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Italian Pages 200 Year 2000
GLI SCRITTORI Introduzione a
BERCHET di Alberto Cadioli
Editori Laterza
WITHDRAWN
From Toronto Public Library
LOGS GLI SCRITTORI ni
seo
1991, Gius. Laterza & Figli Pri
fetta,
1991,
BERCHET ALBERTO
CADIOLI
EDITORI LATERZA
Proprietà letteraria riservata
Gius. Laterza & Figli Spa, Roma-Bari Finito di stampare nel luglio 1991 nello stabilimento d’arti grafiche Gius. Laterza & Figli, Bari CL 20-3832-3 ISBN 88-420-3832-6
GIOVANNI BERCHET
ce | ina e
erCeostniza dA is die
I.
LA
FORMAZIONE
LETTERARIA
E LE
PRIME
PROVE
L’esordio letterario di Giovanni Berchet, nel 1807, con
la traduzione del Bardo di Thomas Gray!, riscuote l’attenzione di Ugo Foscolo, che, intellettuale di spicco della cultura milanese (nello stesso 1807 escono il carme Dei Sepolcri e l’Esperimento di traduzione dell'Iliade), ne parla sul «Gior-
nale della Società di Incoraggiamento» (tomo I, primo trimestre 1808, pp. 48-63), con annotazioni molto critiche ma
in fondo benevole. L’intervento di Foscolo doveva rassicurare il giovane traduttore nella non facile scelta di dedicarsi alla letteratura. La modesta condizione economica della famiglia Berchet aveva già costretto Giovanni (primogenito di Federico e Caterina Silvestri, nato a Milano il 23 dicembre 1783) ad
abbandonare gli studi, avviati dapprima privatamente (in particolare con l’abate Pietro Mazzucchelli, studioso di letteratura latina), e poi alle Scuole Arcimbolde (ancora sotto la
direzione dei Barnabiti), per impegnarsi nel negozio di «pannilana» del padre. Originario di Nantua (vicino a Ginevra), Federico Berchet è convinto della necessità che i figli, ! Le citazioni di Berchet sono tratte dalle Opere, nella edizione a c. di Egidio Bellorini (cfr. Bibliografia finale), indicate direttamente nel testo con la precisazione del volume e del numero di pagina. Le
citazioni da saggi su Berchet saranno riportate indicando l’autore e il numero di pagina, rimandando anche in questo caso le informazioni bibliografiche complete alla bibliografia finale.
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per condurre meglio l’attività commerciale cui sono destinati, si applichino più alle lingue moderne che alle antiche: Giovanni impara dunque presto il francese (tanto più utile nella Milano occupata dai soldati di Napoleone), l’inglese, il
tedesco. La conoscenza delle lingue moderne, tuttavia, pur solle-
citata da opportunità economiche, diventa un invito ad ampliare quegli interessi letterari che la cultura milanese, ricca in quegli anni di dibattiti e di polemiche, affidati alle pagine delle riviste o agli accoglienti salotti, offre quotidianamente all’attenzione. Morto nel 1799 Parini (del quale alcune infondate voci ottocentesche vorrebbero che Berchet fosse stato discepolo a Brera), i giovani poeti si confrontano con i nuovi modelli, che, in un clima del tutto differente, ne
hanno preso il posto: tra questi, Monti, additato come il maggior poeta vivente, e Foscolo, affascinante per le giovani generazioni sia per le sue opere (in particolare le Ultirze lettere di Jacopo Ortis) sia per la passione del suo impegno morale e civile. A suscitare ampia eco, non solo a Milano,
sono soprattutto le pur poche lezioni all’università di Pavia, tra il gennaio e il giugno del-1809, e in particolare la Prolusione
al corso
di eloquenza
italiana e latina (presto
soppresso).
Il giovane Berchet aspira a entrare nella società letteraria milanese, tentando primi versi sull’imitazione di Parini, Monti, Foscolo, echi dei quali sono evidenti nella sua prima prova conosciuta (ma non firmata): un Inzo pubblicato sen-
za data (ma del 1807 o di poco antecedente) dalla stamperia di Giovanni Giuseppe Destefanis in occasione delle nozze di Alberigo Rovida e di Cristina Forni (esiste per altro anche un precedente «bigliettino» di scuse indirizzato al padre, con esili versi riportati, con il titolo Versi infantili al padre, in Opere, I, p. 297).
L’inno Per le nozze di Alberigo Rovida e di Cristina Forni (I, p. 298) è un’emblematica testimonianza dell’educa-
zione letteraria ricevuta dai primi maestri. Nelle 35 strofe anacreontiche, di stampo settecentesco, — nelle quali si invoca Giunone, perché assista benigna alle nozze — ricorrono gli dei della mitologia (Giunone — chiamata anche Lucina,
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v. 9, e «samia
regina»,
v.
118 — e Giove,
che diventa
«l’Egioco» al v. 121), e continui latinismi e vocaboli della tradizione letteraria colta: «All’ara / già venne il pio garzo-
ne» (vv. 21-22); «O vergini, o fanciulli / scuotete la facella» (vv. 24-25); «ogni villan contento / la riverisce e cole» (vv. 57-58); e ancora: «piè», «ingenuitade», «fé». L’occasio-
ne delle nozze permette per altro sia l’utilizzo delle formule convenzionali della mitologia («o pronuba Giunon», v. 120) sia il ricorso a sentenze altrettanto convenzionali (en-
trate di diritto nelle ariette del melodramma:
«fiamma è
l'amor, se muore / non si raccende più», vv. 83-84). Nulla
di nuovo e di originale, nulla più di una dimostrazione di buona acquisizione delle letture scolastiche e della poesia del tempo, ricco di poeti estemporanei, capaci, in tutte le occasioni, di attingere a un repertorio consolidato, da esprimere appunto in anacreontiche (si pensi a Teresa Bandetti-
ni, l’Amarilli etrusca ammirata dagli stessi Parini e Monti), o con il ricorso alla mitologia (in un Epitalamio di Giovanni Fantoni, del 1804, ricorre il verso «Scendi, Imene-Imenèo», che in Berchet è invece «Dolce Imeneo risuoni, / Imene, Imene, Imen», vv. 75-76).
Nella debolezza poetica dell’insieme, è tuttavia possibile scorgere nell’Izzo (lo ha notato Cappuccio, pp. 2348-49) la preponderanza di un motivo morale che, per quanto da ricondurre alla suggestione di Parini nella denuncia della corruzione del tempo («Dille che, sorda agli usi / del secolo procace, / fugga chiunque audace / deriderà sua fé», vv. 93-96), rivela «un’espressione congeniale» a Berchet, ricorrente in tutta la sua successiva produzione. Probabilmente a questo periodo vanno ricondotte un’ode All'ulcera, che, per la sua palese volgarità e la sua evidente mancanza di poesia, gli editori berchettiani non
hanno mai ritenuto di pubblicare, e tre «ottave a rime obbli-
gate fatte un verso per ciascuno» (I, p. 303), con Giuseppe Taverna (1754-1833), studioso di letteratura inglese e tra-
duttore da Shakespeare, che non rivelano una particolare propensione poetica dello scrittore quanto il suo apprendistato letterario, con prove da ascrivere anche al gioco (in questo caso si trattava di rimanere fedeli, in ogni strofa, ad 5
otto
parole in fine verso:
«onestà»,
«Francia»,
«tre»,
«bontà»,
«fe»,
«sta»,
«fé»,
«mancia»).
Il nome di Berchet compare per la prima volta in pubblico nel frontespizio del volumetto di 30 pagine che ospita la traduzione del Bardo di Thomas Gray, corredato da una premessa (Giovanni Berchet al lettore), per più aspetti significativa. L'interesse per la poesia bardita (e più in generale «primitiva», sull'esempio dei Canti di Ossian, tradotti da Cesarotti) era diffuso nella cultura letteraria italiana del primo Ottocento, e lo stesso Berchet sottolinea la sua attrazione
per «l'originalità di quella letteratura ‘inglese’ che nacque da se sola, senza generazione greca o latina» (I, p. 305). Lo
stesso Vincenzo Monti, dovendo celebrare le imprese di Napoleone (che amava la poesia bardita), aveva scelto di introdurre l’ultimo superstite dei bardi (Ullino) nell’esaltazione dell’imperatore, pubblicando, nel 1806, i primi sei canti del Bardo della Selva Nera. Proprio al bardo di Monti, che, pur rimanendo incompiuto, permette al suo autore di ottenere il titolo di storiografo del regno (e di guadagnare una tabacchiera d’oro e duemila zecchini) guarda, inevitabil-
mente, vista la contiguità della vita culturale milanese, il giovane Berchet, contrapponendovi un altro bardo superstite, «di vera bardica schiatta, e quindi non garrulo [come
implicitamente veniva definito quello della Selva Nera, foggiato per encomio] ma pieno di maschia eloquenza» (I, p. 305). La scelta del testo di Gray, dunque, pienamente conso-
na alla cultura del tempo, si riveste di un significato politico e letterario insieme, tanto è vero che, chiudendo lo scritto
di presentazione, Berchet afferma esplicitamente di aver vinto «quel ribrezzo che ognuno sente nel pubblicare per la prima volta alcuna cosa sua», non per «istanza d’amici», non per «impulso di mecenati», non per «comando di persona autorevole», ma per «un certo desiderio di far partecipe [...] a chi non sa d'inglese il piacere da me provato alla lettura di questa classica poesia» (I, p. 306). Un piacere estetico e politico ad un tempo, che, prendendo le distanze dalla poesia encomiastica, si rivolge alla cultura inglese in 6
un momento di diffusa francofilia (tra l’altro Monti, nel Bardo, dileggiava «il fier Britanno», lodando il «bell’inganno/fatto all'Inglese insecutor schernito»). Nelle numerose note storiche che accompagnano il testo, alcuni
riferimenti
trascendono
la mera
informazione
sulla storia inglese: ad esempio la sottolineatura «Sentenza santissima!» a proposito della necessità che la buona fede «deve pur sempre ritenere la sua abitazione in cuor dei re» o la constatazione (con Machiavelli sullo sfondo) che Odoardo III, «dedito interamente all’armi, [...] aveva trascurate
quelle savie interne provvidenze che assai più delle conquiste possono rendere un regnante oggetto dell’amore de’ sudditi» (I, p. 316): situazione nella quale si sarebbe trovato lo
stesso imperatore Napoleone, nella sua smania di conquista. Il componimento di Gray si apre con l’invettiva di un bardo, l’ultimo rimasto, contro il «re crudele» Odoardo I, che, conquistato il Galles, aveva fatto trucidare tutti i bardi, perché, come commenta Berchet in nota, «non avendo altra
professione che quella di mantener vivo col canto l’onore insieme e l’ardor nazionale, erano da lui creduti sommamente nocivi alle sue mire di regno e d’oppressione». La figura del bardo (e la nota del traduttore) propongono, dunque, il valore di una poesia capace di operare nel corpo della nazione, secondo gli insegnamenti di Alfieri rivisitati da Foscolo, che infatti, nella recensione alla traduzione (ripubblicata nella edizione nazionale delle Opere di U. Foscolo, vol. VI, — Scritti letterari e politici dal 1796 al 1808, a c. di G. Gambarin — Le Monnier, Firenze 1972), sottolinea (ancora una volta in opposizione a molti letterati del suo tempo) che «più che per lo studio e per l’ingegno, T. Gray si meritò tanta fama per la nobiltà dell’anima sua, che schiva d’ogni adulazione consecrò i versi più alla nazione che alle fazioni del governo» (pp. 709-10). Per questo, forse, il poeta dei Sepolcri doveva sentire a sé vicino il giovane Berchet, cui rende «grazie [...] per l’ottimo intento di addomesticare gl’italiani con questo esemplare di lirica sublime», e del quale sottolinea il «gusto, di cui ci ha dato saggio [...] nella scelta di questo componimento» (ivi, p. 713 e p. 714).
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«La storia liricamente esposta de’ Regni d'Inghilterra» (è ancora Foscolo), presenta, attraverso le profezie del bardo, le azioni delittuose dei successori di Odoardo, fino a Riccardo III, e poi la lode dei sovrani Tudor e della regina Elisabetta, a sua volta celebrata da Berchet nelle note, perché «dedita interamente a far fiorir lo Stato», e perché, sotto il suo Re-
gno, «l'umano sapere si sviluppò sommamente fra gli inglesi» e «sulle scene spaventava i malvagi e migliorava i costumi la tragica musa di Shakespeare» (I, p. 320). La condanna dei tiranni sembra assumere toni più serrati nella traduzione italiana, che si può avvalere, nella riproduzione delle visioni di Gray, della tradizione della settecentesca poesia di «visioni» di Alfonso Varano, da cui aveva ampiamente attinto lo stesso Vincenzo Monti, e della «divulgazione» ossianesca di Melchiorre Cesarotti. Ma in Berchet si incomincia a manifestare, fin da questo testo, la contraddizione, che segnerà per sempre la sua opera, tra la necessità di una comunicazione (soprattutto di natura politico-morale) e
le ragioni della forma. Rivolgendosi al lettore, nella premessa alla traduzione, 'Berchet scrive dunque che, se da un lato ha cercato con il verso sciolto («l’unico adatto a tal uopo»), non il «languore» (I, p. 305), ma una «maggiore fedeltà»,
dall’altro desidera «dal fondo del cuore a Tommaso Gray un ingegno amante del bello, che regali l’Italia di una traduzione del suo Bardo, e lo rifaccia così de’ torti dei quali io per avventura mi sarò fatto reo innanzi a lui» (I, p. 306).
Il giudizio di Foscolo, molto duro sia sulla resa poetica («ci duole di non poterle dar lode di armonia e di splendore [...] se non intendea di darci che il significato delle nude parole, come pare da’ suoi versi, doveva piuttosto volgarizzarlo in prosa schietta», op. cit., p. 713), sia sullo stile della prosa delle note (in base al quale Berchet «non pare nutrito sempre di buone letture», poiché confonde «armistizio per tregua», «armata per esercito», «risorse, e sì fatti gallicismi», ivi, p. 715), riconosce invece la «fedeltà» della traduzione. Se la prosa delle note tradisce studi poco approfonditi, la versificazione della traduzione è «di maniera»: e tuttavia nonsi può non cogliere che, accanto a latinismi e a stilemi della tradizione, si introduce un lessico più comune, antici-
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pazione di una ricorrente oscillazione dal registro della convenzione letteraria a quello della lingua più comune. Può essere significativo notare che i passi della traduzione di Berchet confrontati da Foscolo con i corrispondenti della traduzione del Bardo dell’abate Angelo Dalmistro (pubblicata a Venezia, dalla stamperia Valvasense, nel 1792
e giudicata superiore a quella berchettiana: di questo parere sarà più tardi anche De Sanctis), rivelano, in alcuni punti, una scelta lessicale e sintattica meno convenzionale: Berchet traduce sempre «lancia», mentre Dalmistro usa «asta», Berchet scrive «O voi di Giulio torri / Infamia eterna in Londra!» (così Foscolo, ma l’esclamativo non c’è nel testo di Berchet), mentre Dalmistro «O Giulie torri, / O del real
Tamigi onta perenne» (vv. 113-114). Queste scelte non significano, per altro, una già consapevole e ricercata oppo-
sizione al Neoclassicismo imperante, quanto piuttosto, forse, la ricerca della fedeltà, anche a costo di sacrificare lo
stile richiesto dalle convenzioni del tempo (e di questo non poteva non accorgersi il «neoclassico» Foscolo). La benevolenza accordata da Foscolo al giovane traduttore, nonostante
le circostanziate e severe critiche, agisce
comunque positivamente, favorendo il riconoscimento di Berchet nella società letteraria. Anzi, l’epistolario di Foscolo rivela, negli anni successivi, una consuetudine tra i due: «Amico carissimo [...]}. Domenica dunque sarò da voi con Berchet, Maurino e mio marito», scrive a Foscolo, il 19
maggio 1809, Maddalena Bignami; e il marito Paolo, il 5 giugno dello stesso anno: «Caro Foscolo Ho avuto da Berchet e Pecchio ottime nuove della tua salute» (U. Foscolo, Epistolario, vol. III, a c. di P. Carli, Le Monnier, Firenze
1953, p. 184 e p. 201).
La cerchia degli amici, che comprende alcune figure di spicco tra gli intellettuali milanesi, prima fra tutte quella del pittore Giuseppe Bossi, si allarga. Tra gli amici c'è Carlo Porta, come testimoniano alcuni riferimenti a Berchet
nelle lettere (una in versi) indirizzate a Porta da Giuseppe Mauri (del 21 agosto e del 4 settembre 1808: cfr. C. Salvio-
ni, Lettere di Tommaso Grossi e di altri amici a Carlo Porta, in «Giornale storico della Letteratura italiana», fasc.
9
110-111, 1901, pp. 328-30) e una lettera indirizzata a Porta
proprio da Berchet, il 26 aprile 1810, nella quale si plaude al «gloriosissitno S.r poeta, coronato dagli applausi universali», con tutta probabilità alludendo (come sostiene Bezzola, in Vita di Carlo Porta, Rizzoli, Milano
1972, p. 80) al
successo del Brindes, prima pubblicazione a stampa del Porta. : Anche in questo caso, peraltro, è possibile rilevare che Berchet sta sempre con chi si oppone alla poesia di Monti, se si considera che, al Brindes de Meneghin all'ostaria. Ditiramb per el matrimonni de S.° M.° L’Imperator Napoleon con. Maria Luisa Arziduchessa d'Austria, scritto in occasione del-
le nozze dell'Imperatore, si contrappone il testo montiano Jerogamia di Creta. Anche le nuove amicizie sono dunque di incoraggiamento per Berchet, che dà presto alle stampe la satira I funerali (Cairo e compagno, Milano 1808), e il poemetto Arzzore (ivi
1809), e assume il compito di tradurre dall’inglese e forse dal tedesco, per una collezione di romanzi stranieri moderni appena avviata a Milano. Era anche questo un modo per cercare di sciogliersi dalla condizione di chi, per le modeste origini, è costretto, abbandonati gli studi, a lavorare come
commerciante nell’azienda di famiglia, diviso tra le incombenze del negozio e le aspirazioni a un diverso status: quello del letterato «autonomo». Ma la figura dell’intellettuale dedito alla sola scrittura è comunque tramontata già con la Rivoluzione francese (vi sopravvive solo Monti) e si instaura un nuovo rapporto tra
scrittori e società. Nella Milano gli impegni «civili» degli ultimi rati che non vivono di rendita impiego salariato: Porta lavora
di Napoleone, venuti meno anni del Settecento, i lettepropria sono costretti a un all'Ufficio di Liquidazione
del Debito Pubblico, il giovane Borsieri (laureato con Ro-
magnosi e molto amico di Foscolo) ricopre un Ministero di giustizia. Non si trattava, tuttavia, commerciali: proprio da questi, così estranei al letterati, vuole liberarsi Berchet, alla soglia degli magari con traduzioni, per giunta senza firma, contemporanei.
impiego al di impegni mondo dei anni Dieci, di romanzi i
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II.
L’ESPERIENZA
In epigrafe ai Furerali sono Orazio,
NEOCLASSICA
collocati alcuni versi di
dalla quinta satira del libro secondo,
che, sotto
forma di insegnamento didascalico (invita a reprimere la gioia del successo mostrando un volto contrito e piangente, e ad innalzare, se possibile, senza badare a spese, un sepolcro, così che il vicinato loderà un funerale solenne) denun-
cia la pratica di carpir testamenti. Citando il poeta latino Berchet indica un primo riferimento per il suo testo (esplicitamente definito «satira»), ma gli antecedenti più immediati sono da ricercarsi nei versi di Parini e nei Sepolcri. Dopo una prima descrizione del culto dei morti in un’antica età dell’«innocenza», quando «Poca terra, poca erba e pochi fiori» (v. 1) (sui quali piangono la «fedel consorte» e i «mesti figli») costituivano «la tomba agli avi / nostri diletta» (vv. 10-11), si denuncia la corruzione «de’ secoli
più guasti» (e della «stolta cittade»), nei quali trionfano «le finte / colonne e gli archi e i serici trapunti» (vv. 12-13). Il poeta, considerando amaramente che «tutto volve il tempo e tutto cangia» (v. 39), e che «le bell’opre dell’antica etade» (v. 40) sono ormai «argomento sol d’eleghi dolenti / a’ disdegnosi pochi» (vv. 42-43), estranei ai costumi del
loro tempo, presenta la morte di un ricco signore, Cratero, desiderata da tempo con ansia dall’«ignavo erede» (ma «le Parche gravi, / sorde alle preci, di troncar lo stame / non si fùr ose; e l’increscevol vita / ebbe quel corso ch'era in ciel prefisso», vv. 59-62). La morte di Cratero dà il via a convenzionali cerimonie: la commissione di un «gran mausoleo» ad un architetto («Di Vitruvio e Palladio al buon alunno», v. 85), la cui
opera farà discutere a lungo; la composizione encomiastica del «vate esperto» che «I molti [...] / aurei segni racconta, ingombratori / del vasto petto del defunto, e come / sotto lucide spoglie immacolati / della mente i segreti e acuto il senno / e ’l saver sì profondo egli serbava» (vv. 143-148); ‘il va’ e vieni intorno al feretro di «un ordin lungo / di negri sacerdoti e bianchi e bigi» (vv. 178-179); l’accorrere della 11
«plebe» «che densa in su la soglia s ’arrabatta / del desiato tempio» (vv. 206-207); «il variato e dolce / modular delle
tibie, e il lezioso / degli immani evirati eterno trillo» (vv. 212-214). Tuttavia, aggiunge Berchet, non c'è pietà in queste cerimonie; «neppure una lagrima, un sospiro / accompagna il defunto» (vv. 215-216): anzi, il morto è maledetto,
vuoi dai contadini per la sua rapacità e prepotenza, vuoi dalla fanciulla che, strappata alla casa materna e diventata sua amante, è stata poi miseramente abbandonata. Le imprecazioni si alternano così all’«inutil salmeggiar dei sacerdoti», mentre l’erede, «allegro», pesca negli «scrigni», pronto a godere di quanto ha ricevuto («e l’oro infame / largo con Bacco e Citerea divide», vv. 265-266).
Le denuncia di Berchet ripropone il tema della decadenza dei valori, fopos,ampiamente affermato (lo si trova ad esempio nel giovane Manzoni dei versi In morte di Carlo Imbonati, del 1806), dopo le invettive di Alfieri e Parini.
Ma al primo, più che al secondo, va forse ricondotta l’aspra condanna
morale
dei versi berchettiani
dei Furerali,
nei
quali è assente il distacco ironico. Il forte sentire morale di-Berchet si traduce in una scrittura di stampo classicistico, nella quale si intravvedono le letture scolastiche e quelle di moda, e soprattutto la recente lezione foscoliana (a partire dalla concezione vichia-
na del ruolo assegnato ai poeti: «ardenti vati dalle muse eletti / a far miti gli umani», vv. 29-30). Dovendo presenta-
re, dopo la traduzione, le sue credenziali di poeta, Berchet sceglie le forme più convenzionali, sia nelle immagini («in mille guise intorno / vedi l’arti sudanti a far lor prove», vv. 88-89) e nelle figure mitologiche introdotte («Siccome un dì per punimento atroce / di Cerere divina [...] estenuato / piangeva di fame (miserando obbietto) / per i tessali campi Erisittone»,_vv. 152-157), sia nella scelta del lessico e della costruzione sintattica. Testimonianza di una scarsa vena poetica (confermata da ein quasi sempre banale nel riproporre accostamenti consueti), I furerali sono invece l’esempio di una esercitazione secondo imodelli più in uso nella cultura italiana (e milanese in particolare) dei primi dell'Ottocento. 12
Nella stessa direzione si muovono anche i 504 endecasillabi
sciolti del «Poemetto» (così il sottotitolo) Arzore, introdotti
da tre versi in epigrafe, in inglese, dalla tragedia Cato di
Addison («Vorrei conosceste dall'anima mia che cosa voglia
dire amare»), ma soprattutto da alcune righe in prosa rivolte esplicitamente al lettore, invitandolo a considerare che «la satira è indirizzata a ferire i costumi in generale della città».
L’esplicito riferimento al genere letterario introduce il lettore all'insegnamento morale affidato ai successivi versi: «Se tu ravvisi te stesso nelle pitture di questo breve componimento, non l’autore, ma la tua coscienza ne incolpa» (I, p. 329).
Anche in Azzore, alla condizione felice di chi vive onestamente in campagna si contrappone la corruzione dei costumi delle città, dove l’amore è ormai sacrificato alla lussu-
ria o alla ricerca di una ricca dote. Si tratta di motivi riconducibili a topo: diffusi nella tradizione letteraria, non solo tra Settecento e Ottocento (si veda la dichiarazione dei primi versi «A chi ben scerne, / quanto non piace un solitario albergo / e lontana dal fasto umile vita!», vv. 8-10): la «rustica pace» e la vita del «villan», che «canta intenerito, e gode / del sorriso de’ campi e della pace / che gli infiora i vigneti e la convalle» (vv. 22-24), felice per la «cara fami-
gliuola» e per la fedeltà della sposa («All’illibato / letto non giunge nella notte il passo / d’insidiatore adultero», vv. 33-35) sono moralmente distanti dalla città dove «invano i moribondi lumi /sospireranno un dì pianto amoroso» (vv. 41-42).
La corruzione è presentata attraverso figure di donne pronte a tutto per soddisfare la passione: con un'immagine insolita, nella sua crudezza, Berchet trascrive «un sussurro di vulgo» secondo il quale «il vigoroso / mozzo anch'egli s’udì fuor della stalla / chiamar di notte da voce sommessa» (vv. 194-196), trovandosi di fronte, «esterreffatto», «del signor suo / la discinta mogliera, che, l’ignudo / candor del collo e del bel petto offrendo, / d’auro e di baci liberale, a lui / una parte chiedea del fedo letto» (vv. 201-204). Elvi-
ra, Licinia, Virginia, Eugenia (onorata e pura, impazzisce
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d’amore dopo essere stata abbandonata dal promesso sposo che, «Avaro, per più ricca / una dote mercar, lasciolla il crudo», vv. 309-310), Cornelia vivono solo in funzione del-
l'insegnamento morale dettato dalle loro vicende: «virtù, pudore, / nomi son vani; necessario inganno / alla imbecille plebe ineducata» (vv. 252-253). La più consapevole tecnica dei versi di Amzore — da ricondurre ancora sotto il segno della fredda composizione, non rivelandosi nemmeno in questo lungo testo una tensio-
ne poetica originale — si avvale della piena acquisizione dello stile di Foscolo, punto di riferimento, anche sul piano dell'amicizia. Agli echi foscoliani che circolano nei versi dei Funerali, si aggiungono ora richiami più diretti, come rivelano l’invocazione
a Parini
(vv: 205-211:
«Deh
perché le
sacrate ossa sotterra / dormon del buon Parini, ed evolava / quella fiammella di celeste ingegno? / O caro padre mio, mira siccome / cotesta patria tua fatta è più turpe / da che tu l'hai per sempre abbandonata!») o «il nome tuo / fia lagrimato» (vv. 334-335). E al Foscolo dei Sepolcri andrà ricondotta una nota di Amore: «Sieguo la dottrina delle due Veneri», distinguendo
tra la «Venere santa» e la Venere «popolare» (così la nota, citando Platone e Pausania). Ma se nei versi ricorrono il rimando e la citazione implicita di altri autori, anche del passato; da Virgilio a Petrarca (in particolare nei vv. 316-323:
«Allor che in terra / né voce una s’udiva, i più
romiti / campi cercava a passi incerti e lenti / sotto i silenzi della luna. A lei / patetico cantando inno amoroso, / protendeva le palme. E quel notturno / astro fu visto impietosirsi, e il raggio / più languido mandar sull’infelice»), o di autori stranieri, come Cervantes nel Dorn Chisciotte (si introduce «il cavalier di Spagna» e «Dulcinea bellissima»), è
nelle note aggiunte da Berchet che si svela soprattutto l’esercizio letterario cui anche questo poemetto va ascritto. Le 17 note, infatti, più che per ragioni informative e storiche (come nel caso della traduzione del Bardo) sono qui introdotte
con intento di erudizione sia per commentare alcune affermazioni (ad esempio quella sull’infedeltà di Penelope) sia
per aggiungere argomentazioni dotte, tratte soprattutto da-
14
gli scrittori antichi più conosciuti (Virgilio, Lucrezio, Giovenale, Tibullo, Ovidio, Plinio, in ambito latino: e Omero, Platone, Pausania, Esiodo, Plutarco, in quello greco), secon-
do l’uso (ben più ampio, peraltro) dello stesso Foscolo nella Chioma di Berenice. Le citazioni moderne sono dunque sopraffatte da quelle antiche, a riprova della consonanza di Berchet con le convenzioni dominanti nell’età del Neoclassicismo. Anche in questo caso il testo si fonda sulle immagini, sul lessico, sulla sintassi, della tradizione (pur con scelte discutibili,
come il verso 273: «ponvi i trepidi visceri in gavazzo»), muovendosi in direzione, appunto, dell’esercizio letterario; un esempio, marginale ma significativo, è il ricorrere dei «giacinti» sia nei Furerali («funerei giacinti», v. 5), sia in Amore («irrorati / cresceranno di pio latte i giacinti», vv. 336-337), dove il «pio latte» è giustificato, alla nota 9, da una citazione da Virgilio. Per la stessa ragione sono intro-
dotte le figure mitologiche: da «Giuno» alle «Grazie», dalle «Pimplee» ad «Apollo», da «Tisbe» a «Epimeteo». Anche in questa direzione, dunque, si rivela che Berchet è ampiamente partecipe della cultura del primo decennio dell'Ottocento, pure quando conferma quel sentimento antifrancese già introdotto con I/ bardo: «quella che a mille il dì cangia gli aspetti / inclita dea, la Moda, e che gl’incensi / fin dalla Senna a delibar discende / d’Italia mia che a lei s'è prostituta» (vv. 231-234); e andranno qui ritrovati, di nuovo, oltre ai versi del Parini (sia quelli dialettali contro la
moda francese sia quelli contro il «vestire alla ghigliottina»), le spinte antifrancesi diffuse da Foscolo nella cultura
milanese. Affermando dunque, contro la dissoluzione morale della società, il valore dell'amore coniugale e fedele, Berchet in Amore adotta il punto di vista della satira di Parini e la lingua di Foscolo, e scrive: «E me, che i tempi e della patria il lezzo / non han guasto del tutto, ir non vedrai /
plauso mercando nell’error comune, / né la fronte bruttar
d’invereconda / esultanza, o Filandro: e bella speme / a me sorride di miglior costumi» (vv. 448-453).
Pur privi di interesse sul piano della qualità letteraria, I 15
funerali e Amore sono dunque importanti soprattutto perché contribuiscono a rimuovere un’idea troppe volte acriticamente ripetuta: quella di Berchet poeta ingenuo e popolare,
rude perché spontaneo e poco preparato. Le prime prove, proprio perché «esercitazioni» che rivelano più il manierista che il poeta, indicano invece un’attenzione per la «letterarietà», per quanto convenzionale e neoclassica, con la quale, comunque, anche il Berchet maturo dovrà fare i
conti.
III.
L'INSERIMENTO
NELLA
SOCIETÀ
LETTERARIA
MILANESE
A differenza di altri giovani letterati (tra i quali Pietro Borsieri e i fratelli Luigi e Silvio Pellico), impegnati nell’attività pubblicistica, in particolare sotto la guida di Foscolo, assiduo collaboratore, tra il 1810 e il 1811, alla redazione degli «Annali di Scienze e Lettere», Berchet, forse anche
per gli impegni di lavoro famigliari, preferisce agli interventi teorici e critici del dibattito culturale e letterario, la poesia o la traduzione. La conoscenza delle lingue straniere, non così comune, almeno per quanto riguarda l’inglese e il tedesco, nell’Italia del primo Ottocento, offriva la possibilità di nuove esperienze: forse aspirando a un ulteriore inserimento nella società letteraria, più che a un cambiamento di status, Berchet colla-
bora alla collezione di romanzi moderni aperta nel 1809 dall’editore milanese Giuseppe Destefanis. Sfortunatamente
non è mai stato trovato,
almeno
nel
corso del Novecento, nessun esemplare della collana di Destefanis con le traduzioni attribuite a Berchet (che non le aveva firmate), così che è difficile stabilire con esattezza
quali e quante siano dovute a lui, se si eccettua quella del Vicario di Wakefield, dell'inglese Oliver Goldsmith, che è espressamente ricordata tra le opere dello scrittore in un breve profilo («premessa dell’editore») che introduce alcuni
versi sullo «Spettatore» del 30 novembre 16
1815: «Il sig.
Giovanni Berchet, milanese, autore de’ Funerali, dell’Amz0re, delle versioni del Bardo e del Vicario di Wakefield [...]».
Una tradizione critica ampiamente diffusa nell'Ottocento — ma non controllabile — assegnerebbe a Berchet anche la traduzione del breve romanzo di Schiller I/ Visionario, che
tuttavia non è ricordato nella bibliografia dello «Spettatore» appena citata (ma è pur vero che il silenzio potrebbe essere dettato da una selezione di titoli o da una richiesta dello stesso Berchet insoddisfatto della traduzione, ancora comunque ripubblicata nel Novecento dall’attenta germanista Lavinia Mazzucchetti).
Secondo il curatore della prima
raccolta di Opere edite e inedite di Berchet, Francesco Cusani, allo scrittore andrebbe assegnata anche una successiva (ma altrettanto incontrollabile) traduzione del Té/émaque di
Fénelon. L’interesse di Berchet per la letteratura moderna esce comunque rafforzato, tanto più se si dà credito a una pagina di Guido Mazzoni, che, nel suo L’Ottocento (Vallardi, Mila-
no 1913, pp. 139-40), scrive che Berchet «allogò in una raccolta di romanzi [...] I/- Vistonario dello Schiller e I/ Curato (sic) di Wakefield del Goldsmith, posponendovi, in un Commiato del traduttore, notevoli osservazioni». Il
«commiato»
è presente solo nell’edizione Destefanis (che
evidentemente Mazzoni aveva visto), scomparsa nel nulla, nei misteri (e nei meandri) del mercato librario. Nella cita-
zione riportata da Mazzoni si trova una riflessione sul romanzo moderno, genere ancora al bando della cultura letteraria tradizionale
(e lo sarebbe stato ancora
per molto):
Vorrei che da questo avessero tolto esempio coloro che inondano di romanzi l’Europa; anzi che disperare quotidianamente i buoni proponendo modelli d’una virtù non umana, tutta sognata dalla mente, ma non sentita dal cuore mai, e che nessuno imiterà; perché non s’imita ciò che non si crede, né si crede ciò che non è
verosimile. E quello che è peggio, non vedrei quei tristi solleticare i cattivi e pervertire gli inesperti, calcando ogni pudore, o vestendo d’amabili panni il vizio ed adornandolo d’un sorriso.
Così Berchet, stando alla citazione di Mazzoni, cui segue un commento che aggiunge altre informazioni: «I ro17
manzi potrebbero fare un gran bene e non lo fanno: qui il Berchet prenunziava con virtù critica la riforma manzoniana; ed anche per la lingua, egli che affermava voler scrivere in una lingua che fosse vivente, è precursore del Manzoni». Non è possibile, si è detto, un controllo testuale e occorre fidarsi (o non) delle parole di Mazzoni: la citazione pro-
pone un’indubbia attenzione al genere romanzesco nella cultura italiana del primo Ottocento, già per altro presente nelle pagine di Foscolo, che nella Prolusione al suo corso pavese, letta il 22 gennaio 1809 e notissima ancorché inedita, aveva denunciato il cattivo uso del romanzo, suggerendone la funzione «pedagogica»: «indarno il Viaggio d’Anacarsi ci porge luminosissimo specchio quanto possa un roman-
zo senza taccia di menzogna iniziare i men dotti nel santuario della storica filosofia» e, pensando forse al zovel inglese, cioè al romanzo di «vita contemporanea» cui appartiene
anche I/ vicario di Wakefield, aggiungeva:
«la letteratura
deve, se non altro, nutrire le meno nocive [passioni], dipin-
gere le opinioni, gli usi e le sembianze de’ giorni presenti, ed ammaestrare con la storia delle famiglie» (U. Foscolo, Dell'origine e dell'ufficio della letteratura, in U. Foscolo, Lezioni, articoli di critica e di polemica, 1809-1811, a c. di E. Santini, vol. VII dell’ed. naz. delle Opere, Le Monnier,
Firenze 1972, p. 35). Ma occorre fermarsi qui, non potendo trovare precisi riscontri. La traduzione del Vicario di Wakefield, del 1810, più che per la versione della prosa assume una particolare importanza per l’esercizio poetico di Berchet, che si misura con i versi affidati a una «ballata», a un’«elegia», a un’«arietta patetica», rispettivamente dei capitoli VIII, XVII, XXIV del romanzo. In particolare nel testo della ballata, di 255 versi, Ber-
chet sceglie di utilizzare una struttura polimetrica, che lo porta al continuo trapasso dal verso libero all’uso vario di quinari, settenari, ottonari, fino al decasillabo, introducen-
do ariette di chiaro stampo settecentesco e terzine in endecasillabi. Il risultato è segnato dalla confusione dello stile, tanto più che le scelte, poco giustificate, sono anche poco equilibrate, e il racconto dell’ospitalità data da un romito a 18
un pellegrino (cui segue l’agnizione finale con la scoperta che il pellegrino è una fanciulla e Edevino, il romito, è il suo innamorato da tempo fuggito per sottrarsi alla delusione amorosa) è continuamente interrotto dal cambio di registro stilistico. L’impressione è ancora quella dell’esercitazione poetica, del cimento con forme diverse, della prova di metri e rime,
per cui negli stessi versi liberi ricorre ampiamente la rima, anche a costo di soluzioni poco felici: «— Gufrdati ben: la ria / non tentar tenebria» (vv. 10-11), dove per altro anche
l’allitterazione «ten» o la ripetizione contigua di gruppi sillabici inizianti per «t» («ten» «tar» «ten») rivela che la scrit-
tura poetica, per quanto fredda e nel complesso poco riuscita, non è comunque affidata alla spontaneità. Anche questa versione, dunque, andrà ascritta alla «preparazione» poetica berchettiana, così come la scelta, per altro del tutto minori-
taria, di immagini «quotidiane», introdotte da una lingua non aulica (si tratta, del resto, di una versione inserita in un romanzo): «Facile lo sportello, / schiuso all’alzar del sali-
scendi» (vv. 55-56); «Allegro canta il grillo / dal focolare» (vv. 75-76).
In Edevino e nelle altre traduzioni poetiche dal Vicario (le terzine dell’Elegia in morte di un cane arrabbiato — nelle quali si racconta di un cane che muore dopo aver morso il padrone — e le due sestine di ottonari dell’Arietta patetica, che riflette sul caso della «sedotta giovinetta», abbandonata dallo «spietato amante») si introduce il carattere melodrammatico che, dal Settecento, si prolunga nell’Ottocento sia
sulle scene sia nella poesia dalle aspirazioni «popolari» (destinata cioè a un pubblico vasto). In particolare, in Edevino,
troviamo quel «cantabile» sul quale si fonda la fortuna del melodramma italiano: «Deh cara, volgiti / al tuo diletto! / Lasciati stringere, / cara, al mio petto. / Ecco cessarono / le acerbe pene; / ecco, amor rendemi / a te, mio bene» (vv. 230-237), avrebbero potuto essere cantate nelle ariette di
tanti spettacoli melodrammatici. Così come avrebbero potuto essere cantate (ma non era questo l’intento di Goldsmith e infatti le prime traduzioni francesi rendono la ballata in prosa) le strofette finali: «Vivremo amandoci / uniti, o bella.
19
/ Mai da quest’anima / sarà ch'io svella / la dolce immagine / del tuo sembiante: / né fia che tolgati, / vergin vezzosa, / al fido amante / veruna cosa. / E porrà fine, / cara, così / un sol sospiro / ai nostri dì» (vv. 242-255). È, in fondo, l’affermazione, implicita, del «primato dell’ascoltatore» sul «critico», del quale Berchet si fa sostenito-
re in una nuova pubblicazione che porta il suo nome, la Lettera sul dramma «Demetrio e Polibio» cantato nel Teatro Carcano, pubblicata nel 1813, a Milano, dallo stampatore Pirotta, in un momento di acceso dibattito tra «melodisti» e «armonisti», «italianizzanti» e «tedeschizzanti».
Nell’agosto del 1810, lasciato il lavoro dell’azienda paterna, Berchet ottiene un impiego, come secondo commesso dell’ufficio di amministrazione, nella cancelleria del Senato del Regno italico. L’anno successivo compie un viaggio a
Firenze e a Roma, probabilmente in seguito a una delusione amorosa
(ne sarebbe testimonianza
una lettera da Firenze,
del 19 maggio 1811, indirizzata all'amico Felice Bellotti — è raccolta nel volume edito da Cusani —, nella quale, scriven-
do di star bene, aggiunge: «Veggo pur troppo che invano fugge il cervo dal cacciatore, se porta seco infissa nel fianco la saetta», Cusani,
p. 451). Visita ovviamente
S. Croce,
commentando nella lettera «né ti so dire quanta sia la riverenza che quel luogo sacro ispira» (ivi, p. 450), e raccoglien-
do un motto circolante a Firenze a proposito della statua del Canova raffigurante l’Italia: «Questa volta Canova l’ha sbagliata / Sculse Italia vestita, ed è spogliata» (ibid.). Niente di più, se non la testimonianza di und sempre presente attenzione per le misere condizioni italiane. Un accenno alla «Cloaca Massima» (Parigi) da ricondurre più che a Foscolo (come annota Cusani) ad Alfieri, rivela che anche Berchet conosceva la Vit, che, come scrive Ludovico Di Breme in
una lettera-del luglio 1808 all’abate di Caluso, «è letta segretamente in Milano e letta in stampa» e nella quale (è sempre Di Breme) è «bestemmiata (com'è ragionè che lo debba essere) la C/oaca Massima» (in L. Di Breme, Lettere, a c. di P. Camporesi, Einaudi, Torino 1966, p. 48), o
quantomeno documenta che l’espressione alfieriana si è ormai diffusa e consolidata nel mondo intellettuale milanese. 20
La nuova condizione di impiegato permette a Berchet di dedicarsi con maggior assiduità alla vita culturale (soprattutto con gli amici Bossi, Bellotti, a volte il Porta), e specialmente a quella che si svolge nelle sale dei teatri, alla Scala in primo luogo, vero «salotto della città», come afferma Stendhal in Roma, Napoli e Firenze (Laterza, Roma-Bari 1974, p. 6), che già nel 1800, il 27 dicembre, scriveva alla
sorella: «Ognuno ha nel suo palchetto delle candele accese, un tavolino, carte da gioco, e di solito si fanno venire i
rinfreschi per le signore», citato in Stendhal, Roma, Napoli e Firenze nel 1817, a c. di B. Maffi e F. Palla, Bompiani, Milano 1943, p. 299).
La consuetudine di Berchet con questo ambiente — intellettuale e mondano allo stesso tempo — è testimoniata da una lettera (riprodotta fuori testo nella monografia di Li Gotti) inviata da Berchet, il 2 marzo 1813, a Maria Londo-
nio Frapolli, la «Madame Bibin» delle invettive di Porta contro i classicisti, affascinante e giovane vedova di un banchiere, molto amica dei classicisti e intima di Carlo Gherardini. A lui fa forse riferimento Berchet nella sua lettera,
come suggerisce E. Sioli Legnani in Mondo portiano (si tratta di un’ampia documentazione sulla Frapolli, Gherardini, il rapporto con Porta, e vi è riprodotta la lettera di Berchet, definita «dolciastra letterina galante del giovane poeta trentenne, con la sua gentilezza alquanto contorta e col suo spirito piuttosto pesante»: cfr. «Archivio storico lombardo», a. LKXXIII, serie VIII, vol. VI, 1956, p. 328). Ricordando alla Londonio Frapolli che i libri inviatile non sono stati letti, visto il maggior interesse per «un bel giovinotto» con il quale viaggiare, Berchet parla «della lusinga d’essere per mezzo loro introdotto per qualche breve momento in un cantuccio della memoria della gentile viaggiatrice». Alle rappresentazioni teatrali seguono spesso ampie discussioni e la pubblicazione di numerosi interventi critici, sotto forma di «lettere musicali». A queste va ricondotta anche la Lettera sul dramma «Demetrio e Polibio» cantato nel Teatro Carcano, scritta da Berchet dopo la messa in scena, il 6 luglio 1813, di Demetrio e Polibio di Gioacchino Rossini, cantato
dalla compagnia Mombelli, con successo
Zi
così ampio che l’anno seguente il dramma e la compagnia sono scelti per l'inaugurazione del teatro di Como, con grande concorso di folla da tutte le città della Lombardia (è di nuovo Stendhal a raccontarlo, questa volta in Vita di Rossini).
Fingendo di scrivere, il 27 luglio 1813, a un amico lontano, per invitarlo ad assistere a una rappresentazione
commovente, e utilizzando uno stile galante (soprattutto parlando delle giovani attrici) e superficiale, rivolto più ad attirare l'interesse con una certa banale ironia che all’approfondimento delle idee, Berchet prende una netta posizione a favore di un’opera modellata «al vero gusto italiano», contro le «astruse metafisiche di molti degli oltramontani» (II, p. 2). La musica del giovane Rossini, chiamato a Mila-
no pi le di
alla fine dell’anno precedente, stava già riscuotendo amconsensi e giudizi lusinghieri, come testimoniano le parodi Berchet e, riferite alla prima di Como, alcune pagine Stendhal (che scrive, a proposito della cavatina Pien di
contento il seno?, «il modo con cui fu cantata [...] ci parve
un capolavoro di canto liscio e spianato», cioè «semplice e puro, senza ornamenti ambiziosi», in Vita di Rossini, Passigli, Firenze s.d., ma 1974, p. 79). A Berchet si offre l’occasione di affermare, con un’osser-
vazione estetica non particolarmente approfondita ma capace di rivelare un’attenzione maggiore alle reazioni del pubblico che ai rilievi dei critici, che se «nell’universalità degli spettatori» si registra «la medesima commozione» provata dal singolo, allora l’opera è buona: «io sprezzerò con ardi: mento deliberato qualsivoglia anatema dei pedanti dell’arte della musica» (II, p. 2). L’atteggiamento
antipedantesco non è ancora, tuttavia,
un momento della battaglia per il rinnovamento formale, tanto più che, sul piano prettamente musicale, Berchet, pur
avanzando dichiarazioni di scarsa competenza, afferma sostanzialmente le ragioni della tradizione. Se è vero infatti che scrive «Ora immaginati, amico mio, una musica quale
noi la invocammo tante volte, allorché uscivamo di teatro
inveleniti contro la crescente barbarie dei tempi nostri e stanchi di bestemmiare. [...] I desideri nostri sono oggimai 22
per grazia di lui avverati pienamente», e che poco più avan-
ti plaude al trionfo del «buon gusto» dei Mombelli «sul
brio ineducato de’ soliti cantori nostri» (II, p. 3), è anche vero che, richiamandosi a Pergolesi, a Iomelli, a Cimarosa, a Paisiello, attesta la bontà della tradizione settecentesca
italiana, nella quale «il suono degli strumenti, quando sia unito al canto, non può ragionevolmente affettare il primato, ma si deve a quello sottostare pazientemente». La polemica tocca sia la trasformazione dell’opera seria alla Gluck (nella quale la drammaticità degli eventi si impone sulla cantabilità della musica), sia i nuovi compositori italiani (ad
esempio Cherubini). Ed è curioso leggere che Rossini «allungò i suoi pensieri in modo da schivare le tante e ricercate spezzature, delle quali pare che vadano innamorati i moderni eruditi dell’arte» (II, p. 2): un giudizio che, a posteriori, si ritorcerà proprio contro la «spezzatura» del verso della poesia del Berchet maturo. Ma ormai i tempi (e le riflessioni di Berchet) sarebbero stati diversi. Non si deve cercare in questo scritto una maturità teori-
ca: Berchet sembra davvero assumere più il carattere di «interprete» di un’ampia parte del pubblico di teatro (come ha suggerito Aurelio Lepre) che la fisionomia di pensatore originale. La sua dipendenza dalla cultura corrente, e di nuovo dalle pagine foscoliane, è per altro confermata da un’affermazione, ormai quasi convenzionale, che ripropone un noto passo dell’Orzis: «Che se voi, o freddi filosofi, mi togliete queste care illusioni, questa violenza di emozioni, io offro alla vostra scure anche il collo mio...» (II, p. 5). Anche l’esaltazione del sentimento, per quanto sollecitata dall’opera rossiniana (e rilevata anche da Stendhal: «Noi ci sentivamo #rasportati, questa è la parola appropriata. Ogni nuovo pezzo ci presentava i canti più puri, le melodie più soavi», qualcosa di tenero e dolce, «ma della tenerezza che è figlia del bel cielo italiano, che non consente né melanconia né sventura, ed è soltanto l’intenerimento d’un anima forte», Vita di Rossini cit., p. 79), apparteneva alla convenzione estetica dell’epoca. Sul piano eminentemente musicale, invece, la preferenza accordata alla tradizione melodrammatica italiana è l’anti23
cipazione di un’insensibilità per il rinnovamento musicale che si rivelerà anche molto più tardi, quando, assistendo a un concerto di musiche di Beethoven, esprimerà un giudizio del tutto negativo: «A Berchet venne la febbre di rabbia per la pazienza dell’uditorio. Davvero che sentimmo che l’uditorio e noi eravamo di due razze diverse...», scriveva la a Giovanni Arrivabene, il 26
marchesa Costanza Arconati
novembre 1833 (in Li Gotti, p. 368).
IV.
LA CRISI
DEL
NEOCLASSICISMO
Proprio tra la fine del 1813 e i primi mesi del 1814, più che altrove in Italia, a Milano, capitale del Regno, è ormai
evidente la crisi del dominio napoleonico. Con la sconfitta di Napoleone a Lipsia (il 19 ottobre 1813), si incomincia a intrav-
vedere la possibilità di allontanare il viceré Eugenio Beauharnais e soprattutto il ministro delle Finanze, Giuseppe Prina, inviso alla popolazione per la rigida tassazione imposta. Il comune sentimento antinapoleonico non si traduce, tuttavia, in un unico orientamento politico: a chi spera nell’intervento di Murat si affianca chi auspica un ritorno dell’Austria, e chi, in particolare tra gli aristocratici
(dei
quali il più significativo esponente è il conte Federico Confalonieri), avanza la possibilità di uno stato indipendente. Quando, il 20 aprile 1814, sull'onda della protesta popolare, sfociata in un vero e proprio tumulto incontrollabile, è linciato il ministro Prina, l’autorità napoleonica viene di fatto meno, e una settimana dopo gli Austriaci riprendono il possesso della città. La caduta di Napoleone non poteva essere più drammatica, come testimonia il racconto di Ludovico Di Breme all'abate Tomaso Valperga di Caluso. Dopo l’invasione del palazzo del Senato, incominciò un saccheggio non di ruberia, ma di distruzione, che durò fino a totale spogliamento d’ogni cosa. Volavano per l’aria
24
giù dai balconi protocolli, registri, atti segreti, e quanto apparteneva agli uffizi ed agli Archivi di quel Corpo. Si calpestò, infranse, distrusse in men d’un’ora ogni addobbo e ornamento, e la Casa è fatta nuda. Ma non a quel segno però che è ora ridotta la Casa di Prina: fino i tetti sono mezzi scoperti, non un telaio di finestra, non un chiodo o inferriata ai balconi, gli stessi muri
interni ed esterni sono qua e colà rotti e già scalcinati. Non v'ha più che l'ossatura della Casa e persin quella è segnata di furor popolare (lettera del 23 aprile 1814, in Lettere cit., p. 217).
Insediato un governo di Reggenza, è inviata a Parigi una delegazione (che comprende il conte Confalonieri) per ottenere,
dalle
«Altissime
Potenze»
che hanno
sconfitto
l'Imperatore dei Francesi, l’indipendenza italiana. Le «liberali speranze» (così Di Breme a Confalonieri il 16 maggio 1814, in Lettere cit., p. 225) vengono presto meno, come
testimonia lucidamente Confalonieri, da Parigi, in una lettera del 14 maggio alla moglie: «Noi siamo venduti [...]. L’Austria è l’arbitra, la padrona assoluta dei nostri destini. Ecco cangiato lo scopo della nostra missione. Non trattasi più di domandare alle AA.PP. costituzione liberale, indipendenza, regno ecc. ecc., trattasi di implorare ciò che un padrone ci vorrà accordare!!» (Carteggio del Conte Federico Confalonieri, a c. di G. Gallavresi, tipo-litogr. Ripalta, Milano 1910, vol. I, p. 102).
A Milano, nel frattempo, si rivela il distacco di alcune fazioni dichiaratamente rivoluzionarie dalla nuova classe dirigente che, formata dagli aristocratici illuminati e da gruppi della borghesia, soprattutto intellettuale, vorrebbe affidare a uno Stato costituzionale, imperniato sui valori borghesi, le sorti dell’ex Regno. Si può a questo proposito leggere, per restituire parte del clima di quel periodo, che è fondamentale nella formazione di coloro che saranno i primi romantici italiani, quanto scrive Ludovico Di Breme a Confalonieri, il 16 maggio, auspicando (sotto l'influenza dell’Inghilterra) degli stati nei quali la volontà generale, ossia l’espressione del bisogno generale, divenga legge ovunque; perché tosto vedrassi esser legge allora il commercio e tutto ciò che a facilitarlo tende; legge quella libera
25
circolazione di gente e di cose, che ha da mantenere e da stabilire ognora più la preponderanza di quegl’isolani; legge insomma una certa libertà individuale che, senza nulla togliere al dominio della morale e della religione, svincolerà i popoli da que’ ceppi, che rendono impossibile il progressivo perfezionamento della specie umana (Lettere cit., p. 226).
E si possono
seguire invece, nel racconto
di Teresa
Casati Confalonieri al marito, i tentativi insurrezionali («parlano di rivoluzione, di morte agli ex nobili, ai preti, a
tutti gli aristocratici; anche qui a Milano s’intendono simili propositi»: lettera del 6 maggio 1814, in Carteggio cit., p. 105), nei quali si troverebbe coinvolto, secondo alcune voci, lo stesso Foscolo come «capo popolo»: «Il sig. Foscolo era capo promotore del partito che inquietava tutto il paese», scrive, ancora a Confalonieri, l’11 maggio il conte Carlo Rasini (Carteggio cit., p. 117). Ma a queste vicende i più giovani letterati sono estranei. Ben presto, comunque, ogni tentativo di modificare la situazione politica cade con l'assunzione, da parte dell’Austria, dei pieni poteri. Gli intellettuali si apprestano ora a far buon viso al nuovo signore, preparandosi a nuovi versi encomiastici (è il caso del Monti), o ad augurarsi (per estre-
ma reazione contro il governo napoleonico) che, dopo la «tirannide», riprenda una stagione di libero dibattito intellettuale: si muovono in questa direzione*Pietro Borsieri, Silvio Pellico, e forse, prima di fuggire in esilio volontario, il 30 marzo 1815, lo stesso Foscolo (che da un lato si impegna nel progetto di una rivista letteraria, favorita dall’aperta politica culturale del conte Bellegarde, comandante in capo dell’armata austriaca in Italia, e dall’altro, timoroso di essere scambiato per una spia austriaca, scrive lettere risentite a Confalonieri che accusa di diffondere voci di un suo patteggiamento con l’Austria). } Nei carteggi di Di Breme o di Confalonieri, a quest’altezza cronologica, non c’è traccia di Berchet, ma nemmeno
di
Porta o di Bellotti (di Bossi c'è un solo accenno come pittore di ritratti);
e nemmeno
di Borsieri o di Pellico,
prima che questi entri come precettore nella famiglia Porro. 26
Quando Teresa Confalonieri saluta, da parte degli amici, il
marito rappresentante a Parigi del governo provvisorio, cita Rasini, Breme (cioè Di Breme), Porro, Pallavicini, o i Calde-
rara e il Marchese Fagnani: dunque gli esponenti dell’aristo-
crazia. Del resto le preoccupazioni di Berchet (e di Porta), alla
caduta del Regno Italico, pur osteggiato con una manifesta anglofilia, sembrano piuttosto di natura individuale. Con la caduta del governo napoleonico vien meno, per Berchet, il posto di impiegato, e c'è dunque la necessità di trovare un nuovo lavoro. Grazie alla conoscenza delle lingue Berchet ottiene un impiego come traduttore dal tedesco in vari uffici del nuovo governo, e, dal 1818, raccomandato dal classi-
cista Giuseppe Londonio, l’incarico della traduzione (sempre dal tedesco) di alcuni testi scolastici. Lo status medio o piccolo borghese di Berchet e di molti altri giovani milanesi non sarà senza conseguenze nell’elaborazione culturale e letteraria di quegli anni, soprattutto quando il rapido svolgersi del dibattito letterario, nel 1816, aprirà presto una riflessione su temi economici, sociali, ideologici. Fino al 1815, tuttavia, la cultura letteraria
milanese si raccoglie ancora prevalentemente sotto le insegne del classicismo, nonostante l’attività e la scrittura già matura di Carlo Porta (innovatore fecondo, ma in dialetto),
e la possibilità di conoscere importanti testi d'oltralpe anche in traduzione italiana: nel 1814 esce la prima traduzione (alquanto scorretta) di L’A/lerzagne di Madame de Staél, ad opera di Davide Bortolotti. I testi del Romanticismo straniero incominciano a diffondersi, ma sono pochi quelli che, come Di Breme, pensano, nel 1814, che Madame de Staél «in fatto di letteratura filosofica [...sia] l'homme de son siècle» (Lettere cit., p. 227). Berchet nel 1815 è dedito alla poesia (e già nel 1814, in una richiesta di lavoro all'Austria, aveva affermato di stare assecondando la «particolare predilezione per le belle lettere», Li Gotti, p. 39). Anticipa sullo «Spettatore» alcuni frammenti di un poemetto sul lago di Como (I/ Lario) e
pubblica nel 1816 (per i tipi di Anton Fortunato Stella, 2%
importante libraio-editore dell’età della Restaurazione) l’epistola A Felice Bellotti. In morte di Giuseppe Bossi. «Lo Spettatore», ispirato allo «Spectateur» francese (rivista di «varietà storiche, letterarie, critiche, politiche e morali») esce da Stella a Milano e riscuote un ampio successo su tutto il territorio nazionale (lo confermano alcune lettere
del giovane Leopardi, che figura tra i collaboratori), ed è, secondo la definizione di Di Breme, «il giornale italiano letterario il più diffuso al dì d’oggi e il più ricercato» (Lettere, p. 288). Per questo è tanto più significativo che i versi
del Lario vi fossero presentati con una lusinghiera nota, nella quale, dopo aver definito lo scrittore «giovane poeta di altissime speranze» (e i suoi versi «nitidi e armoniosi»), si legge: Favoriti dalla sorte, noi siamo riusciti nell’involare alla modestia dell'autore alcuni frammenti del poema [...]. E qui ne faccia-
mo un dono ai nostri lettori, i quali certamente con noi congiungeranno le loro speranze, perché tratta venga a termine, e fatta publica una produzione, mercé di cui splendidamente dee venir accresciuto il tesoro delle descrittive bellezze, per cui l’italiana poesia a nessun’altra apparisce seconda (cfr. Cusani, pp. 57-58).
Nella cultura milanese, dunque, Berchet ha ormai un proprio posto, ma la sua produzione non si distacca dai canoni convenzionali. A questi vanno ricondotti i versi del Lario, per i quali si è fatto più volte il nome del Foscolo delle Grazie, per il loro stampo neoclassico. Si tratta di quattro frammenti per un totale di 104 versi sciolti, nei quali, abbandonando l’impeto della satira, Berchet si sofferma con compiacimento sul paesaggio del lago di Como, non sottraendosi ai richiami della classicità e delle sue forme («I lidi ancora / suonano Plinio e il fortunato ingegno», vv. 26-27), e rivelando, più che un’originale sensibilità, una perizia tecnica ormai pienamente raggiunta; in questa dire-
zione andrà notata, ad esempio, a conferma di una maggiore consapevolezza stilistica, l’aggettivazione meno ridondante rispetto al passato. Se l’attacco («[...] Aura gentile / te su leggiera gondoletta intanto / sospinge per le chiare onde del lago», vv. 1-3) è 28
stato additato da Bertelli come esempio di «serena felicità musicale» (Le poesie giovanili di Giovanni Berchet, in Studi sul Berchet, p. 334), l’insieme, pur molto controllato e addirittura «freddo», è stato visto come testimonianza di quella «segreta malinconia» (così Cappuccio, p. 2350), rintracciabile anche nella poesia più tarda. Influente o meno il Foscolo delle Grazie, si ripropongono in questi versi gli stilemi della tradizione, e, pur rilevando la presenza di motivi sviluppati successivamente (ad esempio, appunto, quello della malinconia), occorre
sottolineare
anche, come
si è già accennato,
che Berchet non si discosta dall'ambiente neoclassico, nel lessico e nella costruzione del verso: «Addio, candido fiume. Addio, bei colli, / cari ai zeffiri sempre. E voi di Lecco / cerulee onde, v’aprite alla carena; / che sui banchi il
nocchier dalle fatiche / posa cantando la canzon d’amore; / e spinta dal Tivano all’oriente, / la navicella sua varca secura»
(vv. 98-104).
AI clima neoclassico va anche ricondotta l’epistola A Felice Bellotti. In morte di Giuseppe Bossi, con la quale Berchet piange la scomparsa del caro amico, pittore di fattura neoclassica e poeta in dialetto, esponente di punta della cultura milanese (in questo senso lo ricorda anche Stendhal in Roma, Napoli, Firenze), e soprattutto punto di riferimen-
to letterario non indifferente: con lui ha una lunga consuetudine Carlo Porta, a lui si rivolge Berchet quando, scritto l'ampio carme I Visconti, vuole avere un autorevole giudizio. La morte di Bossi, il 9 dicembre 1815, viene dunque a colpire un personaggio di primo piano della vita pubblica milanese e della vita privata di Berchet. Secondo un’annotazione del Cusani (p. 64), proprio Berchet è tra i promotori di un monumento all’amico scomparso, e, alla sua inaugurazione, nel 1818, Ermes Visconti riconoscerà apertamente:
Giuseppe Bossi non è il solo uomo insigne mancato di vita in Milano ai nostri giorni; ma fu il primo alle cui esequie siano concorsi amici, letterati, concittadini e connazionali ragguardevoli, uniti dal dolore, dall’affezione, dal sentimento patriottico. Fu
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il primo al di cui feretro venisse recitato un elogio non prescritto dall’etichetta, ma dettato da intimi impulsi del cuore (in Bezzola, op. cit., p. 108).
Comprensibile dunque che Berchet sia spinto a scrivere a un comune amico, in versi secondo la tradizione, l’elogio del morto. Dettata da un intimo impulso del cuore, per riprendere le parole di Visconti, l’Epistola tradisce ancora una volta l’adesione di Berchet a. una convenzione formale che doveva necessariamente frenare l'espansione sincera dei suoi sentimenti, riproponendo stilemi noti (in particolare foscoliani) e il linguaggio della tradizione neoclassica, nella quale il lessico dell’estetica e quello della morale possono anche confondersi: «Bello è il pianger gli estinti» (v. 8), «bello è il ridursi a solitaria cella»
(v. 13), «e tu che
intendi / questa sublime voluttà del pianto, / temi forse che a te la involi il tempo?» (vv. 22-24). L’elogio di Bossi («ed anche a lui le muse / veniano; ed anche a lui tutta applaudia / la famiglia delle arti; e per lui chiari /i destini volgeano ai patri studi», vv. 157-160), è anche l’occasione per sottolineare un altro motivo ampiamente diffuso da Monti e da Foscolo: «ma sol con la perpetua prepotenza / delle menti l’Italia i propri figli / fe’ invidiati e grandi» (vv. 134-136).
Se intervenendo sul dramma rossiniano Derzetrio e Polibio Berchet aveva manifestato il suo attaccamento alla tradizione musicale italiana, con l’elogio a Bossi rivela, attraverso le parole di dolore per la scomparsa dell’amico, una consonanza con il neoclassicismo in pittura, confermata di lì a poco nell’allocuzione ai funerali del pittore Andrea Appiani, a Milano, nella chiesa della Passione, il 10 novembre
1817. Non è senza significato che — per l’orazione — la scelta sia caduta su Berchet, vista la notorietà dell’Appiani, tra i più celebri artisti neoclassici del primo Ottocento e pittore ufficiale di Napoleone. Piangendo ancora una volta un amico, Berchet ne esalta il valore affermando che «l’ala-
crità con cui egli si diede agli studi più profondi dell’arte, l’amore infinito, ardentissimo del bello a cui educò la propria anima, il sentimento della delicatezza ch’egli si procac30
ciò col culto delle maniere più gentili, svilupparono ed accrebbero i doni della natura. I tempi favorivano l’ingegno. Ed Appiani può dirsi per eccellenza il pittore del secolo»
(II, p. 59).
Si può dire tuttavia che l’A/locuzione per Appiani sia l’ultima manifestazione della cultura neoclassica di Berchet,
che aveva addirittura già respinto il Neoclassicismo in letteratura con la Lettera semiseria di Giovanni Grisostomo al suo figliuolo, uscita ormai da quattordici mesi. Ma non si può trascurare il fatto (lo si vedrà anche più avanti), che Berchet, sulla scorta di Lessing, distingue tra poesia e pittura, affermando possibile, per l’arte, ciò che va invece respinto in sede letteraria. Al momento neoclassico, e alla sua crisi, va invece ricondotto un altro testo berchettiano, che, scritto nel 1815,
rimane inedito fino all'edizione delle opere curata da Cusani, del 1863: il carme I Visconti, modesto nei risultati ma di grande interesse per l'indagine sulla poetica di Berchet. Prima di prenderlo in esame è necessaria una precisazione sul testo. Cusani dichiara di averlo ricevuto dai «conjugi Arconati»; Bellorini, dopo aver pubblicato la redazione Cusani nella prima edizione del 1911 delle Poesie, ne offre una lezione diversa nella seconda del 1941, poiché, nel frattempo, è stato trovato un manoscritto di Berchet, con numerose correzioni e varianti. Sulla base delle varianti tra le due redazioni, Bellorini scrive: «Non è impossibile che il
Cusani abbia riprodotto un altro manoscritto del B.» (I, p. 442). Non c'è dubbio che si tratta di due diverse stesure,
ma è anche facilmente ricostruibile la loro successione. Cusani, infatti, aveva premesso una nota esplicita ad una annotazione del manoscritto dovuta a Bossi («Il pittore Bossi [...] era anche poeta, e di gusto fino. A richiesta del Berchet
amicissimo suo rivide questo carme, e glielo rimandò con alcune postille, ed il seguente giudizio: ‘Il dire è facile, difficile il fare; difficilissimo il far bene. Questa è la conclusione; ma tu puoi per prova aspirare al difficilissimo. Addio’»), e, nelle note, pubblicava appunto le postille. Nessun riferimento a queste postille nel manoscritto del Museo del Risorgimento, ma invece, tra correzioni e appunti, una nota
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del Berchet, in inglese, riprodotta nella Nota finale dell’edizione del 1941 dal Bellorini, che qui si riproduce integralmente: «Remember to let undoubtedly appear that the apparition of the sisters was but a dream to Petrarca. Thou must say that he was sleeping. Thou shall see if the two sisters could (sic) bee one the Ruth, the other the Vengeance of God, and not two Magicians» (I, p. 443: così com-
menta Bellorini: «Essa deve certo riferirsi alle ‘due donne’ dei versi 88 sgg.»). In realtà questa nota di Berchet non è altro che la traduzione in inglese di una postilla dell'amico Bossi riportata da Cusani con un richiamo di nota al v. 99: «Ricordati che apparisca (per un errore di stampa in Cusani c’è apparisae) senz’equivoco essere l’apparizione delle due sorelle una visione del Petrarca. Tu devi dire che egli era addormentato. Rifletti se le due sorelle non debbano figurare l’una il Giudizio, l’altra la Vendetta di Dio, e non già due maghe» (Cusani, p. 392). La traduzione è pressoché fedele, salvo uno scarto («Rifletti se le due sorelle ecc.», «Thou shall
see...») che farebbe pensare che Berchet, riflettuto sul consiglio, l’avesse accettato. La redazione scelta in ultimo da Bellorini è dunque posteriore a quella edita dal Cusani, e testimonia il travaglio di Berchet nel rivedere il testo, che non darà mai alle stampe. Doveva aver pesato non poco il giudizio di Bossi, nonostante l’incoraggiamento: le postille rivelano che all’amico non erano sfuggite le debolezze e l’indecisione dello stile. Se ne vedano alcuni esempi. A proposito dei versi «compiacersi dovea del sospettoso / Galeazzo la fredda indol maligna» (vv. 77-78), Bossi appunta: «Maligno, freddo, sospettoso, deboli epiteti al caso, e forse troppi» (Cusani, p. 391), e poco oltre, per i versi «Brutte ad entrambe ribollian le labbra / di verde bava e di bestemmie. Entrambe / intorno intorno furiando al tronco / agitavan la brunà urna le dive, / ed ulular s’udian carme di morte» (vv. 96-100), consiglia così: «Bava reale, bestemmie figurate retti dallo stesso ribollire. Vedi se convengono. Tutti questi versi sentono del Lucano: il principale argomento vorrebbe del Virgilio. Così parmi che alcuni versi che seguono sappiano del 32
tragico e del drammatico 392).
anzicché del lirico» (Cusani, p.
Nel testo ripreso nel 1941 da Bellorini questi versi sono immutati, ma l’elaborazione del carme non è ancora conclusa, e non lo sarà. I tanti debiti evidenti nei confronti della
poesia «notturna» («Solo coi suoi pensieri e colla notte / errava il vate», vv. 72-73); del gusto per l’orrido diffuso tra
fine Settecento e primo Ottocento («vedea stormi di gufi / alle frondi d’un elce ire e redire, / e in negri panni a piè della solinga / elce due donne spaventose e sozze», vv. 85-88); della poesia foscoliana come modello ultimo della letteratura di sdegno morale e civile («or le lombarde / donne, gemendo i loro cari lontani, / forse avrien qui una tomba, a cui le pugne / e gli stenti narrar degli animosi / e le pene d’amor», vv. 65-69; «E voi, se tanto / ancor la luce v’innamora, o vili, / dallo scherno incalzati ite raminghi / di gente in gente a mendicar la vita», vv. 205-208), spingono I Visconti verso il passato, lontano dalla nuova temperie culturale che si stava preparando. Poco significativo sul piano della qualità (soprattutto perché la contaminazione degli stili diversi non trova un equilibrio), il carme, per il suo argomento, si è prestato a diverse letture. Il personaggio di Petrarca, ospite a Milano di Giovanni Visconti e costretto a fuggire per le scelleratezze dei successivi signori di Milano (una lunga «visione» introduce le loro azioni malvage fino a Filippo Maria), denuncia infatti la corruzione del presente e l’aspirazione a una diversa realtà, che non è possibile raggiungere se non allontanandosi dalla città («la manifesta volontà dei fati, / che a fuggir l’incitava», vv. 335-336). Un motivo, questo,
visto da alcuni come «spia» di una convinzione «politicomorale» dello stesso Berchet, «quasi che l’esilio, a cui gli eventi obbligarono poi il poeta, fosse già un’inclinazione del suo animo, una soluzione spiritualmente antica del suo urto con la realtà» (Cappuccio, p. 2350). A una condizione «psicologica» di Berchet riporterebbe anche la figura solitaria di Petrarca, espressione implicita della solitudine berchettiana rintracciata in tutta la poesia da Giuseppe Italo Lopriore (Le «romanze» di Giovanni Berchet).
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Nell’esaminare I Visconti non si deve tuttavia dimenticare che il carme è stato pubblicato postumo. Berchet, dopo le postille di Bossi, tenta una nuova stesura, e forse nuove strade («La passione del Berchet pel robusto e il solenne,
come meglio adatti ad esprimere chiaramente ne’ versi la sua coscienza morale, cominciava a tramontare: nei Visconti
C'è più irruenza, e soprattutto maggiore immediatezza»: così
Li Gotti, p. 55). Non ne rimane soddisfatto: più che come un problema di creatività, tuttavia, queste incertezze sono da far risalire alla crisi di un'idea di poesia, confermata dai tentativi, irrisolti, di altre due composizioni (I/ cavaliere bruno, Il castello di Monforte) avviate e abbandonate tra il 1815 e il 1820 (anch'esse poi inserite nell’edizione Cusani). Per il neoclassico Berchet era ormai vicina la «conversione»: sarà il Di Breme a definire così in una lettera a Madame de Staél la partecipazione del poeta dell’Epistola ai dibattiti del 1816, schierato totalmente con gli «innovatori» romantici. È dunque possibile leggere le difficoltà della composizione dei Visconti, l’incompiutezza delle altre prove, come il segno di una crisi, tanto più significativa davanti al travaglio, in quegli stessi mesi, della cultura letteraria italiana, divisa tra il richiamo delle certezze della tradizione e le tensioni per le nuove sollecitazioni europee. Alla traduzione di De l’Allemagne segue nel 1815 la visita in Italia della scrittrice (che a Milano era già passata
in un precedente viaggio nel 1804-1805, durante il quale aveva avuto un'intensa amicizia con Vincenzo Monti), e del
suo più fedele accompagnatore, August Wilhelm von Schlegel, il grande teorico del Romanticismo tedesco. L’attesa per il loro arrivo è grande, e lo testimonia esemplarmente la caparbietà di Di Breme nel chiedere alla contessa Luigia Stolberg d’Albany un aiuto per entrare in contatto con la scrittrice francese ed evadere dalla mediocrità che ha investito la cultura milanese: «Nous nageons ici dans la fumée des pipes et dans les évaporations autrichiennes. La noblesse milanaise est aux anges de tout ceci. [...] Le règne des fourbes est passé, que Dieu nous préserve à présent de 34
celui des...» (la frase resta significativamente in sospeso: cfr. Lettere cit., p. 247). Grazie a Madame de Staél si diffondono in Italia alcune delle riflessioni più significative del Romanticismo tedesco, e, in particolare, un’idea di letteratura che, rivendican-
do l’autonomia dalle regole fissate dai canoni classicistici, esalta la fantasia e la passione, la tradizione popolare e il Medioevo. Tutti motivi opposti a quelli che, richiamandosi al «bello» degli antichi, invitano a imitare la perfezione raggiunta nel passato. Con le pagine della Staél, a diffondere a Milano le idee del Romanticismo contribuisce la traduzione francese (uscita a Parigi nel 1814) delle Vorlesungen iiber dramatische Kunst und Literatur (Lezioni sull'arte drammatica) di August Wilhelm von Schlegel. L’edizione italiana, condotta su quella francese, uscirà nel 1817, ad opera del classicista Giovanni Gherardini, ma tra il 1815 e il 1816 le Vorlesungen suscitano l’interesse dei letterati italiani, in particolare per la messa in discussione delle regole aristoteliche nella tragedia, cardini del sistema letterario dei classicisti. Ne è significativa testimonianza una lettera di Alessandro Manzoni all’amico Claude Fauriel del 25 marzo
1816, quando, inco-
minciando il Conte di Carmagnola, scrive di pensare a un’azione che si svolga nell’arco di sei anni: «c’est un fort soufflet à la règle de l’unité de temps, mais ce n’est pas vous qui en serez scandalisé» (in Tutte le lettere, a c. di C. Arieti, Mondadori, Milano 1986, p. 157), e, subito prima: «Jespère [...] de faire au moins une chose neuve chez
nous». E a Schlegel farà poi riferimento nella Prefazione al Carmagnola. Se Borsieri postilla con minuziosa attenzione l'edizione francese delle Vor/esungen (come documenta G. Titta Rosa
in Epiloghi, in «L'Osservatore politico letterario», aprile
1964, pp. 59-64), da parte sua, Di Breme scrive, all'amico
Giuseppe Grassi, il 9 dicembre 1815: «Non ho mai studiato più avidamente. Sto col muso sui libri come se temessi di vedere un brutto mostro di qua o di là colla sola coda dell'occhio. Quel mostro è il mondo, l’attuale scellerato
mondo trionfante. [...] Dunque si studia; si scrive assai; si
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legge lo scritto a pochi sinceri odiatori della bugia...» (LetteIC CIPE
Le sollecitazioni suscitate dalla lettura dei testi dei romantici europei — che si pongono come i più evidenti momenti di confronto per gli intellettuali italiani alla metà del secondo decennio — si saldano a quelle portate dalla nuova situazione politica. Il tentativo di ottenere l’indipendenza, almeno quella lombarda dopo la cacciata di Eugenio Beauharnais e la misera fine del suo Ministro delle Finanze (ma presto sono ripristinati gli ordinamenti austriaci, sanciti definitivamente dal Congresso di Vienna) è la manifestazione pubblica di un gruppo di giovani aristocratici e di esponenti della media borghesia di trasformare le vicende politiche e sociali nel segno della modernizzazione, secondo gli interessi della borghesia produttiva, che, già operante nei più avanzati stati europei, si trova in ritardo persino a Milano, la città che, più di ogni altra, in Italia, guarda all'Europa. È ancora
in una lettera di Manzoni
a Fauriel, solo quattro
giorni dopo l’assassinio di Prina, che si legge: «la révolution qui s’est opérée chez nous [...] a été unanime, et j’ose
l’appeler sage et pure quoiqu’elle ait malheureusement été souillée par un meurtre; car il est sùr que ceux qui ont fait la révolution (et c'est la plus grande et la meilleure partie de la ville) ny ont point trompé; rien n’est plus éloigné de leur caractère» (Tutte le lettere, p. 142). Sono gli «italici puri» di Confalonieri, sono gli intellettuali isolati ma attenti alle vicende storiche, come lo stesso Manzoni, sono i pubblici funzionari come Porta (che celebra la cacciata dei france-
si ma è ugualmente pronto a smascherare nei suoi versi le illusioni sugli austriaci). In modi diversi, ciascuno di questi si augura che, con la caduta di Napoleone, cessino le vessazioni di uno stato autoritario e si affermi uno stato liberale: anche l’Austria, di fronte allo strapotere napoleonico può apparire una garanzia di libertà che permetta, finalmente, uno sviluppo economico sociale e, quindi, letterario. Che i giudizi sull’Austria fossero ottimisti, lo avrebbero drammaticamente rivelato gli anni immediatamente seguenti. Nel 1815 e 1816, la rapida caduta di Napoleone e l’apertura alla cultura tedesca, grazie all’ampia diffusione delle
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teorie di Schlegel, anche per tramite di Madame de Staél,
fanno ancora sperare, e questioni letterarie e questioni poli-
tiche, ragioni culturali e ragioni sociali si intrecciano nelle riflessioni dei giovani intellettuali milanesi. Nell’autunno del 1815, viene promossa una nuova rivista, la «Biblioteca italiana», sulla cui realizzazione, insieme
a figure di prestigio come Monti, si cerca di coinvolgere alcuni giovani intellettuali, da Pietro Borsieri a Silvio Pellico, da tempo legati a Foscolo. Berchet non sembra essere della partita: del resto, pur frequentando Foscolo, le sue amicizie sono esterne al gruppo dei più fedeli foscoliani: non Borsieri e Pellico,
e nemmeno Di Breme, ma piuttosto i
classicisti Bellotti e Bossi, come si è visto.
Proprio a Borsieri si deve l’introduzione alla «Biblioteca italiana», nella quale sono già presenti tutti i temi di un’auspicata trasformazione culturale, politica, sociale: «Tutto ciò che riguarda i costumi delle nazioni, le loro forze, il loro commercio, i loro progressi nelle scienze o nelle lettere attrae universalmente l’attenzione del lettore italiano», scrive inttoducendo le ragioni che consigliano l'avvio di una nuova rivista (ora in I manifesti romantici, II° ed., p. 394). Scopo del giornale deve dunque essere la «comune utilità»: «Nel quale intendimento abbiamo mirato tanto a coloro che professano gli studi, quanto a quelli che cercano nella coltura una più bella e più nobile specie di leggiadria, e la
dimenticanza ad un tratto di molte noie della vita» (ivi, p. 398). Anzi, le belle lettere devono intrecciarsi a quelle disci-
pline che arricchiscono il pensiero e migliorano la vita sociale: «Le scienze morali e speculative, la letteratura propriamente detta, e le arti liberali sono strette fra loro con più intimi legami, o debbono esserlo. [...] Le barriere che separano il regno del pensiero da quello della poesia e dell’eloquenza, devono finalmente sparire anche in Italia» (ivi, p. 410).
Gli intenti non prettamente letterari — e la ricerca di un pubblico che non legga solo letteratura — sono già apertamente dichiarati, così come la constatazione che occorre aprire la tradizione italiana alle novità dei tempi: «la coltura italiana somiglia a un albero robusto che avendo radici Di
fortificate da secoli, resiste ai turbini e alle tempeste; ma la
di cui forza produttiva già indebolita dal tempo si disperde in molti rami, e basta appena a vestire di folie l’altissimo
tronco» (ivi, p. 409). E infine c'è la consapevolezza della necessità di conquistare nuovi lettori:
La filologia debb’essere un soccorso della storia a cui possono consacrarsi i dotti di professione, ma il pubblico ha bisogno di oggetti immediatamente utili; e noi non abuseremo del tempo e della stampa, due cose immensamente preziose, coll’occuparlo o di una iscrizione sepolcrale, proprietà dell’altro mondo più che di questo, o d’un accento, d’una consonante raddoppiata e di simili quisquilie dei grammatici o degli eruditi (ivi, pp. 410-11).
In queste parole ci sono le premesse della successiva stagione del «Conciliatore», ma soprattutto c'è l’evidente testimonianza che gli ultimi avvenimenti stanno provocando uno slittamento di senso dell’inscindibile nesso che già Foscolo aveva instaurato tra la letteratura e il rinnovamento morale. Gli uomini di lettere, più che a un’astratta «morale», guardano ora a un reale rinnovamento dell’intera società, la cui necessità è tutta misurabile nella consapevolezza, chiaramente avanzata, che occorre portare l’Italia all'altezza,
economica e sociale, prima ancora che letteraria, degli altri Stati d'Europa, di quegli Stati dove la borghesia ha già conquistato il potere. Il testo di Borsieri, tuttavia, non uscirà: ragioni politiche ne sconsigliano la pubblicazione. Ma nel primo numero della nuova rivista, nel gennaio del 1816, ci sarà un testo di Madame de Staél, Sulla maniera e l'utilità delle traduzioni, definito da Di Breme come «piuttosto sugoso» (Lettere cit., p. 311) e
introdotto con una nota redazionale che ben rivela il clima dell’epoca: «Questo articolo è della celebre baronessa di Staél. La sua gentilezza si è compiaciuta di farne dono ed onore alla ‘Biblioteca italiana’; e noi nel dare la traduzione
del nobile suo discorso intendiamo di far cosa grata ad ogni lettore, e di render pubblica la nostra riconoscenza» (in Discussioni e polemiche sul romanticismo (1816-1826), reprint a c. di A.M. Mutterle, Laterza, Roma -Bari 1975, p. 3).
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Il «dono» e l’«onore» si trasformano immediatamente in una miccia che accende un violento scontro e le posizioni opposte riguardano questioni letterarie. Per il momento il dibattito politico resta sullo sfondo, anche se l’aristocratico Ludovico Di Breme scrive all'amico Giuseppe Grassi, nell’agosto del 1816: «Io porto in cuore un parlamento intero di opposizione contro tutte le tirannidi e contro la volgarità della consuetudine. Tu sai quanto mi sono tratto fuori col mio pensare da quelle classi a cui appartengo per nascita e per disciplina ricevuta e per bizzarria di sorte» (Lettere cit., p. 349). Il rinnovamento letterario e quello politico sono ormai strettamente intrecciati.
V.
VERSO
LA
«LETTERA
SEMISERIA»
Nel breve volgere di pochi mesi, le reazioni suscitate dall’articolo di Madame de Staél Sulla maniera e l'utilità delle traduzioni si infittiscono e assumono toni violenti. Senza ripercorrere minuziosamente le polemiche che precedono la pubblicazione della Lettera semziseria di Grisostomo al suo figliuolo, che diventerà un nuovo bersaglio per i classicisti, è necessario richiamare almeno alcune coppie di opposizioni, sulle quali si sviluppa il dibattito: moderni e antichi, storia e natura, accoglimento della letteratura straniera e difesa della tradizione italiana, rivalutazione e svalutazione del Medioevo, costituiscono i motivi ricorrenti nella pubblicistica del tempo. L’articolo di Madame de Staél invitava, con molto equilibrio, a «tradurre diligentemente delle recenti poesie inglesi e tedesche» (in Discussioni e polemiche, p. 7), per favorire una complessiva crescita culturale del pubblico e «mostrare qualche novità a’ [...] cittadini, i quali per lo più stanno contenti nell’antica mitologia, né pensano che quelle favole sono da un pezzo anticate, anzi il resto d'Europa le ha già abbandonate e dimentiche» (ivi, pp. 7-8). Lo scopo delle 39
pagine della Staél non era affatto la sostituzione di una cultura con un’altra, tanto che la scrittrice elogia la traduzione dell'Iliade di Monti (giudicato un importante punto di riferimento per la lettura di Omero in tutti i paesi europei), e dichiara esplicitamente: «gli intelletti della bella Italia, se amano non giacere oziosi, rivolgano spesso l’attenzione al di là dall’Alpi, non dico per vestire le fogge straniere, ma per conoscerle;
non
per diventare
imitatori, ma
per uscire di
quelle usanze viete» (ibid.). Altre considerazioni introducevano invece la storicità della letteratura, definendo l’Iliade «suggellata più dal carattere comune del secolo, che dal proprio autore» (ivi, p. 6),
o suggerivano, di fronte alla «frivolezza di tutte le pubbliche e private radunanze, dove ognuno cerca l’altrui compagnia per fuggire se stesso e liberarsi da un grave peso di noia» (era esplicito, poco prima, il riferimento al teatro), di
mescolare «per mezzo a’ piaceri [...] qualche util vero, e qualche buon concetto, così da porre nelle menti un poco di serio e di pensoso, che le disporrebbe a divenir buone per qualche cosa» (ivi, p. 8). A queste indicazioni, tuttavia, si aggiungeva un giudizio
piuttosto severo sui letterati italiani: Havvi oggidì nella letteratura italiana una classe di eruditi che vanno continuamente razzolando le antiche ceneri, per tro-
varvi forse qualche granello d’oro: e un’altra di scrittori senz’altro capitale che molta fiducia nella loro lingua armoniosa, donde raccozzano suoni voti d’ogni pensiero, esclamazioni, invocazioni,
che stordiscono gli orecchi, e trovan sordi i cuori altrui, perché non esalarono dal cuore degli scrittori (ivi, pp. 8-9).
Male interpretando gli inviti della Staél (alcuni già presenti, ad esempio, nelle pagine di Foscolo degli anni immediatamente precedenti) e trasformando il giudizio sui letterati in una condanna della cultura italiana, cultori di letterature classiche o compilatori di giornali, scrittori di secondo piano o semplici provocatori, si ergono contro Sulla maniera e l'utilità delle traduzioni, a volte in modo volgare, opponendo alla cultura nordica la lunga tradizione della cultura latina, e respingendo con sprezzo ogni «imitazione» dalle 40
letterature straniere. Nei casi migliori, come nella prima risposta alla Staél pubblicata anonima sulla «Biblioteca italiana» (attribuita poi a Pietro Giordani), si ricorda, davanti
all'idea di una letteratura nella quale sia presente l’«util vero», che il vero è «oggetto delle scienze»: oggetto «delle arti [è] il bello» («Ur italiano» risponde al discorso della Staél, in Discussioni e polemiche, p. 22).
La polemica, trasformata nella contrapposizione tra due idee di cultura e di letteratura, escludeva qualsiasi disponibilità all'ascolto degli avversari, così che risultavano inutili anche le parole con le quali Madame de Staél tornava sull’argomento, nel giugno del 1816, sempre sulla «Biblioteca italiana», per confermare che «Coroscere non trae punto seco di necessità d’Imzitare; al contrario, quanto più l’intellet-
to acquista di forza per lo studio, tanto più diventa capace di una originalità trascendente» (Risposta alle critiche mossele, in Discussioni e polemiche, p. 64). Ma l’intervento della Staél non mancava di colpire la debolezza della cultura italiana, estranea alla società: «Tranne poche eccezioni, gl’'italiani non si veggono e non si incontrano che al teatro e attorno un tavolino da giuoco. Lo spirito di conversazione non si combina con questo genere di vita» (ivi, p. 66). Negli stessi anni, per altro, Stendhal scriveva che «l’Italia avrà una letteratura solo dopo che avrà avuto le due Camere; fino ad allora, tutto quanto si fa è solo falsa cultura, letteratura d’accademia» (in Romza, Napoli e Firenze, p. 8). E aggiungeva: «Napoleone ve la stava portando, forse senza saperlo» (ivi, p. 9). La debolezza della letteratura è dunque debolezza della società italiana: in questo si trovano d’accordo sia l’antinapoleonica Madame de Staél sia il napoleonico Stendhal. E in questo senso si muovono subito i primi e maggiori difensori delle nuove idee, che, non casualmente, si potrebbe
dire, provengono dalle file dei giovani letterati più vicini a Foscolo: Ludovico di Breme e Pietro Borsieri, che hanno
già postillato con attenzione le pagine teoriche dei romantici europei.
A Di Breme, con Intorno all'ingiustizia di alcuni giudizi
letterari italiani (Giegler, Milano
41
1816), si deve la prima
difesa della Staél, ma, soprattutto, il primo scritto teorico
sulla necessità di una nuova letteratura, con l’auspicio di «un risorgimento d’idee, e di una più generosa coltura degli spiriti» (Intorno all'ingiustizia di alcuni giudizi letterari italiani, in Discussioni e polemiche, p. 26), e la consapevolezza
che «le variazioni dei tempi generano variazioni nel sentire e nel pensare» (ivi, p. 30). Non ci si può più affidare, dunque, al gusto degli antichi, ma occorre guardare, piutto-
sto, a quegli autori, da Dante a Petrarca («Tirteo dell’Italia italiana e non latina»), ad Ariosto («lussureggiante romantico»), a Tasso («infelice e nobilissimo»), che hanno introdot-
to una nuova sensibilità, raccogliendo le trasformazioni di una cultura che non poteva più essere quella latina (ivi, p. 43). In questa direzione, Di Breme presenta, come esempio di «perfetta lirica romantica» (ivi, p. 52), cioè di traduzione
in versi di una nuova sensibilità all’altezza dei tempi, secondo i nuovi tempi, un’ode (modesta) di Diodata Saluzzo di Roero: Le rovine. Lo scritto di Di Breme suggerisce anche altre riflessioni, prima delle quali quella che lo scrittore non deve imitare la natura ma cogliere l’uomo nella sua interiorità, perché egli stesso è parte integrante della natura; e «se le nostre dottrine mistiche, morali, scientifiche, se i nostri usi, i recenti
affetti nostri hanno ampliato di tanto il campo dell’invenzione, misuriamo noi tutta l’ampiezza di quell’orizzonte, lancia-
moci in quell'immensità, e tentiamo animosi le regioni dell'infinito che ci sono concedute» (ivi, p. 44). Di diverso tono, ma affermando, di nuovo, la necessità
dello scrittore di fare i conti con il proprio tempo, sono le Avventure letterarie di un giorno o consigli di un galantuomo a vari scrittori, di Pietro Borsieri, pubblicate anonime, sempre da «Gio. Pietro Giegler, librajo», a Milano, il 10 settembre del 1816. Con una struttura e una scrittura che si richiamano ai romanzi di Sterne, cari al suo maestro Foscolo, Borsieri presenta — attraverso gli occhi di un «galantuomo» che passeggia per Milano — i temi in discussione nei primi mesi del 1816: lo scontro acceso tra classicisti e romantici (il termine è ormai utilizzato anche in Italia per designare i sostenitori di una letteratura nuova), la necessità di raggiun42
gere un nuovo pubblico, e dunque di modificare le sclerotizzate convinzioni ereditate dal passato: «La letteratura non è altro che l’arte di parlare alla mente ed al cuore degli uomini educati» (Avventure letterarie di un giorno o consigli di un galantuomo a vari scrittori, in Discussioni e polemiche, p. 86). L’ampia ripresa di motivi foscoliani (soprattutto del Foscolo delle lezioni pavesi e degli articoli teorici degli anni Dieci, come conferma quest’affermazione di Borsieri: «Chi giudica la letteratura un vano suono di parole se devia dal suo scopo d’illuminare il vero e giovare per la via del diletto alla coltura della moltitudine, quegli sappia che ora invece è quasi sempre rivolta a tutt’altro fine, col servire a viste di lucro, o di privato ossequio, o d’inimicizia, o al vitupero indegnissimo di celebri scrittori stranieri ed italiani», ivi, p. 174) si salda in Borsieri con una maggiore attenzione alla realtà storica e al nuovo atteggiamento richiesto all’uomo di lettere: «mancando noi di romanzo, di teatro comico e di buoni giornali, manchiamo di tre parti integranti d’ogni letteratura, e di quelle precisamente che sono destinate ad educare e ingentilire la moltitudine»
(ivi, p. 156).
Alla riconfermata convinzione che «tradurre e imitare non è copiare» (ivi, p. 145), si aggiunge dunque una più accentuata battaglia contro i letterati tradizionali (nei confronti dei quali Borsieri dichiara, richiamando la «frusta» di Baretti, di voler esercitare «il suo flagello tormentatore», p. 91), che sono
sordi alle trasformazioni della società. Lo
prova la loro continua condanna del romanzo, genere nuovo che ha già conquistato un vasto e nuovo pubblico: Dire che i buoni romanzi non sieno utili, è un mentire per la gola; perché essendovi trasfuse le alte verità della filosofia intorno alle nostre passioni, ai vizi, alle virtù, e alla domestica felicità di ciascuno, in modo però chiarissimo, animato e dilettevole, ne viene che tutti possono raccogliervi od utili esempi o buoni consigli o se non altro l’amore della lettura, che risparmia le colpe commesse per ozio. Volere infine che i nostri storici bastino a tutto, è lo stesso che mostrare poco discernimento. [...] costoro
giovano più ad istituire gli uomini di stato e i capitani ed i princi pi, che non l’umile ed oscuro cittadino» (ivi, pp. 155-56).
43
Se in Di Breme prevale l’interesse filosofico, che porta in primo piano una nuova sensibilità culturale e spirituale, in Borsieri l’ironia del testo traduce con immediatezza le polemiche del tempo. In più luoghi lo scrittore afferma il ruolo della letteratura — e del vituperato genere romanzesco — nella società, grazie al quale si modifica sia la figura dello scrittore sia la composizione del pubblico, espressione delle forze sociali più vive: «Non si può chiamar fiorente la coltura d’una nazione quando ella vanta soltanto qualche grande scrittore; ma bensì quando, oltre i rari ottimi, ella
ne possiede molti buoni, mediocri moltissimi, cattivi pochi; e v’'aggiunge infiniti lettori giudiziosi. Allora si forma, dirò così, un’invisibile catena d’intelligenza e di idee tra il genio che. crea e la moltitudine che impara» (ivi, p. 175). In questa direzione la letteratura diventa un tassello fondamentale nella costituzione di una nazione, e si intravvedono gli intenti che muoveranno i compilatori del «Conciliatore», intellettuali funzionali (e addirittura «funzionari») alla co-
struzione di quella nazione italiana perseguita dagli esponenti più avanzati dell’aristocrazia e della borghesia. Le pubblicazioni di Di Breme e di Borsieri, apprezzate dagli intellettuali
pubblicazione
romantici
del libro
stranieri
(Di Breme
parte per Coppet,
dopo la
ospite
della
Staél), diventano — come i loro autori — il bersaglio dei letterati più tradizionali, ma «anche, viceversa, un sicuro
punto di riferimento per chi sente l'urgenza di superare i limitati confini della tradizione classicista e soprattutto l’urgenza di rifondare il rapporto tra cultura e società. Tra questi, ormai, va annoverato anche Berchet, benché
non si possa seguire l'evolversi del suo pensiero, per la mancanza di testimonianze dirette (le sue lettere di quegli anni sono andate perdute o distrutte). Lo scrittore ha già raggiunto un posto non secondario nella cultura milanese (proprio nel 1816 è ricordato da Porta tra i più significativi letterati di Milano, nel dodicesimo sonetto contro «don Giavan», il classicista Pietro Giordani, e nel 1817 da Di Breme, che richiama i «titres littérai-
res qui parent déjà son nome», prima della pubblicazione
44
della Lettera semiseria: cfr. L. Di Breme, Grand Commentaire, Marzorati, Milano 1970, pp. 176-77); con tutta probabi-
lità è impegnato nella lettura dei testi più in voga (la traduzione dell’A/lerzagne è del direttore dello «Spettatore» ed è impensabile che il poeta non la conoscesse); legge in originale, grazie alla sua conoscenza delle lingue straniere, libri non ancora tradotti (come l’Estetica di F. Bouterweck, usci-
ta nel 1806); partecipa alle conversazioni sui più scottanti problemi, che animano ormai anche le serate della Scala,
maturando una personale riflessione e la necessità di intervenire nella polemica avviata con un proprio scritto. Sarà la Lettera semiseria di Grisostomo al suo figliuolo, annunciata nell’ottobre e pubblicata da Bernardoni, verso la fine dell’anno, con il titolo completo Su/ «Cacciatore feroce» e sulla «Eleonora» di Goffredo Augusto Biirger. Lettera semiseria di Grisostomo al suo figliuolo. La partecipazione di Berchet alla polemica in corso, e tra gli innovatori, segna un grosso punto a favore dei romantici, tanto che Di Breme lo invita al «fiorito pranzo» da lui organizzato, il 17 ottobre, in onore di Lord Byron, di pas-
saggio a Milano. L’incontro assume un particolare significato per la presenza, con Berchet, di Monti, Bellotti, Borsieri, Hobhouse, Stendhal (ma non Foscolo, — già in Inghilterra — come per errore scrive Camporesi, in Di Breme, Lettere cit.,
p. 378).
Ancora a Berchet fa riferimento Di Breme, in una lettera del 30 ottobre indirizzata a Madame de Staél, raccontando del pranzo e soprattutto della crescita di consensi intor-
no alle idee romantiche: Un écrit va paraître et qui plus est une traduction de l’allemand, que vous devez considérer déjà comme une conséquence et un fruit des conseils que nous avons recu de vous. La sainte croisade grossit tous les jours; la brochure que je vous annonce est l’ouvrage d’un nouveau converti. Jai voulu qu'il solemnist sa résipiscence avec nous, et l’ai prié à un dîner que Lord Byron a bien voulu accepter. C'est qu'il faut se réjouir davantage pour un pécheur repentant, que pour quatre vingt dix neuf juste (Lettere cit., p. 386, corsivi nostri).
45
E subito dopo: «Quand le nouveau coup aura été porté par le converti, on se ressentira amèrement de l’autre còté» (ivi, pp. 386-87).
Le parole di Di Breme sono emblematiche sia per confermare l’importanza di Berchet nella società intellettuale milanese (il suo libro è visto come un «colpo» decisivo contro gli avversari), sia per riaffermare il suo precedente
carattere «neoclassico»: sono troppo insistiti i riferimenti al «convertito» e al «peccatore» che si pente. Ne è una preziosa spia, del resto, l’uso del termine résipiscence, ravvedimento. Comunque sia, Berchet è ormai un romantico, e il suo «discorso» è atteso come un fatto importante.
VI.
«LETTERA AL
SEMISERIA SUO
DI GRISOSTOMO
FIGLIUOLO»
Il titolo e il sottotitolo scelti da Berchet — Su/ «Cacciatore feroce» e sulla «Eleonora» di Goffredo Augusto Biirger. Lettera semiseria di Grisostomo al suo figliuolo — rivelano il carattere «doppio» della pubblicazione, che da un lato introduce una riflessione teorico-critica su alcuni componimenti poetici, dall’altro insiste con sarcasmo nella polemica contro i classicisti. Non è senza significato, del resto, che a indicare lo scritto di Berchet si sia imposto con decisione il sottotitolo, quasi indicando nella polemica «militante», nella denuncia ironica, il maggior valore dello scritto, e passando in second’ordine il punto di partenza: la richiesta, da parte del figlio del «povero vecchio» Grisostomo, della «traduzione italiana» di due poesie di Biirger. È l’occasione per riprendere l’argomento delle traduzioni, ma il punto di vista è del tutto differente rispetto a quello delle polemiche dei mesi precedenti. Senza nemme-
no porre il problema della necessità o meno di tradurre dalle letterature straniere, Berchet affronta una questione apparentemente più tecnica: la scelta di rendere in prosa o in poesia un testo straniero. La risposta di Grisostomo va
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ben oltre la domanda, introducendo una serie di motivi (alcuni dei quali hanno sullo sfondo la lettura di Madame
de Staél) schiettamente romantici: dalla condanna di un «sistema esclusivo» in base al quale compiere delle scelte («Le ragioni che devono muovere il traduttore ad appigliarsi più all'uno che all’altro partito stanno nel testo», II, p. 9), e alla consapevolezza che «i termini convenzionali per l’espressione del bello non sono da per tutto i medesimi», dipendendo dalle diverse sensibilità di «ciaschedun popolo» (ibid.).
i
L'importante sarà dunque, per un traduttore, cercare di «darci a conoscere il testo, non di regalarcene egli uno del suo» (II, p. 10), travisando, con uno stile non corrispondente all’originale, le intenzioni dell’autore. In questo senso la traduzione in prosa permette di raggiungere più facilmente la conoscenza, senza la pretesa di trasmettere il valore poetico dell’originale e, a questo proposito, Berchet aggiunge un’annotazione dal significato rilevante (come ha suggerito Aurigemma in Poetica linguistica e linguaggio artistico di Giovanni Berchet, in Studi sul Berchet, pp. 279-303):
la
differenza tra lingua della poesia e lingua della prosa, che rispondono a due ordini diversi di funzionalità. Se la poesia, infatti, può appoggiarsi con più facilità alle convenzioni della tradizione (e per questo «per rispetto solamente alla lingua [...] verseggiare costa meno pericoli», II, p. 11), la prosa deve, altrettanto necessariamente, misurarsi
con una realtà linguistica in continuo movimento: «Confesso che allo scrittore di prose bisogna studiare e libri e uomini e usanze; perocché altro è lo stare ristretto a’ confini determinati di un linguaggio poetico, altro è lo spaziarsi per l'immenso mare di una lingua tanto lussuriante ne’ modi, e viva e parlata ed alla quale non si può chiudere il vocabolario, se prima non le si fanno le esequie» (II, pp. 11-12). In queste affermazioni andrà cercata la novità della lingua stessa della Lettera semiseria, fondata sulla ricchezza di una lingua «viva», contrapposta a quella dei prosatori che si attengono alle norme dei puristi «scrutinaparole» (il termine è del Berchet: II, p. 11). Ad esse occorrerà anche riferirsi esaminando la successiva opera poetica dello scrittore. 47
Ma nella Lettera semziseria, affrontato il problema della lingua, si aggiunge subito una nuova, fino ad allora non
proposta, questione, la cui interpretazione costituirà uno dei punti più discussi anche della critica moderna: la neces-
sità che «la poesia debba essere popolare» (II, p. 13). La formulazione richiama subito la riflessione dei romantici tedeschi (conosciuta direttamente o per la mediazione della Staél), riferendosi, oltre che a Schlegel, a Herder, cui
Berchet arriva vuoi per letture originali (come ipotizza Galletti, nella sua Introduzione alla Lettera serziseria), vuoi attraverso la lettura di Herzensausguss tiber Volkspoesie, cioè le
Osservazioni intorno alla poesia popolare di Biirger (come invece suggerisce Van Nuffel in I/ Romanticismo italiano e la Germania, in Il Romanticismo. Atti del VI congresso dell’As-
sociazione internazionale per gli studi di lingua e letteratura italiana, Akadémiai Kiad6é, Budapest 1968), o ancora per tra-
mite di Sismondi, lo storico molto letto in quegli anni. Il punto di partenza sembra riproporre la cultura italiana settecentesca. Riprendendo, seppure superficialmente, le indicazioni di Vico sulla presenza, in ogni uomo, di una «tendenza
alla poesia»
(II, p. 14), in pochissimi
attiva,
negli altri passiva, in alcuni («lo stupido ottentoto») soffocata da una condizione di bruta sopravvivenza,
in altri «(i
parigini») dal «troppo esercizio» che ha sostituito la filosofia alla poesia (secondo una lettura, ancora una volta superficiale, di Vico, esplicitamente richiamato), Berchet precisa
che «la repubblica delle lettere non è che una, e i poeti ne sono concittadini tutti indistintamente», e aggiunge che il poeta «studia colle opere sue di provvedere al diletto ed alla educazione di tutta insieme l’umana razza» (II, p. 15). A queste considerazioni si aggiunge tuttavia un riferi-
mento nuovo: con uno scarto appena avvertibile, lo scrittore dichiara che «fa d’uopo conoscer[e...] e ravvisar [...] ben bene, e tener [...] conto» (II, p. 16) di quegli uomini che ancora sono capaci di sentire la poesia, e pone il problema del pubblico, che non va ricercato, né nelle «ultime casipole
della plebe affamata», né «nelle botteghe da caffè, ne’ gabi-
netti delle Aspasie, nelle corti de’ principi» (II, p. 17). Ma,
con un ennesimo scarto, la riflessione sulla definizione del
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pubblico si affianca a quella sulla definizione della «nazione»: se infatti il poeta considera che la sua nazione non la compongono que’ dugento che gli stanno intorno nelle veglie e ne’ conviti; se egli ha mente a questo: che mille e mille famiglie pensano, leggono, scrivono, piangono, fremono e sentono le passioni tutte, senza pure avere un nome ne’ teatri; può essere che a lui si schiarisca innanzi un altro orizzonte, può essere che egli venga accostumandosi ad altri pensieri ed a più vaste intenzioni (ibid.).
Il pubblico del poeta viene dunque a coincidere, all’interno di ogni nazione, con quella classe che «comprende tutti gli altri individui leggenti e ascoltanti, non eccettuati quelli che, avendo anche studiato ed esperimentato quant’altri, pur tuttavia ritengono attitudini alle emozioni. A questi tutti io do nome di ‘popolo’» (ibid). Si tratta dunque di quel gruppo che comprende chi sa «leggere e ascoltare» ed è rappresentativo dell’intera nazione (mentre i parigini sono «una minima par-
te della sua nazione» (II, p. 18), asse portante di una realtà politica, secondo alcune riflessioni già avanzate da Foscolo, in particolare nell’Orazione inaugurale al suo corso pavese, nella quale si leggevano termini praticamente analoghi a quelli usati da Berchet: «que’ cittadini collocati dalla fortuna tra l’idiota e il letterato, tra la ragione di Stato che non può guardare se non la pubblica utilità, e la misera plebe che ciecamente obbedisce alle supreme necessità della vita, [...] que’ cittadini che soli devono e possono prosperare la patria,
perché hanno e tetti e campi ed autorità di nome e certezza di eredità e che, quando possedono virtù civili e domestiche, hanno mezzi e vigore di insinuarle tra il popolo e di parteciparle allo Stato...» (U. Foscolo, Dell’origine e dell'ufficio della letteratura, in U. Foscolo, Lezioni, articoli di critica e di polemica. 1809-1811, a c. di E. Santini, vol. VII dell’ed. naz. delle Opere, Le Monnier, Firenze 1972, p. 34). La definizione di «popolo», in questo ambito più precisa di quella, interclassista, elaborata in ambiente tedesco,
scaturisce dunque da considerazioni filosofiche o più generalmente culturali (l'attitudine a «sentire poesia») e si salda 49
a una valutazione che ha connotati anche politici: l’esistenza di una terza classe, che si aggiunge- a quella dei «balordi calzati e scalzi» (per la quale entrano in gioco giudizi morali e sociali, se si tiene conto della diffusa miseria del tempo) e
a quella degli intellettuali per i quali il punto di riferimento non è più la realtà o la diretta esperienza individuale, ma la stessa letteratura («Il giudizio, che i membri di questa classe fanno delle moderne opere poetiche, non suole derivare dal suffragio immediato delle sensazioni, ma da’ confronti. [...] ciò che non somiglia al bello sentito un tempo, pare loro di doverlo ora ricusare», II, pp. 17-18).
‘La questione del pubblico diventa dunque centrale nella definizione di una nuova letteratura, e Berchet scrive che alla terza classe, dove i «veri lettori stanno a milioni», deve
dunque guardare il poeta moderno, «da questa deve farsi intendere, a questa deve studiar di piacere, s’egli bada al proprio interesse ed all’interesse vero dell’arte» (ibid.): in
questo senso «la sola vera poesia [è] la popolare» (ibid.). Se il popolo va dunque cercato «nella terza classe», a questa la poesia popolare dovrebbe essere funzionale. All’altezza cronologica della Lettera semiseria Berchet non approfondisce la riflessione in termini sociali e politici (come negli articoli degli anni successivi), preferendo, sulla scorta degli esempi degli scrittori tedeschi, tornare a riferirsi a un carattere generale della poesia popolare, valido indipendentemente dalla definizione di «popolo». Gli esempi dei «poeti moderni d’una parte della Germania» costituiscono un valido supporto al discorso di Berchet, che considera la novità dei tedeschi come il frutto dei loro «studi profondi fatti sul cuore umano, sullo scopo del-
l’arte, sulla storia di lei e sulle opere che in ogni secolo produsse» (II, p. 18), e caratterizzate soprattutto dalla distinzione tra poesia «classica» e «romantica», per indicare le «facce differenti» dell’arte, nate «seguendo l’indole diversa dei secoli e delle civilizzazioni» (II, p. 19). Nella Lettera
semiseria si raccolgono quindi sollecitazioni già avanzate dai romantici (in particolare dalle lezioni di Schlegel) e in parte già presenti in Di Breme: se alcuni scrittori «sperando di riprodurre le bellezze ammirate ne’ greci e ne’ romani, ripe-
50
terono, e più spesso imitarono modificandoli, i costumi, le opinioni, le passioni, la mitologia dei popoli antichi», altri interrogarono direttamente la natura: e la natura non dettò loro né pensieri né affetti antichi, ma sentimenti e massime moderne. Interrogarono la credenza del popolo: e n’ebbero in risposta i misteri della religione cristiana [...). Interrogarono l’animo umano vivente: e quello non disse loro che cose sentite da loro stessi e da’ loro contemporanei [...]; cose risultanti dal complesso della civiltà del secolo in cui vivevano (II, p. 20).
Su questa linea va anche letta la scelta di Berchet di tradurre le due poesie d? Biirger, che non vanno infatti considerate un modello da proporre per ragioni d’arte (Berchet, nonostante quanto sostenuto da molti a questo proposito, limita il valore loro attribuito dalla Staél: «ella vi trovò bellezze forse più che non hanno e gli ammirò forse troppo», II, p. 30), ma un esempio dello stretto rapporto che lega le scelte poetiche dell’autore alla cultura della nazione cui appartiene, ragion per cui, molto amati in Germania, i due testi «non saranno forse comunemente gustati tra di noi» (II, p.31). La favola del Cacciatore feroce, infatti, «è tratta da una tradizione popolare in Germania; però è un soggetto bello e opportuno per un poeta tedesco» (II, p. 37). Il suggerimento, dunque, non è quello di riprodurre modelli stranieri che non possono trovare ascolto in un paese nel quale la sensibilità dei lettori è diversa («Noi popoli più meridionali, circondati dalla pompa della natura e dalla perpetua successione delle sue infinite lusinghe, non abbiamo mestieri di andare in traccia di emozioni per sentire la vita», II, p. 48), quanto quello di ricercare con una sensibilità prettamente italiana (che si differenzia da quella tedesca per diversi modi di concepire la religione, di godere della natura, di credere a certe visioni fantastiche) quei motivi che possono dar vita a «romanzi» (nel senso della Lettera semiseria: «romanze», componimenti poetici narrativi) del tutto originali e affascinanti («Caviamo [...] anche noi le malie nostre, e il popolo c'intenderà», II, p. 23), e
vicini a chi li deve leggere: «L'uomo non può pensare all’uomo lontano e posto in circostanze diverse dalle sue con 51
quell’interesse medesimo, con cui egli pensa a se stesso ed
a’ vicini» (II, p. 38). Nella stessa direzione un’altra annota-
zione che darà poi ampi frutti nella riflessione romantica: la necessità di non lasciarsi suggestionare da «soggetti non verisimili» e di attenersi «più volentieri ai soggetti ricavati dalla storia che non agli ideali» (II, p. 51). Riassumendo, nel Grand Commentaire, le indicazioni di Berchet, Di Breme testimonia come la Lettera semziseria, proprio con queste riflessioni più generali, venisse a precisare il carattere romantico della nuova letteratura, richiaman-
do, per altro, spunti già toccati da Intorno all'ingiustizia di alcuni giudizi letterari italiani: M. Berchet recompose l’inspiration en la saisissant dans ses
principes: il évoque toutes les puissances de l’àame d’abord; toutes celles de la nature extérieure; les charmes et les phénomènes des climats; les certitudes, les espérances, les rigueurs méme de la religion immortelle des Chrétiens; nos lois, nos faits, nos usages; il prouve que nous avons là un beau champ; il nous exhorte à épuiser sur ces sujets toute la faculté d’amour et de
terreur; toutes les aptitudes d’élégance et de vigueur; d’essayer toutes les touches màles et voluptueuses dont nous sommes doués; facultés et aptitudes qui assignent seules les confins de l’empire poétique (op. cit., p. 177); [da qui anche la traduzione:] Berchet restaura l’autentica ispirazione cogliendola nei suoi stessi princìpi: evoca tutte le potenze dell’anima, in primo luogo; tutte quelle della natura esteriore; il fascino e le forme di manifestazione dei diversi climi; le certezze, le speranze; la severità stessa della religione immortale dei cristiani; le nostre
leggi, i nostri fatti, i nostri usi; dimostra che abbiamo in essi un bel campo; ci esorta a esprimere a fondo su questi fatti tutta la nostra capacità di amore e di terrore; tutte le nostre attitudini all'eleganza e al vigore; di sperimentare tutti gli atteggiamenti maschi o voluttuosi di cui siamo dotati; facoltà e attitudini che sole segnano i confini dell’universo poetico. -
La Lettera semiseria veniva così ad allinearsi alle riflessioni proposte dagli altri «discorsi» dei romantici italiani. Berchet entra anche nel merito della discussione, quando, per bocca del curato di Monte Atino (alter ego dell’autore),
da
ammonisce a rendersi «coevi al secolo vostro e non ai secoli seppelliti», cercando «di piacere al popolo vostro», investigando «l'animo di lui», «pascendolo di pensieri e non di vento» (II, p. 25), pena il «far voi da autori insieme e da
lettori». Sono queste, in fondo, le poche norme indicate da chi proclama l’assoluta inutilità delle poetiche («Al diavolo colle Poetiche!», II, p. 29), e quindi di una normativa (Ber-
chet ironizza scrivendo: «rimpinzare di regoluzze un libruzzo a trenta maestruzzi»). Nello stesso punto si suggerisce,
invece, l’utilità dell’estetica, cioè dell’indagine sul fine dell’arte («i filosofi estetici io non li confondo con gli scrittori di Poetiche. No, no, quelli li rispetto, e glielo giuro sull’onor mio», II, p. 30). Proprio per questo, dunque, il poeta può prescindere dai «sistemi costrittivi» (sono parole di Berchet, ivi, p. 27),
perché «se la poesia è l’espressione della natura viva, ella deve essere viva come l’oggetto ch’ella esprime, libera come il pensiero che le dà moto, ardita come lo scopo a cui è indirizzata»: le stesse forme (cioè «la lirica, la didascalica, l’epica, la drammatica», e non «la forma» come qualche commentatore
moderno
ha sostenuto!)
«non costituiscono
la di lei essenza, ma solo contribuiscono occasionalmente a dare effetto alle di lei intenzioni» (ib:4.). Con una libertà dagli schemi che è stata presa da molti
commentatori
per superficialità e trascuratezza
(Calcaterra, introducendo
stilistica
la Lettera semiseria in Manifesti
romantici, p. 420, scrive che questo «sotto l’aspetto critico [è] il punto più debole della lettera»), Berchet afferma che la poesia «ha diritto [...] di adoperare mezzi modificati in infinito» e quindi «a sua posta ella unisce e confonde insieme in mille modi le quattro forme elementari, derivandone mille temperamenti» (II, p. 27). E aggiunge ancora: «Il sentimento della convenienza, che induce il poeta alla scelta di un metro piuttosto che di un altro, è contemporaneo nella mente di lui alla concezione delle idee ch’egli ha in animo di spiegare nel suo componimento ed al disegno che lo muove a poetare» (ivi, p. 28). A poche pagine dalla conclusione, il tono della lettera 53
cambia del tutto, con l’ammonizione: «Figliuolo carissimo, [...] ti sarai pure accorto che fin qui la lettera mia non fu che uno scherzo» (ivi, p. 52). Fingendo di suggerire finalmente le uniche vere indicazioni per un giovane letterato,
Grisostomo-Berchet propone tutti i luoghi comuni presenti nelle pagine dei classicisti: dall’opposizione al termine romantico («la Crusca non ne fa menzione») alla condanna della tragedia moderna, che pretende di rispettare solo l’unità d’azione, all’esaltazione dell’oraziano uf pictura poésis, contro le contrarie affermazioni di Lessing (citato nella lette-
ra come uno dei «filosofi estetici» più cari al curato di Monte Atino), fino alla denuncia di essere «figli degeneri» lanciata contro «certi lilliputti nostrali» che fanno propria «la sentenza universale d'Europa contro la cara patria nostra», cioè l'invito a guardare fuori dei confini italiani per rendere più moderna la cultura nazionale. Il tono di Berchet è, dal punto di vista dei classicisti, talmente credibile, che, per testimonianza di Di Breme (an-
cora nel Grand Commentaire), «beaucoup de ceux sur lesquelles elle tomboit directement, l’ont prise au sérieux et ont acceptée comme une rétractation que l’auteur y faisoit,
des doctrines qui la précèdent» (op. cit., p. 179). In realtà l'ironia dello scrittore si spinge al punto di imitare, nel penultimo capoverso del suo scritto, la prosa cruscante, raggiungendo l’apice del sarcasmo che già circolava nelle pagine immediatamente precedenti: l’introduzione di «unquanco»,
«conciossiaché»,
«otta a otta» e così via,
dovrebbe essere l'esemplare documentazione della bontà dell’invito immediatamente precedente: «allorché uscirai di collegio, preparati a dichiararti nemico d’ogni novità» (II, p. 58). Oggetto, come già gli scritti di Di Breme e di Borsieri, di immediata e serrata polemica (alle scarse recensioni corrispondono molti attacchi impliciti: ad esempio «la sfuriata contro le poetiche fu messa in burla dall’ ‘Attaccabrighe’», annota Li Gotti, p. 99), la Lettera semziseria assume piena-
mente il ruolo di pubblicazione «militante», impegnata ad affermare le ragioni per le quali era necessario, per la cultura italiana, uscire dai ristretti confini fissati dalla tradizione.
54
Se le idee sostenute in questo terzo «manifesto» sono nel complesso scarsamente originali sul piano della novità (poco approfondita è soprattutto la riflessione filosofica), e se alcuni giudizi letterari sono sicuramente approssimativi
(ad esempio la condanna della novella di Boccaccio su Guido degli Anastagi, perché fuori luogo davanti alla «gente cattolica» cui il novelliere si rivolgeva), nuova è l’introduzione di alcune sollecitazioni nel dibattito in corso. Nuovo era, per esempio, il suggerimento di leggere la poesia tedesca
come esempio di una letteratura «popolare», perché «nazionale»: alcune riflessioni foscoliane si arricchivano con suggestioni straniere, mostrando che l’utilità della poesia, nonostante la formulazione settecentesca («Sentirono essi [i poe-
ti tedeschi] che la verissima delle muse
è la filantropia, e
che l’arte loro aveva un fine ben più sublime che il diletto momentaneo
di pochi oziosi», II, p. 22), si esplicava nel-
l’educare il «popolo», cioè quella classe sulla quale una nazione si fonda; e nella poesia si intrecciano «tendenza poetica», «virtù morale», «istituzioni civili», «leggi religiose», «altre circostanze politiche» (ivi, p. 17).
Le sollecitazioni sulla poesia popolare oscillano, tuttavia, tra la poesia creata dall’artista e indirizzata esplicitamente alla «terza classe», considerata «popolo», e una poesia elaborata su materiali raccolti dalla tradizione «nazionale» e «popolare», secondo quanto suggerito dalle pagine degli scrittori tedeschi. Per questi ultimi, infatti, il «popolo» coincideva con la «nazione», e dunque comprendeva tutti coloro che, indipendentemente dalle diversità sociali, alla nazione appartenevano per ragioni etniche, culturali, religiose, linguistiche. Berchet, nella Lettera semziseria, non supera la dicotomia qui indicata, rivelando che la sua natura non era quella del filosofo ma del «militante» pronto a cogliere l’importanza di certe indicazioni e soprattutto abile nel tradurle in un linguaggio adatto al pubblico che vuole raggiungere: in questo caso i letterati italiani, cui fare arrivare la ricchezza della nuova sensibilià romantica, destinata ad allargare il pubblico della poesia e dunque ad aumentare l'importanza della letteratura nella società.
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Per i letterati. classicisti queste idee suonano davvero provocatorie, e le reazioni non si fanno attendere. Di lì a pochi mesi Carlo Giuseppe Londonio, classicista di spirito liberale, pubblica, nell’opuscolo Cenni critici sulla poesia romantica, una aperta polemica con l’ideale di «poesia popolare», scrivendo che un sentimento generoso e patriottico animò l’estro dei poeti [...]
Per tal guisa il popolo e i poeti cessarono di essere stranieri vicendevolmente, e la poesia poté arricchirsi dei sentimenti e delle passioni della moltitudine. Ma mentre è giusto di applaudire a quel nobile entusiasmo [...] non si può a meno di deplorare come uomini di princìpi tanto generosi e dotati di tanta facoltà poetica siensi lasciati troppo facilmente trasportare dall’ambizione di vani applausi a lusingare i pregiudizi e le superstizioni popolari, e che nella forma e nella tessitura de’ loro componimenti abbiano sagrificato all’incolto gusto della moltitudine l’osservanza di quelle norme uniche ed invariabili di cui i greci ci lasciarono l'esempio nei loro inarrivabili modelli. E a gran partito s'ingannano coloro che pretendono il poeta debba servire al gusto e ai pregiudizi della moltitudine, poiché in fatto di arti e di lettere il popolo non è giudice competente: e in quella guisa non è atto a distinguere le bellezze o i difetti d’un quadro o d’una statua, così egualmente non può giudicare del merito d’una tragedia o d’un poema (in Discussioni e polemiche, pp. 229-30).
L’ambiguità dell’accezione del termine «popolare» è dunque già manifesta, tanto che se Londonio, trascurando le osservazioni della Lettera serziseria sulla distinzione tra «ottentotti» e «parigini», ma accettando un confronto con la cultura «popolare», rivendica il ruolo dirigente degli intellettuali («Se dunque [...] risulta necessario
che il poeta
consulti nella scelta dell’ideale la religione, i costumi, il carattere del popolo, dèe d’altronde [...] prender norma nel resto dai princìpi dell’arte e dal modo di pensare della parte migliore e men numerosa della nazione», II, p. 230), altri polemisti volgari attaccano il Romanticismo proprio per la sua attenzione al «popolo», confuso con gli «ottentotti»: «Vogliamo concedere che così adoperando piaceranno al popolaccio, ma dispiaceranno agli uomini di senno»,
si legge in un articolo anonimo del numero di dicembre 56
1817 della «Biblioteca italiana» (cfr. Discussioni e polemiche, p. 238).
La poesia «popolare» è un punto di facile attacco, proprio per i possibili equivoci che genera. Meno facile interpretare a proprio piacimento altri spunti polemici della Lettera semiseria, altrettanto funzionali all'intervento «militante» dello scritto: ad esempio l’invettiva contro le poetiche a favore della «filosofia estetica». L’impeto del discorso del curato di Monte Atino (dietro il quale andrebbe riconosciuto, secondo molti, il carattere animoso dello stesso Berchet)
esalta l’estetica in quanto si interroga sul fine e sul compito «universale» dell’arte e della letteratura (in questo senso si può leggere anche l’apprezzamento, già ricordato, dei poeti tedeschi per i loro «studi profondi fatti sul cuore umano, sullo scopo dell’arte»), mentre condanna la poetica, perché, in accordo con l’ampia diffusione di testi di precettistica, fissa in rigide norme i modelli da seguire. Paradossalmente, tuttavia, gli scritti dei romantici — e
segnatamente quello di Berchet — si offrivano più come testimonianze di una nuova poetica che come esempi di «filosofia estetica», suggerendo agli scrittori di interrogarsi sia sulle ragioni del proprio lavoro, sia sulle possibili vie da intraprendere: in Berchet quelle della «poesia popolare», quelle dei «soggetti storici», e comunque tutte quelle che meglio collegano lo scrittore ai suoi lettori, dal momento che, se la letteratura ha gli stessi fini ovunque, il prodotto letterario non può invece prescindere dall’interesse del pubblico. Ma, per il Berchet della Lettera semziseria, questo pubblico è il «popolo», cioè il gruppo sociale e culturale sul quale deve costruirsi la «nazione». La riflessione torna a farsi politica, addirittura con il suggerimento di una «pre-nazione», fondata sulla cultura: «E se noi non possediamo una comune patria politica, [...] chi ci vieta di crearci intanto, [...], a conforto delle umane
sciagure, una patria letteraria comune?» (II, p. 24). La letteratura, che deve essere funzionale alla patria, può contribuire alla preparazione del sentimento patriottico quando la patria ancora non c'è come entità politica.
In questa direzione la specificità del Romanticismo italia57
no si manifesta subito nel suo aspetto più rilevante, quello di testimone di una nuova sensibilità letteraria e di interprete di un obiettivo politico: i due aspetti sono per altro strettamente intrecciati al punto che, se è vero che la letteratura ha un ruolo politico, il legame dello scrittore con le problematiche politico-morali non può che favorire una letteratura più alta. Questo intreccio è ben presente nel «manifesto» di Berchet: attraverso la riflessione sulla letteratura «popolare» balza in evidenza il motivo politico, e tuttavia, combattere i classicisti — e la loro lingua — se ha il valore di un impegno per un diverso ruolo «politico» della letteratura, ha un obiettivo che è anche letterario: sottrarre la letteratura al «puro gioco».
Proprio per questa considerazione Berchet non esita ad utilizzare una prosa moderna, coscientemente funzionale alla trasmissione delle idee romantiche, e già di per sé in grado di contrastare la scrittura dei classicisti, rivelando, anche attraverso la lingua, il nuovo atteggiamento intellettuale. La prosa di Berchet viene a tal punto a contrastare la scrittura tradizionale che ancora De Sanctis, giudicando la Lettera semiseria sul piano dell’arte e non su quello della militanza culturale (e dunque della «comunicazione», secondo le indicazioni dello stesso Berchet sulla lingua della prosa), la considera «scritta un po’ currenti calamo» (De Sanctis;-pue129):
L’obiettivo di Berchet non era la pubblicazione di un testo d’arte, ma la vittoria delle nuove idee.
VII.
GLI
ANNI
DEL
«CONCILIATORE»
Grazie alla pubblicazione della Lettera serziseria, Berchet instaura nuovi legami con gli scrittori del tempo, e rafforza quelli già esistenti. Diventa intensa l’amicizia con Alessandro Manzoni, che, nonostante l’esplicita scelta di non impegnarsi nella vita pubblica, è ormai un importante punto di riferimento, 58
soprattutto per il gruppo di amici che riceve nella casa di via del Morone. All’uscita della Lettera semziseria, Manzoni scrive, parodiando le forme dei classicisti, un’ode intitolata
L'ira d'Apollo per la lettera semiseria di Grisostomo (cfr. A Manzoni, Scritti non compiuti, a c. di M. Barbi e F. Ghisalberti, Casa del Manzoni, Milano 1950, pp. 83-86) nella
quale immagina che il «delfico Nume sovrano» sia pronto a colpire con «acuto strale» la città di Milano, che «lascia in vita» chi ha osato «sfidar non pavido / tutti gli Dei, tutte le Dee del cielo» (vv. 29-30).
Più importanti le parole scritte in una lettera a Fauriel del marzo del 1817, con l’invito a leggere la Lettera semiseria, che offrono una precisa testimonianza dell’accoglienza a Milano del libro.di Berchet:
Vous trouverez ci-joint un petit ouvrage que je désire que vous lisiez; si vous le trouvez, comme j’espère, digne de louange, veuillez m’en dire un mot qui fera surement plaisir è l’auteur. Son livre a fait ici beaucoup de bruit, et on s’appréte a le réfuter, ce qui ne doit pas étre trop aisé, puisqu’il a eu soin de . mettre en avant en se moquant les argumens dont on se serais probablement servi pour cela. [... Berchet] a beaucoup d’esprit comme vous verrez par son livre, et en outre un goùt pour les lettres exempt tout à fait du petit esprit de parti et de la charlatannerie qui les déshonorent (Tutte le lettere, p. 167).
Il rapporto di Berchet con Manzoni si sviluppa dentro un circolo di amici letterati (definito da Ermes Visconti il
«crocchio
supra-romantico
della contrada
del Morone»:
comprendeva, oltre a Berchet e allo stesso Visconti, G. Torti, G.B. De Cristoforis, più tardi T. Grossi), riconosciuto come gruppo omogeneo dall’altro gruppo romantico mila-
nese, quello di Di Breme, Pellico, Borsieri, con i quali si instaura un confronto a distanza: «Berchet capita qualche volta da Lodovico, e ci dimostriamo stima reciproca, ma non ci frequentiamo abbastanza per conoscerci bene», scrive Silvio Pellico al fratello Luigi, il 7 luglio 1817 (in S.
Pellico, Lettere milanesi, a c. di M. Scotti, supplemento al «Giornale storico della Letteratura italiana», Loescher, Torino 1963, p. 94). Dei primi mesi del 1817 è anche una 59
lettera di Di Breme, indirizzata a Giuseppe Grassi, a Torino, nella quale Berchet è presentato con molti elogi, a conferma del successo della Lettera semziseria: «Se mi vuoi toccare il cuore accogli il mio amico Berchet [...] In somma, ti
raccomando il sig. Berchet con tutta quella sincerità d’affetto che te lo ha da rendere prezioso. Non ti fo il suo panegirico, perché sarebbe materia lunga, e al tuo buon naso ogni poco è superfluo quando si tratta di persona colta e più che colta, anzi decisamente letterata» (Lettere, p. 410). E tutta-
via, poche righe più sotto, confermando implicitamente l’affermazione di Pellico, Di Breme, nell’alludere alla pubblicazione ormai prossima del Grand Commentaire, invita Grassi a non farne motto «col Berchet che non ne sa nulla» (ivi, pp. 410-11).
Il confronto è comunque fecondo e nella citata lettera di Pellico è già avanzata la possibilità di un’iniziativa comune: «Il nostro giornale tanto meditato unirebbe la società di Berchet e la nostra, ma le volontà non sono ancora sufficientemente concordi» (op. cit., p. 95). Nemmeno un anno do-
po, comunque, scrivendo ancora al fratello, Pellico può ormai parlare concretamente del giornale: «sai che uscirà due volte alla settimana; sai che si chiama il Conciliatore; sai che i socj sono i Conti Porro e Confalonieri, Monti, il nostro Lodovico, Borsieri, Berchet ed io» (ivi, p. 142). Può
stupire l’inserimento del nome
di Monti:
tenuto in gran
conto dai giovani scrittori, che lo consideravano loro vicino (come rivela anche la presentazione della sua figura nelle
Avventure letterarie di un giorno di Pietro Borsieri), il poeta avrebbe rinunciato all’impresa, motivandola con ragioni di impegni privati (gli attacchi al Romanticismo verranno col tempo): «Una società di persone letterate ha pubblicato il manifesto di un nuovo giornale, e mi ha messo in croce perché io voglia essere del numero. Ho fermamente ricusato a siffatto onore; non perchè io faccia poca stima dei compilatori, ai quali sono legato da amicizia da lungo tempo, ma perché le altre mie occupazioni non lo concedono» (così in una lettera a Giulio Perticari, del 12 luglio 1818, in V. Monti, Epistolario, a c. di A. Bertoldi, vol. V, 1818-1823, Le Monnier, Firenze 1930, p. 86).
60
E ancora Pellico a spiegare che «abbiamo fervore, gran proponimento di moderazione, di rinunzia alle divisioni settarie, di fratellanza con tutto il buono»
(ibid.): da qui lo
stesso titolo «Conciliatore» (che sostituiva alcune proposte formulate dal «crocchio» di Di Breme negli ultimi mesi: da
«Il bersagliere» al «Messaggero delle Alpi») e il motto «Rerum concordia discors». Il «programma» della nuova rivista, il cui primo.nume-
ro esce il 3 settembre 1818, è affidato a Borsieri, che intro-
duce subito una delle nuove riflessioni imposte all’attenzione dai «manifesti» romantici, e in particolare dalla Lettera semiseria: quella sul «pubblico». Se fino a pochi anni prima «non v'era [...] tale e tanto numero di lettori giudiziosi, che
bastassero a costituire un pubblico giudicante, indipendentemente dalle opinioni di scuola, o da quelle divolgate dalle sette letterarie e dalle accademie», ora il pubblico è un referente ormai imprescindibile del fatto letterario, e richiede agli scrittori un atteggiamento nuovo: «Pare a noi che una sì felice disposizione degli animi non venga bastantemente consultata e messa a profitto dai nostri scrittori di
cose morali e letterarie» (I/ «Conciliatore». Foglio scientifico-letterario, a c. di V. Branca, Le Monnier, Firenze 1953,
vol. I, p. 4 e p. 5). Le parole di Borsieri saldano gli accenti delle Avventure letterarie di un giorno a quelli della Lettera semziseria, affermando che la letteratura deve modificarsi non solo per la nuova sensibilità dello scrittore, estranea ormai all’imitazione dei classici, ma perché deve rivolgersi a un pubblico diverso da quello della tradizione. Del resto, proprio presentando sul «Conciliatore» la nuova poesia romantica, nel 1818, Ermes
Visconti scriverà, in una nota significativa,
perché sembra ridurre a un solo motivo la polemica classicisti e romantici, che «non per capriccio s’insiste sulla esclu-
sione del classicismo, ma per convinzione che bisogna abbandonarlo, chi voglia trattare di cose interessanti i lettori» (Idee elementari sulla poesia romantica, in Discussioni e pole-
miche, p. 438). L’attenzione degli animatori del «Conciliatore» nei confronti del pubblico va iscritta in una più vasta battaglia 61
culturale per il rinnovamento della società; quanto detto per la Lettera semiseria può essere ripetuto per la rivista: gli obiettivi della trasformazione letteraria e politica non solo devono essere perseguiti contemporaneamente, ma il raggiungimento di risultati positivi in un ambito arricchisce, inevitabilmente, anche l’altro. Proprio Berchet scrive esplicitamente, in uno dei suoi primi articoli, che «la strettezza de’ vincoli che congiungono sempre le lettere alle opinioni politiche, religiose e morali, a tutta insomma la civilizzazione dei popoli, era tuttavia un mistero in Italia», e, riprendendo alcune considerazioni della Lettera semiseria, invita a superare l’idea che i libri siano
«semplici azioni individuali» e non «espressione della qualità dei secoli», «un lusso lodevole delle nazioni» e non «un
bisogno perpetuo dell’uomo sociale» (II, p. 76). Sempre sulla stessa linea, è ancora di Berchet la. puntualizzazione secondo la quale i romantici non pretendono «di dire che la letteratura sia l’unica guida che possa condurre i popoli alla prosperità. Persuasi nondimeno ch’essa vi contribuisca non
poco, crediamo fermamente d’altronde di dovere in essa ravvisare la spia più veridica del grado di civilizzazione ne’ popoli, e quindi il termometro della loro maggiore o minore prossimità alla perfezione del vivere sociale» (ivi, p. 78). E con lucida consapevolezza afferma esplicitamente il carattere «politico» della letteratura, invitando a prestare attenzione «allo studio delle letterature straniere, non tanto, se così vuolsi, per necessità estetica quanto per necessità politica» (ivi, p. 79). Recensendo nel numero del 24 dicembre 1818 la pubblicazione di un discorso di Guglielmo Roscoe (letto in occa-
sione dell'apertura dell'Istituto Reale di Liverpool nel novembre del 1817), Berchet torna su queste riflessioni: «chi considera l’attuale nostra civiltà [...] vedrà esser dover suo
il contribuire quel tanto che egli può al miglioramento della coltura pubblica, ed il combattere sempre più la tristezza di quei pochi che vorrebbero far della sapienza un monopolio e tener nella ignoranza il prossimo, onde non trovar contrasti a’ lor maligni disegni» (ivi, p. 119).
Anche una recensione anonima a Lettere famigliari astro62
nomiche del signor conte Giacomo Filiasi, sul numero del 4 febbraio 1819, soffermandosi sull’importanza del pubblico femminile, precisa ulteriormente le idee degli uomini del «Conciliatore»: Rispettiamo moltissimo que’ gravi libri scientifici che sono capiti da’ soli dotti, ma il nostro desiderio si è che le scienze si smascherino qualche volta della loro gravità e si facciano conoscere ed amare anche da chi ha la disgrazia di non essere nato per divenir dottore. E questa disgrazia l'hanno, oltre il maggior numero degli uomini, anche tutte le figliuole d’Eva che non sono una piccola parte del genere umano, e che pure, senza lordarsi della polvere delle biblioteche e senza cessare d’essere piacevoli, vorrebbero talora imparare qualche cosa di sodo ne’ libri (Il «Conciliatore», vol. I, p. 150).
Gli interventi di Berchet (e di altri compilatori) sembra-
no dunque sciogliere l'ambiguità del concetto di «popolo», che ora indica chiaramente «la classe [...] che per prima è pervenuta alla consapevolezza storica e sociologica di sé quale popolo, la borghesia» (Derla, p. 295). In questa direzione la rivista milanese — proponendosi come erede del «Caffè» di Verri e Beccaria (è sempre Berchet a scrivere che gli scrittori del «Conciliatore» sanno «in coscienza d’aver comune [...] l'intenzione» con quelli del «Caffè», II, p. 184), e pubblicando anche articoli di economia, di pedagogia, di analisi sociali — si offre come l’espressione più evidente dello sforzo dei più aperti gruppi dell’aristocrazia illuminata e della borghesia intellettuale, impegnati ad affermare il proprio ruolo di classe dirigente di una nuova società italiana, all’altezza delle società moderne. Gli scrittori romantici non si limitano dunque a proporre una trasformazione letteraria: «tu vedi che l’impresa del ‘Conciliatore’ è puramente patriottica», scrive Silvio Pellico al fratello Luigi nel maggio 1819 (op. cit, p. 173), affermando per altro che «romantico fu riconosciuto per sinonimo di liberale, né più osarono dirsi classicisti, fuorché gli ultra e le spie» (ivi, p. 171).
In questo contesto il ruolo di Berchet non è secondario, anche al di là della sua diretta collaborazione con i dicianno63
ve articoli firmati con lo pseudonimo ormai affermato di Grisostomo (e eventuali suoi articoli senza firma). Lo rivela-
no le lettere del tempo, confermando sia una focosa passione sia una certa debolezza. C'è, a questo proposito, una
divertita testimonianza di Pellico, che, in una lettera al Di
Breme, del 18 agosto 1818, racconta di una delle sedute di preparazione del «Conciliatore» (quella di sabato 15 agosto), e tra l’altro scrive:
Berchet era di mal umore, e fremeva leggendo un articolo di Romagnosi sul Rorzanticismo, nel quale l'Autore, professando le nostre dottrine, condanna (come già avevi fatto tu) l’inesattezza del vocabolo romantico. Infuriò, gridando che il pubblico crederà che abbiamo la bassezza di ritrattarci, e si fece giurare da noi che gli permetteremo nel suo primo lavoro di stampare una nota, in cui protesterà di essere irremovibilmente romantico. Aggiunse che, se stampavamo l’articolo di Romagnosi, Visconti non ci darebbe forse più niente... ma il giorno dopo sentì che Visconti aveva letto quell’articolo e che ne era contento, e Berchet fu calmato
e buono
come
un
agnello (in L. Di Breme,
Lettere cit., p. 650).
Nella stessa lettera, per altro, si legge, più avanti: «Sai che Berchet parla del Bouterweck divinamente? è piaciuto a tutti» (ivi, p. 651), e lo stesso giudizio era stato dato in
una lettera di Borsieri a Di Breme del giorno prima: «Berchet ha fatto un buonissimo lavoro sopra Bouterweck» (ivi, p. 646).
L'articolo dedicato alla Storia della poesia e dell’eloguenza di Friedrik Bouterweck (il critico e filosofo tedesco già citato nella Lettera semiseria come autore di un’Estetica), esce nei numeri del 1° e 15 ottobre, e del 12 novembre, preceduto da due scritti ironici, Del criterio ne’ discorsi (sulle donne milanesi) e Scortesie maschili al teatro della Scala.
Il primo, in particolare, che, per il suo tono “a volte «scanzonato», suscita stupite reazioni («vi fu l’altro giorno un articolo di Berchet sulle Donne milanesi, molto ridicolo nella bocca di un milanese», scrive al marito Teresa Confa-
lonieri, in Carteggio del conte Federico Confalonieri cit., vol. II, 1911, p. 29), rivela l'intento di Berchet di approfondire,
64
negli articoli per il «Conciliatore», alcuni motivi teorici della Lettera semiseria,
e favorire la divulgazione
delle idee
romantiche. Lo scrittore ripropone la differenza tra poesia e pittura già cara all’estetica di Lessing, e, mantenendo il proposito di scrivere una nota sul Romanticismo, formulato con impeto nella riunione descritta da Pellico, risponde allo scritto di Gian Domenico Romagnosi, Della Poesia considerata rispetto alle diverse età delle nazioni, uscito sul numero
immediatamente precedente. Alle domande «Sei tu romantico?» e «Sei tu classico?» Romagnosi rispondeva ugualmente di no, affermando di essere «:ilichiastico, se vuoi che te lo dica in greco, cioè adattato alle età» (I/ «Conciliatore», vol. I, p. 55), esprimendo, per altro, un ideale romantico («[...] noi saremo eternamente figli del tempo e del luogo in cui viviamo»), ivi, p. 58) che ritorna in tante pagine berchettiane. Berchet, rispondendo a distanza, ma senza citare il suo antagonista, afferma di ritenere la divisione «della poesia in ‘classica’ e ‘romantica’ [...] utilissima sia alla teoria che alla pratica» (II, p. 65). Nel corso della nota si indicano alcuni punti teorici che, riproponendo gli stessi termini usati da Schlegel e ripresi da Madame de Staél nel capitolo XI dell’A/lemagne, chiariscono il pensiero di Berchet, e i suoi riferimenti. Per altro la scelta di affidare a una nota alcune precisazioni teoriche scopre la volontà dello scrittore di rivolgersi al più ristretto pubblico dei letterati («I lettori discreti vorranno perdonare all’estensore d’averli sviati in
questa nota, forse di nessuna importanza per essi, ma importantissima per lui, nella tanta discordia pubblica delle opinioni», ivi, p. 65, nota 1).
Berchet scrive dunque che la distinzione tra poesia «classica» e «romantica» ha un valore teorico, «perché serve a caratterizzare con due denominazioni generiche le invenzioni poetiche ispirate dal cristianesimo e dalla civilizzazione europea dopo l’invasione de’ barbari, distinguendole da quelle derivate dal paganesimo e dal complesso de’ costumi in Grecia ed in Roma»; e uno pratico, «perché il parallelo tra le due civilizzazioni tende a far risaltare sempre più evidentemente la pedantesca servilità del classicismo nelle opere moderne» (ibid). Riaffermando l’importanza del ter-
65
mine «romantico» («non per tenerezza ch'egli porti ai voca-
boli, ma perché convinto della convenienza delle idee che con que’ segni s'è voluto indicare»), Berchet «rinnova qui il voto che qualcuno s’incarichi della briga di trattarne ex professo in un’opera italiana, raccogliendo ciò che di meglio ne hanno già ragionato i tedeschi ed i romantisti francesi, ed aggiungendovi quelle ulteriori riflessioni, quegli schiarimenti, quelle deduzioni e conseguenze che possono giovare all’intelligenza ed al perfezionamento di un sistema di dottrine già propagato in Europa, sul quale si parla tuttavia e si continuerà a parlare dai dotti» (:bid.). In questa nota si delineano bene anche i campi di interesse di Berchet saggista: quello dell’affermazione di una letteratura strettamente intrecciata alla crescita politica e sociale della nazione, quello della divulgazione delle idee romantiche, quello della «filosofia estetica»; i tre campi, pur con accentuazioni differenti, sono strettamente intrecciati.
Lo conferma l’articolo Sulla «Storia della poesia e dell'eloquenza» del Bouterweck,
che; tra l’altro, permette di
intravvedere un Berchet lettore, in originale, della saggistica letteraria tedesca (della Storia si auspica infatti una «traduzione italiana»). Nelle tre puntate nelle quali è diviso si afferma sia l'origine «sociale» della letteratura e il suo ruolo nella società, sia il carattere della poesia moderna, che, secondo le «tendenze filosofiche» della nuova cultura, deve
trasmettere idee feconde sul piano morale e civile. È questo uno dei punti chiave della riflessione di Berchet, che, facendo proprie molte sollecitazioni culturali primoottocentesche,
delinea il carattere dello scrittore, dello
storiografo e del critico letterario, del filosofo di estetica. In evidenza, nel presentare le idee di Bouterweck, è il fatto che «il poeta allora solamente ottiene il fine più sublime e più vero dell’arte, quando tien conto del carattere della sua nazione e del suo secolo, e non lo ributta sdegnosamente come inopportuno a’ suoi intendimenti poetici» (ivi,
p. 96). Ricordando i più importanti poeti italiani tra Settecento e Ottocento, trascurati da Bouterweck, Berchet fa i nomi di Alfieri, Parini, Monti, i cui versi contrasterebbero
66
l'opinione del critico tedesco assertore dell’assenza di una poesia italiana «di pensieri e di riflessioni sull'uomo» (ivi, p. 98). Il primo, infatti, «considerò la poesia e la trattò come un’arte destinata a diffondere nel pubblico le idee più importanti sul merito morale e sulle pubbliche istituzioni», il secondo «consacrò il suo immortale poemetto a deridere l’ozio e la mollezza, e contribuì a far cessare lo sciocco costume de’ cavalieri serventi», il terzo «seppe con rara
felicità fondare sulla religione cristiana un suo epico componimento, ed arricchirne la poesia colla viva pittura di sciagure e di grandi delitti contemporanei»,
e, in un altro testo,
condannando la «corruttela» e la «perversità» di conquistatori e conquistati, in Italia, espresse «coll’entusiasmo de’ versi un lodevole amore dell'ordine pubblico» (ivi, pp, 99-100). In tutti e tre gli esempi citati — e può stupire la presenza di Monti e l’assenza di Foscolo — i poeti sono celebrati per il legame con la realtà morale e politica del loro tempo, che detta versi capaci di interpretare e comunicare un pensiero socialmente utile. È del resto «un delitto, una infamia la professione delle lettere, se in ogni menomo atto non è esercitata come
virtù morale»
(ivi, p. 170).
In uno scritto dedicato alla poesia castigliana, apparso sul «Conciliatore» tra l’agosto e il settembre del 1819, Berchet dirà espressamente che «oggidì [...] nel poeta cerchiamo il poeta e le sue forti sensazioni, non la fredda pompa della sua vasta memoria, non l’arguzia delle sue allegorie, non la magistrale ripetizione delle sentenze rubate di peso al catechismo» (ivi, pp. 208-9), e condannerà la poesia pastorale, definita addirittura «narcotico», per la sua «immensa distanza dal vero della vita» e per la sua «languida efficacia morale» (ivi, p. 216). L’opera dello scrittore trae dunque la propria linfa dal contesto storico e ad esso si rivolge. È questa l’idea portante del Romanticismo di Berchet, ma anche l’asse portante
dell’intero sistema letterario romantico italiano. Ad essa va infatti ricondotto anche lo stesso intervento storiografico e critico. Respingendo la «sola pazientissima flemma d’un raccoglitor di memorie», caratteristica degli storici della letteratuta settecenteschi, Berchet dichiara che «studi più impor67
tanti hanno svegliato ora in noi una tendenza filosofica [...]
la quale ci fa vogliosi di conoscere, più che le cose, le cagioni di esse» (ivi, p. 90). Alle cagioni vanno ricondotti i motivi storici, culturali, politici che, agendo sullo scrittore, ne determinano le scelte, anche formali. Ne è un esempio la Lettera di Grisostomo al molto reverendo signor Canonico Don Ruffino, in polemica con i sostenitori di Tiraboschi, a proposito dell'assenza del teatro tragico presso gli antichi romani. Citando un passo tratto da De /a littérature di Madame de Staél (che implicitamente rivela la consuetudine del critico con i testi del Romanticismo europeo: l’opera non era stata tradotta in italiano), Berchet afferma la necessità di analizzare «le instituzioni civili ed il carattere morale pubblico de’ romani» (ivi, p. 117), per capire le ragioni di quell’assenza, contro la banale interpretazione di Tiraboschi («lo strepito grande che facevasi nel teatro», ivi, p. 118). E parlando di Dante (in consonanza con l’interpretazione di Foscolo affidata nel 1818 alla «Edinburgh Review») Ber-
chet afferma che il poeta volle essere riformatore morale e religioso: «Considerando attentamente la natura dei tempi di Dante, sbalza agli occhi chiarissima l’intima relazione che esisteva tra i bisogni dell’Italia d’allora e le savie lezioni morali e politiche date ad essa dal poeta» (ivi, pp. 125-26). Per quanto riferita alla Divina Commedia, si manifesta in questo passo una precisa idea di critica storico-filosofica, per molti tratti comune a quella foscoliana (vicina a quella, più approfondita, di De Sanctis): «Questo modo di commentare la Divina Commedia non tanto con una illustrazione pedisequa de? fatti, quanto con un esame storico-filosofico de’ tempi, pare che sarebbe da eleggersi da chi imprendesse a fare una nuova
edizione
di essa»
(ivi, p. 126).
L’esame storico-filosofico permette dunque di rileggere la letteratura sia riportandola al tempo nel quale è rìata sia interpretandola in modo funzionale al presente. Ma, come per una nuova poesia, anche per una nuova critica occorre
un rinnovamento complessivo della cultura letteraria: «per poterlo sostituire alla solita maniera di commentare, bisogna avere ingegno e cognizioni più che non ne hanno d’ordi68
nario que’ che si piegano al loro glorioso mestiere di commentatori» (ib:4.). Il legame tra le scelte del poeta e la cultura dei lettori è riconfermato nell’esame delle pagine su Dante del volume di Sismondi Della letteratura del Mezzogiorno d'Europa. Accogliendo con favore le idee del critico d’oltralpe, Berchet scrive che l’argomento scelto da Dante «era per quel secolo il più interessante, il più elevato, il più profondamente religioso, il più popolare di quanti argomenti potessero venire in capo ad un poeta. Era inoltre collegato più strettamente di qualunque altro con tutte le passioni politiche de’ tempi»
(II, p. 132).
Proprio partendo da queste considerazioni Berchet afferma l’improponibilità di utilizzare la mitologia antica o di sostituirvi nuove mitologie: in una polemica con Della romanticomachia, di Ottavio Falletti (duramente antiromanti-
co), si legge infatti che «i romantici stimano molte parti delle poesie attribuite ad Ossian, ma non ne hanno mai consigliata l’imitazione. [...] I romantici non vogliono nelle poesie dei moderni gli dèi d'Omero, ma proscrissero sempre altresì quelli dell’Edda» (ivi, p. 107). Si riafferma invece,
esplicitamente, la necessità di accogliere nei canti solo quanto è ancora vivo «nella credenza del popolo» (ibi4.), bandendo, come Berchet dice in una nota di Su/la Sacontala
ossia L'anello fatale. Dramma indiano di Calidasa, ciò che non ha più possibilità di influire sui lettori, come appunto la mitologia, classica o indiana che sia. Recensendo Narcisa, poemetto di Tedaldi-Fores che sembra assumere i caratteri più convenzionali del Romanticismo straniero (con la morte di Narcisa e la sepoltura negatale, già cantate da Young), Berchet — escludendo l’ipotesi della provocazione polemica: mostrare l’orrido per condannare i romantici — dichiara il suo scontento, e invita lo
scrittore ad «affratellarsi cogli argomenti desunti dalle storie nostre e dai nostri costumi». C'è per altro un’annotazione che svela l’attenzione di Berchet a trovare anche nella sensibilità italiana alcuni motivi tipici della letteratura romantica nordica, ma inseriti in un contesto di lettura diver-
so: «vogliamo tremare e lagrimare e gemere, perché tra i 69
tanti diletti poetici sappiamo anche noi che è soavissimo quello della malinconia e del pianto. Ma le lagrime non sono mai figlie dell’orrore e del ribrezzo». Nello scrittore italiano non viene meno la consapevolezza della necessità di tener conto dell’orizzonte del lettore: «Vogliamo anche noi essere percossi dal terrore. Ma una serie d’idee eccessivamente luttuose e tutte temprate al monocordo, ancorché non uscissero fuor de’ confini del terribile, finirebbe coll’esser orribile, o per lo meno noiosa a’ lettori» (ivi, p. 136). Dalle ultime osservazioni consegue che non ci sono ricette da fornire, per la letteratura romantica, se non quella
di essere yzoralmente fedeli al proprio tempo e ai propri lettori. In questa direzione, tuttavia, Berchet non rinnega i valori artistici, e si interroga sul significato di «estetica» e sul valore della poesia. Ma, ancora una volta, le sue sollecitazioni sono legate a spunti occasionali più che ad approfondite riflessioni, e tante pagine rivelano la sua debolezza filosofica. Immaginando di rispondere alla richiesta di una signora sul significato di «estetica», Berchet ricorre alla voce dell’Encyclopédie (ma dietro le sue parole ci sono anche osservazioni di Melchiorre
Cesarotti)
e definisce l’estetica sia
come «il complesso delle teorie del sentimento» (ivi, p. 103) sia come «la scienza che si propone [lo] scopo» di «cercare le cagioni comuni» del piacere del bello, «cioè di ricercare in genere le qualità che si trovano in tutti gli oggetti belli ed aggradevoli» (ibi4.). Sono affermazioni non approfondite e le esemplificazioni addotte (così come le spiegazioni sul «bisogno estetico», sul «piacere estetico», sull’«interesse estetico») si collocano
sul versante di una
superficiale divulgazione, senza nessun collegamento con la trasformazione del gusto indicata, con precisione, in altri luoghi.
Parlando della poesia ce alla differenza tra due confronti dello sviluppo porre alcuni suggerimenti tà di forme
.
castigliana, Berchet accenna invepossibili atteggiamenti critici nei di quella poesia, venendo così a alla critica letteraria: l’unifotmi70
in un tanto numero di scrittori deve riuscire più interessante per lo storico delle civilizzazioni, che non pel semplice cercatore de’ piaceri che l’animo umano domanda alle arti. Il primo trarrà da essa un argomento sussidiario per istabilire con più certezza qual fosse allora il carattere generale della nazione spagnola; e, non distratto dalla varia espressione de’ caratteri individuali de’ poeti, godrà, leggendo i lor versi, di poter dire: — Ecco dunque il modo universale di sentire a que’ tempi, al di là de’ Pirenei. — Il secondo, per lo contrario, patirà di noia innanzi a tanta monotonia»
(ivi, pp. 214-15).
Si manifesta, attraverso queste parole, un collegamento tra «bisogno» e «piacere» estetico e «poesia»: per quanto impegnata moralmente, la letteratura deve conservare la sua specifica qualità, quella che il poeta deve perseguire con originalità e il critico affermare con i suoi giudizi, perché «è incomportabile in un critico la tolleranza di componimenti mediocri» e la tolleranza, «dovere religioso» e «virtù sociale», «in materie poetiche non è comandata da nessuna filosofia» (ivi, p. 212). Da qui, dunque, la denuncia che in Italia ci sono «tanti poeti quanti sono i suoi scolarini» (‘bid.) e della «vergogna de’ suoi centomila sonetti» (che riprende un motivo già avanzato da Giordani nella sua risposta a Madame de Staél, nel secondo numero della «Biblioteca italiana»), ma anche l'affermazione di un modello di poeta cui guardare per impegno civile e originalità poeti-
ca: «Da qualunque lato tu consideri la mente di Dante, trovi in essa ridotto a realtà l’ideale del vero poeta. L'originalità è un bisogno per lui: è l’esuberanza delle sue forze intellettuali, che sempre gliela comanda»
(II, p. 211).
Sulla scia di Foscolo e di Sismondi, e anticipando De Sanctis, Berchet indica dunque, in Dante, un riferimento preciso ai poeti, rivelando, nonostante le continue dichiarazioni a favore dell’estetica (a partire dall’invettiva del curato di Monte Atino), una scelta di poetica, che, proprio per l’accentuazione del rapporto poeta-proprio tempo, modifica quella presente: già Petrini, del resto, aveva sottolineato che «la discussione romantica e berchettiana intorno all’arte fu non un'estetica ma una poetica: una guida non alla com71
prensione dell’arte, vobell.@pod 4).
ma
alla creazione
Nella poetica berchettiana
dell’arte»
(Petrini,
espressa negli articoli del
«Conciliatore», c'è meno «patetico» romantico (quello esem-
plificato, volente o nolente, dalle ballate del Biirger) e più «storia»: nel senso dell’inevitabile intreccio tra realtà storica e letteratura. Indicando in Dante un modello, Berchet non presenta solo lo scrittore più consono al proprio tempo,
ma anche quello che «essendo un ingegno di gran tratto superiore al proprio secolo, trovò in se stesso di che arricchire il suo tema di sentita e sublime poesia» (II, p. 211). E questo, per il Berchet del «Conciliatore», il compito di ogni poeta, che lo fa essere «popolare», cioè intimamente
«na-
zionale». In queste affermazioni va dunque rintracciata l’idea di poesia definita da Berchet nel suo impegno di saggista letterario e di divulgatore delle idee romantiche. Un'idea ben diversa dalla Naturpoesie, la poesia spontaneamente «popolare», secondo la terminologia di Herder. La sollecitazione della Lettera semiseria per una poesia popolare si chiarisce con gli scritti berchettiani del «Conciliatore»: la poesia deve essere storicamente legata al proprio tempo, capace di raccogliere gli elementi culturali della propria epoca — anche quelli popolari —, ma il poeta deve cercare con originalità la propria forma espressiva. In questo senso ritorna, con insistenza, negli articoli del «Conciliatore» firmati Grisostomo, l’invito a non soggiacere ad alcun modello, a evitare qualsiasi imitazione: «non cesso mai dal raccomandare l’originalità e la scelta d’argomenti adattati alla nostra presente condizione sociale» (ivi, p. 147).
L’idea di una poesia storicamente e geograficamente determinata deve comunque misurarsi con la possibilità della poesia di comunicare al di là del suo tempo: e Berchet, se da un lato riconosce la caducità di molti elementi che attiravano l’attenzione dei lettori per i quali i testi del passato sono stati scritti, dall’altro afferma il persistente interesse per i personaggi di Shakespeare o di Calidasa quando presentano «lo stato delle anime loro, agitate da passioni comuni agli uomini in generale» (ivi, p. 145). 12
Nell’oscillazione tra necessità «estetica» («il piacere del bello»), grazie alla quale la poesia si pone su un piano universale («la poesia [... è] un vero bisogno morale di tutti i popoli della terra ridotti a qualche civiltà», ivi, p. 140), e necessità storica (la formazione di una cultura nazionale, da
raggiungere grazie anche alla letteratura) si misura l’impegno di Berchet saggista del «Conciliatore», un impegno senza pretese teoriche, sia per il carattere «militante» della rivista, sia perché il compito di precisare una «teoria» era
affidato alle Idee elementari sulla poesia romantica di Ermes Visconti. Va infine sottolineato che gli interventi di Berchet prendono quasi tutti lo spunto da libri di autori stranieri, tradotti o no: quelli di Bouterweck, di Sismondi, di Ginguené, di Grégoire, di Ruscoe, di Jullien, di Quintana; a proposito delle edizioni moderne di Calidasa, esprime addirittura un giudizio sulla traduzione inglese di sir Jones, su quella tedesca di Forster, su quella francese di Bruguière. Muovendosi su registri stilistici differenti — dall’ironia
della Lettera semiseria presente in alcune pagine di divertita ma serrata polemica alla più meditata scrittura dei saggi: quello sul Bouterweck o quello sulla poesia castigliana, ad esempio — gli articoli del «Conciliatore» contribuiscono a precisare l’innovazione stilistica della prosa di Berchet, già rilevata da Fubini:
«Dobbiamo
[...] riconoscere che non
solo il poeta, ma anche il prosatore ha un posto suo nella storia della nostra letteratura, una sua ben delineata fisiono-
mia: il bonario, il modesto Berchet ha pur nella prosa una sua forza di scrittore» (Stile critico del Berchet, in Studi sul Berchet, p. 354). Ancora Fubini sottolinea, partendo dalla «moralità» berchettiana e dal suo carattere di «uomo di buon senso» l'originalità del critico anche di fronte agli altri romantici («egli si distingue [...] anche quando enuncia le medesime idee. Non è sua la rigidità consequenziaria di un Ermes Visconti o il pensiero tormentato e non sempre preciso di un Di Breme», ivi, p. 351) e mette in evidenza il particolare stile della scrittura di Berchet:
73
Il suo pensiero tende a concentrarsi
in una
formula o si
dispiega in qualche passo di non grande ampiezza che tutto lo contiene. Ne nascono aforismi, imperativi felicissimi, rimasti nella memoria di ognuno [...]. definizioni sommarie e perentorie [...] o passi in cui quelle espressioni più concitate ma non mai magistrali o pretenziose cedono il luogo a scherzi bonari o a gustose caricature (ivi, p. 354).
Sia per il contributo alla diffusione delle idee romantiche, sia per la loro scrittura originale e moderna, gli articoli del «Conciliatore» assumono, dunque, un'importanza pari a quella della Lettera semiseria, confermando il ruolo primario dello scrittore nell’introduzione della cultura romantica in Italia. La chiusura della rivista, imposta dalle vessazioni della censura austriaca (l’ultimo numero del «Conciliatore», il 118, è del 17 ottobre del 1819: del numero 119 restano
solo i materiali raccolti per il suo allestimento mai avvenuto), blocca l’attività giornalistica di Berchet. Non verrà meno, tuttavia, la riflessione sui problemi avanzati da Grisosto-
mo, e lo scrittore non mancherà di riproporla appena possibile: in lettere private ma anche, a distanza di dieci anni, in una lunga lettera pubblica che si interroga sui molti problemi teorici ancora aperti alla fine del decennio seguente, riproposti, necessariamente, in forma nuova.
VIII.
NUOVI
ESPERIMENTI
POETICI
L’impegno intellettuale e l'intervento «militante» dei romantici italiani, negli anni del «Conciliatore», è sollecitato dalle ricorrenti polemiche accese dai classicisti, che non perdono occasione di mettere sotto accusa le novità, sordi a ogni spiegazione dei giovani romantici (resta utilissima, per documentare il clima di quegli anni, la raccolta di articoli e saggi curata da Bellorini, Discussioni e polemiche sul Romanticismo (1816-1826).
Gli interventi dei classicisti oscillano tra scritti meditati 74
(che a volte rivelano uno sforzo di approfondimento teorico, come ad esempio quelli di Pietro Giordani e di Carlo Giuseppe Londonio), e pagine di modesta levatura intellettuale, destinate alla polemica spicciola. In questa direzione vanno molti opuscoli satirici contro i romantici e molte pagine dell’«Attaccabrighe», rivista fondata nel 1818 dal conte Trussardo Caleppio, commissario di polizia dalle ambizioni letterarie, per contrastare, con mezzi di basso livello, il «Conciliatore», del quale si faceva una parodia nel titolo e nel motto («Rerum discordia concors») e finanche
nella carta, con l’utilizzo di una carta rosa contrapposta a quella azzurra dei romantici. Il 1819 fu un anno di accesa polemica. I classicisti attaccano con il Grande almanacco romantico (uscito alla fine dell’anno precedente), poi con il Grande almanacco estetico per l'anno bisestile 1820, degli astronomi X.Y.Z., con I Romanticisti, melodramma semieroico-tragicomico degli astronomi X.Y.Z., con Marsia, melodramma degli astronomi
X.Y.Z.; i romantici rispondono con il Rorzantismo alla China di Giuseppe Niccolini e con i Sestinn per el matrimoni del sur cont don Gabriell Verr con la sura contessina donna Giustina Borromea, di Tommaso
Grossi e Carlo Porta.
Negli scritti polemici e satirici dei classicisti sono presi di mira gli scrittori più in vista del «Conciliatore», e, tra questi, Berchet. Sull’«Attaccabrighe» del 29 novembre 1818 un articolo, sotto forma di lettera a «don Grisostomo», attacca la Lettera semziseria («briaco libercolo») per la
sua opposizione alle poetiche (cfr. Discussioni e polemiche, pp. 428-32). Nel Grande almanacco romantico 0 sia almanacco più che trascendentalissimo, che porta come luogo di edizione «Romanticopoli», ci sono varie allusioni a Grisostomo Boccadoro (e in una parte intitolata Saggio di sinonimia romantica, a «Boccadoro» viene fatto corrispondere «Bocca d’inferno»). Ma è soprattutto nel «melodramma» I
Romanticisti che Berchet compare tra gli esponenti di una Accademia Romantica, raffigurato in più luoghi nel personaggio «Don Ciccione della Mamma» detto l’Estatico. «Canto anch’io volentieri / Ma sol cose romantiche, patetiche», afferma Don Ciccione appena entrato in scena, pronto sem75
pre a introdurre il punto di vista romantico, così che, dopo aver esclamato «superba birra», canta così: «Or che bevuto abbiamo / Dal romantico Genio, / [...] /Cerchiam la necessaria ispirazione» (citato in C. Cordié, Don Ciccione della Mamma detto l’Estatico, in Studi sul Berchet, pp. 236-54). Lo scontro aperto tfa classicisti e romantici coinvolgeva dunque inevitabilmente i più noti sostenitori del rinnovamento. L’impegno intellettuale, l’attività saggistica, le polemiche culturali, tuttavia, non distolgono totalmente Berchet
dalla poesia. Al 1819 viene generalmente fatta risalire la novella in versi I/ cavaliere bruno, che, interrotta dopo 52
ottave del primo canto, è per la prima volta pubblicata postuma nella raccolta di Cusani. Alla stessa data va ricondotto anche I/ castello di Monforte, incompiuto dopo 332 versi, e anch’esso inedito fino alla edizione di Cusani delle
Opere (secondo il suo primo editore, seguito da alcuni commentatori successivi, il testo sarebbe invece degli anni dell’esilio, e, secondo Petrini, addirittura della metà degli anni Trenta).
Proprio Cusani, in una nota-al Cavaliere bruno, sottolinea che Berchet abbandona con questi versi «la scuola classica per seguire la nuova del Romanticismo», aggiungendo che la novella «è del genere dell’I/degonda di Grossi suo amico; e lavoravano insieme per sostenere anche con componimenti poetici le teorie letterarie di cui s'erano dichiarati campioni» (Cusani, p. 416, nota 1). Nel «crocchio supra-romantico» ispirato da Manzoni, la
riflessione sulla poesia è al centro dell’attenzione, come dimostrano le Idee elementari sulla poesia romantica di Ermes Visconti, che della casa di Manzoni era uno dei frequentato-
ri abituali. Proprio Visconti aveva ammonito «non solo si preferiscano solitamente soggetti storici, sì pel teatro che per i poemi, ma si trattino seguendo la storia e profittandone più che non abbiano fatto i nostri predecessori; perché la riproduzione del passato, l’intuizione di uomini e casi che
produssero effetti reali nel mondo, è uno spettacolo più serio, che non fatti chimerici assortiti dalla fantasia d’un individuo» (in Discussioni e polemiche, p. 460), e aveva anche precisato: «Alla poesia romantica appartengono tutti 76
i soggetti ricavati dalla storia moderna
(ivi, p. 455).
o dal medio evo»
L'indicazione di Visconti, pienamente raccolta da Tom-
maso Grossi (che nel 1819 incomincia la composizione del-
l’Ildegonda, pubblicata l’anno successivo) sembra presiedere anche alle scelte di Berchet nella novella in versi I/ cavaliere bruno, ambientata a Marsiglia, in epoca medievale. Nelle prime strofe, una giovane donna prega Dio perché accolga la madre morta in paradiso. Una visione le rivela che la preghiera è stata accolta, ma la serenità conquistata è presto turbata dalle dichiarazioni di amore di un giovane cavaliere, Guiscardo, che, respinto dalla donna, chiusa in un solitario
silenzio, cade in preda alla disperazione. A questo punto si interrompe il testo, forse a conclusione di un canto primo che non avrà seguito, molto probabilmente abbandonato da Berchet quando si accorge (con quella sensibilità artistica che già Petrini, pure per molti aspetti così critico nei suoi
confronti, gli riconosceva: cfr. Petrini, vol. II, pp. 56 sgg.) della scarsa tensione poetica dei suoi versi. Il passaggio dal Classicismo al Romanticismo si rivela dunque difficoltoso: la nuova poesia richiedeva una nuova scrittura, e Berchet, pur accentuando la personale disponibilità ai toni sommessi, con i quali propone personaggi solitari e malinconici, non riesce a raggiungerla. Giudicati contraddittoriamente dalla critica — c’è chi parla di «forme arcaiche [...] accostate
agli accenti epici e oratorî della nuova lirica manzoniana» (D'Ambrosio Mazziotti, p. 256) e chi sottolinea «la ricerca
di un linguaggio che si avvicini a quello parlato» (Cappuccio, p. 2358) —, i versi del Cavaliere bruno sono la testimonianza di una sperimentazione destinata per il momento a fallire. Berchet non è il poeta del «patetico» sentimentale, e già nell’epigrafe e nella prima strofa della novella rivela un intento polemico: richiamando il Dante stilnovista della canzone Donne ch'avete intelletto d'amore (in epigrafe: «Ingegnati, se puoi, d’esser palese / solo con donne, e con uomo cortese»), lo scrittore, nella prima ottava, attacca subito i classicisti, «nemici del vero»: «Novella mia, tu non avrai fortuna / qui tra gente superba e al ver nimica, / ove è 77
duopo a ottener lagrima alcuna / un nome greco, una miseria antica». E continua: «Però vo’ che lontan da la tua cuna / cerchi la donna bella e sì le dica: /— A te mi manda dal tuo suol natio / messaggera di pianto il signor mio —» (vv. 1-8). L’implicito riferimento allo «stil nuovo» sembra introdotto per indicare la necessità, per la novella romantica, di un nuovo lettore — e di una lettrice — che non partecipi solo a ciò che ha «nome greco». E infatti la novella romantica «avrà fortuna» con un pubblico nuovo, come testimoniano le mille copie dell’I/degonda esaurite in poco tempo: per il libro di Grossi, uscito nella seconda metà di settembre del 1820, era già necessaria, ai primi del 1821, una ristampa. Ma i riferimenti a Dante
e a Petrarca sono
presenti
anche sul piano lessicale, rivelando che la ricerca linguistica di Berchet incomincia a muoversi in direzioni contrapposte: forme arcaicizzanti e forme d’uso comune, che caratterizze-
ranno anche la sua successiva e più importante produzione poetica. Avanzando un’ipotesi sulla presenza di arcaismi, D’Ambrosio Mazziotti suggerisce che «essi trovarono forse la loro origine nell’idea, affermata dall’autore in un articolo sul ‘Conciliatore’, secondo cui il momento più spontaneo e popolare del nostro linguaggio poetico sarebbe da ravvisare in una fase arcaica, preclassica e preumanista della letteratura italiana» (D'Ambrosio
Mazziotti, p. 255). Esprimendo
un giudizio comune alla «critica romantica, Berchet parla infatti di popolarità dei versi dei siciliani «se non per altro, almeno per ragioni di lingua e di metri; come popolari altresì erano le forme epiche ed epico-liriche dei romanzi popolari e de’ poemi de’ trovieri» (II, p. 131), sottolineando per altro che, benché «lasciassero il semplice per correre dietro al ricercato [...] pur nondimeno erano giunti ad occupare i primi gradi nel favore della moltitudine» (ibid.). L’affermazione di Berchet, tuttavia, più che giustificare l’uso di arcaismi, conferma la sua costante attenzione per una lingua non ricercata (ma nemmeno «immediata»), e per
metri che colpiscano maggiormente il lettore: da qui la preferenza per l’epica e per forme epico-liriche, che più o porteranno alla teorizzazione di una poesia epico-lirica - lirica. 78
Di tutto questo, nel Cavaliere bruno, resta solo l’utilizzo
di registri stilistici e linguistici diversi, non equilibrati tra loro, per cui si sovrappongono richiami stilnovistici, motivi petrarcheschi e tassiani, calchi di Foscolo («Non son qual fui», v. 179), impennate morali («Ma dove orgoglio e invidia non han varco / ivi la povertà non è sciagura», vv. 33-34), timbri della tradizione («Già da le sacre torri undici volte / destossi il bronzo a dir la nuova aurora; / ed altrettante al grido de le scolte / rispondea il pescator da la sua prora» (vv. 377-380) e accenti «scottiani»:
«Passa un gior-
no, ed un giorno, e un altro giorno» (v. 289) che Cusani
accostava ai versi di Walter Scott: «Another day, another day, / And yet another glides away!» (Cusani, p. 412). Ma la contaminazione stilistica, di per sé, non produce poesia, e I/ cavaliere bruno resta solo come testimonianza di una trasformazione in atto nella scrittura berchettiana. Sul piano della struttura, per altro, l'ottava della novella è rigorosamente tradizionale, senza alcuna «trasgressione»: non sono presenti, ad esempio, né rime sdrucciole né tronche. Le osservazioni qui condotte vanno in parte confermate
anche per I/ castello di Monforte. Il testo presenta un «romeo» (figura ricorrente nell’epica berchettiana come simbo-
lo dell’uomo solitario) che, durante il suo pellegrinaggio dalla Spagna alla Terrasanta, riceve ospitalità nel castello di Monforte, in Piemonte, dove ha modo di conoscere e ap-
prezzare il sentimento umano e religioso degli abitanti del castello. Visitati i luoghi santi, sente nostalgia della patria e degli amici di Monforte: per loro intreccia a un ramo di cedro alcuni fiori colti sul Sepolcro di Cristo. Ma, una volta tornato al castello, trova solo desolazione e rovine: sulla torre un rocco, una mitra, una croce è tutto ciò che resta a
testimonianza di una guerra che ha annientato ogni forma di vita umana. 1 La scelta di Berchet è ancora più consona alle riflessioni teoriche del gruppo manzoniano, prendendo le mosse da un soggetto storico e religioso: la «guerra», nel 1028, di Ariberto d’Intimiano contro i Catari, un gruppo dei quali era appunto a Monforte. A questo episodio si ispira Berchet, che avrebbe trovato ampie informazioni nella Storia di Mila79
no di Pietro Verri: presentando i Catari con benevolenza e mostrandone il fervore religioso (la cena cui assiste il pellegrino, appena arrivato, termina con la lettura delle «Beatitudini»), Berchet rivendica il valore del cattolicesimo evangelico, vicino, anche in questo, alla riflessione di Manzoni e del suo gruppo (pur riferendosi a tre secoli dopo la storia berchettiana, anche Grossi, nell’I/degonda parla dei «crudi cercatori / de’ Catari, Passagii e Paterini»; parte II, vv. 9-10).
Meno sentimentalismo ‘e più storia (anche se confinata sullo sfondo, come spunto di partenza) permettono a Berchet di superare il freddo tentativo del Cavaliere bruno, e di delineare meglio la figura del pellegrino, emblema di quella ricorrente solitudine che ha fatto scrivere a Giuseppe Italo Lopriore, che tutta l’opera poetica del Berchet sembra a noi la più genuina effusione lirica di uno stato d’animo vigorosamente dominato da un senso vasto e profondo di struggente solitudine: di una solitudine or malinconica, or amara; ora cupamente sdegnosa, ora aspramente accorata; ora impregnata di disgusto e disprezzo d’ogni umana bassezza, ora infiammata d’indomito furore patriottico e guerriero (Lopriore, p. 407).
I passi nei quali si canta la nostalgia e la melanconia del romeo sono infatti tra i più riusciti («Oh, gli amici che andava cercando, / e gli amava, gli amava davver!», vv. 275-276), con «un abbandono nostalgico all’esotismo» (Petrini, vol. II, p. 75) per il quale Domenico Petrini (che richiama le ballate di Carrer e di Prati) afferma la tarda
composizione dei versi: «al pellegrin nell'anima / un pensier mesto errò, / che poi mutato in ansia / solingo la occupò. // Era il pensiero indomito / della natia chitarra, / [...] /Era il desio di mescersi / alle fraterne schiere / d’udir
la redundilia / delle fanciulle ibere, / che di Pelagio cantano / lintrepida pietà, / i monti delle Asturie, / l’intatta libertà» (vv. 129-148).
Proprio dalla scelta dell’argomento, tuttavia, potrebbe invece venire una conferma che la composizione avviene nel clima manzoniano precedente l’esilio, soprattutto per «la particolare intonazione morale e religiosa del poemetto» 80
(Bertelli, p. 98). Nella stessa direzione spinge la scelta del polimetro: al decasillabo della prima e della terza parte si alternano gli ottonari della seconda, molto vicini a quelli dei versi che Manzoni scrive in quegli anni: «Ei disse. E fra le immagini, / fra i gaudi del ritorno, / gli sovvenia l’Italia / e l’ospital soggiorno, / le cortesie spontanee, / il facile assentir, / e la vallea del Tanaro / e di Monforte il sir» (vv.
173-180). Enzo Petrini scrive che il testo «ricorda da vicino [...] soprattutto il Cingue maggio» (Lingua e poesia in Giovanni Berchet, in Studi sul Berchet, p. 273), aggiungendo che «queste corrispondenze possono soccorrere per una determinazione cronologica del poemetto berchettiano. Il poeta che col Manzoni era di casa, e lo seguiva con l’intelligente fedeltà nel suo lavoro di letterato, dovette comporre sotto una impressione vivace e immediata, che gli rendeva agevole anche una confidenza con concetti che nel Berchet dell’esilio non troveremo più» (i5i4.). Il carme di Manzoni
è del maggio 1821, e quindi anche I/ castello di Monforte dovrebbe essere di quell’anno. Ma perché Berchet avrebbe dovuto tornare ad un argomento «storico» dopo la composizione, tra il 1819 e il 1820 dei Profughi di Parga, con la scelta decisa per un argomento contemporaneo? Con I profughi di Parga, infatti, Berchet sembra avvicinarsi a quanto aveva affermato nelle pagine saggistiche, raccogliendo i sentimenti del suo tempo e la tensione morale originata da un episodio politico capace di suscitare l’attenzione dei contemporanei, un episodio al quale lo stesso «Conciliatore» aveva dedicato ampio spazio nel suo ultimo numero. La scrittura del Castello di Monforte potrebbe davvero essere un’ulteriore tappa nella definizione della nuova poesia berchettiana, e come tale forse lo stesso Berchet doveva considerare il testo, decidendo di non terminarlo e di abbandonare anche altri progetti: un poema di argomento storico, l’Imelda, e una tragedia, Rosmunda, i cui primi versi saranno distrutti al momento dell’esilio. Le consonanze manzoniane, per altro, di fronte anche al fervore della scrittura, in
quel tempo, di Berchet e dei suoi amici, possono essere lette come un segno della circolazione, nel «crocchio supraromantico», delle idee, del lessico (si veda «Gerosolima»
81
per Gerusalemme, presente anche nella Pentecoste: «Solima», v. 51), delle forme. I motivi tematici del Castello di Monforte sembrano rispondere, per altro, anche ai suggeri-
menti teorici degli scritti di Visconti, pubblicati alla fine del 1818. Gli incontri degli amici di via del Morone erano del resto quotidiani e i rapporti stretti: Manzoni, ad esempio, nella tarda estate del 1819, da Parigi, incarica proprio Ber-
chet di fare approvare dalla censura I/ conte di Carmagnola. Se è di quegli anni, I/ castello di Monforte patisce necessariamente le difficoltà della messa a punto di una nuova lingua e di una nuova forma: le tre parti del breve poema rivelano, contraddittoriamente, sia uno scarso equilibrio espressivo, soprattutto per la discutibile scelta linguistica («l’annottato romeo camminò», v. 2; «Inclementi col forte in battaglia,/ eran miti dinanzi al dolor,/ perché in tutti di
sotto la maglia/ generoso fervea l'amor», vv. 21-24), sia una ormai raggiunta perizia tecnica: ad esempio nella seconda parte, la migliore, nella quale, oltre alla nostalgia e alla malinconia, della quale si è detto, si introducono immagini originali e si raggiunge un equilibrio tra lingua colta»e lingua comune: «E ritentò i pericoli / della deserta via, / traverso il lungo fischio / del beduin, che spia / se i dromedari tornino, / se preda sua saran / l’oro, i tappeti, i balsami, / le perle d'Ispahan» (vv. 197-204). Nei versi di Berchet il nuovo avanza con l’inserimento,
nel tessuto lessicale della tradizione, di parole della lingua parlata: era questa una delle vie sperimentali tentate dai primi romantici italiani (Grossi, ad esempio, nell’I/degonda, accosta a ricorrenti latinismi vocaboli banali come «un rombazzo»),
che non riescono, nemmeno
con Manzoni,
a
fare a meno, nella poesia, del bagaglio di un’educazione classica. Berchet cercherà esiti che, per quanto discutibili, rivelano lo sforzo di conquistare un nuovo linguaggio poetico, attraverso tentativi che restano incompiuti e inediti: I/ castello di Monforte può essere visto appunto in questa direzione, preludio «stilistico» alla poesia degli anni successivi. L’accelerazione del passaggio da una poesia «storica» a
una «politica», il cui anello di congiunzione è costituito dal 82
poemetto I profughi di Parga, importante anche per questo nella produzione berchettiana, trova le sue ragioni nella riflessione poetica ma soprattutto nelle nuove vicende politiche. Pur essendo impiegato del governatore austriaco come traduttore dal tedesco (per questo scrive un rapporto «sulla traduzione degli Elementi di storia degli Stati d'Europa», nel 1819, e un secondo «sulla traduzione dal tedesco di un Libretto di nomi» nel 1821, ora in II, pp. 220-25), Berchet si avvicina alla carboneria, cui aderisce nell’autunno del 1820, frequentando soprattutto il conte Confalonieri, trami-
te tra i federati milanesi e quelli piemontesi. Prende corpo l’idea di una insurrezione e di un governo provvisorio, al quale lo stesso Berchet avrebbe dovuto prendere parte e per il quale aveva «già composto un inn0 nazionale da cantarsi in teatro» (Li Gotti, p. 208). Le speranze dei congiurati sono affidate all'intervento di Carlo Alberto, che, nel marzo del 1821, sembra deciso a
entrare con le sue truppe in Lombardia. Ma le titubanze del giovane sovrano fanno fallire la rivolta, e, per la repressione austriaca, si moltiplicano le fughe, gli arresti, le condanne. Molti amici di Berchet sono incarcerati: tra questi Confalonieri, Pellico, Borsieri, presto tradotti nella fortezza dello
Spielberg. Berchet, avvisato del pericolo, riesce a fuggire, poche ore prima che la polizia irrompa a casa sua. Il 13 dicembre del 1821, lo stesso giorno in cui è arrestato Confalonieri, fugge da Milano, grazie all’aiuto di un negoziante francese, C. Descamps, varca il confine svizzero e da lì passa in Francia, iniziando un lungo esilio di 24 anni.
IX.
«I PROFUGHI
DI PARGA»
AI momento della fuga, Berchet stava lavorando alla traduzione dal tedesco di Elementi di storia degli stati e popoli antichi, che doveva consegnare nel 1822 (verrà poi data, incompleta, dal padre, che riceverà un regolare compenso: cfr. M. Berengo, Intellettuali e librai nella Milano. 83
della Restaurazione, Einaudi, Torino
1980, p. 350-51) e a
pagine creative distrutte, con lettere e altri documenti, prima dell’arrivo della polizia in casa Berchet. Di quegli anni restano dunque solo I profughi di Parga. L’ampia composizione (554 versi), scritta tra il 1819 e il 1820, prende le mosse da un recente evento politico, per il quale vasta era stata la risonanza in tutta Europa: la decisione degli abitanti della piccola città dell’Epiro (traditi dagli Inglesi, nei quali avevano riposto la loro fiducia, perché li proteggessero dalle mire dei Turchi) di andare tutti in esilio volontario, non senza aver prima dissepolto e bruciato le ossa dei loro morti. I versi di Berchet si aprono con la descrizione del tentativo di suicidio di un parganiota, che, sotto gli occhi della moglie, si getta in mare da una rupe ed è salvato da un inglese, Arrigo. Se dal racconto della donna Arrigo viene a sapere la storia della città di Parga, dal parganiota conosce il dolore e l’orgoglio di chi ha perduto la patria; ripresosi, infatti, l’uomo rifiuta ogni soccorso, non volendo accettare aiuto da chi appartiene alla nazione che ha tradito il suo popolo. Affiancandosi ad altri testi pubblicati, tra il 1819 e il 1821, in Francia e in Inghilterra, dedicati all’episodio di Parga (tra questi un poema di Victor Chauvet, il recensore del Carmagnola; ma si veda di N. Caccia, L'episodio di Parga in alcuni componimenti poetici francesi e inglesi, in Studi sul Berchet, pp. 387-417), i versi di Berchet sono una
puntuale testimonianza del sentimento filoellenico dell’Europa di quegli anni. La loro importanza va tuttavia ben oltre la manifestazione di una solidarietà con i Greci (quella che sola spinge oggi a ricordare i testi degli autori stranieri). E lo stesso Manzoni a sottolinearlo per primo, quando, dopo aver dato conto al Fauriel, in una lettera del 29 gennaio 1821, dei lavori dei suoi amici e «compagnons de souffrance littéraire», lo informa che «Berchet a achevé son poème lyrique sur Parga», che difficilmente potrà pubblicarlo, per ragioni politiche («les règlemens de la censure s’opposent à la pubblication de tout ce qui pourait déplaire à un gouvernement de ceux qu'on nomme amis», Tutte le lettere cit., p. 225 e p. 226), aggiungendovi un esplicito giudizio 84
critico, che rivela una più generale riflessione poetica. Scrive dunque Manzoni: depuis longtemps la poésie italienne n’etait pas beaucoup employée à exprimer ce qu’on pense, et ce qu’on sent dans la vie
réelle, il paraît qu'elle revient un peu à questa sua première destination: mais il n’arrivera pas souvent qu'elle soit remplie avec autant de bonheur que dans ce poème. L’invention en est heureuse et originale, et il ne ressemble en rien à une dissertation, ni à un article de journal, ce qui pouvait facilement arriver dans un pareil argument (:bid.).
Nelle parole di Manzoni si presentano due sollecitazioni critiche significative: la necessità del legame tra lo scrittore e il proprio tempo, la necessità, altrettanto importante, di evitare la caduta nello stile della «dissertazione», dell’«arti-
colo di giornale». Sono preoccupazioni già presenti, si è visto, nelle pagi-
ne saggistiche di Berchet, che, con I profughi di Parga, cerca un’originale realizzazione di una poetica da lui stesso avanzata sul «Conciliatore», quando ad esempio, parlando di Monti, sottolineava il valore di una poesia fondata «sulla viva pittura di sciagure e di grandi delitti contemporanei» (II, p. 100), una poesia destinata a soddisfare, intrecciando
fatti e sentimenti, due esigenze fondamentali: raccogliere ciò che «si pensa e si sente nella vita reale», da un lato, indicare un comportamento eticamente meritevole dall’altro, dietro il quale si manifesta esemplarmente l’amore per la patria. In un «Avertissement de l’auteur», anteposto alla prima edizione (pubblicata nel 1823 in Francia, accompagnata da una traduzione in prosa di Fauriel), Berchet scrive esplicita-
mente di aver cercato di trattare l'argomento scelto in maniera «un peu nouvelle, soit pour la forme, soit pour les détails» (I, p. 3) e aggiunge che sarà facile riconoscere «à travers les accessoires d’invention, ce fond d’histoire et de vérité, que l’on regarde aujourd'hui comme la base indispensable de toute poésie sérieuse et forte, et qui, partout où il existe, ajoute è l’intérét et aux beautés de l’art, ou 85
supplée jusqu’à un certain point à l’insuffisance du talent de l’artiste» (I, p. 4).
Berchet esprime dunque, in queste poche righe, alcuni punti centrali della riflessione dei giovani romantici, in particolare dei sodali di Manzoni, confermando, tra l’altro, che
il suo ruolo non è quello di chi elabora un pensiero, ma quello di chi è pronto a cogliere il valore di alcune riflessioni e si impegna nella loro diffusione. Ecco allora il riferimento
al rapporto
«storia»-«vero»
— così caro
al circolo
manzoniano e oggetto di tanti dibattiti — che è indicato come elemento caratterizzante la poesia moderna «seria e forte», arricchimento dei testi fondati sulla bellezza artisti-
ca, e— almeno fino a un certo punto — in grado di risolvere le insufficienze del talento del poeta. In risalto andrà messo anche quell’«aujourd’hui» che implicitamente afferma il legame della poesia con la storicità di una poetica, ma soprattutto andrà colta l’importanza del richiamo alla «novità della forma», che propone un Berchet niente affatto «improvvisatore», come molti critici hanno sostenuto, ma attento invece alla lingua e allo stile. Berchet sembra sentire il problema in modo particolare, anche perché, dopo un esordio scolasticamente improntato alle movenze neoclassiche, ha riflettuto sulla trasformazione
necessaria alla poesia per rivolgersi a un pubblico che si vorrebbe — per ragioni politiche, prima ancora che letterarie — il più vasto possibile. In questa direzione Berchet cerca di colmare la distanza tra poesia e pubblico con il ricorso a una lingua e a uno stile che, rompendo con la tradizione alta, si avvicinino all’esperienza dei lettori, e in questo senso siano «popolari», senza assumere necessariamente forma e lingua della poesia nata dal popolo, che non rientra anco-
ra nell’ottica berchettiana. Lo si intravvede fin dalle strofe iniziali. Nella*prima il poeta introduce due interrogativi («Chi è quel greco che guarda e sospira / là seduto nel basso del lido? / [...] /Chi è la donna che mette uno strido / in vederlo una rocca additar?»), che, come notava già De Sanctis (cfr. pp. 139-40), sono reminiscenze classiche (e si potrebbe aggiungere montiane, dall’Inzo nell’anniversario della decapitazione
86
di Luigi XVI), ma anche un esempio di retorica melodrammatica. Gli interrogativi sembrano infatti recitati da un per-
sonaggio che, ad apertura di scena, voglia richiamare l’attenzione degli spettatori indicando e commentando le azioni di
un altro personaggio: «Ecco ei sorge» (v. 7); «Ecco stassi» (v. 9); «Ella corre» (v. 11), «Ahi, che invan la pietosa il contrasta!» (v. 13); «Oh spavento! ei protende le braccia: /
oh sciagura! già il salto spiccò» (vv. 17-18). Ma ancora nella terza parte si trova una strofa di soli interrogativi (vv. 395-402) e un richiamo ai lettori-spettatori, con l’uso significativo del verbo «ascoltare»: «Ma una voce prorompe; s’ascolti: / è il ramingo che sorge a parlar» (vv. 457-458).
L’attenzione allo spettacolo — e la tensione melodrammatica già presente nel polimetro di Edevino — trovano ora
le loro ragioni nella ricerca di una forma più consona al nuovo pubblico, cui si aggiunge, secondo Li Gotti, in quegli anni, un particolare interesse per il teatro: «Pare che il Berchet avesse persino impiantato in casa sua un teatrino in cui si divertiva a dare rappresentazioni per gli amici: questo è ciò che ricavo da una lettera inedita del Borsieri al marchese Arconati (da Princeton, 20 marzo 204, nota l).
1837)»
(Li Gotti, p.
Come in una recitazione, dunque, I profughi di Parga sono costruiti su alcuni personaggi che «sorgono a parlare», ciascuno con un ruolo preciso. Chi introduce il racconto è Arrigo, un inglese in viaggio a Corfù
(«Corcira»).
È lui che si prodiga per salvare il
suicida e per rianimarlo («[...] qual madre alla culla del figlio, / su le labbra alitando gli vien», vv. 51-52); è lui che chiede di saper «i guai che al deliro infelice / fanno esosa la luce del sol» (vv. 83-84), passando la parola alla moglie dell’uomo salvato (genericamente chiamata «la donna», «la
sposa», «l’onesta», «la compagna dei tristi suoi dì»). Il racconto della donna sulle sventure di Parga occupa tutta la seconda parte del testo. È ormai notte, sulla scena «buia» si staglia solo la donna, intenta a raccontare le sventure della patria. Si impone, necessariamente s1 potrebbe dire, un cambio di metro, corrispondente appunto al cam87
bio della scena. Alle sestine di decasillabi della prima parte (tutti con ritmo anapestico senza cesura, secondo l’uso fre-
quente in Manzoni) si sostituiscono terzine incatenate, sem-
pra di decasillabi manzoniani, e addirittura quartine di settenari, quando, a conclusione dei primi quattro momenti del racconto (che è diviso in cinque sezioni numerate), nelle parole della donna si introduce un motivo sentimentale, e l’attenzione è riportata sulla disperazione del parganiota. Solo ricorrendo ad un'esigenza teatrale si può spiegare perché la moglie del parganiota, che nella prima parte si china sul marito appena salvato recitando «Dalle membra è svanito l’algore. / Ah! sien placidi i sonni, e dal ciglio / si trasfonda la calma nel core; / né il funestin vaganti pensier,
/ che gli parlin di patria, d’esiglio, / che gli parlin d’oltraggio stranier» (vv. 103-108), nella seconda parte riprenda esattamente le stesse parole, ma con un ritmo totalmente diverso, imposto dal settenario e dalle rime tronche, modellate sulle «ariette» del melodramma: «Ma i sonni son placidi; / svanito è l’algor; / la calma del ciglio / trasfusa è nel cor. // Oh Dio! nol funestino / vaganti pensier / di patria, d’esiglio, / d’oltraggio stranier» (vv. 140-147). Il registro metrico cambia ancora quando, con l’alba, sulla scena torna la luce, e si ripresentano tutti e tre i personaggi: questa volta i decasillabi sono raggruppati in ottave, con la rima tronca al quarto e ottavo verso. La donna ha finito il suo racconto, è ora la volta sia di Arrigo sia del marito, che, introdotto come «quel greco», continua a non avere nome (è «il furente», «il meschino», «un ramin-
go di Parga», «il miser», «l’uom di Parga», «l’uomo languente», «il tacente»: e si noti il ricorso alla sostantivazione
di aggettivi e participi). In questa terza parte i due personaggi maschili hanno un ruolo opposto ma complementare; ad essi è affidata la riflessione etica di Berchet. Arrigo esprime la sua solidarietà nei confronti di chi è stato tradito e il dolore di dover dire «la mia patria è caduta / in obbrobrio alle genti ed a me» (vv. 433-434). Ma il parganiota rifiuta ogni soccorso, anche morale, ostentando un orgoglio che non potrà mai esser piegato: «Né chi tutto m'ha tolto / quest’orgoglio : 88
rapirmi potrà. // Tienti il pianto; nol voglio da un ciglio / che ribrezzo invincibil m’inspira. / Tu se’ un giusto: e che importa? sei figlio / d’una terra esecranda per me» (vv. 465-470). L’amore di patria è il tratto comune ai due personaggi: l’uno, vincitore, è costretto, per un alto senso morale, a
disprezzare la sua patria, l’altro, sconfitto, per un altrettanto forte sentire accetta di essere servo, ma di non piegare il capo davanti alla distruzione della patria. L'orgoglio dei parganioti che bruciano le ossa dei morti, l'orgoglio del parganiota che «ricorda con volto sereno / che l’angustia mai vile nol fe’» (vv. 513-514) trasformano la sconfitta in
vittoria morale. Al volto sereno del parganiota che «suda al solco d’estranio terreno» (v. 512) si contrappone la figura di Arrigo («Fosca fosca ogni dì più s’aggreva / su lo spirto d’Arrigo la noia; / nessun dolce desir gli rileva / qualche bella speranza nel sen. / Non gli ride un sol lampo di gioia», vv. 515-519), definito «infelice», perché per lui non
c'è più pace. Lo sconfitto è dunque Arrigo, e con lui l’uomo di nobili sentimenti morali. L’esplicita posizione etico-politica dei Profughi di Parga
esprime esemplarmente l’intento civile affidato da Berchet alla poesia, la sua struttura e la sua scrittura testimoniano altrettanto esemplarmente la ricerca della nuova forma perseguita dallo scrittore dopo l'adesione al Romanticismo. La nuova via suggerita da Berchet non riesce sempre, tuttavia, a raggiungere risultati poeticamente significativi,
anche se non mancano momenti di grande efficacia, giudicati da Domenico Petrini «una delle pagine più alte della nostra poesia romantica» (Petrini, II, p. 73), e da Giuseppe
Petronio, muovendo da un’altra area critica, una «pagina grande [...] tra le più alte e commosse del nostro Risorgimento» (G. Petronio, Introduzione a Poeti minori dell'Ottocento, UTET, Torino 1965, p. 34).
I passi cui fanno riferimento sia Petrini sia Petronio (e con loro la maggior parte della critica moderna) sono quelli della quinta sezione del racconto della donna, quando vengono narrate la disperazione dei parganioti e la decisione di 89
aprire, nei giorni della settimana santa, le tombe dei loro avi, di bruciare le ossa, di abbandonare infine la loro patria. In questi versi il dolore detta «una musica lenta, triste ma solenne» (Petrini, II, p. 72), confermando il carattere «liri-
co» e «malinconico» della migliore poesia di Berchet: «Là piangeva una madre, e s'udia / maledir il fecondo suo letto, / mentre i figli di baci copria. // Qui toglievasi un’altra dal petto/il lattante, e fermando il cammino, / con istrano delirio d’affetto, / si calava al ruscello vicino, / vi bagnava per l’ultima volta / nelle patrie fontane il bambino. // E chi un
ramo, un cespuglio, chi svolta / dalle patrie campagne traea / una zolla nel pugno raccolta»
(vv. 327-338).
In questi
versi anche il decasillabo si distende con ricorrenti enjamzbements,
perdendo
il suo
carattere
di metro
fortemente
scandito. Anche sul piano della scrittura nei Profughi di Parga si registra l’originalità di Berchet intravista nel Castello di Monforte. Cesare De Lollis ha parlato di questa lingua come del «più strano mostro che si possa immaginare in mezzo a una letteratura poetica, che, senza essere perfettamente livellata e levigata come la francese da Racine a Chateaubriand, non sa ad ogni modo fare a meno della distinzione, ch’è anche, naturalmente, uguaglianza di tono» (in Saggi sulla forma poetica italiana dell'Ottocento», p. 38). La banalità degli aggettivi («giuliva/del riscatto», «gli odii son verdi»), l’ardita sostantivazione di aggettivi e participi («il furente», «il ramingo»), l'accostamento di termini e strutture
dell’antico italiano (il «turbo sparito») ad altri correnti («Mentre ostenta che il negro si assolva») giustifica la condanna, e tuttavia occorre rilevare che, per quanto troppe volte irrisolta e dunque inevitabilmente stridente, l’«ineguaglianza» di tono sembra essere consapevolmente alla base degli intenti berchettiani. Se è vero infatti che proprio le macerie del «tirocinio di classicista oraziano e pariniano» costituiscono la «forma poetica» berchettiana (così Baldacci, in Introduzione a Poeti minori dell'Ottocento, Ricciardi,
Milano - Napoli 1958, p. xv), è anche vero che quelle macerie, che costituiscono un limite, indicano anche la ricerca di 90
un orizzonte più aperto. Sono l’espressione di una tensione
che, se non ha portato a risultati poetici rilevanti, ha tuttavia indicato la direzione di una poetica; per cui, come afferma Cappuccio, nella inclinazione di Berchet «verso l’approssimativo e il disegno non rifinito, vi è, alla base, una poeti-
ca: una ricerca di naturalezza, una volontà di parlare a un vasto
pubblico,
commuoverlo,
educarlo
ai propri ideali»
(Cappuccio, p. 2362). In questo senso I profughi di Parga non sono un «abbozzo» (secondo una definizione di Momigliano, nel commento alla sua edizione delle liriche di Berchet, p. 32), né una poesia scritta «di getto». Berchet, visti i lunghi tempi «editoriali» (e il dispetto per il ritardo, del quale danno ampia testimonianza alcune lettere a Costanza Arconati), ha avuto tutto il tempo di rivedere il testo: se non lo ha fatto, e se ha deciso di pubblicarlo, è perché vi vedeva un risultato conso-
no alle sue aspirazioni. Il giudizio positivo di Manzoni, del resto, conferma che tutto il circolo «supra-romantico» considerava definitivo e risolto il componimento. Ne sarebbe ulteriore riprova un appunto di Berchet che, in una lettera a Fauriel del 3 giugno 1822, scrive che I profughi potrebbero avere successo in Inghilterra «pas pour son mérite littéraire, mais pour la popularité de l’argument» (pubblicata da A. Cento in Fauriel agente dei romantici italiani ovvero le disavventure editoriali di due poeti, in «Giornale storico della Letteratura italiana»,
1957, fasc. 406-7, p. 348): sembra
implicitamente affermato che la «novità» letteraria dei Profughi può aver valore solo nella cultura italiana. Il «fallimento» del progetto formale berchettiano va per altro ricondotto a una situazione più generale della | poesia in Italia, per cui, come annota Carlo Dionisotti, «la riforma del linguaggio poetico italiano era un'impresa cui “non bastò, nel fuoco della polemica, a Milano, la forza del Manzoni, e che solo riuscì al più giovane e solitario Leopardi» (C. Dionisotti, Per una storia della lingua italiana, in Geografia e storia della letteratura italiana, Einaudi, Torino 1971°, p. 119).
O
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X.
LE
ROMANZE
Il 30 dicembre 1821, domenica, Berchet, ormai a Pari-
gi, si reca all’Hétel de Hollande, dove alloggiano Giuseppe (Peppino) Arconati e sua moglie Costanza (della famiglia
dei Trotti), nobili milanesi in esilio (il marchese è condannato a morte in contumacia per la sua attività patriottica), e
punto di riferimento per gli italiani scappati in Francia. Berchet ha già incontrato gli Arconati a casa di Manzoni, ma senza intrecciare alcun rapporto d’amicizia: dagli incontri parigini nasce invece una consuetudine e un’intimità che legherà inscindibilmente lo scrittore ai nuovi amici. Per Costanza lo scrittore sentirà presto nascere un affetto profondo (che per pudore non si dichiarerà mai come amore),
dolorosamente segnato dalla gelosia, ma a tal punto consolidato con il passare degli anni da non spegnersi se non con la morte. Ne è testimonianza un ricchissimo epistolario, che, iniziato quando gli Arconati, nel febbraio 1822, decidono di trasferirsi a Bruxelles (e di stabilirsi nel castello di Gaesbeek, avuto in eredità da uno zio l’anno precedente),
permette di ricostruire, anno dopo anno, per trent'anni, la vita del poeta, quasi tutta passata in esilio’. A pochi mesi dall’arrivo a Parigi, in pericolo per la
richiesta della sua estradizione avanzata dall’Austria, Ber-
chet è costretto a riparare in Inghilterra, dove si erano già trasferiti molti patrioti italiani; tra i primi, Foscolo, che li riceve nel suo Digamma Cottage. I primi momenti dèlla vita londinese confermano l’alto senso morale di Berchet, che gli scritti giovanili, prima, i testi saggistici, poi, hanno già permesso di delineare. Esibendo l’orgoglio di chi non vuole affatto rinunciare alle proprie scelte etiche, lo scrittore accetta un lavoro umile — diventa scrivano nel negozio di un commerciante milanese, Ambrogio Obicini — e una condizione di isolamento.
' Le citazioni saranno riportate nel testo con Lettere, seguito dal _ numero di volume e di pagina. Per le indicazioni bibliografiche com- — plete cfr. la bibliografia finale.
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Le lettere a Costanza Arconati parlano ampiamente di questa difficile situazione, di fronte alla quale, pur cadendo in profonde malinconie, Berchet non muta il proprio atteggiamento: «Mi si vorrebbe far scrivere nel ‘Quarterly Review’, giornale che paga moltissimo gli scrittori perché pagato esso dal ministero; ma io non voglio smentire il mio carattere a rischio di far piuttosto il pescivendolo» (22 giugno 1822, in appendice a Lettere, II, p. 254). Non disposto a rinunciare ai propri princìpi (la «Quarterly Review» era una testata «screditatissima»: così la definisce lo stesso Berchet; cfr. ivi, p. 255), Berchet non ama la compagnia di Foscolo, che invece, da questo punto di vista, non ha scru-
poli e lo spinge ad accettare ogni collaborazione: «Ella sa i miei principii, e com’essi non mi permettono di far gran lega con lui» (ib:d.).
A testimonianza delle speranze di trovare comunque una collaborazione giornalistica resta un articolo, Filicaia, che, a lungo considerato di Foscolo, «deve quasi certamente attribuirsi al Berchet», come scrive Cesare Foligno (cfr. Prefazione a U. Foscolo, Saggi e discorsi critici, vol. X della ediz. naz. delle Opere, Le Monnier, Firenze 1953, p. xv), riportando anche una testimonianza dello stesso Berchet raccolta da Niccolini. E forse di Berchet è anche un altro articolo «foscoliano», Cristina e il Monaldeschi, come sembra propendere U. Limentani, suggerendo che «il testo sia stato steso non da Foscolo ma da altra persona, e verosimilmente dal Berchet» (cfr. Appendice: Cristina e il Monalde-' schi, in U. Foscolo, Scritti vari di critica storica e letteraria, vol. XII della ediz. naz. delle Opere, Le Monnier, Firenze 1978, p. CLI). Ma l'inserimento di Berchet nell'ambiente giornalistico non riesce (e fallisce anche il progetto di un giornale italiano a Londra). Con il passare dei mesi e degli anni, il senso di isolamento si accentua. Berchet più volte scrive a Costanza della nostalgia della casa e degli amici, rivelando le sue difficoltà nello stabilire legami con gli altri esuli politici, che giudica lontani dai suoi princìpi morali (ad essi preferisce i pochi
amici di passaggio per Londra: ad esempio, Antonio Trotti,
fratello di Costanza, o lo stesso Peppino Arconati).
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L'idea della patria assume un nuovo aspetto: l’Italia non è più la nazione alla cui formazione contribuire grazie agli uffici della letteratura, per condurla ai livelli sociali e culturali degli altri stati europei, ma un paese in servitù, da liberare, prima di tutto, dall’oppressione. Una emblematica testimonianza del nuovo atteggiamento è in una lettera all’Arconati; dopo la visita di Rotterdam (durante il trasferimento a Londra), Berchet scrive, il 18 aprile 1822: «Mi ha
fatto dispetto il veder qui un monumento alla memoria di un letterato, e nessuno a celebrare il coraggio de’ primi propugnatori della indipendenza nazionale. Rispetto Erasmo e la di lui filosofia, e il di lui spirito, e la sua tanta dottrina; ma l’indipendenza nazionale è tutt'altro che un libro, per quanto buono esso sia» (Lettere, I, p. 13). E il 25 febbraio 1823: «S'io pensi alla patria, Ella mi chiede? E come non pensarvi? Non ho mai creduto d’amarla tanto; e questa credenza mi viene inculcata ogni dì a forza di sacrifici» (Lettere, I, p. 36).
In questo contesto matura anche il passaggio dalla novella in versi, eminentemente romantica, a una poesia di dolore e di rabbia politica, che si riveste, nel bene e nel
male, dei toni originali con i quali lo scrittore si rivelerà «il poeta dell’odio allo straniero»
(così Momigliano,
p. 97).
Proprio nella seconda metà del 1822 Berchet scrive Clarina (diffusa a Londra in un volantino
firmato G.B.),
che manda a Costanza, il 2 novembre, con queste parole: «Le mando un’inezia stampata; voglio ch’Ella ne indovini l’autore, e che sia indulgente a chi per giovarsi del momento, buttò là un pensiero, e in due mattine si spicciò; di null’altro curandosi che di far presto» (Lettere, I, p. 29).
Fondandosi su queste parole, non si deve cedere alla tentazione di riproporre, contro quanto si è detto, l’immagine di un poeta che si limita a trascrivere una passione politica impetuosa. Qualche mese prima della lettera all’Arconati ora ricordata, scrivendo a Claude Fauriel il 3 giugno e manifestando preoccupazione per il ritardo della pubblicazione dei Profughi, Berchet aveva aggiunto: «[...] j’espère que avec le temps je trouverai à m’occuper. En attendant je
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suis tenté de fredonner quelques autres romances, et j’y songe; mais je ne trouve pas le moyen de faire un vers qui soit juste. Mon Dieu! que je suis plus béte que jamais» (la lettera è riprodotta in Cento, Fauriel/ agente dei romantici
italiani ovvero le disavventure editoriali di due poeti, p. 348). Contro ogni troppo facile idea di un Berchet improvvisatore scarsamente occupato in questioni stilistiche, si delinea invece la figura di uno scrittore che sente la poesia come un possibile sostegno psicologico, consapevole tuttavia della difficoltà di essere poeta. E lo è a tal punto che, nella stessa occasione, aggiunge: «Et à propos, n’allez pas rire d’une commission que je vous donne»: chiede di avere infatti «un rizzario italiano», e specifica «pour moi». In una successiva lettera del 24 giugno 1822, sempre a Fauriel, torna a parlare del rimario proprio come supporto (psicolo-
gico prima ancora che tecnico) per un poeta: «Vous autres grands Messieurs qui tenez le sommet de Pindus, vous ne savez pas ce que c'est un rizzario pour les misérables qui ne font que ramper painiblement au pied de l’heureuse montagne», aggiungendo: «la seule idée de l’existence d’un rirza-
rio à Londres, me fait faire des phrases arcadiques, qui, soit dit entre nous, sont toujours belles par cela méme qu’elles sont toujours répétées» (la lettera è in R. Van Nuffel, Lettere di Berchet a Claude Fauriel, p. 102). Berchet è dunque poeta scarsamente ispirato, ma non estraneo alle questioni formali. Ed è degno di nota il fatto che, nonostante il proclamato romanticismo, Berchet chieda uno strumento in voga presso i poeti legati alla tradizione ed esalti la bellezza della ripetizione della poesia arcadica. Da un lato, Berchet sente la necessità di innovare lingua e stile, dall’altro patisce le difficoltà di aprire la nuova strada, soprattutto per la lontananza dagli amici e dai compagni di battaglia culturale e letteraria. Le lettere al Fauriel precedono la stesura della Clarina ma indicano già i nascosti caratteri delle romanze che Berchet compone nella solitudine inglese, e la loro contraddizione tra vecchia e nuova poesia. La prima romanza, Clarina, è dunque scritta di getto, ma lo scrittore, prima di inserirla nella raccolta Poesie, data95
ta 1824 ma sicuramente da posticipare’, e poi in quella «Riveduta dall’Autore, coll’aggiunta di altre nuove Romanze»?, del 1826, e ancora del 1829 e del 1830, ha tutto il
tempo, appunto, di rivederla. Ne sono una conferma, del resto, le varianti (alcune riportate in una nota di Bellorini al
primo volume delle Opere: cfr. I, p. 441): tra le altre «Sulle rive», poi «Sotto i pioppi» (al v. 1), e, ancor più significative per la scelta di una /ectio più letteraria: «fu la voce», poi «fu il clamore» (v. 32), «angoscie», poi «angustie» (v. 99). Il fatto è che Clarina continuerà sempre a tradire la sua origine, cui il poeta non la vuole sottrarre, offrendosi come testimonianza di una delle possibili espressioni della «poesia nuova» cui aspirava Berchet. Al dolore di Clarina per l’esilio del suo Gismondo (che lei stessa aveva «inanimito»
con parole orgogliose, perché andasse a battersi per la patria: «Fermi sieno i nostri petti; / questo il giorno è dell'onore: / senza infamia a’ molli affetti / ceder oggi non puoi tu. / Ahi! che giova anco l’amore / per chi freme in servitù?», vv. 49-54), si accompagna infatti una violenta invettiva contro Carlo Alberto:
«Esecrato, o Carignano, /
va il tuo nome in ogni gente! / non v’è clima sì lontano, / ove il tedio, lo squallor, / la bestemmia d’un fuggente / non ti annunzi traditor» (vv. 79-84).
Probabilmente nella definizione «inezia stampata» -c’è un certa compiacenza d'autore, ma anche, con maggiore ? Bellorini,
presentando
l’edizione
delle Poesie del 1824, scrive
che contiene I profughi di Parga, Clarina, Il romito del Cenisio, Il rimorso, Matilde, Il trovatore, Giulia. Presentando quella del 1826 annota: «contiene gli stessi componimenti [...], salvo che Giulia appare aggiunta in ultimo con numerazione a parte, e con la data: Londra, agosto 1826» (I, p. 438). La contraddizione è evidente: di Giulia
Berchet parla esplicitamente all’Arconati in una lettera del settembre
1826: «l’ultima Romanza sulla Coscrizione che ho terminata...» (Lettete: 4902) È ? «Il Berchet chiama ‘romanze’ le sue ballate di versi, sia brevi
sia lunghi, mentre adopera il termine ‘ballate’ per i suoi polimettri [...], ad es. I profughi di Parga»: così W. Th. Elwert, Versificazione italiana dalle origini ai giorni nostri (Le Monnier, Firenze 1973, p. 161), ma
nella lettera a Fauriel del 3 giugno 1822 questa distinzione non sembra ancora ben definita, e si parla di «romanze» riferendosi anche ai Profughi.
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consapevolezza artistica, il riconoscimento dei limiti del testo, pur senza esprimere le difficoltà dichiarate invece a Fauriel. Cedendo a facili suggestioni, il poeta non esita a introdurre immagini di consunto melodramma («Ma indiscreta sul bel volto / una lagrima pur scese», vv. 43-44; e già per la prima strofa Croce parlava di ‘quintessenziale teatralità’: cfr. Poesia e non poesia, p. 148) o di invettiva, per conquistare un vasto uditorio. L’intento è per altro raggiunto: in Italia la romanza riscuote subito un ampio successo, diventando una sorta di «inno» nella battaglia patriottica, come per altro i successivi testi berchettiani. Mazzoni riporta le parole di un Almanacco Alle donne italiane (del 1832), che «rammentava loro il dovere che avevano di seguire l’esempio: ‘Vi suonino ognora nell'anima le parole che la povera Clarina volgeva al suo amante»
(G. Mazzoni, L’Ottocento cit., p. 582).
E De
Sanctis ricorderà che, giovane e all'oscuro di chi fosse Berchet, incontrò un liberale napoletano, Felice Barilla, che gli diede «manoscritta la Clarina, parlandomi all’orecchio, tremando, cercando quasi di nascondersi alla luce»; nella stes-
sa occasione afferma che le poesie di Berchet «di nascosto correvano manoscritte e se le strappavano di mano l’un l’altro» (De Sanctis, p. 103).
Il successo della Clariza, e poi delle altre romanze, è da
ricercarsi nell’assunzione in poesia dei sentimenti del tempo. Non importa al poeta la definizione psicologica di un personaggio o la descrizione di un ambiente, quanto, piuttosto, l’introduzione dei motivi per i quali può palpitare chi ha cara la sorte dell’Italia, perché ogni riferimento individuale trascende in una dimensione collettiva. Ecco allora, accanto al dolore individuale, la denuncia dell’«onta del servaggio» («Siam fratelli; all’arme! all’arme!», v. 26), o l'esaltazione dell’unità intorno alla bandiera («— Tutti unisca una bandiera! — / fu il clamore delle squadre, / d’ogni
pio fu la preghiera, / d’ogni savio fu il voler; / d’ogni sposa, d’ogni madre / fu de’ palpiti il primier», vv. 31-36), o il sacrificio personale a favore della patria: «Una patria avevi in pria / che donassi a me il tuo cor: / rompi a lei le sue catene, / poi t’inebria dell’amor» (vv. 57-60). D7
Anche nelle Romzanze l'originalità di Berchet si manifesta nel tentativo di rinnovare la lingua e la struttura della
poesia: e se, anche in Clarina, non si può non denunciare la contraddittorietà degli esiti — per cui De Sanctis annotava: «E che lingua è questa? Pare lingua da strada» (De Sanctis,
p. 160) — ugualmente occorre sottolineare lo sforzo del poeta per rompere con la tradizione e portare la poesia, con un ruolo attivo, dentro la vita reale.
Sul piano della struttura, già con Clarina Berchet recupera alcuni ritmi in quel momento poco usati, introducendo la sestina di ottonari trocaici (con accento sulla prima, terza, quinta, settima posizione), che, tronchi in quarta e sesta posizione e con la rima aba che, rinnovano le forme delle antiche ballate; la poesia ha dunque «un timbro semplice e limpido; e vien fatto di colorirla con un’aria di Bellini» (Momigliano, p. 41): si torna così al melodramma e si conferma che la poesia di Berchet è inscindibilmente legata al più vasto orizzonte culturale del tempo. Ma con Clarina si accentua il ricorso a figure retoriche della letteratura più diffusa tra il popolo (questa volta anche nelle sue forme più basse, come
le filastrocche o le
invocazioni), e in particolare l’anafora (due esempi: «d’ogni pio [...] / d'ogni savio [...] / d’ogni sposa», cit.; «Va Gismondo [...] / Va, combatti», vv. 56 e 61) e l’epanalessi
(«lunge lunge il suo pensier», v. 98). Le figure di ripetizione sono presenti con insistenza nelle romanze di Berchet, e,
permettendo una più facile memorizzazione, contribuiscono al consolidarsi del loro successo, riscosso in primo luogo per la carica politica che trasmettono. Detto questo, per altro, non si può non sottolineare come, anche in C/arina, si manifesti quella soffusa malinconia che, ricorrente nota di fondo dei testi berchettiani, è
dettata dal dolore e dalla solitudine dei personaggi, quando vivono (si è già visto nel Castello di Monforte e nei Profughi di Parga) una situazione di «perdita»: «Sotto i pioppi della Dora / dove l’onda è più romita, / ogni dì, su l’ultim’ora, / s'ode un suono di dolor» (vv. 1-4): è Clarina, che, lontana da Gismondo («Fuggitivo, vagabondo, / pena il misero i
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suoi dì», vv. 8-9), «[...] qui a pianger vien gli affanni / dell'amante che perdé» (vv. 95-96).
A questo punto, anzi, si può ipotizzare che la poesia di Berchet si costruisca sempre intorno a una dolorosa perdita, che è di volta in volta, ma spesso contemporaneamente, quella di una persona cara e quella della patria. Con la dolorosa perdita degli amici si chiude I/ castello di Monforte, sulla perdita della patria si costruiscono I profughi di Parga, sulle due «perdite» contemporanee Clarina. Gli stessi motivi, tematici e stilistici, tornano nella romanza I/ romito del Cenisio (del luglio del 1823), nel quale si immagina che uno straniero, arrivato in vista della «itala pianura», incontri un vecchio romito e dalle parole di questi, dedicate alle sventure d’Italia, piegata al dominio straniero, sia indotto a tornare alle sue terre nordiche. L’incontro del viandante e del romito è strumentale, e i
personaggi sono funzionali a una sfera politica superiore, l’unica che interessi allo scrittore. Nel vecchio romito è facilmente riconoscibile la figura del padre di Silvio Pellico, incarcerato nelle Spielberg, ma l’attenzione, più che sulla sua figura, è portata sulla condizione della patria, «terra del dolor» (v. 18), che detta toni di struggente afflizione, come in questi versi con ricorrente anafora: «Non è lieta ma pensosa, / non v'è plauso ma silenzio, / non c'è pace ma terror. / Come il mar su cui si posa, / sono immensi i guai d’Italia; / inesausto il suo dolor» (vv. 49-54).
Nel personaggio del vecchio si intravvedono sia la disperazione del parganiota (costretto a servire) sia la sofferenza
dell’inglese Arrigo (spinto al disprezzo per una patria che ha tradito i nobili sentimenti). Sulle «pupille venerabili» del romito spunta una lagrima, nel presentare l’Italia «ai troni immobili / plauder lieta e giurar fé» (vv. 42-43). Ma
la denuncia morale diventa intervento «militante»: «Libertà volle; ma stolta! / credé ai prenci e osò commettere / ai lor giuri il suo voler. / I suoi prenci l’han travolta, / l'han ricinta di perfidie, / l'han venduta allo stranier» (vv. 55-60). E si noti, ancora, l’uso dell’anafora, che sottolinea con forza un’immagine. Ma alla deplorazione per la perdita della patria, sotto la
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schiavitù di un tiranno — il «vil téutono» che «edùca a servitù» i giovani italiani —, seguono la sofferenza per la lontananza dei familiari («fratelli membrar invidi / i fratelli che fuggir», vv. 107-108) e, soprattutto, il dolore del vec-
chio romito per la perdita del figlio, «avvinto in ceppi»: «Oh! perché non posso anch’io, / con la mente ansia, fra gli esuli / il mio figlio rintracciar?»
(vv. 109-111).
Si ripropone qui un motivo berchettiano che la critica moderna ha visto intrecciato inscindibilmente a quello della patria: il tema degli affetti familiari, grazie ai quali la famiglia si pone come
nucleo
insostituibile della vita sociale,
dentro il quale cresce l'amore patrio. Ma non si tratterà tanto di insistere sul valore ideologico-sociale dell’istituto familiare, quanto su quello della famiglia come centro di quegli affetti con i quali si coltivano e maturano i valori dell’uomo e su tutti quello della patria. A questa famiglia corrisponde l’istituto del Comune, considerato, secondo il modello medievale, un centro di vita pubblica e di testimonianza di alto sentire. Il Comune come sarà presentato nelle Fantasie e che da lì passerà a Carducci. Ma si torni al Rorzito del Cenisio. Le lacrime suscitate dal ricordo del figlio incatenato («[...] La parola / su le
labbra qui del misero / i singulti soffocàr», vv. 124-126) spingono il viandante a lasciare l’Italia: «A’ bei soli, a’ bei
vigneti, / contristati dalle lagrime, / che i tiranni fan versar, / ei preferse i tetri abeti, / le sue nebbie ed i perpetui / aquiloni del suo mar»
(vv. 145-150).
Se nelle sestine di ottonari della Clarina risuonava la rabbia, in quelle del Rorzito del Cenisio, nelle quali le rime sdrucciole sono frequenti quanto quelle tronche (e si moltiplicano gli enjambements e la rima è abc adc), il canto è più disteso, raggiungendo una «nuova melodia» (così ancora De Sanctis, p. 163): «Và, ti bea de’ soli suoi, / godi l’aure,
spira vivide / le fragranze de’ suoi fior. / Ma che pro de’ gaudi tuoi? / non avrai con chi dividerli: / il sospetto ha chiusi i cor» (vv. 97-102). AI ritmo fortemente cadenzato si sostituisce dunque uri tono più lirico (una «tristezza elegiaca», scrive Cappuccio,
p. 2365). Quest'ultima osservazione sembra rivelare una 100
nuova cifra stilistica, presente ampiamente nelle successive romanze. Non venendo meno la passione politica, sembra venir meno la «rabbia» che dettava i versi contro Carlo Alberto. La situazione stessa di Berchet, difficile sia sul piano fisico sia su quello psicologico (lo rivelano tutte le lettere di questi anni), il suo isolamento, spingevano a una maggiore attenzione per la sofferenza: «quando l’uomo è infelice, non mi balzano agli occhi che le di lui virtù» (Lettere, I, p. 60) si legge nella lettera a Costanza del 20 gennaio 1823. Nel Rirz0rso, probabilmente della fine del 1823 e dei primi del 1824, tutta la prima parte presenta il dolore di una donna che, un tempo
al centro dell’attenzione, è ora
emarginata, con il figlioletto, perché sposa di un tedesco. La presentazione delle due figure — la «mesta pensosa» e il «biondo bambino» — propone alcuni dei momenti migliori della poesia di Berchet. Pietoso nei confronti dell’emarginazione della donna, il poeta plasma del suo sentimento la descrizione, superando la superficialità di tanti suoi versi: «Ella è sola dinanzi le genti, / sola in mezzo dell’ampio convito; / né alle dolci compagne ridenti / osa intender lo sguardo avvilito. /Vede ferver tripudi e carole, /.ma nessuno l’invita a danzar; / ode intorno cortesi parole, / ma ver’ lei neppur una volar» (vv. 1-8). La stessa solitudine sovra-
sta il bambino: «Come rosa è fiorente il fanciullo, / ma nessuno a mirarlo ristà; / per quel pargolo un vezzo, un trastullo, / per la madre un saluto non v'ha» (vv. 13-16). Ma, dato conto della ragione dell’isolamento — «E la donna d’un nostro tiranno, / è la sposa dell’uomo stranier», vv. 23-24 —, la poesia torna a perseguire un intento politico e, venendo meno il dramma, le due figure sono ricondotte al ruolo che spetta a tanti personaggi berchettiani: fornire l'occasione per una declamazione a favore della patria oppressa. Ancora una volta il protagonista sale sul palcoscenico per raccontare la propria vita, denunciando la propria
colpa: «Trista me! qual vendetta di Dio / mi cerchiò di caligine il senno, / quando por la mia patria in obblio / le straniere lusinghe mi fenno? / io, la vergin ne’ gaudi cercata, / festeggiata — fra l’itale un dì, / or chi sono? L’apostata esosa / che vogliosa — al suo popol mentì» (vv. 49-56). "106
Come nel melodramma, si alza il coro a interrompere la voce recitante l'hai voluto, — farai, / nessun ma la donna
(«Vile! un manto d’infamia hai tessuto, / sul dosso ti sta; / né per gemere, o vil, che mai — dal tuo dosso il torrà», (vv. 61-64), riprende, indicando, ancora teatralmente, il
figlioletto: «Vilipeso, da tutti reietto, / come fosse il fi-
gliuol del peccato, / questo caro, senz’onta concetto, / è un estranio sul suol dov’è nato» (vv. 73-76).
Infine, dopo il grido di disperazione finale della donna («Cittadina, sorella, consorte, / madre, ovunque io mi volga ad un fine, / fuor del retto sentiero distorte / stampo l’orme
fra i vepri e le spine», vv. 89-92), la «rappresentazione» si chiude con il coro che ripete gli stessi versi già pronunciati. Dopo le sestine di ottonari, Berchet usa il decasillabo anapesto, ma, a partire da quando la donna confessa la propria colpa (v. 49), ne accentua il ritmo introducendo — in un regolare schema ababcded, con rime tronche al sesto e ottavo verso, — due forti cesure, con due rime al mezzo, proprio al sesto e ottavo verso, anche graficamente interrot-
ti da una lineetta. E, grazie a questo espediente, risulta accentuata la teatralità della scrittura. Per quanto riguarda le scelte linguistiche, invece, Berchet non fa altro che confermare la strada intrapresa, continuando a intrecciare espressioni di tono «basso» ad altre di stampo eminentemente letterario: basti pensare al bambino «figliuol del peccato» (secondo la formula di tanti romanzi) che è «senz’onta concetto» (e un esame lessicografico mostrerebbe quanto è caro a Berchet il termine «onta», usato per lo più al plurale). Nelle diverse edizioni delle Poesie esplicitamente curate da Berchet — che seguono un criterio rigorosamente cronologico —, al Rirzorso succede Matilde, scritta trasla fine del 1824 e i primi del 1825 (alla data 19 marzo 1825, «è nell’album di una gentildonna milanese, Teresa Kramer Berra», annota Li Gotti, p. 305, nota 1). Nella breve romanza
(50 versi) una giovane donna italiana (contraltare della protagonista del Rirzorso) si sveglia angosciata dall’incubo di essere costretta a sposare un «ceffo» straniero, che ha sì 102
un «bianco vestito», ma i fianchi fasciati di giallo e di nero «colori esecrabili / a un italo cor» (vv. 49-50). Nonostante la potenzialità drammatica della figura di Matilde — che è presentata al risveglio da un incubo, quando «La fronte riarsa, / stravolti gli sguardi, / la guancia cosparsa / d’angustia e pallor, / da sogni bugiardi / Matilde atterrita / si desta, s’interroga / s’affaccia alla vita, / scongiura i fantasmi / che stringonla ancor» (vv. 1-10), — Berchet preferisce presentare, in un monologo di stampo eminente-
mente politico, il disprezzo degli Italiani nei confronti dello straniero. Scrive infatti: «no, padre, non darmi / all’uomo stranier. / Sul volto all’esoso, / nell’aspro linguaggio / ravvi-
sa la sordida/ prontezza al servaggio, / l'ignavia, la boria / dell’austro guerrier» (vv. 13-20). E ancora: «Rammenta chi
è desso, / l’Italia, gli affanni; / non mescer l’oppresso / col sangue oppressor. / Fra i servi e i tiranni / sia l’ira il sol patto. / A pascersi d’odio / que’ perfidi han tratto / fin
l’alme più vergini / create all’amor —» (vv. 21-30). Il monologo vorrebbe suscitare l’orgoglio degli italiani, ma finisce inesorabilmente nel melodramma: «E sciolta le chiome, / riversa nel letto / dà in pianti, siccome / chi speme non ha» (vv. 31-34). A conferma
del limite stilistico berchettiano torna, nella romanza, l’incerto aggettivo «esoso», qui attribuito al volto del promesso sposo dell'incubo, e usato nel Rizzorso per la donna, «apostata esosa». E torna l’aggettivo (spesso sostantivato) «tapino», frequente in Berchet, e l’«esecrabile», che richiama l’«esecrato» nome di Carignano in Clarina. Sul piano del metro, invece, dopo gli ottonari e i decasillabi, Berchet torna al verso breve molto usato nel Settecento: ogni strofa si compone di dieci senari dattilici, con l’arsi in seconda e in quinta posizione, con versi piani, tronchi, sdruccioli e una rima alternata (abacbdedfe).
Il verso breve caratterizza anche I/ trovatore, che viene
giudicata da molti la migliore romanza di Berchet («Per la grazia elegiaca e per il tessuto musicale semplice e suggestivo, è uno dei componimenti più caratteristici del nostro Romanticismo» scrive Momigliano, p. 61). La data della composizione è incerta: una lettera all’Arconati, del 30 lu103
glio 1824 (che fa riferimento a una promessa a Marietta Trotti, formulata durante il soggiorno di Berchet a Bruxel-
les, nel febbraio di quell’anno), parla delle difficoltà di scrivere in versi («come pensare a poesia in questa inondazione di prosa che mi affoga?») e di una «brevissima romanza
fatta in questi ultimi dì; ma quantunque non politica, ed innocente come l’acqua, pure non mi pare conveniente per una fanciullina che non deve saper pure che v’abbia al mondo la parola amore» (Lettere, I p. 78). Nel Trovatore, in effetti, si presenta la figura di un trovatore che, innamorato della castellana, ha cantato il suo segreto amore ed è stato cacciato dal castello. Li Gotti, tuttavia, considerando la posizione nella raccolta (dopo Matilde) e la delusione provata da Berchet dopo un successivo viaggio a Bruxelles, nel 1825, argomenta che la romanza (nella quale il poeta esprime il dolore per la difficoltà del suo amore per l’Arconati) sia appunto del 1825. Il 13 settembre 1825 Berchet scrive: «Si ricorda di quella picciola tiritera regalata a Marietta? N’ho mandata jeri un’altra più lunga, in Italia» (Let tere, I, p. 105). Si è voluto vedere, in questo accenno, l’invio in Italia di Maz/de (così Li Gotti, così Van Nuffel): ma che bisogno avrebbe il poeta di accostarla alla disimpegnata «picciola tiritera», visto che Matilde ha un carattere eminentemente politico ed è già stata scritta nel marzo precedente, sull’album di una-gentilissima milanese? È piuttosto la romanza del Trovatore, «non politica e innocente come l’acqua», probabile rivisitazione della «picciola» tiritera. Per altro Matilde è di 50 versi e I/ trovatore di 48: il numero di versi («un’altra più lunga») non è dunque un criterio discriminante per l'individuazione. La datazione della romanza resta dunque controversa. Lo stesso Li Gotti, che, si è visto, indica la data del 1825,
ipotizza una prima stesura del 1824, poi abbandonata, e a questo proposito trascrive un’annotazione di Berchet alla marchesa Arconati (in una lettera del 24 marzo 1825): «Non ho avuto mai testa per copiare que’ tali versi» (Li
Gotti, p. 309, nota 1, la citazione è a p. 310). Ancora Li Gotti suggerisce la possibilità che la decisione di dare alle stampe I/ trovatore fu presa da Berchet dopo la pubblicazio104
ne della poesia da parte di Dandolo (e dunque il testo in Italia era già arrivato). In effetti Berchet scrive a Costanza,
il 7 novembre 1826, di avere saputo da Togno Arconati che «Dandolo ebbe la stolidità di stampar[la] [...] come sua» (Lettere, I, p. 140). Al momento della lettera, comunque, la
prima edizione delle Rorzanze, che porta la falsa data 1824, doveva essere stampata, e I/ trovatore è collocato dopo Matilde e prima di Giulia, che, nella successiva edizione delle
Romanze, questa volta datata 1826, porta in calce «agosto 1826».
I problemi suggeriti dalla datazione non sono dunque pochi, e basti averne accennato. Tornando al testo del Trovatore occorre registrare che, nella lettera citata del 7 novembre 1826, Berchet definisce la poesia una «romanzaccia», forse perché, più che continuare a celebrare i sentimenti della patria, ha dato voce ai propri più profondi sentimenti, e in qualche modo sente di prenderne le distanze proprio con Costanza. Ma
anche
in questa
romanza
torna,
con
evidenza,
il
tema della solitudine intrecciato a quello della perdita: un motivo ancora più sentito da Berchet, deluso nel suo intenso affetto per la marchesa. Il dolore del trovatore nasce, infatti, proprio dall’aver perduto il volto dell’amata: «De’ cari occhi fatali / più non vedrà il fulgor, / non berrà più da lor / l’obblio de’ mali» (vv. 29-32).
Più che in ogni altra poesia, Berchet ha raggiunto qui una felice espressione di canto, forse perché, abbandonato ogni intento politico, ha seguito pienamente uno dei motivi a lui più cari, quello che meglio esprime la sua condizione esistenziale: il motivo della sofferenza di chi, perduti i legami con il proprio mondo affettivo, patisce l’isolamento e la solitudine. Contrariamente all’opinione di alcuni che vedono nel Trovatore una simbologia politica (ad esempio Mazzoni, che ne parla come «di poesia allegorica o almeno allusiva», in L’Ottocento cit., p. 582), in questi versi va rintracciata
l’anima più profonda di Berchet, nel quale si accentua, proprio in quei mesi, la sofferenza per la condizione di esule, provato
dall'amore
(segreto ma lasciato intravvedere) per
105
Costanza («egli è per me impossibile lo strapparmi Lei dal cuore», scrive nel febbraio del 1824; cfr. Lettere, I, p. 62).
Lo conferma la scelta di ricorrere al tono melico settecentesco, con strofe di quattro versi, dei quali i primi tre settena-
ri (uno piano, due tronchi) e l’ultimo quinario, in rima con
il primo settenario. Il risultato è appunto una suggestiva canzonetta amorosa, che presenta l’animo lacerato di chi sta per lasciare i luoghi cari («Varcò quegli atri muto / ch’ei rallegrava ognor / con gl’inni del valor, / col suo liuto. // Scese, varcò le porte; / stette, guardolle ancor: / e gli scoppiava il cor / come per morte», vv. 33-40). Solo il tema della perdita accomuna I/ trovatore agli altri componimenti berchettiani di quegli anni. Al tema politico lo scrittore torna comunque presto: il 10 settembre 1826, dopo aver chiesto agli Arconati un aiuto per risolvere alcune difficoltà finanziarie nate da sbagliate speculazioni in Borsa, Berchet promette in cambio «l’ultima Romanza sulla Coscrizione che ho terminata» (Lettere, I, p. 137). Si tratta di Giulia, con la quale si conclude la raccolta delle romanze. Vi si narra appunto delle apprensio-
ni di una madre italiana, nel momento del sorteggio che deciderà quali giovani dovranno arruolarsi nell’esercito austriaco: inutile dire che le speranze andranno deluse, e il
figlio sarà tra i sette destinati a vestire la divisa nemica. Il Comune di Giulia non è tuttavia quello medievale che sarà cantato nelle Fantasie, nel quale sono tangibili i nobili valori che spingono ad opporsi al nemico straniero. Nel Comune dell’Italia ottocentesca Berchet registra la caduta dei valori di patria e di nobiltà spirituale «— Ma sangue, ma vita non è nel lor petto? / del giogo tedesco non v’arde il dispetto? / nol punge vergogna del tanto patir? / — Sudanti alla gleba d’inetti signori, / n’han tolto l'esempio: ne’
trepidi cuori / han detto: — Che giova? Siam nati a servir» (vv. 25-30). A questa debolezza Berchet opporrà di lì a poco, quasi a confronto, e per spingere il lettore a nuovi sentimenti, il Comune medievale stretto in una Lega contro il Barbarossa. In Giulia, invece, contro la supina accettazione degli eventi
106
si erge l’orgogliosa figura di una donna, che ha già un figlio esule (per l'ennesima volta torna il verbo «perdere»: «l’un d’essi già ’l chiama perduto: / è l’esul che sempre l’è fisso nel cor», vv. 44-45) ed ora teme per l’altro, che, vestita «la bianca divisa del vile», e cinta «una spada che l’austro aguzzò», potrebbe scontrarsi col fratello, come immagina la
madre, con «l'ingegno del duol»: «Da ritta spronando si slancia un furente: / un sprona da manca, lo assal col fen-
dente, / né svia da sé il colpo che al petto gli vien. / Bestemmian feriti. Che gesti! che voci! / La misera guarda, ravvisa i feroci: / son quei che alla vita portò nel suo sen» (vv. 67-72).
Infine, quando sembra affermarsi la speranza che il nome del figlio non sia tra quelli degli italiani coscritti per l’Austria («Com’aura che fresca l’infermo ravviva, / soave una voce dal cor le deriva / che grazia il suo prego su in cielo trovò», vv. 94-96), dall’urna esce un verdetto impietoso: «[...] doman vergognato, / al cenno insolente d’estranio soldato, / con l’aquila in fronte vedrallo partir» (vv.
100-102). L’arruolamento nelle truppe austriache oppone un giovane alla sua patria e contemporaneamente alla sua famiglia: potrà capitare infatti che i fratelli, inquadrati in eserciti nemici, si trovino
Famiglia
e
patria,
di
davanti in uno scontro
nuovo,
costituiscono
un
armato.
solido
binomio. In Giulia occorre mettere in risalto l’uso di un verso lungo, il dodecasillabo, modellato su quello del primo coro dell’Adelchi. Introdotto da Manzoni sull’esempio del «verso spagnolo di arte maggiore» (lo ha rilevato Carducci in Dello svolgimento dell'Ode in Italia, in G. Carducci, Prose, Zanichelli, Bologna 1904, p. 454), è un verso composto (secondo la forma spagnola più ricorrente: cfr. R. Baher, Manual de versificacion espatiola, Gredos, Madrid 1973, p. 187, ed. orig. Max Niemeyer, Tiibingen 1962) da un doppio
senario, con rilevante cesura mediana (in Giulia la rima è aabccb, con versi tronchi in 5). Il carattere epico del dodeca-
sillabo accompagna una scena eminentemente pubblica, come indica subito l’attacco: «La legge è bandita; la squilla 107
s'è intesa. / È il dì de’ coscritti. Venuti alla chiesa, / fan cerchio; ed un’urna sta in mezzo di lor» (vv. 1-3).
Anche in Giulia si mostrano le novità e i limiti di Berchet poeta. Nella teatralità dell’insieme, dovuta ancora una
volta alla necessità di costruire uno scenario sul quale recitare un pezzo di storia patria, si inserisce un’annotazione di sofferenza individuale «disperata», che detta i versi migliori: quelli nei quali la madre mostra, come ha scritto Petrini,
una «desolazione disperata» in un «disperato amore» (p. 71): «Non bassa mai ’1 volto, nol chiude nel velo; / non parla, non piange, non guarda che in cielo; / non scerne, non cura chi intorno le sta» (vv. 40-42). Quando la donna
abbassa gli occhi è per cercare il figlio: «E Giulia reclina gli attoniti rai / sul figlio, e lo guarda d’un guardo che mai / con tanto d’amore su lui non risté» (vv. 85-87). Ancora Petrini, proprio a proposito di questi versi, commentando che in essi si fonde «forma tradizionale e novità romantica», scrive che «la parola letteraria (r47) si piega alla nuova anima e trova un nuovo
accento»
(ibi4.). Per questo nei
versi scarsamente sentiti e teatrali di Giulia, si erge con forza la desolazione e la cupezza del dolore. E in questi momenti la grandezza di Berchet, in versi come questi che arrivano improvvisamente a illuminare la sua poesia, quando riesce a intrecciare con accenti nuovi la tradizione e la modernità, la lingua colta e quella comune, raggiungendo una sicura originalità stilistica, quella che ha continuato a richiamare l’attenzione sullo scrittore, anche
dopo il tramonto dell’attualità politica.
XI.
LE FANTASIE
Le lettere di Berchet della seconda metà degli anni Venti rivelano un particolare disagio nei confronti della poesia. Ne parla in una lettera del 30 luglio 1824, e vi ritorna il 19 settembre 1826, dichiarando: «In mezzo a tanta prosa ov’io 108
mi trovo, ho sempre paura d’ingannarmi giudicando la poesia» (Lettere, I, p. 139). Nella stessa occasione, tuttavia, intervenendo sul poema di Grossi I lombardi alla prima
crociata (appena pubblicato) Berchet aggiunge una riflessione che conferma la sua acuta sensibilità e la sua modernità nel prestare attenzione al pubblico dei lettori e ai nuovi orizzonti della poesia:
Anche a rischio di dire uno sproposito, ho già raccomandato a Grossi di far de’ Poemi più corti. Temo che il tempo dei lunghi poemi sia finito. Gli uomini hanno altre idee e più serie a cui badare, la politica tiene in continuo moto dentro di essi i regrets, le speranze, i dolori, dispetti, e che so io. Questi rivolgono la loro attenzione a nozioni più positive, e non possono quindi ora i lettori dedicare alla poesia tutto quel tempo che la vacuità intellettuale permetteva ai nostri padri di spendere dietro a mere finzioni. La poesia de’ tempi nostri vuole essere rapida, e dipintrice continua delle passioni messe in azione (:bid.).
È una dichiarazione importante e non così frequente tra i poeti italiani: Berchet dimostra qui di non aver perduto ancora la tensione intellettuale della prima stagione romantica, che imponeva allo scrittore un’attenzione particolare al proprio pubblico e alle sue attese. Paradossalmente, una simile considerazione sulla necessità di «poemi» brevi sarà dettata da Edgar Allan Poe nella sua Filosofia della composizione: ma l'accostamento è del tutto casuale, e serve semmai per sottolineare che, come il grande scrittore americano, anche Berchet, favorito forse dall’abitare a Londra,
coglie le trasformazioni sociali che incidono inevitabilmente sulle forme letterarie. Alla riflessione sui «poemi brevi», per altro, se ne aggiungono altre che rivelano una costante attenzione per le vicende letterarie, non intaccata dalle difficoltà, economiche e psicologiche (queste ultime accresciute dalla notizia delle
cattive condizioni di salute del padre e dell’esclusione dal club frequentato ogni sera nei primi anni londinesi: «dopo di aver passato 10 o 12 ore nelle catacombe di Coleman
Street, [...] mi porto a casa direttamente la mia malinconia», scrive il 24 luglio 1827, Lettere, p. 165). 109
Chiedendo notizie all’Arconati sull’accoglienza della biografia di Napoleone appena pubblicata da Scott, esprime un giudizio che va oltre il libro: W.S. non è uomo da scrivere la storia vera; ha troppi pregiu-
dizi [...]; e troppo poca pazienza per indagare i fatti e le cagioni di essi. Quando si tratta d’inventare, la sua immaginazione basta a tutto; quando si tratta di seguire fedelmente il vero, ei vacilla come un fanciullo. [...] La rivoluzione francese non l’ha capita; e non ha capito neppure il suo eroe. [...] Se invece di scriver la
Storia di Napoleone, egli avesse composti due o tre romanzi sull’epoca di Napoleone, che altra gratitudine gli avremmo! (Le? tere, p. 165).
L’opposizione vero/finzione, indagata nella manzoniana Lettera a M. Chauvet e poi al centro di tanti dibattiti tra la fine degli anni Venti e gli anni Trenta, interessa dunque Berchet, anche se ne parla, ancora, in una lettera privata e
di sfuggita. Nelle righe all’Arconati si oppone lo scrittore allo storico, perché è possibile, con un romanzo, e dunque
con l'immaginazione, dare un quadro più vasto di un’epoca. Nulla di nuovo, apparentemente, rispetto alla posizione manzoniana (del resto argomentazioni analoghe opporranno i romanzieri storici ai critici classicisti), ma in Berchet sem-
bra di poter cogliere qualcosa d'’altro. L’«immaginazione». di Scott, considerata qui uno dei punti di forza della sua attività letteraria, era stata oggetto di un accenno, altrettanto privato, di Manzoni, che, proprio interrogandosi sul romanzo,
aveva
scritto a Fauriel, il 3
novembre 1821: «Lorsque des événements et des personnages historiques y sont melés, je crois qu'il faut les represénter de la manière la plus strictement historique; ainsi par exemple Richard coeur-de-lion me paraît défectueux dans Ivanhoe» (Tutte le lettere, p. 245).
Ma ormai Manzoni e Berchet sembrano lontani non solo per ragioni geografiche. Berchet, nel suo isolamento, è del resto estraneo alle trasformazioni ideologiche dei vecchi amici rimasti in Italia, e segnatamente a quelle di Manzoni (intorno al quale continuano a lavorare Visconti e Grossi), che, proprio nei primi anni Venti, si interroga sul significa110
to della storia e sulle sue scelte di scrittore. Basti richiamare
il travaglio della Pentecoste, nell'ultima stesura della quale (del 1822), viene meno «la vicinanza tra lo Spirito Santo e lo spirito delle libertà nazionali» (così Fortini, in S$aggi italiani, Garzanti, Milano 1987, vol. II, p. 32): Manzoni «fa i conti con la storia profana» e, senza arrivare a dire, con Fortini, che «scrive il romanzo e si chiude in se stesso» (ivi,
p. 35), si coglie uno scarto rispetto alla produzione poetica precedente: la storia è ora solo luogo della manifestazione divina. Berchet non approfondisce queste tematiche, e anzi ne prende in qualche modo le distanze. La sua scrittura accoglie gli echi della poesia manzoniana (dal Conte di Carmagnola all’Adelchi), ma non la più definita concezione della
storia. Al ricordo e alla nostalgia («Ridica per me un mondo di gentilezze a quella cara famiglia. Parli di me spesso con loro. Ella sa quanto mi sono cari tutti [...] Li preghi a non dimenticarsi di me; sarebbe scortesia, dacché io penso
a loro e gli amo tanto, e più forse, quanto il dì che gli ho dovuti lasciare» (Lettere, I, p. 111) si sostituisce in Berchet il disappunto per lo «spirito di proselitismo» e «la smania
di teologare» di «Casa Manzoni», che ha coinvolto Visconti (Lettere, I, p. 166), e infine la rabbia per non aver ricevuto, come promesso dallo stesso Alessandro, il romanzo. Le vicende della famiglia Manzoni e la lettura del romanzo dettano alcuni passi significativi per mettere a fuoco la posizione ideologica di Berchet. Dopo aver scritto che «Ella sa ch'io non sono né irreligioso per professione, né nimico neppure di chi è divoto più di me» (Lettere, I, pp. 165-66), lo scrittore aggiunge: «Ho opinione che Dio possa servirsi ed adorarsi in illarità [sic] di spirito, come dicono le scritture» (Lettere, I, p. 166). Ancora nel 1828, parlando di alcune lezioni di Cousin, cita Manzoni: «Una tinta di misti-
cismo religioso sbattuta su di un fondo di accomodante quietismo politico, non poteva non trovare favore presso uno il quale era già arrivato agli stessi risultati per via della rassegnazione alla volontà del Signore. Ma io, poveretto, non sono abbastanza cattolico per gradirla quella tinta» (Lettere, I, p. 194).
111
È con questo atteggiamento che Berchet legge I Promessi Sposi, come si rileva da una lettera dell’11 settembre 1827: [...] la ringrazio infinitamente del romanzo di Manzoni [...] Le prime cento pagine del III Vol. e degli Sposi mi hanno seccato un poco, il resto mi è piaciuto assai assai assai. [...] Il fatto è che tutto insieme è una bellissima cosa, e chiunque alle forti emozioni sa sostituire una più pacata emozione come oggetto di compiacenza, quegli deve sentir gusto alla lettura di Manzoni. Il rimprovero che forse io farei a Manzoni sarebbe tutt’altro che letterario. Considerato come letteratura il suo romanzo è, torno a dirlo, una gran bella cosa (Lettere, I, p. 170).
La concezione della storia e della religione di Manzoni e di Berchet non coincidono più: per il secondo, ottimisticamente, è ancora possibile una letteratura di battaglia politica. Per questo interpreta come «rassegnazione» la nuova posizione di Manzoni e distingue, nel romanzo, tra letteratu-
ra e «altro». La critica di Berchet è molto vicina a quella di Giovita Scalvini nel Saggio sui Promessi Sposi (del 1829) e soprattutto nelle Note risalenti alla prima lettura del romanzo, ed è probabile che sia maturata nel reciproco confronto. In esilio dal 1822, e per un lungo periodo a Londra, Scalvini era in stretto contatto con Berchet, che si consulta con lui «per sentir quanto mi costerebbe lo stampare a Parigi quell’ultima cosuccia ora finita» (cfr. lettera del 3 ottobre 1828, in Lettere, I, p. 191).
Si tratta delle Fantasie, scritte tra il giugno 1827 e i primi d’ottobre del 1828, e poi pubblicate nel 1829, da Delaforest, a Parigi, con una lunga lettera-prefazione intitolata Agli amici miei in Italia, datata Piccadilly, 5 gennaio
1829. Il testo introduttivo, pur nella forma espistolare che indugia sulla nostalgia per gli amici lontani e per la conversazione con loro («perdita questa delle più amare che m’abbia costato l’esilio», I, p.
51) è in realtà un’ampia riflessione
teorica. In primo luogo c'è la conferma dell’importanza per Berchet di un pubblico con il quale lo scrittore abbia una comunanza di intenti e di interessi: «nel comporre i versi 112
che oggi vi dedico, voi, voi soli, io sempre aveva dinanzi
alla mente, come lettori a cui soddisfare, s'îo lo potessi» (I,
p. 52). Nella comune appartenenza — che è sia culturale sia nazionale — va del resto cercata la ragione della scelta della storia raccontata: «l’epoca più bella, più gloriosa della stode’ lombardi
ria italiana, la confederazione
in Pontida, la
battaglia di Legnano, la pace di Costanza» (ibid.), quando «nelle vene de’ nostri antenati non iscorreva poi tutto latte» e «le soperchierie tedesche non erano in Italia ingozzate poi tutte come ciambelle calde» (I, p. 53).
In queste parole è già anticipata la ragione politica delle Fantasie: Berchet intende proporre — indicando l’esempio dei comuni medievali stretti in una lega — un modello di virtù patria ormai perduto («Dinanzi a me non istavano che
il concetto della virtù lombarda nel medio evo e il concetto della presente nostra (siamo sinceri) corruttela», I, p. 60).
E tuttavia, gli ampi riferimenti all’attività letteraria introducono una riflessione di poetica che, già lasciata intravvedere nelle lettere, è l’espressione di un atteggiamento nuovo. Riconoscendo, con compiacimento, che anche da parte
degli storici c'è una maggiore attenzione al favore del vasto pubblico («la moltitudine»), preso ora da una «crescente smania» di conoscere «il vero delle cose» (I, p. 55), Ber-
chet si interroga sul rapporto storia/invenzione, che, dopo l’uscita in serie di romanzi
storici nel 1827
(I Promessi
Sposi in testa), è di nuovo al centro delle polemiche. Per ragioni diverse dagli storici, scrive Berchet, anche i poeti prendono i «minuti particolari» della storia, e li incastonano (Berchet usa il termine «gemme»)
nel loro testo, che,
scrive ancora Berchet parlando della sua stessa esperienza «secondo l’intendimento mio, doveva essere un riverbero
rapidissimo del tutto di verità, e quindi conservare qualche tratto individuale della fisionomia dell’oggetto riverberato» tI; p..56). La nuova poesia si fonda dunque sull’intreccio di storia e invenzione, e sulla documentazione. Ma detto questo Berchet aggiunge una affermazione che sembra smentire gli assunti iniziali, dichiarandosi a favore delle sole ragioni della poesia. La scrittura letteraria va infatti collocata su un 113
piano diverso da quello della storiografia, e i particolari della storia dei quali il poeta si serve, vanno «considerati solo come trovati poetici» e allora, o «sono espressi nel poemetto con sufficiente chiarezza, non per certo prosaica, ma quale l’ammette la poesia epico-lirica; o non lo sono»: e se non lo sono «il poema è sbagliato» (I, p. 56). Lo scrittore insiste in modo particolare — e con accenti nuovi rispetto alle riflessioni del circolo manzoniano — sulla specificità della letteratura, aggiungendo, dopo un'ulteriore riflessione sul rapporto storia/invenzione («Perché ho scritto quattro versi, mi corre forse per questo il debito, come allo storico, di provare la verità d’ogni cosa ch'io racconti con
essi?»,
I, p. 57), alcune importanti
annotazioni
che
riportano l'interesse sul lettore e sulla definizione di una «estetica»: «Gli accidenti ch'io narro tocca al lettore di procurar d’intenderli, recando alla lettura quella meno sbadata attenzione che la poesia epico-lirica richiede, la quale, già si sa, è una sciagurata che non vuole piegarsi a usare stile da gazzetta» (:bi4.), scrive Berchet. È questo uno dei punti più importanti della lettera Agli amici miei in Italia, rivelando lo statuto nuovo e originale offerto da Berchet al lettore (coinvolto direttamente
nell’esperienza della lettura, contro, dunque, ogni possibile riduzione della scrittura alla poesia «popolare» di facile e banale consumo), e una rivalutazione del valore dell’arte, la
cui funzione non è «informativa». Scrive ancora Berchet che «gli accidenti ch'io narro tocca al lettore di pigliarseli o come veramente somministrati dalla storia, o come consentanei ad essa, e bene o male inventati» (I, p. 57), tanto che il
poeta non deve darsi «pensiero del come il lettore piglierà le immagini del racconto poetico, piuttosto come verità o come somiglianti alla verità» (I, p. 58).
In queste dichiarazioni Berchet sostituisce all’idea di «pubblico» (l’indistinto insieme dei lettori) un riferimento
al singolo lettore: il poeta si rivolge al pubblico con una funzione civile (e deplora che in Italia ci siano «critici e non popolo», cioè non ci sia un pubblico, I, p. 69), ma tocca al singolo lettore costruire la sua esperienza di lettura. E una riflessione solo accennata, ma di significativa rilevan114
za nel contesto di quegli anni. Nella zazione dell’esperienza estetica vanno date alle stesse pagine: la poesia fanno parlando de’ venti», dovrebbe
direzione della valorizaltre dichiarazioni affidelle romanze, «come essere definita «epico-
lirico - lirica» (I, p. 57); l’accentuazione del momento lirico
è così spiegata: L’incumbenza mia, secondo l’obbligo che me ne impone l’arte, non è di rappresentargli un fatto storico, quale precisamente fu; ma è solo di suscitare in lui [nel lettore] qualche cosa di simile all’impressione, al sentimento, all’affetto che susciterebbe
in lui la presenza reale di quel fatto. Quella qualche cosa di simile è risvegliata per mezzo d'immagini; e la convenienza di questa è determinata non dalla verità loro positiva, ma dalla maggiore attitudine in esse a produrre quella impressione, quel sentimento, quell’affetto (I, pp. 57-58).
Addirittura la verità positiva è considerata «un mezzo» dello scrittore, non «un fine»: «Guai a lui! s’egli scambia lo scopo dell’arte sua con quello dell’arte dello storico!» (ivi, p. 58). In un altro passo propone di considerare gli episodi narrati come esempi dell’«ideale», cioè la testimonianza di una situazione non descritta storicamente. L’opposizione storia/immaginazione si risolve a tutto
favore dell’immaginazione, consumando la separazione di Berchet dalla poetica manzoniana: «la facoltà di crearci 0ggetti ideali, di arrestarci a contemplare fenomeni che non occuparono mai né tempo né spazio, di vagare dietro il verisimile sdimenticati del vero, la facoltà poetica insomma in tutti i suoi attributi, sia o no che se n’abbia consapevolezza quando la si esercita, [...] ell'è pur sempre una delle perpetue imprescindibili condizioni che costituiscono lo spirito umano» (I, p. 62). Nell’espressione «sdimenticati del vero» — e nell’affermazione di una facoltà poetica che, comune a tutti gli uomini, si fonda sull’immaginazione, «la potenza che la mente umana ha d’immaginare» (ibid.) — si manifesta il distacco tra la posizione di Berchet e quella di Manzoni. Nella Prefazione alle Fantasie, secondo Luigi Derla, «la formulazione definitiva della poetica berchettiana appare 115
[...] sotto molti aspetti, il capovolgimento di quella proposta nella Lettera» (Derla, p. 305). Si possono leggere in questo senso le pagine finali della lettera Agli amzici miei in Italia, nelle quali, rivelando ancora una volta la sua particolare sensibilità, Berchet riconosce le contraddizioni alle quali uno scrittore va incontro quando deve misurarsi con le ragioni della poesia e con quelle della militanza politica. Interrogandosi sulla propria scrittura, e facendo riferimento anche alla precedente produzione, Berchet afferma dunque di essersi messo sur una strada la quale non è giusto giusto quella indicata dall’estetica come conducente diritto allo scopo ultimo che l’arte poetica si prefigge per unico, sur una strada dove spesso fo sagrificio della pura intenzione estetica ad un’altra intenzione, dei doveri di poeta ai doveri di cittadino. Nel conflitto di queste due sorta di doveri, è da ravvisarsi un’angustia per l’uomo che ne sente l’importanza di entrambe (I, pp. 66-67).
In queste parole l’esperienza poetica non contempla più, intrinsecamente, come sostenuto all’epoca della Lettera serziseria e del «Conciliatore», un valore civile: l’arte, sembra dire
Berchet, ha una dimensione specifica sacrificata in nome della militanza. Il poeta soffre dell’inconciliabilità del «conflitto», nel quale, con il trionfo delle ragioni politiche su quelle estetiche, si afferma in realtà la sconfitta della poesia «ideologica» in campo artistico. Se fino a questo momento l'opposizione storia/immaginazione era dentro una scelta estetica, la nuova
opposizione poesia/politica mette in conflitto la stessa ragione estetica con le ragioni dell’ideologia. Se nella prima opposizione vincevano i valori dell’arte su quelli della storia, nella seconda, che coinvolge la stessa condizione esistenziale dello scrittore, le ragioni estetiche soccombono a quelle ideologi-
che: a tal punto che, chiudendo la sua riflessione, Berchet
‘ attua uno scarto chiedendo un giudizio morale e non letterario: «nella prevalenza [...] della devozione civile sulla devozione estetica, è da riconoscersi, se non m’'inganno, qualche cosa
d’onesto, la sottomissione dell’amor proprio all'amore della patria» (I, p. 67). E allora la reazione critica potrà essere:
«Ha fatto un cattivo poema, ma una buona azione» (ibid.).
116
I versi delle Fantasie rivelano esemplarmente, più anco-
ra di quelli delle Rorzanze, il conflitto poesia/politica, con alcuni momenti di alta scrittura e troppi versi ‘nei quali la poesia è sottomessa all’oratoria. Dello squilibrio aveva per altro consapevolezza lo stesso scrittore, che riconosce «una certa mancanza,
diciamo
così, d’intonazione
poetica,
non
solamente qua e là nello stile, ma nel tutto insieme della finzione, un non so che inesprimibile di grave che non sa trascinarti fuori della realtà della vita più che tanto, un ideale che è bensì poetico, ma lo si sente cercato con intendimento prosaico» (I, p. 65). Parole che, riconfermando la sensibilità artistica di Berchet, ne denunciano nuovamente i
limiti poetici. I cinque sogni o visioni di un esule italiano introducono nelle cinque sezioni nelle quali si divide la romanza,
mo-
menti della lotta dei Lombardi contro Federico Barbarossa o, per contrasto, immagini della triste realtà dell’Italia contemporanea: nella prima il giuramento dei Lombardi di combattere uniti l’imperatore; nella seconda l’esaltazione dell’ozio e della rinuncia alla lotta dei contemporanei; nella terza la battaglia di Legnano con la quale Federico è sconfitto; nella quarta la firma della pace sul lago di Costanza; infine, nella quinta, di nuovo immagini di servitù e di viltà nell’Italia ottocentesca. Il punto di partenza «privato» delle precedenti romanze (che spesso portano nel titolo il nome del protagonista — Clarina, Matilde, Giulia — o comunque un riferimento individuale: il rimorso) lascia il posto, nelle Fantasie, alla «sto-
ria». Il contesto politico mutato — la servitù immobile degli Italiani, dopo la fiammata dei moti dei primi anni Venti — spinge il poeta ad avanzare esempi storici gloriosi, invitando a trarre «dalle memorie del passato una migliore direzione alle speranze del futuro» (I, p. 69).
Ecco allora — in ottave di settenari — la presentazione dell’esule che «sempre ha la patria in cor» (v. 8; il verso torna in modi diversi, a cadenzare il ritmo con la sua itera-
zione) e dell’uomo che gli appare in sogno, in abiti medievali: «la sua parola è fòlgore: / dirla oggimai chi può?» (vv. 47-48). Dopo la presentazione del «narratore», una martel117
lante cadenza — questa volta in ottave di decasillabi, sempre anapesti con arsi in terza, sesta e nona — dà forza alle parole del sogno, esaltando la nobiltà di sentimenti degli antichi Lombardi, «concordi, serrati a una lega»: «Lo straniero al pennon ch’ella spiega / col suo sangue la tinta darà» (vv. 55-56). L’amore di patria pervade di virtù anche i comportamenti individuali («[...] Voi, donne frugali, / rispettate, contente agli sposi», vv. 61-62), e spinge al corag-
gio tutta la popolazione: «Su! nell’irto, increscioso Alemanno, / su! lombardi, puntate la spada [...] Vaghe figlie dal fervido amore, / chi nell’ora dei rischi è codardo / più da voi non isperi uno sguardo, /. senza nozze consumi i suoi dì» (vv. 89-96).
Le parole dell’uomo del sogno sono una perorazione di tono alto: potrebbero essere pronunciate su un palcoscenico, con tono deciso, per descrivere la nobiltà e il coraggio: «L’han giurato. Gli ho visti in Pontida / convenuti dal monte, dal piano. / L’han giurato; e si strinser la mano / cittadini di venti città» (vv. 49-52). E andrà notata la ripeti-
zione di quel «L’han giurato», che richiama la stessa ripetizione nelle prime due strofe di Marzo 1821, che dunque Berchet doveva conoscere, sebbene ancora inedita. La stessa struttura è proposta nella seconda sezione: alle prime due strofe in ottave di settenari (è il narratore che presenta ancora l’esule «sopito» in una notte oscura), fanno seguito ottave di senari, con un quinario tronco al quarto e all’ottavo verso. È una «aria» (Berchet la definisce «canzoncina»), con la quale un contemporaneo dell’esule, preso posto sul palcoscenico dopo che si è allontanato il narratore, manifesta, «cantando», la sua viltà: «Ebben! che importami / se omai l’Italia / nome tra i popoli / non serba più» (vv. 133-136), ed esalta i piaceri del vino e della tavola: «Poggiato a un candido / sen, non m’assalgano / nenie per l’italo / defunto onor; / ma baci fervidi, / lepide insidie, / delìri, aneliti, / e baci ancor» (vv. 193-200). Segue la canzonetta un nuovo intervento del «narratore»: «Era sopito l’Esule; / era la notte oscura; / un altro il sogno [...]» (vv. 201-203). Anche nel sogno, questa volta, c'è un narratore, che presenta la vittoria dei Lombardi, la
118
rabbia dell’imperatore, l'angoscia delle donne che cercano «impazienti»: «Per la campagna, orribile / di morti e di morenti [...] / quei che han mancato al novero / quando squillò a raccolta, / quando le madri accorsero / festanti al vincitor» (vv. 249-256). Ma tutto questo è riferito dal narratore: al centro del palcoscenico si erge poi, solitario, un morente, che racconta le gesta della battaglia. Al settenario si sostituisce il decasillabo: il morente recita, non canta come il vizioso, e raccoglie le «gemme» della storia che il poeta ha rinvenuto nella memoria del passato: tre colombe salgono sull’antenna del carroccio, segno che Dio aiuta le vittime, contro gli usurpatori. Con accenti manzoniani (an-
cora di Marzo 1821) si dispiega il canto dell’aiuto di Dio: «Sì, Colui che par lento agli afflitti,
/ è il Dio vigil che
pugna per essi; / nel suo giorno ei solleva gli oppressi, / fa su i prenci il disprezzo cader» (vv. 309-312).
È un momen-
to centrale per l'affermazione, attraverso le parole del morente, di un ideale politico, facilmente riconducibile al modello di una concordia cristiana borghese: «Le città, siccom’una con una, / abbian pace anche dentro: e l’insegni, /
col deporre i profani disegni, / l’uom che stola e manipol vestì. / Capitan, valvassor, cittadino, / cèssi ognun dai livori di parte. / Il lombardo che è scritto ad un’arte, / non dispetti chi un’altra seguì» (vv. 337-344). Il morente ha consigli per tutti, rivelando la scarsa drammaticità della scena, improntata a un intento eminentemente politico: «E
voi, madri, crescete una prole / sobria, ingenua, pudica, operosa. / Libertà mal costume non sposa, / per sozzure non mette mai piè» (vv. 353-356). Anche le ultime parole sono un invito ideologico: «Ma la via ch'io mi scelsi fu santa;
/ ma
il dover ch'era il mio l'ho compiuto»
(vv.
377-378). Con il terzo sogno si precisa meglio il disegno delle Fantasie: non più un intervento fondato sulla spinta diretta della «rivolta» contro gli Austriaci, ma una più ampia presa di posizione politica e sociale, per indicare agli animi spenti le necessità di una rivolta morale, oltre che politica, e trat-
teggiare l'ideale di una società nazionale improntata alla concordia tra le classi, in nome della fratellanza patriottica. k19
Impegnato in questa ambiziosa prospettiva, Berchet, si
preoccupa di allineare i tasselli del suo mosaico più che di organizzare la romanza in una struttura organica. Nella quarta sezione, ancora una volta, è il narratore a
introdurre, con il medesimo incipit, un nuovo sogno («Era sopito l’Esule; / era la notte oscura»,
vv. 393-394),
e a
delineare il paesaggio. Ci sono agnelli al pascolo, campi e colline, un fiume, un lago, una città: è Costanza, dove sono
convenuti i rappresentanti della Lega per firmare la pace. Il contrasto tra la natura («È il tempo in cui l’anemone / intisichisce e muore», vv. 417-418) e la gioia degli uomini è ben avvertito da Berchet («Per tutto è moltitudine; / è un
dì come di festa», vv. 425-426), per sottolineare l’importanza dell’avvenimento: «In mezzo il biondo popolo, / muovono lento il piè, // a coppia a coppia, in semplici / prolisse cappe avvolti. / Che franchi atti discreti! / che dignità nei volti! / Tra lor dan voce a un cantico; / tra lor l’alternan lieti.
/ Oh, della cara Italia / la cara lingua ell’è!» (vv.
495-504).
I rappresentanti della Lega lombarda, che stanno avanzando in corteo, come seguendo un copione si fermano e recitano la loro parte: sono sestine di dodecasillabi, che raccontano le gioie della wittoria (con le donne che, ridenti,
si appoggiano «al braccio che i fieri prostrò», v. 534), la disperazione della corte dell’imperatore, sperduto nella boscaglia («La regia consorte tre notti l’aspetta, / tre giorni lo chiama dall’alta veletta: / al quarto, misviene fra i muti scudier», vv. 538-540), la maledizione per chi dimenticherà «Legnano / l’altera parola che il'canto dirà» (vv. 566-567). La quinta e ultima parte (introdotta dalla stessa formula delle precedenti) propone una descrizione dell’Italia contemporanea. Nel racconto del narratore — che descrive (in ottave di settenari, con l’ultimo verso tronco) il sogno — com-
paiono i luoghi dell’infanzia e dell'adolescenza dell’esule («i cari siti, ahi lasso! / che nell’amara fuga / larve mandar parevano / a circuirgli il passo», vv. 619-622), sottomessi
alla dominazione straniera, privi di qualsiasi dignità e orgoglio: «Son questi? È questo il popolo / per cui con affannosa / veglia ei cercò il periglio, / perse ogni amata cosa?» 120
(vv. 657-660). Nei gemiti di una misera donna si riconosce
uno dei motivi delle precedenti romanze
(«Ahi, misera! "4
qual caro suo l’è tolto? / Non è dolor che agguagli / quel che l’è impresso in volto», vv. 689-692), e si conferma la viltà dei concittadini
che non
partecipano
al suo dolore,
espresso da tre sole parole percepibili «Patria!... Spilberga!... vittime!...» (v. 697). La romanza si chiude con il risveglio dell’esule, che benedice «l’albore / che dalle vane immagini / al ver lo ravviò»
(vv. 742-744),
rimanendo
tuttavia
«ammutolito»,
con gli occhi bassi a terra: «quel che ancor l’ingenuo / soffre, pensando ai sogni, / sol cui la patria è un idolo / indovinar lo può» (vv. 749-752). L’ampio quadro delle Fantasie si chiude, dunque, con un'ennesima
sollecitazione morale, sulla quale convergono
la denuncia delle misere condizioni dell’Italia, priva delle virtù di un tempo, e la proposta di modelli di amore per la patria. Proprio queste ultime immagini, con le quali sull’impianto storico si innesta la poesia contemporanea, esplicitamente «militante», contribuiscono a definire ulteriormente
i confini della poesia di Berchet. Solo la sofferenza per la patria e la necessità di un incitamento politico sembrano far nascere la poesia berchettiana, che si scontra, ‘all’altezza cronologica della fine degli
anni Venti, a conclusione della sua più intensa stagione poetica, con la riflessione sulla difficoltà di conciliare istanza letteraria e impegno risorgimentale. Nella Lettera agli amici in Italia, Berchet sembra suggerire che si tratti di una difficoltà individuale («altro galantuomo, posto nelle strette mie, avrebbe potuto servire alla patria con meno ripudio dell’estetica», I, p. 67), rammaricandosi che «il tipo del bello l’ho in capo talvolta; ma quando si tratta d’imitarlo coi fatti, dàlle dàlle, non mi riesce» (ibi4.). E tuttavia, più che come una giustificazione dettata dalla modestia, le dichiarazioni di Berchet andranno lette sia come affermazione della contraddizione cui può essere ricondotta tutta la sua esperienza poetica, sia come testimonianza emblematica dei problemi degli scrittori italiani della prima metà dell’Ottocento (ma anche oltre), divisi tra l’ideale artistico, inevitabil121
mente condizionato dai modelli dell’alta letteratura del passato, la sensibilità per un nuovo linguaggio, le sollecitazioni patriottiche. Lo stesso Manzoni,
dopo le Odi e l’Adelchi,
dopo il travaglio della Pentecoste, dopo la riflessione affidata alla Lettera a M. Chauvet, privilegia il terreno della prosa, impegnandosi nel romanzo, che meglio gli permette di trasmettere (anche a un pubblico più vasto) i suoi principi. Ai problemi indicati da Berchet introducendo Le fantasie sembra sfuggire solo Leopardi, forse proprio perché consapevolmente estraneo all'opposizione estetica/ideologia risorgimentale, impegnato a elaborare un pensiero filosofico originale nella cultura italiana del tempo e a perseguire una poesia che, inserendo quel pensiero in un contesto apparentemente classico, ne rinnova radicalmente il linguaggio.
XII.
BERCHET
EUROPEO
E LE
ROMANZE
SPAGNOLE
Nella seconda metà del 1829 la vita di esule di Berchet ha una svolta significativa. Gli ultimi mesi erano stati difficili: lo scrittore aveva partecipato con generosità al tentativo, presto fallito, di Teresa Confalonieri di far evadere il marito, il conte Federico, dallo Spielberg, e aveva assistito al suicidio di un dipendente dell’Obicini, anch’egli esule dall'Italia, rimanendone fortemente impressionato.
Nel lu-
glio del 1829 Berchet accetta dunque di trasferirsi a casa degli Arconati come precettore del-figlio Carlo. Abbandona Londra per il castello di Gaesbeek il 13 luglio, dopo un’ultima lettera a Costanza nella quale introduce un'importante annotazione sull’attività del traduttore. Scrive dunque Berchet, giudicando negativamente la traduzione dell'amico Giovanni Arrivabene degli Elementi di economia politica di Mill: «Quando il penoso job del tradurre è finito, e si è certi che il senso del testo è colto, e il testo è buttato da un canto, e nulla rimane che di ricopiare il
proprio scritto; allora il traduttore piglia, come a dire, l’aria d’autore; e vi ci si mette con più fiammella a ritrarre la 122
materia, che allora è come faccenda sua propria». E aggiunge: A proposito di tradurre: è un toccarmi dove il dente duole il parlare a me di tradurre rorzances spagnole. Sono molt’anni, fin dall'Italia, che ho sempre a’ fianchi questa tentazione; ma ho a’ fianchi una persuasione che la difficoltà sia immensa; per non dire impossibilità. Pajono cose sì facili a convertirsi in italiano! Quanti bei versi già begli e tradotti da se! E poi, e poi! Basta, ne parleremo a voce. E se Fauriel mi sa suggerire un sistema; ebbene lo ringrazierò (Lettere, I, p. 218).
Una delle ragioni per le quali lo scrittore accetta di trasferirsi in Belgio sembra essere appunto la presenza dell’amico Fauriel, che gli promette il suo aiuto per la traduzione delle romanze spagnole. L’interesse di Berchet per i romances va collocato nel clima della stagione del Romanticismo: considerate dai romantici una delle più alte espressioni della cultura popolare (solo più tardi se ne precisò meglio il carattere eminentemente letterario, dovuto all’inter-
vento di uno scrittore colto) le vecchie romanze spagnole avevano riscosso, intorno agli anni Venti, un ampio succes-
so e numerose
edizioni,
tra le quali quella di Grimm
(1815), di Depping (1817), di Duran Fauriel se ne era interessato.
(1828);
lo stesso
Recuperate a Gaesbeek le forze, soprattutto sul piano psicologico, Berchet è pronto all'impresa, e nel dicembre dello stesso 1829 si reca in Germania, a Bonn, dove inse-
gnano alcuni degli studiosi più noti della letteratura popolare europea, tra i quali G.B. Niebuhr, A.W. Schlegel, F. Diez (traduttore dei rorzances in tedesco), sperando di approfondire i suoi interessi nei corsi universitari. Purtroppo,
come corsi, cuore, nuovi
testimoniano le lettere all’Arconati, in quel semestre, non riguardano ma Berchet ha ugualmente modo amici, anche fuori dell’università, ad
gli argomenti dei ciò che gli sta a di parlare con i esempio frequen-
tando casa Schlegel (dove improvvisa, nel 1830, la sciarada
«Metto il primo sul secondo / metto il tutto sotto al piè», cioè «tè-desco», II, p. 422). Accogliendo la loro lezione e il loro esempio di studio, 123
il poeta si trasforma in «erudito e filologo», come ha sostenuto Van Nuffel (cfr. Berchet erudito e filologo, in Giovanni
Berchet, pp. 49-70), cioè in uno studioso attento alla dimen-
sione storico-filologica della poesia (ne fa fede, tra l’altro,
un ampio memorandum, ricco di annotazioni in italiano, francese, tedesco, sui libri letti, in particolare sulla poesia
popolare). Secondo
Van
Nuffel
(che, sulle carte del castello
di
Gaesbeek, ha ricostruito i passaggi dell’attività letteraria berchettiana di quegli anni), lo scrittore, pur ottenendo il valido incoraggiamento di Niebhur a continuare la traduzione delle romanze
(«la maniera
con
cui le ha lodate
mi
conferma sempre più nel disegno suggeritomi da Fauriel, e ripiglierò a Gaesbeek il lavoro», scrive all’Arconati il 27 dicembre 1829; Lettere, I, p. 224), preferisce dedicarsi allo studio del Nibelungenlied. Non solo: incomincia a tradurre in tedesco moderno e in una prima traduzione italiana alcuni di questi testi «popolari» in antico tedesco, pensando forse a una possibile raccolta antologica. Ne restano alcuni fogli, editi da Van Nuffel (Esercizi linguistici e traduzionacce inedite di G. Berchet, in Studi sul Berchet, pp. 101-43), nei quali è esemplificato il metodo di traduzione indicato all’Arconati nel luglio del 1829. In prima istanza è cercata una trascrizione «in prosa», e quindi una riscrittura, condotta con attenzione alla versificazione italiana più che al rispetto dell’originale. Nell’unica lassa del Nibelungenlied per la quale l’intero ciclo di traduzione è compiuto, si ha una precisa esemplificazione del metodo di traduzione di Berchet. Una prima versione approssimativa — «Quelli che là ardirono combattere, quelli giacquero tutti trafitti (uccisi) / Il tesoro quello ordinò egli baldo carreggiare e portare / Là di dove lo avevan preso gli uomini di Nibelungo / Albric il molto forte allora ottenne le camere (fu fatto camerlingo)» — è poi riorganizzata nei versi: «Quei che osar combatte / Giacquer trafitti a morte / Tutti, ed il tesor via subito / Fé carreggiare il forte / là donde tolto avevalo / La Nibelunga gente / E la custodia ottennevi / E camerlingo
posevi / Albrigo il sì valente» (in Esercizi linguistici, p. 135). L'obiettivo che il poeta si è posto appare dunque chia124
ro: ricreare un mondo poetico straniero con il ricorso agli strumenti della poesia italiana — il ritmo, prima di tutto —, non esitando a riferirsi, nelle scelte linguistiche, agli esempi della tradizione colta: gli «uomini di Nibelungo» diventano «la Nibelunga gente». Nella stessa direzione vanno (dopo l’abbandono, forse per le troppe difficoltà, del Nibelungenlied), le traduzioni (probabilmente degli stessi anni) delle romanze spagnole e di alcune ballate danesi. Di queste ultime, rimaste confinate negli archivi di Gaesbeek, Abore e Signilda fu pubblicata per la prima volta da Cusani, e altri due brevi testi, I veri 7 e 140 e La morte di Sivard, sono raccolti (con l'indicazione
«il manoscritto resta interrotto») nell’edizione di Bellorini del 1941: in realtà del primo dei due — il cui vero titolo è Erano sette e centoquaranta — esiste una versione molto più
ampia, con varianti in manoscritti diversi, pubblicata da Van Nuffel come Inediti di Berchet. Le ballate danesi. Probabilmente sollecitate dalle conversazioni di Bonn, e
dall'incontro, in successivi viaggi a Parigi, con nuovi studio-
si (in particolare Jean-Jacques Ampère, che si occupava di
letteratura scandinava) le prove di traduzione delle ballate
danesi, pur nel loro stato di incompiutezza, sono interessanti perché confermano sia l'interesse di Berchet, negli anni Trenta, per la poesia popolare (perdurando sempre l’errore dei romantici di ricondurre alla poesia popolare molte opere
tramandate dalla tradizione più antica) sia le scelte stilisti-
che del traduttore soprattutto esemplificate nelle romanze spagnole. Tra l’altro un rapporto epistolare con il libraio parigino Barrois, per l’acquisto di una grammatica danese (le lettere sono datate tra l’agosto e il settembre del 1831), rivela l’attenzione dello scrittore per il diretto studio della lingua e degli originali. Ma soprattutto le traduzioni dallo spagnolo, che escono hel 1837, a Bruxelles (da Hauman,
Cattoir e C.), con il
titolo Vecchie romanze spagnuole (e una lunga dedica a Costanza Arconati), testimoniano la nuova stagione dell’attivià letteraria berchettiana, cui si accompagna un approfondi-
mento teorico. Lo scrittore introduce infatti le traduzioni con un ampio
125
scritto nel quale, non limitandosi a indicare le fonti e alcune notizie storiche sulla poesia popolare spagnola, si interroga sulla poesia popolare e sul suo lavoro. L'importanza della Prefazione è sottolineata dall’esistenza di due stesure (ora entrambe nell’edizione del 1941 del primo volume delle Opere). Proprio nella prima redazione troviamo una definizione di Berchet della traduzione, poi espunta nella edizione definitiva: «rifacimento piuttosto che traduzione io chiamo il lavoro mio» (I, p. 433), annota lo scrittore, riaffer-
mando il carattere originale e in qualche misura «autonomo» del traduttore. L’originalità e l'autonomia sono di carattere formale, e
per conservare l'omogeneità delle proprie scelte (ad esempio la struttura in quartine) Berchet non esita a unire versi di una romanza con versi di un’altra, «creando» un testo
‘nuovo (in questo senso ad esempio manipola le romanze di Bernardo dal Carpio e quella dei Setti infanti di Lara). Nella seconda redazione, tuttavia, lo scrittore preferisce va-
lorizzare la «fedeltà più reale che apparente» della sua traduzione, «più esatta che non [l"] ordinaria fedeltà materia-
le» (I, p. 116). Ma il «rifacimento» resta, e gli ispanisti hanno avuto modo di rilevare le ricorrenti «infedeltà testuali» (cfr. A. Gasparetti, G. Berchet, traduttore delle romanze spagnole, in Studi sul Berchet, pp. 155-70), cogliendo soprat-
tutto la scarsa sensibilità del poeta nel ridurre in rima la varietà delle assonanze, o l’errore di trasformare la ricchezza del ritmo dei rorzances nella monotonia dell’ottonario, o
di ricorrere a un lessico sia colto sia popolare, quando nell'originale non c’è questa oscillazione. Ponendosi l’obiettivo di far conoscere agli italiani la poesia popolare spagnola (scelta, come scrive nella Prefazione, «poiché tra le nazione dell'Europa più affini alla nostra nessuna quanto la spagnuola è celebre per le sue poesie popolari», I, p. 108), Berchet dichiara esplicitamente di aver adottato alcune soluzioni «anche nell’usare delle rime», per «imitare la trascuratezza popolare» (I, p. 117), e
di aver accolto alcuni errori «ad occhi aperti», «per correr dietro a qualche idiotismo, a qualche espressione che mi tentava come più evidente e più conforme alla natura dello 126
stile che dovevano assumere i versi» entrare nel merito «se il verso de’ canti già quel verso breve [...] in cui sono romanze conservateci dai raccoglitori»
(I, p. 117). Senza popolari f...] fosse composte tutte le o «il verso epico
lungo» (I, p. 110), di sedici sillabe (per cui, secondo alcuni,
il verso ottosillabico non è che un emistichio del verso più lungo, per questo rimato a due a due), Berchet opta decisamente per il verso breve, che rende con quartine di ottonari. Rime e metri nascono dunque da una scelta consapevole — a conferma del carattere meditato di tutti i testi berchettiani — come implicitamente si precisa nel successivo invito al lettore, perché applichi ai versi «una qualche cantilena», «com’'io
gli ho canticchiati,
scrivendoli»
(I, p. 117). Ma
consapevole è anche la scelta linguistica, nonostante il ricorso a un lessico discutibile (per cui c'è «squinato», «gli menò d’un mascellone», l’arcaico «pasquar»): in un appunto dedicato al metodo della traduzione (pubblicato, con altri tratti dalle carte di Gaesbeek, da R. Van Nuffel, in Documenti per la storia del Romanticismo italiano), Berchet aveva scrit-
to: «Ho dato luogo ad alcuni vocaboli, non però sì spesso, che parranno antiquati; ma e’ mi parevano confacenti al colorito d’una poesia antica e li credo tuttavia ringiovanibili nella nostra lingua». : Se non si tengono in dovuto conto le indicazioni di Berchet non si comprendono pienamente né la scelta strofica e metrica, né la rima rigidamente ricorrente al secondo e al quarto verso, né l'imponente ricorso a figure retoriche, utilizzate per rendere meglio il ritmo cadenzato e monotono della poesia popolare (la «cantilena» cui lo scrittore faceva riferimento), né infine la lingua di Berchet, che, senza avere la felicità di scrittura di altri scrittori ottocenteschi che rivendicano la possibilità di manipolare la lingua a loro piacimento, ne ha tuttavia consapevolezza. Ed ecco allora l'avvertenza: «mi sono ingegnato a tener dietro alla vergine voce del popolo» (I, p. 111). Contemporaneamenteal venir meno delle difficoltà e dell’isolamento
londinese, alla caduta di «necessità interiore» di una poesia
di intervento
(della quale, come 127
si vedrà, resta un solo
esempio nel 1831), all’affermazione di nuovi interessi di studio a contatto con i grandi studiosi — soprattutto tedeschi — della poesia popolare, Berchet accoglie pienamente la , lezione del Romanticismo europeo sulla spontaneità dei versi del popolo, e parla di una poesia «d’istinto». A_quest’altezza cronologica, la parola «popolo» non indica più il ceto produttivo e politicamente attivo di una nazione, e i testi popolari sono ormai definiti (con Herder, citato esplicitamente nel secondo capoverso della Prefazione) come «le inerudite emanazioni della poesia» (I, p. 107), che nascono «dovunque è principio d’una qualche civiltà, dovunque tra uomini è una qualche comunanza
di memorie, di costumi,
d’affetti» (ibid). La poesia popolare è dunque «quella che è direttamente prodotta e non soltanto gradita al popolo» (I, p. 111), e che, affidata alla tradizione orale, non è immobi-
lizzata in un testo definitivo. Nell’adesione alla lezione dei tedeschi sulla poesia popolare, Berchet non dimentica uno dei suoi tratti più originali: la destinazione
del suo
libro, che, a testimonianza
della
novità di atteggiamento dello scrittore, è ora indirizzato «là dov'è minore la potenza del pregiudizio e maggiore l’autorità del sentire, voglio dire tra giovani e tra persone del sesso gentile» (I, p. 108). Un’annotazione importante, quest’ulti-
ma, perché riconduce l’esperienza letteraria nello stesso ambito già individuato dal Berchet della Lettera semziseria (si
continuano ad escludere infatti gli «ottentotti»), ma ritagliando un pubblico particolare, che può, per la minore «potenza del pregiudizio» e la maggiore «autorità del sentire», accostarsi meglio alla poesia popolare (che infatti è capace «di muovere con efficacia diretta e baldanzosa gli animi non ancora svagati dietro i molteplici godimenti d'una civiltà più adulta», I, p. 107). In questo senso andrà dunque vista un’altra avvertenza, secondo la quale occorre leggere i romzazces «non come documenti idonei a rischiarare dottrine di storia letteraria, ma soltanto come poesie che hanno un merito per se stes-
se», destinate «a chi alla poesia domandi affetti e non altro» (I, p. 114).
A distanza di quasi dieci anni dalle Fantasie, anche il 128
dibattito vero/finzione si è consumato, e Berchet può con sicurezza invitare i lettori a «non confondere la tradizione colla storia positiva»: ancora una volta si afferma che la poesia (qui sotto la forma della tradizione poetica popolare) indaga nei «segreti dell'animo», traducendoli «in simboli visibili» (i5i4.). La poesia, dunque, tanto più quella popolare, non serve alla storia: «sarà meglio ravvisare l’espressione de’ sentimenti e della credenza pubblica, piuttosto che sempre la verità positiva» (I, p. 115).
Libero dunque da preoccupazioni ideologiche, nelle traduzioni delle Vecchie romanze spagnuole Berchet può rivelare alcuni momenti di felice poesia, mostrando a volte «un tale dono di fresca allegria scanzonata da far pensare a un ringiovanimento del poeta, stanco e provato dall’amaro, lunghissimo esilio» (Spinazzola, p. 984). AI di là delle possibili discussioni sulla fedeltà o meno delle traduzioni (ricordando per altro che, ancora nel 1944,
nella raccolta L’epica spagnola, Guerrieri Crocetti riportava alcuni testi nella versione berchettiana) occorre rilevare l’im-
portanza, anche per la poesia italiana, dell’ultimo volume dato alle stampe da Berchet. Un’importanza che va ricercata, oltre che nelle molte felici immagini, nella testimonianza
di una cosciente elaborazione di una scrittura dalla continua cadenza ritmica, raggiunta con ampio utilizzo di figure retoriche. Gli esempi si potrebbero moltiplicare, ma ne bastano alcuni a creare un nutrito catalogo di figure di ripetizione, di adjectio, di isocolo o di traductio. Fin dalla seconda quartina del Canto del marinaro, che apre il volume, si presenta l’epanalessi: «Col suo falco sovra il pugno, / fuori a caccia, fuor n’usciva: / venir vede una galera / presso presso, a pigliar riva» (vv. 5-8). In
Rosafiorita la bella ricorre l’allitterazione e il poliptoto: «In Castiglia v’è un castello / che si chiama Roccafredda: / il castello chiaman Rocca, / e la fonte chiaman Fredda» (vv. 1-4); più avanti la cadenza
è data da una serie di
allitterazioni incrociate e dalla figura etimologica: «Dimmi a lui, mio buon valletto, / ch’ei mi venga a visitar; / che per
pasqua in primavera / con me venga qui a pasquar» (vv. 37-40). Il poliptoto ricorre di frequente: «Ah, signora, a
129
noi ne spiace / quanto possa mai spiacer;» (L'infanta Clarina e il suo amante, vv. 59-60).
In una strofa del Sogno di donn’Alda torna magistralmente la traductio, sotto forma di figura etimologica: «Veston tutte ugual vestito;
/ calzan tutte ugual calzare;
/
seggon tutte a un’ugual mensa; / mangian tutte ugual mangiare» (vv. 5-8), ma si noti anche la ripetizione, nello stesso
luogo del verso, di «tutte-ugual». Ma le soluzioni avanzate da Berchet sono moltissime, anche solo sotto forma di ripetizione sillabica: «Nulla sai di Balvin Franco? / ne VORrei NoVELla aVER. /- Le noVELle, o mia signora, / VE Le dico VOLentier» (I/ falso annunzio della morte di Balduino Franco, vv. 5-8).
La figura forse più usata in assoluto nelle traduzioni berchettiane degli anni Trenta è l’anafora, che, già presente nelle Romzanze autografe, sembra essere considerata dal poeta la figura retorica per eccellenza della poesia popolare, permettendo una più facile cantilena. Ne ricorrono quasi a ogni strofa, con alcuni casi emblematici. Si veda questo intreccio di anafore dalla Prigionia di Don Guarino: «Se mi date il caval mio / ch'io solea già cavalcar; / se mi date l’armadura, / quella ch’io solea vestir; / se mi date la mia
lancia, / quella ch'io solea brandir» (vv. 110-115), o quest'altra lunga serie da L'infanta Clarina e il suo amante: «Il regal mio camerlingo / mi si faccia qui chiamar. / Date al conte mille marchi / con cui l’armi riscattar. / Date al conte mille marchi / con cui tenga la sua fé: / altrettanti gliene date / per vestir da capo a pié: / altrettanti gliene date / ch’ei si spassi al tavolier: / e altrettanti ch’egli armeggi / in tornei da cavalier: / e altrettanti ancor glien date / ch'ei compiaccia a’ suoi desir, / ch’ei si possa da galante / con le dame sbizzarrir» (vv. 13-28).
Non c'è dubbio che il risultato, esemplificato in questi ultimi casi con particolare evidenza, sia la sottrazione delle romanze al ritmo dell'originale spagnolo e lo spostamento dell’«accento dall’epos, dal dramma alla commedia e alla fiaba» (Spinazzola, p. 984). La cantilena diventa davvero la cgdenza della storia popolare, così come tramandato dalla tradizione fiabesca (lo stesso Carducci, del resto, introdurrà 130
l’anafora per raccontare la storia di nonna Lucia in Davanti a San Guido). In questo senso, con le scelte stilistiche delle Vecchie
romanze spagnuole Berchet non intende offrire un esempio di nuova poesia (come con le ballate di Biirger), ma sollecitare la lettura di una poesia «papolare», secondo la sua nuova riflessione di romantico «europeo» più che «italiano», una poesia che, per quanto ingenua e spontanea, ha
necessariamente proprie forme e proprie regole. Cercando di introdurre queste forme e queste regole nella poesia italiana dell'Ottocento, Berchet compie, come già in passato con gli altri suoi testi, un'operazione innovativa, e, per molti aspetti, sperimentale, la cui importanza va indicata, ancora una volta, al di là dei risultati effettivamente raggiunti. Non si può non riconoscere, d’altro canto, che, senza l’assil-
lo dell'ideologia risorgimentale, Berchet si muova con maggiore attenzione all’aspetto formale. Se più sicure sono le soluzioni cercate per suscitare «affetti» in lettori «ingenui», più felici — e addirittura allegre e scanzonate (caratteri estranei alla poesia precedente firmata da Berchet) — sono molte strofe. «Rosa fresca, rosa fresca, / tutta bella, tutta amor! / quando io v’ebbi in tra le braccia, / non sapea servirvi allor. / Or ch'io sì vi serviria, / non vi posso aver per mia» (vv. 1-6) recita il personaggio della breve «romanza» La discolpa, che, alle accuse della donna di essere già sposato «nelle terre di Leone» (e «[...] la moglie era vezzosa, / e i bambini giglio e rosa»), replica: «Chi vi die’ queste novelle, / veritier non ve le die’. / Mai, signora, né in Castiglia / né in Leon ho messo piè, / se non quando er'io fanciullo, / che d’amor non sapea un frullo» (vv. 15-22). Il volume delle Vecchie romanze spagnuole costituisce così un ulteriore passo avanti nella riflessione e nella produzione poetica berchettiana, e ne segna in qualche modo la conclusione.
XIII.
IL SILENZIO
POETICO
E L’IMPEGNO
POLITICO
L’ultima testimonianza della poesia «militante» di Berchet, della sua battaglia in versi, è l'ode All'armi! All'armi!, 131
del 1831, dettata dall’entusiasmo per i moti di Modena e di Bologna, che fanno nascere un’ennesima speranza nella possibilità di una rivoluzione italiana. Interpretando i sentimenti di molti patriotti, ma senza
prestare la dovuta attenzione alle ragioni formali della poesia, Berchet esalta la nuova occasione di lotta («Su Italia!
su, in armi! Venuto è il tuo dì! / dei re congiurati la tresca finì», suona il ritornello), e la nuova bandiera tricolore («il verde, la speme tant’anni pasciuta; / il rosso, la gioia d’averla compiuta; / il bianco, la fede fraterna d’amor», vv.
12-14), proponendo ancora delle immagini destinate a entrare nel patrimonio poetico collettivo del Risorgimento. Dopo il silenzio dovuto all'impegno di traduttore delle Vecchie romanze spagnuole, Berchet scrive pochi altri componimenti, tra la metà degli anni Trenta e i primi Quaranta: il rifacimento di un canto popolare (L’amzore illecito, pubblicato da Li Gotti), un’E/egia rabbiosa, del 1837, alcu-
ne strofette sul freddo che patisce a Edimburgo (affidate a una lettera a Costanza, del 22 febbraio 1838), i versi liberi A Giuseppe Gando (1842). In tutti è assente l’invettiva politica. Le quindici strofe dell’Amzore illecito introducono l’amore di un fratello e di una sorella, attraverso il dialogo (una
strofa lei una strofa lui, a parte la prima, introduttiva, e l’ultima, conclusiva) condotto
con
le «mille moine,
mille
dolci inviti» indicati nel primo verso. Se qualche interesse rivelano, è la presenza, ancora una volta, della contaminazio-
ne di lingua antica e lingua moderna, che sembrano contrapporsi anche strofa contro strofa, nelle parole della donna e nella risposta dell’uomo: «— E se tu fossi il cavalier più bello / che ad un bel desco possa mai sedere, / vorrei proprio esser d’or tutta un vasello / che ti stesse dinanzi per bicchiere. / [...]
/— Oh! gli è un gran guaio l’essere bicchie-
re, / e star sul desco innanzi a un cavaliere: / vengon tante briache teste pazze; / e sfracassano al suol bicchieri e tazze»
(vv. 7-16). Dettata dall’isolamento (Berchet è a Heidelberg, solo, al seguito di Carlo Arconati) e da un momento di cupezza è l’Elegia rabbiosa. In strofe saffiche (rimate 4548), lo scritto-
:
132
re, forse per la prima volta, parla in prima persona per descrivere un proprio stato d’animo («Dunque non verran
mai l’ore giulive, / l’ore de’ sogni miei, delle mie brame, / quando non vedrò più queste tue rive, / Neckero infame?», vv. 1-4), ma la novità è più di contenuto che di forma. Il ricorrere dell’invettiva, nell’opera di Berchet, sembra confermare che la sua poesia nasce, il più delle volte, sotto un
forte sentimento di rivolta. Nell’E/egia rabbiosa l’invettiva è
tutta privata e si rivolge contro una città non amata, ma la
scrittura con la quale si esprime non è nuova: «Valle della sciagura! Esoso fiume! / Aer ch’ogni salute uccidi in petto! / Sol miserabil che non hai più lume, / sii maledetto!» (vv. 5-8). E tuttavia, anche in questo componimento, si può individuare un punto di grande interesse etico e poetico: «Io cerco gioia d’uomini», scrive Berchet, con un'immagine felice subito abbandonata per una scrittura cupa e banale; «e, covile / d’orsi in sembianza d’uom, tu non la dai» (vv. 25-26). Poco oltre si conferma la novità di una poesia ormai pienamente lirica («Cerco tregua alle angustie», v. 27),
ma anche la persistenza di una scrittura indebolita dal senso di rivolta che conduce direttamente all’oratoria retorica: «Deh, chi mi togli a te, valle abborrita?»
(v. 29).
Se i versi inseriti nella lettera all’Arconati sono da considerarsi uno scherzo poetico («Ma chére amie, / ma chère amie, / se il gel non cessa, io crepo qui», suona la prima strofa), quelli A Giuseppe Gando (datati «Saint-Germainen-Laye, 18 luglio 1842») sono invece la testimonianza di una diversa condizione spirituale e poetica. Gli accenti d’amore patriottico sono ora ricondotti a una scrittura meditata e distesa, dalla quale sono scomparse sia l’invettiva sia la concitazione ritmica degli ottonari o dei decasillabi. In versi sciolti Berchet invita «l’itala gioventù» a confidare nel futuro; il tramite è l’amico che torna in Italia: «dille per nome mio che cuor non perda; / dille che la sventura / quaggiù immortal non dura» (vv. 6-8). Non c'è rabbia e non c’è rassegnazione, nelle parole del poeta, ma la consapevolezza — che sembra attingere alla profondità della speranza cristiana (in quell’anno, per altro, a Parigi, Berchet partecipa ad ampi dibattiti sul cattolicesimo) — della forza di un 133
superiore «spirto» che «va, travolge e prostra / qual più salda par cosa / ai re superbi o all’ignoranza nostra» (vv. 10-12). In questo «spirto» la gioventù italiana deve dunque aver fiducia (perché «I dì ch’ella desia verranno», v.
20), senza rinunciare a un ideale di fratellanza, forse a questo punto più cristiana che patriottica: «Nella concordia de’ voler sagaci, / nel dir ‘fratei siam tutti’, / vegga ella il termin de’ suoi lunghi lutti» (vv. 23-25). È questo l’ultimo componimento noto sicuramente di Berchet (per altri si hanno false attribuzioni o notizie generiche). Secondo una testimonianza di Massari (in Li Gotti, pp. 473-74) il poeta — negli anni Quaranta — ricusava l’invito a scriver versi affermando di non voler «fare come Monti che aveva la Musa pronta a cantar di tutti e di tutto», aggiungendo, dopo essersi definito «il poeta del dolore,
dell’ira e della fede»: «Oggi voglio servire la mia patria diversamente». Al silenzio del poeta corrisponde la fortuna politica della sua poesia, tanto che, ancora nei primi anni Quaranta, le sue romanze sono cantate nelle strade, come scrive Margherita Collegno alla sorella Costanza Arconati, in una lettera del 26 ottobre 1841: «a Firenze si sentiva cantare in strada le sue Romanze alle quali hanno adattato delle belle cantilene»
(in Malvezzi, p. 140).
La stagione della creazione poetica era per Berchet, comunque, davvero finita, e lo confermano sia la risposta negativa, del 3 aprile 1848, alla domanda di Gabrio Casati
di scrivere qualcosa per commemorare i morti delle cinque giornate di marzo («La mia salute mi ha distolto da un pezzo dal far versi; e per di più sono travagliato adesso da tante commozioni che non so più come potrei trovare la pacatezza di pensare a cosa degna di tanta solennità», in Sioli Legnani, Il ‘Saluto a Milano il 6 aprile 1848’ non è del Berchet, in Studi sul Berchet, p. 422), sia le smentite del poeta ai versi patriottici che gli vengono attribuiti (il giornale milanese «Pio IX», dopo aver pubblicato, il 7 aprile 1848, un Invito all’Italia, con la firma di Berchet, deve il 20 attribuirne la paternità al «cittadino Vallotti di Alzano nel Bergamasco», cfr. Opere, I, p. 444). Le motivazioni addotte nella risposta a Casati sono de134
boli: è più plausibile pensare alla crisi di un modello di poesia cui Berchet non si dedicava più da oltre quindici anni, da quando, uscendo dall’isolamento londinese e accet-
tando di vivere in casa Arconati, il poeta si inserisce in un
ambiente culturale, spirituale, letterario rassicurante e aper-
to alle esperienze europee. Se il castello di Gaesbeek offre il quotidiano confronto con molti amici qui convenuti (dall’Arrivabene allo Scalvini a Fauriel), i frequenti viaggi permettono a Berchet di assistere agli sviluppi della cultura europea degli anni Trenta e Quaranta, dai quali trae ampie sollecitazioni per una nuova riflessione politica e letteraria e di partecipazione alla società intellettuale dell’epoca. E così, emblematicamente,
nel
viaggio a Berlino a cavallo tra la fine del 1833 e il marzo del 1834 (interrotto perché il governo tedesco, in buoni rapporti con l’Austria, invita Peppino Arconati e il poeta a lasciare il paese), Berchet ride di un allievo di Schelling che gli racconta in segreto che il suo maestro «stava creando Dio», assiste (senza molta disponibilità) a concerti con musiche beethoveniane, ed è perseguitato, secondo una
lettera dell’Arconati del 2 gennaio 1834, da Bettina von Arnim Brentano («celebre per il suo talento, autore o che
so io, bas-bley più che qualunque altra cosa», cit. da Li
Gotti, p. 369).
L’inquietudine dello scrittore (costretto a lunghe cure, soprattutto termali, per una malattia ricorrente agli occhi), non viene mai del tutto meno, ma l’«errare senza meta» (così Li Gotti, p. 392) per seguire la marchesa o il giovane
Carlo Arconati, permette esperienze ad altri precluse. In un lungo soggiorno a Edimburgo (dove si reca con Carlo nell'autunno del 1837), fa la conoscenza del filologo Pillans, del filosofo Hamiltonn, di lord Jeffrey, fondatore della «Edinburgh Review», che alleviano le difficoltà psicologiche nate dalla lontananza dagli amici di Gaesbeek. E vanno poi ricordati gli incontri — per lo più a Parigi— con gli esuli italiani: da Tommaseo a Gioberti al vecchio compagno di militanza romantica Pietro Borsieri, che, prima della sua liberazione, aveva scritto dall'America: «Mio caro e ottimo Berchet! A dispetto dell’afflizione che inonda 135
[...] l’anima mia, la tua gioia della mia liberazione, la possibilità di corrispondere con te, e la speranza di riabbracciarti quando che sia, le aggiungono molto più pregio anche ai miei occhi» (in Malvezzi, p. 118).
È nel continuo confronto con un più vasto contesto europeo che Berchet si interroga sulla sua posizione politica. Durante la rivoluzione di luglio del 1830 corre a Parigi, accogliendo l’idea repubblicana; più tardi aderisce, con tutta probabilità, ai «Veri italiani» di Buonarroti (che raccoglie, dopo il 1831, Giuseppe Pepe,
St. Marsan);
non
Arconati,
esita ad andare
Gioberti, Ugoni, a Ginevra,
nel
1831, per essere più vicino alle città italiane dove i patrioti sono in azione, pronto a intervenire; guarda con scetticismo
(ma ton un fondo di speranza) le promesse amnistie. Le delusioni per i fallimenti dei vari tentativi rivoluzionari, da un lato, le riflessioni sulle vicende europee, dall’altro (nelle
lettere all’Arconati ricorrono continui riferimenti alla politica internazionale: dal Portogallo alla Spagna, dal Canada alla Polonia, con un’attenzione particolare quando è in gioco l’indipendenza), fanno crescere in Berchet una concezio-
ne politica: moderata, che lo porterà ad abbracciare — in nome del «buon senso» — l’azione dei moderati piemontesi. Pur sostenendo la necessità di un collegamento tra la rivolta italiana e quella europea, lo scrittore auspica una prassi politica eminentemente realistica, che tenendo conto delle difficoltà esistenti si muova, con brevi passi, verso l’unità. Proprio riflettendo sulle vicende internazionali scrive a Costanza, il 31 agosto 1833, da Wiesbaden, una lunga
lettera che è opportuno rileggere, perché costituisce, forse, la prima testimonianza della svolta politica di Berchet: Ella è tuttavia in orgasmo per le cose di laggiù; ed io lo sono altrettanto, quantunque
con aspettative più tristi. Più ci
penso, e più mi confermo in quello che già le scrissi. Un movimento adesso non può che riuscir male, e la mala riuscita ci mette in una condizione ben più sciagurata che non è quella in cui noi siamo di presente. E noi, e i Tedeschi saremo liberi, qughdo un mutamento qualunque in meglio avvenga in Francia. Senza di ciò, non v'è che schiacciamento e per noi e pe’ Tedeschi. Un poco di pazienza ancora, e migliore opportunità non
136
mancherà di certo alle due nazioni; ed io n'ho fede vivissima. Trovo savio assai il partito de’ liberali qui di disputare all’ultizzo ostinatamente il passo, tanto da guadagnar tempo, e renderlo più generalmente odioso, e spingerlo anche ad atti che lo rendano ancor più insopportabile. Così si preparano a quella migliore opportunità ch’essi veggono, com'io, immancabile nel futuro. E per noi pure non c'è da fare altro per ora che prepararci con tutte le forze a questo futuro; ma intanto non far passi disperati. Sola, abbandonata a se medesima, la guerriera Polonia ha dovuto soccombere; sola abbandonata a se medesima che può fare la
non guerriera nostra Patria? Soccombere alle bajonette austriache, non
frenate
da nessuna
minaccia
esterna;
e soccombere
senza pure la gloria d'una gran battaglia. Aspettiamo per Dio! L’occasione che non fallirà: ma non buttiamoci così all'impazzata sotto la manaja (sic) del carnefice. Queste cose io le scrivo confidenzialmente a lei; ma sieno con lei; non richiesto, non le
direi laggiù a nessuno. Richiesto, le direi schiettamente per non tradire la coscienza mia (Lettere, II, p. 15).
Nella stessa lettera si definiscono i moti «congiurette», che hanno come risultato di «compromettere più persone, e far più esosi i governi presso la moltitudine», e, deluso, dal dover criticare questi tentativi di indipendenza, aggiunge (e non si può non leggervi una certa amarezza): «Quantunque il fine sia giusto, non tutte le vie di giungerci mi possono parere buone e giustificabili. Ella vede che meschino patriota sia io; e come ai tempi io non convenga più. Parliamo dunque d’altro» (Lettere, II, p. 16). Il punto di svolta — e il punto di arrivo della concezione politica di Berchet — è dunque la creazione di un forte Stato piemontese, comprendente la stessa Lombardia, dal quale far partire l’unità italiana, secondo una riflessione vicina a quella di Cesare Balbo. Lo scrittore si impegna a diffondere la sua concezione soprattutto quando, insperabilmente accolta la sua domanda di poter entrare in Piemonte, il 15 no-
vembre 1846 torna in Italia. Più volte osannato quando la folla lo riconosce (ne dà
lui stesso alcune testimonianze da Genova), Berchet parteci-
pa ora intensamente alla vita politica, trovandosi al centro di polemiche (è osteggiato dai mazziniani che lo definiscono «traditore») e di possibili alleanze, come rivelano alcune 137
lettere della primavera e dell’estate del 1848 ad Antonio Panizzi, che, esule a Londra dagli anni Venti, era influente sui patrioti italiani: Se ti riesce dunque di usare costà della tua influenza, usala tutta, e sempre caldamente
a favore nostro, il che vuol dire a
favore dell’unica soluzione possibile e ragionevole. L’urità assoluta dell’Italia verrà col tempo; ché in politica come in natura nulla si fa di un tratto, d’un solo balzo. Intanto qui, nella vallata del Po, da Alpi ad Alpi, noi vogliamo uno Stato (e dì pure un Regno) costituzionale, forte, compatto, di un dodici milioni a/meno di abitanti, il quale ci salvi adesso e in futuro da qualunque irruzione straniera, sia ch’ella venga da Germania, sia ch’ella venga da Francia. A questo siamo determinati la immensa maggiorità che siamo, e a malgrado del partito repubblicano che qui in Milano si agita (dico qui in Milano, perché nelle altre città è partito minimo, impercettibile quasi), ho fede in Dio che riusciremo
(in Panizzi, pp. 154-55).
Berchet attacca Mazzini, Manin, Tommaseo, tutti quelli
che si oppongono ad un'unione con Carlo Alberto, perseguendo un più alto obiettivo di unità italiana. Per l’unione con il Piemonte, Berchet si batte quando, a partire dall’8 aprile 1848, è nominato membro della Commissione incaricata dal Governo provvisorio centrale di Lombardia di preparare un progetto per la convocazione delle Assemblee primarie (tra gli altri vi facevano parte Alessandro Porro e Carlo Cattaneo). Secondo una testimonianza di Massari (in
Li Gotti, p. 475), il 10 aprile, rispondendo alla folla che lo acclamava, invita ad essere «eroi di prudenza»; e pochi giorni dopo accetta di far parte del governo, occupandosi della Pubblica Istruzione. Ancora di quei giorni sono alcuni articoli e discorsi che confermano sia l'attivo impegno dello scrittore sia la sua posizione politica. Il 27 marzo, sotto le logge degli Uffizi, esaltando l’indipendenza, Berchet invita i Toscani a correre «in armi a dare aiuto all’esercito di Carlo Alberto, perché spazzi affatto gli austriaci fuori delle terre nostre», affermando «Guerra, guerra agli austriaci, è il solo pensiero, il solo bisogno del momento» (II, pp. 227-28). Nello stesso 138
discorso c'è un chiaro riferimento politico: «Là nella gran valle del Po, è d’uopo che si componga un grande Stato, saldo e compatto, il quale serve d’antemurale a qualunque invasione straniera, da qualunque parte essa venga» (II, p. 228). Il 15 aprile, in un articolo, sollecita alle armi i milanesi: «Non occorre illuderci. L'Austria tenta con ogni sforzo di ricuperare o in tutto o in parte il perduto in Italia», per cui
«l’attuale necessità predominante della nostra rivoluzione è la guerra [...] E guerra sia, poiché da essa dobbiamo avere
la vita della Nazione, la Indipendenza. Ma alla guerra soltanto finch’ella dura, deve essere rivolto il nostro pensiero [...]}. Guerra,
guerra,
guerra;
altro che di guerra non
si
pensi, non si parli per ora» (l’articolo è ristampato da Li Gotti, pp. 544-45). La visione di Berchet è dunque ormai improntata al solo realismo politico, e, in nome di una prima conquista: l'indipendenza del Nord da raggiungere con la fusione di Lombardia
e Piemonte
(cfr. II, p. 229-31),
non
esita a
sacrificare le speranze di un tempo, accantonate ma non rinnegate: «Ma periscano tutte le private simpatie, perisca-
no tutt’i rancori privati in faccia alla salute della patria. Tanto più splendida sarà la nostra libertà, se avvalorata da sagrifici individuali» (ivi, p. 231). E nella ricordata lettera a
Panizzi: «Dunque è Carlo Alberto che noi vogliamo a Re dell’Italia superiore; e se son io che predico per questo, tu che sai quello che io mi sia, puoi ben credere che la necessità imperiosa e l’amor disinteressato della mia patria me lo consigliano e non altro» (Panizzi, p. 155).
Berchet non dimentica di aver definito «esecrato» il nome Carignano, ma non esita a contraddirsi, ora, per un più alto senso morale: «L’unico sagrificio che non è lecito mai di fare è quello di tacere la verità, quando il dirla può in qualche modo cooperare al pubblico bene» (II, p. 231). Nonostante gli appelli e gli sforzi del Governo milanese (a Palazzo Marino, il 27 e 28 luglio, si riuniscono Garibaldi, Mazzini, Cattaneo, De Boni, lo stesso Berchet) la situazione precipita — in primo luogo quella militare — e il 2 agosto 1848, con il ritorno degli Austriaci, Berchet è costretto, ancora una volta, alla fuga da Milano. 139
Di nuovo in esilio, lo scrittore ha questa volta davanti a sé un rifugio italiano: Torino. Eletto al parlamento a sua insaputa dal collegio di Monticelli d’Ogina, Berchet continua ad affermare la necessità di essere realisti. Deriva da qui la sua adesione al governo di Gioberti, ma anche la condanna dei radicali e la qualifica di codino: Berchet è comunque un uomo politico isolato, quasi ormai solo un simbolo per quello che i suoi versi hanno rappresentato, tanto più che nuove figure dominano la scena, anche nel campo dei moderati, e emergono politici brillanti. come il conte di Cavour.
Sciolto il parlamento, lasciata Torino per la Toscana, Berchet, pur continuando ad assistere con passione alle vicende politiche, sembra trovare un conforto quasi solo nelle vecchie amicizie. Cerca per questo una casa sul Lago Mag-
giore, e scrive così, 18 giugno 1850, a Manzoni: «La casa la credo trovata; un po’ lontanetto da voi, ma col vapore la distanza è ridotta a non intere due ore, sicché le visite potranno
essere
spesse»
(in-A.
Manzoni,
94 lettere e 17
postille, Hoepli, Milano 1923, p. 94). Con gli amici vicini, e in particolare con accanto Costanza Arconati, Berchet muore nel giorno del suo sessantottesimo compleanno, il 23 dicembre 1851, sfinito da una grave malattia, ma fino all'ultimo consapevole della necessità di affidarsi alla forza morale, quella che lo aveva sostenuto negli anni più difficili dell’esilio e nelle prove burrascose degli anni più recenti, quella che aveva cercato di affermare in tutta la sua opera.
CRONOLOGIA
1783
Giovanni
DELLA
VITA E DELLE
OPERE
Berchet nasce il 23 dicembre, a Milano, in via
Cerva 42, primogenito di Federico (che ha un negozio di tessuti) e di Caterina Silvestri. La famiglia era originaria di Nantua, nei pressi di Ginevra. 1790-1806 Dopo un lento sviluppo intellettuale, è avviato agli studi da un sacerdote amico di famiglia, don Premoli, cui succede Pietro Mazzucchelli, cultore di letterature classiche e custode della Biblioteca Ambrosiana (della quale diverrà prefetto). Dopo i primi studi privati, con i quali entra già in contatto con i testi classici, frequenta le scuole Arcimbolde, dirette dai Barnabiti. Prima ancora della conclusione del corso di studi, il padre, per sopperire alle necessità di una famiglia ormai numerosa, lo inserisce nella sua attività commerciale, ma lo spinge alla conoscenza delle lingue straniere moderne: inglese, francese, tedesco. L’interesse del giovane Giovanni per la letteratura è già manifesto: scrive un Inno per le nozze Rovida-Forni (edito da Destefanis), e si lega di
1807
1808 1809
amicizia con alcuni giovani letterati, tra i quali Giuseppe Bossi (famoso soprattutto come pittore) e Felice Bellotti. Con Giuseppe Taverna scrive le Ottave 4 rime obbligate. Di questi anni è anche un’ode All'ulcera, che non è mai stata pubblicata interamente, perché giudicata troppo volgare dagli editori delle opere berchettiane. Pubblica la traduzione del Bardo di Thomas Gray, sulla quale interviene Foscolo, con una recensione apparsa sul «Giornale della Società di Incoraggiamento», nel numero del primo trimestre 1808. Dà alle stampe la satira I funerali, per i tipi di Cairo e compagno di Milano. Dì alle stampe una seconda satira, Arzore (sempre per Cairo e compagno). Allarga la cerchia degli amici, frequentando Foscolo e Porta.
141
1810
Esce
la
sua
traduzione
di
I/ vicario
di
Wakefield,
di O. Goldsmith, per la collezione di romanzi moderni di Destefanis. Probabilmente altre traduzioni non firmate sono da attribuire a Berchet (in particolare I/ visionario, di Schiller). Abbandona l’attività commerciale paterna e trova
un impiego nell’amministrazione del Regno Italico: con un decreto del 10 agosto è nominato secondo commesso presso la Cancelleria del Senato. 1811 1813
1814
È in viaggio, a Firenze e a Roma. Ormai inserito nel mondo culturale milanese, interviene nei
dibattiti sul melodramma di Rossini Derzetrio e Polibio (rappresentato al Teatro Carcano di Milano il 6 luglio), con una lettera musicale pubblicata dallo stampatore-editore milanese Pirotta. . Con la fine del Regno Italico Berchet perde il posto di commesso, e inoltra, il 24 giugno, un'istanza nella quale, affermando di aver ripreso nell’ozio la sua «particolare predilezione alla coltura delle belle lettere» (cfr. cartella Berchet, Archivio di Stato di Milano, cit. da Li Gotti, p. 39),
chiede un’occupazione «affidandosi nella giustizia somma e nella liberalità del Sovrano». Dopo le indagini della polizia (che sottolineano la versalità «nelle belle lettere», la «buona condotta morale», l’«onesto carattere» ma anche, registran-
do il giudizio di alcuni, «una alterigia e supposizione scientifica oltre il vero merito»), Berchet, nel settembre, è chia-
1815 1816
mato con mansioni di traduttore dal tedesco. In una lettera del 21 maggio traduce dall’inglese alcuni versi di un Diz/ogo tra la moglie morta e il marito superstite. Sul numero di novembre dello «Spettatore» escono alcuni Frammenti di un poemetto sul lago di Como. Si accosta agli scritti dei romantici stranieri. Per onorare la memoria dell'amico Giuseppe Bossi, scomparso alla fine del 1815, pubblica l’epistola A Felice Bellot ti, per i tipi di Anton Fortunato Stella di Milano. Scrive anche I Visconti, che resterà inedito. Alla fine dell’anno dà
alle stampe Sul «Cacciatore feroce» e sulla «Eleonora» di Goffredo Augusto Biirger. Lettera semiseria di Grisostomo al suo figliuolo, pubblicata da Bernardoni di Milano. Nel frattempo è passato a tradurre per la Delegazione provinciale. Incomincia la frequentazione dei giovani romantici Di Bre- me, Borsieri, Pellico, ma soprattutto Manzoni e gli amici di via del Morone: Visconti, Torti, De Cristoforis. Continua
per altro l'amicizia con Porta, che lo ricorda in una sua poesia.
142
1817
1818
Tiene il 10 novembre l’allocuzione per i funerali del pittore Andrea Appiani (pubblicata dallo stampatore Ferrario di Milano). Partecipa alla nascita del «Conciliatore» (3 settembre), cui
collabora intensamente fino alla sua soppressione (17 ottobre 1819). Di quest'anno sono gli articoli: Del criterio de’ discorsi (13 settembre), Scortesie maschili al Teatro della Scala (17 settembre), Sulla «Storia della poesia e dell’eloquenza» del Bouterweck (1 e 15 ottobre, 12 novembre),
Intorno al significato del vocabolo «estetica» (4 ottobre), Di un libro sulla romanticomachia (29 ottobre), Guerre letterarie in Italia (5 novembre), Lettera di Grisostomo al molto
reverendo signor canonico don Ruffino (29 novembre), Intorno alle «Origini delle lettere» del Roscoe
1819
(24 dicembre),
Articolo sopra un articolo (27 dicembre). In quest'anno incomincia a scrivere I/ cavaliere bruno e Il castello di Monforte, senza per altro portarli a termine. Continua la collaborazione al «Conciliatore», prima della sua chiusura, con gli articoli: Idee del signor Sismondi sul poema di Dante (7 gennaio), Intorno a un poemetto di C. Tedaldi-Fores (7 febbraio), Lettera a una signora milanese gentile sì, nobile no (11 febbraio), Sulla «Sacontala» ossia «L'anello fatale», dramma indiano di Calidasa (4 e 11 mar-
zo), Sulla «Storia della letteratura italiana» del Ginguené (1 aprile), Benedetto Castelli (29 aprile), Intorno alla «Servità
1820
1821
dei popoli antichi e moderni» del Grégoire (13 maggio), Sopra un manoscritto inedito degli autori del foglio periodico «Il Caffè» (15 luglio), Sulla «Filosofia delle scienze» del Jullien (18 luglio), Quadro storico della poesia castigliana (12 agosto e 23 settembre). Sotto la forte emozione suscitata in tutta Europa dalla scelta dell’esilio di tutti gli abitanti di Parga, incomincia la stesura de I profughi di Parga. .. Nell'autunno aderisce ai carbonari «federati», con i quali sono già impegnati molti amici del «Conciliatore», da Confalonieri a Pellico (presto arrestato, il 13 ottobre). È attaccato in numerosi libelli polemici e satirici dei classicisti. È ancora impegnato nell’attività di traduttore dal tedesco, soprattutto per testi scolastici. I titoli sui quali interviene tra il 1818 e il 1821 sono Elementi di storia degli Stati d'Europa, Codice ginnasiale, Discipline per gli esami delle scuole elementari, Elementi di storia moderna ad uso delle scuole. Si conoscono anche due relazioni al governo austriaco: sugli Elementi di storia degli Stati d'Europa (1819); sulla traduzione di un Libretto di nomi e sulla possibilità di utilizzare
143
1822
questo testo nelle «scuole di Lombardia». Il 13 dicembre, informato che la polizia sta per arrestarlo, fugge da Milano e si rifugia in Svizzera. Da qui si trasferisce a Parigi (28 dicembre), dove già vivono molti esuli italiani, con i quali entra subito in contatto. Conosce Giuseppe Arconati e sua moglie Costanza Trotti, cui si lega di profondo affetto. Per sfuggire alla richiesta di estradizione avanzata nei suoi confronti dal governo austriaco, lascia Parigi e si trasferisce a Londra, non senza esser passato a trovare gli Arconati,
che nel frattempo si sono trasferiti nel loro castello di Gaesbeek, vicino a Bruxelles. A Londra (dove arriva il 4 maggio) cerca inutilmente un’occupazione nel mondo del giornalismo, accettando poi, nel novembre, di impiegarsi, come contabile e scrivano, nella società commerciale del milanese
Ambrogio Obicini. Pubblica in foglio volante la romanza Clarina. Risale a questo periodo l’articolo Filicaia, a lungo ritenuto di Foscolo, unico scritto individuato di altri che con tutta probabilità ha pubblicato in Inghilterra. Rinuncia all'offerta di diventare professore all'Istituto Fellenberg di Hofwil, in Svizzera.
1823
1824
Escono a Parigi, per i.tipi di Firmin Didot, I profughi di Parga, accompagnati dalla traduzione di Claude Fauriel, cui Berchet era stato segnalato da Manzoni fin dai tempi della Lettera semiseria. Scrive la romanza I/ romito del Cenisio e, ‘ alla fine dell’anno o ai primi di quello seguente, I/ rirzorso. Vive in quasi totale isolamento, passando le poche ore libere in un club. Della fine dell’anno o dei primi del 1825 è Matilde e forse Il trovatore
1825
1826
(che potrebbe tuttavia essere stato scritto l’anno successivo). Compie un viaggio a Bruxelles, dagli Arconati, ai quali lo lega sempre un grande affetto, ma qui il suo amore per Costanza conosce una cocente delusione. Nello stesso anno gioca in Borsa, e, perso parecchio denaro, è costretto a
ricorrere alla benevolenza degli Arconati per soddisfare un debito contratto con Obicini. Alle difficoltà economiche si affianca un precario stato di salute, con numerosi disturbi. Cura personalmente la raccolta delle sue romanze. A una prima edizione, che esce con il titolo Poesie e la data 1824, ne segue una seconda, da Taylor, che porta la data agosto
1827
1826 per l’ultima romanza, Giulia. Per il suo modesto status sociale gli è impedito l’accesso al dn che frequentava da anni. Crescono l'amarezza e i disturi fisici.
144
1828
Partecipa all’elaborazione di un piano della contessa Teresa Confalonieri per l'evasione dallo Spielberg del marito Fede-
1829
Esce a Parigi il volume delle Fantasie (per Delaforest), cui segue una seconda edizione londinese (da Taylor). L'editore Bettoni ristampa la traduzione del Vicario di Wakefield. Il 13 luglio lascia Londra per raggiungere gli Arconati a Gaesbeek, accettando l’incarico di precettore del loro figlio Car-
rico; l’intento fallirà.
lo. Nell'autunno si ristabilisce nel fisico e nello spirito, e può ripartire, in dicembre, con Carlo, per la Germania.
1830
1831
Segue a Bonn corsi universitari e frequenta G.B. Niebuhr, A.W. Schlegel, N. Naumann. Studia la poesia popolare tedesca (i Nibelungenlieder) ed è incoraggiato a continuare la traduzione delle Vecchie romanze spagnuole. Tornato a Gaesbeek (nell’aprile) riparte per Parigi, per seguire da vicino gli sviluppi della «rivoluzione» francese. Passa a Ginevra, pronto a intervenire nei moti italiani: scrive per l’occasione Allarmi! All'armi!, diffusa dall’«Antologia repubblicana» nel marzo 1831. Il fallimento dei moti è motivo di una nuova delusione.
1832-1834 Continua a percorrere l'Europa con gli Arconati e si reca più volte alle terme di Baden per curare una ricorrente malattia agli occhi. Tra la fine del 1833 e il 1834 è con Peppino e Costanza a Berlino. Frequenta la società intellettuale tedesca, dalla quale riceve ampie testimonianze di solidarietà quando, alla fine di marzo, è costretto dalla polizia a lasciare il Paese. Lavora con assiduità alla traduzione delle romanze spagnole 1835
e studia l’antica poesia danese. 1836 1837
Si reca ancora a Parigi e a Bonn. Esce a Bruxelles (Hauman, Cattoir e Compagni) il volume delle Vecchie romanze spagnuole, con dedica a Costanza Arconati. Berchet continua a seguire Carlo Arconati, tra Hei-
delberg (dove nell’estate scrive i versi di Elegia rabbiosa), Diisseldorf, Hannover, Gottinga, e infine Londra ed Edim-
1838
1839
burgo. Qui si stabiliscono per alcuni mesi, intrattenendo nuove amicizie con gli uomini di cultura della città. Da Edimburgo invia alcuni versi scherzosi alla marchesa Arconati, lamentando il freddo. Tornato a Gaesbeek si interroga sulla possibilità di godere dell’amnistia concessa agli esuli dall'Austria, decidendo di non piegarsi a quella che potrebbe essere una trappola. Muore dopo brevissima malattia Carlo Arconati, del quale per dieci anni era stato il precettore.
145
1840
Gli Arconati (cui nel frattempo è nato un secondo figlio) si
1841 1842
trasferiscono a Milano, usufruendo di una amnistia. Berchet si reca a Parigi, e continuerà a percorrere da esule l'Europa per altri cinque anni. Frequenta a Parigi alcuni corsi universitari. Da Saint-Germain-en-Laye, il 18 luglio, indirizza alcuni versi a Giuseppe Gando, che sta rientrando in patria, perché incoraggi la gioventù italiana. Chiede al Piemonte un permesso di soggiorno. Ottenutolo,
1845
ritorna in Italia il 15 novembre,
fermandosi a Nizza per passare l’inverno. 1846-1847 Passa a Genova, dove è accolto con ovazioni, poi a Firenze, dove ritrova gli Arconati. Dopo le 5 giornate di insurrezione (18-23 marzo) torna a 1848 Milano, impegnandosi intensamente nella vita politica, e, con discorsi e articoli, si schiera con i sostenitori dell’annessione della Lombardia al Piemonte. Per questo è osteggiato dai radicali e dai mazziniani. In aprile entra nel governo provvisorio, con l’incarico di occuparsi della pubblica istruzione. Alla fine di luglio partecipa con altri patrioti, tra i quali Mazzini, Garibaldi, Cattaneo, a una riunione dedicata alla delicata situazione politico-militare. Dopo la sconfitta e il ritorno degli austriaci si rifugia a Torino. È eletto, a sua insaputa, il 10 ottobre, deputato al parlamento, nel collegio di Monticelli d’Ongina, e si schiera con i moderati. Sciolta ben presto la Camera (30 dicembre), si trasferisce a Firenze. 1849 È di nuovo nominato deputato (20 marzo), ma il parlamento è subito sciolto, prima ancora che Berchet faccia a tempo a rientrare dalla Toscana per le prime sedute. 1850 Per cercare un rimedio ai mali fisici, passa lunghi periodi a Pallanza, a Nizza, a Wichy, a Baveno. 1851 Il 23 dicembre muore a Torino: subito celebrato da Giovanni Prati con la canzone In morte di G. Berchet.
IL DIBATTITO
CRITICO
Il giorno dopo la morte di Giovanni Berchet, Giovanni Prati ne celebra la memoria in un’ode, introdotta da un’apostrofe, nella quale ‘poesia e sentimento patrio sono inscindibilmente intrecciati: «E voi, Italiani, rileggete oggi più che mai i canti di Giovanni Berchet; e ritemprandovi nell’ira legittima contro ogni domestica e forastiera oppressione, rifatevi degni degli antichi padri che furono i sacerdoti, i poeti e i guerrieri di Dio e della patria [...]». È la consacrazione del successo della poesia di Berchet nel corso del Risorgimento, e dell’invito affidato dal poeta all’emblema delle sue prime edizioni: una lucerna nella quale viene versato olio, accompagnato dal motto alere flammam. Pochi anni prima Enrico Montazio, sulla «Frusta repubblicana» del 4 febbraio 1849, aveva annotato che le poesie di Giusti «giammai corsero popolari, né fu mai udito il popolo applicarvi uno dei suoi ritornelli e commossamente cantarle, come pure faceva di talune fralle poesie di Berchet, della Clarina in specie, la quale forse fece più nemici a Carl’Alberto, che non tutte le congiure della Giovane Italia» (in G. Giusti, Epistolario, vol. IV, Le Monnier, Firenze 1932, p. 282).
Il grande successo riscosso dalla poesia berchettiana tra i contemporanei condiziona il giudizio critico, così che, in più occasioni, anche i versi di Berchet vengono ricordati quasi solo per ragioni politiche. Giuseppe Mazzini, nella recensione alle Fantasie, sul n. 18 dell’«Indicatore livorne-
se» del 29 giugno 1829 (poi in G. Mazzini, Scritti letterari editi ed inediti, vol. I, Galeati, Imola 1906, pp. 155-60),
prestava la sua attenzione alle vicende storiche e al loro 147
riverbero politico, esaltando le glorie passate e denunciando i mali del presente. Il giudizio letterario è confinato in poche frettolose righe, nelle quali, per altro, Mazzini ammonisce il lettore a non aspettarsi da lui una valutazione della poesia. E tuttavia, pur rimandando «a’ predatori di sillabe l’alto incarico di spiluccare alcune locuzioni meno poetiche, poche costruzioni intralciate, e quattro, o cinque vocaboli, che sanno d’affettato, o d’improprio», indica che qualche difetto c'è, anche se ci sono «molte bellezze poetiche», e «i metri mutano [...], e il numero or grave, or concitato, or
lascivo segue mirabilmente l'andamento de’ lo che sembra più importante, per Mazzini sensibilità mostrata per la metrica — è che sentita l'altezza della missione, che i tempi
pensieri». Quel— nonostante la «l’autore abbia danno al poeta,
ed abbia mostrato d’intendere più ch’altri la essenza, e la
forma del Romanticismo». Vincenzo Gioberti, in un capitolo dell'ultima parte dell'edizione del 1843 del Primzato morale e civile degli italiani (il capitolo, intitolato Di alcune glorie viventi delle scienze e lettere italiane, sarà poi eliminato nelle successive edizioni) scrive: «E chi potrebbe, discorrendo della poesia esule, scordarsi di Giovanni Berchet, il Tirteo Lombardo, inventore
dell’ode patria e della lirica nazionale, quasi ignote dianzi all’Italia?». Gioberti esprime implicitamente un giudizio letterario, ma soprattutto indica-in Berchet il poeta militante — Tirteo, appunto, — formulando una definizione che, diffusa
a quel tempo, diventerà un topos della critica berchettiana, anche moderna (l'ampia monografia novecentesca di Li Gotti si aprirà, ancora nel 1933, con la frase: «Il Tirteo italico nacque»).
Nella stessa direzione si muove la cultura napoletana sotto l’influsso di De Sanctis. «Le poesie di Giovanni Berchet non son morte colle occasioni, da cui furono ispirate; ma, congiunte colle sorti d’Italia, sono divenute parte della
storia d'Italia, come il poema di Dante, come la tragedia di Alfieri», scrive Luigi La Vista, allievo di De Sanctis (e ispirato da lui, come già aveva annotato Croce), in una
prefazione alle Poesie, uscite in edizione napoletana nel 1848 (ora ristampata in F. De Sanctis, Memorie e scritti
148
giovanili, vol. II, Morano, Napoli 1931, pp. 256-58). Se, a proposito delle Fantasie, il prefatore esalta i versi dedicati alla Lega lombarda («Fin nello stile e nella lingua, sapientemente originali, senti un non so che di bruscamente franco, di ruvidamente eroico»), per le Romzanze afferma invece che «Alfieri ci aveva fatto sentire uomini; Berchet ci fa sentire italiani» (e arriva a dire che «non so se vi sia fra i nostri un poeta che, come il Berchet, abbia un sentimento così squisito delle naturali bellezze del bel paese»). Ancora una volta la dimensione politica si impone su quella lettera-
ria, come esplicitamente affermato nella chiusa della prefazione: «Io ben veggo, che ho parlato molto di Berchet cittadino,
e nulla o poco
di Berchet
scrittore;
ma
io ho
creduto che il pubblico ora fosse più innamorato dell’uno, che dell’altro». Sempre a Napoli, sempre nel 1848, e sempre con prefazione di un allievo di De Sanctis, Agostino Magliani (per il quale varrà la considerazione già avanzata per La Vista), esce un’altra edizione delle Poesie, da Tramater. La prefazione (anch’essa raccolta nel volume di De Sanctis sopra citato, alle pp. 259-60) si apre con l’affermazione di chiusura dell’altra: «non è nostro intendimento il parlar del. merito letterario di quelle [le ‘ammirabili poesie di Giovanni Berchet'], né delle eterne bellezze che han commossi
tutt’i cuori, e
destate già tutte le anime che han senso di dignità e di onor cittadino». Ci vorrebbe, aggiunge il prefatore, «assai lungo discorso», basti dunque dire che «queste poesie le ha giudicate l’Italia [...] il popolo, che, togliendole alla critica, or le ha fatte sue. Né il sentire unanime del popolo è dubbio giammai, né s’'inganna». Rivelando un’idea di letteratura ancora strettamente intrecciata con la militanza politica (da qui nasce anche l’affermazione della popolarità come criterio di qualità), Magliani conclude: «La poesia cittadina è ancora la nostra poesia, quella che ci parla di noi e della nostra indipendenza. Giovanni Berchet è il poeta degl’Ttaliani, che combattono e soffrono, nella schiavitù, per la patria; è il poeta degl’'Italiani che veggon libera la patria, per la quale han sofferto». È di vent'anni dopo il primo lungo studio monografico
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su Berchet, pubblicato nel 1868 da Vittorio Imbriani sulla
«Nuova Antologia» (poi raccolto in Studi letterari e bizzarrie satiriche, dal quale si cita), e segue di pochi anni la prima edizione completa delle sue Opere edite e inedite,
uscita nel 1863 per la cura di Francesco Cusani (che nell’in-
troduzione presentava Berchet con «il nome ben meritato di Tirteo Italico»). Il giudizio di Imbriani (scaturito dall’esame di tutta la produzione dello scrittore, compresi gli articoli del «Conciliatore») è ampiamente positivo: Berchet ha «la gloria di aver discoperta poesia nella vita odierna e quotidiana» (p. 154): per questo «la scelta del soggetto ha nel Nostro importanza capitale» (p. 160), perché «il rappresentar soggetti contemporanei, significa che l’arte secondo lui quind’innanzi dovrà rappresentare il mondo presente dello spirito; che il contenuto presente riempie e commuove scrittore e lettore, artista e popolo» (ibid.).
In Imbriani è assunto pienamente il punto di vista di Berchet, con la consapevolezza che «chi dice presente od attualità dice politica» (p. 161), e in questo senso vanno lette anche Le fantasie: «La Lega lombarda concepita dal Berchet è tutta prodotto dalla favoleggiativa di lui», che ha trasformato l'impresa medievale in «una guerra d’indipendenza nazionale, in una guerra da secolo decimonono»
(p. 186).
E opportuno insistere ancora sul saggio di Imbriani, perché vi si approfondisce quel carattere della critica berchettiana che, intravvisto già in Mazzini, sarà poi riproposto
nel corso dell'Ottocento e del Novecento. Il giudizio del critico è positivo, anche sul piano formale («La scelta de’
metri nelle Romanze è sempre felicissima; si vede che la strofa è nata ad un tempo col pensiero e per quel pensiero che in nessun’altra potrebbe adagiarsi con pari comodità», p. 203), ma, pur con le dovute attenuazioni, non può non rilevare anche i difetti: «Gli si può rimproverare* qualche durezza nel verseggiare» (p. 204) e — anche se «le sue cacofonie han quasi sempre una ragion d’essere nell’asprezza del pensiero» — Berchet «dava talvolta al verso una certa indipendenza cacofonica, la quale non è meno da cansarsi
della ridondanza armonica»
(p. 205). E ancora:
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«spesso
incappa in barbarismi e sgrammaticature» (p. 206), anche se «daremmo del vandalo e dell’impertinente [...] a chiun-
que osasse mutar sillaba, rimuovere una cacofonia, oblite-
rare un lombardismo o riprendere una sgrammaticatura nelle Romanze e nella Lettera semiseria di Giovanni Berchet» (p. 207).
Con maggiore consapevolezza critica, pur riproponendo l’oscillazione appena segnalata, Francesco De Sanctis esamina la poesia di Berchet nel corso tenuto all’Università di Napoli, nel 1874, dedicato a Mazzini e alla «scuola demo-
cratica», con una lettura che cerca di riformulare il giudizio finora espresso sulla poesia berchettiana. Il suo ruolo patriottico, per altro, era appena stato riconfermato sia dalle Lezioni di Luigi Settembrini sia da alcuni riferimenti di Giosue Carducci, che, a proposito dei versi di Berchet che iniziano con «Su nell’irto increscioso Alemanno», aveva ri-
cordato: «anche oggi, ripetendoli, mi bisogna balzar in piedi e ruggirli, come la prima volta che gl’intesi. E gl’intesi da una voce di donna, dalla voce di mia madre» (cfr. Bozzetti e scherme, Zanichelli, Bologna 1889, pp. 178-81). Ma in un saggio del 1872 dedicato a Goffredo Mameli, Carducci aveva anche parlato del «verseggiare nervoso» di Berchet, la cui poesia ha «determinatezza pittorica delle immagini», «nutrita nervosità della rappresentazione», e «negligenza solo apparente», in quanto «rafforzato fin ne’ primi anni da veri e solidi e variati studi letterari non dimenticò mai intieramente, né pur da romantico, di aver fatto le prime armi nella bella scuola del Parini, dell’Alfieri, del Foscolo» (Prose, p. 439).
De Sanctis afferma che il fucile di penna, e la sua penna è più potente di (p. 166), ma coglie nel poeta qualcosa anche sul piano strettamente letterario:
Berchet «è la sua qualunque fucile» di più profondo, il poeta delle Ro-
manze e delle Fantasie è sì il «creatore della lirica nuova, patriottica» (p. 95), ma, soprattutto, è «una natura d'uomo amabile, malinconico, chiuso in sé come una vergine, con
poche espansioni. Tali sono le corde ancora salde delle sue liriche» (p. 156). La sua più originale poesia sarà dunque «quell’indefinito
della grazia, di un dolore malinconico,
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chiuso, che non si espande, e fa sì che le persone poetiche non diventino mai drammatiche, appunto perché non hanno forza di espansione, e rimangono liriche, germi, ‘caratteri
muti» (p157).
Tracciando lo sviluppo dell’opera berchettiana, il critico napoletano ne indica i limiti (la «fiacchezza» di tanti versi o la scrittura trasandata di molte pagine) ma anche le aperture moderne, per cui, ad esempio nei Profughi di Parga, «guardando a quella varietà di metri e di generi, a quel miscuglio di epico e di lirico, già si scorge una forma nuova, romanza o ballata» (p. 145), nella quale anche i «vecchi metri italiani [...] paiono giovani, formati apposta, sgorgati freschi freschi proprio allora dall’immaginazione dell’artista» (p. 151), e addirittura «si può dire che Berchet abbia
proprio creato un metro nuovo» con l’uso del decasillabo, «quando ciò ch’egli dice erompe da una vera esaltazione» (p. 152). Lo stesso giudizio è formulato per l’ottonario: «ch’è un capolavoro. Egli lo trasforma, con le combinazioni nuove della strofa; ci trovate quasi una domanda e poi la risposta» (p. 162).
In questa direzione De Sanctis sente la grandezza di Berchet e crede nella sopravvivenza della sua fama, anche se non può non cogliere, per il mutato clima politico e sociale (lo sottolineano Carlo Muscetta e Giorgio Candeloro nel presentare il volume Mazzini e la scuola democratica), «i limiti sociali» della «poesia popolare vagheggiata dallo scrittore», che era rimasto «uomo del ’21», anche se riusciva «ad esprimere il contenuto più vivo, il pensiero più
avanzato dei ceti medi colti, della borghesia italiana» (in De Sanctis, p. XLVII).
Non si discostano da questa linea i biografi e i critici che, tra fine Ottocento e i primi del Novecento, si occupano di Berchet (anche se andrà ricordato lo studio di Laudomia Cecchini intitolato La ballata romantica in Italia, del 1901).
E con la pubblicazione delle Opere, a cura di Egidio Bellorini (in due volumi, nel 1911
e nel 1912), che la
critica torna a interrogarsi e a discutere sul valore della poesia di Berchet, tanto che De Lollis scriverà: «Di nessun volume forse tra quelli già pubblicati nella collezione ‘Scrit152
tori d'Italia’ dell'editore Laterza si è tanto discorso quanto quello delle Poesie del Berchet» (p. 34). Nel dibattito avviato da un articolo di Prezzolini (sulla «Voce» del 16 novembre 1911) si delineano presto due tendenze opposte: quella di chi esprime un giudizio drasticamente negativo, cercando in Berchet,
senza
trovarla,
una
sensibilità lirica moderna
(per cui Prezzolini può parlare di sentimentalità «da convitto femminile»),
e chi invece
difende
l’opera di Berchet.
Tocca a Croce assumere quest’ultima parte sulla «Voce» del 7 dicembre («Per un poeta non trattato bene») e poi sulla «Critica» del 20 marzo 1912 («Per la poesia del Berchet», pp. 159-60), invitando a studiare meglio un poeta che «oggi più che mai giova richiamare al cuore degli italiani» (così sulla «Voce») e riconoscendo un’originalità che, per esser gustata, richiede un atteggiamento non distorto da altre letture: «Leggo nei giornali, in questo tempo di guerra, da una parte la prosa gonfia e vistosa degli articolisti, e dall’altra le lettere dei soldati alle loro famiglie; e osservo che i portenti di originalità li compiono i primi, laddove i secondi se la cavano alla meglio con le immagini e le frasi logore [...] Il Berchet è il poeta di questi soldati e non di quegli articolisti». Preciserà, proprio a proposito di questa frase, nello scritto sulla «Critica» che «la lettura del Berchet mi era parsa raccomandabile come antidoto alla nauseosa letteratura venuta fuori in occasione della guerra di Tripoli, e che non mi sembra né opera poetica né opera patriottica». Difendendo Berchet, Croce si oppone a certi interventi (come quello di Giovanni Rabizzani sul «Marzocco» del 3
dicembre) che continuano «a segnare questa o quella frase e immagine del Berchet, che [...] sembra convenzionale o generica o scorretta»: non importano, infatti, «i casi pochi o molti nei quali il Berchet non fu poeta, ma quelli, molti o pochi, nei quali fu» (così sulla «Critica»). E ancora (sempre
sulla «Critica»): «la poesia [...] appare talvolta come un uccellino, che ha rotto il guscio e porta ancora sopra di sé, attaccato alle piume, qualche frammento calcare; voglio dire qualche traccia della letteratura, o della cattiva letteratura, attraverso cui è dovuta passare. Quei resti del guscio
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non debbono distrarre la nostra attenzione dalla creaturina viva, che si agita e spicca il volo». Tra i più severi critici della poesia di Berchet, nel dibattito degli anni Dieci, va annoverato Cesare De Lollis, che,
proprio con il saggio su Berchet, sposta le sue attenzioni di filologo su un versante critico dietro il quale si manifesta un'influenza crociana ma anche una nuova più precisa atten-
zione alla lingua e allo stile. Fondandosi su argomentazioni ben più solide di quelle, genericamente impressionistiche, avanzate da Prezzolini e Rabizzani, De Lollis sviluppa un esame minuzioso della forma poetica di Berchet, portando alcune osservazioni alle quali faranno riferimento i successivi commentatori e studiosi. I punti più famosi dello scritto di De Lollis (intitolato Per la riedizione del Berchet, e poi raccolto in Saggi sulla forma poetica italiana dell'Ottocento), sono, in ordine di frequenza di citazioni negli studi successivi, la dura frase sulla lingua del poeta (definita «il più strano mostro che si possa immaginare», p. 38) e quelle nelle quali si mette a confronto la Lettera semiseria con la Préface de Cromwell («geniale pasticciaccio giornalistico», che, a paragone della Lettera, «è un edificio di puro ordine jonico», p. 37) o si sostiene che «nella poesia delle Fantasie si rimescolano e ribollono più disparati elementi che non nella caldaja delle streghe di Macbeth» (p. 45). De Lollis scrive che «gli elementi vecchi e nuovi tornano ad agitarsi incompostamente, e occorrono — altro che i capponi di Renzo! — le attiguità e le convivenze le più forzate» (p. 38), e avanza numerosi esempi a sostegno della sua affermazione, per denunciare sia i limiti lessicali e sintattici sia quelli stilistici del poeta, con un «arcaicizzare a oltranza che ci riporta non solo al di là da Foscolo e Parini [...] bensì anche di là da Tasso e Ariosto», e che «è già un
segno di baldo disprezzo per un tipo strettamente ‘convenzionale di linguaggio poetico» (p. 42). E così i decasillabi sono «delle fragorose stamburate», «versi gridati, urlati, ruggiti», nei quali «egli si contenta di cogliere a volo il fantasma e di fermarlo di scorcio in un abbozzo evanescente» (p. 47). 154
Tuttavia, ecco qua e là una stupita meraviglia: «la rissa di sangue» della battaglia di Legnano è sostantivo «improprio» e «poco dignitoso», ma «così efficace per l’effetto del momento al quale il poeta mirava» (p. 48); e, a proposito dei versi dedicati al morente nella battaglia, «è un parlar non chiaro, nell’insieme, e forse, se chiaro, assurdo: pure, così efficace, così nuovo in quella sua efficacia fatta di squilibrio, di asimmetria, di sprezzante noncuranza formale» (p. 49).
Il giudizio finale è di «frettolosità», cioè di scarsa artisticità: ma ciò che preme a De Lollis — e la sua riflessione va ben oltre i versi di Berchet, che servono piuttosto come occasione di esemplificazione (a volte forzata) di un discorso più generale — è l’affermazione dell’impossibilità «del ripudio assoluto» della «maniera classica» (p. 54) e del fallimento di chi quella «maniera» ha cercato di superare. Curando l’edizione dei Saggi sulla forma poetica italiana dell'Ottocento di De Lollis, Croce rileva che lo studioso «perseguitava» Berchet «con un accanimento che par voglia reagire alla simpatia che anche a lui quel nobile e caro poeta ispirava». In questa «simpatia» (forse proprio una partecipazione di sentimenti) va individuato il nodo irrisolto della più seria critica berchettiana di formazione idealistica e crociana, che, pur denunciando i limiti artistici di Ber-
chet (del quale si trascurano del tutto le prose), è poi pronta a corisiderarlo diverso, e superiore, agli altri poeti «minori» dell’Ottocento. Sarà ancora Croce a riaffermare la necessità di leggere Berchet: riproponendo in Conversazioni critiche le pagine scritte per la «Voce», e altre in Poesia e non poesia (alcune osservazioni sono per altro anche in Poesia popolare e poesia d’arte), fino alla dichiarazione «amo molto Berchet», riportata in un’annotazione per Studi sul Berchet (p. 257). Croce scrive che «Berchet era poeta [... ma] non abba-
stanza poeta; non possedeva in grado pari all’ispirazione l'interessamento per la poesia, l’ardore a cercare e a perfezionare l’espressione del proprio sentire, la passione dell’artista per la parola unica e insostituibile» (Poesia e non poesia, p. 146), così che il suo stile subì i prestiti di quello melodram155
matico, riutilizzato dal Romanticismo italiano. Tuttavia, in-
dicati i limiti dei versi di Berchet («tipi fissi», «frasi fatte d'origine letteraria», «povero, vago e impreciso vocabolario», «ritmi facili da tenere a mente», «sorta di didascalica e oratoria del sentimento»), sottolinea che c’è «dell’altro»:
«la lirica dell’esule, nella quale la sua nostalgia, il suo im-
menso affetto per la sua terra, [...] il sogno di un'Italia libera, forte e grande, il tormento del dubbio, pari all’ardore del desiderio, se gl’'Italiani sapranno davvero riscuotersi, sollevarsi, combattere e vincere [...] prendono forma diretta e viva» (p. 152). E in questa direzione, per Croce, Berchet
si rivela poeta, quando «supera la popolare oratoria e didascalica, idoleggia i suoi affetti e contempla la propria anima come in ispettacolo, che è proprio del poeta» (p. 158). Secondo un’attenzione critica tutta primonovecentesca, sbilanciata verso la poesia lirica, Berchet è dunque poeta irrisolto, ma pur sempre poeta, e l’oscillazione tra un giudizio severo di impoeticità e una contemporanea attenuazione di quel giudizio (presente nei commentatori delle diverse edizioni delle poesie annotate uscite tra gli anni Venti e Trenta:
da A. Momigliano
a N. Caccia
a G. Lazzeri)
è
confermata in più occasioni dai critici di formazione crociana. E anche per quanto riguarda la Lettera semiseria, uno dei suoi più attenti editori, Alfredo Galletti, nel saggio introduttivo a un’edizione del 1913, afferma la debolezza teorica dei romantici (e con essi di Berchet), condannando i loro richiami alla cultura tedesca ma esaltando, tuttavia, la
«loro anima generosa con semplicità ed eroica con modestia», la «fede che ebbero nella nobiltà e dignità dello spirito umano», la «testimonianza che essi diedero di questa fede colla loro vita dolorosa e pura». Dalle considerazioni della critica idealistica si distacca,
almeno per alcuni aspetti, il saggio di Attilio Momigliano, introduttivo alla edizione delle Liriche (del 1924, poi raccolto in Introduzione ai poeti), nel quale, richiamandosi di nuovo a De Sanctis, il critico scrive che «il tedio doloroso non [...] esaurisce e non [...] spiega tutta la poesia di Ber-
chet». Occorre infatti dire che in lui «c'era in germe un poeta epico potente», tanto che «egli di guerriero non ha 156
soltanto l’odio sterminatore,
ma
anche la fantasia rapida,
nuda, quadrata» (p. 198). Con questa fa i conti la sua «tristezza di esule», così che cantando la «religione della patria» (che coincide con «quella di Dio»), manifesta «una tenacia disperata, una risolutezza mortale, che il Manzoni non conobbe» (p. 202). In questo carattere, presente «anche quando la sua poesia è senza linea, anche quando .è sparsa di screpolature e di macchie» (p. 204), va colta dunque, per Momigliano, la grandezza di Berchet. Sulla linea dell’analisi formale di De Lollis si muove invece Domenico Petrini, con uno degli studi più stimolanti degli anni Trenta (La poetica del ‘Conciliatore’ e la poesia di Berchet, uscito nel 1930 sulla «Cultura» e poi raccolto in Dal barocco al decadentismo), nel quale, a differenza del suo maestro, Petrini riconosce in Berchet una consapevolezza artistica, anche se, scrive, i suoi versi si muovono contrad-
dittoriamente tra oratoria e storia: «La poesia di Berchet si svolge, dopoché ebbe trovato con le prime esperienze la sua via, tutta divisa fra una poesia di giambi dall’andatura popolaresca in ‘stile da gazzetta’ e una poesia della storia che tende sempre alla solennità della maniera tradizionale» (II, p. 63). Il valore della poesia è dunque là dove Berchet manifesta «una passione di artista per la poesia della storia» (ivi), anche se raramente si raggiunge un risultato artistico, poiché «la poesia della storia è [...] frammento
che
l’oratoria civile sopraffà» (II, p. 69). A quella avanzata da De Lollis e a quella idealistica e crociana si contrappongono, nel secondo dopoguerra, nuove letture, dettate sia da una nuova attenzione per l’intera opera di Berchet (non più dunque per la sola poesia) sia dalla sollecitazione di nuove categorie critiche, con maggiore attenzione alla dimensione storica e sociologica del testo letterario. Alcune novità sono individuabili in qualche saggio tra i
numerosi (di livello e impegno diverso) raccolti nel 1951
nel volume Studi sul Berchet, in occasione del centenario
della morte del poeta (i più interessanti sono già stati segnalati nel corso delle pagine precedenti), ma soprattutto andranno ricordati i due studi di Mario Fubini Ste critico del 157
Berchet (nel volume collettaneo per il centenario) e Critica e poesia del Berchet (1952), nei quali si afferma l’importanza
di un esame più ampio della produzione berchettiana: «del Berchet critico, e non soltanto del poeta, si deve fare oggi, io credo, un giudizio che meglio ne rilevi l'aspetto positivo» (Studi sul Berchet, p. 339). Da un lato, dunque, Fubini riconosce l’importante ruolo svolto dalle pagine critiche di Berchet presso i contemporanei (per l’attenzione per la «poesia popolare» e per l'evidente tensione morale, che lo rende meritevole del titolo di «Baretti del Romanticismo», p. 353), dall’altro afferma che «il bonario, il modesto Berchet ha pur nella prosa una sua forza di scrittore» (p. 354). Sul versante della critica storica e sociologica, più che sparsi scritti degli anni Cinquanta (da un saggio di G. Manacorda su «Società» del 1951, alla denuncia di A. Lepre, in «Belfagor», 1959, dei limiti delle polemiche di Berchet, il cui «merito maggiore [... è] nella sua capacità di intuire la direzione del movimento culturale e di farsene subito, in un certo senso, banditore»), andranno ricordati l’ampio saggio monografico di C. Cappuccio (in Letteratura italiana. I minori, Marzorati, Milano 1961, vol. III) e alcuni studi della fine degli anni Sessanta, nei quali, anche quando si esprime un giudizio negativo sulla poesia berchettiana, il punto di vista critico è nuovo e di maggior respiro rispetto a quello primonovecentesco.
Anche la riflessione critica sull’esperienza del Romanticismo, del resto, nei primi anni Sessanta, conosce un rinnova-
mento, in particolare con I/ Romanticismo di Giuseppe Petronio (Palumbo, Palermo 1963), che si propone di esaminare la «storia del concetto di Romanticismo», attraverso la
quale si Seppure è messo sul tema mocrazia
delinea una «storia della cultura italiana» (p. 17). in questo contesto più generale, il ruolo di Berchet in rilievo per le sue «considerazioni sociologiche» del pubblico, e del suo allargamento per una «dedella poesia».
L'interesse per il pubblico, visto questa volta in rapporto
con i poeti e i loro testi, è presente anche nell’ampio studio di
Vittorio Spinazzola La poesia romantico-risorgimentale
(in
Storia della letteratura italiana, diretta da E. Cecchi e N. Sape158
“i
gno, vol. VII, 1969), che ha un capitolo significativamente intitolato: La poesia come spettacolo di Giovanni Berchet. Fondando la sua lettura sulla Lettera semziseria e sui versi della maturità Spinazzola mette in risalto i limiti politici e poetici dello scrittore, individuati nell’incapacità di spingere lo sguardo (come invece faceva Manzoni) all’esterno della propria classe di riferimento, tanto più che in lui la visione politica e quella religiosa si intrecciano («La collettività civile si confonde, fa tutt'uno con la comunità dei fede-
li», p. 982), al punto che «il Berchet coltiva un ideale di poesia militante, ma che militi in nome di un sistema di valori fisso e immutabile: da recuperare nella sua primigenia integrità, non da rivoluzionare»
(p. 974). Per questa
via, aggiunge Spinazzola, «è il pubblico a imporre perentoriamente all’artista di registrare le inclinazioni generali, attenendovi
senza
innovazione»
(p. 975).
Da qui, allora, il
carattere melodrammatico e spettacolare della poesia di Berchet, i cui versi più belli (lo aveva già indicato anche Luigi Baldacci, in un articolo del 1951 pubblicato sul n. 31 della «Fiera letteraria») saranno dunque da rintracciarsi nelle tra-
duzioni delle romanze spagnole, nelle quali, assente ogni intento ideologico, c'è una felicità di scrittura sconosciuta alle poesie precedenti. Nell’ambito di una critica attenta alla dimensione storico-sociologica va ricordato anche l'ampio saggio di Luigi Derla Poetica e ideologia di Giovanni Berchet, del 1968, da
ricollegare a una più vasta indagine sui diversi aspetti del primo Romanticismo italiano, in primo luogo economici e politici, condotta con una strumentazione vicina alle categorie critiche della Scuola di Francoforte. Derla ritrova nella poetica avanzata da Berchet una manifesta influenza della trasformazione ideologica della borghesia lombarda nell’età della Restaurazione, e ritrova, già nella Lettera semiseria, «il fatto nuovo, che caratterizza la ‘rivoluzione letteraria’ italiana del secolo [...] lo sforzo di elaborare una poetica del
realismo e i conseguenti tentativi di attuarla» (p. 304).
L’uscita, negli anni Settanta, di una nuova edizione delle Opere (per altro niente affatto innovativa nei suoi criteri) e di un nuovo commento alla Lettera serziseria (in una
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collezione economica) non ha rinnovato alcun dibattito: i versi di Berchet sembrano scomparsi dall’esperienza di lettura, anche di quella critica, i pochi titoli a lui dedicati sono da ricondursi piuttosto a isolati e sporadici interventi, il più ampio dei quali è il volume di G. D’Aronco, I/ Berchet e la nuova poesia popolare (Guida a una lettura del Grisostomo), Udine 1978. Si può chiudere dunque con l’introduzione di Marcello Turchi all’ultima edizione delle Opere (1972). In un confronto diretto con i critici e i commentatori novecenteschi che lo hanno preceduto, Turchi, insistendo sull'esperienza morale di Berchet, riconosce in lui non il creatore di «auten-
tici personaggi», ma di «un mondo di tensioni morali che costituiscono lo sfondo spiritualmente più vivo della nostra passione risorgimentale» (p. 21). La grandezza dello scrittore sarà dunque da ritrovare nella capacità di «aver saputo superare la sua struggente solitudine, il suo chiuso, casto dolore (e nell’averlo saputo conservare intatto), nell’avere, di tali sentimenti, saputo nutrire il canto di una disperazione che diventa fiero canto popolare, partecipazione generosa alla vita e alla speranza di tutti» (p. 22).
BIBLIOGRAFIA
pae Sunia
bi uefivree