Ingegneri Architetti Costruttori insieme per sempre [1, 2, 3]


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Ingegneri Architetti Costruttori insieme per sempre [1, 2, 3]

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Parte I

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1. Gli Antenati

Taj Mahl, Agra, India

Uscito dalle caverne l’uomo iniziò a costruire. Dalla tenda, temporanea e nomade, si passa alla casa, fondata sulla terra: la costruzione testimonia il radicamento sul territorio dei suoi abitanti. Nel costruire l’uomo vide la possibilità di abitare e di difendersi dai suoi simili, di salvarsi dalle insidie della natura e di celebrare la grandezza propria e delle divinità, attraverso l’espressione della bellezza. La grande muraglia si estende per più di 6000 Km. I cinesi cominciarono a costruirla nel settimo secolo Avanti Cristo, quando Roma non era ancora nata. Nel 221 AC l’imperatore Cin uniicò la Cina, le diede un sistema di misure, di monete, di strade, costruì la reggia di Xian, unì tutti i pezzi di muraglia esistenti e inalmente costruì il suo mausoleo con i famosi guerrieri. Nel 1200 D.C. sotto la dinastia Ming la Muraglia raggiunse le dimensioni attuali; il sistema di torri di segnalazione portava il segnale luminoso da un qualsiasi punto dei 6000 Km direttamente alla reggia di Pechino. Una delle sette meraviglie del mondo fu la torre sulla penisola di Pharos davanti ad Alessandria. Il faro fu portato a termine nel 205 A.C., era alto 130 metri e fu la torre più alta del mondo per più di un Figura 1.1 a,b. La Grande Muraglia, 200 a.C.-1200 d.C.; c,d. Il Faro di Alessandr ia - r icost ruzione, 300 a.C.-1200d.C; e. Il t uf fo a Terra nell’ Isola di Pent ecost e; f. La t orre di Babele, 500 a.C., in un dipint o di Bruegel il Vecchio, 1525-1569.

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millennio. Nell’Isola di Pentecoste il “tufo a terra” misura il coraggio dell’uomo che rischia di restare sciancato se la sua forza non gli permette di mantenere la gambe integre. La torre di Babele fu l’ultima delle “zigurrat” , torri a base larga che sorsero in Mesopotamia a partire dal 2000 A.C. Esse erano sempre più alte al ine di portare il tempio che sorgeva in sommità il più vicino possibile al cielo. Costruita nel 500 A.C. sulle rovine delle precedenti era alta circa 65 metri e sopra di essa si ergeva un tempio a due piani alto 15 metri. Nel costruire, l’uomo vide la possibilità di muovere beni e risorse fra terre diferenti per procurare quanto necessario alla propria sopravvivenza Le reti di strade caratterizzano le civiltà romane e cinesi; Agrippa, col Pont du Gard, portava l’acqua alle popolazioni della Francia meridionale. Il castello medioevale di Fenis in Val d’Aosta e il complesso della città tolteca di TULA iorita dal X al XII secolo nel Messico centrale sono allo stesso tempo residenza, fortezza, rifugio per la popolazione, magazzini di derrate alimentari e centro di scambi commerciali. Figura 1.2 a. Mappa st radale dell’ Impero romano, 200 d.C.; b. Acquedot t o di Pont du Gard, 19 a.C.; c. Il Cast ello di Fenis-Val d’Aost a, 1200 d.C; d. Cit t à di Tula-Messico, 10001200 d.C.; e. Codice di Hammurabi, 1700 A.C.

Se la cost ruzione crolla e causa la mort e del padrone, il cost rut t ore verrà ucciso; se causa la morte del iglio del padrone, il iglio del costruttore verrà ucciso; se causa la mort e di uno schiavo del padrone, il costruttore darà uno schiavo al padrone; Se la cost ruzione ha qualche inconvenient e durant e il suo uso, sarà ricostruita a spese del cost rut t ore.

Parte I 1. Gli Ant enat i

L’Uomo Costruttore sa che raramente due costruzioni sono identiche e quindi sa che deve progettare e realizzare un prototipo perfettamente funzionante se vuole combattere con successo i nemici che la natura gli oppone: la gravità, il vento, la neve, i terremoti, il freddo, il caldo. Così, per migliaia di anni, l’uomo osservò la natura per intuire il funzionamento delle costruzioni e imitò le costruzioni precedenti per rendere le nuove più eicienti e più grandi. L’Uomo Costruttore deve collocare le sue opere in uno speciico ambiente: la conigurazione del territorio, e i suoi particolari caratteri ambientali e climatici, hanno chiaramente inluenzato il modo di costruire nella storia di ogni paese. L’Uomo Costruttore è fortemente responsabilizzato perché il mal funzionamento della sua Opera può causare morti e danni e quindi accetta anche la severità delle Leggi. Già Hammurabi applicava al Costruttore la regola del taglione. Il sovrano aveva una chiara consapevolezza dei pericoli che oggi chiamiamo stati limite ultimi (se la costruzione crolla) che dovevano essere trattati diversamente da quelli che oggi vengono deiniti stati

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Figura 1.3 a. Piero della Francesca, Basilica di San Francesco, Arezzo; b. Benozzo Bozzoli, La Cavalcat a dei Magi, Palazzo Medici Riccardi, Firenze; c. Ambrogio Lorenzet t i, Il Buon Governo, Palazzo Pubblico, Siena; d,e. Torre Fraccaro, Pavia; f. Huber t Van Eyck, Croceissione, Cà dOro, Venezia; g. Pagoda di Kaif u, Jingxian Cina, 1044; h. Mont Saint Michel, Francia, X sec. e seguent i; i. Le Procurat ie Vecchie, Venezia, XII sec. nel quadro di Gent ile Bellini, 1496; l. Ca D’Oro, Venezia, 14211440.

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Figura 1.4 a. Thomas Young,

veriica statica del Ponte di Waterloo,1817; b. Hans Hulrich Grubenmann, ponte sul Reno a Shaffausen, 1758; c. Codice di Napoleone Bonaparte, 1804.

limite di servizio (se la costruzione ha qualche inconveniente durante il suo uso) e responsabilizzava i Costruttori per garantire la comunità sociale nei riguardi della sicurezza delle costruzioni. Col passare dei secoli, il Costruttore continua ad essere fortemente responsabilizzato perché deve sidare la natura mettendo a repentaglio lo status sociale suo e della sua famiglia: la riuscita della costruzione gli darà gloria e denaro, il fallimento dell’opera gli darà disonore e povertà. Le Costruzioni costituiscono l’espressione, duratura nel tempo, della civiltà di un’epoca. Così, anche per le Costruzioni, si può affermare, in sintonia con lo storico olandese Johannes Huizinga, che le immagini dell’arte rappresentano una delle irrinunciabili fonti della ricerca. La città di Piero della Francesca è rigorosa nei suoi volumi quasi fosse un elaborato di piano regolatore; quella di Benozzo Gozzoli è immersa nel verde. Ambrogio Lorenzetti, nel dipinto del Buon Governo a Siena descrive le modalità di costruzione di una torre con una precisione incredibile: osservandolo si comprende che i fori pontali sono tutti diretti verso il centro delle torri così da suggerire come si possa cerchiare un quadrato senza manomettere una torre e come intervenire in soli 90 giorni per mettere in sicurezza la torre Fraccaro a Pavia, dichiarata pericolante. La fantasia del iammingo Hubert Van Eyck concepisce i grattacieli di New York e di Chicago. Testimonianza del senso di responsabilità si possono trovare nel Costruttore della pagoda di Kaifu che, per non incorrere nelle ire dell’Imperatore, realizzò una pagoda di 55 metri di altezza capace di sopportare ad oggi una quarantina di terremoti, una ventina di

Codice di NAPOLEONE 1804 D.C.

Se una cost ruzione soffre danni parziali o t ot ali e quindi perde, complet ament e o in part e, la sua ut ilizzabilit à, se ciò è causat o per colpa delle fondazioni o di scarsa qualit à della manodopera: il cost rut tore o l’archit et to andranno in prigione

se i danni si veriicano nei primi dieci anni dalla ine della costruzione

Parte I 1. Gli Ant enat i

tifoni e una quindicina di gravi inondazioni senza perdere il suo rivestimento di maiolica. Analogamente i costruttori di Mont Saint Michel non potevano imbrogliare Dio perché speravano che la loro opera avrebbe salvato la loro anima. Forse i palazzi di Venezia hanno permesso ai loro costruttori di fare un salto sociale nella gerarchia delle famiglie veneziane. Verso la ine del 1700 l’uomo sta cambiando mentalità. All’esprit de geometrie che permise a Sir homas Young di dimostrare la correttezza della progettazione del ponte di Waterloo con una delle prime concrete applicazioni ingegneristiche della curva delle pressioni si contrappone l’esprit de finesse di Hans Hulrich Grubenmann maestro carpentiere svizzero che non riuscì a convincere il Consiglio Cittadino di Shafausen a realizzare un ponte in legno a luce unica di 130 metri. Per non perdere il lavoro accettò di realizzare il ponte a due campate, ma il giorno dell’inaugurazione tolse l’appoggio del pilone centrale dimostrando che un semplice falegname poteva costruire il più lungo ponte esistente nella seconda metà del diciottesimo secolo. Anche le leggi si adeguano: nel 1804 D.C. Napoleone Bonaparte Imperatore dei Francesi prende atto della igura dell’Architetto con cui il Costruttore divide le responsabilità. Contemporaneamente Napoleone limita a dieci anni la responsabilità, facendo un grande piacere ai Costruttori e un pessimo servizio alla qualità delle costruzioni che quasi sempre sono chiamate a sopportare gli eventi più severi per i quali sono progettate a distanza di vari decennio dalla loro inaugurazione.

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2. I Precursori

Una delle caratteristiche del costruire italiano, certamente motivo del suo storico successo internazionale, fu la capacità dei nostri Architetti Costruttori di adattare a diferenti realtà sociali, culturali e ambientali i requisiti di solidità, utilità e bellezza, proclamati da Vitruvio. A partire dalla metà del 1500 l’Italia era diventata un mercato troppo piccolo e troppo povero per i numerosi Architetti Costruttori italiani che tutte le corti di Europa apprezzavano. Pietro Antonio Solari lavorò in Russia e Sebastiano Serlio in Francia. Filippo Juvara dopo la basilica di Superga si stabilì deinitivamente in Spagna dove iniziò a progettare il Palazzo Reale Granja de San Ildefonso. I fratelli Ferdinando e Francesco Galli da Bibbiena riempirono di teatri e scenograie le città europee, Bartolomeo Rastrelli e, al suo seguito, Giacomo Quarenghi, Carlo Rossi, Antonio Rinaldi, Luigi Rusca, Domenico Trizzini operarono in Russia. Nei cento anni precedenti l’unità di Italia gli Architetti – Costruttori permisero la rinascita, tutta italiana, dei grandi interventi pubblici e privati promossi dai tanti Regnanti presenti in Italia e dalle nobiltà locali. Giuseppe Piermarini, Luigi Canonica, Giovanni Antonio Antolini, Alessandro Antonelli, Luigi Vanvitelli ci hanno

La Mole Ant onelliana a Torino

Figura 2.1 a. Piet ro Ant onio Solar i, Arsenale del Cremino e Torre Nikol skaya, Mosca, 1487-1491; b. Sebast iano Serlio, Cast ello in Ancy-leFranc, Cor t e Int erna, 1546; c. Palazzo Reale Granj a de San Ildefonso, 1721; d. Bar t olomeo Rast relli, Palazzo d’ Inverno, San Piet roburgo, 1753; e. Bar t olomeo Rast relli, Palazzo di Cat er ina, San Piet roburgo, 1756.

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Figura 2.2 a. Alessandro Ant onelli, Cat t edrale di San Gaudenzio, Novara, 1841-1887; b. Luigi Canonica, l’Arena, Milano, 1805; c. Giovanni Ant onio Ant olini, Foro Bonapar t e, Milano, 1802; d. Luigi Vanvit elli, La Reggia di Caser t a, 1750; e. Giuseppe Pier mar ini, Villa Reale di Monza, 1777.

lasciato Costruzioni che nulla hanno da invidiare alle contemporanee costruzioni di altri paesi. Nello stesso periodo alla igura dell’Architetto Costruttore, comincia ad aiancarsi quella di Architetto - Ingegnere rivolta a progettare e gestire interventi per lo più relativi ad acque e trasporti. È una igura con competenze tecniche pluridisciplinari, attenta alla evoluzione tecnologica presente nei diferenti paesi e ad aspetti di programmazione e gestione. Antesignani di questa nuova igura professionale sono due personaggi, diversi per estrazione, studi ed esperienze lavorative. Pietro Paleocapa, bergamasco, con studi in Legge e Matematica a Padova e formazione all’Accademia Militare di Modena, entra nel “Corpo degli Ingegneri di Acque e Strade” di Venezia. Luigi Negrelli, trentino, studia in Austria, si laurea in Ingegneria presso il Politecnico di Innsbruck ed emigra in Svizzera. Paleocopa si occupa di idraulica, trafori e canali navigabili. Promuove la regolamentazione del Brenta, del Bacchiglione, dell’Adige, di diverse zone paludose in Veneto, si occupa della costruzione di una diga nel porto di Malamocco. Negrelli progetta la prima ferrovia nazionale svizzera, da Zurigo a Baden, realizza strade, moli e ponti nel regno austro – ungarico, segue i lavori della linea ferroviaria Milano - Venezia, progetta la

Parte I 2. I Precursori

nuova ferrovia tra Verona e Bolzano. Paleocapa diventa ministro nei governi D’Azeglio e Cavour dal 1849 al 1855, promuove lo sviluppo ferroviario, conduce a compimento la progettazione del Traforo ferroviario del Frejus, cerca spazio politico per l’Italia nell’avventura del Canale di Suez. Negrelli partecipa come tecnico ai lavori della Societé d’Etudes du Canal de Suez, ha la soddisfazione di vedere accolto il suo progetto, l’unico che non richiedeva le chiuse ai due imbocchi del canale. Il suo progetto verrà realizzato dal francese Ferdinand de Lesseps che coordina la Commissione internazionale voluta da Said Pascià. Inizierà così una lunga battaglia sulla paternità dell’opera, conclusa in modo salomonico dagli Egiziani che dedicarono a Lesseps un monumento all’ingresso del Canale, a Negrelli una delle principali arterie del Cairo. Altri Architetti - Ingegneri progettavano e costruivano dighe e acquedotti. Cavaliere Barabino, realizza negli anni 1830 la diga in terra di 20 metri di altezza, 50 m di larghezza alla base e 300 m di lunghezza creando un bacino artiiciale per l’irrigazione dei prati circostanti il Lago della Spina in Piemonte, opera innovativa non solo per le dimensioni, ma anche per l’ingegnoso meccanismo d’irrigazione di cui è dotato l’invaso per raccogliere l’acqua supericiale e per evitare il taglio della diga al momento dell’irrigazione. Sempre

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Figura 2.3 a. Cavaliere Barbino, Diga del Lago della Spina, Pralormo, Tor ino, 1820; b. Il canale di Suez, 1869; c. Luigi Negrelli, 1799-1858; d. Benedet t o Brunat i, Diga d’Ar ignano, Tor ino, 1840; e. Piet ro Paleocapa, 1788-1869; f. Lorenzo Not t olini, acquedot t o, Lucca, 1823-1851.

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Figura 2.4 a. Pont e delle Torr i, Spolet o, secolo XIV; b. Rober t Telford, Menai Br idge, Anglesey, Nor t h Wales, 1826; c. Joseph Paxt on, Cr ist al Palace, Londra, 1851; d. Gust av Eif fel, pont e Saint-Jean a Bordeaux, 1858; e,f. George St ephenson, Br it annia Br idge, Anglesey, Nor t h Wales, 1852.

con inalità agricole Benedetto Brunati, ispettore generale del Genio Civile, progetta attorno al 1840 la Diga d’Arignano in provincia di Torino. Lorenzo Nottolini, prevalentemente operante nel Granducato di Toscana, realizza il grande acquedotto di Lucca. La maestria dei Costruttori italiani nell’utilizzo della pietra, della muratura, del marmo era riconosciuta da secoli tanto da diventare oggetto di meraviglia persino in Johann Wolfgang von Goethe che, nel suo Viaggio in Italia, cita la meraviglia del ponte delle Torri in Spoleto. In Italia era invece praticamente sconosciuto il ferro, il nuovo materiale che, sostituendo la ghisa, permetteva nuove lavorazioni e quindi nuove tipologie di Costruzioni. Nel 1826 Telford aveva costruito il ponte sospeso di Menai, nel 1852 era stato inaugurato il Britannia Bridge, un enorme cassone entro il quale passava il treno. Sempre in Inghilterra Joseph Paxton, costruttore di serre, concepì una serie di elementi prefabbricati per costruire a Hyde Park, in soli quattro mesi, il Crystal Palace, l’ediicio di 84.000 m2 che ospitò l’Esposizione Universale del 1851 per poi essere spostato e rimontato in un’altra zona della città. Nel 1858 Eifel realizzò la sua prima opera, il Pont Saint Jean a Bordeaux. In Italia soltanto pochi Architetti con conoscenze del Nord Europa utilizzarono il ferro per realizzare cavi o catene di ponti sospesi. Alessandro Manetti, architetto toscano, perfezionatosi in ingegneria a l’École des Ponts et Chaussées a Parigi realizza il ponte “Leopoldo II” a Poggio a Caiano. Luigi Giura, dopo aver visitato Francia, Inghilterra e Germania, costruisce il Ponte Ferdinandeo sul Garigliano, Lorenzo Nottolini, dopo alcuni viaggi in Germania e in Inghilterra, realizza il ponte delle Catene a Lucca.

Parte I 2. I Precursori

Forse il ponte dell’Accademia a Venezia fu il primo ponte a struttura metallica realizzato in Italia; fu inaugurato nel 1852, dopo 30 anni di polemiche e discussioni, costruito in un solo anno da Alfred Neville, igura avventurosa, neppure troppo limpida, di Ingegnere-Architetto-Costruttore, sempre in giro per l’Europa in cerca di clienti. I pezzi del ponte erano arrivati via mare dalle fonderie nel nord Europa ed assemblati a Venezia. Partiti tardi e senza una vera industria siderurgica, la cultura del ferro fu importata in Italia abbastanza rapidamente: già nel 1886 all’università di Padova il prof. Pio Chicchi pubblicava un libro – dispensa universitaria che illustrava le diverse tipologie e i particolari costruttivi dei ponti metallici realizzati oltre Alpe per insegnare agli ingegneri italiani la nuova tecnica di costruzione. L’Italia fu costretta ad importare conoscenze anche nella progettazione e realizzazione delle prime ferrovie. La tratta Napoli - Portici, inaugurata il 3 ottobre 1839, fu realizzata aidando la sua progettazione, costruzione e gestione al francese Armando Giuseppe Bayard de la Vingtrie. Le locomotive giunsero dall’Inghilterra, solo il ferro delle rotaie provenne dalle miniere della Vallata dello Stilaro e fu lavorato nel Polo siderurgico di Mongiana. La tratta Milano - Monza, inaugurata 8 mesi dopo, venne realizzata dalla ditta tedesca Holtzhammer in base alla concessione imperiale aidata al nobile Putzer di Reibech. Qui però partecipò al progetto l’ingegnere italiano Giulio Sarti, divenuto in breve tempo uno dei primi esperti italiani di ferrovie, mentre le locomotive furono importate prima dall’Inghilterra, poi dalla Francia, così come i macchinisti. Di fabbricazione italiana furono soltanto i vagoni e gli ediici delle stazioni.

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Figura 2.5 a. Pont e delle Cat ene, Fornoli, Lucca, 1840; b. Pont e Ferdinandeo, Gar igliano, 18221829; c. Pont e dell’Accademia, Venezia, 1852; d. Pio Chicchi, t avole dal t est o del Corso t eor ico prat ico sulla Cost ruzione dei Pont i Met allici, 1886; e. Pont e Leopoldo II, Poggio Caiano, Firenze, 1833.

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Figura 2.6 a. La Napoli Por t ici in un quadro di Salvat ore Fergola, 1839; b. Locomot iva a vapore Bayard di cost ruzione Longr idge, 1839; c. St azione Por t a Nuova, Milano 1840; d. Alessandro Mazzucchet t i, St azione Pr incipe, Genova, 1853 (fot o 1905 comprendent e ampliament i successivi).

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3. I Pionieri (1860–1914)

Proprio in concomitanza con l’unità d’Italia viene inventato il cemento armato e vengono fondati i Politecnici di Milano e di Torino. Sono due innovazioni che inluenzeranno in modo determinante la evoluzione delle igure di Ingegneri, Architetti e Costruttori. Tra il 1865 e il 1880 nasce il Cemento Armato che non solo rivoluzionò il modo di costruire, ma fu una meravigliosa palestra per la meccanica strutturale degli Ingegneri, una fonte di continua ispirazione per gli Architetti, una spinta a diventare Imprenditori per i capimastri dell’epoca.

Art uro Danusso Figura 3.1 a,b. Travi, solai e t elai in cement o armat o ogget t o di brevet t i di Francois Hennebique,1879; c. logo at t uale del Polit ecnico di Milano; d. logo at t uale del Polit ecnico di Tor ino; e. Ar t uro Danusso, Brevet t o del solaio lat ero-cement izio, 1912; f. La Canonica di via Senat o, Milano, pr ima sede dell’ Ist it ut o Tecnico Super iore, 1863; g. Il Cast ello del Valent ino, Tor ino, pr ima sede della Regia Scuola di Applicazione per gli Ingegner i, 1861; h. Francois Hennebique, Pont Camille de Hogues, Chât ellerault , 18991900; i. Giovanni Ant onio Porcheddu, Pont e del Risorgiment o, Roma, 1909-1911.

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Figura 3.2 a. Giuseppe Mengoni, Galler ia Vit t or io Emanuele, Milano, 1865-1877; b. Emanuele Rocco, Galler ia Umber t o I, Napoli, 1887-1890; c. Raimondo D’Aronco, Padiglioni dell’ Esposizione di Ar t i Decorat ive nel Parco del Valent ino, Tor ino, 1902; d. Hot el Excel sior al Lido, Venezia, 18901902; e. Filippo ed Er nest o Basile, Teat ro Massimo, Paler mo, 1875-1897; f. Aldo Andreani, Palazzo della Camera di Commercio, Mant ova, 1911-1914; g. Carlo Maciachini, Cimit ero Monument ale, Milano, 1860-1897; h. Giuseppe Sommar uga, Villa Faccanoni-Romeo, Milano, 1912-1914; i. Gino Coppedè, Il Cast ello Mackenzie, Genova, 1897-1902.

La sua invenzione è generalmente attribuita alla scoperta di un giardiniere parigino, Joseph Monier (1823-1906), che aveva notato che una gabbia di ferro immersa nel cemento rendeva più resistenti i suoi vasi da iori. Va però riconosciuto a François Hennebique (1842 –1921) il merito di aver applicato nel 1879 la osservazione del giardiniere al mondo delle costruzioni, di aver compreso che nel cemento armato gli sforzi di trazione vanno aidati interamente alle armature metalliche, di aver iniziato un opera di divulgazione pubblicando la rivista Beton Armée, di aver istituito uno studio di ingegneria specializzato nel progetto di opere civili in cemento armato, di aver creato una serie di concessionari dei suoi brevetti in diverse parti del mondo, di aver pubblicizzato la sua tecnologia con parole di vero comunicatore quali “mai più incendi nelle nostre case”, di aver progettato e costruito i primi ponti in cemento armato. La tecnica del Cemento Armato, la sua tecnologia, i suoi criteri di progettazione sono immediatamente importati in Italia da due personaggi rimasti orfani in giovane età e cresciuti in gravi ristrettezze economiche che contribuiranno in modo determinante allo sviluppo delle costruzioni nel nostro paese. Giovanni Antonio Porcheddu (1860-1937) era nato a Ittiri, un piccolo paese della Sardegna che ben poco lavoro ofriva al padre, muratore e capomastro. Rimasto orfano piccolissimo si trasferì a Sassari dove lavorò come operaio. Riuscì a diplomarsi e con l’aiuto di borse di studio pubbliche frequentò il biennio di Ingegneria presso l’Università di Pisa per poi laurearsi in Ingegneria Civile al Politecnico di Torino nel 1890. Diventato concessionario di Hennebique per l’Italia costruirà innumerevoli opere, tra cui la Fiat Lingotto di Torino, il ponte Risorgimento a Roma e ricostruirà dopo il crollo il campanile di San Marco a Venezia. Arturo Danusso (1880 – 1968) era nato a Priocca d’Alba, orfano a 4 anni. Nonostante le ristrettezze economiche si laurea al Politecnico di Torino a 22 anni. Accetta un umile impiego alle ferrovie Meridionali, ma viene richiamato a Torino da Porcheddu e ne diventa il più stretto collaboratore. A seguito del terremoto di Messina inizia gli studi di ingegneria sismica, si occupa di innumerevoli progetti, promuove anche con un suo brevetto del 1912 i solai in mattoni forati e calcestruzzo, viene chiamato nel 1915 al Politecnico di Milano dove insegnerà ino al 1950, maestro di innumerevoli allievi docenti e progettista di strutture in cemento armato di tante famose costruzioni. Tra il 1859 e il 1863 nascono i due Politecnici di Torino e di Milano (la Regia Scuola di Applicazione per gli Ingegneri a Torino e l’Istituto Tecnico Superiore a Milano). Fortemente voluti dal siste-

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ma industriale che aveva bisogno di luoghi di formazione di nuove igure di tecnici, fortemente osteggiati dal sistema accademico che vedeva nelle applicazioni della ricerca, allora come oggi, la merciicazione della “Scienza”. Il Politecnico di Torino si insediò nella prestigiosa sede del Castello del Valentino. Di minor immagine fu la sede del Politecnico di Milano in via Senato. Lo stile formativo dei nuovi ingegneri ricalcava quello svizzero tedesco che riteneva prioritarie le basi sia delle scienze matematiche e isiche che le applicazioni tecniche. Inizia così la profonda diversiicazione fra la igura dell’Ingegnere e quella dell’Architetto. La trilogia di Vitruvio tende a rompersi: l’Architettura, come scriverà negli anni Cinquanta del secolo successivo Ernesto Nathan Rogers, è l’espressione del rapporto tra l’Utilità e la Bellezza, nell’Ingegneria viene privilegiato il rapporto fra la Solidità e l’Utilità. Gli Architetti Costruttori contribuiscono allo sviluppo della Società Italiana ed interpretano le sue diferenti esigenze mostrando una grande versatilità nell’applicare le tecniche della pietra e del mattone, consolidate da secoli nel nostro paese. Non a caso Camillo

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Figura 3.3 a. Camillo Boit o, Scuole di via Galvani, Milano, 1888-1891; b. Er nest o Pirovano, villaggio Crespi d’Adda, 18801882; c. Camillo Boit o, Casa di r iposo per musicist i, Milano 1899; d,e. Giovanni Broglio, Quar t iere Lombardia e Quar t iere Solar i, Societ à Umanit ar ia, Milano 1905-1909.

Boito afermava che la nuova Architettura nazionale, deve essere in grado di esprimere l’unità politica attraverso una difusa unità stilistica, raggiunta interpretando i caratteri delle costruzioni in mattoni dell’Italia medioevale. Si costruisce per rendere più accoglienti le città, per promuovere il turismo, per difondere cultura, per dare servizi migliori alla nascente società industriale, per dare residenze di prestigio a una classe di imprenditori sempre più variegata per esigenze e per censo. Si costruisce per combattere l’analfabetismo, per assistere gli anziani in diicoltà economiche, per consentire una vita famigliare corretta ai lavoratori di fabbriche lontane dalle città, per garantire alloggi decorosi alle famiglie di operai immigrati. Sorgono i primi quartieri popolari e, con essi, i piani e gli strumenti che regolano lo sviluppo delle città. All’interno dell’amministrazione statale, così come in ogni amministrazione municipale, vi sono strutture, di grande competenza, che progettano, controllano e regolano le costruzioni promosse dall’intervento pubblico per lo sviluppo economico e culturale della società italiana. Si costruisce per produrre energia elettrica. Gli Ingegneri civili si occupano di dighe e condotte, gli Ingegneri elettrotecnici di macchine e centrali, gli Architetti sono chiamati a curare l’inserimento delle costruzioni nella natura circostante, l’aspetto esterno e il decoro interno. Le dighe per scopi idroelettrici sono “a gravità”, costruite in pietrame squadrato di grande spessore trovavano stabilità nel loro peso, aiutato talvolta dalla forma ad arco. Tra le prime, la diga di Bunnari in Sardegna, (1879, alta 32 metri); in Friuli la diga di Crosis (1898, alta 38,2 metri) e la diga di Pontebba (1901, alta 23,5 metri). Ai primi del ‘900 l’architetto Gaetano Moretti progetta

Parte I 3. I Pionieri (1860-1914)

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la stazione idroelettrica di Trezzo d’Adda che fornisce il Cotoniicio dei Crespi. Coeva è la centrale idroelettrica di Olevano sul Tusciano la prima realizzata dalla Società Meridionale di Elettricità. Le sale macchine progettate da Piero Portaluppi nelle due centrali di Verbania (1911-1916) sono curate nei percorsi, nei dettagli, nella disposizione planimetrica delle attrezzature. Si costruisce per le Ferrovie. Gli Ingegneri sono chiamati ad occuparsi di gallerie, ponti, tracciati, segnaletica, gestione del traico, costruzione e manutenzione del materiale rotabile, agli Architetti tocca la progettazione delle Stazioni nelle città. I trafori del Frejus e del San Gottardo (ultimati rispettivamente nel 1871 e nel 1882) sono fonti di innovazioni tecniche importanti. Iniziati con metodi basati sulle braccia del minatore, sperimentano i primi motori idraulici e perforatrici ad aria compressa . Nel Gottardo la nitroglicerina subentra alla polvere nera. Il contagio della anchilostomiasi (detta “male del San Gottardo”) è ampliicato dall’umidità e dalla mancanza di misure igieniche, solo con il Sempione si darà il via a una corretta opera di prevenzione delle maestranze.

Figura 3.4 a. St azione idroelet t r ica a Olevano sul Tusciano, 1905; b,c,d. Piero Por t aluppi, Cent rali e Sale macchine, Verbania, 1911-1916; e. Diga di Bunnar i, 1879; f. Diga di Crosis1898; g. Diga di Pont ebba 1901; h. Gaet ano Moret t i, cent rale idroelet t r ica Taccani, Trezzo d’Adda, 1906.

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1861 – 1872

1873 – 1904

1905- 1914

Figura 3.5 Figura 3.6

Il ponte è ancora in muratura, costruito faticosamente su ardite centinature provvisorie di legno, ma il ferro comincia ad afermarsi anche se necessita di ingegneri e costruttori stranieri. Il ponte ferroviario deinitivo sul Po a Piacenza venne realizzato nel 1865 dall’impresa Parent-Schaken-Caillet et Cie, francese, specializzata in costruzione di locomotive, che aveva costruito il Ponte Alexandre III e le strutture metalliche della Gare d’Orsay a Parigi. Il ponte di Paderno sull’Adda, realizzato in soli 2 anni, tra il 1887 e il 1889 vede afacciarsi sul mercato la Società Nazionale Oicine di Savigliano, che aveva assunto come Direttore Tecnico l’ingegnere svizzero Jules Röthlisberger (1851-1911). Con 266 metri di lunghezza a un’altezza di 85 metri al di sopra del livello del iume, all’epoca della sua costruzione, fu il più grande ponte ad arco al mondo per dimensioni e il quinto in totale per ampiezza di luce. I Francesi operavano anche in meridione come Concessionari e Costruttori delle linee ferroviarie calabro sicule tramite la Società Vittorio Emanuele di Carlo Laitte che si serviva della ParentSchaken-Caillet et Cie e di ingegneri francesi. Anche nel 1864 le contestazioni erano un fatto normale, ma, a diferenza di oggi, era normale la rapidità nelle decisioni e la esecuzione dei lavori: nella

Parte I 3. I Pionieri (1860-1914)

tratta Messina Siracusa, la questione degli Archi della Marina generò dibattiti e contestazioni violente perchè il tracciato presentato dai francesi creava una cintura attorno alla città minacciando lo sviluppo del porto e la cancellazione della Passeggiata a mare cittadina. Nonostante le contestazioni il viadotto fu aperto al traico ferroviario soltanto cinque anni dopo insieme alla galleria dell’Acquicella, al collegamento dei binari del porto, alla prima sezione della linea per Siracusa. Le stazioni sono concepite come monumenti al progresso. L’architetto Silvio Bianchi lega il suo nome alla Stazione Termini di Roma, Luigi Alvino a quella di Napoli, Carlo Ceppi e Alessandro Mazzucchetti a quella di Torino Porta Nuova. Più articolata fu la storia della stazione centrale di Milano: a seguito della crisi inanziaria che colpì lo stato austriaco, nel marzo 1856 il governo imperiale cedette le concessioni ferroviarie nel Lombardo-Veneto e nell’Italia Centrale ad una società privata, l’Imperial Regia Privilegiata Società delle Ferrovie Lombardo-Venete, il cui capitale era composto da banche non austriache, tra cui quella della famiglia Rothschild, quella del gruppo Talabot e quella della famiglia Bastogi. Nella Concessione era prevista la costruzione di una stazione a Milano il cui progetto fu aidato all’architetto francese Louis Jules Bouchot iduciario dei Rotschild. La stazione, iniziata nel 1857 ed inaugurata nel 1864, si dimostrò subito inadeguata tanto che il Re Vittorio Emanuele III pose la prima pietra dell’attuale stazione il 28 aprile 1906, prima ancora che ne venisse scelto un progetto. Il progetto fu aidato sei anni dopo all’architetto Ulisse Stacchini, i lavori terminarono nel 1931. Nella storia della costruzione della Stazione Centrale di Milano ritroviamo molti elementi di attualità: la svendita a privati di beni pubblici per rimpinguare le casse dissestate dello Stato, l’intervento

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Figura 3.7 a,b. Pont e San Michele sull’Adda, Paderno, 1887-1889; c. Viadot t o ferroviario degli Archi della Marina, Messina, 1869; d. Pont e in murat ura sul Piave, 1879; e. Pont e sul Po, Piacenza,1865.

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Figura 3.8 a. Silvio Bianchi, St azione Ter mini, Roma, 1867-1874; b. Carlo Ceppi e Alessandro Mazzucchet t i, St azione di Por t a Nuova, Tor ino, 1866-1868; c. Enr ico Alvino, St azione di Napoli, 1966; d. Louis Jules Bouchot St azione Cent rale, Milano, 18571864; e. Giuseppe Sacconi, Il Vit t or iano, 1911.

di progettisti stranieri per evitare i veti incrociati degli opinionisti nostrani, una prima pietra di un’opera non ancora progettata. Altri elementi di attualità si ritrovano nella storia del Vittoriano dove è afermata la volontà di testimoniare la propria grandezza con un grande edificio puramente celebrativo e dove il nazionalismo comportò lo svilimento del concetto di concorso di architettura. Nel 1880 fu bandito un primo concorso internazionale, vinto dal francese Henri Paul Nenot, l’architetto che legherà il suo nome alla costruzione della sede della Sorbona nel quartiere latino di Parigi. La nazionalità estera del vincitore diede fastidio e così due anni dopo fu bandito un secondo concorso riservato ai soli progettisti italiani. Il vincitore fu Giuseppe Sacconi, giovane architetto marchigiano. Dopo la sua morte prematura, avvenuta nel 1905, i lavori proseguirono sotto la direzione di Gaetano Koch, Manfredo Manfredi e Pio Piacentini. Il complesso monumentale venne inaugurato da Vittorio Emanuele III il 4 giugno 1911, in occasione dell’Esposizione Internazionale per i cinquant’anni dell’Unità d’Italia. Purtroppo soltanto i crolli e gli eventi disastrosi sono spesso fonte di avanzamento delle conoscenze, di ricerca, di applicazioni innovative perché producono modelli al vero con i quali si possono confrontare le teorie e i metodi di calcolo. In questo periodo due furono gli eventi più significativi: il crollo del Campanile di San Marco a Venezia e il terremoto distruttivo di Messina. La ricostruzione del Campanile segnò la vittoria del cemento armato sulla muratura per merito di Porcheddu e Danusso che ne progettarono le nuove strutture portanti. Il terremoto di Messina segnò l’inizio della ingegneria sismica: Arturo Danusso per primo

Parte I 3. I Pionieri (1860-1914)

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Figura 3.9 a. Crollo del Campanile di San Marco, 1902; b. Dist ruzioni del t erremot o di Messina,1908.

intuì che bisognava progettare le strutture antisismiche considerando gli efetti dinamici e riuscì a far comprendere che il Cemento Armato era più adatto della muratura per concepire le strutture delle nuove costruzioni.

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4. I Costruttori (1920–1940)

Gli anni che seguono il primo conflitto mondiale segnano la definitiva afermazione di un nuovo modo di concepire il tempo e lo spazio. La “Mobilitazione totale” che, come ha scritto Ernst Jünger, “trasforma gli Stati industriali belligeranti in fucine vulcaniche”, coinvolge l’economia, la società, l’arte e, ovviamente, il mondo delle costruzioni. Le nuove tecnologie di trasporto (degli uomini, delle merci e delle informazioni), l’organizzazione scientiica del lavoro di Taylor e di Ford, il jazz, la fotograia e il cinema, il futurismo e il cubismo, conigurano la doppia linea di conine, economica ed estetica, tra il “mondo senza fretta” e la “nuova religione-morale della velocità” esaltata da Marinetti. La velocità è il “segreto religioso” della modernità; il lavoro industriale è la sua traduzione nel linguaggio popolare. Questi “spiriti del tempo nuovo” convergono nella teoria e nella prassi della costruzione, componendo i termini di un singolare conlitto generazionale. Da un parte si inaugura la stagione delle avanguardie architettoniche, in cui muovono i primi passi i futuri protagonisti del Movimento Moderno. Walter Gropius, Le Corbusier, Ludwig Mies van der Rohe, sono tutti intorno ai trent’anni, sono giovani, estremisti, rivoluzionari, non accettano il riformismo dei loro maestri. Dall’altra parte ci sono i maestri di poco più anziani. Peter Behrens, Hans Poelzig, Hermann Muthesius, sono architetti nati negli anni Sessanta dell’Ottocento e, all’alba del nuovo secolo, vivono il precoce tramonto delle speranze riposte nel matrimonio tra industria e artigianato. Il dibattito svolto all’interno del Deutscher Werkbund cristallizza le diverse forme in cui si riassumono queste tensioni: c’è chi intende l’elemento artistico come strumento per elevare spiritualmente il prodotto industriale e chi invece sostiene senza mezzi termini la potenza d’attrazione della “estetica dell’ingegnere”. La “forza monumentale” dei silos e delle fabbriche americane, evocata da Walter Gropius sulla rivista del Werkbund nel 1913, è afermata con forza negli anni Venti sulle pagine di “Vers une Architecture”, il libro-manifesto irmato da Le Corbusier, nel quale si legge: “oggi, gli architetti non realizzano più le forme semplici.

Pierluigi Ner vi

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Figura 4.1 a. Diga Lago Omodeo, 1921; b. Diga del Vannino, Novara, 1921; c. Diga di Pian Sapeio, 1926; d. Diga di Morasco, 1935; e. Pier Luigi Ner vi, Avior imesse Orbet ello, 1939; f,g. Pier Luigi Ner vi, St adio della Ber t a, Firenze, 1930-1932.

Operando col calcolo, gli ingegneri usano forme geometriche, appagano gli occhi con la geometria e lo spirito con la matematica; le loro opere sono sul cammino della grande arte”. La vecchia Europa perde il primato economico acquisito nel secolo precedente: è oltreoceano, infatti, che si giocano le sorti della “nuova era del progresso”. Nelle oicine in vetro e cemento armato della Ford di Detroit si inaugura in questi anni la catena di montaggio per la produzione standardizzata. L’evento colpirà come un fulmine sia il sistema capitalista sia la rivoluzione socialista. Case in serie, alloggi popolari, edilizia industriale, infrastrutture territoriali, saranno i nuovi campi d’intervento dell’architetto e dell’ingegnere, che diventano così i costruttori della “prima età della macchina”, ma la sempre maggiore complessità delle Costruzioni comincia a richiedere una sempre più netta distinzione nelle conoscenze e competenze del Costruttore, dell’Ingegnere, dell’Architetto. Il Costruttore diventa Impresa Generale di Costruzioni che deve concorrere agli appalti, coordinare la progettazione, eseguire la costruzione, controllare tempi e costi. L’Ingegnere diventa il depositario della Scienza e della Tecnica delle Costruzioni che costituiscono il patrimonio di conoscenze necessario per realizzare le nuove opere in cemento armato. Egli ofre i suoi servizi al Costruttore e raramente partecipa in dall’inizio al progetto dell’Architetto. L’Ingegnere diventa colui che deve dare la solidità al progetto dell’Architetto ed assume un ruolo di progettista autonomo soltanto nei settori dei ponti e delle dighe, delle opere idrauliche e delle boniiche.

Parte I 4. I Cost rut t ori (1920-1940)

L’Architetto è per lo più il Progettista che esprime la bellezza interpretando i voleri e i gusti del Committente, capace di ideare opere sempre diverse una dall’altra e di dare risposta a esigenze le più differenti. È sempre meno coinvolto nella progettazione degli aspetti tecnologici, esecutivi, strutturali e impiantistici che vengono lasciati al Costruttore e ai suoi Ingegneri. Eccezione in questa diferenziazione di funzioni fra Costruttori, Architetti e Ingegneri fu Pier Luigi Nervi che, ripercorrendo la stessa strada professionale di Eifel, fu allo stesso tempo Costruttore, Ingegnere e Architetto creando nel 1920 la Impresa ing. Nervi e Nebbiosi (Nervi e Bartoli dal 1932) che gli permise di concorrere direttamente agli appalti e di realizzare le opere da lui stesso concepite in modo unitaria sia dal punto di vista dell’Architettura che di quello dell’Ingegneria. In Italia, nel ventennio fascista, il vento del rinnovamento architettonico entra prepotentemente nelle scuole e nelle manifestazioni culturali. Milano, con le sue strette relazioni con gli ambienti svizzero-tedeschi e il suo Politecnico, apre lo sviluppo edilizio ai principi di una immagine di economia e razionalità propri della Modernità.

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Figura 4.2 a. Giacomo Mat t èTr ucco, St abiliment o Fiat Lingot t o, Tor ino, 19171922; b. Er nest o Br uno La Padul a, Pal azzo dell a Civilt à it aliana, Eur, Roma, 1942; c. Enr ico Del Debbio, Foro Mussolini, Accademia di Educazione Fisica, 1927; d. Pier Luigi Ner vi, Teat ro August eo, Napoli, 1923-1929; e. Giovanni Muzio, Cà br üt a, Mil ano, 1922; f. Giovanni Muzio, Pal azzo dell’Ar t e, Mil ano, 1932-33; g. Marcello Piacent ini, Ret t orat o dell a Cit t à Univer sit ar ia di Roma, 1933-35; h. Marcello Piacent ini, Piazza dell a Vit t or ia, Brescia, 1932; i. Marcello Piacent ini, Pal azzo di Giust izia; Mil ano, 1933.

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Figura 4.3 a. Angiolo Mazzoni, Colonia mar ina di Calambrone, 1925-33; b. Giuseppe Terragni e Piet ro Linger i, Casa dei Rust ici, Milano, 1933-35; c. Giuseppe Terragni, Casa del Fascio, Como, 1932-36; d. Gio Pont i, Ist it ut o di Mat emat ica, Roma-Cit t a Universit ar ia, 1933-35; e. Giuseppe Pagano, Ist it ut o di Fisica, Cit t à Universit ar ia di Roma, 1933-35; f. Mar io De Renzi e Adalber t o Libera, Palazzo delle Post e, Roma 1933-34; g. Giuseppe Pagano e Giovanni Predeval, Universit à Bocconi, 1938-42;

Da una parte vi sono architetti come Marcello Piacentini e Enrico Del Debbio che hanno contribuito alla costruzione di una immagine del regime, ma le cui opere, dal punto di vista della qualità dei materiali e dei particolari costruttivi, testimoniano una grande capacità di Architetti Costruttori. Su un versante diferente possiamo collocare progettisti come Giovanni Muzio, Giuseppe de Finetti, Gio Ponti, che negli anni Venti e Trenta si muovono tra il recupero di una tradizione classica e il rinnovamento del “gusto moderno” condotto attraverso il confronto con la pittura del movimento “Novecento”. Muzio, professore alla Facoltà di Ingegneria del Politecnico di Milano, realizza nel 1933 il Palazzo dell’Arte, sede della Triennale di Milano: un severo corpo di fabbrica rivestito in mattoni klinker (è la prima applicazione italiana di questo nuovo materiale), contrappuntato da un ampio porticato ad archi, in granito rosso di Baveno, afacciato sul Parco Sempione. Ponti, architetto, designer, docente al Politecnico e fondatore della rivista “Domus”, oltre che autore nel dopoguerra del Grattacielo Pirelli, in questi anni interpreta il rapporto tra mo-

Parte I 4. I Cost rut t ori (1920-1940)

dernità e tradizione con registri espressivi molto variabili, testimoniati, nella sua Milano, da opere quali le “Case tipiche”, dense di atmosfere metafisiche, ed evidenti omaggi alle “forme della tecnica” come la Torre Littoria al Parco Sempione (firmata con l’ingegner Cesare Chiodi) e il Palazzo Montecatini. Infine, schierati con coraggio e chiarezza, ci sono i giovani Razionalisti che guardano all’Europa moderna, senza tuttavia rinunciare, nella formulazione del proprio originale linguaggio, ad una attenta interpretazione dei caratteri della classicità italiana come nella Casa del Fascio di Como di Terragni e la Casa delle Armi a Roma di Luigi Moretti. Il Razionalismo italiano raccoglie un gruppo di giovani architetti e di ingegneri che sviluppano un pensiero autonomo rispetto alla strada tracciata dai maestri del Movimento Moderno europeo. In Italia, la casa intesa come “macchina per abitare” ha una sua specifica e originale declinazione. “Non si è mai pensato di ispirarsi per l’architettura alla macchina: l’architettura deve aderire alle nuove necessità, come le macchine moderne nascono da nuove necessità e si perfezionano coll’aumentare di quelle. La casa avrà una sua nuova estetica, come l’aeroplano ha una sua estetica, ma la casa non avrà quella dell’aeroplano”. È il 1926 e questa coraggiosa dichiarazione, pubblicata sul numero di dicembre de La Rassegna Italiana, porta un titolo semplice e nobile: “Architettura”. Gli autori del testo sono sette giovani architetti, raccolti sotto la sigla del Gruppo 7: Ubaldo Castagnoli, Luigi Figini, Guido Frette, Sebastiano Larco, Gino Pollini, Carlo Enrico

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h. Piero Bot t oni, Proget t o di vill a l at ina, IV Esposizione d’ ar t e decorat iva e indust r iale moder na, Monza, 1930; i. Luigi Figini, Gino Pollini, Casa elet t r ica, IV Esposizione d’ ar t e decorat iva e indust r iale moder na, Monza, 1930; l. Giuseppe Vaccaio, Pal azzo delle Post e, Napoli, 1932-36; m. Gio Pont i, Pal azzo Mont ecat ini, Mil ano, 1936; n. Giovanni Michelucci, St azione Ferroviar ia, Firenze, 1932-35; o. Luigi Moret t i, Casa dei Balill a, Roma, 1932-37; p. Luigi Moret t i, Casa delle Ar mi, Roma, 1933-36.

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Figura 4.4 a. Giuseppe De Min, l a Cit t à di Tor viscosa, 1937; b. Concezio Pet r ucci, Mar io (Mosè) Tuf aroli, Emanuele Filiber t o Paolini e Riccardo Silenzi, l a Cit t à di Pomezia, posa pr ima piet ra, 1938; c. Eugenio Mont uor i, Alf redo Scalpelli, Luigi Piccinat o e Gino Cancellot t i, l a Cit t à di Sabaudia, 1933-35; d. BBPR, Piano regol at ore dell a Valle d’Aost a, 1936; e. Mar io De Renzi, Case convenzionat e in viale XXI apr ile, Roma, 1931-35; f. Luigi Moret t i, Piazzale dell’ Impero, Roma, 1937; g. Or iolo Frezzot t i, l a Cit t à di Lit t or ia, 1932; h. Marcello Piacent ini, Via dell a Conciliazione, 1938; i. Via dell a Conciliazione nel 1937

Rava e Giuseppe Terragni. Il loro obiettivo è redigere un manifesto per l’esprit nouveau dell’architettura italiana. Tre anni dopo, alla IV Esposizione internazionale d’arte decorativa di Monza, Luigi Figini e Gino Pollini realizzano, nel parco della Villa Reale, il progetto della “Casa Elettrica” patrocinata dalla ditta Edison. La ricerca di una nuova estetica dell’abitare, contro la retorica macchinista, si concretizza così in una straordinaria opera di architettura moderna, anche se semplice prototipo destinato a vivere soltanto per la durata dell’esposizione. Rigorosamente “razionale”, con finestre a nastro e tetto piano, questa “casa civile di campagna” presenta un elemento che caratterizza i migliori esiti del lungo sodalizio professionale avviato in questi anni dai due laureati del Politecnico di Milano: l’ampia vetrata-serra che definisce la facciata, si proietta nel soggiorno e, al tempo stesso, trascina all’esterno i luoghi del vivere quotidiano. La “Casa elettrica”, fin dal titolo, è dunque una geniale invenzione volta a risolvere l’ossimoro “casa-macchina” attraverso l’intervento della natura. Le Città di fondazione dell’era fascista furono l’occasione per gli Architetti di cimentarsi in progetti di Pianificazione Urbana su grande scala, mentre la modificazione continua delle città richiese

Parte I 4. I Cost rut t ori (1920-1940)

piani regolatori e nuovi quartieri residenziali. La valutazione storica di questi interventi è, ancor oggi, molto controversa: troviamo la città nuova di Sabaudia, esempio di moderna organizzazione territoriale e interventi devastanti e discutibili quali la via della Conciliazione in Roma. In ogni caso, bellezza, natura, storia, sono indubbiamente gli elementi costanti che animano i nuovi protagonisti del costruire italiano, indipendentemente dalla loro formazione universitaria. Per citare soltanto alcuni nomi che nel dopoguerra riceveranno un ampio riconoscimento internazionale grazie alla loro Architettura, vi sono laureati in Architettura come Gio Ponti, Franco Albini, Mario Ridolfi, Luigi Moretti, il gruppo BBPR e laureati in Ingegneria quali Ignazio Gardella, Pier Luigi Nervi e Luigi Carlo Daneri. Nel periodo fra le due guerre la politica autarchica fa scomparire le Costruzioni in acciaio: soltanto gli uffici tecnici delle Ferrovie dello Stato e dei suoi fornitori ne tramandano le conoscenze pregresse, ma non possono partecipare alla evoluzione internazionale del settore. Le volte della Stazione di Milano costituiscono una eccezione se si pensa che le pensiline della Stazione di Firenze, costruite negli stessi anni, sono in cemento armato. Per costruire la Torre Littoria a Milano fu necessario importare dal Belgio materiali e maestranze. Nello stesso periodo si consolida l’interesse degli Architetti più giovani verso l’Architettura degli Interni, dalla quale nascerà il De-

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Figura 4.5 a,b. Pont i sul Po delle Linee ferroviar ie Milano Bologna e Milano Genova; c. Ulisse St acchini, la St azione Cent rale di Milano (1931); d. Gio Pont i, Cesare Chiodi, La Torre Lit t or ia al Parco Sempione, 1933; e. Giovanni Michelucci, St azione di Sant a Mar ia Novella, Firenze, 19321935.

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Figura 4.6 1-Franco Albini e Giovanni Romano, Sal a

dell’oreiceria antica, VI Tr iennale di Mil ano, 1936 2-Franco Albini,

Stanza per un uomo, VI Tr iennale di Mil ano, 1936 3-Edoardo Per sico

e Marcello Nizzoli, Sala delle Medaglie, Palazzo dell’Arte, 1934 4-Luigi Moretti, Palestra del Duce, Roma, 1936-37 5-Angiolo Mazzoni, Stazione Ferroviaria di Siena, 1935 6-Edoardo

Persico, Negozio Parker, Milano, 1934.

sign che in Italia testimonierà, la stretta alleanza tra il mondo della creatività e la impresa difusa sul territorio, segreto del successo dell’Italian style.

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5. I Costruttori moderni

Lo st udio B.B.P.R.

(Belgiojoso, Bani, Peressut t i, Rogers).

Due idee innovative rendono possibile nell’immediato dopoguerra la nascita della prefabbricazione che rivoluziona le modalità di costruzione, della progettazione, della gestione del cantiere, dei tempi di realizzazione, della qualità e specializzazione della manodopera. Il calcestruzzo è un materiale che resiste bene a compressione ma non resiste a trazione. La sua integrazione con le barre di armatura metalliche richiede il getto in opera e quindi costi e tempi lunghi di maturazione. Il Cemento Armato Precompresso nasce in Francia, ne viene subito compresa la importanza da Colonnetti e la sua scuola torinese, trova immediatamente applicazioni in Italia ad opera di Ingegneri quali Aldo Favini, Riccardo Morandi, Silvano Zorzi. Duale al Calcestruzzo è l’acciaio: le sue zone compresse sono più deboli perché sono soggette a fenomeni di instabilità. Le strutture miste acciaio calcestruzzo nascono in Germania e vengono importate in Italia da Fabrizio de Miranda, allora direttore Tecnico della C.M.F. (Costruzioni Metalliche Finsider). Contemporaneamente nuove tecnologie modificano profondamente il mondo della progettazione strutturale e permettono la realizzazione di grandi opere con modalità impensabili fino a pochi anni prima. Gli elementi finiti nascono nel 1964 quando la NASA rivelò che un suo centro di ricerca stava sviluppando un programma di analisi strutturale. Al NASTRAN seguirono tanti altri programmi, ricerche, applicazioni in campo lineare e non lineare che rivoluziona-

Figura 5.1 a. Sezione in cement o armat o precompresso; b. St abiliment o indust riale prefabbricat o in calcest ruzzo; c. Pannelli di facciat a prefabbricat i; d. Sezione mist a in acciaio-calcest ruzzo; e. Sopraelevat a di Genova in st rut t ura mist a acciaio calcest ruzzo, 1965; f. St abiliment o indust riale prefabbricat o in acciaio.

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Figura 5.2 a. Element i Finit i, discret izzzazione di un cilindro; b. Element i Finit i, discret izzazione del lusso aerodinamico; c. Element i Finit i, discret izzzazione del lusso sanguigno; d. Element i Finit i, discret izzazione di un giunto cinematico; e. Le Twin Towers, New York,1972; f. Scavi di fondazione delle Twin Towers; g,h. Pali Radice, 1952; i. Fresa per lo scavo di una galleria; l. Realizzazione di una galleria e di un ponte aut ost radale; m. Fresa in azione.

no le metodologie alla base della progettazione in tutti i settori dell’ingegneria consentendo l’analisi di fenomeni estremamente complessi. Negli anni ’50, a Milano, la ICOS sperimenta le prime paratie in cemento armato realizzate in presenza di fanghi bentonitici. Si difonderanno in tutto il mondo. Una pubblicazione statunitense aferma: Le prime paratie in fanghi bentonitici furono costruite nel 1950 dalla società italiana Icos per poi essere usate in larga scala negli scavi nella costruzione della Metropolitana Milanese….. Le paratie in bentonite furono introdotte negli Stati Uniti nel 1960 da costruttori europei. Ai visitatori del cantiere delle Twin Towers veniva oferto un libretto che descriveva i lavori del primo grattacielo al mondo di 100 piani di cui gran parte era dedicata alla illustrazione della tecnica di scavo efettuato con paratie in bentonite dalla italiana ICOS. Nel 1952, a Napoli, Fernando Lizzi inventa i pali radice e la Fondedile li applica in tutto il mondo per consolidare costruzioni e le loro fondazioni, per restaurare monumenti ed ediici storici, per realizzare muri contro terra e sottofondazioni. Le grandi frese rivoluzionano il modo di costruire i tunnel sotterranei e permettono di modiicare i criteri di progetto dei tracciati autostradali. Prima della loro invenzione, ad esempio nella Auto-

Parte I 5. I Cost rut t ori moderni

strada del Sole, il tracciato era studiato in modo da minimizzare le lunghezze dei trafori anche se ciò causava lunghi viadotti e tortuosità e saliscendi della strada. Grazie alle frese, dagli anni ’70 i tracciati autostradali non seguono più le vallate e le gallerie sono spesso molto più lunghe dei ponti. Mutano le tecniche di cantiere a causa del progressivo incremento dei costi di manodopera. Il solaio di un qualsiasi edificio era costruito realizzando un piano in tavole di legno puntellato sul piano sottostante. Su di esso si disponevano i laterizi, si posizionavano le barre di armatura e infine si gettava il calcestruzzo. Il processo viene innovato con elementi di solaio prefabbricati, facilmente trasportabili, che non necessitano puntellazioni, almeno per interassi normali per gli edifici. La realizzazione di un ponte veniva da secoli eseguita costruendo centinature provvisorie. Il cemento armato precompresso e la struttura metallica permettono il “varo” del ponte, oppure la sua costruzione a sbalzo. La saldatura delle strutture metalliche ha sempre costituito una delle fasi più delicate della costruzione metallica, soprattutto se realizzata con lamiere di grande spessore. Le grandi saldatrici automatiche a controllo numerico permettono la realizzazione di grandi pezzi in officina in ambiente protetto e controllato.

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Figura 5.3 a,b. Solaio cost it uit o da lat erizio e t ravet t i di cement o armat o get t at o in opera; c,d Solaio cost it uit o da element i prefabbricat i aut oport ant i; e,f. Cost ruzione di un pont e ad arco dell’Aut ost rada del Sole; g. Fasi di varo di un pont e a t ravat a; h,i. Cost ruzione di pont i a sbalzo.

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Figura 5.4 a,b. Saldat ura di grandi t ravi a doppio T; c,d. Sezioni di pont i

realizzat e con last re ner vat e; e. Trasport o e mont aggio di element i di impalcat o di un

pont e sospeso; f. Impalcat o di un pont e in acciaio calcest ruzzo in fase di varo.

Figura 5.5 a. BBPR, Le Torr i Bianche, quar t iere IACP, Grat osoglio, Milano,1962-65; b. Skidmore, Owings & Merr ill, Torre di San Benigno, det t a il Mat it one, Genova,1992; c. Cent ro Spaziale del Fucino, Ant enna per Telecomunicazioni, 1965; d. Giovanni Michelucci,

Chiesa dell’Aut osole, Campi di Bisenzio, Firenze, 1964; e. linee ad Alt a Velocit à 1970-oggi; f. Vit t or io Gregot t i, Universit à della Calabr ia, 1961-70; g. Pierluigi Ner vi, Palazzo del Lavoro, Tor ino, 1969-70; h. Angelo Mangiarot t i, St abiliment o LEMA, Al zat e Br ianza, 1972; i. Ignazio Gardella, la Casa

delle Zat t ere, Venezia, 1953; l. Ignazio Gardella, Mensa Olivet t i, Ivrea, 1960; m. Franco Albini, La Rinascent e, Roma,1958; n. BBPR, Museo del Cast ello Sfor zesco, 1956; o. Franco Albini e Franca Helg, Museo di Palazzo Rosso, Genova, 1952-62; p. Carlo Scarpa, Negozio Olivet t i, Venezia, 1957-58.

Gli anni 1960 – 1980 sono un momento magico per i Costruttori, per gli Architetti, per gli Ingegneri. Si progettano e si realizzano interi quartieri residenziali, edifici per uffici, vere e proprie macchine per le nascenti telecomunicazioni, chiese, linee ferroviarie,

Parte I 5. I Cost rut t ori moderni

Figura 5.6 a. Diga a Keban, 1975; b. Diga a Sao Simao, 1981; c. Diga a Er t an, 1991; d,e. Smont aggio

e r imont aggio dei t empli di Philae, 1977-1980; f. Ferrovia Transgabonese, 1975; g. Riccardo Morandi, Pont e a Maracaibo, 1962;

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h. Riccardo Morandi, Pont e a Wadi el Kuf, 1965-71; i. Mont aggio di piat t aforme pet rolifere con la Micoper i 7.000 t onnellat e, 1980.

insediamenti universitari, musei e palazzi per esposizioni, edifici industriali. È il terreno favorevole per sviluppare creatività e innovazione perché si compete facendo valere la qualità del progetto e il contenimento dei tempi di esecuzione e dei costi.

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Figura 5.7 a. Marcello Nizzoli, Olivet t i, Let t era 22, 1950; b. Franco Albini, polt roncina Luisa, Poggi, 1950; c. Joe Colombo, Boby, B-line, 1969; d. Michele De Lucchi e Giancarlo Fassina, lampada Tolomeo, Ar t emide, 1986; e. BBPR, mobili

per uficio Spazio, Olivet t i, 1960; f. Achille e Piergiacomo Cast iglioni, lampada Arco, Flos, 1962; g. Angelo Mangiarot t i, macchina da cucire,

Salmoiraghi, 1957; h. Marco Zanuso e Richard

Sapper, televisore Algol, Br ionvega, 1964; i. Cesare Paolini e Franco Teodoro, Polt rona-

Sacco, Zanotta, 1968; l. Vico Magist ret t i, lampada Eclisse, Ar t emide, 1965; m. Mar io Bellini, divano Tent azione, Cassina,

1973; o. Afra e Tobia Scarpa, divano Soriana, Cassina, 1970; d. Gio Ponti, Superleggera, Cassina, 1957.

L’immagine internazionale del costruire italiano passa anche attraverso la costruzione di musei all’interno di palazzi storici; tra questi, vi sono veri e propri capolavori, come Palazzo Bianco e Palazzo Rosso a Genova di Franco Albini, i musei di Castelvecchio a Verona e di Palazzo Abatellis a Palermo di Carlo Scarpa, quello del Castello Sforzesco a Milano dei BBPR. Le Imprese di Costruzione italiane, assistite da consulenti Architetti e Ingegneri e dotate di uici tecnici e maestranze qualificate, diventano così competitive da vincere molte grandi commesse internazionali, producendo progetti e realizzazioni giudicate molto spesso di qualità superiore a quelle dei concorrenti europei e statunitensi. Dighe, ferrovie, ponti, piattaforme petrolifere, smontaggio

Parte I 5. I Cost rut t ori moderni

e ricostruzione di edifici dell’antichità sono il pane quotidiano dei Costruttori, dei loro Tecnici, dei loro subappaltatori. Gli anni 60-80 vedono anche la afermazione del Design che non è soltanto l’espressione di una rivisitazione creativa degli oggetti che caratterizzano la nostra vita quotidiana, ma va anche considerato come portatore di una diversa igura di Costruttore, capace di innovare e migliorare la spendibilità del proprio prodotto industriale. Gli Architetti trovano nel Design una nuova applicazione del binomio Utilità – Bellezza, mentre la Solidità viene declinata dagli Ingegneri nell’ainamento delle tecnologie produttive di nuovi materiali, nelle tecniche di produzione di oggetti sempre nuovi e diversi. I momenti magici durano lo spazio di un mattino. Nei decenni 80 – 90 molti grandi Costruttori scompaiono o cambiano ragione sociale e obbiettivi. Oggi non opera più chi ha costruito la sopraelevata di Genova, la diga di Kariba, il Ponte sospeso sul Bosforo, i grandi elettrodotti in tutte le parti del mondo, la torre Velasca, il Grattacielo Pirelli, il Ponte autostradale a Catanzaro, la Centrale Elettronucleare di Caorso. La concorrenza dei Costruttori cinesi e coreani si è fatta agguerrita: con costi di mano d’opera e di trasferta decisamente più bassi,

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Figura 5.8 a. Sopraelevat a di Genova, CMFCost r uzioni Met alliche Finsider - Livor no, 1965; b. Diga di Kar iba, Dot t . Ing. Giuseppe Tor no e C, 1955-59; c. Pont e sul Bosf oro, Ant onio Badoni S.p. A - Lecco, 1972; d. Elet t rodot t o di at t raver sament o dello St ret t o di Messina, S. A. E.-Societ à Anonima Elettriicazione, Mil ano, 1948-54; e. Torre Vel asca, Mil ano, SOGENE SpA, 1956-58; f. Torr i per elet t rodot t i, S. A. E. Societ à Anonima Elettriicazione, Milano, 1950-85; g. Grat t acielo Pirelli, Bonomi &Vecchi, Mil ano, 1955-60; h. Riccardo Morant i, Pont e Bisant is a Cat anzaro, SOGENE SpA,1962; i. Cent rale elet t ronucleare di Cor so, SOGENE SpA, 1970-78.

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essi cominciano a vincere appalti internazionali. I grandi Costruttori europei reagiscono alla nuova concorrenza ofrendo ai potenziali clienti arabi e nord africani vantaggi finanziari e/o investimenti in cambio di forniture pluriennali di olio e gas. Su questo fronte il sistema bancario e politico del nostro Paese si mostra disunito, debole e perdente nei confronti di inglesi, francesi, tedeschi e svizzeri. In Italia i Costruttori svuotano gli uffici tecnici. Le società di ingegneria, combattute dagli Ordini professionali, non decollano per dimensione e qualità e quindi non sono in grado di intercettare l’esodo di risorse umane depositarie delle conoscenze tecniche. In pochi anni viene perduta la maggior parte delle competenze che il nostro Paese aveva accumulato nel precedente ventennio.

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6. Oggi e (forse) Domani

Inquinament o a Londra

Nuove tematiche stanno riguardando Costruttori, Architetti e Ingegneri La prima riguarda l’utilizzo di nuovi materiali quali le fibre di carbonio: essi possono essere validamente impiegati soprattutto nel restauro dei monumenti e nei rinforzi strutturali di opere civili o industriali. La seconda riguarda vecchi materiali con nuove proprietà: calcestruzzi ad altissima resistenza sono ormai sperimentati in tutto il mondo, a Roma il Ponte della Musica ne costituisce un esempio; calcestruzzi bianchi e/o trasparenti sono una invenzione italiana il cui successo è documentato dal Padiglione Expo di Shangai e dalla Chiesa di Meier in Roma. La terza riguarda la richiesta di costruzioni per applicazioni non tradizionali quali ad esempio il telescopio spaziale XMM Newton per raggi X o il Large Binocular Telescope di Mont Graham in Arizona, in larga misura progettati e realizzati in Italia, il Radiotelescopio di 64 metri di diametro in costruzione in Sardegna, le paratie del M.O.S.E destinate a controllare l’acqua alta di Venezia, il Ponte sospeso di più di 3000 metri di luce che può unire territori quali Sicilia e Calabria o isole dell’Indonesia, il Tunnel flottante nell’acqua che forse sarà costruito per la prima volta in Cina. La quarta sfida è relativa al settore del Design: riuscire a pro-

Figura 5.1 a,b,c. Applicazioni dei tessuti di ibra di carbonio per rinforzi strutturali nell’edilizia, nel restauro dei monumenti, nell’edilizia industriale; d. Il Pont e della Musica, Roma, applicazione di calcestruzzi ad altissima resistenza; e,f. Il padiglione Italiano, Expo 2010, Shangai, Applicazione di cement i bianchi e trasparenti;

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g. Il progetto deinitivo del Ponte di Messina, 2011; h. Studio di fattibilità del Ponte di Archimede nel lago delle mille isole, Qiandao Lake, Cina, 2009; i. Richard Meier, chiesa di Dio Padre Misericordioso, Roma, 1998-2003; l. XMM Newton, telescopio spaziale per i raggi X, ESA, 1999; m. Large Binocular Telescope, Mont Graham, Arizona, USA, 1996-2008; n,o. Radiotelescopio della Sardegna, Pranu Sanguni, in costruzione; p. Le paratie del M.O.S.E., in costruzione.

gettare e produrre non solo oggetti di lusso, ma andare incontro all’esigenza di una massa di potenziali clienti con una forte dose di variabilità nel gusto, nella disponibilità economica e soprattutto nell’attaccamento a tradizioni e materiali diferenti da paese a paese. Il Design destinato ai Paesi in via di sviluppo è oggi uno dei settori più motivanti per le nuove generazioni di Architetti e Designers. Ma la vera sida è il rispetto dell’ambiente e il risparmio energetico. Oggi le emissioni di CO2 possono essere attribuite per un terzo al nostro modo di produrre beni e servizi, per un terzo al nostro modo di muoverci, per un terzo al nostro modo di vivere nelle nostre case e nei nostri ambienti di lavoro. Se poi si addebitano alle Costruzioni anche le emissioni necessarie per produrle, consegue che il nostro abitare è responsabile di circa la metà delle emissioni che inquinano il nostro pianeta. La grande sida per gli Architetti, Ingegneri e Costruttori è riuscire a produrre Costruzioni eco compatibili e comunque a basso o nullo consumo energetico. Non è una sida impossibile: in molti paesi sono già iniziate molte sperimentazioni soprattutto nei progetti volti a riutilizzare le grandi aree industriali dismesse per costruirvi

Parte I 6. Oggi e (f orse) Domani

nuovi quartieri, spingendo gli edifici verso l’alto, visto il valore che la nostra civiltà oggi annette ad ogni metro quadrato di suolo. Noi abbiamo competenze e alcune eccellenze in questo settore, pensiamo ai nuovi uffici 3M di Mario Cucinella, agli edifici più recenti di Renzo Piano, alle sperimentazioni che si stanno conducendo in diversi paesi sulla integrazione fra facciate e verde anche ibridando architettura e agronomia. Peraltro su questo tema si manifestano in Italia alcune criticità che non possono essere trascurate. La strutturazione degli studi professionali appare totalmente inadeguata ad afrontare tematiche così nuove, complesse e interdisciplinari. Il mercato non è disponibile a riconoscere un plus al prezzo di acquisto di abitazioni ecocompatibili, i Committenti immobiliari non sono disposti a sacriicare il loro guadagno che oggi dipende da fattori che con la qualità del progetto e della esecuzione hanno ben poco da spartire. Dopo questa carrellata di 150 anni di Costruttori, Architetti e Ingegneri in Italia si può terminare con una breve rilessione terminologica. Costruttore è una Impresa che costruisce prototipi unici e irripetibili che il cliente pretende funzionino perfettamente. Il Costruttore dovrebbe conoscere una vasta gamma di discipline e servirsi di operatori di diferente qualiicazione, dalla più umile alla più soisticata. Rispettare tempi e budget, avere un giusto proitto, costruire bene, è sempre stata una sida esaltante. Oggi, in un mondo complesso e burocratizzato, è diventata una sida quasi impossibile.

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Figura 6.2 a. Mar io Cucinella, Ufici 3M, Milano, 2010; b. Renzo Piano, California Academy of Sciences - San Francisco, 2008; c. Nuovo quar t iere Por t a Nuova, Milano, in cost ruzione; d. Pei, Cobb&par t ners, Paolo Caput o & par t ners, Nuovo Palazzo della Regione, Milano, 2008; e. Arat a Isozaki, Daniel Liebeskind e Zaha Hadid, Cit yLife, Milano, in cost ruzione; f. TR Hamzah & Yeang, EDITT t ower, Singapore, 1998.

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Architetto deriva dal grecoέ Aρχιτέκτων, parola composta da arkhi (capo), particella prepositiva che serve a denotare superiorità, autorità, quindi responsabilità, consapevolezza, e tékton particella relativa a un’azione tecnica. Per definizione un’opera architettonica è un unicum, l’ansia dell’Architetto consiste nel giustificare culturalmente la propria Opera nella speranza di legarvi il proprio nome a futura memoria. Ingegnere ha la sua etimologia nel latino ingenium, col suo duplice significato di congegno e capacità mentale. Ancor oggi gli ingegneri sono rimasti gli inzigneri del XIII secolo, carpentieri, capomastri, capi-cantiere, capaci di tracciare, calcolare, disegnare, assemblare, per permettere al Costruttore di realizzare il prototipo al quale l’Architetto spera di legare il proprio nome. Leslie Robertson, il progettista delle strutture delle Twin Towers ha definito con molta autoironia il mestiere dell’ingegnere: l’Ingegnere è colui che nessuno conosce se la Costruzione sta in piedi, tutti conoscono se la Costruzione crolla. All’Ingegnere, che dovrebbe sempre essere capace di dimostrare ogni sua afermazione si può anche adattare il titolo di una lettera famosa di Don Lorenzo Milani: per l’Ingegnere l’obbedienza non è una virtù. In deinitiva questa riflessione porta ad affermare che, nei prossimi 150 anni un Ingegnere, se lo desidera, potrà essere libero e continuare a fare uno dei mestieri più belli del mondo.

Parte II

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1. Il Ponte all’ Accademia di Venezia

Spesso è difficile, quasi impossibile, perseguire utilità, bellezza e solidità con un percorso condiviso dalla comunità sociale. La storia del Ponte all’Accademia di Venezia è caratterizzata dalla presenza di due strade parallele, percorse separatamente e in contemporaneo da Architetti e da Ingegneri. La prima è costellata da ponti definitivi mai costruiti, la seconda da ponti provvisori sempre esistiti. È una storia emblematica e attuale, per nulla provinciale, spesso anticipatrice di tematiche che oggi dibattiamo. Come risollevare l’economia della città? Centro chiuso o centro aperto al traffico? Tunnel o ponte sospeso? Ponte a campata unica o a più campate? Le opere pubbliche sono servizi per tutti o sono mezzi per arricchire una parte della collettività e procurarsi consenso? Quanto le conoscenze tecniche e scientifiche vengono usate per giustificare a posteriori decisioni prese in altre sedi? La storia parallela inizia nel 1828. Il Casarini in un documento «Sull’origine di Venezia e sui mezzi per impedirne la minacciata ruina» propone un ponte all’Accademia in aggiunta a quello di Rialto. Si schierano a favore i proprietari di immobili che sperano maggiori rendite dall’estensione del centro e dal miglioramento del tenore di vita nei quartieri oltre il Canal Grande. Si schierano contro i gondolieri timorosi di perdere il lavoro e i commercianti che usano i palazzi lungo il Canal Grande come magazzini e che desiderano mantenere gli approdi delle navi, allora alberate. Nel 1838, dopo 10 anni, l’ing. Salvadori, capo dell’Ufficio Tecnico, sulla spinta dei desideri dei proprietari riprende la proposta, ma

Figura 1.1 Pont e all’ Accademia Pont e di Rialt o Pont e al Giglio.

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sposta addirittura la localizzazione del ponte più avanti, al Giglio. Si propone dunque la chiusura del Canal Grande. Si possono immaginare l’ira e le minacce dei commercianti. Così la proposta viene accantonata, ma il problema continua a venire discusso fino a quando, dopo 5 anni (siamo nel 1843), viene proposto un compromesso che potrebbe accontentare tutti: un ponte sempre al Giglio, ma a tre campate, di cui una apribile per lasciare il passaggio dei velieri. L’idea sembra coagulare i consensi e il sindaco propone di bandire un concorso (premio 100 zecchini) per il progetto del ponte. In Consiglio Comunale tutti tacciono, fino a quando si alza il Consigliere Moncenigo che ingarbuglia la matassa chiedendo: «In nome della scienza che oggidì fa tanti progressi che si parli di attraversamento e non di ponte, che si costituisca una Commissione mista di tecnici e politici per studiare le tre soluzioni: tunnel, ponte sospeso, ponte ad archi apribile. Gli schieramenti sono chiari, i proprietari vogliono un ponte chiuso al Giglio, e in subordine un ponte chiuso all’Accademia. I commercianti vogliono un tunnel, e in subordine un ponte apribile all’Accademia. I gondolieri non vogliono attraversamenti pedonali di qualsiasi genere. La Commissione decide a stretta maggioranza (5 a 4) un ponte sospeso all’Accademia. A guidarla verso tale orientamento fu l’ing. Paleocapa con motivazioni contrarie alle altre soluzioni più che a favore di quella che sosteneva: no al ponte apribile per i costi di gestione elevati per i turni di guardiania; no al tunnel, «che non è singolare, altri ve ne sono più lunghi e profondi a Londra,… la spesa non è giustificata dalla singolarità dell’opera e dal suo richiamo». Nella discussione tutti dimenticano - se ne accorgerà il Salvadori quando dovrà fare le stime più tardi - che per realizzare il ponte sospeso, ancorandone i cavi, sarebbe necessario demolire due o tre case per riva. I proprietari sembrano aver vinto, e il Consiglio Comunale accetta le conclusioni. Subito si organizza la contestazione, si coalizzano gli inquilini che temono gli sfratti, i commercianti che vedono chiusi i loro magazzini, i gondolieri che temono per il loro lavoro. C’è il sistema bicamerale anche nello Stato Austriaco e la Congregazione Provinciale, chiamata a ratificare le decisioni del Consiglio Comunale, contro propone il compromesso precedente: ponte apribile a tre campate al Giglio. Poiché non vi è accordo politico locale, il problema arriva al governo centrale di Vienna che, visto il contrasto di opinioni, rimanda per la seconda volta la decisione a una commissione di tecnici, chiedendo giudizi sulla fattibilità del ponte sospeso, del tunnel, e del ponte apribile. Ma il governo fa di più. Mosso dagli oppositori del ponte, in-

Parte 2 1. Il Pont e all’ Accademia di Venezia

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sinua il dubbio che il ponte sospeso in ferro non sia sicuro e che forse «cederebbe sotto il peso immane della folla e del vento». I tecnici fanno studi e preventivi delle varie soluzioni. Paleocapa, fautore del ponte sospeso a campata unica, ancora una volta convince tutti con motivazioni più di natura politica che tecnica: «non si dica mai che per motivi di sicurezza non si può fare il ponte. I Veneziani farebbero una cattiva figura e darebbero prova di incapacità… la campata unica non impedirà la restituzione alla cittadinanza di quella antica costumanza - la regata storica - che farà correre i forestieri e darà lustro alle autorità. Nel 1848, dopo 20 anni dalla proposta iniziale, il Governo finalmente decide un ponte sospeso all’Accademia. I proprietari hanno vinto: cedono ai mercanti il pezzo di canale fra l’Accademia e il Giglio, ma sono riusciti a chiudere il Canal Grande fra l’Accademia e Rialto. Nel 1848, insieme alla decisione del Governo, arrivano anche l’insurrezione, la Repubblica, la carestia e il colera. E poi dopo ancora gli Austriaci. I tempi cambiano: si parla di ferrovie di navi a vapore senza grandi alberi, di approdi lagunari mentre le casse dello stato austriaco e dei veneziani sono vuote. Nel 1852 arriva Alfred Henry Neville, forte della sua reputazione di costruttore di una quarantina di ponti in ferro in giro per l’Europa. Inizia così il rapporto pubblico-privato. A una città povera,

Figura 1.2 Il pont e dell’Accademia di A.H. Neville: a. disegno di proget t o; b. vist a del pont e; c. la rampa di ingresso.

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ma bisognosa di servizi, Neville chiede la concessione di collegare le due rive del Canal Grande all’Accademia, sulla base di un progetto di ponte in ferro, facilmente rimovibile, una travata a luce unica di circa 50 metri, che colleghi Campo San Vidal del Sestiere di San Marco con Campo della Carità del Sestiere di Dorsoduro. Neville, con l’appoggio dei maggiorenti della città, riesce a passare indenne fra le proteste della Commissione dell’Ornato (l’attuale Sovrintendenza) e dei Veneziani. Costruisce il ponte in due anni, aggira il capitolato, contrabbanda per prova di carico contrattuale, una prova parziale con un quarto del carico. Il 17 novembre 1854, il Podestà Giovanni Correr pubblica l’avviso alla cittadinanza: “In dispendenza all’autorizzazione impartita dall’Eccelsa I.R. luogotenenza col Decreto 16 corr. N.30781, ed alla conseguente Ordinanza dell’I.R. Delegazione N.22501, l’apertura al publico passagio del ponte in ferro attraversante il Canal Grande fra S. Vitale e la carità, avrà luogo alle due pomeridiane di Lunedi 20 corrente, col diritto all’assuntore del ponte Sig. Neville di conseguire a titolo di pedaggio l’importo di Cent. 3 per cadaun passeggiero, tanto per l’andata che pel ritorno, si del giorno come di notte”. Il pedaggio del ponte fa ricco Neville che installa a Venezia, a San Rocco, la sua carpenteria metallica per produrre ponti in grande parte nell’Italia settentrionale. Nonostante le premesse, il ponte funzionò per 80 anni, venne attraversato anche da trentamila persone al giorno. Fu però detestato dai veneziani che lo considerarono un essere estraneo al loro paesaggio; nel 1920, dopo un secolo di storia e di controversie, terminata la prima guerra mondiale, la popolazione cominciò a chiedere di abbattere il ponte per farne uno più artistico e soprattutto per distruggere «il brutto retaggio austriaco», come suona una petizione al prefetto. Nel 1926 si istituisce la solita Commissione, col compito di dare un parere su tre questioni: a) se il ponte possa essere fatto in calcestruzzo e se questo «possa essere considerato un materiale durevole e atto al Canal Grande»; b) se la pietra fosse il materiale più adatto; c) se il tunnel fosse proponibile. Dopo 5 anni la Commissione non è ancora arrivata a una conclusione, ma il ponte di Neville è visibilmente pericolante; la Badoni di Lecco propone di rinforzarlo, ma le autorità politiche trovano ancora il compromesso: bandire un concorso di idee per il ponte definitivo e nel frattempo realizzare un ponte provvisorio in legno.

Parte 2 1. Il Pont e all’ Accademia di Venezia

Il concorso si esaurisce velocemente, nel 1933 viene decretato come primo classificato il progetto dell’architetto Duilio Torres, secondo l’arch. Faggioli con il prof. ing. Danusso, terzo l’arch. Cesare Pascoletti. Tra i non classificati, l’arch. Agnoldomenico Pica propone un ponte di vetro sostenuto da travi in ferro, un’idea innovativa, molto veneziana, che verrà ripresa 50 anni dopo da Luciano Vistosi. Il ponte di Torres non verrà costruito; per una seconda volta il ponte provvisorio continuerà ad esistere. Il ponte provvisorio fu progettato dall’ing. Eugenio Miozzi, Capo dell’Ufficio Tecnico. Nel disegno originario i parapetti a liste inclinate, erano ispirati al ponte in legno rappresentato nel 1494 da Vittore Carpaccio nel Mistero della Croce. Da buon ingegnere Miozzi cura la disposizione dei controventi in pianta e trasversali tra gli archi, i collegamenti della sovrastruttura, le modalità costruttive e il collaudo. Nel contempo Miozzi conosceva bene i tempi e le indecisioni della Pubblica Amministrazione; sapeva che non c’è nulla di più definitivo del provvisorio. Egli era un ottimo ingegnere e conosceva bene i problemi tecnici connessi alla durabilità delle costruzioni. Pertanto progettò un ponte provvisorio in legno per cui un qualunque pezzo fosse facilmente sostituibile con un semplice e ingegnoso sistema di staffe e tiranti. Il ponte in legno viene costruito a fianco del ponte di Neville per assicurare la continuità dell’attraversamento. Una volta terminato e collaudato, il ponte in ferro abbandona il suo onorato servizio fra gli applausi della gente. Al suo posto vi è, sempre provvisorio, un arco slanciato, integralmente in legno che mostra la sua struttura controventante orizzontale a chi lo osserva dal canale. Il ponte di Miozzi entra così a far parte del paesaggio del Canal Grande.

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Figura 1.3 Proget t i del concorso del 1933: a. arch. Torres; b. arch. Faggioli; c. arch. Pascolet t i; d. arch. Agnoldomenico Pica.

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Figura 1.4 a. Vit t ore Carpaccio, Il mist ero della Croce.

Figura 1.4 Il pont e provvisorio in legno del Miozzi: b. vist a e piant a; c. parapet t i, cont rovent at ure e sezioni; d. disposit ivo per sost it uzione le part i di legno ammalorat e.

Purtroppo il sistema di manutenzione del Miozzi non viene usato e nel 1948 il ponte è quasi completamente marcio e insicuro. Sempre provvisorio e sempre definitivo viene ricostruito, uguale dal punto di vista formale, ma profondamente diverso dal punto di vista strutturale: gli archi sono in ferro, mancano i controventi orizzontali; di legno sono le croci diagonali delle pareti verticali solidali con il legno che riveste gli archi in ferro. La mancanza di controventi orizzontali si fa sentire subito e iniziano continui interventi nel tentativo disperato di stabilizzare il ponte con travi e croci di ferro saldate in qualche modo ai cassoni di ferro. Ma il legno, a contatto col ferro, si consuma: nel 1984, durante il Carnevale, sotto il peso della folla, il ponte comincia a oscillare paurosamente e viene chiuso dalle autorità. Venezia è priva di un attraversamento che le è ormai necessario. Rincomincia il balletto delle proposte e decisioni sul ponte definitivo e il ponte provvisorio. Luciano Vistosi, coadiuvato per la par-

Parte 2 1. Il Pont e all’ Accademia di Venezia

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Figura 1.5 1933: il pont e in legno di Miozzi cost ruit o e in cost ruzione e il pont e in acciaio di Neville che viene allont anat o.

Figura 1.6 1948: rifaciment o del pont e provvisorio con 4 archi in ferro rivest it i di legno.

te ingegneristica dalla Società Snamprogetti dell’ENI, propone un ponte definitivo in vetro e acciaio, il cui modello viene esposto a Tzukuba alla Esposizione mondiale del 1985. Il Comune decide di ricuperare il ponte provvisorio dando l’incarico a Giulio Ballio del Politecnico di Milano, Giuseppe Creazza e Luciano Jogna dello IUAV di Venezia e Giancarlo Turrini dell’Università di Padova. La Biennale indice, nell’ambito del Progetto Venezia, un concorso di idee per il ponte definitivo. Del centinaio di progetti ne vengono selezionati fra i più differenti, i ponti «struttura» di Manuel Schupp o di Knut Longua; i ponti «monumento» di Franco Purini o di Renato Nicolini. Infine, il ponte di Bob Venturi ha il maggior

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Figura 1.7 Il pont e in vet ro di Luciano Vist osi.

Figura 1.8 I pont i del concorso 1985: a. M. Schupp; b. K. Longua; c. F. Pur ini; d. R. Nicolini; e. B. Vent ur i.

successo: esso rappresenta la rivincita dell’architetto che rivendica la possibilità di creare l’immagine del ponte, inevitabilmente costruito da ingegneri. Il progetto di Venturi prescinde da ogni considerazione sulla realizzazione del ponte, sia esso nuovo, esistente, in ferro, in

Parte 2 1. Il Pont e all’ Accademia di Venezia

calcestruzzo, in legno o in vetro; lo immagina rivestito con materiali e disegni che possono variare e avvicendarsi nel tempo, mutandone di continuo l’aspetto. Il ricupero del ponte provvisorio non è, come qualcuno ha polemicamente chiamato, una ricostruzione infedele della copia del 1948 del ponte di Miozzi del 1933. È solo l’opera di quattro ingegneri che sono stati chiamati a recuperare una costruzione pericolante e a cui era stato dato il mandato di ridare ai Veneziani, nel più breve tempo possibile, un ponte esattamente eguale al precedente, come era e dove era. Il legno era marcito, quasi inesistenti e comunque irrimediabilmente compromesse erano ormai la quasi totalità delle giunzioni fra il legno e il ferro. Le ispezioni dentro gli archi metallici e sul materiale dettero risultati confortanti. Alcuni calcoli preliminari ci confortarono e iniziammo a smontare il ponte, certi della possibilità di recupero degli archi portanti. Tolto il legno apparve uno spettacolo abbastanza desolante: tutte le strutture secondarie in ferro (che a differenza degli archi non erano state protette) apparvero profondamente corrose. Corrosi erano i tenditori che legavano il legno al ferro, disastroso era lo stato delle sovrastrutture che vennero ammucchiate e allontanate dal ponte, assieme a quanto era stato aggiunto in fasi di successive nel disperato tentativo di stabilizzare il ponte. Apparve chiaro quanto era successo: saldature non medi-

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Figura 1.9 a. legno marcit o del rivest iment o degli archi in acciaio; b. corrosione negli archi in acciaio; c. riduzione del diamet ro dei t endit ori da 20 a 8 millimet ri; d. rot t ami delle sovrast rut t ure in acciaio.

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Figura 1.10 1985: piant e, sezioni e part icolari degli int ervent i.

tate e profilati disposti in modo da creare ristagni d’acqua avevano causato profonde fessurazioni e inneschi di corrosione con conseguenti diminuzioni di spessore anche notevoli. Ove l’acqua non ristagnava o le sezioni erano chiuse il comportamento dell’acciaio era stato perfetto; dove la mano dell’uomo era intervenuta senza alcuna preoccupazione delle conseguenze, la situazione era pessima. Questa è un’ottima lezione per i progettisti: l’acciaio permette adeguate modifiche al progetto originale e interventi talvolta radicali; bisogna però sempre pensare che questi interventi possono minare la durabilità della struttura su cui si interviene. Gli archi in ferro vennero ovviamente mantenuti, bonificati con interventi localizzati; la nuova struttura doveva riguardare le diagonali di collegamento nel piano orizzontale e verticale e la sovrastruttura di appoggio del pavimento in legno e dei gradini che doveva appoggiarsi agli archi. I criteri informatori della progettazione furono: • uso sistematico di proili completamente aperti a T, con l’anima rivolta verso il basso in modo da non creare mai zone di ristagno d’acqua, oppure, in alternativa, completamente chiusi; • studio della disposizione geometrica dei proili al ine di evitare zone di ristagno (ad es.: i pettini disposti sull’estradosso

Parte 2 1. Il Pont e all’ Accademia di Venezia

dell’arco destinati a ricevere le membrature della sovrastruttura ortogonale agli archi lasciano la possibilità di deflusso dell’acqua lungo l’arco anche in presenza di incroci degli elementi strutturali; • impiego sistematico della saldatura come mezzo di collegamento tra i nuovi elementi metallici; • saldature estese a chiusura completa di tutti i bordi per evitare possibilità di innesco di fenomeni corrosivi; • collegamenti statici tra nuove strutture e strutture esistente degli archi con bullonatura per evitare la introduzione di stati di coazione nell’arco in considerazione delle proprietà chimiche dell’acciaio esistenti. (probabilmente prodotto subito dopo la guerra da residuati di rotaia); • stuccatura con appositi sigillanti a base di resine epossidiche di piastre e teste dei bulloni per evitare fenomeni corrosivi; • adozione di un ciclo inale di protezione di tutte le strutture metalliche con prodotti di sicura affidabilità, particolarmente studiati per offrire adeguate garanzie. Dopo la realizzazione di una passerella provvisoria e l’eliminazione delle parti ammalorate, le piastre furono bullonate agli archi e ad esse vennero saldati le diagonali verticali e i controventi orizzontali. Furono quindi collegate le sovrastrutture, i controventi trasversali e quelli orizzontali dell’impalcato.

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Figura 1.11 1985: il pont e in ricost ruzione.

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Nel 1986 la vita di questo ponte entrò così in una nuova fase: nato tutto in acciaio nel 1850, fu tramutato in legno nel 1930, fu costretto a un matrimonio mal riuscito fra ferro e legno nel 1948 e dopo quarant’ anni si è ritrovato con uno scheletro tutto in acciaio, avvolto da una pelle di legno. Ma la storia del Ponte continua: la mancanza di manutenzione del legno ha manomesso gli strati di vernice ignifuga, mozziconi di sigaretta e ad atti vandalici innescano ammaloramenti e bruciature localizzati. Nel 2009 il Comune di Venezia bandisce la gara Ponte dell’Accademia: nuovo disegno per un ponte accessibile con oggetto la ricerca di soggetti interessati a stipulare un contratto di sponsorizzazione finalizzato alla progettazione, con relativa direzione lavori e coordinamento della sicurezza, e all’esecuzione dei lavori di rifacimento delle sovrastrutture del Ponte dell’Accademia con relativo collaudo. L’impresa bolognese Schiavina propone un progetto predisposto dagli architetti Giovanna Mar e Alessandro Maratta che prevede l’impiego di vetro, acciaio e pietra di Ischia. Si ritorna alle vicende dell’800: a Venezia la Sovrintendenza dà parere favorevole al progetto, ma il Comitato di settore per i Beni Architettonici del Ministero dei Beni Culturali (a Roma e non più a Vienna!) chiede il mantenimento dello stesso tipo di superficie e della visuale attuale, fa notare che i parapetti pieni previsti dal nuovo progetto e l’impatto delle grandi rampe per il passaggio dei disabili alterano sostanzialmente l’aspetto ormai storicizzato del ponte dell’Accademia.

Figura 1.12 Il pont e all’Accademia: a. il pont e provvisorio at t uale; b. il proget t o Schiavina del ponte deinitivo.

Ogni storia ha una fine e una morale. Come progettista di un pezzetto di vita di questo ponte mi piacerebbe tanto conoscere la fine della storia, se mai ci sarà: il ponte sempre esistito diventerà il ponte definitivo mai costruito? Possiamo invece già cogliere la morale di questa storia quasi bi centenaria: la tecnica ritiene banale questo ponticello di 50 metri di luce, la tecnica si interessa dei ponti di 1.000, 2.000 e oggi anche 3.000 metri di luce. Eppure bisogna riconoscere quanti valori uma-

Parte 2 1. Il Pont e all’ Accademia di Venezia

ni questa piccolo ponte ha saputo evocare in tempi anche recenti. Dobbiamo sempre ricordare che i valori legati alla nostra cultura possono essere diversi da quelli legati alla nostra tecnica e dobbiamo saper cogliere quanto la nostra cultura ci chiede senza asservire le nostre conoscenze alla giustificazione di scelte che alla cultura non appartengono.

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2. La Torre del Parco Sempione a Milano

Nella costruzione di un edificio alto come una torre, la solidità comporta tali problemi da far passare in secondo piano la bellezza. L’architetto produce una immagine, ma è costretto a lasciare all’ingegnere, direttore dei lavori coadiuvato dal costruttore, ogni aspetto della realizzazione. Si perde spesso la collaborazione fra le due figure professionali e spesso nascono discussioni più o meno velate circa l’attribuzione della paternità dell’opera: il progettista è convinto della sua primogenitura perché ha proposto una forma, il direttore dei lavori cerca di diventare il protagonista perché, lui solo, ha reso possibile la costruzione. La torre Littoria, successivamente chiamata Torre del Parco e oggi Torre Branca è l’unica superstite di quattro Torri, tutte nate con la stessa funzione: essere l’emblema di una Esposizione, avere un belvedere dal quale i visitatori potessero ammirare dall’alto l’Esposizione, essere dotate di un ascensore per accedere al belvedere, avere un faro che potesse illuminare l’Esposizione di sera. In ognuna di esse l’ascensore fu realizzato dalla Stigler e il faro dalla Salmoiraghi. Nel 1881, accordata, fra molte controversie, l’occupazione dei Boschetti e di molta parte dei Giardini, si svolse l’Esposizione Nazionale. In questo ambito la Torre, da una parte, fu centro di notevole attrazione per il pubblico, dall’altra, per motivi legati alla ristrettezza dei tempi esecutivi, non rappresentò una innovazione

Figura 2.1 a. Torre ai Giardini, Mont e Merlo, 1881; b. Torre St igler al Parco, 1894; c. Torre della Mar ina, 1906; d. Torre Lit t or ia al Parco, 1933.

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per l’impiego di nuovi materiali e/o schemi strutturali. Riferiva il cronista di allora. «Fra i divertimenti creati intorno all’esposizione vi sono la ferrovia elettrica e la Torre Ascensore. Questa torre è stata ideata dal dr. Giuseppe Marzari di Imola e studiata dagli ingg. GuzziRavizza & C. Ne furono costruttori per la muratura il sig. Peregrini, per la parte in legno la ditta Brambilla e Cortesi, per la torre in ferro che è in alto, i Fratelli Baleydier di Sampierdarena. La torre consta di due parti: la prima alta 18 m, la seconda 12 sicché la torre ha un’altezza totale di 30 m. Secondo il progetto doveva essere alta più di 40 m e costruita tutta in ghisa con grandi anelloni sovrapposti, ma i ritardi che corsero tra idea e approvazione definitiva del progetto portarono via mesi preziosi e non si fece più in tempo ad applicare il primitivo progetto. Allora si pensò di sostituire alla ghisa il legno, il ferro e il cotto, e oggi, solidamente piantata sulla sua base si erge bruna e maestosa vicino alla collinetta di Monte Merlo. Il diametro della torre è di 10 m alla base. Salendo per una rampa assai comoda tutta a finestre, si gode uno svariato panorama, il quale s’allarga sempre più. Sicché vedi prima i soli giardini, poi le gallerie dell’Esposizione, quindi le guglie del Duomo e quando sei sulla piattaforma, che ha una circonferenza di 36 m, vedi sotto Monte Merlo, più in là la birreria Stabilini e Sarini, il padiglione del Club Alpino, la casa russa del Canetta... Sulla piattaforma stanno comodamente da 250 a 300 persone e disposti intorno si veggono molti cristalli colorati che fanno cambiare il panorama e lo mostrano ora sotto la calma e poetica luce azzurrina, ora sotto il giallo splendente del sole, ora fra il vivo rosso dell’incendio...» (da «Esposizione Italiana del 1881» di Sonzogno). Nel 1894 vennero organizzate le Esposizioni Riunite, un’unica grande manifestazione che comprendeva in sé 11 settori diversi. Teatro di questa iniziativa fu il nuovo Parco, ancora in costruzione secondo il progetto di Emilio Alemagna, approvato nei 1891. Per l’occasione furono ultimati i lavori di sistemazione a giardino della zona centrale e l’abbattimento del fatiscente muraglione della Ghirlanda. La superficie coperta fu di 60.000 m2, gli espositori 6.000 di cui 1200 stranieri. A fianco ai padiglioni d’ingresso, opere prevalentemente in legno per limitare i costi, venne realizzata la Torre Stigler. Alta 50 metri, interamente in acciaio, aveva una fondazione in muratura che conteneva la macchina motrice idraulica mossa dalla pressione

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dell’acqua: diventò simbolo della nuova tecnologia e unico manufatto superstite della manifestazione. Si può ritrovare la sua indicazione sulle piante dell’esposizione del 1906. Innocente Carnassi, così descrisse quest’opera. «L’ing. Sig. Stigler ha innalzata una torre in ferro e muratura alta una cinquantina di metri, in mezzo alla quale un ascensore porterà i visitatori in alto per contemplare il panorama della Esposizione. Sarà questa la piccola Tour Eiffel della mostra di Milano. In cima è costruita una piattaforma circondata da una ringhiera, dove i visitatori potranno soffermarsi. La base della torre è di 49 m2. L’ascensore occupa uno spazio di m 1,7x3,1». Il completamento dei lavori del traforo del Sempione fu l’occasione per la Esposizione Internazionale del 1906. Per celebrare l’avvenimento che veniva a facilitare notevolmente le comunicazioni tra Milano e il Nord Europa, il Comune, su proposta della Lega Navale Italiana, pensò di organizzare una mostra internazionale sui mezzi di trasporto che potesse far conoscere al grande pubblico le macchine e le tecniche architettoniche e ingegneristiche utilizzate nella grande impresa. Ai padiglioni dedicati ai mezzi di trasporto terrestri e marittimi furono affiancate sezioni riguardanti l’aeronautica, le belle arti, le arti decorative, ecc. L’iniziativa suscitò grosso interesse non solo in Italia ma anche all’estero: la superficie del Parco inizialmente destinata risultò insufficiente e fu necessario aggiungere anche la nuova Piazza d’Armi collegando queste due aree, distanti circa 1 km, con un trenino elettrico su viadotto sopraelevato. Pure in questa Esposizione è possibile individuare, nell’ambito dei padiglioni della Marina, una Torre opera degli architetti Bianchi, Magnani e Rondon., realizzata con intelaiature metalliche portanti e rivestita di paramenti murari di stile antiquato, forse ridondanti di motivi obsoleti. Rileggendo una rivista di allora (Edilizia Moderna) si trova: «Era uno dei più caratteristici edifici dell’Esposizione; una grande torre a guisa di faro ne decorava il prospetto principale, che si svolgeva sul piazzale d’onore in Piazza d’Armi proprio di fronte alla stazione d’arrivo e un vero faro a tre proiettori elettrici della ditta Salmoiraghi di Milano, era installato nel cupolino sovrastante la torre e alla sera proiettava tre immensi fasci di luci a grandissima distanza. Costruttrice del fabbricato fu l’impresa Rizzi e Ranza; le decorazioni del fregio esterno e rappresentanti tutta una lunga fuga di bandiere da nave, furono affidate al pittore Cirolla, l’im-

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pianto di ascensore per salire alla sommità del faro venne eseguito dalla ben nota ditta Stigler di Milano». Dopo la prima guerra mondiale si ritrovano le Triennali, manifestazioni analoghe alle precedenti, anche se in esse si afferma progressivamente una nuova tendenza: superare l’effimero e imporsi come occasione di verifica e di ricerca di soluzioni nuove nel campo artistico, architettonico e tecnologico, nell’ambito di un dibattito culturale globale legato alla vita quotidiana. L’iniziativa nacque nel 1923 come «decorativa» per opera di un consorzio tra Comuni di Milano e Monza e Società Umanitaria e fino al 1930 si svolse a Monza presso la Villa Reale e il suo Parco. In quell’anno si trasformò da Biennale a Triennale, cambiò denominazione diventando «decorativa e industriale moderna» e venne iscritta dallo Stato al Bureau International des Expositions di Parigi conquistando così risonanza internazionale. In modo particolare la V Triennale, svoltasi nel 1933, costituì un momento innovativo rispetto alle Triennali precedenti per almeno due motivi: il primo riguardava la collocazione, ridiventando teatro della mostra il Parco di Milano; il secondo era associato all’ingresso ufficiale nella manifestazione dell’architettura con una grande rassegna internazionale dei più insigni architetti stranieri contemporanei e la costruzione di una trentina di opere sperimentali di giovani architetti italiani. Ancora una torre fu scelta come emblema della Esposizione. Il 28 ottobre 1932 il Duce, durante la sua visita a Milano, assegnò i limiti all’altezza che non doveva superare i 109,36 metri della testa della Madonnina del Duomo: «Non si può superare il divino con l’umano». L’amministrazione comunale incaricò il prof. Ing. Cesare Chiodi della Regia Scuola di Ingegneria di Milano per la direzione generale dei lavori di costruzione della torre. Gli scavi iniziarono il 15 gennaio 1933 e l’inaugurazione avvenne il 10 agosto dello stesso anno. Gli scritti sulla Torre Littoria risentono inevitabilmente della retorica, oggi diremmo autoreferenziale, che caratterizzò quel periodo della storia del nostro paese. Sul Popolo d’Italia del 10 agosto 1933 si legge: Nel segno e nel nome del Littorio, Milano lancia incontro al cielo la sua torre tutta d’acciaio. Un faro la sormonta: palpito vivo di una idea che qui ebbe la sua prima fonte di luce; saluto insonne della città primigenia all’Uomo che veglia sui destini della patria.

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È anche interessante leggere quali fossero le ragioni allora percepite per riconoscere l’opera come particolarmente innovativa. Sempre nello stesso giornale si legge: La Torre Littoria che si inaugura oggi nel Parco assicura a Milano alcuni primati che rendono ardita e moderna costruzione molto interessante anche dal lato tecnico e industriale. Per la prima volta si erige in Europa una torre di oltre cento metri esclusivamente composta di elementi tubolari saldati elettricamente; per la prima volta è stato costruito e posto in esercizio pubblico un ascensore capace di una velocità ascensionale di metri tre al secondo: ciò che lo rende il più veloce del vecchio continente; per la prima volta in Europa una torre regge a cento metri dal suolo una doppia cabina nella quale è sistemato un ristorante con tutti i servizi inerenti al suo perfetto funzionamento: cucina elettrica, acqua calda e fredda, telefono pubblico, montacarichi di servizio, ecc., ecc. Tutto ciò rende, anche dal punto di vista turistico, la Torre Littoria una creazione destinata a suscitare l’interesse delle folle. Dalla sua sommità l’occhio può spaziare su tutta la verde Lombardia giungendo oltre al Po, fino alla linea evanescente degli Appennini e a nord abbracciare la meravigliosa catena alpina oltre il suntuoso scenario della Brianza, tappeto di smeraldo tempestato da mille paesi civettuoli….… Sulla Torre Littoria è piazzato un faro a lunga portata, già in funzione, che spinge il suo raggio ad oltre trenta chilometri dalla fonte luminosa. Oggi queste motivazioni ci fanno sorridere non solo per le espressioni ridondanti, ma soprattutto per il loro contenuto. Oggi la saldatura elettrica e i tubi in acciaio sono presenti in tantissime costruzioni, gli ascensori veloci non ci sorprendono, non chiamiamo ristorante un locale di 40 m2 con una cinquantina di sgabelli, l’inquinamento dell’aria non permette la visione che viene descritta se non in pochissime giornate all’anno, il faro sarebbe sempre spento per non disturbare il traffico aereo. Oggi la Torre del Parco è considerata unica e innovativa perché anticipa di quasi mezzo secolo la generazione delle costruzioni maggiormente sensibile ai cimenti dinamici del vento: essa infatti è una costruzione alta, è dotata di un parametro di snellezza estremamente elevato, è leggera come forse nessun’altra struttura di analoga tipologia e destinazione, è caratterizzata da proprietà dissipative quanto mai limitate. Negli edifici alti, quali i grattacieli e le torri, più che l’altezza conta la snellezza, cioè il rapporto fra l’altezza della costruzione e la

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Figura 2.3 a. Torre Burj Kalif a, Dubai, 2010; b. Torre CN, Toront o, 1976; c. Willis Tower, Chicago, 1974; d. Torre Eif fel, Par igi, 1889 e. Torre Isozaki, Milano, in proget t o; f. Torre Lit t or ia, Milano, 1933.

dimensione della sua base. È questo rapporto che determina la sensibilità della costruzione agli effetti dinamici indotti dalle raffiche di vento e dalla scia di vortici che può staccarsi dagli angoli dell’edificio. Le azioni eoliche possono indurre sollecitazioni che risultano determinanti nei confronti delle verifiche di stabilità dell’edificio, ma soprattutto possono produrre oscillazioni che, con il loro perdurare nel tempo, possono indurre fastidio o addirittura sofferenza negli abitanti. Per questa ragione gli edifici residenziali e per uffici sono più “tozzi” cioè hanno una snellezza minore, delle torri destinate ad un pubblico di soli visitatori. Accelerazioni “fastidiose” devono essere correlate ad eventi eolici eccezionali negli edifici alti frequentati abitualmente per abitare o lavorare; nelle torri possono essere correlate ad eventi eolici più frequenti perché, al massimo, possono creare qualche disturbo alle telecomunicazioni e/o imporre per qualche ora la chiusura di un belvedere e/o di un ristorante. Mettiamo in ordine di altezza dell’ultimo piano e quindi al netto di antenne e superfetazioni alcune costruzioni. Il più alto grattacielo costruito è oggi il Burj Khalifa (Dubai, 2010) per il quale la copertura dell’ultimo piano è a 636 metri di altezza. La CN Tower (Toronto, 1976) è alta 553 metri, la Willis Tower (Chicago, 1974, già Sears Tower) è alta 443 metri, la Tour Eiffel (Parigi, 1889) svetta a 327 metri. La torre Isozaki in progetto a City Life a Milano (202 metri) e la Torre Littoria (109 metri) appaiono dei topolini al confronto di tali giganti. Ma se guardiamo la snellezza, sinonimo di problematicità nei confronti del vento, lo scenario cambia totalmente. La Tour Eiffel diventa il topolino, mentre la Torre Littoria diventa la prima della classe anche se la CN di Toronto è cinque volte più alta; la Burj Khalifa è simile alla Willis Tower anche se è

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alta quasi una volta e mezzo; l’edificio destinato ad uffici di Isozaki è alto meno di un terzo della Burj Khalifa, ma rappresenta un unicum mondiale perché la sua snellezza è ben più elevata di quella dei normali grattacieli ed è persino maggiore di quella della CN di Toronto. Ne deriva la necessità di specifici dispositivi capaci di aumentare lo smorzamento della costruzione, quali quelli progettati nelle aste inclinate. Un opera tanto nuova per i suoi tempi e tanto ardita da un punto di vista della sua solidità a chi va attribuita? Navigando su internet si scopre che il progetto della Torre è di Giò Ponti architetto e solo raramente viene citato Cesare Chiodi ingegnere. Se viceversa si leggono le testimonianze del 1933 appare un quadro completamente diverso: Chiodi è ritenuto l’autore di una costruzione così prodigiosa e Giò Ponti un collaboratore quasi secondario. Anche Casabella (n. 8-9 del 1933) diretta da Giuseppe Pagano con Edoardo Persico redattore, già nel titolo La Torre Littoria degli ingg. G. Chiodi e E. Ferrari, e dell’arch. Gio Ponti antepone gli ingegneri all’architetto. Nell’articolo è scritto: L’ing. Prof. Cesare Chiodi ha assunto la responsabilità dell’opera, il controllo del progetto della calcolazione e la direzione di tutti i lavori. L’architetto Gio Ponti ha disegnato la linea della Torre e curato con la collaborazione dell’arch. Tommaso Buzzi l’arredamento dei locali. L’ing. Ettore Ferrari curò lo sviluppo dei calcoli statici della struttura metallica e dei relativi disegni di progetto ... La Torre Littoria è un opera in cui l’architettura moderna e la tecnica nuova trovano un punto di contatto: né architettura pura, né pura ingegneria, essa è come il limite di un gusto in cui si trovano risolte armoniosamente tutte le premesse pratiche ed estetiche di un’epoca….Moltissimi, dopo l’inaugurazione hanno parlato di questa costruzione e tutti per elogiarne il bello sforzo della tecnica e la veduta magnifica che si vede dall’alto. Tutti hanno scordato che la Torre Littoria non è soltanto il risultato di calcoli audaci, un sogno da ingegnere, ma un’opera d’arte. Il messaggio di Casabella è molto chiaro: bisogna lodare questa opera a cui hanno lavorato gli ingegneri Cesare Chiodi ed Ettore Ferrari e l’architetto Gio Ponti senza attribuirne separatamente i meriti perché senza uno schizzo, magari a mano libera di un architetto e senza le conoscenze e le molte giornate di lavoro di due ingegneri la Torre Littoria non sarebbe mai nata e soprattutto non sarebbe ancora in piedi. Le note di progetto pubblicate nel 1933 dal Cesare Chiodi e nel 1934 dal sig. Luigi Pinciroli, presumibilmente il collaboratore

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dell’ing. Ettore Ferrari degli Stabilimenti di Dalmine, che curò lo sviluppo dei calcoli e dei disegni della parte metallica, rivelano una cultura e una sensibilità ingegneristica semplicemente straordinarie. Con poche nozioni a disposizione, senza calcolatori elettronici, quasi del tutto sprovvisti di conoscenze specifiche inerenti alle azioni del vento, forti soltanto della loro grande fiducia nell’arte ingegneristica, i progettisti dell’epoca giunsero a definire forze eoliche di progetto sulla torre che gli studi successivi avrebbero dimostrato approssimate in modo eccellente. È impossibile redigere una descrizione più chiara e sintetica della Torre di quella a suo tempo fornita da Cesare Chiodi:

Figura 2.3 a. la Torre Lit t oria; b. rist orant e e belvedere in sommit à della t orre; c. le t ravi a st ella in sommit à.

«La Torre Littoria, ..., si differenzia dalle sue maggiori e minori sorelle metalliche per alcune spiccate caratteristiche: la linea slanciata, il materiale tubolare delle sue strutture, i collegamenti quasi esclusivamente realizzati con saldature elettriche. La struttura metallica principale della Torre ha forma tronco-piramidale a sezione esagonale del lato di m 6,00 alla base. La rastremazione assai leggera le conferisce un aspetto quasi prismatico. Alla quota (100,00) il lato dell’esagono è ancora di m 4,45. La sommità della Torre si eleva di m 108,60 sopra il pavimento della piattaforma di base, mentre la testa della Madonnina del Duomo di Milano raggiunge m 109,36 sul pavimento della Cattedrale. Lo scheletro metallico parte però da una quota più depressa e raggiunge l’altezza complessiva di m 109,95 fra il piano inferiore degli apparecchi di appoggio ed il vertice del cupolino. I sei montanti verticali disposti secondo gli spigoli del tronco di

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piramide sono costituiti da tubi Dalmine di acciaio ad alta resistenza avente un carico di rottura di 55÷65 Kg/mm2 ed un allungamento minimo del 18 ÷ 20%. I tubi hanno diametro variabile da 432 mm alla base a 165 mm in sommità e spessori dai 15 agli 8 mm e sono divisi in tronchi di lunghezza decrescente da m 15,00 a m 7,998, muniti alle estremità di flange filettate collegate fra di loro con bulloni. Ai ritti sono applicati a convenienti distanze i fazzoletti per l’attacco delle tralicciature, costituiti da piastre attraversanti diametralmente il tubo mediante opportune feritoie fresate secondo due generatrici opposte ed elettricamente saldate dalle due parti al tubo stesso. I tralicci si sviluppano nei piani delle facce laterali della piramide, e sono pure costituiti da elementi tubolari Dalmine di acciaio dolce della resistenza di 37 ÷45 Kg/mm2 con un allungamento minimo dei 20%. Le aste hanno diametro variabile da 178 a 108 mm, e spessore dai 9 ai 6 mm e presentano alle estremità le teste chiuse ad ogiva e fresate secondo un piano meridiano per permettere l’inserzione delle piastre di attacco alle quali vengono elettricamente saldate. La gabbia della Torre è poi controventata orizzontalmente da telai reticolari collocati a distanze verticali variabili da m 9,70 a m 7,70 e costituiti, come i tralicci, da elementi tubolari del diametro da 136 a 82 mm terminanti ad ogiva e saldati alle piastre di attacco. Alla quota (97,00) una robusta piattaforma portata da sei alte travi reticolari disposte a stella entro l’esagono della Torre serve a sostegno della cabina per il ristorante, contenente dodici tavoli a quattro posti collocati lungo la parete esterna come nelle vetture ristorante, oltre i piccoli locali per i servizi di cucina. Sopra il ristorante è un belvedere esagonale aperto, riparato da una pensilina. Più su ancora la sagoma della Torre si restringe nella lanterna terminale del faro. All’interno della struttura descritta, che costituisce l’organismo essenziale portante, vi è una seconda torricella prismatica pure esagonale di m 1,350 di lato costituita da elementi tubolari con diametro da 60 a 80 m, che serve da gabbia per l’ascensore. Intorno ad essa si svolge ad elica per tutta l’altezza una scaletta di servizio di 520 gradini. La Torre posa coi suoi sei apparecchi di appoggio in acciaio su un blocco di fondazione al quale è saldamente amarrata in ciascun piede con Otto tiranti di 78 mm di diametro, che si affondano nel blocco per più di cinque metri ed uniformemente si agganciano ad uno zatterone metallico costituito da otto travicelli a C incrociati. I sei zatteroni interessano colle loro larghe dimensioni tutto il blocco di fondazione, il quale consta di un primo solettone inferiore circolare di calcestruzzo armato

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del diametro di 18,50 metri e dello spessore di m 1,30, sul quale si imposta uno spesso anello alto circa m 5,00 del diametro interno di m 10,00 e di spessore variabile da m 5,00 a m 2,75, che offre l’appoggio ai sei piedi della Torre, e contiene nel suo vano cilindrico in due piani sovrapposti tutte le installazioni meccaniche occorrenti all’esercizio, quali la cabina di trasformazione, i quadri di distribuzione dell’energia elettrica, i motori dell’ascensore, l’impianto di sollevamento dell’acqua, le tubazioni di scarico, le condutture ed i pozzi per le prese di terra della gabbia metallica, ecc. Il calcestruzzo di fondazione venne eseguito con cemento con dosatura dai 200 ai 250 Kg di cemento per m3 di impasto. Il piano inferiore della fondazione è a m 6,05 rispetto al piano di posa degli apparecchi di appoggio, cosicché in definitiva l’altezza totale dell’opera fra il piano di fondazione e le sommità del cupolino raggiunge i 116 m. La costruzione posa su un buon terreno alluvionale ghiaioso sabbioso. La pressione unitaria dovuta al peso proprio della struttura si aggira intorno a Kg 1,00 al cm2. Sotto l’azione del massimo vento previsto nei calcoli, la risultante delle forze non esce dal nocciolo del circolo di base della fondazione, e la sollecitazione unitaria massima al lembo più compresso non supera ì Kg 2,00 al cm2».

Figura 2.4 a,b. disegno e realizzazione di nodi fra i t ubi; c,d. disegno e realizzazione delle giunzioni fra le colonne.

Certamente la Torre di Cesare Chiodi appare anomala sia rispetto alla realtà italiana sia a quella internazionale. Dal punto di vista strutturale essa pare un «unicum» che difficilmente può essere inserito nella storia della costruzione metallica: prescinde da quanto precede o gli è contemporaneo: non influenza lo sviluppo futuro. La Torre non ha le caratteristiche per far colpo immediato sul pubblico: la sua altezza non è eccezionale, la sua forma non si imprime nella memoria per estrosità; esaminando la sua concezione strutturale e i suoi particolari costruttivi, si intravede peraltro un piccolo gioiello che può essere apprezzato anche dai non intenditori. Forse l’unica

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peculiarità ancora attuale è l’adozione di acciaio ad alta resistenza e carico di rottura di 550-600 N/mm2, ancor oggi non troppo popolare, fra i costruttori, per la maggior difficoltà che si incontra nel saldare questo tipo di materiale. Rispetto alle conoscenze di allora si può certamente parlare di materiale innovativo e di scelta tecnologicamente avanzata. Osservazioni analoghe valgono per i dettagli costruttivi dei nodi. Una struttura reticolare spaziale, quale quella della Torre, richiede che le linee di asse dei profili che si intersecano convergano tutte in un punto, senza così presentare eccentricità. Chi progetta le costruzioni in acciaio conosce bene le difficoltà di rispettare una tale condizione e la conseguente necessità di introdurre eccentricità di schema, che aumentano il cimento dei materiali. I progettisti della Torre sono stati così raffinati e capaci da non introdurre la minima eccentricità di schema. Gli scavi iniziarono il 15 gennaio 1933 e, interrotti da due nevicate, terminarono il 10 febbraio 1933. Un mese dopo, concluso il getto delle fondazioni, iniziò il montaggio della struttura, che terminò il 2 giugno; il 4 giugno il faro era in funzione. Esclusi tutti i lavori di officina, furono necessarie 2170 giornate di sterratori, carradori, muratori e manovali, e 4090 giornate di carpentieri, saldatori, montatori e verniciatori. Ammettendo che i primi abbiano lavorato per i due mesi necessari agli scavi e alla realizzazione delle fondazioni, e i secondi per i due mesi e mezzo di realizzazione della sovrastruttura, considerando 30 giornate lavorative al mese (sabato e domenica incluse) si giunge a una presenza media in cantiere di 30 persone durante le opere di scavo e fondazione, e 60 persone durante la costruzione della struttura in elevazione. Oggi si giudicherebbe impossibile eseguire un’opera del genere in così poco tempo; si considererebbe follia mettere al lavoro tante persone contemporaneamente in un cantiere così angusto; in Italia non si accetterebbero condizioni di montaggio senza protezioni esterne.

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Figura 2.5 Cost ruzione della Torre Lit t oria.

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I progettisti di allora hanno dato una bella lezione all’ingegnere di oggi che spesso trascura la cura dei dettagli costruttivi mortificando le prestazioni della struttura. Impressionante è la cura dell’attacco delle colonne metalliche alla fondazione in cemento armato. La piastra metallica di base non poggia direttamente sul calcestruzzo della fondazione, bensì su un blocco rotondo di marmo attraversato dai tirafondi con la funzione di evitare ogni concentrazione degli sforzi sul meno resistente calcestruzzo.

Figura 2.6 Part icolari cost rut t ivi della fondazione e delle basi delle colonne.

Figura 2.7 Pont eggi e opere provvisorie di sost egno.

Analoga raffinatezza si può intravedere nelle opere provvisorie utili al montaggio della struttura. A tanta cura nel dettaglio strutturale non corrisponde un’analoga ricerca per i particolari costruttivi delle opere complementari che hanno subito un deterioramento impressionante. I progettisti diedero infatti una importanza ben maggiore alle strutture resistenti che non alle scale, alla gabbia ascensore e alle travi della copertura. Oggi si può soltanto osservare che, per fortuna dei progettisti di allora, nel 1933 non esistevano i calcolatori e i plotter. Altrimenti il «Duce» avrebbe potuto notare che la geometria dei diaframmi orizzontali, combinata con la leggera rastremazione della torre e proiettata su un piano orizzontale, individua una «stella» che molti, in quell’epoca, giudicavano inaccettabile ovunque, figurarsi sulla Torre Littoria.

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Figura 2.8 Modello numerico della t orre: vist a lat erale e vist a dall’ alt o.

Se queste intuizioni permisero di realizzare un’opera dotata di sicurezza sufficiente nei riguardi degli stati limite ultimi (collasso della torre), altrettanto non può dirsi nei riguardi degli stati limite di esercizio (utilizzazione della torre). Negli anni successivi alla sua realizzazione la Torre denunciò infatti più volte moti vibratori decisamente superiori alla soglia della tollerabilità fisiologica, molto spesso del tutto insopportabili, sino a eccedere la frontiera del panico. Ciò rese difficile e antieconomica la sua gestione: fin dagli anni 60 la Torre del Parco restò pressoché inutilizzata. Essa venne dichiarata ufficialmente insicura nel 1972 quando alcuni pezzi di copertura del belvedere caddero sul terreno sottostante a causa della corrosione dei loro fissaggi. Nel 1985 l’Amministrazione comunale di Milano diede incarico al prof. ing. Giulio Ballio del Politecnico di Milano di effettuare un’indagine per motivarne la sua demolizione o, in alternativa, per accertare la possibilità di un suo recupero. Le analisi sperimentali trovarono le strutture portanti principali in buone condizioni anche nei riguardi dei fenomeni corrosivi. Figura 2.9 Modi di vibrare della t orre e confront o delle azioni del vent o di proget t o (1933) con recent i det t ami normat ivi.

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Figura 2.10 a,b. risanament o della part e superiore della t orre; c. ricost ruzione del bar belvedere; d. la Torre Branca, oggi.

Le verifiche strutturali nei riguardi delle azioni del vento diedero luogo invece a risultati profondamente diversi a seconda delle normative utilizzate. Per questo motivo il prof. ing. Giovanni Solari condusse l’analisi della risposta dinamica della struttura all’azione del vento e dimostrò che la Torre possiede nei riguardi del collasso un coefficiente di sicurezza molto prossimo a quello stimato empiricamente, ma con grande sensibilità ingegneristica, dai progettisti dell’epoca. Al medesimo tempo venne confermato che la struttura raggiunge, troppo facilmente, livelli intollerabili di accelerazione che ne rendono problematica la utilizzazione in un qualsiasi giorno dell’anno. La Società F.lli Branca Distillerie SpA, mediante una specifica convenzione, divenne Concessionaria dell’opera e si fece carico del ricupero della Torre. Il progetto esecutivo fu redatto dalla BCV Progetti Srl, dagli arch. L. Forges Davanzati e P. De Amicis per la parte architettonica, dagli ingg. S. Martorana e F. Zanini per gli impianti. Appaltatori dei lavori furono la Nova Officine Metalmeccaniche e la Cooperativa Lavoranti Muratori di Milano per le opere civili, la Schindler per l’ascensore, le ditte Adelcom e Antoniazzi per gli impianti elettrici e termici rispettivamente. Il prof. ing. Giulio Ballio, coadiuvato dall’ing. Franco Spinelli, fu direttore dei lavori, che iniziati nel 1988 furono completati nell’aprile del 1990. I lavori civili riguardarono essenzialmente le sostituzioni di tutte le parti accessorie ormai fatiscenti (bar belvedere, scale e ascensore), il risanamento delle strutture racchiuse dal belvedere di sommità, la realizzazione di un seminterrato per alloggiare gli impianti, la pulitura e successiva verniciatura delle parti metalliche. I lavori impiantistici riguardarono la messa in opera di un sistema antincendio, il completo rifacimento dell’impianto elettrico, la messa in funzione di un impianto di climatizzazione e di un gruppo generatore autogeno per la fornitura di energia in caso di emergenza. I lavori terminarono nel 1992, la Torre fu riaperta nel 1997 col nome di Torre Branca.

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3. Architetti, Ingegneri e la Torre Fraccaro a Pavia

La storia della Torre Fraccaro a Pavia costituisce un esempio emblematico di cosa può succedere se la solidità, la utilità e la bellezza del principio vitruviano si trovano su fronti contrapposti, ognuna dettata da richieste differenti e sostenuta da attori diversi. Pavia era chiamata la città delle cento torri (Pappia, civitas centum turrium) anche se non era certo l’unica città medioevale italiana famosa per le sue torri. Pensiamo a San Giminiano dalle belle torri, a Pisa con la torre pendente, a Bologna, con la Garisenda e la torre degli Asinelli, a Savona, a Cremona con il suo Torrazzo, a Venezia con il Campanile di san Marco. Sono tutte torri medioevali di altezza compresa fra i 40 e i 100 metri di altezza e un rapporto fra altezza e larghezza compreso fra 9 e 13, quindi più snelle della maggior parte delle moderne costruzioni alte che raramente hanno un altezza non superiore a 8-10 volte la base. Le pareti avevano uno spessore variabile da 2 metri a 50 centimetri. Alcune torri, quelle “ricche”, per lo più costruite dalle autorità comunali o ecclesiastiche, erano realizzate in muratura piena, ma, la maggior parte delle torri, costruite più a testimonianza della ricchezza e del potere di una famiglia che per la concreta utilità di accedervi alla sommità a guardia della città, avevano le pareti a “sacco” cioè con una pelle interna ed una esterna fatte di uno o due corsi di mattoni che contenevano materiale sciolto quale ciottoli e pezzi di mattoni debolmente legati da malte di non buona qualità. Ancora alla fine del 1800 a Pavia si contavano circa 80 torri fra resti visibili e torri ancora in vita. Alla fine del secolo scorso non ve ne sopravvivevano più di una decina, le altre erano crollate o distrutte. La più celebre era la Torre Civica, costruita nel 1060 accanto al Duomo, sopra alzata alla fine del 1500 per dotarla di una cella campanaria a servizio della cattedrale. Il 17 marzo 1989 essa crollò, sbriciolandosi, improvvisamente, senza aver dato segni premonitori tali da essere colti dai tecnici, se si trascura il volo di piccioni impazziti che, tutti insieme, lasciarono i loro nidi nella torre 10 minuti prima del crollo; troppo tardi per salvare la vita alla giornalaia che tutti i giorni guardava la torre dalla sua edicola e che cercò di dare l’allarme, ma fu sommersa

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Figura 3.1 a. Pavia nel 1500; b. Pavia, Torr i nella piazza L. da Vinci; c. Torr i a San Giminiano; d. Bologna e le sue 180(?) t orr i; e. Bologna, Torre degli Asinelli e della Gar isenda; f. Torr i a Savona; g. Cremona, il Torrazzo; h. Pisa, la Torre pendent e; i. Venezia, Campanile di San Marco.

ancora al telefono, dall’immane massa di detriti. Con lei morirono altre 3 persone. Dopo il crollo fu istituita una Commissione Prefettizia presieduta dal Prof. Ing. Giorgio Macchi, che doveva, fra l’altro, accertare lo stato di salute delle altre torri rimaste. A seguito dei suoi lavori e delle sue indagini la Commissione Prefettizia, in accordo con il Ministero dei Lavori Pubblici, il 3 aprile 1990, dichiarò la Torre Fraccaro a rischio di imminente rovina. La piazza circostante fu dichiarata inagibile, gli stabili evacuati, circa sessanta persone furono alloggiate in alberghi, furono chiusi alcuni uffici, tra cui il Centro di Calcolo dell’Università degli Studi di Pavia. Il 20 aprile il Provveditorato alle Opere Pubbliche affidò all’impresa Callisti di Pavia i lavori per rendere sicura la torre, prescrivendole il nome del progettista e direttore dei lavori. Tale rapidità ed efficienza era giustificata da precise scelte gestionali e politiche: il Prefetto aveva promesso alla cittadinanza

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che la torre non sarebbe stata più pericolosa entro novanta giorni dalla consegna dei lavori e che quindi il disagio richiesto sarebbe stato contenuto nel tempo e sarebbe terminato il 20 luglio 1990. È interessante analizzare la gestione della utilità da parte delle autorità preposte all’operazione. Esse decisero di delegare qualsiasi responsabilità a un ingegnere non solo perché si trattava di un problema di solidità, ma soprattutto perché gli ingegneri hanno la fama di risolvere, nel bene o nel male, qualsiasi problema e di assumersi, senza discutere, le relative responsabilità civili e penali. Contemporaneamente, senza alcun esame preliminare, le autorità decisero i tempi, novanta giorni, entro i quali il pericolo doveva essere eliminato e la torre doveva essere restituita, consolidata, alla comunità cittadina. Da un punto di vista tecnico venne prescritto che qualsiasi intervento sulle pareti della torre, visibile o invisibile, doveva essere reversibile, cioè tale da poter essere rimosso senza causare alcuna modifica e/o danneggiamento alla costruzione preesistente. Infine, non potendo impadronirsi di competenze altrui, la Commissione Prefettizia, per quanto riguarda la bellezza, vincolò le caratteristiche dell’intervento al parere favorevole del Ministero dei Beni Culturali. Decisi di spendere almeno una giornata delle 90 a disposizione (avevo ricevuto la comunicazione verbale dell’incarico un venerdì) per chiedermi se il problema, posto in tali termini e con tali vincoli,

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Figura 3.2 a. Duomo e Torre Civica; b,c. il giorno del crollo, 17 marzo 1989; d. i resti della Torre Civica e il ricordo delle 4 vittime; e. Pavia, Piazza Leonardo da Vinci e le 3 Torri: Fraccaro, Maino, dell’Orologio.

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Figura 3.3 a. Piet ro Lorenzet t i, il Buon Governo, la cost ruzione di una t orre; b. Schema dei rinf orzi, assonomet ria; c. Schema dei rinfor zi, sezione; d. Possibile soluzione senza piast re di angolo; e. Sezione di una paret e e del rinfor zo; f. Diaframmi; g. Piast re est erne cent rali; h. Piast re est erne lat erali; i. piast rine di at t acco est erno del t irant e; l. piast rine di at t acco int erno del t irant e.

fosse risolubile. Da una prima analisi preliminare fu immediato valutare in circa 45 giorni il tempo necessario all’approvvigionare del materiale, e in altri 45 giorni per metterlo in opera. Quindi, avendo a disposizione 90 giorni per portare a termine tutti i lavori, restavano disponibili zero giorni per accertamenti tecnici, zero giorni per progettare, zero giorni per recuperare eventuali errori di fabbricazione nella messa in opera. Inoltre bisognava considerare il ruolo del parere estetico vincolante della Commissione del Ministero dei Beni Culturali, ruolo che stavo tranquillamente trascurando nel cercare la soluzione del problema che era stato gentilmente scaricato sulle mie spalle. I dati tecnici disponibili erano quei pochi che si conoscono relativamente a tante torri che svettano nelle nostre città: in questo caso una torre alta quaranta metri, a pianta quadrata, con lato pari a 5,35 metri, una sezione della muratura costituita da due corsi di 12 cm in mattoni, uno all’ esterno ed uno all’interno, che racchiudono materiale sciolto debolmente legato da malta per uno spessore complessivo variabile tra 160 e 200 cm. È noto e confermato da tante prove trattarsi di materiale fragile con grande dilatanza in direzione perpendicolare all’asse di sollecitazione quando si raggiunge uno stato di sforzo prossimo a quello di collasso. Se si parte dal dato che impone zero giorni per progettare, ne

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consegue immediatamente che la idea progettuale poteva basarsi solo su aspetti intuitivi. La grande dilatanza a collasso del materiale suggerisce di cerchiare la torre per aumentare la capacità portante delle pareti. Il vincolo della reversibilità richiede un intervento a secco con l’unica possibilità di attraversare le pareti in corrispondenza dei fori pontali. In definitiva non vi erano alternative, si doveva cerchiare un quadrato con tiranti e diaframmi montabili rapidamente, come un semplice meccano, utilizzando i fori pontali. La fortuna mi fu amica: a Natale, avevo ricevuto in regalo un libro la cui copertina riporta un particolare dell’affresco del Buongoverno nel Palazzo Pubblico di Siena con il quale Pietro Lorenzetti descrive la tecnologia di costruzione di una torre. Osservandolo si comprende che i fori pontali delle torri convergono verso il centro e si può intuire una soluzione di come la cerchiatura possa essere effettuata con una serie di diaframmi interni ad ognuno dei quali è ancorata una raggiera di barre radiali che fuoriesce attraverso i fori pontali e che termina con piastre ed angolari disposti sul paramento esterno. Una rapida ispezione alla torre confermò che i fori pontali erano tutti diretti verso il centro della torre e così la intuizione fu rapidamente convertita in progetto: al lunedì mattina erano pronti una serie di schizzi che permisero di avviare la ricerca del materiale. Si trasformava però l’aspetto della torre, la si rendeva simile a un

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Figura3.4 a. diaframmi in verniciat ura; b. piast re est erne e int erne; c. il sollevament o di un diaframma; d. il diaframma viene int rodot t o nell’apert ura della t orre; e. piast ra cent rale mont at a; f. disallineament o dei t irant i g. saldat ura dei rinforzi d’angolo.

vecchio baule con gli spigoli rinforzati da borchie dorate come si usava ai tempi delle carrozze a cavallo; lo si modificava in un modo che poteva non essere condiviso dagli esperti ministeriali nominati per dare il parere estetico. D’altra parte la tempistica richiesta non dava spazio a possibilità di trattative. Evitare i rinforzi agli angoli, forse i più dirompenti dal punto di vista visivo, richiedeva una non piccola quantità di fori negli spigoli della torre e violava di conseguenza la prescrizione di reversibilità dell’intervento. Non c’era verso: il progetto e il conseguente approvvigionamento e lavorazione dei materiali dovevano ignorare il vincolo di parere estetico favorevole. Nella prima settimana ci fu la visita della Commissione dei Beni Culturali presieduta dal mitico prof. Roberto Di Stefano: Egli si era laureato in ingegneria civile all’università di Napoli, ma subito si era dedicato alla disciplina del Restauro sotto la guida di Roberto Pane. Di Stefano era professore ordinario di Restauro dei monumenti” all’Università di Napoli e direttore dell’Istituto di Storia dell’architettura, grandissimo esperto di restauro, noto internazionalmente per i suoi scritti e le sue opere, progettista di molti interventi di restauro di monumenti famosi in Italia e all’estero. Illustrai i criteri che avevo seguito per definire il progetto e per cercare una soluzione corretta e in linea con il mandato che avevo ricevuto. Come previsto gli esperti della Commissione criticarono ferocemente l’intervento, lo giudicarono decisamente brutto, rivendicarono il proprio ruolo nel garantire il rispetto dei più elementari canoni estetici. Fu loro spiegato che era stata data priorità, nell’ordine, alla messa in sicurezza del manufatto, al rispetto dei tempi

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promessi alle persone sfollate, alla prescritta reversibilità dell’intervento. Conclusi afermando che, se la Commissione avesse negato il parere estetico, avrebbe anche dovuto assumersi la responsabilità di fermare i lavori o, in alternativa, di suggerire una diversa soluzione condivisa dall’attuale progettista o da un altro progettista più capace al quale si garantiva da subito la massima collaborazione per favorirne il subentro. I commissari tornarono a Roma senza verbalizzare alcuna decisione, riservandosi ogni decisione da comunicare nelle settimane successive, consci che io avrei dato le dimissioni dall’incarico non appena ricevuto un parere estetico sfavorevole. Le piastre esterne vennero progettate in acciaio inox per garantirne la durabilità; fu impiegato acciaio normale verniciato per i diaframmi interni e relativo piastrame. I tiranti non potevano che essere in inox ad alta resistenza; le barre furono trovate a magazzino in Gran Bretagna e vennero filettate a misura in Italia. Durante i 45 giorni dedicati all’approvvigionamento dei materiali, venne realizzato il ponteggio attorno alla torre e vennero efettuati tutti i rilievi geometrici necessari per definire le tolleranze fra la muratura ed i pezzi metallici che sarebbero stati inseriti. Durante la costruzione in oicina fu eseguita la pulitura dei fori pontali e la bonifica a tratti delle murature con cuci/scuci; furono condotti i calcoli di verifica statici e dinamici che dimostrarono la sostanziale correttezza della intuizione. La ristrettezza dei tempi non permetteva correzioni o aggiustamenti da eseguire durante le fasi di messa in opera. Era dunque necessario progettare un sistema flessibile che tollerasse difetti di inclinazione e disallineamenti dei fori pontali. Per tale ragione i diaframmi vennero concepiti composti da due elementi paralleli sovrapposti separati da opportuni distanziatori che permettono di infilare il tirante che a sua volta viene bloccato con delle piastre. La lunghezza di tale distanziatore fu definita a seguito del rilievo puntuale della posizione dei fori pontali, rilievo che consigliò una distanza di venti centimetri tra i due elementi del diaframma, sufficiente per compensare ad ogni quota il disallineamento dei fori pontali e il conseguente disallineamento dei tiranti. Per lo stesso motivo fu necessario progettare le piastre esterne con nervature tali da permettere l’inserimento di leggeri spessoramenti, tali da compensare la diversa inclinazione dei tiranti rispetto alla stessa piastra. Nelle fasi di montaggio, i diaframmi potevano essere introdotti nella torre solo in posizione verticale attraverso le due aperture esistenti e quindi dovevano essere ruotati di 90 gradi all’interno della

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torre. Essi hanno quindi un lato di una ventina di centimetri più corto del lato interno della torre; la compensazione di tale distanza fu realizzata con malta espansiva, unico intervento non reversibile presente nel progetto. I calcoli dettero indicazioni positive, anche sulla dimensione e posizione delle piastre. Gli sforzi indotti dalla cerchiatura in condizioni di quasi collasso della torre, cioè in corrispondenza di una significativa dilatanza del materiale, si dimostrarono del tutto accettabili. In presenza di piastre più piccole si sarebbe ottenuta una grandissima concentrazione di forze negli spigoli. Se si fosse eliminata la cerchiatura degli angoli, forse la parte più invasiva di tutto l’intervento, sarebbero state possibili situazioni di forte trazione negli spigoli della torre. Come promesso dal Prefetto, al novantesimo giorno, la torre fu ridata alla città: le famiglie che erano state alloggiate negli alberghi ritrovarono finalmente le loro abitazioni, gli uici che si affacciavano alla piazza furono di nuovo agibili. Contemporaneamente arrivò a Pavia il parere estetico negativo della Commissione del Ministero dei Beni Culturali: si ordinava la sospensione dei lavori. L’intervento di consolidamento era terminato; la negatività del parere estetico non contava più. Tutti noi, credo anche il Prefetto, non potemmo che ringraziare la burocrazia ministeriale.

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4. Passerelle pedonali: ricchi e poveri

Le passerelle pedonali sono un esempio emblematico di quanto solidità, utilità e bellezza possono coesistere o contrapporsi nel mondo del costruire. Ciò non è un caso. La passerella nasce per soddisfare l’utilità di superare una difficoltà espressa dalla natura (scavalco di fiumi, vallate, dirupi) o causata dall’uomo (scavalco di strade e ferrovie). Deve essere sufficientemente solida per dare sicurezza a chi la attraversa, deve essere gradevole, spesso bella e elegante per inserirsi nel paesaggio circostante ed essere vista sempre, di giorno e di notte, non solo da chi la percorre, ma anche da chi frequenta o addirittura abita i suoi dintorni. Passerelle anche piccole e minute sono considerate importanti, spesso accendono dibattiti nelle collettività, costituiscono una preoccupazione e una sfida per i progettisti.

Figura 4.1 Pont i di Liane: a. Guinea; b. Tibet ; c. Himalaya; d. Kapellbrücke sul Lago dei Quat t ro Cant oni, Lucerna, (1400); e. Gaoliang Br idge, Palazzo d’ Est at e, Beij ing, (1800); f. Half Penny Br idge, Dublino, (1836); g. Pont e dei Quat t ro Leoni, San Piet roburgo, (1826).

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Figura 4.2 a. Kingsgat e f oot bridge, Durham, U. K; b. Pont e Dunlop, Circuit o di Les Mans; c. Lowry f oot bridge, Salf ordQuays, Manchest er; d. Passerella su Viale Fulvio Test i, Milano.

Figura 4.3 a. N. Fost er & A. Caro, Millennium Bridge, Londra; b. S. Calat rava, Pont e della Cost it uzione, Venezia; c. D. Perrault , pont e Arganzuela, Madrid; d. Arup It alia, Passerella in via De Gasperi, Milano.

Col passare dei secoli, partendo dalle passerelle costruite ad imitazione delle forme suggerite dalle disposizioni naturali delle liane, l’uomo costruttore comincia a ricercare forme, tipologie, materiali, colori che permettano l’inserimento dell’opera nel paesaggio che la circonda. La passerella non riesce più a mimetizzarsi, ma cerca di non violentare l’ambiente evitando di richiamare su di sé l’attenzione di chi la vede o la percorre. Nell’ultimo secolo l’atteggiamento dell’uomo costruttore cambia radicalmente. Committenti e progettisti iniziano a vedere la passerella come un opera che richiami l’attenzione della gente, che stupisca per la sua forma e la sua arditezza, che sia quasi provocatoria nei riguardi della solidità, che sia bella come un’opera d’arte, che rappresenti e promuova il luogo in cui è realizzata e quindi abbia caratteristiche per venir comunicata dai media ed essere un richiamo per i turisti. A questa interpretazione della passerella pedonale, ormai tipica di una società evoluta e sensibile alla ricerca di una bellezza da esibire, raggiungibile soltanto attraverso la diversità e la singolarità di una immagine, si contrappone la visione di attraversamenti dettati dalla utilità, destinati a migliorare la qualità della vita di migliaia di comunità rurali nelle zone povere del mondo. Nel 1987, a diciannove anni, Toni Ruttimann lascia la Svizzera e gli studi di ingegneria ai quali si era appena iscritto, per portare il suo aiuto alle vittime del terremoto che in quell’anno devastò l’Ecuador. Da allora Toni ha costruito ponti in Sudamerica e in Asia, tra Ecuador, Messico, Colombia, Argentina, Costa Rica, El Salvador, Honduras, Nicaragua, Vietnam, Laos, Cambogia, Indo-

Parte 2 4. Passerelle pedonali: ricchi e poveri

nesia e Myanmar. Ingegnere autodidatta, risponde alla chiamate di comunità povere che hanno bisogno di un ponte, le coinvolge nella costruzione, utilizza materiali locali, talvolta di ricupero, altre volte usa tubi e funi donatigli da acciaierie locali o distribuite nel mondo. È stato definito un viaggiatore senza bagagli che percorre regioni spesso devastate, che invita popolazioni povere e dimenticate a costruire ponti con lui, capolavori di semplicità, di ingegnosità e di generosità. Ad oggi si può calcolare che Toni ha costruito circa 600 ponti, per un totale di alcune decine di chilometri, percorsi da più di un milione e mezzo di persone. Ha permesso a uomini, donne e bambini di non più rischiare la vita nell’attraversare un fiume, di portare ai mercati i loro prodotti, di raggiungere le vie di comunicazione, gli ospedali, le scuole. Il tutto a costo praticamente nullo. Nel 2001 Kenneth Frantz fonda B2P - Bridge to Prosperity - con la missione di aiutare piccole comunità rurali disperse nel mondo. Uno studio di B2P fece comprendere che nel mondo vi è bisogno di circa 500.000 attraversamenti, di cui la metà urgentemente. Di fronte a un problema di tali dimensioni far appello alla generosità di chi ha di più non è sufficiente: al massimo permetterebbe la costruzione di qualche decina di ponti all’anno. Risultati positivi si possono raggiungere soltanto insegnando alle popolazioni locali, con esempi, foto e semplici manuali le tecniche del costruire, realizzando con loro qualche prototipo, disseminando nelle differenti nazioni la tecnologia più adatta, cercando partenariati con le industrie e i centri di formazione locali, ricuperando chilometri di funi di acciaio dalle dismissioni delle gru portuali, coinvolgendo studenti di università tecniche durante i loro periodi di vacanza. È

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Figura 4.4 I pont i di Toni Rut t imann: a. Viet nam; b. Ecuador; c. Viet nam; d. Cambogia.

Figura 4.5 I pont i di Bridge t o Prosperit y: a. Perù; b. El Salvador; c. Honduras; d. t iopia.

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partita così una specie di catena di Sant’Antonio educativa che si sta difondendo in molte decine di nazioni e che sta realizzando più di cinquecento attraversamenti ogni anno. Così la passerella, pur sempre dettata dalla utilità, diventa, suo malgrado, un simbolo della contrapposizione fra poveri e ricchi, fra comunità rurali che costruiscono con le loro mani, praticamente a costo zero, opere destinate a migliorare la qualità della propria vita e comunità opulente disposte a spendere dai 5.000 – 8.000 euro a m2 per un opera caratterizzata dalla sua unicità, ai 20.000 euro a m2 per il Millennium Bridge di Londra o il Ponte della Costituzione a Venezia. Viene quindi spontaneo domandarsi se non sia possibile perseguire una via intermedia, riportare la costruzione di una passerella pedonale ad un connubio più economico fra utilità, bellezza e solidità, accettabile anche per quelle collettività che, seppure non considerabili “povere”, sono costrette a contenere i costi necessari per soddisfare le loro necessità. A metà degli anni ’80 venne da me l’architetto Francesco Borella, progettista e direttore per la realizzazione del Parco Nord di Milano. Il parco stava prendendo forma e necessitava di una prima passerella ciclo pedonale che attraversasse via Clerici, una strada a quattro corsie. Il suo discorso fu molto chiaro: ho a disposizione 150 milioni di lire di allora (aggiornando la cifra ai costi odierni di costruzione sono circa 250.000 euro di oggi), il Parco ha bisogno di una passerella di circa 40 metri di luce, non può spendere di più, parcella professionale compresa. Ci mettemmo insieme al lavoro, gli proposi uno schema ad arco, a mio giudizio il più economico e facilmente Figura 4.6 Passerelle ciclopedonali nel Parco Nord, Milano a. via Clerici; b. via Foglia; c. via Fermi; d. At t raversament o A4.

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realizzabile. La passerella fu costruita in pochi mesi, per il suo montaggio il traffico nella via sottostante fu chiuso per sole quattro ore nel mese di Agosto, la cifra a disposizione non fu superata. La collaborazione con Francesco continuò negli anni, non clonando il primo prototipo, ma ricercando forme e accorgimenti differenti: dalla passerella “fiorita” di via Berbera, (oggi via Foglia) a quella sopra via Fermi, allo scavalco dell’Autostrada A4. Sono tutte passerelle frutto di una stretta collaborazione fra Architetto e Ingegnere, sono opere funzionali ed economiche, di impatto limitato, forse piacevole, mai criticate dal punto di vista formale. Oggi una passerella analoga a quelle progettate con Francesco Borella e realizzate nel Parco Nord di Milano ha un costo dell’ordine di 1.500 – 2.000 euro/m2, dell’ordine cioè di meno di un decimo di quanto sono costati il Millennium Bridge e il Ponte della Costituzione e di circa un terzo di quanto costano altre passerelle costruite recentemente, o in costruzione, in molte parti del mondo cosiddetto “progredito”. Un’altra esperienza per me particolarmente significativa fu il ponte a Salò, sul lago di Garda, un piccolo passaggio pedonale che scavalca l’entrata di un porticciolo e che collega il lungolago Zanardelli con il lungolago intitolato ai giudici Falcone e Borsellino e, più avanti, con la nuova passeggiata del lungolago Antiche Rive. Vittoriano Viganò, nel suo studio a Milano, mi fece una brevissima sintetica descrizione del suo problema: sono stato incaricato dall’Amministrazione comunale per progettare questo ponticello di una quindicina di metri, voglio legare il mio nome a questo ponte nel luogo che amo, i soldi sono pochi, deve essere bello e trasparen-

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Figura 4.7 Lungolago di Salò, Pont e Viganò.

Figura 4.8 Schemi ret icolari element ari: a. Trave Howe; b. Trave Prat t o Mohnié; c. Trave Warren.

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Figura 4.9 Vit t oriano Viganò.

te, è evidente che bisogna fare una passerella le cui travi portanti sono i parapetti, devi inventare uno schema di trave reticolare talmente originale che tutti coloro che lo vedono riconoscano la mia mano e lo attribuiscano a me. Vittoriano si dimostrò completamente indiferente alle mie obiezioni: le travi reticolari sono state inventate nell’800, non si esce dagli schemi denominati Howe, Pratt e Warren e dalle loro combinazioni già ampiamente realizzate, è impossibile inventarne uno diverso, possiamo soltanto realizzare le travi con tubi quadrati, disposti a 45 gradi per impedire il ristagno d’acqua, il più pericoloso nemico nei riguardi della corrosione della costruzione. Fu deciso nel liquidare le mie argomentazioni: mi sono rivolto a te perché sei un professore di costruzioni in acciaio e perché ritengo che uno dei compiti degli Architetti sia sfidare i bravi Ingegneri, devi riuscire a fare quanto ti chiedo. Uscii dallo studio di Vittoriano preoccupato di fare una gran brutta figura; la sua gentilezza e la sua fermezza mi avevano messo di fronte a una sfida che mi sembrava impossibile! Poi venne l’idea: partire dallo schema Warren e inclinare in modo diverso le diagonali, così da evidenziare con quelle centrali le iniziali dell’architetto. La proposta, forse scherzosa e un po’ irriverente, piacque a Vittoriano; dopo più di trent’anni il ponte è ancora ben conservato ed è chiamato Ponte Viganò, proprio come lui aveva desiderato.

Parte III

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1. “ Solidità” certa o probabile?

Da secoli soltanto gli artisti del costruire sapevano valutare la solidità. Essi si basavano sulla propria esperienza e sulla propria capacità di analizzare, imitare, modificare tipologie, tecniche e particolari costruttivi di edifici simili preesistenti. Nel 1600 la solidità cominciò a diventare oggetto di esame e di applicazione delle prime teorie scientifiche. Galileo nei Discorsi e dimostrazioni matematiche intorno a due nuove scienze attinenti alla mecanica ed i movimenti locali (pubblicato nel 1638) così si esprime: astraendo tutte l’imperfezzioni della materia e supponendola perfettissima ed inalterabile e da ogni accidental mutazione esente, con tutto ciò il solo esser materiale fa che la machina maggiore, fabbricata dell’istessa materia e con l’istesse proporzioni che la minore, in tutte l’altre condizioni risponderà con giusta simmetria alla minore, fuor che nella robustezza e resistenza contro alle violente invasioni; ma quanto più sarà grande, tanto a proporzione sarà più debole. Perché io suppongo, la materia essere inalterabile, cioè sempre l’istessa, è manifesto che di lei, come di affezzione eterna e necessaria, si possano produr dimostrazioni non meno dell’altre schiette e pure matematiche. Però, Sig. Sagredo, revochi pure l’opinione che teneva, e forse insieme con molti altri, che nella mecanica han fatto studio, che le machine e le fabbriche composte delle medesime materie, con puntuale osservanza delle medesime proporzioni fra le loro parti debbano esser ugualmente, o per dir meglio, proporzionalmente disposte al resistere ed al cedere alle invasioni e agli impeti esterni, perché si può geometricamente dimostrare come le maggiori essere a proporzione men resistenti che le minori; sì che ultimamente non solo di tutte le machine e fabbriche artifiziali, ma delle naturali ancora, sia un termine necessariamente ascritto, oltre al quale né l’arte né la natura possa trapassare; trapassare, dico, con osservar sempre l’istesse proporzioni con l’identità della materia. Galileo dimostra così che un modello in scala geometrica ridotta di una costruzione può essere solido, ma non sempre altrettanto resistente può dirsi la costruzione in vera grandezza perché, se si amplia-

La mensola di Galileo.

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no le dimensioni geometriche, aumenta il cimento del materiale di cui la costruzione è realizzata. Studiando il comportamento delle molle, Robert Hooke comprese il comportamento elastico dei materiali pubblicando nel 1675, al termine del suo libro “Descrizione degli elioscopi”, l’anagramma latino “ceiiinosssttuv”. Fu lo stesso Hooke, visto che nessuno alla Royal Society era stato capace di risolvere l’anagramma, a darne la soluzione tre anni dopo: “ut tensio, sic vis” cioè “come l’estensione, così la forza”. Tale relazione afferma che, in un corpo, l’allungamento prodotto dall’applicazione di una forza è direttamente proporzionale al valore della stessa forza; tale legge porta ancora il nome di Hooke ed è la base della teoria dell’elasticità lineare dei materiali. Certamente inluenzato da questi primi aspetti scientiici della meccanica delle costruzioni, Bernard Forest de Belidor nel suo libro “La Scienza degli Ingegneri nella direzione delle opere di fortificazione e d’architettura civile” pubblicato nel 1729 in Francia, ripubblicato nel 1813 con note e aggiornamenti di Claude Louis Navier, tradotto e pubblicato in Italia nel 1832, lamenta che nell’architettura “fa meraviglia come da tanto tempo in cui è coltivata sì piccolo sia stato il numero de’ perfezionamenti introdotti anche nei punti essenziali. Perché, eccettuata qualche regola di convenienza e di buon gusto, appartenente alla parte decorativa, non abbiam quasi sul resto alcun che di preciso e di esatto. Nessun Architetto, per esempio, ha dato principii per trovare il punto di equilibrio fra le forze agenti e le resistenti; non si conosce la grossezza da darsi ai rivestimenti de’ terrapieni o a quelli dei bastioni, dei moli e delle strade in argine, ai piedritti delle volte, alle spalle dei ponti, per far equilibrio con la loro resistenza alla spinta che devono sopportar questi muri senza porre in opera materiali superflui”. Dichiara quindi di voler dare con il suo libro un contributo allo sviluppo dell’Architettura e dell’Ingegneria anche se “avrei volentieri tenuto una via diversa dall’algebra per farmi intendere, ma non ne ho potuto farne a meno; il che mi fa temere che gli avversi a questa scienza non lo siano altresì del mio lavoro, e non ne traggano tutto il frutto che io ho voluto procurare.” Sempre nello stesso libro, ma per opera di Navier, si può trovare un’afermazione che anticipa i criteri moderni su cui si basa la valutazione della solidità di una costruzione: “è rarissimo il caso che le travi impiegate ne’ i fabbricati si rompano prima di provare un incurvamento assai sensibile. Questo

Parte III 1. “ Solidit à” cert a o probabile?

incurvamento comincia sotto un carico molto minore di quello necessario a rompere il solido, il quale si indebolisce e termina col cedere del tutto. E’ quindi di massima utilità il sapere quale sia il peso capace di produrre un principio d’inflessione, che potrebbe diventare dannoso in progresso e cagionare la rottura.” Gli scienziati del tardo ’800 e primo ’900 afrontano il problema della “solidità” delle costruzioni con il metodo delle tensioni ammissibili basato su un ragionamento di tipo deterministico, convinti com’erano a quei tempi che la conoscenza del fenomeno fosse suficiente per consentire la previsione di ogni conseguenza. Il ragionamento alla base del metodo può essere sintetizzato come segue. a. In ogni costruzioni possiamo separare le parti (o elementi) strutturali dalle parti portate. Le prime sono considerate essenziali per dare solidità all’intera costruzione, le seconde possono essere trascurate. Chiameremo struttura portante l’insieme degli elementi strutturali. b. Sulla struttura da un lato dobbiamo considerare le azioni F che vi gravano: sono gli efetti del peso proprio della costruzione, i pesi aggiuntivi che derivano dall’utilizzo della costruzione stessa, il peso della neve, le azioni del vento, dei sismi, della temperatura e così via. Tali azioni sollecitano ogni elemento della struttura; chiamiamo S(F) tali sollecitazioni che dipendono dal valore dell’azioni e che saranno diferenti nei vari elementi della struttura portante. c. Dall’altro lato abbiamo la resistenza R(f ) di ogni elemento della struttura portante, resistenza deinita come la situazione di raggiungimento del limite di comportamento elastico f del materiale di cui è costituito l’elemento. Tale situazione corrisponde, come afermava Navier, a “un incurvamento” molto minore di quello necessario per “rompere”, cioè portare a collasso, l’elemento strutturale. d. Una costruzione è sicura se per ogni suo elemento strutturale: gli efetti S delle azioni F agenti sulla costruzione sono minori della sua resistenza R(f ) cioè: S(F) < R(f ) / n In altri termini, più comunemente usati nella letteratura tecnica in uso ino a pochi anni fa, il concetto comporta che in ogni punto di ogni elemento strutturale lo stato di sforzo s(F) ingenerato dalle azioni F sia inferiore alla tensione ammissibile sadm che può essere attribuita all’elemento strutturale (pari a f /n): s(F) < sadm = f / n

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Per mitigare le apparenti certezze di questo semplice ragionamento fu necessario introdurre il coefficiente di sicurezza n e quindi considerare nei calcoli una tensione ammissibile di valore inferiore a quello del limite elastico del materiale. Infatti ci si rese subito conto che le previsioni di progetto potevano rivelarsi non prudenziali essenzialmente per i tre seguenti motivi: a) la intensità delle azioni può essere maggiore quanto considerato nel progetto, b) il valore del limite elastico dei materiali utilizzati può essere minore di quanto previsto nel progetto, c) i modelli di calcolo utilizzati nel progetto sono basati su ipotesi semplificative che possono essere disattese nella realtà. La entità del coefficiente di sicurezza n dipende quindi dalle incertezze insite nella valutazione delle azioni e della resistenza, dalle modalità di costruzione, dalla maggiore o minore raffinatezza dei calcoli. Alcuni ricercatori chiamarono il coefficiente di sicurezza il coefficiente di ignoranza: esso doveva essere assunto tanto più grande quanto minore è la nostra capacità di predire il valore delle azioni che potranno incidere sulla costruzione, di controllare la qualità dei materiali, di tradurre correttamente con equazioni matematiche il comportamento fisico della costruzione. Per la sua semplicità il metodo delle tensioni ammissibili divenne il pane quotidiano di tutti coloro che erano coinvolti nella valutazione della solidità di una costruzione tanto che ci si dimenticò di quanto scritto da Navier; si utilizzò il metodo, nato per valutare il limite del comportamento elastico di una costruzione, per accertarne la resistenza al crollo. Ancora oggi la nostra cultura è segnata da questo errore concettuale, errore che ha reso per decenni incomprensibile il significato delle operazioni di verifica strutturale perché incapace di evidenziare che le conseguenze di un collasso sono ben diverse da quelle del raggiungimento del limite elastico in alcune zone della costruzione: il collasso può causare danni irreparabili e purtroppo vittime umane, il raggiungimento del limite elastico produce qualche limitazione nell’utilizzo della costruzione. In fondo, fino alla metà del secolo scorso, la nostra cultura non solo si era dimenticata delle affermazioni di Navier, ma non è neppure stata all’altezza della intuizione di Hammurabi che aveva ben compreso la differenza fra utilizzo e crollo di una costruzione nel prescrivere le relative pene: l’uccisione del costruttore se la costruzione crolla, il rifacimento a spese del costruttore se la costruzione manifesta inconvenienti. Cerchiamo di intuire con dei semplici esempi perché il metodo delle tensioni ammissibili non riesce a distinguere fra possibilità di un crollo e relativa perdita di vite umane e possibilità di incon-

Parte III 1. “ Solidit à” cert a o probabile?

venienti durante l’utilizzo della costruzione, perché rende difficile identiicare lo scopo della veriica strutturale, perché non riesce a garantire un grado di sicurezza a collasso uniforme e talvolta è incapace di garantire il grado di sicurezza desiderato. Il metodo delle tensioni ammissibili non distingue tra incolumità e “confort” delle persone , fra incolumità delle persone e economia di gestione. Quando si veriica un grattacielo nei confronti di un crollo per efetto del vento, è necessario assumere un valore dell’azione eolica corrispondente a un evento raro. Quando ci si cautela nei confronti delle vibrazioni del grattacielo che possono rendere disagevole la sua abitabilità, il valore dell’azione eolica dovrà correlato a un evento frequente e quindi di minor intensità. Tale criterio di veriica si è reso evidente all’atto della costruzione delle prime grandi torri di telecomunicazione dotate di belvedere panoramici o addirittura di ristoranti alla sommità. Eccessive accelerazioni implicano la chiusura del belvedere o del ristorante, evento accettabile se si veriica una volta ogni qualche anno mentre la veriica al crollo deve essere efettuata per azioni eoliche estreme che ragionevolmente non si veriicheranno durante la vita della costruzione. Un ragionamento analogo può essere fatto nel progetto di una funivia. La operatività dell’impianto può essere tolta in condizioni di vento ricorrenti un certo numero di volte all’anno: in questa eventualità si disattende soltanto l’attesa dei fruitori della funivia senza attentare alla loro incolumità. Con la veriica alle tensioni ammissibili il grado di sicurezza a collasso è diverso a seconda del tipo di sollecitazione. In una sezione tesa di materiale elastico perfettamente plastico la veriica col metodo delle tensioni ammissibili corrisponde al contemporaneo raggiungimento del limite elastico del materiale in tutte le ibre della sezione e pertanto deinisce anche il collasso della sezione. In una sezione inlessa la veriica col metodo delle tensioni ammissibili corrisponde al raggiungimento del limite elastico nella i-

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Figura 1.1

P G

G

N fe x A

N

MG = 0,5 MP Si desideri un coefficiente di sicurezza  = 1,5. (+50%)

 MG

La verifica è soddisfatta se:

 MP- MG = 0,5MP < fe W/1,5



M

M

MP

fe x W

MG Mp-MG

Nu = Ne Mu =  x Me



poiché l’effetto del contrappeso non può aumentare, per un incremento del carico variabile del 25% si raggiunge la tensione limite: 1,25MP – MG =0,75MP = fe W

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bra più distante dal baricentro della sezione e non rappresenta il collasso della sezione che avviene in corrispondenza di un valore maggiore del momento lettente. Il metodo delle tensioni ammissibili non fornisce un adeguato grado di sicurezza quando una costruzione è assoggettata ad azioni indipendenti che hanno un efetto contrario. Si consideri l’esempio banale di una trave di una copertura di uno stadio che abbia una tipologia simile a quella dello Stadio Meazza a Milano. Essa è appoggiata su due colonne e dotata di due contrappesi. Si applichi per semplicità una forza in mezzeria che simuli ’efetto della neve. Si ipotizzi un coeiciente di sicurezza n pari a 1.5 e un momento lettente dovuto al contrappeso pari alla metà di quello ingenerato dal carico di neve in assenza del contrappeso. Poiché la gravità e quindi l'efetto del contrappeso non può aumentare, è immediato constatare che è suiciente un incremento del carico di neve pari soltanto al 25% per raggiungere una condizione di insicurezza. Verso gli anni 1940, dopo cinquanta anni di predominio delle teorie deterministiche, si cominciò a comprendere che solo un approccio probabilistico poteva inquadrare in modo soddisfacente il problema della sicurezza strutturale afermando che una costruzione è sicura se: è piccola la probabilità che gli efetti delle azioni S(F) siano maggiori della resistenza R( f ) della costruzione, cioè se p{(S(F) > R(f )} < pu Non bisogna sottovalutare la portata concettuale di una tale formulazione. Con essa si nega la esistenza della struttura “sicura”, ma si aferma che ogni costruzione ha una alea di rischio, non diversamente da tanti “accidenti” che possono caratterizzare la salute, il muoversi, il lavorare di ognuno di noi. L’approccio probabilistico richiede la conoscenza: a) del valore delle azioni quali neve, vento e sisma in funzione del loro periodo di ritorno; b) della durata della vita attesa della costruzione; c) del valore della probabilità di riferimento; d) dello scopo di ogni veriica, cioè dello stato limite il cui raggiungimento, si desidera evitare. a) I carichi ingenerati da eventi naturali non possono essere controllati dalla volontà dell’uomo: in altri termini il loro massimo valore non può essere certo. E’ possibile introdurre un limitatore di carico

Parte III 1. “ Solidit à” cert a o probabile?

in un apparecchio di sollevamento. Non è evidentemente possibile limitare eventi naturali quali la neve, il vento o il terremoto. Le azioni indotte da tali eventi devono essere stabilite mediante un’analisi statistica nel tempo. Il loro valore deve essere correlato al periodo di ritorno, cioè all’intervallo medio temporale per il quale la grandezza assume tale valore. Ad esempio nella sismica un piccolo terremoto può avvenire frequentemente, l’evento sismico distruttivo avviene molto più raramente. La stessa cosa si può dire per i venti o le nevicate. b) Qualsiasi considerazione probabilistica è basata sulla durata della vita attesa della costruzione. A tale valore infatti devono essere correlati i valori delle azioni causate da eventi naturali quali il vento, la neve, il sisma. Una struttura di servizio, quale un pontile utilizzato per la costruzione di una diga, cioè per cinque anni al massimo, richiede, almeno in linea di principio, un diverso criterio di progetto da un ospedale o una scuola prevista durare diverse decine di anni. La durata della vita attesa di una normale costruzione è stata in ora convenzionalmente considerata pari a 50 anni. Fino ad oggi tale assunto è risultato ragionevole se si tiene conto degli eventi bellici che si sono succeduti e soprattutto dei cicli economici: gli ultimi 100 anni sono stati infatti caratterizzati da una espansione delle esigenze industriali e del tessuto urbano che hanno provocato continue demolizioni e ricostruzioni degli ediici civili ed industriali per adeguarli alle sempre nuove esigenze. Oggi stiamo sperimentando un periodo di stagnazione demograica ed economica: si adegua e si riconverte più di quanto si rinnova e si ricostruisce. Di conseguenza stiamo assistendo ad un prolungamento della vita inizialmente prevista per le nostre costruzioni (si pensi ai ponti delle nostre autostrade) che può talvolta provocare rapidi deterioramenti e causare danni economici anche consistenti. c) In linea di principio il valore della probabilità corrispondente al superamento di uno stato limite della costruzione deve essere tanto più piccolo quanto più gravi sono le conseguenze che tale superamento comporta. Pertanto tale valore dovrebbe essere preissato in funzione del tipo di stato limite e della destinazione della costruzione, ma è estremamente problematico stabilire una procedura per identiicare un tale valore. È inaccettabile determinare tale valore mediante un’analisi costi – beneici, tipico di ogni approccio assicurativo. Con un criterio sifatto la scelta del valore della probabilità di riferimento andrebbe fatta paragonando l’ammontare delle perdite economiche conse-

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guenti il collasso della costruzione con l’incremento dei costi necessario a rendere più sicura la costruzione stessa. Poiché il collasso della costruzione può comportare la perdita di vite umane, l’approccio necessita, come dato iniziale del problema, che la collettività sociale quantizzi a priori il valore monetario della “vita perduta” di ognuno di noi, il che è eticamente inaccettabile. Un criterio eticamente accettabile può essere trovato ribaltando il problema e considerando il costo di una “vita salvata”. In questo caso il valore della probabilità di riferimento può essere scelto ottimizzando le risorse economiche a disposizione di ogni comunità sociale per garantire una uniformità di protezione nei riguardi dei diversi tipi di accidenti che possono capitare ad ognuno di noi. In altre parole le conseguenze di un crollo di una costruzione dovrebbero essere paragonate con quelle di incidenti stradali o sul lavoro, di disastro ecologico, di non adeguata assistenza sanitaria, ecc.. Il valore della probabilità di riferimento dovrebbe essere scelto in modo che il costo di una vita salvata da un crollo di una costruzione sia eguale al costo per salvare una vita compromessa da altri possibili accidenti. È evidente che un approccio sifatto appare oggi ancora irrealizzabile. Inine il valore della probabilità di riferimento può essere stabilito in base alla passata esperienza e al buon senso ingegneristico, stimando la probabilità di collasso di costruzioni esistenti considerate aidabili. Un notevole sforzo è stato fatto in questa direzione nel recente passato e le più moderne normative sono ispirate ai risultati di tale calibrazione. d) Negli anni ’50, nel tentativo di ordinare e classiicare i vari stati limite di una costruzione vennero deinite due categorie di Stati Limite: gli Stati Limite Ultimi (ULS) associati alla possibilità di collasso della costruzione o di uno dei suoi componenti, e gli Stati Limite di Servizio (SLS) associati ai criteri che governano la sua utilizzazione e la sua funzionalità. Nell’ambito di una classiicazione sifatta è possibile associare alle due diverse categorie di Stati Limite ordini di grandezza diversi per la probabilità di riferimento e per il periodo di ritorno che caratterizza il valore delle azioni da assumersi nei calcoli. Viene infatti spontaneo associare agli stati limite che comportano il collasso della costruzione e quindi possibili perdite di vite umane, modesti valori di probabilità di occorrenza e pertanto periodi di ritorno per i carichi variabili dell’ordine di 10 - 20 volte la durata di vita attesa della costruzione. Si accettano così solo remote possibilità di raggiungimento degli stati limite ultimi che vengono considera-

Parte III 1. “ Solidit à” cert a o probabile?

ti alla stessa stregua degli altri rischi che il nostro modo di vivere comporta. Viene spontaneo associare agli Stati limite che comportano una limitazione dell’utilizzazione della costruzione e pertanto soltanto un danno economico, valori più elevati di probabilità di occorrenza e pertanto periodi di ritorno per i carichi variabili pari ad una frazione della vita attesa della costruzione, accettando così la possibilità che gli Stati Limite di Servizio possano venire raggiunti un limitato numero di volte durante la vita della costruzione. Oggi le normative prescrivono il metodo di veriica cosiddetto semiprobabilistico agli stati limite in sostituzione di quello alle tensioni ammissibili. Esso non garantisce, a stretto rigore, una sicurezza uniforme per le diverse tipologie strutturali, ma supera tutti i difetti del metodo alle tensioni ammissibili, costituisce un metodo direttamente applicabile in pratica, suscettibile di una standardizzazione normativa. Inoltre obbliga ad individuare con chiarezza gli obbiettivi delle veriiche e il valore delle azioni ad esse correlate. Per contro richiede un maggior numero di condizioni di veriica e di combinazioni di carico e pertanto aumenta l’onere computazionale del progettista. In deinitiva per veriicare la sicurezza della costruzione si deve fare uno scenario dei rischi individuando i potenziali pericoli. Ad ogni pericolo si deve associare un valore della probabilità di riferimento per deinire un ragionevole grado di sicurezza della costruzione. La Comunità Sociale che si esprime con le normative, i Committenti ed i loro consulenti, i Costruttori assistiti dai Tecnici debbono prendere delle decisioni assumendosi le relative responsabilità.

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2. Probabilità ed errori umani

Per veriicare la sicurezza della costruzione si deve fare uno scenario dei rischi individuando i potenziali pericoli e deinire così gli stati limite, ultimi e di servizio, dai quali ci si deve cautelare. In linea di principio ad ogni stato limite si deve associare un valore della probabilità di riferimento per deinire un ragionevole grado di sicurezza della costruzione. Le normative, espresse dalle comunità sociali costituiscono un aiuto fondamentale a deinire lo scenario dei rischi anche se Committenti e Costruttori, assistiti dai loro Tecnici, hanno l’onere di rendere speciico tale scenario per ogni costruzione in funzione della sua tipologia, destinazione e localizzazione. I Committenti conoscono infatti le funzioni e la durata della costruzione che desiderano, i Costruttori le modalità di realizzazione. Ovviamente ogni decisione in proposito deve essere corretta dal punto di vista tecnico ed esente da errori. Siamo a Sant’Antonio, Texas; località Westover Hills. Il 12 Settembre 1987 verrà il Papa a celebrare la Messa. Sono previsti mezzo milione di fedeli. Per rendere visibile la celebrazione si costruiscono 2 torri gemelle, alte circa 42 metri collegate da un palco. La costruzione utilizza un normale sistema tubolare con aste e giunti da ponteggio e viene ricoperta, per il 75% con tappezzeria decorata. Il progetto prevede una vita della struttura molto breve: una messa, anche cantata, è sempre una messa. Per economizzare non si assume nei calcoli il vento prescritto dall’Uniform Building Code di circa 90 Km/ora che prevede un vento di tale entità ogni 50 anni. Si assume un vento pari alla metà, forse dimenticandosi che la pressione va col quadrato della velocità e che quindi, in termine di pressione, la scelta equivale a considerare sulla costruzione un quarto degli efetti eolici, che, oltre a tutto, sono la unica azione orizzontale introdotta nei calcoli.

Un errore geot ecnico: la Torre di Pisa.

Figura 2.1

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Il 10 Settembre, due giorni prima della cerimonia, l’aeroporto di Sant’Anton registra un vento di 60 Km/ora, vento che in quella stagione ha una ricorrenza frequente. Un cineamatore riuscì a ilmare la scena. Non so se Giovanni Paolo II ringraziò il suo Angelo Custode per averlo protetto dagli Ingegneri. Questo esempio ci fa capire che: i criteri di sicurezza sono condizioni necessarie, ma non sufficienti per escludere i collassi strutturali. Oggi il maggior numero di “incidenti” cioè i superamenti degli stati limite previsti e quindi i costi sia economici, sia di vite umane sono conseguenze di errori legati alle attività umane di progettazione, realizzazione ed utilizzazione della costruzione. La rielaborazione delle statistiche delle compagnie di assicurazione attribuiscono ad errori umani la quasi totalità degli incidenti. Gli errori umani sono riconducibili alla umana imperfezione, non sono prevedibili e non sono ovviamente contemplati nelle normative. Un errore umano può avere conseguenze importanti o trascurabili, a favore o a sfavore di sicurezza; più errori umani possono annullarsi o esaltarsi reciprocamente. In sintesi gli errori umani riportano il problema della sicurezza strutturale al di fuori delle teorie probabilistiche, almeno così come oggi formulate. Ad oggi si ha la sola certezza che gli errori umani hanno una frequenza maggiore il Venerdì e il Lunedì. Credo sia del tutto spiegabile tale loro proprietà. Negli ultimi decenni si è assistito ad un aumento degli errori umani legati alle attività di progettazione: forse l’uso sempre più difuso del progetto computerizzato, sia a livello di calcolo che di disegno, ha comportato una eccessiva conidenza nel computer alla quale si è accompagnato l’abbandono delle attività di controllo della bontà e soprattutto della verosimiglianza del risultato. In fondo basta digitare una virgola al posto sbagliato nel dare l’input al programma di calcolo per avere un risultato errato. Parimenti si sta veriicando un incremento degli errori mani nella fase di costruzione forse legato sia a una minore esperienza degli operatori e delle maestranze, sia alla minor cura nello studio delle sequenze di realizzazione e di montaggio della struttura. Inine vi è un incuria generalizzata nella gestione delle costruzione e una decisa mancanza di sensibilità nella sua manutenzione. Noi crediamo che una qualsiasi costruzione, una volta realizzata, debba funzionare per tutta la sua vita senza aver bisogno di interventi manutentivi. Noi pretendiamo che le nostre case, i ponti, le gallerie, tutte le costruzioni e le infrastrutture in genere, possano funzionare senza manutenzione, per un tempo praticamente ininito, anche se sono continuamente sollecitate dal variare delle stagioni, dai cicli

Parte III 2. Probabilit à ed errori umani

termici nel giorno e nella notte, dall’acidità dell’aria, dal gelo, dalle continue vibrazioni indotte dal traffico, dai cambiamenti del livello di falda. Noi ci scandalizziamo se un po’ di neve o un sisma relativamente piccolo causano danni. Noi non ci convinciamo che una casa, un ponte, una galleria sono continuamente sollecitate né più né meno della nostra automobile, ma una costruzione viene utilizzata sempre, 24 ore su 24, tutti i giorni dell’anno per decine e talvolta centinaia di anni; l’automobile viene utilizzata solo quando si muove: dopo un percorso di 200.000 km a una media di 40 Km/ora i suoi organi meccanici e la sua carrozzeria sono stati sollecitati per sole 5.000 ore! In deinitiva accettiamo che la nostra automobile, che tanto ci costa per la sua manutenzione, se venisse utilizzata 24 ore al giorno, possa durare solo 7 mesi (a tanto equivalgono 5.000 ore), viceversa pretendiamo che la nostra costruzione, priva di manutenzione, resti come nuova per un tempo praticamente ininito. Nella letteratura tecnica gli errori umani vengono correlati alle quattro seguenti categorie. 1. Deviazioni da prassi comunemente accettate, ad esempio la non corretta applicazione di una norma o di una buona regola del costruire. Particolarmente pericolosa è la “estrapolazione”, cioè l’utilizzo di una metodologia di calcolo o di una norma al di fuori del campo della sua applicazione speciica. 2. Superficialità / insufficienza di conoscenze nel trattare un problema speciico, tipico atteggiamento del tecnico che affronta un tema per il quale non ha una suiciente esperienza. E’ evidente a tutti che la progettazione è basata sia su conoscenze teoriche sia sull’esperienza maturata nel proprio lavoro. Se un tecnico afronta in solitudine un problema per lui nuovo, corre il pericolo di non conoscere le insidie che si nascondono nella novità. Un esempio tipico è colui che ha da sempre progettato costruzioni in cemento armato e che si trova a dover progettare una struttura in acciaio, o ovviamente il viceversa. 3. Mancanza di condivisione delle informazioni fra gli operatori, ad esempio fra progettisti e direzione lavori in cantiere. Viviamo in un mondo che richiede sempre maggior specializzazione e quindi accetta una mancanza di conoscenze, anche supericiali, delle problematiche di altre specialità. Chi si occupa di strutture non conosce l’impiantistica termica ed elettrica o la tecnologia dei rivestimenti, chi dirige un cantiere spesso non conosce le insidie di una variazione apportata al progetto. Architetti, Ingegneri progettisti di impianti e strutture, Costruttori con i loro responsabili di cantiere, persino operanti

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Figura 2.2 a. b. Figura 2.3 a. b. c.

nella stessa società, vivono in mondi diversi, ognuno pensando che l’altro abbia afrontato tutti gli aspetti di un problema e li abbia risolti in modo adeguato. 4. Le influenze o i condizionamenti da parte di fatti o persone estranee al problema tecnico, ad esempio il rispetto del budget. Purtroppo questo è la causa più subdola di errori umani. Ormai i tempi e i soldi sono i veri padroni del mondo del costruire. Ci si mette anni per decidere un investimento, ma una volta deciso, si lascia un tempo troppo breve per ben operare nella progettazione e nella esecuzione dell’opera e si appaltano progetto ed esecuzione al minimo ribasso senza pensare che soltanto una buona progettazione e una buona esecuzione possono dare la garanzia di una durata nel tempo dell’opera, minimizzando le spese di manutenzione. Per rispettare i tempi e i suoi costi il progettista produce un progetto senza tener conto delle fasi di costruzione e il costruttore lo modiica o addirittura costruisce, ignorando una serie di prescrizioni per arricchire il suo guadagno o per compensare le perdite dovute agli imprevisti. Gli efetti di una pressione non uniforme sui gusci cilindrici sottili quali i serbatoi metallici comportano un classico pericolo legato a un fenomeno di instabilità che viene attivato da azioni orizzontali non uniformi. E’legittimo pensare che tali disuniformità siano state

Parte III 2. Probabilit à ed errori umani

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sottovalutate nella progettazione dei serbatoi della Hess Oil Reinery in St Croix se, nel 1989 il tornado Hugo provocò il collasso dei serbatoi e una immane fuoriuscita di olio che si abbatté sui villaggi di quella bellissima isola. Nel novembre 1965 crollarono tre torri di refrigerazione, di un gruppo di otto, a servizio dell’impianto di produzione di energia elettrica di Ferrybridge situato sul iume River Aire in West Yorkshire, U.K. Le altre cinque ebbero danni anche severi. Le torri, alte circa 120 metri e 90 metri di diametro alla base, avevano le pareti in calcestruzzo particolarmente sottili: 12,5 centimetri di spessore. Tanto per rendersi conto delle proporzioni, un uovo, ingrandito in scala geometrica, avrebbe uno spessore di quasi 70 cm. Il vento che le distrusse non aveva una velocità eccezionale per quei luoghi. L’inchiesta rilevò che in sede di progetto era stato assunto un vento in sommità inferiore di circa il 20% di quanto prescrivevano le normali normative sulle costruzioni, erano stati trascurati gli efetti dinamici dovuti alle raiche di breve periodo e ci si era basati su risultati di prove aerodinamiche efettuate sulla singola torre, trascurando così la presenza di più torri vicine che provocava efetti particolarmente signiicativi dovuti all’incanalamento del vento. La gestione della sperimentazione può comportare errori nei risultati, ma anche conseguenze inaspettate.

Figura 2.4 a. b. Figura 2.5 a. b. c.

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L’antenna radio di Varsavia, 646,38 metri di altezza, situata a Konstantynow in Polonia era la struttura più alta esistente al mondo. Era una torre in tubi di acciaio con 5 ordini di stralli che le assicuravano la necessaria stabilità. All’interno della struttura vi erano scale di emergenza e un ascensore che permetteva di arrivare ino alla sommità. La torre crollò alle ore 16 dell’ 8 agosto 1991 a causa di un errore nelle normali operazioni di controllo dello stato di tesatura degli stralli. E’ probabile che la misura della forza generata dal martinetto applicato a uno strallo non fosse corretta e il tiro del martinetto inì coll’abbattere la torre. Il coordinatore dei lavori fu accusato di essere il responsabile della catastrofe e fu condannato a quasi tre anni di prigione. Insieme ad altre persone anche io corsi un grosso rischio per un altrettanto banale errore di strumentazione. Dovevo riprogettare una inestra di berillio di 35 cm di diametro che costituisce la parte terminale di un telescopio per raggi X che doveva essere montato su un satellite da inviare nello spazio con lo Shuttle. Il progetto della società di ingegneria degli Stati Uniti era stato deicitario e la prova a pressione eseguita presso il costruttore americano era stata negativa: la inestra si era rotta. Costruita la nuova inestra si doveva procedere a una nuova prova di collaudo che venne commissionata all’ISMES, uno dei più noti laboratori europei nel settore delle prove su strutture. La prova era particolarmente problematica perché bisognava arrivare al doppio del carico operativo tenendo conto che, in caso di rottura prematura, vi era il pericolo di formazione di polveri di berillio la cui ispirazione è mortale per le persone. Avviata la prova, al 20% del carico operativo le letture sperimentali delle componenti di spostamento si rivelarono il doppio di quelle calcolate. Figura 2.6 a. b.

Parte III 2. Probabilit à ed errori umani

Panico generale e ovvia conclusione: i calcoli erano sbagliati. Per difendermi chiesi se la misura della pressione era giusta suggerendo di controllarla con un manometro. Commisi un reato di lesa maestà: il responsabile della prova mi investì afermando che il laboratorio aveva da tempo abbandonato misure di tipo analogico che comportavano le incertezze legate alla determinazione della posizione sul quadrante di un ago, che nel laboratorio si usavano soltanto celle di misura super precise, periodicamente tarate tramite il Servizio Nazionale di Taratura, collegate a centraline multi canale di ultima generazione. Inine cercò anche di irritarmi afermando che tale strumentazione era certamente molto migliore e utilizzata con più professionalità di quanto eravamo capaci di fare nei Laboratori del Politecnico di Milano. Fui irremovibile, costrinsi il responsabile del Laboratorio ad andare nella vicina stazione di servizio a farsi prestare un normale manometro per gomme di autovettura. Il manometro misurò una pressione doppia di quella letta con la cella super – precisa che era stata non correttamente collegata alla centralina di ultima generazione. La inestra si sarebbe certamente rotta, forse una decina di persone avrebbe ingerito polvere di berillio e non sarebbe sopravvissuta a una banale mancanza di attenzione. Forse è successo anche per la Torre di Pisa quello che spesso accade nei nostri cantieri. L’Impresa deve rientrare nel budget, talvolta deve trovare i margini per ricompensare chi le ha affidato la commessa. Si risparmia in palificazioni, in cemento, in acciaio, in opere provvisorie per evitare crolli e garantire la sicurezza dei lavoratori. Tanto nessuno se ne accorgerà mai. Purtroppo i condizionamenti che i tecnici subiscono sono spesso di natura economica o politica. Non sempre i Tecnici riescono a resistere a tali pressioni: i dipendenti di azienda rischiano il posto o comunque ritorsione riservate a chi non sa adattarsi alle richieste necessarie per il bene dell’azienda; i professionisti rischiano di perdere il cliente che non guarda alla qualità della prestazione, ma pretende dal tecnico l’avallo di decisioni utili soltanto per produrre vantaggi economici. Questo è un problema di ordine morale e professionale che è sempre esistito e sempre esisterà in ogni parte del mondo e che nessun approccio probabilistico riuscirà mai a considerare.

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3. Il Ponte di Quebec City

Il 29 Agosto 1907, 15 minuti prima della chiusura serale del cantiere, crollò in costruzione il Ponte sul iume San Lorenzo a Quebec City. Fu uno degli incidenti più drammatici nella storia della costruzione dei ponti, causò la morte di 75 persone. È interessante ripercorrere le tappe che portarono al crollo perchè nella loro successione si intravede una serie di errori umani a dir poco emblematica: supericialità, mancanza di competenze, condizionamenti estranei al problema tecnico, la tirannia del rispetto del costo e dei tempi, la modalità di scelta dell’impresa. Ci fu di tutto, esattamente come oggi. Vari progetti di massima per la costruzione del ponte furono presentati alla Convenzione dell’American Society of Civil Engineering che si tenne a Quebec nel 1899. Essi furono giudicati insoddisfacenti. heodor Cooper era presente alla Convenzione. Egli aveva una brillante carriera di ingegnere progettista di ponti e ferrovie. Nato nel 1839, aveva iniziato la sua carriera professionale come assistente tecnico di James Buchanan Eads nella costruzione del ponte di St. Louis, iniziato nel 1867 e terminato nel 1875. Nei venti anni successivi Cooper era divenuto uno degli ingegneri più ascoltato e famosi degli Stati Uniti, membro del gruppo di esperti nel progetto del ponte di Manhattan ed insignito per ben due volte della Norman Medal dall’American Society of Civil Engineering. Cooper fu così chiamato da Simon Napoléon Parent, noto politico, presidente della Quebec Bridge Company, la società concessionaria che avrebbe dovuto realizzare il ponte sul iume Quebec. La trattativa economica fra Cooper e la Società non fu molto soddisfacente per Cooper perchè la Società voleva il nome di Cooper a garanzia del suo lavoro ma non aveva previsto nel suo budget il pagamento del progetto e della Direzione Lavori. Cooper si lasciò

Pont e di Quebec Cit y, oggi.

Figura 3.1 a. James Eads, Pont e di St . Louis, 1875; b. Theodor Cooper, St rawberr y Mansion Br idge, 1896; c. Leon Moisseif f, Pont e di Manhat t an, 1909.

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Figura 3.2 a. J. Fowler e B. Baker, il pont e sul First of Fort h, 1890; b. La rappresent azione “ umana” del funzionament o del Pont e. Figura 3.3 Theodor Cooper, proget t o del pont e sul Quebec, vist a e sezioni.

convincere a ridurre l’oggetto dell’incarico professionale alla preparazione del progetto di massima e delle speciiche tecniche che avrebbero permesso di avviare una gara di appalto per la progettazione esecutiva e la costruzione del ponte. Il contratto di Cooper prevedeva anche l’esame delle proposte presentate alla gara di appalto. Oggi diremmo che Cooper doveva preparare per il committente i documenti tecnici per un appalto concorso e dare un parere tecnico sulle oferte che sarebbero state presentate. Cooper comprese subito che doveva proporre una soluzione simile a quella ideata e realizzata da Sir John Fowler e Sir Benjamin Baker, che progettarono il ponte sul First of Forth in Gran Bretagna, realizzato fra il 1883 e il 1890. Si doveva rendere più grande possibile la luce libera fra i piloni per non impedire il delusso delle lastre ghiacciate nei mesi invernali. Il ponte sul First of Forth aveva due grandi arcate da 520 metri e il piano stradale a 46 metri sul livello del iume. Era un’opera in funzione da una decina di anni, certamente il sistema a mensola era più economico rispetto al ponte sospeso. Cooper preparò così una speciica tecnica che prevedeva un ponte lungo circa 950 metri con una luce centrale di 550 metri e due laterali di 200 metri, e indicò alla società concessionaria l’oferta della Phoenix Bridge Company come la migliore e la più economica. Individuata l’impresa, anche se senza particolari referenze nella costruzione di ponti di grande luce, la Quebec chiese a Cooper di restare suo consulente ed avere un ruolo di supervisore durante la costruzione del ponte. Cooper aumentò la luce centrale del ponte di circa 60 metri per ridurre lo sbalzo e favorire il delusso del iume ghiacciato durante la stagione invernale, Nel frattempo il governo

Parte III 3. Il Pont e di Quebec Cit y

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canadese procedette alla emissione di un prestito garantito per inanziare la costruzione del ponte. Chi avrebbe fatto il progetto del ponte passando dallo schizzo progettuale di Cooper a un progetto esecutivo? Chi avrebbe fatto la direzione lavori del ponte? La risposta, allora come oggi, è purtroppo ovvia: progetto e direzione dei lavori sarebbero stati compresi nel prezzo dell’appalto e quindi a carico della Phoenix Bridge Company, l’Impresa costruttrice,. Ma chi avrebbe controllato che l’Impresa facesse bene il suo compito? L’ingegnere capo della Quebec era Edward Hoare, oggi diremmo il Gestore della Commessa. Egli era noto per integrità e senso del dovere. Ma non aveva suicienti conoscenze tecniche. La Commissione di inchiesta indicherà che la sua designazione fu un grave errore da parte della Quebec Bridge Company. Scrisse: che è molto triste dover riconoscere che in molti casi la abilità nella gestione è più valutata della competenza tecnica. Hoare non ebbe dubbi, il progetto doveva essere controllato da Cooper che, sia per l’esiguità del compenso ofertogli, sia per questioni di salute, non aveva nessuna voglia di muoversi dal suo studio di New York. D’altra parte Cooper, per ragioni di principio, voleva essere il solo a sovrintendere al progetto esecutivo al quale stava lavorando Peter Slapka della Phoenix, tanto da minacciare le dimissioni quando Collingwood Schreiber, Capo dell’ingegneria del Dipartimento dei Trasporti e delle Acque di Ottawa richiese alla Quebec che qualcuno procedesse a una revisione indipendente del progetto. In buona sostanza Hoare era convinto che Cooper controllasse attentamente ogni particolare prodotto da Slapka, mentre Cooper conidava sulla correttezza dei disegni e dei calcoli della Impresa, convinto di doversi limitare a controllare che i criteri di progetto da lui stabiliti all’atto dell’appalto non venissero stravolti. Col procedere del progettazione, la Phoenix fece notare a Cooper che il peso di acciaio richiesto era signiicativamente più elevato di quanto previsto in sede di appalto: si cercò di minimizzare tale incremento sia trasformando le sezioni delle briglie da piene a composte da più elementi collegati fra loro da intralicciature, sia elevando le tensioni ritenute ammissibili nei confronti della instabilità delle aste compresse. Per contro non si tenne conto dell’incremento risulFigura 3.4 Schema della conformazione della briglia inferiore compressa.

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tante (circa un 20% del peso sullo sbalzo) nel valutare il valore dello stato di sforzo all’atto del montaggio. La costruzione delle fondazioni e dei piloni cominciò nel 1905. Cooper, visto che gli era stata affidata una generica supervisione dei lavori, inviò in cantiere il giovane ingegnere Norman Mc Lure (“i suoi occhi e le sue orecchie”), con il compito di riportargli la situazione e trasmettere eventuali suoi consigli all’Impresa. Nel 1906 vennero costruite le campate laterali da cui, a sbalzo, si sarebbe dovuto iniziare il montaggio della campata centrale. Nel 1907 la parte a sbalzo andava via via crescendo, ma nel giugno cominciarono le prime preoccupazioni: alcune distorsioni della corda inferiore compressa rendevano difficile l’assemblaggio e la chiodatura degli elementi. Mc Lure ne informò Cooper, ma la Phoenix comunicò che ciò era dovuto a un banale difetto di fabbricazione e il primo sintomo fu così trascurato. All’inizio di Agosto la parte terminale della corda inferiore comincia a spostarsi visibilmente di lato e il 6 Agosto Mc Lure, preoccupatissimo, informa Cooper e Hoare, Gestore di Commessa della Quebec. Cooper non si mosse dal suo studio di New York; Hoare non diede peso alla cosa. Nel cantiere si comincia a capire che qualcosa non funzionava. L’inascoltato Mc Lure, non avendo alcuna autorità per interrompere il montaggio, cercava di coinvolgere i suoi interlocutori comunicando le misure dello sbandamento laterale. Ma il montaggio continuava. Il 27 Agosto, due giorni prima del crollo, Mc Lure scrisse a Cooper allarmato: 3/4 di pollice la settimana scorsa oggi siamo a due pollici e un quarto. Il montaggio non deve proseguire ino a quando Cooper e la Impresa non avranno capito le ragioni del crescente sbandamento laterale. Benjamin Yenser, il capocantiere della Phoenix, temendo per la sicurezza dei suoi uomini, interrompe i lavori, ma John Deans, capo dell’impresa ordina di riprenderli. I lavori continuarono per tutto il 28 Agosto. Verso sera Mc Lure, stufo di non essere ascoltato, prese il treno della notte promettendo al cantiere che avrebbe trascinato di peso Cooper in cantiere. Purtroppo, nella stessa notte, l’impresa decise di continuare a ignorare il consiglio di Mc Lure e l’indomani il montaggio non venne sospeso. Figura 3.5 Agost o 1907 – Il pont e in cost ruzione.

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Il 29 Agosto, alle 11 di mattina, Cooper arrivò in ufficio a New York e trovò Mc Lure ad aspettarlo. All’una e un quarto inviò un telegramma alla sede dell’Impresa chiedendo di incontrare Deans e Szlopka nel pomeriggio e ordinando: non aggiungete più carico fino a quando non avrò preso nella giusta considerazione quanto successo. Disgraziatamente la Phoenix non trasmise l’ordine di Cooper al cantiere e alle 17,30 il ponte crollò travolgendo 86 persone che vi lavoravano. Di esse solo 11 si salvarono; 75 persero la vita fra le quali anche il capocantiere Benjamin Yanser. La Commissione di inchiesta attribuì a John Deans la incapacità di gestione della crisi veriicatasi gli ultimi giorni e criticò la Quebec Bridge Company per aver designato Edward Hoare come suo supervisore in cantiere. Ma le massime responsabilità dell’accaduto furono attribuite a Peter Szlapka che aveva redatto il progetto esecutivo e a Cooper che lo aveva esaminato e approvato. Il crollo, dissero i Commissari, non può che essere attribuito a errori di questi due ingegneri…e soprattutto all’aver assunto nei calcoli un valore troppo piccolo del peso proprio…..Tale errore sarebbe stato suiciente a “condannare il ponte” anche se i dettagli costruttivi e gli elementi compressi fossero stati meglio progettati. Inoltre fu segnalato quanto poco soddisfacente fosse stato il metodo di concorso appalto e la scelta di una Impresa di Costruzione che aveva il solo merito di aver fatto la oferta più vantaggiosa. Ci vollero circa due anni per togliere tutti i detriti e per riprogettare l’opera. Poi iniziò la costruzione di un ponte analogo a quello concepito da Cooper, ma più solido e pesante. Il gruppo di progettazione che disegnò il nuovo ponte comprese che costruire a sbalzo l’intero ponte era problematico e quindi decise di innalzare la campata centrale. L’11 settembre 1916, quando le 2500 tonnellate della campata centrale furono issati di 4 metri, il tutto si rovesciò nel iume facendo ulteriori 13 morti. Finalmente nel 1917 la campata centrale fu sollevata e messa in posizione. Il 22 agosto 1922 il ponte fu inaugurato dal Principe del Galles, futuro re Edoardo VIII. Figura 3.6 29 agost o 1907.

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Figura 3.7 11 set t embre 1916.

Figura 3.8 a. Il sollevament o della campat a cent rale, 1917; b. Inaugurazione del Pont e, 22 agost o 1922.

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4. Hyatt Hotel di Kansas City

Lo Hyatt Hotel, allora il più moderno e attraente hotel di Kansas City, fu inaugurato nel 1980 dopo due anni di progettazione e altri due di costruzione. Era dotato di 750 stanze, numerosi ristoranti ed era stato concepito con un grande atrio centrale dedicabile a eventi di richiamo. Il complesso era articolato in tre ediici connessi fra loro: a nord una torre, slanciata e sottile che conteneva stanze e suite per gli ospiti; a sud un blocco “funzionale” di quattro piani destinato a contenere sale di riunione, ristoranti e i servizi dell’hotel; l’atrio centrale, circa 35 x 45 metri in pianta, destinato appunto ad accogliere manifestazioni con un grande alusso di pubblico. Il pavimento dell’atrio è in corrispondenza del primo piano del complesso; il tetto 15 metri sopra il suo pavimento è trasparente in acciaio e vetro. Il collegamento fra la torre e i corrispondenti piani del blocco funzionale è garantito, oltre che dal pavimento del primo piano, da tre passerelle al secondo, terzo e quarto piano. Le tre passerelle attraversano l’atrio, una al terzo piano si snoda al centro dell’atrio, due corrono sovrapposte, al secondo e al quarto piano, lungo la parete ovest. Le passerelle sono sospese a tiranti attaccati alle strutture di copertura dell’atrio. I tiranti dell’unica passerella del terzo piano terminano al di sotto della passerella stessa; i tiranti che reggono le due passerelle sovrapposte del lato ovest sono continui attraverso la passerella superiore al quarto piano e si arrestano al di sotto di quella del primo piano. Nel pomeriggio del 17 Luglio 1981, dalle 1500 alle 2000 persone afollavano l’atrio, molte di esse danzavano al suono di una

Il crollo allo Hyat t Hot el di Kansas Cit y

Figura 4.1 a. pianta dei tre ediici; b. sezione dell’atrio; c. schizzo prospettico dell’atrio; d. attacco del t irant e alla passerella.

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Figura 4.2 a. disposizione dell’at rio il 17 luglio 1981; b,c. l’at rio dopo il crollo delle due passerelle.

orchestra per una competizione di ballo, le altre assistevano disposte lungo le pareti dell’atrio, un centinaio di esse si erano fermate sulle passerelle che ofrivano agli spettatori una vista a dir poco unica delle coppie che volteggiavano qualche metro al di sotto. Alle 19,05, proprio alla ripresa dopo una breve intervallo, la orchestra riprende a suonare, ma viene interrotta da un rumore assimilabile a un tuono: la passerella superiore delle due sovrapposte, quella del quarto piano, si stacca dai suoi tiranti che restano appesi penzolanti dal tetto. Contemporaneamente si stacca anche la passerella sottostante del secondo piano e il tutto si abbatte sul pavimento. La passerella opposta al terzo piano non è coinvolta dall’incidente. Tra la sessantina di persone che stavano sulle passerelle crollate e le persone sottostanti si contano 113 morti e 188 feriti anche molto gravemente (2 moriranno nei giorni successivi, altri resteranno mutilati per la vita). La stampa deinì questo incidente il peggior collasso strutturale mai accaduto negli Stati Uniti e iniziò a dare voce, come sempre avviene in questi casi, a tutta una serie di pettegolezzi sulle ragioni dell’accaduto. Si disse che le persone che assiepavano le passerelle ballavano ai ritmi dell’orchestra e che quindi le sollecitazioni dinamiche indotte dal loro danzare e la risonanza fra i loro ritmi e la frequenza della passerella avevano provocato il collasso delle strutture. Poi si disse che la qualità dei materiali era certamente la causa di quanto era successo perché è noto che i costruttori utilizzano materiali scadenti per maggiorare il loro guadagno. Inine si mise il dito sulla mancanza di qualiicazione degli operai e soprattutto dei saldatori in quanto è noto che la manodopera specializzata è più costosa. Su richiesta del Sindaco di Kansas City il Governo Federale autorizzò il NBS (National Bureau of Standards) a condurre una indagine uiciale che deinisse la più probabile causa del disastro. La Commissione pubblicò il suo rapporto inale nel maggio 1982 dopo aver condotto l’esame degli elaborati progettuali, analisi di calcolo indipendenti, prove sperimentali sui resti delle strutture e su modelli di esse. La Commissione arrivò alla conclusione che

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vibrazioni, qualità dei materiali e qualiicazione delle maestranze non avevano avuto alcun ruolo nel collasso e quindi non erano da ritenersi neppure concause dell’incidente. Viceversa vi era stato un grave errore di progetto nel passaggio dal disegno iniziale al disegno esecutivo del tirante che aveva comportato il raddoppio del carico sul collegamento fra traverso e tirante e che aveva provocato il suo cedimento sotto l’efetto delle persone presenti. In deinitiva il peggior collasso strutturale mai accaduto negli Stati Uniti è successo per un banale errore nel progettare una banale struttura in acciaio da parte di ingegneri strutturisti che non hanno veriicato, neanche con il solo buon senso, un collegamento la cui forma era da essi stata variata rispetto alla normale consuetudine. La struttura della passerella era realizzata con una normale soletta in lamiera grecata e calcestruzzo che poggiava su traversi realizzati con proilati a C accoppiati. I traversi erano sostenuti alle estremità dai tiranti. Normalmente si progetta un collegamento del genere disponendo i due proilati a C schiena a schiena, distanziando le loro anime verticali di una quantità pari al diametro del tirante e inserendo una semplice rondella fra dado e proilati. Qualora invece si desideri realizzare una sezione chiusa con un tubo o due C si deve disporre, al posto della rondella, una piastra più grande e più spessa perché la distanza fra le anime diventa molto maggiore e non si può Figura 4.3

Figura 4.4 a,b. t ipici collegament i fra un t irant e e due proili a C; c. Soluzione di proget t o del collegament o.

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Figura 4.5 a. collegament o come da proget t o e come realizzat o; b. schizzo prospet t ico del collegament o realizzat o. Figura 4.6 a. forze sul collegament o proget t at o; b. forze sul collegament o realizzat o; c. schizzo prospet t ico del meccanismo di rot t ura; d. fotograia del meccanismo di rot t ura della sezione a C.

fare aidamento sulla lessione delle ali e dell’anima per trasferire il carico al tirante. Nel progetto iniziale si disegnò invece un tirante passante fra i due proili a C con un dado e una semplice rondella, pensando che la inlessione delle ali dei proilati fosse capace di trasferire il carico della passerella al tirante. Questo primo errore, rileva la Commissione, rese il progetto della passerelle non conforme alle normative, ma non fu la causa prima del crollo perché, il collegamento sarebbe stato capace di sostenere le persone efettivamente presenti, ingeneranti un carico decisamente inferiore a quello previsto dalle stesse normative. Il progetto prevedeva un tirante passante con un dado: particolare questo irrealizzabile: bisognava o utilizzare una barra completamente ilettata oppure collegare due spezzoni di barra con un manicotto ilettato. Purtroppo venne scelta un’altra strada: lo sdoppiamento del tirante. Con una tale disposizione il collegamento muta sostanzialmente le sue funzioni. Immaginiamo che ognuna delle due passerelle debba aidare al tirante un carico P. Con la disposizione originale il collegamento deve trasferire dal traverso al tirante soltanto il carico P della passerella superiore, perché il carico P della passerella inferiore è già stato trasferito dall’analogo collegamento situato al piano

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sottostante. Con la disposizione variata il collegamento diventa un dispositivo che deve trasmettere il carico P della passerella inferiore al traverso della passerella superiore, aggiungervi il carico P della sua passerella, trasferire il carico 2 P al tirante. In deinitiva il cimento locale della sezione e in particolare delle ali inferiori dei proilati a C raddoppia, diventa insostenibile, le ali si deformano aprendosi, il tirante si sila restando penzolante dal tetto, le passerelle non sono più sostenute. Le autorità del Missouri riconobbero colpevoli i progettisti strutturali perché approvarono il disegno in variante proposto dal costruttore senza comprenderne la sostanziale diferenza con la soluzione iniziale. Al principale della società di ingegneria e al responsabile del progetto fu tolta la licenza di operare come ingegneri. Essi furono ritenuti responsabili di non aver fatto o di non aver fatto fare quello che si insegna in tutti i paesi del mondo: nel progettare e veriicare i collegamenti si deve ricostruire puntualmente il percorso delle forze e misurare in ogni punto del percorso la resistenza; tale processo non può essere seguito con i calcolatori elettronici, va quasi sempre fatto più semplicemente rispettando le leggi dell’equilibrio.

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5. Qualità e Interdisciplinarietà

Le conoscenze e quindi le normative internazionali e nazionali che le divulgano, hanno ormai raggiunto un grado di maturità, di dettaglio e di affidabilità da escludere che gli “incidenti” possano derivare da loro mancanze. Inconvenienti, dissesti, crolli nel mondo delle costruzioni dipendono da errori umani. L’architetto, l’ingegnere, il costruttore, in deinitiva la persona umana, continua ad essere al centro del costruire; con la sua capacità e le sue conoscenze determina il successo oppure l’insuccesso. E’ la persona che, lavorando con altri, deve afrontare un problema che non ha eguali: riuscire a realizzare un’opera che comunque è un “unicum”, un’opera che non può essere ottimizzata per fasi successive analizzandone il comportamento, come abitualmente avviene nelle produzioni di serie. L’architetto, l’ingegnere, il costruttore si devono confrontare con un’opera che, una volta realizzata, è praticamente immodiicabile e che, quasi sempre, ha un valore monetario piccolo rispetto ai danni che il suo malfunzionamento può causare: un dissesto strutturale di una copertura di un ediicio industriale può fermare la produzione di mesi, mandando in cassa di integrazione anche migliaia di lavoratori; una rottura di un silos può causare la perdita di un raccolto di un valore diverse decine di volte il costo del silos; l’inagibilità di un ponte causa danni incommensurabile alla catena della distribuzione e alla mobilità delle persone. L’unica strategia attualmente perseguita per mitigare gli efetti degli errori umani è basata sulle procedure della Assicurazione della Qualità, che dovrebbero evitare gli errori controllando lo svolgimento di tutte le questioni tecniche, operative e gestionali. Per quanto riguarda le questioni tecniche bisognerebbe controllare, in modo indipendente l’ordine di grandezza dei risultati numerici, la complementarità dei modelli numerici impiegati, la completezza delle combinazioni di carico che individuano gli scenari di possibili eventi sfavorevoli Per quanto riguarda le questioni operative il lusso delle informazioni dovrebbe essere corretto e completo, per ogni fase esecutiva dovrebbero essere disponibili i necessari documenti progettuali in modo che chi esegue in oicina ed in cantiere non sia costretto

George Seurat , la t our Eif fel.

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Figura 5.1 a. Moschea Amir Chakmak, Yazd, XII sec. , Iran; b. Port a di Ist ar, Babilonia, 575 a. C. , Iraq; c. Taj Mahl, XVII sec. d. C. , Agra, India.

ad improvvisare soluzioni, la responsabilità delle varie fasi esecutive dovrebbe essere chiaramente individuata e i responsabili di tali fasi dovrebbero conoscere l’opera nella sua globalità per confrontarsi fra loro quando necessario. Per quanto riguarda le questioni gestionali, in ogni fase del processo, committenti, progettisti, esecutori dovrebbero disporre di operatori di adeguata cultura speciica e di senso di responsabilità, consci di tutte le operazioni necessarie per realizzare la costruzione nella sua interezza. Nel corpo normativo europeo, all’inizio di ogni Eurocodice, è esplicitamente afermato che la norma è basata sulle seguenti ipotesi: - le strutture sono progettate da personale che abbia la qualiicazione e l’esperienza appropriate; - sono previsti adeguata supervisione e controllo di qualità negli stabilimenti, negli impianti e in situ; - la costruzione è progettata ed eseguita da personale che possiede la competenza e l’esperienza appropriate; - i materiali e i prodotti da costruzione sono utilizzati come speciicato nella normativa e nelle pertinenti speciiche di materiali e prodotti; - la costruzione sarà oggetto di una manutenzione adeguata e verrà utilizzata in accordo con le prescrizioni di progetto; In deinitiva si aferma che le prescrizioni normative presuppongono la buona qualità di tutti gli operatori coinvolti nel progetto, nella esecuzione e nella utilizzazione della costruzione e si riconosce che è inutile produrre carta piena di calcoli e di disegni, emettere specifiche raffinate e formalmente perfette se le persone coinvolte, ad ogni livello, non soddisfano i prerequisiti di cultura, di abilità, di esperienza e di senso di responsabilità. Le procedure dell’Assicurazione della Qualità hanno certamente il pregio di evidenziare, in ogni fase del processo, i singoli contributi degli operatori coinvolti e le conseguenti responsabilità. Purtroppo le procedure vengono spesso applicate nella direzione opposta: con

Parte III 5. Qualit à e Int erdisciplinariet à

opportune clausole contrattuali si permette ad ogni operatore di scaricare la responsabilità sugli altri; il committente sull’appaltatore, l’appaltatore sul sub appaltatore o sul tecnico, rendendo vano ogni sforzo di controllo del processo. Ad esempio, oggi, nel campo dell’edilizia il Committente è spesso una società immobiliare diversa da insediamento a insediamento, che appalta la gestione del costruire a un società di servizi scelta con il criterio del minimo prezzo. Il Costruttore è spesso una Associazione Temporanea di Imprese, anch’essa scelta con il criterio del minimo prezzo che scompare al collaudo, facendo perdere le tracce di chi ha la efettiva responsabilità dell’opera. Resta il ricordo di chi non può cambiare nome e cognome: l’architetto, gli ingegneri delle strutture e degli impianti, qualche fornitore di componenti. Così le responsabilità sono in capo ai più deboli, a coloro che non hanno il potere di imporre il metodo di lavoro e di operare le scelte fondamentali. I committenti delle grandi opere del passato, nello spirito del codice di Hammurabi, avevano individuato i Costruttori come l’anello forte della catena, igure capaci di dominare il processo perché avevano credibilità, conoscenza, esperienza, serietà suicienti per soddisfare le esigenze del Committente. Ammirando, la solidità e la bellezza di tante opere del Medio Oriente non si può che condividere una tale scelta. In tempi più recenti Eifel ha avuto grandi successi in tutto il mondo perché riassumeva in sé le caratteristiche dell’ingegnere, dell’architetto e del costruttore. Era allo stesso tempo progettista e

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Figura 5.2 Opere di Eif fel. a. Pont e Mar ia Pia, Opor t o; b. Ossat ura della St at ua della Liber t à, New York; c. la Torre in cost ruzione; d. St azione di aut obus a La Paz. Figura 5.3 a. Pet ronas Towers, Kuala Lumpur, Malesia; b. The Gerkin, Londra; c. Taipei 101, Taipei, Taiwan; d. Plaza de Cast illa, Madr id.

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impresario, non aveva a disposizione le nostre conoscenze tecniche, ma dominava tutto il processo del costruire, dalla ideazione dell’opera ai dettagli costruttivi ino alle fasi di montaggio. Oggi la realtà è ben più complessa, troppo spesso i Committenti privilegiano l’aspetto inanziario e trascurano gli aspetti tecnici e operativi, non rendendosi conto che soltanto l’insieme di conoscenze ed esperienze in capo a più persone serie e credibili possono garantire la qualità del risultato inale. Diventa sempre più necessario che il Committente sia aiancato da una igura con competenze tecniche magari non approfondite, ma suicientemente interdisciplinari, capace di alimentare e gestire con autorevolezza il dialogo far le diverse igure specialistiche, dalla progettazione alla realizzazione e all’utilizzazione del bene. Soltanto con l’apporto di questa igura, caratterizzata da un profondo senso di responsabilità e di etica, capace di comprendere e di fare una sintesi dei linguaggi e delle esigenze di tecnici con diverse competenze, si potranno dare alla nostra società costruzioni di elevata qualità evitando di cadere in errori umani dalle conseguenze spesso devastanti. Soltanto così il mondo del costruire potrà continuare a produrre una bellezza che vive e perdura nel tempo.