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Italian Pages 281 [276] Year 2018
LUIGI PERISSINOTTO
Introduzione a Wittgenstein
il Mulino
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www.mulino.it
ISBN
978-88-15-27230-0
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Indice
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Prefazione
I.
Uno, due, o molti Wittgenstein? Una questione di stile? 3. Senza un passato e senza un futuro? 4. La vita di Wittgenstein ha a che fare con la sua la filosofia? II.
III.
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Quattro questioni fondamentali 1.
13
2.
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Il Tractatus logico-philosophicus. Problemi e bivi interpretativi
28
31
41
1. Le difficoltà del Tractatus
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2. Titolo e struttura
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3. La lingua del Tractatus
51
4. Da dove iniziare?
53
Il linguaggio e la sua logica 1.
2. 3. 4. 5.
Il Tractatus come opera filosofica Fatti, cose e stati di cose Immagine, pensiero e proposizione Sulle proposizioni elementari La forma generale della proposizione
61 61
63 72
82 83
6
Indice
6.
7. IV.
Il linguaggio e il soggetto metafisico L’etica e il problema della vita
89 90
Linguaggio, calcolo e grammatica. Fra il Tractatus e le Ricerche
109
1. Il ritorno alla filosofia; ovvero:mai dire mai
109
2. Rileggendo il Tractatus
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3. Le proposizioni elementari: un puntodolente
114
4. Grammatica, regole e calcoli
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5. Senso e verificazione
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Di che cosa vivono i segni? Wittgenstein tra Frege e i formalisti 7. Ciò che il significato non è
125
6.
V.
Le Ricerche filosofiche. Filosofia come ricerca grammaticale
1. 2. 3. 4. 5. 6.
VI.
128 143
Le Ricerche filosofiche-, la seconda «opera» di Wittgenstein Il significato: immagine, idea, teoria Intermezzo: filosofo o filosofo del linguaggio? Le tendenze e i desideri della filosofia Una breve digressione sul riduzionismo La ricerca filosofica come ricerca grammaticale
143
146
150 153
158 160
La bottega filosofica delle Ricerche. Differenze, uso, regole,
grammatica
1. 2. 3.
4. 5. 6. 7. 8. 9.
10.
«Ti insegnerò le differenze» Nomi e definizioni ostensive Sul semplice e il composto Sui giochi linguistici «Te la fai facile!» Uso e significato: il §43 delle Ricerche Uso, regola ed esattezza Comprendere «di un colpo» Regole, interpretazioni e applicazioni Esperienza privata e linguaggioprivato
169 169
174 176 179 183 187
190 194 196 204
Indice
VII.
Il flusso della vita e i concetti della psicologia
1. 2. 3. 4. Vili.
Concetti psicologici, medici e vecchie signore Concetti e fatti di natura La trattazione dei concetti psicologici: un piano Interno ed esterno
Dubbio, conoscenza e certezza
1. 2. 3.
Della certezza', «il terzo capolavoro» Il dubbio: una ricerca grammaticale «Cardini» e grammatica
7
217 217 220 224
228 237 237 239 249
Riferimenti bibliografici
263
Indice dei nomi
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Prefazione
Esistono molte introduzioni a Wittgenstein, di diverso valore e di dif ferente accessibilità, alcune di intento chiaramente divulgativo, altre che si rivolgono a un pubblico più specialistico. Ciascuna di esse presuppone certe scelte, assunzioni e decisioni; per esempio, alcune cercano di introdurre alla filosofia di Wittgenstein senza riferimenti espliciti alla letteratura critica e alla storia delle sue interpretazioni; altre cercano, nel corpo stesso del testo o almeno in un capitolo finale o in una appendice, di dar conto, per quanto possibile, della storia tutt’altro che lineare della sua ricezione. Vi sono poi introduzioni che fanno un uso esteso e sistematico delle citazioni dai vari testi wittgensteiniani, quasi a voler lasciar la parola allo stesso Wittgenstein, mentre altre preferiscono limitare le citazioni a favore delle parafrasi. In molte di queste introduzioni uno spazio non secondario viene riservato alle ricostruzioni biografiche e storico-culturali; ciò si spiega facilmente con l’interesse e la curiosità che il personaggio Wittgenstein e gli ambienti storico-geografici e culturali in cui è vissuto (la Vienna degli ultimi decenni dell’impero asburgico, ma anche la Cambridge del Trinity College) hanno da sempre suscitato anche nei lettori meno interessati al Wittgenstein filosofo; in altre, al contrario, prevale un’attenzione quasi esclusiva al meto do e ai contenuti filosofici, soprattutto quando a scriverle sono autori (come i filosofi analitici o di simpatie analitiche) che ritengono che i dati biografici e storici servano poco o nulla a intendere una filosofia o a stabilirne il valore. Va anche notato come non siano poche le introduzioni nelle quali si sottolinea, almeno nella prefazione, la difficoltà di introdurre al pensiero di
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Prefazione
un autore che ha sempre sostenuto che la filosofia «non spiega e non deduce nulla» (RF, §126a) e che al filosofo «non è dato costruire alcun tipo di teo ria» (RF, §109). In questa prospettiva si capisce perché molti autori abbiano preferito le citazioni alle parafrasi, così come si spiega il disagio con cui molti parlano, con riferimento a Wittgenstein, di concezioni, di tesi, di dot trine o di teorie. Per esempio, sembra inevitabile domandarsi come si possa trovare qualcosa come una «teoria della proposizione come immagine» in un’opera come il Tractatus logico-philosophicus nella quale della filosofia si proclama che «non è una dottrina» (T, 4.112b) e del Tractatus stesso che «non è [...] un manuale» (T, pref.)? Va in ogni caso rilevato come la gran dissima parte degli autori, pur riconoscendo la difficoltà ed esplicitando il relativo disagio, si siano rassegnati a scrivere come se niente fosse, parlando della «teoria del significato come uso», della «dottrina delle somiglianze di famiglia» e delle molte altre teorie e dottrine che sarebbero contenute nei testi di Wittgenstein. Anche questa introduzione a Wittgenstein nasce da alcune scelte, as sunzioni e decisioni. Il primo punto da sottolineare è come sia oggi difficile introdurre alla filosofia di Wittgenstein prescindendo o lasciando ai margini l’attuale dibattito critico-interpretativo, il quale, negli ultimi due decenni, si è rianimato suscitando nuove passioni e producendo originali, anche se con troverse, letture. Mi riferisco, per esempio, ai cosiddetti interpreti «neowittgensteiniani» e, in particolare, alla lettura chiamata «risoluta» del Tractatus1, così come al ruolo sempre più importante assunto dal cosiddetto «terzo Wittgenstein»2, ossia dall’autore delle annotazioni note con il titolo di Della certezza e di altri manoscritti della seconda metà degli anni Quaranta. Ma mi riferisco anche alle letture delle Ricerche filosofiche che si sono sviluppa te a partire da alcune interpretazioni «eccentriche» come quella di Stanley Cavell3 o quella di Gordon Baker4. La nostra scelta sarà quella di introdurre a Wittgenstein tenendo conto, talora in maniera esplicita, spesso implicita mente, di questo nuovo e variegato dibattito. Il secondo punto è che non si può evitare di porsi, anche in un’intro duzione, il problema se la filosofia di Wittgenstein abbia qualcosa da dire alla filosofia contemporanea e se, ed eventualmente come, possa intervenire in un dibattito filosofico che sembra per molti aspetti (si pensi al diffuso naturalismo o all’impegno teorico oggi reclamato da molti filosofi) lontano
Prefazione
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da Wittgenstein ed estraneo al suo modo di intendere la filosofia e il lavo ro del filosofo. Non si tratta di rivendicare per Wittgenstein o a suo nome un’attualità di cui avrebbe lui per primo fatto a meno, quanto piuttosto di domandarsi se la filosofia di Wittgenstein possa essere sottratta a quello «splendido isolamento» a cui molti suoi interpreti l’hanno condannata e se, ed eventualmente come, essa possa aiutarci a filosofare oggi, senza illusioni, ma anche senza sistematiche disillusioni. Anche se non avranno una tratta zione esplicita, questi interrogativi ci faranno da guida e riceveranno qua e là qualche abbozzo di risposta. Un terzo punto riguarda la scelta di dare un qualche spazio alle que stioni legate allo stato del materiale (manoscritti, dattiloscritti, eccetera) la sciatoci da Wittgenstein. In effetti è quasi impossibile affrontare la filosofia di Wittgenstein senza dire qualcosa sul suo modo di lavorare, sul suo stile compositivo, sull’idea di libro che aveva e, insieme, sulle scelte dei suoi ese cutori letterari e sulle varie traversie che hanno segnato la storia editoriale dei testi wittgensteiniani condizionandone talvolta la stessa interpretazione. In questo senso le questioni filologiche non sono estranee a quelle filosofiche e devono perciò avere un qualche posto anche in un’introduzione. Un quarto punto riguarda la tentazione che ogni studioso di Wittgenstein può trovare irresistibile, ossia quella di lasciare il più possibile la parola allo stesso Wittgenstein moltiplicando le citazioni e producendo testi che sono poco più che dei collage. Si tratta di una tentazione che ha almeno due ragio ni. La prima è che lo stile di Wittgenstein, incluse le immagini che inventa e i paragoni che escogita, è così efficace e incisivo che non è difficile arrivare alla conclusione che, considerato che difficilmente si può far meglio, tanto vale limitarsi a citare. La seconda è che è difficile intendere Wittgenstein senza vederlo concretamente al lavoro, come si guarda un falegname al lavoro nella sua bottega o un pittore nel suo studio. Ebbene, i testi di Wittgenstein sono la sua bottega o il suo studio ed è naturale che si sia tentati di non sostituirlo, ma di limitarsi a guardarlo mentre lavora. Anche in questa introduzione i testi di Wittgenstein saranno ampiamente citati, ma si cercherà anche di evitare l’effetto collage, ricorrendo, dove si riterrà necessario, a esempi, illustrazioni e trascrizioni che possano essere di aiuto al lettore aiutandolo a orientarsi. L’ultimo punto serve a sottolineare come molti aspetti della filosofia di Wittgenstein non siano toccati o siano solo sfiorati in questa introduzione.
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Prefazione
Questo vale, innanzitutto, per la filosofia della matematica, ma anche, per esempio, per temi riconducibili all’ambito dell’estetica o della filosofia della religione. La speranza è che quello su cui si è scritto possa aiutare il lettore ad affrontare anche tutto quello su cui qui non si è scritto.
NOTE 1 Per un primo orientamento vedi Diamond (1991), Crary e Read (2000), Read e Lavery (2011). 2 Per l’idea di «terzo Wittgenstein» e per un primo orientamento sul relativo dibattito vedi i saggi raccolti in Moyal-Sharrock (2004).
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Si veda, in particolare, Cavell (2001) e Laugier (2009).
4 Mi sto riferendo a quella abbracciata da Baker nell’ultima fase della sua vita in polemica con la lettura che aveva per molti anni condiviso con Peter Hacker; al riguardo vedi Baker (2006) e Kahane, Kanterian e Kuusela (2013), che contiene anche la risposta polemica di Hacker alla nuova interpretazione di Baker (Hacker 2013, 88-122).
CAPITOLO
.
Quattro questioni fondamentali
1. UNO, DUE, O MOLTI WITTGENSTEIN?*il Nella vastissima e ormai quasi incontrollabile letteratura critica su Witt genstein, ma anche nei testi di intento più divulgativo, vi sono alcune que stioni fondamentali o preliminari che ritornano con insistenza e sulle quali le risposte degli interpreti sono tutt’altro che univoche o convergenti. Tra que ste vi è quella che possiamo considerare la prima di tutte le domande, quella domanda alla quale ogni studioso di Wittgenstein si è trovato, prima o poi, a dover rispondere: quanti Wittgenstein vi sono? Che cosa vi può mai essere di comune tra un’opera come il Tractatus logico-philosophicus e le successive Ricerche filosofiche? Non sono forse queste ultime radicalmente diverse (per stile, spirito, forma compositiva, contenuto) dal primo? Come mai potrebbe il lettore del primo sospettare che esso abbia come autore lo stesso filosofo che ha scritto le seconde? E ovviamente vale anche l’inverso: come potrebbe chi ha letto per prime le Ricerche riconoscere nel loro autore lo stesso autore del Tractatus?1 Come insomma resistere, di fronte a una diversità che sem bra imporsi con la più piena evidenza, alla tentazione di concludere che solo per accidens le due opere si trovano ad avere il medesimo autore? La questione appena evocata è strettamente legata alla maniera in cui la filosofia di Wittgenstein si è diffusa e al modo in cui è stata inizialmente accolta. Com’è noto, la grandissima parte delle sue opere, o delle sue cosid dette «opere»2, è stata pubblicata postuma. Se si escludono tre brevi testi3, l’unica opera comparsa in vita4 fu infatti il Tractatus, pubblicato con il titolo
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Capitolo 1
tedesco Logisch-philosophische Abhandlung nel 1921 e con il titolo latino e la traduzione inglese a fronte5 l’anno successivo. Tutto quanto Wittgenstein
scrisse dopo il 1929 rimase inedito, e fu da lui affidato alle cure e alle decisio ni di tre esecutori letterari: i suoi allievi e amici Elizabeth Anscombe, Rush Rhees, Georg Henrik von Wright. Il materiale lasciato da Wittgenstein non era né poco (si tratta di circa 20.000 pagine tra manoscritti e dattiloscritti) né sicuramente facile da gestire. La scelta degli esecutori fu quella di pubbli care per primo il testo che, a loro giudizio, più si avvicinava a quel libro che Wittgenstein, forse fin dagli inizi del 1929, anno del suo ritorno «ufficiale» alla filosofia, aveva in mente di comporre. Fu così che nel 1953, due anni dopo la sua morte, uscirono postume, con la traduzione inglese di Elizabeth Anscombe a fronte, le Ricerche. La conseguenza più evidente di questa scelta editoriale fu che per alcuni anni i lettori ignorarono quello che Wittgenstein aveva scritto tra il 1929, anno del suo ritorno «ufficiale» alla filosofia, e la metà degli anni Trenta, il periodo in cui cominciò a lavorare a quelle che sarebbero diventate le Ricer che. Questa distanza fra il Tractatus, la cui stesura era terminata nel 1918, e le Ricerche ha sicuramente contribuito a enfatizzare la loro differenza e a rendere per diverso tempo persuasiva e pressoché indiscussa la distinzione tra un «primo Wittgenstein», identificato con l’autore del Tractatus, e un «secondo Wittgenstein», identificato con l’autore delle Ricerche. Nella Prefazione alle Ricerche, «datata Cambridge, gennaio 1945», era peraltro lo stesso Wittgenstein a sollevare il problema, che sarebbe presto diventato classico, del rapporto tra le Ricerche e il Tractatus. A dire il vero, l’atteggiamento di Wittgenstein nei confronti della sua prima opera era tutt’altro che univoco. Infatti, anche se riconosceva che in essa egli aveva commesso dei «gravi errori», non per questo la ripudiava in tato, mostran dosi piuttosto convinto che i suoi nuovi pensieri «sarebbero stati messi in giusta luce soltanto dalla contrapposizione con il suo vecchio modo di pen sare», ma anche, si noti bene, «sullo sfondo di esso» (RF, pref.). Agli occhi di pressoché tutti i lettori era però la critica talora spietata e carica di ironia alla sua prima opera che sembrava prevalere nelle Ricerche, almeno in quei paragrafi il cui il Tractatus era esplicitamente citato; per esempio, nel §23d nel quale l’autore del Tractatus era criticamente assimilato a tutti quei logici che non avevano riconosciuto «la molteplicità degli strumenti del linguaggio
Quattro questioni fondamentali
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e dei loro modi di impiego, la molteplicità dei tipi di parole e di proposizio ni», o nel §97a in cui, citando come prova la prop. 5.5563, al Tractatus era imputato di aver illusoriamente idealizzato, sublimato o mitizzato la logica, o nel §114, nel quale con riferimento questa volta alla prop. 4.5, si rimprove rava allo stesso di essere anch’esso caduto in quel dogmatismo nel quale «si cade così facilmente facendo filosofia» (RF, I: §131). Queste critiche esplicite e più volte enfatizzate dagli interpreti non era no però le sole ragioni che giustificavano la contrapposizione fra il Tractatus e le Ricerche. Anche solo a una prima e sbrigativa lettura, i due testi appari vano infatti assai diversi per stile e forma compositiva. Per esempio, se nel primo sembrava risuonare una sola voce, una voce perentoria e solitaria6, nelle seconde intervengono e si incrociano più voci spesso difficili da in dividuare e distinguere. Secondo molti interpreti queste voci sono due, la voce di Wittgenstein e quella del suo cosiddetto «interlocutore» (vedi Cavell 2001), per altri sono in numero maggiore, tre o anche più di tre, tant’è vero che il lettore delle Ricerche si trova di continuo spinto a domandarsi chi stia parlando a chi e quale eventualmente sia, tra le varie e diverse voci, la voce del loro autore7. Niente di simile si trova nel Tractatus, anche se, a dire il vero, in esso al lettore è assegnato un ruolo tutt’altro che secondario; per un verso, infatti, nell’incipit della Prefazione, Wittgenstein affida il suo Tracta tus a un lettore che lo sappia comprendere avendo «già a sua volta» pensato gli stessi suoi pensieri o pensieri simili (T, pref.)8; per un altro, nella prop. 6.54, egli evoca un lettore che sappia superare le sue proposizioni trattando le come una scala che va gettata via una volta usata: Le mie proposizioni chiarificano così: Colui che mi comprende, alla fine le riconosce insensate, se è salito per esse - su esse - oltre esse. (Egli deve, per così dire, gettar via la scala dopo che vi è salito. / Egli deve superare queste proposizioni; è allora che vede rettamente il mondo). Anche la struttura dei due testi è molto differente. Nel Tractatus si adot ta una numerazione decimale che organizza il testo sulla base del principio, enunciato nella nota alla prop. 1, secondo cui i «decimali che numerano le singole proposizioni ne denotano l’importanza logica». Niente di simile nel le Ricerche che consistono di paragrafi di lunghezza molto diversa, da una
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Capitolo 1
riga a due pagine, numerati, per quanto riguarda la prima parte, in maniera progressiva da 1 a 693. Del resto, l’immagine che Wittgenstein usa per il Tractatus è quella di una scala, anche se, come appena ricordato, di una scala che alla fine va gettata via, mentre le Ricerche sono paragonate a un album, a «una raccolta di schizzi paesaggistici, nati da [...] lunghe e complicate scorribande» in «una vasta regione di pensiero» (RF, pref.). Due immagini molto differenti che sembrano rinviare a due modi e ritmi di composizione e anche di lettura molto, per non dire radicalmente, diversi. Se infatti la scala sta a indicare che (in un qualche senso) non siamo ancora nel luogo a cui vo gliamo pervenire, l’album è qualcosa che componiamo percorrendo sempre il medesimo luogo, «in lungo e in largo e in tutte le direzioni» (RF, pref.). Anche per questo è interessante notare che quando, nel 1930, Wittgenstein tornerà a riferirsi, in un abbozzo di prefazione, alla scala lo farà per sbaraz zarsi dell’idea che alla filosofia spetti il compito di condurci dove ancora non siamo o di darci qualcosa che ancora non abbiamo: Ogni frase che scrivo - annoterà, infatti, Wittgenstein - intende già il tutto, e dunque sempre di nuovo la stessa cosa. Sono, per così dire, vedute di un unico oggetto osservato sotto angoli diversi. / Potrei dire che, se al luogo in cui voglio pervenire si potesse salire solo con una scala, desisterei dal raggiungerlo. Infatti, dove debbo tendere davvero, là devo in realtà già essere. / Ciò cui si può arrivare con una scala non mi interessa (PD, 26)9.
L’insistenza sulle differenze potrebbe continuare. Quello che qui interes sa in ogni caso rilevare è che per diversi anni queste differenze furono ritenute così forti e profonde da occultare, o almeno da mettere in secondo piano, tutte le eventuali affinità e convergenze fra il Tractatus e le Ricerche. Per esempio, tutti coloro che ritenevano che la grande novità delle Ricerche rispetto al Trac tatus risiedesse nel riconoscimento che «il significato di una parola è il suo uso nel linguaggio» (RF, I, §43), sorvolavano sul fatto che, già nel suo primo libro, Wittgenstein si era appellato, in maniera del tutto esplicita, all’uso: «Se un se gno non ha un uso, esso è privo di significato» (T, 3.328a; vedi anche T, 3.326); e chi faceva dell’interesse per il linguaggio comune, in quanto distinto dall’in teresse per un presunto linguaggio logicamente perfetto, il tratto distintivo
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delle Ricerche1®, sembrava scordarsi che, già nel Tractatus, veniva dichiarato che «tutte le proposizioni del nostro linguaggio comune sono di fatto, così come esse sono, in perfetto ordine logico» (T, 5.5563 a); infine, chi contrappo neva la concezione della filosofia delle Ricerche a quella del Tractatus sembra va non accorgersi che molte delle cose che nel Tractatus si affermavano della filosofia, in particolare che «essa non è una dottrina, ma un’attività», il cui risultato «sono non ‘proposizioni filosofiche’, ma il chiarificarsi di proposizio ni» (T, 4.112bd), si potevano facilmente estendere alle Ricerche, nelle quali si può leggere che alla filosofia non spetta «costruire alcun tipo di teoria» (RF, I, §109), che essa «non spiega e non deduce nulla» (RF, I, § 126a), che il suo scopo non è la conoscenza, bensì la «chiarezza» (RF, I, § 133b)11. A enfatizzare le differenze fra il Tractatus e le Ricerche contribuirono anche le vicende della loro ricezione e i modi della loro fortuna. Secon do una storia più volte raccontata, le due opere di Wittgenstein sarebbero all’origine di due distinti e per diversi aspetti contrapposti orientamenti fi losofici12: il Tractatus avrebbe grandemente influito sul Circolo di Vienna e dunque sulla formazione e su alcuni caratteri del neopositivismo; le Ricerche sulla formazione e su alcuni tratti della cosiddetta «filosofia del linguaggio ordinario»13. C’è sicuramente del vero in questa ricostruzione. Per quanto riguarda il Circolo di Vienna, l’influenza del Tractatus è innegabile, anche se non va considerata né così esclusiva né così pervasiva come si è a lungo so stenuto ed è stata in ogni caso ampiamente ammessa da molti suoi esponen ti. Da Rudolf Carnap, per esempio, il quale si riconosce debitore al Tractatus di almeno due fondamentali idee: a) che le proposizioni logiche «sono vere sotto tutte le circostanze concepibili e così la loro verità è indipendente dai fatti contingenti del mondo»; b) che molte proposizioni filosofiche, specialmente nella metafisica tradizionale, sono pseudo-proposizioni, prive di con tenuto di conoscenza (Carnap 1974,1,25). Non dovrebbe nemmeno essere dimenticato che in quel vero e proprio manifesto del Circolo di Vienna che fu pubblicato nel 1929 con il titolo La concezione scientifica del mondo, Witt genstein è indicato, con Albert Einstein e Bertrand Russell, come uno «fra i più autorevoli pensatori contemporanei, che sostengono apertamente e nel modo più efficace la concezione scientifica del mondo» (Hahn, Neurath e Carnap 1979,138).
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Capitolo 1
Da parte sua, peraltro, Wittgenstein dimostrò nei confronti di molti esponenti del neopositivismo un misto di estraneità e diffidenza14. Per un verso, infatti, egli avvertiva che, nonostante alcune somiglianze e convergen ze, lo spirito del suo filosofare era diverso da quello dei neopositivisti, il qua le era lo spirito, che egli avvertiva come «estraneo e non congeniale», della «grande corrente della civiltà {.Zivilisation) europea e americana» (PD, 24)15. Si tratta di quello spirito che Carnap esprime con grande efficacia nella Pre fazione a La costruzione logica del mondo, là dove caratterizza la scienza (e quella filosofia che si fa scientifica) come un’impresa comune e collaborati va nella quale «conoscenza su conoscenza viene guadagnata in una lenta e prudente costruzione» ed è «così accuratamente aggiunta pietra su pietra e costruito un sicuro edificio» (Carnap 1966,79-80). Con altrettanta efficacia, e avendo verosimilmente presente proprio questa Prefazione, Wittgenstein dichiara, nel già citato abbozzo di prefazione del 1930, la propria differenza, sia nello scopo che nel corso del suo pensiero, dal «tipico uomo di scienza occidentale» così come se lo raffigura Carnap, osservando che, diversamen te da quest’ultimo, a lui «non interessa innalzare un edificio»16: Il mio scopo quindi è diverso da quello dell’uomo di scienza, il cor so del mio pensiero è diverso dal suo. [...] La prima tendenza [quella dell’uomo di scienza] fa seguire un pensiero all’altro, la seconda mira sempre di nuovo allo stesso punto. / L’una costruisce prendendo in mano una pietra dopo l’altra, l’altra afferra ogni volta la stessa pietra {PD, 25-26).
Anche per quanto riguarda la cosiddetta «filosofia del linguaggio ordi nario» valgono considerazioni simili: le lezioni di Wittgenstein a Cambridge e la circolazione orale e scritta del suo insegnamento filosofico segnarono fortemente - anche se non ne furono la sola fonte né sempre quella più influente - gli interessi, i metodi e la fisionomia generale della filosofia analitica inglese. Peraltro, anche in questo caso, si tratta di un’influenza da cui Wittgenstein prese subito le distanze, sentendosi tra l’altro più tradito che gratificato dal modo in cui il suo pensiero andava diffondendosi. Lo testimonia la Prefazione alle Ricerche, nella quale egli confessa di essersi finalmente deciso a pubblicare il suo lavoro17 proprio perché aveva «dovuto
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constatare come i suoi risultati, divulgati attraverso lezioni, manoscritti e discussioni, circolassero variamente fraintesi, annacquati o mutilati» (RF, pref.)18. Ciò che qui bisogna almeno notare è che, senza Wittgenstein, la sto ria della filosofia inglese del Novecento sarebbe stata sicuramente diversa. Ma si deve anche osservare che, senza la mediazione dei filosofi di Oxford e di Cambridge, la ricezione della filosofia di Wittgenstein sarebbe stata diversa così come i modi e gli effetti della sua diffusione. Si spiegano anche così i vari tentativi di riportare Wittgenstein in Austria19 o di cercare di con vincerci che gran parte della filosofia di Wittgenstein aveva le sue «origini “nell’ambiente neo-kantiano pre-1914” di Vienna di cui l’uditorio inglese [un uditorio “i cui problemi filosofici erano stati formati dall’empirismo neo-humiano (e così prekantiano) di Moore, di Russell e dei loro colleghi”] era quasi del tutto all’oscuro» (Janik e Toulmin 1975,18-19). Quello che qui comunque ci interessa non è la fondatezza di queste genealogie, affiliazioni e influenze, ma il ruolo che esse hanno a lungo svolto nella distinzione tra un primo e un secondo Wittgenstein: se a Wittgenstein potevano richiamarsi, e con pari diritto, due orientamenti filosofici che era no o si reputavano così significativamente diversi, non era forse perché non era filosoficamente esistito un solo e unico Wittgenstein, bensì, per l’appun to, due e ben distinti Wittgenstein? Ovviamente, si potrebbe replicare che ciascuno aveva selezionato ed enfatizzato per i propri scopi e intenti alcuni tratti o aspetti della filosofia di Wittgenstein e che la storia dell’uso che di volta in volta si fa di un filosofo non sempre è una buona guida per la sua comprensione. Resta comunque indubbio che per molti anni il Tractatus fu ritenuto tanto diverso dalle Ricerche quanto i neopositivisti interessati alla logica e alla scienza lo erano dai filosofi inglesi attenti agli usi ordinari del linguaggio. Ovviamente, una volta riconosciuta l’esistenza di due Wittgenstein, si trattava di stabilire quale dei due fosse filosoficamente da preferire. La scelta fu da alcuni evitata sottolineando come nessuna delle due filosofie di Wittgenstein fosse da considerare «per originalità, genialità e risonanza» inferiore all’altra (Hartnack 1967,18). Molti interpreti e allievi di Wittgen stein non si accontentarono però di questa, per quanto elogiativa, equidi stanza; per essi il Tractatus andava inteso e valutato essenzialmente alla luce dei «gravi errori» (RF, pref.) che, per ammissione del suo stesso autore, in
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esso erano stati commessi e facendo, di conseguenza, proprie le critiche che, a cominciare almeno dal 1929, egli gli aveva a più riprese rivolto. E poiché queste critiche sembravano colpire anche la sua presunta anima russelliana e neopositivistica, la critica al Tractatus diventava parte della polemica con dotta negli ambienti di Oxford e Cambridge contro il neopositivismo e con tro l’idea di analisi che i neopositivisti condividevano con Russell. Per altri, al contrario, il passaggio dal Tractatus alle Ricerche rappresentava una vera e propria involuzione filosofica. Era questa, per esempio, l’opinione di Rus sell, secondo il quale, se il Wittgenstein delle Ricerche avesse avuto ragione, la filosofia sarebbe divenuta, «nel migliore dei casi, un piccolo aiuto ai les sicografi; nel peggiore, un futile passatempo per l’ora del tè» (Russell 1985, 161). E il Wittgenstein del Tractatus, il Wittgenstein appassionatamente lo gico, quello che Russell ammira, non certo quello che gli appare oziosamen te muoversi, e perdersi, tra le irrilevanti minuzie degli usi linguistici. Va anche notato che molti di coloro che assunsero il secondo atteggia mento lo fecero anche sulla base del presupposto che la critica di Wittgen stein alla sua prima opera costituisse, per così dire, un punto di non ritorno. I conti con il Tractatus erano stati insomma chiusi, e in maniera definitiva, dal suo stesso autore. Certo, ci si poteva domandare se Wittgenstein fosse sempre stato un buon interprete della sua prima opera o se nelle Ricerche non comparisse piuttosto un’ombra o un fantasma del Tractatus. Poteva darsi, com’è stato effettivamente sostenuto, «che le affermazioni [di Witt genstein] sul Tractatus talvolta non ne diano una corretta rappresentazione» o che egli abbia frainteso la sua prima opera su diversi punti (si veda Kenny 1984,13), ma se anche così fosse, nessun ritorno al Tractatus sembrava, dopo la critica delle Ricerche, possibile; se si voleva filosofare con Wittgenstein la scelta non poteva cadere che sul Wittgenstein delle Ricerche. La situazione fin qui delineata comincio aùnutare con la progressiva pubblicazione di altri scritti di Wittgenstein, scritti che precedono, accom pagnano o seguono la composizione delle Ricerche. L’effetto di questa mag giore conoscenza fu, per certi aspetti, paradossale: per un verso, infatti, le Ricerche si mostrarono legate da molti fili e passaggi al Tractatus, smentendo così l’idea di una radicale estraneità tra le prime e il secondo. I due Wittgen stein apparivano insomma più simili, almeno sotto alcuni aspetti, di quanto si fosse pensato. Per un altro verso, tuttavia, dal «secondo» Wittgenstein
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iniziarono a staccarsi, cominciando quasi a vivere di vita propria, tanti altri Wittgenstein20: un Wittgenstein «intermedio», per esempio, vissuto tra il 1929, ma forse comparso già qualche tempo prima, e, ma qui i pareri diver gono, il 1933-35, il 1936 o il 1934-36; oppure, un «terzo» Wittgenstein, atti vo tra il 1947 e il 1951, che con Della certezza avrebbe prodotto il suo «terzo capolavoro» (Moyal-Sharrock 2004, 10, n. 3). Ma fórse, a guardar bene, erano vissuti molti altri Wittgenstein: il fugace Wittgenstein fenomenologo del 1929, per esempio, o il Wittgenstein pre-Tractatus, logico e metafisico, il quale poteva scrivere che «la filosofia consta di logica e di metafisica: la prima è la sua base» (NL, 245). La conclusione che se ne poteva trarre era che non erano esistiti due Wittgenstein proprio perché ne erano esistiti molti, almeno cinque;21 ma se ne poteva anche concludere che le differenze riscontrabili non erano tali da giustificare, per così dire, la moltiplicazione dei Wittgenstein, perché Witt genstein era sempre stato filosoficamente uno, dall’inizio alla fine (vedi Ger rard 2002,52). Ovviamente, vi fu anche chi concluse che non vi erano delle valide e stringenti ragioni per lasciar cadere la ormai tradizionale distinzione tra il Wittgenstein del Tractatus e il Wittgenstein delle Ricerche (o, più in generale, degli scritti post-Tractatus). Nonostante tutto, i Wittgenstein erano non più ma nemmeno meno di due. Quale fosse l’opzione preferita (uno, due, cinque, molti Wittgenstein), rimaneva per tutti necessario dare una risposta convincente alla seguente domanda: se nel Tractatus Wittgenstein aveva, per sua stessa ammissione, sbagliato, dove e come lo aveva fatto? Quali erano stati i suoi «gravi errori»? Ma, soprattutto, di che tipo erano gli errori che egli ora imputava alla sua prima opera? Basandosi sul comune significato del termine «errore», alla maggior parte degli interpreti appariva naturale concludere che ciò che Wittgenstein stava riconoscendo è che mol te o alcune delle tesi o teorie sostenute nel Tractatus erano semplicemente false o sbagliate. Per esempio, era stato un grave errore sostenere, come si fa nel Tractatus (vedi T, 3.203 e 3.22/ che il significato del nome è l’oggetto per cui esso sta22 perché ogni teoria che identifichi il significato di un nome con il suo portatore è sbagliata23: il significato non è un oggetto; «il significato di una parola è il suo uso nel linguaggio» (KF, I, §43 a). Questo modo di intendere e di ricostruire il rapporto fra il Tractatus e le Ricerche si scontrava però con due gravi difficoltà. Per un verso, infatti,
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nelle Ricerche si sosteneva che alla filosofia «non è dato costruire alcun tipo di teoria» e che in essa «ogni spiegazione deve essere messa al bando» (RF, I, §109). Ma se la filosofia non ha tesi da proporre non può avere nemmeno tesi da negare o da confutare. Nelle Ricerche, insomma, non si dovrebbero trovare tesi, teorie o spiegazioni migliori di quelle contenute nel Tractatus semplicemente perché nelle Ricerche non vi dovrebbero essere, se vogliamo dar retta al loro stesso autore, spiegazioni, teorie o tesi. La stessa difficoltà si impone se si guarda al rapporto fra le Ricerche e il Tractatus dalla prospettiva di quest’ultimo. Fin dalla Prefazione il suo autore ci avverte infatti che «esso non è [...] un manuale» (T, pref.), ossia che esso non è un testo che con tenga teorie e voglia trasmetterci conoscenze. Si tratta di una dichiarazione del tutto in sintonia con quanto sulla filosofia si legge nel corso dell’opera, ossia che essa non è «una dottrina ma un’attività» il cui risultato «non sono ‘proposizioni filosofiche’, ma il chiarificarsi di proposizioni» (T, 4.112bd). La conclusione da trarre è inevitabile: parlando dei «gravi errori» commessi nella sua prima opera, Wittgenstein non poteva intendere che essi avessero a che fare con le tesi o teorie là sostenute, e questo non solo perché le Ricerche non hanno tesi o teorie da contrapporre al Tractatus, ma anche perché, a sua volta, quest’ultimo non sembra avere teorie o tesi a cui ci si possa contrap porre. Di fronte a questa conclusione sono possibili almeno due reazioni. La prima consiste nell’obiettare che quella di Wittgenstein era un’illusione: nel Tractatus come nelle Ricerche sono contenute, pace Wittgenstein, molte e diverse tesi, tra le quali anche la tesi (che si autoconfuta) che in filosofia non vi sono tesi, e queste tesi possono essere ovviamente comparate e valutate nei loro rispettivi meriti. Nelle Ricerche Wittgenstein avrebbe fatto proprio questo nei confronti del Tractatus arrivando alla conclusione, che conoscia mo dalla Prefazione, secondo cui nella sua prima opera erano contenuti dei «gravi errori» che richiedevano una nuova e migliore teoria. In fondo, que sto è quello che è successo a molti filosofi o, quantomeno, a quelli che hanno onestamente ammesso i loro precedenti errori e cercato di porvi rimedio. La seconda reazione muove dal riconoscimento che i «gravi errori» che le Ricerche imputano al Tractatus non sono gli errori che si commettono quando si sostiene una tesi che risulterà falsa o una teoria che si mostrerà sbagliata. Si dovrebbe piuttosto dire che il Tractatus sbagliava proprio lad
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dove, contro l’intenzione del suo autore, assumeva i caratteri di una teoria e si trasformava in un manuale. Da questo punto di vista, ciò che si dovrebbe dire è che nelle Ricerche Wittgenstein avrebbe cercato di essere maggior mente fedele a un’idea di filosofia come attività di chiarificazione che era già l’idea del Tractatus.
2. UNA QUESTIONE DI STILE? Oltre a quello discusso nel precedente paragrafo, vi è un altro problema che da sempre inquieta i lettori e gli interpreti di Wittgenstein, il quale può essere riassunto nella maniera più semplice nelle seguenti domande: lo stile, ossia la scrittura e la forma compositiva, degli scritti di Wittgenstein ha a che fare, ed eventualmente come e in che misura, con il loro metodo e con tenuto? Per esempio, si può tentare di esporre il contenuto delle Ricerche disinteressandosi del modo in cui sono state scritte e composte? Quando conta, almeno nel caso di Wittgenstein, il «come» per arrivare a intendere il «che cosa»?24 Il problema si pone soprattutto o in maniera esplicita per quanto riguar da le Ricerche, ma non è difficile vedere come esso riguardi anche il Tracta tus. In ogni caso, si tratta di un problema che è strettamente legato a diverse altre e rilevanti domande già evocate nel precedente paragrafo: Che cosa è per Wittgenstein la filosofia? Che rapporto ha la sua filosofia con quelli che sono stati considerati, da Platone, Berkeley o Russell, il contenuto (o i contenuti) e il metodo (o i metodi) della filosofia? Che tipo di filosofo era o si proponeva di essere Wittgenstein? E quale valore va attribuito a quanto Wittgenstein ci dice sulla filosofia, sui suoi scopi e sul modo di praticarla? Tentava egli forse di «determinare, una volta per tutte, che cosa la filosofia sia» o voleva piuttosto esprimere «che cosa dovesse essere per lui, nel conte sto del suo tempo» (von Wright 1983,254)?25 Rispetto a tutte queste ultime domande, importanti risultano alcune considerazioni che egli avrebbe fatto, nei primi anni Trenta, sul rapporto tra ciò che egli stava facendo e la filosofia nel senso tradizionale del termine. Come ricorda Moore, nelle sue lezioni Wittgenstein avrebbe, infatti, osser vato a) che ciò che stava facendo era «una nuova disciplina» che si caratte
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rizzava per la novità del suo metodo26; tra la filosofia tradizionale e la nuova filosofia non vi era perciò continuità, bensì un vero e proprio «salto» para gonabile a quello che nella scienza si era determinato quando Galileo aveva fondato la dinamica o quando la chimica era subentrata all’alchimia; h) che sebbene quello che faceva fosse certamente diverso27 da quello che ave vano fatto, per esempio, Platone o Berkeley, tuttavia si poteva avere l’im pressione che il suo tipo di ricerca «prendesse il posto di» ciò che avevano fatto Platone o Berkeley - si poteva essere inclini, cioè, a riconoscere nel nuovo tipo di indagine la risposta a un bisogno realmente sentito anche prima, e a identificare così la nuova attività col genere di lavoro dei filosofi tradizionali, benché essa ne fosse tanto lontana (LM, 134-135 )2S. Anche se il passo non è facile da intendere, una cosa vale almeno la pena di essere notata, ossia come Wittgenstein ritenesse che il paragone con la filosofia tradizionale dovesse riguardare non tanto i contenuti o i risultati quanto piuttosto il metodo o il modo di pensare. È questo indubbiamente un indizio a favore di chi è convinto che nella concezione di Wittgenstein il «come» sia almeno altrettanto importante del «che cosa». Com’era facile aspettarsi, anche sulla questione del peso che lo stile avreb be nella filosofia di Wittgenstein gli interpreti si sono da sempre divisi. Da una parte vi sono coloro, sicuramente la maggioranza, che hanno insistito sul fatto che lo stile è essenziale al metodo e al contenuto della filosofia di Wittgenstein; che ne è, per così dire, un tratto interno. «Se non vedi quanto siano importanti lo stile e la forza dell’espressione, - è stato scritto - non puoi vedere come Wittgenstein pensava alle difficoltà filosofiche o al metodo filosofico» (Rhees 1970,38). Ma non mancano anche coloro che hanno sostenuto che lo stile di Wittgenstein va considerato come «un elemento contingente nel quale si ma nifesta semplicemente la particolarità della sua scrittura» (Coveos 1991,131)29. Merita qui di essere rilevato come coloro che in varia misura contestano che lo stile di Wittgenstein sia un momento costitutivo del suo metodo e del contenuto del suo filosofare lo fanno anche perché vogliono resistere all’idea che la filosofia di Wittgenstein rappresenti una sorta di unicum con poco o nulla da spartire con la filosofia contemporanea, in particolare con quella filosofia amica delle teorie e degli argomenti che è la filosofia anali
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tica. Dalla prospettiva analitica la forza dell’espressione può, infatti, essere un’apprezzabile qualità letteraria, ma non è propriamente la forza che è richiesta a un filosofo e, in particolare, a un buon filosofo, si chiami pure Ludwig Wittgenstein. Ciò serve in parte a spiegare perché Wittgenstein sia da sempre un problema per i filosofi analitici: un filosofo tanto vicino e in sieme così distante ed estraneo. Ma Wittgenstein è un problema anche per chi, al contrario, insista sull’inseparabilità tra stile, metodo e contenuto. Una volta concesso a questi interpreti che non si capirebbe Wittgenstein come filosofo se si tacesse sul suo stile, resta ancora da domandarsi se, per così dire, quello che vale per Wittgenstein possa valere anche per noi. Vi è una qualche lezione filosofica da trarre per noi, oggi, da tutto questo? Lo stile di Wittgenstein è qualcosa di irripetibile e di unico o è qualcosa che possa essere in qualche misura ripreso e condiviso? Come nel caso del rapporto delle Ricerche con il Tractatus, anche del problema dello stile l’indicazione che viene dalla Prefazione alle Ricerche è tutt’altro che univoca. Qui, infatti, Wittgenstein ci dice due cose almeno in apparenza contrastanti. La prima è che la forma finale delle Ricerche è il risultato di un fallimento (personale) e di un’incapacità (soggettiva):
In principio era mia intenzione raccogliere tutte queste cose in un libro, la cui forma immaginavo di volta in volta diversa. Essenziale mi sembrava, in ogni caso, che i pensieri dovessero procedere da un sogget to all’altro secondo una successione naturale e continua. / Dopo diversi infelici tentativi di riunire in un tutto così fatto i risultati a cui ero per venuto, mi accorsi che la cosa non mi sarebbe mai riuscita (RF, pref.). Lette da sole queste osservazioni sembrano dar ragione a coloro che sostengono che lo stile delle Ricerche «non era né deliberato (in un qualche senso rilevante del termine) né una preferenza metodologica» (Hilmy 1989, 23). Nel passo citato, in effetti, Wittgenstein non solo confessa che la sua intenzione era quella di scrivere un libro diverso da quello che ha scritto, ma esplicita anche i caratteri che quel libro avrebbe dovuto avere e che le Ricerche sicuramente non hanno. Subito dopo però lo spirito delle considerazioni cambia. Wittgenstein ci ricorda come, «dopo diversi infelici tentativi», egli lasciasse cadere la
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sua intenzione originaria, ma sottolinea anche che, se lo fece, fu perché si era finalmente reso conto che, non appena tentava di costringere i suoi pensieri «in una direzione facendo violenza alla loro naturale inclinazio ne30, subito questi si deformavano» (RF, pref. ) e che ciò «dipendeva senza dubbio dalla natura della stessa ricerca, che ci costringe a percorrere una vasta regione del pensiero in lungo e in largo e in tutte le direzioni» (RF, pref.). L’indicazione è chiara: egli ha fallito finché ha cercato di comporre un libro che non corrispondeva alla natura della sua ricerca; se fosse riu scito a scrivere il libro che aveva intenzione di scrivere, non sarebbe stato fedele alla natura della ricerca e, almeno in questo senso, non avrebbe scritto un libro migliore di quello che ha scritto. La sua conclusione è che quello che egli sta offrendo al suo lettore è una raccolta di osservazioni, una «raccolta di schizzi paesaggistici, nati da queste lunghe e complicate scorribande» (RF, pref.)31. Le Ricerche sono dunque un «album», altro non potevano essere data la stessa natura della ricerca, ma esse, specifica Wittgenstein rifiutandosi di sciogliere l’ambivalenza, sono «davvero sol tanto un album» (RF, pref; corsivo mio)32. Nel capitolo dedicato alle Ricerche torneremo su tutto questo. Una cosa va comunque ancora messa in rilievo, ossia come ogni introduzione più o meno divulgativa alla filosofia di Wittgenstein sia fortemente condizionata dalla posizione, esternalista o internalista, che si adotta riguardo alla que stione del suo stile. Se infatti da una prospettiva esternalista ci si può impe gnare a esporre e illustrare il metodo e il contenuto della filosofia di Witt genstein adottando un proprio stile espositivo, uno stile diverso da quello di Wittgenstein, agli internalisti, in particolare agli internalisti radicali, resta da rispondere alla domanda: come, con quale stile espositivo, introdurre una filosofia il cui metodo e contenuto, a quanto si ritiene, non possono essere separati dal suo stile? Come è possibile cercare di esporre che cosa Wittgen stein avrebbe detto riconoscendo nello stesso tempo che come l’ha detto è almeno altrettanto essenziale? La questione dello stile, che abbiamo finora illustrato con riferimento alle Ricerche, riguarda però, anche se in maniera forse meno evidente, il Tractatus. Per esempio, è abbastanza comune, tra i suoi interpreti, inizia re osservando che esso è costituito da una serie di proposizioni «concise e oracolari», le quali «hanno una certa austera bellezza»; che la sua scrittura
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«è sobria, priva di ornamenti», mentre la sua argomentazione è «scarsa e li mitata» (Goldstein 1999,7). Qui abbiamo, da una parte, un apprezzamento positivo (concisione, bellezza austera, semplicità, sobrietà sono indubbia mente valori estetici), dall’altra un più o meno implicito giudizio critico: la concisione del Tractatus è una concisione oracolare e la quasi mancanza di argomentazione non è certo qualcosa di cui un’opera di filosofia possa menar vanto. Non è forse l’argomentazione, la buona argomentazione, ciò che più dovrebbe contare in un libro di filosofia e ciò che lo rende diverso da un’opera poetica o letteraria? Occorre riconoscere che più o meno così reagirono quelli che per primi lessero il Tractatus-, Frege, per esempio, che così scriveva a Wittgenstein il 28 giugno 1919:
Lo trovo difficile da capire: per la maggior parte lei pone i suoi enunciati l’uno dopo l’altro senza una giustificazione sufficientemente dettagliata. Così spesso non so se sono o meno d’accordo, poiché il senso non mi è sufficientemente chiaro. Sicuramente il senso diventerebbe più chiaro con una spiegazione più dettagliata (Frege 2011,51). Può essere interessante notare che molti anni dopo, esattamente nel 1949, Wittgenstein sembrò indirettamente riconoscere che in quella ormai lontana critica di Frege vi era qualcosa di vero.
Broad ha abbastanza ragione - egli avrebbe infatti fatto notare all’amico Maurice O’C Drury - quando sostiene che il Tractatus è alta mente sincopato33. Ogni frase del Tractatus potrebbe essere vista come il titolo di un capitolo che ha bisogno di ulteriori spiegazioni (CW, 220)34.
In ogni caso, al tempo del Tractatus, Wittgenstein riteneva che non fos se per nulla necessario scegliere tra filosofia e letteratura. «Il lavoro - egli fece notare a Ludwig von Ficker in una lettera dell’ottobre 1919 - è rigi damente filosofico e insieme letterario, e comunque in esso non si parla a vanvera» (LF, 71). Nella medesima lettera viene anche data una spiegazio ne della sua estrema concisione35. Se la mia esposizione «è estremamente concisa», egli osserva, è perché «vi ho lasciato dentro soltanto quello che io ho veramente pensato, e come io l’ho pensato» (LF, 69). Nel Tractatus non vi sono, a detta del suo autore, ornamenti, abbellimenti, millanterie,
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ostentazioni36; vi è quello che Wittgenstein ha veramente pensato e come l’ha pensato. In questo è forse da individuare, innanzitutto, quel senso etico del libro di cui Wittgenstein parla in un’altra lettera a von Ficker: «il senso del libro - egli scrive prevedendo lo stupore del suo interlocu tore - è un senso etico» (LF, 72). Tutto ciò ricorda quanto Wittgenstein osserverà quasi due decenni dopo sullo scrivere su sé stessi in quanto di stinto dallo scrivere su cose esterne, ossia che «è impossibile scrivere su sé stessi in modo più vero di quanto non si sia veri. [...] Su sé stessi si scrive esattamente quel tanto che siamo alti; qui non si sta sui trampoli o su una scala, ma sui nostri piedi» (PD, 69). Del resto, che quella dell’espressione fosse una difficoltà tutt’altro che filosoficamente marginale è più volte ribadito da Wittgenstein sia ai tempi del Tractatus sia nelle Ricerche. Se infatti nei Quaderni 1914-1916 si può leg gere che la sua «difficoltà è solo una - enorme - difficoltà di espressione» (Q, 177)37, nelle Ricerche si trova scritto che «la filosofia è una battaglia con tro l’incantamento del nostro intelletto, per mezzo del nostro linguaggio» (PF, I, §109)38.
3. SENZA UN PASSATO E SENZA UN FUTURO? Nella letteratura è spesso prevalsa la tendenza a considerare Wittgen stein un filosofo privo, per quanto riguarda il passato, di radici e senza fiori e frutti, per quanto riguarda il futuro. Peraltro, sradicamento e in fecondità sono stati quasi sempre considerati indizi convergenti della sua profonda unicità e originalità. E come se Wittgenstein fosse uscito dal nulla e come se, dopo di lui, si fosse spalancato il nulla. Non stupisce al lora che, per un verso, molti siano stati inclini a guardare con sospetto a chiunque osasse presentarsi come un suo erede o continuatore; per un altro, che sia ormai quasi un luogo comune insistere sulla eccentricità della sua formazione e sulla sua ignoranza di gran parte dei classici del pensiero filosofico. Del resto, per sua stessa ammissione, Wittgenstein non avrebbe mai letto Aristotele né Hume39 e, anche nei casi in cui è documentata la sua conoscenza di questo o quel testo della tradizione filosofica, è abbastanza evidente che non si tratta della conoscenza che di solito ne può avere lo
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studioso o lo storico della filosofia. Capire ciò che un filosofo aveva vera mente detto (qualunque cosa ciò possa significare) era un proposito che gli era sicuramente estraneo. Da questo punto di vista Wittgenstein non ebbe propriamente maestri; peraltro, anche nei riguardi dei suoi contemporanei la funzione e l’atteggia mento dell’allievo gli andarono sempre stretti. Tipica, al riguardo, è la sua relazione con Russell. Quando nel 1911 incontrò Russell per la prima volta Wittgenstein aveva 22 anni, 15 meno di Russell, ed era uno sconosciuto, mentre Russell aveva già pubblicato alcune delle sue opere più importanti ed era un logico e filosofo internazionalmente noto. Eppure, quasi subito Wittgenstein smise di essere un allievo e iniziò a discutere con Russell alla pari, così come, per fare un altro esempio, trattò quasi subito alla pari Moo re che era, a sua volta, un filosofo affermato, conosciuto per la sua reazione critica all’idealismo inglese, ma soprattutto per i suoi Principia Ethicam. Na notato che sia Russell che Moore non ebbero nulla da obiettare al riguardo e che accettarono di buon grado e come naturale il comportamento di Witt genstein nel quale non mancavano toni di arroganza e momenti di asprez za41. Come già si diceva, Wittgenstein contribuì sicuramente, volente o no lente, ad alimentare questa sua immagine di filosofo solitario, dichiaran do, per un verso, che gli era «indifferente se già altri, prima di me, abbia pensato ciò che io ho pensato» (T, pref.) e riferendosi in maniera del tutto sporadica alle sue eventuali fonti e influenze; per un altro, coltivando l’i dea della sua estraneità alla dominante «civiltà del progresso europea e americana» (PD, 27)42. È anche per questo che egli poteva affermare di scrivere «veramente per amici dispersi negli angoli del mondo» (PD, 25) e mostrarsi dubbioso per quanto riguarda gli effetti o conseguenze del suo lavoro: «Che a questo lavoro, nella sua pochezza, e nell’oscurità del tempo presente, sia dato di gettar luce in questo o quel cervello, non è impossibi le; ma che ciò avvenga non è certamente probabile» (RF, pref.). Per quanto riguarda il primo punto mi limiterò a osservare che una cosa è riconoscere che Wittgenstein non ebbe una formazione classicamente filosofica, altra cosa è attribuirgli una sorta di verginità (o di inge nuità) filosofica o addirittura culturale; vi sono infatti pochi dubbi che Wittgenstein conoscesse profondamente e si fosse misurato con molti e
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diversi pensatori, filosofi, poeti, eccetera, ma sempre, per così dire, a suo modo, ossia cercando in ciascuno di essi stimoli «a pensare da sé» (RF, pref.). L’elenco che al riguardo si potrebbe fare, integrando quello fatto dallo stesso Wittgenstein nel 1931, è indubbiamente lungo e, per certi aspetti, sorprendente sia per alcune impreviste presenze sia per alcune altrettanto inattese assenze. Nell’elenco di Wittgenstein vi sono, infatti, dei nomi scontati (come Frege e Russell) o, quantomeno, plausibili come Ludwig Boltzmann, Heinrich Hertz o Arthur Schopenhauer, ma vi sono anche dei nomi almeno a prima vista sorprendenti inaspettati come Otto Weininger o Oswald Spengler43 o, per altre e diverse ragioni, inaspetta ti come Adolf Loos, Karl Kraus e Piero Sraffa. Ma a questi nomi se ne possono aggiungere, e di fatto gli studiosi ne hanno aggiunti in maniera documentata, diversi altri come, per esempio, Sören Kierkegaard, William James, Platone, Agostino, Wolfgang Goethe, Immanuel Kant, Lev Tolstoj, Sigmund Freud44. Per quanto riguarda il secondo punto occorre almeno osservare che Wittgenstein non sembra aver mai considerato il suo lavoro filosofico qualcosa di così irripetibile da non consentire di essere ripreso e prose guito. Quella abilità in cui ormai consiste o a cui si è ridotta la filosofia può essere sicuramente molto difficile, ma non impossibile da acquisire (vedi LM, 134-135). Significa questo che Wittgenstein volesse o potesse fondare una scuola? Vuol dire che ci possa essere qualcosa come una scuola «wittgensteiniana»? In una annotazione del 1947 Wittgenstein precisa che egli non può fondare una scuola né, peraltro, lo vuole e si domanda, senza darsi una vera risposta, se questa impossibilità sia una sua incapacità o se sia propria di ogni filosofo45 e dunque, in qualche modo, costitutiva della filosofia. Ma forse più interessante è un’altra an notazione dello stesso anno in cui Wittgenstein sembra riconoscere che desiderare una prosecuzione del suo lavoro sarebbe come desiderare (paradossalmente)46 che le domande filosofiche restino, per così dire, irrisolte: «Non mi è affatto chiaro se desidererei una prosecuzione del mio lavoro da parte di altri, o non piuttosto un mutamento del modo di vivere che renda superflue tutte queste domande. (Perciò non potrei fondare una scuola)» (PD, 115).
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4. LA VITA DI WITTGENSTEIN HA A CHE FARE CON LA SUA FILOSOFIA? Della vita di molti filosofi sappiamo poco e non desideriamo saperne molto di più. La convinzione è che l’interesse per la biografia sia ben distin to da quello per la filosofia. Wittgenstein è sicuramente tra i filosofi che fan no eccezione; a molti la sua vita è apparsa strettamente intrecciata con la sua filosofia e con quell’opera di chiarificazione con cui ha sempre identificato il (suo) filosofare. Senza perderci nei dettagli biografici è perciò importante indicare alcuni momenti e luoghi della sua biografia che possono essere ri levanti per intendere il suo filosofare (per saperne di più si veda Monk 2000 e Nedo 2013). I luoghi innanzitutto: Vienna, Cambridge, la Norvegia e l’Irlanda. Witt genstein era nato nel 1889, ultimo di 4 maschi (tre dei quali si suicidarono) e tre femmine, a Vienna, nella capitale di quell’impero asburgico destinato a dissolversi con la prima guerra mondiale. Il padre di Ludwig, Karl, era un magnate dell’industria siderurgica e la sua famiglia era a stretto contatto con gli ambienti culturali e artistici viennesi; per esempio, con Gustav Klimt e gli artisti della Secessione, ma soprattutto con musicisti come Alban Berg, Johannes Brahms, Gustav Mahler, Arnold Schönberg. In effetti, la musica era fondamentale per tutta la famiglia Wittgenstein, a partire dalla madre, Leopoldine; a sua volta, Paul, il quarto dei fratelli, fu un pianista di successo che, avendo perso in guerra il braccio destro, commissionò a molti musi cisti delle composizioni pianistiche «per mano sinistra» (la più famosa è il Concerto per la mano sinistra in re maggiore di Maurice Ravel). La cultura entro cui Ludwig si formò fu, dunque, quella viennese; lesse i filosofi che allora si leggevano (Kierkegaard, Schopenhauer, Nietzsche, ma anche fisici come Boltzmann e Hertz) e trovò stimoli in molti di quei pensatori, scritto ri e poeti che oggi identifichiamo con la «grande Vienna» dell’anteguerra: Loos, Kraus, Weininger, Trakl, Freud (la sorella più giovane di Wittgen stein, Margarethe, ritratta da Klimt, conosceva bene Freud ed era stata in analisi). Wittgenstein mantenne sempre un rapporto stretto con Vienna, dove ritornerà spesso, con la cultura viennese e con la sua lingua madre (continuò sempre a scrivere di filosofia in tedesco). Va qui anche ricordato che la famiglia di Wittgenstein aveva radici ebraiche (cosa che creò gravi
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problemi al momento dell’annessione dell’Austria alla Germania nazista) e che sullo «spirito ebraico» (PD, 45 ) Wittgensetin si trovò spesso a riflettere all’inizio degli anni Trenta. Dopo Vienna, l’Inghilterra e, soprattutto, Cambridge. Dopo studi tec nici in Austria (in un istituto di Linz frequentato negli stessi anni da Adolf Hitler) e di ingegneria in Germania, Wittgenstein si iscrisse, infatti, nel 1918 all’Università di Manchester per studiare ingegneria aeronautica (risale a questo periodo il progetto, brevettato, di un motore aereo a reazione), ma fu abbastanza presto attirato dai problemi dei fondamenti della matematica e dei suoi paradossi. Su consiglio di Frege, contattò Russell e dall’autunno 1911 cominciò a studiare al Trinity College di Cambridge, Cambridge entrò così nella vita di Wittgenstein: vi studiò prima della guerra, vi ritornò nel 1929 insegnandovi prima come borsista e poi come professore, dal 1939 (anno in cui prese anche la nazionalità inglese) fino alle sue dimissioni nel 1947. Wittgenstein non si sentì mai del tutto «a casa sua» nell’ambiente accademico inglese, ma la grande libertà di ricerca che gli fu concessa e la possibilità di insegnare a pochi allievi selezionati fu favorevole allo svilup po del suo modo di filosofare basato sulla discussione e il confronto, un modo che si riflette sulla sua scrittura filosofica «dialogica» e «polifonica». A Cambridge, inoltre, egli trovò in amici, colleghi e allievi molti stimoli a pensare; basti ricordare Russell, Moore, l’economista John Maynard Keynes e, in seguito, Frank Ramsey e Piero Sraffa (ringraziati nella Prefazione alle Ricerche}-, tra gli allievi va almeno citato Alan Turing, uno dei grandi padri dell’informatica (si vedano gli interventi di Turing e le risposte di Wittgen stein nelle Lezioni suifondamenti della matematica del 1939). Ma se la filosofìa è, per Wittgenstein, discussione e dialogo, il lavoro fi losofico è anche, o primariamente, «un lavoròs'ùse-stessù-Sulproprio modo di vedere» (PD, 40-41); un lavoro, dunque, che richiede concentrazione e solitudine. Di qui la scelta di ritirarsi per lunghi periodi (per esempio, nel 1914 e nel periodo 1936-38) in una casetta da lui stesso costruita su un fiordo norvegese (il Sognefjord) e i diversi soggiorni in Irlanda negli ultimi anni della sua vita. Nel lavoro filosofico, insomma, si è con gli altri, ma si è anche soli con sé stessi, anche se Wittgenstein dovette più volte constatare, soprattutto in Irlanda, come non fosse per nulla facile essere soli.
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La vita di Wittgenstein si svolge tra il 1889 e il 1951, uno dei periodi più complessi e tragici del secolo scorso: è il periodo della prima guerra mondiale, della Rivoluzione russa, della dissoluzione degli imperi centra li, del nazismo e dell’annessione dell’Austria alla Germania, della seconda guerra mondiale, dell’inizio della cosiddetta «guerra fredda». Tutta questa storia sembra entrare poco, o solo marginalmente, nella filosofia di Witt genstein, la quale non avanza mai la pretesa di capire, spiegare o, addirit tura, di indirizzare la storia umana. Si potrebbe piuttosto dire che, secondo Wittgenstein, il modo in cui vivi il tempo in cui ti trovi a vivere mostra che tipo di filosofo sei o puoi essere. Questo è evidente nella sua reazione alla prima guerra mondiale. Al suo scoppio egli si arruolò volontario e combattè per quattro anni, prima come soldato semplice, poi come caporale e infine come ufficiale, sul fronte orientale e, alla fine, su quello italiano (dove fu fatto prigioniero nel 1918 e internato per un anno nel campo di prigionia di Cassino). Dalle testimonianze che abbiamo, sappiamo che Wittgenstein pensava che dalla guerra e dal contatto con la morte egli avrebbe potuto capire che tipo di uomo era e, insieme, che tipo di filosofo poteva essere. Non si deve dimenticare che il Tractatus fu pensato, scritto e composto in grandissima parte proprio durante la guerra, anzi in mezzo a essa. In ogni caso, la guerra cambiò Wittgenstein, come mostrano le scelte che egli fece al suo ritorno da Cassino, come la rinuncia all’eredità paterna a favore delle sorelle e del fratello e la decisione di intraprendere la carriera di maestro ele mentare; tutte scelte che non sono estranee all’idea di una filosofia che deve liberarsi da ogni affettazione e ipocrisia. Anche la seconda guerra mondiale non fu vissuta da Wittgenstein come spettatore; lasciato l’insegnamento a Cambridge, egli lavorò prima come barelliere al Guy’s Hospital di Londra e partecipò poi, all’ospedale di Newcastle, alle ricerche che riguardavano i cosiddetti jdisturbLpOSt traumatici». —(A- j Com’è evidente, la filosofia fu, per Wittgenstein, una passione e un bi sogno, ma egli ritenne anche che essa fosse una tentazione e che, soprattutto quando si trasformava in carriera accademica, potesse corrompere. Non a caso la vita di Wittgenstein conosce diversi tentativi di sfuggire alla filosofia; per esempio, tra il 1920 e il 1926 egli fu maestro elementare in alcuni paesi della Bassa Austria, dopo aver seguito un corso di formazione basato sui principi della riforma scolastica avviata nella nuova Austria; dopo le sue
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dimissioni da maestro, dovute a incomprensioni con genitori e autorità sco lastiche, si impegnò a progettare, con l’amico architetto Paul Engelmann, e a dirigere a Vienna i lavori di costruzione della casa della sorella Margarethe (1926-28). Che il lavoro manuale (= non filosofico) fosse per lui importante lo rivela anche il progetto di trasferirsi nell’Urss a lavorare come operaio, ab bandonato dopo un viaggio del 1935, e il consiglio, dalle conseguenze non sempre positive, dato a diversi suoi allievi di lasciare la filosofia per il lavoro in fabbrica o per qualche altro tipo di lavoro non intellettuale. Wittgenstein morì per un tumore alla prostata, nella casa del suo me dico, il 29 aprile 1951, chiedendo che fosse riferito ai suoi amici che aveva avuto una vita meravigliosa.
NOTE 1 Può essere interessante notare come nelle Ricerche Wittgenstein parli talora di sé stesso in terza persona come dell’autore del Tractatus (vedi, per esempio, RF, I, §23 d).
2 Sul senso in cui si può propriamente parlare, a proposito degli scritti di Wittgen stein pubblicati postumi, di «opere» si veda Schulte (2006, 397-404); secondo Stem (2017, 45), « ‘opera’ (work) è usato [in riferimento a Wittgenstein] come un temine semitecnico per quegli scritti che sono di importanza primaria o di maggiore interesse, scritti che hanno una certa unità e ‘compiutezza’».
5 Recensione di Peter Coffey, The Science of Logic (1913), Alcune osservazioni sulla forma logica (1929), Al Direttore di «Mind» (1933); vedili in T (1989), 178-183, 184-201, 202-205. 4 In realtà, Wittgenstein pubblicò anche nel 1926 un Dizionario per le scuole ele mentari. Il lavoro, che doveva servire a correggere i più diffusi errori ortografici, non ha di per sé alcun intento filosofico, anche se può interessare come parte e testimonianza di un’esperienza - quella di maestro elementare - che, secondo alcuni, lo avrebbe messo a stretto contatto con la concretezza del linguaggio e la varietà e contestualità dei suoi usi. Sull’esperienza scolastica di Wittgenstein vedi Monk (2000, cap. 8 e cap. 9), Kanterian (2007, cap. 5) e, soprattutto, Wünsche (1987). Del Dizionario esiste una traduzione italiana, anche se non è facile capire quale scopo possa avere tradurre in italiano un dizionario ortografico tedesco.
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Anche se non indicati, i traduttori furono Cecil Ogden e Frank Ramsey.
6 Nella Prefazione Wittgenstein precisa che gli «è indifferente se già altri, prima di me, abbia pensato ciò che io ho pensato» (T, pref.); e nei Quaderni 1914-1916 aveva annotato: «Che cosa m’interessa la storia? Il mio mondo è il primo ed unico» (Q, 228). Su questo e altri aspetti del Tractatus torneremo in seguito. Sul rapporto di Wittgenstein con la storia si vedano comunque Sluga (1998) e Glock (2006). Per quanto riguarda il
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passo della Prefazione non va però dimenticato che esso nasceva anche dall’insofferenza di Wittgenstein per le regole dell’università di Cambridge che richiedevano che l’autore di una tesi dichiarasse esplicitamente le proprie fonti e influenze. Su questo aspetto Wittgenstein aveva avuto nel 1914 un duro e ingiusto scontro con George E. Moore al quale aveva chiesto di informarsi su che cosa doveva fare per presentare un suo testo (forse NMN) come tesi per ottenere la laurea. Alla risposta di Moore che, secondo i regolamenti di Cambridge, la tesi doveva indicare fonti e influenze Wittgenstein reagì così: «Se non mi merito che facciate un’eccezione per me nemmeno su certi stupidi dettagli allora tanto vale che vada direttamente al diavolo; e se invece me lo merito e voi non lo fate allora - per Dio - al diavolo andateci voi» (L, 69). 7 Con che voce parla nelle Ricerche il loro autore? Quale è, tra le diverse voci, la voce di Wittgenstein, se una sua voce c’è? Sono queste le domande a cui, leggendo le Ricerche, è quasi impossibile sfuggire. Come è stato osservato, le Ricerche «hanno la forma di una conversazione tra più voci - voci che raramente sono chiaramente identificate o distinte»; ne consegue che «il semplice fatto che un dato passo esponga una concezione o argomenti a suo favore è tutt’al più una ragione prima facie per attribuire quella posizione a Wittgenstein» (Stern 2017, 49). 8 L’intero primo paragrafo della Prefazione suona così: «Questo libro, forse, lo comprenderà solo colui che già a sua volta abbia pensato i pensieri ivi espressi - o, almeno, pensieri simili - . Esso non è, dunque, un manuale -. Conseguirebbe il suo fine se piacesse a uno che lo legga comprendendolo». 9 Resta da stabilire se questo equivalga a una critica del Tractatus e all’uso che in esso era stato fatto dell’immagine della scala o se Wittgenstein ci stia indicando come quel riferimento dovrebbe essere autenticamente inteso. 10 Quest’idea fu sicuramente favorita da Bertrand Russell che nella sua Introduzione al Tractatus aveva osservato che nel Tractatus «Wittgenstein si occupa delle condizioni di un linguaggio logicamente perfetto», ossia «studia le condizioni che dovrebbero essere soddisfatte da un linguaggio logicamente perfetto». In questa prospettiva, logicamente perfetto è quel linguaggio che «ha regole di sintassi che prevengono il nonsenso, e ha simboli singoli i quali hanno sempre [a differenza del linguaggio comune che “è sempre più o meno vago”] un significato definito, unico, univoco». Un tale linguaggio non ci è dato né è facile da costruire, ma occorre in ogni caso riconoscere che il linguaggio può assolvere quella che è tutta la sua funzione («avere significato»), «solo nella misura in cui esso si avvicini al linguaggio ideale da noi postulato» (in T, 3-4).
11 «‘Filosofia’ potrebbe anche chiamarsi tutto ciò che è possibile prima di ogni nuova scoperta e invenzione» (RF, I, §126); si tratta di un passo che ricorda da vicino la prop. 4.111 del Tractatus: «La filosofia non è una delle scienze naturali. / (La parola ‘filosofia’ deve significare qualcosa che sta sopra o sotto, non già presso, le scienze naturali)».
12 Ovviamente, la forza e l’intensità della contrapposizione appaiono diverse a seconda della prospettiva adottata. Dall’esterno della filosofia analitica, neopositivismo e filosofia del linguaggio ordinario appaiono due momenti o tappe quasi indistingui bili di un medesimo orientamento; dal suo interno le differenze appaiono molto più evidenti e significative. In Hacker 1996 si sostiene che nella filosofia analitica, dopo una fase segnata dall’influsso delle Ricerche, si è tornati a privilegiare quegli aspetti del Tractatus che avevano attirato i neopositivisti. Su questo ritorno al Tractatus Hacker esprime delle forti perplessità.
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13 In questo caso, più delle Ricerche, un ruolo decisivo lo svolsero l’insegnamento di Wittgenstein a Cambridge e la conoscenza del suo pensiero diffusa grazie ai suoi allievi. 14 Merita qui di essere ricordato come all’inizio degli anni Trenta Wittgenstein si sia spinto ad accusare Carnap di plagio, in particolare di aver fatte proprie, senza citarlo come fonte, diverse sue idee e concezioni sul fisicalismo (anche se Wittgen stein riconosce di non aver mai impiegato «questo orribile nome»), sulle definizioni ostensive, sulle ipotesi, sulla distinzione tra modo materiale e modo formale di parlare (Nedo 2013,301; lettera di Wittgenstein a Moritz Schlick dell’8 agosto 1932). Secondo alcuni quest’accusa di plagio rivelerebbe che Wittgenstein era più vicino a Carnap e ai neopositivisti di quanto attualmente si tenda a credere (vedi Hintikka e Hintikka 1990,217-219).
15 In sintonia con lo spirito della civiltà europea e americana è sicuramente quello «spirito illuministico e di ricerca positiva antimetafisica» (Hahn, Neurath e Carnap 1979, 61) da cui il Circolo di Vienna si sentiva animato e da cui riteneva, evidentemente a torto, che anche Wittgenstein fosse mosso.
16 Wittgenstein aggiunge che ciò che gli interessa è «piuttosto vedere in trasparenza dinanzi a me le fondamenta degli edifici possibili»; questa osservazione potrà essere capita meglio dopo che, nei prossimi capitoli, si sarà detto qualcosa di più sull’idea wittgensteiniana di filosofia e di lavoro filosofico. 17
In realtà, come sappiamo, le Ricerche usciranno postume.
18 Da quello che ci è dato sapere (vedi, al riguardo, McGuinness 2002, 282-283 e Hacker 2013, 93-94), Wittgenstein qui pensava soprattutto a Friedrich Waismann, il quale nelle sue lezioni a Cambridge nella seconda metà degli anni Trenta stava usando dei materiali che provenivano da un testo che egli aveva inizialmente redatto basandosi sulle dettature di Wittgenstein e che, dopo la rottura con Wittgenstein, aveva com pletato nel 1939 da solo; il testo sarà pubblicato postumo nel 1965 nella traduzione inglese con il titolo Principles of Linguistic Philosophy e nell’originale tedesco con il titolo Logik, Sprache, Philosophie nel 1976. Va comunque sottolineato come il timore che i suoi risultati «circolassero variamente fraintesi, annacquati o mutilati» fu una costante dell’atteggiamento di Wittgenstein che sospettò al riguardo di Carnap, di Richard Braithwaite, della sua allieva Alice Ambrose, di Gilbert Ryle, di John Wisdom. 19
Su queste vicende si veda Perissinotto (2002,319-324 e 337-339).
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Su tutti questi aspetti si può vedere Stern (2006, 213-215).
21 «I cinque Wittgenstein potrebbero essere: l’autore dei Quaderni 1914-1916 [e scritti collegati], quello del Tractatus, un Wittgenstein intermedio tra la fine degli anni Venti e l’inizio dei Trenta, l’autore delle Ricerche, l’autore delle tarde annotazioni di cui si compone Della certezza» (Kahane, Kanterian e Kuusela 2013, 35, n. 61). 22 Quello che vale per i nomi non vale però, secondo il Tractatus, per le costanti logiche; come Wittgenstein dichiara più volte, in particolare in T, 4.0312b, le costanti logiche non sono nomi; esse «non rappresentano, nel senso di stare per o di sostituirsi a, oggetti di nessun genere» (McGuinness 2002, 103-104). Una costante logica (o un connettivo logico) è, per esempio, la «e» della congiunzione in «Paolo è stanco e malinconico». Come vedremo nel terzo capitolo, se «Paolo» sta per un oggetto (una persona), la «e», che nella notazione logica abituale è un puntino, non sta per nulla.
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23 «Mettiamo in discussione, per prima cosa, il punto di questa argomentazione: che la parola non ha significato se a essa non corrisponde nulla. - E importante man tener fermo che, se con la parola ‘significato’ si designa l’oggetto che ‘corrisponde’ alla parola, allora la parola viene impiegata in modo contrario all’uso linguistico. Ciò vuol dire scambiare il significato di un nome con il portatore del nome. Se il signor N. N. muore si dice che è morto il portatore del nome, non il significato del nome. E sarebbe insensato parlare in questo modo, perché se il nome cessasse di avere un significato, non avrebbe senso il dire: ‘Il signor N.N. è morto’» (RF, I, §40). 24 Come vedremo anche nel prossimo capitolo, Gottlob Frege criticherà Wittgen stein ritenendo che, nel Tractatus, «ciò che è detto», il contenuto, finisse in secondo piano rispetto alla forma, al «come è detto» (Frege 2011, 57).
25 La convinzione di von Wright è che Wittgenstein non volesse rivendicare per la sua concezione della filosofia «una validità non storica, sovratemporale» e che, di conseguenza, si debba riconoscere che la sua concezione della filosofia «esprimeva che cosa dovesse essere per lui, nel contesto del suo tempo» (von Wright 1983, 254). 26 «Riguardo al suo stesso lavoro di ricerca disse che l’importante non era se i suoi risultati fossero veri o no, ma che ‘fosse stato scoperto un nuovo metodo’» (LM, 134). Nel medesimo contesto Wittgenstein osservava inoltre a) che questo nuovo tipo di pensiero era molto difficile da acquisire soprattutto perché molto diverso da quello richiesto nelle scienze al quale siamo allenati e abituati; b) che non le lezioni e le con ferenze, bensì la discussione era essenziale per acquisire «l’abilità necessaria a praticare la nuova filosofia» (LM, 134); c) che la sua nuova filosofia «consisteva ‘in qualcosa di simile al mettere in ordine le nostre nozioni riguardo a ciò che si può dire intorno al mondo’» e che questa attività poteva essere paragonata «a quella del mettere ordine in una stanza, in cui si devono spostare parecchie volte i medesimi oggetti prima di ottenere che la stanza sia davvero rassettata» (LM, 135).
27 In una serie precedente di lezioni Wittgenstein avrebbe indicato tre aspetti sotto i quali la sua filosofia assomigliava a quella tradizionale: «(1) verteva su questioni di carattere assai generale, (2) era fondamentale sia per la vita ordinaria che per le scienze, e (3) era indipendente da qualsiasi risultato speciale delle scienze»; da questo punto di vista, perciò «non era un mero ‘arbitrio’ applicare a questa attività la parola ‘filosofia’» (LM, 135). 28 La ricostruzione di Moore si basa sui suoi appunti da poco pubblicati; nel caso specifico si tratta di un appunto del 23 gennaio 1933: «Perché chiamare ciò che sto facendo ‘filosofia’? E la stessa cosa che facevano Platone e Berkeley? / Direi: ‘No’: ma qualcuno di voi potrebbe essere di buon grado spinto a dire ‘Questo è ciò che volevo realmente’. / P.e. la metafisica (in Whitehead) sembra come un genere di scienza; & tuttavia non c’è nessun appello all’esperienza. / E poi io dico. ‘Dovresti chiarificare idee». Puoi sentire che questo prende il posto dell’altro, sebbene l’altro sia realmente una cosa diversa» (Moore 2016, 233). 29 Di recente è stata proposta un’utile classificazione delle varie posizioni assunte in risposta alla questione del rapporto nelle Ricerche tra stile, metodo e contenuto: estemalisti, internalisti moderati e internalisti radicali. Secondo gli esternalisti lo stile di Wittgenstein «è esterno al metodo e contenuto» per cui quest’ultimo «può essere estratto dai suoi scritti senza che ne sia persa la sostanza»; secondo gli internalisti mo derati «la giustificazione dello stile di Wittgenstein è derivata dal suo metodo, rendendo
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quest’ultimo distinto e con una priorità sistematica rispetto al primo; al contrario sia dei primi che dei secondi, gli internalisti radicali «rigettano sia l’idea che il contenuto delle Ricerche sia argomentativo sia che esso sia realmente separabile dallo stile del libro. [... ] il metodo frammentario delle Ricerche corrisponde al suo stile frammentario, così che il primo non è separabile dal secondo» (Kahane, Kanterian e Kuusela 2013,19-25). 30 E interessante notare come Wittgenstein impieghi l’aggettivo «naturale» sia per indicare il suo obiettivo iniziale (un libro in cui i pensieri procedano secondo una successione naturale) sia il motivo per cui quell’obiettivo si è rivelato impossibile da realizzare: l’inclinazione naturale dei suoi pensieri non è quella di seguire una sola e unica direzione.
31 Ovviamente ciò non significa che questo album sia una raccolta di tutti gli schizzi così come sono stati realizzati. Un album richiede un lavoro paziente e dettagliato. Scrive Wittgenstein: «Gli stessi (o quasi gli stessi) punti furono avvicinati, sempre di nuovo, da direzioni differenti e sempre nuove immagini furono schizzate. Un gran numero di esse erano state abbozzate in malo modo o non riuscivano a cogliere le caratteristiche del soggetto, contrassegnate da tutte le manchevolezze che rivelano il cattivo disegno. E quando le scartai ne rimasero un certo numero, riuscite a metà, che dovettero essere riordinate e spesso tagliate, in modo da poter dare all’osservatore un’immagine del paesaggio» (RF, pref.). 32 Anche Pichler (2013, 133) distingue nella Prefazione due momenti, il primo caratterizzato da quella che chiama «l’osservazione sulla scontentezza», il secondo dalla cosiddetta «osservazione sull’album». Secondo questa interpretazione, se Witt genstein era scontento, non lo era perché il suo libro era ancora soltanto un album, ma perché non lo era ancora abbastanza. Per Wittgenstein, l’album non fu un ripiego, ma piuttosto un obiettivo.
33 Qui Wittgenstein si riferisce all’osservazione di Charlie D. Broad che, a proposito della sempre più forte influenza esercitata da Wittgenstein sull’ambiente di Cambridge, parlò ironicamente dei «salti filosofici dei miei più giovani amici che danzano ai suoni altamente sincopati del flauto di Herr Wittgenstein» (Broad 1925, vii). 34 Qui Wittgenstein paragona anche lo stile del Tractatus con il suo nuovo stile: «Il mio stile attuale è piuttosto differente; sto cercando di evitare quell’errore» (CW, 220). Va però notato che qualcosa di simile Wittgenstein aveva ammesso nella lettera a Russell citata nella nota 89: «alcune delle tue domande richiedono una risposta molto lunga e tu sai bene come mi riesce difficile scrivere di logica. E anche il motivo per cui il mio libro è così breve e, di conseguenza, così oscuro» . 35 Va notato che la concisione fu sempre considerata da Wittgenstein un metro di valutazione insieme estetico (letterario), filosofico ed etico. Così, a proposito dei Principia Ethica di Moore, egli scrive a Russell in una lettera dell’11 giugno 1912 che «Moore non fa che ripetersi per decine e decine di volte, quello che dice in tre pagine potrebbe benissimo stare - mi pare - in mezza paginetta. Le enunciazioni oscure non diventano più chiare per il solo fatto di essere ripetute! !» (L, 35). 36 Tutto questo ricorda da vicino l’atteggiamento di due autori da cui Wittgenstein, per sua stessa ammissione, sarebbe stato influenzato: Adolf Loos e Karl Kraus (si veda PD, 45).
37 Va notato che, secondo quanto Wittgenstein scrive nella Prefazione, questa difficoltà non sarebbe stata interamente superata nel Tractatus-, «Se quest’opera ha un
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valore, il suo valore consiste in due cose. In primo luogo, pensieri son qui espressi; e questo valore sarà tanto maggiore quanto meglio i pensieri siano espressi. Quanto più si sia colto nel segno. - Qui so di essere rimasto ben sotto il possibile. Semplicemente perché la mia forza è impari al compito. - Possa altri venire e far ciò meglio» (T, pref.; corsivo mio). 38 Com’è stato osservato, si tratta di un passo forse volutamente ambiguo nel quale «il linguaggio è sia il mezzo dell’incantamento sia il mezzo attraverso il quale combat tiamo contro l’incantamento» (Stem 1995, 24).
39 «Drury: Hai mai letto nulla di Aristotele? / Wittgenstein: Eccomi! Un ex pro fessore di filosofia che non ha mai letto una parola di Aristotele» (CW, 218); «Drury: Sono stato recentemente a una conferenza di A. E. Taylor: ha detto che non riusciva a decidere se Hume fosse un grande filosofo o solo un uomo molto intelligente. [...] Wittgenstein: Quanto a Hume non so che cosa dire, non l’ho mai letto. Ma la distinzione tra un filosofo e un uomo molto intelligente è vera ed è di grande importanza» (CW, 146). Ciò, ovviamente, non impedisce, come di fatto non ha impedito, di rintracciare affinità e convergenze tra pensiero di Wittgenstein e quello di Aristotele o di Hume. 40 II giudizio di Wittgenstein sui Principia Ethica, pubblicato nel 1903, era tutt’altro che positivo: «Ho appena finito di leggere una parte dei Principia Ethica di Moore: ebbene (la prego, non si scandalizzi) non mi è piaciuto affatto. (E questo, indipenden temente dal fatto che sono in disaccordo con quasi tutto quello che dice)» (L, 35).
41 Ciò si spiega sia con la percezione che sia Russell che Moore ebbero quasi subito della genialità di Wittgenstein e sia con alcune caratteristiche dell’ambiente filosofico di Cambridge. 42 Va però ricordato che, proprio mentre dichiarava la radicale estraneità del libro che progettava di completare tra la fine degli anni Venti e gli inizi degli anni Trenta alla «civiltà del progresso europea e americana», Wittgenstein riconosceva anche che questa civiltà «forse è l’ambiente necessario per questo spirito, ma i loro fini sono differenti» (PD, 27). Su questo si vedano von Wright (1983) e Bouveresse (1991).
43 Perché Wittgenstein continuasse a leggere e a consigliare la lettura di Sesso e carattere (1903) di Weininger, un libro che appariva intriso di antisemitismo e di miso ginia rimase per molti amici e conoscenti di Wittgenstein, un mistero; sui rapporti di Wittgenstein con Weininger si può ora vedere Stern e Szabados (2004); strano poteva apparire a molti anche l’interesse nei confronti di Spengler, autore di un’opera, Il tramonto dell'Occidente. Lineamenti di una morfologia della storia mondiale (1918), giudicata da più parti confusa, antiscientifica e priva di ogni rigore. Sui rapporti di Wittgenstein con Spengler si possono vedere Haller (1986) e Janik (2006,205-224). 44 Vedi, rispettivamente, Schönbaumsfeld (2007), Goodman (2002), Perissinotto e Ramón Carnata (2013), Perissinotto (2002), Andronico (1998), Bastianelli (2008), Thompson (1997), Cioffi (1998) e Bouveresse (1997). 45 «Sono io soltanto incapace di fondare una scuola, oppure nessun filosofo può farlo? Io non posso fondare una scuola perché, in realtà, non voglio essere imitato. In ogni caso non da coloro che pubblicano articoli in riviste di filosofia» (PD, 114).
46 Occorre qui ricordare che, secondo le Ricerche, «la vera scoperta [in filosofia] è quella che mi rende capace di smettere di filosofare quando voglio» (RF, I, § 133c).
CAPITOLO
Il Tractatus logico-philosophicus. Problemi e bivi interpretativi
1. LE DIFFICOLTÀ DEL TRACTATUS Il Tractatus è un libro non facile da intendere e, di conseguenza, difficile da introdurre. E questo per ragioni diverse e di differente peso e livello. Qui di seguito ne elencherò e discuterò alcune; nel farlo cercherò di dar ragione, anche se perlopiù in maniera implicita, dell’intenso dibattito che negli ultimi due decenni si è riacceso’ attorno a quella che Wittgenstein era giunto a considerare «l’opera della sua vita» (LF, 70)2. La prima cosa che va sottolineata è come il Tractatus nasca nel contesto e sulla base di un serrato confronto con il lavoro di Frege e di Russell sulla lo gica e sui fondamenti della matematica3. Non è un caso che i ringraziamenti della Prefazione si limitino a Frege e a Russell e che i loro nomi siano i soli che compaiono con una certa frequenza (Frege è nominato 17 volte; Russell 30) in un’opera in cui i richiami ad altri pensatori sono, a dir poco, spora dici4. Ne consegue che senza una qualche conoscenza delle opere di Frege e dei lavori di Russell l’intera impostazione del Tractatus e parecchi dei suoi passaggi interni corrono il rischio di rimanere celati o incompresi. Occorre anche osservare come tra gli interpreti non vi sia una posizione unanime riguardo a chi, tra Frege e Russell, abbia maggiormente pesato sulla forma zione Tractatus5. Da tempo il piatto della bilancia sembra decisamente pen dere dal lato di Frege6, anche se non mancano coloro che scommettono su Russell7. Da parte sua, nella Prefazione Wittgenstein sembra avvertirci che, se di influenza si è trattato, si è trattato di un’influenza in un senso peculia
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Capitolo 2
re; Frege e Russell, infatti, non sono ringraziati per i pensieri che gli hanno trasmesso, bensì per lo stimolo che gli hanno dato, ossia perché essi hanno rappresentato per lui ciò che nella Prefazione alle Ricerche egli si augura di poter rappresentare per i suoi lettori o, almeno, per alcuni di essi: «Non vorrei, con questo mio scritto, risparmiare ad altri la fatica di pensare. Ma, se fosse possibile, stimolare qualcuno a pensare da sé» (RF, pref.). Riconosciuta l’importanza di Frege e Russell, si pone la questione se le loro opere e lavori siano i soli stimoli, o almeno i più forti e significativi, all’origine del Tractatus. Nella Prefazione Wittgenstein precisa, con quella che può apparire, una mistura di modestia e di arroganza, che ciò che ha scritto nel T^actatuJ«non pretende affatto di essere nuovo, nei particolari;
e perciò non indico fonti, poiché mi è indifferente se già altri, prima di me, abbia pensato ciò che io ho pensato» (T, pref.). Con ciò però egli lascia aperto un interrogativo che gli interpreti non hanno potuto evitare di porsi, ossia chi altro, oltre a Frege e a Russell, sia (eventualmente) stato di stimolo a Wittgenstein, soprattutto per quanto riguarda la sua impostazione generale e quelle parti dell’opera (in particolare, le proposizioni conclusive 6.4 e 6.5 con i relativi commenti), che sembrano estranee, per spirito e contenuto, a Russell e, soprattutto, a Frege8. Il problema è parte di un problema più ampio che si può formulare più o meno così: come si compone o si accorda il lato logico del Tractatus con quello che, per comodità, possiamo chiamare il suo lato «mistico» o «etico»? E possibile leggere il Tractatus come un’opera unitaria?9 Per esempio, come stanno o possono stare insieme nella stessa opera la prop. 4: «Il pensiero è la proposizione munita di senso», e la prop. 6.4la: «Il senso del mondo deve essere fuori di esso»? Che relazione vi può mai essere tra la questione (logi ca) del senso della proposizione e la questione (etica o religiosa) del senso del mondo? In effetti, la conclusione a cui diversi lettori sono, con maggiore o minore riluttanza, giunti è che il Tractatus sia un’opera fondamentalmente scissa in due parti: una parte, la parte quantitativamente preponderante, scritta da un logico che si confronta criticamente con Frege e Russell10, ma anche con Boltzmann e Hertz, e una parte, la più esigua, scritta, diciamo così, da un filosofo mistico o misticheggiante che, come abbiamo già ricor dato nel primo capitolo, trovava il proprio stimolo, tra gli altrp-in Schopen hauer, Weininger, Dostoevskij, Tolstoj, Nietzsche, Kierkegaard. \
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Il Tractatus logico-philosophicus
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Vi sono comunque diversi indizi che indicano come questa conclusione non sarebbe stata apprezzata da Wittgenstein. Qui ne indico tre: a) quando parla del suo Tractatus Wittgenstein ne parla sempre come di un’opera co esa e unitaria; per esempio, egli lo presenta a von Ficker spiegando che si tratta di «un’opera filosofica» e, più precisamente, della «esposizione di un sistema» (LF, 69); h) è vero che, sempre a von Ficker, egli scriverà che il suo lavoro «consiste di due parti», ma queste due parti non sono, per così dire, interne all’opera e, in ogni caso, non coincidono, rispettivamente, con le parti logiche del Tractatus e con quelle etico-religiose.
Il mio lavoro - osserva, in effetti, Wittgenstein - consiste di due parti: di quello che ho scritto, e inoltre di tutto quello che non ho scritto. E proprio questa seconda parte è quella importante. A opera del mio libro, l’etico viene delimitato, per così dire, dall’interno; e sono convinto che l’etico è da delimitare rigorosamente solo in questo modo (LF, 72); c) che il senso del Tractatus sia «un senso etico» (LF, 72) non comporta di per sé una diminuzione della logica né, soprattutto, sta a significare che il lato propriamente logico dell’opera sia estraneo o marginale rispetto al suo senso etico11. Del resto, nella lista redatta nel 1931 dei pensatori che lo avrebbero influenzato12, Wittgenstein non indica nessuna gerarchia. Il sug gerimento implicito è che, se è stato influenzato da Russell o da Frege, lo è stato altrettanto, né di più né di meno, da Kraus o da Weininger13. Come si sarà constatato, nei paragrafi precedenti per introdurre al Trac tatus si sono usati e ci si è spesso riferiti a materiali, come per esempio le lettere a von Ficker, che sono, per così dire, esterne al testo vero e proprio dell’opera. Questo uso spinge a domandarsi se nell’interpretazione del Trac tatus si debba o, quantomeno, sia preferibile optare per un’interpretazione «immanente», ossia per un’interpretazione solo Tractatu che non faccia nes sun essenziale riferimento «a dati esterni al testo», o per una interpretazione «contestuale», la quale, al contrario, li usi e vi si riferisca in maniera essenzia le (per questa distinzione si veda Pichler 2013,123). Nei dati esterni dobbia mo sicuramente includere i diversi materiali che precedono, accompagnano e seguono immediatamente la stesura del Tractatus-, a) un gruppo di scritti risalenti al periodo 1913-17 che possono essere considerati l’officina in cui
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Capitolo 2
è stato forgiato il Tractatus e dai quali sono tratte diverse sue proposizioni. Si tratta delle Note sulla logica, delle Note dettate a G.E. Moore in Norvegia, dei Diari segreti e dei Quaderni 1914-1916-, b) le diverse lettere e scambi epi stolari che coprono approssimativamente il periodo 1912-23; c) una prima versione del Tractatus ora conosciuta come Prototractatus. Espungere o ac cantonare tutti questi materiali è sembrata a gran parte degli interpreti una scelta inutilmente ascetica; l’opinione più diffusa è che essi non solo posso no, ma devono essere utilizzati per una migliore comprensione del Tractatus, a condizione però di non trascurare le seguenti tre avvertenze, ossia: a) che si tratta di materiali di lavoro con tutte le relative caratteristiche: esitazioni, vie imboccate e subito (o quasi subito) abbandonate, annotazioni che fissano un pensiero o un’intuizione, note di lettura14; b) che, proprio per questo, Wittgenstein è, per così dire, chiamato a rispondere al suo lettore solo del Tractatus, ossia del testo che egli ha ritenuto compiuto e pubblicabile; c) che non è per nulla scontato né che le annotazioni ^re-Tractatus che sono state incorporate (con poche o addirittura senza modifiche) nel Tractatus mantengano nel nuovo contesto il medesimo spirito e valore che avevano nel contesto di origine. Le difficoltà finora elencate sembrano convergere verso una serie di domande che ogni lettore del Tractatus non può evitare di porsi: Che genere di libro è il Tractatus'? Che tipo di lettore esso richiede o evoca? Sono io quel tipo di lettore? Ovviamente, il lettore non è, in quanto tale, tenuto a essere fedele all’opera e forse ancor meno all’intenzione del suo autore; un’opera può essere variamente usata come spunto e stimolo. Del resto, come sap piamo, era proprio questo che Wittgenstein augurava alla sua opera e al suo lettore. Ma è altrettanto ovvio che è assai difficile per il lettore del Tractatus, anche per il meno ermeneuticamente attento, scansare del tutto le domande con cui abbiamo iniziato il paragrafo, soprattutto se si considera che al suo lettore Wittgenstein si appella in maniera sicuramente non estrinseca. In effetti, nel Tractatus il lettore è evocato in diverse occasioni da Witt genstein. Viene evocato innanzitutto proprio all’inizio della Prefazione lad dove egli ipotizza che il suo libro potrà forse essere compreso solo da qual cuno che a sua volta abbia già pensato gli stessi pensieri o almeno pensieri simili a quelli che vi si trovano espressi. Anche in questo senso il Tractatus non è un manuale (T, pref.). Chi infatti legge e studia un manuale lo fa per
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acquisire in un determinato campo nuove capacità e conoscenze, dando per scontato che chi ha redatto il manuale sia in questo campo un esperto, ossia ne sappia di più del suo lettore. Un manuale di fisica, per esempio, merita di essere letto e studiato se ci dà informazioni aggiornate e affidabili sulla fisi ca, i suoi metodi e le sue leggi. Che il Tractatus non sia un manuale significa allora che quel lettore che si aspetta di imparare da esso qualcosa di nuovo (sulla logica, il linguaggio o la filosofia) non lo ha, a dar retta alla Prefazione, veramente compreso. Insomma, il fine del Tractatus non è quello di dare al suo lettore «una qualsiasi istruzione particolare intorno a materie astruse» (PD, 43 )15; al contrario, esso «conseguirebbe il suo fine se procurasse piace re ad almeno uno che lo legga comprendendolo». Ma che tipo di lettore può essere quello che può provare piacere comprendendo un libro dal quale non può, per così dire, imparare nulla di più di quanto già non sappia? Verrebbe spontaneo osservare che procurare piacere può essere even tualmente un fine per i testi letterari, ma non certo per quelli scientifici o filosofici. Non a caso fu proprio questa la reazione di fronte al Tractatus di Frege il quale, in una lettera del 16 settembre 1919, faceva notare a Wittgen stein che ciò che la sua Prefazione suggeriva era che la forma del libro, «nella quale si rivela qualcosa dell’individualità dell’autore», contava più del suo contenuto e che, dunque, esso doveva essere considerato un’opera «artistica più che scientifica», ossia un’opera nella quale «ciò che è detto» era meno rilevante del «come è detto» (Frege 2011, 57). Ma per Frege questo era inaccettabile come si vede in una lettera di poco successiva nella quale egli manifesta tutta la sua frustrazione di lettore «scientifico»:
Ci si aspetta di vedere una questione, un problema posto, e invece si leggono quelle che appaiono come asserzioni che abbisognano urgente mente di essere giustificate, ma che non sono accompagnate da nessuna giustificazione. Come arriva a queste asserzioni? Con quali problemi sono connesse? Mi piacerebbe vedere una questione posta all’inizio, un enigma la cui soluzione ci piacerebbe conoscere (Frege 2011,61).
Ma il punto sta proprio qui. Se il Tractatus non è un manuale, ne conse gue che esso ha poco o nulla da spartire con la scienza o con quella filosofia che può affidare i propri risultati a un manuale. Sta questo forse a significare
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che il Tractatus è un testo letterario e che il lettore che Wittgenstein si augura è un lettore che sappia leggerlo come si legge una poesia o un romanzo, o come si ascolta una sonata o un quartetto per archi? Le cose non sono così semplici, anche perché il piacere a cui allude Wittgenstein non va necessa riamente inteso in senso psicologico né ciò che dice sembra implicare che dove vi è poesia o musica là non vi sia né apprendimento né verità. «La gen te - egli annoterà diversi anni dopo il Tractatus - crede oggi che gli uomi ni di scienza siano lì per istruirti, e i poeti e i musicisti ecc., per rallegrarti. Che questi ultimi abbiano qualcosa da insegnare, non le viene in mente» (PD, 74); e circa un anno dopo egli ribadirà il punto rivolgendosi a tutti quei poeti che, per così dire, lasciano la verità alla scienza: «Anche il poeta deve sempre chiedersi: ‘E proprio vero ciò che scrivo?’. Il che non deve necessa riamente voler dire: ‘Succede così, nella realtà?’» (PD, 79-80). Ma il lettore ricompare anche nella conclusione dell’opera. Qui però l’autore sembra riservargli una sorpresa, in quanto non gli domanda se ab bia compreso quello che ha letto né si augura che lo condivida in toto o in parte; gli domanda piuttosto se sia giunto a riconoscere che, per dirla un po’ brutalmente, non c’era proprio nulla da capire e che, a differenza di un libro di fisica, un testo di zoologia o una guida al giardinaggio, il Tractatus non avevajiungidamsegna^> Tutto questo ha conseguenze tutt’altro che irrilevanti sul modo di leg gere e di interpretare il Tractatus. Per esempio, verrebbe da domandarsi come andrebbe valutato, dal punto di vista del lettore immaginato da Witt genstein, il lungo e serrato dibattito tra le interpretazioni realiste e quelle idealiste del Tractatus. Secondo il primo tipo di interpretazione, nel Tracta tus sarebbe contenuta una metafisica di stampo decisamente realista come sarebbe, tra l’altro, attestato dalla precedenza che, nella sua esposizione, è assegnata all’ontologia. Per dirla con uno di questi interpreti, secondo il Tractatus la forma del mondo non sarebbe «dipendente dal linguaggio e dal pensiero» né sarebbe una loro «creazione», essendo «in realtà presupposta dal linguaggio e dal pensiero» (Malcolm 1986,2-3). In sé o in quanto tale il mondo viene insomma prima sia nell’ordine dell’essere che in quello della spiegazione, anche se non nell’ordine seguito da Wittgenstein il cui lavoro, come egli annotava il 2 agosto 1916, si sarebbe piuttosto «esteso dai fonda menti della logica all’essenza del mondo» (Q, 225). Secondo l’interpretazio
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ne idealista, al contrario, sarebbe il linguaggio a venire per primo nell’ordine della spiegazione16, così che l’ontologia del Tractatus (o la sua cosiddetta «ontologia») altro non sarebbe che un riflesso o una creazione del linguag gio e del pensiero. Come non è difficile verificare, entrambe le interpretazioni sono state il lustrate e difese con molti argomenti da studiosi seri e accreditati. Per alcuni Wittgenstein era un realista metafisico; per gli altri un idealista linguistico. Ciò che resta difficile da capire è perché mai un libro che esporrebbe o una forma di realismo metafisico o una forma di idealismo linguistico dovrebbe essere tale da richiedere quel tipo di lettore che Wittgenstein evoca invece di un lettore molto più tradizionale che lo legge non per trovare conferma a ciò che ha già pensato, ma per capire quale, tra il realismo metafisico e l’idealismo filosofico, sia l’opzione filosofica più fondata. Perché mai, in fatti, sarebbe necessario aver pensato gli stessi pensieri o almeno pensieri simili per comprendere il Tractatus? Perché escludere che un idealista possa diventare, dopo la lettura del Tractatus, un realista o che un realista possa diventare, sempre grazie alla lettura del Tractatus, un idealista? Forse non possiamo escluderlo per cui faremmo meglio a non dare troppo peso a quel lo che in maniera così suggestiva Wittgenstein scrive sul suo lettore nella Prefazione e nella prop. 6.54; o forse, al contrario, dovremmo prendere sul serio l’indicazione di Wittgenstein e domandarci se siamo, se vogliamo esse re o se ppssigmo essere quel tipo di lettore che Wittgenstein si augurava per il sutfTractatus.
2. TITOLO E STRUTTURA A quello che è oggi universalmente conosciuto con il titolo latino di Tractatus logico-philosophicus il suo autore aveva dato un titolo tedesco: Lo gisch-Philosophische Abhandlung11 ed è questo il titolo con cui abitualmente vi si riferiva. Con questo titolo esso fu anche inizialmente pubblicato nel numero 14, l’ultimo numero prima della sua chiusura definitiva, della rivi sta «Annalen der Naturphilosophie» diretta da Wilhelm Ostwald. Questa edizione, sciatta e imprecisa e per questo invisa a Wittgenstein, è ormai solo una curiosità storica. Fu l’edizione con traduzione inglese a fronte uscita
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l’anno successivo a Londra presso Kegan Paul, Trench, Tubner & Co., che può essere considerata, a tutti gli effetti, come la prima edizione18 di quella che, come sappiamo, Wittgenstein considerava l’opera della sua intera vita. Nell’edizione del 1922 il titolo è ormai diventato quel «titolo spinoziano» che, a quanto è dato sapere, sarebbe stato suggerito da Moore che lo ritene va «chiaro e ideale» (vedi LO, 30). In effetti, lo stesso Moore aveva dato un titolo latino al suo libro del 1903 {Principia Ethica) e Russell e Whitehead nel 1910 avevano scelto il latino per i loro Principia Mathematica. La scelta del titolo latino fu approvata, anche se con qualche esitazione19, dallo stesso Wittgenstein il quale si oppose invece a usare quel titolo Philosophical Logic che Ogden aveva considerato migliore se non altro «ai fini commerciali» (LO, 30). Le considerazioni che convinsero Wittgenstein non erano però, com’era facile aspettarsi, di tipo commerciale; in effetti egli riteneva che Philosophical Logic fosse un titolo sbagliato20, per non dire un vero e proprio nonsenso: «A dire il vero, - egli scrive infatti a Ogden - non so neanche che cosa voglia dire! Non esiste qualcosa come una logica filosofica. (A meno che non si dica che, siccome il libro è nonsenso, anche il titolo potrebbe essere nonsenso)» (LO, 46). In effetti, un titolo del genere avrebbe potuto indurci a credere che vi sia una risposta logica ai problemi filosofici, mentre, come vedremo meglio nel prossimo capitolo, la lezione del Tractatus è che «la formulazione di tali problemi si fonda sul fraintendimento della logica del nostro linguaggio» e che l’unico modo di risolvere, «nell’essenziale», i problemi filosofici consiste nel fare chiarezza su questa logica (T, pref.). Insomma, se Wittgenstein non ci presenta il Tractatus come un trattato di logica filosofica, è «perché questo suggerirebbe che potremmo usare la lo gica come uno strumento o un mezzo esatto al fine di dare risposte esatte ai problemi filosofici o forse che potremmo arrivare mediante un calcolo a risultati filosofici (Kienzler 2011,8). Il Tractatus del 1922 si compone di una dedica21, di un motto22, di una Prefazione firmata L.W e datata «Vienna, 1918», il tutto preceduto dall’Iwtroduzione di Russell, e del corpo vero e proprio dell’opera. Due cose colpi scono subito per quanto riguarda quest’ultimo; per un verso, le sue ridotte dimensioni; in effetti, come fece notare lo stesso Wittgenstein a von Ficker, si tratta di un lavoro «di modestissima mole, circa 60 pagine» (LF, 69); per un altro, la struttura adottata e il tipo di lettura che essa impone. Il Tracta-
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tus si compone infatti di una serie di proposizioni (così, Sätze, le chiama Wittgenstein) organizzate secondo una numerazione decimale; sempre nella stessa nota Wittgenstein ricorda anche che «i decimali, che numerano le singole proposizioni, ne denotano l’importanza logica, il rilievo che a esse spetta nella mia esposizione» . Dobbiamo dedurne che il rilievo maggiore spetta alle sette proposizioni numerate con i numeri interi da 1 a 7 e che esse dovrebbero essere lette per prime al fine di cogliere, quasi in un colpo solo, l’intelaiatura essenziale dell’opera23: «1. Il mondo è tutto ciò che accade», «2. Ciò che accade, il fatto, è il sussistere di stati di cose»; «3. L’immagine logica dei fatti è il pensiero»; «4. Il pensiero è la proposizione munita di senso»; «5. La proposizione è una funzione di verità delle proposizioni ele mentari. / (La proposizione elementare è una funzione di verità di sé stessa»; «6. La forma generale della funzione di verità è: [p, N(Q], / Questa è la forma generale della proposizione»; «7. Su ciò di cui non si può parlare, si deve tacere». Ciascuna di queste proposizioni, a eccezione della 7, è accompagnata da una serie di proposizioni che fungono da commenti e da proposizioni che, a loro volta, fungono da commenti dei commenti e da commenti ai commenti dei commenti, e così via secondo un sistema anch’esso spiegato da Wittgenstein nella nota ricordata. Così, per esempio, 1.2 è il secondo commento alla proposizione 1, 2.13 il terzo commento alla proposizione 2.1 e 4.122 il secondo commento al secondo commento al primo commen to alla proposizione 4. Ciò sta evidentemente a significare che il Tractatus non può essere letto linearmente, ossia proposizione dopo proposizione, perché può capitare (come, in effetti, spesso capita) che una proposizione si riferisca non a quella che dal punto di vista tipografico immediatamente la precede, ma a una proposizione che compare anche molto prima. Per esempio (si veda White 2006, 17), la proposizione 4.02 («Lo vediamo dal fatto...») non si riferisce alla proposizione 4.016 che nella pagina la prece de immediatamente, bensì alla proposizione 4.01 che è da essa separata da ben sette proposizioni24. Non stupisce allora che Wittgenstein insistesse con von Ficker sulla necessità che i numeri decimali fossero «incondizio natamente stampati», convinto che solo essi dessero «al libro perspicuità e chiarezza» e che la loro mancanza lo avrebbe reso «un incomprensibile pasticcio» (LF, 76).
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A dire il vero, è stato da più parti riconosciuto come la numerazione de cimale non sia sempre una buona guida o una guida affidabile alla lettura del Tractatus e come alcune proposizioni siano state collocate là dove si trovano in mancanza, per così dire, di un posto migliore. Si può in ogni caso consi derare ragionevole l’osservazione secondo cui, «anche se non infallibile, [la numerazione decimale] in generale fornisce un’utile guida sul modo corret to di seguire il pensiero di Wittgenstein, e vale sempre la pena domandarsi perché un dato paragrafo sia collocato dove si trova» (White 2006,18). In una delle già citate lettere a von Ficker Wittgenstein consiglia a quest’ultimo «di leggersi [almeno o per prime] la prefazione e la conclusione, poiché sono queste che conducono il senso del libro alla sua più immediata espressione» (LF, 73). II contesto in cui questo consiglio compare lascia in tendere che è da questa lettura che si può meglio capire l’osservazione fatta qualche riga prima secondo cui «il senso del libro è un senso etico» (LF, 72). Ovviamente, la Prefazione del libro può essere identificata senza problemi; ma quale dovrebbe esserne considerata la conclusione? A essere rigorosi dovremmo forse dire che la conclusione è da individuare nella prop. 7: «Su ciò di cui non si può parlare {sprechen), si deve tacere», la quale, del resto, ribadisce, con una modifica che non sembra sostanziale {sprechen al posto di reden), quanto si era già letto nella Prefazione: «Tutto il senso del libro si potrebbe riassumere nelle parole: Tutto ciò che può essere detto si può dire chiaramente; e su ciò di cui non si può parlare {reden), si deve tacere». Molti lettori e interpreti sono stati però inclini a includere nella conclusione, oltre alla prop. 7, almeno la prop. 6.53 (sul metodo corretto della filosofia) e la già più volte citata prop. 6.54 (sul metodo del Tractatus). Se poi si considera che queste due sezioni sono commenti alla prop. 6.5, la propensione può essere quella di includere nella conclusione, oltre alla prop. 7, la prop. 6.5 con tutti i suoi sei commenti. Ma vi è stato anche chi ha ritenuto che si potesse tratta re come conclusione, oltre alla prop. 7 e alla prop. 6.5 con i suoi commenti, anche la prop. 6.4 («Tutte le proposizioni sono di pari valore») con tutti i suoi vari commenti (sul valore, il senso del mondo, l’etica, la morte, l’immor talità dell’anima, il Mistico e il sentimento mistico). Il consiglio dato da Wittgenstein a von Ficker è stato ampiamente segui to negli ultimi vent’anni da quegli interpreti che, per comodità, sono spesso chiamati «neowittgensteiniani»25. Secondo questi interpreti, la Prefazione e
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le sezioni 6.53,6.54 e 7 costituiscono la cosiddetta «cornice»26 del Tractatus nella quale ci viene, per così dire, consegnata la chiave di lettura del libro nel senso che ci vengono date le istruzioni su come lo si deve leggere: La cornice del libro contiene istruzioni, per così dire, per noi come suoi lettori. Leggilo alla luce di ciò che egli dice all’inizio sul suo scopo e di ciò che dice alla fine su come si intende che il lettore prenda ciò che contiene. Queste istruzioni ci introducono alla difficoltà centrale del libro, ossia al suo uso delle nozioni di ciò che non può essere detto e di nonsenso (Diamond 2000,151).
La distinzione tra cornice e contenuto è essenziale per i «neowittgensteiniani» perché l’assunzione che guida questa interpretazione è che oc corra prendere sul serio ciò che la cornice del Tractatus ci suggerisce, ossia che le sue proposizioni sono insensate e che lo sono alla pari di ogni altro nonsenso; non vi sono, insomma, nonsensi più importanti di altri, nonsensi «capaci di rinviarci, per quanto maldestramente, a verità indicibili»: «il non senso è solo nonsenso» e le proposizioni del Tractatus in quanto insensate «non hanno più senso di ‘piggy wiggle tiggle’» (Diamond, 2000 153)27.
3. LA LINGUA DEL TRACTATUS Un problema che può essere considerato in questo contesto riguarda la lingua usata da Wittgenstein e la connessa questione se e fino a che punto nel Tractatus l’autore faccia ricorso a una terminologia specifica. Per quanto riguarda la prima questione occorre osservare che gran parte degli interpreti (e, quello che più qui conta, gli interpreti di madrelingua tedesca) hanno riconosciuto come il Tractatus sia scritto in un tedesco semplice (talora col loquiale) e tutt’altro che ricercato o artificioso28. La cosa potrebbe apparire secondaria, ma non si può dimenticare che essa porta con sé, dal punto di vista interpretativo, diverse e importanti con seguenze. Il punto si può illustrare con un esempio che riguarda la traduzione italiana oggi in uso29 e i diversi modi in cui, nelle varie riedizioni, il traduttore ha scelto di rendere in italiano la più volte citata prop. 6.54. La traduzione
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iniziale, quella del 1964, adottava un tono poco enfatico; per esempio, usava il verbo «salire» sia in riferimento alle proposizioni che alla scala; in una succes siva revisione del 1989 si continuava a usare il verbo «salire» per la scala, ma si parlava, a proposito delle proposizioni, di «ascendere»; nel 1995 le cose cam biavano ancora: «salire» veniva sostituito in entrambi i casi da «ascendere»; allo stesso tempo nel secondo capoverso non si parlava più, come nel 1964 e nel 1984, di «superare», bensì di «trascendere». Significativi anche i cambia menti all’inizio del primo capoverso: «Le mie proposizioni illustrano così» (1964); «Le mie proposizioni sono chiarificazioni le quali illuminano in questo senso» (1989); «Le mie proposizioni illuminano così» (1995). L’impressione che se ne può facilmente ricavare è che scelte del traduttore abbiano progres sivamente privilegiato i toni mistici o le risonanze misticheggianti della prop. 6.54, dando così plausibilità alle letture mistiche (nel senso classico o tradizio nale del temine) del Tractatus^0, come quella che possiamo trovare espressa in un passo come questo: «L’ascesa sulla scala allude all’ascesa mistica; il mondo visto dalla cima di questa ascesa è il mondo visto da fuori il mondo (ekstasis); e il buttar via la scala e il trascenderne le proposizioni stabilisce la funzione del Tractatus come via negativa» (Nieli 1987,117). Anche la questione se nel Tractatus Wittgenstein impieghi una termino logia specifica è stata oggetto di divergenti valutazioni e risposte. In realtà, molte delle esposizioni del Tractatus danno per scontato che in esso si adotti una lingua tecnica che va, per l’appunto, illustrata e spiegata; ciò vale, tanto, per fare alcuni esempi, per la distinzione tra privo di senso (sinnlos) e in sensato (unsinnig) o per quella tra dire (sagen) e mostrare (zeigen). Come è stato però sottolineato, una cosa è sostenere che alcuni termini del Tractatus hanno, per così dire, una certa carica terminologica, altra cosa è conclu derne che la lingua del Tractatus ha tutte le caratteristiche di una lingua tecnica. Un caso interessante è costituito proprio dalla distinzione tra privo di senso e nonsenso. Wittgenstein la introduce nelle propp. 4.461c e 4.4611 là dove dice delle tautologie («Piove o non piove») e delle contraddizioni («Piove e non piove») che sono sì prive di senso (sinnlos), ma non insensate (unsinnig)-, nella prop. 6.54 Wittgenstein toma a usare l’aggettivo unsinnig in riferimento alle proposizioni del Tractatus. I primi traduttori, Ogden e Ramsey, tradussero, senza nessuna obiezione da parte di Wittgenstein, que sta seconda occorrenza di unsinnig con senseless, mentre avevano tradotto
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sinnlos in 4.461c con without sense e unsinnig in 4.4611 con nonsensical. Se la distinzione tra privo di senso e insensato fosse così terminologicamente vincolante la traduzione di Ogden e Ramsey sarebbe quantomeno fuor viarne e dovremmo sicuramente preferirle, nonostante l’implicito avvallo di Wittgenstein alla prima, quella di Pears e Ogden che traducono sia 1’un sinnig di 4.4611 che quello di 6.54 con nonsensical, mentre rendono così il sinnlos di 4.461c: «Tautologies and contradictions lack sense». In realtà, la traduzione di Ogden e Ramsey può essere considerata meno difettosa di quanto si potrebbe a prima vista pensare; traducendo in due maniere diver se unsinnig essa può aiutarci a mettere in dubbio l’assunzione in apparenza ovvia secondo cui «tutte le proposizioni che possono essere chiamate unsin nig hanno qualcosa in comune» e a riconoscere che «ci possono essere molte ragioni perché qualcosa sia unsinnig» (Kienzler 2011,9)31.
4. DA DOVE INIZIARE? Come abbiamo più volte ricordato, diverse e molteplici sono le vie che si aprono davanti a chi voglia entrare nel Tractatus e tentarne un’esposizio ne. Può sembrare che la via più ovvia sia quella che segue lo scandirsi delle sette proposizioni fondamentali, assecondando un percorso che va, per così dire, dal mondo: «Il mondo è tutto ciò che accade» (T, 1), al silenzio: «Su ciò di cui non si può parlare, si deve tacere» (T, 7). Tra l’altro, questa opzione aiuta a preservare quel tono quasi biblico che è stato da alcuni considerato caratteristico di un’opera che sembra quasi voler rievocare la storia biblica della creazione32.1 punti deboli di questa scelta sono però almeno due. Per un verso, essa rischia di dare per scontata, anche senza volerlo, quella lettura realista del Tractatus che, come sappiamo, è tutt’altro che pacifica; per un altro, corre anche il rischio di non tenere nel debito conto che, proprio negli anni in cui stava concependo il Tractatus, Wittgenstein aveva esplicitamente affermato che tutto il suo compito consisteva nello spiegare l’essenza della proposizione» (Q, 175 )33. In effetti, negli scritti pre-Tractatus è sempre dalla logica che Wittgenstein muove ed è solo all’interno della logica che emergo no le questioni che possiamo chiamare «ontologiche» o «metafisiche». Così, nelle Note sulla logica egli afferma che la filosofia consta di logica e di me
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tafisica, ma aggiunge anche subito che la prima è la sua base (NL, 245); allo stesso modo in un’annotazione già citata egli constata che il suo «lavoro si è esteso dai fondamenti della logica all’essenza del mondo» (Q, 225); in uno spirito simile, egli aveva scritto che spiegare l’essenza della proposizione equivale a «dare l’essenza di ogni essere», ossia a «dare l’essenza di tutti i fat ti la cui immagine è la proposizione» (Q, 175)34. In questo senso si potrebbe quasi dire che l’inizio del Tractatus è, almeno dal punto di vista degli scritti pre-Tractatus, una conclusione. Da dove iniziare allora? Dal mondo o dal linguaggio? Dall’ontologia o dalla logica (dall’essenza della proposizione)? Vi è modo di spiegare perché un trattato che si dichiara «logico-filosofico» si apra con quello che sembra un piccolo trattato di ontologia nel quale si parla di mondo, di fatti, di stati di cose, di oggetti, di realtà? Si può dare il giusto peso a questo inizio senza dover per questo riconoscere all’ontologia quel primato che le viene asse gnato dalle interpretazioni cosiddette «realiste»? E vi è modo di resistere alle interpretazioni «realiste» senza dover per questo fare del Wittgenstein del Tractatus un presunto «idealista» che considera il mondo come, per così dire, un mondo creato dalla logica a propria immagine e somiglianza?35 Lasciando in sospeso tutti questi interrogativi, può essere qui utile met tere in rilievo con due esempi come le classiche distinzioni tra ontologia, logica, etica, eccetera, mal si adattino al Tractatus. Il primo esempio riguarda il concetto di fatto. Come il lettore del Tractatus arriva ben presto a ricono scere, quello di fatto è un concetto, per così dire, trasversale. Ciò significa che, quando ci parla di fatti, il Tractatus ci sta già parlando di immagini perché le immagini, e quelle immagini che, come vedremo, sono i pensieri e le proposizioni, sono, a loro volta, fatti. Basti leggere l’una di seguito all’altra le propp. 2.101, 2.41 e 3.14b: «Noi ci facciamo immagini dei fatti»; «L’im magine è un fatto»; «Il segno proposizionale è un fatto». Detto solo un po’ diversamente: il Tractatus inizia con i fatti non perché essi vengano prima delle immagini, ma perché anche le immagini sono fatti e soprattutto perché confondere il fatto con la cosa non è diverso dal confondere la proposizione con la parola (vedi T, 3.143) o con «un miscuglio di parole» (T, 3.141a). Il secondo esempio riguarda quel concetto di mondo che compare nella prop. 1: «Il mondo è tutto ciò che accade». Ogni lettore del Trac tatus credo si sia, più prima che poi, domandato, come si era subito do
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mandato Frege (2011, 67), che peso e valore si possono dare a questa pri ma proposizione. Dobbiamo considerarla una definizione? E in questo caso, che tipo di definizione? Si tratta forse di una (mera) stipulazione? Oppure va essa trattata come parte o momento di una dottrina (o teoria) metafisica? E in questo caso, vale essa come principio o è il risultato di un’argomentazione che Wittgenstein avrebbe lasciata implicita?36 In ogni caso, ciò su cui qui merita insistere è la constatazione che negli scritti pre-Tractatus un’espressione molto vicina a «tutto ciò che accade» compare in un contesto che, più che come metafisico, può essere meglio caratterizzato come etico. Il riferimento è ai Diari segreti e, più in parti colare, a una annotazione del 25 agosto 1914, in cui Wittgenstein, dopo aver parlato della grande sofferenza provocatagli dal difficile rapporto con l’equipaggio della nave in cui è imbarcato e aver confessato di sen tirsi «del tutto solo e abbandonato», indica quella che gli appare come la sola via di uscita: «Solo una cosa è necessaria: essere capaci di osservare tutto ciò che ti accade {alles, was einem geschieht}. Concentrarsi! Dio mi aiuti!» (DS, 55). E così che il mondo del Tractatus entra per la prima vol ta in scena: come ciò che va osservato, non giudicato; come ciò a cui non va opposta alcuna resistenza e che va accettato in «assoluta passività» (DS, 55T7. Insomma, a quanto sembra, il mondo dell’ontologia è anche il mondo dell’etica.
NOTE 1 Tanto intenso che è stata usata per caratterizzarlo l’immagine della guerra (vedi Read e Lavery 2011). 2 La stessa espressione era stata utilizzata qualche mese prima in una lettera a Russell: «E l’unico esemplare corretto che possiedo [si tratta del manoscritto che, mentre era prigioniero di guerra a Cassino, aveva fatto inviare a Russell] ed è il lavoro di un’intera vita!» (L, 81). 31 vari testi che precedono e accompagnano la stesura del Tractatus mostrano chiaramente come il problema della logica e dello statuto delle proposizioni logiche fosse al centro dell’interesse di Wittgenstein. Il primo dei tre Quaderni 1914-1916 inizia con quella sentenza, «La logica deve curarsi di se stessa», che verrà ripresa nella prop. 5.473a del Tractatus (Q, 129); le Note dettate a G. E. Moore in Norvegia iniziano tracciando la differenza tra le proposizioni logiche, anzi «le cosiddette proposizioni logiche», e le vere e proprie proposizioni (NMN, 267); una distinzione, questa, che
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era già al centro delle precedenti Note sulla logica nelle quali si può leggere che «una spiegazione corretta delle proposizioni logiche deve dar loro una posizione speciale nei confronti di tutte le altre proposizioni» (NL, 245).
4 Gli altri pensatori nominati nel Tractatus sono Charles Darwin (una volta: 4.1122), Hertz (due volte: 4.04 e 6361), Kant (una volta: 6.36111), Fritz Mauthner (una volta: 4.0031), Moore (una volta: 5.541), Isaac Newton (due volte: 6.341 e 6.342), Alfred N. Whitehead (due volte: 5.252 e 5.452; in entrambi i casi come autore con Russell dei Principia Mathematica). 5 Secondo alcuni con le parole scelte per i suoi ringraziamenti («devo alle grandiose opere di Frege e ai lavori del mio amico Bertrand Russell gran parte dello stimolo ai miei pensieri» ) Wittgenstein avrebbe forse manifestato la sua preferenza per Frege. «Se con la scelta di queste parole egli intendeva sminuire Russell, non si sa» (Goldstein 1999,10).
6 Mentre l’atteggiamento di Wittgenstein nei confronti di Russell e, in particolare, della sua opera non strettamente logico-matematica divenne sempre più critico e stizzo so, la sua ammirazione nei confronti di Frege non venne mai meno (si veda, per esempio, Z, §712). Sull’importanza di Frege per il Tractatus si insiste in Anscombe (1966). In Diamond (1991) l’influenza di Frege su Wittgenstein è ampiamente valorizzata. 7 Per esempio, in Proops (2000, xviii) si sostiene non solo che, per comprendere il Tractatus, il confronto con Russell risulterebbe più rilevante che quello con Frege, ma anche che il Frege di Wittgenstein sarebbe un Frege visto attraverso le lenti di Russell: «la comprensione di Frege da parte di Wittgenstein sembra essere stata fortemente distorta dal suo apprendistato russelliano e, in particolare, dall’interpretazione altamente idiosincratica di Frege da parte di Russell, un’interpretazione che almeno in parte egli sembra aver trasmesso a Wittgenstein».
8 In effetti, Russell, a differenza di Frege, ha affrontato nei suoi scritti questioni etiche e religiose e ha scritto ampiamente sul misticismo e sul problema del valore. Va comunque sottolineato come Wittgenstein non apprezzasse per nulla questa parte degli scritti di Russell e come fosse stimolato solo dal Russell logico e matematico. 9 In due annotazioni, rispettivamente del 6 e del 7 giugno 1916, Wittgenstein sembra anticipare il problema e dichiararsi decisamente a favore di una lettura unitaria della sua opera: «Nell’ultimo mese ho avuto colossali strapazzi. Ho riflettuto a lungi su ogni cosa possibile, però stranamente non riesco a stabilire una connessione con i miei ragionamenti matematici. / Ma la connessione verrà stabilita! Ciò che non può dirsi, non può dirsi!» (DS, 115). Per una breve rassegna delle diverse posizioni al riguardo si veda Lazenby (2006,1-13 ).
10 Ma anche con Hertz, che come sappiamo è citato due volte nel Tractatus, e con Ludwig Boltzmann, che non è citato, ma che in una annotazione del 1931, su cui ri torneremo, è indicato al primo posto di una lista di coloro da cui Wittgenstein sarebbe stato influenzato (PD, 45). 11 Dopo un incontro con Wittgenstein in Olanda nel dicembre 1919, così Russell scriveva a Lady Ottoline Morrell: «Una certa aria di misticismo l’avevo già sentita nel suo libro, ma sono rimasto sconcertato nello scoprire che è diventato un mistico nel pieno senso del termine. Legge autori come Kierkegaard e Angelus Silesius e sta valutando seriamente l’idea di farsi monaco» (cit. in McGuinness 1990,416). Va comunque notato che, se era diventato un mistico, non lo era però diventato a scapito della logica. In una lettera di qualche giorno prima a Colette (Lady Constance Malleson), Russell infatti
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osservava, sempre riferendosi all’incontro olandese, che Wittgenstein «è lo stesso di sempre [...]. È invasato dalla logica al punto che riesce difficilissimo indurlo a parlare di cose personali» (cit. in McGuinness 1990,433).
12 Ricordo qui la Usta: Boltzmann, Hertz, Schopenhauer, Frege, Russell, Kraus, Loos, Weininger, Spengler, Sraffa (PD, 45). Se si escludono Spengler e Sraffa, tutti gli altri sono pensatori che hanno esercitato la loro influenza negli anni del Tractatus. In ciascuno di questi Wittgenstein avrebbe trovato «un corso di idee» che avrebbe «afferrato subito con passione per la sua opera di chiarificazione» (PD, 45). Si veda, al riguardo, Janik (2006). 13 Janik e Toulmin (1975) sono stati tra i primi ad aver insistito sulla necessità di non fare della «pubblicazione del Tractatus esclusivamente [...] un episodio nella storia della logica filosofica» e di non ridurre le sue sezioni finali «sull’etica, il valore e i ‘problemi della vita’» a «semplici imbonimenti, aggiunte, riflessioni personali». Per evitare tutto questo essi si impegnano a mostrare, contro quelli che erano stati i modi e le vicende della sua ricezione inglese, che l’autore del Tractatus era «un pensatore viennese i cui problemi intellettuali e atteggiamenti personali si erano formati nell’ambiente neo kantiano pre-1914, in cui la logica e l’etica erano essenzialmente legate l’una all’altra e alla critica del linguaggio (.Sprachkritik}» (19-20). Il rischio che essi corrono è quello di ridurre, a loro volta, il lavoro sulla logica di Wittgenstein a una semplice premessa o aggiunta. Per loro, insomma, Wittgenstein è decisamente più weiningeriano che russelliano. In questo senso, si può dire che la necessaria attenzione che essi dedicano «allo sfondo culturale e intellettuale del giovane Wittgenstein si concentra troppo sull’etico a spese del logico» (Lazenby 2006,7).
14 Faccio solo un esempio. Anche se non cita né il testo né il suo autore, è impossibile non considerare le annotazioni del 12 e del 15 ottobre 1916 come un confronto diretto (con il testo davanti) con Weininger e la sezione intitolata «Metafisica» del suo Delle cose ultime (1903). Scrive Weininger: «L’idea fondamentale e il presupposto primo del libro, la base sulla quale posa ‘tutto’ quel che segue, è la teoria dell’uomo come ‘micro cosmo’. Dato che l’uomo ha un rapporto con tutte le cose del mondo, occorre che tutte le cose siano già presenti in qualche modo in lui» (Weininger 1985, 172); acconsente Wittgenstein «E vero: l’uomo è il microcosmo. / Io sono il mio mondo» (Q, 230). 15 II passo è tratto da un’annotazione del 1931 nella quale Wittgenstein osserva che, se una cosa è significativa e importante, ciò che «rende difficilmente compren sibile [...] non è il fatto che per comprenderla occorrerebbe una qualsiasi istruzione particolare intorno a materie astruse, ma il contrasto fra il capire la cosa e ciò che la maggior parte degli uomini vuole vedere. Per questa via può divenire massimamente difficile da capire proprio ciò che è più naturale. Si deve superare una difficoltà della volontà, non dell’intelletto» (PD, 42-43). 16 «L’interpretazione idealista del Tractatus inverte quell’ordine di spiegazione [l’ordine delle interpretazioni realiste]: mette alla base la struttura del linguaggio e considera la struttura della realtà come un riflesso del linguaggio che usiamo per descriverla» (Child 2011, 56).
17 «Ho scritto un libro intitolato ‘Logisch-Philosophische Abhandlung’ contenente tutte le mie ricerche degli ultimi sei anni. Credo di aver risolto i nostri problemi defi nitivamente. Sembrerà arrogante ma non posso fare a meno di esserne convinto» (L, 79). Abhandlung significa trattato o trattazione.
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18 Sulla «storia, lunga e travagliata, della pubblicazione del Tractatus» si può vedere von Wright (1983, 97-142). 19 «Anche se ‘Tractatus logico-philosophicus’ non è ancora l’ideale, è all’incirca il significato esatto» (LO, 46). 20 McGuinness ritiene così evidenti le ragioni per cui Wittgenstein considerava quel titolo sbagliato da lasciare al lettore il facile compito di esplicitarle: «Il primo titolo a cui si pensò per la traduzione fu Philosophical Logic, che in effetti comparve negli annunci delle pubblicazioni di Kegan Paul. Sennonché, com’è facile compren dere, un titolo simile avrebbe annunciato l’esatto opposto del contenuto del libro» (McGuinness 1990, 445).
21 «Dedicato alla memoria del mio amico David H. Pinsent»; sui rapporti di Witt genstein con Pinsent si vedano McGuinness ( 1990) e Monk (2000) ; vedi anche Pinsent (1992) (si tratta del diario tenuto da Pinsent durante i suoi viaggi con Wittgenstein nel periodo 1912-1913). 22 «Motto: ... e tutto ciò che si sa, ciò che non si sia solo udito rumoreggiare e mormorare, può dirsi in tre parole. Kümberger» . Il motto è tratto dall’articolo «Das Denkmalsetzen in der Opposition» dello scrittore austriaco Ferdinand Kümberger (1821-1879) che comparve nell’autunno del 1873 nella Deutsche Zeitung. Sul signi ficato di questo motto e sulle ragioni che avrebbero spinto Wittgenstein a sceglierlo vedi Kienzler 2011.
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Si veda, al riguardo, Bazzocchi (2010).
24 Quello che «vediamo dal fatto che comprendiamo il senso del segno proposiziona le senza che quel senso ci sia spiegato» (T, 4. 02) è che «la proposizione è un’immagine della realtà [...] un modello della realtà quale noi la pensiamo» (T, 4.01). 25 L’etichetta proviene dal titolo The New Wittgenstein (Crary e Read 2000) di una raccolta di saggi in cui questo tipo di interpretazione è illustrata e difesa da alcuni dei suoi principali esponenti, a cominciare da Cora Diamond e James Conant (si veda, per esempio, Conant e Diamond 2010). In questi anni è enormemente cresciuta la letteratura critica al riguardo alimentata sia da coloro che hanno variamente difeso, precisato, raffinato questo quadro interpretativo sia da coloro che lo hanno varia mente criticato o, in foto o in parte, rigettato. Per una prima visione complessiva del dibattito si veda Tejedor (2015, 1-14) che offre anche tutte le principali indicazioni bibliografiche. 26 In realtà, nel corso degli anni la cornice, che all’inizio si riteneva che compren desse la Prefazione e le propp. 6.53,6.54 e 7, è stata variamente estesa e allargata fino a comprendere, secondo alcuni «neowittgensteiniani», alcune proposizioni che stanno nel corpo stesso dell’opera, come, le proposizioni s dedicate alla filosofia (per esempio, la prop. 3.32 e i suoi otto commenti). 27 Quella del Tractatus sarebbe, perciò, «una concezione austera del nonsenso» (Diamond 2000,153). 28 Vedi, al riguardo, Kienzler (2011, 7), nel quale si ricorda anche come nelle sue lettere a Ogden Wittgenstein insistesse sull’opportunità di usare parole di uso comune e della lingua quotidiana. L’opinione di Kienzler è che vi sia un legame tra questo atteggiamento di Wittgenstein e quello di Kraus il quale «vede la lingua che egli
Il Tractatus logico-philosophicus
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stesso usa come qualcosa di naturale e di vivo a cui deve rispondere e che va trattato con rispetto, qualcosa che deve usare con la massima cura e soprattutto nel modo più naturale possibile».
29 Si tratta della traduzione di Amedeo G. Conte; la prima traduzione italiana, una delle prime al mondo in assoluto, è però dovuta al padre gesuita G.C.M. Colombo (1954). 30 Con questo non si vuole né sostenere che questa fosse l’intenzione del traduttore né mi permetto di considerare fuorviarne, sulla base di queste sole considerazioni, ogni interpretazione esplicitamente mistica del Tractatus.
31 «Wittgenstein usa gli aggettivi sinnlos e unsinnig così come il sostantivo Unsinn in maniera piuttosto libera per mettere in evidenza localmente differenze importanti senza per questo mai avvicinarsi a un qualche genere di terminologia o di classificazioni di proposizioni» (Kienzler 2011, 9). 32 «Considera un’opera che è divisa in sette parti, che si apre con il mondo in quanto tale, il quale appare dal nulla, e che finisce con il ritrarsi e il silenzio del creatore dopo che tutto ciò che potrebbe essere fatto è stato fatto. Se le sette parti fossero i sette giorni del mito, questa potrebbe essere chiamata una storia della creazione o essere pensata in relazione alla storia della creazione nel primo capitolo di Genesi» (Friedländer 2001, 15 ). Questo tono quasi biblico del Tractatus era già stato notato da McGuinness ( 1990), 446, «il libro incomincia con una sorta di mito della creazione [...] e termina con un mistico invito al silenzio di fronte all’ineffabile che sa di teologia negativa». 33 Sull’importanza di questo compito Wittgenstein ritorna più volte; per esempio, in una lettera egli scrive a Russell che «solo [... ] una teoria corretta delle proposizioni» lo può far uscire da quel vicolo cieco in cui si è cacciato con la sua teoria del giudizio (L, 47). Wittgenstein si sta riferendo a un testo, Theory of Knowledge (Teoria della conoscenza), che Russell aveva iniziato a scrivere nel 1913 e che finì per abbandonare proprio in ragione delle obiezioni di Wittgenstein. Il testo fu pubblicato solo nel 1984 (vedi Russell 1996). 34 Wittgenstein riprende questo giro di pensieri nel Tractatus con alcune significative modifiche, in particolare sostituisce «spiegare» (erklären) con «dare» (angeben): «Dare l’essenza della proposizione è dare l’essenza di ogni descrizione, dunque l’essenza del mondo» (T, 5.4711). Si tratta di una considerazione che ritorna nelle Osservazioni filosofiche nelle quali si legge che «l’essenza del linguaggio è una immagine dell’essenza del mondo e la filosofia, come tutrice della grammatica, può cogliere effettivamente l’essenza del mondo; soltanto non entro enunciati del linguaggio, ma entro regole per quest’ultimo, che escludano combinazioni di segni insensate» (OF, §54) e che ricompare con le modifiche del caso, nelle Ricerche: «L’essenza è espressa nella grammatica» (RF, §371); «Che tipo di oggetto una cosa sia: questo dice la grammatica. (Teologia come grammatica)» (RF, §373). 35 Che il Tractatus possa essere così letto è riconosciuto criticamente dallo stesso Wittgenstein nelle Ricerche allorché suggerisce che, come tutti i dogmatici, anche l’autore del Tractatus aveva creduto «di star seguendo la natura», mentre in realtà non stava seguendo «che i contorni della forma attraverso cui la guardiamo» (RF, I, §114). 36
Vedi, al riguardo, Morris (2008, 21-24).
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37 «Ieri ho deciso di non opporre alcuna resistenza, di alleggerire per così dire la mia esteriorità, per lasciare indisturbata la mia interiorità» (D5,55); vedi anche DS, 55 «Ogni notte sto sul ponte di comando fino circa alle tre e mezza. Non ho ancora messo abbastanza in pratica il mio proponimento di una assoluta passività». Questa passività fa venire in mente quanto Wittgenstein dirà della filosofia, ossia che essa «lascia tutto così com’è» (RF, I, § 124c).
CAPITOLO
Il linguaggio e la sua logica
1. IL TRACTATUS COME OPERA FILOSOFICA Ciò che abbiamo detto nel capitolo precedente ci aiuta a capire quanto controversa sia l’idea stessa di introdurre al Tractatus se questo deve signifi care esporne, come si fa abitualmente per questo o quel testo della tradizio ne filosofica, la dottrina (le tesi in esso sostenute o le teorie in esso difese). Che cosa può infatti voler dire esporre un’opera di filosofia che esplicita mente assume che la filosofia «non è una dottrina, ma un’attività» che, a quanto pare, avrebbe come suo solo e unico scopo