesti di visione” in Casetti, F. e Salvemini, S. (a cura di) È tutto un altro film, Milano: Egea, 113-124. 185

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Hall, S (1997) “What is this ‘Black’ in Black Popular Culture?” in Smith, V. (a cura di) Representing Blackness: Issues in Film and Video, London: The Athlone Press. Loshitzky,Y. (2010) Screening Strangers: Migration and Diaspora in Contemporary European Cinema, Bloomington and Indianapolis: Indiana University Press. Redazione Il Fatto Quotidiano (2011) “Serena Dandini firma con La7. Da gennaio il nuovo programma in prima serata”, 21 novembre. http://www.ilfattoquotidiano.it/2011/ 11/21/dandini-firma-gennaio-parte-nuovo-programma/172118/ Ultimo accesso, novembre 2012. RaiNews24 (2008) “Bianco e nero, la coppia mista secondo Cristina Comencini”. http:// www.rainews24.rai.it/it/news.php?newsid=77380 Ultimo accesso, giugno 2012. Saïd, E. (2003) Orientalism (reprinted with new preface), London: Penguin. Smith, M. (1995) Engaging Characters, Oxford: Clarendon Press. Snead, J. (1997) “Spectatorship and Capture in King Kong: The Guilty Look” in Smith, V. (a cura di) Representing Blackness: Issues in Film and Video, London: The Athlone Press, 25-45. Wayne, M. (2005) Understanding Film – Marxist Perspectives, London: Pluto Press. Young, L. (1996) Fear of the Dark: Race, Gender and Sexuality in the Cinema, London and New York, Routledge.

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Shelleen Greene

La diaspora africana in Italia: immigrazione e identità nazionale in Waalo Fendo di Mohammed Soudani ed in Western Union: Small Boats di Isaac Julien

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estern Union: Small Boats (2007; che da questo momento in poi chiameremo Western Union) è l’ultimo film di Isaac Julien contenuto nella serie Expeditions, una trilogia di istallazioni multischermo che ha come tema la migrazione contemporanea globale e la diaspora africana1. Girato principalmente in Sicilia, Western Union è una riflessione estetica sui flussi migratori dei popoli africani e di altri migranti provenienti da paesi che non appartengono all’area dell’Europa occidentale, che attraversano il Mediterraneo diretti verso l’Europa. Le ‘piccole barche’ (‘small boats’) del titolo si riferiscono alle imbarcazioni abitualmente usate dai migranti per raggiungere le sponde dell’estremo sud dell’Italia meridionale e di altri paesi dell’Unione Europea. La Sicilia, in particolare l’isola di Lampedusa, è da sempre una destinazione consueta per un gran numero di migranti a causa della sua vicinanza con l’area nord africana. L’esito finale di queste pericolosissime traversate, le innumerevoli cronache di incidenti mortali e le immagini di corpi rinvenuti lungo le coste dell’isola, rievocano le visioni drammatiche del transito dei vascelli che, nei secoli passati, attraversavano l’Oceano Atlantico, trasportando gli schiavi provenienti dall’Africa Occidentale alle isole caraibiche e verso il continente americano. Queste immagini sono alla base delle esplorazioni estetiche di Julien. Western Union è preceduto da una serie di lungometraggi e documentari che, durante gli ultimi vent’anni, hanno narrato la condizione dei migranti che giungono in Italia provenienti non solo dal continente africano, ma anche dalle regioni dell’Europa dell’Est, dell’Asia e del Medio Oriente. Mentre i principali media italiani continuano a mostrare immagini di migranti africani che raggiungono il Paese come ‘clandestini’, destinati quindi al mercato del lavoro nero o, più recentemente, come

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rifugiati in fuga dagli sconvolgimenti politici e sociali della Primavera Araba, film come Lamerica (Gianni Amelio, 1994), Tornando a casa (Vincenzo Marra, 2001), e Quando sei nato non puoi più nasconderti (Marco Tullio Giordana, 2005) esaminano il retaggio del colonialismo italiano ed evidenziano il parallelismo tra l’emigrazione italiana in epoche passate e l’immigrazione extracomunitaria contemporanea, che destabilizza le frontiere degli stati nazionali e la dicotomia occidente/non-occidente che vorrebbero costruire (O’Healy, 2010). Tuttavia, la maggior parte dei film che ritraggono la migrazione africana in Italia e la conseguente nascente società multietnica e multirazziale del Paese, è diretta da registi italiani ed è principalmente rivolta ad un pubblico “europeo-occidentale” e di razza “bianca” (Capussotti, 2010: 57-58). Nonostante sia presente un vasto e ben documentato corpo letterario prodotto sia da migranti africani transnazionali che da afro-italiani che affrontano problemi quali razzismo, emarginazione e violenza, oltre alla difficoltà nel costruire un’identità africana ed italiana (Parati, 2005), sono poche le pellicole prodotte da migranti transnazionali africani in Italia o da cittadini italiani di origine africana. È impossibile racchiudere la diversità e la complessità della diaspora africana in Italia all’interno di una monolitica identità ‘africana-italiana’. Nonostante ciò, proveremo ad esaminare il metodo utilizzato dagli autori cinematografici della diaspora africana per affrontare la questione della migrazione globale e dell’appartenenza post-nazionale, concentrandoci in particolare sugli italiani di origine africana di prima e seconda generazione, per i quali essere ‘neri’ ed ‘europei’ potrebbe non essere più un’impossibilità assoluta. A differenza di Gran Bretagna e Francia, l’incremento del numero di immigrati africani in Italia, così come di afro-italiani, fu causato dai modelli di migrazione concepiti durante gli anni 70 in risposta al primo grande flusso migratorio proveniente dalle ex colonie europee, durante il periodo di decolonizzazione avvenuto dopo la fine della Seconda Guerra Mondiale. In questo senso, la comunità afro-italiana in Italia può essere considerata oggi una nuova “Europa nera”, accanto a quelle già radicate presenti in Gran Bretagna, Francia, Germania ed Olanda, e la cui storia si sta scrivendo in questi anni (Hine, Keaton, Small, 2009). Sebbene la migrazione ed il conseguente insediamento africano in Europa abbiano seguito percorsi e contesti storici e nazionali diversi, secondo Hesse la comunità afro-italiana condivide, insieme ad altre “Europe nere”, “racial lineages in the histories of Atlantic slavery and/or formerly colonized countries, economic migrations, and socioeconomically oppressed communities, [and] are routinely expected to demonstrate national allegiances while living with unreliable citizenship rights and recognition, and subject to the ever-present risks of institutional racism” (Hesse, 2009: 292). Benchè l’Impero Italiano in Africa Orientale terminò nel 1943, i migranti provenienti dalle ex colonie in Eritrea, Libia ed Etiopia non iniziarono a raggiungere l’Italia in numero consistente fino alla fine degli anni 70 (Andall, 2002: 390). Nel frattempo, mentre le politiche neoliberiste e capitalistiche, la fine della guerra fredda ed i progressi tecnologici creavano le condizioni politiche, culturali ed 188

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economiche per l’attuale periodo di globalizzazione, la Sicilia e l’Italia meridionale si trasformavano in punti d’ingresso per i flussi migratori provenienti dalle aree del Nord e del Sud Sahara che cercavano di entrare in Italia o di attraversarla con lo scopo di raggiungere altri paesi europei. Le prime leggi italiane sull’immigrazione non entrarono in vigore fino alla metà degli anni 80 grazie ad uno sforzo collettivo da parte di “churches, trade unions, NGOs, and other associations” che erano in prima linea nella fornitura di servizi per gli immigrati appena arrivati (Allievi, 2010: 92). Tuttavia, alla fine degli anni 80, il sempre crescente numero di migranti provenienti da zone al di fuori dell’Europa occidentale portò alla creazione di nuove leggi e decreti, come la legge Martelli (1990), che provò a regolarizzare gli immigrati già residenti in Italia, specialmente i cosiddetti ‘clandestini’, ma senza tuttavia proporre una legislazione che affrontasse in modo efficace i problemi rappresentati dai nuovi flussi migratori. Successivamente, con il nascere nel Paese di sentimenti anti-immigrazione, e con la conseguente e crescente influenza di partiti di estrema destra come la Lega Nord, la legge Turco-Napolitano (1998) portò alla creazione di centri di detenzione temporanea. Lo scopo di questi centri era quello di trattenere i gruppi di migranti clandestini, offrendo loro poche speranze di legalizzare la propria permanenza in Italia. Nel 2002, il governo di centrodestra guidato da Silvio Berlusconi approvò la legge Bossi-Fini, con la quale di fatto venne introdotto in Italia il reato di clandestinità. La legge rese quasi impossibile per i migranti ottenere un regolare contratto di lavoro e quindi la residenza in Italia (Allievi, 2010: 94). È durante questo periodo che vengono prodotti i primi film che documentano la situazione dell’immigrazione africana verso l’Italia; tra questi troviamo Pummarò (Michele Placido, 1990), ispirato dalla violenta reazione del Paese verso gli immigrati africani, ed in modo particolare dall’omicidio di Jerry Masslo, un immigrato proveniente dal Sud Africa che all’epoca lavorava in una delle numerose coltivazioni di pomodori presenti nell’Italia del Sud (Lombardi-Diop, 2008: 165). Lo scopo di questo saggio è di analizzare il processo attraverso il quale Western Union utilizza la migrazione africana verso l’Italia, per proporre un interrogativo più ampio sul ruolo interpretato dalla migrazione nella formazione dell’identità diasporica africana all’inizio del ventunesimo secolo. A supporto della sua rappresentazione della migrazione africana verso l’Italia, Julien porta le proprie esperienze accumulate all’interno dei collettivi sperimentali di film neri britannici, permettendo così a Western Union di servire da commento ai processi di costruzione di un’identità che è sia africana che europea. Waalo Fendo (Where the Earth Freezes, 1997), diretto da Mohammed Soudani, è uno dei primi film politici italiani diretti da un regista transnazionale africano che affronta le problematiche relative all’immigrazione africana in Italia. Nella produzione, narrazione e tipologia di pubblico a cui si rivolgono, sia Waalo Fendo che Western Union si interrogano sul ruolo che l’immigrazione in Italia e l’insediamento nella sua società hanno avuto nella formazione di un’identità africana. Il saggio si conclude con una breve analisi della posizione di Sandy Cane, la prima 189

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afro-italiana ad essere eletta sindaco di un comune italiano. L’elezione di Cane nel 2009 ricevette una notevole copertura mediatica, anche da parte della stampa internazionale, grazie non solo al suo appellativo (‘l’Obama italiana’), ma anche al fatto di appartenere al partito della Lega Nord, e di essere una decisa sostenitrice delle leggi anti-immigrazione proposte dallo stesso partito. Mentre l’elezione di Cane è stata usata dalla Lega Nord per propagandare la loro presunta apertura verso le diversità etniche e razziali e verso gli emigrati ‘regolari’ ben inseriti nel tessuto sociale del Paese, opere come Western Union di Julien offrono degli interrogativi critici sui concetti di razza, nazione e migrazione globale all’inizio del ventunesimo secolo che mettono in discussione l’idea di diversità conservativa della Lega Nord, ponendo il dibattito che circonda l’immigrazione africana come indissolubilmente legato alla questione della formazione della nazione italiana. Waalo Fendo è un adattamento dell’opera di Saidou Moussa Bâ La promessa di Hamidi (Hamidi’s Promise, 1991), ed è un viaggio narrativo raccontato da Demba, un giovane senegalese in Italia che descrive gli eventi che porteranno all’assassinio di suo fratello Yaro (interpretato da Saidou Moussa Bâ). Dopo una sparatoria ad una stazione di servizio durante la quale Yaro viene ucciso, il film si sviluppa tra flashback del loro villaggio in Senegal e la vita in Italia e collega quegli eventi che causeranno la morte di Yaro. Il film è narrato principalmente nella lingua nativa di Bâ, il fula-wolof, rimarcando una preesistente ‘estraneità’ che mira alla diversità linguistica e culturale del Senegal, interrompendo quindi il processo di naturalizzazione del migrante africano. Parati sostiene che “Bâ and Soudani demand an adjustment on the part of European viewers, who are confronted by the familiar, easily legible landscape of urban Milan, which is destabilized by the story of a migration expressed in the language of the migrant” (Parati, 2005: 124). Anche se Waalo Fendo fa uso di una tecnica visiva usata spesso nella produzione documentaristica sulle migrazioni, costituita quindi da naufraghi, ronde armate, centri di detenzione e venditori di strada africani, il film è narrato attraverso gli occhi del migrante africano e riesce a trasmettere allo spettatore l’esperienza del migrante transnazionale tramite l’impiego di lingue diverse. Grazie all’uso di flashback che ci trasportano spesso nel villaggio senegalese, il film propone una riflessione sull’eredità lasciata dal colonialismo europeo in Africa. Ciò avviene con particolare forza con Yaro. Dopo aver ricevuto l’incarico di organizzare il lavoro in una piantagione di pomodori in Sicilia, lo vediamo visitare un’area di detenzione utilizzata in passato per contenere i prigionieri africani destinati verso le Americhe. La voce fuoricampo di una guida turistica descrive le condizioni in cui gli schiavi venivano tenuti e trasportati, mentre la cinepresa scorre tra gli ambienti architettonici e segue i movimenti di Yaro, tracciando così un parallelo tra il commercio di schiavi attraverso la rotta Atlantica ed il fenomeno contemporaneo della migrazione africana verso l’Europa. In una sequenza, la voce fuori campo descrive le celle sotterranee nelle quali venivano tenuti i prigionieri prima di intraprendere il ‘Middle Passage’, l’insidiosa traversata dell’Oceano 190

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Atlantico. Lo spettatore viene quindi indotto a prendere la stessa prospettiva del prigioniero che si accinge ad uscire da un tunnel buio che, attraverso una porta stretta, lo porterà sulla riva dell’oceano. Come analizzerò fra breve, Isaac Julien riprende questo concetto in una sequenza similare dove viene inquadrato un passaggio sotterraneo per richiamare alla memoria il ‘Middle Passage’ ed il commercio di schiavi lungo la rotta Atlantica. Per Soudani e Julien, la penisola italiana diventa dunque il terreno su cui intavolare una riflessione sulla modernità nera e sul momento storico che portò al fenomeno della tratta degli schiavi africani. In Waalo Fendo, questo ritorno alla prima epoca del capitalismo globale ed alla migrazione forzata delle popolazioni nere africane è innescato da una traversata del Mediterraneo, seguito da un viaggio attraverso l’Italia. La migrazione dalla Sicilia alla parte settentrionale della penisola non è simile solamente a quella ritratta da Placido in Pummarò, ma anche a quella descritta nel classico film neorealista italiano Paisà (1946). Come sostiene Angelo Restivo, gli episodi narrativi che descrivono la discesa degli Alleati lungo l’Italia sono tenuti uniti dall’uso costante di una mappa dell’Italia che, verso la fine del film, rappresenterà l’Italia come un territorio nazionale unificato (comprendendo la Sicilia e le Alpi) di colore bianco. Restivo scrive: “The movement of the liberation recreates (loosely) the historical moment of the Risorgimento, the unification of Italy. Thus, a problematic is set up: to what extent does the ‘new’ or restored map of Italy represent the nation at its historical moment of formation, and to what extent does it suggest a contamination by the foreign?” (Restivo, 2002: 28). Per Restivo, il ‘biancore’ che simboleggia la restaurazione della nazione italiana evidenzia una già problematica unificazione ed anche il presupposto di un’omogeneità razziale con la quale la nazione può identificare gli ‘stranieri’. Al volgere del ventunesimo secolo, il percorso narrativo di Waalo Fendo ci ricorda che l’unificazione italiana, in un certo senso, non è mai stata completata. La vulnerabilità del confine italiano, in particolare la vicinanza della Sicilia alla regione nord africana, incarnata nell’espressione ‘tutto ciò a sud di Roma è Africa’, mette in dubbio la presunta omogeneità della razza e della nazione italiana, un concetto che i confini delle nazionistato hanno cercato di costruire. Il migrante africano contemporaneo torna in Italia per rivelare un’altra modernità che ostacola la dualità ‘Ovest/non-Ovest’. Quindi, in film come Waalo Fendo, l’immigrazione africana e la formazione dell’identità diasporica non possono essere comprese senza mettere in discussione la formazione dell’identità razziale e nazionale italiana. Mediante l’impiego di strategie per la costruzione di un soggetto di migrante africano credibile, Soudani ci mostra ciò che Hamid Naficy ha teorizzato essere un “accented cinema”, un cinema prodotto da registi post-coloniali che risiedono oggi in Occidente, un cinema che è distorto dalla loro “liminal subjectivity and interstitial location in society and the film industry” (Naficy, 2001: 10). Waalo Fendo è tratto da un libro scritto da un migrante transnazionale africano residente in Italia e diretto da 191

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un regista di origini algerine residente in Svizzera. L’opera è stata finanziata principalmente attraverso fondi statali e da organizzazioni religiose con lo scopo di educare il pubblico sull’immigrazione proveniente da aree al di fuori di quelle dell’Europa Occidentale, ed è stata prodotta e distribuita attraverso il circuito del festival del film transnazionale e rappresenta, ed al tempo stesso è, il prodotto della situazione della migrazione globale post-industriale (Capussotti, 2009: 57). Waalo Fendo può altresì essere classificato come un viaggio narrativo di “homelessness and wandering”, caratterizzato sia da cronotopi cinematici aperti (dove per cronotopo si intende l’organizzazione di spazio e tempo all’interno della diegesi cinematografica) usati per visualizzare il villaggio senegalese di Demba e Yaro, che da cronotopi chiusi di “imprisonment and panic” utilizzati per descrivere la vita dei due fratelli in Italia (Naficy, 2001: 152-153). Tramite una serie di flashback, Waalo Fendo si muove dalle ampie distese del paesaggio naturale e degli spazi collettivi all’interno del villaggio senegalese, agli spazi bui e claustrofobici dell’ambiente urbano europeo che i migranti africani sono costretti ad occupare per vivere e sostenere se stessi (stazioni di bus, metropolitane, vicoli, appartamenti sovraffollati) e per evitare la detenzione o la deportazione. Negli episodi girati a Milano, il film ci mostra una rappresentazione realistica della vita dei migranti africani, mentre vengono curati o mentre contrattano con alcuni gestori italiani senza scrupoli che controllano il settore del commercio ambulante. Molte delle scene nelle strade, alla stazione del treno oppure al mercato all’aperto di Milano, ci vengono mostrate attraverso gli occhi vaganti e disorientati del migrante. In tutte queste scene, è la voce fuori campo di Demba, insieme alla sua presenza occasionale di fronte alla cinepresa nelle vesti di intervistato, a guidare la narrazione. Tuttavia, molte delle scene del film sono descritte attraverso gli occhi di Yaro nel suo ruolo di protettore e fratello maggiore di Demba. Ma Waalo Fendo non è semplicemente una storia di sopravvivenza nelle ostili metropoli europee. Attraverso il costante riferimento alla casa dei due fratelli in Senegal ed al motto di Yaro: “Colui che non sa da dove viene, non sa dove va”, Waalo Fendo affronta la questione del mantenimento di quei valori comuni e di quelle tradizioni che sono in grado di sostenere e potenziare i soggetti diasporici africani che oggi risiedono in Europa e nel resto del mondo industrializzato. In questo modo, il film non si rivolge esclusivamente allo spettatore ‘bianco’ europeo. Waalo Fendo è anche indirizzato allo spettatore africano delle aree a Nord e a Sud dell’area Sahariana ed alle comunità diasporiche di altre nazioni europee non-occidentali, che si interrogano sul reinsediamento nei Paesi dell’Europa occidentale e sull’eredità lasciata dal colonialismo europeo. Verso la conclusione il film ci riporta in Senegal. In uno dei rari momenti dedicati alla Donna africana, la scena ci mostra alcune donne mentre sembrano celebrare la nascita di un bambino. È il simbolo della prosecuzione della vita, malgrado l’assassinio di Yaro avvenuto in segno di rappresaglia contro il suo impegno per migliorare le condizioni di lavoro dei manovali africani. Nonostante la morte del fratello, Demba 192

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decide di rimanere in Italia e di costruirsi una vita. Lo vediamo durante il giorno muoversi all’interno di un paesaggio urbano e per un attimo diventa difficile capire se egli si trovi in una metropoli africana oppure a Milano. In ogni caso, lo vedremo presto raccogliere le sue mercanzie e prepararsi per un altro giorno che passerà in strada come venditore ambulante e dove diventerà, insieme a molti altri come lui, parte integrante del paesaggio urbano europeo. Il finale del film nasce dalle esperienze di Bâ come migrante transnazionale in Italia. Nelle sue opere letterarie e cinematografiche, l’artista usa un’ibridità linguistica in modo da svelare e destabilizzare la natura artificiale della condizione dell’individuo sia occidentale che africano. Così come Waalo Fendo, Western Union costringe lo spettatore ad individuare il rapporto tra la migrazione africana contemporanea in Italia, l’imperialismo occidentale ed il traffico degli schiavi africani attraverso l’Atlantico2 . Tuttavia, con l’utilizzo di installazioni multi-video e di una struttura narrativa e formale non-lineare, Western Union esplora una nuova tendenza all’interno del cinema politico italiano. Nonostante lavorino con due distinte modalità cinematografiche, entrambi gli artisti si interrogano sull’eredità lasciata dalla tratta atlantica degli schiavi; un impulso identificato da Paul Gilroy nel suo autorevole studio sugli ambienti intellettuali ed artistici fondati dai soggetti diasporici africani che si spostarono tra l’Europa, le Americhe ed i Caraibi (Gilroy, 1989). Come sostenuto da Iain Chambers e Cristina Lombardi-Diop, il Mediterraneo dovrebbe essere considerato come una delle aree usate per il movimento della diaspora africana, non solo nell’epoca contemporanea della migrazione globale, ma già nel XV secolo quando i commercianti italiani genovesi finanziavano il trasporto degli schiavi africani attraverso i porti dell’Italia meridionale e della Spagna, stabilendo quella che Lombardi-Diop chiama una “Mediterranean-Atlantic continuity” (Lombardi-Diop, 2008: 163). In un’intervista, Julien ha osservato che Western Union è interessato a due viaggi: uno all’interno del cinema italiano, l’altro intrapreso da “the new people coming from Northern Africa and Africa to this part of Europe” (Julien, 2007). Nel sovrapporre storie di emigrazione italiana, colonialismo, unificazione e immigrazione africana contemporanea, Julien propone un nuovo linguaggio visivo attraverso il quale riformula la controversia che circonda il tema dei migranti provenienti da nazioni europee non occidentali e la possibilità di un’identità postnazionale. Un’identità in cui i confini nazionali non abbiano più la funzione di evidenziare ed escludere lo straniero, il clandestino, od il soggetto non-cittadino. Western Union ha inizio con l’introduzione della figura della ‘sopravvissuta’ (interpretato da Vanessa Myrie, narratrice intertestuale o ‘testimone’ in tutti e tre i film), che appare in silhouette contro un’inferriata di ferro posta alla fine di una galleria che porta verso il mare. Così come con Yaro in Waalo Fendo, l’immagine della ‘sopravvissuta’ evoca sia i tragici viaggi dei migranti dei nostri giorni, sia la tratta atlantica degli schiavi. In ogni caso, la ‘sopravvissuta’, insieme agli altri ‘migranti’ (interpretati dalla Russell Maliphant Dance Company), ci ricorda anche della dinamica 193

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ibridità culturale resa possibile dalla posizione centrale del mare tra l’Europa, l’Africa ed il Levante. Dopo un’invocazione lirica interpretata dalla cantante maliana Oumou Sangaré, ascoltiamo notizie italiane ed inglesi di naufragi, mentre su tre schermi appaiono immagini del mare, delle espressioni stanche di marinai e di migranti, delle imbarcazioni vuote ferme nel porto, e di relitti sulla spiaggia (González, 2010: 115). Muovendosi tra la Scala dei Turchi in Sicilia, il barocco Palazzo Gangi del diciottesimo secolo e l’Hotel Orientale di Palermo, Western Union diventa una riflessione visivamente splendente, ma allo stesso tempo cupa, sulla migrazione globale. Il cinema e la politica di Julien nascono dal suo lavoro come membro fondatore di Sankofa Film e Video, fondata nel 1983 da registi britannici neri di seconda generazione proprio nel mezzo del periodo conservatore della Thatcher. Sankofa e altri collettivi cinematografici come Ceddo e Retake, hanno prodotto dei film che reagivano al clima politico in Gran Bretagna alla fine degli anni 70, caratterizzato da un’estrema destra che incolpava le comunità migranti postcoloniali per il declino economico, l’alta disoccupazione e la criminalità. I film prodotti dalla Sankofa furono anche una risposta estetica al cinema politico d’avanguardia britannico che non affrontava le questioni razziali attinenti alle esperienze di cittadini neri britannici di prima e seconda generazione. Mentre una serie di documentari e di cinematografia sociale è stata in grado di fornire un’interpretazione politica delle relazioni razziali ed è riuscita a rappresentare l’identità nera britannica fin dalla metà degli anni sessanta, Sankofa ed i collettivi cinematografici neri, come ci spiega Coco Fusco, hanno spostato “the terms of avant-garde film theory and practice to include an ongoing engagement with the politics of race”, unendo a tutti gli effetti l’avanguardia occidentale tradizionale con un cinema politico ‘terzomondista’ (Fusco, 1988: 8). L’approccio di Julien verso l’Italia e la sua storia di unificazione nazionale, di colonialismo e di immigrazione odierna è anche influenzato dal suo continuo impegno nell’area della teoria postcoloniale, ed in special modo dalla sua interrogazione psicoanalitica dell’eredità coloniale europea che troviamo nelle opere di Franz Fanon e Homi Bhabha (Fusco, 1988). Come sostenuto da Miguel Mellino e Vetri Nathan, solamente nell’ultimo decennio gli studiosi italiani hanno iniziato ad introdurre la teoria postcoloniale come base analitica per esaminare la storia dell’unificazione italiana e del colonialismo, in relazione sia all’immigrazione contemporanea che dall’Europa non occidentale si dirige verso l’Italia, sia alla divisione razziale Nord/Sud del Paese (Mellino, 2006 e Nathan, 2010). Western Union inizia il suo secondo ‘viaggio’ con un omaggio cinematografico a Il Gattopardo (1963), di Luchino Visconti, un adattamento cinematografico del romanzo del 1958 di Giuseppe Tomasi di Lampedusa dal titolo omonimo. Ambientato in Sicilia, il film descrive gli eventi tumultuosi dell’unificazione italiana del 1861 attraverso il personaggio del Principe di Salina (Burt Lancaster), il patriarca di una compassata famiglia aristocratica siciliana. Durante la sequenza del ballo di quarantacinque minuti (girata all’interno di Palazzo Gangi), Salina assiste al crepuscolo dell’aristocrazia siciliana 194

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ed al tentativo di sopravvivere nell’Italia della post-unificazione che passa necessariamente attraverso un inevitabile compromesso con la borghesia siciliana, rappresentata dall’unione tra il nipote di Salina (Alain Delon) e la borghese Angelica (Claudia Cardinale). Il film di Visconti è visto come un commento revisionista all’unificazione italiana, influenzato dal teorico marxista Antonio Gramsci, il cui concetto di trasformismo descrive un processo attraverso il quale una politica radicale (rappresentata dai Garibaldini) è espropriata e neutralizzata da un’élite politica ed economica (Marcus, 1993: 48-49). Esemplificato dalla frase di Tancredi “Per far sì che tutto rimanga com’è bisogna che tutto cambi”, Il Gattopardo illustra il fallimento del processo di unificazione, particolarmente per i lavoratori italiani del sud, i quali, rendendosi conto che l’aristocrazia terriera sarebbe stata sostituita da un’élite di affaristi del Nord, si ribellano immediatamente dopo l’unificazione. Se letto in relazione alla richieste di secessione da parte della Lega Nord, Western Union ci ricorda che, in molti modi, l’unificazione italiana rimane un progetto irrealizzato, legato indissolubilmente alla divisione ‘Nord/Sud’ ed ai tentativi di proteggere le frontiere nazionali e di espellere il clandestino, il non-cittadino (Greene, 260-261: 2012). In Western Union, Julien ritorna ai lussuosi interni del palazzo barocco del XVIII secolo.Vediamo su uno schermo una giovane donna bianca e bionda, una discendente della famiglia Valguarnera ed attuale residente del Palazzo, camminare attraverso la sala da ballo per poi essere inquadrata in primo piano (González, 2010: 122). Su un altro schermo, anche la sopravvissuta entra nella sala da ballo, seguita da un migrante che trasporta il corpo senza vita di un altro migrante annegato. La presenza di questa ‘nuova gente’ è sottolineata da un dialogo tratto da Il Gattopardo, con le voci dell’aristocrazia siciliana che fluttuano come un ricordo lontano, trattenuto nelle mura del Palazzo. Questi spazi e queste temporalità distinte vengono ulteriormente unificate attraverso le immagini di corpi di migranti che si dibattono disperatamente nell’acqua, il cui rumore viene sovrapposto alle immagini della sala da ballo, dove vediamo un migrante che finge di nuotare sul pavimento di mattonelle a sfondo floreale e marino. Posti all’interno di Palazzo Gangi, i corpi dei migranti interrompono la narrativa della formazione della nazione-stato italiana, facendo strada ad altri racconti che ci riportano a secoli precedenti di ibridazione culturale, resi possibili dalla migrazione attraverso il Mediterraneo. Come suggerisce Jennifer González nella sua analisi di Western Union, Julien ed indubbiamente anche Soudani affrontano “the politics of migration from the psychological, internal state of the migrant”, e ci guidano verso un futuro postnazionale collegando i singoli momenti storici per indurre una rivalutazione delle politiche di esclusione della “fortress Europe” (Gonzalez, 2010: 127). Anche se Waalo Fendo e Western Union considerano l’Italia un altro luogo di formazione di un’identità diasporica africana, l’eredità del processo di unificazione italiana ed il suo rapporto con la migrazione africana contemporanea verso il Paese hanno anche condotto a 195

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visioni reazionarie post-nazionaliste, come quelle incarnate dall’elezione della leghista Sandy Cane nel 2009. Di discendenza italiana ed afro-americana, Cane, eletta a sindaco di Viggiù, una piccola città del nord, è un esempio di un cittadino italiano di origine africana che arriva a rappresentare il popolo italiano. Tuttavia, l’accettazione di Cane ha come premessa l’espulsione di immigrati privi di documenti, e quindi clandestini, da parte della Comunità europea. Anche se potrebbe sembrare un paradosso, nella posizione della Cane si riflette quello che Jacqueline Andall, nel suo studio sugli italo-africani di prima e seconda generazione, descrive come “multi-positionality within the notion of diasporic space – a space which encompasses both the local and the global” (Andall, 2002: 390). Se gli afro-italiani ed i migranti africani transnazionali vengono tradizionalmente esclusi dalla collettività nazionale, nel caso di Sandy Cane una persona afro-italiana viene reclutata per rafforzare le politiche sull’immigrazione della Lega Nord, guidate da esigenze dettate dall’economia globale del tardo capitalismo che accetta l’immigrato ‘produttivo’ ma esclude quello ‘clandestino’. Anche se all’inizio del ventunesimo secolo un’identità africana-italiana rimane ancora una categoria altamente controversa, la sua comparsa potrebbe ad ogni modo diventare un indicatore delle condizioni politiche ed economiche che incidono sui cambiamenti in Italia e nella più ampia comunità europea. Tramite una serie di commenti estetici sullo stato attuale dell’immigrazione africana in Italia che richiamano alla memoria la tratta atlantica degli schiavi durante la prima epoca del capitalismo globale, Waalo Fendo e Western Union attraversano la storia d’Italia, la sua trasformazione in nazione-stato ed il suo passato colonialista e di emigrazione, offrendoci visioni alternative di modernità occidentale e del nostro possibile futuro postnazionale.

Note 1

2

Expeditions include anche True North (2004), un’indagine sull’esploratore africanoamericano Matthew Henson, ritenuto essere la prima persona a raggiungere il Polo Nord nel 1909, e seguito da Fantôme Afrique (2005), una disamina dell’industria cinematografica africana ambientata a Ouagadougou, Burkina Faso. Questa analisi di Western Union: Small Boats è una rielaborazione delle ricerche svolte in Equivocal Subjects: Between Italy and Africa – Constructions of Racial and National Identity in the Italian Cinema (Continuum: 2012); Isaac Julien’s Expeditions (Milwaukee Museum of Art: 2012); e Postcolonial Italy (Palgrave Macmillan: 2012).

Bibliografia Allievi, S. (2010) “Immigration and Cultural Pluralism in Italy: Multiculturalism as a Missing Model”, Italian Culture, vol. 28, n.2, 85-103. 196

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Appendice

Intervista a Giuseppe Tornatore: Cinema, Società, Politica a cura di William Hope

I

film di Giuseppe Tornatore sono stati accolti con successo dal pubblico e dalla critica per la loro raffinatezza cinematografica, per la rilevanza transculturale dovuta al carattere lirico e insieme avvincente delle storie rappresentate, per il modo delicato di esplorare l’eredità socio-culturale del passato ed infine per il modo in cui tale eredità si proietta sul presente e lo influenza. Per molti aspetti, il cinema di Tornatore – esemplificato da uno dei suoi progetti più ambiziosi, Baarìa (2009), con le sue vivide rappresentazioni delle difficili fasi di cambiamento sia nella vita degli individui che nell’evoluzione della società nel suo insieme – può anche essere considerato un documento visivo dei fattori che hanno plasmato la vita di generazioni di persone. Tuttavia poca attenzione accademica è stata dedicata all’elemento socio-politico che emerge frequentemente dal lavoro del regista. Ed è per questo che ho posto tale elemento del suo cinema alla base dell’intervista condotta con lui verso la fine del 2011. Il primo lungometraggio di Tornatore, Il camorrista (1986), traeva spunto da alcuni episodi ben identificabili, appartenenti al mondo della criminalità organizzata e alla politica, nell’Italia degli anni Settanta e Ottanta. Esso amalgamava elementi biografici del boss napoletano Raffaele Cutolo con riferimenti indiretti a scandali politici, quali il caso Cirillo, per il ritratto di un boss mafioso emergente, il Professore di Vesuviano, e di sua sorella Rosaria. Personaggi, la cui mentalità abbiamo discusso nell’intervista. Il film è una esplorazione imparziale della funzione della camorra come una rete che offre mezzi di sussistenza, lavoro, e – in alcuni casi – giustizia agli esclusi socialmente. Spesso il film restringe il suo centro narrativo per esaminare in che modo i legami mafiosi siano a volte la sola forma di sopravvivenza economica per gli individui esclusi da possibilità di lavoro più legittime. Lo stato delle cose che deriva da quest’analisi sottolinea l’inadeguatezza delle istituzioni dello Stato, le quali nelle decadi successive all’uscita de Il camorrista poco hanno fatto per giustificare l’appello del film agli 199

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spettatori di riconfermare la loro fiducia nelle leggi dello Stato, l’“unico e vero presidio del vivere civile”. Il famoso Nuovo Cinema Paradiso (1988) è sempre stato molto di più della meditazione sul declino dell’importanza socioculturale del cinema nella società e sulle conseguenze che tale declino ha avuto sulle comunità, per le quali il cinema locale rappresentava il fulcro della coesione sociale. Nel ritrarre la traiettoria esistenziale del suo protagonista Totò Di Vita, il film mette in discussione i valori che sottengono gli stili di vita nella società occidentale contemporanea. Ciò si realizza attraverso il confronto esplicito tra le odierne esistenze agiate (sebbene quest’agiatezza ha subito un forte declino dai tempi in cui il film fu girato), ma emotivamente aride dei professionisti in carriera, e quelle del passato che il film ritrae caratterizzate da un maggiore equilibrio sia sotto l’aspetto sociale che personale. Il film rispecchia il disagio di molti spettatori verso una società consumista sempre più stratificata, verso l’essere testimoni della distruzione di punti di riferimento familiari, verso la tendenza postmoderna di cancellare il passato. Ne consegue che il film riesce a toccare un nervo scoperto degli spettatori che appare comune a tutto il mondo industrializzato. Nuovo Cinema Paradiso possiede anche una rilevanza attuale data la sua enfasi sui fattori che ancora inducono gli individui ad abbandonare le loro comunità, al fine di poter sviluppare le loro potenzialità altrove e vivere una vita più autonoma. Un tema che verrà riproposto nel successivo film di Tornatore, Stanno tutti bene (1990). La narrativa di Stanno tutti bene ruota intorno alla decisione presa da Matteo Scuro (Marcello Mastroianni), un impiegato dello Stato in pensione e un archetipo della famiglia siciliana patriarcale, di viaggiare attraverso l’Italia allo scopo di visitare – senza preavviso – i suoi figli con l’intenzione di ricreare l’unità familiare riunendoli per un pranzo. Il film mette in scena come i figli si siano allontanati dal luogo di origine per fuggire l’oppressiva presenza del padre, ma anche come questa fuga li abbia resi orfani delle raccomandazioni che avevano ammorbidito il percorso iniziale delle loro carriere. Essi sono rimasti dunque vulnerabili allo sfruttamento socio-economico e si ritrovano totalmente immersi nei meccanismi della società tardo-capitalista. Gli effetti perniciosi di questo sistema di valori sono esplorati in dettaglio, rintracciandone le origini negli ideali materialisti professati da individui come Matteo. Ideali che egli ha inculcato alla sua prole fin dalla nascita. Anche le rappresentazioni delle metropoli italiane che Tornatore fa in Stanno tutti bene, riflettono il modo in cui le diverse componenti socioeconomiche della società siano diventate sempre più frammentate, ma spazialmente giustapposte. Accanto alle zone residenziali della classe piccolo-borghese urbana a cui la sua prole appartiene, Matteo e lo spettatore si imbattono in ambienti che vanno dalle desolate aree popolate da immigrati che vivono nelle scatole di cartone, ai bunker pattugliati dalla polizia, che sono diventati gli habitat dei magistrati antimafia. Il film dipinge un ritratto malinconico della classe piccoloborghese urbana che si ritrova in un’impasse, da un lato intrappolata dalle irrealizzabili ambizioni genitoriali e personali, dall’altro accerchiata dalle pressioni sempre in 200

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aumento delle economie neoliberali. Nel suo modo di riflettere il lascito del road movie, il film offre una critica incisiva dell’artificiosità, del materialismo e dell’affarismo che hanno caratterizzato la società occidentale nelle ultime decadi del ventesimo secolo. Due film di Tornatore degli anni Novanta, i quali non sembrano ancorati in modo evidente a realtà sociali tangibili, presentano tuttavia delle risonanze intellettuali per quanto riguarda il ruolo degli artisti in una società sempre più utilitaristica ed orientata al profitto. Circostanze che il regista discute anche da un punto di vista personale durante l’intervista. Una pura formalità (1994), un thriller psicologico con un colpo di scena da genere supernaturale, tratta di come un celebre romanziere, Onoff (Gérard Depardieu), venga arrestato perchè senza documenti, essendo stato fermato dalla polizia in una remota zona di campagna durante un temporale. Egli viene accompagnato alla stazione di polizia dove viene interrogato da un ispettore (Roman Polanski) che si dichiara suo grande ammiratore. Onoff racconta delle pressioni ad essere creativi e a pubblicare sempre nuovo materiale e ammette di aver commesso plagio nel suo romanzo più famoso, avendo decifrato gli appunti in codice che appartenevano al suo defunto mentore. La leggenda del pianista sull’oceano (1998), un adattamento del monologo di Alessandro Baricco, Novecento, è la storia di un enigmatico pianista che ottiene fama internazionale senza mai lasciare la nave da crociera su cui vive. Il talento del musicista è tale che un dirigente di una casa discografica tenta inevitabilmente di catturare su dischi l’unicità autentica dei suoi recital dal vivo, per distillare l’aura – come direbbe Walter Benjamin – di una di queste irripetibili esecuzioni su un disco destinato alla produzione di massa. Altri film di Tornatore dalla metà degli anni Novanta ai giorni nostri, illustrano la diversità geografica del suo lavoro ed anche il modo in cui l’idealismo e la realizzazione personale degli individui, in verità l’intera natura delle loro relazioni interpersonali, sia sempre più svilita, ridotta a transazioni finanziarie e mediata dal danaro. L’uomo delle stelle (1995) è una pittoresca seppure sconcertante evocazione della Sicilia degli anni Cinquanta vista con gli occhi di Joe Morelli (Sergio Castellitto), un ciarlatano che si finge talent scout per gli studi di Cinecittà di Roma. Costui si guadagna da vivere mercificando i sogni e le aspirazioni degli ingenui abitanti dei paesini siciliani, facendosi pagare per sottoporli ai provini. Il film evoca l’effetto di certi film neorealisti degli anni Quaranta, per il modo in cui essi evidenziavano l’impatto di fenomeni storico-sociali su ampie sezioni trasversali di personaggi, molti dei quali rivestivano un’importanza irrilevante rispetto allo sviluppo della trama, ma la cui breve apparizione portava alla luce dettagli significativi sulla natura della società del tempo. Ne L’uomo delle stelle, una serie di ‘interludi’ narrativi con personaggi minori fornisce anche introspezioni grafiche su come la vita delle persone sia condizionata da fenomeni quali il padronato, lo sfruttamento e l’abuso esistenti all’interno delle rigide gerarchie sociali ed economiche. Una situazione illustrata dal barbiere Vito Strazzieri che aspira ad una nuova vita in Lombardia, lontano dalle persecuzioni che deve subire perchè omosessuale. 201

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Un film più recente, La sconosciuta (2007), attraverso il ritratto di Irena – una donna dell’Europa dell’est costretta a lavorare come madre surrogata – sposta l’ambientamento geografico lontano dal meridione d’Italia. Tuttavia il film mette in scena come la vulnerabilità socio-economica in tandem con le relazioni umane basate sullo sfruttamento siano diventate una realtà transnazionale e sistemica. Essa raggiunge il suo nadir con la mercificazione della riproduzione umana, per la quale c’è inevitabilmente un fiorente mercato. Film quali Malèna (2000), un ritratto evocativo degli anni di formazione di Renato Amoroso, un adolescente i cui risvegli emotivi e sessuali coincidono con il declino e la caduta del fascismo, e Baarìa – una rappresentazione epica dell’evoluzione personale e politica della famiglia dei Torrenuova, dipanata lungo diverse decadi – riflettono la passione per la fotografia a lungo coltivata dal regista, come testimonia il libro La mia Sicilia (Verona: Arsenale Editore, 2007) nel loro distillare momenti chiave nella trasformazione sociale della Sicilia attraverso straordinarie immagini e inquadrature. Si tratta di film che ancora una volta riescono ad illustrare con efficacia fino a che punto il ‘politico’ viene invariabilmente assorbito per diventare ‘personale’. Ciò avviene nonostante la nozione di marginalità geografica della Sicilia, rispetto alle concentrazioni del potere istituzionale in Italia. I film indicano quanto acutamente (e sproporzionatamente) la Sicilia sia stata colpita a micro livello dalle trasformazioni politiche e socio-economiche che si sono verificate su scala nazionale. Nell’intervista che segue, Giuseppe Tornatore parla estesamente su questioni che vanno dal complesso rapporto tra la Sicilia e l’Italia peninsulare, ad altre che riguardano l’interesse ricorrente del cinema italiano per la politica ed i punti di riferimento socio-politici che sono stati per lui fonti d’ispirazione. Temi che hanno influenzato la genesi di molti dei suoi film. WH: Negli ultimi tempi un numero crescente di registi italiani è stato attratto da temi socio-economici e politici. Quasi a voler dar voce nei loro film al senso di disagio per l’evoluzione (o meglio involuzione) della società italiana. Dopo un lungo periodo durante il quale lei non ha prodotto lungometraggi, anche i suoi ultimi film sembrano articolare un’ansia profonda per il modo in cui la società tratta le speranze e le aspirazioni degli individui. È quest’ansia un sentimento personale che lei ha voluto esprimere ne La sconosciuta e Baarìa? GT: Quello che lei dice è vero, però per quanto riguarda il cinema italiano c’è sempre stato. In alcuni periodi in modo più forte, in altre fasi in maniera meno forte, ma c’è sempre stato un grandissimo interesse. Credo che sia una prospettiva dei registi italiani che è sempre stata molto condizionata dal confronto con i temi della realtà, del nostro vivere sociale, della nostra politica; il nostro cinema è sempre stato molto in linea con questo. Ripeto, in alcune fasi della nostra storia in modo molto più evidente, in altre meno. Quindi io non credo che quest’interesse di questi ultimi 202

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anni sia soltanto dovuto alle nostre cronache politiche recenti. Sicuramente quello che succede nel nostro Paese negli ultimi anni ha inciso di più su un’abitudine, su una consuetudine che però c’è sempre stata nel nostro cinema. La sconosciuta era un progetto al quale pensavo da molti anni, e poi è stato quasi casuale il motivo per cui l’abbia fatto. Tuttavia, è un film in linea con alcune tematiche che proprio in quel periodo affollavano le cronache della stampa, quindi mi sembrava un tema da affrontare, sul quale dovevo dire delle cose. Baarìa per altri versi: pur essendo un progetto che ha avuto una lunghissima sedimentazione, quindi slegata da sollecitazioni incidentali del momento, il film vive dell’ansia, dell’inquietudine di chi si pone continuamente la domanda su quale dovrebbe essere la politica giusta perché il nostro Paese finalmente possa imboccare la strada giusta. Quale dovrebbe essere la politica corretta per dare ragione ai nostri padri che questa politica l’hanno sognata per tutta la loro vita? Quindi c’è un’inquietudine nel film che aveva una giustificazione ulteriore in quello che stava succedendo in quel momento.Tuttavia, ripeto, io credo che questo interesse del nostro cinema sia generalmente un fatto, come dire, consueto; è un’attitudine che il nostro cinema ha sempre avuto. WH: In certi momenti di Baarìa, il senso di disagio verso il PCI e le sue strutture è tangibile, particolarmente a livello personale. Dal punto di vista della sua esperienza come cittadino siciliano negli anni Sessanta e Settanta, quali erano i principali difetti del Partito, i suoi limiti? GT: Intanto… vorrei parlare sul disagio: non c’è tutto questo grande disagio, c’è soltanto nella presa di coscienza del comunista italiano, quando si rende conto di come sia poi nella realtà, appunto, l’applicazione del comunismo reale. Lì c’è inquietudine se vogliamo, più che disagio. C’è un guardare al comunismo italiano con una prospettiva completamente diversa da quella che si ha quando si parla genericamente di comunisti. Il comunismo italiano è una avventura tutta particolare, una prospettiva tutta particolare che non coincide con la definizione tout court che in genere si dà al comunismo e ai comunisti. Ecco, quello è il momento del film. Tornando alla mia esperienza personale, non è che ci fossero difetti o cose che non andassero; quello che mi posso ricordare io era quella pulsione che si aveva nel mondo della sinistra – che temo ci sia sempre stata e c’è ancora adesso – questa pulsione allo scontro, alla frammentazione. Questa sorta di vocazione scissionistica che la sinistra ha sempre avuto e che credo sia il suo aspetto più negativo. Questa quasi incapacità di saper convivere anche avendo idee diversificate. WH: Ciascuno voleva comandare il suo territorio? GT: Non è tanto questo, no, questo no. Perché invece, storicamente, l’organizzazione 203

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del partito comunista in Italia era un’organizzazione talmente efficiente che… non credo, non c’era la lotta al coltello per avere il potere, per comandare. Io questo non lo ricordo. C’era, invece, questa incapacità di essere aperti anche a una sorta di convivenza dialettica con chi poteva pensarla diversamente da noi. Ecco, quello che a me non convinceva, per esempio, era questa sorta di principio non scritto e neanche detto, in base al quale gli avversari politici erano necessariamente tutti stupidi, disonesti, cattivi, brutti, mascalzoni, criminali. Ecco, a me questa divisione proprio schematica in buoni e cattivi, dove i buoni eravamo solo noi e gli altri erano tutti cattivi… e anche all’interno del nostro essere buoni, chi non la pensava esattamente con chi in quel momento stava impostando la linea direttiva della politica, anche quello andava guardato con sospetto. Questo non mi piaceva. A parte ciò, io amavo molto, nel modo come li ho conosciuti, i comunisti italiani, i grandi. Io ho fatto a tempo a conoscerli. Figure importantissime della mia vita: l’onorevole Pio La Torre, il senatore Emanuele Macaluso, l’onorevole Giuseppe Speciale; comunisti che hanno vissuto sulla loro pelle la difficoltà e il coraggio di assumere posizioni e di fare una certa politica in una fase storica del nostro Paese, in cui già il solo essere indicato come comunista voleva dire essere indicati come degli appestati, come degli scomunicati, delle figure che con l’umanità avessero poco a che fare, insomma. È gente che ha combattuto tutta la propria esistenza per migliorare le condizioni di vita della nostra società. Io ho amato molto quel tipo di approccio, quel tipo di sacrificio. E ancora oggi, quel tipo di figura, quel tipo di comportamento politico rimane per me un insegnamento, un punto di riferimento. Ecco, quello che non mi piaceva era lo scambiare – da parte di chi assumeva posizioni troppo radicali, troppo estremistiche – il confondere la capacità dei nostri dirigenti di saper talvolta entrare in un confronto dialettico con gli avversari, come una sorta di collusione con gli avversari. Questo io non amavo. E penso che uno dei grandi problemi della sinistra storica italiana sia sempre stato questo: c’è sempre stata una parte radicale che ha condizionato spesso la politica complessiva della sinistra. Ma ancora oggi, ancora oggi c’è il sostenere che chi non la pensa come noi è gente con cui non bisogna neanche scambiarsi buongiorno e buonasera. È sempre stato il limite, il punto debole della sinistra, che molto opportunamente gli avversari toccano sempre, perché sanno che quello è il punto debole. WH: Molti dei suoi film, da Il camorrista e Cinema Paradiso fino ai suoi lavori più recenti, contrappongono nozioni di solidarietà ad emarginazione sociale, e derivano gran parte della loro risonanza emotiva ed intellettuale da questo contrasto. A suo parere, quali sono stati i fattori principali che hanno causato una tale frammentazione sociale, sia a livello nazionale che locale, soprattutto riguardo ai luoghi a lei più familiari? GT: A quale frammentazione si riferisce? 204

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WH: La comunità che c’era una volta e che non c’è più, l’individualismo delle persone, la mancanza di solidarietà tra le persone… c’è spesso questo. GT: Io potrei dire che moltissime delle cose che lei ha appena elencato sono più figlie di questa ultima parte della nostra storia. Io ho un ricordo degli anni in cui mi occupavo un po’ più direttamente di politica, di una società molto più povera sicuramente, con molti problemi, ma con uno spessore di solidarietà, di disponibilità alla comprensione, all’aiuto, molto più forte di quanto non ce ne sia oggi. Oggi le grandi difficoltà… anzi, si potrebbe dire che di pari passo con la perdita della efficacia e della profondità della politica, il nostro tessuto sociale si è impoverito. Quindi è venuta meno anche la solidarietà; è venuta meno la generosità, la capacità di saper aiutare gli altri. La politica è lo specchio di un Paese. Se la politica perde la propria capacità di interpretare la realtà anche la società perde, perché è un tutt’uno. Il perché? Probabilmente perché i grandi sogni delle grandi ideologie politiche non si sono realizzati. I grandi sogni dei comunisti come Peppino Torrenuova non si sono realizzati. Si sono realizzati in parte. Nel senso che, per tornare per esempio al discorso che si faceva prima sul comunismo italiano, se il nostro Paese nell’arco di poco più di mezzo secolo si è trasformato, anche migliorando molti aspetti della vita della nostra società, questo lo si deve soprattutto al ruolo dei comunisti italiani e della sinistra in genere. Questo spesso lo si dimentica. Senza i comunisti italiani le grandi conquiste nel mondo del lavoro, in tema di diritti umani, in tema di rispetto dei diritti della donna… ma non si sarebbero fatte queste conquiste! Poi è sin troppo facile liquidare tutto questo con la solita superficiale liquidazione del comunista, del comunismo. Non è così, il comunismo italiano non era il bolscevismo sovietico, non era così, non era così. Eravamo ovviamente in epoche difficili, per cui quasi sempre i grandi personaggi della politica comunista italiana hanno avuto un rapporto sofferto con la madre Unione Sovietica. Non sempre hanno potuto esprimere quello che capivano. Ma il comunismo italiano aveva un suo profilo completamente diverso. I comunisti italiani non avrebbero mai, a dispetto di quello che dicevo prima, cioè della pulsione scissionistica talvolta al limite della convivenza con idee diverse, i comunisti italiani non avrebbero mai istituito dei gulag. WH: I suoi film spesso inducono empatia ed immedesimazione con protagonisti non ortodossi, a loro modo antieroi, ed invitano il pubblico a capire in che modo questi personaggi siano stati forgiati da forze economiche e sociali. Il primo di questi personaggi è stato il Professore di Vesuviano nel film Il camorrista; il Professore ha un fascino carismatico, quasi magnetico, mentre le forze dell’ordine appaiono marginali ed inefficaci. È questa una realtà sociale che lei ha voluto enfatizzare specificamente, o è dovuta alla recitazione di Ben Gazzara ed al modo in cui le scene sono state montate? 205

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GT: Beh, ne Il camorrista quest’argomento è stato motivo di lunghe riflessioni: io non avevo assolutamente intenzione di mitizzare il protagonista della storia. Anzi, temevo questo. Tuttavia sapevo, anche per l’esperienza di altri sia nel cinema che nella letteratura, che è difficile fare un film su un criminale come protagonista, senza che questo non gli produca – anche involontariamente – una sorta di patina di fascino, di capacità di attrazione. Come diceva Dostoevskij: “Se io racconto la storia di un ladro di cavalli, io tifo per lui perché non sono un giudice”. Io non ho tifato per il Professore sin dal primo momento del film, però ho voluto raccontare… mi interessava raccontare la formazione, l’accumulazione del potere criminale, ecco. E quindi anche la dimensione del racconto, quasi romanzesco come arco narrativo, serviva a questo. E quindi, nel raccontare come un criminale riesce a mettere in piedi un impero come il suo, era inevitabile raccontare la sua capacità di acquisire consenso da parte dei propri adepti, da parte del tessuto sociale che gli è più vicino e che vive le contraddizioni del potere ufficiale. Lo Stato che non arriva a risolvere certi problemi: dove non arrivano lo Stato e le leggi dello Stato, arriva la criminalità organizzata. Quindi era quasi… anzi era un voler denunciare questo. Non ho giocato a rendere un personaggio affascinante “così”! Ho cercato di non fare questo – c’è sempre nel personaggio un risvolto repellente, di disgusto. L’ho sempre fatto nel film, perché non volevo che l’inevitabile fascino dell’eroe negativo fosse un fascino fine a se stesso. Ed è per questo che, a un certo punto, io ho costruito proprio nella struttura del film – per disinnescare la paura che il personaggio diventasse un eroe a tutto tondo, un eroe di cui approvare e condividere qualunque scelta, cosa che io non volevo fare – quello che chiamavo “il sorpasso emotivo”. Cioè ho creato un personaggio nel film, un personaggio satellite, che finiva per attrarre tutto il risultato dei meccanismi di fascinazione criminale che c’è nel film, a scapito del protagonista. Così nasce Alfredo Canale, il personaggio che a un certo punto pur di salvare il proprio capo lo fa arrestare, pur di salvargli la vita. E lui, accecato dalla legge del suo potere, non si rende conto di questo e lo fa uccidere. Da quel momento in poi il nostro protagonista non riesce più ad affascinare, perché l’idea era quella di creare accanto a lui un personaggio che facesse da parafulmine ai meccanismi di fascinazione che il pubblico inevitabilmente deve avere, quando vede un film sui criminali. Quindi ho deviato questa simpatia verso un personaggio satellite che non avesse una grande importanza, a scapito del protagonista. Credo che abbia funzionato, perché io non volevo assolutamente fare un film che fosse l’apoteosi di un criminale e basta. Anzi, c’è nel film un’analisi abbastanza dura del costume attraverso cui il criminale riesce ad esercitare fascino sugli altri, un costume fatto di bugie, fatto di criminalità appunto, di demagogia anche. Ma un costume che si alimenta soprattutto dell’inefficienza delle leggi dello Stato. Ecco perché possono sembrare inefficaci le figure… che non lo sono tutte, perché il Commissario Jervolino è invece una figura positiva, un eroe. È schiacciato dalla criminalità da un lato e dalle forze 206

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istituzionali compromesse col crimine dall’altro. Era molto complesso. Ma questo disegno, questo tipo di problematica c’è stato solo ne Il camorrista, non c’è stato in altri film – parlo dei miei, naturalmente. WH: Sempre in riferimento a Il camorrista, direi che Rosaria, la sorella del Professore, è uno dei personaggi femminili più forti e centrali del suo cinema fino a La sconosciuta forse. Che cosa l’ha interessata di più riguardo al ruolo delle donne, ed in particolare di questa donna, nel contesto del crimine organizzato? Non mi pare che nel romanzo originale avesse un ruolo così influente… GT: Beh, no, c’era nel romanzo. Ma soprattutto quello che mi aveva colpito di questa figura femminile erano un paio di immagini di alcuni servizi fatti dallo stesso autore del libro, Giuseppe Marrazzo. Lui una volta aveva intervistato la sorella di Cutolo, della quale si diceva appunto che fosse il braccio esecutivo del fratello. La sua sicurezza, questo suo modo di sfuggire alle domande del giornalista mi avevano molto colpito. Sembrava veramente una donna che sapesse gestire in prima persona faccende che solitamente possono sembrare troppo grandi per una donna, troppo più grandi. In questo mi confortò – cioè nel fare di questo personaggio, un personaggio così incisivo, così potente se vogliamo, rispetto all’azione criminale del fratello – una riflessione che poi ho trovato in altri analisti del fenomeno criminale, o del fenomeno del Sud. Essi avevano notato quanto importante fosse stato il ruolo della donna nelle vicende della criminalità, nelle vicende della Mafia. Sciascia stesso diceva: “Quanti omicidi si sono commessi nel mondo della Mafia che avevano dietro il volere delle donne”. Le donne hanno avuto un ruolo importantissimo; non sempre sono state le figure tenute fuori dal gioco criminale. Spesso le donne hanno saputo anche condizionare e manovrare i propri uomini che avevano un ruolo nel sistema criminale. Nel caso de Il camorrista poi, per me era interessante il ruolo della sorella perché è proprio su di lei che il Professore esercita la propria capacità di convinzione. La sorella originariamente non è d’accordo, non condivide questa vocazione criminale del fratello. E lui, poco per volta, la avvolge in questa sorta di ragnatela della sua strategia criminale, da portarla sul suo terreno fino al punto di farne proprio l’estensione di se stesso, fuori dalle mura della prigione. Era troppo interessante come disegno drammaturgico per non sfruttarlo nel film. WH: Un altro protagonista non ortodosso è stato Matteo Scuro in Stanno tutti bene, un patriarca che cerca di plasmare le vite dei suoi figli. Alcuni registi avrebbero considerato rischioso basare la storia di un film intorno alla soggettività di un tale personaggio. Ma il racconto funziona bene con lui come punto di riferimento. Secondo lei per quale motivo gli spettatori – sia in Italia che all’estero – sono colpiti da Matteo Scuro? 207

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GT: Questa è una bella domanda. Il personaggio di Matteo Scuro nasceva dall’idea di costruire un personaggio talmente puro, talmente candido, da credere totalmente ed esattamente a tutto ciò che la società gli dice. Siamo negli anni in cui la nostra politica cercava di convincerci che le cose stavano andando bene. Mi ricordo che la frase che veniva spesso usata da Craxi, quando era la figura di riferimento di tutta la vita politica nazionale, la sua frase più frequente era “la nave va!” – le cose vanno bene. E Matteo Scuro non ha motivo per non credere questo. Così come non ha motivo per non credere a quello che gli dicono i figli. Quindi è un personaggio che crede a tutto ciò che gli altri gli dicono per non distruggere il proprio candore. Questo nasceva anche da diverse esperienze quotidiane: i figli cercano sempre in famiglia di far sì che i dispiaceri non arrivino ai genitori o alle persone alle quali si vuole molto bene. Queste due prospettive mi portarono alla creazione di un personaggio reale, ma un personaggio che vive in una sorta di campana di vetro, un personaggio che non riesce a capire veramente come vanno le cose. E questo mi attraeva proprio perché si trattava di un personaggio anziano. Può un anziano, può un uomo vivere un’intera esistenza senza riuscire mai ad imparare quanto male ci sia nel mondo, quanto cattivi possono essere gli esseri umani? Mi piaceva tenere in piedi quest’ipotesi e di creare un personaggio così singolare; però creandogli un ‘incidente’ drammaturgico che, piano piano, l’avrebbe portato a scoprire, a capire tutto ciò che un’intera vita non gli aveva fatto capire. Aveva quest’idea di andare a trovare i propri figli senza avvertirli, facendo visita a sorpresa. Ecco, cosa attrae di questo personaggio? Credo proprio il fatto di trovare in Matteo Scuro quello che in genere noi non siamo capaci di fare: non siamo capaci di mantenere, in tarda età, la purezza e il candore della nostra infanzia. Matteo Scuro, in buona sostanza, è un bambino. È un bambino di ottant’anni, però è un bambino. Io credo che sia questa la formula che in buona sostanza finisca per attrarre il pubblico. Mi ricordo che quando andai negli Stati Uniti per presentare il film, ci fu una giornalista, non ricordo il nome, una signora sui cinquantacinque anni che mi disse: “Sa, il suo film mi ha molto fatto soffrire perchè… però mi ha aiutato molto, perchè quando è finita la proiezione mi sono resa conto che io i miei genitori non li chiamo quasi mai. E quando sono uscita dal cinema ho telefonato e li ho chiamati”. Questo mi colpì moltissimo. Quindi ci sono delle cose nella singolarità del personaggio, o se vogliamo nella irrealtà del personaggio, che finiscono per funzionare da specchio, da cartina di tornasole dei nostri errori, dei nostri difetti. Credo che sia stato questo. WH: Il film L’uomo delle stelle è stato particolarmente percettivo nel modo in cui ha esplorato da un lato il fascino del cinema come evasione e dall’altro il narcisismo dello spettatore, facilmente lusingato dal protagonista Morelli e disposto a pagare per un provino. Oggi, con l’influenza degli altri media, fino a che punto lei crede che il narcisismo degli individui sia stato esagerato e esacerbato? Questa sete di essere famosi ha toccato anche l’industria del cinema? 208

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GT: Ma adesso, più che l’industria del cinema, questo si è allargato soprattutto a tutto il mondo televisivo. L’uomo delle stelle di oggi non fa provini per il cinema, fa provini per la televisione: per il Grande Fratello, per i talkshow, per tutti questi reality. Pur di diventare per pochi giorni protagonisti, e quindi pur di sentirsi gente che conta in qualche maniera, c’è gente oggi che pur di andare a finire all’Isola dei famosi o al Grande Fratello sarebbe disposta a fare qualunque cosa. Questo mi sconcerta. Nel cinema questo disegno, una volta, aveva un suo risvolto se vogliamo un po’ meno cinico di oggi. I personaggi nei quali s’imbatte Joe Morelli e che hanno sete di andare a finire dentro quell’apparecchio sono anche personaggi che, più che voler essere protagonisti, sono alla ricerca di un mondo che li sappia comprendere. Un mondo che li sappia raffigurare per quello che essenzialmente essi sono e che li sappia comprendere. Infatti, il peccato, il crimine dell’uomo delle stelle, di Joe Morelli, non è tanto quello di averli imbrogliati, ma quello di essere stato capace di tirare fuori da questi personaggi la loro autenticità e di averlo fatto solo per un disegno criminale. Perciò viene punito. Oggi il desiderio di apparire in televisione, di diventare modella, ballerina, protagonista, amante di un personaggio famoso, sfugge a tutto questo. È un inaridimento antropologico di portata incredibile. In questo la televisione mostra, rispetto al cinema, un suo lato meno… come dire… meno importante, meno gratificante, meno utile per la nostra società. È un mezzo straordinario la televisione, ma ha alimentato dei valori che non esistono, dei valori sbagliati. Il cinema questo l’ha fatto, ma in una misura diversa. Perchè, per quanto anche nel cinema succedessero le stesse cose che succedono oggi nella televisione, era difficile che una ragazza o un ragazzo che non avessero nessuna qualità diventassero dei grandi attori. Era difficile che questo accadesse. Oggi, come vede, in televisione addirittura succede il contrario, per cui chi ha qualità e non rientra in un gioco di compromessi non ha riconoscimenti, non ha spazio. Invece chi non ha remore ad accettare qualunque tipo di compromesso, al di là del valore che ha, finisce per avere fortuna senza limiti. E questo è un danno alla nostra scala dei valori veramente grave. WH: I film Una pura formalità e La leggenda del pianista sull’oceano fanno riferimento al destino dell’artista e del suo talento, all’interno di contesti socio-economici che cercano di fargli pressione, di sfruttarlo e renderlo produttivo. Ovviamente, questa osservazione deve avere avuto dei collegamenti con le sue esperienze personali. Ma se paragoniamo due momenti diversi della sua carriera – il 1991, subito dopo Cinema Paradiso, ed ora, 20 anni più tardi, che tipo di pressioni c’erano (e ci sono ora) e in che modo incidono sulla sua creatività? GT: Io penso – penso eh – di essere stato capace di impedire che le pressioni attorno a me incidessero sulle mie scelte creative. Penso di essere riuscito perché altrimenti 209

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avrei dovuto fare… avrei fatto un sacco di cose che non mi piacevano. Quanti suggerimenti, quanti progetti mi sono stati proposti all’indomani di Nuovo Cinema Paradiso.Tutti i film dove c’erano dei bambini sono passati da questa scrivania. Ma non solo in Italia, ne arrivavano quotidianamente. Ero diventato il regista che dirigeva bene i bambini e quindi li proponevano tutti a me. Ma io avevo bisogno di scegliere sempre storie che non solo mi convincessero, ma che mi premesse raccontare per delle esigenze proprio mie. Quindi sono sempre stato capace di difendermi abbastanza dalle pressioni e dai condizionamenti. Ovviamente, detto tutto questo, io non escludo – perché conosco i meccanismi di condizionamento come possono essere raffinati talvolta – quindi non escludo che una storia come Una pura formalità, questo isolazionismo, persino dei personaggi all’interno di un luogo, possa essere anche figlio di anni in cui di proposte ne avevo tante. Tutti sembravano che volessero fare cose… un mondo caotico di proposte, di sorrisi, di offerte vantaggiose, di promesse meravigliose, insomma avevo un istinto di diffidenza rispetto a tutto questo. Non lo escludo, anche se la genesi della storia non ha niente a che fare con tutto questo. Può darsi che nel momento in cui mi sono chiesto che mestiere dovesse fare questo personaggio, il fatto di avere scelto uno scrittore, io l’abbia fatto perché mi sentivo più vicino al sentire di un personaggio che quotidianamente si misura con le leggi della creatività, dell’invenzione. Forse sì, non faccio fatica ad immaginarlo questo. Ma tutto il disegno della storia non c’entra niente con quello che stava succedendo a me, ecco. La stessa cosa vale per Il pianista, anche se ne Il pianista io mi sono identificato nel desiderio del personaggio di vivere solo del poco che gli serve per continuare a fare quello che sa fare. Mi piaceva molto questo; mi piaceva molto questo personaggio che in fondo non è nato da nessuna parte e non ha vissuto da nessuna parte. Mi affascinava molto sapere che, in base alla legislazione credo tuttora vigente, se uno nasce su una nave non è nato in nessun Paese. Non è nato da nessuna parte… estremamente interessante. E mi attraeva questa capacità del personaggio di saper vivere e di sapere essere anche felice avendo solo lo stretto indispensabile: un pianoforte e qualcuno che t’ascolta. E basta. Mi piaceva moltissimo. E poi mi piaceva proprio la storia. Ora lì, cosa ci sia di mio, io non glielo so dire. Ma le confesso che più volte, più persone mi hanno sempre detto: “Ah, ma quello sei tu. Quel personaggio sei tu”. Mi è stato detto molte volte e io non riesco a capire perché me lo si dica. Alcuni forse me lo dicono per la mia ritrosia; me lo dicono perché non sanno interpretare il mio non voler essere troppo in giro, il mio non voler partecipare a troppe cose pubbliche, quando posso, naturalmente. Questa mia naturale ritrosia è vera, ma poi nella leggenda del mondo del cinema mi disegnano come uno che non incontra nessuno, che vive sempre da solo e non è così. Probabilmente qualcuno mi identificava in quel personaggio per questa ragione, ma non basta questo a spiegare il perché. Forse perché attraverso il film si capiva quanto mi piacesse quel personaggio. Allora qualcuno pensa che 210

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questa mia simpatia per questo personaggio sia dovuta a qualche collegamento interiore, che io non posso escludere, ma che sfugge alla mia psicoanalisi… di primo livello, insomma…! WH: Nei suoi film, le ambientazioni spesso sembrano giocare un ruolo chiave, contribuendo – come nel caso della Sicilia – alla creazione di un legame molto stretto tra i personaggi e il territorio che li circonda. Ma nel caso de La sconosciuta, Trieste produce un impatto molto diverso nel film: cosa la indusse a sceglierla? GT: In genere, nei miei film, dò molta importanza all’ambientazione. L’ambiente in cui un personaggio nasce, si muove e agisce condiziona sempre il personaggio. Quindi è importantissimo. Nel caso de La sconosciuta, l’ambiente che condiziona il personaggio è un ambiente che viene sottratto allo spettatore. Lo conosci in quei fulminei flash che riguardano il suo passato. Per dare forza a questo contesto sfuggente avevo bisogno che l’ambientazione realistica del film fosse la più anonima possibile. Allora pensavo appunto a un’ambientazione addirittura non riconoscibile e comunque non dichiarata. Nel film non si chiama Trieste ed è comunque rappresentata e giocata in modo tale da non… in genere quando si sceglie una città si ha un occhio… la macchina da presa cerca di identificarla… di raccontarla. Io ho fatto il contrario, ho cercato di confondere le carte. Qualcuno, per esempio, non l’aveva riconosciuta – ma dov’è che si svolge il film? Quello che m’interessava era l’ambiente che aveva segnato l’interiorità del mio personaggio. L’ambiente che è dentro di sé e che noi vediamo soltanto di pari passo con la sua angoscia, con il suo ritrovarsi continuamente di fronte a un passato che credeva di essersi lasciata alle spalle e che invece le si ripresenta sempre davanti. Però il procedimento era lo stesso. Solo che – a differenza di Baarìa dove il contesto doveva essere evidentissimo – qui il contesto doveva essere nascosto, perché c’era nel personaggio una vocazione mai risolta alla rimozione del contesto in cui il suo trauma si era formato. WH: Il rapporto tra i siciliani e l’Italia continentale appare centrale, soprattutto nei suoi primi film. A beneficio di uno straniero che non conosce la natura di questo rapporto a volte problematico, può spiegare che cosa – dal suo punto di vista – l’Italia continentale ha rappresentato per lei in termini culturali e socio-politici? GT: Quando io ero ragazzo e cominciavo ad avere certi interessi, io avvertivo intorno a me la stessa logica che trasudava in certa letteratura che si era occupata di questo argomento. E quindi, storicamente, la Sicilia era un luogo in cui in un modo o in un altro si finiva per credere, per pensare che tutte le cose migliori del mondo fossero oltre lo Stretto di Messina, nel Continente e qui ci fossero solo le cose che non andavano bene. Tutto ciò compensato dal grande orgoglio dei siciliani che, 211

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tuttavia, in cuor loro, non smettevano mai di pensare che loro fossero i migliori. Che il loro modo di pensare, di comportarsi fosse, in realtà, quello il migliore, ma non riconosciuto da coloro che agivano oltre lo Stretto e che comandavano il destino del Paese. In questo, inevitabilmente, cito Giuseppe Tomasi di Lampedusa quando dice: “I siciliani non miglioreranno mai, non vorranno mai migliorare perchè si ritengono già i migliori”. Tutto questo io lo vedevo come una sorta di meccanismo di compensazione, per questa secolare idea che le cose migliori stessero da un’altra parte e non qui. Ecco, mi sembrava un meccanismo storico di compensazione psicologica, culturale, sociale, politica, eccetera, eccetera. Certo, è sempre stato un rapporto molto, molto complesso quello tra il Continente e la Sicilia e che non finisce mai di modificare le proprie connotazioni – un tema sempre attuale che non si esaurisce mai. Acquista sempre prospettive diverse, concordemente o in contrasto con quelle che sono le evoluzioni del nostro costume, della nostra storia, della nostra politica, o della cronaca, eccetera, eccetera. WH: Un’ultima domanda – sul cinema politico. Un tema ricorrente nei suoi film è la mercificazione insidiosa della creatività umana; dalla produzione di massa delle statuine di zucchero che sorprende Matteo in Stanno tutti bene, ai tentativi di registrare e sfruttare finanziariamente la musica di Novecento ne La leggenda del pianista, allo sfruttamento di Irena come madre surrogata. Questo tema rappresenta nei suoi film una implicita costante politica, ma ci sono delle motivazioni specifiche per la sua scelta di non fare un cinema apertamente politico? GT: No, no. Ma… ho fatto. Il camorrista era un film… anche difficile. C’è voluto del coraggio a farlo. Non ho mai sentito l’impulso di seguire sempre una sola strada. Nel mio modo di avvicinarmi alle storie io sono un po’ com’ero nelle sale cinematografiche che frequentavo da bambino: programmavano film diversi. Non c’era sempre lo stesso tipo di film. C’era il cinema impegnato, c’era il cinema di evasione, c’era il cinema difficile, c’era il cinema filosofico, c’era il cinema mitologico, c’era il giallo, c’era tutto. E quindi, non ho mai sentito… Io lo so che la mia filmografia è zigzagante dal punto di vista tematico, ma non è un’incidente, è proprio quello che mi piace. All’indomani di Baarìa, io non riuscirei a fare un altro film che continui quel discorso o analogo a quel discorso lì. Mi stancherebbe oltre tutto – mi piace cambiare. In questo non mi sento, come dire, di tradire una regola, perché un regista può fare qualunque tipo di film. Io, per esempio, ho molta stima dei registi che fanno i film di genere; li ho sempre stimati moltissimo. Non ho quell’atteggiamento un po’ snob che il regista impegnato ha nei confronti del regista che fa il film di Natale, il film… questa roba qua. Li ho sempre stimati molto. Io ho sempre ritenuto che nel cinema non si possa fare a meno dei vari approcci che il cinema sa avere con il mondo, con la realtà, con la fantasia, con lo spettacolo. Perché il film è fatto di tutto questo. Se un giorno eliminassimo il 212

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cinema di genere, il cinema d’evasione per fare solo cinema impegnato, faremmo un grande danno e viceversa naturalmente! Quindi… lei parlava della paura della mercificazione. Non è questo il motivo per cui io non segua sempre l’istinto di fare film politici. Ci sono registi che l’hanno fatto e anche in quei casi il sempre non è possibile. C’è sempre bisogno – a un certo punto – di cambiare per poter ritornare a dei temi. In quanto alla mercificazione, sì c’è qualcosa. Io non ci avevo mai pensato. C’è qualcosa… lei citava i pupi di zucchero, non ci avevo pensato, il tentativo di mercificare l’esecuzione musicale di Novecento… Ma c’è una cosa che dice Onoff in Una pura formalità che è attinente a questo. Lui dice: “Come sarebbe bello se gli scrittori potessero scrivere senza dover pubblicare i propri libri!”. Cioè, riuscire a non essere testimoni della consumazione che gli altri faranno di quello che tu hai inventato e di quello che tu hai creato. Io, quando finisco un film e arrivo al giorno in cui il mio produttore mi chiede di vedere il primo montaggio… succede sempre un bel giorno, no? Quando il montaggio è finito, il produttore dice: “Posso vederlo?”Tu organizzi la proiezione e ovviamente il produttore viene con un collaboratore… poi ti dice se può venire anche il coproduttore… e sono sempre delle proiezioni con cinque, sei, sette persone. Almeno le mie, pochissimi. Quando io comincio queste proiezioni ho accanto quasi sempre il mio montatore o un mio assistente. Nel momento prima di dare il via alla proiezione io dico sempre ai miei collaboratori: “Il film è finito!” Da quel momento il film è finito. Dal momento in cui gli altri cominciano a vedere e cominciano a dire… anche cose giuste per carità, ma tutto e il contrario di tutto. Uno ti dice: “Ah, mi piace molto però l’inizio è lento…”. Un altro: “L’inizio è bellissimo, meraviglioso. Dopo, però, diventa un po’ troppo veloce…”; “Il film mi piace moltissimo però la scena del gatto non l’ho capita…”; “Il film non mi ha convinto molto, ma la scena del gatto è straordinaria”. Capito?! E finché la gente ti dice cose in buona fede, va bene. Poi nasce tutto il circo, anche dei giudizi che vengono dettati da malafede. Ecco, io, in genere, quando finisco un film, mi sento un po’ come Novecento che non vorrebbe mandare il disco da nessuno. Solo che non posso romperlo. E persino lui, come vede, non riesce. Lo spezza, però poi sopravvive al suo desiderio e in qualche maniera rimane. È il destino dell’artista, anche se io non mi ritengo un artista. Se tu inventi una storia devi accettare necessariamente che questa storia, poi, possa vivere senza di te. E possa vivere subendo le manipolazioni che gli altri vorranno, per ragioni diverse, per onestà o per disonestà, sovrapporre alla tua storia. È una legge che devi accettare; a fronte di questa legge a te è riconosciuto il diritto di inventare storie, che è un privilegio assoluto. Roma, novembre 2011

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Biografie degli autori e dei curatori William Hope è docente di lingua e cinema italiano presso la University of Salford, GB, ed è membro del Comitato Editoriale della rivista Studies in European Cinema. È il coordinatore del progetto A New Italian Political Cinema?, finanziato dal AHRC. Le sue pubblicazioni includono: Italian Cinema – New Directions (2005); Giuseppe Tornatore: Emotion, Cognition, Cinema (2006); Italian Film Directors in the New Millennium (2010). Luciana d’Arcangeli ha conseguito il dottorato di ricerca presso la University of Strathclyde e dal 2008 insegna presso la Flinders University ad Adelaide. Ha lavorato anche nell’industria cinematografica per il Gruppo Cecchi Gori. Il suo campo di specializzazione include teatro e cinema italiano contemporanei. Ha pubblicato la monografia I personaggi femminili nel teatro di Dario Fo e Franca Rame (2009) e, tra gli altri, il saggio “The Films of Matteo Garrone: Italian Cinema is Not Embalmed” nel volume Italian Film Directors in the New Millennium (2010). Silvana Serra ha conseguito il dottorato di ricerca presso la University of Salford, con la tesi Emotion and Cognition in the Films of Bernardo Bertolucci in via di pubblicazione. Ha svolto progetti educativo-didattici con uso di film in Italia, Eritrea, Inghilterra. Ha partecipato a selezioni di cortometraggi per festivals europei, tra cui Kinofilm European Short Film Festival. I suoi campi di interesse riguardano il legame tra la commedia all’italiana classica e le sue più recenti rielaborazioni, e i film di Carlo Mazzacurati. Michela Ardizzoni è professore assistente presso la University of Colorado a Boulder. Ha conseguito un dottorato di ricerca in Communication and Culture presso la Indiana University-Bloomington. I suoi campi di ricerca sono: global media, transnazionalismo, politica dell’identità, immigrazione, e Mediterranean Studies. Il suo studio sulla televisione italiana North/South, East/West: Mapping Italianness on Television è stato pubblicato nel 2007. È anche co-curatrice di Globalization and Contemporary Italian Media (2011). Rebecca Bauman insegna lingua italiana, come professore assistente, presso il Fashion Institute of Technology, SUNY. Ha pubblicato saggi sul cinema italiano e su film 215

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inerenti la mafia. I suoi campi d’interesse spaziano dagli studi sul genere melodrammatico e sulla rappresentazione della figura maschile nel cinema contemporaneo, all’analisi comparativa del cinema europeo. Patrizia Cammarata ha contribuito a fondare, nel 2007, il Partito di Alternativa Comunista di cui è componente del Comitato Centrale e responsabile del Dipartimento Lavoro Immigrati. Dipendente presso l’Amministrazione Comunale di Vicenza, è stata eletta dai lavoratori dal 2001 ad oggi, per quattro mandati consecutivi, quale componente delle R.s.u. (Rappresentanze sindacali unitarie). Nel 2012 ha contribuito all’apertura a Vicenza di una sede del sindacato di base C.u.b. (Confederazione unitaria di base), di cui fa parte come membro della segreteria provinciale. Piera Carroli è docente di lingua, letteratura e linguistica italiana presso l’Australian National University a Canberra. Ha pubblicato in campi di ricerca quali letteratura, linguistica e pedagogia, e le sue pubblicazioni includono: Esperienza e narrazione nella scrittura di Alba de Céspedes (1993), e il saggio “Oltre Babilonia? Postcolonial Female Trajectories towards Nomadic Subjectivity”, Italian Studies, vol. 65, no. 2 (2010). Attualmente si occupa di letteratura della migrazione (in Italia e in Europa) di donne italiane nella storia e nell’epoca contemporanea. Paolo Chirumbolo è titolare della cattedra di italianistica presso la Louisiana State University dove è anche direttore del programma di italiano. Si occupa di narrativa, cinema, semiotica, teoria letteraria e pop culture. Ha pubblicato per Rubbettino il libro Tra coscienza e autocoscienza. Saggi sulla narrativa degli anni sessanta. Volponi – Calvino – Sanguineti (2009) e per la University of Toronto Press la raccolta di saggi Neoavanguardia: Italian Experimental Literature and Arts in the 1960s (2010). Maria Elena D’Amelio si è laureata in Lettere all’Università Cattolica di Milano con una laurea in Filmologia. Nel 2008 è diventata dottore di ricerca in Scienze Storiche presso la Scuola di Studi Storici dell’Università di San Marino, con una tesi di dottorato in miti classici e cinema che è diventata una pubblicazione dal titolo Ercole, il divo (AIEP editore, 2012). Attualmente sta portando a termine un Ph.D in Cultural Studies presso la State University di New York – Stony Brook. I suoi interessi riguardano il cinema italiano di genere, le produzioni transnazionali, e gli stardom studies. Shelleen Greene è professore assistente presso la University of Wisconsin, Milwaukee. Il suo libro Equivocal Subjects (Continuum, 2012) analizza le rappresentazioni sullo schermo di individui di razza mista, di discendenza italiana e africana. Il suo lavoro sulla diaspora africana nei film italiani appare anche in From Terrone to Extracomunitario: New Manifestations of Racism in Contemporary Italian Cinema (Troubador, 2010). 216

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Flavia Laviosa è docente nel Dipartimento di Italian Studies e nel Programma di Cinema and Media Studies presso Wellesley College, negli Stati Uniti. Ha curato il volume collettaneo Visions of Struggle in Women’s Filmmaking in the Mediterranean (2010) e il numero speciale di Studies in European Cinema (8:2 2011) dedicato alle registe italiane. È curatrice della rivista Journal of Italian Cinema and Media Studies. Bernadette Luciano è docente di italiano presso la University of Auckland in Nuova Zelanda; studiosa del cinema italiano, della letteratura al femminile, della traduzione letteraria e cinematografica. Autrice del primo volume in inglese dedicato al cinema di Silvio Soldini, The Cinema of Silvio Soldini: Dream, Image,Voyage (2008) e insieme a Susanna Scarparo di un volume dedicato al cinema al femminile, Reframing Italy: New Trends in Italian Women’s Filmmaking (2013). Mattia Marino è consulente e docente di italiano e storia europea a Bangor University, Gran Bretagna. Ha insegnato all’Istituto Norvegese di Roma. Ha co-redatto la raccolta Crisis, Rupture and Anxiety per Cambridge Scholars Publishing nel 2012. Ha pubblicato su Journal of Contemporary European Studies e su Otherness: Essays and Studies. Mafunda Lucia Ndongala insegna lingua e cultura italiana presso la University of Salford. L’area principale della sua ricerca riguarda le rappresentazioni cinematografiche della marginalizzazione razziale ed economica dei nuovi italiani. Ha anche condotto ricerche su questioni di identità sociale in contesti di comunità di immigrati in Italia, ed ha intervistato italiani di origini congolesi in merito alle loro difficili esperienze di integrazione a Torino. Marco Paoli è docente di italianistica presso la School of Histories, Languages and Cultures della University of Liverpool. Ha conseguito un Ph.D in Italian Studies presso la University of Salford e ha pubblicato vari articoli su Carlo Lizzani e Giorgio Scerbanenco in relazione all’evoluzione della criminalità in Italia nel dopoguerra. Attualmente sta espandendo la sua ricerca alla rappresentazione del mondo del lavoro nei film di Paolo Virzì con particolare riguardo al potenziale della commedia di costume in quanto strumento di impegno politico, sociale ed etico. Susanna Scarparo, professore associato presso la Monash University, Australia, è autrice di numerosi saggi su registe del cinema contemporaneo, su scrittrici italiane del novecento, sulla teoria femminista italiana, e su studi italo-australiani (con particolare attenzione alla migrazione e agli studi sulla diaspora). È autrice del volume Elusive Subjects: Biography as Gendered Metafiction (2005) e ha curato con Charlotte Ross Gender and Sexuality in Contemporary Italian Culture: Representations and Critical debates (2010). 217

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Sabine Schrader è docente di letteratura e cultura italiana presso la Leopold-Franzens University a Innsbruck. Ha scritto sulla letteratura italiana e francese del IXX e XX secolo, sul cinema muto e contemporaneo, su serie televisive programmate in Francia e in Italia. Le sue pubblicazioni includono: La Scapigliatura. Schreiben gegen den Kanon (2007), e ‘Si gira!’ – Literatur und Film in der Stummfilmzeit Italiens (2007). Ha anche pubblicato articoli sul queer cinema e su registi quali:Torre, Giordana, Diritti, Alouache e Gaudreault. Fabiana Stefanoni è un’insegnante precaria, laureata in Filosofia presso l’Università di Bologna. È membro del Comitato Centrale del Partito di Alternativa Comunista. Nel 2008 è stata candidata premier alle elezioni politiche per il PdAC. A partire dal 2010 è stata eletta portavoce nazionale di Unire le lotte, un’area sindacale che nel 2011 è confluita nella Confederazione Unitaria di Base. Ha curato il libro A Novant’anni dalla Rivoluzione d’ottobre (2007) e ha tradotto la prima edizione italiana integrale de Il programma di transizione di Trotsky (2008). È direttore politico del giornale Progetto comunista, ed è caporedattrice della rivista Trotskismo oggi.

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Indice dei nomi Accardo, Alessio 60, 68-69 Acerbo, Gabriele 60, 68-69 Addabbo, Federica 151 Adler, Ali 77 Adorno, Theodor W. 36, 41 Ahmed, Sara 91, 93 Airaudo, Giorgio 18 Aitken, Stuart 157, 161 Akin, Fatih 110 Albanese, Antonio xvi, 9 Allam, Magdi Cristiano 154, 161 Allievi, Stefano 189, 196 Almodóvar, Pedro 109 Alouache, Gregory 218 Althusser, Louis Pierre 39 Amadio, Paolo 48 Ambrosini, Maurizio 68 Amelio, Gianni 8, 96, 112, 132, 188 Amenta, Marco 115, 121-124 Améry, Jean 168, 172 Amoroso, Carmine 4, 134, 138, 199 Andall, Jacqueline 188, 196197 Andrijasevic, Rutvica 88, 93 Angiolini, Ambra 175 Antonello, Pierpaolo 123124 Appadurai, Arjun 152, 161 Archibugi, Francesca 140 Ardizzoni, Michela 133, 152, 161, 215 Arendt, Hannah 38, 106 Ariis, Tanja 6, 11 Arlacchi, Pino 124

Arnot, Margaret 125 Aspesi, Natalia 103 Atria, Rita 121-123, 125 Babini, Luana 115, 124 Bagarella, Antonietta 118 Bagarella, Leoluca 118 Bal, Mieke 109 Balduzzi, Erica 8, 11 Balla, Pietro 9, 51-53, 55-57 Ballestra, Silvia 93 Baricco, Alessandro 110, 201 Barry, Ibrahim 137 Barthes, Roland 39, 41, 170, 172 Bartkowski, Frances 113 Battaglia, Serafina 122 Battiato, Franco 58 Bauman, Rebecca 77, 95, 215 Bauman, Zygmunt 40-41, 61-62, 67-69, 79, 82 Bayman, Louis xx Bechis, Marco xiii-xiv Bellassai, Sandro 101, 103 Bellucci, Monica 97, 100, 103 Benedetti, Carla 124 Benhadj, Rachid 180 Benigni, Roberto 96 Benjamin, Walter x, 201 Berghahn, Daniela 113 Berizzi, Paolo 145, 151 Berlusconi, Silvio ix, xi-xii, xiv-xv, xix, 6, 13-15, 17, 34, 76, 79, 102, 185, 189 Bernard, Giovanni 164, 172 Bertolucci, Bernardo 136, 138, 215

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Bertozzi, Marco 80, 82 Bhabha, Homi 159-162, 194 Biagi, Enzo xix Biagi, Marco 3, 15, 31, 34 Biedny, Demyan xv Bin Laden, Usama 153 Block, Alan 119, 124 Bly, Robert 101 Boato, Marco 150 Boghetta, Ugo 150 Bonato, Francesco 150 Bondanella, Peter 41 Bondi, Sandro xx Borromeo, Beatrice 58 Borsellino, Paolo 116 Bosé, Miguel 78 Bossi, Umberto 134, 140142, 150, 189, 197 Botti, Donatella 74 Bouchard, Norma 197 Boursier, Giovanna 31 Boym, Svetlana 167-168, 171-172 Bozzatello, Claudio 75 Braidotti, Rosi 85, 88, 90, 9293 Braschi, Nicoletta 25 Brauns, Patrick 172 Brizzi, Fausto 76 Brunelli, Roberto xv, xx Brunetta, Gian Piero 35, 37, 41 Bruni, Francesco 35 Bruno, Edoardo 51-52, 5456, 59 Bruno, Giuliana 80 Buffa,Vincenzo 118

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Buratti, Maria xi Butler, Judith 106 Cafueri, Cosimo 58 Calderoli, Roberto 140-141 Calderone, Antonio (alias Antonino) 117, 124 Caldiron, Orio 41 Calopresti, Mimmo xv, 9, 31, 58 Calvino, Italo 110, 216 Camilleri, Andrea 88, 93 Cammarata, Patrizia 134, 142, 144, 148, 150-151, 216 Campbell, Naomi 179 Camusso, Susanna 18, 145 Cane, Sandy 189-190, 196197 Canova, Gianni xi-xii xx Cantù, Cesare 75 Capossela,Vinicio 58 Cappuccio, Eugenio 8, 10, 21 Caprara,Valerio 120, 124 Capussotti, Enrica 188, 192, 197 Cardinale, Claudia 195 Carfagna, Mara xii Carroli, Piera 76, 84, 216 Caselli, Chiara 134 Casetti, Francesco xx, 92-93, 185 Cassano, Franco 112 Castellitto, Sergio 201 Casula, Francesco 8, 11 Cavani, Liliana 75, 80 Cavarero, Adriana 130 Ceau escu, Nicolae 134 Ceccarelli, Sandra 135 Cecchi D’Amico, Suso 80 Cecere, Giorgia 74 Celati, Gianni 110 Celestini, Ascanio 6-7, 34, 42-49, 61 Cento, Paolo 150 Ceraso, Angela 48-49 Cestaro, Gary P. 82 Chambers, Iain 193 Cheike, Mbenghe 148

Chiamparino, Sergio 52 Chiarello, Sophie 75 Chirumbolo, Paolo 6, 42, 54, 59, 216 Cincinelli, Sonia 129, 134, 141, 177, 185 Ciprì, Daniele 49 Cirillo, Ciro 199 Colaiacomo, Alberto 176, 182, 185 Comencini, Cristina 137138, 174-176, 178-185 Comencini, Francesca xiv, 4, 6-7, 21-22, 25-27, 30-31, 135 Connell, Raewyn W. 101, 103 Cosentino, Nicola 140, 142 Craxi, Bettino 208 Crenshaw, Kimberley 107, 113 Crescentini, Carolina xvii, 76, 81-82 Crialese, Emanuele 133, 138 Cugusi, Claudio 48-49 Cutolo, Raffaele 199, 207 Dahl, Roald 66 D’Alatri, Alessandro 10 Dalle Vacche, Angela 80, 82, 122, 124 D’Amelio, Maria Elena 7, 33, 216 D’Amico, Masolino 34, 41 Dandini, Serena 185-186 Danna, Daniela 78, 81-82 D’Aquino, Tosca 117 d’Arcangeli, Luciana 73, 114, 215 da Verona, Guido 78 De Arcangelis, Irene 124 De Benetti, Lino 150 De Carli, Manuel 59 de Certeau, Michel 106 De Cesaris, Walter 150 De Céspedes, Alba 216 de Lauretis, Teresa 85, 89, 93 Deleuze, Gilles 106, 197

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Delibes, Clément Philibert Léo 78 Dell’Agnese, Elena 101-103 Del Monte, Peter 61 Delon, Alain 195 De Luigi, Fabio 96 Demasi, Giuseppe 58 Deneuve, Catherine 78 De Palma, Brian 123 Depardieu, Gérard 201 Depolo, Marco 32 Derrida, Jacques 106 De Seta,Vittorio 9 Dieng, Moustapha 148 di Gregorio, Gianni 77 Di Maria, Franco 124 Di Matteo, Giuseppe 116 Dino, Alessandra 116, 121, 125-126 Di Paola, Giampaolo 14 Di Pietro, Antonio ix Diritti, Giorgio 139, 163164, 167, 170, 172, 218 Di Virgilio, Alessandro 59 Dones, Elvira 93 Dostoevskij, Fëdor 206 Dubar, Claude 68 Duncan, Derek 197 During, Simon 173 Eco, Umberto 110 Eichmann, Adolf 38 Ekberg, Anita 181 Elsaesser, Thomas 99, 103, 166, 172 Ercolani, Simona 58 Espenhahn, Harald 58 Esposito, Dawn 124 Ezra, Elizabeth 167, 172 Falcone, Giovanni 116-118, 124 Fallaci, Oriana 153-154, 162 Fanchi, Mariagrazia xvi-xvii, xx, 85, 93, 185 Fanon, Franz 194 Fantone, Laura 28, 31, 44 Fantoni Minnella, Maurizio

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xv-xvi, xviii, xx, 5, 11, 132, 136, 141 Farina, Felice xi Farrell, Joseph 124 Fasullo, Nino 124 Fattori, Paolo 58 Favino, Pierfrancesco 97-98 Fellini, Federico 95, 180 Ferilli, Sabrina 35, 37-38 Ferrara, Giuseppe 5, 115, 118 Ferrario, Davide 7 Ferrente, Agostino 138 Ferreri, Marco 77 Ferrero-Regis, Tiziana 112113 Filiberti, Marco 77 Fini, Francesca 58 Fini, Gianfranco 134, 142, 150, 189 Finocchiaro, Angela 75, 8182, 120 Fiume, Giovanna 114, 124 Fiumi, Cesare 88, 93 Flusser,Vilem 168, 172 Fo, Dario 215 Fornero, Elsa 143, 149 Foucault, Michel 106, 113 Frinchi, Adriano 124 Frye, Northrop 40-41 Fumagalli, Andrea 22, 32 Fumarola, Silvia 116, 118, 124 Fusco, Coco 194, 197 Gabbriellini, Edoardo 63 Gabia, Eduard 134 Galeta, Robert 197 Galletti, Paolo 150 Gallino, Luciano 42-43, 49 Gallozzi, Gabriella 81-82 Galt, Rosalind 105, 113 Gambacciani, Massimo 65 Gandini, Erik xii-xiii Gardiol, Giorgio 150 Garofalo, Marcello 75, 80, 82 Garrone, Matteo xvii, xx, 8, 123-124, 215 Gassman,Vittorio 35, 37-38

Gastaldi, Sciltian 78, 81 Gaudreault, Émile 218 Gaynor, Gloria 65 Gazzara, Ben 205 Germi, Pietro 132 Ghini, Massimo 37-38 Gilroy, Paul 193, 197 Ginsborg, Paul 23, 32 Giordana, Marco Tullio 132, 138, 146, 150, 174, 188, 218 Giordano, Francesco 150 Giroldini, Primo 74 Giuliani, Carlo xiv Giuliani, Haidi xiv Giurato, Rocco 159, 162 Giusti, Marco xix-xx Gogol, Nikolaj 68 Golz, Marianne 58 González, Jennifer 194-195, 197 Gramsci, Antonio 195 Grande, Maurizio 38, 41 Graziosi, Marina 114, 116, 125 Greco, Michela 81-82 Greene, Shelleen 140, 187, 195, 197, 216 Gremigni, Piero 65 Griffith, David Llewelyn Wark 115 Grillo, Beppe ix, 34, 40, 49 Griseri, Carlo 81-82 Grodal, Torben 140-141 Guattari, Félix 106, 197 Gubbini, Cinzia 144, 151 Guerrera, Piero xvi Gullace, Teresa 74 Gundle, Stephen 80 Gunew, Sneja 171 Guzzanti, Sabina xiv-xv, xx, 5, 61 Hall, Stuart 178-179, 186 Hardt, Michael 21, 32 Harring, Laura 78 Heidegger, Martin 36, 40, 106

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Henson, Matthew 196 Hesse, Barnor 188, 197 Hill Collins, Patricia 108, 113 Hine, Darlene 188, 197 Hipkins, Danielle 80, 82 Hofer, Johannes 167 Hope, William ix, xx, 3, 86, 89, 93, 124, 129, 137, 174, 199, 215 Horkheimer, Max 36, 41 Huntington, Samuel 152153, 162 Iacona, Riccardo 81 Iarussi, Oscar 85, 93 Imperio, Michele 74 Imre, Aniko 94 Infascelli, Alex xvi, 86 Ingrascì, Ombretta 121, 125 Iordanova, Dina 110, 113 Jacinto, Leela 121, 125 Jameson, Fredric xv, xx, 10, 69, 178, 184-185 Jansen, Monica 46, 48-49 Johnson, Merri Lisa 123, 125 Jostes, Brigitte 165, 172 Julien, Isaac 140, 187, 189191, 193-198 Kafka, Franz 197 Keach, William xx Keaton, Trica 188, 197 Kezich, Tullio 80 Kohan, David 77 Kolmar, Wendy 113 Labate, Wilma 5, 21-25, 32 Lady Gaga (alias Germanotta, Stefani J.A.) 108 Lancaster, Burt 194 Landini, Maurizio 18, 20 Landy, Marcia 100, 103 Lanza, Angela 125 La Torre, Pio 204 Laurino, Angelo 58 Lauzen, Martha 80, 82 Laviosa, Flavia 9, 51, 94, 217

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Leccese,Vito 150 Lenin,Vladimir Ilyic 20, 33 Lenti, Maria 150 Levantesi, Alessandra 80 Levi, Primo 7 Lizzani, Carlo 217 Lo Cascio, Luigi 135 Lo Coco, Gianluca 125 Lo Forte, Guido 116 Lombardi-Diop, Cristina 189, 193, 197 Loren, Sofia 73 Loshitzky, Yosefa 131, 133, 138, 141, 179, 186 Lo Verso, Girolamo 124-125 Lucarelli, Carlo 58-59 Luciano, Bernadette 7, 21, 31-32, 75, 80, 83, 88, 93, 217 Lupo, Salvatore 119, 125 Lynch, David 78 Macaluso, Emanuele 204 Madeo, Liliana 115 Madoglio, Alberto 18, 20 Madou, Samb 148 Magatti, Mauro 67, 69 Maglietta, Licia 138 Magnani, Anna 73-74 Maier, Elisabetta 25, 32 Maïga, Aïssa 179 Maiorca, Donatella 78 Maira, Salvatore 136 Malentacchi, Giorgio 150 Malfi Chindemi, Marco 75 Maliphant, Russell 193 Maltese, Curzio 43 Manfredi, Nino 35, 37 Manfredonia, Giulio xvi Manganelli, Antonio 117, 123 Mangiacapre, Lina 80 Mangione, Mario 81-82 Manni, Armando 61, 92 Manno, Christian 48 Mantovani, Ramon 150 Marazzi, Alina 93 Marcegaglia, Emma 17 Marchetti, Giorgio 68-69

Marchionne, Sergio 6, 18 Marciniak, Katarzyna, 94 Marcus, Millicent 195, 197 Marino, Mattia 77, 104, 217 Maroni, Roberto 3, 15, 34, 145 Marra,Vincenzo 5-6, 10, 188 Marrapodi, Carlo 9, 51-59 Marrazzo, Giuseppe 207 Marrone, Gaetana 80 Martelli, Claudio 189 Martínez, Matías 170, 173 Martini, Giulio 163, 173 Marx, Karl 3-4, 8, 11-13, 1920, 36 Marzo, Rocco 58 Mastrandrea,Valerio 7, 36 Masslo, Jerry 189 Mastroianni, Marcello 35, 81, 83, 103, 181, 200 Masucci, Tiziana 80 Mathur, Saloni 197 Mazzacurati, Carlo 61, 92, 135, 137, 142, 149, 155156, 160-162, 181, 215 Mazzocchi, Silvana 80, 83 McDonald, Sarah 32 McLellen, David 11 Melandri, Lea 22, 32 Mellino, Miguel 194, 197 Melliti, Mohsen 133, 137138, 155-157, 159, 161162 Milani, Riccardo 5 Mimun, Clemente xx Minnelli,Vincente 96 Minzolini, Augusto xx Mircea, Raul 143, 149 Missiti, Gianluca 58 Mistretta, Saverio 125 Mitchell, Larry 111, 113 Modugno, Domenico 58 Modugno, Paolo 132 Monicelli, Mario 34-35, 38 Montaldo, Giuliano 4, 21, 132 Monti, Andrea 87, 92, 94 Monti, Mario 13-14, 18, 92,

222

143, 149 Moore, Michael 43, 51 Mor, Diop 148 Mor, Sougou 148 Morandini, Morando 73, 83 Morante, Laura 35, 40, 75 Mordenti, Raul 47, 49 Morelli, Guglielmina 173 Moretti, Nanni xii, 96 Morgoglione, Claudia 74, 80, 83, 125 Morini, Cristina 28, 32 Moroni, Daniele 58 Morricone, Ennio 86 Mosse, George 101, 103 Moussa Bâ, Saidou 190, 193 Muccino, Gabriele xx, 61, 95 Muccino, Silvio 75 Mulvey, Laura 85, 89-90, 94, 98-99, 103 Munzi, Francesco 130, 134 Murgia, Michela 34, 41, 4849 Murphy, Ryan 77 Mutchnick, Max 77 Myrie,Vanessa 193 Naficy, Hamid 191-192, 197 Naguschewski, Dirk 172 Napolitano, Giorgio 142, 146, 150, 189 Nardini, Maria Celeste 150 Nathan,Vetri Janak 91, 93-94, 194, 197 Ndongala, Mafunda Lucia 137, 174, 217 Negri, Anna xviii, 9, 21-22, 27-30, 32 Negri, Antonio 21, 32 Nelde, Peter 172 Nepi, Luigi 56, 59 Nepoti, Roberto 87, 94 Nichols, Bill xx, 54, 59 Nietzsche, Friedrich 106, 113 Notari, Elvira 80 Nucci, Matteo 81 Obama, Barack 18, 190, 197

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Oboe, Annalisa 197 O’Healy, Áine 93-94, 155, 162, 188, 197 O’Leary, Alan xvi-xvii, xx Olmi, Ermanno 164 Omoruy, Joy 148, 150 O’Rawe, Catherine xvi-xvii, xx, 119-120, 125-126 Orlando, Silvio 96 O’Shaughnessy, Martin xvi, xix-xx, 137, 141 Ottaviano, Fulvio 61 Ozpetek, Ferzan xv, 4, 77, 104-109, 111 Pace, Maria 150 Padovani, Marcelle 124 Pagani, Fabio 74 Pagliardini, Angelo 172 Palumbo, Patrizia 102 Panara, Marco 48-49 Paolantoni, Francesco 64 Paoli, Marco 4, 60, 217 Parati, Graziella 130, 134, 138139, 141, 188, 190, 197 Paredes, Marisa 98 Pasotti, Giorgio 8 Passera, Corrado 14 Passetto, Stefano 78 Paternò, Cristiana 80, 83 Pellizza da Volpedo, Giuseppe 36 Persico, Daniela 93 Petri, Elio xvi Petroni, Franco 124 Piccioni, Giuseppe 135 Pickering-Iazzi, Robin 125 Pilati, Giacomo 78 Pino, Marina 125 Pinto, Emmanuele 58 Pirandello, Luigi 110 Pisapia, Giuliano 150 Pitigrilli (alias Segre, Dino) 78 Pizzini Gambetta,Valeria 125 Placido, Michele xix, 136, 174, 189, 191 Polan, Dana 197

Polanski, Roman 201 Poletti, Fabio 197 Policastro, Gilda 124 Pomella, Andrea 143, 151 Ponti, Marco 61 Ponzanesi, Sandra 92-94 Portelli, Alessandro 52, 59 Possamai, Irina 47, 49 Presley, Elvis 140 Priegnitz, Gerald 58 Principato, Teresa 116, 121, 125-126 Procacci, Annamaria 150 Prodi, Romano 13, 15, 46, 57 Proietti, Alessia 74 Pucci, Marco 58 Puglisi, Anna 114, 125 Ragonese, Isabella 74, 80, 83 Rame, Franca 215 Rappoport, Ksenija 86, 93, 97 Ray, Nicholas 96 Reich, Jacqueline 81, 83, 95, 102-103 Renga, Dana 125-126 Repetto, Monica 9, 51-53, 55-57 Restivo, Angelo 191, 198 Ricci, Francesco 137, 141 Riina, Totò 118 Rinaldi, Rosa 46 Risé, Claudio 101, 103 Risi, Dino 34-35, 37-38 Rizza, Sandra 114, 125 Rizzo, Federico xvii-xviii, 4, 6, 21, 48 Rizzotto, Placido 5 Roberti, Bruno 51, 54, 56, 59 Rodinò, Rosario 58 Rohrwacher, Alba xviii Ronzoni, Miriam 81, 83 Rorato, Laura 48, 50 Rosi, Francesco 92 Ross, Charlotte 81, 83, 217 Rossellini, Roberto 74 Rossi, Edo 150 Rossi, Fausto 58 Roumeliotis, Nikola 156, 162

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Rovelli, Marco 3, 7, 10-11 Rowden, Terry 167, 172 Rubini, Sergio 163 Ruffin, Giovanna 122, 125 Ruggeri, Enrico 58 Ruspini, Elisabetta 101-103 Russo Bullaro, Grace 94 Saïd, Edward 152, 179, 186 Salani, Corso 92 Salerno, Raffaele 58 Salvatores, Gabriele 61 Salvemini, Severino xx, 9293, 185 Sangaré, Oumou 194 Sangiovanni, Paola 74 Sanguineti, Edoardo 216 Santacroce, Isabella 108 Santino, Bruno 58 Santoro, Michele 58 Saraceno, Chiara 101 Sarandon, Susan 78 Saunero-Ward,Verónica 119, 125 Saviano, Roberto 119, 124, 125 Scacchi, Anna 197 Scalia, Massimo 150 Scarfò, Matteo 74 Scarparo, Susanna 7, 21, 32, 75, 80-81, 83, 88, 93, 217 Scerbanenco, Giorgio 217 Schatz, Thomas 96, 99, 103 Schellino, Remo 74 Schiavone, Antonio 58 Schiavone, Walter 123 Schirinzi, Carlo Michele 133 Schmidt di Friedberg, Ottavia 153, 162 Schmitt-Roschmann, Verena 173 Schoonover, Karl 105, 113 Schrader, Sabine 139, 163, 173, 218 Sciascia, Leonardo 125, 203 Scimeca, Pasquale 5 Scimone, Spiro 9 Scola, Ettore 35, 37, 39, 41

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Scola, Roberto 58 Scott, Tony 78 Segre, Andrea 139 Segre, Daniele 6, 9, 139 Seiter, Ellen 100, 103 Sellami, Tahar 143, 145-150 Sen, Amartya 152 Sennett, Richard 21, 32, 6869 Serra, Silvana 215 Shapiro, Michael 129, 141 Siciliano, Louis 156 Siebert, Renate 125 Silvestri, Roberto 129, 141 Sirk, Douglas 96, 99 Small, Pauline 119, 126 Small, Stephen 188, 197 Smith, Murray 179, 186 Smith,Valerie 186 Snead, James 180-181, 186 Soldini, Silvio 9, 12, 21, 61, 75, 96, 136, 138, 177, 217 Solmi, Renato 41 Sorbetto, Carlo 7, 11 Sordi, Alberto 35 Soudani, Mohammed 140, 187, 189-191, 195, 198 Spada, Marina 75 Speciale, Giuseppe 204 Spielberg, Steven 173 Spivak, Gayatri Chakravorty 171, 173 Stabile, Francesco Michele 126 Stahlberg, Jan xix Stambrini, Monica 78 Stancanelli, Elena 78, 81, 83 Starace, Alessia 86, 88, 92-94 Stefanoni, Fabiana 9, 11-12, 218 Sternberg, Claudia 113 Tarantelli, Ezio 58 Tarchi, Paolo 68 Tavarelli, Gianluca Maria 92 Thatcher, Margaret 194 Tiberi, Alessandro xvii Ticozzi, Filippo 136

Tognazzi, Maria Sole 77, 95100, 103 Tognazzi, Ugo 35, 38 Tomasi di Lampedusa, Giuseppe 194, 212 Tomlinson, Hugh 197 Tommasina, Gabriele 81, 83 Tornatore, Giuseppe 76, 8486, 89-94, 112, 132, 135, 181, 199-202, 215 Torre, Roberta 115, 119, 125-126, 140, 218 Torre,Valerio 17, 20 Tosi, Flavio 145 Trabant, Jürgen 172 Treu, Tiziano 3, 15, 31 Tricomi, Antonio 124 Trotsky, Leon xv-xvi, xx, 6, 11, 218 Turco, Daniela 54-56, 59 Turco, Livia 142, 146, 150, 189 Turco, Marco 92 Türcke, Christoph 173 Turroni, Sauro 150 Usborne, Cornelie 125 Uva, Cristian 85-86, 94 Valeri, Franca 61 Valpiana, Tiziana 150 Van Alphen, Ernst 109, 113 Vassallo Paleologo, Fulvio 134, 141 Vattimo, Gianni 106, 113 Vecchi, Benedetto 62, 69 Vecchiarelli, Alessandro 81 Vendola, Nichi ix, 150 Venier, Massimo xvii-xviii, 4, 7, 21, 61 Vercellone, Carlo 22, 32 Veronesi, Elisa 60-61, 68-69 Vicari, Daniele 5, 8, 21,134135, 181 Violante, Luciano 114, 126, 150 Virzì, Paolo xi, 4, 7, 12, 21, 33-39, 48, 60-68, 217

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Visconti, Luchino 132, 194195 Volo, Fabio 175 Volponi, Paolo 216 von Trier, Lars 108 Vranceanu, Alexandra 172 Wagne, Moustapha 143-149 Watts, Naomi 78 Wayne, Mike 185-186 Wertmüller, Lina 80 Winkler, Daniel 173 Winspeare, Edoardo xiv, 115, 120, 163 Young, Lola 136-137, 141, 183, 186 Zaccaria, Paola 93 Zagarrio, Vito ix, xx, 75, 80, 82-83, 163, 173 Zamarion, Fabio 86 Zampa, Luigi 68 Zanardo, Lorella 75 Zanotto, Paolo 145 Zecca, Federico 69 Zeta, Zelda 48, 50 Zingaretti, Luca 135 Zizzo, Graziella 125 Zonn, Leo 157, 161 Zonta, Dario 164, 173

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