Mia per sempre. Quando lui uccide per rabbia, vendetta, gelosia 8804626291, 9788804626299

Solo nel 2012, in Italia, sono state 120 le donne uccise dal proprio ex, senza contare quelle scomparse e di cui non si

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Italian Pages 186 [191] Year 2013

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Mia per sempre. Quando lui uccide per rabbia, vendetta, gelosia
 8804626291, 9788804626299

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Cinzia Tani

MIA PER SEMPRE Quando lui la uccide per rabbia, vendetta, gelosia

MONDADORI

Dello stesso autore in edizione Mondadori

Assassine Coppie assassine Nero di Londra Amori crudeli L'insonne Sole e ombra Lo stupore del mondo Charleston Io sono un'assassina Il bacio della dionea con Rosario Sorrentino

Panico Rabbia

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www.librimondadori.it

� Mia per sempre di Cinzia 'limi ISBN 978-88-04-62629-9 Publ ished by arrangement with Marco Vigevani Agenzia Letteraria

© 2013 Arnoldo Mondadori Editore S,p.A, I edizione febbraio 2013

Milano

Indice

3 18

I Non chiamateli «passionali>> II

Come e dove uccide

31

III Quando uccide

48

IV

63 76

VI

92

VII

108

VIII

120

IX

134

Maltrattate Perseguitate Medea al maschile Io ho ucciso la mia adorata Carmen!

x Cancellate

147

XI

164

XII

179

Perché uccide

v La sindrome di Otello

Le colpe della società Perché non accada più

Lettera aperta alla donna scritta dai «giovani del2012»

di Ilaria Ceci 185

Post scriptum

Mia per sempre

Mise le mani in tasca Il suo dito sull'acciaio La pistola era pesante Il suo cuore poteva avvertirlo Stava battendo, battendo Battendo, battendo, oh amor mio oh amor mio, oh amor mio oh amor mio Le mani che costruiscono Possono anche distruggere Le mani dell'amore Perfino le mani dell'amore. Exit, dall'album The Joshua Tree degli U2

I

Non chiamateli «passionali»

Li chiamano «delitti passionali» perché l'omicida uccide chi afferma di amare, in un impeto di rabbia o di gelosia. Ep­ pure in questi delitti non c'è niente che faccia pensare alla passione come al sentimento che stimola a compiere gran­ di conquiste, a superare se stessi, a morire per un ideale, ad amare intensamente. Si potrebbe obiettare che passione si­ gnifica pathos, dolore, esagerazione, esasperazione, che la passione può spersonalizzare l'altro per idealizzarlo, per farne un riflesso di sé. «Esisto solo per te», «Vivo solo at­ traverso il tuo sguardo». La passione a volte somiglia a una droga. La tossicodipendenza comporta una rottura con la realtà, compresa quella con l'essere amato, e l'individuo drogato cerca continuamente di aumentare l'effetto delle sostanze che assume. L'immaginazione spesso governa la passione con l'idea che sia possibile realizzare un'unione esclusiva, totalizzante, ma omicidi commessi per futili mo­ tivi, in accessi di furore, in momenti di frustrazione do­ vuta a un abbandono o al sospetto di un tradimento, cosa hanno a che fare con le passioni amorose raccontate dalla letteratura, dall'epica, dal mito? È amore quello che porta un uomo a uccidere la propria compagna? O piuttosto è senso del possesso, gelosia delirante, orgoglio, delusione e narcisismo? Nel passato il «delitto d'amore» veniva giudicato con una certa indulgenza perché era proprio la passione a costituire

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Mia per sempre

l'attenuante nell'opinione pubblica. Ma il Codice penale sancisce che gli stati d'animo passionali non diminuiscono l'imputabilità di un omicida, è la perizia psichiatrica a sta­ bilire se nel momento dell'uccisione il responsabile era to­ talmente o in parte incapace di intendere o volere. Nella maggior parte di questi delitti non c'è premedita­ zione, ma possono esistere precedenti di violenza e abusi del carnefice verso la sua vittima. Tuttavia, spesso il futu­ ro assassino vive un periodo di estrema tensione e deside­ ra compiere un gesto eclatante che interrompa la spirale di sofferenza e frustrazione in cui è bloccato. L'espressione «delitto passionale» è soprattutto una de­ finizione mediatica che per molto tempo si è basata sulla complicità del lettore-spettatore, portato a trovare attenuan­ ti a omicidi che supponeva basati su un amore eccessivo, totalizzante, l' amour fou dei francesi. La benevolenza con cui erano giudicati quei delitti si basava sul fatto che era­ no compiuti da uomini normali, senza precedenti penali, di solito considerati buoni padri, amici generosi, bravi la­ voratori. Miti, gentili, socievoli: l'omicidio deve essere per forza dovuto a una loro temporanea infermità mentale, a un momento di blackout. Gli stessi assassini lo dichiarano: «Improvvisamente è scesa la nebbia nel mio cervello, non ricordo cosa ho fatto)); «Fino a un momento prima stavamo litigando . . . poi l'ho vista morta sul letto)); «Non volevo ucciderla . . . è come se avessi imboccato un tunnel buio)), Il crimine passionale è sempre stato ritenuto una catego­ ria a parte, lontana da altri tipi di omicidio. Non riscuote la stessa disapprovazione sociale, sia perché chi lo commet­ te viene considerato vittima di tradimenti e slealtà, sia per­ ché spesso si suicida dopo aver ucciso. La letteratura ha dato una sorta di dignità a questi cri­ mini, basta pensare a Sonata a Kreutzer di Tolstoj, il cui pro­ tagonista, durante un via Qgio in treno, racconta la sua tra­ gedia a uno sconosciuto. E la storia di un amore coniugale in cui un uomo sospetta un tradimento da parte della mo­ glie. Il dubbio lo porta a un tale livello di tormento che, or­ mai certo dell'infedeltà della donna anche se non ne ha la

Non chiamateli «passionali»

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prova, la pugnala a morte. Alla fine del racconto l'assassi­ no implora il perdono del compagno di viaggio. Di delitto passionale parla anche Georges Simenon in Lettera al mio giudice, dove un medico scrive al magistrato che lo ha con­ dannato per omicidio spiegando di avere ucciso una donna che amava troppo. È difficile che il lettore non provi com­ passione e simpatia per i protagonisti di queste due vicen­ de. Ed ecco l'inganno: la sofferenza e quello che viene scam­ biato per amore estremo addolciscono il crimine crudele. Che induca a comportamenti positivi o negativi, la pas­ sione viene vista come un sentimento potente contro il quale è inutile ribellarsi. È il motivo per cui questi delitti sono stati a lungo percepiti come dovuti a una sorta di fa­ talità. Poiché uccide il più delle volte tra le pareti dome­ stiche, non ha precedenti penali e raramente è portato a ri­ petere l'atto criminoso, l'assassino induce alla clemenza e non è ritenuto pericoloso per la società. Eppure, nei capi­ toli che seguono vedremo come gran parte di questi crimi­ nali uccidano al termine di una serie di violenze perpetra­ te ai danni della donna che affermano di amare; vedremo come spesso la loro vendetta si estenda anche ai figli e come, se arrestati, cerchino delle giustificazioni alle loro azioni scellerate. Rimane la controversia sulla denominazione di delitto passionale. Il magistrato Salvatore Cosentino spiega che «non sempre i concetti, i valori che hanno un significato nel linguaggio di tutti i giorni conservano lo stesso signi­ ficato semantico, lessicale e contenutistico nel mondo del diritto. Abitualmente siamo portati a pensare che il delit­ to passionale sia istintivo, d'impeto. Ciò può essere vero in molti casi, ma non è così scontato. Talvolta, infatti, una sof­ ferenza passionale può portare a delitti premeditati. Questo perché ci si crogiola, quasi, nella sofferenza, progettando, meditando sul momento, il luogo e soprattutto la tecnica dell'omicidio. «Quindi il delitto passionale può essere progettato. Un caso giudiziario molto interessante di qualche decennio fa

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vide balzare agli onori della cronaca una coppia di amanti calabresi. Lei era un'attrice e recitava nel teatro ambulan­ te del marito. Quest'ultimo la sorprese con l'amante poche ore prima dello spettacolo, ma non la uccise sul momen­ to. Attese l'ora della recita: la trama prevedeva che in sce­ na essi rappresentassero, come nella realtà, due coniugi in crisi che litigavano a causa del tradimento di lei. In uno straordinario parallelismo fra teatro e vita, il marito ucci­ se davvero la moglie sul palcoscenico, mentre il pubblico credeva stesse ancora recitando. Ecco, questo è un caso da manuale di delitto passionale premeditato. «Anche dal punto di vista tecnico-giuridico il nostro co­ dice penale mantiene ben separati, direi antologicamente distinti, i concetti di passionalità e di impeto. Si pensi che nel diritto penale lo "stato passionale" è descritto come "un'emozione particolarmente profonda e duratura che tende a predominare sull'attività psichica del soggetto mi­ nando il suo potere di autocontrollo". E la giurispruden­ za ha più volte riscontrato il motivo passionale nei delit­ ti commessi per amore, attrazione sessuale, odio, invidia, gelosia, fanatismo e ambizione. Eppure questi motivi così particolari, così immaginifici, così presenti in tantissima parte della letteratura, per il Codice penale non sono affat­ to rilevanti ai fini del riscontro della capacità di intendere e di volere. Bisogna però precisare che, pur non escluden­ do la responsabilità, la gravità del delitto compiuto sotto l'effetto dello stato passionale può essere considerata atte­ nuata. Esiste infatti nel nostro Codice una norma che pre­ vede un'attenuante per chi commette un reato in risposta a una provocazione, a un fatto ingiusto altrui o in preda a uno stato d'ira. Il tradimento di un partner può quindi es­ sere ritenuto giuridicamente "fatto ingiusto altrui" tale da non escludere, ma comunque "attenuare", diminuire, la pena del reato commesso. «Il diritto penale prevede poi un'ulteriore distinzione tra delitto d'impeto e delitto di riflessione. Nel primo caso v'è un immediato passaggio dalla volontà del delitto alla sua realizzazione, nel secondo intercorre un apprezzabile las-

Non chiamateli «passionali»

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so di tempo tra l'insorgere del proposito delittuoso e la sua esecuzione. Il diritto penale, in questi casi, distingue mol­ to bene le due ipotesi. Un delitto d'impeto viene giudicato meno severamente di un delitto di riflessione (che talvol­ ta diventa vera e propria premeditazione). Ciò perché vi è molta più intensità di volontà (i giuristi dicono "dolo") nel secondo caso rispetto al primo. Più volontà, dunque, signi­ fica più pena.» Secondo Cosentino, ha senso chiamare passionale un omi­ cidio «commesso da un uomo "malato d'amore" o schiavo senza catene delle sue passioni. Tanto più che abbiamo vi­ sto come la "patente di passionalità" non farà mai assolvere nessuno (in un'epoca, ricordiamolo, in cui il delitto d'ono­ re è stato fortunatamente abrogato), ma al massimo potreb­ be configurare quell'attenuante di cui parlavo, che comun­ que non potrà mai ridurre la pena oltre il terzo del tempo complessivo in cui essa andrebbe scontata». In passato erano soprattutto le donne a uccidere il partner. Costrette a sposare un uomo che non amavano, a volte ri­ correvano al veleno per liberarsi di lui. Questo accadeva se l'uomo era violento e traditore, ma anche se la donna ave­ va incontrato il vero amore e voleva ricominciare la vita in­ sieme a lui. Non avendo la possibilità di separarsi, poiché di­ pendeva economicamente dal marito, ricorreva all'arsenico. Questa sostanza, chiamata nel 1786 «soluzione di Fowler», dal nome del medico che per primo ne promosse l'utiliz­ zo in caso di febbre e cefalea, era popolare come tonico e se ne ricavavano anche prodotti per la pelle e moschicidi. Era quindi facilmente reperibile in farmacia. Le donne mesco­ lavano ogni giorno piccole dosi di veleno alla minestra, al caffè o alla cioccolata, e aspettavano pazientemente che fa­ cesse effetto. La vittima soffriva di terribili mal di stomaco e di diarrea, convulsioni e paralisi, ma poiché si trattava di sintomi comuni a diverse malattie era difficile diagnostica­ re un avvelenamento volontario. L'omicidio richiedeva mol­ to tempo, perché le dosi di arsenico dovevano essere mini­ me affinché l'omicida non fosse scoperta. Questo dimostra

lO

Mia per sempre

La violenza maschile nella coppia è diversa da qualun­ que altro tipo di violenza interpersonale. L'aggressione alla donna è immotivata, eccessiva, compiuta con lo sco­ po di intimorire, punire, sfogarsi. Colpisce tutte le donne, indipendentemente dalla loro posizione sociale, dall'età, dal tipo di personalità, dal lavoro che svolgono, dal luogo in cui vivono. Questi delitti sono definiti «femmicidi». Il termine inglese femicide è stato usato per la prima vol­ ta nel 1992 da Diana E.H. Russell e Jill Radford nel libro Femicide: The Politics of Woman Killing per indicare l'ucci­ sione di una donna, in quanto donna, da parte di un uomo. Il termine «femminicidio», invece, spiegato recentemente da Barbara Spinelli nel libro Femminicidio. Dalla denuncia sociale al riconoscimento giuridico internazionale, compren­ de una realtà più ampia. Responsabile dell'omicidio non è solo l'uomo che lo compie, ma la società maschilista e mi­ sogina che ne ha creato le premesse e per troppo tempo lo ha tollerato. In alcuni Stati il femminicidio è molto diffuso proprio perché non sono protetti e garantiti i diritti delle donne in ambito pubblico e privato. Si parla di femminici­ dio non solo nei casi di uccisione di donne in quanto tali, ma anche per indicare ogni forma di discriminazione o di violenza commessa ai loro danni. È stata l'antropologa messicana Marcela Lagarde a co­ niare il neologismo spagnolo feminicidio, mentre da parla­ mentare conduceva un'ampia indagine sugli assassinii di donne a Ciudad Juarez. Marcela Lagarde ha mostrato che la violenza contro le donne nella città al confine con gli Stati Uniti fa parte di un sistema: non si tratta di crimini isolati, uno diverso dall'altro, ma di uno strumento di op­ pressione e controllo sulle donne in una società patriarca­ le in cui lo Stato è complice per indifferenza o negligenza. Grazie al suo impegno sociale, il Messico ha riconosciuto nel luglio 2011 il femminicidio come un crimine sessista e molti paesi del Sudamerica hanno adottato misure o isti­ tuito leggi per punire in modo specifico le violenze com­ messe contro le donne.

Non chiamateli «passionali»

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Nonostante i grandi cambiamenti vissuti dalla società ita­ liana negli ultimi anni, che hanno portato a conquiste sociali, politiche, economiche e culturali, la violenza di genere non ha ottenuto l'interesse e l'attenzione dovuti. Indichiamo con «sesso)) le caratteristiche biologiche dell'uomo e della don­ na, mentre il termine «genere)) è usato per segnalare le ca­ ratteristiche attribuite dalle varie culture al maschio e alla femmina della specie umana. Sono i tratti della personali­ tà, le capacità, i sentimenti, i valori e i comportamenti che distinguono gli uomini dalle donne. La sottomissione fem­ minile si riscontra sia nelle società primitive sia in quelle più sviluppate. La donna è sempre stata vittima di soprusi maschili, ma questi crimini sono rimasti per troppo tempo invisibili. Una delle motivazioni individuate dalle persone che hanno a cuore il problema e si impegnano per risolver­ lo è la struttura stessa della nostra società, basata ancora su modelli patriarcali che vogliono gli uomini in primo piano e le donne un passo indietro. Malgrado i risultati ottenuti nella parità fra i sessi, la violenza di genere progredisce. Si tratta di una violenza che non appartiene al mondo natura­ le ma alla cultura, è un prodotto delle società degli uomini. Spiega il sociologo Paolo De Nardis: «La consistenza del numero degli uomini che uccidono le donne è in aumen­ to considerevole nel nostro paese, ma le cifre non possono essere comparate in maniera meccanica con altri Stati, per­ ché necessitano esse stesse di una spiegazione, alla luce di quella che è stata la storia del rapporto uomo-donna nella società italiana. Certo, l'aumentato numero di casi ha fatto parlare di un vero e proprio "femminicidio", tenendo conto dell'alto tasso di morti femminili: da questo punto di vista è lecito dire che non esiste ancora una definizione conven­ zionalmente concordata e accettata di femminicidio. Alcu­ ni lo definiscono "genocidio di genere", data la crudeltà con cui si manifesta la violenza sulle donne, altri parlano di "genocidio nascosto", per il numero impressionante di donne scomparse nel mondo. « È comunque chiaro che, anche se si tratta dell'omicidio di una donna da parte di un uomo, il femminicidio può

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prendere tale nome solo se il delitto è originato da motiva­ zioni legate al fatto stesso di essere donna. Deve cioè av­ venire per motivi prevalentemente, anche se non esclusi­ vamente, culturali, derivati dalla concezione della donna come oggetto da possedere e di cui disporre secondo i pro­ pri capricci, tanto da legittimare perfino la decisione di to­ glierle la vita. Il femminicidio, pertanto, si compie per mo­ tivi di "onore" maschile in contesti fortemente patriarcali, in cui la fatale sottomissione della donna all'uomo permet­ te a quest'ultimo di esercitare un dominio assoluto su di lei. Da qui derivano la mancata attribuzione di valore e il disprezzo per la vita della "propria" donna, a cui sovente si aggiunge la brutalità delle umiliazioni, delle torture, de­ gli stupri, delle mutilazioni, spesso consumate nel contesto domestico e familiare. È difficile individuare un determi­ nismo ambientale di classe sociale, ma è indubbio che sia il rapporto uomo-donna nella società borghese della tarda modernità a dettare, nelle sue evidenti contraddizioni, lo spartito di una musica macabra e di una serie di tabù cul­ turali non ancora digeriti, come uno strascico agonizzante di triste maschilismo. «È un po' come affermare che tanti anni di lotte per l'eman­ cipazione femminile in Italia sono scivolati come acqua su una struttura sociale che, anziché dimostrarsi "liquida", come direbbe Zygmunt Bauman, in realtà mantiene pervi­ cace la sua graniticità per quanto riguarda i giardini proibiti della sua vita intima, fino a percorrere i viali più reconditi, dove la cupezza della svalutazione dell'alterità raffigu­ ra l'atrocità del disprezzo e dell'odio per l'altro sesso, so­ prattutto quando questo "appartiene" privatisticamente a qualcuno. L'anima nefasta dello svilimento del lavoro do­ mestico, tipico della donna, come erogatore di valore sem­ plicemente d'uso, opposto ai meccanismi della produzione delle merci come portatrici, invece, di valore di scambio, e quindi apprezzabili, comporta la sottomissione della donna alla sua ancellarità culturale (che si vuole scambiare come naturale). L'autonomia e la riscossa delle donne dal punto di vista della loro, solo in piccola parte, avvenuta emanci-

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pazione, incoraggiano un'attitudine ignobile, che consiste nel voler ricondurre le relazioni sociali in termini di domi­ nio e di potere.» A partire dalla metà degli anni Settanta - quando sono iniziate le campagne contro la violenza subita dalle don­ ne, la mobilitazione mondiale di organismi non governati­ vi che si occupano di diritti umani, e sono nati associazioni di donne e movimenti femministi - il fenomeno è stato af­ frontato a vari livelli. Cinque conferenze mondiali sono sta­ te organizzate dall'ONU negli ultimi trentotto anni: a Città del Messico nel 1975, a Copenaghen nel 1980, a Nairobi nel 1985, a Pechino nel 1995 e a New York nel 2005. Nel 2012 il Comitato per l'eliminazione di ogni forma di discriminazione contro le donne (CEDAW) ha chiesto all'Italia di ratificare al più presto la Convenzione del Consiglio d'Europa sulla prevenzione e la lotta alla violenza nei con­ fronti delle donne, firmata da dieci paesi europei a Istanbul, e ha raccomandato di seguire appositi codici di condotta e fornire maggiore assistenza in termini sanitari, logistici e psicologici a quelle donne che decidono di sfuggire alla violenza o di denunciare abusi e soprusi. Rashida Manjoo, relatrice incaricata dal Consiglio dei Diritti umani delle Nazioni Unite per il monitoraggio della violenza contro le donne nel mondo, si è dedicata alla situazione italiana sof­ fermandosi su diversi punti. Primo tra tutti la violenza do­ mestica, che si rivela «la forma di violenza più pervasiva che continua a colpire le donne italiane», cioè la più diffusa e la più capillare, presente tra il 70 e 1'87 per cento dei casi, in cui le donne «non denunciano e non segnalano», sia per­ ché sono all'interno di un «contesto culturale patriarcale in­ centrato sulla famiglia», da cui dipendono fortemente dal punto di vista economico, sia perché la loro percezione ri­ guardo alle istituzioni non è quella di uno Stato che le pro­ tegge, ma di «un quadro giuridico frammentario con ina­ deguatezza delle indagini, delle sanzioni e del risarcimento alle vittime, fattori che contribuiscono al muro di silenzio e di invisibilità che circonda questo tema��-

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«Sulla violenza domestica» ha affermato Rashida Manjoo «è doverosa una sensibilizzazione forte, perché non viene ancora percepita come nn reato e un danno, ed è troppe volte considerata normale all'interno della famiglia. Questo avviene sia nei nuclei italiani sia tra le minoranze presenti nel paese, e in entrambi i casi le donne non si sentono tu­ telate né all'interno delle pareti domestiche né dallo Stato, in nn contesto culturale in cui spesso non si rendono conto di quello che succede perché non ne hanno piena consape­ volezza. Se nella società e nei media la donna viene rappre­ sentata in maniera riduttiva e considerata esclusivamen­ te come oggetto sessuale e come madre, si crea nn terreno fertile per la discriminazione e la violenza di genere.» E ha proseguito: «Nei centri antiviolenza che ho visitato c'è tut­ to quello che occorre a nna donna che subisce violenza: so­ stegno psicologico, assistenza legale specializzata, accudi­ mento delle madri e dei bambini che sono presenti. Ma il problema è che queste associazioni non sono finanziate in maniera costante, soprattutto dagli enti locali, e molto la­ voro viene fatto a livello volontario. Una situazione che io stessa ho sottolineato al governo italiano, perché se la for­ te competenza di questi centri non viene sostenuta econo­ micamente, tutto il patrimonio di questo lavoro che si è ac­ cumulato negli anni rischia di andare perso». Nel nostro paese esiste dunque nno stretto legame fra di­ suguaglianza di genere e violenza. Il genere maschile è iden­ tificato con la forza fisica, l'autonomia, il lavoro produttivo e il dominio, mentre quello femminile con la debolezza, la dipendenza, l'emotività e la subordinazione. Questa arbi­ traria attribuzione di ruoli considera la violenza fisica, ver­ bale, sessuale ed economica da parte dell'uomo contro la donna come la prova del suo potere, della sua possessivi­ tà, della sua mascolinità, ed è nn comportamento tollerato o addirittura lodato in diversi ambienti sociali. La specifi­ cità naturale della donna è considerata quella della sotto­ missione ai valori maschili. Le si proibisce di esprimere la collera, le viene insegnato a dimenticarsi di se stessa per il

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«bene» degli altri, a non affermare i propri desideri, i pro­ pri bisogni: è formata come una vittima permanente che l'uomo dovrà aiutare e proteggere. In Italia siamo passati dalle 84 donne uccise dal loro ma­ rito o compagno nel 2005 alle 120 del 2012. Negli ultimi dieci anni i delitti sono aumentati, anche se non esistono dati ufficiali su cui si possano basare ricerche serie. Fortu­ natamente ci sono le cifre e gli studi forniti da associazioni di tutela delle donne (Casa delle Donne, Telefono Rosa . . . ). Inoltre, questi dati non tengono conto delle donne scom­ parse e non ancora trovate. Nell'introduzione al suo libro Donne assassinate, Ruben De Luca, psicologo e criminolo­ go, scrive: «Il maschio umano è un predatore, abituato fin da piccolo a essere aggressivo: gioca "alla guerra" e si im­ pegna in altre attività ludiche che prevedono contatto fisi­ co e scontro, usa la violenza per ottenere ciò che vuole. La femmina umana è una preda, abituata fin da piccola alla sottomissione, al fatto di vivere in un mondo organizzato secondo le regole dei maschi, è incline alla passività, gioca con le bambole e si abitua a risolvere i conflitti con il dialo­ go, la trattativa e il compromesso». Questa educazione alla sottomissione ha portato per trop­ po tempo le donne vittime di abusi e violenze da parte dei mariti a colpevolizzarsi o a giustificare l'aggressore. Mol­ te sottovalutano il primo schiaffo, il primo insulto e spes­ so scusano il compagno. L'idea del proprio concorso di colpa nell'aggressività maschile viene avvalorata da certe frasi che l'uomo pronuncia durante i litigi: «Non vali nien­ te», «Se non fosse per me, tu saresti in mezzo a una stra­ da)). Ho parlato con alcune di queste donne e le ho trovate disperate, ma soprattutto sconfitte. Si considerano in par­ te responsabili degli atti compiuti dai loro mariti, anche se non riescono a capire dove abbiano sbagliato. I loro senti­ menti sono confusi, a volte ambivalenti: «Lo amo ancora, ma non posso più vivere cosh). La paura che un loro atteggiamento sbagliato, una parola di troppo, un comportamento che lui non approva possa­ no scatenare la furia del compagno le fa vivere in uno sta-

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to di ansia continua. «Non so più come rispondere a una sua domanda . . . non so come vestirmi . . . come compor­ tarmi in pubblico . . . )) mi spiega Sabina, una casalinga di 4 2 anni. «All'improvviso lui può trasformarsi. Un minu­ to prima scherzava, mi raccontava qualcosa, e poi si irri­ gidisce, lo sguardo diventa duro . . . riesco a leggervi l'odio dentro. Alza le mani, mi lancia addosso quello che trova, a volte se siamo in cucina afferra un coltello e me lo punta al collo. Non dice niente, all'inizio, come a godersi la mia reazione di terrore. Poi farnetica qualcosa del tipo: "Mi fa­ rai diventare matto!", oppure: "Io non so più che fare con te! Mi costringerai a farti male davvero!". Se piango diven­ ta più aggressivo, se mi allontano mi afferra per i capelli, se mi arrabbio . . . non ne parliamo. Per due volte sono finita in ospedale. Allora mi paralizzo, non dico una parola, non muovo un dito . . . finché lui si calma e va in salotto a guar­ dare la televisione.)) Le ho chiesto perché non lascia il ma­ rito e lei mi ha risposto che è impossibile, perché ha due fi­ gli adolescenti e non lavora, e inoltre i suoi genitori non la aiuterebbero se si separasse. La dipendenza economica, la speranza che il marito tor­ ni a essere quello che era all'inizio della relazione, la pre­ senza di figli: sono tutte ragioni per cui anche la donna che vuole ribellarsi a questa situazione ha difficoltà a separar­ si. Quando invece ha un lavoro e decide di ricominciare la vita lontano dal proprio compagno, deve affrontare nuovi rischi. Se lui non accetta la separazione, se la ritiene un af­ fronto al suo ruolo di capofamiglia, di maschio, può per­ seguitarla o decidere addirittura di ucciderla. Quindi, mi chiedo, la parità tra uomo e donna, l'indipendenza femmi­ nile, può essere una delle cause del grande numero di omi­ cidi commessi da ex mariti o ex compagni in questi ultimi anni? Secondo Ruben De Luca, la parità tra uomo e don­ na, anche se in molti settori è più che altro di facciata e non sostanziale, è un elemento importante da prendere in con­ siderazione per questi delitti. «Indubbiamente possiamo dire che, nelle società industrializzate del mondo occiden-

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tale, la donna ha progressivamente acquisito rma maggiore autonomia rispetto all'uomo, sia dal punto di vista lavorati­ vo-professionale sia. da quello sentimentale-affettivo. Se in passato il piacere e la soddisfazione femminile erano con­ siderati di scarsa importanza dalle donne stesse, cresciute nella convinzione che il compito principale nella vita fosse quello di accudire il maschio di casa (padre, fratello o mari­ to che fosse) e soddisfare i suoi bisogni, negli ultimi decen­ ni è aumentata la consapevolezza dei propri diritti e delle proprie esigenze. La donna lavora, può garantirsi un'indi­ pendenza economica e, di conseguenza, se non le va bene un rapporto sentimentale, scegliere di lasciare il compagno e rifarsi una vita autonoma. «Parallelamente, l'uomo è entrato sempre più in crisi d'identità, ha perso le sue sicurezze, la compagna non è più la "sua" donna, che sta zitta e buona anche se è insod­ disfatta. Per molti uomini, anche quelli più evoluti che non lo ammetterebbero mai consapevolmente, la donna non è altro che un oggetto di proprietà al pari della macchina o di altri beni materiali. Non possono concepire che la "loro" compagna decida di lasciarli, si sentono sminuiti nella ma­ scolinità, privati di significato e di potere, e non riescono ad accettare ed elaborare rma situazione del genere. Ed ecco che possiamo arrivare a episodi di stalking e, nei casi più gravi, perfino all'omicidio. Nella testa dell'uomo abbando­ nato e fragile scatta nn ragionamento automatico del tipo: "Se non sei mia, non sarai di nessun altro".>>

II

Come e dove uccide

Sabato 3 marzo 2012. Siamo nel quartiere periferico di San Polo, a Brescia. Chiara Matalone, 19 anni, è arrivata da qual­ che giorno con il fidanzato Domenico Tortorici per incon­ trare la madre Francesca Alleruzzo. Chiara si è appena di­ plomata e Domenico vorrebbe trovare lavoro al Nord. La casa di Francesca, maestra elementare, è piccola, tre stan­ ze su due piani in cui, con l'arrivo della figlia, dormono in sette. Oltre a Vito Macadino, il compagno di Francesca, ci sono anche le tre bambine avute con Mario Albanese, un camionista pugliese di 34 anni. Mario ha alle spalle qual­ che episodio di contrabbando e piccole truffe, ma da tem­ po non ha problemi con la giustizia. Da due anni è separa­ to dalla moglie, che gli ha lasciato le chiavi di casa perché possa incontrare le figlie quando vuole. Sono le dieci di sera e Mario passeggia su e giù per via Raffaello con nna scacciacani modificata artigianalmente per­ ché possa sparare. Due persone lo vedono e gli domandano cosa faccia lì da solo. «Come stai?>> gli chiedono. «Non sto bene, lei esce con un altro» risponde lui amareggiato. I co­ noscenti lo salutano e si allontanano. Mario assume una pic­ cola quantità di hashish e continua a piantonare la villetta. Alle 3.30 del mattino arriva una Mercedes con a bordo Francesca e il suo nuovo compagno. Scoppia una breve lite che si conclude con due colpi di pistola. Mario lascia i corpi senza vita sul selciato e sale in casa. Entra usando

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le sue chiavi e va direttamente nella stanza di Chiara, sor­ prendendola nel sonno insieme al fidanzato. Li uccide en­ trambi, ma risparmia le sue tre bambine. Corre giù e, ripas­ sando davanti ai corpi di Francesca e Vito, spara ancora. Il carabiniere Ivano Gatti, dall'abitazione che si trova a pochi metri da quella di Francesca, ha sentito gli spari e le urla. Corre in strada e vede Mario puntarsi la pistola alla tem­ pia. L'arma fa cilecca e l'uomo fugge. Il carabiniere lo in­ segue e lo ferma, facendolo cadere. Fra le lacrime, Mario ripete che vuole morire, che la sua vita non ha più senso, che lei lo tradiva . . . La separazione era avvenuta dopo un lungo periodo di violenze e intimidazioni. Quando tornava a casa ubriaco, Mario aggrediva la moglie e trattava male le bambine. Alle arniche, Francesca raccontava i suoi timori: «Prima o poi mi uccide!>>. Da quando era iniziata la relazione con il nuovo compagno, lui le telefonava rninacciandola: «O mia o di nessun altro!». Per evitare di inasprirlo, Francesca aveva rinunciato all'assegno di mantenimento e non aveva cam­ biato la serratura di casa. Le prime dichiarazioni in carcere dell'assassino, che dalle analisi è risultato positivo sia alla cannabis sia alla cocaina, sono state: «Chiedo scusa per quel­ lo che ho fatto, mi è scoppiata la testa. Se penso alle mie fi­ glie sono disperato!». Se Mario Albanese non si fosse procurato un'arma da fuoco, come sarebbero andate le cose? Con un coltello for­ se sarebbe riuscito a compiere il primo omicidio, colpen­ do l'ex moglie, ma probabilmente Vito Macadino avrebbe avuto il tempo di salvarsi, disarmando l'assassino e impe­ dendo la carneficina in casa. Secondo il neuropsichiatra Luigi de Maio, se sulla scena del crimine non è presente un'arma da fuoco e l'assassinio non è premeditato, l'omicida è costretto a cercare uno stru­ mento con cui colpire. «Questo spostamento da una stan­ za all'altra se si trova in casa, o da un luogo all'altro se è all'esterno, gli fornisce quegli attimi di lucidità che possono interrompere il rneccanicisrno di un atto che a volte diven­ ta automatico dopo essere stato a lungo meditato. Inoltre,

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occorre considerare che per dare una coltellata ci vogliono almeno tre secondi, per darne due siamo a sei. . . un tempo in cui l'automatismo potrebbe bloccarsi. Con un'arma da fuoco, invece, è impossibile.» Il criminologo Francesco Bruno afferma che le armi da fuoco vengono preferite da alcuni individui perché con­ sentono un omicidio pulito, a distanza, senza sporcarsi le mani di sangue come avviene con un coltello e senza tocca­ re il corpo della vittima come è necessario per strangolarla. Lo psichiatra e scrittore Vittorino Andreoli, nel suo li­ bro Voglia di ammazzare, considera l'arma da fuoco il mez­ zo più popolare per uccidere. Una pistola o un fucile sono soggetti al controllo delle forze dell'ordine, ma non è dif­ ficile procurarseli. «In alcuni paesi e in certi Stati america­ ni si può comprare una pistola con la stessa facilità con cui si acquista un paio di scarpe in un supermercato. Ci sono armi nelle nostre case sia perché sono in dotazione alle for­ ze dell'ordine, sia per la caccia, ancora molto diffusa.» Se­ condo Andreoli, chi sceglie la pistola vuole trovarsi di fron­ te alla vittima per farsi riconoscere come giustiziere: «Una sorta di etica dell'omicida, per non sentirsi vigliacco». «Non basta proibire le armi» scrive. «Con le mani capaci di ac­ carezzare, l'uomo può soffocare. Con un fazzoletto con cui si asciugano le lacrime di gioia si può strangolare. Con un sasso utile a costruire un'abitazione si può uccidere. Non mi piacciono le società armate, ma le armi non sono le sole responsabili dell'ecatombe quotidiana, viene prima l'uomo, il suo comportamento, i suoi sentimenti.» Le armi sono un grande problema negli Stati Uniti. L'FBI riferisce che due terzi degli omicidi coniugali sono com­ messi con un'arma da fuoco. Tre quarti di queste armi sono pistole. Un sesto degli assassini usa il coltello e un dodice­ simo le mani nude. Nei casi di omicidio-suicidio il 95 per cento utilizza una pistola. È una percentuale enorme ri­ spetto agli altri paesi. In Canada, gli omicidi perpetrati con un'arma sono la metà, e in Australia un terzo. In Inghilter­ ra solo il 5 per cento dei delitti di questo tipo è commes-

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so con un'arma da fuoco (il 35 per cento delle donne sono state strangolate e il 31 per cento uccise con un coltello). Canada, Australia e Inghilterra hanno leggi molto più se­ vere che regolano il possesso di armi da fuoco. Non solo. Gli Stati americani più permissivi a questo riguardo regi­ strano il più alto tasso di omicidi all'interno della coppia. In Europa, le leggi sulla detenzione di armi sono molto diverse da un paese all'altro. In Lussemburgo, per esem­ pio, il divieto di detenzione di anni private è assoluto. In Francia, Belgio e Germania è possibile avere un'arma pri­ vata, ma la legge è più restrittiva di quella in vigore negli Stati Uniti. In Austria, chiunque può acquistare un'arma da fuoco, ma solo il lO per cento della popolazione si av­ vale di questa possibilità. Lo stesso accade in Svizzera. In Italia è piuttosto facile comprare un'anna da fuoco per di­ fesa personale se si trasporta denaro o si vendono preziosi, se si svolge una professione a rischio, se si corre il pericolo di un sequestro, o semplicemente per uso sportivo. I dati ci dicono che nella metà degli omicidi coniugali commessi da un uomo un'arma da fuoco era presente in casa nell'anno che ha preceduto il fatto di sangue. Quin­ di si può affermare che, se l'uomo possiede un'arma, nel caso di un'aggressione la donna rischia maggiormente di perdere la vita. Ad alcuni di questi assassini è stato chiesto se avrebbero ucciso anche nel caso in cui ne fossero stati sprovvisti. Un terzo ha risposto che se non l'avesse avuta a portata di mano avrebbe desistito dal proposito, gli altri, invece, avrebbero cercato comunque un modo per portare a termine il loro crimine. «Ero fuori di me . . . se non avessi avuto la pistola fra le mani ma fossi stato costretto a cerca­ re un coltello, credo che avrei riacquistato il controllo» ha affermato un uomo dopo aver ucciso la sua ex compagna. E un altro: «Litigavamo spesso ma non l'avevo mai colpita. Erano solo parole. Quel giorno il litigio è stato più violento, lei mi ha offeso . . . Sono una guardia giurata e stavo uscen­ do per andare al lavoro. Avevo la pistola con me . . . In un secondo la stringevo in mano e il secondo successivo mia moglie era morta».

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Quindi, se l'assassino ha a disposizione un'arma da fuoco usa quella, altrimenti ricorre al coltello che trova nel casset­ to della cucina o che porta con sé se ha deciso di minacciare o di uccidere. Ma nel momento della rabbia afferra qual­ siasi oggetto. Nei casi studiati ho trovato: martelli, seghe elettriche, asce, benzina per appiccare il fuoco alla vittima o all'abitazione, cavi elettrici, forbici, un taglierina, un mat­ tone, una pietra, una spranga, un piccone, un matterello . . . Emiliana Femiano, 25 anni, parte da Napoli diretta a Terracina (Latina), dove l'ex fidanzato Luigi Faccetti, 24 anni, si trova agli arresti domiciliari. È la sera del 21 novembre 2010. Ai genitori ha detto che andrà a ballare con le ami­ che. Invece, accompagnata dai cugini di Luigi, Giuseppe e Marco Prisco, va a incontrare l'ex fidanzato che vuole chiederle perdono. Arrivata intorno a mezzanotte, sale da sola nell'appartamento. Luigi la uccide con sessantasei col­ tellate, di cui venti al volto, e il corpo martoriato della don­ na rimane immerso nel sangue sul pavimento della cuci­ na. Lui fugge verso Napoli, ma si ferma all'ospedale di Giugliano per farsi medicare una mano ferita: ai sanitari dà un nome falso e afferma di essere stato vittima di una rapina. Ha appena lasciato l'ospedale quando un medico, insospettito dal suo atteggiamento, avverte i carabinieri, che lo raggiungono a Villaricca dove si è rifugiato. Quan­ do lo arrestano, scoprono che aveva già cercato di uccide­ re Emiliana in passato ed era stato condannato a otto anni di reclusione. Aveva scontato sette mesi di carcere e sareb­ be dovuto rimanere ai domiciliari per il resto della pena. Il tentato omicidio era avvenuto il 20 dicembre 2009, quan­ do l'uomo aveva atteso che la ex fidanzata uscisse di casa e l'aveva colpita con quattordici coltellate. La madre di Emiliana pensa che la ragazza sia stata in­ gannata, e spiega: «Si è allontanata da casa verso le dieci di sera, dicendo che sarebbe andata a ballare con alcune ami­ che. Ero contenta perché da quando è stata accoltellata, il 20 dicembre scorso, non usciva quasi mai. Aveva paura di quell'uomo. In questi mesi sono arrivate anche telefonate di

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minaccia, ma nessuno immaginava che sarebbe finita così. È probabile che qualche amica, complice di Faccetti, l'abbia convinta a uscire e l'abbia condotta a Terracina. Alle quattro di mattina non era ancora rincasata e allora l'ho chiamata, ma il cellulare squillava a vuoto. Alle otto mi hanno tele­ fonato i carabinieri per darmi la notizia della sua morte». Durante i funerali, la madre della ragazza chiede minore superficialità nel giudicare uomini come Faccetti, perché se lui non avesse ottenuto i domiciliari, la figlia sarebbe anco­ ra viva. In televisione racconta che Emiliana era stata mal­ trattata molte volte da Luigi. «Ricordo che un giorno la in­ seguì in via Duomo, la strattonò, poi le diede un pugno in faccia spezzandole un dente.» Luigi Faccetti ha dato la sua versione al giudice per le indagini preliminari: «Dalla mia condanna non c'eravamo più visti né sentiti. Quando mi sono stati concessi i domi­ ciliari abbiamo ripreso i contatti tramite Facebook e deci­ so di rivederci. Emiliana è venuta da me spontaneamente: quella sera stavamo bene, poi lei mi ha confessato di avere avuto un'altra storia mentre io ero in galera. Non ho capi­ to più niente e l'ho ammazzata». Luigi Faccetti è stato con­ dannato a trent'anni di carcere. Ammettiamo che Emiliana si sia lasciata convincere dai cugini di Luigi e sia andata a trovarlo a Terracina: sicura­ mente pensava di non essere in pericolo, visto che nell'ap­ partamento abitavano anche i genitori del suo ex fidanzato e che lei era in compagnia. Invece, sembra che Luigi avesse preparato tutto per trovarsi solo con lei. Quello che appare strano, in questo come in altri casi simili accaduti nel nostro paese, è la sottovalutazione della pericolosità del soggetto. Un uomo che aveva già dimostrato la propria indole violenta aggredendo l'ex compagna e manifestando la chiara inten­ zione di ucciderla, perché non è rimasto in carcere per tut­ ti gli otto anni a cui era stato condannato? Forse Emiliana, che era un cuore gentile, sarebbe ugualmente andata a tro­ varlo, ma in un istituto di pena non avrebbe corso rischi. Il coltello è una delle armi preferite dagli uomini che, in preda all'odio, uccidono le loro compagne perché queste li

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hanno abbandonati o perché sospettano che siano interessa­ te a un altro uomo; spesso, però, l'assassino non si acconten­ ta di sferrare una sola coltellata, anche se colpendo al cuore o al collo potrebbe ottenere rapidamente il proprio scopo. Troppe volte assistiamo a un inspiegabile accanimento sul corpo agonizzante della vittima. Nel caso appena riferito, Luigi Faccetti ha colpito Emiliana la prima volta con quat­ tordici coltellate e la seconda con sessantasei. In quello che esamineremo adesso, le coltellate sono state addirittura 470. Maria Virginia Fereoli ha solo 17 anni quando, la sera del 28 marzo 2006, accetta un appuntamento con il ventiquat­ trenne Stefano Rossi a Felino (Parma). Lei rifiuta la corte del ragazzo e lui la strangola, poi la accoltella, infierendo innumerevoli volte sul corpo ormai senza vita. Nei gior­ ni precedenti Stefano ha incontrato spesso Virginia al bar, dove rimaneva a giocare a carte finché non la vedeva com­ parire. Il 28 marzo le dà un appuntamento in un piccolo parco, e lei racconta ai genitori che andrà in parrocchia. Stefano porta con sé un coltello, una pistola e un nuncha­ ku (un'arma costituita da due bastoni collegati alle estre­ mità da una catena di ferro). Dopo l'omicidio vagabonda fino alla stazione di Parma, dove prende un taxi. Con la pi­ stola acquistata con una licenza per uso sportivo uccide an­ che il tassista Andrea Salvarani per rubargli l'auto e fuggi­ re. Stefano Rossi, condannato all'ergastolo, si è suicidato in carcere il3 febbraio 2011. Questo accanimento contro la vittima è detto overkilling, che significa «uccidere diverse volte» la stessa persona. Vittorino Andreoli, nel suo già citato Voglia di ammazzare, scrive che vengono date spiegazioni differenti a questa reite­ razione dell'atto di uccidere: > e qualche minuto dopo passare alle intimidazioni: «Se mi lasci, ti farò vedere di che cosa sono capace». Se nes­ suno di questi comportamenti ha l'effetto sperato, può ar­ rivare all'omicidio. Nel caso in cui la donna, invece, ceda e rinunci a separarsi, nella maggioranza dei casi l'escalation della violenza riprenderà. È proprio quando l'uomo si spinge oltre i maltrattamen­ ti, fino a ottenere l'isolamento totale della compagna, che lei rischia maggiormente di venire uccisa. Allontanata dai suoi affetti, entra nell'orbita di potere del compagno, che da quel momento si sente autorizzato a fare ciò che vuole. Non siamo di fronte all'amore ma a una sorta di fusione, un sentimento di dipendenza che l'uomo prova nei con­ fronti della relazione stessa. Nemmeno i delitti dovuti alla gelosia dimostrano che lui fosse realmente innamorato. Questa gelosia, detta anche «paranoia coniugale», è fatta di elucubrazioni senza fine intorno a un'ipotetica infedel­ tà: l'uomo dipende a tal punto dalla compagna che, se lei

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sfugge al suo controllo, preferisce ucciderla piuttosto che riconoscere la sua «alterità». «Se non posso averla io, non l'avrà nessun altro!» L'assassinio costituisce l'estremo atto di dominio. L'uomo abbandonato che uccide può commettere un fa­ milicidio, ovvero assassinare anche i figli e i parenti della donna presenti sulla scena del crimine. L'omicidio multi­ plo maschile avviene di solito in famiglia, mentre negli al­ tri casi (delitti per vendetta, denaro ecc.) la vittima è quasi sempre una sola. Ovviamente questa stima non comprende i serial killer e i mass murderer, che uccidono a ripetizione o compiono, a volte, autentiche stragi. L'omicidio allargato è definito da Francesco Bruno una sorta di «suicidio alterna­ tivo di tipo egoistico in cui si sceglie di cancellare il mon­ do dal soggetto piuttosto che il soggetto dal mondo. Quasi sempre finisce con il suicidio vero e proprio del protagoni­ sta, che viene ucciso come se si uccidesse un nemico: muoia Sansone con tutti i Filistei. Gli episodi sono spesso preci­ pitati da un vero e proprio delirio megalomanico con con­ dizione d'eccitamento e sviluppo di volontà di potenza». Il 28 luglio 2010, a Loreto, nelle Marche, Claudio Alberto Sopranzi, 51 anni, che lavora come custode di un camping, assassina la madre e la sorella dell'ex compagna Vincenza Mannino, 28 anni. I figli della donna, di 7 e 11 anni, si sono nascosti sotto il letto e rimangono lì fino all'arrivo dei vi­ cini di casa. Vincenza e Claudio Alberto, che hanno entrambi un ma­ trimonio finito alle spalle, sono siciliani, ma da anni vivo­ no sul litorale marchigiano. Lui non ha accettato la conclu­ sione della loro storia e per diverso tempo ha perseguitato Vincenza, che ha segnalato le molestie alle forze dell'ordi­ ne, senza però sporgere denuncia. Secondo Claudio Alberto, sono i familiari di Vincenza i responsabili della fine del loro rapporto, e per questo decide di vendicarsi. Alle 15.30 si presenta davanti alla palazzina in cui abi­ ta l'ex compagna con una Beretta 7.65 in tasca. È Vincen­ za ad aprirgli la porta, ma lui spara alla madre e alla so-

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rella della donna, uccidendo le. Poi punta l'arma contro di lei, ferendola a una gamba. Dopo la strage, fugge in bici­ cletta e vagabonda per la campagna. Infine contatta alcu­ ni parenti per trovare rifugio. Ma i telefoni sono già sotto controllo e, rintracciato dai carabinieri, l'uomo viene con­ vinto ad arrendersi. Ha ancora la pistola in mano. Si la­ menta: «Ho perso la testa, neppure io so cosa ho fatto)). I giudici della corte d'appello hanno stabilito che gli omici­ di non erano premeditati e hanno condannato Sopranzi a trent'anni di carcere. Ruben De Luca spiega come l'uomo che si sente abban­ donato possa «compiere una vera e propria strage ucciden­ do la compagna, i figli e, a volte, anche altre persone che si trovano sulla scena del crimine o nelle immediate vicinan­ ze; poi percepisce di non avere più alcuno scopo nella vita e decide di farla finita. L'abbandono dà luogo a un dolore profondo, una pena intensa e conseguente relativa perdi­ ta di senso della vita. È presente anche un rinchiudersi in se stessi, un'incapacità di svolgere le normali occupazioni, spesso una difficoltà di concentrazione con disturbi della memoria (soprattutto della capacità di ordinare i ricordi))). Barbara Cicioni, 33 anni, viene trovata morta nella sua camera da letto il 24 maggio 2007. Era incinta di otto mesi. Viveva insieme a Roberto Spaccino, 37 anni, e ai due figli di 8 e 4 anni in una villetta a Compignano di Marsciano, a circa 30 chilometri da Perugia, vicino alle abitazioni di al­ cuni familiari del marito. È Roberto a scoprire il cadavere, a mezzanotte e mezzo. Alla polizia racconta di aver litigato con la moglie e di averla colpita, ma che era ancora viva quando, alle 23.30, è uscito per andare nella loro lavanderia di Marsciano. Tornando a casa, ha trovato la donna sul letto, morta, e l'appartamento a soqquadro. Spiega che la sua casa era già stata visitata dai ladri alcuni mesi prima: a suo dire, sono stati loro, gli alba­ nesi, e la sparizione del denaro e dei gioielli ne è la prova. Il giorno del funerale di Barbara, Spaccino viene arresta­ to con l'accusa di omicidio volontario aggravato dai futi­ li motivi e dalla crudeltà verso la vittima. Secondo gli in-

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quirenti, Barbara è stata a lungo percossa al capo e al volto prima di essere strangolata. La sera dell'omicidio Barbara, che soffre di diabete, non si sente bene, e prega Roberto di passare in lavanderia il giorno dopo per occuparsi di un lavoro in sospeso. Lui ri­ sponde che preferisce andarci subito, provocando le prote­ ste della moglie. Barbara teme che il marito voglia appro­ fittarne per incontrare un'altra donna: da tempo sospetta che lui la tradisca. Spaccino si arrabbia e la colpisce al vol­ to e alla testa. Poi, secondo l'accusa, la soffoca con un cusci­ no. Alle forze dell'ordine, l'uomo racconta delle numerose liti con la moglie, ma afferma di non averla mai mandata all'ospedale e di averle dato al massimo schiaffi e qualche spinta. «Ma non erano botte, perché le botte sono quelle che lasciano il segno» specifica. La picchiava «perché la cena non era pronta . . . poi c'è stata quella volta dei calzini. . . Anche lei alzava le mani, e dovevo darle dei ceffoni per calmarla». Barbara e Roberto si sono conosciuti a una sagra di paese: lei aveva 14 anni e lui 18. Dopo due figli, la terza gravidanza preoccupava Roberto, che le aveva perfino detto: «Questo figlio non è mio». In realtà, era lui a tradirla e lei sopporta­ va perché non voleva separarsi come avevano fatto i suoi genitori. Credeva nella famiglia, ma non taceva la sua ge­ losia. Roberto aveva lasciato il lavoro di camionista in se­ guito a un incidente e, per curarsi, andava ogni anno una settimana alle terme per conto suo. Anche lì aveva qualche avventura di poco conto; Barbara sospettava e lo interroga­ va. «La sua gelosia mi dava fastidio . . . Io le dicevo che non c'era niente ma lei non mi credeva. D'altronde, che ne pote­ va sapere? E poi le avventure, si sa, le hanno tutti!» Roberto Spaccino è stato condannato all'ergastolo. «Ira è breve furor» scriveva Petrarca nelle Rime. In un at­ timo di rabbia si può compiere un gesto estremo. Un solo istante che innesca il furore. Ma non si parte da zero. «È una marea montante» spiega Luigi de Maio. «Non si tratta di una rabbia esplosiva e incontrollabile. Sfatiamo il con­ cetto di "acting out", in questi casi. L'uomo aveva in testa

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l'azione prima di compierla: "Basta, non ne posso più. Devo eliminarla!". Poi cerca la motivazione nella rabbia provo­ cata da lei durante una lite, una discussione molto accesa.)) Ma che uomini sono? >. È un futilissimo motivo quello che ha spinto l'idrauli­ co Antonio Passalacqua, 35 anni, a uccidere con trenta col­ tellate la fidanzata Veronica Giovine, trentaquattrenne far­ macista di Cinisello Balsamo (Milano). Nell'agosto 2010 Veronica aveva denunciato Antonio perché era stata minac­ ciata con due coltelli e sequestrata in casa, poi però ha riti­ rato la denuncia e ripreso a frequentarlo. La sera del 28 set­ tembre 2011 Antonio va a casa della farmacista e nel corso di

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una lite, alle tre del mattino, la colpisce più volte al ventre con un coltello da cucina e con un altro più piccolo. Dopo l'omicidio va a dormire e alcune ore dopo, quando la ma­ dre di Veronica scopre il cadavere, viene arrestato. Per di­ versi giorni nega di essere coinvolto nell'omicidio, anche se i carabinieri lo hanno trovato con le scarpe ancora spor­ che di sangue. Quando infine confessa, spiega che è anda­ to da Veronica infuriato perché la sera prima lei non lo ha invitato a una cena organizzata insieme a un'amica. Dopo un omicidio commesso in preda alla gelosia o in seguito a un abbandono, l'uomo di solito si toglie la vita o si costituisce, ma quando la morte della donna è dovuta a un litigio per futili motivi, decide invece di fuggire, nega e cerca di depistare le indagini. Vuole salvarsi. Non intende­ va uccidere: la situazione gli è sfuggita di mano, lei lo ha provocato e lui ha reagito in modo eccessivo.

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La sindrome di Otello

Otello entra nella camera da letto dove la moglie è addor­ mentata. La sveglia e le chiede se abbia già recitato le sue preghiere, perché fra poco morirà. Desdemona è sorpresa, poi impaurita. Lui la accusa e lei si giustifica, ma non serve. «La morte che uccide per amore è una morte contro na­ tura» si lamenta la donna, continuando, però, a sperare. È inutile. Le parole di Otello sono definitive: «Confessa leal­ mente il tuo peccato. Perché se anche tu lo negassi, e con giuramento, punto per punto, non potresti attenuare né di­ struggere quella forte convinzione della tua colpa che mi fa delirare. Tu devi morire». L'hanno chiamata così, «sindrome di Otello», quella ge­ losia malata, delirante, che si costruisce intorno alla pre­ sunta certezza dell'infedeltà del partner. Non è necessario un tradimento provato, è sufficiente il sospetto che diven­ ta ossessione. Gli ultimi minuti che il geloso in preda al de­ lirio concede alla sua vittima servono solo a ottenere una confessione completa che, naturalmente, nel caso in cui lei gli sia stata fedele, non arriverà. Questa patologia fu chiamata così dallo psichiatra in­ glese John Todd in un articolo, scritto insieme a Kenneth Dewhurst e pubblicato nel 1955, dal titolo La sindrome di Otello: uno studio sulla psicopatologia della gelosia sessuale. È

un tipo di gelosia patologica che espone entrambi i partner a un pericolo estremo. Molte donne che chiedono aiuto

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nei centri di assistenza riferiscono di aver subìto una limi­ tazione della propria libertà a causa della gelosia del loro compagno. «Non vuole che frequenti i miei amici e perfi­ no la mia famiglia . . . », «Controlla ogni mio movimento», «Legge le mie mail, verifica ogni mia spesa, quando tomo a casa mi sottopone a veri e propri interrogatori!». La ge­ losia è il principale movente della violenza maschile nella coppia e, troppo spesso, dell'omicidio. È un acido che cor­ rode la relazione, distrugge la stima in se stessi e conduce ad atti estremi. La gelosia è un sentimento sano finché chi la prova man­ tiene il rispetto dell'altro. Prima di arrivare alla patologia vera e propria, ci sono svariati livelli di gelosia esagerata, a partire da quella che ha caratteristiche simili al disturbo ossessivo-compulsivo, in cui il dubbio dell'infedeltà impe­ disce di vivere serenamente e porta a controllare, spiare, interrogare il partner alla ricerca di segnali che confermi­ no i sospetti. Gli ossessivi si rendono conto del loro proble­ ma e, talvolta, perfino se ne vergognano, ma non riesco­ no a vincere il continuo tormento. Da queste idee fisse al delirio non c'è che un passo, e si arriva alla sindrome di Otello, in cui il geloso è certo «al di là di ogni ragionevole dubbio» del tradimento dell'altro. In questi casi, è possibi­ le che l'uomo arrivi all'omicidio. La donna, invece, tende a scaricare la propria aggressività sull'amante del marito, salvando quest'ultimo, che simboleggia la virilità, la sicu­ rezza e la protezione per se stessa e per i figli. Il suo odio si concentra sulla rivale, che diventa un nemico concreto, non un frutto dell'immaginazione come può accadere agli uomini che soffrono della sindrome di Otello. Francesco Bruno spiega che «il limite tra la patologia e la normalità è rappresentato dal fatto che l'idea della gelo­ sia può diventare prevalente e sconfinare nella paranoia. Quando questo avviene, è possibile e frequente che l'amo­ re si trasformi in odio, in bisogno di distruggere quell'og­ getto che altrimenti potrebbe appartenere ad altri». François de La Rochefoucauld sosteneva che nella gelo­ sia c'è più amor proprio che amore. La sofferenza per l'amo-

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re perduto si somma quindi a quella per l'amor proprio fe­ rito. La gelosia nasce da una minaccia a una relazione. Lo psichiatra Daniel Lagache, nel libro La jalousie amoureuse, l'ha definita «la frustrante scoperta dell'alterità dell'altro» . L'altro, e nel nostro caso l'altra, non è solo un oggetto che si possiede, ma ha desideri ed emozioni propri: è lei a sce­ gliere chi amare, mentre il geloso vorrebbe inglobarla, assor­ bire i suoi pensieri, le sue emozioni, tenerla sotto controllo. Il 24 aprile 2012 la ventenne Vanessa Scialfa scompare dall'abitazione in cui vive con il fidanzato Francesco Lo Presti, 34 anni, a Enna. Non porta con sé denaro né cellu­ lare. I familiari lanciano l'allarme. Interrogato a lungo dai carabinieri, l'uomo ammette che la mattina della scompar­ sa lui e Vanessa hanno litigato, ma dichiara di non sape­ re che fine abbia fatto lei. Per due giorni la ragazza viene cercata dappertutto, infine gli inquirenti decidono di con­ vocare nuovamente il fidanzato in questura e di usare uno stratagemma per indurlo a confessare. Affermano di aver trovato Vanessa ancora viva: «Sta bene, è tornata a casa!». L'uomo scoppia a piangere e dichiara che non è possibile, perché lui l'ha uccisa. Poi conduce il capo della squadra mobile e i suoi uomini sul cavalcavia dal quale ha lanciato il corpo della ragazza, avvolto in un lenzuolo. Durante la confessione, Francesco racconta di aver agito per gelosia e sotto l'effetto della cocaina. Sostiene di aver sentito Vanessa pronunciare il nome del suo ex fidanza­ to mentre facevano l'amore. Sarebbe scoppiata una lite fu­ riosa e la ragazza avrebbe deciso di andarsene di casa. È stato allora, secondo il suo racconto, che l'avrebbe strango­ lata usando i cavi che collegano il lettore dvd al televiso­ re, aggredendola alle spalle. Poi le ha premuto sulla bocca un fazzoletto imbevuto di candeggina e ha avvolto il cor­ po in un lenzuolo per infilarlo nel portabagagli della pro­ pria auto. Arrivato in una zona isolata, vicino a una miniera abbandonata, lo ha lanciato dal cavalcavia. Quindi è tor­ nato a casa per pulire l'appartamento e far sparire le trac­ ce dell'omicidio.

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In questo caso, come in altri, non c'è stata premeditazione. Spesso l'assassino vuole solo spaventare, minacciare, ma qualcosa fa precipitare gli eventi. Può accadere che l'impeto di gelosia arrivi all'improvviso, senza segnali premonitori. Altre volte, invece, questo sentimento morboso si focaliz­ za su un solo particolare che l'assassino percepisce come la prova di un tradimento. Se per l'Otello shakespeariano era il fazzoletto, per l'uomo moderno può essere uno sguardo, una telefonata, un messaggino sul cellulare, un contatto in rete. In altri casi ancora, la gelosia ossessiva pervade ogni aspetto del rapporto di coppia. L'uomo considera con diffi­ denza il comportamento della compagna e si convince che lei lo abbia tradito o sia pronta a farlo. Nella storia che se­ gue, la donna ha effettivamente un altro compagno, anche perché la relazione con il precedente è finita, ma questo non scongiura il rischio di essere uccisa.

Il 6 luglio 2010, in un negozio di prodotti biologici a Spinea (Venezia), Roberta Vanin viene accoltellata sessan­ tatré volte dal convivente Andrea Donaglio. Quando si in­ contrano, sette anni prima, lei ha 37 anni e lui 41. Roberta lavora come commessa in un negozio di abbigliamento, ma vorrebbe trovare qualcos'altro. Andrea insegna chimica in una scuola superiore. È un uomo dalla personalità forte, che ama il suo lavoro ed è benvoluto dai suoi studenti. È ap­ passionato di filosofie orientali e ha un hobby, l'erboriste­ ria. Organizza spesso seminari sull'alimentazione vegana. Per Roberta è il colpo di fulmine. Affascinata da Andrea, si converte all'alimentazione vegana e alle filosofie orien­ tali. Pensa di aver trovato l'uomo ideale. Lui le propone di aprire insieme un negozio di cibi biologici e lei accetta, dedicandosi totalmente alla nuova attività. Dopo quattro anni decidono di andare a vivere insieme. La convivenza, però, non funziona. Lui è insofferente, frequenta altre don­ ne: a un'amante racconta che il rapporto con Roberta è in crisi e, approfittando dell'assenza della compagna, la por­ ta perfino a casa. Tornata dal suo breve viaggio, Roberta se ne accorge perché Andrea non ha cambiato le lenzuola, sul-

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le quali trova alcuni capelli femminili. Minaccia di lasciar­ lo e di estrometterlo anche dall'attività, ma è troppo inna­ morata per rinunciare a lui. La tensione aumenta, litigano spesso. Dopo sette anni finalmente Roberta trova il coraggio di chiudere la storia, anche se i due continuano a lavorare insieme nel negozio. Lei va ad abitare in un nuovo appartamento e comincia a uscire con un altro uomo che le vuole bene. Andrea è os­ sessionato dalla perdita della compagna: ne controlla i mo­ vimenti, legge i suoi messaggi, ascolta le sue telefonate, si apposta sotto casa per vederla uscire con il fidanzato. Non vivono più insieme da sei mesi, ma al negozio lui la criti­ ca continuamente, e un giorno perde la calma e la minac­ cia con un coltello. Roberta ne parla con la madre, che le consiglia di denunciarlo, ma lei non ha il coraggio di far­ lo. Il 6 luglio, uscito da scuola, Andrea arriva al negozio. Ha passato una notte insonne dopo una lite con Roberta; è teso, nervoso. Discutono per delle sciocchezze, poi lui per­ de la testa: rompe alcuni oggetti, getta confezioni di cibo sul pavimento. Roberta chiama la madre dell'ex conviven­ te per spiegarle quello che sta succedendo, le dice che non possono più lavorare insieme nel negozio e dovranno al­ ternarsi. Andrea ascolta la conversazione di nascosto e fa­ tica a contenere la rabbia. È l'ora di chiusura. Roberta porta i soldi dalla cassa nel re­ tro. Lui aspetta che torni e la aggredisce con pugni e schiaf­ fi, poi prende un coltello e inizia a colpirla. In tutto si con­ teranno sessantatré coltellate. Si ferma solo quando la lama si spezza. Allora afferra un altro coltello, si sdraia accan­ to al corpo della donna e si ferisce. Il padre, che lo aspetta­ va per pranzo, va a cercarlo al negozio, dove trova Roberta morta e il figlio sanguinante ma ancora cosciente. Andrea Donaglio, processato con il rito abbreviato, viene condan­ nato a sedici anni di carcere. Circa il 70 per cento degli uomini che uccidono la loro compagna soffre di gelosia delirante. Manca totalmente, in loro, la comprensione delle ragioni dell'altra: esiste solo il desiderio di punire. Eppure, nella gran parte dei casi la vi t-

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tima non era infedele, e il tradimento era reale solo nell'im­ maginazione del suo assassino. Alcuni di questi uomini, dopo l'omicidio, dichiarano che la loro estrema gelosia al­ tro non è che la conferma della passione che provano per la compagna. Molti di loro, però, sono infedeli: tradisco­ no e poi non sopportano il tradimento, come è avvenuto nel caso appena riferito. «In effetti può apparire un con­ trosenso» spiega Vincenzo Mastronardi «ma, analizzando meglio, l'uomo generalmente è caratterizzato da un narci­ sismo esasperato che lo induce a non poter accettare a nes­ sun costo l'infedeltà della compagna. Il fatto che sia lui a tradirla sistematicamente può rappresentare un segnale di insicurezza che ancor di più può spingerlo all'eliminazione della propria partner al solo pensiero che lei possa assesta­ re un duro colpo al suo narcisismo. Questo per lui è inac­ cettabile perché verrebbero meno le sue pseudosicurezze, il che lo porterebbe verso una presa di coscienza di inade­ guatezza sentimentale.» Scrive la psicoanalista Simonetta Costanzo, docente di psicologia sociale e dei gruppi presso l'Università del­ la Calabria, nel libro Famiglie di sangue. Analisi dei reati in famiglia: «La motivazione che spinge un soggetto a soppri­ mere il proprio partner è da ricercarsi quasi sempre nel­ la gelosia, in quel particolare stato emotivo che si fonda sulla paura di perdere la persona amata, proprio in quan­ to quest'ultima manifesta interesse o affetto verso un'al­ tra persona». Approfondisce, poi, tra i vari tipi di gelosia, quella delirante di «colui che si convince, distaccandosi dalla realtà, che il proprio coniuge sia infedele». L'autrice afferma che questa forma di delirio può diventare croni­ ca e anche connettersi con livelli più o meno gravi di alco­ lismo. «Molte volte più che la paura di perdere il com­ pagno, il soggetto assassino sviluppa un insopportabile e insuperabile sentimento di inferiorità, conflittuale, nei confronti del nuovo riferimento affettivo del partner, che lo annichilisce, gli toglie la stima di sé e lo spinge verso un'attività contraria, che compensi e annulli la causa del malessere esistenziale che lo affligge.» Anche l'insicurez-

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za sessuale e l'impotenza costituiscono una spinta motiva­ zionale all'esecuzione di questi delitti. «Il maschio si sente incapace di dare alla donna la soddisfazione sessuale che vorrebbe e, per questo, è portato a trasferire in modo pa­ ranoico su di lei, vivendola come nemica, il suo stato di insicurezza morbosa.» Se molti di questi crimini non sono premeditati, sono però annunciati. La gelosia delirante ha un suo percorso, non scoppia all'improvviso. L'amore iniziale, l'esaltazione reciproca, il desiderio di fusione possono dare vita a una passione spersonalizzata che esiste senza il riconoscimento dell'individualità dell'altro, visto come un oggetto, un'im­ magine, un riflesso di sé. L'amore per l'altro diventa amo­ re per se stessi, un modo per riempire un vuoto. Si tratta di amanti posseduti e non appassionati. Nel pomeriggio del 5 ottobre 2009, Loretta Salemme, 46 anni, che lavora in un calzaturificio, viene uccisa da Francesco Sabbatino, 59 anni. Loretta sta uscendo da uno studio medico a Lunata (Lucca) ma trova ad aspettarla Francesco, il suo ex, convinto che lei abbia una relazione con l'uomo che l'ha accompagnata dal dottore. La colpisce con un coltello quattro volte: due fendenti al cuore, gli altri al seno destro e al fianco. Continua a infierire anche quando la donna è a terra e alcune persone accorrono già in suo aiu­ to. «Devi essere solo mia» grida, minacciando anche i soc­ corritori e ferendone uno al braccio. Quando sente la sirena dei carabinieri, cerca di fuggire, ma viene arrestato. Prima, però, si ferisce al fianco sinistro con il coltello e cade a terra. Francesco e Loretta avevano vissuto insieme per qualche tempo, poi si erano lasciati. Lui non riusciva a adattarsi alla separazione, ed era anche stato ricoverato nel reparto psi­ chiatrico di un ospedale. Lei era seguita dagli assistenti so­ ciali, come la figlia di 6 anni e il figlio di 14. Gli inquirenti ritengono che il sospetto del tradimento potesse essere di­ ventato un'ossessione per Francesco, che il 5 ottobre aveva pedinato, come forse era già accaduto altre volte, l'ex com­ pagna appena uscita dal lavoro.

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Francesco Sabba tino è stato condannato a trent'anni di car­ cere, dopo che la scelta del rito abbreviato gli ha permesso di evitare l'ergastolo. «Solo con la morte potrò espiare quel­ lo che ho fatto>> ha dichiarato prima di ascoltare la sentenza. Si è detto pentito del gesto compiuto, sostenendo che non voleva uccidere la donna di cui era perdutamente innamo­ rato. Era partito da casa con l'intenzione di avere un chiari­ mento con lei, non di ammazzarla. La difesa chiedeva una pena inferiore, sostenendo l'assenza della premeditazione e l'ipotesi del delitto d'impeto. Ma secondo l'accusa, il fatto che l'uomo avesse portato con sé un marrancio (il coltello usato dai macellai per squartare le bestie) di 32 centimetri dimostra che già pensava di usarlo contro l'ex compagna. Come per i delitti passionali, anche nei casi di gelosia de­ lirante i giornali, troppe volte, titolano: La gelosia ha ucciso. Invece, è il senso di possesso maschile per la donna, che ingenera una gelosia malata, a diventare il movente di un omicidio. Attribuire la colpa alla gelosia, come alla pas­ sione, è un modo per giustificare e attenuare la responsabi­ lità di chi uccide. «Alcuni autori» afferma Chiara Camerani «ipotizzano che la gelosia sessuale maschile sia elicitata da dinamiche evoluzionistiche: in natura, l'obiettivo princi­ pale di ogni essere vivente è quello di diffondere al mas­ simo il proprio patrimonio genetico. La gelosia sessuale dell'uomo, quindi, sembra essersi sviluppata allo scopo di assicurarsi (ovviamente a livello inconscio e istintivo) la pa­ ternità dei piccoli, in assenza di altre garanzie. Tra i fattori che influiscono sul comportamento maltrattante, i modelli di apprendimento sociale trasmessi dalla famiglia, dai pari o dalla cultura svolgono un ruolo importante. Un uomo cresciuto da una famiglia che usa la violenza come strate­ gia di risoluzione dei conflitti tenderà a riproporre questa stessa modalità nelle sue relazioni e a considerarla norma­ le. Ne è prova il fatto che gli uomini, in particolare quel­ li più tradizionalisti, mostrano più comprensione rispetto agli abusi perpetrati da altri uomini contro le donne. Per questi soggetti la trasformazione dei costumi sessuali e la

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maggior intraprendenza femminile possono essere vissu­ te come una minaccia. «La stessa donna, cresciuta in un ambiente fortemente maschilista o violento, può essere talmente "contagiata" da questa impostazione di pensiero, da ridefinire il signi­ ficato stesso della violenza allineandola al proprio conte­ sto di riferimento, e distorcendo la valenza e il significato dell'abuso subìto fino a giungere, talvolta, a negarlo ("Lo fa per il mio bene", "Me lo sono meritato"). Anche in assenza di violenza fisica, un ambiente culturale o sociale che smi­ nuisce la donna, attraverso considerazioni sull'inferiorità femminile, comportamenti di ridicolizzazione, derisione, tendenza a svalutarla e a trattarla come un oggetto, costi­ tuisce un addestramento implicito e informale, un vero e proprio apprendimento passivo. Questo processo svolge un'importante azione facilitante perché dipingendo la don­ na come inferiore, diversa, indegna, rende più facile agire la violenza secondo il paradigma della deumanizzazione (se lei è un essere inferiore e incapace, allora posso usar­ le violenza perché la considero poco meno che un essere umano). Ancora oggi, nonostante l'apparente cambiamen­ to sociale, permangono alcune discriminazioni derivate da passati privilegi e diritti maschili che indirettamente conti­ nuano a legittimare la disparità e a giustificare la necessità di violenza-controllo sulla donna.» Il 26 luglio 2003 l'attrice francese Marie Trintignant è a Vilnius, in Lituania, per girare alcune scene del telefilm Colette in cui ha il ruolo della protagonista. Ha scritto lei stessa la sceneggiatura insieme alla madre regista, suo fra­ tello è assistente alla regia e nel film recita anche suo figlio. Da un anno ha una relazione con Bertrand Canta t, leader del gruppo musicale Noir Désir, sposato con Kristina Rady dal­ la quale ha avuto due figli. Proprio dopo la nascita dell'ul­ tima bambina Bertrand ha lasciato la moglie per andare a vivere con Marie a Parigi. In serata si festeggia la fine delle riprese con tutta la troupe e più tardi Marie e Bertrand vanno a trovare un amico li-

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tuano, Andreus Leliuga. Un sms che Marie riceve da Samuel Benchetrit, l'ex marito regista con cui mantiene buoni rap­ porti, scatena un litigio nella coppia. Si tratta di un messag­ gino innocente, in cui Samuel parla di lavoro, ma i saluti alla «mia piccola Janis», nome che si riferisce al film che il regista ha appena girato insieme a Marie, fanno infuriare Bertrand, che lancia improvvisamente un bicchiere contro la parete. Andreus assiste alla scena imbarazzato, ma non riesce a capire cosa l'abbia provocata. Bertrand se ne va con Marie, deciso a tornare in albergo. Una volta in came­ ra, la lite riprende. Per rivalsa Bertrand vorrebbe telefona­ re all'ex moglie Kristina, ma Marie glielo impedisce. Sono entrambi estremamente gelosi. Un vicino di stanza sente le grida della coppia e avverte il concierge, che va a bussare alla loro porta. Bertrand pro­ mette di mantenere la calma, ma il litigio continua. La di­ scussione si è ormai spostata sul rapporto che Bertrand ha con Kristina, nei confronti della quale Marie usa paro­ le sprezzanti. Lui perde completamente la testa e colpisce l'amante al volto. Marie cade a terra svenu ta. Sottovalutan­ do lo stato della compagna, il cantante la porta sul letto e più tardi telefona al fratello di lei. Vincent arriva in alber­ go e, pensando che la sorella si sia addormentata, ascol­ ta lo sfogo di Bertrand. Solo alle otto del mattino i due uomini si rendono conto che Marie ha perso conoscenza e chiamano i soccorsi. L'attrice viene ricoverata in ospedale e operata tre giorni dopo, ma il suo stato peggiora e il 31 luglio cade in coma irreversibile con elettroencefalogramma piatto. La madre, Nadine Trintignant, decide di farla riportare in Francia, dove muore il l o agosto. Arrestato, Bertrand tenta di suicidar­ si assumendo dei farmaci. L'8 agosto è imputato di omici­ dio dal tribunale di Vilnius, che nega la sua estradizione in Francia. L'autopsia su Marie rivela che l'attrice è stata col­ pita con estrema violenza e scossa diverse volte, contrad­ dicendo così la tesi del cantante, che ha parlato di caduta accidentale. La donna ha ecchimosi sul viso, un edema al cervello e il naso fratturato.

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Il processo, iniziato il 16 marzo 2004, si conclude con la condanna di Bertrand Cantat a otto anni di carcere. I suoi avvocati ottengono il trasferimento in una prigione france­ se, della quale nel 2007 Canta t esce in libertà condizionata. Nel 2010 si trova in casa della moglie Kristina, a Bordeaux, nel momento in cui lei si toglie la vita impiccandosi. A sco­ prire il cadavere è uno dei figli, rientrato a casa a mezzo­ giorno, mentre Bertrand sta ancora dormendo. L'autopsia esclude qualsiasi intervento di un'altra persona nel suici­ dio di Kristina. La donna era innamoratissima del marito e non lo aveva abbandonato negli anni del processo e del car­ cere, affermando di non essere mai stata maltrattata da lui. L'omicidio di Marie Trintignant conduce a diverse ri­ flessioni. Forse l'attrice poteva essere salvata, se il vicino che ha avvertito la reception avesse bussato alla porta del­ la sua carnera dopo aver udito le prime grida. Alcuni studi hanno dimostrato che una donna riceve più facilmente aiu­ to se grida «Al fuoco!» nel momento in cui viene picchiata o violentata. Se Marie avesse urlato «Al fuoco!», forse il vi­ cino sarebbe intervenuto direttamente. Spesso accade che nessuno si faccia avanti durante una lite di coppia, considerata un affare privato, ma a volte non si interviene per paura di rimanere coinvolti o per semplice indifferenza. Sono numerosi i casi di coinquilini che, dopo un omicidio, raccontano agli inquirenti che da tempo sen­ tivano grida e forti rumori provenire dall'appartamento in cui è avvenuto il delitto. Eppure, per un motivo o per l'al­ tro, non hanno dato l'allarme. Tornando al caso Cantat, per quale motivo il concierge, invece di limitarsi a chiedere al cantante di abbassare il tono della voce, non ha allertato un agente della sicurezza che verificasse la situazione? Gli sono bastate le rassicurazioni di Bertrand che tutto andava bene e non c'era da preoccu­ parsi. Nei casi di violenza coniugale, purtroppo, questa di­ namica si ripete spesso, perfino quando vengono chiamate le forze dell'ordine. L'agente giunto sul posto si accontenta di ascoltare le giustificazioni che entrambi i membri della coppia gli danno, senza considerare che spesso la donna è

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costretta dal compagno a mentire e a minimizzare l'acca­ duto. Anche il silenzio dopo grida e forti rumori deve es­ sere considerato sospetto, in quanto potrebbe significare che uno dei protagonisti della lite ha urgente bisogno di essere soccorso. Gli studi dimostrano che abitualmente, dopo un'aggres­ sione, l'uomo non lascia la casa, ma rimane a controllare la vittima. Alcuni bevono, altri guardano la televisione o si ad­ dormentano. Bertrand Cantat adagia la compagna sul let­ to prima di telefonare a Vincent Trintignant. Questi arriva e si fida delle parole dell'aggressore: «Marie sta dormen­ do. C'è stato un terribile litigio . . . ». Come mai non control­ la? Forse perché, nella maggior parte dei casi, gli aggressori non hanno un passato di violenza, appaiono persone tran­ quille e rispettabili e non c'è motivo di sospettare di loro. Perché mai Vincent dovrebbe mettere in dubbio il racconto del compagno di sua sorella? Quindi, rimane ad ascoltare il suo sfogo, la descrizione della lite, la gelosia inspiegabi­ le di Marie, il tormento di Bertrand, ritardando così l'arri­ vo dell'ambulanza. Nadine Trintignant si è colpevolizzata a lungo per non essere riuscita a interpretare alcuni segnali che sicuramen­ te la figlia le aveva inviato. La stessa cosa accade spesso a molti familiari delle vittime. «Come ho fatto a non capire che era in pericolo?» si chiedono. Ma in una società libe­ ra che protegge, a ragione, l'intimità di ogni individuo, è difficile comprendere quello che sta succedendo all'inter­ no di una coppia. La vicenda Cantat ha portato i francesi a smantellare un certo numero di convinzioni riguardo alla sacralità dell'intimità coniugale. Oggi, nelle società civili ci si permette di gettare uno sguardo in più nelle case dei nostri familiari, conoscenti e vicini. Eppure, ci sono ancora infinite remore da superare prima che un genitore, timo­ roso di distruggere l'unione della famiglia, si decida a de­ nunciare il genero violento. Invece, è necessario interveni­ re, perché a volte l'ingresso di un «terzo» nella relazione violenta può determinare un cambiamento, fosse anche do­ vuto alla paura dell'uomo aggressivo di essere denunciato.

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A partire dal 2005, seguendo le direttive europee, in Francia sono stati concepiti piani triennali di lotta alla violen­ za contro le donne. Una legge entrata in vigore nell'aprile 2006 rafforza la prevenzione e la repressione delle violenze in seno alla coppia, allarga il campo di applicazione delle circostanze aggravanti ai conviventi e agli ex, facilita l'al­ lontanamento degli autori di maltrattamenti dal domicilio delle vittime. Riconosce inoltre come crimine lo stupro co­ niugale, se ha come scopo quello di sottomettere la vittima. Non è quindi più ammessa la violenza sessuale perpetrata dal coniuge, che nel passato era giustificata dalla presun­ zione di consenso da parte della donna. Sempre più spesso, psicologi ed esperti francesi chiedono che venga eliminata la parola «passionale» dalla descrizione di questi omicidi, perché è un modo per mascherare la violenza quotidiana che conduce alla morte.

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Si è cominciato a parlare seriamente di violenza contro le donne all'interno della coppia solo negli anni Settanta, con la nascita dei movimenti femministi. Fino ad allora si era portati a pensare che si trattasse di storie private in cui non era possibile intervenire. Era più comodo considerare i so­ prusi coniugali un comportamento individuale deviante, una malattia da curare, piuttosto che il frutto di un'errata definizione dei rapporti sociali tra uomini e donne, quindi un problema che riguarda tutti. La violenza si manifesta nell'intimità della coppia quan­ do uno dei due partner impone il proprio potere con la for­ za. Ci sono anche casi in cui a essere aggressiva è la don­ na, ma rappresentano circa il 2 per cento, non abbastanza per definirlo un «fenomeno sociale)), come invece possiamo fare considerando il 98 per cento delle vessazioni maschili. Nonostante la presa di coscienza di questa situazione e le nuove leggi che nascono ogni anno nei paesi civili, la violen­ za domestica non è stata sconfitta e molti uomini continuano a frustrare il desiderio di indipendenza delle loro compa­ gne maltrattandole e, a volte, uccidendole. Uomini che vo­ gliono instaurare una relazione arcaica in seno alla coppia e donne che accettano prepotenze e soprusi come una fa­ talità: per molto tempo, il maltrattamento è stato spiegato come un modo estremo di amare una donna sottomessa o, addirittura, consenziente.

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Il sentimento di superiorità maschile si traduce in una sensazione di potere. Alcuni uomini interpretano l'indipen­ denza della compagna, anche se solo lei non segue i loro consigli, come una perdita di controllo, che può tradursi in un calo di prestigio per la loro figura di maschio. Gli ag­ gressori hanno un bisogno ossessivo e a volte patologico di dominare la vita di colei che sostengono di amare. Gli insicuri considerano la relazione l'unica arena in cui pos­ sono sentirsi dominanti, e l'idea di perdere la compagna, e magari anche i figli, è una costante minaccia che li tiene in tensione. Le statistiche dimostrano che quando un uomo chiude una relazione in cui abusava della sua compagna, molto probabilmente si comporterà nello stesso modo nel rapporto successivo. Ogni volta che un uomo picchia una donna, fallisce il si­ stema legale che dovrebbe proteggere la vittima. La rispo­ sta della legge alla violenza sulle donne differisce di caso in caso, di epoca in epoca, di luogo in luogo, ma finora si è quasi sempre dimostrata inadeguata. Un ordine rcstrit­ tivo è solo un foglio di carta che può essere ignorato. Se le forze dell'ordine che arrivano in una casa trovano il mari­ to perfettamente tranquillo davanti al televisore e la mo­ glie senza evidenti segni fisici di violenza sul corpo, non hanno spazio per intervenire. Inoltre, troppo spesso, di so­ lito per paura, la donna chiede aiuto e poi decide di non sporgere denuncia. La violenza può essere psicologica, fisica, sessuale, eco­ nomica. Quella fisica e quella psicologica sono strettamente legate. Nessun uomo comincia a picchiare la propria com­ pagna all'improvviso: di solito prepara il terreno terroriz­ zandola. L'uomo brutale instaura un clima di tensione, a volte di vera e propria paura, con grida, ordini, minacce. Critica la fidanzata o la moglie per il modo in cui veste, agisce e pensa. Ma insulti e umiliazioni portano la donna a perdere l'autostima. È una violenza insidiosa, difficile da confessare e da esibire perché non lascia tracce visibili, ma è altrettanto distruttiva di quella fisica. L'uomo isola pro-

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gressivamente la compagna dalla famiglia, dagli amici, da ogni relazione sociale, per renderla totalmente dipenden­ te da lui. Le impedisce di lavorare, di conquistare un'auto­ nomia, di avere un conto in banca, di uscire con le amiche. Alla fine, è lei stessa a emarginarsi per evitare le liti, i con­ trolli, le pressioni. «All'inizio si limitava a criticarmi» racconta Simona, una casalinga di 40 anni. «Qualsiasi cosa facessi, per lui era sba­ gliata, e anche se ci trovavamo con gli amici diceva frasi iro­ niche, commentava il modo in cui ero vestita, mi metteva a disagio. Se protestavo, secondo lui mi mancava il senso dell'umorismo. Bastava che cambiasse il tono di voce o mi guardasse in un certo modo e io ero pronta a fare quello che voleva, per evitare la tensione che sentivo nell'aria. Ma il suo sarcasmo continuo mi feriva, mi faceva stare male. Non mi consideravo una donna maltrattata perché non ero mai stata picchiata, ma appena ho cominciato a ribellarmi, a non soddisfare qualche suo desiderio, tutto è cambiato . . . è passato alle mani.» La violenza psicologica può essere una maniera sottile per controllare la propria compagna. Una donna mi ha rac­ contato che la notte il marito la svegliava sistematicamente per chiederle: «Stai dormendo?». Il controllo può diventare ossessivo quando subentra una gelosia pervasiva, imma­ ginaria, delirante. Lui la vuole possedere completamente ed esige la sua presenza costante ed esclusiva. L'uomo in­ sicuro, piuttosto che porsi delle domande, preferisce attri­ buire la frustrazione e la tensione che lo rendono vulne­ rabile all'idea che lei lo possa tradire. Allora hanno inizio discussioni interminabili per strapparle una confessione o una promessa. «Passava notti intere a interrogarmi per es­ sere sicuro che non gli fossi infedele.>> La segue al lavoro, per strada, le telefona in continuazione, la sorveglia. Cerca di svilirla affermando che non vale niente, che le sue opi­ nioni sono tutte sbagliate. Arriva anche al punto di critica­ re la sua famiglia, gli amici e addirittura i figli. Per molte donne, le violenze psicologiche rivolte ai figli sono ferite inferte a loro stesse.

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Dalle frasi umilianti o minatorie l'uomo può passare a rompere degli oggetti, a sbattere le porte. È una forma di violenza mascherata. «Guarda cosa posso fare! Stai atten­ ta! » Poi arrivano le minacce: di portarsi via i figli, di pri­ varla di ogni sostegno economico, di picchiarla e, perfino, di suicidarsi. Tutto questo potrebbe far parte di un normale rapporto di coppia se limitato a un episodio sporadico, ma la ripetizione delle minacce e del comportamento ossessivo crea una tensione insopportabile. Di solito, quando la don­ na non cede alle violenze psicologiche, quando tenta di re­ sistere, di mantenere la propria indipendenza, di protesta­ re per i controlli e le critiche, l'uomo passa alle aggressioni fisiche. È difficile dimostrare i maltrattamenti psicologici. Se una donna manifesta sintomi depressivi, uno stato di an­ sia accentuato e una bassa autostima, le cause possono es­ sere molteplici e non direttamente attribuibili alle torture psichiche a cui lui la sottopone. Così, questi segnali vengo­ no minimizzati o non considerati affatto. Non compresa, la donna può sentirsi allontanata e messa da parte dai fami­ liari, dagli amici, dai colleghi, fino a rimanere prigioniera nella relazione violenta. Gli abusi fisici, che minacciano l'integrità della vittima e la sua libertà di movimento, di solito sono gli unici a esse­ re denunciati. L'uomo può brutalizzarla in decine di modi diversi: schiaffeggiandola, tirandole i capelli, torcendole un braccio, prendendola a calci e pugni, sbattendola con­ tro il muro, colpendola con un bastone, una sedia, un col­ tello, bruciandola con la sigaretta . . . La reazione della don­ na al primo colpo è di sorpresa: niente lasciava prevedere un simile comportamento nel suo compagno. Incapace di reagire, sopporta. Se invece si ribella, vede aumentare le aggressioni. Quando la vittima ha già subìto maltratta­ menti psicologici, può trovarsi in uno stato di abbattimen­ to e impotenza tale da non riuscire neppure a protestare. Sa che è inutile cercare di ragionare, di discutere, perché lui non si controlla più. Vedendola sottomessa, l'uomo ca­ pisce che il suo modo di agire ha avuto successo e lo ripe­ terà in seguito.

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La violenza sessuale è quella di cui le donne hanno più dif­ ficoltà a parlare. Può essere di diverso tipo: dalle richieste de­ gradanti all'esigenza di una frequenza di rapporti impossibile da soddisfare, all'uso di parole volgari, fino al vero e proprio stupro coniugale. Più semplicemente, in molti casi si tratta di obbligare con le minacce la compagna ad avere rapporti quando lei non lo desidera. Può anche accadere che l'uomo la metta incinta solo per controllarla meglio. Una recente ricer­ ca francese ha dimostrato che su 148 donne vittime di abusi nella coppia, il 68 per cento aveva subìto, oltre ad aggressioni fisiche, anche violenze sessuali e riportava traumi psicolo­ gici peggiori di chi era stata «solo)) maltrattata fisicamente. C'è poi la violenza economica, che si manifesta in vari modi: impedire alla donna di lavorare, controllare le sue spese, consegnarle solo lo stretto necessario per mandare avanti la casa, privarla delle sue rendite, fare debiti a suo nome. Lasciare la compagna senza mezzi di sussistenza è un altro modo per dominarla, per impedirle di separarsi. L'uomo può convincerla a interrompere gli studi o ad ab­ bandonare il lavoro affermando che i figli hanno bisogno di lei, che i pasti sono mal cucinati, che la casa è sempre in disordine. Addirittura, che un secondo stipendio non fa­ rebbe che aumentare le tasse della coppia! È difficile stabilire una gerarchia tra i vari tipi di violen­

za esercitata, sia essa verbale, psicologica, fisica o sessuale. Non è tanto la natura dell'aggressione, quanto la sua impre­ vedibilità e ripetitività a determinare la gravità di queste si­ tuazioni. «Certe notti mi spinge giù dal letto e io finisco sul pavimento. Temendo che possa picchiarmi, mi arrangio a dormire lì, dove mi trovo. Inoltre non voglio che i nostri fi­ gli possano udire i litigi. Una volta ho provato a mettermi di nuovo nel letto e lui mi ha afferrata con una mano alla gola, mentre l'altra, chiusa a pugno, era a pochi centime­ tri dal mio naso. Ci siamo guardati e ho capito che in quel momento era pronto a uccidermi.» Molte delle donne che ho intervistato parlano dell'uomo che hanno sposato come di una persona meravigliosa di cui

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si sono innamorate velocemente, un vero colpo di fulmi­ ne. La relazione è cominciata subito, lasciando poco spazio alla riflessione. Tutte hanno provato una forte attrazione fi­ sica per il compagno, che descrivono come affettuoso, se­ ducente, generoso. Sono disarmate dal suo comportamen­ to, dalle parole d'amore, dalla passione esclusiva. Il primo atto di violenza le coglie impreparate e tendono a minimiz­ zarlo. Eppure, proprio questo dovrebbe essere il campanel­ lo d'allarme in grado di metterle sull'avviso e di aiutarle a prendere una decisione che tempo dopo, con la nascita dei figli, sarà molto più difficile attuare. Alcune mi hanno confessato che le violenze psicologi­ che sono forse peggiori di quelle fisiche. Sono umilian­ ti, degradanti, spersonalizzanti. Insulti, ingiurie, svalo­ rizzazione, minacce, interrogatori ossessivi, inquisizioni. Questi soprusi non lasciano tracce sul corpo, ma provoca­ no enormi conseguenze nella vita di chi le subisce. Molte donne diventano apatiche, lamentano disturbi digestivi e del sonno. È difficile denunciare un uomo per le violenze psicologiche: le forze dell'ordine chiedono segni sul cor­ po, lividi, ferite. In caso di separazione, questi abusi non si dimostrano, perché i danni che producono non posso­ no essere fotografati. Come accennavamo prima, certi uomini si comportano come veri predatori: isolano le loro compagne prima di uc­ ciderle. Racconta Carola: «Avevo molti amici, ma a poco a poco mi sono ritrovata sola. Intorno a me c'era il vuoto. Tutte le persone che conoscevo non gli andavano bene e mi proibi­ va di frequentarle». Lui comincia a sorvegliare sistematica­ mente i suoi movimenti, i gesti, le conversazioni telefoniche, i contatti in rete. Lei perde la sua libertà: è controllata, spiata, seguita. L'uomo vuole isolarla nel presente e cancellare il suo passato, tutto ciò che costituisce la sua storia personale. Alcune di queste donne hanno interiorizzato attraverso l'educazione i principi di sottomissione e di dipendenza all'autorità maschile, trasmessi di generazione in genera­ zione. Inizialmente si sentono gratificate, valorizzate dalle grandi prove d'amore del compagno, e perfino dalla sua

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gelosia e possessività. Hanno l'impressione di essere spe­ ciali, uniche, e accettano di interpretare tutti i ruoli che lui desidera: amante, casalinga, segretaria, amica, infermiera. «Mi vuole tutta per sé, vuol dire che mi ama . . . )) «È terri­ ' bilmente geloso perché mi ama . . . )) «Se non è geloso non ' ti ama, più è geloso più ti ama)). Per questo gli omicidi per gelosia hanno una doppia giustificazione: una perché com­ messi per troppo amore e l'altra perché questo sentimento ha portato l'uomo a una follia temporanea, rendendolo in­ capace di controllare il proprio comportamento. «Metteva in atto delle trappole. Mi scriveva lettere d'amore con nomi falsi per vedere la mia reazione . )) È facile che la donna cada in questi tranelli, rispondendo a w1a lettera o a una telefo­ nata, pretesti che lui utilizza per lasciare esplodere la pro­ pria ira e rafforzare il controllo. Gradualmente, tali donne vengono vampirizzate, annullate fino a diventare oggetti da possedere in modo esclusivo. . .

Molti studiosi identificano dei cicli nell'escalation della violenza coniugale contro le donne. La prima fase è di ten­ sione, di irritabilità, che l'uomo giustifica con le preoccu­ pazioni per il lavoro o le difficoltà della vita quotidiana. In questo periodo la violenza si manifesta con piccoli segni, come un cambiamento nel tono della voce, i silenzi ostili, gli sguardi minacciosi. La donna si sforza di essere gentile, di comprendere, di non far scoppiare un litigio. La seconda fase è quella dell'aggressione, in cui l'uomo grida, insulta, minaccia, lancia oggetti a terra o contro la donna. La può spingere, schiaffeggiare o colpire con stru­ menti di varia natura. In alcuni casi cerca di avere rapporti sessuali con lei contro la sua volontà. L'intimidazione cro­ nica può essere devastante quanto la violenza fisica. «Se mi lasci te ne pentirai! )), «Se vai via mi uccido!)), «Se mi ab­ bandoni non rivedrai più i bambinib), «Farò una strage e poi mi toglierò la vita!)). Lei non reagisce: può protestare, ma non si difende perché ha paura. Raramente percepisce dentro di sé sentimenti di collera o rabbia; piuttosto, pro­ va tristezza e impotenza.

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La terza fase è quella delle scuse. L'uomo tende a mi­ nimizzare il suo comportamento, cerca di giustificarsi e spesso colpevolizza la compagna perché lo ha provocato. Chiede perdono, giurn che non accadrà mai più, che maga­ ri consulterà uno psicologo. A volte parla della sua infan­ zia triste o drammatica e, se la donna esprime l'intenzione di andarsene, minaccia nuovamente di suicidarsi. Gli nn­ glosassoni chiamano questa fase lave bombing, bombarda­ mento d'amore. In realtà non si tratta di un vero tentativo affettuoso di riconquistare la compagna e rassicurarla, ma di una seduzione narcisistica, destinata ad affascinarla e nello stesso tempo a paralizzarla. Segue una fase di riconciliazione in cui lui si comporta in modo gentile, attento, premuroso. Porta regali, aiuta nel­ le faccende di casa, le invia mazzi di fiori, la invita al risto­ rante. Spesso non si tratta di una strategia né, tantomeno, di sincero rammarico, bensì della paura di avere esagera­ to e di rischiare la separazione. La donna torna a sperare, perché ritrova la persona che ha conosciuto e che l'ha fat­ ta innamorare. La sua soglia di tolleranza alle aggressioni si alza. In seguito, la violenza riprende e, se lei non trova il coraggio di interrompere questa spirale, la sua stessa vita può essere in pericolo. Quasi mai una donna abbandona il compagno dopo il primo atto di violenza. Nel momento in cui decide di porre fine alla relazione, ha già subìto anni di aggressioni e abu­ si. Spesso ha provato a }asciarlo diverse volte, ha proposto terapie e consulti: consigli che lui non ha accettato. In nes­ suno di questi casi l'uomo ha fatto un sincero esame di co­ scienza per capire come mai lei reagisca così. Neppure il tacito rimprovero dei figli lo fa sentire in colpa. Ci si chiede come mai alcune donne rimangano a lun­ go con simili individui. Uno dei motivi è che le violenze fisiche non arrivano subito e tutte insieme, ma sono pre­ cedute da microviolenze verbali e psicologiche che hanno come risultato di indebolire progressivamente le resisten­ ze della donna impedendole di reagire. Inoltre, il control­ lo eccessivo dovuto alla gelosia può essere scambiato per

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una forma di amore, una spinta può essere considerata non intenzionale e uno schiaffo giustificato da un momen­ to di nervosismo. Secondo Chiara Cameran i, è proprio l'imprevedibilità del­ la violenza, unita all'insicurezza e allo stato di vulnerabilità e di bisogno in cui si trova, che spesso inibisce alla donna la denuncia o la fuga. Lentamente, queste donne smarriscono il loro senso critico e finiscono per abituarsi ai soprusi, fino a perdere completamente la fiducia in se stesse quando la violenza aumenta e diventa fisica. Destabilizzate, confuse, angosciate, sole, non sono in grado di prendere una deci­ sione. Alcune ricorrono a un meccanismo inconscio di dis­ sociazione dal male che ricevono. La vittima diventa allo­ ra osservatore esterno delle aggressioni che subis�e. È un modo per sopravvivere, una strategia passiva che si mette in atto quando si percepisce che non c'è altra soluzione. La scissione non cancella il trauma ma, negando il ricordo di eventi dolorosi e stressanti, aiuta ad andare avanti. È una specie di anestetico dei sensi. Il sentimento di impotenza e, a volte, il processo di rimozione rendono la donna incapa­ ce di cercare una soluzione e spesso fanno scomparire del tutto la volontà di trovarla. L'impotenza si presenta quan­ do la violenza è imprevedibile e incontrollabile, quindi non può essere anticipata. Spesso le vittime di maltrattamenti manifestano la stes­ sa reticenza a rendere pubblica la loro sofferenza delle don­ ne stuprate o dei bambini che subiscono abusi sessuali. La donna si colpevolizza: «Non sarò stata troppo nervosa?», «L'avrò provocato?», «Sono eccessivamente esigente?». È lei a mettersi in discussione. Oppure accuserà l'alcol, lo stress, le preoccupazioni economiche, l'eccesso di lavoro, i sopru­ si di un capo. «In fondo, non è un uomo violento . . . lo di­ venta quando beve troppo.» Oppure: «Ha avuto un'infan­ zia infelice, ha bisogno di me». È successo in diversi paesi che la notizia di un delit­ to conseguente a maltrattamenti o abusi contro la donna fosse relegata in un trafiletto di poche righe, fino a quan-

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do un caso eclatante ha risvegliato l'opinione pubblica e i media. È stato così in Francia dopo l'uccisione di Marie Trintignant da parte di Bertrand Cantat, come abbiamo visto nel precedente capitolo, e in Spagna con il caso di Ana Orantes. Ana Orantes accetta di partecipare al programma De tarde en tarde di Canal Sur Televisi6n per raccontare gli abusi e le violenze che ha subìto per anni dal marito. Ana ha 60 anni e otto figli. Ha già denunciato José Parejo Avivar e si è separata da lui, ma un giudice ha deciso che l'uomo può rimanere nella sua abitazione, a patto che si trasferisca al piano inferiore. In comune con la moglie ha solo il patio e il giardino del villino a Cullar Vega (Granada) e, natural­ mente, gli otto figli. Nel programma, Ana si sfoga e racconta la sua vita d'in­ ferno con José che, oltre a maltrattarla, l'ha costretta a lungo ad avere rapporti sessuali che lei non desiderava. L'ex ma­ rito la vede in Tv e si infuria. Si rivolge al giudice di pace, che gli consiglia di farsi intervistare nella stessa trasmis­ sione per fornire la sua versione dei fatti. Ma lui ha un'al­ tra idea. Il 17 dicembre 1997, a poche settimane dalla mes­ sa in onda del programma, esce nel patio mentre la moglie sta rientrando con le borse della spesa. Aspetta che lei gli volti le spalle per chiudere il cancello e le rovescia addos­ so una tanica di benzina. Poi le dà fuoco con un accendino e rimane immobile a osservare senza nemmeno tentare di aiutarla. Ana muore per le gravissime ustioni e José va a consegnarsi alla polizia. Afferma di aver picchiato a morte la moglie: «Abbiamo discusso e l'ho ammazzata!». La sua versione dei fatti viene contraddetta dalla fine terribile che ha fatto la donna e dai racconti dei vicini. «Le ha dato fuoco ed è rimasto a guardarla bruciare . . . » Non era la prima volta che José Parejo ricorreva al fuoco per punire l'ex moglie. Nell'estate del 1996, appena dopo la separazione, aveva ammucchiato tutte le cose che le ave­ va regalato negli anni e le aveva bruciate. Al processo, che si svolge un anno dopo l'omicidio, José Parejo dichiara che quella mattina Ana lo aveva insultato, usando parole di di-

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sprezzo anche contro sua madre. «Era scesa da un'auto ros­ sa con le borse della spesa e la seconda volta che mi è pas­ sata accanto ha iniziato a insultarmi. Ho perso la testa . . . )) E spiega: «Poco prima avevo ricaricato con la benzina una falciatrice e avevo lasciato la tanica vicino a un vaso nel quale stavo bruciando delle erbacce. Si vede che una scin­ tilla ha infiammato la tanica, che è esplosa coinvolgendo mia moglie)). 11 16 dicembre 1998 José Parejo viene condannato a di­ ciassette anni di carcere. Secondo il giudice, ha assassi­ nato l'ex moglie in piena coscienza utilizzando un'arma, il fuoco, che le avrebbe impedito di difendersi. Nel 2004 José Parejo ha avuto un infarto nella prigione di Albolote (Granada), dove stava scontando la sua pena, ed è mor­ to in ospedale. Uno dei figli di Ana Orantes e José Parejo è stato arrestato nel 2005 per aver maltrattato la sua com­ pagna, che è dovuta ricorrere all'aiuto dei medici in ospe­ dale. La donna aveva diverse ecchimosi e ferite sul volto. I fatti si sono svolti nella stessa casa in cui è stata uccisa Ana Orantes. Anche se nell'anno dell'omicidio della Orantes altre no­ vantasei donne hanno trovato la morte per mano del loro compagno o ex compagno, è stato l'interesse enorme che i media hanno dedicato a questo caso a far sì che il governo spagnolo si affrettasse a riformare il Codice penale in ma­ teria di violenza domestica. Nel 1998 è stato varato il Primo piano di azione contro la violenza domestica, e le notizie di donne uccise dal loro compagno hanno gradualmente tro­ vato più spazio nei media, anche se per molto tempo an­ cora sono state raccontate con i termini sensazionalistici e svianti che derivavano da una lunga tradizione giornalisti­ ca. Si è compreso che gli omicidi non erano che la punta di un iceberg rappresentato dalla diffusa e reiterata violenza nell'ambito della vita di coppia. La Spagna si è rivelata un precursore, in Europa, per quanto riguarda la legislazione contro i crimini domesti­ ci. Nel gennaio 2005 è entrata in vigore la Legge integrale contro la violenza di genere, che considera quelle coniuga-

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li violenze sessiste, frutto di un sistema nel quale le donne subiscono numerose discriminazioni. La repressione, si sta­ bilisce, deve essere accompagnata da un lavoro di preven­ zione degli abusi e delle disuguaglianze tra i sessi. La legge prevede anche la formazione e il coordinamento di profes­ sionisti in vari settori: medici, forze dell'ordine, magistra­ ti, psicologi, assistenti sociali, in modo che le vittime pos­ sano ricorrere in ogni momento a specialisti nella materia. L'obiettivo della legge è di ((agire contro la violenza che, come manifestazione di comportamenti discriminatori, di ineguaglianza o relazioni di potere degli uomini sulle don­ ne, viene esercitata su chi è o è stata la propria compagna». La nuova normativa richiede poi la creazione di servizi di informazione attivi ventiquattr'ore su ventiquattro, che garantiscano un primo aiuto legale e psicologico, oltre a centri di emergenza e di recupero per le donne e i loro fi­ gli. L'assistenza legale specializzata deve essere gratuita e sono previsti contributi economici che consentano alle vit­ time di iniziare una nuova vita, oltre a un fondo per paga­ re loro gli alimenti. Le vittime usufruiscono inoltre di trat­ tamenti speciali nel lavoro, come l'adattamento dell'orario alle loro esigenze, mobilità geografica ecc. Giudici specializ­ zati in materia decidono le misure di protezione a seconda della gravità del caso: dall'allontanamento dell'aggresso­ re dall'abitazione di famiglia all'interruzione di ogni con­ tatto e comunicazione con la vittima, fino alla revoca del­ la patria potestà o alla sospensione del regime di visite ai figli. Diventano più severe le pene da scontare: le minacce lievi possono essere punite con un periodo di detenzione da sei mesi a un anno. In caso di lesioni, la pena aumenta fino a cinque anni. Una volta in carcere, i condannati do­ vranno seguire programmi specifici per evitare le recidive. Da tre a sei milioni di donne subiscono maltrattamenti dal loro partner ogni anno negli Stati Uniti. Queste aggres­ sioni rappresentano la prima causa di ferite gravi e morte di donne tra i 15 e i 44 anni. Le statistiche rivelano che gli effetti di tali abusi portano un quarto delle vittime a tenta-

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re il suicidio o a fare uso di droghe o alcol. Le uccisioni di donne avvengono di solito al culmine di una lunga storia di aggressioni. Esperti americani hanno elaborato una se­ rie di consigli per le vittime di violenze: pianificare la fuga (per esempio, dove andare a dormire ecc.) se l'uomo di­ venta troppo violento; tenere a portata di mano una copia delle chiavi dell'auto da usare in caso di emergenza; evita­ re i litigi in luoghi a rischio come la cucina (per la presen­ za di coltelli); conservare una copia dei documenti più im­ portanti (carta d'identità, certificati vari, carte di credito . . . ); concordare con gli amici e i parenti dei codici segreti per comunicare; aprire un conto privato in banca; nasconde­ re un telefono in una stanza che si possa chiudere a chiave dall'interno. In caso di separazione, le indicazioni sono di cambiare la serratura della porta; informare i vicini di casa del pericolo che si corre; proibire ai figli di avere contatti con il padre se ha minacciato di morte la loro madre e for­ nirli dei numeri da chiamare in caso di emergenza; avver­ tire gli insegnanti dei figli per prevenire un eventuale rapi­ mento; variare i percorsi per andare al lavoro. Dalle conversazioni che ho avuto con vittime di maltrat­ tamenti emergono profili di uomini molto simili. All'inizio del rapporto sono generosi, simpatici e gentili. Non han­ no problemi di lavoro, di alcol o droghe. Gradualmente, si trasformano in perfetti egoisti. Rimproverano la moglie per ogni mancanza vera o presunta. Il loro umore cambia rapi­ damente nella stessa giornata, diventando imprevedibile. «Può molestarmi per delle ore e poi negare di averlo fatto . . . mi fa diventare pazza!», «Cerca di convincermi a fare cose assurde affermando che è per il mio bene . . . », «Quando mi picchia, poi, dà la colpa a me . . . trova ogni pretesto per di­ mostrarmi che ho commesso degli errori. . . », «Usa le parole in modo tale da creare un'enorme confusione nel mio cervel­ lo e alla fine non capisco più niente», «Riesce ad allontanar­ mi dai miei amici rivelando loro cose che avrei detto, cose cattive che non mi sono mai sognata neppure di pensare». Molte di queste donne passano il tempo a cercare di capi­ re cosa ci sia di sbagliato in loro, e non nel partner. Se lui ha

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un ottimo rapporto con gli amici e i colleghi, e si comporta male solo con lei, vuoi dire che la colpa è sua. «Cosa faccio di sbagliato? Gli altri pensano che sia un uomo perfetto!» Uomini amabili con gli estranei e violenti in casa; genero­ si con gli amici ed egoisti e avari con la famiglia; equilibra­ ti e compiacenti all'esterno e autoritari e tirannici in casa; violenti solo con la loro compagna, miti con gli altri. Pos­ sono insultare e picchiare la moglie in privato, e criticare in pubblico gli uomini che si comportano così. Vedere come il proprio compagno sia ben considerato rende la donna ri­ luttante nel momento in cui deve accusarlo o denunciarlo. Teme di non essere creduta. Ecco invece il racconto di un uomo: «Vado d'accordo con tutti eccettuata lei. Chiedete in giro e troverete solo perso­ ne che mi definiscono calmo, ragionevole. È lei che mi fa perdere il controllo . . . Lo sanno tutti». Lo sanno tutti per­ ché è proprio lui a presentare la compagna come una don­ na che ha problemi di relazione. Sembra che il senso della realtà di questi individui sia totalmente distorto. Quando reprimono la compagna impedendole di uscire, di lavora­ re, di incontrare gli amici, di accedere al conto bancario, si giustificano affermando che lo fanno per il suo bene, per­ ché la conoscono meglio degli altri, perfino meglio di quan­ to lei conosca se stessa. Nelle terapie seguite da questi uomini, gli specialisti cer­ cano di convincerli che il possesso è l'opposto dell'amore. Confondendo questi due sentimenti, l'uomo, quando uccide, sostiene di averlo fatto per troppo amore. La tendenza a iso­ lare la compagna deriva dal desiderio di averla tutta per sé. Il soggetto violento ritiene che se lei coltivasse delle ami­ cizie potrebbe avere meno tempo da dedicargli, se lavo­ rasse e guadagnasse diventerebbe abbastanza forte e indi­ pendente da abbandonarlo. Inoltre è portato a sottolineare eccessivamente un proprio atto generoso perché la donna si senta in debito con lui, dimenticando tutte le volte in cui le ha negato qualcosa. Francesca Caferri, giornalista della «Repubblica», ha scritto un bellissimo libro dal titolo Il paradiso delle donne,

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in cui racconta le rivoluzioni del mondo musulmano at­ traverso le sue coraggiose protagoniste. Francesca viag­ gia molto per raccogliere le sue storie, che spesso riguar­ dano l'universo femminile. È anche fra le sode fondatrici di Se non ora quando?, movimento che ha condotto un'im­ portante campagna nazionale. Scrivono le fondatrici nel sito del movimento: «Siamo un gruppo di donne diver­ se per età, professione, provenienza, appartenenza politi­ ca e religiosa. Raccogliamo appartenenti ad associazioni e gruppi femminili, donne indipendenti del mondo della po­ litica, dei sindacati, dello spettacolo, del giornalismo, del­ la scuola e di tutte le professioni. Se non ora quando? è un movimento trasversale, aperto e plurale . . . Abbiamo det­ to e continuiamo a dire con tutta la nostra voce che l'Italia non è un paese per donne. Noi vogliamo che lo sia . . . Noi chiediamo a tutte le donne, senza alcuna distinzione, di di­ fendere il valore della loro, della nostra dignità e diciamo agli uomini: se non ora, quando? È il tempo di dimostrare amicizia verso le donne». Ho chiesto a Francesca di raccontarmi la sua esperien­ za e le sue considerazioni riguardo alle donne maltrattate, abusate, uccise dagli uomini. «Per anni mi sono occupata di donne nei paesi arabi e musulmani. Spesso, la loro vita non è facile: la società non riconosce loro un ruolo parita­ rio, a volte le tratta esplicitamente da cittadini di serie B e questo le espone in maniera molto chiara alla violenza. Pe­ staggi, stupri, omicidi sono, in molti dei paesi che ho visi­ tato per lavoro, all'ordine del giorno. Eppure . . . Eppure c'è anche altro. Perché se si guardano le cifre sulla violenza con­ tro le donne in Italia, si scopre che sono altissime. Queste considerazioni mi hanno convinta dell'importanza di con­ tinuare ad accendere i riflettori sul fenomeno e soprattutto di fare qualcosa. Per questo ho approvato con entusiasmo l'idea di lanciare una campagna nazionale contro la violen­ za promossa da Se non ora quando?. «lo credo che per fermare questo fenomeno occorra un capillare lavoro dal basso che coinvolga tutti: le scuole, il mondo dello sport, i giornali, le televisioni. Bisogna far pas-

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sare l'idea che chi picchia una donna è un vigliacco e un violento, non continuare con i toni giustificativi che trop­ po spesso abbiamo visto in questi anni. I media hanno in questo senso un ruolo fondamentale, perché troppo spesso hanno inviato messaggi ambigui. Questo non può più es­ sere tollerato. Ed è importante arrivare ai bambini, perché saranno loro a modellare la società del futuro.»

VII

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È la mattina del 22 novembre 2005 quando Debora Rizzato, nel parcheggio dell'azienda tessile dove lavora, vede piom­ bare contro la sua auto una vecchia Lancia Dedra guidata da Emiliano Santangelo, l'uomo che la perseguita da dieci anni. Dopo averla colpita con sette coltellate alla schiena, Emiliano investe la sua vittima, che sta cercando di sfug­ girgli trascinandosi sulla neve. Viene fermato a Genova mentre, secondo quanto dichiara ai carabinieri, tentava di raggiungere il mare per suicidarsi. Nell'auto di Debora c'è l'ultima denuncia contro Emiliano, che lei aveva firmato il 22 ottobre, un mese prima dell'omicidio. Le minacce del giovane erano continue, lettere, messaggi telefonici: «lo ti ammazzo, te e tua madre», «Ti inseguo, ti faccio sparire la macchina», «Non presentarti con tua madre al processo, vi riderò in faccia!». Debora, 25 anni, abitava con i genitori a Cossato (Biella) e lavorava in una ditta che tinge tessuti a Fila di Traviano, a 30 chilometri da casa. Emiliano, invece, 32 anni, viveva da solo a Carema (Torino), vicino all'abitazione della ma­ dre. Da anni era seguito dai medici, che lo curavano con psicofarmaci per una depressione medio-grave, che gli era valsa anche una pensione di invalidità civile. Nel 1995 Debora era stata violentata da Emiliano e lo aveva denun­ ciato. Appena uscito dal carcere, dopo aver scontato tre anni, lui aveva ricominciato a perseguitarla, minacciarla,

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aggredirla, dichiarando a tutti che era la sua ragazza. Nel tempo aveva collezionato una lunga serie di denunce per abusi su giovani donne, spesso minorenni, per violenze e tentativi di estorsione a famiglie con filmini erotici delle rispettive figlie. Il 4 febbraio 2006, Emiliano si è ucciso nel carcere di Biella in cui era detenuto. Il reato di stalking si configura in presenza di un com­ portamento persecutorio o minaccioso da parte di un indi­ viduo nei confronti di un altro: inseguimenti, visite a casa o sul luogo di lavoro, telefonate fastidiose, messaggi scrit­ ti, vandalismo. Non esiste un profilo dello stalker: il perse­ cutore può essere chiunque a prescindere dal sesso, dalla razza, dall'età, dalle condizioni socioeconomiche. Questo impedisce di individuare una strategia efficace da applica­ re a ogni situazione. Dai dati dell'Osservatorio nazionale sullo stalking emerge che in più dell'SO per cento dei casi l'oggetto degli atti persecutori sono donne. Lo stalker è ossessionato dalla vittima e, se questa non soddisfa i suoi desideri, cercherà di forzarla con le intimi­ dazioni, arrivando perfino a usarle violenza. Nei casi di una relazione sentimentale interrotta, vuole riprendere il con­ trollo della propria partner e ricucire il rapporto inviando­ le fiori, messaggi, regali. Alla mancata risposta della don­ na, passa alle minacce e alle ingiurie, cercando di introdursi nella sua vita. Lei teme di uscire di casa perché sa che il suo molestatore forse la sta aspettando: all'angolo della strada, al bar di fronte, davanti al portone d'ingresso, vicino al po­ sto di lavoro. Gli effetti delle persecuzioni sono devastan­ ti per la vittima: ansia, insonnia, incubi, depressione, ter­ rore, disturbi somatici. La perseguitata manifesta i sintomi tipici dello shock postraumatico e in casi estremi ricorre al suicidio per liberarsi dall'incubo. Rispetto al passato, oggi un numero sempre maggiore di donne segnala alle autorità i propri persecutori, ma sono ancora troppo poche. «Le vittime confessano di non de­ nunciare lo stalker per sfiducia nei confronti delle auto­ rità, per il timore di peggiorare la situazione o, in alcuni

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casi, perché non vogliono che l'uomo venga condannato»» spiega Massimo Lattanzi, psicologo e presidente dell'Os­ servatorio nazionale sullo stalking. «Le donne non si sen­ tono sicure dopo la denuncia; inoltre, quando arrivano a costituirsi parte civile, devono sostenere le spese di tasca propria se hanno un reddito superiore a 9900 euro. Il pa­ trocinio gratuito non è previsto per tutti e ora, con la crisi, temo che venga bloccato del tutto. Le chiamate aumenta­ no, ma quando contatta le équipe delle consulenze legali, una persona su tre decide di rinunciare.»» A volte la denuncia è interpretata dallo stalker come un'ul­ teriore provocazione da parte della vittima e, spesso, inne­ sca un meccanismo irreversibile che si conclude con l' omi­ cidio o con l'omicidio-suicidio. Gli ultimi dati dimostrano che uno stalker su tre, dopo la denuncia o addirittura dopo la condanna, riprende la persecuzione con maggiore inten­ sità, aggressività e frequenza. Lo stalking, infatti, è un com­ portamento cronico, che può protrarsi per mesi o anni. Nel 40 per cento dei casi gli uomini violano gli ordini restritti­ vi e la prigione può non essere sufficiente a fermarli: mol­ ti di loro continuano a scrivere o a telefonare alla vittima perfino dal carcere. In Italia, nel 2009, al Codice penale è stato aggiunto l'ar­ ticolo 612 bis sul reato di stalking, punibile con la reclu­ sione da sei mesi a quattro anni. Massimo Lattanzi ritiene che questa legge non sia sufficiente, visto che da quando è entrata in vigore il numero delle donne uccise da un ex partner è cresciuto, nonostante l'aumento di denunce e di richieste di misure cautelari. «La legge ha seguito l'onda dell'emergenza, è stato un pacchetto sicurezza, ma noi ri­ badiamo che è monca perché si è cercato di contenere gli atti persecutori con gli stessi strumenti che servono per la violenza di genere, la violenza domestica. Ci sono ovviamen­ te delle relazioni tra violenza domestica e stalking, ma gli Stati Uniti e l'Australia per primi hanno condotto ricerche e aperto cliniche specifiche per questo reato. Hanno capi­ to che la giustizia punitiva non funziona con gli stalker, ci vogliono terapie adeguate.»»

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Anche secondo Ruben De Luca l'introduzione di una leg­ ge apposita è sicuramente un inizio ottimo, ma tardivo, vi­ sto che nel resto d'Europa sono in vigore da diversi anni norme specifiche che puniscono severamente questo tipo di reato. «La legge è del tutto inutile se non si cambia la men­ talità degli operatori di sicurezza, degli appartenenti alle forze dell'ordine e di tutte le persone che entrano in con­ tatto con un caso di stalking>>. Secondo De Luca, qualcosa sta cambiando, ma non con la velocità che sarebbe neces­ saria. «Troppo spesso, quando una moglie o una fidanza­ ta denuncia il proprio compagno, il caso viene minimiz­ zato, banalizzato, o si tenta la strada della riconciliazione, senza considerare davvero grave il comportamento de­ nunciato. Il detto popolare "tra moglie e marito non met­ tere il dito" si rivela ancora drammaticamente d'attualità e condiziona gli atteggiamenti delle persone più di quan­ to si voglia credere.» A non considerare affatto inadeguata l'attuale legge con­ tro lo stalking è Salvatore Cosentino, secondo il quale fi­ nalmente può essere punito con severità chi commette atti persecutori. «La pena può raggiungere, con le aggravan­ ti, anche i sei anni di carcere, ed è discretamente alta, con­ siderando la media spesso irrisoria delle sanzioni previste in Italia per i delitti. Si pensi che prima del febbraio 2009, mese in cui entrò in vigore la legge, chi molestava in modo persecutorio o minaccioso qualcuno veniva punito con una pena che prevedeva al massimo sei mesi di carcere. E con tali pene irrisorie non si poteva nemmeno arrestare in fla­ granza. Dunque, oggi le cose sono cambiate decisamente in meglio. Inoltre, il valore della denuncia è importante e non possiamo pensare che, siccome di frequente, dopo di essa, il denunciato diventa più aggressivo, a questa si pos­ sa rinunciare. La magistratura e le forze dell'ordine han­ no cercato a lungo di sensibilizzare il legislatore affinché varasse norme di settore più serie, proprio per raccogliere il maggior numero possibile di denunce. Senza denunce, i processi non si fanno e i criminali restano nell'impunità. Piuttosto, bisogna cercare non di modificare la legge sul-

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lo stalking, ma di istituire un sistema che garantisca alle persone che denunciano un'adeguata protezione da par­ te delle forze dell'ordine. Tale sistema in questo momen­ to storico è di difficile realizzazione, perché richiederebbe degli incrementi di spesa da parte dei ministeri dell'Inter­ no e della Difesa.» L'Osservatorio nazionale sullo stalking sostiene da anni che la sola coercizione (detenzione domiciliare o carcere) non giova né al persecutore né alla vittima e che lo stalker deve essere aiutato a prendere coscienza delle proprie azioni attraverso un percorso di psicoterapia, o si rischia di reinserire nella società un individuo i cui meccanismi psicologici sono rimasti gli stessi. «l fatti di cronaca hanno dimostrato quanto spesso uno stalker punito non sia as­ solutamente uno stalker fermato e "cambiato", ma sem­ plicemente una persona libera di tornare a perseguitare ed eventualmente uccidere la vittima» dichiara Massimo Lattanzi. L'Osservatorio considera fondamentale un «per­ corso di risocializzazione», coordinato da psicologi e tera­ peuti. Dal 2007 ha istituito il Centro presunti autori, che offre un aiuto psicologico gratuito a coloro che hanno mes­ so in atto un comportamento persecutorio o hanno mani­ festato l'intenzione di farlo e, resisi conto di avere un pro­ blema, vogliono risolverlo. La psicologa Tiziana Calzone, che lavora presso il Centro, ne spiega il funzionamento: «C'è un protocollo preventivo e riparativo e, nella nostra esperienza, posso affermare che funziona. Lo stalker, di solito, si sente isolato, e quando si vede preso in considerazione è motivato a continuare il per­ corso terapeutico. Non ci è ancora successo che qualcuno abbia abbandonato la terapia. Qui lo stalker ha la possibili­ tà di parlare della persona che lo ha abbandonato. Dà libero sfogo al suo disagio rispetto al rapporto concluso. La cosa funziona anche perché noi andiamo alla ricerca del motivo per cui agisce queste condotte moleste, lo aiutiamo a pren­ derne coscienza e anche a rendersi conto che quella che sta vivendo è un'ossessione che può portare ad atti estremi».

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Di solito la terapia dura dai diciotto ai ventiquattro mesi. Spesso è lo stesso stalker a chiedere un sostegno, in altri casi può essere la vittima a convincerlo. Sembra che la solitudine che prova dopo l'abbandono della compagna sia il proble­ ma principale. Isolato dai suoi affetti, criticato dall'opinione pubblica, si chiude in un mondo privato in cui riprendere il controllo della sua ex diventa l'unico pensiero, un'osses­ sione. Lattanzi mi riferisce che, se alcuni degli uomini che si sono rivolti al Centro non avessero seguito il percorso te­ rapeutico, avrebbero sicuramente messo in atto le loro in­ tenzioni. Lo dimostrano i messaggi di ringraziamento che riceve da chi, uscito dall'incubo, parla del rischio che ha fat­ to correre alla donna e che ha corso lui stesso. Il Centro opera anche nel carcere di Rebibbia, per preve­ nire eventuali recidive, e nelle scuole, per educare gli stu­ denti al rispetto per l'altro sesso. Inoltre, viene sviluppato un programma di formazione e supervisione per sociolo­ gi, psicologi, mediatori familiari, forze dell'ordine. «È im­ portante lavorare nelle scuole, perché gli atteggiamenti persecutori possono verificarsi anche durante l'adolescen­ za. Spesso vengono confusi con il bullismo, ma si tratta di comportamenti diversi. I ragazzi che perseguitano manda­ no messaggi a ripetizione, inviano fiori e regali non gradi­ ti, seguono la ragazza, la accompagnano anche se lei non lo desidera, si presentano sotto casa ecc.)) Ecco le testimonianze di due uomini che hanno deciso di intraprendere un percorso di risocializzazione. Mario D. racconta che, quando la moglie lo ha lasciato, l'unico suo pensiero era quello di trovare il modo di vendicarsi. «Non riuscivo a distogliere la mente da quell'idea fissa. All'inizio erano solo immagini. Mi vedevo uscire di casa con un col­ tello e aspettarla da qualche parte. Tutta la scena seguente si svolgeva al rallentatore. Il suo sguardo prima sorpreso e poi spaventato. La lama entrava nel suo corpo e ne usciva insanguinata, portandosi via la sua vita. Poi mi sono sentito costretto a fare qualcosa di concreto, le fantasie non mi ba­ stavano più. Volevo che lei stesse male veramente, che sof­ frisse come soffrivo io. È stato allora che ho chiesto aiuto.))

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«Non sapevo con chi parlare, con chi sfogarmi» mi dice Carlo F. «Mi vergognavo dei miei impulsi, ma non riuscivo a controllarli. Adesso, dopo la terapia, sono cambiato, an­ che se rimane un'ansia leggera da qualche parte della mia mente, la paura di ricominciare. Da solo, comunque, non ce l'avrei fatta a uscirne.» Gli Stati Uniti sono stati tra i primi paesi a promulgare una legge specifica contro il reato di stalking, ma anche lì, per scuotere l'opinione pubblica e le istituzioni, c'è voluto un caso eclatante, la morte di una giovane attrice. È il 18 luglio 1989. A Los Angeles, Rebecca Schaeffer, un'at­ trice americana di 21 anni, sente suonare il campanello e va ad aprire. Poiché intuisce che il giovane che si trova davanti è lo stesso che la perseguita da tre anni, gli chiede di non ri­ presentarsi più a casa sua. Robert John Bardo, 19 anni, entra in un caffè poco lontano e ordina la colazione. Un'ora dopo torna all'abitazione della Schaeffer. Lei apre la porta deci­ sa a cacciarlo in malo modo, ma si trova di fronte la canna di una pistola che Bardo ha estratto da una busta di carta marrone. L'attrice viene colpita al petto e l'assassino fugge. Il giovane aveva già avuto una fissazione per l'attivista Samantha Smith, ma quando la ragazza era morta in un in­ cidente aereo nel 1985, la sua attenzione si era rivolta alla protagonista della sitcom My Sister Sam. Per due volte era riuscito a superare i controlli della CBS e a raggiungere il set portando con sé dolciumi e pupazzi di peluche per Rebecca, ma era stato prontamente respinto. Tornato nella sua città natale, Tucson, si era distratto interessandosi a due cantan­ ti pop, Debbie Gibson e Tiffany. Una sera, però, aveva visto Rebecca nella scena di un film in cui l'attrice si trovava a letto con un uomo e si era infuriato, deciso a punire la don­ na che stava diventando «un'altra puttana di Hollywood». Si era rivolto a un investigatore privato per trovare l'indi­ rizzo della ragazza, poi era partito per Los Angeles arma­ to di una pistola procuratagli il fratello. Bardo viene arrestato a Tucson il giorno successivo all'omi­ cidio, dopo la segnalazione di alcuni motociclisti che lo han-

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no visto vagare in mezzo al traffico della Interstate 10. Con­ fessa immediatamente il delitto. Condannato all'ergastolo, nel luglio 1989 scrive alla sorella: «Avevo un'ossessione per ciò che non riuscivo a raggiungere. Dovevo eliminare quel­ lo che mi sfuggiva». Questo caso ha portato alla promul­ gazione di una legge contro lo stalking, introdotta nel 1990 in California e poi in tutti gli altri Stati americani. Secondo il Codice penale californiano, una persona è colpevole di questo reato se ), che uccidono i figli come ultima ferita da infliggere all'ex com-

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pagna, che dovrà soffrire per il resto della vita. Sono uomini incapaci di guardare oltre la propria sofferenza, umiliazione e rabbia. Gli assassini non sopportano l'idea che i figli, che rappresentano ciò che di più caro hanno al mondo, possano vivere con qualcun altro. «Nessuno li avrà! Nessuno gioi­ rà della loro presenza!)) Odiano la moglie, che identifica­ no come la causa del loro tormento, e vogliono vendicarsi. Abbiamo detto che, di solito, l'uomo che uccide i propri figli poi mette fine anche alla propria vita. Vediamo ora due casi, accaduti in paesi diversi, in cui l'assassino ha prova­ to a suicidarsi senza riuscirvi, e i processi hanno avuto esi­ ti opposti. La sera del 20 febbraio 2009, il trentanovenne cardiologo canadese Guy Turcotte legge la corrispondenza appassiona­ ta che la moglie, da cui si sta separando, scambia con il suo personal trainer. Guy decide di togliersi la vita con un col­ tello, ma poi ricorda il racconto di un amico, il quale gli ha spiegato che tentando con quel sistema vi sono molte pro­ babilità di sopravvivere. Cerca allora un altro modo per mo­ rire, e alla fine ingoia diversi bicchieri di un prodotto per la­ vare i vetri. Mentre aspetta che faccia effetto, gli vengono in mente i suoi due figli. «Devo portarli con me» pensa. Si alza dal letto e va in camera di Olivier, 5 anni, e lo accoltella. Poi fa lo stesso con la figlia Anne-Sophie, di soli 3 anni. In tut­ to, i colpi sono quarantasei. Infine aspetta la morte, che però non arriva. Arrestato e processato, viene giudicato incapace di intendere e di volere al momento dei delitti. Questa sen­ tenza ha scatenato una forte protesta in Canada, con mani­ festazioni e raccolte di firme in una dozzina di città. Per il secondo caso ci troviamo a Braintree, in Gran Bre­ tagna. La notte del 6 giugno 2011, il cinquantenne David Oakes costringe la sua ex compagna Christine Chamber, 38 anni, a tagliarsi i capelli e spogliarsi. Per tre ore la pic­ chia e la insulta; infine, le spara tre colpi di pistola. Subito dopo uccide Shania, la loro figlia di 2 anni. David, nei sei anni di relazione con Christine, l'ha sem­ pre maltrattata. I vicini lo hanno visto trascinarla per i ca-

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pelli fuori dalla loro abitazione, o cercare di investirla con l'auto. Hanno assistito a burrascosi litigi e al frequente ar­ rivo di agenti chiamati dalla donna. Christine, stanca del­ le violenze, ha denunciato il compagno, che il 21 aprile 2011 ha dovuto lasciare la casa, con la proibizione di avvi­ cinarsi alla Chamber o alla loro bambina. Due giorni prima dell'omicidio, Christine e David si incontrano in un centro commerciale di Braintree, la cittadina in cui vivono, per di­ scutere di alcune questioni che riguardano la figlia. «Non permetterò a nessuno di essere chiamato papà dalla mia Shania» minaccia lui. 11 6 giugno, in prossimità della data in cui entrambi do­ vrebbero comparire davanti al giudice per l'affidamento della bambina, David si presenta nell'abitazione della don­ na poco prima di mezzanotte. Dopo aver assunto cocaina e aver bevuto una considerevole quantità di alcol, apre la porta con le chiavi che non ha mai restituito a Christine ed entra portando una pistola, un trapano, una tanica di ben­ zina e un'ascia. Christine, Shania e la figlia avuta dalla don­ na in una precedente relazione sono sedute sul divano del salotto, davanti al televisore. Minacciandola con l'arma, David costringe Christine a tagliarsi i capelli, per tre ore la picchia chiedendole di rassicurarlo sul suo amore. La don­ na piange e lui le dice: «Voglio che tu soffra quanto me)). Le punta la pistola alla tempia e spara tre colpi, per poi uc­ cidere anche Shania. L'altra figlia di Christine fugge terro­ rizzata dalla finestra. David cerca di suicidarsi, con l'uni­ co risultato di ferirsi leggermente alla guancia sinistra. Al sopraggiungere degli agenti si barrica in casa e, solo dopo due ore di trattative, accetta di consegnarsi. Non mostra al­ cun pentimento per quello che ha fatto. Al processo affer­ ma che è stata Christine ad assassinare la piccola e che lui le ha sparato per punirla. David Oakes è stato condanna­ to all'ergastolo. La polizia doveva fare di più: questa è l'opinione del pre­ cedente compagno di Christine, della sua famiglia, della gente in generale. Tutti temevano che prima o poi sarebbe successo qualcosa di grave: i segnali erano evidenti. Trop-

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pe volte i vicini di casa avevano assistito a scene di violen­ za con David come protagonista. Nonostante gli allarmi continui, la recente denuncia e l'ordine restrittivo nei con­ fronti di David, l'uomo aveva continuato ad aggirarsi in­ tomo alla casa dell'ex compagna cercando di convincerla a tornare insieme. Alla fine, frustrato all'idea che la rela­ zione con Christine fosse davvero finita e che le sue visi­ te alla piccola Shania sarebbero state limitate, ossessionato dal pensiero che un altro uomo avrebbe potuto prendere il suo posto, ha deciso di uccidere entrambe. Casi come questo, nei quali è evidente il pericolo cui è esposta la donna, e malgrado la legge inglese disponga che un individuo segnalato due volte alle forze dell'ordi­ ne per il suo comportamento persecutorio possa essere in­ quisito penalmente, dimostrano che l'azione della polizia, spesso, non è sufficiente a impedire un finale drammatico. In Gran Bretagna i crimini violenti sono diminuiti drastica­ mente negli ultimi anni. Dai 1048 omicidi del 2002 si è pas­ sati ai 765 del 2005 e ai 619 del 2010. Il tasso di omicidi ogni 100.000 abitanti è 1,23, uno dei più bassi del mondo (negli Stati Uniti ammonta a 4,8). Eppure, la violenza domestica e i delitti che ne conseguono continuano a essere motivo di allarme sociale e l'età delle vittime si sta abbassando. Le statistiche del ministero dell'Interno britannico mostrano che quasi un milione di donne subisce violenza ogni anno, e che, ogni settimana, due donne vengono uccise da com­ pagni o ex compagni. Fra le diverse soluzioni proposte dal governo inglese c'è quella di stilare rapporti dettagliati di ogni omicidio che rientri in questa categoria, per cercare di capire cosa è mancato, perché non si è riusciti a impedire il delitto, e per fornire indicazioni utili a far meglio in futuro. I rapporti devono essere realizzati da forze dell'ordine, av­ vocati, psicologi, medici e servizi sociali. I risultati vengono resi pubblici, perché il problema della violenza domestica, che solo negli ultimi anni è stato preso in seria considera­ zione, sia conosciuto da tutta la popolazione.

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Nel quarto atto della Carmen di Bizet, Don ]osé si aggira nei paraggi della Plaza de Toros di Siviglia. È il giorno della corrida e il torero Escamilla sta per entrare nell'arena accla­ mato dalla folla. Finalmente Don ]osé vede Carmen e, tor­ mentato dalla gelosia, va a parlarle. La supplica di tornare con lui. La donna gli risponde che le sta chiedendo l'impos­ sibile. «Mi avevano avvertita che non eri lontano, che do­ vevi venire. Mi avevano anche detto di temere per la mia vita, ma io sono coraggiosa . . . » Don José la scongiura di ricordare il passato, di ricomin­ ciare insieme. Carmen è irremovibile, nonostante sappia che il momento è giunto e che lui la ucciderà. Gli doman­ da come possa continuare ad amare una donna che non gli appartiene più. Lui si stupisce: «Dunque non mi ami più?». «No, non ti arno più.» Don José torna a implorare, a promettere . . . ma è solo quando si sentono le incitazioni della folla, quando Carmen sorride pensando alla vittoria di Escamilla e si muove verso l'arena, che cambia atteggiamento. Non la lascerà passare. «lo lo arno!» dichiara Carmen. «E lo ripeterò anche da­ vanti alla morte.)) Con disprezzo, gli getta addosso l'anello che lui le ha regalato. Solo adesso Don ]osé estrae il coltel­ lo e la colpisce. Poi potrebbe fuggire o darsi la morte, ma, quasi con orgoglio, dichiara alla gente accorsa: «Sono io che l'ho uccisa! Ah! Carmen! Mia Carmen adorata!».

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Raramente l'uomo che assassina l'ex compagna per gelo­ sia subito dopo fugge. Di solito si consegna alle forze dell'or­ dine, oppure si suicida. Come Don José, compie il suo ulti­ mo atto di giorno, a volte in nn luogo pubblico, perché sia ben chiaro che è lui l'autore del delitto. In tal modo dimo­ stra a se stesso e agli altri che non stava scherzando quan­ do minacciava la donna, e che con quel gesto ha sempli­ cemente ripreso il controllo della sua vita riaffermando la propria autorità. Lo stereotipo degli uomini che assassinano la compa­ gna li descrive come alcolisti, tossicodipendenti, malati di mente, disoccupati o, semplicemente, come criminali. Stu­ di recenti hanno invece dimostrato che sono uomini nor­ mali, senza particolari problemi psicologici e senza prece­ denti criminali. Appartengono a tutti i ceti sociali, a tutte le aree geografiche, a tutte le età. In molti casi non hanno mai usato la violenza nei rapporti familiari, con gli amici o con i colleghi di lavoro. Circa un quarto di questi assassini fa uso di droghe, e più della metà ha ucciso dopo un consumo eccessivo di alcol. L'assnnzione di stupefacenti o bevande alcoliche non tra­ sforma gli uomini in mostri, ma li disinibisce al punto di li­ berare più rapidamente la loro aggressività: può quindi fa­ cilitare il passaggio all'atto, ma non ne è la causa. Nemmeno aver subìto abusi o aver assistito a episodi di violenza du­ rante l'infanzia è un fattore determinante per l'esplosione di un'aggressività fatale. La brutalità contro la compagna non è cieca, è un messaggio ben preciso, quello del controllo totale. L'uomo considera la donna un oggetto di proprietà cui non è consentito essere indipendente, autonoma, avere aspirazioni o desideri propri. ((Questo processo di ogget­ tificazione della donna è facilmente riscontrabile nei com­ portamenti di controllo ossessivo messi in atto dall'uomo e comprendenti atteggiamenti che impediscono alla part­ ner di dedicarsi ad attività extradomestiche, di uscire con gli amici, di lavorare, di spendere soldi autonomamente» commenta Ruben De Luca.

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La violenza fisica è il risultato di un accumulo di tensioni. Questi uomini vogliono dominare la propria famiglia: qualun­ que attentato al loro potere è fonte di insoddisfazione e rab­ bia, e diventa un pretesto per la brutalità. Spesso, chi maltrat­ ta la compagna nega il problema, lo rninimizza o si giustifica adducendo scuse diverse: problemi sul lavoro, fatica, stress. Alcuni incolpano le donne per aver scatenato in loro un com­ portamento aggressivo; le accusano di non essere delle brave mogli, di non aver svolto bene i lavori domestici, di essere malvestite, grasse, brutte, petulanti, gelose, esigenti ecc. Lo scopo è intimidire, impaurire o forzare l'altra a fare qualco­ sa contro la sua volontà. Ritengono che maltrattare le don­ ne sia solo un modo come un altro per raggiungere i propri obiettivi, e il risultato ottenuto, la gratificazione, li porta a rafforzare l'idea di aver fatto la cosa giusta, accrescendo ul­ teriormente la propria aggressività. Con la violenza, l'uomo libera la rabbia quando sente che la sua posizione di potere è in pericolo, inoltre mantiene il dominio sulla compagna o sulla situazione. Il movente di gran parte di questi omicidi, negli ultimi anni, è la decisione della donna di separarsi, di vivere con i propri mezzi, di amare un altro uomo. Questo mina il con­ trollo dell'uomo e lo spinge a reagire con brutale ed estre­ ma crudeltà. Lo psicobiologo Alberto Oliverio spiega che quando si è eccitati si produce più noradrenalina, sale la pressione arteriosa, le pupille si dilatano, i peli si rizzano, il cuore accelera i battiti. «Sono segni che il corpo è emoziona­ to, segni importanti, perché la persona se ne rende conto se sa leggersi dentro, se ha sviluppato la capacità di capi­ re i propri stati d'animo. In quel momento, se è dotata di un qualche autocontrollo, può cercare di tornare indietro, di calmarsi. Se è capace di superare quei primi secondi di eccitazione, in genere, non passa all'azione.» Abbiamo vi­ sto come sia proprio la mancanza di autocontrollo a porta­ re alcuni uomini ad aggredire la propria compagna, fino a strapparle la vita. Continua Oliverio: «La corteccia frontale, quella che ini­ bisce gli impulsi violenti, matura lentamente e termina il

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suo sviluppo tra i 18 e i 20 anni. Questo da una parte è un fattore positivo, perché vuol dire che prende forma dalla cultura, dalle informazioni che riceviamo, dalle esperien­ ze; dall'altra, ci indica che c'è una dissociazione tra emo­ zione e capacità di controllarla. Un libero arbitrio pieno lo si ha tardivamente. In molte persone, però, questa corteccia è meno efficiente, e quindi non sono state educate all'auto­ controllo. Nella nostra cultura si parla spesso di lasciare li­ bere le emozioni, ma questo non vuol dire che si possa dare sfogo a quelle primarie. Freud stesso diceva: "Se un bam­ bino avesse la forza di un adulto, ucciderebbe il padre"». C'è poi la questione del testosterone, che rende gli uomini più aggressivi delle donne . . . «Si possono fare proprio delle curve dose-risposta. Aumentando la dose di testosterone si incrementano i livelli di aggressività. Gli ormoni maschili rendono sicuramente l'uomo più aggressivo della donna, ma questa aggressività può essere potenziata dalla cultura.» Di solito, la violenza si insinua nel rapporto di coppia progressivamente. Le prime manifestazioni, spesso, non sono identificate come atti di prepotenza e brutalità. Chi li compie minimizza la gravità dei fatti, assicura la compagna che non dipendono dalla sua volontà ma da fattori esterni. Ma questi gesti si moltiplicano, fino a diventare abituali. La violenza s'intensifica e la donna perde la capacità di reagi­ re. Si instaura un circolo vizioso difficile da spezzare. Se lei ha già subìto vessazioni psicologiche sarà più portata a sop­ portare quelle fisiche. In un conflitto di questo tipo, è dif­ ficile far valere le proprie ragioni, cercare di mediare e di negoziare, perché l'uso della violenza da parte dell'uomo è un mezzo per imporre sistematicamente le proprie idee, negando la libertà dell'altra. È un abuso di potere. Il primo episodio di maltrattamento fisico viene spesso negato anche dalla vittima, che trova una scusa per com­ prenderlo o per rifiutare di capire quanto realmente sta ac­ cadendo. Il primo colpo, invece, dimostra che l'uomo può dominare la donna con la forza. La mancanza di reazione o una reazione minima lo rassicurano sul fatto che la violen-

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za è possibile. La prima aggressione fisica è l'inizio di una spirale, ed è allora che la donna dovrebbe prendere la de­ cisione di andarsene. Invece, nella maggior parte dei casi, rimane, aspetta, spera. Dopo averla colpita, l'uomo sembra rendersi conto della gravità del suo atto e chiede perdono. Alcuni piangono, giurando che non accadrà più. Qualcuno rimane prostrato a lungo, portando la donna quasi a cre­ dere che la vera vittima sia lui, che vuole mantenere la re­ lazione, dimostrare che si è trattato di un incidente. Il pe­ riodo successivo è idilliaco e di solito viene definito, come si è già detto, «luna di miele». Eppure, l'uomo non è cambiato, e la donna percepisce che ciò che è successo può ripetersi, così starà attenta a non scatenare di nuovo il rimprovero e la rabbia del compagno. Ciononostante i maltrattamenti ricominciano. E se lei si abitua a un certo grado di violen­ za, l'uomo si sentirà in diritto di aumentarne l'intensità per raggiungere i propri scopi. La violenza maschile ha come obiettivo quello di far ce­ dere la donna, mostrarle chi è il più forte, farla tacere o rom­ pere il silenzio. ((È vero che l'ho minacciata di morte ma era un modo per stabilire un dialogo con lei, le parole non han­ no importanza» afferma Corrado. Ma il dialogo è spesso solo un monologo e l'amore dichiarato solo il desiderio di possesso. A volte può diventare ossessivo fino a ridurre la propria comp agna a un oggetto da manipolare a proprio piacimento. E noto il caso di Marco Mariolini, detto il ((col­ lezionista di anoressiche», che sta scontando una condanna a trent'anni per l'omicidio di Monica Calò. Monica, costret­ ta a lungo a rinunciare al cibo per assomigliare al model­ lo di donna che Marco desiderava, si era ribellata e aveva colpito il fidanzato nel sonno con un martello. Dopo aver­ lo ferito, se n'era andata, resistendo ai tentativi dell'uomo di riprendere la relazione. Il 14 luglio 1998, a Verbania, lui l'ha uccisa con ventidue coltellate. Anche il cinquantenne Nicola Sorgato voleva che la sua compagna, Tiziana Falbo, 37 anni, fosse magra e bella. Le sceglieva gli abiti, le sottraeva il cibo a tavola. Da qualche anno la coppia viveva in un condominio di Montalto Uffugo

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(Cosenza). L'uomo era stato da poco licenziato a causa del­ le numerose assenze e passava la maggior parte delle gior­ nate a casa. Sosteneva di non poter lavorare a causa delle ferire riportate in tm incidente stradale. Tiziana era diven­ tata il capro espiatorio, l'oggetto su cui riversare ossessioni e manie. Lei desiderava rm bambino, ma Marco si oppo­ neva perché aveva già una figlia. La manipolava, la isola­ va. La donna era dimagrita e aveva cominciato a soffrire d'insonnia, e alla fine lo aveva lasciato, per poi tornare di nuovo con lui. Domenica 14 novembre 2010, mentre stanno riordinan­ do l'appartamento, lui dice di sentirsi stanco e si siede da­ vanti al televisore per vedere la partenza del Gran Premio di Formula l . Secondo la versione dell'uomo, lei pronun­ cia frasi derisorie che lo fanno infuriare. È allora che tenta di strangolarla e poi la ferisce alla gola con un cacciavite. Tiziana muore soffocata dal suo stesso sangue. Nicola fugge in auto e, per un'infrazione al codice della strada, viene fermato da una pattuglia della polizia a Bologna. Lo stato confusionale che manifesta insospettisce gli agenti, che lo inducono a confessare. Inizialmente afferma di aver ucciso la compagna con un cacciavite durante un litigio, poi cambia versione e dichiara di aver tentato di strangolarla e di avere subito dopo cercato di rianimarla con la respira­ zione artificiale, aprendole la bocca con tm cacciavite che le ha procurato un'emorragia interna. Sorgato è stato condan­ nato a sedici anni di reclusione con il rito abbreviato. «Se la donna è abituata a subire violenze nelle relazioni con gli uomini, è molto probabile che abbia imparato a svilup­ pare una soglia di sopportazione elevata che la porta a non riconoscere o a sottostimare l'effettivo rischio di rimanere uccisa dal partner. Spesso, la predisposizione a lasciarsi vit­ timizzare dal compagno è stata appresa all'interno della fa­ miglia d'origine e il primo modello maschile violento di ri­ ferimento può essere stato proprio il padre» scrive Ruben De Luca in Donne assassinate. In genere, la moglie trova il coraggio di andarsene solo quando l'uomo aggredisce anche i figli, che allora diven-

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tano essi stessi un'arma. «Te ne vai? Non avrai i bambini!» Fino all'ultimo, lei spera che la minaccia di !asciarlo pos­ sa cambiare qualcosa ma, se la situazione rimane immuta­ ta, si rivolge alla polizia, alla famiglia o agli amici. Spesso chiede aiuto alle varie associazioni di supporto per le vit­ time di violenza e ospitalità nelle case-rifugio. Non tutte, però, possono permettersi di andare via. Molte dipendono materialmente, socialmente o psicologicamente dal marito, e l'idea di !asciarlo sembra loro impossibile. Per­ dere tutto per il rischio incerto di una seconda aggressione (la casa, a volte anche i figli, il lavoro, gli amici, i propri so­ gni), o dare ancora credito al compagno: ecco il difficile di­ lemma. Quali sono le donne che possono prendere la deci­ sione in poco tempo, a volte in un solo giorno, prima della prossima violenza? Inoltre, per alcune donne il primo epi­ sodio di violenza fisica si verifica nel periodo della gravi­ danza, quando fuggire è ancora più difficile. È complicato tracciare nn identikit di questi assassini, per­ ché hanno caratteristiche molto diverse tra loro. Solo nna minima parte è affetta da disturbi sociopatici. Nel celebre Manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali dell'American Psychiatric Association, la sociopatia è definita come nn di­ sturbo della personalità caratterizzato da nn'accentuata anaf­ fettività, impulsività e irritabilità, dall'incuranza o addirit­ tura dal disprezzo delle necessità altrui, dalla mancanza di rimorso. Il sociopatico apparentemente ha buoni rapporti sociali, è considerato nn uomo carismatico, di successo, af­ fascinante, disponibile, ma è solo nna maschera. È un attore abilissimo, nn manipolatore con un'alta opinione di sé, e la menzogna è la sua arma strategica. Può ingannare facilmen­ te nna donna perché sa come corteggiarla, come spacciar­ si per un innamorato romantico e generoso. Eppure, presto rivelerà il suo vero volto, con comportamenti umorali, rapi­ di passaggi da dimostrazioni di amore a esplosioni di odio. Nel rapporto di coppia non ama, ma considera la compagna nn oggetto da possedere, e la sua perdita può farlo reagire con estrema violenza.

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I narcisisti, al contrario, provano emozioni. A loro man­ ca l'empatia, la capacità di mettersi nei panni dell'altro, di comprendere i suoi sentimenti, i suoi desideri. Il narcisi­ sta ha un'immagine distorta di sé. È incapace di ammet­ tere i propri problemi e non riesce neppure a capire in che modo gli altri lo vedano. Non consente alcun tipo di criti­ ca considerando giusto il proprio comportamento. È me­ galomane, più di ogni altra cosa desidera essere ammira­ to e trovarsi al centro dell'attenzione. Non chiede amore: vuole una donna che si prenda cura di lui e non lo afflig­ ga con le sue lamentele o le sue frustrazioni. Fra i narcisi­ sti c'è l'uomo aggressivo, che è insensibile al dolore degli altri, diffida delle emozioni altrui, mente con estrema fa­ cilità. Impulsivo, vive concentrato sul presente, sulla sod­ disfazione immediata dei suoi desideri. Cerca di ottenere quello che vuole con qualsiasi mezzo, ma preferibilmen­ te con la violenza. È prigioniero di un'immagine di sé che lo rende impotente e lo paralizza, ha quindi bisogno di es­ sere continuamente rassicurato. È estremamente suscetti­ bile e reagisce alle provocazioni con esplosioni di collera sproporzionate. Poi ci sono i pervertiti, che non agiscono impulsivamen­ te ma godono dei propri atti di violenza. Manipolatori, ego­ centrici, giocano deliberatamente con le emozioni della compagna per sottometterla. Ogni mancanza da parte sua diventa un pretesto per accusarla di malvagità, di disinte­ resse. La loro violenza è insidiosa, nascosta, continua, co­ stituita da attacchi verbali, sarcasmo, critiche, insulti. Se la donna si lamenta di questo comportamento, rispondono: «Non so di che cosa stai parlando!». La sofferenza per la perdita dell'oggetto è presente in più di tre quarti degli omicidi commessi dagli uomini nell'am­ bito di rapporti connotati da una forte dipendenza psichi­ ca. Spesso la gelosia è solo la giustificazione razionale che si danno, in realtà, insieme alla donna, credono di aver perso tutto. Hanno tanto timore di essere abbandonati che inter­ pretano ogni suo gesto, parola, atteggiamento come un se­ gnale in questo senso. Quando l'oggetto d'amore idealizza-

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to è percepito come un'appendice, qualcosa che non ha vita propria né autonomia, la prospettiva di una rottura dà un senso di annientamento, di perdita di una parte di sé oltre che della compagna. Incapaci di accettare la separazione, alcrmi non riescono a vedere altra via d'uscita che l'omici­ dio: «Se te ne vai, ti uccido». Ritengono di avere ragione: «Ho fatto solo quello che moltissimi altri avrebbero fatto». Una parte di questi uomini ha subìto abusi o ha assisti­ to a episodi di violenza in famiglia; alcuni non hanno ri­ cevuto dai genitori gli strumenti per controllare la propria aggressività; altri hanno appreso a comportarsi in modo brutale dai compagni. Ma per comprendere l'assassinio non ci si può riferire solo alla loro infanzia, anche se nelle disgrazie, negli abusi, nella sofferenza per un abbandono vissuti nei primi anni di vita si possono trovare i semi del­ la violenza che esprimeranno da adulti. Alcrmi sono sem­ plicemente persone molto rigide, amanti della perfezione e dell'ordine, desiderose di controllare ogni situazione: non lasciano niente al caso né all'impulso e, quando qualcosa non va come hanno previsto, lo considerano un problema da risolvere. Dotati di una personalità con tratti ossessivi, devono sottomettere la compagna per mantenere uno sta­ to di tranquillità. Sono inflessibili, pretendono che le loro regole siano rispettate. Sono uomini con cui è difficile vi­ vere: esigenti, tirannici, egoisti, avari. Ho chiesto a Ruben De Luca se è possibile tracciare nn profilo generale dell'uomo che compie questo tipo di delit­ ti. «Indubbiamente, è un manipolatore, un soggetto con ca­ ratteristiche psicopatiche che riesce a recitare un ruolo, so­ prattutto all'inizio del rapporto, in cui mostra solo i suoi lati positivi (se ci sono, oppure li fabbrica di sana pianta). Non ha adeguate capacità di elaborazione dei traumi e del lutto, ogni perdita rischia di essere vissuta come un evento dram­ matico e irreversibile. Sente che il mondo gli crolla addosso, che non ha più speranza ed è incline al "passaggio all'atto" aggressivo in una situazione in cui si percepisce "senza via di scampo". Se poi ha anche a disposizione nn'arma, perché magari fa parte della sua attrezzatura professionale (guar-

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dia giurata, ex militare ecc.), la reazione violenta è senz'al­ tro più probabile. La presenza di un'arma è un fattore fa­ cilitante riconosciuto nella criminologia: se ho una pistola nel cassetto e sono molto arrabbiato, posso essere tentato di usarla per risolvere un conflitto. «La donna che rimane all'interno di una relazione malata spesso ha problemi di dipendenza affettiva. All'inizio della frequentazione vede il compagno come una sorta di "prin­ cipe azzurro", immagine che non corrisponde alla realtà, ma che rappresenta una proiezione dei suoi bisogni emotivi. Man mano che si accumulano i segnali distonici rispetto all'im­ magine originaria, la donna tende a giustificare il compor­ tamento aggressivo del compagno, addossandosi colpe che non ha e scusandolo in ogni modo (''Non lo farà più", "È un momento difficile", "Voglio dargli ancora una possibilità"). Una donna di questo genere è affetta dalla "sindrome della crocerossina": vuole sempre "salvare" il maschio in difficoltà, ma finisce inevitabilmente per essere risucchiata in un vor­ tice di distruttività. Si tratta di profili generici che non val­ gono in tutti i casi, infatti anche uomini estremamente miti, che non hanno mai mostrato segni di aggressività nella loro vita, possono perdere la testa se una relazione va in pezzi.» Recenti studi americani e inglesi affermano che, nel S0-75 per cento dei casi, l'omicidio della compagna è preceduto da un incremento della violenza maschile in casa e da fre­ quenti minacce di morte. Moltissimi assassini, però, non sono violenti né hanno mai picchiato la loro futura vitti­ ma, ma uccidono perché non vogliono perdere il controllo su di lei. Questi crimini sono una manifestazione estrema dei tentativi che l'uomo fa per affermare che la compagna gli appartiene. È quindi evidente, come ho già detto, che le donne corrono i maggiori rischi nelle prime settimane che seguono la separazione. Il 21 ottobre 2011, a Vasto (Foggia), il finanziere Nicola Desiati, 47 anni, uccide la moglie Mirella La Palombara, 43, e poi si toglie la vita. Nicola, un appuntato scelto in servizio a Torre Fantina, parte la mattina del venerdì per trascorre-

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re il fine settimana con la moglie. Nel pomeriggio i vicini di casa sentono una discussione animata fra i due che dura più di un'ora, poi dei colpi, a cui nessuno attribuisce un si­ gnificato drammatico. I colpi, esplosi da Nicola con la pi­ stola d'ordinanza, sono stati quattordici: tredici per Mirella e uno per sé, dritto al cuore. L'allarme scatta il giorno seguente, quando la madre di Mirella, non essendo riuscita a contattarla, si fa accompa­ gnare da un parente a casa della coppia. Dopo aver suonato senza ottenere risposta, chiama i vigili del fuoco e la polizia perché sfondino la porta. Gli agenti trovano Nicola su una poltrona del salotto, mentre Mirella è sul pavimento della sala da pranzo. Dall'esame della scena del crimine ipotizza­ no un litigio familiare, poi degenerato. Secondo conoscenti e amici, si trattava di una coppia tranquilla, sposata da sei anni e senza figli. Le loro dichiarazioni ai giornalisti dimo­ strano ancora una volta come le persone vengano giudica­ te con superficialità. Gli intervistati spiegano sconvolti che non può essere stata una banale lite a spingere Desiati a uc­ cidere: devono esserci per forza dei motivi che non si co­ noscono, perché lui «era mite e riservato», «era serio e di­ screto)), «era sempre puntuale nei pagamenti)), «era di una precisione rassicurante)), «amava intarsiare il legno, aveva le mani d'oro)). Eppure, con quelle mani d'oro ha impugna­ to la pistola e ha sparato alla moglie. Gli uomini che uccidono la propria compagna, ma non soffrono di patologie, hanno dei tratti in comune. L'imma­ turità affettiva, innanzitutto, che si traduce in un'incapa­ cità di stabilire una relazione di fiducia reciproca fondata sulla parola e sull 'ascolto, sul rispetto dell'altra. Sono in­ dividui impulsivi che reagiscono in modo incontrollabile. Spesso non comunicano, preferiscono il silenzio al confron­ to verbale; sono fragili, timidi con dei tratti fobici e osses­ sivi. L'unione sentimentale è al centro della loro vita e non riescono a concepire l'idea di una separazione. Uomini pos­ sessivi, sordi a ogni spiegazione. L'immaturità affettiva può anche essere impregnata di egocentrismo: allora l'uomo è ansioso, scarsamente interessato agli altri. La sofferenza lo

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può distruggere, perché non concepisce l'idea di perdere qualcosa che gli appartiene. Per spiegare la violenza maschile nella coppia, si par­ la spesso di ragioni ormonali, biologiche, fisiche. O di am­ bienti sociali degradati, disoccupazione, scioperi. In realtà, essa tocca trasversalmente tutti i ceti e le categorie, i ricchi e i poveri, i giovani e gli anziani, i deboli e i forti. Non esi­ ste alcun determinismo riguardo all'aggressività maschile: ogni uomo ha la possibilità di resistere ai propri impulsi di­ struttivi. Ci sono, però, dei terreni favorevoli all'esplosione della violenza, momenti critici come la gravidanza della compagna o l'abbandono, problemi economici, tradimenti. Gli autori di maltrattamenti possono imparare il compor­ tamento manipolativo durante l'infanzia da fonti diverse: famiglia, amici, messaggi culturali. In età adulta questo re­ taggio è talmente radicato in loro che lo mettono in atto in modo quasi automatico. Lo psicologo americano David Adams, condirettore di Emerge, il primo programma di counseling per uomini che maltrattano le donne nato nel 1977, scrive nel libro Why Do They Kill? che molti degli assassini da lui seguiti gli hanno raccontato episodi di violenza avvenuti in casa durante la loro infanzia. Dalle analisi effettuate, Adams ritiene di po­ ter affermare che questi uomini hanno appreso a compor­ tarsi in modo aggressivo dal padre molto più che dalla ma­ dre, e che poi, in età adulta, hanno provato senza successo a non emulare il genitore. Secondo lo psicologo, anche quan­ do riconoscono i propri problemi, difficilmente queste per­ sone riescono a cambiare da sole. I programmi terapeuti­ ci per i killer coniugali di solito portano a risultati positivi, ma molto spesso vengono abbandonati prima del tempo. Diversi assassini affermano che, se avessero cercato aiu­ to nel momento in cui la violenza dei loro atti aumentava, probabilmente non avrebbero ucciso. Parlando con alcuni di loro dei sentimenti provati verso i genitori, Adams rile­ va la coesistenza di paura e amore, o paura e rispetto. Non colpevolizzano il comportamento violento dei padri, anzi, lo imitano per vincere la paura.

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Quando chiedono scusa, molti aggressori sono davvero dispiaciuti, ma il più delle volte lo sono per se stessi, per es­ sersi comportati in modo disdicevole, per aver ceduto alla rabbia, per aver dato una pessima immagine di sé, magari davanti ai figli o agli amici. Per loro, ogni litigio è una guer­ ra da cui devono uscire vincitori. Nel conflitto non cercano di comprendere le ragioni della partner, non vogliono ne­ goziare, trovare dei compromessi. Vince chi grida di più, chi insulta di più, chi minaccia di più. Ci sono uomini che discutono con veemenza, che hanno difficoltà ad ammet­ tere di non avere ragione, ma che alla fine cedono di fron­ te alla verità dei fatti. Nella maggioranza dei casi, invece, distorcono le affermazioni della donna, la deridono, usa­ no il sarcasmo, gli insulti, le accuse, la interrompono quan­ do parla, non la ascoltano, rifiutano di rispondere alle sue domande, ridono delle sue opinioni, cambiano argomen­ to, gridano, bestemmiano. Alcuni decidono per la coppia regole che poi non rispet­ tano. Proibiscono alla compagna di frequentare altri uomini, ma loro si consentono relazioni extraconiugali. «Gli uomini hanno i loro bisogni. . . >>, se però lei guarda un altro, è una puttana. Gridano durante un litigio, ma se lei alza la voce, è «isterica». Puniscono i figli, ma se lei li rimprovera, non è una buona madre. C'è chi beve o fa uso di droghe, abitudi­ ni che possono provocare o intensificare gli atti di violenza, ma gran parte di loro non ha vere e proprie dipendenze di questo tipo e maltratta ugualmente la propria compagna. Gelosissimi e traditori, controllano ma non permettono di essere controllati. Vogliono possedere, ma non essere pos­ seduti. E, se anche cambiano donna, il loro comportamen­ to rimane identico. Sanno corteggiare, sedurre, farsi amare. Si dimostrano affidabili, miti, seri. Evitano, però, di parlare del loro passato. Se l'ultima donna, colei che verrà uccisa, conoscesse i loro trascorsi, forse potrebbe salvarsi. Un omicidio avvenuto in Gran Bretagna ha portato il go­ verno, nel marzo 2012, a prendere provvedimenti nei casi di recidiva. Si tratta della Clare's Law, che il primo ministro David Cameron ha voluto applicare in alcune città a titolo

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sperimentale. La legge permette alle donne che incontra­ no i propri partner in rete di essere informate dalle forze dell'ordine se questi hanno precedenti di violenza dome­ stica. Clare Brown aveva 36 anni e una figlia piccola quan­ do l'ex compagno, George Appleton, l'ha strangolata e poi le ha dato fuoco. Sei giorni dopo si è impiccato. Clare ave­ va interpellato tre volte le forze dell'ordine lamentandosi del comportamento di George, che l'aveva ripetutamente picchiata, minacciata e violentata. L'uomo, pur avendo ri­ cevuto un ordine di interdizione al domicilio dell'ex com­ pagna, aveva sempre cercato di contattarla e alla fine è en­ trato in casa e l'ha uccisa. Clare aveva conosciuto George in un social network nell'aprile 2008. Qualche mese dopo era cominciata la loro relazione: lei non sapeva che nel 2002 l'uomo era stato tre anni in carcere per aver perseguitato e molestato un'altra donna. Il padre di Clare ha condotto una lunga campagna per ottenere un cambiamento nella legge sulla privacy. «Se mia figlia avesse potuto conoscere il passato di George, l'avrebbe lasciato e sarebbe ancora viva!)) Secondo il pre­ mier Cameron, la nuova legge «potrà aiutare le vittime o le potenziali vittime di violenze domestiche, che avranno la possibilità di essere informate sull'eventuale passato di violenza del loro compagno)).

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A proposito degli uomini che uccidono le donne, c'è un altro fenomeno di cui si parla molto negli ultimi tempi. Sono gli apparenti casi di scomparsa. Una donna lascia la sua casa, a volte anche i figli, in momenti impensabili: di notte, du­ rante una gita, mentre si dirige verso il posto di lavoro. Se ne va a piedi, dimenticando denaro e documenti, cellulari e chiavi. Il marito lancia l'allarme, le forze dell'ordine co­ minciano le ricerche, che si rivelano infruttuose per molto tempo, almeno fino a che, di solito casualmente, il suo cor­ po viene ritrovato. Solo allora ci si rende conto che non si trattava di allontanamento volontario, né di suicidio o ra­ pimento, ma di omicidio. Non sono delitti dovuti alla gelosia, alla rabbia dopo un abbandono, alla furia di un litigio. Chi li commette non beve e non assume droghe, non ha precedenti penali, non ha mai alzato le mani sulla compagna. Questi assassini sono uomi­ ni ben inseriti nella società, stimati e apprezzati sul lavo­ ro, amati dai familiari e dalla stessa moglie. Sono però dei bravi manipolatori, bugiardi, seduttori, e spesso conduco­ no una doppia vita con la certezza di non poter essere sco­ perti . La loro vittima viene percepita come un ostacolo alla vita che intendono fare o ai progetti che perseguono. Quan­ do sentono che non c'è via di fuga da un legame che li op­ prime, passano all'azione. E in quel momento la loro com­ pagna perde ogni connotato umano, diventando solo un oggetto da eliminare, cancellare.

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I killer manifestano quasi sempre un forte autocontrollo durante e dopo l'uxoricidio. Anche se partecipano alle ri­ cerche della moglie o della compagna scomparsa, non mo­ strano segni di sofferenza. Tentano di sviare le indagini in­ dicando piste alternative che possano allontanare i sospetti da loro. «È stata rapita . . . forse si è suicidata . . . ultimamente non era più la stessa . . . soffriva di depressione . . . se n'è andata con un altro.» Dato che inizialmente non si pensa a un omicidio, l'uomo ha ogni possibilità di depistare gli investigatori con i rac­ conti che ha preparato accuratamente e, se si accorge di non aver cancellato tutte le tracce dalla scena del crimine, ha ancora il tempo di farlo. È intelligente, anche furbo, ma si sopravvaluta quando pensa di essere più brillante dei detective e di riuscire a farla franca. Di solito architetta ac­ curatamente l'omicidio, creandosi un alibi, effettuando ri­ cerche in rete per ottenere le informazioni che gli servono. Per quanto riguarda il cadavere, segue due strategie: o lo smembra per poi eliminarlo completamente o lo nascon­ de dove sarà quasi impossibile trovarlo. Nonostante gli in­ vestigatori usino tutti gli strumenti e le tecnologie oggi di­ sponibili, infatti, spesso le loro ricerche sono infruttuose, e in molti casi i ritrovamenti avvengono grazie alle segnala­ zioni di privati cittadini che si imbattono nel corpo per caso. Lucia Manca, 52 anni, scompare dalla sua casa di Marcon (Venezia) la mattina del 6 luglio 2011 . li marito, Renzo Dekleva, informatore farmaceutico di 53 anni, racconta che il giorno prima è andato a prenderla nella filiale di un istituto ban­ cario a Preganziol (Treviso), dove la donna lavorava da una settimana, e di essere tornato a casa insieme a lei. La mattina successiva, Lucia esce alle sette per prendere l'autobus. Ha con sé la borsa con i documenti, le carte di credito e il cellu­ lare, ma nessuno la vede. Alle dieci, il suo datore di lavoro telefona a Renzo e gli comunica che la moglie non si è pre­ sentata in banca. Già alle sette della sera precedente il cellu­ lare di Lucia era spento. La donna non aveva risposto nep­ pure al telefono di casa, alla chiamata della sorella da Milano.

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Durante gli interrogatori, Renzo cade più volte in con­ traddizione, alimentando i sospetti degli investigatori. Da una perquisizione della casa e del suo computer, scoprono che l'uomo afferma di essere laureato, mentre non ha por­ tato a termine gli studi universitari. Emerge che, nei giorni precedenti la scomparsa di Lucia, i litigi nella coppia era­ no frequenti perché lei era venuta a sapere che il marito la tradiva e voleva separarsi. Dal mese di gennaio, infatti, Renzo aveva una relazione con una donna di Treviso. Sul suo computer, Lucia aveva trovato una serie di foto che lo ritraevano sorridente insieme a un'altra. «È solo una colle­ ga» l'aveva rassicurata lui. Lei, però, non si era convinta. L'Il giugno Renzo le aveva annunciato di voler trascorre­ re qualche giorno nella sua casa di Folgaria da solo, e Lucia aveva fatto una scenata. In seguito lo aveva chiamato, mi­ nacciando di raccontare tutto ai suoceri. Al termine della telefonata, lui aveva chiuso male il cellulare, permettendo­ le di ascoltare la sua successiva conversazione con l'amante che si trovava nella villetta. Da parte sua, l'amante credeva alle rassicurazioni di Renzo, che affermava di essersi sepa­ rato da Lucia. «Lei adesso abita a Milano, ogni tanto viene a casa, ma ci comportiamo come fratello e sorella» le aveva detto. Per convincerla, le aveva mostrato due falsi messaggi che la moglie gli avrebbe inviato, nei quali lei si dichiarava contenta di sapere che Renzo aveva trovato un altro amore dopo la loro separazione. In realtà, scoperto il tradimento, Lucia lo aveva minacciato di mandarlo via di casa se non avesse lasciato l'amante. Lui si era infuriato e le aveva di­ strutto il cellulare. In un'altra occasione si era tolto la fede e l'aveva lanciata contro la moglie, per poi frantumare con un piede l'orologio che lei gli aveva regalato. 11 6 ottobre, sotto un ponte a Cogollo del Cengio, nel Vi­ centino, alcuni operai del comune che stanno effettuando un intervento di pulizia in previsione di una corsa podistica ritrovano un cadavere. È il corpo di una donna, con indos­ so solo una maglietta e gli slip, ma è in uno stato di decom­ posizione talmente avanzato che risulta difficile identificar­ lo. Dopo alcune settimane, a seguito della comparazione

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del DNA estratto da un campione delle ossa e da un lembo di pelle con quello rimasto sullo spazzolino da denti usato da Lucia, si scopre che quelli sono proprio i suoi resti. Se­ condo il medico legale, sarebbe morta per soffocamento in un luogo diverso da quello del ritrovamento, dove è rima­ sta esposta agli agenti atmosferici per tre mesi. Accanto al corpo, gli investigatori rinvengono uno scontrino dell'auto­ strada A31, probabilmente appartenente a chi ha nascosto il corpo sotto un mucchio di foglie, vicino a un cassonetto dei rifiuti. Renzo Dekleva percorre spesso quell'autostra­ da per andare nella villetta di Folgaria. Sono molte le incongruenze nel racconto di Renzo, che ammette di essere stato con una donna la sera del 6 luglio e di essere tornato a casa dopo mezzanotte, trovando la mo­ glie addormentata. Ai carabinieri, la sua amante dichiara di averlo effettivamente incontrato a Treviso la notte preceden­ te la sparizione di Lucia. «È arrivato trafelato e in ritardo» ha riferito. Inoltre, Dekleva ha descritto com'era vestita la moglie la mattina della scomparsa, il classico abbigliamen­ to da ufficio, mentre al momento in cui viene rinvenuto il cadavere, come abbiamo visto, si scopre che aveva addos­ so solo una lunga T-shirt e gli slip. !1 31 gennaio 2012 Dekleva viene arrestato con l'accusa di omicidio volontario aggravato dal vincolo di parente­ la e di soppressione di cadavere. Secondo la ricostruzione effettuata dalla procura, Lucia sarebbe stata uccisa merco­ ledì 6 luglio tra le 17.30, l'orario di rientro dal lavoro, e le 21.30, ora in cui la sorella le telefona senza ottenere rispo­ sta. Alle 22.10 Renzo incontra l'amante nel centro di Treviso: è in ritardo di quaranta minuti sull'orario del loro appun­ tamento. I due si lasciano a mezzanotte. All'1 .55 il cellula­ re di Renzo aggancia una cella di Rubano (Padova): forse sta andando a nascondere il cadavere. Lascia l'autostrada a Piovene Rocchette (Vicenza) e abbandona il corpo sotto il ponte di Sant'Agata a Cogollo. Alle 5.14 il cellulare aggan­ cia la cella di via Alta a Marcon, proprio la strada che per­ corre chi torna da Treviso. Dekleva ha dichiarato di aver dormito a casa accanto alla moglie. Secondo l'accusa, l' as-

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sassino avrebbe ucciso Lucia durante un litigio, al culmine di una situazione molto tesa, in cui la donna faceva i pri­ mi passi verso la separazione e lui temeva di perdere gran parte del suo patrimonio. Una volta, queste donne-vittime erano costrette a sop­ portare perché, non essendo indipendenti, non avevano alternative. Se il marito le tradiva, potevano solo piange­ re. Oggi, una moglie che scopre di non essere più amata o che il suo compagno sta conducendo una doppia vita, se ne può andare liberamente. Ma alcune non vogliono far­ lo. Troppo innamorate o ancora fiduciose nel cambiamen­ to del marito, gli danno un'altra possibilità, senza conside­ rare che la rinuncia, per l'uomo che sta vivendo la nascita di un nuovo amore, è quasi impossibile. Laci Rocha aspetta un bambino da otto mesi quando scompare, il 24 dicembre 2002. Ha 27 anni ed è sposata con Scott Peterson, 30 anni, un rappresentante di fertilizzanti agricoli. Abitano in una casa di loro proprietà a Modesto, in California. Il lavoro porta spesso Scott fuori città, men­ tre lei insegna temporaneamente in una scuola, aspettan­ do il momento di avere un figlio. Quando rimane incinta, lei è euforica, Scott molto meno. Il 23 dicembre, nel pome­ riggio, Laci accompagna il marito nel negozio di parruc­ chiere della sorella, perché gli tagli i capelli come d' abitu­ dine. Tornando a casa, comprano una pizza. La sera, Laci parla al telefono con la madre Sharon per definire gli ultimi dettagli del cenone natalizio, che si svolgerà la sera succes­ siva. Il giorno dopo, secondo il racconto di Scott, Laci si sve­ glia e fa colazione, poi annuncia che porterà fuori il cane e passerà al supermercato. Lui decide di andare a pesca nel­ la baia di San Francisco, a 120 chilometri da Modesto, con una barca che ha appena acquistato. Più tardi, una vicina vede il golden retriever dei Peterson vagabondare nel quartiere con il guinzaglio infangato. Lo riporta a casa e nota l'auto di Laci nel viale, ma ha fretta e non si ferma. Scott arriva a casa dopo le 16 e, non trovan­ do la moglie, pensa che sia andata dalla madre. Si cambia,

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mangia una pizza, riordina la cucina e fa una doccia. Solo alle 5.20 telefona alla suocera per chiederle notizie di Laci. La donna si preoccupa e decide di avvertire la polizia. Le ricerche iniziano alle sei di sera e proseguono fino a tardi, con un elicottero che sorvola la zona. Il detective incarica­ to del caso, Al Bronchini, considera sospetto l' atteggiamen­ to di Scott Peterson, che risponde con arroganza alle sue domande e non sembra preoccupato per la sorte della mo­ glie. È poco collaborativo anche nelle ricerche. Inoltre, no­ nostante il ginecologo abbia proibito a Laci di fare sforzi in casa, quella mattina qualcuno ha lavato il pavimento del salotto. Scott afferma che è stata la moglie, e ipotizza che qualcuno l'abbia rapita mentre portava il cane a passeggio. Il 27 dicembre la notizia della scomparsa di Laci è su tut­ ti i giornali, e le camionette bianche delle emittenti televi­ sive si appostano intorno alla villetta. Il circo mediatico ha inizio. Nonostante i giornalisti descrivano Scott Peterson come un uomo freddo, che non manifesta segni di soffe­ renza per la perdita della moglie, amici e conoscenti par­ lano bene di lui: lo definiscono un bravo ragazzo, socievo­ le e generoso. La famiglia della donna è convinta della sua innocenza, almeno fino a che la stampa non pubblica una fotografia di Scott insieme a un'altra. È Amber Frey, una ragazza madre che lavora come estetista, ignara che colui che considera il suo fidanzato sia sposato e in attesa di un figlio. Gli investigatori scoprono che i due si frequentava­ no da un mese, e che erano insieme quando Laci pensava che il marito si trovasse in viaggio per lavoro. Solo il 29 dicembre Amber apprende dalla televisione che Scott ha una moglie, e che la donna è scomparsa. Decide di andare alla polizia per raccontare tutto e il detective Al Bronchini le chiede il permesso di registrare le sue telefo­ nate con Scott. All'inizio di gennaio vengono pubblicate le fotografie della barca con cui è andato a pesca, e alcuni te­ stimoni affermano di avere visto l'imbarcazione nella not­ te tra il 23 e il 24 dicembre vicino alla marina di Berkeley. 11 13 aprile, una coppia che passeggia sulla spiaggia nella baia di San Francisco si imbatte in ciò che rimane del bim-

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bo che Laci portava in grembo. Il giorno seguente, poco lontano, viene scoperto il corpo senza testa né mani di una giovane donna. Le costole sono fratturate, sui fianchi c'è del nastro adesivo. I luoghi dei ritrovamenti sono a soli 8 chilo­ metri dalla marina di Berkeley, dove Scott ha riferito di es­ sere andato a pescare la vigilia di Natale. Le analisi del DNA stabiliscono che i resti appartengono alla Rocha e a suo fi­ glio. Impossibile individuare la causa della morte della don­ na, poiché il corpo è in avanzato stato di decomposizione. Scott Peterson viene arrestato il 18 aprile in un campo da golf di San Diego. Nell'auto che ha preso a noleggio, la po­ lizia trova quattro cellulari, 15.000 dollari, una pistola, un equipaggiamento da camping completo, oltre a dodici pil­ lole di Viagra e alla patente di suo fratello. Poiché si è an­ che fatto tingere i capelli di biondo, gli agenti sospettano che abbia intenzione di lasciare gli Stati Uniti, forse per ri­ fugiarsi in Messico. Il processo inizia il l o giugno 2004. L'accusa sostiene che la sera del 23 dicembre 2002 Scott ha litigato con la moglie, l'ha uccisa e ha gettato il corpo nella baia di San Francisco. Nonostante la difesa sostenga che l'omicidio di Laci e del suo bambino sia stato commesso da una setta satanica o da un vagabondo, il processo si conclude con una senten­ za capitale per Scott Peterson, ritenuto responsabile di du­ plice omicidio. Come molti uomini che hanno assassinato la propria mo­ glie, Scott ha costruito un'immagine pubblica di sé molto diversa dalla persona che è in realtà. Ha imparato a com­ piacere il prossimo per essere considerato, ammirato. Con­ vinto di essere destinato a raggiungere importanti traguar­ di, si sentiva un fallito, visto che viveva con pochi mezzi in una casa modesta. I suoi desideri di grandezza dovevano essere ridimensionati e questo lo frustrava. L'idea dell'ar­ rivo di un figlio l'aveva spaventato, pensava agli ulteriori conti da pagare, alle nuove responsabilità, alla limitazione della libertà. Se era riuscito a nascondere il matrimonio alle sue amanti, sarebbe stato più difficile mentire riguardo al figlio. Invece di chiedere il divorzio, che avrebbe distrutto

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l'immagine di uomo perfetto che voleva dare di sé, ha pre­ ferito cancellare moglie e figlio a modo suo: uccidendoli. Se La ci non fosse rimasta incinta, il marito l'avrebbe am­ mazzata ugualmente? In fondo, aveva sempre avuto rela­ zioni extraconiugali, che lei sopportava o di cui non era a conoscenza. Avrebbe potuto continuare così a lungo, ma per uomini come lui il delitto è preferibile a un divorzio che li metterebbe in cattiva luce presso la famiglia e i conoscenti. Il forte impatto emotivo che questo doppio omicidio ebbe sugli americani portò il presidente George W. Bush a firma­ re una legge sui ((non nati vittime di violenza». Rispetto a coloro di cui mi sono occupata nel resto del li­ bro, questi uomini non uccidono per rabbia o gelosia, ma per eliminare un ostacolo alla loro libertà, a un'ipotetica fe­ licità. Secondo Vincenzo Mastronardi, sono individui carat­ terizzati ((da un'immaturità di fondo che li tiene ancorati a una personalità di tipo adolescenziale; non vogliono rinun­ ciare a nulla, illudendosi di poter avere tutto ciò che deside­ rano. Il problema si presenta quando, non avendo più via d'uscita, si ritrovano di fronte a una scelta obbligata. Una struttura di personalità fragile non riuscirà mai a possede­ re gli strumenti giusti per poter affrontare le situazioni di crisi, che richiedono un forte senso di responsabilità. Ecco che molti uomini finiscono per scegliere la strada che in quel momento appare più agevole: eliminare l'oggetto di intralcio alla loro libertà». Quello che emerge dalle tante storie di questo genere è la considerazione unanime di cui godevano gli assassini fino al momento dell'omicidio. Mariti innamorati, figli af­ fettuosi, amici irreprensibili, perfino amanti romantici e ge­ nerosi. Fino a quando la strategia che li porta a vivere una doppia vita non mostra le prime crepe, sono ritenuti per­ sone sincere dalle mogli e dalle amanti. In preda a uno sta­ to di esaltata invulnerabilità arriva il momento, però, in cui osano troppo. Credendo veramente di poter vivere il nuovo amore come se fosse l'unico, compiono passi falsi che por­ tano la compagna a scoprire la verità.

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Omicidi di questo tipo sono avvenuti diverse volte nel nostro paese, anche in passato. Quelli che seguono sono due casi celebri di uomini che hanno ucciso la moglie per vivere in pace con l'amante o per denaro. 11 14 marzo 1963, a Bologna, Carlo Nigrisoli porta la mo­ glie moribonda nella clinica del proprio padre, medico sti­ matissimo, situata proprio sotto il doppio appartamento in cui vivono. Per Ombretta Galeffi, 38 anni e tre figli, non c'è più niente da fare. Carlo dichiara che la moglie è morta d'infarto, ma i medici hanno dei dubbi al riguardo. Nep­ pure suo padre Pietro gli crede, e glielo grida: «Disgraziato, l'hai uccisa tu!». Gli dà anche due schiaffi. Carlo perde la testa e tira fuori una pistola che punta prima contro il pa­ dre e poi contro se stesso, ma viene disarmato. Sospettato di aver ucciso la moglie, finisce in carcere. Pietro Nigrisoli e l'altro suo figlio conoscono bene la situazione matrimoniale di Carlo e Ombretta, anche se all'esterno la coppia appare stabile e felice. La Galeffi parla spesso con il suocero confidandogli i suoi timori, la sua ama­ rezza. Da circa un anno Carlo ha un'amante di 24 anni, lris Azzali, impiegata in un mobilificio. La giovane è stanca di dividere l'uomo con un'altra, non vuole più incontrarlo se­ gretamente e minaccia di lasciarlo. Lui cerca di rassicurarla, le confida che la moglie soffre di una grave malattia e presto morirà. Ombretta scopre il tradimento e soffre in silenzio. La mattina del 14 marzo cerca ancora una volta il suocero per dirgli che, qualunque cosa accada, non vuole che i suoi figli abbiano un'altra mamma. Quella sera, Carlo rientra alle nove. Cena con la moglie e poi le pratica un'iniezione. Vanno a letto, in camere separate, ma poco dopo Ombretta si sente male. Lui la prende in braccio e la porta giù, in cli­ nica. La polizia trova sul comodino della donna una fiala vuota di curaro, il veleno che non lascia tracce nei tessuti e uccide per soffocamento. «Soffriva di depressione . . . per questo si è suicidata» afferma Carlo. «Se l'avessi uccisa io, perché avrei lasciato la fiala di curaro in vista?» Al proces­ so, iniziato il 21 ottobre 1964 alla Corte d'assise di Bologna, Carlo Nigrisoli viene condannato all'ergastolo. Il processo

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di secondo grado, tre anni dopo, riduce la sentenza a venti­ quattro anni. Nel 1988 Nigrisoli è libero, e in dicembre spo­ sa una donna divorziata e madre di due gemelli. Carlo Nigrisoli non aveva nessuna delle qualità profes­ sionali del padre e del fratello, era un medico poco apprez­ zato e per questo nella clinica si occupava dell'amministra­ zione. Aveva scelto la facoltà universitaria seguendo una tradizione di famiglia, ma preferiva fare la bella vita e de­ dicarsi ai rally automobilistici e alla motonautica. Ombretta Galeffi era una donna mite, timida, poco amante della mon­ danità. Durante le numerose uscite, in cui lei non voleva accompagnarlo, Carlo aveva conosciuto alcune donne con cui erano nati rapporti sentimentali, ma l'amore vero arriva con Iris. Carlo è pazzo di lei, e per la prima volta Ombretta sospetta che il marito la tradisca. Lui, deciso a liberarsi del­ la moglie, architetta un piano: la porta da un medico per­ ché le prescriva una cura ricostituente e ogni giorno le fa personalmente le iniezioni. Nell'ultima siringa, però, met­ te il veleno letale. Un caso simile era accaduto nel 1945. Anche allora un uomo accusato di uxoricidio aveva cercato di avvalorare l'ipotesi del suicidio. Arnaldo Graziosi, 32 anni, musicista della RAI, il 21 ottobre si trova in vacanza con la giovane moglie Maria e la figlia Andreina di 3 anni nell'albergo Villa Igea di Fiuggi. Alle sette del mattino si affaccia alla finestra gridando che la moglie si è sparata un colpo alla testa. Il proprietario dell'albergo trova Maria sul letto e la pistola accanto al corpo. Questa è la prima cosa strana. Come mai l'arma non è in mano alla donna? E perché l'espressione di Maria è quella di qualcuno che passa dal sonno alla morte senza rendersi conto di quello che le sta succedendo? I fori nella calotta cranica della vittima sono compatibili sia con l'omicidio sia con il suicidio, ma secondo l'accusa è molto strano che una madre si tolga la vita nel letto in cui sta dor­ mendo anche la figlioletta. La polizia scopre che, la matti­ na in cui Maria viene trovata morta, Graziosi ha chiama­ to la sua amante ventiduenne, Anna Maria Quadrini, una pianista che ha studiato con lui. La casa della ragazza viene

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perquisita e salta fuori il suo diario, in cui racconta la rela­ zione con quell'uomo sposato. Arnaldo Graziosi viene condannato a ventiquattro anni di carcere. Qualche mese dopo, evade insieme ad altri due detenuti. Si scopre che aveva il permesso di uscire dalla casa circondariale per dare lezioni di piano alla figlia di un ma­ resciallo. Viene catturato pochi giorni dopo sulle montagne di Alatri (Frosinone) e chiuso nel penitenziario di Viterbo, dove rimane fino all'agosto 1959, quando ottiene la grazia dal presidente della Repubblica Giovanni Granchi. I casi Graziosi e Negrisoli, e altri analoghi, si discostano dal fenomeno delle donne scomparse di cui parlo in questo capitolo per un particolare. Per eliminare la moglie-ostaco­ lo quegli uomini hanno simulato un suicidio, non hanno finto che si fosse allontanata spontaneamente o fosse stata rapita. Il corpo delle donne non è stato «cancellato», come troppo spesso accade negli ultimi anni: nna nuova strategia per i mariti che si vogliono liberare di un peso senza paga­ re alcun prezzo. Uomini che a volte bruciano il cadavere, lo fanno a pezzi, lo dissolvono nell'acido, lo gettano in mare, lo lanciano da un aereo. In alcuni casi di scomparsa, le spo­ glie della donna non sono mai state ritrovate e i processi si sono svolti sulla base di importanti indizi a carico del so­ spettato. Molti sono stati assolti, in presenza o assenza del corpo, perché non c'erano sufficienti prove contro di loro. Sono numerose le differenze tra gli assassini che vogliono «cancellare» le loro vittime e coloro che invece uccidono spinti dalla gelosia o dalla rabbia. Nel secondo caso abbiamo spesso degli omicidi-suicidi, nel primo caso è improbabile che l'uomo pensi di togliersi la vita. Non si sente colpevole per ciò che ha fatto, era in diritto di eliminare chi si frappo­ neva tra lui e la felicità. Non teme neppure l'eventuale pu­ nizione, perché si considera invulnerabile, certo com'è di aver fatto tutto il necessario per non essere indagato. La seconda differenza riguarda il senso di colpa. Nel caso di uomini che uccidono d'impeto o per disperazione la donna che li ha lasciati, accade di frequente che si conse-

Cancellate

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gnino spontaneamente alle forze dell'ordine piangendo e che dimostrino tutta la loro sofferenza durante il processo. Per i «cancellatori», invece, non c'è alcuna manifestazione di dolore nei confronti delle vittime, che essi uccidono per pura convenienza personale. Rimangono freddi sia duran­ te le ricerche sia nel corso dei dibattimenti, come se la cosa li riguardasse solo da lontano. L'unica emozione che dimo­ strano è un certo autocompiacimento nel trovarsi al centro dell'attenzione. Sono dei narcisisti. Pensano di essere uni­ ci, speciali, e vogliono che gli altri lo riconoscano. Hanno fantasie di grandi successi, potere, sesso, amore . . . ma non si tratta di amore vero, incapaci come sono di amare. No­ nostante l'apparente sicurezza, sono fragili, dipendenti dal giudizio altrui, sempre alla ricerca di una conferma esterna. Non provano rimorso per il loro crimine, perché non pen­ sano di aver fatto qualcosa di sbagliato. In molti casi vedo­ no se stessi come le vere vittime. Con troppa frequenza i delitti domestici sono stati consi­ derati omicidi d'impeto, «a sangue caldo», causati da una fortissima emozione momentanea. I casi riferiti in questo capitolo e migliaia di altri simili dimostrano il contrario. Questi assassini, che progettano con lucidità la morte del­ la donna-ostacolo, spesso, oltre al corpo della vittima, vo­ gliono annullare anche l'idea che sia stata uccisa, prospet­ tando agli inquirenti piste alternative da seguire. In molti casi in cui il killer ha modificato la scena del crimine, effettuando ciò che in termini tecnici si chiama staging, le forze dell'ordine, pensando a un suicidio della vittima, non effettueranno tutti i rilievi necessari per tro­ vare le prove di un delitto. Non cercheranno impronte, fi­ bre, tracce di DNA. Ormai sappiamo che le prime ore di in­ dagine, quando le tracce sono ancora fresche, gli indizi non sono stati del tutto eliminati e il sospettato può trovarsi in uno stato di fragilità, sono particolarmente preziose per la soluzione di un crimine. Secondo Salvatore Cosentino, «è vero che spesso le in­ dagini partono in ritardo perché inizialmente si pensa a un allontanamento volontario, va detto però che al momento,

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con le risorse finanziarie e strumentali molto limitate di cui dispone la polizia giudiziaria in Italia, non sarebbe possibi­ le innescare un'indagine a ogni scomparsa di donna. Non vi è nulla da modificare, a livello legislativo, per poter in­ dagare meglio. Ci vorrebbe solo un potenziamento degli organici delle forze dell'ordine che consentisse di indaga­ re, sempre e subito, in caso di allontanamenti "sospetti"».

XI

Le colpe della società

Abbiamo visto come molti studiosi attribuiscano la causa dei maltrattamenti nella coppia alla società, che abitua il maschio ad avere un ruolo predominante e a cercare di in­ staurarlo con la forza. Ma abbiamo anche compreso che non si può ridurre tutto a un fenomeno culturale e sociale. Oc­ corre considerare la vulnerabilità psicologica di certi uomi­ ni, anche se questa fragilità non spiega la violenza, se non rientra in un determinato contesto sociale. Criminalizzare l'uomo senza cercare di capire che cosa lo renda violento non servirà a diminuire i maltrattamenti e i delitti, ma solo a opporre ancora di più maschio a femmina, a scavare un baratro di incomprensione fra loro. Non siamo schiavi del­ le nostre tendenze e dei nostri impulsi, l'aggressività deve essere controllata, non possiamo permettere che si espri­ ma liberamente neppure in età infantile. Bisogna estirpare la mentalità sessista, educare i ragazzi al rispetto dell'altro sesso, liberare maschi e femmine dagli stereotipi che sono stati loro attribuiti. Quando inizia un rapporto di coppia, l'uomo può as­ sumere un ruolo maschilista che in individui con marcati tratti narcisisti viene rafforzato fino a un livello di potere assoluto, di scarsa considerazione verso la compagna, che si unisce a una bassa tolleranza verso la frustrazione e a un'autostima elevata ma fragile, alla necessità continua di attenzione e ammirazione. La donna diventa la persona di

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fiducia che dà all'uo'mo la stabilità e la sicurezza di cui lui ha bisogno. Afferma Anna Oliverio Ferraris: «Spesso si ri­ scontra in questi uomini una debolezza enorme. Otello si lascia convincere da lago perché ha già una sua vulnerabi­ lità, è il nero a Venezia, è il diverso. Molti uomini violenti, in realtà, dipendono dalla loro donna, hanno paura di es­ sere lasciati e di non riuscire a vivere senza di lei.

È da una

debolezza che nasce la rabbia. Anche il bisogno di domi­ nare è una forma di debolezza. Nella famiglia tradizionale l'uomo comandava e la donna ubbidiva, nella famiglia at­ tuale il rapporto è simmetrico ma alcuni uomini non sono p ronti ad accettarlo. Poi c'è un problema di scarsa stima di sé, che diminuisce ulteriormente se lui ha perso il lavoro o se vede che la compagna guadagna di più. Se non inquadra questa realtà storicamente, socialmente, sociologicamente, può sentirsi frustrato». In famiglia, molti ragazzi sono spesso orientati verso com­ portamenti di affermazione personale e indipendenza, ma anche di aggressività. Le ragazze sono educate a essere pas­ sive, dipendenti e compiacenti. Più i vecchi modelli della se­ parazione dei ruoli sono spinti all'estremo e più si manife­ steranno episodi di violenza. Di fronte a una delusione, a un fallimento, le femmine possono piangere, chiedere aiu to, ma il maschio, stimola to a essere forte, coraggioso, solido, non ha a volte altra risorsa che la rabbia. Oltretutto, in una so­ cietà che premia soprattutto

i vincenti, non è permesso mo­

strare la propria vulnerabilità. Molti uomini sentono il peso di questo codice della virilità e non sanno affrontare le fru­ strazioni. Alcuni accettano la loro parte femminile, altri ca­ dono in depressione, altri ancora reagiscono con la violenza.

«È

necessaria un'educazione sentimentale, più consapevo­

lezza nell'infanzia e nella scuola» afferma lo psicoterapeuta Alessandro Meluzzi. «Ma se non si riassettano le emozioni profonde delle persone, non bastano i cambiamenti educa­ tivi. Le relazioni devono trovare un nuovo equilibrio.» Gabriella D'Avanzo, media tore familiare, afferma che le conquiste femminili in ambito sociale e professionale posso­ no causare disagi all'uomo. «Nei colloqui emerge una per-

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cezione di perdita del proprio ruolo. Nella maggior parte dei casi è proprio questa la causa di scontri e rotture dan­ nosi in famiglia. Spesso, l'attitudine a voler comandare o a voler considerare la propria famiglia secondo uno sche­ ma patriarcale, di vecchio stampo, è un fattore attribuibi­ le all'educazione ricevuta sin da piccoli. Abbandonare vec­ chie idee, che potevano essere utili alla società di un tempo, prendendo spunto da esse come un bagaglio culturale dal quale attingere ciò che più serve, adattando il tutto alla so­ cietà attuale, completamente diversa, arricchendo questo patrimonio di nuovi valori: questo è w1 possibile traguar­ do. Infine, se i nostri nonni, i nostri genitori, ci tramanda­ no valori come il rispetto, noi dovremmo arricchire il no­ stro corredo valoriale mettendoci dentro la comprensione e il dialogo, per far sì che questi ultimi si trasformino in do­ veri dettati dal cuore.» Non è raro che, anche quando la donna viene maltratta­ ta dal marito, i familiari pensino che non sia capace di sod­ disfarlo e che debba fare di più. Anche i periodici femmini­ li, soprattutto quelli rivolti alle adolescenti, danno consigli per sedurre e attrarre sessualmente il proprio partner, e pro­ pongono immagini di donne fragili, superficiali, che devono portare l'armonia in casa a prezzo della loro serenità. È nor­ male, allora, che alcune si sentano in colpa se non ci riesco­ no, che considerino la violenza come parte dell'esistenza. In caso di aggressione dubitano della propria percezione della realtà, non ne parlano con nessuno, la negano perfi­ no a loro stesse nel timore di essere ridicolizzate o, peggio, colpevolizzate. Se socialmente sono considerate responsa­ bili della riuscita di una coppia, quando il loro compagno si comporta male sentiranno di aver fallito. Luigi de Maio ritiene che troppo spesso i figli non ven­ gano educati al rispetto dell'altro. «Molte ragazze pensa­ no di poter cambiare il proprio partner. Se noi le portiamo a credere che sono così intelligenti e seduttive da avere il potere di cambiare l'altro, le stiamo condizionando nega­ tivamente. Dovremmo educare i ragazzi ad amare, mentre

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si insegna alle donne a subire, a sopportare, e al maschio a difendersi in maniera arrogante.» Scrive Anna Oliverio Ferraris in Padri alla riscossa. Crescere un figlio oggi: «Un'affidabile figura maschile nella vita di un ragazzo aiuta a capire come gestire l'aggressività al fine di evitare che si trasformi in violenza. Anche una donna può aiutare un ragazzo in questa impresa, ma un uomo è in ge­ nere più credibile agli occhi di un giovane, anche perché spesso i giovani maschi trovano nell'ambiente circostan­ te - nella realtà come nella fiction - numerosissimi esempi di comportamenti violenti a opera di maschi e non di rado contro le donne. Di fronte a questi modelli dove il maschio è il protagonista indiscusso, l'attore al centro della scena, la violenza può esercitare un forte fascino su un ragazzo che sta crescendo fino a convincerlo che si tratta di una ca­ ratteristica connaturata al sesso maschile, promozionale al suo successo, e che è reprimendo sentimenti come l'empa­ tia e la compassione, sviluppando un'insensibilità verso il dolore degli altri, che si diventa "veri uomini"». Anche i luoghi di socializzazione preferiti dai maschi possono rafforzare un comportamento violento. A volte, il consiglio, l'esempio e l'orientamento degli amici possono giustificare o addirittura stimolare l'abuso verbale o fisico nella coppia. L'amicizia fra uomini e donne è importante per allargare l'orizzonte, un'opportunità per espandere i limiti di concetti rigidi sulla mascolinità ed esplorare aree emozionali diverse. Francesco Bruno parla di educazione sbagliata «che, inve­ ce di portare comprensione tra maschio e femmina, ne esal­ ta gli aspetti più profondamente diversi fino a generare una sorta di irriducibilità di questi opposti, che si possono mol­ to amare ma anche molto odiare. Viviamo in una società che ancora basa tutto il rapporto sulla bellezza e desiderabilità della donna e sulla capacità dell'uomo di essere forte, viri­ le, ricco ecc. Le bambine sono addestrate a catturare un ma­ schio e quest'ultimo a trovare la donna più desiderabile. Le scuole elementari, in cui il bambino comincia ad avere re­ lazioni con gli altri, devono sempre essere miste. Nella mia

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c'era una rigida separazione dei sessi, addirittura con per­ corsi diversi per entrare e uscire. È completamente sbagliato. Quello è il momento in cui i piccoli devono godere della co­ mune fanciullezza. Consideriamo poi che l'adolescenza pro­ duce grandi differenze tra maschi e femmine, le quali ma­ turano prima. In una giornata la bambina diventa donna, mentre il bambino difficilmente sviluppa un rapporto con la figura patema tale da convincerlo di essere in grado di se­ pararsi dai modelli e simboli che il padre gli ha inculcato». La disuguaglianza parte da lontano. Nel libro La sindro­ me Lolita, Anna Oliverio Ferraris riferisce un esperimento, condotto alla fine degli anni Settanta da una nota casa pro­ duttrice di giocattoli, che indicava come i bambini, quan­ do sono privi del controllo dei genitori, si accostino a ogni tipo di giocattolo, senza mostrare preferenze per quelli «ma­ schili» o quelli «femminili>>. «Lontani dalle paranoie degli adulti, erano incuriositi da giocattoli diversi di cui cercava­ no di esplorare potenzialità e applicazioni . . . Quando però tornavano in famiglia la maggior parte dei bambini si de­ dicava ai giocattoli del proprio sesso. Il motivo era chiaro agli stessi bambini. "Papà e mamma non vogliono", era la spiegazione ricorrente. D'altro canto sono i genitori che re­ galano i giocattoli ai figli e questo è un tipo di messaggio molto forte. "I giochi da maschio mi piacciono" spiega un bimbo di cinque anni. "Qualche volta mi piace giocare con le pentoline delle bambine. Sono però giochi da femmine e mamma vuole che io faccia soltanto giochi da maschio."» La scuola ha il compito fondamentale di spiegare la dif­ ferenza fra una relazione sana e una malata, considerando che la violenza è in aumento anche nelle fasce più giova­ ni. Alcune inchieste condotte nelle scuole superiori hanno rilevato che un quinto delle ragazze ha subìto abusi fisici e sessuali da parte di ragazzi. Spesso le adolescenti inter­ pretano l'eccessiva gelosia dei loro fidanzati come attestati d'amore e non come minacce alla loro incolumità. il 12 febbraio 2001, durante la ricreazione, Roberto Giaquin­ to uccide Monica, la sua fidanzata sedicenne, nel cortile dell'istituto Erasmo da Rotterdam di Sesto San Giovanni

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(Milano) recidendole la carotide con un coltellino multiuso che ha sottratto a una compagna. Arrestato, il diciassettenne appare confuso, ripete che non aveva intenzione di uccidere Monica, ma solo di spaven­ tarla. Tre mesi dopo, il «Corriere della Sera» riporta alcune dichiarazioni degli psichiatri che lo hanno esaminato: «Gli aspetti cruciali del rapporto di Roberto con Monica erano "il bisogno di un controllo assoluto della relazione, nella quale doveva sempre ritrovarsi in una posizione dominante, pena la perdita dell'autostima". Per questo "uccidere Monica non era veramente ucciderla, ma portarla con sé definitivamen­ te, sottraendola alla possibilità di autonomia decisionale e sottraendo se stesso alla possibilità, presente e futura, di ri­ fiuto e quindi di ferita narcisistica"». Il quotidiano milane­ se cita poi alcune affermazioni di Roberto: «Avevo il tarlo che qualcuno potesse portarmela via, al punto che nei primi mesi pensavo: "Piuttosto, la lascio io" . La lasciavo perché non volevo più stare così male, con tutte quelle paure. Era­ no paure assurde, erano paure di perderla, erano più forti di me. Vedevo delle cose che non esistevano. Vedevo Monica come la pensavo io, non come lei era veramente. Erano le paure che alimentavano la realtà». Nel processo, Roberto viene giudicato «non punibile» ma «socialmente pericolo­ so» e affidato a una comunità di recupero. I genitori prote­ stano contro la scuola, che non ha dato peso ai problemi del ragazzo, che si procurava sovente dei tagli, aveva bruschi cambiamenti di umore e affermava nei terni di avere due personalità diverse, una buona e una cattiva. Perché nessu­ no si è accorto che quello che poteva apparire come un nor­ male disagio adolescenziale stava degenerando in malattia? La storia è piena di attacchi alle donne avvenuti sullo sfondo di un atteggiamento sociale che li ha permessi. Mol­ te persone hanno mantenuto il silenzio e hanno consenti­ to che questo accadesse. Per troppo tempo non ci si è posti seriamente la domanda: perché l'uomo aggredisce la don­ na con cui ha o ha avuto una relazione, e lo fa in modo si­ stematico, seguendo una spirale di intensità crescente? La

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giustificazione comune era che l'aggressore soffrisse di pro­ blemi mentali prima di manifestare la sua violenza o che li avesse nel momento in cui questa esplodeva, per un insieme di fattori personali: gelosia, abbandono, frustrazione, o al­ colismo, droga, stress, disoccupazione, abusi subiti nell'in­ fanzia ecc. Un altro modo di minimizzare il problema era la considerazione che questi uomini appartenevano a livel­ li socioculturali bassi, con insufficiente educazione e scarsa cultura, provenienti dunque da un settore marginale della società. Abbiamo visto, invece, come la violenza contro le donne sia trasversale, abbracci tutte le classi sociali, ogni luogo geografico, età, livello di educazione e cultura, pro­ fessione. Abbiamo anche visto che se l'alcol e gli stupefa­ centi possono rappresentare il detonatore della violenza non ne costituiscono la causa principale. L'errore è stato non comprendere che in una società an­ drocentrica, che discrimina la donna e la relega a ruoli se­ condari, quando la violenza contro di lei aumenta di mese in mese, evidentemente il sistema di socializzazione tra ma­ schio e femmina non è adeguato ed è necessario cambiarlo. Non si è trattato di disconoscimento dei fatti ma di occul­ tamento, giustificazione e minimizzazione. La normaliz­ zazione di un comportamento assolutamente anormale ha fatto sì che oggi gran parte dei maltrattamenti subiti dalle donne rimanga nascosto fra le quattro pareti di casa e co­ perto da una serie di valori comunemente accettati, norme e abitudini socioculturali che non permettono di compren­ derne la portata. E quando la violenza non viene negata, è spesso giustificata o deformata in vari modi. Alessandro Meluzzi afferma che, per quanto possa sem­ brare paradossale, i delitti di tipo violento contro la perso­ na sono diminuiti dal secolo scorso. Negli ultimi dieci anni sono invece aumentati i reati contro la donna. «L'incremen­ to è dovuto a una crescita di autonomia e autodetermina­ zione che porta la donna a essere un soggetto libero, ca­ pace di poter scegliere il proprio destino. Questo la rende sempre meno debole, subordinata, subalterna, posseduta da qualcun altro. Parallelamente, è cresciuta una certa fra-

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gilità, debolezza e regressione adolescenziale maschile. Al­ cuni uomini reagiscono alla perdita del legame con la pro­ pria compagna con comportamenti distruttivi nei confronti dell'oggetto d'amore, perché è meglio distruggerlo che per­ derne il controllo. Ciò è dovuto all'incapacità di elaborare il lutto della perdita dell'altro.)) Nei casi di maltrattamento raccontati in questo libro si è visto come l'uomo sappia esattamente cosa sta facendo quando aggredisce la sua compagna. Sa perché lo fa e sa quando usare la violenza psicologica o quella fisica, quan­ do fermarsi e quando ricominciare, come colpire determi­ na te zone del corpo affinché non rimangano segni. Inoltre mantiene il sangue freddo che gli consente di trovare del­ le giustificazioni al suo comportamento e di colpevolizza­ re lei per i propri atti violenti. L'isolamento graduale della donna, l'aumento altrettanto graduale della violenza e la sua imprevedibilità destabilizzano la vittima, che divente­ rà ancora più vittima quando avrà perso i propri punti di riferimento. Vedendo la compagna confusa, vulnerabile, sottomessa, l'uomo si rende conto che il suo modo di agi­ re ha l'effetto sperato, quello cioè di mantenere il controllo della relazione, e non smetterà di attuarlo. Fortunatamente, non si pensa più che la vittima sia in parte responsabile di quanto le accade, ma permane in certi ambienti il dubbio che qualcosa, per finire così, abbia fatto. Se è troppo arrendevole, l'uomo ne approfitterà. Se persegue l'affermazione personale e l'indipendenza, sfide­ rà l'uomo a controllarla, bloccarla. Se abbandona un ma­ rito violento, sarà criticata. Se non lo lascia perché non ne ha la possibilità, sarà considerata complice dei maltratta­ menti che subisce. Spiega Chiara Camerani: «La violenza verso la donna origina dalle differenze e dall'asimmetria di forza tra ma­ schio e femmina ed è una realtà che nasce con l'uomo. Le stime allarmistiche degli ultimi anni derivano da un mag­ giore interesse sociale, una presa di coscienza femminile, dal grande rilievo mediatico e dai cambiamenti sociali av­ venuti nel XX secolo. Ma ci vorrà tempo perché anche la

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cultura cambi veramente. Ferma restando la condanna per tale condotta, mi stupisce che ci sorprendiamo tanto della violenza di genere, quasi fosse un fenomeno nuovo e ina­ spettato che ci spinge a interrogarci furiosamente su tutte le possibili ragioni. Eppure, tra queste innumerevoli ragioni sembriamo dimenticare secoli di storia in cui la sottomis­ sione femminile era la norma. «Agli albori del XX secolo troviamo ancora la donna "angelo del focolare", interamente compresa nel suo ruolo di madre e governante. Non individuo, ma elemento in­ scindibile dal nucleo familiare e dal capofamiglia. Su questa immagine di donna si inserirà la rivoluzione sessuale, che in Italia porterà un cambiamento di pensiero, ma non an­ cora di legge; fino al 1975, infatti, era lecito che il marito si avvalesse di "mezzi di correzione" nei confronti della mo­ glie; nel 1981 verranno aboliti il delitto d'onore e l'istituto del matrimonio riparatore, che estingueva il reato di stu­ pro qualora il violentatore avesse sposato la propria vittima. Se non è sufficiente a capire perché ancora non riusciamo a toglierei di dosso questa forma di pensiero che ha intriso la nostra cultura, basti pensare che gli abusi sessuali ver­ ranno considerati reati contro la persona, contro la libertà di un individuo, solo nel 1996. Prima di questa data, uno stupro era un crimine contro la morale pubblica. Perché la società civilizzata e moderna decreti un intervento di tu­ tela della donna in ambito coniugale dobbiamo attendere il 2001, con la previsione dell'allontanamento del coniuge violento dall'abitazione familiare.» È terribile leggere dati e statistiche da cui emerge che più le donne maltrattate subiscono in silenzio e meno rischiano di essere uccise. Le vittime di assassinio sono infatti colo­ ro che reagiscono ai soprusi, che denunciano, che tentano di andarsene o che effettivamente lo fanno. Qualcuno chiede l'istituzione di magistrati e tribuna­ li appositi per i crimini coniugali. Riguardo a tale ipotesi, Salvatore Cosentino commenta che «la Costituzione italiana in linea di massima vieta l'istituzione di tribunali speciali, e tribunali appositi per i crimini coniugali contro le don-

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ne non sarebbero nient'altro che quello. Il problema della criminalità, anche di una sola speciale tipologia di crimi­ ne, non si risolve "specializzando" (che è un modo elegan­ te per non dire "ghettizzando") rei, vittime e giudicanti, relegandoli a un settore che rischierebbe di avere proce­ dure, norme e sanzioni speciali o esemplari. Un tribunale che irroga pene esemplari sarebbe deleterio e comunque in contrasto con l'ordinamento democratico. La legge pena­ le (soprattutto quella processuale) deve essere uguale per qualunque criminale, evitando però che qualcuno sia più uguale degli altri». Ho chiesto a Ruben De Luca se la situazione italiana è si­ mile a quella degli altri paesi. «A grandi linee sì, nel senso che la crisi del maschio è emersa in tutti i paesi nei quali la donna ha aumentato il livello della sua emancipazione. Per l'Italia esiste probabilmente un'aggravante culturale, per­ ché il maschio spesso viene cresciuto proprio dalle madri come se fosse una specie di "re del focolare domestico", le cui esigenze vengono sempre soddisfatte dalle "donne di casa". Fortunatamente, nelle nuove generazioni questo at­ teggiamento si va stemperando, ma esistono ancora troppi uomini di tutte le età che continuano a considerare le don­ ne come "proprietà".» Per migliaia di anni l'aggressione domestica è stata giudi­ cata uno strumento necessario all'uomo per mantenere or­ dine e disciplina in casa e per affermare le proprie regole. Quella cultura arcaica ha ancora effetto, quando si arriva a sostenere che una donna stuprata ha fatto qualcosa per provocare il violentatore e quando si dimostra scetticismo nei confronti degli abusi domestici. Un bambino che assiste per anni ai maltrattamenti del padre contro la madre e si rende conto che il genitore non viene punito potrà giudicare corretto tale comportamento proprio perché non incorre in critiche e sanzioni da parte della comunità. Una società che ha difficoltà nel riconosce­ re gli abusi sulle donne si comporta nello stesso modo ver­ so i problemi dei minori, che assistono a questa violenza e

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che possono riportare gravi conseguenze sul piano fisico, emozionale, comportamentale. Nei casi estremi, i figli di­ ventano lo strumento per ferire la madre, come fossero un coltello con cui colpirla al cuore. Abbiamo visto come già la gravidanza possa essere un periodo a rischio per la com­ pagna di un uomo violento. La donna maltrattata rischia di partorire prima del tempo, di abortire o di dare alla luce un neonato sottopeso. Subito dopo è più facile che cada in depressione o che non sia in grado di accudire il figlio nel modo migliore. Anche i bambini cresciuti in un ambiente violento sono vittime di questa situazione, soprattutto se assistono ad ag­ gressioni e abusi nei primi tre anni di età. Minore è l'età del bambino, maggiore è la sua vulnerabilità e più gravi sono le conseguenze. «Esperimenti hanno dimostrato che se i mi­ nori vedono un adulto che picchia un manichino, poi ten­ dono a imitarlo)) spiega Alberto Oliverio. «Non solo)) ag­ giunge Anna Oliverio Ferraris. «La violenza coniugale ha effetti devastanti sui figli, che ne sono le vittime indirette. Assistere al maltrattamento della madre da parte del pa­ dre provoca loro molta insicurezza, e possono apprende­ re a comportarsi nello stesso modo, magari con la sorella o con le bambine a scuola. I bambini tendono a imitare quello che succede in casa; inoltre, vedere una persona a cui vuoi bene trattata da inferiore ti può portare, per non soffrire troppo, a separarti da lei, a pensare che la colpa sia sua.)) «In alcuni casi, invece, i figli maschi arrivano a uccidere il padre per proteggere la madre)) conclude Alberto Oliverio. È accaduto ad Acerra (Napoli) il 1 o novembre 2010, quan­ do Francesco Buonavolontà, 21 anni, ha ucciso il padre Mauro, un uomo violento, manesco, dipendente da alcol e stupefacenti, già denunciato per maltrattamenti in fami­ glia. Mauro è arrivato ubriaco a casa della suocera e ha co­ minciato a litigare con la moglie Rosamaria, che si trovava in cucina con il più piccolo dei loro figli. Dal piano di sopra Francesco sente le grida della madre e accorre per difen­ derla insieme al fratello di 1 7 anni, che viene subito allon­ tanato dal padre con uno schiaffo. Francesco, allora, affer-

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ra un coltello per il pane e colpisce l'uomo al petto quattro volte, uccidendolo. Tre mesi dopo il copione si è ripetuto, questa volta a Nico­ tera (Vibo Valentia), dove un quindicenne ha ucciso il padre con diverse coltellate. Domenico Piccolo aveva preceden­ ti per traffico di droga e di armi e lavorava nel commercio di indumenti intimi nei mercati rionali. Passava la sera nei bar a bere e quando tornava a casa maltrattava la moglie e i sei figli. Il ragazzo si è presentato con il volto coperto da un passamontagna, accompagnato da un coetaneo, e ha si­ mulato una rapina per uccidere il padre. Ai carabinieri che lo hanno preso in custodia ha subìto dichiarato: «Non sop­ portavo che picchiasse la mamma». I minori che assistono alle violenze o le intuiscono, ve­ dendone magari i segni sul corpo della madre, mettono in atto strategie diverse per reagire. Possono manifestare una forte irrequietezza per attirare su di sé l'attenzione disto­ gliendola da lei; possono tenersi tutto dentro, con il rischio che gli effetti del trauma subìto compaiano più tardi; o pos­ sono costruirsi un mondo immaginario in cui la violenza viene esclusa. Spesso evidenziano ritardi nello sviluppo e difficoltà di apprendimento a scuola, problemi psicosoma­ tici e comportamentali, o disturbi emozionali quali tristez­ za, collera, scarsa autostima. A volte si sentono responsabi­ li di quello che avviene fra i genitori. Se si identificano con il padre, svilupperanno anche loro, in alcuni casi, compor­ tamenti aggressivi, interiorizzando quei meccanismi e con­ solidando la violenza come strumento per raggiungere gli obiettivi. Le ragazze, invece, identificandosi con la madre che subisce senza reagire, potrebbero diventare vittime di uomini violenti con maggiore facilità. Soprattutto, se an­ che loro sono state maltrattate nell'infanzia, si riterranno indegne di essere amate e saranno pronte a compiere ogni rinuncia in cambio di un po' di felicità. Se nel passato i giornali riservavano a questi tipi di omi­ cidio poco più di un trafiletto, oggi se ne occupano diffusa­ mente. Ma spesso solo perché è il fenomeno di cui si parla,

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che fa notizia, che aumenta l'audience nei programmi te­ levisivi. In particolare, la televisione enfatizza i singoli casi indulgendo al vittimismo, alla drammatizzazione, lascian­ do poco spazio a proposte di prevenzione e soluzione. Le associazioni femminili di aiuto e sostegno lamentano che, nonostante numerose trasmissioni si occupino di donne oggetto di violenza, tutta l'attenzione si concentra sulla vittima e sulla sua storia personale oppure sull'assassino, mentre a loro viene riservato poco spazio. Sarebbe invece importante che avessero spazio per informare le donne a rischio sulle possibili soluzioni del loro problema. Secon­ do alcune di queste associazioni, mostrare diversi casi di abusi senza una strategia adeguata può addirittura porta­ re a una maggiore insensibilità verso il problema, a un' as­ suefazione. Inoltre, una volta esaurito l'interesse di lettori e telespettatori per un caso, questo viene dimenticato sen­ za che sia stata data alcuna informazione sulle conseguen­ ze del crimine, sulla punizione dell'aggressore o dell' as­ sassino, il che potrebbe invece essere un deterrente verso questi delitti. È colpa della società dello spettacolo che ha bisogno di storie, molto meno di problemi. L'anno scorso, in Spagna, il ministero della Sanità, Poli­ tiche sociali e Uguaglianza ha proposto di limitare il tem­ po dedicato alla notizia televisiva di un crimine di genere a soli trenta secondi, per evitare l'aumento di delitti che, secondo studi recenti, si avrebbe il giorno dopo per effet­ to dell'emulazione. La presidente dell'Associazione delle donne separate e divorziate ha protestato, affermando che trenta secondi sono, per questi crimini e per le loro vittime, il modo migliore per cominciare a scomparire. «All'effetto emulazione si sostituirà l'effetto sparizione» ha commentato. L'altro grande problema della televisione, oltre alla spet­ tacolarizzazione del dolore e dei casi di omicidio senza un adeguato approfondimento, è la proposta di modelli fem­ minili degradanti. Nel già citato La sindrome Lolita Anna Oliverio Ferraris analizza tali modelli, che inducono alcu­ ne donne a pensare che «l'ammirazione e i riconoscimen­ ti sociali si ottengono attraverso l'erotizzazione dell'ab-

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bigliamento e la seduzione sessuale>>. Spiega poi che «in questo vortice sono trascinate anche le bambine, a cui ven­ gono offerte bambole dall'aspetto iperfemminile e sexi. In preda alla "sindrome di Lolita" imparano a truccarsi a cin­ que-sei anni, ad atteggiarsi a vamp a sette-otto, a fare shop­ ping a otto-nove. Sostenute spesso in questi "gusti" dalle madri . . . ». E aggiunge: «Sotto la pressione dei marchi alla moda e dei modelli che trovano intorno a loro, le ragazzi­ ne imparano precocemente l'arte della seduzione . . . ven­ gono trasformate in oggetti di desiderio». Sono entrambi nello studio televisivo, davanti alle teleca­ mere: lui in giacca e cravatta, il volto serio e compassato di chi si sta impegnando nella propria professione; lei quasi to­ talmente spogliata, l'aria compiacente e un po' sperduta di chi non sa bene quale sia il proprio ruolo. Quante trasmis­ sioni ci mostrano questa scena triste? Ma c'è di peggio, come evidenzia Il corpo delle donne, il documentario realizzato da Lorella Zanardo con Cesare Cantù e Marco Malfi Chindemi che analizza il modello di donna che ci propongono la tele­ visione e la pubblicità. Sono immagini che conosciamo: ra­ gazze accovacciate in un cubo di plexiglass o che si esibisco­ no in brevi sipari etti tra un servizio di denuncia e l'altro, che permettono alle telecamere di zoomare sul loro seno proca­ ce, che compaiono scosciate nei talk show in cui si parla di argomenti di cui non sono esperte, che competono fra loro per essere scelte dal bel «tronista» o per ottenere un posto da «velina», che litigano nei grandi fratelli, abbrutite sulle isole . . . Le conosciamo, ma vederle tutte insieme, nel mon­ taggio intelligente degli autori, lascia sconcertati. Per con­ verso, presidi scolastici e rettori di università mi racconta­ no l'impegno, la serietà, la determinazione delle ragazze, che arrivano a risultati eccellenti, molto spesso migliori di quelli dei loro compagni maschi. È come se, di due gruppi di donne che si trovano su strade parallele, uno procedesse a passo sostenuto verso la meta, e l'altro scivolasse irrime­ diabilmente all'indietro. Commenta Chiara Camerani: «Oggi i grandi sistemi edu­ cativi fanno capo ai media e forse da essi dovremmo par-

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tire. Dato ormai per assodato che l'osservazione televisiva e cinematografica della violenza tende ad alzare la soglia di tolleranza verso di essa, inducendo una progressiva de­ sensibilizzazione e, addirittura, un rinforzo del compor­ tamento deviante qualora esso venga premiato, esiste un problema più subdolo. Il bombardamento mediatico di pro­ grammi come "Grande Fratello", "La pupa e il secchione" e "Uomini e donne" offre alle giovani un'immagine di donna ammiccante, provocante, spesso sguaiata e sempre dispo­ sta al sesso. Le ragazze apprendono dalla televisione mo­ delli di comportamento e li ripropongono nelle relazioni con l'altro sesso, pensando di poter dire di no o negarsi in qualsiasi momento. I ragazzi, una volta provocati, per ca­ ratteristiche neurofisiologiche ed evolutive tipiche dell'età, non sono in grado di gestire un rifiuto o di fermarsi. Ciò, oltre a insinuare un modello inadeguato e svilente della re­ lazione uomo-donna, talvolta porta a fraintendimenti da­ gli esiti tragici. L'acquisizione della sessualità deve essere accompagnata da un'educazione socioaffettiva che li aiu­ ti a crescere e vivere la relazione in modo maturo. Accanto a ciò, un adeguato percorso atto a stimolare il senso critico e la capacità di distanziarsi da quanto dicono e mostrano i media sarebbe a mio avviso un buon inizio per tutelare i giovani, offrendo loro gli strumenti per leggere tra le righe». Troppo spesso, il corpo femminile è rappresentato come un oggetto di piacere per il maschio. Alla donna sono as­ segnati ruoli secondari, dipendenti, che si fissano nell'im­ maginario delle bambine e le conducono a relazioni di dipendenza e sottomissione. Ciò non aiuta a combattere la violenza di genere, ma fortifica certi comportamenti ma­ schili che si basano sulla presunta supremazia degli uomini. Nel gioco di simulazione intitolato RapeLay, il protago­ nista deve stuprare una minorenne, le sue due sorelle e an­ che la madre. Le donne vengono inseguite e violentate più volte, gridano, piangono, cercano inutilmente di difender­ si. RapeLay - gioco di parole tra rape, stupro, e replay, ripe­ tuto -, prodotto da una società specializzata di Yokohama,

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è uscito nel 2006. Era destinato al mercato giapponese, ma poi è stato possibile reperirlo anche su Amazon ed eBay. Le proteste di genitori e autorità negli Stati Uniti e in Gran Bretagna hanno spinto i due siti web a cancellarlo dalla li­ sta dei prodotti in vendita. Uno studio durato vent'anni, condotto dagli psicologi Douglas Gentile e Craig Anderson e presentato all'ultimo congresso dell'American Psychological Associa tion, ha rile­ vato che i videogiochi violenti aumentano l'aggressività dei bambini, specialmente nel periodo della crescita, quando stan­ no imparando a distinguere cosa è bene e cosa è male. Chi è maggiormente attratto dai giochi sanguinari è anche più influenzabile, e sarà destinato a manifestame più facilmen­ te gli «effetti collaterali» sul comportamento e a riprodurre nella realtà le mosse pericolose sperimentate virtualmente, senza riuscire a distinguere la realtà dalla finzione. Inoltre, secondo diversi esperti di comunicazione, i videogiochi pre­ sentano troppo spesso immagini stereotipate della differen­ za di genere. Il maschio è una figura atletica e muscolosa, sempre pronta a combattere. Le femmine hanno corpi fragili, di solito nudi o seminudi, con seni prorompenti; donne-og­ getto che aspettano solo che lui vada a salvarle o le proteg­ ga dai nemici. La reazione a questa immagine di donna de­ bole è il personaggio di Lara Croft, lanciato qualche anno fa sul mercato e diventato un'icona di successo, protagonista di videogiochi e film. Una donna forte e aggressiva, corag­ giosa e indipendente, ma anche molto sensuale. Ultimamen­ te, la casa di produzione ha deciso di realizzare un episodio in cui Lara viene aggredita sessualmente da diversi uomini mentre è prigioniera. Il periodico «Joystick» ha definito l'idea geniale ed «eccitante». «Le Monde», invece, ha riportato le considerazioni delle femministe, che denunciano l'iniziati­ va come un'apologia dello stupro e una maniera per ridur­ re un personaggio femminile forte e indipendente al livello di un'attrice pomo: «È evidentemente un modo per affasci­ nare il pubblico femminile con una figura di donna perfetta e di intrigare quello maschile riproponendo la solita imma­ gine della femmina oggetto di violenze sessuali».

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Certi film, le riviste pornografiche, alcuni siti Internet possono trasformarsi in veri manuali per gli abusatori e gli aggressori, poiché insegnano loro che le donne non hanno valore e non meritano rispetto, visto che sono solo oggetti sessuali. Perfino le canzoni possono fare danni. Ecco due esempi che non hanno bisogno di commenti. Queste sono alcune frasi del testo di Used to lave her, del gruppo rock Guns N' Roses: «La amavo, ma ho dovuto ucciderla l ho dovuto seppellirla dieci metri sottoterra e posso ancora sen­ tirla lamentarsi l Sapevo che mi sarebbe mancata e così l'ho tenuta vicino l è sepolta proprio nel retro del mio giardino». Poi c'è Kim del rapper americano Eminem. Il cantante ha venduto decine di milioni di dischi ed è stato lodato dal premio Nobel per la letteratura Séamus Heaney per l'inte­ resse suscitato dai testi delle sue canzoni. Sua moglie Kim, invece, il ? luglio 2000, dopo averlo visto eseguire il brano sul palco mentre strangolava delle bambole gonfiabili che le somigliavano, ha cercato di suicidarsi tagliandosi le vene. Il testo racconta di un uomo che insulta la moglie mentre coccola la loro bambina addormentata. Lei vuole }asciarlo, forse ha un altro uomo, ma lui glielo impedirà: «Vuoi cac­ ciarmi via? Ma lui non prenderà il mio posto. Questo diva­ no, questo televisore, l'intera casa è mia!». La costringe poi a entrare in macchina, mentre lei si lamenta che la bambina rimarrà sola. «Tornerò presto, dopo averti chiusa nel porta­ bagagli» la rassicura. E poi, come spesso accade, sembra di­ spiaciuto, disperato: «Non voglio andare avanti, non voglio vivere senza di te!». Ricorda quando si sono innamorati, lui aveva solo 18 anni. . . Ma la rabbia riprende il sopravvento: «Ti odio! Ti odio! Giuro su Dio che ti odio! Oh, mio Dio, ti amo . . . ». Lei cerca di fuggire, ma l'uomo l'afferra di nuovo. «Non puoi fuggire da me, Kim. Ci siamo solo noi, nessun altro! . . . Ora taci e guarda cosa ti succede. Dovevi amar­ mi . . . ma ora sanguina!» Per questa canzone Eminem ha ri­ cevuto un Grammy. Che esempio può trame un ragazzo?

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Il mondo è cambiato c la forza fisica non è più necessaria alla sopravvivenza. Gli uomini sono chiamati alla costru­ zione di nuovi valori di mascolinità, non più legati alla po­ tenza e all'aggressività ma al rispetto dell'altro. Nello stes­ so modo, le donne vanno aiutate a porre dei limiti ai loro compagni, a dire di no, a non tollerare certi comportamenti fin dall'inizio. I genitori dovrebbero insegnare ai figli a non utilizzare la violenza come modo per risolvere un conflit­ to, educarli alla tolleranza e al rispetto. È importante lavo­ rare nelle scuole con gruppi di adolescenti perché racconti­ no le loro esperienze, perché accettino le differenze, perché imparino a stabilire una relazione egualitaria; convincere le ragazze a parlare degli eventuali abusi subiti, a esigere considerazione, a uscire dall'isolamento. La prevenzione passa prima di tutto attraverso la modi­ fica delle immagini tradizionalmente associate alla masco­ linità e alla femminilità. È necessario ripensare i rapporti tra violenza e virilità: non può essere la violenza a defini­ re l'uomo. Il corpo delle donne non può essere sfruttato dalle immagini pubblicitarie, televisive e pornografiche e trattato come un oggetto. Dopo aver insegnato ai bambini e alle bambine che sono uguali, che hanno lo stesso valore e gli stessi diritti, solo una partecipazione paritaria in ogni campo, politico, economico, domestico, culturale, permet­ terà di superare ruoli fissati da secoli. I delitti di cui parla questo libro avvengono soprattutto in società in cui l'eman-

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cipazione femminile è cominciata ma non si è realizzata to­ talmente. Nelle coppie in cui l'uguaglianza è raggiunta e accettata da entrambi, l'aggressività estrema si manifesta più raramente. Cosa possono fare la famiglia e la scuola per prevenire queste situazioni di profonda crisi tra maschi e femmine, che troppo spesso porta al delitto? Secondo Paolo De Nardis «è difficile proporre ricette educative, soprattutto quando pretendono di regolare le relazioni tanto all'interno della famiglia quanto al suo esterno. È bene, però, precisare un punto: esiste un allarme sul bullismo, che coinvolge larghe fasce giovanili e che si rivolge soprattutto contro sogget­ ti deboli, spesso di sesso femminile. Lavorare in termini di prevenzione verso soggetti che possono essere definiti "a rischio" aiuterebbe a ridurre il fenomeno della violenza sul­ le donne e colmerebbe la grande lacuna che esiste in ambi­ to legislativo, ma purtroppo, in tal senso, nulla è stato fat­ to né programmato, nemmeno nelle più recenti proposte. Allo stesso modo, mancano le misure alternative rispetto al carcere, con il risultato di destinare il femminicidio a una "tragedia doppia": colui che uccide una donna finisce spes­ so per suicidarsi, schiacciato dai sensi di colpa, dalla deten­ zione, dalla vergogna, dalla solitudine in cui si è confinato e che le istituzioni si guardano bene dallo scalfire. Chi uc­ cide o esercita violenza su una donna, è bene ribadirlo, è un uomo che ha già scelto di che pena morire. «I cambiamenti pedagogici in funzione deterrente rispet­ to alla violenza contro le donne devono coinvolgere anche queste ultime, o quanto meno quelle incapaci di separarsi da un uomo irrispettoso della loro persona, inadatto a un rapporto sereno, volgare e violento. Si tratta di donne che avrebbero tutte le risorse culturali e sociali per analizzare oggettivamente il proprio rapporto di coppia, ma che, non­ dimeno, non riescono a separarsi definitivamente dal part­ ner-bruto. I motivi, per quanto risulti molto difficile gene­ ralizzare storie e traiettorie personali, sono molteplici: la paura, più che condivisibile, della solitudine, la volontà di non accettare l'idea del fallimento del proprio legame senti-

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mentale (quasi che da ciò potesse derivare una colpa perso­ nale), la mancanza di autostima e di fiducia in sé, lo stigma sociale nei confronti della donna sola, che ancora permane in alcune aree del paese, l'horror vacui di un'esistenza senza un uomo al fianco, spesso conseguenza di traumi nel rap­ porto con i genitori. Si avverte anche una perniciosa assen­ za di studi sulle vittime di una sorta di "sindrome di Stoc­ colma", in quanto innamoratesi di colui che di fatto le tiene prigioniere e che rischia di sottrarre loro non solo la felici­ tà e la libertà, ma anche la vita. Sembra quasi esista un pu­ dore nell'analizzare un fenomeno del genere. Una lodevo­ le eccezione è rappresentata dalla pubblicistica di Gianna Schelotto, una psicologa che ha dedicato i suoi recenti sfor­ zi intellettuali a coloro che chiama, con un termine la cui dolcezza stride con le storie raccontate, "donne girasole", in quanto portate, esattamente come i fiori resi celebri da Van Gogh, a girarsi da un lato, in questo caso per non ve­ dere l'oggettività di un rapporto deleterio. Pensano, infatti, che l'amore, la cura, la perseveranza, forse anche il Fato e il Caso riusciranno a sanare le ferite e a migliorare l'uomo. Una speranza vana, come ben sappiamo.>> Come abbiamo visto nel capitolo dedicato allo stalking, percorso terapeutico per chi perseguita la propria com­ pagna ha successo nel 30-40 per cento dei casi. Molti stu­ diosi ritengono infatti che tanto l'uomo che compie violenze in famiglia quanto la donna-vittima possano essere aiuta­ ti con terapie adeguate. Escludono, però, la psicoterapia di coppia, perché permette a lui di trovare delle giustificazioni al proprio comportamento e rischia di rinforzare il senso di colpevolezza nella donna. Inoltre può essere rischiosa per lei, perché ciò che dirà durante la seduta potrebbe essere utilizzato dal compagno per rinfacciarle qualcosa e aumen­ tare l'aggressività nei suoi confronti. Per la donna che subisce violenze all'interno della coppia e ha difficoltà ad ammetterlo, la terapia deve essere molto graduale per aiutarla a verbalizzare, a comprendere la sua esperienza e a criticarla. Bisogna darle il tempo di cambiare un

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il modo di leggere la situazione che sta vivendo, perché ciò che le era sembrato normale diventi inammissibile. I collo­ qui servono anche a permetterle, senza stimolarla, di pren­ dere una decisione sul suo futuro. Con il tempo, le vittime riacquistano l'autostima e si rendono conto di essere capaci di vivere autonomamente, fuori dall'inferno della coppia. Se invece non vogliono abbandonare il compagno, impa­ reranno a porre dei limiti al suo comportamento. Se prima si chiedevano: «Sono abbastanza innamorata da sopporta­ re tutto questo?», ora si chiederanno: «È giusto che io sop­ porti tutto questo?». Per l'uomo violento la strada da percorrere è più com­ plicata, perché difficilmente lui prende da solo la decisione di seguirla, visto che spesso attribuisce la colpa dei propri problemi alla compagna: al suo modo di fare provocatorio o esigente se sono ancora insieme, al suo abbandono o tra­ dimento se sono separati. Di solito, gli uomini che accetta­ no di cambiare preferiscono una terapia di gruppo, in modo da condividere con altri i propri problemi e poter parlare della loro relazione difficile. Se però, nel corso delle sedute, lo specialista si accorge che il paziente manifesta problemi legati a violenze o abusi subiti durante l'infanzia, preferi­ rà condurre una terapia personalizzata. In Spagna, il primo programma di assistenza per uomi­ ni violenti è stato organizzato nel 1 995. Lo scopo era quel­ lo di proteggere le donne che decidevano di non abbando­ nare il compagno. Massimo Lattanzi spiega che la Spagna è all'avanguardia anche per quanto riguarda l'aiuto alle vittime di questo reato, grazie alla costruzione di palazzi­ ne protette in cui le donne possono soggiornare per mesi, mentre vengono sostenute economicamente e aiutate a in­ serirsi nel mondo del lavoro. Lattanzi, però, come del re­ sto molti altri esperti in materia, sostiene che una terapia è importante per aiutare non solo le vittime, ma anche gli ag­ gressori. «l centri di accoglienza per le vittime sono molto utili, ma per cambiare il sistema bisogna aiutare gli stalker. Ci raccontano che la notte non riescono a dormire e quan­ do si alzano al mattino si sentono invasi di nuovo dall'os-

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sessione di perseguitare la loro ex compagna. Spesso, per­ dono il lavoro o vi si dedicano in modo compulsivo, hanno problemi di anoressia, di ansia. Per tentare di affrontare il problema, io e un'équipe di psicologi, psicoterapeuti, le­ gali, sociologi abbiamo attivato uno sportello d'ascolto, e lavoriamo anche con il sindacato di polizia. Ma per trova­ re soluzioni davvero efficaci è necessario realizzare studi e ricerche, così come è importante parlare nelle scuole, con i bambini e gli adolescenti.)) Le case di accoglienza sono in genere una soluzione tem­ poranea. Nei mesi in cui vi vengono ospitate, le donne ri­ solvono problemi basilari e immediati come l'alloggio e il vitto, inoltre vivono in un ambiente solidale e affettuoso. Le difficoltà ricominciano quando lasciano il rifugio, quan­ do devono affrontare da sole la realtà quotidiana senza un luogo dove abitare e un lavoro che garantisca la sopravvi­ venza a loro e, spesso, anche a uno o più figli. Purtroppo, alcune sono costrette a tornare dagli aggressori, perché non sono autonome economicamente e non hanno familiari o parenti in grado di sostenerle. È necessario mettere a loro disposizione un'ampia gamma di soluzioni, e in uno Stato sociale questo significa mezzi che le aiutino a sostentarsi e a reintegrarsi socialmente quando rompono la relazione con i loro compagni: uno stipendio sociale, servizi di as­ sistenza legale e psicologica gratuiti, formazione profes­ sionale, accesso prioritario a finanziamenti pubblici. Oltre, naturalmente, alla garanzia della loro sicurezza personale. Intervenire in una situazione di violenza coniugale non può essere un atto improvvisato: occorre ascoltare e com­ prendere le donne che subiscono abusi, vincendo a volte la loro reticenza a confidarsi e aiutandole a riprendere il con­ trollo della propria vita. Devono essere perfettamente in­ formate dei loro diritti, che spesso non conoscono. Molte non sanno a chi rivolgersi, temono perfino di consultare i servizi sociali perché hanno paura di perdere l'affidamento dei figli. Sono animate da sentimenti contraddittori, anche perché nel momento in cui decidono di separarsi l'uomo

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tenta di trattenerle con ogni mezzo, dalla seduzione alla violenza. Molte evitano la separazione perché, oltre alle rappresaglie del marito, temono la solitudine o i problemi materiali. Sono stanche e nervose, si sentono abbandonate, provano nn vago senso di vergogna e colpevolezza, hanno perso l'autostima e, a volte, la propria identità. Se nascon­ dono i soprusi, lo fanno per proteggersi, per non affronta­ re nna situazione difficile da sopportare. A volte, quando la polizia arriva in una casa, chiamata per abusi su nna donna, può accadere che la vittima mini­ mizzi quello che è successo. Lo fa perché sa che i poliziot­ ti poi se ne andranno e lei rimarrà sola con l'aggressore, oppure, se l'uomo viene arrestato, appena tornerà libero darà sfogo a tutta la sua collera. Molte preferiscono tace­ re. Se hanno chiamato la polizia, è solo nella speranza di porre fine a nna situazione contingente di violenza che le terrorizza. Poiché la separazione è spesso il momento di maggiore rischio per la donna, in questi casi sarebbe opportuna una mediazione familiare. Si tratta di una disciplina trasversa­ le che utilizza sociologi, psicologi e avvocati per risolvere i conflitti che nascono nell'ambito di una coppia. Negli ul­ timi anni si è diffusa la figura del counselor, che svolge un intervento di tipo preventivo per impedire, dagli iniziali segnali di allarme, che una situazione di coppia a rischio diventi problematica. Mi spiega Giulio Contini, vicepresidente di A.R.Co.S. (Associazione romana counseling socioanalitico e delle scienze umane), che il counseling, in particolare quello so­ cioanalitico, volto cioè all 'osservazione delle relazioni in­ tercorrenti fra più persone, è essenzialmente un intervento professionale di ascolto, chiarimento e sostegno personale a individui che attraversano una determinata fase di cam­ biamento o di evoluzione del proprio percorso di vita. De­ stinataria può essere, in questo caso, la coppia stessa. È uti­ le in situazioni di mediazione familiare, o di affidamento della prole, in una crisi sentimentale o semplicemente per una scelta da maturare insieme con consapevolezza. «Essen-

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do una relazione d'aiuto (e non una terapia in senso stret­ to) non si rivolge a "pazienti tout court", bensì a "clienti": termine scelto per far intendere che i fruitori dell'interven­ to non sono individui bisognosi di cure o ristrutturazioni della personalità, ma esseri umani consapevoli di una pro­ pria condizione di disagio e che scelgono responsabilmen­ te di mettere in atto nuove tattiche per modificare concre­ tamente il proprio percorso, presente e futuro. «Come primo passo, in genere, faccio un colloquio pre­ liminare nel quale cerco di capire qual è la situazione e chi (e perché) nella coppia la avverte come "problematica". Mi è d'aiuto per stabilire chi sarà "il cliente", ossia il vero fruito­ re dell'intervento di counseling. Se, per esempio, una perso­ na venisse da me desiderosa di modificare il rapporto con il partner (e quest'ultimo, invece, non ne avesse la minima intenzione), sarebbe utile farle capire che costringere l'altro a compiere un percorso contro la sua volontà non darebbe alcun risultato. Potrebbe però farlo da sola, e modificare di conseguenza la situazione. La persona che si assume la re­ sponsabilità del cambiamento sarà il cliente. È un concetto importante: anche un singolo cambiamento personale può infatti avere effetto su un'intera dinamica di coppia. Poi cer­ co di spiegare la mia necessità di saggiare la reale motiva­ zione al cambiamento delle persone coinvolte, per evitare frustranti malintesi. Se non si è veramente motivati, non si va da nessuna parte. Infine, cerco di capire qual è il proble­ ma, quanto spesso si verifica, quali sono le eccezioni e so­ prattutto quali i passati tentativi di soluzione. In ogni fase tengo a mente i capisaldi del buon intervento: la non diret­ tività (non dirò mai a una persona cosa deve fare), l'empatia e l'astensione da qualsivoglia giudizio di valore (non signi­ fica che approvi qualunque cosa mi venga detta, ma se de­ sidero che le persone si aprano con me, devo essere in gra­ do di accettare tutte le loro debolezze e fragilità). In genere, le protagoniste d'elezione del counseling di coppia sono le donne: sono più sensibili ai cambiamenti e hanno più faci­ lità ad aprirsi emotivamente, al contrario degli uomini, che spesso tentano di evitare il confronto.»

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A richiedere questa consulenza sono di solito coppie di quarantenni con figli, sposate da circa cinque o sei anni. Nella maggior parte dei casi, le donne prendono l'iniziati­ va con una mail o una prima telefonata interlocutoria, per poi arrivare al colloquio preliminare. «Sto assistendo a un maggiore coinvolgimento iniziale da parte dei maschi; si sta perdendo l'insana idea che si debba essere deboli o biz­ zarri per usufruire di un momento di chiarimento persona­ le. In genere, io mi complimento con loro, perché testimo­ niano una messa in discussione di sé e una determinazione nel voler risolvere un problema. Richiedere un chiarimen­ to non significa essere deboli, semmai significa non fare lo struzzo e affrontare una situazione.» Contini spiega l'aumento di aggressività maschile in al­ cuni rapporti con la difficoltà di ridefinire in modo costrut­ tivo e coerente il proprio ruolo all'interno della coppia del Duemila. «Oggi è la regola vedere coppie in cui entram­ bi i partner lavorano, spesso svolgendo mansioni simila­ ri e in ogni caso con introiti in gran parte paragonabili tra loro. Di sicuro, sono entrambi indispensabili per il mante­ nimento del tenore di vita standard delle coppie occidentali dell'epoca attuale. Ciò ha determinato un progressivo con­ solidamento della condizione femminile e un cambiamento di quella maschile. A questa trasformazione epocale a livel­ lo di società non si è, però, accompagnato un cambiamento "interno" nei modi di considerarsi coppia: l'uomo si vede spesso disorientato e mancante dei propri punti di riferi­ mento, la donna invece diventa più sicura e, in definitiva, padrona del proprio destino. Non stupisce che in certi casi, purtroppo, alcuni uomini decidano di reagire allo stress sen­ timentale nell'unico modo che ritengono tuttora valido per sancire e sottolineare la loro diversità con l'altro sesso: con la maggiore forza fisica.» Ma anche nella mediazione familiare si verificano nu­ merosi insuccessi. Racconta Contini: «Ho assistito un'av­ vocatessa in un caso di stalking da parte del suo ex com­ pagno (un militare di carriera), che non si rassegnava alla fine della loro storia. L'uomo le mandava ripetuti messag-

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gi minacciosi sul telefonino, a mio parere preoccupanti, ai quali lei rispondeva in modo troppo ambiguo e accondi­ scendente. Sembrava, cioè, che se da una parte ne era im­ paurita, dall'altra quasi ne fosse lusingata. Come counselor, le ho fatto presente che avevo il dovere professionale di av­ vertire le autorità giudiziarie. La donna continuò a venire per qualche incontro, senza troppa convinzione, e poi smi­ se. Non si presentò al colloquio, ma dopo qualche tempo mi mandò un messaggio in cui mi diceva di essere in realtà ancora innamorata dell'uomo. A tutt'oggi, lo ritengo il mio primo caso reale di "sindrome del carceriere")). Vincenzo Mastronardi spiega come la sindrome del carce­ riere, o sindrome di Stoccolma, colpisca anche alcune don­ ne vessate dai loro mariti. «Avviene esattamente quanto accaduto nella città di Stoccolma nel 1973, quando, in se­ guito a una rapina presso la Kreditbanken, furono prese in ostaggio sessanta persone per sei giorni. Una di loro (di­ pendente della banca) instaurò un forte legame sentimen­ tale con uno d�i rapinatori. A fronte di un'estrema !abilità emozionale, attraverso un processo psicologico che la no­ stra mente mette istintivamente in atto, si realizza la neces­ sità emozionale di umanizzare ai propri occhi l' aggresso­ re: "Se me ne innamoro, non lo temo; se c'è amore tra noi, non posso temerlo". Questo è ciò che avviene in molti sog­ getti e, specificamente, nei rapporti di coppia, dove molto spesso la personalità più forte conduce e quella più debo­ le ha necessità di adeguarsi. Quest'ultima, se caratterizzata da un alto potenziale vittimale, per timore finirà per subire e quindi accettare tutto ciò che l'altro impone. È proprio in questo modo che successivamente, per processi di patolo­ gico attaccamento da parte del carnefice e paura dell' even­ tuale perdita, può realizzarsi il fenomeno delle molestie as­ sillanti, lo stalking.)) Nel 2010, una ricerca effettuata al St Michael's Hospital di Toronto ha evidenziato il fatto che la metà delle donne oggetto di violenza da parte del partner continuava a con­ siderarlo una persona affidabile, paziente e premurosa, e non aveva intenzione di abbandonarlo. Possiamo quindi

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affermare che una delle grandi tragedie di ogni forma di abuso è la dipendenza emotiva che la vittima può prova­ re nei confronti del suo carnefice. Gli americani chiamano questo fenomeno traumatic bonding. Gli attentati dell'uomo contro l'autostima della donna, l'impedirle di realizzarsi nel lavoro, l'isolamento dagli altri esseri umani, gli effetti psi­ cologici che hanno su di lei le minacce e le aggressioni, ma soprattutto la paura costante e il senso di impotenza pos­ sono portarla a un rapporto di dipendenza dal quale non riesce a liberarsi. Più lunga è la relazione violenta, più forte può diventare la dipendenza emotiva che fa sentire la donna debole, inca­ pace e priva del diritto di decidere autonomamente. Perde gradualmente tutta la stima in se stessa. Le vittime si adat­ tano per sopravvivere. Il legame con il «carnefice» diven­ ta ambiguo: odio e amore, paura e speranza. Un rapporto patologico tra perseguitata e aggressore che, a causa delle manipolazioni che subisce, impedisce alla donna di andar­ sene. Alcune sono portate a colpevolizzarsi, perché non ri­ tengono possibile che il loro compagno le maltratti senza un valido motivo. Cercano allora in se stesse, nel proprio comportamento, la causa delle violenze subite. Vivono in uno stato di insicurezza e confusione che non permette loro di allontanarsi dal proprio aguzzino, mettono in atto stra­ tegie emozionali per sopravvivere e si concentrano sui mo­ menti di gentilezza del partner, rimuovendone la brutalità. Come nella strategia dissociativa descritta in un preceden­ te capitolo, la vittima entra in uno stato di resistenza pas­ siva in cui accetta la situazione e si adatta al modello men­ tale del compagno, accogliendo le sue giustificazioni.