Il terribile segreto. La congiura del silenzio sulla "soluzione finale" 8885943063, 9788885943063

Ciò che affermo è che questa testimonianza, che viene dopo tante altre e che descrive un abominio del quale potremmo cre

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Italian Pages 318 [163] Year 1995

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Il terribile segreto. La congiura del silenzio sulla "soluzione finale"
 8885943063, 9788885943063

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Walter Laqueur IL TERRIBILE SEGRETO La congiura del silenzio sulla "soluzione finale" Giuntina, Firenze 1983

Traduzione di Daniel Vogelmann

Titolo originale: "The Terrible Secret", Weidenfeld and Nicolson, London. Copyright 1980 Walter Laqueur. Copyright 1983 Editrice La Giuntina, Via Ricasoli 26, Firenze.

INDICE Introduzione: p. 4. Note all'Introduzione: p. 29. 1. La Germania: un muro di silenzio?: p. 32. Note al capitolo 1: p. 72. 2. I neutrali: "Rapporti concordi e attendibili": p. 79. Note al capitolo 2: p. 119. 3. Gli Alleati: "Voci non controllate ispirate da timori ebraici": p. 124. Note al capitolo 3: p. 183. 4. Le notizie dalla Polonia: p. 190. Note al capitolo 4: p. 226. 5. Gli ebrei nell'Europa occupata dai nazisti: rifiuto e accettazione: p. 230. Note al capitolo 5: p. 290. 6. L'ebraismo mondiale: da Ginevra ad Athlit: p. 294. Note al capitolo 6: p. 360. Conclusione: p. 368. Note alla Conclusione: p. 390. Appendici: p. 392. 1. I collegamenti con l'Abwehr; 2. Commenti della stampa sull'Olocausto nell'Europa occupata dai nazisti; 3. Il Foreign Office e le notizie dalla Polonia: luglio-dicembre 1942; 4. Il dipartimento di stato e la dichiarazione delle Nazioni unite del 17 dicembre 1942; 5. Le missioni di Jan Karski, Jan Nowak e Tadeusz Chciuk. Note alle Appendici: p. 445. Nota sulle fonti: p. 448. Note (con riferimento alle fonti): p. 451.

INTRODUZIONE Il 15 aprile 1945 alcune unità del reggimento britannico anticarro entrarono a Bergen Belsen dopo una tregua conclusa col comandante locale dell'esercito tedesco. Il colonnello Taylor, che comandava il reggimento, dopo una prima ricognizione che aveva rivelato una deplorevole situazione, scrisse nel freddo linguaggio del suo rapporto ufficiale: "Mentre percorrevamo la strada principale del campo fummo acclamati dagli internati e per la prima volta vedemmo le loro condizioni. Molti erano poco più che scheletri viventi. C'erano mucchi di uomini e donne che giacevano su entrambi i lati della strada. Altri camminavano lentamente e senza meta con un'espressione di vuoto sul volto scavato

dalla fame" (1). C'erano diecimila corpi insepolti, molti dei quali in avanzato stato di decomposizione. Il primo ufficiale britannico a entrare nel campo fu Derrick Sington, giornalista nella vita civile e buon conoscitore del tedesco. Era stato mandato avanti con i primi carri armati per fare un annuncio con l'altoparlante. Egli scrisse: "Avevo cercato di immaginare l'interno di un campo di concentramento, ma non l'avevo immaginato così. Né avevo immaginato quella strana folla scimmiesca che si accalcò ai reticolati, con le loro teste rapate e le loro oscene uniformi, che erano così disumanizzanti. Avevamo trovato gratitudine e buona accoglienza in Francia, Belgio e Olanda. Eravamo stati festeggiati, abbracciati e ringraziati a Parigi. In un villaggio fiammingo il nostro autocarro era stato riempito di pomodori e di pere mentre la gente, felice, ci offriva boccali di birra fresca. Ma le incerte acclamazioni di questi uomini quasi perduti, di questi pagliacci nei loro terribili vestiti variopinti... suscitavano un'emozione più forte e a fatica trattenni le lacrime" (2). Nei giorni seguenti le notizie sugli orrori di Belsen vennero trasmesse in tutto il mondo, centinaia di giornalisti visitarono il campo e alcune settimane dopo la gazzetta ufficiale britannica nella zona occupata scriveva: "La storia della più grande dimostrazione di 'disumanità dell'uomo verso l'uomo' che fu il campo di concentramento di Belsen è conosciuta in tutto il mondo". Tutto il mondo ne fu profondamente colpito e, come disse il giornale del comando militare, si sentì unito nella decisione di "cancellare Belsen dalla faccia della terra". Gli ufficiali britannici, i tedeschi che vivevano nelle vicine cittadine di Winsen e di Schwarmstedt, tutti erano stati presi alla sprovvista dall'incredibile spettacolo offerto da Belsen. Il corrispondente del "Times" iniziò il suo dispaccio su Belsen nel modo seguente: "E' mio dovere descrivere qualcosa che va oltre l'immaginazione umana". Il caso di Belsen era incredibile per più di una ragione. Tre anni erano passati da quando il mondo era stato informato per la prima volta dell'esistenza dei campi di sterminio. Si erano avute molte notizie particolareggiate sui nomi di questi campi, sulla loro ubicazione, sui milioni di uomini che vi erano stati uccisi, e perfino sui nomi dei comandanti. Ma, al pari del capitano Sington, nessuno aveva praticamente immaginato come poteva essere un campo di concentramento. E così Belsen scatenò un'ondata di ira violenta, anche se, ironicamente, non era affatto un campo di sterminio, e neanche un campo di concentramento, ma un "Krankenlager", un campo per ammalati, sebbene, per ammissione generale, l'unica cura offerta ai ricoverati fosse la morte. I campi in cui veniva praticato lo sterminio sistematico avevano cessato di funzionare alcuni mesi prima. In confronto ai campi della morte, Belsen fu quasi un posto idilliaco; non c'erano camere a gas a Belsen, né esecuzioni in massa: si moriva semplicemente di malattia o di fame. Ma allora fu considerato il peggiore abominio possibile, e gli sfortunati comandanti e guardie di Belsen furono i primi a venire processati, mentre i loro colleghi dei campi della morte dell'Europa orientale sarebbero comparsi in tribunale soltanto molti anni dopo e alcuni di loro non sarebbero mai stati giudicati. Qualcuno era morto o scomparso, altri erano troppo vecchi o troppo malati, i testimoni avevano dimenticato o erano morti, troppo tempo era passato. C'era stato un flusso continuo di informazioni, ma evidentemente non avevano avuto effetto. Oppure si era forse trattato di vaghe voci a cui non si poteva dar credito perché non c'era modo di verificarle? C'è, in breve, un problema irrisolto. In questo libro ho cercato di fornire delle risposte alle seguenti domande: quando cominciarono le notizie sulla "soluzione finale" a essere conosciute dagli ebrei e dai non ebrei? Attraverso quali canali furono trasmesse? Quale fu la

reazione di chi le ricevette? Da una parte questo è uno studio sul flusso di informazioni del tempo di guerra, che mostra che la Germania nazista non era una società ermeticamente chiusa, che malgrado la segretezza e la disinformazione la soluzione finale fu un segreto di dominio pubblico quasi fin dall'inizio. Ma tratta anche questioni conoscitive più vaste: qual è il significato di "sapere" e di "credere"? Il problema venne posto molto succintamente dal giudice Frankfurter in un incontro, durante la guerra, con Jan Karski, un emissario polacco da poco arrivato, che gli parlò della carneficina che avveniva in Europa. Frankfurter disse a Karski che non gli credeva. Quando Karski protestò, Frankfurter gli spiegò che con questo non voleva insinuare che egli non avesse detto la verità, ma che semplicemente non poteva credergli. Questo studio è nato dall'invito di tenere l'annuale conferenza in memoria di Leo Baeck a New York il 12 novembre 1979. Avevo letto molto su questo periodo estremamente tragico nella storia del popolo ebraico. Ma non sono uno specialista della soluzione finale e ho scritto su di essa solo raramente e con riluttanza. Cionondimeno, il quesito "Cosa si sapeva?" e "Perché non ci si credeva?" mi aveva turbato sempre più negli ultimi anni, e questo per due diverse ragioni. In primo luogo, perché esso è ancora uno degli enigmi che rendono così difficile la comprensione della catastrofe; in secondo luogo perché esso è, naturalmente, collegato con un problema più generale, quello della negazione della realtà, del rifiuto psicologico di informazioni che per una ragione o per l'altra non sono accettabili. Ciò, fino a un certo punto, può essere un normale meccanismo di difesa, perché, naturalmente, è impossibile vivere costantemente nell'attesa del peggio: anche il più grave ipocondriaco non crede veramente di essere in punto di morte. Gli uomini credono volentieri, come Giulio Cesare e molti altri hanno notato, a ciò che desiderano, e c'è un'enorme resistenza ad accettare ciò che è estremamente indesiderabile. Ma oltre un certo punto, opporre a inconfutabili informazioni un tale atteggiamento diventa difficile da comprendere. Che cosa spinge esseri umani altrimenti normali, a volte anche assai intelligenti, a negare la realtà, sebbene evidente? Si tratta chiaramente di un problema di giudizio più che di intelligenza. Il giudizio può essere determinato da moltissimi fattori: il pregiudizio ideologico può essere così forte da escludere ogni informazione sgradita; uno stato d'animo, come un ottimismo o un pessimismo infondato, possono influenzarlo, e ci sono tantissime altre possibilità. Qualunque ne sia la ragione, questo comportamento è ancora misterioso e il mistero si infittisce se le questioni in gioco non sono eventi di marginale importanza o lontani, ma reali pericoli per la sopravvivenza del proprio gruppo o di se stessi. Per tornare alle informazioni sulla soluzione finale, avevo precipitosamente supposto che, essendo già stato fatto il lavoro preparatorio, sarei stato capace di sistemare la documentazione in un modo più o meno ordinato e di presentare poi le mie conclusioni. Mi resi invece presto conto che era stato fatto molto meno lavoro preparatorio di quanto pensassi, che la documentazione era immensa e spesso contraddittoria, che molto materiale importante non era mai stato analizzato criticamente, in parte perché non disponibile fino a poco tempo prima, e che altra documentazione continuava a restare inaccessibile e che forse lo sarebbe stata per sempre. Mi resi anche conto che sarebbe stato uno sforzo inutile quello di mirare a un esame sistematico e comprensivo di tutti i fatti inerenti a questo argomento. Perché le notizie erano trasmesse attraverso dozzine di canali e venivano da migliaia di persone, e assai spesso oralmente. Anche se c'era stata in precedenza una documentazione scritta, era frequentemente scomparsa. La storia dei due più importanti canali di informazioni non verrà mai scritta. Parlo soprattutto della rete di contrabbandieri polacchi, ungheresi e slovacchi, vecchi e giovani, professionisti e dilettanti, ebrei e non ebrei, che portavano le notizie nei ghetti, trasmettevano

messaggi a individui e comunità, e andavano anche, per grandi somme di denaro, in missioni speciali alla ricerca di persone scomparse. Essi sostennero una specie di servizio privato di messaggeri durante tutta la guerra. Ma anche la posta regolare continuò a funzionare in Europa, un fatto frequentemente trascurato. Lettere e cartoline venivano spedite da una città polacca all'altra, e anche dall'Europa occupata dai nazisti nei paesi neutrali. Alcune di queste lettere esistono ancora e dimostrano che dove il servizio postale funzionava le informazioni potevano essere trasmesse nello spazio di pochi giorni, o al massimo di poche settimane, dopo ogni importante avvenimento. Ma ne esiste ancora soltanto una piccola parte. Per ogni lettera di cui conosciamo l'esistenza possono essercene state dieci o più che sono andate perdute. Per ogni lettera conservata in una raccolta pubblica ce ne possono essere molte in mani private. Ho deciso ben presto, nel mio lavoro, di limitarmi ad alcuni esempi. Un tale criterio selettivo può essere sempre criticato. Purtroppo è l'unico possibile, data l'immensa quantità di documentazione. Ma le vere difficoltà iniziano soltanto ora. Il fatto che una lettera fu scritta, che raggiunse il destinatario e che fu letta non significa molto di per sé. Non significa ovviamente che certe informazioni fossero diventate pubbliche. Anche la pubblicazione di una notizia sulla stampa autorizzata, o a maggior ragione su quella clandestina, non è una prova decisiva del fatto che sia stata attentamente letta ed effettivamente creduta. Il fatto che alcune importanti notizie vennero radiotrasmesse dalla resistenza polacca a Londra non significa necessariamente che il Gabinetto di guerra britannico ne fosse al corrente. Forse le notizie furono lette soltanto da qualche ufficiale polacco ma non furono diffuse; forse furono trasmesse all'esecutivo per le operazioni speciali (S.O.E.) o al servizio informazioni del Foreign Office ma archiviate da qualche mediocre burocrate perché ritenute di scarsa importanza. E' generalmente difficile provare se una particolare notizia sia largamente circolata; è quasi impossibile dire se le fu dato credito. Ma se non c'è nessuna certezza, ci sono tuttavia vari livelli di probabilità. L'arrivo di una lettera in una comunità che conta molte migliaia di persone non significa molto, mentre l'effetto dell'arrivo di molte lettere contenenti lo stesso messaggio non può essere facilmente annullato. La pubblicazione di una notizia o la ricezione di un messaggio attraverso canali diplomatici o segreti non è necessariamente un fatto di grande importanza, soprattutto se va contro ogni precedente esperienza. Ma se ci sono ripetuti resoconti da parte di fonti indipendenti, chi li riceve sarà costretto a prestare attenzione. Potrà ancora rifiutare l'informazione, ma non potrà più ignorarla. In questo studio prendo in esame il periodo che va dal giugno 1941, l'invasione tedesca dell'Unione Sovietica, alla fine del 1942. L'importanza di queste due date come punti di riferimento fondamentali può essere messa in discussione. Si può sostenere che la vera svolta fu la conferenza di Wannsee del gennaio 1942, e che, poiché i maggiori campi di sterminio cominciarono a operare soltanto nell'estate del 1942, nessuna informazione importante avrebbe potuto provenire dall'Europa orientale prima di quella data. Una volta anch'io condividevo questa opinione ma adesso non più. La conferenza di Wannsee fu l'occasione in cui Eichmann convocò influenti rappresentanti di vari ministeri tedeschi perché aveva bisogno del loro aiuto per accelerare la soluzione finale. Fu una nuova importante fase, ma non fu l'inizio. Nei sei mesi precedenti questa conferenza, più di mezzo milione di ebrei erano già stati uccisi dalle unità speciali delle S.S., le "Einsatzgruppen", e già funzionava il primo centro di sterminio (Chelmno). Se le Einsatzgruppen avessero continuato la loro attività assassina per tutta la guerra, quattro milioni di ebrei sarebbero comunque stati uccisi. Queste unità non si impegnarono in pogrom ma in un sistematico assassinio, e perciò non è plausibile trascurare gli avvenimenti precedenti il gennaio 1942.

Si può sostenere che la decisione di concludere la mia ricerca al dicembre 1942 sia arbitraria. La storia è una tela senza cuciture e quindi ogni periodizzazione è arbitraria, ma cionondimeno delle linee devono essere tracciate. Al dicembre 1942 le istituzioni ebraiche non europee avevano dichiarato giorni di lutto e le Nazioni unite (a) avevano confermato le notizie sui massacri in una dichiarazione comune. Le notizie erano state radiotrasmesse in tutto il mondo e pubblicate in tutti i maggiori giornali fuori dell'Europa occupata dai nazisti. La maggioranza degli ebrei dell'Europa orientale conosceva la realtà, così come milioni di tedeschi e di altri residenti nell'Europa occupata dai nazisti. Ogni governo europeo aveva sentito queste notizie, anche se non necessariamente la maggior parte dei suoi cittadini. Ci sono quindi buone ragioni per concludere la ricerca alla fine del 1942, anche se molti vennero a sapere della soluzione finale soltanto diversi anni dopo; alcuni, dopotutto, si rifiutano di accettarla fino a oggi (b). Le questioni sollevate in questo libro non possono avere una risposta complessiva. Il fatto che alcune informazioni fossero conosciute nel ghetto di Varsavia non significa che fossero ugualmente conosciute a Lodz o a Vilna, per non parlare degli ebrei di Berlino, di Amsterdam o di Salonicco. Se il governo svedese ricevette certe notizie nel luglio 1942 questo non vuol dire che la Croce Rossa o il servizio segreto britannico ne venissero a conoscenza poco dopo. Ho dovuto dividere la mia indagine in cinque ampie sezioni, occupandomi prima della Germania, dei suoi alleati e stati satelliti, poi delle nazioni neutrali che, sotto molti aspetti, ebbero notevoli fonti di informazioni. Mi occupo poi dei canali attraverso i quali le notizie arrivarono agli Alleati, e, nell'ultima parte, di ciò che sapevano gli ebrei sia all'interno dell'Europa occupata dai nazisti che altrove (negli Stati Uniti, in Gran Bretagna e in Palestina). Infine dedico una speciale sezione alla Polonia, il paese in cui gran parte della carneficina ebbe luogo e dal quale provenne il maggior numero di informazioni. Un certo sovrapporsi fra queste sezioni è risultato inevitabile; io ho cercato di limitarlo al minimo. Vorrei ripetere ancora una volta che questo non è uno studio sull'Olocausto - un termine particolarmente inappropriato (c) - né su aiuti, salvataggi o resistenza, e neanche sul comportamento degli ebrei, dei nazisti e degli Alleati, ma su un argomento molto più limitato. In un generico libro sulla soluzione finale, non solo avrebbe potuto cambiare l'importanza data a certi fatti ma anche il mio giudizio; questo sia per quanto riguarda gruppi che individui. La questione principale in questo studio è se le notizie furono soppresse o no, e se furono credute. E' perfettamente vero che alcuni di coloro che erano stati i primi a suonare l'allarme fecero poi poco o niente per aiutare gli ebrei rimasti, mentre alcuni, che inizialmente si erano rifiutati di credere alle notizie, in seguito fecero molto per aiutarli. Ci sono altri libri che trattano questi argomenti e la letteratura si sta ancora arricchendo. A prescindere da difficoltà di ricerca e di organizzazione, c'è una grande trappola in cui si può cadere in un lavoro di questo genere: le tentazioni del senno di poi. Nulla è più facile che distribuire lodi e biasimi, scrivendo molti anni dopo gli eventi: alcuni storici trovano la tentazione irresistibile. Ma la soluzione finale, forse più di ogni altro soggetto, dovrebbe essere affrontata con cautela e perfino con umiltà. E' molto facile dichiarare che tutti avrebbero dovuto sapere cosa sarebbe successo una volta che il fascismo fosse andato al potere. Ma un approccio del genere non è storico. Il nazismo fu un fenomeno senza precedenti. Nell'Italia fascista, con tutti i suoi mali, è pur vero che durante i venti anni della sua esistenza soltanto una ventina di nemici dello stato (o di Mussolini) vennero giustiziati, e di questi alcuni avevano effettivamente compiuto azioni terroristiche. Non c'era nessun precedente nella recente storia europea per quanto riguarda la brutale natura del nazionalsocialismo tedesco, e perciò molti contemporanei furono colti impreparati. Per capire questa riluttanza - non soltanto in Gran Bretagna e negli

Stati Uniti ma anche all'interno della Germania e perfino fra gli stessi ebrei - di dar credito alle notizie sui massacri, bisognerebbe considerare l'influsso che ebbe storicamente la propaganda sulle supposte atrocità commesse durante la prima guerra mondiale. Mentre essa non era stata certo la prima guerra in cui erano state fatte asserzioni circa grandi massacri e indicibili crudeltà, una tale campagna propagandistica non era mai stata condotta prima così sistematicamente e su scala così vasta. Entrambe le parti si impegnarono in siffatta propaganda, ma gli inglesi e i francesi con molta maggiore efficacia dei tedeschi, che dovettero ammettere dolorosamente di stare perdendo la guerra delle parole malgrado il grande sforzo compiuto per accusare i propri nemici (e specialmente i cosacchi nella Prussia orientale) di ogni possibile crimine. Le denunce occidentali di atrocità tedesche cominciarono con la violazione della neutralità del Belgio da parte dei tedeschi nell'agosto 1914. I tedeschi - si disse - avevano violentato donne e perfino bambini, impalato e crocifisso uomini, mozzato lingue e seni, cavato occhi e bruciato interi villaggi. Queste notizie non venivano pubblicate soltanto in giornali scandalistici ma portavano anche la firma di famosi scrittori, da John Buchan e Arthur Conan Doyle ad Arnold Toynbee, per citare solo qualcuno (3). Questa propaganda continuò per tutto il 1914 e il 1915, diminuì un po' d'intensità nel 1916, ma raggiunse un nuovo culmine nell'aprile 1916 quando la stampa britannica cominciò a pubblicare notizie e commenti sull'uso dei cadaveri dei soldati, da parte dei tedeschi, per la produzione di lubrificanti come glicerina e sapone. Inoltre, probabilmente a beneficio della Cina e dei paesi musulmani, si aggiunse che dai cadaveri si otteneva anche cibo per maiali. C'erano in effetti in Germania simili impianti ("Kadaververwertungsanstalten") ma vi si trattavano cadaveri di animali e non di esseri umani. Comunque tali notizie non rappresentavano un'eccezione; perfino autorevoli giornali come il "Financial Times" pubblicavano resoconti secondo i quali lo stesso Kaiser aveva ordinato di torturare bambini di tre anni e aveva personalmente specificato quali torture dovevano essere eseguite. Il "Daily Telegraph" riferì nel marzo 1916 che gli austriaci e i bulgari avevano ucciso 700 mila serbi usando gas asfissianti. Alcuni lettori si ricordarono probabilmente di queste storie quando nel giugno 1942 il "Daily Telegraph" fu il primo a riferire che 700 mila ebrei erano stati gassati. Perché, quando la prima guerra mondiale finì, ci si accorse ben presto che molte di queste notizie erano state inventate - e alcuni lo ammisero chiaramente - o perlomeno enormemente esagerate. L'invasione del Belgio era stata effettivamente un crimine di guerra, molti civili belgi erano stati giustiziati dai tedeschi perché accusati, spesso senza alcuna prova, di resistenza armata, e ci fu un certo numero di ingiustificate distruzioni. Ma gli Alleati non erano stati sempre innocenti e, comunque, c'era una bella differenza fra questi atti e le accuse che erano state rivolte ai tedeschi. Alla metà degli anni venti, Austen Chamberlain, il ministro degli esteri, ammise in Parlamento che la storia della fabbrica di cadaveri era priva di fondamento. E non più tardi del febbraio 1938, alla vigilia di un'altra guerra, Harold Nicolson disse, anche lui alla Camera dei Comuni, che "abbiamo maledettamente mentito", che le menzogne avevano molto nociuto alla Gran Bretagna e che sperava di non rivedere una simile propaganda. Così, quando alla fine del 1941 e del 1942 giunsero nuovamente notizie su massacri, sull'uso di gas venefici e sulla produzione di sapone dai cadaveri, la tendenza generale era quella di non crederci, riferendosi spesso alle "lezioni" della prima guerra mondiale: nessuno voleva essere ingannato per la seconda volta nello spazio di una generazione. Non si teneva conto di due fatti fondamentali: prima di tutto che la Germania nazista del 1942 era un regime assai diverso dall'impero del 1914, e poi che anche nella prima guerra mondiale, sebbene in condizioni diverse, si ebbero in regioni lontane uccisioni in massa, come il massacro degli armeni. La propaganda svolta durante la prima guerra mondiale agì da deterrente;

non fu l'unico ostacolo psicologico a rendere così difficile l'accettazione di notizie tanto orribili, ma certamente uno dei più importanti. Anche ciò che era accaduto prima del 1939 in Germania e in Austria non poteva essere ragionevolmente considerato a quell'epoca come un logico preludio al genocidio. Da qui la riluttanza degli ebrei, sia in Europa che fuori, a credere alle notizie sulla soluzione finale. Accuse sono state rivolte ai polacchi, agli Alleati occidentali e ai dirigenti sovietici, al Vaticano e alla Croce Rossa e a quasi tutti gli altri per aver tradito gli ebrei. Questo studio non si occupa della questione dei soccorsi ma della trasmissione delle informazioni. Per tutti questi paesi e organizzazioni la catastrofe ebraica fu un problema marginale. Questo è particolarmente vero per i principali strateghi della guerra contro la Germania nazista. Il loro massimo scopo era quello di vincere la guerra contro Hitler. Ogni altra cosa era una faccenda di poco interesse e di scarsa importanza. Vincere la guerra non poteva essere, nel 1942, una preoccupazione secondaria perché il suo esito era tutt'altro che certo. Ma "tout comprendre" non vuol dire necessariamente "tout pardonner". Concesse tutte le circostanze attenuanti, resta comunque vero che pochi ne uscirono senza macchia. A tutti mancò la capacità di capire: sia ai dirigenti ebrei e alle comunità ebraiche in Europa e fuori, sia ai non ebrei in posizioni di primo piano nei paesi neutrali e alleati, i quali non si preoccuparono della cosa, o non ne vollero sapere, o soppressero addirittura le informazioni. Ci si chiederà se sarebbe stato veramente importante che il mondo avesse accettato la realtà dei massacri prima di quanto fece. Nessuno può saperlo. Molto probabilmente non ci sarebbe stata una gran differenza. Gli ebrei in Europa non avrebbero potuto sfuggire al proprio destino, quelli fuori d'Europa erano troppo deboli per aiutarli, e i neutrali e gli Alleati non avrebbero potuto fare molto di più di quanto fecero, che, come si sa, fu veramente molto poco. Ma non c'è nessuna certezza. E' improbabile che molti di coloro uccisi nel 1942 avrebbero potuto essere salvati. Militarmente, la Germania era ancora molto forte, il suo potere sui suoi alleati e satelliti intatto. C'erano comunque modi e mezzi per salvare qualcuno anche allora. Avrebbero potuto fallire, ma non furono neanche tentati. Così, oltre che la capacità di capire, mancò anche la capacità di cogliere le opportunità che ancora esistevano. Affronteremo di nuovo questa questione verso la fine del presente studio. Ora dovremo considerare brevemente la cronologia della soluzione finale, i precedenti a tutto ciò che seguì. Il 30 gennaio 1939 Hitler aveva dichiarato che nel nuovo mondo la razza ebraica in Europa sarebbe stata sterminata. Scoppiò la guerra, ma all'inizio non ci fu un piano preciso riguardo ai mezzi da impiegare per questo sterminio. E' vero che la struttura organizzativa era già stata creata nel settembre 1939, l'Ufficio centrale per la sicurezza dello stato, in cui c'era la sezione di Eichmann per gli affari ebraici. Ma non c'era una chiara politica. Come disse Heydrich alla fine del settembre 1939, c'era una meta finale, per il cui raggiungimento ci sarebbe voluto un certo tempo, ma i passi necessari per arrivarci potevano essere compiuti con maggiore o minore rapidità. Uno dei progetti discussi nel 1940 fu quello di concentrare gli ebrei europei nel Madagascar. Furono preparati piani particolareggiati, ma pochi mesi dopo furono archiviati. Nel frattempo gli ebrei polacchi venivano messi nei ghetti. I più grandi furono quello di Lodz (febbraio 1940) e di Varsavia (novembre 1940). Migliaia di ebrei furono deportati dall'Europa centrale alla volta di Lublino nella Polonia meridionale, che, a un certo momento, doveva diventare una "riserva" per tutto l'ebraismo europeo. Questo progetto fu scartato nel novembre 1940. Fino all'invasione tedesca dell'Unione Sovietica nel giugno 1941 c'erano state alcune uccisioni arbitrarie ma nessuna grande strage. Nei ghetti migliaia di persone morivano di malattie e di fame. Ma non c'era stato finora uno sterminio sistematico. Nel frattempo continuava l'emigrazione ebraica,

sebbene in minima scala, dall'Europa verso le Americhe, Shangai e qualche altro posto. Nel dicembre 1940 Hitler firmò la direttiva 21 ("Barbarossa") e poco dopo venne comunicato a Himmler e Heydrich di mettere a punto la soluzione finale della questione ebraica in Europa. Nei piani, non erano soltanto inclusi i paesi occupati, ma anche gli ebrei della Gran Bretagna e dell'Irlanda. Un ordine scritto non venne mai dato, e in un discorso di qualche anno dopo, davanti ad alcuni ufficiali delle S.S., Himmler ne spiegò il perché: di certe cose non doveva restare nessuna documentazione. All'inizio del maggio 1941 il nucleo delle Einsatzgruppen fu radunato nella Germania centrale. Dovevano esserci quattro di questi gruppi: il gruppo A doveva occuparsi dello sterminio degli ebrei nella Russia settentrionale; il gruppo B doveva operare nella zona centrale del fronte; il C nell'Ucraina settentrionale, e il D, il più piccolo, nell'Ucraina meridionale, in Crimea e nel Caucaso. Dovevano essere aiutati da diverse altre unità: la polizia ausiliaria, la sicurezza interna, i volontari locali (ucraini e baltici). Questi gruppi cominciarono le loro operazioni quasi immediatamente dopo l'invasione del 22 giugno, uccidendo 2000 ebrei a Bialystok il 27 giugno, e 7000 a Leopoli tre giorni dopo. Nei quattro mesi che seguirono spazzarono le regioni occupate e insieme ai loro alleati romeni uccisero nel sud circa 600 mila ebrei. Neanche l'arrivo dell'inverno rallentò queste operazioni, e nella primavera del 1942 ci fu una seconda ondata. Fu chiaro fin dall'inizio che le Einsatzgruppen non avrebbero potuto attuare da sole la soluzione finale. Le forze erano troppo ridotte e le operazioni erano limitate, dopotutto, alle regioni occupate della Russia. Per la Polonia e il resto d'Europa si rendeva necessaria un'organizzazione più accurata. Il 31 luglio 1941, Heydrich, capo della polizia di sicurezza, ricevette da Göring l'ordine di risolvere la questione ebraica "nel modo migliore, date le presenti condizioni". Le tecniche di sterminio esistevano già ma le installazioni dovevano essere ancora costruite e le comunità ebraiche dei diversi paesi dovevano essere trasportate nei campi. Ebbero luogo alcune riunioni per lo scambio di informazioni tecniche e il 20 gennaio 1942 fu convocata la conferenza di Wannsee. Ma già prima di allora erano iniziate le deportazioni dall'Europa centrale a Lodz e in altri ghetti, e il primo campo di sterminio, Chelmno, era già in funzione. Chelmno (Kulmhof), sul fiume Ner, venne inaugurato l'8 dicembre 1941; si uccideva in autocarri per mezzo dell'ossido di carbonio. Il secondo campo di sterminio fu istituito a Belzec nell'inverno del 1941-42. Belzec è un piccolo paese lungo la linea ferroviaria Lublino-Leopoli. Entrò in funzione verso la metà del marzo 1942. Le prime vittime furono ebrei di Lublino. Vi si uccideva per mezzo di gas venefici in camere a tenuta d'aria, collocate prima in baracche di legno e poi in un grande edificio di pietra (4). Sobibor, il terzo campo, situato sul fiume Bug nella Polonia orientale, non lontano dalla frontiera ucraina, fu pronto nel maggio 1942. Molti ebrei tedeschi, olandesi e slovacchi vi furono uccisi insieme a molti ebrei polacchi. Treblinka, uno fra i campi più grandi, è a nord-ovest di Varsavia. Le uccisioni vi cominciarono il 23 luglio 1942 con l'arrivo dei primi trasporti da Varsavia. Nei campi appena menzionati lo scopo era uno solo: uccidere. Auschwitz e Majdanek furono campi sia di lavoro che di sterminio, cosa che contribuì notevolmente a confondere il mondo esterno. Auschwitz fu, in effetti, il più grande dei campi di sterminio ma fornì anche manodopera a parecchie fabbriche. Un campo di concentramento vi era già stato istituito, al confine fra la Galizia occidentale e l'alta Slesia, nel maggio 1940 ma i prigionieri erano soprattutto polacchi. Nell'ottobre 1941 fu aggiunto un secondo campo, Auschwitz 2° (Birkenau), nel quale furono concentrati gli ebrei. Che ad Auschwitz ci fosse un campo di concentramento, e uno dei peggiori, fu noto piuttosto presto; un rapporto dell'O.S.S. (Ufficio dei servizi strategici), ricevuto nell'agosto 1942, ne menzionava l'esistenza. Ma non menzionava né gli ebrei né i gas venefici. Riferiva invece che Max

Schmeling, ex campione dei pesi massimi, ne era stato fatto comandante: una notizia inverosimile quante altre mai. Questa informazione era stata raccolta in Europa e poi trasmessa, sicuramente con grande spesa e forse con grande rischio. Se gli investigatori dell'O.S.S. avessero dedicato più tempo allo studio dei vari giornali pubblicati a New York avrebbero trovato resoconti più accurati e particolareggiati (5). Io ho trovato più di una volta nei giornali notizie importanti pubblicate settimane e perfino mesi prima che comparissero in telegrammi ufficiali. Le prime uccisioni mediante gas venefici ad Auschwitz ebbero luogo nel settembre 1941, ma fu un fatto isolato; i trasporti in massa cominciarono ad arrivare soltanto verso la fine del marzo 1942. Continuarono ad arrivare quasi senza interruzione: ebrei slovacchi e alcuni ebrei francesi arrivarono nel marzo 1942, gli olandesi in luglio, i belgi e gli iugoslavi in agosto, i cechi in ottobre, i norvegesi e i tedeschi nel dicembre 1942; il resto arrivò nel 1943 e nel 1944. In tutto furono uccisi ad Auschwitz fra un milione e due milioni di ebrei. Infine ci fu Majdanek, un sobborgo di Lublino, a circa tre chilometri dal centro della città. Esso fu originariamente un campo per prigionieri di guerra ma nel 1941 venne notevolmente ampliato. Più della metà dei prigionieri erano uccisi appena arrivati, mentre gli altri venivano mandati in battaglioni di lavoro forzato e riuscivano così a sopravvivere per mesi o anche anni. Che cosa si sapeva, che cosa si poteva sapere su come procedesse la soluzione finale durante il periodo critico? al primo gennaio 1942 Numero totale degli ebrei finora uccisi: 5-600 mila. Lo sterminio di praticamente tutti gli ebrei in Estonia, di 35 mila su 75 mila ebrei lettoni caduti nelle mani dei nazisti, e di 100 mila ebrei in Lituania compresi 45 mila a Vilna su 55 mila e la maggior parte delle comunità di provincia. Uccisione di 300 mila ebrei in Ucraina, Galizia orientale e Russia bianca. Entra in funzione Chelmno. Assassinio di ebrei croati. Uccisione di 80 mila ebrei in Transdniestria. Deportazione di 20 mila ebrei tedeschi nel ghetto di Lodz. al primo aprile 1942 Continuazione di queste operazioni. Deportazioni dalla Slovacchia ad Auschwitz e Majdanek. Entra in funzione Belzec. Inizio della "evacuazione" dei ghetti polacchi (Lublino eccetera). Seconda ondata di Einsatzgruppen (Crimea eccetera). al primo luglio 1942 Apertura di Sobibor. Distruzione della maggior parte delle comunità polacche ad esclusione di Varsavia, Lodz, Bialystok e poche altre. Inizio delle deportazioni dalla Germania, dall'Olanda, dal Belgio, dal Protettorato eccetera. al primo ottobre 1942 Continuazione delle deportazioni nei campi dalla Polonia e dai paesi europei. Entra in funzione Treblinka. La maggior parte degli ebrei di Varsavia viene uccisa a Treblinka. al primo gennaio 1943 In base a un rapporto ufficiale delle S.S., due milioni e mezzo di ebrei sono stati "deportati" entro la fine del 1942 e non sono più in vita. Di questi facevano parte: 100 mila dalla Germania e dai Sudeti

47 mila dall'Austria 69 mila dal Protettorato 1.274.000 dal Governatorato Generale (Polonia) e da Leopoli 41 mila dalla Francia 38 mila dai Paesi Bassi 16 mila dal Belgio 532 dalla Norvegia 56 mila dalla Slovacchia 5000 dalla Croazia 635 mila dai territori sovietici (d). Questa è, in breve, la sequenza degli avvenimenti, e adesso vedremo quando e come gli ebrei e i tedeschi, i neutrali e di Alleati ne vennero a conoscenza.

NOTE ALL'INTRODUZIONE (a) Per Nazioni unite si intenda sempre, alleati (N.d.T.).

in questo contesto,

i paesi

(b) Durante il 1943 e all'inizio del 1944 i massacri non erano frequentemente menzionati nei mezzi di comunicazione dei paesi neutrali e di quelli alleati, né nelle dichiarazioni ufficiali degli Alleati. Molti ebrei americani e britannici si resero conto della vastità della catastrofe solo durante l'ultimo anno di guerra e molti non ebrei solo dopo la fine della guerra. E' stato notato che nel gennaio 1943, dopo la dichiarazione alleata che condannava le atrocità naziste contro gli ebrei, più della metà dei cittadini americani, interrogati nel corso di un'indagine, non credeva che i nazisti stessero deliberatamente uccidendo gli ebrei. Risultati di una simile indagine verso la fine del 1944 mostrarono che la maggior parte degli americani credeva ancora che meno di 100 mila ebrei fossero stati sterminati. Non deve essere tuttavia attribuita troppa importanza politica a simili indagini che hanno mostrato ripetutamente una deplorevole mancanza di informazione su fatti e cifre in genere, compreso, per esempio il numero dei cittadini degli Stati Uniti o perfino del proprio stato o della propria città. Esse non invalidano la tesi di impostare la ricerca non oltre il dicembre 1942. Perché lo scopo di questo studio è quello di stabilire perché le informazioni che erano disponibili non furono credute. (c) "Holokaustein" significa presentare un'offerta da bruciare (interamente); non era intenzione dei nazisti fare un sacrificio di questo genere, e il ruolo degli ebrei non era quello di vittima rituale. (d) Questo è il rapporto Korherr. Korherr era ispettore delle S.S. per le statistiche e Himmler gli ordinò il 18 gennaio 1943 di fornire un rapporto interno che gli fu sottoposto il 23 marzo 1943. Ma Korherr scrisse anche che le cifre per i territori russi occupati erano incomplete. La cifra totale era probabilmente di circa tre milioni. Mentre Himmler rimproverò Korherr per aver usato termini imprudenti come "soluzione finale", funzionari subalterni furono, in certe occasioni, assai espliciti. Così il dottor Wetzel scrisse il 25 ottobre 1941, in una lettera al governatore del Reich per i territori occupati che gli ebrei della Germania incapaci di lavorare potevano essere eliminati ("beseitigt") con lo strumento di Brack (e cioè con il gas). Lo stesso dottor Wetzel scrisse nel "Generalplan Ost" (27 aprile 1942) che se si fossero liquidati i polacchi come era stato fatto con gli ebrei, questo avrebbe pesato sul popolo tedesco negli anni a venire e gli avrebbe sottratto simpatie dovunque. (Documento di Norimberga, N.G. 2325).

Capitolo 1 LA GERMANIA: UN MURO DI SILENZIO? Quando raggiunsero per la prima volta la Germania le notizie sui massacri? Secondo un'opinione quasi generale ci fu un "muro di silenzio". Se fu possibile in tempo di guerra mantenere certi segreti anche nelle democrazie occidentali (come il progetto "Manhattan" o "Ultra", o i preparativi per il secondo fronte), la cosa fu ovviamente molto più facile nei paesi totalitari, dati i loro assai più efficienti mezzi di controllo e di repressione. Le autorità naziste, inoltre, fecero tutto il possibile per diffondere false informazioni sul destino degli ebrei. Tutto ciò è vero, ma non è l'intera verità. Il confronto con Manhattan e Ultra non è molto pertinente perché questi progetti riguardarono soltanto qualche centinaio di persone, al massimo qualche migliaio, e il segreto del secondo fronte dovette essere mantenuto soltanto per pochi mesi. Mentre è vero che soltanto un gruppetto di tedeschi sapeva tutto sulla soluzione finale, pochissimi non ne sapevano nulla. Come disse Hans Frank, governatore di Hitler in Polonia, a Norimberga, non si dovrebbe credere a nessuno che affermi che non sapeva nulla, ed egli non si riferiva soltanto ai processati. Himmler, in un famoso discorso sul problema della segretezza che doveva circondare il destino degli ebrei, dichiarò solennemente: non ne parleremo mai. Non ci sarà nessuna documentazione. Ma mentre parlava i registratori giravano, e questo discorso può essere ancora sentito, forte e chiaro, nei più importanti archivi. Milioni di persone non possono venire uccise senza qualcuno che prenda parte all'assassinio e senza testimoni. I capi del partito, le S.S., la polizia di sicurezza e le altre organizzazioni usavano un linguaggio camuffato anche nella corrispondenza interna: gli ebrei non venivano giustiziati, né quanto meno uccisi o assassinati; venivano soltanto "trasferiti", "evacuati", "spostati", "deportati", o alla peggio subivano uno "speciale trattamento". L'espressione "speciale trattamento" era comunque troppo esplicita per la sensibilità di Himmler; quando Korherr, l'ispettore delle S.S. alle statistiche, gli sottomise un rapporto provvisorio sul procedere della soluzione finale - ancora un altro eufemismo - Himmler gli ordinò di non usare più questo termine ma di riferirsi semplicemente al "trasporto di ebrei". Ma anche in un sistema totalitario non c'è coerenza: le "unità speciali" (le Einsatzgruppen) non usarono circonlocuzioni nei loro rapporti. Avevano fretta e comunicavano semplicemente che tante migliaia di ebrei erano stati uccisi in un certo periodo. La stessa cosa si può notare nei diari di guerra di unità dell'esercito, piccole e grandi, che riferirono senza abbellimenti sui massacri a cui avevano assistito. Perché, ironicamente, le S.S. non potevano dir loro di usare i termini speciali senza spiegare anche perché ciò fosse necessario, e questo non era ritenuto consigliabile.

La questione diventò importante nei processi del dopoguerra: alcuni dei maggiori capi delle S.S. affermarono che non avevano mai sentito parlare della soluzione finale. Uno di questi fu Karl Wolff: certo, era stato capo di stato maggiore di Himmler e il suo grado era stato quello di generale delle S.S., ma Himmler non gli aveva mai parlato di massacri; se lo avesse fatto, lui, Wolff, si sarebbe immediatamente ucciso. Come poteva allora spiegare che in una lettera del luglio 1942 a sua firma aveva espresso "gioia" per il fatto che il "popolo eletto" veniva trasferito da Varsavia a Treblinka al ritmo di diverse migliaia al giorno? Be', la lettera era stata redatta da qualcun altro, e lui non era consapevole di nessun significato sinistro... L'esperienza tedesca dimostra che in realtà i segreti non possono essere mantenuti neanche in un regime totalitario, una volta che escono da un piccolo gruppo. Dieci uomini possono mantenere un segreto, mille no. Anche i muri di silenzio hanno i loro mattoni sconnessi e i loro buchi. Per preparare e mettere in atto la soluzione finale era necessaria la partecipazione attiva di migliaia di persone di ogni categoria. Chi nel 1942 era in una posizione tale in Germania da sapere ciò che stava succedendo? Prima di tutto, ovviamente, le persone che avevano ordinato la carneficina e coloro che erano direttamente coinvolti nella sua esecuzione. Questi non erano molti: Hitler, Göring, Himmler, e poi, in ordine discendente, Heydrich, Eichmann e i loro più vicini collaboratori. Poi le unità speciali, le Einsatzgruppen, che erano relativamente ridotte: contavano circa tremila membri. Una volta istituiti i campi, bisogna aggiungere anche chi li dirigeva e chi sorvegliava i prigionieri. Ma anche questi addetti ai campi non erano più di alcune migliaia, e tutti, ovviamente, avevano ricevuto ordini severissimi di non rivelare nulla. Però in molti casi a questi ordini non venne ubbidito: alcune guardie parlarono o almeno si lasciarono sfuggire qualche accenno con i propri parenti o le proprie ragazze. Sia i membri delle Einsatzgruppen che le guardie dei campi non appartenevano a unità scelte con un elevato grado di disciplina. Una volta compiuta la loro missione venivano sostituiti. Alcuni di loro parlarono più o meno liberamente delle loro esperienze nell'est con altri soldati o poliziotti. Se il numero di coloro direttamente coinvolti fu piuttosto piccolo, la soluzione finale non avrebbe potuto essere attuata senza l'aiuto indiretto di molti altri, e questo soprattutto all'inizio, nei primi mesi successivi all'invasione della Russia. Le unità speciali, che uccisero circa 500 mila ebrei fra la fine di giugno e il novembre 1941, entrarono in territorio sovietico subito dopo la Wehrmacht. Potevano ovviamente agire soltanto in stretto collegamento con l'esercito tedesco. Dovevano annunciare la loro presenza ai comandanti locali e dovevano coordinare con loro le "azioni" future. I bollettini quotidiani o settimanali delle unità speciali menzionano frequentemente la qualità dei rapporti con l'esercito. A volte l'esercito è elogiato per l'aiuto fornito. Unità del corpo d'armata centrale parteciparono esplicitamente ad alcuni massacri e il feldmaresciallo von Reichenau fu calorosamente elogiato dalle Einsatzgruppen. Altrove, comandanti locali dell'esercito arrivarono a chiedere alle unità speciali di compiere il loro lavoro più rapidamente (Kremenchug, Dzankoi). Ciò provocò delle proteste da parte dei non certo ipersensibili comandanti delle S.S.: "Non siamo i boia dell'esercito...". In altre occasioni ci si lamentò invece della mancanza di assistenza o delle critiche espresse da alcuni ufficiali dell'esercito che non sembravano mostrare comprensione per l'ingrato lavoro svolto dalle unità speciali. Perciò, molti ufficiali dell'esercito tedesco dovevano per forza sapere, eccetto coloro che si trovavano sempre al fronte o nelle poche regioni in cui non c'era nessun ebreo. Per ogni ufficiale dell'esercito che dovette godere della confidenza delle S.S. ce ne furono molti altri che videro o udirono notizie sui massacri solo per caso (a). Ci sono innumerevoli testimonianze di ufficiali e soldati che, essendosi ritrovati davanti a delle "esecuzioni", avevano scattato fotografie. Questa doveva essere una cosa comune anche fra le

unità speciali. Ci fu un ordine di Heydrich nel novembre 1941 di interrompere immediatamente questa consuetudine, e poi un secondo ordine all'inizio del 1942 di raccogliere tutte le fotografie esistenti. Da allora in poi poterono essere fatte fotografie soltanto dalle persone autorizzate e questo materiale fu considerato segreto di stato. Alcuni di coloro che assistettero alle "esecuzioni" ne parlarono o ne scrissero con sentimenti di approvazione, altri con orrore, i più si limitarono a riferire i fatti. Questo riguarda non soltanto gli ufficiali e i soldati, ma anche i civili (giornalisti, ferrovieri, tecnici eccetera) che raccontarono ciò che avevano visto; molti di loro non erano neanche legati da un giuramento. In breve, fu così che le notizie cominciarono a raggiungere larghi settori del popolo tedesco. Rapporti interni dei nazisti menzionano specificatamente i soldati in licenza fra le più importanti fonti individuali sulle "severissime misure" prese contro gli ebrei. Questo si riferisce alla prima fase, quella delle Einsatzgruppen. Una volta che la soluzione finale si istituzionalizzò e venne organizzata meglio, con la creazione dei campi della morte come Chelmno, Sobibor, Treblinka e Auschwitz, diventò più improbabile che dei militari assistessero allo sterminio. Le unità speciali continuarono le loro azioni, sebbene su scala minore: non c'erano rimasti molti ebrei nei territori occupati. D'altro canto il numero dei civili coinvolti crebbe enormemente. Anche alle prime riunioni preparative, come la conferenza di Wannsee, avevano partecipato rappresentanti dei ministeri degli esteri, della giustizia, degli interni e del Piano quadriennale, nonché la Cancelleria del Reich, e quando iniziarono le deportazioni dalla Germania e dall'Europa centrale si dovettero prendere funzionari di ogni grado da molti altri uffici statali, perché questa era una grande operazione amministrativa che, data la complessità della società moderna, comportava infinite decisioni, istruzioni, circolari e corrispondenza. Il sindaco di una piccola o media città tedesca o austriaca avrebbe ricevuto un ordine che lo informava che gli ebrei dovevano essere trasportati verso l'est e che quindi doveva prestare il massimo aiuto a coloro che avrebbero organizzato l'operazione. Gli ebrei dovevano essere avvertiti (per cui si richiedevano i servigi dell'ufficio postale), i vecchi e gli infermi dovevano essere trasportati al luogo di concentramento, medici e infermiere dovevano verificare se tutti erano trasportabili. Spesso l'operazione non era neanche sorvegliata dalle S.S. che si occupavano di compiti più urgenti, ma dalla polizia regolare. Erano necessari anche gli impiegati delle ferrovie: non era affatto facile in tempo di guerra ottenere treni straordinari anche se le deportazioni avevano la massima precedenza. I treni erano scortati da poliziotti appartenenti a vari tipi di polizia, compresa quella regolare. Un rapporto doveva essere scritto su ogni trasporto e chi ne era a capo a volte si lamentava della mancanza di cooperazione da parte dei capistazione (i quali, ovviamente, dovevano essere anch'essi informati). Alcuni avevano addirittura cercato di essere gentili con i deportati. Forse intuivano che cosa li stesse aspettando. Ma con la scomparsa degli ebrei i problemi burocratici non era certo finiti. I vicini degli ebrei e i loro compagni di lavoro erano naturalmente consapevoli che essi erano svaniti. Molti possono aver creduto alla versione ufficiale di "rinsediamento nell'est", ma è provato che almeno qualcuno sapeva di più: gli ebrei che lavoravano nelle fabbriche di Berlino furono avvertiti delle imminenti retate, e a volte veniva perfino loro detto da benevoli direttori o capireparto che la sorte che li aspettava non era un semplice "rinsediamento". La macchina burocratica continuava a lavorare. Le proprietà degli ebrei venivano confiscate dallo stato. Le banche e le compagnie di assicurazioni dovevano essere informate che gli ebrei erano legalmente morti, altri uffici dovevano sapere che gli ebrei non avevano più bisogno di carta annonaria. Nacque ogni genere di complicazioni in materia di proprietà e i tribunali dovettero spesso occuparsene (1).

Poi, in una seconda fase, l'amministrazione dovette affrontare nuovi problemi. Certi beni appartenuti a coloro che erano stati uccisi nei campi venivano rispediti in Germania. Denaro e altri oggetti di valore, compresi i denti d'oro, venivano messi nelle banche; coperte, occhiali, bambole, borse, biancheria, orologi, pipe, ombrelli, penne stilografiche eccetera venivano mandati a varie associazioni specializzate nell'assistenza sociale come la "Winterhilfe" e alle famiglie dei soldati feriti. Le donne venivano rapate prima di subire il "trattamento speciale" e i loro capelli erano inviati alla fabbrica di feltro Alex Zink vicino a Norimberga. E' perlomeno improbabile che chi riceveva questa merce non avesse la minima idea sulla loro provenienza. E' stato detto che essendo i trasporti dalla Germania e dagli altri paesi indirizzati all'est, gli ebrei scomparvero senza lasciare traccia, perché, data la grande lontananza dei campi dai confini della Germania, nessuno se non le persone direttamente interessate alla soluzione finale poteva conoscere il destino degli ebrei. Questa versione è generalmente creduta ma non è del tutto vera: due dei campi di sterminio, Chelmno, il primo a entrare in funzione, e Auschwitz, il più grande, si trovavano entro i confini del "Grossdeutschland". Sebbene Auschwitz fosse per molti aspetti uno stato nello stato, questo significava che molti settori della burocrazia civile tedesca erano coinvolti nella creazione e nella direzione dei campi. Non era territorio occupato quello in cui le procedure burocratiche potevano essere frequentemente trascurate. Uno sguardo alla carta geografica mostra che Auschwitz non si trovava in mezzo a un deserto ma al confine dell'area industriale dell'Alta Slesia, vicino a importanti città come Beuthen, Gleiwitz, Hindenburg (Zabrze) e Katowitz. Auschwitz, inoltre, fu sia un campo di lavoro che di sterminio, a differenza di Treblinka e di Sobibor che furono esclusivamente fabbriche di morte. Auschwitz fu un vero e proprio arcipelago con circa quaranta diramazioni ("Aussenstellen"). La lista di queste diramazioni suona come un dizionario geografico dell'Alta Slesia: Kosel, Blechhammer, Gleiwitz, Beuthen, Laurahuette, Bunzlau, Langenbielau, Ottmuth, Gogolin, Annaberg, Neukirch. Le diramazioni di Auschwitz si estendevano fino a Riesa, in Sassonia, e fino a Varsavia. Non ogni operaio in ogni diramazione sapeva, ma qualcuno certamente sì. Gli operai di Auschwitz furono impiegati dalla A.E.G., il trust elettrico tedesco, e dalla I.G. Farben; lavorarono per le ferrovie tedesche e per altre imprese che producevano materiale bellico o parabellico. Si sa da varie fonti, sia polacche che tedesche, che la popolazione polacca presente nelle vicinanze di campi molto più isolati di Auschwitz era perfettamente al corrente di ciò che avveniva all'interno di questi campi. E' impossibile credere che nessun abitante di Gleiwitz, Beuthen o Katowitz non avesse nessuna idea di ciò che succedeva a pochi chilometri di distanza dalla propria casa. Inoltre, quei prigionieri di Auschwitz che furono abbastanza fortunati da essere selezionati per il lavoro invece che per la morte vennero in pratica sparpagliati per tutta la Slesia, e dal momento che incontrarono migliaia di persone è inconcepibile che le notizie su Auschwitz non abbiano raggiunto molti non ebrei. Se gli ebrei che vivevano nei ghetti vicini sapevano, sapevano anche gli altri che avevano maggiore libertà di movimento (b). Charles Joseph Coward, un prigioniero di guerra britannico, dichiarò nella sua deposizione al processo contro la I.G. Farben: "La popolazione della città [Auschwitz], gli uomini delle S.S., i prigionieri del campo, i lavoratori stranieri, tutto il campo lo sapeva. Tutta la popolazione civile lo sapeva, e si lamentava del puzzo dei corpi bruciati. Anche molti dipendenti della I.G. Farben con i quali parlavo lo ammettevano. Era assolutamente impossibile non sapere". Un medico che serviva nelle "Waffen" S.S. l'interrogatorio: Domanda: "Questi civili che vivevano

disse durante all'ombra dei

crematori sapevano dell'esistenza delle camere a gas?". Risposta: "Sì, è questo che volevo dire, perché a Katowitz si poteva sentire il puzzo dei crematori proprio come ad Auschwitz" (2). Secondo l'opinione di Pery Broad, membro delle S.S., civili di tutte le parti della Germania avevano sentito parlare di Auschwitz, almeno vagamente, "altrimenti non si può spiegare il grande interesse mostrato quando i treni passavano vicino al campo. Generalmente i passeggeri si alzavano dai propri posti e andavano ai finestrini..." (3). Adolf Bartelmas, un impiegato delle ferrovie ad Auschwitz, disse molti anni dopo nella sua testimonianza al processo di Francoforte che le fiamme potevano essere viste a una distanza di quindici, venti chilometri, e che si sapeva che vi bruciavano essere umani. Ancora più espliciti furono Kaduk e Pery Broad che deposero allo stesso processo: quando i camini erano in funzione c'era una fiamma alta cinque metri. La stazione ferroviaria, piena di civili e di soldati in licenza, era impregnata di fumo e un puzzo dolciastro penetrava dappertutto. Secondo Broad, quelle nere nuvole di fumo potevano essere viste e sentite per chilometri: "Il puzzo era semplicemente insopportabile...". Centinaia di lavoratori civili, sia tedeschi che polacchi, lavoravano ad Auschwitz; arrivavano la mattina, se ne andavano nel pomeriggio. Anche le famiglie di alcuni alti ufficiali vi vivevano. Molti tecnici e operai di varie parti della Germania e dei paesi occupati andarono ad Auschwitz per brevi o lunghi periodi di tempo, e ci sono testimonianze del fatto che essi abbiano discusso in luoghi pubblici su ciò che avevano visto nel campo (4). Operai delle officine Krupp, come Erich Lutat e Paul Ortmann, dichiararono al processo di Norimberga che i lavoratori parlavano apertamente dei fatti del campo, e quando andavano a trovare le loro famiglie a Essen li raccontavano anche ai loro parenti, "ganz entsetzt" (grandemente inorriditi). Se gli operai sapevano, è ragionevole pensare che almeno qualche loro capo sapesse, il che non vuol dire che ogni direttore delle officine Krupp o della I.G. Farben fosse al corrente delle uccisioni sistematiche. Ma ciò sembra non essere stato un segreto neanche negli ambienti commerciali che non avevano rapporti stretti con i campi. Nel 1961 il dottor Guenther Prey, un industriale tedesco, dichiarò all'Istituto nazionale olandese per la guerra che egli aveva scoperto per caso a Danzica, alla fine del 1941 o agli inizi del 1942, che gli ebrei venivano uccisi col gas. Forse questo fu un caso isolato e altri forse non avrebbero potuto venire a conoscenza del segreto nello stesso modo. Ma il dottor Prey disse anche che della cosa si parlava apertamente in molti ambienti tedeschi che lui frequentava in Olanda, dove generalmente si sapeva che gli ebrei ad Auschwitz e in altri campi venivano assassinati in massa (il dottor Prey usò la parola tedesca "Grossbetrieb") (5). In tutto 40 mila prigionieri di Auschwitz furono impiegati da varie imprese industriali tedesche. La I.G. Farben, che fu la prima, ne ebbe da sola 10 mila - compresi i prigionieri di guerra britannici - che lavorarono nella BUNA (gomma sintetica) e in una fabbrica di acido acetico. C'era un ricambio piuttosto rapido in questa forza lavoro: dei 35 mila uomini che lavorarono per la BUNA ne morirono almeno 25 mila (6). I particolari sulle attività della I.G. Farben ad Auschwitz vennero alla luce in un famoso processo del dopoguerra. Sono rilevanti in questo contesto solo per rispondere a due domande: quanto personale non ebreo era necessario per far funzionare lo stabilimento di Auschwitz? E quanti altri negli uffici centrali, dai direttori alla produzione, alla progettazione, del personale e alle vendite fino all'ultimo legale e ragioniere, dovevano sapere la verità su Auschwitz? Almeno diverse centinaia. Questa lista è ovviamente tutt'altro che completa. Medici facevano esperimenti nei campi, e mentre non ci sono rapporti scritti, alcuni di loro, senz'altro col beneplacito delle autorità, ne riferirono in convegni scientifici alla presenza di decine di colleghi. Giornalisti viaggiavano nel Governatorato Generale e dovevano udire qualcosa, come pure i diplomatici a Berlino a cui si chiedevano spesso notizie sul

destino di cittadini stranieri scomparsi nel gorgo della distruzione. C'era un dipartimento speciale al ministero degli esteri ("Referat Deutschland") che trattava questi casi, ma anche i diplomatici che si trovavano all'estero dovevano sapere. Anche se nessuno aveva detto loro nulla col pretesto della segretezza, non potevano non leggere le notizie nella stampa degli Alleati o dei neutrali. Ritagli su questo argomento furono infatti trovati negli archivi del ministero degli esteri e in altri uffici. Questo anche per quanto riguarda le capitali dei paesi satelliti. Di nuovo un esempio dovrebbe bastare. Il dottor Doertenbach, che fu consigliere all'ambasciata tedesca a Roma nel 1942, dichiarò in una deposizione giurata fatta dopo la guerra che nell'estate del 1942 egli aveva già letto nella stampa britannica e svizzera che unità delle S.S. imperversavano in modo terribile in Russia: "Credetti a queste notizie perché avevo avuto un'esperienza del genere in Polonia. Questi fatti furono discussi in una cerchia di amici tedeschi e italiani, fra cui alcuni funzionari tedeschi, e sempre con espressioni di indignazione... Durante la mia attività di consigliere all'ambasciata di Roma nell'autunno del 1942 sentii anche parlare dell'uccisione di ebrei nei campi di concentramento dell'Europa orientale. Il primo accenno mi fu fatto da un funzionario del ministero degli esteri italiano..." (7). Doertenbach disse anche che nel corso del tempo aveva discusso di questi fatti con una trentina di colleghi del ministero degli esteri. Doertenbach non era un funzionario di alto livello né era stato iniziato al "segreto" visto che non doveva occuparsi di "affari ebraici", direttamente o indirettamente. Se, cionondimeno, sapeva, i suoi superiori sapevano a maggior ragione, e prima di lui. A iniziare dall'ottobre del 1941 i rapporti delle Einsatzgruppen circolavano al ministero degli esteri tedesco, alcuni completi, altri riassunti. Ogni rapporto parlava di molte migliaia di ebrei che erano stati uccisi. Alla fine era quasi impossibile sapere quanti ne erano stati sterminati e quanti erano ancora in vita. Nel dicembre 1941 fu chiesto a Fritz Gebhardt von Hahn, un ufficiale subalterno, di preparare un riassunto statistico. Egli calcolò che circa 70-80 mila ebrei erano stati liquidati da ciascun "Sonderkommando". Siccome c'erano diverse unità di questo tipo in ognuna delle quattro Einsatzgruppen, le cifre di Hahn erano addirittura superiori alla terribile realtà (8). Questi rapporti arrivavano sulle scrivanie della divisione politica e venivano siglate da ventidue diverse persone. Altre persone li vedevano, e il numero di coloro che ne erano informati oralmente, del tutto o in parte, ammontava quasi certamente a centinaia. Nel gennaio 1942 i funzionari di grado più elevato del ministero degli esteri lessero nel settimo rapporto, che si riferiva al dicembre 1941, che la questione ebraica nell'est era risolta. Questo annuncio fu ripetuto nel decimo rapporto. Ci sono indizi che anche in remote ambasciate almeno qualcuno l'avesse saputo anche prima. Così, il 2 settembre 1941, l'ambasciata tedesca in Uruguay si era opposta all'emigrazione di un insegnante ebreo da Varsavia perché la sua conoscenza degli "ultimi sviluppi" della questione ebraica nell'Europa orientale avrebbe portato acqua al mulino della propaganda antitedesca (9). La notizia dell'uccisione di molte migliaia di ebrei serbi e romeni, citata nella corrispondenza del ministero degli esteri nell'ottobre del 1941, era largamente circolata e non fu neanche considerata un segreto di capitale importanza. La domanda "chi sapeva, cosa e quando" diventò un motivo di grande attrito nei processi del dopoguerra contro i funzionari del ministero degli esteri. I difensori poterono sostenere che nella sua seconda fase, dopo Wannsee, la soluzione finale diventò un segreto di stato ("Geheime Reichssache") e che soltanto un piccolo numero di persone ne era ufficialmente a conoscenza. Coloro che avevano siglato i rapporti delle Einsatzgruppen dichiararono che non li avevano letti. Anche se

il ministro della guerra Henry Stimson aveva detto in una celebre dichiarazione che i gentiluomini non leggono lettere di altri gentiluomini, questi gentiluomini sostenevano di non aver letto le loro proprie lettere. Un attento studio della documentazione dimostra in effetti che soltanto pochi erano informati ufficialmente e che richieste di informazioni sul destino degli ebrei erano dirette all'Ufficio centrale per la sicurezza dello stato. Ma esso dimostra anche che le informazioni venivano trasmesse oralmente, all'interno dell'ufficio e, chiaramente, molto più spesso all'esterno, attraverso amici o membri della propria famiglia, generalmente soldati che tornavano in licenza dal fronte orientale (10). Ma malgrado tutte queste precauzioni alcune notizie sfuggivano e sono reperibili negli archivi. Un impiegato particolarmente zelante (Paul Wurm) aveva menzionato in una lettera datata ottobre 1941 le "speciali misure" per "sterminare i parassiti ebrei". Il rappresentante del ministero degli esteri nei Paesi Bassi telegrafò il 13 agosto 1942 che gli ebrei avevano scoperto la verità sulle deportazioni e qualcuno non si era più presentato ai trasporti. Rapporti del servizio segreto tedesco trovati negli archivi del ministero degli esteri parlavano di "speciale trattamento" invece che di lavoro; un altro funzionario del ministero degli esteri (Bargen) riferiva dal Belgio su alcune voci di "stragi" nel novembre 1942. Hahn, che abbiamo già citato, scrisse in una risposta al dipartimento legale che alla Croce Rossa Internazionale non doveva essere concesso di trasmettere lettere agli e dagli ebrei deportati. Perché, se un tale permesso fosse stato dato, "essi avrebbero potuto in qualunque momento immaginarsi approssimativamente il numero dei deportati israeliti così come la loro sorte nei luoghi di deportazione e durante il viaggio" (11). Molto spesso le informazioni venivano fornite dagli ufficiali di collegamento con la Wehrmacht appartenenti al ministero degli esteri (12). Funzionari del ministero della propaganda e, attraverso loro, influenti giornalisti venivano tenuti informati da Goebbels in conferenze che avvenivano quasi ogni giorno. La politica generale di Goebbels, come egli disse nella conferenza dell'8 dicembre 1942, considerava il trattamento degli ebrei una "questione delicata" che era meglio non toccare affatto. Alcuni giorni dopo, il 12 dicembre, disse che in considerazione della propaganda britannica su presunte atrocità antiebraiche nell'est qualcosa doveva essere pur fatto; non si doveva comunque polemizzare ma dare invece preminenza alle atrocità britanniche in India e altrove. Tornò sull'argomento nel suo discorso del 16 dicembre: l'idea era quella di creare una generale confusione in materia di atrocità "come nostra migliore possibilità per evitare l'imbarazzante argomento degli ebrei". Tutto ciò era sufficientemente chiaro, e i giornalisti per capire perché l'argomento fosse imbarazzante, non dovettero aspettare il discorso pubblico di Goebbels, tenuto il 18 febbraio 1943 allo "Sportpalast", nel quale parlò dello "ster...", anzi, dopo essersi corretto, della "liquidazione degli ebrei" (13). Durante la guerra, ascoltare trasmissioni radiofoniche straniere, sia dei nemici che dei neutrali, era, ovviamente, rigorosamente proibito nella Germania nazista, e c'erano punizioni severissime per i trasgressori che fossero stati colti in flagrante. Ma, tuttavia, molte persone in Germania e nei paesi occupati ascoltavano le radio straniere. Il servizio segreto nazista, alcuni bollettini interni come "Meldungen aus dem Reich" (ma anche i fogli d'informazione regionali) ripeterono incessantemente per tutta la guerra che questa era la fonte principale di notizie non ufficiali e, ovviamente, indesiderabili per quanto riguardava la popolazione. Veniva anche sottolineato che le notizie radio del nemico si diffondevano molto rapidamente e che era molto difficile arrestare i trasgressori che, trasmettendo "informazioni ostili", non avrebbero certo rivelato le loro fonti. Se, nel 1941, 720 cittadini tedeschi furono condannati a lunghe pene detentive o alla pena di morte (985 nel 1942), il numero totale degli ascoltatori fu ovviamente molto più grande (c). Secondo una fonte

tedesca postbellica semiufficiale, "milioni di tedeschi ascoltavano in tutta segretezza le radio straniere, osservando spesso le regole dei cospiratori". Secondo un rapporto della B.B.C. del 1943 il numero dei suoi ascoltatori tedeschi era di circa un milione a quel tempo. Secondo una ricerca americana del 1945, il 51% dei tedeschi dichiarò di aver sentito almeno una volta le "stazioni nemiche" (14). A prescindere da questi ascoltatori clandestini, ce n'erano altri che avevano il permesso ufficiale di ascoltare le radio straniere e di leggere i giornali del nemico. Più di cinquecento esperti erano impiegati in questo servizio ("Seehaus") che, a detta del suo storico, fu una "fonte di disfattismo" piuttosto che un baluardo dello spirito nazista. E, inoltre, la maggior parte di coloro che vi lavoravano non erano disposti ad assumersi nessuna responsabilità per i crimini del regime che apprendevano dalle radio straniere. Ciò si riferiva in particolare allo "sterminio di un'altra razza" (15). I rapporti quotidiani e settimanali del "Seehaus" andavano originariamente a circa quattrocento persone. Nel gennaio 1942 Hitler decise di diminuirne drasticamente il numero. Ma anche in seguito esso fu molto più grande di quanto Hitler e Goebbels intendessero, e inoltre c'erano molti altri servizi informazioni per i dignitari nazisti. A una riunione ministeriale del febbraio 1942 il segretario di stato Gutterer dichiarò che c'era un centinaio di tali servizi, fra "segreti" e "ultrasegreti", e alcuni con una diffusione fino a quattromila persone (16) (d). Poca attenzione è stata prestata al ruolo delle ferrovie nella soluzione finale (17). I treni speciali per le deportazioni erano richiesti direttamente dalle S.S., più specificatamente dalla sezione quarta B4 di Eichmann, nell'Ufficio centrale per la sicurezza dello stato (R.S.H.A.). L'organizzazione di treni speciali durante la guerra comportò un grande impegno logistico. Non soltanto la maggior parte degli impiegati superiori ne erano al corrente ma anche dirigenti regionali. Ci furono riunioni e conferenze a cui presero parte funzionari delle ferrovie e rappresentanti della polizia ferroviaria e politica. Si potrebbe ovviamente obiettare che i treni speciali non servivano a nient'altro che al trasferimento degli ebrei all'est. Ma la maggior parte dei campi di sterminio si trovava vicino alle linee principali, i treni che entravano e uscivano dai campi potevano essere visti (e furono fotografati) dai treni passeggeri di passaggio o fermi. La stazione di Auschwitz si trovava a poco meno di due chilometri dal luogo in cui la gente veniva ammazzata. I cadaveri venivano bruciati, come disse un impiegato delle ferrovie dopo la guerra, più o meno in pubblico (18). Ma anche coloro negli uffici centrali delle ferrovie che non erano mai stati vicini ai campi non potevano non arrivare alla conclusione che Auschwitz doveva essere una delle più grandi città d'Europa, se i suoi abitanti erano ancora vivi. Anche gli Alleati, per ragioni che vedremo in seguito, dovevano prestare attenzione a questo intenso traffico verso una direzione non prevista. Il numero di coloro che nella Germania nazista avevano un quadro completo di ciò che stava succedendo era ancora probabilmente assai piccolo nell'autunno del 1942. Ma centinaia di migliaia di persone, se non milioni, avevano sentito qualcosa da ufficiali e soldati in licenza sulle "severissime misure" di cui si parla nella circolare di Bormann del 9 ottobre 1941 ("informazione riservata") ai più importanti funzionari del partito nazista (19). Già un anno prima, il 25 ottobre 1942, in una conversazione fra Hitler, Himmler e Heydrich, si era accennato alle voci fra la popolazione riguardo allo sterminio degli ebrei ("Voci popolari ci attribuiscono un piano per lo sterminio degli ebrei") (20). I rapporti quindicinali e mensili dell'S.D. (il servizio segreto del partito nazista), che pubblicavano indagini non abbellite sull'opinione pubblica nel Terzo Reich, non riferiscono in tutto l'anno 1942 nessuna voce riguardo al destino degli ebrei. Nel 1943, invece, vengono pubblicati molti rapporti in tal senso, soprattutto in relazione ai bombardamenti alleati e l'assassinio di migliaia di ufficiali polacchi da parte dei russi a Katyn ("Non

dovremmo lamentarci, le S.S. hanno fatto lo stesso con gli ebrei eccetera, eccetera) (21). Si sa comunque da molte fonti che anche nel 1942 circolavano numerose voci di questo genere ed è improbabile che l'efficiente S.D. non le abbia registrate. Non è difficile spiegare questo apparente paradosso. Il direttore della rassegna dell'S.D., il dottor Otto Ohlendorf, sapeva certamente tutto ciò che c'era da sapere sul destino degli ebrei: era stato comandante di una delle Einsatzgruppen. Ma sapeva anche che, mentre i suoi rapporti andavano soltanto a un limitato numero di personaggi chiave nella gerarchia nazista, questa lista non era affatto identica a quella del gruppo di persone che conoscevano tutti i particolari della soluzione finale. Mentre Ohlendorf voleva fornire un'onesta rassegna dell'opinione pubblica, era consapevole del fatto che ci dovevano essere dei limiti alla sua onestà. Così come non poteva riferire una "voce" (soprattutto se vera) su una futura importante operazione militare o su una scoperta scientifica d'importanza militare, non poteva neanche occuparsi di un segreto di stato di altro genere. Nel 1943, invece, quando la grande maggioranza degli ebrei era già stata massacrata, non venne più, chiaramente, tenuto conto di queste limitazioni. Comunque, già all'inizio dell'estate del 1942 si era largamente a conoscenza del destino degli ebrei. Di nuovo un esempio sarà sufficiente. Il signor Haas, insegnante a Niedernhausen (Odenwald), aveva mandato allo "Stürmer" una lettera scritta dal soldato scelto Lothammer, in cui si riferiva dettagliatamente l'uccisione di ebrei a Jassy e nell'Ucraina meridionale. Ma la lettera non venne pubblicata. Uno dei redattori informò Haas nel maggio 1942 che, "per certi motivi", adesso non era sempre possibile rivelare simili fatti (22). Lo "Stürmer" non era certo conosciuto per tatto o delicatezza di sentimenti prima dello scoppio della guerra. Perché avrebbe dovuto mostrare tali inibizioni in tempo di guerra? "Sapienti sat". In primo luogo il soldato Lothammer non avrebbe dovuto scrivere sui massacri, ma gli ordini dell'esercito erano frequentemente ignorati: i rapporti diffusi dalla censura militare menzionano quasi regolarmente tali trasgressioni. Inoltre, le lettere scritte da civili tedeschi e stranieri dall'est non erano soggette a tali restrizioni. Qualche lettera fu intercettata, ma non molte. Fra coloro che sapevano che gli ebrei venivano uccisi i più non erano a conoscenza del fatto che veniva usato il gas. Era opinione largamente diffusa che gli ebrei venissero fucilati o bruciati o uccisi in qualche modo per mezzo di scosse elettriche. Coloro che sapevano cercarono a volte di ingannare perfino l'élite del partito e i grandi burocrati. Così al dottor Hans Frank, capo del Governatorato Generale, non fu permesso di entrare a Belzec o ad Auschwitz. Il linguaggio usato anche nelle comunicazioni interne (tranne che nei rapporti delle Einsatzgruppen) non menzionava quasi mai vere e proprie uccisioni: severe misure venivano prese contro gli ebrei; erano costretti a lavorare duramente; era implicito che molti di loro sarebbero probabilmente morti di malattia o di fame. Ma la soluzione finale poteva significare dopotutto tante altre cose, oltre che morte violenta. Nelle loro conversazioni con i rappresentanti diplomatici dei paesi neutrali e satelliti i capi nazisti non menzionavano mai l'assassinio degli ebrei se c'era la possibilità che la conversazione venisse registrata: gli ebrei stavano scomparendo in qualche modo; perché discuterne i particolari che non erano né interessanti né importanti? Tali ambiguità avevano un certo effetto, ma solo su chi non aveva nessun particolare desiderio di sapere. Chi aveva assistito all'assassinio di un migliaio di persone o ne aveva sentito parlare da una fonte insospettabile poteva ancora convincersi che si trattava di un caso eccezionale. Poteva anche dimenticarlo; dopotutto in guerra si uccidevano tante persone, la vita umana valeva poco. Ma le notizie continuavano ad arrivare da più di una fonte. Ogni successiva testimonianza (come scrisse una volta un pioniere del romanzo poliziesco) non rappresentava semplicemente una prova aggiunta a

un'altra prova, ma una prova moltiplicata per cento o per mille. Pertanto, alla fine del 1942, milioni di persone in Germania sapevano che la questione ebraica era stata radicalmente risolta, e che questa soluzione radicale non aveva comportato un rinsediamento: in breve, la maggior parte o tutti coloro che erano stati deportati, non erano più in vita (e). Particolari sulla loro morte erano conosciuti da un numero di persone molto minore. Che cosa si sapeva nel 1942 fra i paesi satelliti di Hitler? Funzionari governativi, diplomatici, giornalisti, ufficiali e soldati che tornavano dal fronte orientale sapevano molte cose. Gli ufficiali slovacchi e ungheresi figurarono fra le fonti principali riguardo alla prima fase della soluzione finale. La corrispondenza interna dell'S.D. mostra che anche gli italiani in visita al fronte orientale avevano involontariamente assistito ai massacri e che, come risultato, c'erano "voci nocive" che facevano il giro di Roma. I paesi satelliti avevano rappresentanti nella capitale tedesca che non potevano fare a meno di ascoltare i pettegolezzi berlinesi. Leggevano nella stampa tedesca discorsi di Robert Ley e di altri che erano tutt'altro che guardinghi: "Dobbiamo combattere gli ebrei fino in fondo. Non è sufficiente isolare il nemico ebreo dell'umanità; l'ebreo deve essere annientato" (23). Oppure Goebbels nel suo organo, il settimanale "Das Reich": "Gli ebrei pagheranno con lo sterminio della loro razza in Europa e forse anche altrove" (24). Questi e altri discorsi venivano largamente citati nei circoli diplomatici di Berlino. Il linguaggio usato era chiaro: l'ebreo era stato isolato; ora doveva essere annientato. Il termine "annientare" aveva in questo contesto un unico possibile significato, e non implicava certo un rinsediamento né un lavoro produttivo. L'ambasciatore finlandese a Berlino fu avvertito da Felix Kersten, massaggiatore di Himmler, nel giugno 1942 (f). Altri ambasciatori non sapevano meno cose. Doene Sztojay, l'ambasciatore ungherese a Berlino, fu un antisemita viscerale che diventò primo ministro dopo l'invasione tedesca del marzo 1944. Andava a trovare ogni tanto i tedeschi per protestare timidamente a proposito del destino degli ebrei ungheresi in Germania, ma non mancava mai di aggiungere quanto, per lui personalmente, fossero antipatiche queste missioni. Ma fu al corrente di tutto già nei primi tempi. Nel caso dell'Ungheria è possibile adesso stabilire con una certa precisione quando e in quali circostanze le prime informazioni sulla soluzione finale raggiunsero Budapest. Le notizie furono trasmesse da Berlino da Andor Gellert che rappresentava la Lega revisionista (ungherese) nella capitale tedesca. Furono comunicate al dipartimento politico del ministero degli esteri ungherese che non le respinse del tutto ma espresse dubbi sulla loro autenticità ("Non esagerate", disse a Gellert un dirigente). Gellert, un protetto del primo ministro Pal Teleki, fu avvisato nel marzo 1942 da Ernst Neugeboren, un transilvano di origine tedesca, delle implicazioni per l'Ungheria della conferenza di Wannsee. Neugeboren, ragioniere di professione, si era arruolato nelle S.S. e aveva raggiunto una posizione di una certa influenza (g). Gellert giudicò dapprima assurde le notizie e non ci credette ma simili informazioni, seppure più vaghe, gli arrivarono anche da altre persone, così che egli ne fu sufficientemente allarmato per recarsi a Budapest a riferire. Non sapeva ancora se Neugeboren aveva voluto avvertirlo o se era un tentativo di intimidire gli ungheresi (25). Così Sztojay lo seppe da Gellert, ma lo aveva anche sentito da altre fonti e occasionalmente lo accennava ai suoi ospiti di Budapest. Uno di questi fu Gyorgy Ottlik, il direttore del "Pester Lloyd", che si trovava a Berlino nell'agosto-settembre 1942. Al suo ritorno nella capitale ungherese scrisse una nota che consegnò al ministero degli esteri in cui diceva che Sztojay era del tutto favorevole ad almeno una "deportazione simbolica" di ebrei e mentre non parlava espressamente di soluzione finale non ne nascondeva ("titkolni" in ungherese) il significato (26). L'intenzione di Sztojay poteva essere stata quella di indurre il governo ungherese a rompere i ponti con gli alleati

occidentali, cosa che Kallai, l'allora primo ministro, non aveva nessuna voglia di fare. Il rapporto Ottlik lascia comunque aperte un certo numero di questioni. Non era abitudine di Sztojay usare un linguaggio preciso in argomenti così delicati come lo sterminio degli ebrei, né Gellert gli era particolarmente vicino politicamente. Sztojay era un fedele di Gömbös, protagonista di un orientamento filofascista in Ungheria negli anni trenta, mentre Gellert era fondamentalmente un "occidentale" che si dimise nel 1935 da direttore del semiufficiale "Budapesti Hirlap" proprio perché dissentiva dalla sua linea antioccidentale. In effetti, anche il "Pester Lloyd" era un organo semiufficiale e Ottlik era venuto a un compromesso con il riluttante collaborazionismo del governo ungherese. Ma appare improbabile che egli avrebbe scritto il suo rapporto se non avesse ricevuto simili informazioni da almeno un'altra fonte. Tale fonte esisteva e non era altro che il corrispondente da Berlino del "Pester Lloyd", Ernst Lemmer (h). A prescindere dalla fonte rappresentata dalla nota di Ottlik, migliaia di ufficiali e di soldati ungheresi avevano assistito nel 1941 allo sterminio di ebrei. Per dirla con uno storico ungherese: "E' ridicolo e spregevole per chiunque abbia combattuto sul fronte russo e abbia attraversato la Polonia e i territori sovietici occupati, un'area abitata da sei milioni di ebrei e poi priva di ebrei, sostenere di non aver saputo nulla di cosa sarebbe accaduto agli ebrei una volta deportati" (27) Gli ambasciatori slovacco e italiano non dovevano essere meno importanti, così come gli inviati di questi paesi nelle capitali neutrali, perché vi potevano leggere i giornali degli Alleati o ascoltarne la radio. Gli slovacchi insistettero nei loro negoziati con i tedeschi perché gli ebrei non tornassero mai più, ma l'equazione "rinsediamento = sterminio" appare in documenti slovacchi soltanto nel 1943. Gli slovacchi avevano strette relazioni col Vaticano (e con gli italiani) e avevano ricevuto avvertimenti già nel marzo 1942. Alcune prove vennero fuori nei processi del dopoguerra contro il dottor Joseph Tiso, il presidente della repubblica, e il dottor Anton Vasek. Anche un fervente ammiratore del dottor Tiso ammise in seguito che nel luglio 1942 Tiso era stato informato dal Vaticano che gli ebrei deportati dalla Slovacchia venivano uccisi (o erano stati uccisi) nella regione di Lublino (28). Mussolini era stato informato da Hitler sul vero significato di soluzione finale all'inizio del 1942. In seguito, nello stesso anno, Himmler gliene aveva parlato dettagliatamente. Quanti altri capi fascisti ne fossero a conoscenza non possiamo stabilirlo. Alcuni senz'altro; in particolare i generali e i diplomatici che avevano a che fare con gli affari est-europei. Gli italiani, nella zona francese da loro occupata, probabilmente sapevano; essi aiutarono gli ebrei a sfuggire alle retate, con grande disappunto di Eichmann e dei suoi aiutanti. Il generale Giuseppe Pieche, che rappresentava i carabinieri italiani nella Croazia settentrionale e in Slovenia, scrisse in una nota al suo governo che gli ebrei della zona di occupazione tedesca erano stati deportati nei territori orientali e che ""sono stati eliminati mediante l'impiego di gas tossico nel treno in cui erano rinchiusi"" (i). Questo messaggio era datato 4 novembre 1942. Fu visto da Ciano, il ministro degli esteri, e dal generale Roatta e infine fu sottoposto a Mussolini. Mussolini lo lesse, vi scrisse a matita ""Visto dal Duce"", ma non aggiunse nessun commento (29). Ma perché avrebbe dovuto stupirsi? Il 21 agosto 1942, quattro mesi prima, c'era stata una comunicazione da parte del ministero degli esteri italiano a Mussolini, secondo la quale von Bismarck, il consigliere dell'ambasciata tedesca a Roma, aveva presentato una richiesta delle autorità tedesche affinché tutti gli ebrei croati venissero estradati per poter poi essere deportati verso l'est. La comunicazione specificava chiaramente che deportazione significava ""in pratica eliminazione"". Il Duce vi scrisse di suo pugno: ""Nulla osta"". Note di questo tipo venivano lette da decine di persone e se tali

segreti di stato non erano mantenuti neanche in Germania, si può immaginare quanto dovessero circolare fra gli italiani che non erano legati da nessun giuramento solenne. Mussolini era in stretti rapporti con Hitler, i finlandesi no. La loro alleanza con i nazisti era puramente pragmatica, il loro scopo era il ritorno di Karelia. Ma anche loro sapevano che cosa significasse soluzione finale, e quando Himmler arrivò nel 1942 a reclamare i pochi ebrei finlandesi il governo finlandese era già stato avvertito dal suo ambasciatore a Berlino (l). Trovarono una buona scusa: gli ebrei potevano essere consegnati soltanto dopo un dibattito e un voto in Parlamento e Himmler, inutile dirlo, non era per niente desideroso di avere una pubblicità di questo genere. Ma l'ambasciata a Berlino non era stata l'unica fonte d'informazioni. Arno Anthoni, il capo della polizia di stato finlandese, fu processato ad Abo nel 1947 per aver consegnato alla Gestapo diversi ebrei che non erano in possesso della cittadinanza finlandese. Egli ammise di avere incontrato Eichmann a Berlino nel 1942 ma sostenne che non sapeva nulla sullo sterminio "perché non aveva tempo di leggere i giornali". Ma nel suo archivio fu trovato un rapporto di un subordinato, Olavi Viherluoto, ufficiale della polizia di stato. Riguardava una visita in Estonia, datata fine 1941, e conteneva particolari sullo sterminio degli ebrei estoni, uno dei primi rapporti a uscire dai paesi baltici. Anthoni sostenne che sebbene avesse siglato il rapporto non lo aveva letto. Ma è molto più probabile che l'avesse letto, e che poi avesse riferito al suo superiore, Toivo Horelli, il filotedesco ministro degli interni. Così anche nella lontana Finlandia c'erano persone al corrente del segreto e non c'era nessuna ragione perché se lo tenessero per sé. Dopo la guerra era opinione generale in Finlandia che Anthoni doveva aver saputo, e che aveva sicuramente informato alcuni membri del governo (30). Ma è più che dubbio se membri del governo finlandese o chiunque altro in Finlandia avessero effettivamente bisogno di essere informati. Come l'ambasciatore tedesco a Helsinki, Bluecher, aveva riferito a Berlino nel gennaio 1943, la politica tedesca verso gli ebrei era così impopolare in Finlandia che alcune voci circolanti nell'ottobre 1942 sull'espulsione di un certo numero di ebrei avevano seriamente indebolito la posizione di Horelli (m). Ci furono ancora più indignate reazioni nel dicembre 1942 quando si venne a sapere che Anthoni, il capo della polizia politica (senz'altro con l'appoggio di Horelli), aveva consegnato ai tedeschi diversi "criminali ebrei e comunisti". Il loro trasporto sul "Hohenhörn" delle S.S. fu ritardato a causa di una incursione aerea; nel frattempo i prigionieri a bordo della nave fecero notare la loro presenza nel porto. La notizia raggiunse la stampa svedese e ci fu uno scontro all'interno del governo finlandese con Väinö Tanner, il socialdemocratico, a capo di coloro che criticarono Horelli e Anthoni. E' assai improbabile che Tanner, Fagerholm, i ministri che li appoggiarono e l'opinione pubblica finlandese avrebbero protestato così violentemente se si fosse trattato semplicemente di aver deportato alcuni comunisti ebrei apolidi nelle prigioni tedesche o anche verso un destino incerto (n). E' evidente che tutti sapevano che il loro destino era certo. Come risultato di queste proteste, le deportazioni furono interrotte dopo questo incidente. Gli ungheresi seppero molto di più dei finlandesi anche se poi i loro dirigenti politici sostennero di aver sentito parlare dello sterminio soltanto nel 1943, e forse soltanto nel 1944. Gli emissari di Eichmann erano in continuo contatto con i loro corrispondenti colleghi ungheresi e spiegarono loro il significato di soluzione finale. L'opposizione ungherese, d'altro canto, era tenuta informata dai comitati di soccorso ebraici. A Budapest, alla fine del 1942, erano poche le persone in posizioni di responsabilità che non sapevano. L'ambasciatore svizzero a Budapest riferì al suo governo che i tedeschi volevano trasferire gli ebrei ungheresi nell'Europa orientale. Quelli che non potevano lavorare "sarebbero stati fatti scomparire in un modo che non era specificato". Nello stesso rapporto

l'ambasciatore svizzero diceva anche che gli slovacchi gli avevano "confidenzialmente" detto che nel loro paese le richieste tedesche erano state esaudite "in conformità alla tesi di Hitler che l'ebraismo europeo doveva essere sterminato ("ausgerottet")" (31). In un successivo rapporto l'ambasciatore svizzero riferì di una lunga conversazione avuta con Kallai, il primo ministro ungherese, che gli disse che l'Ungheria non poteva in alcun modo accettare una soluzione ebraica che non fosse in linea con la cultura cristiana dell'Ungheria e la sua tradizione spirituale ("Seelenverfassung") (32). I corrispondenti tedeschi a Budapest continuavano a ripetere a chi li voleva ascoltare che sebbene "avrebbe potuto esserci un posto per gli ebrei nella 'Nuova Europa' non ce n'era alcuno nell''Europa fortificata'" (33). Questo per quanto riguarda le successive dichiarazioni sul fatto che gli ambienti ufficiali slovacchi e ungheresi erano tenuti all'oscuro. I satelliti croati di Hitler non sostennero di non essere stati informati. Essi furono in una certa misura i pionieri di una soluzione finale che riguardava sia i serbi che gli ebrei. I romeni, naturalmente seppero delle attività delle Einsatzgruppen quasi subito; dopotutto collaborarono con loro nella Russia meridionale. Ma quando Eichmann e le sue coorti apparvero nel 1942 con la richiesta che venissero loro consegnati gli ebrei romeni, il maresciallo Ion Antonescu, capo della Romania, fece finta di esser duro di orecchi. Bucarest non era più certa che la Germania avrebbe vinto la guerra e inoltre l'orgoglio nazionale impediva loro di lasciare che altri interferissero in affari interni romeni. Inizialmente i bulgari seppero meno. Essi "non" avevano dichiarato guerra all'Unione Sovietica e le loro truppe non entrarono in Russia. Ma nel giugno 1942 i bulgari furono informati da Beckerle, l'ambasciatore tedesco a Sofia. che tutti gli ebrei europei dovevano essere deportati in Polonia. Beckerle lo aveva riferito a Belev, da poco nominato commissario per gli affari ebraici. Belev era incline ad accettare la richiesta di consegnare gli ebrei, mentre altri erano contrari. La storia di questo tiro alla fune è stata raccontata dettagliatamente. Finì con un compromesso: 11 mila ebrei della Tracia e della Macedonia bulgare furono deportati nel 1943 e uccisi; ai rimanenti fu permesso di restare in Bulgaria. Le pressioni tedesche continuarono come in Romania, ma i bulgari, come i romeni, fecero finta di non capire. Il Führer aveva detto loro che alla fine della guerra gli ebrei avrebbero dovuto lasciare l'Europa. Allora perché non aspettare la fine della guerra? La maggior parte degli ebrei bulgari era composta da operai e la loro presenza era necessaria. Stalingrado e El Alamein non rafforzarono la fiducia dei bulgari in una vittoria tedesca ed essi non avevano nessun desiderio di compromettersi inutilmente. Il governo bulgaro non seppe nulla di più concreto sulla soluzione finale? Non ufficialmente, ma c'erano molti canali d'informazioni. I russi avevano rappresentanti diplomatici nella capitale bulgara durante la guerra. L'ambasciatore bulgaro in Svizzera non era altro che Georgi Koseiwanow, amico del re, ex primo ministro e amico personale di molti alti funzionari. Come la maggior parte degli ambasciatori, Koseiwanow era abituato a leggere i giornali. Istanbul era ancora più vicina di Berna; funzionari e parlamentari bulgari vi si recavano e vi incontravano piuttosto regolarmente rappresentanti neutrali e alleati. Membri di una missione commerciale bulgara a Istanbul fecero in modo, alla fine del 1942, di incontrare ebrei bulgari che si erano stabiliti temporaneamente in Turchia (34). C'era un contatto quasi continuo fra la Bulgaria e il mondo esterno. In breve, non c'erano segreti neanche a Sofia. Infine la Francia, la zona occupata e Vichy. Gli arresti iniziarono nel luglio 1942 con la grande retata di Parigi (Velodromo d'inverno) di circa 13 mila ebrei apolidi. Seguirono altri numerosi arresti e nello spazio di un mese i treni cominciarono a partire per Auschwitz. Secondo le spiegazioni fornite da Vichy dovevano essere trasportati nella Polonia meridionale per essere impiegati in opere di pubblica utilità (35). L'uso di questa terminologia ("Sprachregelung") era

stato concordato fin dall'inizio e fu confermato in un incontro fra Pierre Laval, vice primo ministro di Vichy, e Knochen, capo delle S.S. e comandante della polizia in Francia. Parlando in generale, i nazisti cercarono in Francia più che in ogni altro paese di stendere un velo sul vero significato delle deportazioni; il termine usato dalle autorità fu infatti rinsediamento ("Umsiedlung") piuttosto che deportazione. Ci furono proteste da molte parti: gli Stati Uniti, i vescovi cattolici e i pastori protestanti, e perfino l'Ungheria. Ma Laval dichiarò che non avrebbe deviato dalla strada intrapresa. Se le spiegazioni ufficiali fossero state credute non ci sarebbe stata nessuna protesta, perché in quel periodo molti francesi andavano a lavorare in Germania e ciò non faceva grande scalpore. Ma il fatto che nei trasporti ci fossero anche molti bambini piccoli (che erano inoltre separati dai loro genitori) così come persone anziane e malate mostrava che i nazisti avevano intenzioni diverse. Come Donald Lowry, un rappresentante dei quaccheri, riferì il 10 agosto 1942 a Tracy Strong, segretario generale del comitato mondiale dell'Y.M.C.A., "essi [i deportati] hanno poche illusioni riguardo al destino che li aspetta in Polonia". Valeri, il nunzio apostolico, disse al Vaticano la stessa cosa il 7 agosto: la gente in Francia non crede alla versione ufficiale perché fra i deportati ci sono vecchi e malati. Le notizie sui massacri furono trasmesse da Londra in Francese ("Les Français parlent aux Français") a cominciare dai primi giorni del luglio 1942. Alcuni giornali e opuscoli della resistenza menzionarono l'uso di gas venefici nell'ottobre-novembre; una importante eccezione è rappresentata dall'"Humanité" che non parlò dello sterminio degli ebrei fino alla fine della guerra (o). Ma Laval rimase fedele alla sua storia degli ebrei mandati a costruire una colonia agricola quando il pastore Boegner andò a trovarlo agli inizi del settembre 1942 per protestare. Come Boegner scrisse in seguito: "Je lui parlais de massacres, il me repondait jardinage" (36). Ma Laval e i suoi collaboratori, inutile dirlo, non credevano al "jardinage". Se anche non sapevano i particolari della soluzione finale, certamente sapevano che gli ebrei non sarebbero ritornati.

NOTE AL CAPITOLO 1. (a) Rudolf von Gersdorff, un maggiore dello stato maggiore, dopo essere stato informato dell'esecuzione di diverse migliaia di ebrei a Borisov, scrisse il 9 dicembre 1941 nel diario di guerra della Heeresgruppe Mitte: "In tutte le conversazioni con gli ufficiali mi sono state fatte domande sull'esecuzione di ebrei senza che io avessi sollevato la questione. Ne ho tratto l'impressione che l'uccisione di ebrei sia disapprovata da quasi tutti gli ufficiali". (R. Ch. Freiherr von Gersdorff, "Soldat im Untergang", Berlin 1977, p.p. 96-99). Quando il generale Busch, comandante della Sedicesima Armata, udì gli spari delle esecuzioni dalla sua camera d'albergo a Kovno disse che queste cose non erano di competenza degli ufficiali e che essi non dovevano

fare nulla al riguardo. (Peter Hoffmann, "Widerstand, Staatsstreich, Attentat", München 1970, p. 317). Ma un altro ufficiale pluridecorato, Axel von dem Bussche, decise di partecipare alla cospirazione contro Hitler proprio perché aveva accidentalmente assistito a esecuzioni in massa all'aeroporto di Dubno nell'autunno 1942. (b) Due esempi saranno sufficienti: una cittadina palestinese, residente a Sosnowice, che era stata rimpatriata nel novembre 1942, riferì all'Agenzia ebraica dell'esistenza di camini nei pressi di Auschwitz, e dell'uso a cui erano adibiti. La sua testimonianza, insieme a quella di altri di cui parleremo più avanti, fu trasmessa il 20 novembre 1942 dalla Sezione informazioni dell'Agenzia ebraica. Essa deve esserne venuta a conoscenza al più tardi fra l'agosto e il settembre 1942. Secondo un rapporto della Gestapo datato 18 marzo 1942, Karl Golda, un salesiano di ventotto anni e residente in un monastero vicino ad Auschwitz, fu arrestato per aver raccolto materiale relativo al campo. Anche lui fu mandato ad Auschwitz dove morì il 14 maggio 1942. Questo accadeva ancora prima che le uccisioni in massa fossero iniziate. Mostrare eccessiva curiosità era pericoloso, ma quando i trasporti in massa cominciarono ad arrivare coloro che vivevano nei dintorni non poterono fare a meno di notarli. (c) Non tutte quotidiana.

le

sentenze

furono

tuttavia riportate dalla stampa

(d) Per fornire un solo esempio: D.N.B., l'agenzia di stampa ufficiale tedesca, diffondeva un bollettino ufficiale (riservato) che veniva letto da centinaia di alti ufficiali. Il 22 luglio 1942 il bollettino annunciò che c'era stata una dimostrazione di ebrei al Madison Square Garden di New York per protestare contro l'assassinio di un milione di ebrei. (e) Questo non per mettere in dubbio la testimonianza del conte Helmuth Moltke, uno dei martiri della resistenza tedesca contro Hitler, che scrisse in una lettera a un amico inglese: "Credo che almeno i nove decimi della popolazione non sappiano che abbiamo ucciso centinaia di migliaia di ebrei. Essi continuano a credere che siano stati semplicemente segregati e conducano una esistenza più o meno simile a quella che conducevano prima, ma soltanto più a est. Forse un po' più squallida, ma senza incursioni aeree. Se tu dicessi a questa gente cosa è realmente successo essi ti risponderebbero: sei una vittima della propaganda britannica, ricorda che cose ridicole dissero sul nostro comportamento in Belgio nel 1914-18..." (Moltke a Lionel Curtis, Stoccolma, 25 marzo 1943, citato in M. Balfour e J. Frisby, "Helmuth von Moltke", London 1972, p. 218). Moltke, che faceva parte dell'Abwehr per avere una copertura, aveva saputo, seppure vagamente, dei massacri anche prima della conferenza di Wannsee, come emerge dalle lettere inviate a sua moglie. E' già stato osservato che la propaganda alleata sui numerosi bambini belgi, uccisi a quanto si diceva con la baionetta, era ancora ampiamente ricordata nell'Europa del 1942, non solo fra i tedeschi, e dissuadeva molti dall'accettare le notizie sullo sterminio degli ebrei. Ma anche se più dei nove decimi della popolazione non sapevano o non ci credevano, restavano milioni che ne erano venuti a conoscenza e non avevano dubbi. (f) Vedi p. 49. (g) Secondo il suo dossier, conservato all'Archivio centrale nazista (Centro di Documentazione di Berlino), Neugeboren era nato a Brasov nel 1905. Nel 1939 era entrato al ministero degli esteri tedesco. Nel 1942 si era arruolato volontario nelle S.S., ma passò il resto della guerra svolgendo attività di coordinamento per le S.S. e per il ministero degli esteri a Berlino e nell'Europa sudorientale.

(h) Per il ruolo di Lemmer come fonte sullo sterminio degli ebrei vedi appendice 1. (i) Le frasi in corsivo, qui e più avanti, sono in italiano nel testo. (N d. T.) (l) Secondo testimonianze finlandesi del dopoguerra "nulla si sapeva durante l'intera guerra sui metodi usati nei campi di concentramento tedeschi") (Mannerheim, "Memorie", ed. finlandese, p. 388). Ciò è vero solo se si mette l'accento sui "metodi", e cioè sulla questione se venivano usati gas venefici o altri mezzi. Kiwimaeki, l'ambasciatore a Berlino, scrisse che venne a sapere attraverso Kersten che Hitler intendeva chiedere che la Finlandia consegnasse i suoi 8300 [sic] ebrei ("Suomolaisen Politikon Muistelmat", "Memorie di un politico finlandese", Helsinki 1965, p. 243). Alcune pagine dopo l'autore dice che aveva saputo che le autorità finlandesi avevano preso di propria iniziativa misure per consegnare alla Germania gli ebrei che avevano raggiunto la Finlandia come profughi (p. 246). Questi ebrei furono consegnati ai tedeschi il 6 novembre 1942; uno di loro sopravvisse. Un kibbutz è dedicato in Israele alla loro memoria. Infine Kiwimaeki dice che sebbene non avesse una conoscenza esatta dei particolari del destino previsto per gli ebrei aveva sufficienti informazioni per sapere che i giorni di molti di loro erano contati. Dice anche che i giornali svedesi che riportavano notizie sul sistematico sterminio erano regolarmente letti in Finlandia nel 1942. Per la maggior parte dei finlandesi che non avevano accesso a notizie riservate questa fu la fonte principale di informazioni, un fatto che è stato osservato da autori recenti (per esempio Boris Gruenstein, in "Helsingin Sanomat", 22 aprile 1979). (m) Wipert von Bluecher all'Auswärtiges Amt, 29 gennaio 1943. Witting, il ministro degli esteri finlandese, fu anch'egli universalmente biasimato per essere stato troppo disponibile ad acconsentire alle richieste tedesche. La stampa finlandese fu assai esplicita nelle proprie critiche alle autorità. "Suomen Sosialdemokraati" (11 dicembre) e "Hufvudstadsbladet" (12 dicembre) sottolinearono il fatto che questo era un problema politico, non da far decidere alla polizia, e che il diritto di asilo non avrebbe dovuto essere stato violato. Ci furono altre voci del genere. Soltanto giornali filonazisti relativamente poco importanti come "Ajan Suunta" e "Uusi Eurooppa" pubblicarono editoriali sul tono di "Molto rumore per nulla". (n) Il governo finlandese ebbe anche un'altra importante fonte di informazioni: avendo decifrato il codice americano, dai primi mesi del 1942 il servizio segreto finlandese intercettò sistematicamente i messaggi fra Washington e le varie capitali europee. Un autore finlandese del dopoguerra osserva che il governo finlandese era particolarmente bene informato in quanto aveva potuto leggere i telegrammi inviati quotidianamente dalla legazione americana a Berna, da dove, nel 1942, proveniva la maggior parte delle informazioni (Jukka Makela, "Im Rücken des Feindes", Frauenfeld 1967, p. 159). (o) La ragione non può essere stata l'ignoranza perché un altro giornale clandestino comunista con una diffusione più ristretta (riservato agli studenti e ai professori delle università) menzionava Auschwitz e il fatto che gli ebrei erano destinati allo sterminio.

Capitolo 2. I NEUTRALI: "RAPPORTI CONCORDI E ATTENDIBILI". Quattro paesi neutrali ebbero un ruolo importante per quanto riguarda le notizie sul destino dell'ebraismo europeo: innanzitutto la Svizzera, dove si trovava la maggior parte degli emissari ebrei; poi la Turchia, la Svezia e, in misura minore, la Spagna. Questo vale per le operazioni di soccorso ma ancora di più per la raccolta di informazioni. Si è visto, nel capitolo precedente, che cittadini dei paesi neutrali ebbero molte occasioni di viaggiare in Germania e nei paesi occupati e che alcuni di loro erano molto bene informati. I paesi neutrali furono anche di vitale importanza per la rete spionistica polacca che portò a Londra la maggior parte delle notizie sul proprio paese. Berna e Stoccolma furono "basi" centrali (così come Budapest e Istanbul). Mentre gli emissari procedevano, se possibile, direttamente verso Londra, i corrieri consegnavano frequentemente i loro messaggi a Stoccolma e a Berna perché venissero poi trasmessi a Londra (a). Anche i servizi segreti britannico e americano avevano, inutile dirlo, i loro rappresentanti in queste capitali. La Svizzera si trovava in posizione preminente sia come posto di ascolto che come posto in cui preparare operazioni di soccorso. Dieci anni dopo la fine della guerra, dopo molti esami di coscienza e dibattiti pubblici, il governo svizzero chiese a un insigne accademico, il professor Ludwig, di preparare un rapporto sulla politica svizzera verso i profughi durante la guerra. Una copia del rapporto fu sottoposta, prima della pubblicazione, al dottor Rothmund, che durante quel critico periodo era stato capo dell'ufficio stranieri della polizia svizzera. La domanda principale posta da Ludwig era la seguente: fino a che punto si era al corrente della campagna nazista di sterminio? Era ovviamente molto importante sapere se i funzionari svizzeri erano a conoscenza della soluzione finale nel 1942, quando rimandarono indietro i profughi. Ma secondo il parere di Rothmund la domanda non era in realtà d'importanza decisiva: "Si sapeva abbastanza in quella estate", scrisse in una lettera di commento. I documenti lo confermano. Il 30 luglio 1942, il dottor Rothmund inviò una comunicazione di ventitré pagine ai capi locali della polizia in cui menzionava esplicitamente le orribili ("grässlich") condizioni nei ghetti ebraici dell'est riferendosi a "rapporti concordi e attendibili" (1). Va detto fra parentesi che ciò non impedì a Rothmund due settimane dopo di dare istruzioni affinché i profughi ebrei venissero respinti. Un termine come "grässlich" non si usa frequentemente in tempo di guerra: si riferisce ovviamente a qualcosa di peggiore della fame o delle malattie. Questi "rapporti concordi e attendibili" provenivano sia da fonti occasionali che dai normali canali d'informazioni. E' già stato menzionato il caso del cittadino svizzero che alla fine del 1941 assisté per caso, a Kamenets-Kasirski, a un massacro di ebrei da parte delle Einsatzgruppen e ne riferì al console svizzero ad Amburgo. Il rapporto del professor Ludwig cita frequentemente i rapporti di fonti ebraiche ricevuti dal Congresso mondiale ebraico e dalla Agenzia ebraica. Ma non è certo se le autorità svizzere credevano a questi rapporti; avevano comunque accesso alle stesse fonti e anche ad altre. Ci fu il caso di un medico di Zurigo, il dottor Rudolf Bucher, specialista in trasfusioni di sangue, che visitò Varsavia, Smolensk e

altre città esteuropee fra il novembre 1941 e il gennaio 1942. Fu uno dei membri della prima delegazione svizzera sul fronte orientale, guidata dal dottor Bircher, un ufficiale svizzero di grado elevato (e anche medico) che aveva spiccate simpatie per i tedeschi (2). In un libro pubblicato dopo la guerra, Bucher affermò che venne a sapere di Auschwitz e delle camere a gas nel dicembre 1941 o nel gennaio 1942 (3). Ciò è assai improbabile perché le camere a gas cominciarono a funzionare ad Auschwitz soltanto diversi mesi dopo se si eccettua la prova di collaudo del settembre 1941, dove furono uccisi circa 800 prigionieri di guerra sovietici. Ma anche se la memoria lo tradì per quanto riguarda Auschwitz, il dottor Bucher deve avere certamente assistito a dei massacri e deve aver sentito parlare di altri. Quasi immediatamente dopo il suo ritorno in Svizzera, il dottor Bucher apparve in riunioni pubbliche durante le quali parlò delle inumane condizioni in cui erano tenuti gli ebrei, aggiungendo che aveva visto con i suoi occhi l'assassinio di molti di loro a Varsavia e Smolensk. Centinaia di persone erano presenti a queste conferenze. Le autorità tedesche protestarono e Bucher fu minacciato dai suoi superiori nell'esercito svizzero (4). Bucher diventò in seguito una figura pubblica e dopo la guerra fu per molti anni membro del Parlamento svizzero. Chi lo conobbe lo descrive come un testimone non troppo attendibile, un uomo portato all'eccitazione e alla esagerazione. Ma, ed è ciò che conta, in questa occasione egli certamente non esagerò e la sua eccitazione non fu fuori luogo. La sua testimonianza fu ulteriormente rafforzata dal racconto di Franz Blaettler (chiaramente uno pseudonimo), un autiere che aveva accompagnato la stessa missione. Egli scrisse anche un libro in cui descrisse la "scena di una morte in massa" nel ghetto di Varsavia che definì "un grande cimitero": "Mi vergognavo di lasciare da uomo libero questo luogo d'orrore" (5). Il suo diario fu sottoposto alle autorità svizzere. Contiene annotazioni come la seguente in data 23 ottobre: "Ieri 3000 ebrei uccisi per atti di sabotaggio". O in data 7 novembre: "Donne e bambini liquidati ("umgelegt") per aver sparato su soldati tedeschi". Ci furono altre tre missioni mediche svizzere sul fronte orientale, l'ultima nel 1943; ma nel frattempo la censura aveva imposto il silenzio su ciò che i suoi membri avevano visto. Esaminando sia i loro rapporti ufficiali (inediti) che alcuni diari personali conservati negli archivi ho trovato molte anamnesi e molte descrizioni del paesaggio polacco e ucraino e degli abitanti, ma non si fa parola degli ebrei. Forse i membri di queste missioni non videro nulla di male, forse avevano preso sul serio l'ordine di non rivelare nessuna notizia riservata in cui avrebbero potuto imbattersi: tutti avevano dovuto firmare una dichiarazione in questo senso quando erano entrati in territorio tedesco. O forse la maggior parte degli ebrei erano già morti e non c'era più nulla da vedere e da riferire. Ovviamente, le informazioni vennero anche da fonti ufficiali. Stucki, l'ambasciatore svizzero a Vichy, riferì di un incontro con Laval da cui appare che questi fosse di umore truce, che le proteste per le deportazioni degli ebrei non lo avrebbero smosso, e che sapesse quale destino aspettava i deportati. Ci furono su questo argomento rapporti di consoli svizzeri da posti come Marsiglia (6). Cittadini svizzeri che si trovavano nell'Europa occupata dai nazisti tornavano a casa per brevi o lunghi periodi e riferivano le loro impressioni. Cittadini svizzeri ascoltavano alla radio i discorsi di Adolf Hitler da una parte e di Thomas Mann dall'altra. Nel suo messaggio di Capodanno 1942 Hitler aveva dichiarato: "L'ebreo non sterminerà il popolo europeo, cadrà vittima del suo proprio malvagio disegno". E il 30 settembre 1942 allo "Sportpalast": "Ho detto nel mio discorso al Reichstag del primo settembre 1939 che se gli ebrei scateneranno una guerra mondiale non sarà il popolo ariano a essere sterminato da quello ebraico... Una volta gli ebrei in Germania ridevano delle mie profezie; non so se ridono ancora o se hanno ancora voglia di ridere. Io posso soltanto assicurare loro che

smetteranno di ridere dovunque e che avrò profezie". Un giornale discorso:

svizzero,

ragione

la "Thurgauer Zeitung",

anche

con

queste

commentò dopo questo

"Non c'è più possibilità di dubbio: le parole di Hitler possono essere interpretate solo nel senso che lo sterminio degli ebrei resta uno dei punti che verranno perseguiti a prescindere dall'esito della guerra. Hitler ha distrutto tutte le illusioni che ancora esistevano sul destino degli ebrei..." (7). Thomas Mann, parlando attraverso la B.B.C. a Londra, menzionò nel novembre 1941 le cose "indicibili" fatte subire agli ebrei e ai polacchi (8). Nella prefazione alla raccolta di questi discorsi radiofonici Thomas Mann scrisse: "Mi ascoltava molta più gente di quanto mi potessi aspettare, non solo in Svizzera e in Svezia". Nelle sue trasmissioni posteriori fu più specifico: nel settembre 1942 parlò del totale sterminio dell'ebraismo europeo, della gassazione di migliaia di persone vicino a Varsavia, dei racconti dei macchinisti tedeschi che avevano condotto i treni nei centri della morte. La stampa svizzera era tenuta bene informata. Charles Schuerch, segretario dell'organizzazione sindacale svizzera, pubblicò una testimonianza oculare, datata Parigi, 21 luglio 1942, e intitolata "Non possiamo tacere" (9), in cui descrisse le grandi retate in Francia, che furono il preludio della prima massiccia deportazione. Molti giornali svizzeri scrissero in quel periodo che era ridicolo sostenere che i profughi respinti alla frontiera svizzera non fossero realmente in pericolo, mentre invece andavano incontro a morte sicura (10). I resoconti sulla situazione in Francia alla vigilia della deportazione erano sufficientemente sconvolgenti. Ma ci si domandava ancora che cosa sarebbe accaduto agli ebrei provenienti dalla Francia, dal Belgio e dai Paesi Bassi una volta che fossero stati deportati. La stampa svizzera nutriva poche illusioni: il "Volksrecht" (Zurigo) scrisse il 15 agosto che la maggior parte sarebbe morta durante il trasporto. Il "Volk" (Olten) commentò il 18 agosto che tutte quelle migliaia di persone avrebbero conosciuto una morte terribile in un ghetto polacco o ucraino. La "Schweizerische Kirchenzeitung" scrisse il 27 agosto che le scene riferite ricordavano il massacro dei bambini di Betlemme come si legge nella Bibbia; dietro tutto ciò c'era un unico scopo: lo sterminio degli ebrei. Ogni tanto la censura svizzera interveniva e puniva coloro che erano stati "troppo unilaterali" nei loro resoconti. Così, all'organo della comunità ebraica svizzera fu detto che "le citazioni abilmente selezionate sulla persecuzione degli ebrei avevano un carattere propagandistico e perciò inammissibile". E se, chiese il censore, qualcuno avesse pubblicato una raccolta di citazioni antisemite con l'intenzione di fare propaganda antiebraica? Certamente la discussione sulla persecuzione antiebraica doveva essere affrontata in modo pacato e obiettivo ("sachlich") (11). Purtroppo le misure prese dai nazisti non erano né pacate né obiettive. In complesso, tuttavia, la censura svizzera non soppresse le notizie sui sistematici massacri nel 1942; data la situazione politica e le costanti pressioni tedesche, ciò richiese un certo coraggio. L'anno seguente, il 1943, la censura svizzera si fece più severa. I giornali svizzeri ricevettero una diffida ufficiale perché avevano pubblicato resoconti dalla stampa britannica sul massacro di Babi Yar di due anni prima (12). Alcuni giornali come la "Nation" ricevevano continue diffide per il fatto di pubblicare dettagliate descrizioni dei campi della morte, in cui, in certi giorni, venivano uccisi da 7000 a 10 mila ebrei. Tali resoconti erano, nelle parole del censore, "notizie sensazionali della peggior specie ("krasseste Greuelmeldungen")" che erano giunte dalla stampa britannica e che avevano per scopo di giovare alla propaganda di una delle parti belligeranti (13).

Per il censore militare era del tutto irrilevante se le notizie erano vere o false. Ciò che contava era che la posizione della Svizzera nella seconda metà del 1943, dopo l'occupazione tedesca dell'Italia, era ancora più delicata dell'anno precedente. In queste circostanze la Germania non doveva essere provocata. Ma nel 1942, il periodo preso in esame in questo studio, anche giornali moderati, mai tentati dal sensazionalismo, erano espliciti. Così la "Neue Zürcher Zeitung" del 13 settembre 1942: "...questi resoconti su misure la cui incredibile crudeltà non ha precedenti neanche in questa guerra globale provocano sentimenti di orrore. Non possiamo ancora avere un quadro finale, ma abbiamo commoventi testimonianze di natura incontestabile che non lasciano spazio ad abbellimenti di sorta". La maggior parte di questi articoli riguardava la deportazione, lo sradicamento e la divisione delle famiglie. Questi erano fatti tragici ma pochi avevano formulato apertamente l'equazione deportazione = assassinio. D'altra parte, sarebbe stato espresso tanto orrore sulle deportazioni se non ci fossero stati sospetti (e più che sospetti) sul destino dei deportati? Così la "Tribune de Genève" scrisse il 16 settembre 1942: "Où vont-ils, tous ces malheureux? Ils ne le savent pas, mais ils le devinent...". La "Schaffhauser Zeitung" dello stesso giorno parlò delle "orrende voci" che circolavano riguardo ai trasporti. Un piccolo giornale cittadino, il "Volksfreund" di Flawil (10 ottobre) andò anche oltre e chiese recisamente: "Gli ebrei deportati vengono uccisi?". E aggiunse: "La domanda può sembrare imprudente. Alcuni diranno che se gli ebrei deportati nell'est vengono realmente uccisi, se vengono fucilati, se muoiono di fame o per qualche altra ragione la cosa non ci riguarda. Ma come popolo cristiano nell'Europa cristiana dobbiamo preoccuparci se un massacro di innocenti di un'altra razza sta effettivamente avvenendo". Flawil è una piccola città nel cantone di San Gallo. Contava a quell'epoca circa seimila ebrei. Ciò che si sapeva a Flawil si sapeva sicuramente anche a Berna, Zurigo, Basilea e Ginevra. La stampa svizzera dette risalto a una corrispondenza da Stoccolma della United Press in cui si diceva che a Berlino era un "segreto conosciuto da tutti" il fatto che non si facesse alcun preparativo per rinsediare gli ebrei. Alcuni "trasporti della morte" portavano gli ebrei nei ghetti superaffollati, altri direttamente nei luoghi di esecuzione. L'"Evangelische Flüchtlingshilfe" pubblicò un volantino nell'ottobre 1942 in cui si diceva: "Gli ebrei, il popolo di Dio, stanno morendo. Per tutta l'Europa riecheggiano le urla di coloro che vengono fucilati o uccisi col gas". Alla domanda posta dal "Volksfreund" rispose la "Basler Nationalzeitung", uno dei più importanti giornali del paese: "Le autorità tedesche non si accontentano di togliere agli ebrei i diritti umani più elementari. Adesso mettono in atto la minaccia frequentemente annunciata di distruggere la razza ebraica in Europa. Gli ebrei di tutti i territori occupati vengono deportati in orribili condizioni. In Polonia sono sistematicamente sterminati. Non si è più sentita una parola da parte di chi è stato deportato" (14). Simili notizie apparvero anche in altri organi di stampa. Perciò, retrospettivamente, il dottor Rothmund aveva ragione quando disse che nel 1942 si sapeva "abbastanza". Mentre il superiore di Rothmund, von Steiger, capo del dicastero degli interni, scrisse nel 1955 al professor Ludwig che lui e i suoi colleghi nel governo svizzero erano giunti a credere soltanto nel 1944-45 che le voci sulle atrocità fossero vere (15). Rothmund, che con il completo appoggio di von Steiger aveva dato l'ordine di respingere gli ebrei, fu largamente criticato e retrocesso dopo la guerra. Von Steiger, un grande

opportunista, ne uscì con appena una macchia sulla propria reputazione. C'è poca giustizia in politica. Von Steiger avrebbe potuto rispondere che, visto che gli Alleati non avevano particolare fretta di confermare le notizie sui massacri nell'est, non c'era nessuna ragione perché lui, un ministro di un paese neutrale, dovesse dare maggiore credito a queste voci. C'era stata la dichiarazione ufficiale degli Alleati nel dicembre 1942 ma prima di tutto non fu particolarmente dura e poi fu ulteriormente mitigata dal governo americano. Tutto ciò può essere verissimo, ma costituisce difficilmente una scusa morale. Perché il ministro svizzero ovviamente sapeva, così come sapevano i ministri britannici e americani, a meno che non leggesse mai i giornali, non ascoltasse mai la radio e, in generale, si rifiutasse di discutere di politica. Per chiunque leggesse la stampa svizzera alla fine dell'estate e nell'autunno del 1942 non ci poteva essere alcun ragionevole dubbio sul fatto che nell'Europa orientale si stessero perpetrando veri massacri; non isolati pogrom, ma sistematico sterminio. Considerata la particolare posizione della Svizzera, i giornali svizzeri erano tanto espliciti, se non di più, quanto quelli in Inghilterra e in America e perfino in Palestina. Le "voci" non giunsero soltanto da giornalisti svizzeri nell'Europa occupata ma anche da molte altre fonti. Giunsero attraverso i canali diplomatici svizzeri e da cittadini svizzeri che vivevano in Germania o in Europa orientale o che tornavano da visite in Germania o nei territori occupati dai tedeschi. Giunsero con i profughi che riuscirono a passare clandestinamente il confine svizzero nel 1942; alcuni di questi racconti sono citati altrove in questo libro. Giunsero dai governi in esilio, come quello polacco e quello olandese, che avevano i loro rappresentanti in Svizzera; da agenti di servizi segreti stranieri, dalla Croce Rossa Internazionale e dal Comitato ecumenico per l'assistenza ai profughi (dottor Visser't Hooft e reverendo dottor Freudenberg). Giunsero anche da diplomatici tedeschi in visita che accennavano occasionalmente alla cosa. In breve, le notizie giunsero da ogni possibile direzione. Von Steiger, e attraverso lui il governo svizzero, erano tenuti informati dal dottor Alphons Koechlin, presidente dell'Associazione protestante svizzera. La Svezia era in una posizione meno centrale come posto di ascolto, ma il governo svedese era comunque tenuto informato da diverse fonti. C'era la presenza di diplomatici, giornalisti e uomini d'affari svedesi in Germania e nei territori occupati. Kurt Gerstein, primo ufficiale delle S.S. per la "disinfezione", di ritorno da un giro d'ispezione a Belzec aveva fatto alcune rivelazioni a un diplomatico svedese, il barone von Otter, in un famoso incontro sull'espresso Varsavia-Berlino. Si è discusso a lungo sui risultati di questo incontro e adesso si può rispondere con una certa sicurezza. Von Otter stese per prima cosa un resoconto scritto di questo drammatico incontro, ma poi decise di non inviarlo con la posta diplomatica perché doveva tornare a Stoccolma entro una settimana. Intervistato molti anni dopo la guerra, von Otter disse che si trovò in una "situazione assolutamente unica". Fu il primo diplomatico a scoprire la verità. Cosa sarebbe successo se i suoi superiori avessero passato la notizia agli Alleati e se questi avessero fatto conoscere i fatti? Von Otter pensava che il popolo tedesco non ci avrebbe creduto perché era in una "morsa di ferro" (16). Soederblom, capo del dipartimento politico al ministero degli esteri svedese, al quale Otter aveva fatto rapporto, disse: "Giudicammo troppo rischioso passare la notizia da un paese belligerante a un altro"; disse anche che a quell'epoca circolavano moltissime voci. Gösta Engzell, allora portavoce del ministero degli esteri, aveva vaghe reminiscenze: von Otter aveva ricevuto qualche notizia su cui si era discusso al ministero degli esteri. Anche Eric Boheman, portavoce del governo, pensava che ci fossero negli archivi alcuni documenti su

questo episodio. Dietro mia richiesta, l'archivio von Otter è stato aperto per la prima volta nel febbraio 1980. Ma l'unico documento rinvenuto fu una lettera di von Otter al visconte Lagerfelt presso la legazione svedese a Londra (17) (b). Vi si trova la storia dell'incontro con Kurt Gerstein alla fine dell'agosto 1942 e il rapporto sulla "fabbrica di cadaveri" di Belzec (traduzione letterale dallo svedese). Ci sono particolari sulle circostanze dei trasporti, sulla procedura tecnica, sulle reazioni delle S.S. e delle vittime ebree, sulla raccolta dei gioielli, dei denti d'oro e di altri oggetti di valore. Gerstein mostrò a von Otter anche diversi documenti sull'acquisto di gas cianidrico. Scopo di Gerstein, come egli stesso disse, era quello di attirare l'attenzione di uno stato neutrale su questi fatti. Espresse la convinzione che il popolo tedesco non avrebbe più appoggiato il regime nazista se le notizie sullo sterminio fossero state divulgate e confermate da imparziali fonti straniere. Gerstein visitò di nuovo von Otter sei mesi dopo il loro primo incontro per sapere quale uso gli svedesi avessero fatto delle sue informazioni. Il suo aspetto, secondo von Otter, faceva capire che si trovava in grande disperazione, pronto a suicidarsi a ogni momento, considerate le atrocità che si commettevano in Germania. Nel frattempo von Otter aveva ricevuto conferma dal vescovo Dibelius sull'attendibilità di Gerstein come testimone. Secondo Dibelius, egli si era arruolato volontario nelle S.S. per scoprire se era vero che un gran numero di malati mentali venivano uccisi per ordine di Hitler. Gerstein pensava che come esperto sanitario aveva buone possibilità per arrivare alla verità. Secondo von Otter, Dibelius aveva ricevuto da Gerstein lo stesso identico rapporto sul destino degli ebrei (c). Ciò che emerge da tutto questo è che ci fu soltanto un rapporto orale di von Otter nel 1942 che non sfociò in una comunicazione o in una nota scritta. L'argomentazione che il governo svedese "trovò troppo rischioso" (Soederblom) passare l'informazione agli Alleati può essere difficilmente presa sul serio perché c'erano, ovviamente, altri modi e mezzi per trasmetterla senza coinvolgere direttamente il governo svedese. Stando così le cose, perché il rapporto non fu almeno passato confidenzialmente alla stampa? Perché, per dirla in breve, si era nell'agosto 1942. L'ambasciata svedese a Berlino era assediata da sventurati ebrei e "ebrei cristiani" che temevano la deportazione e la morte e per i quali un visto svedese era l'ultima ciambella di salvataggio. I funzionari dell'ambasciata che si occupavano di queste richieste erano ovviamente a conoscenza dei pericoli mortali a cui andavano incontro i richiedenti (d). Il personale dell'ambasciata aveva stretti contatti con gruppi d'opposizione in seno alla Chiesa protestante tedesca e veniva da questi tenuto informato. Secondo un telegramma di Uxkuell, un corrispondente dell'Associated Press a Stoccolma, datato 11 ottobre 1942, i "trasporti della morte" continuavano malgrado la penuria di materiale rotabile e gli ebrei erano diventati totalmente indifferenti dopo che se n'era andata anche l'ultima speranza di evitare la deportazione, e cioè la morte; l'unica eccezione era rappresentata da alcuni operai altamente specializzati e da alcuni medici. Tale informazione poteva essere venuta da canali svedesi, come pure da qualche profugo. Non molti profughi arrivarono in Svezia a parte quelli dalla Norvegia e dalla Danimarca, ma fra quei pochi quasi tutti avevano una straordinaria storia da raccontare. Fra i giornali più espliciti c'era il "Göteborgs Handelsoch Sjöfartstidning", diretto da un coraggioso giornalista, Torgny Segerstedt. Questo quotidiano, così come i settimanali "NU", "Trots Allt" e alcuni altri, conteneva notizie sul destino degli ebrei. Inoltre, la Svezia rappresentava il governo olandese a Berlino, e gli olandesi mobilitarono gli svedesi già nel 1941 quando giunsero le prime notizie sull'uccisione di giovani ebrei olandesi a Mauthausen. Gli svedesi si rivolsero alle autorità tedesche a Berlino ma venne loro risposto che questa era una interferenza in affari interni tedeschi e che l'argomento non poteva essere discusso. Ma gli svedesi si rivolsero di nuovo alle autorità

tedesche verso la fine del 1942 quando iniziarono le deportazioni in massa; agirono anche a favore degli ebrei norvegesi che venivano deportati. Il risultato dei loro sforzi non riguarda questo contesto. Ciò che conta è che attraverso questi interventi l'ambasciatore Richert e i suoi assistenti vennero a conoscere i meccanismi della soluzione finale. La stampa svedese fu più reticente di quella svizzera riguardo alla soluzione finale sebbene non ci fosse nessuna censura. Fu soltanto nel dicembre 1942, dopo che le sorti della guerra erano cambiate, che nei giornali svedesi si poterono leggere occasionalmente espliciti e dettagliati rapporti e commenti. Questo anche per quanto riguarda un giornale liberale e filoccidentale come il "Dagens Nyheter". Durante i mesi critici dell'estate del 1942 ci furono resoconti sui decreti antisemiti a Vichy (4 giugno) e in Norvegia (19 giugno), sulla deportazione di elementi "criminali" ebrei dai Paesi Bassi verso l'est e sulle ancora più severe leggi antiebraiche in Germania (24 luglio). Ma i massacri venivano menzionati solo indirettamente, così come avvenne col messaggio di Churchill a un raduno ebraico di protesta e di cordoglio al Madison Square Garden di New York (23 luglio 1942). Ci furono alcune eccezioni ma furono poche e lontane nel tempo l'una dall'altra. Cosi il "Dagens Nyheter" scrisse il 13 settembre 1942 che le tecniche di persecuzione (degli ebrei) erano diventate più dure e più spietate. Ma questo poteva significare moltissime cose pur senza arrivare all'assassinio. Forse il primo commento editoriale apparve il 21 ottobre 1942 nell'"Eskilstuna Kuriren". Vi si parlava di indescrivibile barbarie e di una "guerra di sterminio" contro gli ebrei; si diceva che "la responsabilità era di tutti noi" e ci si chiedeva se i cristiani svedesi non erano forse i protettori dei loro fratelli. Eskilstuna è una città di provincia a ovest di Stoccolma. Ciò che lì si sapeva si sapeva ovviamente anche nella capitale. Se i giornali di Stoccolma non pubblicavano simili commenti ciò non era dovuto a mancanza d'informazioni. Informazioni esatte erano difficili da ottenere ma ciò valeva, a maggior ragione, anche per la guerra partigiana in Iugoslavia, sulla quale i giornali ebbero molto da riferire in quel periodo. Dal momento che il governo svedese ebbe, sugli avvenimenti in Polonia, informazioni dettagliate di prima mano da parte di influenti membri della colonia svedese a Varsavia fino al loro arresto nel luglio 1942, così come da altre fonti, e dal momento che giornali britannici e americani erano reperibili in Svezia, bisogna chiederci perché le informazioni furono soppresse almeno in parte. La risposta, in breve, è che, sebbene non ci fosse alcuna censura, il governo aveva il diritto di confiscare un giornale senza dover portare la cosa in tribunale nel caso in cui il giornale avesse pubblicato notizie o commenti "tali da provocare contrasti con un paese straniero". Il ministero svedese dell'informazione aveva inviato una circolare alle redazioni dei giornali per segnalare gli argomenti da non pubblicare. Fra questi c'erano le "atrocità commesse dai belligeranti". I ministri del governo svedese, in particolare il ministro degli esteri Guenther, nutrivano timori, in questo periodo critico, a proposito dei giornali che mostravano una deplorevole mancanza di responsabilità nazionale: un Nuovo Ordine si era creato in Europa, l'equilibrio del potere era cambiato ed era estremamente pericoloso provocare i tedeschi, la più forte potenza europea. La svolta avvenne quando nel novembre 1942 il governo Quisling della vicina Norvegia fece arrestare e deportare tutti gli ebrei, eccetto coloro che erano riusciti nel frattempo a fuggire in Svezia. Bisogna anche ricordare che nel novembre 1942 la sesta armata tedesca era accerchiata a Stalingrado, Rommel era stato definitivamente sconfitto e in Africa settentrionale ebbe luogo lo sbarco alleato. Ci fu grande emozione in Svezia: nelle chiese svedesi si tennero speciali funzioni, i vescovi pubblicarono appelli contro le misure antiebraiche e ci furono sermoni su argomenti come "la voce del sangue di tuo fratello grida a me dalla terra" (18). In pubbliche riunioni si dichiarò che il trattamento subito dagli ebrei in Norvegia superava

ogni descrizione. Secondo un'indagine Gallup, il 25% di tutti gli svedesi dichiarò che si sarebbero ricordati più a lungo (e con maggiore orrore) della deportazione degli ebrei dalla Norvegia che di ogni altro fatto accaduto nel 1942 ("Dagens Nyheter", 31 dicembre 1942). La stampa svedese, compresi i giornali che in precedenza non avevano avuto particolari simpatie per gli ebrei, espresse indignazione. Lo "Svenska Dagbladet" scrisse che le dichiarazioni platoniche non erano più sufficienti, che adesso occorreva agire, che a tutti gli ebrei della Norvegia doveva essere dato asilo in Svezia. Si citavano spesso le "navi della morte" e lo sterminio degli ebrei (19). Alcuni giornali misero in evidenza sia la "natura sadica" che la "meccanica precisione" della soluzione finale, considerata come una terribile macchia sulla civiltà europea. Mentre alcuni editorialisti descrivevano il destino degli ebrei senza menzionare specificatamente il fatto che venivano uccisi, altri - e di nuovo, sorprendentemente, molti giornali di provincia -dicevano espressamente che si trattava di "assassinio in massa", che un intero popolo veniva ucciso con inumana brutalità (20). Ma l'attenzione maggiore era rivolta alla Norvegia. Soltanto raramente si menzionava il fatto che i duemila ebrei della Norvegia non erano le uniche vittime di Hitler e che gli Alleati avevano fatto una dichiarazione comune contro i massacri (21). Il 20 dicembre 1942, il "Dagens Nyheter" scrisse che il silenzio dei giornali svedesi sulla persecuzione degli ebrei in Norvegia era dovuta al desiderio di aiutare le sventurate vittime, in un periodo in cui si credeva che il governo svedese facesse tutto il possibile in questa direzione: "E' impossibile in questo momento rivelare i particolari dei negoziati ma, quando saranno stati conclusi, il pubblico dovrà essere informato, e il silenzio non sarà più necessario". Ma una volta che i cancelli di Auschwitz si richiusero alle spalle degli ebrei della Norvegia la questione scomparve per molto tempo dalle colonne della stampa svedese. Fra i paesi neutrali, la Spagna era quella meno interessata alla sorte degli ebrei: i giornalisti e gli agenti segreti spagnoli non si fecero certo in quattro per stabilire cosa accadeva agli ebrei (e). Ma anche gli spagnoli non potevano fare a meno di sentire le solite "voci"; avevano ambasciatori e giornalisti nei paesi dell'Asse e anche nelle capitali neutrali e alleate. Avevano una divisione di volontari che combatteva sul fronte orientale; profughi ebrei erano riusciti a raggiungere la Spagna, che, data la situazione europea, era un porto tranquillo. Consoli spagnoli nei territori occupati dai tedeschi erano supplicati di concedere carte d'identità o visti a persone che stavano per essere deportate, a prescindere dai loro effettivi rapporti con la Spagna. Il governo spagnolo estese tale protezione ad alcuni ebrei di origine spagnola in Grecia e in altri paesi. Fu in realtà più generoso di altri paesi più democratici ma anche più pusillanimi, e rischiò anche di provocare del rancore nei tedeschi. Ufficialmente la Spagna non sapeva nulla sulla soluzione finale ma da fonti sia naziste che alleate emerse che almeno qualcuno a Madrid ne era sicuramente a conoscenza. Così von Thadden, lo specialista del ministero degli esteri tedesco per le complicazioni internazionali della soluzione finale, riferì a Eichmann che un membro dell'ambasciata spagnola a Berlino aveva informato oralmente un rappresentante del ministero degli esteri tedesco che la Spagna non avrebbe avuto nulla in contrario a consegnare alla Germania gli ebrei spagnoli di Grecia "se soltanto avesse avuto la certezza che non sarebbero stati liquidati" (22). Un mese dopo, l'ambasciata britannica a Madrid riferì che il governo spagnolo sarebbe stato favorevole all'idea di permettere agli ebrei con passaporto spagnolo di andare in Spagna invece che essere mandati in Polonia, dove presumibilmente sarebbero morti in campi di concentramento e saponificati (23). Gli archivi spagnoli non sono stati ancora esaminati, ma, a prescindere dal fatto che una ricerca potrebbe portare a nuove sorprendenti scoperte, è evidente che a Madrid, come in tutte le altre capitali europee, si era a conoscenza

del destino degli ebrei. Il ruolo del Vaticano è stato discusso infinite volte: se papa Pio Dodicesimo doveva mantenere il silenzio o se così facendo violò i più elementari doveri cristiani. Il Vaticano intervenne in Slovacchia e in Romania, e, sebbene non molto energicamente, in Francia e in Croazia. Hitler avrebbe arrestato il papa e fucilato i cardinali se avessero parlato in modo forte e chiaro? Non credo; era troppo desideroso di prevenire un aperto conflitto in tempo di guerra. Probabilmente fu più un caso di pusillaminità che di antisemitismo. Se il Vaticano non osò soccorrere centinaia di preti polacchi che morirono anche loro ad Auschwitz, non era realistico aspettarsi che avrebbe mostrato maggiore coraggio e iniziativa a favore degli ebrei. Ma la questione principale in questo studio non è ciò che il Vaticano fece, ma cosa seppe. Mentre ci possono essere legittime differenze di opinione sulle sue iniziative (o sulla mancanza di iniziative) non c'è ombra di dubbio sul fatto che sapesse. E' stato sostenuto (da Wladimir d'Ormesson) che il papa e i suoi collaboratori non avevano idea di ciò che stava succedendo nel mondo per il "totale isolamento" imposto loro dalla Germania nazista e dall'Italia fascista: il telegrafo era nelle mani degli italiani, c'erano interferenze nelle trasmissioni dall'estero eccetera (24). Ma d'Ormesson, che rappresentò la Francia in Vaticano fino all'ottobre 1940, non era una parte disinteressata e la sua apologia non è molto convincente. Per tutta la guerra ci furono molti contatti fra il Vaticano e il mondo esterno. Esso fu tenuto informato dai rappresentanti delle organizzazioni ebraiche a Ginevra che consegnarono lunghi rapporti al nunzio apostolico in Svizzera Bernardini (17 marzo 1942), così come ad Angelo Roncalli, il futuro papa Giovanni Ventitreesimo, a quell'epoca nunzio apostolico in Turchia; esso fu bombardato di note da Myron Taylor e Harold Tittmann, rappresentanti americani in Vaticano, da Sir Ronald Campbell, l'ambasciatore britannico, dal rappresentante brasiliano e da innumerevoli altri. Tutte queste note contenevano informazioni sui massacri compiuti dai nazisti. Se non fosse un argomento tragico, sarebbe un soggetto per una commedia, perché, ovviamente, il Vaticano non aveva bisogno di Myron Taylor, di Sir Ronald Campbell e dei brasiliani per avere informazioni sugli avvenimenti in Germania e in Europa orientale. Era meglio informato di chiunque altro in Europa. C'erano decine di migliaia di preti cattolici in tutta la Polonia, la Slovacchia e negli altri paesi. Essi erano parte della comunità: se qualcuno sapeva cosa stava succedendo erano proprio loro. C'erano molti milioni di cattolici praticanti in Germania, e altre decine di migliaia di preti, fra i quali non pochi servivano nell'esercito tedesco all'est. Se un prete cattolico venne a sapere della congiura contro Hitler, è difficile credere che non sentirono nulla sulle attività delle Einsatzgruppen e dei campi della morte. Un funzionario cattolico del ministero degli esteri parlò col suo vescovo della soluzione finale alla ricerca di una guida spirituale che evidentemente non ricevette. Ma di ciò si venne a sapere per puro caso, e possono esserci stati molti altri episodi come questo. Il Vaticano, inoltre, aveva canali di comunicazione diretti e indiretti con ogni paese europeo all'infuori della Russia (f). Se alcuni preti cattolici in Germania simpatizzarono con i nazisti, molti non lo fecero, e non ci fu nessun filonazista fra il clero polacco, e pochi in Francia. Dalla scarsa documentazione accessibile emerge che il Vaticano fu il primo o fra i primi, a sapere del destino degli ebrei deportati. Secondo Hans Gmelin, consigliere all'ambasciata tedesca a Bratislava, Burzio, il locale nunzio apostolico, scrisse in una lettera al primo ministro Tuka nel febbraio 1942 che era un errore pensare che gli ebrei sarebbero stati mandati a lavorare in Polonia, mentre invece vi sarebbero stati sterminati. Ciò trova conferma in un dispaccio di Burzio al Vaticano datato 9 marzo 1942 che merita di essere citato di nuovo, data la sua importanza: "La deportazione di 80 mila persone in Polonia alla mercé dei tedeschi significa condannarne una gran parte a

morte certa" (25). Eppure la linea ufficiale del Vaticano in tutto il 1942 rimase quella di non potere confermare le notizie sulla soluzione finale e che, in ogni caso, le informazioni sui massacri sembravano essere esagerate. In realtà, Orsenigo, rappresentante del Vaticano a Berlino, aveva riferito il 28 luglio sulle ""più macabre supposizioni sulla sorte dei non-ariani"" (26) (g). Ma supposizioni non erano fatti su cui un governo (o il capo della Chiesa cattolica) poteva basare la sua politica. Eminenti ecclesiastici, sia cattolici che protestanti (come il vescovo tedesco Dibelius), hanno sostenuto dopo la guerra che fino alla fine non furono consapevoli di tutte le implicazioni della soluzione finale. Questo può essere vero in riferimento a "tutte le implicazioni". Non ci fu alcuna prova che avrebbe resistito in un tribunale; a nessun cardinale o vescovo fu mai permesso di visitare Auschwitz, Sobibor o Treblinka. Essi sapevano per sentito dire, ma è improbabile che avessero dubbi sull'autorevolezza di queste informazioni. Il Vaticano era in una posizione migliore dei protestanti per poter sapere, dovuta semplicemente alla sua superiore organizzazione e ai suoi maggiori collegamenti internazionali. Attualmente gli archivi del Vaticano non sono accessibili. Mi è stato assicurato dal cardinale Casaroli, prefetto del Consiglio per gli affari pubblici della Chiesa (e segretario di stato), che mentre la Santa Sede non può derogare dal suo principio di non permettere l'accesso agli archivi, negli undici volumi di "La Santa Sede durante la seconda guerra mondiale" non è stato tralasciato nulla che si riferisca all'oggetto di questo libro (27). Se è così, bisogna supporre che la maggior parte di note, rapporti, lettere, comunicazioni eccetera scambiati fra la Santa Sede e i suoi rappresentanti da un lato e i governi stranieri dall'altro sia andata perduta; si può soltanto sperare e pregare che la perdita non sia permanente (h). Inoltre, molte informazioni raggiungevano il Vaticano non attraverso i canali diplomatici ma attraverso contatti personali fra preti di ogni rango, e di questo non ci sarà certo traccia negli archivi. Si può sostenere che anche le più energiche iniziative da parte del Vaticano non avrebbero salvato un solo ebreo. Ma non si può sostenere che il Vaticano non sapesse. Come dice Carlo Falconi, nessuno era meglio informato del papa sulla situazione in Polonia, ad eccezione, forse, del governo polacco in esilio. Fra tutte le organizzazioni internazionali non ufficiali nessuna si trovava in una posizione migliore della Croce Rossa per conoscere il destino degli ebrei in Europa. Come si legge nel rapporto della C.R.I. sulle sue attività durante la seconda guerra mondiale: "Dall'anno 1863, quando un comitato di cinque cittadini di Ginevra, con Henry Dunant come guida spirituale e il generale Dufour come capo, portò alla nascita del movimento mondiale della Croce Rossa, basato sulla formazione di Società nazionali, e alla prima Convenzione di Ginevra del 1864, la Croce Rossa, sia come istituzione umanitaria che sociale, ha raggiunto risultati molto più vasti di quelli previsti dal suo fondatore" (28). La C.R.I. era fautrice di una particolare idea: la protezione dei feriti e dei malati delle forze armate, il soccorso delle indifese vittime delle ostilità, il rispetto dell'essere umano, fornire un aiuto effettivo sulla base del principio di assoluta imparzialità. Durante la prima e la seconda guerra mondiale, così come in molte altre occasioni prima e dopo, la C.R.I. ha fatto tante cose buone e il suo lavoro disinteressato merita le più grandi lodi. Durante la seconda guerra mondiale compì migliaia di visite nei campi per prigionieri di guerra e fornì aiuto umanitario come cibo, medicinali e pacchi alla popolazione civile: vennero spediti 36 milioni di pacchi e vennero trasmessi 120 milioni di messaggi. Organizzò lo scambio di prigionieri di guerra gravemente feriti o malati e di certe categorie di civili; provvide allo scambio di brevi messaggi fra civili delle

nazioni belligeranti. Cionondimeno molte critiche sono state sollevate contro la C.R.I. per non aver esteso il suo aiuto agli ebrei, sia ai prigionieri di guerra che alla popolazione civile, eccetto che, nell'ultima fase della guerra, in Slovacchia e in Ungheria. La linea assunta dalla C.R.I. (come venne espressa dal professor Max Huber, l'allora presidente) fu che la popolazione civile in territorio occupato dal nemico aveva poca protezione, soltanto le "vecchie e incomplete disposizioni" dei Regolamenti dell'Aja del 1870, e che inoltre, per ragioni pratiche, suscitare uno scandalo avrebbe messo tutti in pericolo senza salvare un solo ebreo. E' vero che la C.R.I. non poteva operare in territorio russo perché l'Unione Sovietica non aveva firmato le Convenzioni e che i tedeschi ponevano molti ostacoli all'attività della C.R.I. Il comitato nazionale della Croce Rossa tedesca, col quale la C.R.I. doveva trattare, era diretto da diversi grandi criminali di guerra come il dottor Grawitz e il professor Gebhardt, importanti membri delle S.S., inventori delle camere a gas e promotori della "medicina sperimentale" nei campi della morte (il gas venefico Zyklon B veniva trasportato in furgoni con sopra il simbolo della Croce Rossa). Infine, la neutralità della Svizzera impose severi limiti alle attività della C.R.I.; tutti i dirigenti della C.R.I. erano cittadini svizzeri. La neutralità della Svizzera impedì fino al 1943 ogni azione che avrebbe potuto essere considerata ostile alla Germania e alle potenze dell'Asse. Ma ancora una volta il problema in questo studio non è se la Croce Rossa fece tutto ciò che avrebbe potuto fare, ma in quale periodo venne a conoscenza dei massacri e che uso fece di queste informazioni. La struttura della C.R.I. era a quell'epoca, in sintesi, la seguente: l'organismo principale era la Commissione centrale (di coordinamento) che era stata costituita nel novembre 1940. Ne erano membri i professori Huber e Burckhardt e i signori Chenevière e Barbey. Huber era un noto esperto di diritto internazionale. Burckhardt era ugualmente ben conosciuto come diplomatico, storico e studioso di letteratura. Essi soprintendevano a comitati che si occupavano dei prigionieri di guerra, dell'assistenza, delle questioni legali eccetera. Il personale della C.R.I. in Svizzera nel 1942 contava quasi 3000 persone e c'erano circa 70 impiegati fissi all'estero. Alla fine della guerra la C.R.I. aveva circa 76 delegazioni con 179 membri che visitavano i campi per prigionieri di guerra e i centri d'internamento per civili; soltanto nel 1942 ci furono circa un migliaio di tali visite. Gli emissari e i delegati coprirono enormi distanze, visitarono il ministero degli esteri tedesco, parlarono con innumerevoli civili e militari di entrambe le parti e mentre non poterono ovviamente girare a proprio piacimento in territorio tedesco, poterono certamente raggiungere molti luoghi dove altri stranieri (e molti tedeschi) non potevano andare. Parecchi campi per prigionieri di guerra si trovavano in Polonia. La C.R.I. deve aver saputo ben presto che soldati e ufficiali ebrei dell'esercito polacco erano stati presi dai campi per "destinazione ignota". La C.R.I. non aveva delegati soltanto in Germania ma anche in Croazia e in Romania, i paesi in cui ebbero luogo i primi grandi massacri di ebrei. Inoltre, la C.R.I. a Ginevra era costantemente interpellata dai locali rappresentanti delle organizzazioni ebraiche con varie richieste d'informazioni sul destino di numerose persone nei paesi occupati dai nazisti. La C.R.I. cercò di avere notizie fino a quando non le fu detto dalla Croce Rossa tedesca che nessuna informazione sarebbe stata fornita su "prigionieri non ariani". Cosa avrebbe potuto fare la C.R.I. in queste circostanze? Protestare era inutile, sostenne il professor Huber; la Croce Rossa non era un tribunale internazionale. Se il comitato avesse adottato il metodo della protesta pubblica, sarebbe stato inevitabilmente sempre più obbligato a prendere una posizione definitiva su ogni genere di atti di guerra, e anche di faccende politiche, e questo, ovviamente, era del tutto impossibile. Era ponderata opinione della C.R.I., sulla base della passata esperienza, che le "proteste pubbliche non sono soltanto inefficaci ma rischiano di produrre un irrigidimento del

paese messo sotto accusa nei confronti del Comitato, e perfino la rottura delle relazioni" (29). "La Germania aveva posto gli ebrei in una nuova categoria, quella degli esseri umani di seconda classe", disse dopo la guerra il rapporto della C.R.I. Così come le leggi comuni non riguardavano i cani, i gatti e le pecore, esse non riguardavano neanche gli ebrei. Ma che risultato avrebbe avuto battere il pugno sul tavolo e protestare: "quali proteste e minacce hanno mai modificato metodi criminali?" (30). Questi e altri scritti del dopoguerra ("Siamo venuti meno all'adempimento di certi doveri?") dimostrano che la C.R.I. era cosciente di essersi trovata di fronte a un grave dilemma, e che poteva non aver fatto tutto ciò che era nelle sue possibilità pur considerando le difficili condizioni in cui si trovava. Perché era anche vero che mantenere il silenzio in quelle circostanze equivaleva a rendersi complice della soluzione finale. Ma cosa seppe la C.R.I. e attraverso quali canali riceveva le sue informazioni? Non le venne permesso di aprire una delegazione permanente in Polonia e soltanto verso la fine del 1942 poté stabilire delegazioni in Slovacchia, Ungheria e Romania. Ma i suoi emissari viaggiarono in Europa orientale e da queste missioni e attraverso altre fonti trapelarono le notizie sul destino degli ebrei. In almeno un'occasione, alla fine dell'agosto 1942, il dottor von Wyss, un delegato della C.R.I., ispezionò il centro per la distribuzione dei generi alimentari per i ghetti polacchi. Qualche altro esempio sarà sufficiente (31). C'era una frequente corrispondenza fra la signorina Warner e la signorina Campion, della Croce Rossa britannica, e la signora Ferrière a Ginevra: che fine avevano fatto gli ebrei tedeschi e cecoslovacchi che erano stati deportati? Era vero che erano stati mandati in Polonia e in Russia? La signora Ferrière rispose che non c'era nessuna informazione attendibile, ma era una cosa che accadeva in tutta l'Europa. Era una situazione tragica e "noi non possiamo farci nulla". In un'altra occasione menzionò le "tragiche conseguenze della situazione". In seguito, nell'agosto 1942, la signorina Campion riferì a Ginevra di "numerose richieste d'informazioni" sulle deportazioni. Nel frattempo singoli funzionari della C.R.I. avevano parlato con medici ebrei sulle deportazioni da Berlino (dottor Exchaquet, 20 novembre 1941). René de Weck, ministro plenipotenziario a Bucarest, scrisse in una lettera privata a Jacques Chenevière della C.R.I. sulle sistematiche persecuzioni a cui erano sottoposti gli ebrei romeni e disse che "i massacri degli armeni che avevano scosso la coscienza europea all'inizio del secolo erano un gioco da ragazzi in confronto" (29 novembre 1941). In un poscritto affermò che si tendeva alla "distruzione fisica degli ebrei". A seguito dell'iniziativa di de Weck e di pressioni da parte di altri ambienti, W. Rohner visitò l'Ungheria e la Romania nel marzo 1942. In una lunga comunicazione a Burckhardt egli menzionò "les massacres les plus atroces" di Kamenets Podolsk così come il fatto che in Ucraina erano stati uccisi circa 100 mila ebrei (rapporto datato 10 aprile 1942). Scrisse anche che gli ebrei slovacchi erano stati deportati. Secondo una relazione che aveva ricevuto, le donne ebree più giovani pensavano che avrebbero lavorato in fabbriche polacche ma ciò era probabilmente una semplice illusione, perché sarebbero state messe "à la disposition des soldats allemands". In Ungheria sentì un resoconto sulla deportazione ad Auschwitz di ottomila ebrei e, in Romania, sull'assassinio di ventimila a Odessa. Rohner era presidente della "Commission mixte de secours"; la sua parola aveva peso. Auschwitz, fra altri luoghi, fu menzionato anche in un rapporto del capo della Croce Rossa slovacca, Skotnicky (9 giugno 1942), e del rappresentante della Croce Rossa francese, il colonnello Garteiser, che scrisse erroneamente "Hauswitz". Egli notò che da questi deportati non si erano mai avute notizie; non era loro permesso scrivere o ricevere lettere (2 giugno 1942). Il dottor Marti, che rappresentava la C.R.I. a Berlino, fu un'altra fonte importante. Andò a trovare il

dottor Sethe della Croce Rossa tedesca e intervenne presso di lui, ma gli fu risposto che i deportati dalla Francia erano considerati criminali, e che nessun aiuto poteva essere fornito (20 maggio 1942). Provò di nuovo in settembre: era almeno possibile corrispondere con chi era stato mandato all'est? La risposta fu ancora una volta negativa, tranne che per una trentina di casi su molte migliaia di richieste. Al dottor Marti venne permesso nell'agosto 1942 di recarsi nel Governatorato Generale ma non sembra che abbia visto molto. In effetti riferì di orribili scene a Rawa Russka dove prigionieri di guerra francesi dello Stalag 325 avevano assistito all'esecuzione di 150 ebrei ucraini. Diversi mesi prima, Marti aveva riferito che speciali unità delle S.S. stavano sterminando i civili nei territori russi occupati. Quando disse a Sethe che la gente, fuori della Germania, diceva che le condizioni nei campi erano peggiori di qualunque cosa inventata dall'Inquisizione, Sethe rispose semplicemente "Lasciatela dire" (28 gennaio 1942). In seguito Marti riferì che degli ebrei francesi erano stati visti a Riga e che si pensava che sessantamila ebrei vi fossero stati uccisi (14 novembre 1942). Fino ad allora le informazioni erano state sporadiche ma in autunno inoltrato le notizie giunsero da tutte le parti. Perfino il delegato della C.R.I. a Washington riferì che il dipartimento di stato era stato informato che gli ebrei venivano uccisi in massa in Polonia (13 ottobre 1942). Così fu sollevata la questione se la C.R.I. doveva rendere pubblico ciò che sapeva. Discussioni fra i membri dell'esecutivo della C.R.I. ebbero luogo per tutto l'agosto 1942. Verso la metà di settembre il professor Huber e i suoi collaboratori prepararono una bozza di comunicato che, non facendo nomi né condannando nessuno in particolare, diceva semplicemente che i civili dovevano essere trattati umanamente. Esso non era sufficientemente esplicito per la signora Odier (capo del sottocomitato per gli affari civili) e per la signora Bordier, (membro della commissione di assistenza). Esse pensavano che occorresse un linguaggio più forte di fronte a una catastrofe senza precedenti. Tuttavia, la maggioranza dell'esecutivo non credeva negli appelli che giudicava inutili e dettati dall'emozione, ma era disposta ad appoggiare la bozza di Huber. La riunione decisiva ebbe luogo il 14 ottobre 1942. Huber era malato e la presidenza venne assunta per l'occasione da Chenevière. Philip Etter fece una delle sue rare apparizioni in questa occasione. Egli era stato ministro degli esteri svizzero negli anni trenta e rappresentava il governo svizzero. Il suo orientamento era semmai piuttosto favorevole all'Asse ed egli si oppose perfino alla debole bozza di Huber, sostenendo che poteva essere interpretata come una violazione di neutralità. La sua opinione prevalse e il risultato fu che non venne rilasciata alcuna dichiarazione della C.R.I. riguardo all'assassinio degli ebrei. Se i dirigenti della C.R.I. non credevano nel valore degli appelli pubblici erano però disposti a trasmettere ciò che sapevano nella loro qualità di privati cittadini. Nell'ottobre 1942 Carl Burckhardt cominciò a parlare (i). Per primo informò un suo vecchio amico ebreo e collega al Centro di Ginevra di studi superiori, il professor Paul Guggenheim, e poi il 7 novembre vide Paul C. Squire, console americano a Ginevra. Egli disse a Squire che, pur non avendo visto l'ordine vero e proprio, poteva confermare privatamente ma non pubblicamente che nel 1941 Hitler aveva firmato un ordine in cui si diceva che prima della fine del 1942 la Germania doveva essere liberata da tutti gli ebrei. Egli aveva ricevuto questa informazione, in tempi diversi, da due tedeschi molto bene informati: uno un funzionario del ministero degli esteri tedesco (probabilmente Albrecht von Kessel), l'altro un funzionario del ministero della guerra. Squire gli chiese se era stata usata la parola sterminio, al che Burckhardt gli rispose che la parola esatta era "judenrein", privo di ebrei. Ma siccome non c'era nessun posto dove mandare gli ebrei, e siccome il territorio doveva essere ripulito, era ovvio quale sarebbe stato il risultato. Burckhardt aggiunse che la C.R.I. aveva

considerato la possibilità di rivolgere un appello in tutto il mondo sulla questione degli ebrei ma non aveva avuto i voti necessari; si era pensato che un tale appello avrebbe reso la situazione ancora più difficile e messo in pericolo il lavoro svolto per i prigionieri di guerra e gli internati civili, che era il vero compito della Croce Rossa (l). In una nota di accompagnamento a Leland Harrison, ministro plenipotenziario americano a Berna, Squire scrisse di aver sempre osservato che i nazisti cercavano di rivestire di legalità i loro documenti, per cui l'uso del termine "sterminio" era troppo crudo, ma era chiaro che "per quegli sventurati restava soltanto una soluzione, e cioè la morte" (32). In novembre Riegner andò a trovare Burckhardt e gli fu detto che la Croce Rossa non intendeva per ora presentare una protesta. Si temeva che le informazioni che la C.R.I. continuava a ricevere sulle deportazioni sarebbero cessate completamente se ci fosse stata una protesta. Inoltre, sembrava consigliabile protestare soltanto quando non ci fosse stata altra speranza di aiutare gli ebrei in qualche altro modo. Nel frattempo la C.R.I. avrebbe continuato a richiedere costantemente informazioni ai tedeschi, a chiedere l'autorizzazione di inviare delegati nel Governatorato Generale, a Theresienstadt e in Transdniestria. Un funzionario della Croce Rossa tedesca di nome Kundt gli aveva infatti detto che tali pressioni erano desiderabili (!) anche se non poteva promettere che avrebbero portato a qualche risultato (33). Le rivelazioni di Burckhardt non erano sensazionali. All'ottobre 1942 circa due milioni di ebrei erano stati uccisi e informazioni erano state ricevute da molte fonti. Ma il solo fatto di essere disposto a parlare di un ordine del Führer, anche se non ufficialmente, rappresentava una rottura della neutralità e i suoi colleghi, come il professor Huber, se ne resero conto. La conversazione di Burckhardt con Squire influenzò certamente i diplomatici americani che erano stati riluttanti a credere alle fonti polacche ed ebraiche. La notizia era ancora considerata scomoda a Washington, ma non poteva essere più ignorata.

NOTE AL CAPITOLO 2. (a) Gli emissari erano sempre membri della resistenza polacca; i corrieri potevano essere anche cittadini di un altro paese che agivano come postini. (b) Un altro diplomatico svizzero che nel 1942 venne a conoscenza dei massacri fu Per Anger, che si trovava allora a Budapest. Il suo informatore fu il giornalista ungherese Kalman Konkoly (comunicazione personale dell'ambasciatore Anger, 28 gennaio 1980). (c) Gerstein aveva cercato anche di avvertire il nunzio apostolico a Berlino, non sapendo che fra tutti i rappresentanti del Vaticano Orsenigo era il più restio a irritare Hitler e i nazisti. Non sorprende quindi che Gerstein sia stato messo alla porta. Allora si mise in contatto con il dottor Winter, coadiutore dell'arcivescovo di Berlino. Se il suo messaggio raggiunse il Vaticano "non fece altro che confermare fatti sui quali il Vaticano era ampiamente informato" (S.

Friedlaender, "Counterfeit Nazi", London 1969, p. 158). (d) Le autorità svedesi erano tenute informate anche dalla missione israelo-svedese a Varsavia, retta a quel tempo da Birger Pernow. Alcuni dei loro rapporti sul fatto che tre milioni di ebrei erano stati uccisi in Polonia arrivarono alla stampa ("Aftontidningen", 7 ottobre 1943). Ma tali pubblicazioni giunsero solo più tardi. (e) Lo stesso vale anche per quanto riguarda la Turchia. Istanbul fu di grande importanza nel 1943 e negli anni successivi come centro dal quale venivano dirette le operazioni di soccorso. Ma i vari comitati di soccorso vi furono rappresentati solo dopo il gennaio 1943, il che significa che durante il periodo più critico, il 1941-42, relativamente poche informazioni sul destino degli ebrei raggiunsero l'Occidente attraverso la Turchia. (Su singoli tentativi di raccogliere informazioni, da Meleh Neustadt e da altri nel 1942, vedi cap. 6). Il governo turco e la stampa non erano interessati all'argomento. C'erano pochi corrispondenti stranieri a Istanbul nel 1942. Né loro né i numerosi servizi segreti rappresentati inviarono rapporti sugli ebrei a parte rare occasioni. Una di queste eccezioni fu il rapporto fatto da Francis Ofner a Basil Davidson, che rappresentava il servizio segreto britannico, nel giugno 1942. La sorte successiva di questo rapporto è ignota. (f) I vescovi polacchi dovevano riferire a Roma attraverso il nunzio apostolico a Berlino Orsenigo, di cui, a ragione, non si fidavano, perché il comportamento di Orsenigo nei suoi rapporti con i nazisti andava certamente al di là della necessaria prudenza. E' difficile giudicare se egli pensava di agire nell'interesse della Chiesa o se aveva soprattutto in mente la sua carriera: Orsenigo desiderava moltissimo diventare cardinale. La sua linea di condotta a Berlino non lo rese molto popolare a Roma dopo la guerra e non realizzò così il suo scopo. Ciò che è stato appena detto sui vescovi polacchi si riferisce, ovviamente, soltanto ai canali ufficiali. C'erano altri vari modi di comunicare con la Sante Sede: per esempio attraverso corrieri inviati da Bernardini, il nunzio apostolico in Svizzera, o via Budapest. Il clero polacco fu in contatto con la Santa Sede soprattutto attraverso il governo in esilio a Londra che ebbe per tutta la guerra un ambasciatore in Vaticano, Casimir Papée. Dai documenti pubblicati da Papée, così come dai rapporti dell'esercito nazionale polacco, emerge che il Vaticano era tenuto perfettamente informato sugli avvenimenti in Polonia (C. Papée, "Papiez Pius XIIa Polska-Przemowienia i listy papieskie 1939-46", seconda ed., 1946. Vedi anche Carlo Falconi, "Il silenzio di Pio Dodicesimo", Sugar, Milano 1965). (g) In italiano nel testo. (N.d.T.) (h) Questi tentativi di tenere segreto ciò che il Vaticano sapeva sono politicamente e psicologicamente comprensibili, ma non molto lungimiranti, perché prima o poi almeno alcuni fatti saranno noti. Anche se gli archivi vaticani rimanessero chiusi per sempre ci sono altre fonti. I rappresentanti vaticani nelle varie capitali usavano un codice antiquato per le loro comunicazioni, che fu certamente intercettato e con ogni probabilità anche decifrato dalla maggior parte, se non da tutti i servizi segreti europei. E' assai probabile che gli emissari vaticani non si fidassero del proprio codice e che informazioni segrete o delicate siano state trasmesse soltanto oralmente. Ma anche in questo caso è probabile che ci saranno piuttosto presto almeno alcune rivelazioni. (i) Egli non fu l'unico a trasmettere informazioni privatamente. Il dottor Riegner, scrivendo nel giugno 1942, menziona il fatto che gli fu detto da una eminente personalità della C.R.I. che i rappresentanti ebrei a Ginevra sottovalutavano il numero degli ebrei uccisi nei

territori russi occupati dai tedeschi. Secondo la stessa fonte l'unico modo di fermare il massacro era quello di minacciare i tedeschi di rappresaglie (Riegner a Goldmann, 17 giugno 1942). Il funzionario in questione era con ogni probabilità André de Pilar, un barone baltico che aveva anche la cittadinanza svizzera. Egli era membro della "Commission mixte de secours" della C.R.I., una speciale sezione per l'invio di materiale di soccorso. De Pilar era in contatto continuo con la Croce Rossa tedesca. Riegner ricorda che era molto esplicito nella conversazione "e mi forniva ogni tanto informazioni estremamente importanti" (comunicazione personale di Riegner, 13 dicembre 1979). (l) Burckhardt era un uomo prudente. C'è una testimonianza americana di questa conversazione, scritta dal console Squire. Mi è stato assicurato da un membro della C.R.I. che una ricerca fatta negli uffici della C.R.I. di Ginevra rivelò che Burckhardt non aveva lasciato un rapporto di questa conversazione.

Capitolo 3. GLI ALLEATI: "VOCI NON CONTROLLATE ISPIRATE DA TIMORI EBRAICI". Poco dopo la fine della guerra, l'abate Glasberg, un coraggioso ecclesiastico d'origine russo-ebraica che aveva fatto molto per salvare gli ebrei francesi, scrisse che trovava difficile spiegarsi come durante tutti quegli anni i servizi segreti alleati non avessero saputo (o avessero finto di non sapere) la verità sui campi di sterminio hitleriani che si estendevano per molti chilometri quadrati e nei quali milioni di persone erano state segregate (1). E' una domanda legittima. Certo, nessun servizio segreto è onnisciente, ma in questo caso specifico non c'era bisogno di brillanti capacità analitiche e di grande acume: lettere e cartoline raccontavano tutto e a volte lo si trovava anche sui giornali. Il periodo critico per questo studio va dal luglio 1941 alla fine del 1942. Il servizio segreto americano stava allora soltanto iniziando la sua attività mentre quello britannico era già in piena azione. Mentre tutto ciò che accadeva nell'Europa occupata dai nazisti interessava a questi due servizi segreti, c'erano ovviamente delle priorità, e il destino di una minoranza etnica o religiosa non era fra i primi punti all'ordine del giorno. Ma d'altro canto a nessun servizio segreto in Europa poteva capitare nel 1942 di non sentir parlare della soluzione finale, per la semplice ragione che essa era ormai di dominio pubblico. I particolari erano forse avvolti dal mistero, ma il quadro generale non lo era: come Hitler aveva predetto, gli ebrei stavano scomparendo. I governi alleati lo vennero a sapere da più fonti. In Gran Bretagna c'era il S.I.S., il servizio segreto speciale (militare) che, in teoria, aveva la responsabilità di tutte le operazioni per la raccolta di notizie. Ma l'esecutivo per le operazioni speciali (S.O.E.), che era stato costituito per operare all'estero sotto il controllo del ministero della guerra economica (M.E.W.), raccolse in effetti anche notizie in Francia, in Danimarca e in altri paesi. Ogni informazione riservata dalla Polonia veniva trasmessa automaticamente al S.I.S. dalla seconda sezione polacca, tranne quelle riguardanti affari squisitamente interni. Simili accordi esistevano fra la Gran Bretagna e i servizi segreti olandese, francese, cecoslovacco e norvegese. Ma il S.O.E. era anche attivo in Polonia. M.I.5, il servizio di

sicurezza, ottenne interessanti informazioni dai centri di cui aveva il controllo, così come M.I.9 (C.S.D.I.C.) e il M.I.19, che si occupavano rispettivamente dei soldati britannici e dei civili che erano fuggiti dal continente. Le decodificazioni e le decifrazioni erano opera di G.C. & C.S. (codice nazionale e scuola di decifrazione), mentre le ricognizioni aeree erano nelle mani del ministero dell'aviazione. Le complicazioni burocratiche erano molteplici ma, qualunque ne fosse la fonte, le notizie importanti avrebbero sempre dovuto raggiungere il primo ministro, il gabinetto di guerra e i capi di stato maggiore (2). Ma quale notizia è importante? I servizi segreti si occupano assai spesso di piccole e forse insignificanti informazioni, che prese a sé sembrano di nessuna importanza. Un certo disegno emerge soltanto se vengono interpretate in un contesto più ampio. C'è inoltre un numero illimitato di modi di fraintendere le cose e soltanto una risposta giusta. Il lavoro svolto dai servizi segreti, così come quello dello storico, si basa molto sulla classificazione, e il fatto che un certo avvenimento sia stato studiato adeguatamente non significa di per sé che sia stato correttamente capito. Certamente non significa che tali informazioni abbiano raggiunto gli alti gradi dei servizi segreti, come il Comitato di coordinamento fra i servizi segreti, che collegava i vari organismi, e certamente non il Gabinetto di guerra, la cui capacità di assorbire informazioni era necessariamente limitata. Così, per lo scopo di questo libro, non è sufficiente stabilire che i membri di una sezione del servizio segreto polacco o britannico sapevano. E' importante sapere quanto ampiamente le informazioni erano diffuse e se venivano lette e accettate, e questo, ovviamente, è, in genere, più difficile da documentare (a). Durante il periodo critico Londra fu il punto focale per le notizie dall'Europa occupata. Non tutte le informazioni ricevute in Occidente provenivano dai servizi segreti. Gli Stati Uniti, si ricorderà, ebbero un'ambasciata a Berlino fino al dicembre 1941, a Budapest e Bucarest fino al gennaio 1942, a Vichy per quasi tutto il 1942. Le organizzazioni ebraiche ricevevano la maggior parte delle informazioni dai propri rappresentanti a Ginevra, e inoltre le notizie erano ricevute attraverso decine di differenti canali, come visitatori in o da paesi neutrali, la stampa, soldati che erano fuggiti, civili che erano stati scambiati eccetera. Molte informazioni potevano trovarsi nella stampa quotidiana. Così un resoconto in un giornale londinese di lingua tedesca apparso nell'ottobre 1941 e intitolato "L'Apocalisse" diceva che gli ebrei deportati dalla Germania sarebbero stati uccisi in un modo o nell'altro. Esso si basava su un resoconto pubblicato originariamente nel giornale svedese "Social Democraten" il 22 ottobre e affermava esplicitamente che "non c'era dubbio che questo fosse un caso di omicidio in massa premeditato". Vi si menzionava anche Adolf Eichmann come capo dell'operazione (3). Per prima cosa dobbiamo occuparci della Russia, perché fu nelle zone occupate dai nazisti dopo la loro rapida avanzata fra il giugno e l'ottobre 1941 che iniziò il sistematico assassinio degli ebrei europei. Questo fu il compito delle Einsatzgruppen; al novembre 1941 avevano ucciso circa mezzo milione di ebrei. All'inizio, di ciò si sapeva poco, perché queste zone erano praticamente tagliate fuori dal mondo esterno. Giornali ebraici americani pubblicavano resoconti sull'uccisione di ebrei in certe città di frontiera ma probabilmente erano soltanto congetture basate sul comportamento dei nazisti in Polonia e altrove. Un po' di tempo dopo giornali svedesi riferirono che a Vilna, Kaunas e Bialystok erano stati creati i ghetti. Secondo una trasmissione di radio Mosca in agosto circa quarantacinque ebrei erano stati mitragliati vicino a Minsk (4). Il 5 settembre il governo polacco in esilio a Londra seppe del ghetto di Riga, e il 18 dello stesso mese arrivò a Zurigo dalla Polonia la notizia che il ghetto di Bialystok era stato distrutto, cosa del tutto falsa perché fu uno degli ultimi a essere liquidato, nel 1943. Il 22 ottobre 1941, il corrispondente da Zurigo dell'Agenzia telegrafica ebraica (J.T.A.)

citò da un giornale ucraino ("Krakovskie Vesti") che le forze tedesche avevano espulso gli ebrei verso una destinazione sconosciuta e che a Zhitomir di 50 mila ebrei ne restavano soltanto 6000. Il 29 ottobre un rapporto, di nuovo proveniente dai circoli polacchi a Londra, riferì che 6000 ebrei erano stati uccisi a Lomza, e ai primi di novembre la stampa svedese annunciò che gli ebrei di Riga erano stati messi a metà razione. Venivano ricevute sempre più notizie, ma forse non ancora sufficienti perché ci si rendesse conto dell'ampiezza della catastrofe. Poi, il 25 novembre 1941, la J.T.A. trasmise un rapporto sensazionale e particolarmente accurato che proveniva "dalla frontiera tedesca" ma aveva poi subìto un ritardo. Secondo una fonte insospettabile, 52 mila persone, fra uomini, donne e bambini, erano state messe a morte a Kiev. Le vittime (si diceva) non avevano perso la vita in seguito a un pogrom popolare ma a causa di uno "spietato e sistematico sterminio". Era stato uno dei più "terribili massacri nella storia ebraica" e simili fatti avevano avuto luogo anche in altre città sovietiche. Non sappiamo che origine ebbe questo rapporto; certamente non giunse da una fonte sovietica. Molto probabilmente venne da circoli polacchi. Una conferma da fonti polacche arrivò, comunque, ai primi del gennaio 1942 quando si rese noto che 52 mila persone erano state uccise a Kiev. L'ambasciata americana a Mosca cercò di stabilire se tutti (o la maggior parte) di questi fossero stati ebrei e il 16 marzo 1942 ricevette una risposta affermativa. Ma il giorno dopo la stampa ebraica annunciò, citando il "Soviet War Bulletin" di Londra, che c'era stato un malinteso e che soltanto mille ebrei erano stati uccisi. Questa "correzione" era ovviamente del tutto erronea, ma è impossibile stabilire adesso di chi fu la responsabilità. Nel frattempo ci furono notizie più allarmanti. Il 2 gennaio 1942 il "Jewish Chronicle" di Londra riferì, citando partigiani sovietici che operavano dietro le linee tedesche, che i tedeschi avevano ucciso centinaia di ebrei a Rostov sul Don. Fonti polacche riferirono nel marzo sulla distruzione dell'ebraismo lituano. Al 15 maggio 1942, si avevano particolari precisi su questa notizia: 7000 ebrei erano stati uccisi a Shavli; a Vilna, di 70 mila ne restavano 30 mila. Il giornale di Stoccolma "Social Democraten" riferì che gli ebrei nel ghetto di Riga stavano vendendo le loro ultime proprietà personali, come riferiva il quotidiano nazista "Deutsche Zeitung in Ostland". Da fonti sovietiche provenivano pochissime informazioni. Un rapporto dettagliato da Borisov fu un'eccezione: 15 mila ebrei vi erano stati uccisi (25 marzo 1942). C'era anche un rapporto più breve e meno dettagliato sui massacri di ebrei a Mariupol. Nel frattempo, il 6 gennaio 1942, l'Unione Sovietica, in una nota firmata da Molotov e inviata a tutti i governi con i quali manteneva relazioni diplomatiche, si occupava delle "mostruose infamie, atrocità e violenze commesse dalle autorità tedesche nei territori sovietici invasi" (5). Questa nota si estendeva su molte pagine e conteneva tre riferimenti agli ebrei. Una volta erano citati insieme ai russi, agli ucraini, ai lettoni, agli armeni, agli uzbechi e a tutti coloro che avevano sofferto; la seconda volta c'era un piccolo riferimento al fatto che il 30 giugno, quando i tedeschi erano entrati a Leopoli, avevano inscenato un'orgia di sangue con lo slogan "Uccidi gli ebrei e i polacchi". E per ultimo c'era il riferimento all'assassinio dei 52 mila a Kiev. Si affermava anche che molti altri assassinii di massa erano stati commessi dagli occupanti tedeschi in altre città ucraine e si proseguiva dicendo: "Queste esecuzioni sanguinarie furono specialmente dirette contro disarmati e indifesi lavoratori ebrei. Secondo dati ancora incompleti, non meno di 6000 persone furono fucilate a Leopoli, più di 8000 a Odessa, circa 8500 furono fucilate o impiccate a Kamenets Podolsk, più di 10500 mitragliate a Dnepropetrovsk e più di 3000 abitanti furono fucilati a Mariupol... Secondo cifre non ancora definitive circa 7000 persone sono state uccise dai macellai fascisti tedeschi a Kerch".

In tutto Molotov citava circa 90 mila vittime, meno di un quinto del totale di coloro che erano stati effettivamente uccisi (b). Il 27 aprile 1942 fu pubblicata una seconda nota sovietica, anch'essa firmata da Molotov. Si estendeva su ventisette pagine, parlava dei saccheggi, dell'istituzione di un regime di schiavitù, della distruzione della cultura nazionale di vari popoli, della profanazione di chiese, della tortura e dell'uccisione di operai e contadini, della violenza alle donne e dello sterminio dei prigionieri di guerra. Ma non menzionava che, mentre una grande quantità di persone di varia nazionalità era stata effettivamente derubata, ferita e perfino uccisa, gli ebrei, a differenza degli altri, erano stati destinati a una totale distruzione. In questo documento gli ebrei venivano citati soltanto una volta, insieme ai russi, ai moldavi, agli ucraini e alle altre vittime. Ci fu una terza nota Molotov (14 ottobre 1942) sulla responsabilità degli invasori hitleriani e dei loro complici nelle atrocità perpetrate ma non vi si menzionavano affatto gli ebrei. Però, come aggiunta (o poscritto), il 19 dicembre 1942 venne distribuita al servizio informazioni del ministero degli esteri sovietico una dichiarazione non firmata che si occupava specificatamente dell'"attuazione da parte delle autorità hitleriane del piano di sterminio della popolazione ebraica nei territori occupati d'Europa". Era un documento relativamente breve ma presentava più fatti e più cifre di tutti quelli pubblicati nell'anno e mezzo precedente. Citava anche il piano per concentrare milioni di ebrei da tutte le parti d'Europa "allo scopo di assassinarli" (6). Perché gli ci vollero diciotto mesi al governo sovietico per pubblicare questi fatti e quali furono le ragioni per indurlo a diminuire il numero degli ebrei fra le vittime o addirittura passarlo sotto silenzio? I primi sei mesi della guerra furono i più difficili dal punto di vista sovietico: milioni di soldati furono presi prigionieri, una vasta parte del paese venne perduta. La popolazione tributò frequentemente un caloroso benvenuto agli invasori. Ci furono pochi o punti partigiani durante i primi mesi di guerra. Ma, d'altro canto, non tutti nelle zone occupate diventarono collaboratori dei tedeschi, e molti agenti segreti sovietici furono lasciati nelle retrovie. Inoltre, nei primi mesi della guerra, paracadutisti venivano lanciati dietro le linee tedesche, alcuni per commettere atti di sabotaggio, altri per raccogliere informazioni. Ci fu un contatto radio fra i territori occupati e "Bolshaia Zemlia" fin dall'inizio, e sebbene non ci sia alcuna ragione di credere che la polizia segreta, l'N.K.V.D. come allora si chiamava, e l'Armata Rossa ricevessero bollettini quotidiani da ogni villaggio occupato, c'è ogni ragione di credere che le autorità sovietiche fossero bene informate fin dall'inizio su tutti gli avvenimenti importanti nei territori occupati. Sebbene gli archivi russi non siano stati aperti a curiosi ricercatori occidentali (o sovietici), gli autori sovietici citano con orgoglio il fatto che le loro autorità erano bene informate su tutto ciò che accadeva dall'altra parte. Uno dei casi più famosi fu quello di N. I. Kusnetsov, che, fingendosi un ufficiale tedesco (sotto il nome di Paul Siebert), entrò a far parte dei fedelissimi di Erich Koch, uno dei tre satrapi di Hitler nell'Europa orientale. Koch aveva stabilito il suo quartier generale a Rovno. In quella città, fino al 1941, un abitante su due era un ebreo, così che la loro scomparsa (erano stati tutti uccisi in città o nelle vicinanze) non poteva essere sfuggita a questo grande agente segreto. Il destino degli ebrei, e di quanto se ne sapesse a quell'epoca, ricorre raramente negli scritti sovietici del dopoguerra. Come in una conversazione fra due agenti del K.G.B. (N.K.V.D.) a Kiev verso la fine del 1941: "Sai, ovviamente, cosa è successo a Babi Yar?". "Sì, e lo stesso è accaduto a Vinnitsa..." (7). Si è sempre riluttanti a menzionare il fatto che queste vittime erano ebree. Per le autorità sovietiche, gli agenti lasciati a Kiev, Odessa, Minsk e in molti altri luoghi non erano certo l'unica fonte d'informazioni; nell'offensiva dell'inverno 1941-42, quando le truppe sovietiche ripresero parte delle regioni precedentemente conquistate dai tedeschi, esse videro

cosa era successo sotto l'occupazione tedesca. Così, con poche eccezioni, come la nota del 13 dicembre 1942, la linea sovietica consisteva in generale nel definire barbaro il comportamento degli invasori hitleriani. Ma non c'era nessun accenno al fatto che gli ebrei venivano scelti per uno "speciale trattamento". Quale fu la ragione di questo silenzio? Le autorità sovietiche potrebbero sostenere che anche se era vero che i nazisti sceglievano gli ebrei nella loro campagna omicida, pochi sarebbero stati i vantaggi se l'Unione Sovietica avesse reso pubblico questo fatto. Perché l'assassinio degli ebrei può essere stato visto favorevolmente in certi settori della popolazione: ucraini, lituani e lettoni ebbero un ruolo importante nei massacri. E se tuttavia gli invasori tedeschi diventarono rapidamente impopolari nelle zone occupate, non fu a causa del loro comportamento nei confronti degli ebrei. Per questa ragione, e forse anche per qualche altra considerazione, le autorità sovietiche non dettero molta importanza alla soluzione finale. Come il Vaticano, certamente i russi sapevano molto di più di quanto decisero di pubblicare. Le notizie sulle Einsatzgruppen giunsero principalmente da giornalisti neutrali, dal servizio segreto polacco, e da soldati ungheresi e italiani che combattevano sul fronte orientale. Non giunsero da coloro che ne sapevano di più (c). Al primo luglio 1942 più di un milione di ebrei erano stati uccisi nell'Europa orientale. Che cosa se ne sapeva in Occidente? L'offensiva tedesca in Russia era in pieno svolgimento; l'esercito tedesco stava avanzando in direzione di Stalingrado, Rostov e del Caucaso. Le Einsatzgruppen avevano portato a termine la loro seconda ondata in Russia. In Polonia, la distruzione dei ghetti era iniziata col trasferimento degli ebrei dal distretto di Lublino, proprio quel distretto in cui, secondo la propaganda nazista, si sarebbe dovuta creare una regione autonoma ebraica. La conferenza di Wannsee aveva avuto luogo sei mesi prima. Le deportazioni dalla Slovacchia erano iniziate in marzo e treni carichi di ebrei stavano cominciando ad arrivare in Polonia dall'Europa centrale e occidentale. Dalla Russia provenivano poche informazioni. Corrispondenti in Svizzera raccoglievano notizie occasionali nei giornali nazisti delle zone occupate. Così il "Grenzbote" di Bratislava annunciò in aprile che le "deportazioni" dalla Slovacchia avevano avuto luogo, e la "Donauzeitung" di Belgrado scrisse in giugno che a Kishinev non c'erano più ebrei. Nello stesso aprile 1942 il corrispondente dalla Turchia del "Sunday Times" riferì che 120 mila ebrei romeni erano stati uccisi, una cifra che era sorprendentemente precisa. Tutte erano considerate notizie minori dalla stampa mondiale, messe in ombra da quelle sulle grandi battaglie sui fronti di guerra, e non attiravano molta attenzione. Nel maggio e nel giugno 1942 si ebbero, con grande ritardo, alcune informazioni su fatti accaduti nei paesi baltici. Il 15 maggio, fonti polacche a Londra fornirono cifre riguardo a Vilna, e cioè l'assassinio di 40 mila ebrei (8). Il giorno dopo, un corrispondente da Stoccolma del londinese "Evening Standard" riferì che il numero delle vittime era ancora più alto: 60 mila ebrei erano stati uccisi soltanto in quella città. La fonte di questa notizia era un uomo che era fuggito da Vilna ed era appena arrivato dopo una drammatica fuga via Varsavia e il porto di Gdynia. Il rapporto era molto particolareggiato, menzionava Ponary, la stazione ferroviaria alle porte di Vilna dove aveva avuto luogo la maggior parte delle uccisioni. La notizia fu ripresa da alcuni giornali americani ed ebraici. Due mesi dopo, il 21 luglio, l'ambasciatore americano la riferì a Washington. Poi ci fu silenzio per altre due settimane, ma verso la fine del maggio 1942 informazioni che avevano raggiunto Londra attraverso corrieri polacchi e messaggi radio apparvero nella stampa. Il 2 giugno la B.B.C. trasmise estratti da vari rapporti ricevuti dall'Europa orientale: erano già stati uccisi 700 mila ebrei. Questa cifra era basata su un rapporto fatto pervenire da Varsavia dall'organizzazione socialista ebraica Bund e, in realtà, attenuava sensibilmente il numero delle vittime. Ma gli

ebrei polacchi non avevano un quadro completo della situazione nell'Unione Sovietica e nei paesi baltici. A differenza di Himmler, non avevano nessun professore di statistica a loro disposizione per analizzare gli sviluppi della soluzione finale. I rapporti da Varsavia che in questo studio sono esaminati altrove provocarono diverse reazioni nei circoli polacchi: il generale Sikorski informò il 10 giugno i governi alleati con un dispaccio ("Lo sterminio della popolazione ebraica sta avvenendo in misura incredibile"). Il Consiglio nazionale polacco, il Parlamento in esilio, rivolse un appello ai parlamenti liberi. Il 9 giugno Sikorski disse alla B.B.C.: "La popolazione ebraica in Polonia è condannata all'annientamento in conformità alla massima: "Massacrate tutti gli ebrei a prescindere da come finirà la guerra". Quest'anno veri e propri massacri di decine di migliaia di ebrei sono stati compiuti a Lublino, Vilna, Leopoli, Stanislawow, Rzeszow e Miechow". Dapprima i giornali non prestarono molta attenzione. Dopotutto notizie sulle persecuzioni naziste giungevano da molti parti d'Europa ed erano probabilmente esagerate. Il fatto che gli ebrei non venivano perseguitati ma sterminati non era stato ancora messo in evidenza. Il primo a sottolineare la differenza fu il londinese "Daily Telegraph" in due resoconti del 25 e del 30 giugno 1942. Queste due pubblicazioni rappresentarono una prima svolta perché gli autori e i redattori si erano resi conto che dalle varie notizie provenienti dall'Europa orientale emergeva una nuova sinistra verità: non c'erano più pogrom in senso tradizionale. Il primo dispaccio iniziava nel modo seguente: "Più di 700 mila ebrei polacchi sono stati massacrati dai tedeschi nelle più grandi carneficine nella storia del mondo". Diceva poi che "i più terribili particolari relativi alle uccisioni in massa anche con uso di gas venefici" erano rivelati in un rapporto inviato segretamente a Shmuel Zygielbojm, rappresentante ebraico al Consiglio nazionale polacco, da un gruppo attivo in Polonia (il Bund, di cui non veniva tuttavia fatto il nome). Il rapporto del "Daily Telegraph" citava gli stermini nella Galizia orientale e in Lituania, l'uso di camere a gas montate su autocarri e il campo di Chelmno, così come altri fatti e cifre. Il corrispondente concludeva così: "Capisco che il governo polacco voglia far conoscere questi fatti al governo britannico e agli Alleati" (cosa che era già avvenuta). Il secondo rapporto, di cinque giorni successivo, diceva nel titolo: "Più di un milione di ebrei uccisi in Europa". Si basava su ulteriori indagini, non solo sul rapporto del Bund, e attribuiva grande importanza a un fatto che non era stato ancora chiaramente capito: che lo scopo dei nazisti era quello di "cancellare la razza ebraica dal continente". Lo sterminio degli ebrei doveva includere anche l'Occidente. In Francia, Olanda e Belgio c'erano state molte fucilazioni, e adesso stavano avvenendo deportazioni in massa verso l'Europa orientale. In Romania 120 mila ebrei erano stati uccisi; due treni carichi di ebrei diretti in Polonia lasciavano Praga ogni settimana: "Si ritiene che le perdite subite dal popolo ebraico nei paesi controllati dalle potenze dell'Asse abbiano già di gran lunga superato quelle di qualsiasi altro gruppo etnico". I resoconti del "Daily Telegraph" attirarono molta attenzione. Furono seguiti nel mese di giugno da trasmissioni radio da parte di Arthur Greenwood, leader del partito laburista, del cardinale Hinsley, del primo ministro olandese, di Zygielbojm (che parlò in jiddish!) e di qualche altro. Il "New York Times" riprese i rapporti del "Daily Telegraph" il 30 giugno e il 2 luglio e li pubblicò fra le pagine interne. I redattori non sapevano ovviamente che posizione prendere. Se era vero che un milione di persone era stato ucciso, la cosa era chiaramente da prima pagina; dopotutto non accadeva ogni giorno. Se non era vero, non la si doveva pubblicare affatto. Siccome non ne erano certi, optarono per un compromesso: pubblicarla ma non in evidenza. Se ne deduceva così che il giornale aveva delle riserve sul

rapporto: molto probabilmente c'era del vero, ma si era esagerato. Tali atteggiamenti non erano certo limitati alla stampa americana. Fin dal momento in cui Hitler era andato al potere in Germania il "Manchester Guardian" aveva mostrato molta simpatia per gli ebrei perseguitati. Eppure, il 31 agosto 1942, più di due mesi dopo le notizie sullo sterminio degli ebrei in Europa e dopo che ulteriori informazioni erano state ricevute, un editoriale del "Guardian" affermava "che la deportazione degli ebrei in Polonia significa che occorrono muscoli ebraici per lo sforzo bellico tedesco". Si trattava quindi in poche parole di lavori forzati invece che di assassinio. Ma perché citare solo il "Guardian"? Il presidente Roosevelt diceva esattamente la stessa cosa. L'incapacità di capire non era affatto limitata ai giornali britannici e americani. I giornali ebraici in Palestina disapprovavano con le stesse infelici espressioni le "voci non provate ed esagerate", il fatto che le agenzie di stampa e i corrispondenti facessero a gara nel trasmettere storie di atrocità con tutti i più orribili particolari (9). Zygielbojm, il rappresentante del Bund al Consiglio nazionale polacco, aveva fornito il materiale per i resoconti del "Daily Telegraph". Il suo collega al Consiglio, il dottor I. Schwarzbart, era anch'egli attivo. Egli si presentò il 29 giugno a una conferenza stampa patrocinata dal Congresso mondiale ebraico a Londra insieme a S. S. Silverman, membro laburista del Parlamento, e a E. Frischer, un membro del Consiglio di stato cecoslovacco. Ignacy Schwarzbart (1888-1961) era stato prima della guerra membro del parlamento polacco; a differenza di Zygielbojm non era un socialista. Nel suo intervento parlò dell'assassinio di ebrei a Vilna, Pinsk, Bialystok, Slonim, Rowno, Leopoli, Stanislawow, Lomza e in una ventina di altri posti. Dichiarò che a Lublino parte della popolazione ebraica era stata massacrata e il resto era scomparso; citò anche cifre sulle gassazioni a Chelmno (d). Questa conferenza stampa fu riportata il giorno dopo nella maggior parte dei giornali britannici con titoli come: "Più di un milione di morti dall'inizio della guerra" ("The Times"), "Un milione di ebrei muoiono" ("Evening Standard"), "Un milione di ebrei muoiono" ("News Chronicle"), "Schiavitù in Europa orientale. Una grande carneficina di ebrei" ("Scotsman"). Ma la maggior parte di questi articoli era piuttosto breve, non era messa in evidenza e conteneva pochi particolari. Pochi lettori di giornali occidentali avevano sentito parlare di Lomza o di Stanislawow, e mentre ormai sembrava certo che qualcosa di sinistro stava accadendo in Europa orientale, c'erano ancora dubbi sull'ampiezza e sull'effettivo significato di questi tragici eventi. L'atteggiamento generale fra gli ebrei in luglio e agosto era un misto di preoccupazione e di confusione. Da una parte ci furono raduni a New York (Madison Square Garden, 21 luglio), dimostrazioni in varie altre città, e il 23 luglio il cappellano della Camera dei Rappresentanti lesse una speciale preghiera per le vittime ebree in apertura di seduta. A Londra ci furono risoluzioni da parte del comitato esecutivo nazionale del partito laburista (22 luglio) e dei sindacati; una delegazione laburista si incontrò con Anthony Eden, il ministro degli esteri (24 agosto) e con John Winant, l'ambasciatore americano. Il 2 settembre ci fu un grande raduno di protesta in Caxton Hall a cui parteciparono come oratori anche Herbert Morrison e Jan Masaryk. Zygielbojm ripeté in un appassionato discorso che erano stati commessi crimini senza precedenti nella storia umana, crimini così mostruosi, in confronto ai quali i più barbari atti delle età passate apparivano banali: "In Polonia un intero popolo veniva sterminato a sangue freddo... Si ritiene che il numero totale degli ebrei assassinati in Polonia dai tedeschi fino al maggio di quest'anno arrivi a 700 mila". Zygielbojm sembrò sovreccitato a molti dei presenti; eppure, al tempo del suo discorso, il numero degli ebrei uccisi ammontava almeno a un milione e mezzo, e il ghetto di Varsavia era tutt'altro che evacuato (e). A prescindere dalla questione sul numero delle vittime, era emerso un chiaro quadro generale. C'era stata ovviamente la decisione al più

alto livello di uccidere gli ebrei. Quando era stata presa? Questa informazione non poteva certo venire da Varsavia o da Riga, e dobbiamo quindi ritornare su un episodio che abbiamo già menzionato ma che è ancora tutt'altro che chiaro: la prima notizia che Hitler avesse espressamente ordinato lo sterminio degli ebrei europei mediante gassazione fu ricevuta dal dottor Riegner, rappresentante del Congresso mondiale ebraico in Svizzera, da un industriale tedesco nel luglio 1942. Riegner inviò il seguente telegramma a Londra e a Washington: "Ricevuto allarmante rapporto che nel quartier generale del Führer è stato discusso e preso in esame un piano secondo il quale tutti gli ebrei dei paesi occupati o controllati dalla Germania ammontanti a 3 e mezzo - 4 milioni dovrebbero dopo deportazione e concentramento nell'est venire sterminati in un colpo per risolvere una volta per tutte la questione ebraica in Europa. L'azione citata prevedeva per l'autunno metodi ancora in discussione incluso l'acido prussico. Trasmettiamo l'informazione con tutte le riserve perché l'esattezza non può essere confermata. L'informatore afferma di avere stretti collegamenti con le più alte autorità tedesche e i suoi rapporti sono in generale attendibili". Alcune cose erano già conosciute e altre erano inesatte: il piano non era "in esame" ma era già stato adottato molti mesi prima. Né aveva per scopo quello di uccidere tutti gli ebrei in un colpo solo, cosa che avrebbe presentato insormontabili difficoltà tecniche. Ma a parte questo era ovviamente vero che Hitler aveva preso una decisione e adesso una fonte tedesca metteva in chiaro che essa non implicava pogrom su larga scala ma una soluzione finale. Riegner trasmise l'informazione "con tutte le riserve". Difficilmente lo si potrebbe biasimare per una tale prudenza. Gerhardt Riegner aveva a quell'epoca trent'anni. Era nato a Berlino ed era laureato in legge. Lui e Richard Lichtheim, che aveva trent'anni più di lui e rappresentava l'Agenzia ebraica a Ginevra, erano i due principali rappresentanti ebrei nell'Europa continentale. Ma chi era il misterioso industriale? Varie ipotesi sono state fatte sulla sua identità (f). Egli arrivò in Svizzera nel luglio 1942. Non era la sua prima visita in tempo di guerra. Era stato in contatto, attraverso un comune amico, con il dottor Benjamin Sagalowitz (1901-1970), addetto stampa della comunità ebraica svizzera. L'industriale aveva la responsabilità di una fabbrica che impiegava circa 30 mila lavoratori, ed era un grande nemico del sistema nazista. Spinto dalla sua coscienza, voleva mettere in guardia il mondo affinché si facesse qualcosa in tempo per contrastare i disegni di Hitler. L'industriale chiese all'amico comune di trasmettere le notizie a Sagalowitz, che, tuttavia, non si trovava a quell'epoca a Zurigo. Dopo il suo ritorno egli trasmise le informazioni a Riegner pensando che Riegner potesse raggiungere il rabbino Wise a New York e attraverso Wise il presidente Roosevelt. Leland Harrison, l'ambasciatore americano, insisté per sapere il nome dell'informatore e dato che non c'era nessun altro canale rapido e sicuro per raggiungere l'America, Sagalowitz comunicò confidenzialmente a Harrison il nome e la posizione dell'industriale. Sagalowitz conclude il suo resoconto nel modo seguente: "Il dottor Riegner non ebbe da me il nome; io feci incontrare i due soltanto nel febbraio 1945. Per scrupolo di coscienza dissi all'industriale dopo la guerra che avevo dato il suo nome all'ambasciatore americano, e lui capì..." (10). Né l'archivio dello scomparso dottor Sagalowitz, né l'Archivio nazionale a Washington, né quello personale dell'ambasciatore Harrison forniscono indizi. Gli archivi della legazione svizzera a Berlino, nei quali si conservavano le domande per i visti d'entrata in tempo di guerra, sono stati distrutti, e mi è stato assicurato che anche i documenti della polizia di frontiera svizzera non esistono più. Perché mai l'industriale, che mentre scrivo queste righe non è più vivo, dovrebbe avere insistito sull'anonimità anche dopo la fine della

guerra? Ci sono due possibili spiegazioni. Sarà stato un diplomatico svizzero o un funzionario della Croce Rossa Internazionale o del Consiglio mondiale delle Chiese? Questo, per una serie di ragioni, è improbabile. La seconda possibilità è più probabile e interessante. Quando Riegner cercò di stabilire nel 1942 se poteva fidarsi del suo informatore, Sagalowitz gli fece capire che l'industriale aveva già dato informazioni su imminenti cambiamenti nel comando supremo dell'esercito tedesco (l'allontanamento di von Bock nel gennaio 1941), e, cosa ancora più importante, la data dell'operazione "Barbarossa", e cioè l'invasione dell'Unione Sovietica. La storia ufficiale del servizio segreto britannico nella seconda guerra mondiale menziona fra l'altro che il rappresentante del S.I.S. a Ginevra aveva sentito alla fine di marzo o ai primi dell'aprile 1941 da una fonte bene introdotta negli ambienti ufficiali tedeschi che Hitler avrebbe attaccato la Russia in maggio (11). Le autorità britanniche non ne riveleranno l'identità per almeno altri venticinque anni e, in ogni caso, non è certo che la fonte in questione fosse proprio il nostro industriale. Ma non è oltremodo probabile che Riegner, mentre cercava di scoprire nel luglio 1942 se il suo informatore era attendibile, sia venuto a conoscenza di questa informazione segretissima fornita da una validissima fonte? Ci può essere una risposta a questa domanda; esistono molte prove indiziarie, ma nessuna prova assoluta (12). Le reazioni al telegramma di Riegner a Londra e a Washington possono essere brevemente riassunte. Il 10 agosto 1942 il Foreign Office ricevette il telegramma; quattro giorni dopo Frank Roberts del dipartimento centrale scrisse che il messaggio non poteva essere trattenuto molto più a lungo anche se temeva che avrebbe avuto conseguenze imbarazzanti: "Naturalmente non abbiamo nessuna informazione relativa a questa comunicazione". Questo era certamente vero nel senso che non c'era stato nessun rapporto su una decisione presa da Hitler. Ma tuttavia Roberts aveva, molti mesi prima, sentito parlare da un collega della scomparsa di un milione e mezzo di ebrei, e c'erano stati altri resoconti del genere da fonti polacche come notò Allen (anch'egli del dipartimento centrale). Ma Allen pensava ancora che fosse una "voce piuttosto incontrollata". Il telegramma venne consegnato dal Foreign Office a un membro laburista del Parlamento, Sidney Silverman, che fu successivamente ricevuto al Foreign Office da Sir Brograve Beauchamp e dal colonnello Ponsonby. Egli voleva telefonare a Stephen Wise a New York ma gli fu risposto che era impossibile, perché i tedeschi intercettavano sempre tali conversazioni. Inoltre, doveva valutare se azioni promosse dalle istituzioni ebraiche non avrebbero potuto "infastidire i tedeschi e rendere ancora più sgradevoli le loro iniziative". Infine gli fu detto che il governo di Sua Maestà non aveva nessuna informazione che confermasse il messaggio di Riegner. L'opinione generale, al Foreign Office, era che i tedeschi stessero effettivamente trattando gli ebrei molto crudelmente, che li facessero morire di fame e che ne massacrassero un grande numero quando non li potevano sfruttare come schiavi. I rapporti polacchi sul fatto che i tedeschi avessero piani di maggior portata non erano evidentemente creduti. Non c'erano obiezioni al fatto che il Congresso ebraico pubblicasse il messaggio di Riegner, anche se c'era la possibilità che gli ebrei ne avrebbero fatto le spese e che la fonte del dottor Riegner sarebbe stata messa in pericolo. Il governo britannico, da parte sua, non aveva nessuna intenzione di rendere pubblico il rapporto o di usarlo nella propaganda contro la Germania senza prima riceverne ulteriori conferme (13). In poche parole, il Foreign Office non fu di grande aiuto ma, malgrado tutte le sue riserve, trasmise il messaggio. Il dipartimento di stato non lo fece. Howard Elting, viceconsole americano a Ginevra, chiese che il messaggio venisse trasmesso al rabbino Stephen Wise, ma la sezione affari europei del dipartimento di stato si oppose. Paul Culbertson, il vicedirettore, non gradì l'idea di mandare il dispaccio a Wise. Elbridge Durbrow giudicò "fantastica" la natura di quelle affermazioni. Il 17 agosto, a Berna, Harrison fu

informato che il telegramma non era stato comunicato a causa della natura chiaramente non comprovata dell'informazione (g). Ma il 28 agosto una copia del telegramma di Riegner raggiunse Wise attraverso il Foreign Office, che, malgrado gravi dubbi (su cui ci soffermeremo più avanti), non lo aveva soppresso. Wise si mise in contatto col sottosegretario di stato Sumner Welles che lo consigliò di evitare ogni dichiarazione pubblica sull'ordine di sterminio di Hitler fino a quando non sarebbero giunte delle conferme. Durante l'agosto e il settembre 1942 altre prove raggiunsero Washington. Alcune vennero da Ginevra; mi riferisco alla conferma della decisione di Hitler da parte di Carl Burckhardt, il "ministro degli esteri" della Croce Rossa, che è menzionato altrove in questo studio. Il 3 ottobre Riegner comunicò la testimonianza di due giovani ebrei che avevano passato la frontiera svizzera. Uno di loro era Gabriel Zivian che aveva assistito al massacro degli ebrei di Riga ed era arrivato il 22 settembre (14). L'altro, che era andato dalla Francia a Stalingrado ed era tornato, conosceva molti particolari sui massacri in Polonia e in Russia. Nessuno dei due poteva gettare nuova luce sull'ordine del Führer, come non lo potevano fare le cartoline ricevute da Varsavia da Sternbuch, rappresentante dell'ebraismo ortodosso, che annunciavano la liquidazione del ghetto. Ma tutte queste notizie si accordavano perfettamente col quadro generale. Come pure un rapporto dall'ambasciata americana a Stoccolma e un altro assai lungo e dettagliato da parte di Anthony J. Drexel Biddle junior, ambasciatore americano presso i governi alleati in esilio a Londra. Esso si basava su una comunicazione di Ernst Frischer, un parlamentare cecoslovacco, che aveva partecipato a quella conferenza stampa di fine giugno a Londra insieme a Schwarzbart e Silverman. Egli affermava che non c'era nessun precedente in tutta la storia ebraica a una tale sistematica carneficina, e neanche in tutta la storia dell'umanità. Una copia del rapporto di Biddle fu mandata direttamente alla Casa Bianca. Ai diplomatici americani all'estero fu chiesto dal dipartimento di stato di comunicare se avevano sentito qualcosa che potesse gettar luce sul rapporto Riegner. Infine, il 22 ottobre, Harrison incontrò Riegner e Lichtheim (il rappresentante dell'Agenzia ebraica), raccolse da loro diverse dichiarazioni giurate e spedì tutta la documentazione a Washington. Erano già passate undici settimane dal telegramma di Riegner, undici mesi da quando le prime notizie sui massacri in Russia erano state ricevute per la prima volta in Occidente. Ulteriori rapporti da fonti ebraiche e non ebraiche continuavano ad arrivare: un resoconto da una fonte vaticana dichiarava che in Polonia proseguivano le esecuzioni in massa di ebrei. Il numero di ebrei uccisi in ognuno dei centri principali ammontava a decine di migliaia. Si diceva che le vittime erano state uccise mediante gas venefici in camere appositamente predisposte allo scopo (15). Il Foreign Office comunicò il telegramma Riegner agli Stati Uniti malgrado il fatto che temesse "imbarazzanti ripercussioni". Ancora alla fine di novembre a Londra si pensava che non c'erano vere prove di queste atrocità. Ma la probabilità era sufficientemente grande per giustificare qualche "azione" alleata, cosa che in pratica significò la pubblicazione di una dichiarazione (h). Non tutte le altre informazioni che provenivano da Ginevra erano utili ed alcune erano del tutto erronee. Così, secondo un altro telegramma inviato dai rappresentanti ebraici, l'ordine di sterminio era stato proposto da Herbert Backe, commissario nazista all'approvvigionamento, che in questo modo voleva risolvere il problema alimentare, mentre invece Frank e Himmler [sic] si erano opposti alla soluzione finale perché i lavoratori ebrei e soprattutto gli operai specializzati ebrei erano necessari per lo sforzo bellico. Questa, inutile dirlo, era pura fantasia: la decisione di Hitler non aveva nulla a che fare con la situazione alimentare della Germania (i). C'erano alcune discrepanze fra i rapporti: certi affermavano che gli ebrei venivano uccisi mediante gas venefici, altri menzionavano forme di elettroesecuzione. Ci fu un resoconto in cui si affermava che i

cadaveri delle vittime erano usati per fabbricare sapone e fertilizzanti artificiali. Esso venne chiaramente da Sternbuch, rappresentante a Montreux dell'ebraismo ortodosso, che lo aveva sentito da una fonte polacca. Riegner riferì una storia simile citando un "ufficiale antinazista assegnato al quartier generale dell'esercito tedesco": c'erano due fabbriche che adopravano i cadaveri degli ebrei per fabbricare sapone, colla e lubrificanti. Queste storie inverosimili rafforzarono lo scetticismo di Londra e di Washington. Come scrisse Frank Roberts, "i fatti sono già abbastanza terribili senza l'aggiunta di vecchie storie come l'uso di corpi per fabbricare sapone" (16). Emerse dopo la guerra che in effetti la storia non era vera. Ma i capelli delle vittime femminili furono usati per lo sforzo bellico, e le voci sulla produzione di sapone dai cadaveri degli ebrei erano comunque assai diffuse fra i non ebrei in Polonia, Slovacchia e Germania. La cosa apparve in vari rapporti riservati tedeschi e perfino nella corrispondenza fra dirigenti nazisti (17). Ma il ripetersi di voci come questa rese ogni notizia sulla soluzione finale sospetta agli occhi degli americani e degli inglesi, che le avevano trovate, in primo luogo inopportune. Uno di questi fu CavendishBentinck, il presidente del Comitato dei servizi segreti britannici, che non più tardi del luglio 1943 scrisse che i polacchi e assai di più gli ebrei tendevano a esagerare le atrocità tedesche "allo scopo di aizzarci" (18). Fu detto che le notizie sul sistematico sterminio potevano avere "imbarazzanti ripercussioni". Chi potevano imbarazzare? A Londra e a Washington si credeva che storie di questo genere avrebbero, nel caso migliore, distolto gli Alleati dallo sforzo bellico, e, nel caso peggiore, come dichiarò nel settembre 1944 il capo del dipartimento meridionale del Foreign Office, avrebbero costretto vari capiufficio "a sprecare una sproporzionata quantità del loro tempo per occuparsi di ebrei piangenti". Quando il rapporto Riegner raggiunse Londra, un alto funzionario britannico osservò che "abbiamo ovviamente ricevuto numerosi rapporti di massacri di ebrei su vasta scala, particolarmente in Polonia" (19). Da dove arrivarono questi numerosi rapporti? Alcuni provenivano dalle normali fonti dei servizi segreti, altri da prigionieri di guerra che erano riusciti a fuggire dal continente e che avevano occasionalmente assistito a tali scene. Uno dei fuggiaschi, che in seguito diventò famoso, fu Airey Neave, un importante parlamentare conservatore che venne ucciso nel 1979 da terroristi irlandesi nei locali della Camera dei Comuni. Egli aveva assistito alla prima fase della soluzione finale in Polonia. Un ufficiale britannico che era rimasto nascosto a Varsavia ed era fuggito all'inizio del giugno 1942 era ritenuto essere la fonte del rapporto dell'O.S.S. citato più avanti. Alcuni rapporti giunsero attraverso i normali canali diplomatici. Così David Kelly, capo della legazione britannica in Svizzera, in una lettera, datata 19 novembre 1941, a Frank Roberts del dipartimento centrale del Foreign Office: "Ecco alcune notizie che ho appena sentito da colleghi. Il polacco mi ha detto... che un milione e mezzo di ebrei che abitavano nella Polonia orientale (da poco russa) sono semplicemente del tutto scomparsi; nessuno sa come e dove" (20). Il rapporto è di considerevole interesse: è una delle prime indicazioni, se non la prima in assoluto, che l'attività delle Einsatzgruppen era conosciuta in Occidente e che centinaia di migliaia di ebrei erano stati uccisi. La fonte era Alexander Lados, il rappresentante diplomatico polacco a Berna. Non era né un uomo ingenuo né uno che vuol far colpo; era stato ministro degli interni nel governo in esilio prima di andare in Svizzera. Non aveva nessun contatto radio con la Polonia; l'informazione può averlo raggiunto soltanto attraverso un corriere polacco arrivato in Occidente. La notizia era sostanzialmente corretta: un milione e mezzo di ebrei vivevano nei territori occupati dai tedeschi dopo l'invasione; coloro

che non erano fuggiti erano stati uccisi. Ci furono altri rapporti del genere da varie fonti. Ma ci furono, inoltre, altre due importanti fonti d'informazioni, una altamente segreta, l'altra per niente. Della storia delle decifrazioni ("Ultra", "Triangolo") si è venuto gradualmente a sapere negli anni settanta. Per quasi tutta la guerra il servizio segreto britannico riuscì a intercettare messaggi radio interni alla Germania nazista e a leggerli. Nel quartier generale di questa operazione a Bletchley, dove lavoravano migliaia di persone, il primo codice a venire decifrato fu quello della Luftwaffe, e poi ne seguirono altri. Il codice delle S.S. fu decifrato verso la fine del 1941, come pure quello dell'"Abwehr". Molti studi sulla seconda guerra mondiale che non presero in considerazione questo fatto dovranno essere riscritti perché il giudizio cambia se i comandanti dell'esercito, della marina e dell'aviazione erano bene informati sulla forza dell'altra parte e sulle sue intenzioni. E' vero che molte informazioni importanti non venivano trasmesse per telegrafo ma per telefono, telescrivente o corriere, che era sempre preferito per le brevi distanze. Così le comunicazioni fra Berlino e Madrid avvenivano per telegrafo e potevano essere lette, mentre le lettere fra Berlino e Parigi non potevano essere intercettate. Il servizio segreto britannico avrebbe potuto venire a conoscenza della soluzione finale grazie alle decifrazioni dei codici segreti. Ma questo accadde? Per molto tempo non sarà possibile fornire una risposta definitiva a questa domanda. Molti segnali Ultra sono stati pubblicati in anni recenti ma riguardano quasi esclusivamente operazioni navali o aeree e sono anch'essi incompleti. Il materiale concernente i servizi segreti dell'esercito e delle S.S. non è per ora accessibile, e forse non lo sarà mai completamente. Lo stesso vale anche per le decifrazioni americane: la Gran Bretagna non fu l'unico paese a intercettare durante la guerra le comunicazioni radio dei tedeschi nell'Europa orientale. Pertanto la documentazione disponibile è incompleta e indiretta, e deve essere analizzata in termini di probabilità piuttosto che di certezza. Il codice delle S.S., si ricorderà, fu decifrato dal servizio segreto britannico. Ma la maggior parte dei segnali letti a Bletchley avevano chiaramente per oggetto i servizi segreti stranieri e non la soluzione finale. Mi è stato assicurato che coloro che leggevano i telegrammi da e per l'Ufficio centrale per la sicurezza dello stato (R.S.H.A.) vennero a sapere dello sterminio degli ebrei da fonti M.I.6 (l). Si sostiene anche che fino al 1943, quando venne installato un calcolatore, soltanto una relativamente piccola parte del materiale intercettato fu in effetti decifrata. Non era un lavoro facile, e i segnali che non riguardavano né preparativi militari né informazioni di alto valore politico venivano piuttosto trascurati. Informazioni sugli ebrei erano difficilmente considerate di grande importanza. Si è inoltre detto che, per ragioni tecniche, la ricezione dall'Europa orientale era difettosa. Ma ciò non impedì a Ultra nella primavera del 1941 di raccogliere importanti prove sui preparativi in Polonia dell'esercito e dell'aviazione tedesca contro l'Unione Sovietica. Le Einsatzgruppen delle S.S. usarono la radiotelegrafia per i loro rapporti? Sì. Rapporti delle Einsatzgruppen affermano che esse non usarono soltanto la telescrivente ma anche stazioni radio. Il rapporto operativo 131, datato 10 aprile 1942, riferisce per esempio, che le Einsatzgruppen A e B hanno usato radio Smolensk; il gruppo 6, Stalino; il 7A Klinzy e Orel; il 9 Vitebsk; il 10 Feodosia; il 12 Federowka. Furono anche usate stazioni radio a Kiev, Kharkov, Nikolaev e Simferopol. Ci fu in ogni caso anche un'altra fonte d'informazioni che ebbe un rapporto diretto con la soluzione finale. Il servizio segreto britannico analizzava attentamente su base giornaliera il movimento dei treni tedeschi. C'era uno speciale "servizio di indagini ferroviarie" al ministero della guerra economica che, con l'aiuto di Enigma, decifrò nel febbraio 1941 il codice ferroviario tedesco. Nello stesso tempo, del tutto indipendentemente, anche il S.I.S. decifrò il codice e ciò permise di seguire il movimento dei treni tedeschi in

tutta l'Europa (21). Il servizio segreto ferroviario era, ovviamente, soprattutto interessato ai percorsi irregolari, e i treni che portavano gli ebrei in Polonia e all'interno della Polonia verso i campi non possono essere sfuggiti alla loro attenzione. Se i dirigenti delle ferrovie tedesche arrivarono alla conclusione che Auschwitz era diventato uno dei centri più importanti e più popolosi d'Europa a causa dei tanti treni che vi giungevano, la stessa cosa deve essere venuta in mente anche ai servizi segreti alleati. Era forse un luogo di grande importanza per lo sforzo bellico tedesco? Perciò, molto probabilmente fu fatto un tentativo di saperne di più su ciò che eventualmente poteva essere prodotto ad Auschwitz e negli altri campi. Simili studi furono probabilmente intrapresi, ma non sono stati tolti dalla lista dei segreti di stato. Le informazioni riguardanti lo sterminio degli ebrei europei furono soppresse dai servizi segreti? La risposta sembra essere positiva, ma a causa del fatto che molti degli archivi di questi servizi segreti sono stati distrutti può non essere possibile provare definitivamente se fu proprio così, e perché. Questo non per mettere in dubbio l'onestà di quei funzionari che in anni più recenti hanno negato di esserne stati a conoscenza. Come osservò una volta Churchill, non ci si dovrebbe fidare delle memorie di guerra senza una verifica. Ma in questo caso una verifica è stata resa impossibile. Ma ci furono altre fonti d'informazioni ugualmente importanti di cui si può parlare con maggiore certezza. A differenza dell'Unione Sovietica, la Germania non fu un paese ermeticamente chiuso neanche in tempo di guerra. Decine di migliaia di cittadini stranieri continuarono a vivere e a viaggiare in Germania e alcuni di loro si recarono anche nei territori occupati nell'est. Diplomatici e giornalisti nord e sudamericani (ad eccezione dell'Argentina e del Cile) lasciarono la Germania nel gennaio 1942. Ma c'erano ancora i neutrali come la Spagna e il Portogallo, la Svezia e la Svizzera, l'Irlanda e la Turchia e, ovviamente, gli alleati e i satelliti della Germania. Essi avevano ambasciate a Berlino e c'erano molti uffici consolari locali: la Svezia ne aveva cinquantatré di questi uffici, la Finlandia trentadue, la Danimarca trenta; perfino il Portogallo ne aveva venti. Molti di questi consoli erano cittadini tedeschi, ma quelli nei posti importanti (come Amburgo, Praga o Vienna) erano generalmente cittadini stranieri; i consoli svizzeri erano sempre cittadini svizzeri. Il compito principale degli uffici consolari non era quello di fornire informazioni politiche; ma non sarebbero stati rimproverati per aver raccolto e comunicato pettegolezzi o notizie. Così, per fare un esempio, un cittadino svizzero che per caso aveva assistito a un massacro in Ucraina ne informò il suo console ad Amburgo. I consoli prestavano aiuto ai cittadini dei paesi che rappresentavano. Fra questi cittadini c'erano invariabilmente alcuni ebrei che insensatamente erano rimasti in Germania. Ce n'erano altri, i cui diritti erano incerti; vedove o discendenti di cittadini turchi o spagnoli. Ma indagini dovevano essere fatte in ogni caso e pertanto il personale diplomatico e consolare doveva venire a sapere che gli ebrei erano deportati, che le loro proprietà erano confiscate, che stavano scomparendo senza lasciare traccia. Quando due dei segretari dell'ambasciata turca a Berlino, che erano ebrei, sparirono improvvisamente, o quando una sorte simile toccò all'insegnante di tedesco dell'ambasciatore del Siam a Berlino, qualcuno si deve pur essere domandato qualcosa. E' stato detto prima che cittadini stranieri che vivevano nel Reich dovevano sapere qualcosa del destino degli ebrei. Così Goebbels, in una delle sue conferenze (l'11 marzo 1941), menzionò con evidente indignazione il fatto che aveva appreso che la metà degli studenti stranieri di Berlino abitava in appartamenti di ebrei. L'ambasciatore finlandese, il professor Kiwimaeki, era un amico personale di Felix Kersten, il massaggiatore di Himmler, che era una delle persone meglio informate del Reich. Kersten avvertì Kiwimaeki nel luglio 1942 che Himmler voleva che i finlandesi consegnassero i loro ebrei. Gli svedesi ricevevano informazioni da più fonti. Fu un diplomatico

svedese, il barone von Otter, a essere avvicinato da Kurt Gerstein sull'espresso Varsavia-Berlino. Gerstein, primo ufficiale per la disinfezione delle "Waffen" S.S., aveva il compito di fornire il gas ai campi. Era appena tornato da un giro d'ispezione in cui si era occupato di particolari tecnici come i rispettivi vantaggi dello Zyklon B (cianuro di idrogeno) e dell'ossido di carbonio nell'uccidere la gente, e ne parlò al barone von Otter che informò Stoccolma. Questo fu un incontro occasionale, ma altri erano regolari. Il pastore dell'ambasciata svedese era in continuo contatto con elementi dell'opposizione in seno alla Chiesa protestante tedesca e cercò, senza successo, di salvare alcuni dei cristiani convertiti, come, per esempio, la figlia adottiva di Jochen Klepper, il noto scrittore. Anche il consigliere d'ambasciata Almquist partecipò a questi tentativi di salvataggio. Uomini d'affari svedesi a Varsavia erano in contatto con la resistenza polacca e alcuni furono arrestati. I diplomatici svedesi dovevano essere a conoscenza del pericolo mortale che incombeva sugli ebrei. E' perlomeno improbabile che sia loro che gli altri rappresentanti neutrali a Berlino, che a volte compresero anche gli alleati della Germania (come l'Italia e l'Ungheria), avrebbero fatto di tutto per cercare di evitare il viaggio obbligato di un ebreo dalla Germania, dall'Olanda o dalla Francia verso una destinazione nell'Europa orientale, se anch'essi non avessero saputo che la deportazione era una sentenza di morte. Solo pochissime persone, come il barone von Otter, avevano ricevuto un rapporto sulle tecniche dello sterminio. Ma questi erano particolari: sul risultato finale non c'era nessun dubbio. I diplomatici costituivano soltanto una piccola parte della comunità straniera nella Germania del tempo di guerra. Anche dopo la partenza dei giornalisti americani nel dicembre 1941 c'erano ancora un centinaio di giornalisti stranieri in Germania. Il loro numero aumentò leggermente nel 1942-43 e fu soltanto durante l'ultimo anno di guerra, quando le linee di comunicazione si guastarono, che molti di loro se ne andarono. La maggioranza proveniva da paesi satelliti, il che non vuol dire che erano sempre entusiasti della politica nazista. C'erano anche diversi corrispondenti da paesi neutrali: "Svenska Dagbladet", "Dagens Nyheter", "Stockholm Tidningen", "Nya Daglight Allehande" e perfino "Social Democraten" avevano i loro corrispondenti a Berlino. I loro articoli erano, ovviamente, rigorosamente censurati, ma ciò non significa che essi non fossero a conoscenza del destino degli ebrei. I funzionari nazisti non mantenevano a volte neanche i segreti di capitale importanza. Così il professor Karl Boehme, capo del dipartimento stampa estera del ministero della propaganda, annunciò a un ricevimento all'ambasciata bulgara nel maggio 1941 che presto sarebbe stato "Gauleiter" della Crimea. A seguito di questo incidente egli fu sì mandato sul fronte orientale, ma come soldato, e solo grazie all'intervento personale di Goebbels non venne fucilato. Se segreti militari di questa importanza venivano occasionalmente rivelati, della soluzione finale se ne parlava e se ne discuteva più ampiamente. E' vero che ai corrispondenti stranieri non era permesso di viaggiare liberamente durante la guerra in Europa orientale, ma c'erano tuttavia giri organizzati sia per i giornalisti residenti che per quelli appositamente invitati. Così un gruppo venne portato a Kiev nell'ottobre 1941 a vedere le distruzioni prodotte dai bolscevichi. Il capitano Koch, che ne era la guida, fu interrogato sull'assassinio di molte migliaia di ebrei nella capitale ucraina, e questo pochi giorni dopo Babi Yar. Egli negò di esserne a conoscenza mentre i giornalisti (secondo un rapporto dell'"Abwehr") gli dissero che ne erano al corrente ("dass sie darüber doch genau Bescheid wüssten") (22). I giornalisti non potevano pubblicare simili storie, ma tuttavia ne potevano parlare fra di loro. La maggior parte andava in permesso a casa con una certa frequenza e avrà informato le proprie redazioni, le proprie famiglie e gli amici. Albert Müller, direttore dei servizi esteri alla "Neue Zürcher Zeitung" dal 1934 al 1965, scrisse in seguito che non c'erano "notizie dirette", ma che le deportazioni e il concentramento nei ghetti erano impossibili senza avvisi sulla stampa

tedesca nella Polonia occupata, che veniva letta dai corrispondenti stranieri a Berlino. "Non ricevevamo descrizioni di un'esattezza fotografica, ma soltanto abbozzi" (23). Ma questi abbozzi erano piuttosto rivelanti, e Müller ricorda anche l'informazione che ricevette non molto dopo lo scoppio della guerra da una fonte insospettabile, un avvocato e ufficiale della riserva che si trovava nel Warthegau (la regione polacca annessa dalla Germania alla fine del 1939), che gli parlò delle fosse comuni per gli ebrei. L'ufficiale aggiunse nel suo messaggio che l'episodio era meno raro del fatto che se ne fosse venuti a conoscenza. In un'altra occasione il governo olandese in esilio informò Müller e i suoi colleghi che l'anagrafe di Amsterdam era stata distrutta dalla resistenza perché erano venuti a sapere che esistevano in Polonia installazioni per lo sterminio dei deportati ebrei o che stavano per essere completate. Della presenza e dei movimenti dei neutrali in Germania ci occuperemo comunque più avanti. Se ne è accennato ora solo perché questo fu un altro importante canale attraverso il quale i governi alleati potevano conoscere la situazione nei paesi occupati dai nazisti e anche il destino degli ebrei. Alcuni neutrali potevano avere collegamenti in Gran Bretagna e in America, così come, per esempio, alcuni diplomatici spagnoli di stanza a Londra passavano le loro informazioni a Berlino. Ma anche coloro che non avevano nessun collegamento con gli Alleati riferivano le notizie ai loro superiori a Stoccolma, a Berna e in altre capitali, e parlavano con i propri amici, colleghi e soci in affari. "Pettegolezzi" di questo genere venivano raccolti dai diplomatici e agenti alleati nelle capitali neutrali. Lettere spedite dalla Germania e dai paesi neutrali venivano lette con attenzione nei vari uffici di censura degli Alleati; il quartier generale si trovava nelle Bermuda. Lette insieme ai rapporti della stampa e delle agenzie rappresentavano un'importante fonte d'informazioni. Un rapporto sulla "Situazione in Germania e nei paesi occupati", datato 18 febbraio 1942 e basato interamente su materiale di questo tipo, notava "una spietata nuova spinta per liberare il Reich dagli ebrei". Un'alta percentuale dei messaggi postali della Croce Rossa provenienti dalla Germania nel gennaio 1942 "erano di sventurati alla vigilia della loro partenza per la Polonia o per ignote destinazioni". C'erano dati esatti riguardo a molte città. Per quanto concerne le condizioni che aspettavano i deportati, è stato detto che informazioni dirette non era facile averne, il che era ovvio. Ma è stato anche detto che "voci che riuscivano a trapelare in Germania devono aver spinto un certo numero di ebrei a preferire il suicidio alla deportazione" (lettera da Lugano, datata 9 gennaio 1942). Dall'America venne una "orripilante storia di migliaia di prigionieri di un ghetto" vicino al fronte russo che erano stati messi a morte "nel tentativo di soffocare un'epidemia di febbre tifoide" (24). Questi rapporti venivano periodicamente riuniti; essi mostrano che molte cose interessanti potevano essere raccolte da fonti apparentemente non promettenti. Verso la fine dell'estate del 1942 le informazioni sullo sterminio erano disponibili a Londra ma non venne loro data molta pubblicità. Varie ragioni possono essere addotte per la decisione di sdrammatizzare le notizie; è stato osservato che altri governi alleati reagirono in modo simile. La questione è importante, perché, se le notizie sulla soluzione finale fossero state pubblicizzate più largamente, più persone nell'Europa occupata ne avrebbero sentito parlare, e per giunta prima. Il ruolo del ministero britannico dell'informazione, diretto da Brendan Bracken, deve essere ancora esaminato sotto questo punto di vista. Mi è stato assicurato da qualcuno che lavorò con lui e che lo conobbe bene che egli credette che le notizie erano così orribili che sarebbero state considerate come menzogne propagandistiche degne di Goebbels. Presiedette però una conferenza stampa organizzata nel luglio 1942 dal governo polacco a Londra e parlò con orrore e indignazione delle atrocità commesse contro gli ebrei. Dichiarò anche che i responsabili sarebbero stati puniti una volta vinta la guerra. Ma c'era anche la considerazione che

politicamente non sarebbe stato saggio dare troppa pubblicità a questo specifico crimine nazista. Il comitato di programmazione del ministero dell'informazione (M.O.I.) era giunto alla conclusione nel luglio 1941 che mentre una certa dose di orrore era necessaria nella propaganda interna britannica, questo andava usato con parsimonia "e deve sempre riferirsi al trattamento di persone indiscutibilmente innocenti. Non a oppositori politici violenti. E non agli ebrei" (25). Perché non agli ebrei? Forse non erano "indiscutibilmente innocenti"? No, la ragione era più complessa. Secondo gli esperti del M.O.I. la gente pensava che le vittime fossero dopotutto individui poco raccomandabili. Così, paradossalmente, il M.O.I. parlò nel 1942 dell'"olocausto dei cattolici" in Europa, ma agli ebrei accennò soltanto raramente e non in termini di olocausto anche dopo che i fatti sulla soluzione finale erano diventati noti. C'era anche un'altra ragione. Come scrisse a quell'epoca un alto funzionario del M.O.I., per venti anni fra le due guerre mondiali c'era stata una campagna ben condotta contro le storie raccapriccianti e alcune persone erano diventate "controsuggestionabili". Egli personalmente non sapeva se c'era una "fabbrica di cadaveri" ma la maggior parte delle persone non ci credeva (26). Lo stesso argomento era assai spesso usato negli Stati Uniti. Quando John Pehle, direttore del Comitato per i profughi di guerra, volle pubblicare il rapporto su Auschwitz di due prigionieri fuggiti nel 1944, Elmer Davis, capo dell'Ufficio per le informazioni di guerra (O.W.I.), protestò: pubblicare questi rapporti sarebbe stato controproducente; il pubblico americano non vi avrebbe creduto, considerandoli storie sensazionali del tipo di quelle della prima guerra mondiale. Ma i sapientoni dell'O.W.I. usarono anche l'argomento opposto: nell'Europa occupata la verità sulla soluzione finale sarebbe stata creduta e ciò avrebbe suscitato una tale paura nei non ebrei che ogni resistenza ai nazisti sarebbe crollata. Ma c'era un terzo argomento e fu probabilmente quello decisivo. C'è, secondo lo storico del M.O.I., una completa assenza di verbali e di appunti riguardo a questa questione ma egli non ha dubbi sul fatto che "il ministero quasi certamente esitò a causa del frequente pregiudizio nella comunità britannica contro gli ebrei" (27). L'antisemitismo figurava in tutto il 1940 e in tutto il 1941 in quasi ogni numero del rapporto settimanale dei servizi segreti interni. Per misteriose ragioni ci furono molti meno rapporti di questo genere durante la seconda metà del 1942 ma poi, verso la fine dell'anno, "sembra essere stato riattizzato dalle rivelazioni ufficiali sui sistematici massacri nazisti degli ebrei europei" (28) (m). I rapporti settimanali dell'8 e del 15 dicembre annunciavano estremo orrore, indignazione, rabbia e disgusto. Ma nel rapporto settimanale del 29 dicembre si giunse alla conclusione che rendere pubbliche queste notizie aveva portato la "gente a essere più consapevole degli ebrei che non gradisce qui". Questa fu quindi la ragione principale per sdrammatizzare l'assassinio degli ebrei, e se il M.O.I. usò questo argomento riferendosi ai servizi interni della B.B.C., i servizi segreti e il Foreign Office addussero simili ragioni in riferimento ai propri servizi europei. Il P.W.E. (esecutivo per la guerra politica) era certamente bene informato sulla soluzione finale. Non solo, nel suo quartier generale all'Electra House a Londra, riceveva importanti notizie da tutti gli altri servizi segreti britannici, ma aveva anche un gruppo di trenta esperti all'ambasciata britannica a Stoccolma per leggere tutti i giornali dell'Asse e dei paesi neutrali; una volta alla settimana un aereo speciale della RAF portava il materiale a Londra. Ma il P.W.E. era altrettanto a disagio nell'affrontare il "tema ebraico" nei volantini gettati sul continente o nelle trasmissioni radio. Perfino verso la fine della guerra Sir Robert Bruce Lockhart, direttore del P.W.E., spiegò a un collega della diplomazia britannica che era del tutto inutile intensificare gli appelli per salvare gli ebrei ormai condannati: simili dichiarazioni avrebbero portato soltanto a un aumento dei maltrattamenti. Inoltre, la carta, gli aeroplani e le ore

di trasmissione erano limitati e il P.W.E. aveva molti altri impegni. Qualunque fossero le ragioni, e ce ne furono almeno una mezza dozzina, la conclusione era sempre la stessa. Nessuno in Occidente suggerì di sopprimere del tutto le informazioni sullo sterminio, e, in ogni caso, il controllo attuato da istituzioni come il M.O.I. e il P.W.E. sui mezzi di comunicazioni era tutt'altro che assoluto. Ma l'opinione ufficiale era di riferirsi a esso soltanto con parsimonia. Nell'ottobre 1942 l'Agenzia telegrafica ebraica venne a sapere del telegramma Riegner e ne pubblicò l'essenziale senza attribuirlo a nessuno. In novembre il rabbino Stephen Wise fu invitato a recarsi a Washington e gli fu comunicato dal sottosegretario Sumner Welles che le nuove informazioni ricevute dal dipartimento di stato confermavano i più grandi timori e che quindi lo lasciavano libero di parlarne. Egli dichiarò in una conferenza stampa a Washington che era venuto a sapere attraverso fonti confermate dal dipartimento di stato che la metà dei quattro milioni di ebrei che si riteneva vivessero nell'Europa occupata dai nazisti era stata trucidata in una "campagna di sterminio" (29). Il 17 dicembre 1942 gli undici governi alleati e il Comitato della Francia libera pubblicarono una dichiarazione comune in cui si annunciava che adesso le autorità tedesche stavano attuando il progetto di Hitler, così spesso ripetuto, di sterminare il popolo ebraico in Europa. Ciò fu seguito da editoriali, trasmissioni radio e raduni. Non sembrava esserci più alcun dubbio sull'autenticità di queste terribili notizie. Ma il 10 febbraio 1943, dopo che il ministro plenipotenziario americano in Svizzera aveva spedito un altro messaggio di Riegner sulla soluzione finale, Breckinridge Long, vicesegretario addetto alla sezione per gli speciali problemi di guerra, lo invitò a non accettare e a non trasmettere più simili rapporti a privati negli Stati Uniti (30). C'erano ambienti autorevoli a Washington che non volevano che rapporti di questo genere circolassero. Sentivano con ancora maggiore forza dei loro colleghi del Foreign Office che questi rapporti avrebbero potuto avere imbarazzanti ripercussioni. Oppure questi atteggiamenti erano motivati da genuini dubbi sulla veridicità delle "storie dell'orrore"? Notizie sulle atrocità dei nazisti erano state largamente pubblicate sulla stampa americana dal 1939 in poi. Commentando alcuni di questi rapporti, il "New York Herald Tribune" scrisse il 5 dicembre 1941 che "da tutto ciò si deduce che il destino riservato agli ebrei dai nazisti è peggiore di uno stato di schiavitù, non è altro che sistematico sterminio". Durante i primi sei mesi del 1942 ci furono rapporti di esecuzioni in massa e vennero anche pubblicati tutti i più importanti messaggi provenienti dalla Polonia. Le ambasciate americane a Budapest e a Bucarest riferirono il massacro di Kamenets Podolsk e la deportazione in Transdniestria. I telegrammi, riguardo a questi fatti, di Franklin M. Gunther, ambasciatore americano a Budapest, suscitarono chiaramente un certo fastidio al dipartimento di stato ma ciò che conta in questo contesto è che queste importanti informazioni erano disponibili a Washington. Personale diplomatico americano rimase nei paesi dell'Asse fino alla fine del 1941, e a Vichy ancora per un anno. Inoltre, le istituzioni ebraiche fornivano un flusso continuo di informazioni, richieste, appelli, suggerimenti, proteste. Già il 7 ottobre 1941 Atherton, della divisione europea del dipartimento di stato, inviò un rapporto di sessanta pagine sulla "Polonia sotto l'occupazione tedesca" al colonnello Donovan, a quel tempo ancora "coordinatore delle informazioni". Un membro dell'ambasciata americana a Berlino che era stato precedentemente a Varsavia aveva ricevuto questo documento da un polacco. Vi si descriveva la situazione polacca prima dell'invasione tedesca dell'Unione Sovietica e si diceva che le autorità tedesche in Polonia facevano di tutto per "estirpare spietatamente e completamente l'elemento ebraico dalla vita delle comunità ariane". Termini come "sterminio", "eliminazione" e "liquidazione" vi erano usati spesso, e veniva messo in risalto che lo scopo della politica nazista era quello di far scomparire gli ebrei

dall'Europa (n). Sebbene rapporti come questi non parlassero specificatamente di sterminio fisico, lasciavano poco spazio all'immaginazione. Un lungo messaggio datato da Lisbona, 20 luglio 1942, inizia nel modo seguente: "La Germania non perseguita gli ebrei, li sta sistematicamente sterminando... Questi fatti sono stati inoltre confermati da molti cittadini di origine europea che sono arrivati qui negli ultimi tempi" (31). Ma questi rapporti venivano letti a Washington? Quando tre mesi dopo il professor Felix Frankfurter espresse i suoi timori sul destino degli ebrei al presidente Roosevelt, gli venne detto di non preoccuparsi, perché gli ebrei deportati erano semplicemente impiegati sul fronte sovietico per costruire fortificazioni (32). E' certo che Roosevelt sapeva di più di quanto ammise con Frankfurter. Un mese prima, il 22 agosto, aveva detto in una conferenza stampa alla Casa Bianca che "la comunicazione che ho appena ricevuto... alimenta i timori che man mano che si avvicina la sconfitta del nemico, il carattere barbaro e implacabile del regime di occupazione diventerà sempre più evidente e potrà perfino portare allo sterminio di certe popolazioni". Quali erano queste "certe popolazioni"? Sicuramente non il popolo olandese o lussemburghese dai cui governi in esilio egli aveva ricevuto informazioni. L'atteggiamento generale di Roosevelt fu forse più sinteticamente espresso nella risposta a una lettera del generale Sikorski all'inizio del luglio 1942 nella quale il capo di stato polacco aveva suggerito drastiche azioni come deterrente contro il terrorismo tedesco. Roosevelt disse che era perfettamente a conoscenza di questi fatti ma che non c'era altra risposta che l'annientamento della forza militare delle potenze dell'Asse. L'America era profondamente irritata dal barbaro comportamento dei nazisti ma non avrebbe appoggiato atti di rappresaglia come l'indiscriminato bombardamento della popolazione civile dei paesi nemici (33). Roosevelt era fra l'altro tenuto perfettamente informato da lunghi telegrammi di A. Drexel Biddle, ambasciatore presso i governi in esilio a Londra e suo amico personale. Ma data la sua convinzione che l'unica condotta politicamente e strategicamente sana era "la prosecuzione più efficace possibile della guerra", egli non prestava attenzione alle notizie sulla soluzione finale, e può averle anche considerate inopportune. Per continuare con le informazioni che raggiunsero Washington nella primavera e nell'estate del 1942, un altro rapporto, probabilmente della stessa fonte, comincia con un'analisi della cronologia della soluzione finale: "La data esatta di quando Hitler abbia deciso di cancellare gli ebrei dalla superficie dell'Europa nel senso più letterale della parola, e cioè uccidendoli, è ignota. Evacuazioni e deportazioni accompagnate da esecuzioni risalgono già alla campagna polacca, ma lo sterminio organizzato di intere comunità e di treni carichi di ebrei sembra che sia iniziato solo dopo l'attacco tedesco alla Russia" (34). Esso si conclude con la descrizione di come funzionassero le camere a gas mobili nei pressi di Minsk. Il rapporto dell'O.S.S. appena citato non fu certamente l'unico. Uno dei primi sulla "sistematica liquidazione degli ebrei" è datato 14 marzo 1942, ma alcuni alti funzionari dell'O.S.S. ne erano già a conoscenza, e ne hanno scritto, anche prima. Uno di questi fu Fred Oechsner, già capo dell'ufficio berlinese della United Press, che fece il corrispondente di guerra sul fronte orientale con l'esercito tedesco e romeno ed era stato a Odessa e in altri posti. Venne a sapere da fonti tedesche, e lo riferì nell'ottobre 1941, dello speciale trattamento subito dagli ebrei a Kiev, Zhitomir, Kherson e altre località ("ci pensarono gli ucraini") (35). Il maggiore Arthur Goldberg, che lavorava per l'O.S.S. a Londra, ricevette un rapporto

dettagliato sulla soluzione finale da Shmuel Zygielbojm e passò l'informazione a Washington (o). Forse l'americano meglio informato in cose tedesche negli anni 1942-43 fu il leggendario Sam Woods (18921953), addetto commerciale, prima a Berlino e poi a Zurigo dai primi mesi del 1943. Un texano che non sapeva il tedesco e pretendeva di non avere il benché minimo interesse per la politica, Woods si adoperò con grande successo nel raccogliere informazioni segrete fuori da ogni struttura organizzata. A Berlino, nel febbraio 1941, ricevette una copia dell'ordine di battaglia tedesco per "Barbarossa"; poi, a Zurigo, ricevette informazioni sul fatto che i tedeschi stavano discutendo se lavorare alla bomba atomica - solo per citare due dei suoi colpi più importanti. E' assai ragionevole presumere che Woods abbia saputo dai suoi contatti tedeschi del destino degli ebrei. Ma, il più delle volte, egli comunicò a voce le sue informazioni ai suoi superiori, ed è improbabile se ciò verrà mai provato. I tedeschi non sospettarono mai Woods durante il suo periodo berlinese (1937-41); cominciarono a interessarsi di lui soltanto dopo la sua nomina a Zurigo. In un altro resoconto viene citato un soldato del corpo di spedizione italiano in Russia: "Dio ci punirà severamente per l'aiuto che prestiamo in tutti questi crimini". Un rapporto datato agosto 1942 era una copia di un messaggio inviato al rabbino Wise e intercettato dalle autorità americane: "E' difficile trovare un solo ebreo in tutta la Polonia orientale, inclusa la Russia occupata... Gli ebrei deportati dalla Germania, dal Belgio, dall'Olanda, dalla Francia e dalla Slovacchia verranno massacrati... Poiché questo massacro attirerebbe una maggiore attenzione in Occidente, gli ebrei devono essere prima deportati all'est, dove è meno probabile che altri paesi ne vengano a conoscenza". Rapporti, sia di ufficiali francesi che fuggirono o furono rimpatriati da campi per prigionieri di guerra sia di Charles Mercier (un rappresentante della Croce Rossa?) non menzionano soltanto "choses incroyables sur les massacres des Juifs" ma anche episodi particolari come lo sterminio dell'intera popolazione ebraica della città di Rawa Russka (36). Un altro messaggio riferisce che "gli ebrei nell'est, compresa la Galizia orientale e Leopoli, vengono sistematicamente assassinati. Non c'è rimasto più nessuno nelle principali città ucraine, e anche in Lituania saranno presto sterminati completamente" (37). Un messaggio datato dalla "frontiera tedesca - 15 novembre 1942", basato probabilmente sul rapporto di un giornalista, parla del massacro degli ebrei nei paesi baltici e dice che ciò servirà da esempio altrove" (38). Infine, l'O.S.S. ricevette, attraverso ufficiali di collegamento, molte informazioni da fonti polacche a Londra. Rapporti datati agosto e settembre 1942 contenevano particolari su campi come Treblinka come pure resoconti di testimoni oculari polacchi e tedeschi. Alla luce di questi e di altri rapporti, pubblicati e segreti, si sarebbe tentati di supporre che mentre il 1942 stava per finire non soltanto i servizi segreti americani e i funzionari del dipartimento di stato ma anche i normali lettori dei quotidiani fossero a conoscenza del fatto che gli ebrei d'Europa venivano sistematicamente sterminati. Ma non fu affatto così, e, anche se possono esserci varie spiegazioni, le ragioni vere restano piuttosto misteriose. Il presidente Roosevelt era troppo occupato a studiare i giornali in tutti i particolari, ed era certamente un lettore di rapporti segreti meno avido di Winston Churchill. Ma che dire dei diplomatici e degli agenti segreti in questo campo? Due esempi saranno sufficienti. Il 5 aprile 1943, Hershel Johnson, ambasciatore americano in Svezia, inviò un telegramma a Washington nel quale riferì che dei 450 mila ebrei di Varsavia ne erano rimasti soltanto 50 mila. C'erano anche alcuni particolari inesatti nel suo telegramma: i resoconti sull'uso dei gas venefici erano definiti un travisamento dei fatti; gli ebrei erano stati uccisi tutti da plotoni di esecuzione tedeschi e alcuni soldati si erano ribellati. Questo rapporto è da notare, tuttavia, per una ragione assai diversa. All'aprile 1943 la grande maggioranza degli ebrei polacchi (ed europei) erano morti. L'ambasciatore Johnson deve

sicuramente esserne stato a conoscenza. Esperto diplomatico, si trovava a quel tempo in uno dei posti di ascolto meglio esposti e più interessanti per quanto riguardava l'Europa occupata dai nazisti. Aveva senz'altro letto nella stampa americana articoli sul destino degli ebrei; aveva visto traduzioni dalla stampa svedese. L'anno precedente aveva inviato un telegramma a Washington sullo sterminio degli ebrei baltici e ucraini. Eppure terminava il suo telegramma dell'aprile 1943 con le seguenti parole: "E' talmente incredibile il racconto fatto da questo testimone oculare tedesco al suo amico, il mio informatore, che io esito a farne oggetto di un rapporto ufficiale" (39). E' possibile, anche se non molto probabile, che le notizie dalla Polonia abbiano in qualche modo scavalcato l'ambasciatore americano in Svezia. Ma nessuno era meglio informato in quegli anni su ciò che accadeva nell'Europa occupata dai nazisti di Allen Dulles, che rappresentava l'O.S.S. a Berna, e ciò rende ancora più difficile da capire il seguente episodio che ebbe luogo nel giugno 1944. Due prigionieri di Auschwitz, Vrba e Wetzler, erano riusciti a fuggire in Slovacchia e scrissero un lungo e dettagliato rapporto sulle loro esperienze che più tardi diventò famoso e venne largamente divulgato dal Comitato per i profughi di guerra. Il rapporto conteneva molti particolari nuovi ma tutti i fatti essenziali erano, ovviamente, conosciuti da tempo. Il rapporto fu portato da un corriere a Budapest e da qui in Svizzera. Garret, dell'agenzia di stampa britannica Exchange Telegraph, ne ricevette una copia che portò ad Allen Dulles il 22 giugno 1944. Dulles la lesse in sua presenza: "Ne fu profondamente colpito. Era sconcertato quanto me e disse: 'Dobbiamo fare immediatamente qualcosa...'" (40). Il giorno dopo Dulles mandò un telegramma al segretario di stato. Già diciotto mesi prima il "New York Times" e altri giornali americani avevano ripetutamente pubblicato notizie come "Due terzi degli ebrei polacchi massacrati. Di 3 milioni 500 mila soltanto 1 milione 250 mila sono ancora in vita" (41). Anche ipotizzando che nessun altro ebreo sia stato massacrato dopo il dicembre 1942 è ugualmente impossibile capire lo stupore di Dulles. Ciò che si deduce da questi e simili episodi è che il processo di comprensione e di apprendimento è più complesso di quanto generalmente si creda: il fatto che una notizia sia stata menzionata una o perfino cento volte in rapporti segreti o in giornali di grande diffusione non significa necessariamente che sia stata accettata e compresa. Grandi cifre diventano statistica, e la statistica non ha nessun impatto psicologico. Alcuni pensarono che le notizie sulla tragedia degli ebrei fossero esagerate, altri non mettevano in dubbio le notizie ma ritenevano altre cose più importanti. Una commovente interpretazione, basata su una esperienza personale, è stata data da W. A. Visser't Hooft, teologo protestante e primo segretario del Consiglio mondiale delle Chiese, che trascorse gli anni della guerra in Svizzera. Nell'ottobre 1941 egli ricevette allarmanti rapporti sulla deportazione degli ebrei dalla Germania e da altri paesi occupati verso la Polonia, ma, scrivendo trent'anni dopo, osservò che gli ci vollero diversi mesi prima che le informazioni ricevute penetrassero la sua coscienza. "La cosa avvenne quando sentii un giovane uomo d'affari svizzero raccontare ciò che aveva visto con i suoi occhi durante un viaggio di lavoro in Russia. Egli era stato invitato da ufficiali tedeschi ad assistere a una uccisione in massa di ebrei. Ci raccontò nel modo più semplice e realistico possibile come, gruppo dopo gruppo, uomini, donne e bambini ebrei venissero costretti a sdraiarsi nelle fosse comuni per poi essere mitragliati. Quelle immagini sono rimaste per sempre nella mia mente. Da quel momento in poi non ebbi più scuse per chiudere la mia mente a notizie che non potevano trovare posto nella mia visione del mondo e dell'umanità". Perché, secondo questo eminente ecclesiastico, il mondo esterno rimase

indifferente? risponde:

Forse

perché

le

vittime erano ebrei?

Visser't Hooft

"Non sottovaluto la realtà di un siffatto antisemitismo ma ho trovato poche prove per poter affermare che esso abbia avuto un ruolo principale. Il fatto era piuttosto che la gente non poteva trovare nessun posto nella propria coscienza per un tale inimmaginabile orrore e che non aveva l'immaginazione, oltre che il coraggio, per affrontarlo. E' possibile vivere in uno stato di semioscurità fra il sapere e il non sapere (42). Ma c'è più di una spiegazione per l'indifferenza. Ognuno conobbe un periodo di dubbi riguardo alle terribili notizie che provenivano dall'Europa orientale. Alcuni decisero di agire una volta che non ci fu più nessun ragionevole dubbio sul fatto che le informazioni fossero esatte. Altri preferirono prolungare il periodo di semioscurità, e alcuni, che sapevano, si tennero la cosa per sé".

NOTE AL CAPITOLO 3. (a) Ma a volte può essere documentata. Gli emissari che arrivavano dalla Polonia in Gran Bretagna venivano interrogati dai servizi britannici prima che potessero prendere contatto con i polacchi. Uno degli emissari descrive il suo arrivo in Gran Bretagna nel modo seguente: "Dopo il mio arrivo in un aeroporto scozzese fui dapprima interrogato dal maggiore Malcolm Scott, probabilmente per conto del controspionaggio; la sua famiglia possedeva una fabbrica a Leopoli ed egli parlava perfettamente polacco. Poi fui interrogato nella "Patriotic School" a Londra da rappresentanti di altri servizi segreti; in particolare da M.I.9 che erano interessati al destino dei prigionieri di guerra britannici. Fui anche interrogato da McLaren e Osborn del Foreign Office (sezione britannica). Dopo le mie dichiarazioni fu steso un verbale che ho visto recentemente fra i documenti dell'Archivio di stato. Non fu mostrato nessun interesse per ciò che avevo da riferire sul destino degli ebrei; ci fu un'eccezione, ma più per motivi di partecipazione personale che di interesse d'ufficio". A questi tre che furono informati sul sistematico sterminio degli ebrei devono essere aggiunti i maggiori (in seguito colonnelli) Colin Gubbins e Perkins, che si occupavano della Polonia per conto del S.O.E. Gubbins diventò in seguito capo operativo di tutto il S.O.E. Nessuno dei due dimostrò, né ci si aspettava che dimostrasse, interesse per l'argomento. (b) Il fatto che i rapporti sovietici sulle varie vittime fossero parziali fu notato a Washington. La sezione di ricerca e analisi dell'O.S.S. pubblicò nel 1943 una nota di nove pagine intitolata "Lacune nei rapporti di Mosca sulle atrocità", che sottolineava il fatto che i "non ariani" non venivano menzionati (O.S.S. - Washington D.C. R&A - 1626, 12 dicembre 1943). (c) Verso la fine del 1942 un altro po' di materiale venne reso noto da fonti sovietiche, ma il più delle volte era destinato a essere pubblicato fuori dell'Unione Sovietica. Così una citazione da un diario scritto dal soldato semplice "Christian" nel febbraio 1942: "Da quando siamo in questa città abbiamo già ucciso più di tredicimila ebrei. Siamo a sud di Kiev". O l'interrogatorio del prigioniero di guerra Karl Brenner, fronte della Crimea, 20 giugno 1942: "Nessun ebreo fu più rivisto. Si dice che furono uccisi a venti chilometri da

Simferopol lungo la strada di Feodosia" ("New Soviet Documents on Nazi Atrocities", Soviet Embassy, London 1942, passim). (d) Ma Schwarzbart seguì una linea più prudente di quella di Zygielbojm. In una lettera al direttore del londinese "Jewish Chronicle" (datata 29 giugno 1942, inedita, archivio di Schwarzbart) egli scrisse che "ogni esagerazione nell'arrotondare le cifre è non solo inutile, ma anche dannosa e irresponsabile". Si lamentava che "il mio collega del Consiglio nazionale" si era assunto il compito di riferire che 700 mila ebrei erano stati assassinati, mentre si sarebbe dovuto dire "sterminati". Schwarzbart seguiva l'indicazione data dal ministro polacco dell'informazione, professor Stronski, che aveva detto il 9 luglio in una conferenza stampa, patrocinata dal ministero britannico dell'informazione, che la cifra di 700 mila che era apparsa sulla stampa "comprendeva sia coloro che erano stati assassinati direttamente che coloro che erano morti in conseguenza della politica tedesca di sterminio". Non è del tutto ovvio perché Schwarzbart abbia attribuito tanta importanza alla differenza fra essere assassinati ed essere sterminati, a meno che non dubitasse della veridicità dei rapporti dalla Polonia. Il rapporto del Bund era in ogni caso assolutamente chiaro: 700 mila ebrei erano stati assassinati ("Niemcy wymordowali..."). (e) Zygielbojm si suicidò nel marzo 1943 per protestare contro la generale indifferenza mostrata verso il destino degli ebrei in Polonia. Sulle circostanze vedi il cap. 4. (f) Secondo l'introduzione all'edizione israeliana di "While Six Millions Died" di Arthur Morse, si trattava di Artur Sommer. Su Sommer vedi Appendice 1 e il mio articolo in "Commentary", marzo 1980. La prima lettera del cognome del misterioso messaggero era una S, ma non era Artur Sommer. (g) Harrison chiese a Elting di inviare direttamente il telegramma al dipartimento di stato. Ma il suo commento in un telegramma a Washington dello stesso giorno era più che scettico; lo considerava una "voce non controllata ispirata da timori ebraici". Un riassunto del suo telegramma fu trasmesso all'O.S.S. (R.G. 226, Bern, Folder 2, Box 2, Entry 4). (h) Vedi Appendice 3. (i) Tipico esempio della trascuratezza con cui vennero trattate le informazioni di Riegner negli Stati Uniti fu il fatto che tutto ciò che era stato inviato da Ginevra, comprese le notizie chiaramente non destinate alla pubblicazione, fu pubblicato nel "Congress Weekly" del 4 dicembre 1942. (l) Ma la documentazione importante non è accessibile. Non si sa e probabilmente non si saprà per molto tempo da chi e in quali circostanze sia stato decifrato il codice delle S.S. Sappiamo tuttavia che la seconda sezione polacca aveva decifrato il codice dell'S.D. e lo leggeva regolarmente ben prima dello scoppio della seconda guerra mondiale. Ciò è stato descritto nei particolari nei ricordi del capo di questa sezione, Marian Rejewski, un matematico di talento (M. Rejewski, "Wspomnienia o mej procy w Biurze Szyfrow Oddzialu II w latach 1930-45", inedito, Varsavia, Istituto storico-militare. Vedi Richard S. Woytak, "On the Border of War and Peace"; "Polish Intelligence and Diplomacy in 1937-1939 and the Origins of the Ultra Secret", New York 1979, p. 101). E' assai probabile che il codice dell'S.D. sia stato cambiato dopo l'agosto 1939, ma non sappiamo se fu cambiato completamente e quindi non possiamo dire con certezza se i servizi britannici continuarono semplicemente dove si erano fermati i polacchi nel 1939 o se fu necessario un nuovo sforzo per decifrarlo. Ciò che conta in questo contesto è che i due codici poterono essere

letti in Gran Bretagna verso la fine del 1941. (m) Gli editorialisti dei più importanti giornali britannici erano certamente meno prudenti dei burocrati dell'epoca. Ci furono forti, dettagliati e frequenti commenti editoriali nel "Times", nel "Manchester Guardian", nel "Daily Telegraph" e in altri quotidiani per tutto il dicembre 1942. (n) N.N.D. 750140. Il documento è di considerevole interesse perché è il primo dettagliato rapporto sulla situazione nella Polonia occupata preparato dalla resistenza polacca. Vi è ragione di credere che sia stato portato a Berlino da uno degli uomini d'affari svedesi che vivevano a Varsavia e di cui parleremo più avanti. (o) Ad Arthur J. Goldberg, successivamente rappresentante americano alle Nazioni Unite, venne richiesto, alla fine dell'agosto 1942, dal generale Donovan, di cui era assistente speciale, di organizzare e dirigere un ufficio a Londra della sezione dell'O.S.S. per i collegamenti con il mondo del lavoro. Adolph Held, presidente del Comitato ebraico per i lavoratori, suggerì il nome di Shmuel Zygielbojm come un utile contatto. I due diventarono amici nell'autunno 1942. Si incontravano sia ufficialmente che privatamente: "Durante questi incontri il signor Zygielbojm mi informò del programma di Hitler per la soluzione finale. Mi fornì anche prove che convalidavano le informazioni che mi dava. Io inviavo queste informazioni al generale Donovan attraverso i canali dell'O.S.S. A questo punto la mia memoria vacilla. Credo che egli non solo mi abbia avvertito a proposito dei campi della morte, ma anche dell'insurrezione del ghetto di Varsavia e che richiedesse un bombardamento su Auschwitz e/o sul ghetto di Varsavia... Ricordo che, dopo che avevo ricevuto una risposta negativa alle mie pressioni perché la sua richiesta venisse accettata, gli chiesi di cenare con me al Claridges, dove soggiornavo. Con comprensibile sofferenza e angoscia gli dissi che il nostro governo non era preparato a fare ciò che egli richiedeva perché secondo il nostro comando supremo l'aviazione non era disponibile a questo scopo. Il giorno dopo egli si suicidò; questo lo ricordo bene..." (comunicazione personale, 15 novembre 1979).

Capitolo 4. LE NOTIZIE DALLA POLONIA. Le prime notizie autentiche e dettagliate sulla soluzione finale giunsero dall'interno della Polonia. Hitler aveva deciso di fare di quel paese il mattatoio d'Europa e le fonti polacche erano, di conseguenza, le più importanti di tutte. La Polonia era stata sconfitta e occupata dai tedeschi nell'autunno del 1939 e poi divisa fra la Germania e l'Unione Sovietica. In seguito, pochi giorni dopo l'invasione tedesca della Russia nel giugno 1941, la Polonia orientale venne rioccupata come pure i paesi baltici e parte della Russia Bianca e dell'Ucraina. Poco dopo la sconfitta venne creato un governo polacco in esilio che fu riconosciuto dagli altri governi alleati. Questo governo aveva un rappresentante, il "Delegat", all'interno della Polonia, in continuo contatto con Londra, dove si era spostato il governo dopo la caduta

della Francia. Indipendentemente da ciò, era nata a livello nazionale una organizzazione armata, lo Z.W.Z. ("Zwiazek Walki Zbrojnej") che nel 1942 diventò l'A.K. ("Armia Krajowa"), l'esercito nel (o del) paese o esercito nazionale. Il comandante in capo dello Z.W.Z./A.K., il generale Stefan Rowecki, era il responsabile per tutti gli affari militari, mentre il Delegat era la suprema autorità in materia politica. Ma la linea di confine fra le questioni politiche e quelle militari non era affatto chiaramente tracciata e la divisione del lavoro fra le due istituzioni tutt'altro che perfetta. Inoltre, la politica interna polacca non solo era complicata ma aveva anche perduto poco dell'asprezza di prima della guerra. Il partito socialista polacco (P.P.S.) e il partito dei contadini (S.L. "Stronnictwo Ludowe") rappresentavano le forze maggiori all'interno della resistenza, mentre alcune delle figure principali nel e intorno al governo in esilio - Sikorski, Sosnkowski, Haller e Kukiel - come pure nel comando dell'A.K., erano uomini di centro o di destra. Il Delegat durante il primo periodo fu Ratajski, sostituito poi dal professor Jan Piekalkiewicz. Entrambi dipesero dallo Z.W.Z./A.K. per l'assistenza, perché all'inizio essi non avevano contatti radio personali con Londra né il denaro arrivava regolarmente. Piekalkiewicz venne arrestato dai tedeschi nel 1943 e ucciso. Una descrizione dettagliata delle varie forze che costituivano la resistenza polacca non può essere fornita in questo contesto. Basti dire che l'unico gruppo importante che si sia rifiutato di far causa comune fu quello comunista. Ma essi diventarono importanti soltanto successivamente. Nel 1941-42 esistevano appena: il partito era stato sottoposto a una grande purga da parte del Comintern alla fine degli anni trenta e fu quindi disciolto. Singoli comunisti stabilirono un contatto radio con Mosca nel 1942. Una pubblicazione polacca del dopoguerra cita un telegramma inviato al segretario dell'Internazionale comunista a proposito delle deportazioni dal ghetto di Varsavia. Può darsi benissimo che questa sia l'unica comunicazione del genere esistente, il che non vuol dire che i servizi segreti sovietici non conoscessero i fatti. Se il gruppo comunista non era una forza significativa nel 1942, qual era la forza dell'A.K.? Come organizzazione militare era tutt'altro che considerevole, e i piani per un'insurrezione armata contro i tedeschi, preparati da alcuni dei suoi capi, erano assolutamente incredibili. Ma esso aveva una vasta rete di simpatizzanti e di informatori in tutta la Polonia, e ciò, nel contesto di questo studio, è di grande importanza (1). In Polonia, a differenza della Francia e della maggior parte dei paesi dell'Europa occidentale, non ci furono collaborazionisti. I tedeschi potevano trovare un informatore fra la malavita, ma non fra gli elementi che costituivano la resistenza. Perché i tedeschi non volevano concedere ai polacchi neanche un'autonomia politica limitata. I polacchi appartenevano a una razza inferiore, e quindi non c'era spazio per il collaborazionismo. Inoltre, il dominio tedesco in Polonia era molto più sanguinario e repressivo che nell'Europa dell'Ovest, del Nord e perfino del Sud: circa un milione di polacchi fu ucciso durante la guerra. Per cui c'era una grande riserva di simpatia per l'A.K. e nessuna per i tedeschi. Il governo polacco in esilio manteneva i contatti con la Polonia soprattutto attraverso la sezione polacca del S.O.E. (esecutivo per le operazioni speciali), che, insieme alla sesta sezione dello stato maggiore polacco, curava le comunicazioni con la Polonia, l'approvvigionamento, e vi inviava o ne riceveva del personale. I contatti del S.O.E. con la Polonia furono stabiliti in vari modi. Dal 15 febbraio 1941 in poi paracadutisti furono lanciati in Polonia; dall'estate del 1942 tali lanci diventarono regolari. Si crede erroneamente che la Polonia rimase fuori dal campo d'azione degli aerei alleati fin verso la fine della guerra, ma non fu così. Era, per ammissione generale, un lungo volo da Londra, e occorrevano aeroplani speciali come un Whitley modificato, in seguito Dakota bimotori e Hudson con speciali serbatoi, e poi anche Liberator quadrimotori. Un

ponte aereo di andata e ritorno, come veniva effettuato dal S.O.E. in Belgio e in Francia con piccoli aeroplani Lysander, era impossibile in Polonia; il primo atterraggio avvenne nell'aprile 1944 vicino a Lublino (2). I corrieri dalla Polonia a Londra raggiungevano la capitale inglese con difficoltà. Alcuni passavano dalla Svezia, altri attraverso l'Europa occidentale. I rapporti che avevano con sé impiegavano settimane ad arrivare e a volte anche un mese o due. Ma brevi messaggi potevano essere radiotrasmessi quotidianamente a Londra, mentre quelli più lunghi dovevano prima essere portati fuori da Varsavia in luoghi in cui il pericolo di intercettazione era minore. In questo caso c'era un inevitabile ritardo nella trasmissione. Durante il 1941 e fin verso la fine del luglio 1942 ci fu tuttavia un altro collegamento fra Varsavia e il mondo esterno, più importante del S.O.E., che i polacchi avevano stabilito con l'aiuto di simpatizzanti della colonia svedese di Varsavia. Questi "svedesi di Varsavia" furono di valido aiuto nel portare lunghi messaggi fuori dalla Polonia sia per conto dell'esercito nazionale che della "Delegatura". Riportavano anche denaro e passaporti stranieri. Il collegamento svedese fu di particolare importanza per ciò che riguardava le informazioni sul destino degli ebrei polacchi. Carl Wilhelm Herslow e Sven Norrman, le due figure principali fra gli svedesi - ce ne fu anche una terza, Carl Gösta Gustafsson, ma di lui si sa pochissimo -, avevano molte conoscenze fra gli ebrei, con le quali si mantenevano in contatto e che cercarono di aiutare. Una volta nel 1942 Norrman entrò nel ghetto di Varsavia e scattò diverse fotografie finché la polizia del ghetto non lo fermò. Queste fotografie, insieme ad altro materiale, furono passate a Mieczyslaw Thugutt che a quel tempo rappresentava i servizi segreti polacchi a Stoccolma (N.3, "Anna"); poi Thugutt venne dislocato a Londra e diventò capo coordinatore delle comunicazioni con la madrepatria per conto del governo in esilio. Herslow, che era stato ufficiale di carriera e addetto militare sia a Mosca che a Berlino, era direttore a Varsavia del monopolio di stato dei fiammiferi, che faceva parte della vecchia ditta Ivar Kreuger. Norrman era a capo della ASEA, una società elettrotecnica collegata agli interessi di Wallenberg. Entrambi vivevano in Polonia da molti anni e si identificavano con la causa polacca per la quale lavoravano con energia e con grande rischi (3). Durante le loro frequenti visite in Svezia riferivano notizie sulla situazione in Polonia al ministro degli esteri, a Eric Boheman, il segretario di stato agli affari esteri (che sembra essere stato a conoscenza di molte se non di tutte le loro attività), e al capo di stato maggiore dell'esercito. Herslow informava ogni tanto anche re Gustavo Quinto e il principe ereditario. Gli svedesi sapevano molte cose sui rapporti segreti che portavano perché avevano avuto contatti con la resistenza fin dai primi giorni. Alcuni di loro avevano perfino incontrato il generale Rowecki ("Kalina"), comandante dell'esercito nazionale, cosa che, ovviamente, era del tutto contraria alle regole della cospirazione. I rapporti sulla situazione all'interno del paese ("Sprawozdanie sytuacyjne z kraju") pubblicati dal governo polacco in esilio si basavano principalmente su materiale portato dagli svedesi. Insieme alle lettere provenienti da ebrei in Polonia (come la lettera del Bund del maggio 1942 e il rapporto su Chelmno inviato da Ringelblum) queste furono le fonti principali sul destino degli ebrei polacchi ed esteuropei durante la prima metà del 1942. Gli svedesi raccoglievano il materiale a Varsavia, generalmente su pellicole di 35 millimetri, e lo portavano con sé o lo spedivano a Stoccolma, attraverso la camera di commercio svedese. Thugutt o qualche altro rappresentante della "base" lo consegnava ai servizi segreti britannici e poi veniva spedito a Londra con l'aereo settimanale della RAF (a). Così il cammino di certi rapporti dalla Polonia può essere seguito quasi su base giornaliera. La famosa (seconda) lettera del Bund che citeremo ancora venne scritta durante la prima metà del maggio 1942. Fu raccolta da Sven Norrman a Varsavia il 21 maggio e raggiunse Londra solo dieci giorni dopo; per riconoscimento generale un caso di

spedizione eccezionalmente rapida. Il rapporto su Chelmno raggiunse evidentemente Londra con lo stesso messaggero ma ci mise molto più tempo. Questa fu l'ultima visita di Norrman in Polonia. Fu avvertito di non ritornare. I suoi colleghi furono catturati dalla Gestapo in una serie di arresti iniziati verso la fine del luglio 1942. Quattro degli svedesi furono condannati a morte, gli altri a lunghe pene detentive. Ma le condanne a morte non furono eseguite, mentre la maggior parte dei polacchi imprigionati furono uccisi. Himmler, in un rapporto speciale, si rammaricò che Norrman, la più importante figura del gruppo, non fosse stato preso (4). Fu anche detto, durante l'interrogatorio, che le pellicole fatte uscire da Herslow erano state mostrate in cinema inglesi e americani suscitando sentimenti antitedeschi: un chiaro riferimento a fotografie scattate nel ghetto. Così il più importante collegamento diretto per portare grandi quantità di posta in Occidente fu interrotto proprio quando iniziò la liquidazione del ghetto di Varsavia. La resistenza polacca continuò a mantenere contatti radio con Londra e cercò di inviare rapporti più lunghi attraverso le proprie basi in Svizzera e a Istanbul ("Bey"). Ma fu soltanto quando Jan Karski, di cui parleremo più avanti, arrivò a Londra nel novembre 1942 che informazioni dettagliate furono di nuovo disponibili all'estero. Gli ebrei polacchi non avevano collegamenti con gli Alleati, né potevano mandare dei corrieri come faceva la resistenza polacca. Essi mandavano lettere e cartoline in Svizzera, Ungheria e Turchia, che non sempre arrivavano e nelle quali chi scriveva poteva soltanto accennare, in un linguaggio contraffatto, a ciò che stava succedendo. Ogni tanto misteriosi corrieri arrivavano da paesi neutrali, ma non era mai certo se ci si poteva fidare. La resistenza polacca si trovava in una posizione infinitamente migliore, non solo per trasmettere notizie all'estero ma anche per raccogliere informazioni. Gli ebrei erano confinati nei ghetti mentre i polacchi potevano, entro certi limiti, muoversi liberamente nel paese. Agenti polacchi del S.O.E. andarono perfino nella Russia Bianca e in Ucraina, visitando Kiev, Minsk, Zhitomir, Pinsk e altri luoghi. L'A.K. riceveva informazioni quasi regolarmente dai suoi agenti fra la polizia polacca e i ferrovieri. La documentazione, giova ripeterlo, mostra che le prime autentiche notizie sulla soluzione finale furono trasmesse in Occidente dai corrieri e dalla stazione radio dell'esercito nazionale. La questione complessiva delle relazioni fra i polacchi e gli ebrei durante la seconda guerra mondiale è complicata e dolorosa; non può, per esempio, essere messo seriamente in dubbio il fatto che furono poche le armi passate agli ebrei dall'A.K. Ma il quesito che in questo studio ci interessa è più limitato: la resistenza polacca trasmise le notizie sui massacri con la maggiore rapidità e completezza possibili? E queste notizie furono soppresse o rese apertamente pubbliche dalle autorità polacche a Londra? La tesi polacca è, in sintesi, la seguente: che essi fecero ciò che poterono, generalmente con grandi rischi e in difficili condizioni. Se all'estero le notizie sui massacri non venivano credute, ciò non era colpa dei polacchi. Era, almeno in parte, colpa degli ebrei polacchi, che, all'inizio, si rifiutavano di crederci; ne erano anche responsabili i dirigenti ebrei all'estero, che inizialmente erano piuttosto scettici (5). Alcuni storici ebreo-polacchi affermano invece che mentre l'esercito nazionale trasmise effettivamente alcune informazioni a Londra, esso avrebbe potuto fare di più per informare gli ebrei all'interno della Polonia. Inoltre, il governo polacco è accusato di aver ritardato le informazioni durante l'"evacuazione" del ghetto di Varsavia, fra il luglio e il settembre 1942. Secondo questa versione i polacchi resero tranquillamente pubblici i massacri avvenuti nelle province orientali che erano state sotto controllo sovietico, ma diventarono più riluttanti a trasmettere le notizie quando le operazioni di sterminio iniziarono all'interno della Polonia. Se avessero reso pubblico che 400 mila ebrei erano stati

deportati da Varsavia in un vicino campo della morte, il mondo si sarebbe certamente aspettato che la resistenza polacca si sarebbe mossa. Per questa ragione gli avvenimenti di Varsavia rappresentarono una fonte di grande imbarazzo e dovevano essere sdrammatizzati o almeno comunicati con ritardo. Quanta verità c'è in queste affermazioni? Che ci sia stata una notevole dose di antisemitismo nella moderna storia polacca è fuori discussione, ma è anche vero che gli ebrei ricevettero aiuto dopo il 1939 proprio da alcuni che erano stati prima i loro peggiori nemici. Coloro che rappresentarono la Polonia dopo il 1940 furono nel complesso persone che si erano opposte negli anni trenta a quel governo furiosamente antisemita e cercarono di eliminare le forze che avevano causato la rovina della Polonia. Ciò non vuol dire che il governo in esilio e i suoi rappresentanti interni fossero degli internazionalisti liberali che consideravano loro primo dovere aiutare gli ebrei perseguitati. Se i polacchi dimostrarono minore simpatia e solidarietà nei confronti degli ebrei di molti danesi e olandesi, essi si comportarono molto più umanamente dei romeni e degli ucraini, dei lituani e dei lettoni. Un confronto con la Francia non risulterebbe affatto sfavorevole alla Polonia. In considerazione degli atteggiamenti polacchi di prima della guerra nei confronti degli ebrei, non è sorprendente che ci fu così poco aiuto, ma che ce ne fu così tanto. Ma ancora una volta, per ciò che riguarda questo studio, il problema non è l'aiuto prestato ma la trasmissione delle informazioni. I polacchi non si resero conto immediatamente delle proporzioni del progetto nazista di sterminare tutti gli ebrei. Ma la maggior parte degli ebrei fu ancora più lenta nel capire che non avevano di fronte pogrom isolati ma qualcosa di infinitamente peggiore. Negli scritti di Ringelblum (di cui parleremo più avanti) e di altri ci si lamenta spesso che nel ghetto la serietà della situazione non era capita. Sarebbe stato molto meglio se gli ebrei non fossero dipesi interamente dalle radiotrasmittenti dell'A.K. o del Delegat per i loro contatti con il mondo esterno. Questa dipendenza è uno dei molti enigmi di quel periodo. Era difficile fabbricare armi nei ghetti, ma la costruzione di radiotrasmittenti era un compito assai meno proibitivo. C'erano decine di persone, se non centinaia, che ne avevano la capacità. Migliaia di ebrei lavoravano in officine o in piccole fabbriche. Il materiale necessario avrebbe potuto essere rubato o comprato, un codice avrebbe potuto essere concordato con organizzazioni ebraiche all'estero. Nel 1942 non c'era bisogno di un Edison o di un Marconi per costruire una radiotrasmittente di venti o trenta watt che avrebbe potuto essere ascoltata all'estero. La resistenza polacca aveva, in fin dei conti, circa un centinaio di simili radiotrasmittenti. Erano relativamente piccole e i tedeschi, malgrado ogni sforzo, riuscirono a localizzarne soltanto alcune. Anche in Palestina, inutile dirlo, esisteva la competenza tecnica. Paradossalmente, all'inizio del 1942, il servizio segreto britannico (I.S.L.D.) chiese all'Agenzia ebraica di fornire istruttori di onde corte per i paracadutisti che si esercitavano in Egitto, e l'Haganà mandò quattro dei suoi esperti in questi campi. In mancanza di alcuna iniziativa del genere, la dipendenza ebraica dai polacchi per trasmettere i loro messaggi era quasi totale. All'inizio gli ebrei nel ghetto ebbero grandi difficoltà perfino a raggiungere la resistenza polacca. C'erano sporadici contatti fra l'Hashomer Hatzair, il movimento giovanile social-sionista, e i dirigenti dei boy-scout polacchi. Uno di questi, "Hubert" (Kaminski), era allora direttore del "Biuletyn Informacyjny" dell'A.K. e il rapporto di Ringelblum su Chelmno, il primo resoconto di sterminio mediante gassazione, venne probabilmente trasmesso in Occidente attraverso questo canale. Ma molto più importanti erano i legami fra il socialista e antisionista Bund, rappresentato da Leon Feiner, e i socialisti polacchi del P.P.S. Feiner ("Mikolaj", "Berezowski") trasmetteva notizie per "Artur" attraverso la radio dell'A.K. e per mezzo di corrieri, prima sporadicamente, e poi piuttosto regolarmente.

"Artur" era Zygielbojm, il rappresentante del Bund a Londra, che, fuggito dalla Polonia nel 1940, vi era arrivato dall'America nell'aprile 1942, e che diventò il più eloquente portavoce degli ebrei polacchi all'estero. Leon Feiner era un avvocato di professione che aveva mostrato grande coraggio in diversi processi politici. Era stato in prigione per un certo periodo sotto il governo dei colonnelli. Una giovane donna ebrea, che lo incontrò durante la guerra, lo descrive così: "... la mia attenzione fu richiamata da un ospite che era appena entrato. Anche lui aveva l'aria di chi ha fiducia in se stesso. Un uomo anziano, alto, elegante, dai capelli argentei e dai baffi rivolti all'insù, occhi luminosi e guance rosse. Era il ritratto di un gentiluomo di campagna polacco..." (6). Anche Jan Karski (Kozielewski), il corriere la cui Occidente verso la fine del 1942 ebbe una considerevole incontrò Feiner e scrisse su di lui:

missione in importanza,

"Viveva fuori dal ghetto ma poteva, grazie a mezzi segreti, entrare e uscire a suo piacimento e svolgervi il suo lavoro. All'interno del ghetto sembrava, parlava e si comportava come gli altri abitanti. Per svolgere i suoi compiti all'esterno riusciva a trasformarsi così completamente da non destare alcun sospetto anche nell'esaminatore più acuto... Con i suoi distinti capelli grigi e i suoi favoriti, la carnagione rosea e fresca, il portamento eretto e un'aria generale di buona salute e di raffinatezza, passava facilmente come un nobile polacco. Davanti alle autorità tedesche appariva come proprietario di un grande magazzino, ricco, nobile e sereno. Quale grande sforzo di volontà questa posa deve aver richiesto me ne resi conto più tardi quando egli mi accompagnò nel ghetto..." (7). Feiner visse abbastanza per vedere la ritirata tedesca dalla Polonia ma morì poco dopo in un ospedale di Lublino. Per un certo tempo, fra il novembre 1941 e il febbraio 1942, venne istituito un "sottocomitato per gli affari ebraici" presso l'Ufficio d'informazione e propaganda dell'A.K., che era tenuto da due intellettuali, lo storico Stanislaw Herbst (Chrobot) e l'avvocato Henryk Wolinski (Zakrzewski). Ma i contatti fra loro e gli ebrei erano ancora sporadici e comunicazioni regolari fra gli ebrei e Londra vennero stabilite soltanto nell'inverno successivo, dopo che la maggior parte degli ebrei di Varsavia erano già morti. Durante il 1941 l'A.K. trasmise soltanto pochi rapporti specifici che riguardavano gli affari ebraici; la cosa cominciò a cambiare verso la fine dell'anno quando nella capitale polacca si ricevettero informazioni sui massacri nell'est. Secondo una fonte polacca le comunicazioni erano lente e le allarmanti notizie da Leopoli, Vilna, Bialystok e dalla Volinia non raggiunsero Varsavia prima dell'inizio del 1942 (8). Ma un esame accurato dei documenti mostra che i massacri in Lituania e in Ucraina erano già conosciuti nel novembre 1941. In un articolo del foglio clandestino di un piccolo gruppo socialista ("Barykada Wolnosci"), datato novembre 1941, si legge fra l'altro che a Vilna restavano in vita soltanto 3000 ebrei e che altrove c'erano stati massacri su grande scala (9). Informazioni simili erano contenute nei bollettini dell'A.K. Secondo uno di questi rapporti, a Vilna, di 70 mila ebrei ne erano sopravvissuti soltanto 12-15 mila; il ghetto di Kovno non esisteva più; a Minsk e a Motel (luogo di nascita di Chaim Weizmann) tutti gli ebrei erano stati uccisi, e lo stesso valeva, in generale, per la popolazione ebraica della Polessia, della Volinia e di Pinsk (10). Un rapporto ancora precedente dell'esercito nazionale, datato ottobre 1941, riferisce "orribili e ripugnanti notizie" dalla Lituania e dal distretto di Vilna, dove la polizia lituana con l'aiuto attivo di studenti dell'università e dei licei aveva assassinato 170 mila ebrei. In breve, le notizie sulle azioni delle Einsatzgruppen erano state

ricevute a Varsavia ben prima della fine del 1941. All'inizio del nuovo anno queste notizie diventarono più che precise. Un rapporto che copre il periodo dal 16 al 28 febbraio 1942 menziona non soltanto uccisioni individuali a Varsavia, Miedzyrzec, Jaslo, Poznam e Ostryna, ma anche massacri di proporzioni senza precedenti nella Polonia orientale, in Lituania e in Ucraina. Alcuni esempi da questo resoconto: Molodeczno: in novembre la polizia lituana uccise tutti gli ebrei ad eccezione di un medico. NovaWilejka: tutti gli ebrei uccisi in novembre. Vilna: dei 70 mila ebrei arrivati recentemente alla fine di dicembre ne rimanevano soltanto 11 mila. Stanislawow: il 16 novembre 1941 uccisione degli ebrei da parte dei tedeschi con l'aiuto degli ucraini. Kosow: diverse migliaia di ebrei uccisi dalla Gestapo e da un battaglione ucraino. Esecuzioni in massa di ebrei a Staro-Konstantinow, a Zhitomir (17 mila vittime) e a Kiev (70 mila). Qui ci si riferisce ovviamente al massacro di Babi Yar. C'erano più nomi, più cifre, più particolari terribili. Finora le notizie peggiori erano tutte giunte dai territori dell'est che erano stati occupati dai tedeschi dopo il giugno 1941. Ma nel gennaio 1942 le prime notizie sulle camere a gas mobili di Chelmno furono ricevute a Varsavia; si tratta del resoconto di sei pagine che è stato già menzionato. Un piccolo gruppo di becchini riusci a fuggire; la loro testimonianza fu annotata dagli amici di Ringelblum a Varsavia. Il rapporto fu trasmesso, evidentemente per corriere, a Londra e negli Stati Uniti, dove fu ampiamente pubblicizzato (11). Poi, alla fine di marzo e in aprile, furono ricevute notizie sulle "deportazioni" da Lublino, sull'uccisione di 2000 ebrei sul posto e del trasporto in vagoni piombati di 26 mila ebrei a Belzec per esservi uccisi mediante gas venefici. Ma l'esercito nazionale non aveva evidentemente nessuna informazione precisa su come esattamente i prigionieri di Belzec venissero uccisi: in successive occasioni furono menzionate elettroesecuzioni in massa e varie altre tecniche (12). Anche prima (il 16 marzo) una lunga lettera del Bund aveva descritto il ghetto di Varsavia come "un grande campo di concentramento" nel quale gli ebrei erano tagliati fuori dal mondo e dal resto del paese. Stavano morendo in molti orribili modi, a migliaia venivano sistematicamente deportati e se ne perdevano le tracce. Alcuni erano uccisi col gas. La lettera terminava con l'incongrua richiesta d'informazioni sull'equilibrio delle forze nella "strada ebraica" negli Stati Uniti: ombre dei dibattiti ideologici dei decenni precedenti (13). C'era stata evidentemente una richiesta da Londra perché venissero confermate le voci sui massacri nei territori orientali. L'8 aprile 1942 ci fu la risposta del Delegat, mentre le notizie precedenti sembrano essere giunte soprattutto dall'esercito nazionale. Egli confermò che le notizie sull'assassinio di migliaia di ebrei nella Galizia orientale, nella regione di Vilna, nella Russia Bianca e a Lublino erano esatte. Nella sola Vilna, erano stati uccisi 60 mila ebrei (14). I rapporti erano trasmessi o in forma di brevi radiomessaggi che raggiungevano Londra nello spazio di poche ore, o al massimo di pochi giorni, o più frequentemente in forma di rapporti più lunghi - "Pro memoria o sytuacji w kraju" - "Note sulla situazione del paese". Alcuni rapporti dettagliati apparvero nel "Biuletyn Informacyjny" pubblicato dall'Ufficio per l'informazione e la propaganda del distretto di Varsavia dell'esercito nazionale. E' già stato detto che i rapporti più lunghi inviati per corriere ci mettevano un tempo considerevolmente maggiore per raggiungere Londra da quando il gruppo spionistico svedese era stato scoperto; perciò, la rassegna degli avvenimenti dell'agosto 1942 fu conosciuta a Londra soltanto verso la fine di dicembre. La resistenza polacca non considerava gli affari ebraici come la cosa più importante di cui occuparsi e nei suoi scambi con Londra non veniva data grande urgenza alle notizie che riguardavano il destino degli ebrei. Ma tali informazioni non furono neanche soppresse: delle ottantacinque pagine dello "Sprawozdanie" 6, 1942, più di un terzo

tratta di affari ebraici. Il sentimento generale sembra essere stato quello che non c'era nulla che i polacchi potessero fare per salvare quei milioni di ebrei. Non potevano, dopotutto, neanche aiutare se stessi. Inoltre, c'era la tendenza a mettere in risalto la parte sostenuta dagli ucraini, dai lituani e dai lettoni nelle uccisioni, da cui si poteva dedurre che la polizia polacca non era coinvolta in azioni di questo genere (15). E questo, nel complesso, era conforme ai fatti. Occasionalmente la resistenza polacca non otteneva informazioni esatte, ma ciò era probabilmente inevitabile in tempo di guerra. Così, l'A.K. venne a sapere la verità su Auschwitz con un certo ritardo. Nel 1942 vennero pubblicati tre opuscoli clandestini da parte dell'esercito nazionale, tutti e tre scritti da donne, ma le autrici non si rendevano ancora conto che Auschwitz era diventato il più grande di tutti i campi di concentramento (16). Erano evidentemente confuse dal fatto che Auschwitz consisteva di diversi campi e che alcuni prigionieri erano stati effettivamente rilasciati. Secondo la loro esperienza nessuno era stato liberato da un campo della morte. Il primo rapporto più o meno preciso sulla vera natura di Auschwitz sembra essere stato pubblicato soltanto nel settembre 1942. Esso riferiva della presenza di 70 mila ebrei di tutta Europa e della installazione di camere a gas e di tre crematori che funzionavano ininterrottamente (17). La resistenza polacca usava regolarmente diverse linee di comunicazione: il Delegat inviava le proprie comunicazioni a "Stem", Stanislaw Mikolajczyk, il ministro degli interni, e i suoi rapporti riguardavano generalmente gli affari "civili". Gli affari militari, invece, venivano radiotrasmessi o spediti al primo ministro (Sikorski) dal comandante dell'esercito nazionale, il generale Rowecki, o dal suo vice, Bor Komorowski. Venivano letti da Sikorski, dal suo capo di gabinetto, Sosnkowski, dal comandante in capo, e da pochi altri. E' ovvio che le notizie "militari", e cioè gli affari dell'esercito nazionale, non circolassero molto, ma le informazioni che riguardavano gli ebrei non appartenevano a questa categoria. Da parte di Zygielbojm non ci furono proteste per il fatto che le informazioni gli fossero state nascoste, ed egli non era per natura il più fiducioso degli uomini. Anche se il governo avesse cercato di tenergli nascoste tali notizie, lui le avrebbe sapute dagli amici: i socialisti polacchi erano dopotutto rappresentati nel governo, e i segreti non potevano essere mantenuti per molto tempo in queste condizioni. Quando apparve chiaro, nel giugno 1942, che gli ebrei polacchi erano di fronte non a semplici pogrom ma all'estinzione, il Consiglio nazionale polacco a Londra parlò nelle sue risoluzioni del 10 giugno e dell'8 luglio del "progettato massacro di praticamente tutta la popolazione ebraica". La trasmissione radiofonica del generale Sikorski è già stata menzionata. Poche organizzazioni ebraiche erano disposte in quel periodo a usare tali termini estremi. L'incredulità occidentale sconcertava i polacchi a Londra e il loro "Bollettino per gli affari interni" osservò: "Se i rapporti polacchi dalla patria non sono creduti dalla nazione anglosassone e sono considerati inattendibili, essi devono sicuramente credere ai rapporti da fonti ebraiche" ("Sprawozdanie", 5 agosto 1942). Ma essi continuavano a non credere ai rapporti, o in ogni caso li giudicavano grossolanamente esagerati, e ciò sembra aver influenzato l'ampiezza con cui veniva trattato questo argomento da parte dei polacchi in patria. Forse avrebbero dovuto attenuare l'enormità di questi fatti per ottenere maggiore credibilità? Il 22 luglio 1942 cominciarono le deportazioni da Varsavia, il che, ovviamente, fu un avvenimento di grande importanza. Ma né i polacchi a Londra né il governo britannico vi prestarono molta attenzione. Il generale Bor Komorowski scrisse in seguito, nella sua autobiografia, che "già il 29 luglio avevamo saputo da rapporti di ferrovieri che i trasporti venivano avviati nel campo di concentramento di Treblinka e che gli ebrei scomparivano senza lasciare tracce. Non poteva esserci nessun altro dubbio che questa volta le deportazioni non erano che un preludio allo sterminio" (18). Secondo il generale Bor Komorowski,

l'esercito nazionale trasmetteva rapporti quotidiani sulla situazione a Londra, ma la B.B.C. manteneva un completo silenzio: "Sembrava esserci una sola possibile spiegazione per questo silenzio da parte di Londra. Le notizie erano così incredibili che non erano riuscite a convincere. Noi stessi, dopotutto, eravamo stati restii a credere ai primi rapporti sugli stermini. Dovevo sapere in seguito che questo fu, in realtà, ciò che accadde" (19). Stefan Korbonski era a capo del "Kierownictwo Walki Cywilne", il direttorio per la lotta civile, e poi diventò l'ultimo Delegat in Polonia. Egli dice essenzialmente le stesse cose. Le organizzazioni ufficiali polacche a Londra e la B.B.C. non dettero peso ai rapporti da lui inviati sulle deportazioni da Varsavia nei campi della morte. "Questo gioco durò per un paio di giorni, ed evidentemente a causa delle allarmanti comunicazioni inviate quotidianamente a Londra il governo finalmente rispose. Il telegramma non spiegava molto. Diceva letteralmente: "Non tutti i vostri telegrammi sono adatti per la pubblicazione". Mi scervellai per cercare di capirne il significato. Qui si stavano deportando e assassinando 7000 persone al giorno e Londra giudicava che questo non fosse adatto per la pubblicazione. Avevano perso la testa, o che cosa? Soltanto un mese dopo la B.B.C. trasmise le notizie basate sulle nostre informazioni e soltanto molti mesi dopo la questione mi venne spiegata da un corriere del governo paracadutato in Polonia: "Non credevano ai tuoi telegrammi, il governo polacco non ci credeva e neanche quello britannico. Dicevano che stavi un po' esagerando nella tua propaganda antitedesca. Solo quando gli inglesi ricevettero conferma dalle loro proprie fonti cominciarono a temere qualcosa e la B.B.C. trasmise le tue notizie" (20). I messaggi inviati da Varsavia durante le prime quattro settimane dopo l'inizio delle deportazioni non sono stati pubblicati. Un radiomessaggio trasmesso dalla-stazione radio Wanda il 25 agosto annunciava che in certi giorni 5-6000 ebrei venivano deportati da Varsavia, in altri 15 mila, e che in tutto ne erano già stati deportati 150 mila (21). Ma questo era un radiomessaggio dell'A.K. inviato da Rowecki a Sosnkowski, il comandante supremo polacco a Londra. Dato che la politica degli archivi polacchi a Londra (come, purtroppo, di molti altri archivi) è stata quella di concedere soltanto un accesso parziale, non è stato possibile verificare se frequenti telegrammi furono inviati da Varsavia dalla resistenza polacca non militare alla fine di luglio, in agosto e all'inizio del settembre 1942. Il "Biuletyn Informacyjny" nel suo numero del 30 luglio parlò a lungo della completa distruzione del ghetto di Varsavia, del modo in cui erano organizzate le deportazioni, del suicidio di Adam Czerniakow, capo dello "Judenrat" (Consiglio ebraico), e previde esattamente che le deportazioni sarebbero durate diverse settimane (b). Ma è improbabile che il "Biuletyn" abbia raggiunto Londra per molte settimane. Le copie dei molti messaggi menzionati da Bor Komorowski non sono state trovate, ma ciò non significa che non esisterono (c). Non c'è nessuna ragione per supporre che a Varsavia venisse presa la decisione di interrompere improvvisamente il flusso di informazioni dopo che grande spazio era stato dato all'uccisione degli ebrei durante i mesi precedenti, non soltanto nella Polonia orientale ma anche nel Governatorato Generale propriamente detto. Sembra assai più probabile che l'arresto degli svedesi spieghi in parte l'interruzione nel flusso di informazioni e che, d'altra parte, le spiegazioni date da Bor Komorowski e da Korbonski fossero fondamentalmente giuste: del fatto che le informazioni provenienti da Varsavia venivano minimizzate la ragione si trovava a Londra. Chi erano i colpevoli? Il dottor I. Schwarzbart, che era l'altro rappresentante ebreo nel Consiglio nazionale polacco, scrisse nel suo diario il 24 ottobre 1944: "Non perdonerò mai Mikolajczyk per essere rimasto zitto sui rapporti riguardanti lo sterminio degli ebrei fra il luglio 1942 e il settembre 1942..." (22). Forse il ministro degli interni non rivelò

tutta la verità; le ragioni che possono averlo spinto a non farlo sono state già menzionate. Ma è anche possibile che Schwarzbart si sentisse a disagio. Non si era anche lui espresso a quell'epoca contro le "esagerazioni"? Le cifre sui sopravvissuti che Schwarzbart trasmetteva alle istituzioni ebraiche erano più ottimistiche di quelle del governo polacco in esilio. Così, nel novembre 1942, parlò di 140 mila sopravvissuti nel ghetto di Varsavia (d). Le deportazioni da Varsavia cominciarono il 22 luglio 1942. Cinque giorni dopo, il 27 luglio, l'Agenzia telegrafica ebraica riportava, citando Zygielbojm e il governo polacco in esilio, che i tedeschi avevano iniziato le espulsioni in massa da Varsavia mirando allo sterminio. Il giorno seguente ci fu un altro rapporto della J.T.A. dello stesso tenore e la notizia venne ripresa anche dal "Manchester Guardian". Le informazioni potevano aver raggiunto il governo polacco solo attraverso una delle stazioni radio clandestine. Nei discorsi del 22 agosto e del primo settembre, Zygielbojm espresse chiaramente di essere a conoscenza di ciò che stava accadendo a Varsavia: un intero popolo veniva sterminato nelle camere a gas. I tedeschi avevano scelto la Polonia come luogo per lo sterminio degli ebrei di tutti i paesi occupati e della stessa Germania. Non si trattava di un pogrom secondo Zygielbojm; i carnefici non provavano odio nei confronti delle loro vittime, facevano semplicemente il loro lavoro. Si trattava di uno sterminio pianificato ed eseguito a sangue freddo (23). Così l'inizio delle deportazioni da Varsavia fu certamente riportato e dopo quattro settimane giunse la notizia che 150 mila ebrei erano scomparsi. Fu dopo l'annuncio iniziale che il governo polacco in esilio sembra aver deciso di minimizzare le notizie sulle deportazioni. C'erano alcuni scettici nei suoi ranghi ed è certamente vero che il Foreign Office, nel complesso, giudicava le informazioni non attendibili o esagerate. Può esserci stata una disputa fra i vari dipartimenti sul fatto se era giusto o meno credere ai rapporti. La baronessa Hornsby Smith era, nel 1942, la prima segretaria privata di Lord Selborne, ministro della guerra economica, che era responsabile del S.O.E. e delle sue attività in Polonia. Essa disse nel 1979 che alle notizie dalla Polonia non venne inizialmente dato credito a Londra: "Il S.O.E., mai molto ben visto dai servizi regolari, poiché avevamo le nostre fonti d'informazione e di comunicazione, raccolse testimonianze, non attraverso canali diplomatici, ma attraverso uomini che rischiavano quotidianamente la vita nella resistenza. Ma anch'esse, inizialmente, vennero respinte, come propaganda inattendibile ed esagerata da parte di un popolo che soffriva" (24). Così, le persone maggiormente responsabili sembrano essere stati alcuni funzionari del servizio segreto del Foreign Office. Ma sappiamo da fonti polacche che neanche Lord Selborne credeva, a quell'epoca, alle notizie che riceveva. Se la stazione radio polacca a Londra ("Swit") che fingeva di trasmettere dalla Polonia non citava le notizie sulle deportazioni da Varsavia, la decisione finale era britannica, perché, sebbene la stazione impiegasse dei polacchi, era una stazione britannica. Tale incredulità non era affatto limitata al Foreign Office. Un esempio scelto a caso dovrebbe bastare. Hillel Storch, che durante la guerra rappresentava a Stoccolma il Congresso mondiale ebraico e l'Agenzia ebraica, un giorno del 1942 andò all'ambasciata americana e disse al primo segretario che un ebreo di nome Sebba era arrivato attraverso la Finlandia e aveva fornito informazioni sullo sterminio in Lettonia. "Caro signor Storch", gli fu risposto, "quanto a propaganda ne sappiamo più di lei" (25). Eppure l'ambasciata americana aveva ricevuto le stesse informazioni da una fonte polacca (Wieslaw Patek, capo della sezione consolare della locale legazione polacca) che comprendevano cifre sulle vittime a Vilna, Riga e altre parti della Lettonia e dell'Estonia. La fonte era un ufficiale estone che aveva assistito a esecuzioni in massa; aveva comunicato la cosa a Helsinki da dove aveva raggiunto Stoccolma (26). Le informazioni c'erano fin dal principio ma non erano credute. Come risultato, il governo polacco in esilio, la cui stima del numero delle vittime era stata nel complesso precisa fino al luglio 1942,

dopo questa data cominciò a fornire cifre che erano troppo basse (e). Fino a quando non sarà dato libero accesso a tutti gli archivi britannici e polacchi, cosa che non accadrà molto presto, non ci sarà alcuna certezza riguardo alla responsabilità per questo cambio nella "politica delle informazioni". Non fu un occultamento sistematico. Le notizie venivano semplicemente minimizzate, e ciò veniva fatto tanto più facilmente in quanto era sempre possibile sostenere che non c'era nessuna conferma da fonti indipendenti. Nel frattempo le notizie su Varsavia avevano raggiunto anche le istituzioni ebraiche a Londra e a New York. Richard Lichtheim a Ginevra riferì il 15 agosto che: "Il 14 agosto un'altra persona (un ariano) giunto direttamente dalla Polonia, una persona molto conosciuta e degna di fede, riferì quanto segue: "Il ghetto di Varsavia è stato liquidato. Gli ebrei, senza distinzione di età e di sesso, sono portati via in gruppi dal ghetto e fucilati..."". Dobbiamo la sopravvivenza di questo rapporto all'attenzione di un certo signor Yates del dipartimento di stato: "Il testo tedesco era stato inserito tra i fogli della lettera a Rabbi Wise... Io mi insospettii e feci fare delle copie per i nostri archivi" (27). I suoi superiori presero il rapporto sul serio. Quando, il 23 settembre, Sumner Welles, il sottosegretario, chiese a Myron Taylor, ambasciatore americano in Vaticano, di scoprire che cosa si sapesse in Vaticano sulla soluzione finale egli citò l'intero testo di questo telegramma (28). Il 21 agosto 1942, il londinese "Jewish Chronicle" ed altri giornali riportarono il suicidio di Adam Czerniakow, capo dello "Judenrat" (Consiglio ebraico). Si disse che questa era stata la sua risposta alla richiesta nazista di deportare da Varsavia 100 mila ebrei, "il che voleva dire verso una morte sicura". Il 10 settembre l'Agenzia telegrafica ebraica riferì della deportazione di 300 mila ebrei da Varsavia. Il 20 settembre dalla stessa fonte: "Pogrom di proporzioni senza precedenti in Polonia. I nazisti hanno iniziato lo sterminio degli ebrei polacchi. Salvateci". Il 2 ottobre 1942, di nuovo nel "Jewish Chronicle": "Il piano generale nazista per gli ebrei" (il rapporto Riegner senza il nome dell'autore). La notizia fu pubblicata in mezzo al giornale. Spesso le notizie di questo genere non erano considerate da prima pagina e non c'era nessun commento editoriale. Non si poteva, dopotutto, esserne certi, e così si preferiva aspettare. Durante i restanti mesi del 1942, Zygielbojm continuò a ricevere messaggi e lettere dai rappresentanti del Bund rimasti a Varsavia. Una comunicazione datata 2 ottobre diceva che 300 mila ebrei di Varsavia erano stati uccisi e il mezzo milione rimasto in tutta la Polonia andava incontro allo stesso destino (29). Il 15 dicembre: "Circa 40 mila ebrei restano nel ghetto" (30). Un lungo rapporto, datato Varsavia, agosto 1942, tratta dei campi della morte, soprattutto Treblinka 1° e 2°, del procedimento delle selezioni e di molti altri particolari. Ci fu anche una fitta lettera di dieci pagine di Feiner, che era stata scritta l'ultimo giorno di agosto e che passava in rassegna ancora una volta fin dall'inizio l'intero processo di sterminio. Feiner descriveva come i tedeschi erano riusciti a ingannare i condannati, a paralizzare la loro volontà di resistenza: coloro che non erano stati ancora deportati credevano fermamente di essere stati salvati. La polizia del ghetto aveva partecipato all'organizzazione delle deportazioni. Dopo aver esaminato le operazioni di sterminio in altre parti della Polonia come Leopoli, Feiner concludeva con un certo numero di suggerimenti. I morti non potevano essere richiamati in vita, ma c'era ancora una possibilità di salvare gli ebrei polacchi che ancora restavano. Propose un appello al mondo da parte delle Nazioni unite e un severo avvertimento che i criminali nazisti sarebbero stati puniti. Inoltre, il governo polacco in esilio avrebbe dovuto fare appello al paese perché ogni polacco

desse tutto l'aiuto possibile agli ebrei. Un appello speciale doveva essere rivolto alla classe operaia e agli intellettuali. Ma, soprattutto, doveva essere chiaro che in questa guerra iniqua gli hitleriani capivano un'unica lingua: i tedeschi che vivevano su territorio alleato dovevano essere presi come ostaggi in cambio degli ebrei che stavano per essere uccisi (31). Lo stesso suggerimento era stato avanzato in un messaggio precedente dal Bund. Feiner era un avvocato ma conosceva anche i limiti della legge: "de maximis non curat lex". L'appello fu, ovviamente, del tutto inutile. Gli Alleati pubblicarono una dichiarazione nel dicembre 1942 ma essa non ispirò molta paura a Hitler: non ci badò neanche. Anche la proposta di prendere ostaggi non era realizzabile e quanto a minacciare i criminali di guerra che sarebbero stati puniti per i loro crimini, c'erano opinioni diverse fra gli statisti occidentali. Mentre Churchill pensava che una dichiarazione avrebbe "gelato il cuore dei malvagi", Anthony Eden, al contrario, temeva che tali dichiarazioni avrebbero semplicemente spinto Hitler e i suoi a "indurire i loro cuori". Nel novembre 1942, un altro corriere polacco, Jan Kozielewski ("Witold", "Jan Karski"), arrivò a Londra. Si trattava di un giovane, entrato prima della guerra al ministero degli esteri polacco, alla sua terza e ultima missione. Già una volta era caduto nelle mani dei tedeschi. A differenza dei precedenti corrieri, egli aveva effettivamente parlato con dirigenti ebrei, con Leon Feiner e con un giovane sionista la cui identità non è del tutto chiara fino a oggi. Mentre sedeva con loro "in una grande casa dei sobborghi", vuota e mezza distrutta, Karski si rese conto che le prospettive che essi avevano di fronte erano incredibilmente orribili. Il dirigente sionista disse: "Voialtri polacchi siete fortunati, anche voi state soffrendo, molti di voi moriranno, ma almeno la vostra nazione continua a vivere". Dopo la guerra la Polonia risorgerà (32). Gli dissero che gli ebrei erano indifesi, che l'intero popolo ebraico sarebbe stato distrutto. La resistenza polacca ne poteva salvare qualcuno ma tre milioni erano condannati: "Fate ricadere questa responsabilità sulle spalle degli Alleati. Non permettete a nessun dirigente delle Nazioni unite di dire che essi non sapevano che noi venivamo massacrati in Polonia e che non potevamo essere aiutati se non dall'esterno". Essi suggerirono quindi ogni tipo di piano compresa una massiccia campagna di bombardamenti delle città tedesche, e pubbliche esecuzioni di tedeschi nei paesi alleati. Ma ciò era assolutamente inimmaginabile, disse Karski: tali richieste avrebbero soltanto sconcertato e inorridito tutti coloro che provavano simpatia per gli ebrei. "Certo," rispose il sionista, "credi che non lo sappia? Chiediamo questo perché è l'unica risposta a ciò che ci stanno facendo. Non ci immaginiamo che venga realizzata". I dirigenti ebrei dissero poi che, se i cittadini americani e britannici potevano essere salvati, perché donne e bambini ebrei non potevano essere scambiati? Perché le vite di qualche migliaio di ebrei polacchi non potevano essere comprate dagli Alleati? Ma ciò era contrario a ogni strategia di guerra, disse Karski. "Proprio così. Questo è ciò che dobbiamo affrontare", disse il dirigente del Bund. "Di' ai dirigenti ebrei che qui non si tratta di politica o di tattica. Di' loro che la terra deve essere scossa dalle fondamenta, che il mondo deve essere destato. Forse allora si sveglierà..." (33). Egli quindi suggerì che i dirigenti ebrei si recassero in tutti i più importanti uffici governativi inglesi e americani, che non li lasciassero, non mangiassero né bevessero finché non fosse stato deciso un modo per salvare gli ebrei. "Che muoiano di morte lenta mentre il mondo sta a guardare, che muoiano. Forse ciò potrà scuotere la coscienza del mondo". Dopo aver visitato due volte il ghetto ed essersi introdotto di nascosto nel campo della morte di Belzec, Karski si recò a Londra (34). Incontrò Zygielbojm e trasmise il messaggio di Varsavia, compreso il loro appello per uno sciopero della fame. "E' impossibile", disse Zygielbojm, "assolutamente impossibile. Tu sai

quello che accadrebbe. Arriverebbero due poliziotti e mi trascinerebbero all'ospedale. Credi che mi lascerebbero morire così? Mai... mai, mai mi lascerebbero morire (35). Ma promise che avrebbe fatto qualunque cosa gli avessero chiesto se gli fosse stata data anche una sola possibilità di riuscita. Karski scrive che in fondo pensava che Zygielbojm esagerasse o che almeno promettesse sventatamente più di quanto potesse mantenere. Karski continuò a incontrare uomini politici; vide perfino Eden e poi, in America, Roosevelt. Fece una profonda impressione su tutti coloro che incontrò, come notò nel suo diario il conte Edward Raczynski, ministro degli esteri polacco. Nel maggio 1943 Karski ricevette la notizia che Zygielbojm si era suicidato. In un'ultima lettera al presidente polacco e al primo ministro in esilio aveva scritto che la responsabilità dello sterminio dell'intera popolazione ebraica della Polonia ricadeva sì, in primo luogo, sugli assassini stessi, ma indirettamente ricadeva su tutta l'umanità, sui governi e i popoli degli stati alleati che non avevano preso misure concrete per arrestare questo sterminio: "Osservando passivamente lo sterminio di milioni di bambini, donne e uomini indifesi e torturati a morte, questi paesi sono diventati complici degli assassini". Sebbene il governo polacco avesse contribuito in larga misura a influenzare l'opinione pubblica mondiale, esso non aveva fatto nulla in proporzione all'enormità del dramma che avveniva in Polonia: "Non posso tacere, non posso continuare a vivere mentre anche gli ultimi appartenenti al popolo ebraico di Polonia, del quale io sono un rappresentante, vengono eliminati... Con la mia morte voglio esprimere la mia più forte protesta contro lo sterminio del popolo ebraico". Il mondo non fu scosso dalle fondamenta, e la morte di Zygielbojm venne dimenticata, eccetto che dai suoi compagni. Quando la guerra finì e si cominciò a capire l'enormità della catastrofe ci furono amare recriminazioni. Da una parte l'aiuto prestato agli ebrei durante la guerra venne esaltato in una letteratura apologetica, a volte oltre ogni limite; esempi di aiuto venivano messi in evidenza, casi di indifferenza o di ostilità venivano sottaciuti. Dall'altra parte ci fu l'urgenza di lanciare indiscriminatamente accuse di negligenza e di connivenza, all'interno del campo ebraico, e a maggior ragione all'esterno, con i polacchi come ovvio bersaglio. Tali accuse e in generale la ricerca di capri espiatori sono psicologicamente comprensibili, ma non contribuiscono a una migliore comprensione degli avvenimenti. Il comportamento della resistenza polacca e del governo polacco in esilio non fu perfetto per quanto riguarda la pubblicazione di notizie sulla soluzione finale. Ma il lungo rapporto presentato da Edward Raczynski, rappresentante polacco presso i governi alleati, il 9 dicembre 1942 conteneva l'analisi più completa sulla soluzione finale. Nessun altro governo alleato fu lontanamente altrettanto esplicito in quel periodo e anche per molto tempo dopo (f). Se qualcuno li giudica colpevoli, cosa si dovrebbe dire dei russi che deliberatamente minimizzarono lo sterminio, allora come oggi? Che dire del Foreign Office che verso la fine del 1943 decise di cancellare ogni riferimento all'uso di camere a gas perché le testimonianze non erano degne di fede? (g) Che dire dei funzionari americani che cercarono di sopprimere le "notizie non autorizzate" dall'Europa orientale? Che dire dei dirigenti ebrei che continuarono a dubitare dell'autenticità delle notizie anche dopo che avrebbe dovuto essere ovvio che non c'era più spazio per i dubbi? In una ricerca di capri espiatori pochi ne uscirebbero senza macchia. NOTE AL CAPITOLO 4. (a) Lo stesso aeroplano trasportava i rapporti settimanali ("The Digest") dell'ufficio stampa

quotidiani e dell'ambasciata

britannica a Stoccolma, retta da Cecil Parrott; i rapporti erano preparati, in base a un attento esame dei giornali di molti paesi occupati (come pure della Germania), per il dipartimento politico dei servizi segreti. Essi contenevano occasionalmente anche materiali sul destino degli ebrei europei. Vedi, per esempio, F0371/26515 3410. La sezione era costituita da circa trenta persone, la maggior parte delle quali erano ebrei; produceva una "meravigliosa documentazione quotidiana su qualunque cosa cercassimo" (comunicazione personale di Sir Cecil Parrott, 10 dicembre 1979). (b) Il 30 luglio 1942 non c'era ancora alcuna esatta informazione riguardo alla destinazione degli ebrei. Fu annunciato che erano stati portati "all'est, nella direzione di Malkinia e Brest sul Bug". Non c'erano notizie precise "ma c'è spazio per le ipotesi più pessimistiche". Anche nel numero seguente del "Biuletyn" le informazioni fornite non erano esatte: gli ebrei, si diceva, erano stati portati in "due campi della morte, Belzec e Sobibor" (6 agosto 1942). Nel "Biuletyn" del 13 agosto si diceva che il numero dei deportati era di 120-150 mila unità. Il "Biuletyn" del 20 agosto dava una cifra di 200 mila unità e l'editoriale parlava del "bestiale assassinio davanti agli occhi del nostro popolo di milioni di ebrei che vivono fra di noi". Il ministro degli interni del governo polacco in esilio distribuì i rapporti dello "Sprawozdanie" in traduzione inglese a personalità pubbliche, membri del Parlamento, giornalisti eccetera. Così il rapporto 6, 1942, esamina il periodo primo luglio-primo dicembre 1942 con speciale attenzione al periodo 16 luglio-16 agosto. "Le autorità polacche a Londra ricevono rapporti sulla situazione in Polonia... noi sentiamo che queste informazioni dovrebbero essere comunicate al popolo inglese". (c) Materiale polacco riguardante la seconda guerra mondiale è disperso in molti archivi. Io ho cercato invano copie dei messaggi provenienti dalla stazione radio di Korbonski nei due archivi polacchi a Londra e mi è stato assicurato dal generale Tadeusz Pelczynski che non ci sono. Potrebbero essere in archivi americani o in mani private. (d) Schwarzbart al Congresso mondiale ebraico, 16 novembre 1942, archivio londinese dell'Istituto per gli affari ebraici. Schwarzbart seppe in realtà dell'inizio delle deportazioni da Varsavia. Il 27 luglio inviò un telegramma all'esecutivo del Congresso mondiale ebraico che inizia con queste parole: "I tedeschi hanno cominciato lo sterminio nel ghetto di Varsavia...". C'è una nota manoscritta: "Questa informazione l'ho ricevuta oggi dal ministro degli interni Mikolajczyk". (e) Nel novembre 1942 il governo polacco parlava ancora nei suoi comunicati di "più di un milione di vittime ebree". In un'occasione fu detto che Himmler aveva ordinato l'esecuzione di metà della popolazione ebraica per la fine dell'anno ("New York Herald Tribune", 25 novembre 1942). Nessuno, certamente, neanche lo stesso Himmler, sapeva esattamente allora quanti ebrei erano stati uccisi. Ma si sarebbe dovuto sapere a Londra che la cifra era più vicina a tre milioni che a uno. Verso la fine del 1943 un profugo polacco, un impiegato di Varsavia, arrivò in Gran Bretagna. Aveva lasciato Gdynia il primo novembre ed era arrivato a Londra via Stoccolma il 10 dicembre. Fu interrogato approfonditamente da M.I.19 e riferì, fra le altre cose, che 3 milioni 300 mila ebrei polacchi erano stati uccisi, che circa 200 mila erano nascosti e altri 130 mila si facevano passare per non ebrei. Queste cifre erano notevolmente precise. Cavendish Bentinck, presidente del Comitato di coordinamento dei servizi segreti, trasmise questo rapporto a Cadogan del Foreign Office perché lo ritenne di eccezionale interesse. Ma aggiunse che i polacchi "provano una certa difficoltà a credere nelle cifre fornite sullo sterminio degli ebrei" (FO 37139449 xk 6699). Questa sembra essere

stata, a quell'epoca, l'opinione generale fra i servizi segreti alleati. Secondo una dichiarazione ufficiale alleata pubblicata nell'agosto 1943, fino ad allora erano stati uccisi 1 milione 702 mila 500 ebrei ("New York Times", 27 agosto 1943). L'effettivo numero delle vittime era più di due volte questa cifra. (f) La nota fu inviata da Biddle a Cordell Hull il 18 dicembre 1942. (g) Mi riferisco alla dichiarazione Stalin - Roosevelt - Churchill del primo novembre 1943.

Capitolo 5. GLI EBREI NELL'EUROPA OCCUPATA DAI NAZISTI: RIFIUTO E ACCETTAZIONE. In un discorso Hitler disse:

nel

sesto

anniversario

della sua ascesa al potere

"Oggi voglio essere ancora una volta profeta: se l'ebraismo della finanza internazionale dentro e fuori d'Europa dovesse riuscire ancora una volta a far precipitare le nazioni in un'altra guerra mondiale, la conseguenza non sarà la bolscevizzazione della terra e quindi la vittoria dell'ebraismo, ma l'annientamento della razza ebraica in Europa". Fra i dirigenti ebrei dell'Europa continentale, dell'Inghilterra e dell'America, non si prestava molta attenzione a questa e a simili dichiarazioni. Si sapeva che i politici usavano sempre un linguaggio eccessivo e si pensava che Hitler non rappresentasse un'eccezione. I dirigenti ebrei non erano ciechi e non era ovviamente un segreto che la Germania nazista perseguitasse gli ebrei più implacabilmente e più crudelmente di ogni altro stato dei tempi moderni. Ma gli ebrei, nella loro lunga storia, erano stati frequentemente vittime di persecuzioni; erano sopravvissuti a tutti i nemici della casa di Israele e sarebbero sopravvissuti anche a Hitler. C'era comunque un abisso fra persecuzione e annientamento. Nessuno, in cuor suo, pensava che Hitler intendesse veramente uccidere tutti gli ebrei. Circa la metà degli ebrei austriaci e tedeschi se ne erano andati prima dello scoppio della guerra; molti di più lo avrebbero fatto se l'emigrazione non fosse stata quasi impossibile. Nessun paese li voleva. Perfino la Palestina fu praticamente chiusa a tutti o a quasi tutti dopo il 1936. I dirigenti ebrei espressero timore, protestarono contro la politica nazista; alcuni di loro erano estremamente preoccupati che l'emigrazione dalla Germania e dall'Austria procedesse così a rilento, soprattutto quando, nel 1938 le persecuzioni diventarono più violente. Le comunità ebraiche nei paesi vicini alla Germania avevano ovviamente udito e letto sulla situazione dei loro correligionari in Germania e molti temevano che questo tipo di antisemitismo si diffondesse. Ma nel complesso non ne vedevano il mortale pericolo. Dopo che la Polonia era stata sconfitta nel 1939 e divisa fra la Germania e l'Unione Sovietica, molte migliaia di ebrei polacchi che erano fuggiti in Unione Sovietica ritornarono nei territori occupati dai tedeschi. La generazione più vecchia ricordava l'esercito tedesco dalla prima guerra mondiale quando aveva occupato buona parte della Polonia e dell'Ucraina. Anche se il loro dominio fu duro, anche se non amavano gli ebrei, i tedeschi erano dopotutto un "Kulturvolk": non c'erano state uccisioni arbitrarie. Nello stesso modo si comportarono

gli ebrei delle regioni occupate dai tedeschi dopo la loro invasione dell'Unione Sovietica nel giugno 1941. Gli ebrei dell'Europa orientale non si rendevano conto del fatto che nel 1940 erano di fronte a un nuovo tipo di tedeschi. Gli ebrei, ancor più degli slavi, erano "Untermenschen", sottouomini; non c'era letteralmente nessun futuro per loro in Europa nel Nuovo Ordine tedesco. Venivano espulsi da quelle parti della Polonia che erano state incorporate dal Reich, venivano rinchiusi nei ghetti, perdevano tutti i diritti, venivano maltrattati e affamati. La mortalità nei ghetti era molto alta. Già nel 1940 circolavano alcune voci che affermavano che l'ebraismo dell'Europa orientale era condannato, ma ciò si riferiva a una prospettiva a lungo termine. Nessuno era ancora preparato alle uccisioni in massa, che iniziarono con l'invasione della Russia. Gli ebrei delle regioni occidentali dell'Unione Sovietica erano ancora meno preparati dei polacchi. Le relazioni fra la Russia e la Germania nazista erano state piuttosto strette dopo il patto dell'agosto 1939. La stampa sovietica non aveva certamente riportato che qualcosa di grave era accaduto agli ebrei sotto Hitler. Come si resero conto con evidente sorpresa i capi delle Einsatzgruppen quando radunavano le vittime per le stragi, gli ebrei non sembravano avere alcuna idea del destino che li aspettava. Fu soltanto alcuni mesi dopo, quando già centinaia di migliaia erano stati uccisi, che essi notarono che le notizie sui metodi delle S.S. si erano diffuse e non trovarono più l'intera popolazione ebraica nei luoghi in cui arrivavano. Ma gli ebrei dell'Unione Sovietica non erano organizzati, non c'erano rapporti fra le comunità, e quando si capiva la natura del pericolo era generalmente troppo tardi. Questo valeva anche per le regioni che erano state annesse dall'Unione Sovietica nel 1940 come le Repubbliche Baltiche, la Bessarabia e la Bucovina, in cui esistevano consistenti comunità ebraiche. Le unità speciali, aiutate da delinquenti locali, si mettevano sistematicamente al lavoro dal primo giorno in cui entravano in una nuova città o villaggio. Ma le storie dei sopravvissuti ai massacri - e ce n'era quasi sempre qualcuno - non erano credute. Il dottor M. Dvorzhetski, un medico di Vilna riferì così, molti anni dopo, le sue prime reazioni: "Un giorno vidi per la strada una donna scalza, i capelli scarmigliati. Mi dette l'impressione di essere folle. La portai a casa mia e lei mi disse: "Vengo da Ponary". "Dal campo di lavoro di Ponary?", le chiesi. "Non c'è nessun campo di lavoro a Ponary, lì uccidono gli ebrei", disse". La donna raccontò al dottor Dvorzhetski delle esecuzioni e descrisse la sua fuga dalla fossa in cui i cadaveri erano stati gettati. Era stata colpita soltanto al braccio. Il dottore continuava a non credere, ma quando le medicò le ferite vi trovò alcune formiche di bosco. Allora Dvorzhetski uscì e raccontò ad altri ciò che aveva sentito su Ponary. "Dottore," gli dissero, "siete anche voi un seminatore di panico? Invece di darci una parola di consolazione ci raccontate incubi?" "Dopotutto siamo in Europa, non nella giungla," diceva la gente, "non possono ucciderci tutti". Le notizie sui massacri venivano accolte con incredulità o, al massimo, essi venivano attribuiti alla bestialità di un comandante locale (1). Ma le uccisioni a Ponary non si fermavano e le notizie trapelavano da Kovno e dalle comunità minori nei dintorni di Vilna. Dirigenti delle organizzazioni giovanili ebraiche si incontrarono, e il primo gennaio 1942 pubblicarono un manifesto in cui si diceva che "tutte le strade della Gestapo portavano a Ponary", che Ponary significava morte, che non era un campo di concentramento o di lavoro, e che ognuno vi era ucciso mediante fucilazione. Soprattutto, il manifesto affermava che Hitler intendeva uccidere tutti gli ebrei d'Europa e che gli ebrei lituani sarebbero stati i primi (2). Questa fu la prima volta in cui un tale avvertimento fu pubblicato. I

capi della resistenza di Vilna decisero di mettere in allarme comunità ebraiche polacche con le quali avevano tradizionalmente stretti rapporti. Ma già prima della partenza dei loro emissari un primo messaggero era arrivato da Varsavia alla fine di ottobre o agli inizi del novembre 1941. Voci sinistre avevano raggiunto Varsavia ed era stato deciso di verificare se rispondevano al vero. Il corriere era un giovane polacco di nome Herlik, un membro dei boyscout che era in rapporti amichevoli con i membri dell'"Hashomer Hatzair", l'organizzazione giovanile sionista-socialista. Si mise in contatto con i capi della resistenza di Vilna e assistette anche a un massacro (a Troki). Secondo un'altra fonte la sua missione ebbe luogo anche prima, nel settembre 1941, ma è opinione generale che il suo rapporto non venne creduto a Varsavia: sembrava del tutto incredibile (3). Ma nelle settimane e nei mesi seguenti diversi emissari cominciarono ad arrivare da Vilna a Grodno, Bialystok e Varsavia, soprattutto donne ebree dall'aria "ariana". All'inizio del 1942 un'intera delegazione in rappresentanza della resistenza di Vilna andò a Varsavia e incontrò i rappresentanti dei principali gruppi ebraici. I loro rapporti apparvero anonimi nei giornali clandestini. "Jutrznia" (dell'Hashomer Hatzair) riportò il 21 marzo 1942 che il periodo delle uccisioni episodiche stava finendo perché gli ebrei erano adesso di fronte alla totale liquidazione fisica. Lo "Slowo Mlodych" (di Gordonia) nel suo numero del febbraio-marzo 1942 riportò che dei 400 mila ebrei lituani ne restavano soltanto 100 mila e che erano stati portati come pecore al mattatoio: la minaccia di Hitler di distruggere l'ebraismo europeo era attuata. Nel frattempo Frumka Plotonicka, emissario di un movimento giovanile, era stato in Volinia, regione fra la Polonia orientale e l'Ucraina nordoccidentale, e aveva riferito che tutti gli ebrei erano stati uccisi, tranne qualche migliaio a Kowel. La stampa clandestina che pubblicava questi rapporti ebbe un ruolo importante nel tenere informati i ghetti. C'erano molti giornali di questo tipo: in polacco, ebraico e jiddish, compreso un "Daily Bulletin" di tre pagine che pubblicava soprattutto notizie tratte dalle trasmissioni radiofoniche straniere. Un altro foglio quotidiano ("Morgen Frai") era pubblicato dai comunisti. I più importanti periodici, oltre quelli già menzionati, erano "Biuletyn" e "Der Vecker" (del Bund), "Plomienie" e "El Al" (dell'Hashomer Hatzair), "Yedies" e "Unser Weg (Dror)", "Yugentshtimme" e "Proletarisher Stimme". Il "Daily Bulletin" usciva in 200 esemplari; la tiratura media degli altri era di circa 300-500 copie. Erano distribuiti anche fuori di Varsavia. Ogni copia veniva letta da più persone che passavano poi a voce le notizie. Così la stampa clandestina raggiungeva decine e forse centinaia di migliaia di persone. Ma che portata aveva il suo impatto politico e psicologico? Quando gli emissari di Vilna si incontrarono con i dirigenti dei partiti ebraici di Varsavia all'inizio del 1942, la maggioranza non dubitava più dell'autenticità delle notizie provenienti dalla Lituania. Essi temevano anche che fosse possibile che avvenimenti simili potessero accadere altrove. Ma in generale erano inclini a vedere in queste violenze manifestazioni dello spirito di vendetta tedesco contro i "comunisti ebrei" nei territori precedentemente appartenuti all'Unione Sovietica. Come disse uno dei presenti, questa è Varsavia, nel centro d'Europa; ci sono 400 mila ebrei nel ghetto, una liquidazione su questa scala è certamente impossibile (4). Le notizie dalla Galizia orientale ricevute a Varsavia pressappoco nello stesso periodo non erano migliori; lo stesso ragionamento si applicava a questi territori che erano stati anch'essi parte dell'Unione Sovietica dopo il settembre 1939: qui non può accadere. Poi verso la fine di marzo ci furono allarmanti notizie sulla deportazione degli ebrei dal distretto di Lublino. Nessuno sembrava conoscerne la destinazione. Lublino era proprio Polonia; inoltre, questa era precisamente l'area che era stata in precedenza destinata dai nazisti a diventare il luogo dove la maggior parte degli ebrei (o tutti) dell'Europa orientale sarebbero stati "trasferiti". Anche prima, in febbraio, c'erano stati rapporti su Chelmno, il primo campo

di sterminio (a). Chelmno sul Ner (Kulmhof) si trova nella Polonia occidentale a circa settanta chilometri a ovest di Lodz ed era stato incorporato dalla Germania dopo la campagna del 1939. Nell'ottobre 1941 una unità speciale si insediò nel villaggio, il "Sonderkommando Lange", così chiamato dal nome del suo comandante, Herbert Lange, un ufficiale di polizia. Questa unità aveva fatto le sue esercitazioni in massacri nella Prussia orientale, dove aveva liquidato circa 500 malati di mente. All'inizio del dicembre 1941, ben prima della conferenza di Wannsee, cominciò a operare a Chelmno. I rapporti che raggiunsero Varsavia e successivamente anche l'Occidente (b) affermavano che gli ebrei dei dintorni di villaggi come Kolo e Sompolno, ma anche del ghetto di Lodz, erano stati portati a Chelmno, dove erano semplicemente scomparsi. Dapprima veniva detto agli ebrei che una nuova comunità sarebbe stata creata nelle vicinanze; poi venivano portati in un castello, un vecchio rudere della prima guerra mondiale. All'inizio erano trattati gentilmente e rassicurati sulla continuazione del loro viaggio. Poi venivano portati a gruppi in una grande stanza ben riscaldata che conduceva a un corridoio sotterraneo alla fine del quale c'era un pavimento in salita. Qui un vecchio tedesco diceva loro che l'intero trasporto sarebbe stato mandato in un nuovo ghetto, gli uomini avrebbero lavorato in fabbrica, le donne in casa e i bambini sarebbero stati mandati a scuola. Prima di continuare il viaggio avrebbero dovuto essere sottoposti a disinfezione. Veniva detto loro di spogliarsi e di consegnare documenti personali e oggetti di valore. Poi venivano fatti salire su grandi autocarri grigi che venivano chiusi ermeticamente. Gli autocarri venivano quindi portati nei boschi di Lubrodz, a una distanza di circa sette chilometri, e qui, dopo essersi sincerati che fossero morti, gli autisti vuotavano il loro carico in una fossa profonda cinque metri e larga due che era stata scavata da un gruppo di ebrei sorvegliati a turno da trenta soldati. Lo scarico dell'autocarro era descritto nei minimi particolari. Si diceva, per esempio, che ogni strato di cadaveri era ricoperto con polvere di cloruro per eliminare l'odore nauseante. I becchini cercarono di informare il mondo su ciò che accadeva a Chelmno; gettarono biglietti dai furgoni che li portavano al lavoro. Infine tre di loro riuscirono a fuggire e si diressero a Varsavia dove arrivarono in febbraio. Sembra che Rumkowski, il capo del ghetto di Lodz, il secondo per grandezza in Polonia, abbia appreso da altre fonti quale fosse lo scopo di Chelmno. Ciò si deduce da una lettera da lui scritta al rabbino di una vicina comunità (Grabow) che si era rivolto a lui per avere notizie (5). Ma in complesso Rumkowski tacque e se la storia di Chelmno raggiunse gli ebrei dentro e fuori la Polonia il merito è da ascriversi a un piccolo gruppo di persone del ghetto di Varsavia che dirigeva un centro di documentazione clandestino e un servizio informazioni chiamato "Oneg Shabbat". I becchini furono intervistati da membri di questo gruppo che passarono le notizie alla stampa clandestina ebraica e anche alla resistenza polacca (c). La forza trainante, dietro questo gruppo, era Emanuel Ringelblum, un dirigente del partito di sinistra sionista-marxista "Poale Zion". Nato nella Galizia orientale nel 1900, aveva studiato all'Università di Varsavia e insegnato storia nei licei di Varsavia fino al 1938 quando entrò a far parte dell'organizzazione di assistenza ai profughi dalla Germania nazista. Da allora in poi fu uno dei capi del movimento di autoassistenza e di mutuo soccorso. Insieme a A. Gutkovski e Hersh Wasser e a un gruppo di giovani istituì un archivio sulla condizione degli ebrei a Varsavia e sul processo di liquidazione. Informazioni venivano anche raccolte dai profughi provenienti da comunità minori di tutta la Polonia. I fogli di notizie settimanali che contenevano queste informazioni venivano distribuiti "a personalità pubbliche e direttori di giornali clandestini, sia ebrei che polacchi". Tali notizie allarmarono l'opinione pubblica riguardo alle uccisioni che con ogni probabilità sarebbero continuate e "servirono anche come fonte di notizie per l'estero sulle spaventose violenze che erano

fatte alla popolazione ebraica" (6). Ringelblum fu arrestato dalla Gestapo nel marzo 1944, torturato e fucilato. Wasser, uno dei suoi più stretti collaboratori, sopravvisse alla guerra. Il materiale raccolto dal gruppo fu nascosto in tre contenitori dopo la distruzione del ghetto. Due furono trovati dopo la fine della guerra, il terzo è andato perduto. Essi costituiscono la più importante documentazione per la nostra conoscenza della Varsavia di quei tragici anni. Ma le notizie su Chelmno non avevano raggiunto soltanto Ringelblum attraverso i becchini; erano state trasmesse a Varsavia in gennaio in un modo meno drammatico: per posta. Negli archivi dell'Istituto di storia ebraica di Varsavia ci sono cinque lettere e cartoline con le quali ebrei che vivevano nelle vicinanze di Chelmno informavano i loro amici e parenti di Varsavia su ciò che accadeva e chiedevano loro di avvertire immediatamente i dirigenti ebrei dell'incombente pericolo (7). Esse sono datate 9, 21, 22 e 27 gennaio. Se cinque di queste lettere sono state trovate dopo la totale distruzione di Varsavia non è irragionevole supporre che ci furono molti più messaggi di questo genere. A parte le lettere su Chelmno, ce ne furono molte altre sui massacri, le deportazioni e le gassazioni in tutta la Polonia. Gli uffici postali polacchi continuavano a funzionare, gli avvertimenti continuavano ad arrivare da tutto il paese; forse i nazisti pensavano che, visto che gli ebrei erano comunque condannati, non aveva molta importanza se invocazioni di aiuto venivano trasmesse da un posto all'altro. L'esistenza di queste lettere dimostra comunque che molti ebrei polacchi erano a conoscenza fin dai primi tempi della soluzione finale. Stando così le cose, perché erano così riluttanti a credervi? Forse pensavano come quella donna di Krushniewiza che il 24 gennaio 1942, una settimana prima della sua deportazione a Chelmno, scrisse al marito: "Siamo di fronte a una grande catastrofe, sappiamo in anticipo ciò che ci accadrà. Sarebbe meglio non saperlo, se accadesse all'improvviso..." (8). O, per fornire un altro esempio ancora più contraddittorio: il giornale clandestino "Der Vecker" era stato uno dei primi a pubblicare le notizie su Chelmno. Ma nel suo numero successivo (15 febbraio 1942) attaccò gli "allarmisti e seminatori di panico" che diffondevano la notizia che presto sarebbero iniziate le deportazioni dal ghetto di Varsavia. Tali voci - diceva il giornale erano "criminalmente irresponsabili". Il primo documento che è rimasto sull'esistenza del primo campo della morte risale a un periodo ancora precedente. Si tratta di una cartolina scritta da un ebreo sconosciuto a un abitante di Posbebice e fu in seguito spedita a Lodz. Vi si legge quanto segue: "31 dicembre 1941 Caro cugino Mote Altszul, come sai, da Kolo, Dabie e altri luoghi gli ebrei sono stati mandati in un castello nei pressi di Chelmno. Sono già passate due settimane e non si sa quante migliaia di loro siano morti. Sono scomparsi e sappi che non ci sarà un indirizzo per loro. Sono stati portati nella foresta e sono stati seppelliti. Perciò, di' a tutti gli ebrei che dovrebbero pregare per il popolo ebraico, che possa Dio dichiarare: fin qui e non oltre. Quanto agli ebrei di Zagzewo, il loro indirizzo è lo stesso. Non considerare questa cosa di poco conto, essi hanno deciso di cancellare, di uccidere, di distruggere. Passa questa lettera a persone istruite perché la leggano..." (9). Non sappiamo se questa cartolina sia stata letta da altri oltre che dai destinatari. Ma ci fu un'altra lettera che con tutta probabilità raggiunse più persone. Avendo incontrato i becchini di Chelmno, il rabbino di Grabow scrisse a suo cognato a Lodz: "19 gennaio 1942 Mio caro, fino a ora

non

ho

risposto

alle

tue

lettere

perché

non

sapevo

esattamente le cose di cui la gente parlava. Purtroppo, per nostra grande tragedia, adesso sappiamo tutto. Ho ricevuto la visita di un testimone oculare che è sopravvissuto soltanto per caso e che è riuscito a fuggire dall'inferno... Ho scoperto tutto tramite lui. Il luogo dove tutti vengono uccisi è chiamato Chelmno, non lontano da Dabie, e tutti vengono nascosti nella vicina foresta di Lochow. Le persone vengono ammazzate in due diversi modi: mediante fucilazione o mediante gassazione. Questo è ciò che è accaduto alle città di Dabie, Isbica, Kujawska, Klodawa e altre. Ultimamente sono stati portati in quel posto migliaia di zingari che si trovavano accampati nel cosiddetto campo zingari di Lodz, e negli ultimi giorni vi sono stati portati ebrei da Lodz e la stessa cosa viene fatta a loro. Non credere che io sia pazzo. Ahimè, questa è la tragica crudele verità. Làcerati i vestiti, cospargiti il capo di cenere, corri per le strade e danza per la follia... Sono così stremato per le sofferenze di Israele che non posso più scrivere. Mi sento il cuore scoppiare. E forse l'Altissimo avrà dopo tutto misericordia e salverà quanti restano ancora della nostra nazione. O Creatore del mondo, aiutaci! [Jakob Schulman]" (10). Si deduce da questa lettera che a Lodz circolavano voci su Chelmno anche prima, e che il rabbino stava rispondendo a una richiesta di maggiori informazioni. Uno di coloro che nutrivano poche illusioni era Ringelblum, il cui diario diventò uno dei documenti più importanti sugli ultimi giorni dell'ebraismo polacco. Nel suo diario scrisse su Chelmno; in aprile venne a sapere di Belzec e in maggio di Sobibor, gli altri due campi che avevano appena iniziato a funzionare (11). Ma il suo diario riflette anche la sua terribile frustrazione. Aprile e maggio erano passati e non c'era nessun segno che le informazioni da lui trasmesse al governo polacco in esilio, e tramite questo al mondo occidentale, sulla prima fabbrica di morte e anche sulle uccisioni di Lublino del marzo-aprile fossero realmente arrivate a destinazione. Poi venerdì 26 giugno egli fu finalmente sicuro che i suoi messaggi avevano raggiunto Londra. Egli annotò nel suo diario che c'era stata una trasmissione mattutina della B.B.C. in cui si era parlato di "tutto ciò che conoscevamo così bene: Slonim e Vilna, Leopoli e Chelmno". Per quanti mesi egli aveva aspettato, pensando che il mondo fosse sordo e muto? Per molto tempo aveva sospettato la resistenza polacca: forse volevano mantenere il silenzio sulla tragedia ebraica per non sminuire la propria. Ringelblum annotò con soddisfazione che la trasmissione non aveva semplicemente menzionato atti isolati di crudeltà come in precedenti occasioni. Per la prima volta era stato fatto il numero delle vittime: 700 mila. In questo modo il gruppo "Oneg Shabbat" aveva adempiuto a una grande missione storica e forse salvato centinaia di migliaia di ebrei. Anche la loro morte non sarebbe stata inutile, come la morte di tanti altri ebrei, perché avevano fatto conoscere il diabolico piano, che i tedeschi volevano mantenere segreto, per distruggere l'ebraismo polacco. Se soltanto l'Inghilterra avesse preso contromisure adatte gli ebrei polacchi avrebbero, forse, potuto essere ancora salvati. Le ottimistiche parole di Ringelblum sulla "grande missione storica" furono tragicamente smentite. Ma adesso è generalmente accettato che lui e il suo gruppo furono effettivamente i primi a mettere in guardia l'Occidente sul fatto che l'ebraismo esteuropeo non era semplicemente minacciato da pogrom, ma che era stato raggiunto un nuovo livello: lo sterminio (12). Non fu colpa di "Oneg Shabbat" se non furono prese adatte contromisure; forse non potevano essere prese neanche dagli inglesi, né da chiunque altro. Alcuni giorni dopo, il 30 giugno, Ringelblum ritornò nel suo diario sullo stesso argomento: "In questi ultimi giorni la popolazione ebraica ha vissuto nel segno di Londra. Per lunghi mesi ci siamo tormentati con la domanda: ma il mondo conosce le nostre sofferenze? E se le conosce, perché tace?

Soltanto adesso abbiamo capito la vera ragione: Londra non sapeva. Ora, dopo queste rivelazioni, c'è grande eccitazione, gioia mista a paura". Secondo Ringelblum anche la maggior parte dei tedeschi in Polonia aveva saputo solo recentemente delle uccisioni in massa. Alcuni dei tedeschi che avevano sentito parlare di Chelmno erano estremamente turbati e si racconta che abbiano detto che loro e le loro famiglie avrebbero pagato moltissimo per questi crimini. Da qui la conclusione di Ringelblum: molto probabilmente i nazisti temevano l'opinione pubblica tedesca. Ma una valutazione lucida avrebbe dimostrato che gli ebrei non potevano aspettarsi nessuna pietà dai tedeschi. Tutto dipendeva da quanto tempo aveva Hitler per attuare i suoi disegni. Se aveva tempo sufficiente, allora gli ebrei erano perduti. Anche prima che le notizie da Londra lo avessero raggiunto Ringelblum aveva considerato nel suo diario il significato di un altro campo della morte, Sobibor. Il 17 giugno scrisse che un amico di un'altra città, che aveva assistito al "trasferimento di popolazione" a Sobibor, dove gli ebrei venivano gassati, gli aveva chiesto: "Per quanto tempo ancora andremo come pecore al macello?". Ringelblum commentò che le deportazioni venivano eseguite in modo tale che non era sempre chiaro a tutti che stava per avvenire un massacro. Come risultato, l'urgenza di difendere l'intera comunità e il sentimento di solidarietà erano perduti, c'era un crollo spirituale, una disintegrazione causata da tre anni di terrore. E così continuava: "Cionondimeno resterà assolutamente incomprensibile perché gli ebrei dei villaggi intorno a Hrubieszow furono evacuati sotto la vigilanza di poliziotti ebrei. Nessuno di loro fuggì, sebbene tutti sapessero dove e verso che cosa stessero andando. Nessuno studioso potrà spiegare perché quaranta pionieri ("halutzim) di una colonia agricola acconsentirono a essere condotti al macello pur sapendo cosa era successo a Vilna, Slonim, Chelmno e altri luoghi. Un poliziotto è sufficiente per massacrare un'intera città... A Lublino si presentarono quattro uomini della Gestapo e diressero un'intera operazione... Andavano passivamente verso la morte e lo facevano affinché gli altri potessero essere lasciati in vita, perché ogni ebreo sapeva che alzare una mano contro un tedesco avrebbe messo in pericolo i propri fratelli di un'altra città o forse di un altro paese. Questa è la ragione per cui trecento prigionieri di guerra si lasciarono uccidere dai tedeschi sulla strada da Lublino a Biala, dei coraggiosi soldati che si erano distinti nella lotta per la libertà della Polonia...". Ma questa spiegazione era interamente convincente? Ringelblum si era detto che, in ultima analisi, il fenomeno era inspiegabile. In alcune occasioni aveva annotato che non era sempre chiaro alle vittime quale destino fosse in serbo per loro, e in altre aveva scritto che lo conoscevano perfettamente. Ma questa incoerenza era inerente alla situazione. Ne era una parte essenziale. Yizhak Zukerman, uno dei capi del gruppo clandestino sionistasocialista, scrisse nel 1944 che la stampa clandestina ebraica aveva pubblicato ampi rapporti sui massacri, "ma Varsavia non ci credeva... il semplice senso comune rifiutava di accettare la possibilità dello sterminio di decine e centinaia di migliaia di ebrei... La stampa era accusata di seminare il panico anche se le descrizioni delle deportazioni erano completamente vere. Le notizie sui crimini tedeschi erano accolte con incredulità e diffidenza, e non solo all'estero. Anche qui, nelle immediate vicinanze di Ponary e di Chelmno, di Belzec e di Treblinka questi rapporti non trovavano credibilità. Immotivato ottimismo e ignoranza andavano di pari passo. Se qualcuno non credeva ai rapporti, altri ci credevano. Haim Aron Kaplan, a differenza di Ringelblum, non faceva parte dei gruppi

clandestini di Varsavia né disponeva di un servizio privato di informazioni. Era un anziano insegnante, preside di una scuola elementare ebraica. Il suo diario fu scoperto dopo la guerra (Kaplan e la sua famiglia morirono nel dicembre 1942 o nel gennaio 1943 a Treblinka) e mostra chiaramente che non c'erano segreti nel ghetto. Così egli scriveva il 16 maggio 1942: "Alfred Rosenberg ha dichiarato esplicitamente: "Gli ebrei stanno aspettando la fine della guerra; ma gli ebrei non vivranno per vederla. Se ne andranno dalla terra prima che arrivi". Vilna, Kovno, Slonim e Novogrudok hanno dimostrato che si può star certi che i nazisti manterranno la loro parola" (14). Il 3 giugno Kaplan scrisse nel suo diario che 40 mila ebrei di Lublino erano scomparsi, ma nessuno conosceva il luogo dove erano sepolti. Emissari ariani li avevano cercati, ma non ne avevano trovato traccia: "Ma non c'è dubbio che non sono più vivi". Il 7 giugno: "La radio inglese, ascoltata a rischio della vita, rafforza la nostra speranza. Ascoltiamo Reuters con grande rispetto". Il 10 luglio 1942 Haim Kaplan, l'insegnante nel ghetto, venne a sapere della soluzione finale. Un ebreo era scappato da Lublino e aveva portato terribili notizie: "E' stato decretato e deciso dalle autorità naziste di operare un sistematico annientamento degli ebrei del Governatorato Generale. C'è anche una speciale unità militare per questo scopo che fa il giro di tutte le città polacche secondo i bisogni e le necessità del momento. Ma una totale carneficina come questa non può essere attuata in un giorno solo... Perciò i nazisti hanno istituito un gigantesco punto di raccolta per trecentomila persone, un campo di concentramento situato fra Chelmno e Wlodawa... Gli ebrei deportati da tutti i paesi conquistati vengono portati in questo campo...". Un giorno dopo: "Finché non sapevamo, la speranza regnava ancora nel nostro cuore, ma da ora in poi è tutto chiaro, e ogni dubbio riguardo a un nostro futuro è venuto meno... In ogni generazione si sono levati contro di noi per distruggerci. Le esperienze della nostra storia non sono tuttavia paragonabili a questa. Non c'è nessuna somiglianza fra la distruzione fisica che deriva da una momentanea esplosione di folle fanatiche incitate all'assassinio e questo calcolato programma di un governo per la realizzazione del quale è stato istituito un organizzato apparato di morte". Il 22 luglio iniziarono le deportazioni da Varsavia. Un mese prima, il 22 giugno, Ringelblum si era chiesto: perché gli ebrei di Varsavia dovrebbero essere così privilegiati da evitare la sventura della deportazione? Brutali deportazioni avevano avuto luogo a Cracovia, capitale del Governatorato Generale, sotto gli occhi delle massime autorità (tedesche). Perché le ondate della deportazione, che erano arrivate così vicino, avrebbero dovuto risparmiare gli ebrei di Varsavia? Il presidente dello "Judenrat" aveva detto di aver ricevuto formali assicurazioni che non ci sarebbero state deportazioni da Varsavia (15). Ma le deportazioni iniziarono lo stesso, e prima della partenza del secondo trasporto Czerniakow si suicidò; anche se non sapeva che cosa significassero le deportazioni, certamente lo immaginava. La destinazione era Treblinka a nord-est di Varsavia. Gli ebrei nel ghetto avevano sentito parlare di Chelmno, di Belzec e di Sobibor. Ma tutto ciò che sapevano di Treblinka era che era un campo di prigionia. Né l'esercito nazionale a quel tempo ne sapeva di più. Fu deciso di inviare un osservatore, Zalman Friedrich, un altro ebreo dall'aria "ariana", per raccogliere informazioni su questo nuovo campo. Egli andò a Sokolov, la principale stazione ferroviaria vicino a Treblinka, dove incontrò un conoscente, insanguinato e con i vestiti

a brandelli, che era appena fuggito. Quest'uomo gli disse che Treblinka era un'altra fabbrica di morte, che era entrata in funzione lo stesso giorno in cui i primi trasporti erano arrivati da Varsavia. Friedrich ritornò a Varsavia sei giorni dopo l'inizio delle deportazioni (28 luglio) e fece il suo rapporto al Bund, di cui era membro. La stampa clandestina pubblicò immediatamente questo rapporto. Ma come sempre ci fu più di una fonte: un altro ebreo di Varsavia, Eli Linder, era fuggito dal campo nascosto in un mucchio di vestiti requisiti. In seguito, altri particolari vennero rivelati da Abraham Krzepicki, che era fuggito dopo diciotto giorni da Treblinka ed era ritornato a Varsavia. I ferrovieri che avevano accompagnato i treni confermarono questi racconti; e infine il puzzo dei corpi bruciati aleggiava tutto intorno come una "nuvola pestilenziale", come scrisse nel suo rapporto il comandante tedesco a Ostrow. Tutti gli abitanti dei villaggi vicini lo sentivano. Coloro che erano rimasti a Varsavia sapevano che li aspettava una sentenza di morte. Ma ancora speravano che sarebbe giunto aiuto dall'esterno e si rendevano quindi conto che era di capitale importanza informare il mondo. I sionisti, benché assai attivi nei ghetti, non erano in una buona posizione per farlo. Molti dei loro capi e dei loro membri più attivi avevano lasciato la Polonia prima della guerra o subito dopo il suo scoppio, passando da Vilna. Erano in contatto con la Slovacchia, l'Ungheria e la Svizzera, ma le loro lettere e cartoline contenevano soltanto accenni che non venivano sempre capiti e creduti. Alcuni di loro riuscirono a fuggire in Slovacchia e di lì in Ungheria, dove, per il momento, erano relativamente al sicuro. I comunisti ebrei non si trovavano in una posizione molto migliore. Avevano compagni fuori dai ghetti, ma per loro come per l'esercito nazionale l'assistenza agli ebrei non faceva parte delle priorità. I comunisti polacchi, comunque, erano stati ripetutamente "purgati" negli anni trenta. Il partito era stato infatti sciolto dal Comintern; fu ricostituito a Varsavia soltanto nel 1942 e una unità combattente comunista si formò solo nel 1943. Nel tempo che si organizzò un rudimentale gruppo clandestino comunista e che le notizie cominciarono a essere trasmesse a Londra, la maggior parte degli ebrei polacchi non era più in vita. C'era ancora il Bund, il grande e ben organizzato partito operaio; si era sempre opposto all'emigrazione; alcuni dei suoi dirigenti erano fuggiti in Unione Sovietica dove avevano trovato una tragica fine (l'esecuzione di Alter e di Ehrlich). Coloro che erano rimasti avevano rapporti piuttosto stretti con i socialisti (P.P.S.) e siccome il P.P.S. faceva parte della resistenza polacca essi erano in una posizione tale da poter trasmettere ampi resoconti ai propri compagni a Londra e a New York. All'inizio questi rapporti impiegarono un tempo piuttosto lungo a raggiungere l'Occidente, ma dalla fine del 1942 il Bund ebbe anche accesso alle stazioni radio clandestine attraverso le quali i messaggi potevano essere inviati a Londra molto velocemente. Sui principali protagonisti di queste comunicazioni e sui messaggi inviati diremo di più nelle pagine seguenti. Ma fra tutti questi rapporti ce n'è uno che deve essere segnalato perché fornisce una irripetibile immagine delle molte paure e delle poche speranze degli ebrei polacchi alla metà del 1942. Si tratta del rapporto del Bund scritto agli inizi del maggio 1942 che raggiunse Londra alla fine dello stesso mese e venne trasmesso (in parte) il 2 giugno dalla B.B.C. Fu reso pubblico in America in agosto e inizia con le seguenti parole: "Dal giorno in cui è scoppiata la guerra russo-tedesca, i tedeschi hanno iniziato lo sterminio della popolazione ebraica in territorio polacco, usando a questo scopo i fascisti ucraini e lituani". Il rapporto menziona numerosi fatti e cifre sul numero di ebrei uccisi in vari luoghi (compreso Chelmno) e l'inizio dello sterminio nel Governatorato Generale. Cita la cifra di 700 mila vittime e dice che

essa indica che il governo tedesco ha iniziato a mettere in atto la profezia di Hitler che negli ultimi cinque minuti della guerra, a prescindere dal suo esito, tutti gli ebrei d'Europa sarebbero stati uccisi. Il Bund suggeriva quindi che il governo polacco chiedesse alle Nazioni unite di applicare immediatamente la politica di rappresaglia contro la quinta colonna che viveva in mezzo a loro: "Ci rendiamo conto che stiamo chiedendo al governo polacco di applicare misure insolite. Ma questa è l'unica possibilità di salvare milioni di ebrei dall'inevitabile distruzione" (16). Il dottor Feiner, rappresentante del Bund, si espresse nello stesso modo e anche più energicamente in un successivo messaggio all'Occidente di cui parleremo in seguito (17). Anche il governo polacco in esilio auspicò misure simili in varie occasioni. L'idea di una rappresaglia da parte degli Alleati aveva in realtà attraversato le menti di alcuni funzionari tedeschi, e uno di loro, il sottosegretario agli esteri, aveva scritto che la Germania, sotto questo aspetto, si trovava in una sfavorevole posizione ("wir sitzen am kürzeren Hebel"). Ma egli si riferiva a un problema specifico, all'arresto di cittadini americani di origine ebraica in Francia nel 1941. La situazione degli ebrei polacchi e degli altri era ovviamente del tutto diversa. Le minacce che gli Alleati avrebbero potuto fare per salvare gli ebrei polacchi, tedeschi o austriaci non sarebbero state credute. E anche se ci fosse stata la possibilità di minacciare i tedeschi di rappresaglia per mezzo di "misure insolite", la maggior parte dei leader alleati avrebbe obiettato che tali misure, o anche la minaccia di tali misure, erano indifendibili anche se si trattava di salvare vite umane. Altri avrebbero detto, apertamente o in privato, che c'erano sempre molte vittime in tempo di guerra e che difficilmente avrebbe valso la pena correre tali rischi per gli ebrei. Ma tutto ciò non giustifica la riluttanza a credere e a rendere pubblici i rapporti che provenivano dalla Polonia nel 1942. E, retrospettivamente, sembra certo che almeno alcuni ebrei avrebbero potuto essere salvati se a quell'epoca una maggiore pressione fosse stata esercitata sui paesi satelliti della Germania. Nel giugno 1942 il giornale clandestino di uno dei movimenti giovanili ebraici di Varsavia pubblicò un ultimo disperato grido: "Il numero delle vittime dello sterminio cresce di giorno in giorno. L'ebraismo europeo sale sul patibolo: ebrei tedeschi, cechi, slovacchi. S.O.S. S.O.S. S.O.S." (18). Come tante altre invocazioni di aiuto anche questa non ebbe risposta. Questa era allora la situazione in Polonia. Ma assai prima che i campi della morte cominciassero a funzionare due avvenimenti, che ebbero luogo in Europa orientale, furono conosciuti quasi immediatamente in Occidente. Normalmente avrebbero causato una grande indignazione, ma in questo caso non ci fu quasi alcuna ripercussione: mi riferisco al massacro di Kamenets Podolsk e all'uccisione di più di 100 mila ebrei romeni in Transdniestria. Il governo ungherese era entrato in guerra contro l'Unione Sovietica il 27 giugno 1941. In luglio, a Budapest, alcuni alti funzionari civili e militari decisero di sbarazzarsi di quanti più ebrei stranieri fosse possibile. Si riferivano soprattutto a persone di dubbia cittadinanza nella Rutenia carpatica che dovevano essere consegnati ai tedeschi. Al governo ungherese, il quale doveva dare il suo consenso all'iniziativa, fu detto che gli stranieri sarebbero stati trasferiti in Galizia. Circa 18 mila ebrei furono rastrellati a Budapest e nella Rutenia carpatica e trasferiti a Kamenets Podolsk, oltre il Dniestr, un'area dalla quale i russi si erano appena ritirati. I comandanti tedeschi locali erano tutt'altro che entusiasti di questa inaspettata affluenza e dapprima volevano rispedire gli ebrei in Ungheria. Ma poi furono chiamate le S.S., e, con l'aiuto di alcune unità ucraine e di un plotone ungherese, fra il 27 e il 28 agosto 1941 uccisero 15 mila ebrei ungheresi e 8 mila ebrei del luogo. Esso fu, per citare Randolph Braham, "il primo massacro a cinque cifre nel programma di soluzione finale dei nazisti" (19). Di coloro che erano stati deportati ne sopravvissero 2000, soprattutto

perché i tedeschi non erano forse ancora del tutto pronti a occuparsi di loro. Uno dei sopravvissuti tornò a Budapest e insieme a una delegazione ebraica andò a trovare il ministro ungherese degli interni, che affermò di essere sorpreso e profondamente colpito. Egli mise fine alle espulsioni. Le notizie su Kamenets Podolsk erano a quell'epoca ampiamente conosciute a Budapest. L'ambasciata americana fu informata da Bertrand Jacobson, rappresentante del Joint Distribution Committee, e forse anche da altre fonti. In un messaggio datato 26 settembre 1941, Paul Culbertson, vicedirettore della divisione per gli affari europei del dipartimento di stato, informò l'ufficio centrale del Joint a New York che "secondo testimonianze oculari di ufficiali ungheresi erano stati uccisi fra 7500 e 15 mila ebrei, e i loro corpi erano stati gettati nel fiume Dniestr". Quattro settimane dopo questa notizia arrivò alla stampa; venne pubblicata dall'Agenzia telegrafica ebraica il 13 ottobre, dal "New York Post" il 23 ottobre e dal "New York Times" il 26 ottobre 1941. Budapest doveva restare nei mesi seguenti un'importante fonte di informazioni: gli ufficiali ungheresi che tornavano dal fronte orientale parlavano in casa dei massacri perpetrati dalle Einsatzgruppen. Avevano assistito all'inizio di ottobre a esecuzioni in massa vicino a Dnepropetrovsk e altrove. Simili rapporti, incidentalmente, vennero anche da ufficiali e soldati del corpo di spedizione italiano che agiva nel settore meridionale del fronte orientale (20). Non c'è invece alcuna certezza che l'esercito finlandese e i militanti stranieri nelle "Waffen" S.S. abbiano visto le Einsatzgruppen al lavoro; queste erano unità di prima linea e operarono soprattutto nel settore della Carelia sul fronte russo dove le comunità ebraiche erano poche o punte. Ma le notizie su Kamenets Podolsk passarono quasi inosservate. Fu chiaramente ritenuto che questo fosse stato un incidente isolato e, poiché le deportazioni dall'Ungheria erano poi cessate, forse si pensò che fatti del genere non sarebbero ricapitati. E' vero che le unità ungheresi erano anche responsabili dell'uccisione nel 1941 di circa 700 ebrei nella zona della Iugoslavia occupata dagli ungheresi, ma i comandanti responsabili del massacro furono effettivamente processati a Budapest nel dicembre 1943. Il governo ungherese di allora non era esattamente filosemita, ma giudicava azioni di questo tipo chiaramente incompatibili con i valori e le tradizioni della nazione. Se Kamenets Podolsk fu ignorato è più difficile capire perché all'inizio venne prestata poca attenzione alla decisione del governo romeno di deportare quasi 200 mila ebrei in Transdniestria, e cioè nelle zone occupate dell'Ucraina confinanti con la Bessarabia. Dapprima i tedeschi rifiutarono di accettare gli ebrei. Ma nei successivi sei mesi ne furono uccisi circa 120 mila; il resto sopravvisse e alla fine tornò in Romania dove nel frattempo erano prevalse altre considerazioni sull'opportunità e gli effetti politici del massacro avvenuto in Transdniestria. Le deportazioni dalla Romania non furono tenute segrete; furono riportate quasi subito sui giornali tedeschi e alleati. E' vero che le condizioni in Transdniestria non furono completamente conosciute finché un coraggioso avvocato ebreo non fuggì da Kishinev a Bucarest in uniforme da ufficiale romeno e informò i dirigenti della locale comunità. La deportazione degli ebrei di Kishinev in Transdniestria iniziò l'8 ottobre 1941. Tre giorni dopo, W. Filderman, presidente delle comunità ebraiche romene, era già completamente informato e scrisse al maresciallo Antonescu, il capo supremo romeno: "Ciò vuol dire morte, morte, morte..." (21). Antonescu inviò una risposta del tutto negativa a Filderman: gli ebrei si erano comportati male e avevano soltanto ricevuto ciò che meritavano. Ma il fatto stesso che abbia ritenuto necessario rispondere è di un certo interesse, e, certamente a causa del grande rilievo che ne fu dato all'estero, Antonescu interruppe le deportazioni alla metà del novembre 1941 (d). Nel

caso

della Slovacchia,

primo paese straniero a spedire i propri

cittadini nei campi della morte polacchi, la diffusione delle notizie ebbe invece effetti molto minori. Il primo treno per Auschwitz partì il 26 marzo 1942. Alla fine dell'anno circa 57 mila ebrei erano stati deportati, pressappoco i tre quarti dell'ebraismo slovacco. Anche in questo caso non ci volle molto perché le notizie trapelassero. Alla fine di aprile alcuni di questi deportati erano riusciti a tornare in Slovacchia. Secondo la testimonianza del defunto Aron Gruenhut, un dirigente della comunità ortodossa, Petschuk, vicedirettore del dipartimento ebraico presso il ministero slovacco degli interni, informò lui e Ludwig Kastner (da non confonderlo con il Kastner di Budapest di cui parleremo più avanti) alla fine del gennaio 1942 che tutti gli ebrei slovacchi sarebbero stati presto deportati e uccisi, e che la versione ufficiale - che sarebbero stati usati come squadre di lavoro - era una semplice menzogna. E' possibile che un funzionario slovacco abbia saputo della soluzione finale già pochi giorni dopo la conferenza di Wansee? E' più probabile che la memoria di Gruenhut fosse in errore. Ma ci furono altre curiose coincidenze che mostrano che può esserci stata in Slovacchia una o più fughe di notizie. Un gruppo di autorevoli rabbini scrisse nel marzo 1942 una lettera a monsignor Tiso, il presidente della Repubblica, nella quale dicevano che le deportazioni significavano la distruzione fisica degli ebrei slovacchi. Forse si trattava solo di un'iperbole, ma come spiegare che il nunzio apostolico in Slovacchia Burzio, in un telegramma al Vaticano, datato 9 marzo 1942, usò esattamente lo stesso linguaggio: ""Deportazione 80 mila persone in Polonia alla mercé dei tedeschi equivale condannare gran parte a morte sicura"" (22) (e). Il rabbino Michael Ber Weismandl, uno dei testimoni slovacchi meglio informati e più attendibili, scrisse nelle sue memorie pubblicate dopo la guerra che nei primi mesi del 1942 non era ancora a conoscenza della soluzione finale. Ma dice anche che a un suo amico era stato detto già un anno o due prima da Wisliceny, uno dei più stretti collaboratori di Eichmann, che se gli ebrei non fossero partiti in "Viehwagen" sarebbero stati portati via in "Schlachtwagen", intendendo con questo che se non fossero fuggiti lasciando dietro di sé tutte le loro cose, sarebbero stati portati al macello (23). Nei mesi e negli anni successivi l'infaticabile Weismandl doveva svolgere un ruolo centrale nel cercare di evitare ulteriori deportazioni: corrompendo funzionari della Gestapo e slovacchi, mandando emissari in Polonia e corrieri in Svizzera e in Ungheria, cercando di mettere in allarme il mondo. Egli fu uno dei pochi che sopravvisse alla guerra. Durante i mesi di maggio e giugno 1942 sempre maggiori prove vennero alla luce sul destino di coloro che erano stati deportati. Queste informazioni vennero trasmesse dall'U.Z. ("Ustredna Zidov", l'ufficio centrale ebraico slovacco) ai dirigenti ebrei in Svizzera, Gran Bretagna, Palestina e ovviamente anche in Ungheria. Verso l'Ungheria aveva cominciato a funzionare un canale clandestino. R. Kastner, il dirigente ebreo ungherese, scrisse in seguito che lui e i suoi colleghi furono informati verso la fine dell'estate del 1941 dei massacri in Ucraina, negli stati baltici, in Bessarabia e in Bucovina, e che avevano anche saputo dai loro informatori ungheresi dell'uso di camere a gas mobili. Kastner riferisce che in un incontro avvenuto il giorno dopo il Natale 1941, nell'edificio della comunità ebraica di Budapest, egli informò i presenti sulle uccisioni in massa e sulle camere a gas mobili. Nel suo discorso disse che forse più di un milione di ebrei era già stato ucciso. Ma scrisse anche che "i partecipanti espressero il proprio scetticismo dopo aver ascoltato il mio rapporto" (24). Il fatto che la maggior parte degli ebrei ungheresi rifiutasse le notizie sui massacri in Polonia è stato riferito da molti testimoni. I profughi dalla Polonia e dalla Slovacchia che raggiunsero Budapest nel 1942 furono accusati di mentire e di seminare il panico. Chi metteva in guardia la popolazione ebraica, come Otto Komoly, capo del comitato di soccorso di Budapest, rappresentava un'eccezione. Joel Brand, che doveva avere il ruolo principale nella tragica

missione a Istanbul del 1944, e sulla quale molto è stato scritto, ancora più preciso:

fu

"Il 'Waada' (il comitato di soccorso ungherese) istituì un vero e proprio centro informazioni a Budapest. Subito dopo il loro arrivo i profughi venivano attentamente interrogati per conoscere e prendere nota della situazione nei ghetti dai quali provenivano. Eravamo ugualmente interessati sia alle personalità dei funzionari che dirigevano l'apparato tedesco per lo sterminio che al comportamento dei vari consigli ebraici... Inviammo centinaia di queste documentazioni attraverso Istanbul e la Svizzera ai nostri principali uffici all'estero. E' stato spesso detto nella stampa e in libri su questo argomento che gli Alleati furono informati troppo tardi di ciò che stava succedendo nelle città polacche nel 1942 e 1943. Noi non siamo d'accordo. I rappresentanti ufficiali del popolo ebraico, grazie a centinaia di comunicazioni individuali, furono completamente e immediatamente informati della situazione. Sappiamo anche che i nostri avvertimenti vennero immediatamente trasmessi dall'Agenzia ebraica agli Alleati" (25). Joel Brand forse esagerava un po'. Tuttavia il flusso di informazioni diventò certamente più intenso nel 1943 quando decine di giovani ebrei arrivarono dalla Polonia portando notizie sulla distruzione dei ghetti. Ma alcuni erano arrivati già nel 1942, e perfino prima. Il primo a fare questo pericoloso viaggio fu Shlomo Zygielnik nel 1941, e immediatamente inviò messaggi ai suoi compagni rimasti in Polonia: la fuga era possibile. Fu seguito da Zvi Goldfarb (che andò dal ghetto di Varsavia a Budapest), da Josef Kornianski e da altri (26). A volte queste fughe duravano settimane e anche mesi. Ma i confini non erano in realtà ben guardati, e molte centinaia di ebrei andarono dalla Polonia in Slovacchia e da sei a diecimila ebrei slovacchi passarono in Ungheria nel 1942 e all'inizio del 1943. Coloro che erano fuggiti dalla Polonia andarono in Palestina passando per la Romania e per la Turchia. Anche questo doveva diventare un importante canale di informazioni. Ma per trasmettere all'estero informazioni, rapidamente e in modo attendibile, occorrevano dei professionisti; un ruolo determinante fu svolto da Samuel Springman, un mercante di diamanti, i cui collegamenti e la cui esperienza erano assai superiori a quelli di Joel Brand e dei suoi amici del "Waada". Il rapporto di un giovane ebreo slovacco sulla sua esperienza a Majdanek all'inizio dell'estate del 1942 serve da esempio (27). L'anonimo testimone descrisse con molti particolari in decine di pagine le terribili condizioni in cui erano tenuti in Polonia gli ebrei slovacchi: fame continua, lavoro in condizioni disumane. Il testimone riferì che circa 400-500 persone morivano ogni giorno nel campo, "metà per cause naturali", e che le famiglie erano state divise, a dispetto delle promesse fatte prima della deportazione. Egli scrisse che la notte non poteva dormire perché tormentato dal dubbio: che cosa era capitato alla sua fidanzata e ai suoi genitori? E concludeva dicendo che adesso il suo compito principale era quello di raggiungere la Slovacchia e di avvertire gli altri. Fuggì dal campo, e in pochi giorni, alla fine di giugno o ai primi del luglio 1942, tornò in Slovacchia. Da resoconti come questi i dirigenti dell'ebraismo slovacco trassero la conclusione che, mentre la situazione era disperata, la maggior parte dei loro parenti e amici erano ancora vivi. Si mossero per stabilire dei contatti. Con l'aiuto di ebrei e non ebrei che vivevano in città di confine come Presov, Kezmarok, Cedca e Stara-Lubovna, furono mandati ai deportati dei corrieri con denaro, oggetti di valore e cibo. Le distanze non erano grandi: Auschwitz si trovava soltanto a circa 60 chilometri dal confine slovacco. I controlli di frontiera non erano troppo rigorosi e a volte, in pochi giorni, arrivavano messaggi scritti dai deportati in cui dicevano di aver ricevuto quell'aiuto vitale (28). Nello stesso tempo i dirigenti ebrei e slovacchi corruppero alcune figure chiave dell'amministrazione slovacca e

perfino della Gestapo. Stabilirono contatti con le organizzazioni di soccorso ebraiche in Svizzera e visitarono ripetutamente l'Ungheria. Nel 1943 riuscirono perfino a far entrare interi gruppi di ragazzi e di bambini dalla Polonia in Slovacchia. Fra questi dirigenti si mostrarono di eccezionale valore il rabbino Weismandl e Gisi Fleischmann, una straordinaria donna di Bratislava che all'inizio della guerra aveva mandato i propri figli in Palestina, ma lei era rimasta per dirigere le operazioni di soccorso. Ma malgrado il loro eccellente servizio informazioni non furono evidentemente a conoscenza per molto tempo del fatto che lo sterminio era totale. Un giorno del novembre 1942 il rabbino Weismandl entrò nell'ufficio di Gisi Fleischmann e in uno stato di grande agitazione le disse che aveva appena ricevuto delle notizie dai corrieri che erano ritornati: centinaia di deportati erano stati deportati "ancora più a est". Ma la maggior parte di loro non sarebbe probabilmente sopravvissuta al viaggio; si trovavano in pericolo mortale. Ma anche allora la tragedia non fu compresa in tutta la sua dimensione, né sembra che i dirigenti ebrei slovacchi fossero a conoscenza delle camere a gas di Auschwitz, il campo principale. Eppure un primo trasporto dalla Slovacchia di circa 1500 persone era stato eliminato in queste camere a gas già il 12 maggio 1942. I dirigenti ebrei slovacchi e, in misura minore, i dirigenti di movimenti giovanili ebraici polacchi erano in continuo contatto, durante la guerra, con due degli emissari sionisti a Ginevra, il dottor Silbershein e Nathan Schwalb, il rappresentante dell'"Hehalutz" (il gruppo pionieristico sionista). Alcune di queste comunicazioni si trovano negli archivi di Yad Vashem (per esempio le lettere di Gisi Fleischmann-M-20/93), mentre altre sono di proprietà del signor Schwalb. Ma finora non sono state rese accessibili agli storici. Ho trovato copie di alcuni di questi rapporti negli archivi della Croce Rossa Internazionale a Ginevra. Da essi emerge che in Slovacchia alla fine dell'estate del 1942 si sapeva già, ma non si accettava, che coloro che erano stati deportati non sarebbero ritornati. Secondo un lungo resoconto scritto probabilmente da Gisi Fleischmann a Bratislava (27 luglio 1942), i dirigenti ebrei slovacchi avevano cercato di rintracciare i propri compatrioti che erano stati deportati in Polonia, ma soltanto di 2000 su 60 mila avevano scoperto il luogo di destinazione. Riferirono anche che c'era un alto tasso di mortalità, che la situazione era tragica e che c'era motivo di grandissima preoccupazione. Ma ovviamente non avevano ancora sentito parlare dei campi di sterminio: Auschwitz è menzionato, ma vi si allude chiaramente come a un campo di lavoro. Lettere successive, datate 27 agosto e primo settembre 1942, dipingono un quadro simile. Ma allo stesso tempo è del tutto evidente che chi scriveva queste lettere sapeva che nessuno sarebbe ritornato dalla Polonia. Così si legge nella lettera del 27 agosto: "Le notizie che abbiamo appena ricevuto dai nostri emissari [in Polonia] sono uniche nella storia... Abbiamo perduto 60 mila ebrei e io chiedo solamente che i rimanenti vengano salvati... Il pensiero che le morti in massa continuino senza interruzione ci fa impazzire... Penso che molto difficilmente potremo rivedere i nostri compagni". Come possiamo spiegare queste ovvie contraddizioni? I dirigenti ebrei slovacchi avevano detto anche prima dell'inizio delle deportazioni che esse significavano una morte certa. Già nel luglio 1942 circolavano diffusamente in tutta l'Europa orientale voci secondo le quali gli ebrei venivano uccisi in grandissimo numero e "saponificati" (29). Ma perfino Weismandl e Gisi Fleischmann si rifiutavano di accettarlo. In una lettera al comitato di soccorso palestinese a Istanbul, Gisi Fleischmann scrisse nell'aprile 1943 che essi avevano sentito nel luglio 1942 che dopo un'altra grande "purga" i deportati in Polonia erano stati mandati ancora più a est. Ma malgrado "incredibili sforzi", malgrado il fatto che alcuni emissari li cercassero senza sosta, non ne avevano trovato traccia. Soltanto nel febbraio 1943 si

era saputo che centinaia di migliaia di ebrei erano scomparsi nella regione di Rawa Ruska-Przemysl. Alcuni sopravvissuti erano stati trovati nascosti nelle foreste. Nelle sue lettere precedenti Gisi Fleischmann aveva effettivamente usato il termine "distruzione fisica" ("Vernichtungsaktion"). Ma anche questa saggia e coraggiosa donna si rifiutò di accettare l'ineluttabilità della morte. C'erano sempre alcuni raggi di speranza. Alcuni trasporti erano stati inviati in campi di lavoro; molti prigionieri erano effettivamente ancora vivi alla fine del 1942 e anche nel 1943. Se qualcuno era sopravvissuto, forse anche altri erano vivi da qualche parte e perciò la ricerca delle tracce dei deportati continuava. Non c'erano stati fino ad allora testimoni oculari; nessuno era ritornato in Slovacchia da un campo della morte. Così fu soltanto nel 1944, quando Rudolf Vrba e Alfred Wetzler arrivarono con notizie molto dettagliate sul più grande di tutti i campi della morte, che le "voci" divennero una certezza (f). A quel tempo la maggior parte dei campi della morte aveva già cessato di funzionare. Non è che le informazioni non esistessero, ma, come scrisse in seguito Oscar Neumann, un altro dirigente ebreo slovacco, "c'era nei nostri cuori una totale resistenza a credere alle notizie... Certo, c'erano state alcune voci sulle terribili storie di Auschwitz, ma volavano intorno a noi come pipistrelli nella notte, non erano tangibili...". Ma non potevano esserci informazioni più tangibili in quelle circostanze. Le lettere in cui si comunicava di aver ricevuto denaro o cibo avevano smesso di arrivare già da molto tempo; non c'erano altri segni di vita. Ma questa era una prova puramente negativa e perciò non convincente: forse da qualche parte, lontani, impossibilitati a scrivere, molti parenti e amici erano ancora vivi. La Slovacchia era stato il primo paese satellite a partecipare alla soluzione finale. Le deportazioni dalla Francia, dall'Olanda e dal Belgio, dalla Germania, dall'Austria e dal Protettorato ceco iniziarono fra il giugno e l'agosto 1942. Cosa si sapeva fra gli ebrei di questi paesi sull'ultima destinazione dei trasporti? Essi vivevano lontano da Treblinka, Belzec e Auschwitz; questi nomi non significavano nulla. Ma tuttavia ci fu profonda preoccupazione fin dall'inizio. In Germania circolavano "voci" basate su lettere e cartoline provenienti dall'est che coloro che erano stati mandati a Riga e in altri ghetti erano scomparsi e che erano stati chiaramente uccisi. Secondo le spiegazioni ufficiali la deportazione significava semplicemente il rinsediamento in Europa orientale. Erano state date istruzioni di non usare il termine deportazione, ma quello di "mobilitazione di lavoratori" ("Arbeitseinsatz"). Era implicito che coloro i quali venivano trasportati all'est avrebbero lavorato nell'agricoltura e nell'industria e forse alla fine avrebbero goduto di una certa autonomia. Per un certo periodo di tempo questa versione sembra che sia stata ampiamente creduta. Testimoni oculari tedeschi, che erano presenti quando i treni carichi di ebrei "preparati per la nuova vita" arrivavano dal Reich nel novembre 1941 a Minsk, Riga e Lodz, si stupivano che essi "lavorassero senza preoccuparsi minimamente del loro futuro, che si considerassero come pionieri da essere utilizzati nella colonizzazione dell'est" (30). Anche gli ebrei russi e polacchi avevano reagito all'inizio nello stesso modo: secondo un rapporto delle Einsatzgruppen (datato 3 novembre 1941), "30 mila ebrei si radunarono (in seguito a un appello), e grazie a un'organizzazione abilissima credettero ciecamente nel loro imminente trasferimento". Norbert Wolheim, che era stato un importante dirigente della gioventù e che era in stretto contatto con varie personalità ebree di Berlino, riferisce di non aver mai sentito parlare di Auschwitz (e degli altri campi della morte) fino al giorno in cui, nel marzo 1943, vi arrivò con la sua famiglia. Egli era stato in contatto con ebrei che avevano fatto un matrimonio misto e ai quali era stato permesso di tenere i propri apparecchi radio e che ascoltavano le stazioni straniere, cosa, ovviamente, rigorosamente proibita. Ma la B.B.C., la principale fonte

di informazioni a quell'epoca, menzionava i campi soltanto raramente. Anche se le notizie erano state ascoltate, non erano state credute (31). Alcuni ebrei ricevettero informazioni direttamente da amici o conoscenti tedeschi; la separazione tra ebrei e tedeschi non era completa neppure in tempo di guerra. Il caso del dottor Herman Pineas, un medico ebreo di Berlino, non fu unico. Egli ricevette una lettera, scritta da un ex funzionario socialdemocratico in servizio sul fronte orientale, nella quale si diceva che tutti gli ebrei dei territori russi occupati venivano fucilati dopo essere stati costretti a scavarsi la propria fossa. La lettera era stata mandata a Paul Loebe, già capo del gruppo socialdemocratico al Reichstag (e per diversi anni presidente del Reichstag), che l'aveva passata al dottor Julius Moses, che era stato a sua volta un membro del Parlamento tedesco. Moses e Pineas erano amici e vivevano nello stesso stabile. Pineas tradusse la lettera e la consegnò all'ambasciata americana a Berlino, dove arrivò due giorni prima di Pearl Harbor. Durante l'ultima settimana del 1941 Pineas ricevette la visita del dottor Erwin Rehwald, un giovane medico che era stato suo assistente e che allora prestava servizio in Russia come medico nell'aviazione tedesca. Egli confermò le notizie contenute nella lettera inviata a Loebe (g). C'era una grande paura e non solo perché a nessuno piace essere sradicato e perdere i propri beni. Lettere spedite in questo periodo (estate e autunno 1942) menzionano le medesime ansie: non abbiamo avuto notizie dai deportati, nessuno ha avuto notizie, neppure nelle altre città del Reich (32). A Berlino centinaia di ebrei si suicidarono, migliaia si nascosero. In parte, queste paure riguardavano le condizioni generali nell'Europa orientale: alloggiamenti precari, malattie, fame. Si temeva che la maggioranza di coloro che dovevano andarsene non avrebbero sopravvissuto per molto. Né aveva un senso la selezione eseguita dalla Gestapo. Perché, se lo scopo era quello di impiegare gli ebrei nell'agricoltura e nell'industria nell'est, come spiegare che proprio quegli ebrei che lavoravano in fabbriche e fattorie furono lasciati in Germania almeno all'inizio? Questi dubbi aumentarono dopo l'agosto e il settembre 1942, in parte come risultato delle trasmissioni radiofoniche straniere, in parte a causa dei racconti fatti dai soldati in licenza dal fronte orientale. I dirigenti della "Reichsvereinigung", la massima organizzazione ebraica, ne sapevano di più? Secondo un resoconto, Leo Baeck, figura centrale dell'ebraismo tedesco, fu avvertito nell'agosto 1943, sette mesi dopo la sua deportazione da Berlino, da un certo signor Gruenber, suo compagno di prigionia a Theresienstadt (che non era un campo della morte), che ad Auschwitz, ad eccezione di coloro che servivano per i lavori forzati, gli ebrei venivano immediatamente gassati. "Così non era una semplice voce", pare che abbia risposto Baeck (33). Baeck, sempre secondo la stessa fonte, fu estremamente incerto se considerare suo dovere informare il Consiglio degli anziani, ma alla fine decise che nessuno doveva esserne a conoscenza. Perché, se il Consiglio degli anziani ne fosse stato informato, l'intero campo l'avrebbe saputo in poche ore. "Vivere nell'attesa della gassazione sarebbe stato soltanto più duro e questa morte non era affatto certa; c'erano selezioni per i lavori forzati; forse non tutti i trasporti andavano ad Auschwitz. Così presi la grave decisione di non dire a nessuno...". Questo resoconto è stato messo in dubbio da alcune persone che conoscevano bene Baeck. Se le notizie su Auschwitz avessero raggiunto Theresienstadt nel 1943 e anche se Baeck avesse deciso di mantenere il silenzio (cosa che secondo i suoi amici non sarebbe stata in linea con il suo carattere), nulla avrebbe impedito a Gruenberg di parlarne con altri. In questo modo ognuno ne sarebbe venuto effettivamente a conoscenza in poco tempo; ma sembra certo che la maggior parte dei prigionieri non sapesse nulla. E' probabile che l'intera verità su questo fatto non verrà mai saputa. La maggior parte di coloro che si trovavano in posizioni importanti devono aver sentito delle voci, ma, come abbiamo ripetuto anche troppe volte, c'erano molte voci, sia

buone che cattive, durante la guerra. Georges Wellers scrisse che fra gli ebrei francesi a Drancy, il principale campo di transito per Auschwitz, per quanto possa apparire strano, non si conobbe fino alla fine la sorte dei deportati. E' vero che si sapeva che radio Londra aveva trasmesso storie orribili sulle camere a gas, ma si poteva non crederci. Si pensava che queste fossero esagerazioni della propaganda inglese e non vi si prestava molta attenzione (h). Perfino Jacob Kaplan, il rabbino capo, scrisse dopo la guerra che soltanto all'inizio del 1944 non ci fu più alcun dubbio che Hitler intendeva sterminare tutti gli ebrei. Una tale ignoranza sembra giustificare la tesi sostenuta da chi afferma che c'era segretezza totale, che nessuno poteva aver saputo e che quanti dichiarano adesso di essere stati informati parlano con il senno di poi. Ma la documentazione storica non lo conferma. Verso la fine dell'agosto 1942 il "Consistoire", la massima organizzazione ebraica francese, inviò un appello a Laval nel quale si diceva che secondo precisi rapporti centinaia di migliaia di ebrei erano stati massacrati nell'Europa orientale e che lo scopo delle deportazioni non era quello di far lavorare gli ebrei, ma di sterminarli "impitoyablement et méthodiquement" (34). Si può forse obiettare che gli estensori di questo appello non credessero alle loro parole; se le cose stavano così, perché avrebbero dovuto scriverlo? Per ripeterci ancora una volta, le informazioni esistevano, ma esisteva anche un meccanismo psicologico di soppressione. In Olanda c'era apprensione, ma anche qui non c'erano certezze. Come scrisse dopo la guerra il professor Cohen, capo del consiglio ebraico di Amsterdam: "Il fatto che i tedeschi avessero commesso delle atrocità nei confronti degli ebrei polacchi non implicava che si sarebbero comportati nello stesso modo con gli ebrei olandesi: in primo luogo perché i tedeschi avevano sempre disprezzato gli ebrei polacchi, e in secondo luogo perché nei Paesi Bassi, a differenza della Polonia, essi dovevano considerare attentamente l'opinione pubblica" (35). Al settembre 1942 già circa 15 mila ebrei olandesi erano stati deportati nell'Europa orientale. E' vero che erano arrivate alcune decine di lettere, ma ciò non era certo abbastanza per mettere a tacere i timori. Radio Oranje, la stazione olandese a Londra ascoltata da molti olandesi, aveva annunciato il 27 giugno che 700 mila ebrei erano stati uccisi. Già prima il giornale clandestino comunista "De Waarheid" (giugno 1942) aveva scritto che in alcuni territori come in Ucraina neanche un ebreo era sopravvissuto; uomini, donne, bambini e vecchi erano stati sterminati completamente. Nel suo ampio studio, un modello di storiografia contemporanea, de Jong ha analizzato la documentazione allora disponibile in Olanda. I discorsi dei capi nazisti, sia tedeschi che olandesi, lasciavano poco spazio al dubbio. Secondo rapporti interni della Gestapo, volontari olandesi di ritorno dalla Russia parlavano liberamente del bestiale assassinio di ebrei (36). Alcuni uomini e donne olandesi che erano stati prigionieri ad Auschwitz ritornarono nel 1942; S.S. e prigionieri (!) dello stesso campo furono mandati a lavorare in Olanda per costituire nuovi campi; un olandese che era stato in Ucraina si lamentò in una lettera con Mussert, capo del partito nazista olandese, delle atrocità a cui aveva assistito. Vedendo la situazione retrospettivamente, moltissime persone, sia non ebrei che ebrei, avevano sentito parlare dei massacri in Europa orientale. Per ogni caso che può essere documentato ce ne furono probabilmente molti di più dei quali non è rimasta nessuna documentazione. Alcune persone possono aver rifiutato subito "le voci", ma molti furono almeno profondamente turbati. Le deportazioni continuavano e mentre cresceva il numero degli ebrei che non si presentavano ai centri di raccolta, ma si nascondevano, la maggioranza arrivava ancora alla stazione dopo aver ricevuto per posta un avviso. Ciò porta all'inevitabile conclusione che malgrado tutti i timori

sulle deportazioni, la maggior parte degli ebrei olandesi non aveva sentito parlare o non aveva voluto sentir parlare dei campi della morte. Un anno dopo fu la volta degli ebrei danesi e greci e due anni dopo di quelli ungheresi. Ma la reazione fu la stessa. Gli ebrei danesi ebbero la grande fortuna di ricevere un risoluto avvertimento sull'imminente "azione". Ma dapprima lo considerarono come un atto di provocazione, malgrado il fatto che l'avvertimento provenisse da capi della resistenza la cui competenza e integrità erano fuori da ogni dubbio. David Sompolinsky, un importante membro della comunità danese, cercò in seguito di fornire una risposta: "Non comprendevamo la situazione. Malgrado tutte le indicazioni di un'imminente azione contro gli ebrei noi continuavamo a essere scettici. Questo era il paese in cui ero cresciuto, dove ero in armonia con tutti; non avevo nessun tipo di contatto con soldati tedeschi, ed era irragionevole supporre che essi, senza una ragione, senza una traccia di giustificazione morale, avrebbero arrestato e deportato cittadini del mio paese. Ma teoricamente sapevamo che era possibile e che era accaduto in altri paesi, ma non potevamo abituarci all'idea che ciò potesse accadere anche a noi. Disumanità, brutalità, assenza di ogni considerazione per i sentimenti umani e di ogni senso di giustizia: era incredibile che della gente potesse essere capace di tutto ciò" (37). Sompolinsky racconta come verso la fine del servizio religioso per il nuovo anno ebraico nel 1943, che ebbe luogo in case private, apparve un giovane danese che cominciò a spiegare tranquillamente che gli ebrei dovevano scomparire immediatamente, perché i tedeschi avrebbero potuto arrestarli entro le prossime ore. Ma tutti i presenti avevano già sentito tali storie e non ne furono grandemente impressionati. Allora si ebbe un improvviso cambiamento nel comportamento del giovane: "Con voce fioca ci chiese di lasciare la casa... ci pregò di credergli e se ne andò con le lacrime agli occhi". Fu soltanto allora che la maggior parte degli ebrei cominciò a considerare la possibilità che ci fosse qualcosa di vero in quelle voci. Non erano ancora del tutto convinti, ma andarono a nascondersi nelle campagne e poi fuggirono in Svezia. Questi furono i fortunati. La grande maggioranza degli ebrei greci non fu salvata, e anche centinaia di migliaia di ebrei ungheresi morirono nel 1944. La maggior parte degli ebrei europei erano già morti da molto tempo; il fatto era stato menzionato in trasmissioni radiofoniche e nella stampa clandestina di tutta Europa. Ma ancora prevaleva la speranza che ciò che era accaduto altrove non sarebbe necessariamente accaduto nel proprio paese. Gli ebrei polacchi credettero per molti mesi che i massacri si sarebbero limitati alle aree dell'Unione Sovietica occupate dai nazisti. Quando le "azioni" cominciarono all'interno della Polonia, molti pensarono che queste fossero operazioni individuali non autorizzate, intraprese di loro propria iniziativa da comandanti locali. Dopo che interi ghetti erano già stati liquidati, a Varsavia si pensava ancora che i nazisti non avrebbero osato uccidere centinaia di migliaia di ebrei nella capitale. Quando le deportazioni iniziarono a Varsavia si pensò che soltanto coloro che non lavoravano nelle officine e nelle fabbriche connesse con lo sforzo bellico sarebbero stati colpiti. Fra gli ebrei tedeschi e austriaci si credeva che mentre i nazisti erano effettivamente capaci di commettere ogni concepibile crudeltà nei confronti degli ebrei russi e polacchi, che consideravano come una specie inferiore, essi avrebbero trattato diversamente gli ebrei del loro "Kulturkreis" (ambito culturale). Gli ebrei francesi, italiani, olandesi erano invece convinti che i nazisti avevano sempre odiato e disprezzato i loro ebrei (tedeschi), ma che non avrebbero necessariamente trasferito questi sentimenti agli ebrei europei occidentali che appena conoscevano. E così via... La strategia dell'inganno ebbe anch'essa ovviamente una certa importanza. Hitler, Goebbels e altri capi nazisti avevano minacciato

gli ebrei di estinzione, ma ciò avrebbe potuto significare moltissime cose oltre che lo sterminio: emigrazione forzata nel Madagascar o in Patagonia o in qualche altro posto. Fino a oggi non è stato trovato nessun ordine scritto di Hitler di uccidere gli ebrei europei; con tutta probabilità non ci fu nessun ordine scritto. Durante la guerra Himmler spiegò che l'intera faccenda doveva essere tenuta nella massima segretezza e che per questa ragione se ne dovevano occupare le S.S. e non la burocrazia di stato. Termini come "uccisione" non furono usati neanche alla conferenza di Wannsee nella quale venne discussa l'organizzazione preparativa dello sterminio. Si parlò sempre di "soluzione finale", "rinsediamento", "trattamento speciale", "mobilitazione di lavoratori". Funzionari nazisti fuori della Germania mettevano in evidenza nei loro contatti con ebrei e non ebrei che all'inizio la vita nell'est sarebbe stata dura ma sana, produttiva e infine remunerativa. Quando nel 1942 le notizie sui massacri cominciarono a circolare fuori della Germania, Fritz Fiala, direttore del "Grenzbote", organo dei "Volksdeutschen" in Slovacchia, fu inviato da Eichmann a visitare alcuni degli ebrei che erano stati "rinsediati" nell'est. Il suo articolo, pubblicato in tutta Europa, mostrava fotografie di un caffè ebraico con un poliziotto ebreo davanti, un gruppo di infermiere ebree sorridenti e di giovanotti ben nutriti (38). Secondo Fiala tutti gli ebrei con i quali aveva parlato erano contenti del loro destino: "Tutte le loro paure erano scomparse, non uno dei loro argomenti [contro la deportazione] era risultato giustificato". Uno di loro arrivò perfino a dirgli: "Vorrei che il mondo intero sapesse con quanta umanità la Germania ci ha trattato qui". Sebbene Fiala non menzionasse il nome del campo, in realtà si trattava di Auschwitz, come risultò da testimonianze postbelliche (39). Ci furono altri mezzi di disinformazione. Quando, a guerra inoltrata, i dirigenti slovacchi, leggermente turbati, fecero menzione con i tedeschi delle "incredibili voci" sul destino degli ebrei evacuati, pretendendo di non avere nessuna idea su ciò che accadeva loro in Polonia, Eichmann fece riferimento alle mille e più lettere e cartoline da parte di ebrei evacuati ricevute in Slovacchia nei due mesi precedenti. Questa tecnica era stata usata fin dall'inizio. Quando arrivavano nei campi della morte, gli ebrei deportati venivano consigliati (e a volte costretti) di scrivere lettere, generalmente non datate, ai loro familiari e amici: avevano cibo in abbondanza, l'alloggio era soddisfacente, il loro stato di salute eccellente. L'invio di queste cartoline e lettere veniva suddiviso nell'arco di diversi mesi dalle autorità del campo; parecchie decine ne arrivarono ogni mese in Olanda o in altri paesi stranieri anche molto tempo dopo che coloro che le avevano scritte erano morti. Ma alcuni dei deportati sopravvissero altri tre o anche altri sei mesi ad Auschwitz; erano stati selezionati per lavorare in fabbrica, o ai servizi, o forse nell'orchestra. Anche loro continuavano a scrivere e quindi c'era una continua corrispondenza. Ogni messaggio di questo genere aveva una grande eco: se qualche amico o parente era ancora vivo, forse lo erano anche altri. Forse erano semplicemente troppo occupati per scrivere. Come scrisse Jacob Presser, l'autorevole storico ebreo olandese, "per coloro che volevano credere al meglio, e crederlo a ogni costo, fu detto che le lettere pesassero sulla bilancia molto di più di tutte le voci sulle minacce tedesche di 'sterminio'" . Fra il luglio 1942, quando iniziarono le deportazioni, e l'ottobre 1943, un totale di 1700 lettere e cartoline erano state ricevute in Olanda dai campi nell'est. Ciò significa che soltanto una famiglia su dieci aveva scritto, e una sola volta. A questo punto i presentimenti avrebbero dovuto diventare certezze. Ma non lo diventarono: i meccanismi psicologici di difesa erano troppo forti. De Jong menziona il caso di Leo Laptos, un prigioniero polacco che aveva lavorato come farmacista ad Auschwitz-Birkenau e che poi era stato trasferito in Olanda dove aveva raccontato al dottor Van der Hal, un prigioniero del campo di Vught, che quando i trasporti di ebrei raggiungevano Auschwitz la maggior parte veniva immediatamente gassata e cremata.

Egli fornì particolari sul procedimento seguito. Quando Van der Hal fu trasferito in un altro campo egli informò diversi medici ebrei, ma l'impressione che ne ricevette fu "che essi si rifiutavano semplicemente di credermi, sebbene fossero visibilmente scossi dalle notizie" (40). Quando questo caso emerse in un processo del dopoguerra, due dei tre medici interrogati non si ricordavano di aver mai discusso la cosa con Van der Hal. I medici, più di altre persone, vengono frequentemente in contatto con la morte e devono essere coscienti della caducità dell'esistenza umana; ma se anche dei medici caddero vittima di autoillusione è facile comprendere la reazione degli altri. La tendenza a non accettare realtà spiacevoli si può trovare in maggiore o minore misura nella maggior parte dell'umanità. La sindrome di rifiuto si verifica frequentemente in presenza della morte. Per citare un illustre medico: "Un'adeguata consapevolezza della situazione non è di ostacolo al meccanismo di rifiuto. Pochi desiderano avere costantemente in mente il pensiero che la morte stia sopraggiungendo. Dopotutto, non è del tutto certo che moriranno, e non c'è nessuna ragione perché cattivi presentimenti non debbano essere smorzati da qualche consolante incoerenza" (41). Il rifiuto della realtà si manifestava nella propensione a credere a voci, sebbene incredibili, così come nel non volere parlare della morte, presumendo che parlarne, l'avrebbe in qualche modo avvicinata. C'erano continue voci che presto la guerra sarebbe finita, che Hitler sarebbe morto, che gli Alleati avrebbero usato qualche arma miracolosa, che a tutti gli ebrei sarebbe stato permesso di emigrare in Palestina (i). Il credere in queste voci può essere paragonato alla fiducia in cure miracolose da parte dei moribondi. Ma anche il confronto fra l'atteggiamento degli ebrei e la sindrome di rifiuto dei moribondi è fuorviante: il rifiuto di arrendersi, la vana speranza dei moribondi può essere preferibile alla totale disperazione. La situazione degli ebrei che non erano partiti dopo le prime ondate di deportazione era diversa. Alcuni di loro sopravvissero; altri sarebbero rimasti in vita se avessero respinto la falsa speranza e accettato la realtà, per quanto terribile. Può essere che gli ebrei danesi od olandesi o francesi vivessero veramente all'oscuro e che quindi non si sia trattato di un caso di rifiuto della realtà? Ciò sembra essere vero riguardo alla maggior parte di essi. Ma più la gente viveva vicino ai campi della morte e prima doveva sapere. Gli ebrei russi, tagliati fuori dal mondo esterno e isolati, non erano a conoscenza degli scopi delle Einsatzgruppen. Ma dopo alcuni mesi le notizie si erano diffuse e nell'estate del 1942 si sapeva abbastanza in Polonia per rendere il genocidio almeno un'ipotesi probabile. E' vero che queste erano soltanto voci, ma erano persistenti e provenivano da molte fonti. E' anche vero che le voci non avevano raggiunto tutti, ma fra i dirigenti della comunità e fra le persone colte non potevano essere molti coloro che non le avevano sentite. Nel caso di un individuo morente una maggiore determinazione non evita la morte. Nel caso dell'ebraismo esteuropeo l'accettazione della realtà avrebbe potuto indurre più gente a fuggire o a resistere. La maggior parte sarebbe comunque morta, ma in minor numero. Molti rimproveri sono stati fatti ai dirigenti delle comunità che sapevano più degli altri sulla soluzione finale. Per quanto sappiamo alcuni di loro furono vittime della sindrome di rifiuto della realtà, mentre altri avevano accettato la realtà, ma adottarono quella che sembrava loro l'unica strategia possibile, e cioè quella di far passare il tempo, e che alla fine risultò inutile. In un passo che contiene tutto ciò che si può dire su questo argomento, Louis de Jong ammette che la cosa è molto difficile da spiegare alle nuove generazioni che studiano la storia nei manuali, i quali non possono far altro che distorcere la realtà di quei terribili giorni:

"Hitler lo aveva detto chiaramente: che venga la guerra e l'intero ebraismo europeo sarà sterminato. E la guerra era venuta. Perché allora nessuno ne trasse la giusta conclusione? Per noi è facile domandarcelo, ricordando, come facciamo, i campi di sterminio tedeschi e le camere a gas, e liberi come siamo dalle tremende tensioni psicologiche della guerra, soprattutto dalla paura, dalla mortale paura nella sua espressione più cruda. 'Le soleil ni la mort peuvent se regarder fixement', scrisse La Rochefoucauld, ma egli pensava solamente all'uomo come singolo individuo. Le camere a gas, invece, significarono morte - e che morte! - non solo per gli individui, ma per tutti coloro che essi amavano: i loro genitori e nonni, i loro figli e nipoti, i loro parenti e amici. Deve essere stato davvero piccolo il numero di coloro, fra i milioni di uomini condannati a morte, che poterono affrontare la terribile realtà. E commetteremmo un grandissimo errore storico se dovessimo considerare i principali meccanismi di difesa impiegati dalle vittime - non costantemente tuttavia, ma come intermittenti segnali di pericolo - come semplici sintomi di cecità e follia; questi meccanismi di difesa provenivano piuttosto da profonde e innate qualità condivise da tutta l'umanità: l'amore per la vita, la paura della morte, e una comprensibile incapacità ad afferrare la realtà del più grande crimine nella storia dell'umanità" (42). Se gli ebrei dell'Europa occupata dai nazisti avessero bisogno di una difesa nel tribunale della storia, il caso non potrebbe essere esposto più concisamente e meglio. Ma chi c'è per giudicarli? Non certamente coloro che sopravvissero perché erano al sicuro lontano da Hitler, o coloro nati dopo la seconda guerra mondiale: essi non potrebbero capire. Ma neanche coloro la cui esperienza di vita non è stata così lontana in spazio o tempo possono fornire spiegazioni soddisfacenti se non per alcuni degli interrogativi che emergono dalla catastrofe. Altri rimarranno, forse per sempre, inspiegabili.

NOTE AL CAPITOLO 5. (a) Fu pubblicato in "Der Vecker", "Slowo Mlodych" e in altri giornali clandestini. (b) Il rapporto fu reso pubblico da Zygielbojm a Londra, apparve a New York ("The Ghetto", 5 agosto 1942) e nella stampa jiddish, e fu ristampato più volte. (c) E' stato stabilito che i tre becchini arrivarono nel ghetto di Varsavia circa quattro settimane dopo la loro fuga. Era stato chiaramente consigliato loro di recarsi nella capitale dal rabbino di Grabow (non lontano da Chelmno), che avevano incontrato in precedenza. "Oneg Shabbat" trasmise le notizie alla stampa clandestina polacca, al giornale di sinistra "Barykada Wolnosci" (vedi "Satanskie Zbrodnie Hitlera", marzo 1942) e, infine, attraverso l'avvocato Henryk Wolinski, capo della sezione ebraica alla Delegatura, esse furono trasmesse a Londra e negli Stati Uniti. Wolinski aiutò Ringelblum anche a inviare in Occidente i rapporti sullo sterminio degli ebrei a Lublino e in altre regioni (marzo-aprile 1942). Furono inviati per mezzo di un corriere e non per telegrafo perché erano rapporti piuttosto lunghi; raggiunsero Londra soltanto con un ritardo che andava da quattro a otto settimane. Vedi Ruta Sakowska, "Archiwum Ringelbluma", "Biuletyn Zydowskiego Instytutu Historycznego w Polsce", luglio-dicembre 1978, e cap. 4 supra.

(d) Ci furono altre due ondate di deportazioni nel 1942, ma colpirono un numero molto minore di ebrei. Un rapporto completo sui massacri fu pubblicato dal Congresso mondiale ebraico a New York il 27 gennaio 1942. (e) In italiano nel testo. (N.d.T.) (f) Ma nel marzo 1943 Gisi Fleischmann aveva già informato Ginevra su Auschwitz-Birkenau e Lublino e sul fatto che nessun ebreo era rimasto nell'intero Governatorato Generale (archivio di Yad Vashem M-20/93). (g) Comunicazione personale del dottor H. O. Pineas, New York, 11 febbraio 1980. Pineas decise di nascondersi a Berlino a seguito delle notizie che aveva ricevuto e sopravvisse alla guerra. (h) G. Wellers, "De Drancy à Auschwitz", Paris 1946. Ci sono infiniti rapporti di questo genere da tutta l'Europa. Michel Mazor racconta la storia di una conversazione che ebbe con un professore di storia durante la grande deportazione da Varsavia nell'agosto 1942. Stavano aspettando di essere portati via in una piccola falegnameria di via Gesia. Sapevano con assoluta certezza cosa significasse "deportazione", avevano sentito parlare di Treblinka da ferrovieri polacchi, da contadini e perfino da un ebreo che era fuggito. Ma il professore si rifiutava di accettare fatti innegabili e parlava invece dei numerosi esempi nella storia di psicosi collettive che avevano colpito gruppi di persone che affrontavano pericoli inesistenti. Michel Masor, "La cité engloutie", Paris 1955, p. 127. (i) Questo è l'argomento del romanzo di Juri Becker "Jacob the Liar", New York 1969. Jacob ha detto di avere un apparecchio radio nel ghetto e da allora deve inventare delle notizie perché la curiosità dei suoi vicini è insaziabile: "Vogliamo sapere se è vero che intendono venderci dietro riscatto. E allora dov'è il denaro? Vogliamo sapere se è vero che deve essere fondato uno stato ebraico. E allora quando? E se non è vero chi lo impedisce? Vogliamo soprattutto sapere dove sono i russi... Dicci come fanno a sfondare il fronte, che tattica usano, se trattano i prigionieri come prigionieri o come criminali, se hanno grossi problemi con i giapponesi nell'est, se gli americani possono liberarli da questo, se essi stanno invadendo l'Europa. E vogliamo anche conoscere la sorte di Kiepura e come si trova in America" (p.p. 90-91). Jan Kiepura era uno dei più importanti tenori europei fra le due guerre.

Capitolo 6. L'EBRAISMO MONDIALE: DA GINEVRA AD ATHLIT.

"Ebraismo mondiale" è un termine che è stato usato frequentemente dagli ebrei, dai loro amici e dai loro nemici. Come realtà politica non è, ovviamente, mai esistito. Quando scoppiò la seconda guerra mondiale le comunità ebraiche non erano più unite di quanto lo fossero state in passato. Esse coordinarono le loro attività internazionali durante la guerra, ma non ci fu mai una dirigenza centrale o un'unità organizzativa. I sionisti avevano i loro emissari nell'Europa non occupata, così come le varie organizzazioni non politiche di aiuto e di assistenza come il Joint Distribution Committee; i gruppi religiosi ortodossi avevano la loro piccola organizzazione che si teneva a distanza dagli altri. Non c'era nessun ente centrale che raccogliesse e vagliasse le notizie provenienti dall'Europa occupata dai nazisti. La maggior parte dei dirigenti sionisti si trovavano in Palestina ed erano quasi del tutto occupati dai pericoli che minacciavano la comunità ebraica di quel paese. Alcuni erano in America, fisicamente e psicologicamente lontani dagli avvenimenti europei; anche Chaim Weizmann, che normalmente risiedeva a Londra, soggiornò negli Stati Uniti per quasi tutto il 1942. I dirigenti sionisti pensavano anche alle possibilità future. Si rendevano conto, assai giustamente, che così come la prima guerra mondiale aveva dato al sionismo delle possibilità, ci sarebbero state altre opportunità dopo la fine della seconda guerra mondiale, ed essi volevano essere preparati. Il 1942 fu l'anno di Biltmore, il programma in cui David Ben Gurion delineò i suoi piani per uno stato ebraico. Questo progetto implicava l'immediato trasferimento di due milioni di ebrei in Palestina. Weizmann non era d'accordo su queste cifre astronomiche. Egli temeva che un quarto del popolo ebraico in Europa potesse non sopravvivere alla guerra. Ma qualunque fossero le loro divergenze, sia i "massimalisti" che i "minimalisti" in campo sionista facevano progetti per il mondo del dopoguerra. "Una casa per chi?", chiese nel febbraio 1943 il celebre scrittore ebreo Chaim Greenberg. "Per i milioni di morti nei cimiteri d'Europa?". Ma questa era una voce isolata a quell'epoca. L'unico ente esistente che univa diverse organizzazioni era il Congresso mondiale ebraico, un'associazione fra le comunità e le organizzazioni ebraiche più rappresentative, fondata (per citare la sua costituzione) "per assicurare la sopravvivenza e favorire l'unità del popolo ebraico". Era stata costituita nel 1936 in una riunione a Ginevra a cui parteciparono delegati di trentadue paesi. Il presidente era il rabbino Stephen Wise, il vecchio rappresentante politico dell'ebraismo americano; Nahum Goldmann era il presidente del consiglio esecutivo. Wise era una figura influente nella politica nazionale americana: era stato in stretti rapporti con il presidente Wilson ed era l'unico dirigente ebreo che poteva arrivare a Roosevelt. Aveva partecipato alla conferenza di pace di Versailles e vi aveva parlato a favore dei diritti degli ebrei (e degli armeni). Ma mentre era un uomo di grande fascino e forza morale, un combattente fedele di molte buone cause, la sua esperienza si basava sugli affari interni americani e c'era in lui una vena di ingenuità. Goldmann era diverso; egli aveva incontrato tutti i famosi leader del suo tempo (e non ne aveva mai fatto un segreto). Era un cosmopolita per eccellenza, ugualmente a casa propria a Berlino e Londra, a Parigi e New York. Ma malgrado tutti i suoi viaggi e il suo talento di diplomatico della vecchia scuola, politicamente lasciava a desiderare. Nel 1931 aveva contribuito a togliere a Weizmann la dirigenza del movimento sionista mondiale perché Weizmann era troppo morbido nei confronti degli arabi; all'inizio del 1933 aveva assicurato ai dirigenti ebrei tedeschi che era del tutto impensabile che la Gran Bretagna e la Francia avrebbero permesso a Hitler di prendere il potere. E c'erano stati altri giudizi sbagliati di questo tipo sia prima che dopo. Non era affatto chiaro perché le due figure principali del congresso mondiale ebraico si trovassero a New York lontane dalla scena della tragedia. Visto che Wise doveva ovviamente restarvi a causa dei suoi molti impegni e anche delle sue relazioni, il posto di Goldmann avrebbe dovuto essere a Londra. Si potrebbe obiettare che

politicamente Washington era infinitamente più importante di Londra: l'ebraismo inglese non aveva mai rappresentato un importante fattore politico, né aveva prodotto in tempi recenti dirigenti comunitari di statura comparabile a quella di un Brandeis o di un Wise. Ma nonostante tutto ciò Londra era un importante posto di ascolto e anche la sede più adatta per lanciare iniziative politiche. Ma Goldmann evidentemente non credeva nella possibilità dell'azione politica. In un discorso del novembre 1941 disse che il problema dell'ebraismo europeo era più un problema di assistenza che un problema politico. L'intervento politico era inutile perché la maggior parte dei governi erano praticamente burattini nelle mani della Germania (a). Questa era una strana affermazione da parte dell'uomo al quale gli altri guardavano perché intraprendesse azioni politiche. Era anche in contraddizione con dichiarazioni fatte all'inizio della guerra quando aveva solennemente annunciato che a meno di un immediato intervento politico per salvare l'ebraismo europeo, "la nostra generazione avrà una terribile responsabilità di fronte alla storia ebraica" (1). Ovviamente non è che Goldmann non si preoccupasse dell'ebraismo europeo. Il fatto era che, malgrado tutti gli incontri ad alto livello, il suo intuito politico non era veramente molto profondo, minore comunque di quello di Richard Lichtheim che ben presto si rese conto (e lo ripeteva in quasi ogni lettera da Ginevra) che l'unico modo concepibile per salvare almeno una parte dell'ebraismo europeo era precisamente quello di esercitare la massima pressione sui paesi satelliti. Così, quando le prime notizie sui massacri raggiunsero Londra alla fine del 1941 e nel 1942, tutte le principali figure dell'"ebraismo mondiale" erano lontane e nessuno era bene informato. La sezione britannica del Congresso mondiale ebraico, dove alcune delle prime notizie vennero ricevute, era diretta dalla marchesa Eva di Reading, la figlia di Alfred Mond. Una signora dell'alta società dotata di spirito sociale e con alcuni contatti politici, esperta nella protezione dell'infanzia, ma, inutile dirlo, senza effettivi poteri. I segretari della sezione londinese erano Noah Barou e Alex Easterman, il primo specialista di economia cooperativistica. Il capo del dipartimento per gli affari internazionali di New York era Maurice Perlzweig, che aveva fatto studi rabbinici; inoltre egli era del tutto nuovo in quel lavoro essendo stato trasferito da Londra a New York nel 1942. Tutti questi erano uomini competenti e infaticabili, ma essi per primi avrebbero ammesso che non avevano i mezzi per fronteggiare avvenimenti di una tale enormità e che, ovviamente, nessuno avrebbe potuto prevedere. Sidney Silverman, membro laburista di sinistra del Parlamento, era presidente della sezione britannica del Congresso mondiale ebraico; uomo ingenuo come Stephen Wise, ma combattente nato, sembra aver intuito che l'ebraismo europeo si trovava di fronte a una catastrofe mai verificatasi nella sua storia e che quindi bisognava reagire rapidamente. Molto si è scritto sulla soppressione del telegramma Riegner da parte del dipartimento di stato. Ma per inettitudine le notizie vennero soppresse dai dirigenti ebrei a New York, a Londra e perfino a Gerusalemme per molto più tempo. Come scrisse Stephen Wise al presidente Roosevelt nel dicembre 1942: "Sono riuscito, insieme ai capi delle altre organizzazioni ebraiche, a non portarli [i telegrammi sui massacri sistematici] a conoscenza della stampa" (2). C'erano stati attendibili resoconti già prima del telegramma Riegner, ma erano stati tutti ignorati. I dirigenti dell'Agenzia ebraica e del Congresso mondiale ebraico erano sommersi d'informazioni da parte dei loro rappresentanti. Ma essi non capivano ciò che leggevano e non credevano ai propri informatori. La sorte dei rapporti da Ginevra di Richard Lichtheim sarà esaminata in seguito. Furono letti a Gerusalemme, Londra e New York, ma non provocarono risonanza né azioni politiche. Il messaggio di Riegner non ebbe all'inizio una sorte migliore. Sidney Silverman in un telegramma da Londra informò Wise e Goldmann del contenuto del telegramma di Riegner il 24 agosto 1942. Il primo settembre, in un altro telegramma

firmato Barou-Easterman, la sezione londinese del Congresso ebraico consigliava un'azione immediata:

mondiale

"Suggeriamo le seguenti azioni urgenti: primo, dichiarazione pubblica di importanti autorità politiche, religiose eccetera in tutti i paesi liberi; secondo, conferenza stampa; terzo, rivolgetevi al Vaticano; quarto, noi ci rivolgiamo agli Stati Uniti per ottenere una formale e categorica dichiarazione eccetera eccetera" (b). A New York la tendenza, all'inizio, fu di rendere le cose pubbliche, ma poi prevalsero altri pareri meno avveduti. Fu deciso che il rabbino Wise si dovesse rivolgere al dipartimento di stato per ricevere consigli: aveva Washington sentito qualcosa su questo argomento e che tipo di azione suggeriva? Wise e Goldmann non avevano in effetti nessun vero dubbio sull'autenticità dei rapporti. Come Perlzweig scrisse a Easterman il 3 settembre: "Il telegramma [di Riegner]... ebbe quello che posso descrivere soltanto come un effetto dirompente. Nessuno qui è disposto a dubitare che l'informazione sia almeno sostanzialmente giusta. E' disperatamente difficile sapere cosa fare. All'inizio pensammo di renderlo pubblico, ma poi ci venne in mente che quando queste notizie fossero trapelate in Europa esse avrebbero avuto un effetto demoralizzante su coloro che erano designati come vittime senza speranza. Decidemmo di cercar consiglio" (3) (c). Ma avrebbero trovato consiglio proprio al dipartimento di stato che aveva cercato innanzitutto di nasconder loro l'informazione? E' chiaro che non sapevano come reagire e volevano guadagnare un po' di tempo. Forse pensavano anche che c'era una piccola speranza che le notizie fossero dopotutto sbagliate, o almeno esagerate. Non è facile trovare una risposta a queste domande. In anni successivi la cosa diventò per molti oggetto di esame di coscienza e di recriminazione. In una lettera a un amico non ebreo, Stephen Wise scrisse nel settembre 1942: "Sono quasi impazzito per le sofferenze del mio popolo". Ma egli non scosse cielo e terra, come avevano chiesto i polacchi, e per evidente desiderio di impostare diversamente le iniziative ripose la sua fiducia in Roosevelt, che egli ammirava profondamente. Se Wise è stato ampiamente criticato, questo fu sicuramente perché era il dirigente ebreo più conosciuto in patria e all'estero. Altri dirigenti non si comportarono diversamente, liquidando le notizie provenienti dalla Polonia come macabre fantasie di un sadico pazzo, perché, come ciascuno di loro disse, tali cose non potevano accadere nel ventesimo secolo (4). Chaim Greenberg accusò il Congresso ebraico americano di criminale lentezza. Ma disse anche che esso fu l'unica organizzazione che almeno non aveva tolto lo sterminio dai suoi ordini del giorno. La colpa non era di alcuni uomini o gruppi, ma dell'ebraismo americano che aveva chiuso la propria anima in un guscio "per proteggerla dal dolore e dalla pietà. Eravamo diventati così ottusi che avevamo perduto anche la capacità di impazzire..." (5). Il dipartimento di stato, per essere giusti, fece in realtà alcune indagini, e ricevette del tutto indipendentemente alcune informazioni all'inizio di agosto. Mi riferisco soprattutto a un telegramma dell'ambasciatore americano a Stoccolma che aveva saputo dai polacchi che 60 mila ebrei erano stati uccisi a Vilna, e molti di più nella Galizia orientale e in Ucraina (6). Allora il dipartimento chiese informazioni al Vaticano: nei tempi antichi re e condottieri consultavano l'oracolo di Delfi con simili risultati. Nel frattempo gli ebrei venivano uccisi ad Auschwitz e Treblinka, Sobibor, Belzec e Chelmno al ritmo di 5-10 mila al giorno. "Aspettiamo disperatamente una vostra risposta", telegrafarono il 9 settembre Barou e Easterman. Wise e Goldmann rassicurarono un po' i colleghi a Londra: era stato loro detto che le deportazioni da Varsavia avevano per scopo quello di fornire manodopera per costruire fortificazioni al confine polacco-

sovietico (ciò fu evidentemente quello che Roosevelt aveva detto a Felix Frankfurter); bisognava aspettare il ritorno di Myron Taylor, rappresentante americano in Vaticano; e il momento scelto per rendere pubblica la cosa doveva essere opportuno. "Urge posticipazione pubblicizzazione finché giusto effetto producasi in tutta stampa americana", era il contenuto di un altro messaggio di Goldmann, Wise e Perlzweig a Londra, e il 9 ottobre in un altro telegramma annunciarono "problema riceve considerazione alte autorità cui guida essenziale. Il dipartimento profondamente comprensivo e disponibile" (7). Questa informazione sulle "alte autorità" era semplicemente falsa: né il presidente, né il segretario di stato davano peso al problema. Né era chiaro cosa significasse aspettare "finché giusto effetto producasi". E' vero che sarebbe stato molto desiderabile se il governo americano avesse confermato ufficialmente le notizie provenienti da Ginevra e se si fosse unito ai dirigenti ebrei nella loro protesta suggerendo efficaci contromisure, ma come avrebbero potuto aspettarsi anche per un solo momento che ciò potesse accadere? Credevano veramente che il dipartimento di stato fosse profondamente comprensivo? Nel frattempo i membri londinesi del Congresso mondiale ebraico, in spasmodica attesa, avevano deciso di intraprendere indagini per proprio conto: e ciò portò a un'altra tragicommedia, l'incontro con Edward Benes. Benes, il presidente esiliato della Cecoslovacchia, aveva acquisito la reputazione di essere a conoscenza più di ogni altro degli avvenimenti nell'Europa occupata dai nazisti. C'era un po' di verità: il servizio segreto cecoslovacco riceveva quasi regolarmente rapporti da un ufficiale dell'Abwehr, Paul Thümmel (A-54) che in diverse occasioni aveva fornito informazioni di una certa importanza (8). Quando fu consultato da Easterman in settembre, Benes disse che il rapporto Riegner non era soltanto falso, ma probabilmente una provocazione tedesca allo scopo di giustificare una vendetta tedesca nel caso che fosse pubblicato in Occidente. Egli sconsigliò fermamente ogni pubblicizzazione; avrebbe cercato di scoprire la verità con l'aiuto del migliore servizio segreto europeo. Ma ciò richiedeva un tempo piuttosto lungo e il 6 novembre 1942 Easterman scrisse di nuovo a Benes per avere informazioni. Benes rispose che aveva informazioni, e per giunta da due fonti diverse: i tedeschi non stavano preparando un piano per lo sterminio totale degli ebrei. Alcuni ebrei erano stati lasciati nei loro luoghi di residenza e si spostavano quasi indisturbati. Era assai probabile che il comportamento dei nazisti sarebbe diventato più repressivo con l'avvicinarsi della sconfitta, ma questo sarebbe stato vero per tutti i popoli assoggettati. Gli ebrei non avrebbero dovuto subire un trattamento speciale (9). Questa lettera fu scritta, giova ripeterlo, nel novembre 1942, un anno dopo l'inizio delle deportazioni dal Protettorato. In novembre non c'era quasi più nessun ebreo in Cecoslovacchia. I più, in realtà, non erano più vivi. A questo punto si pone la domanda se questo fu un altro fallimento dei servizi segreti o se il servizio segreto sul quale Benes basò il suo giudizio mentiva deliberatamente. Nessuna risposta definitiva può essere fornita sulla base della documentazione disponibile. Durante il 1941 la resistenza ceca fu in contatto radio con Londra attraverso diverse stazioni, ma furono tutte scoperte dalla Gestapo, l'ultima nell'ottobre 1941. Paracadutisti provenienti da Londra portarono un'altra stazione che operò dal gennaio al giugno 1942. Durante la seconda metà del 1942 gli unici contatti fra Praga e Londra sembrano essere avvenuti tramite corrieri. Una nuova stazione ("Barbora") funzionò dalla metà del novembre 1942 agli inizi del gennaio 1943, e cioè solo dopo che Benes aveva spedito la sua lettera a Easterman (10). Inoltre la Gestapo aveva avuto delle prove, all'inizio del 1942, che Thümmel era un "traditore", ed egli era stato rilasciato solo perché conducesse le forze di sicurezza tedesche dai capi della resistenza ceca (11). Ma rapporti sulla situazione nel Protettorato raggiungevano ancora Benes attraverso profughi e corrieri. Così un resoconto dettagliato era stato ricevuto nel giugno 1942 da un insegnante che era fuggito il mese prima. Questo rapporto

menzionava Auschwitz e i gas venefici, ma non c'era una sola parola sul destino degli ebrei. Lo stesso mese, Bruce Lockhart, capo dell'esecutivo per la guerra politica (P.W.E.), ricevette dal servizio segreto ceco un resoconto dettagliato sulla situazione in Cecoslovacchia, che in effetti, menzionava gli ebrei. Ma solo per lamentarsi di loro: erano gli agenti della germanizzazione, ed era opinione generale che "dopo la guerra gli ebrei non oseranno entrare in politica o prendere parte alla vita pubblica, o diventare dottori o avvocati. Se questo fatto viene trascurato esso può avere conseguenze politiche assai spiacevoli". D'altra parte il governo ceco era perfettamente a conoscenza della deportazione degli ebrei dalla Slovacchia (12). Ciò che emerge da tutto questo è che il servizio segreto ceco fu meno bene informato durante questo particolare periodo sugli avvenimenti in patria di quanto lo sia stato prima e dopo. E' anche vero che, in generale, il giudizio di Benes fu più spesso sbagliato che giusto. Ma non c'era nessun bisogno di mantenere una rete spionistica per sapere se gli ebrei cechi erano stati deportati: i giornali di Praga lo riferivano e anche l'agenzia di stampa tedesca "Dienst aus Deutschland" (13). Ma il resoconto completamente fuorviante di Benes fu superato dai fatti. Alcuni giorni dopo il sottosegretario di stato Sumner Welles convocò Stephen Wise e gli disse che le notizie dall'Europa erano essenzialmente vere. La questione se il governo americano avrebbe fatto qualcosa rimase aperta. Così, il 24 novembre, Stephen Wise convocò una conferenza stampa nella quale dichiarò di aver saputo "attraverso fonti confermate dal dipartimento di stato" che metà dei quattro milioni di ebrei che vivevano nell'Europa occupata dai nazisti erano stati massacrati in una campagna di sterminio (14). Non si poteva più, in ogni caso, ritardarne la pubblicizzazione. Due giorni prima l'Agenzia ebraica a Gerusalemme aveva ufficialmente dichiarato che le terribili notizie provenienti dall'Europa orientale erano effettivamente vere. Com'è, innanzitutto, che le informazioni avevano raggiunto le organizzazioni ebraiche? C'erano state molte decine di notizie, alcune apparentemente attendibili, altre di dubbia provenienza, ed erano giunte attraverso molti canali. Gli emissari delle organizzazioni ebraiche a Ginevra, Stoccolma e Istanbul leggevano della scomparsa degli ebrei europei nei giornali provenienti dai paesi occupati, pubblicati sia in tedesco che in altre lingue. E' vero che i giornali nel Reich trattavano assai raramente questo argomento e quelli di Belgrado e Bratislava, di Cracovia e Riga non molto spesso, ma da un'attenta lettura della stampa emergeva un certo disegno, che, almeno, ispirava gravi timori: perché, se era vero, come dicevano i giornali, che città dopo città era diventata priva di ebrei ("judenrein"), comprese alcune città con una popolazione ebraica di 100 mila o più abitanti (come Kishinev), se interi paesi erano stati "purgati", che fine avevano fatto gli ebrei? (15). Prese singolarmente, queste notizie non significavano molto, ma tutte insieme indicavano un terribile disegno. Ci fu anche un'altra fonte di informazioni più semplice, sulla quale diremo di più in seguito. Cartoline e lettere spedite dai paesi occupati dai nazisti in nazioni neutrali raggiungevano la propria destinazione. Tali messaggi potevano essere inviati perfino da molti ghetti. Impiegavano una o due settimane a raggiungere la Svizzera o la Svezia, e non molto di più ad arrivare in Spagna e in Turchia. Così il primo, o uno dei primi rapporti sulla deportazione dal ghetto di Varsavia, giunse grazie a una lettera inviata da Varsavia agli Sternbuch, i rappresentanti in Svizzera dell'ebraismo ortodosso. Riferiva che Mea Alafim (100 mila) era stato invitato dal signor Cacciatore nella sua casa di campagna "Kever" (che significa morte). Ci fu una corrispondenza piuttosto regolare fra la maggior parte dei paesi occupati e Ginevra, dove i rappresentanti delle organizzazioni ebraiche, Lichtheim, Riegner, Schwalb, Silbershein e Ullmann, avevano i loro uffici. Dopo il 1943 Istanbul diventò più importante.

Molte informazioni importanti vennero da coloro che erano fuggiti dai ghetti e dai campi della morte. C'è un'enorme letteratura di tutti i livelli su soldati alleati, marinai e aviatori che fuggirono dai campi per prigionieri. Questi libri appartengono a un genere che attrae sempre molti lettori; il coraggio e l'abilità di coloro che fuggirono da campi molto ben sorvegliati sono molto ammirevoli. Ma anche gli ebrei fuggirono. C'erano tuttavia differenze fondamentali fra ufficiali alleati che cercavano di raggiungere la Svizzera e un ebreo che tentava la stessa impresa. Il peggio che poteva capitare a un ufficiale, se ripreso, erano alcune settimane di isolamento (d); l'ebreo, invece, andava incontro a morte sicura. Una volta che l'ufficiale alleato raggiungeva la Svizzera era salvo, mentre l'ebreo, il più delle volte, veniva respinto, almeno durante la parte più critica della guerra, e cioè fino al settembre 1943. Ma è anche vero che gli ebrei non avevano nulla da perdere e continuavano a fuggire in numero considerevole in ogni direzione nella quale ci potesse essere la benché minima speranza di salvezza. Migliaia si nascosero in città, villaggi, foreste, oppure conducendo una "vita normale" dopo aver assunto un'altra identità. Ci furono fughe dall'Olanda e dalla Francia in Spagna e in Svizzera; mi riferisco all'organizzazione clandestina istituita a questo scopo da Joop Westerweel e Joachim Simon (Shushu) in Olanda e da "Croustillon" e "Pierre Lacaze" nella Francia meridionale. C'erano punti più o meno fissi dove avveniva il passaggio della frontiera: a Pau e Perpignano, vicino a Oloron e attraverso l'Andorra. Molte centinaia di ebrei fuggirono in questo modo dai paesi occupati dai nazisti. Gli ebrei dei ghetti polacchi fuggirono sia verso est (nell'Unione Sovietica) che verso sud attraverso la Slovacchia in Ungheria. C'erano contrabbandieri ebrei e proprietari di taxi e di autocarri al confine slovacco-polacco e il loro aiuto era inestimabile; le guardie di frontiera al confine ungherese potevano essere spesso comprate. Dall'Ungheria alcuni continuavano attraverso la Romania fino in Turchia e poi in Palestina. Dal 1942 il governo romeno non si opponeva più, in teoria all'emigrazione; la difficoltà principale per gli ebrei era quella che nessun paese li voleva. La tragedia della "Struma", la nave di profughi che fu silurata, è quella più conosciuta, ma non l'unica di questo genere. Ebrei della Croazia e della Francia meridionale andarono in Italia dove si sentivano ancora molto più sicuri. Un gruppo di agricoltori ebrei remò dall'isola danese di Bornholm fino in Svezia; altri cercarono di fare la stessa cosa dall'Olanda verso la Gran Bretagna. Alcuni ebrei andarono perfino a lavorare con falsi documenti nell'organizzazione nazista Todt. Venivano mandati in varie parti d'Europa e alla fine fuggirono. Un ebreo polacco che si era unito a uno di queste squadre di lavoro andò a piedi dalla Norvegia alla Svezia. Alcuni raggiunsero la Svezia, come passeggeri clandestini, da porti baltici. Ebrei tedeschi passarono a piedi il confine svizzero nel bel mezzo della guerra, a ovest del lago di Costanza. "E' un miracolo come questa gente fugga", scrisse Riegner a Goldmann nel giugno 1942. "Più di cinquanta ebrei sono arrivati qui dalla Germania durante gli ultimi due o tre mesi". Alcune decine di ebrei greci furono trasportati fuori dalla Grecia in vecchi caicchi, dalla sezione cairota di M.I.9, diretta dal tenente colonnello Tony Simmonds che era stato con Wingate in Palestina negli anni trenta. Ad alcuni ebrei fu permesso di lasciare legalmente l'Europa occupata dai nazisti anche dopo che l'America era entrata in guerra; le informazioni da loro fornite furono di considerevole importanza. Molte migliaia fuggirono e ciascuno portò qualche notizia. E' vero che a volte avevano visto molto poco come quelle due vecchie signore ebree tedesche che ebbero la buona ventura di aver acquisito in qualche modo la cittadinanza americana e che arrivarono con il "Drotningsholm" a New York alla fine del giugno 1942. Avevano appena lasciato la loro casa di Norimberga e non erano a conoscenza dei fatti della lontana Polonia. Ma anche loro avevano visto e sentito qualcosa (che di chi era stato deportato a Riga non se n'era più saputo nulla). I racconti di alcune decine, per non dire alcune centinaia di testimoni, formavano una grande quantità di informazioni su ciò che era accaduto

agli ebrei nell'Europa occupata dai nazisti. Perfino nel 1942, nel mezzo della guerra, 3733 nuovi immigrati arrivarono in Palestina. La maggior parte proveniva dall'Europa, soprattutto dai Balcani, ma anche dall'Ungheria, dalla Slovacchia e da altri paesi. 8500 arrivarono nel 1943 e 14460 nel 1944. Quasi tutti avevano una storia da raccontare (e). L'idea di raccogliere e analizzare queste testimonianze venne sia all'Agenzia ebraica che al servizio segreto militare britannico, e verso la fine del 1942 un'istituzione, coll'innocente e piuttosto vago nome di "Dipartimento per il collegamento dei vari enti" (I.S.L.D.), fu costituita a Haifa, con a capo il colonnello Teague. Gli ufficiali di collegamento ebrei erano R. Zaslani (Shiloah) e Gideon Ruffer (Rafael). Interrogando le persone arrivate di recente dall'Europa, l'I.S.L.D. raccolse molte informazioni importanti, ma l'azione sarebbe stata più efficace se fosse iniziata prima. Né avrebbe dovuto essere limitata a coloro che raggiungevano la Palestina: interrogatorii da parte degli Alleati in Spagna e in Svizzera avvennero solo sporadicamente (16). Una organizzazione simile, l'F.N.I.B. (Sezione dei servizi segreti che si occupava degli stranieri) fu costituita successivamente negli Stati Uniti, ma, chiaramente, non produsse informazioni di grande interesse nel contesto del presente studio, limitata com'era all'analisi di lettere personali provenienti dall'Europa occupata dai nazisti. Dato l'isolamento degli ebrei europei superstiti, quanto possono aver saputo coloro che erano fuggiti? Molto, come dimostra l'esempio del trasporto del 1942; esso ebbe, come verrà dimostrato, un ruolo cruciale nel persuadere la dirigenza sionista in Palestina che la vastità della soluzione finale non era stata esagerata. Inoltre, qualcuno fuggiva sempre durante un massacro. Le Einsatzgruppen e i loro collaboratori locali avevano fretta; c'era ancora tanto lavoro da fare. Alcuni ebrei fingevano di essere morti, e poi durante la notte, strisciavano via; altri saltavano giù dagli autocarri e dai treni che li trasportavano verso il luogo dell'esecuzione; alcuni riuscirono a nascondersi nelle più incredibili circostanze. Coloro che si erano miracolosamente salvati cercavano di raggiungere la più vicina comunità ebraica rimasta, e naturalmente riferivano ciò che avevano visto. Anche i campi della morte non erano a prova di fuga. Le prime fughe da Chelmno e da Treblinka ebbero luogo pochi giorni dopo la loro entrata in funzione. Il campo da cui si fuggiva più difficilmente era Belzec, ma anche da lì ci fu una fuga, e, in ogni caso, esso era stato visitato da Kurt Gerstein che ne parlò con diversi amici tedeschi e diplomatici stranieri (f). Auschwitz fu il campo più grande, e ci furono 667 fughe. 270 fuggiaschi furono ripresi, ma quasi 400 ce la fecero. Nel 1942 ci furono 120 fughe, l'anno dopo 310. Fra coloro che fuggirono ci furono almeno 76 ebrei; in tutto furono probabilmente di più. In molti casi le autorità del campo non identificarono esattamente, nei loro archivi, coloro che erano fuggiti. Nelle sue note autobiografiche Rudolf Hoess, comandante di Auschwitz, scrisse che era praticamente impossibile bloccare le notizie che dal mondo esterno raggiungevano Auschwitz e viceversa. Quando Himmler visitò Auschwitz si lamentò della "grande quantità senza precedenti di fughe riuscite da Auschwitz" e chiese al comandate di usare ogni possibile mezzo per farle cessare. Ma le fughe continuarono. Alcuni prigionieri di Auschwitz furono addirittura liberati dalle autorità tedesche. Ci furono 952 rilasci durante la prima metà del 1942 e 26 durante i successivi sei mesi. Ci furono rilasci da Auschwitz anche nel 1943. All'inizio del 1944 un considerevole numero di donne ebree furono liberate dal campo grazie all'intervento di Oskar Schindler. Schindler, un tedesco che dirigeva una fabbrica a Cracovia, salvò la vita a molti ebrei; è ricordato in Israele come uno dei "Giusti fra le Nazioni". Coloro che erano fuggiti dai campi non avevano nessuna ragione di mantenere il silenzio, e anche coloro che erano stati rilasciati

legalmente non si preoccupavano troppo dell'impegno scritto che avevano firmato, e cioè di non rivelare mai nulla. Ma se a volte venivano creduti, come nel caso di coloro che arrivarono a Varsavia da Chelmno e da Treblinka, c'era molto più scetticismo nell'Europa occidentale e anche in Ungheria. La storia di due giovani cattolici olandesi che furono rilasciati da Auschwitz il 12 maggio 1942 non è eccezionale. Uno di loro disse a Louis de Jong: "La cosa peggiore era che semplicemente non potevi comunicare con le persone che ti erano più care. Questo dava un terribile senso di isolamento, come se un compressore ti stesse per schiacciare. Avevi voglia di urlare dai tetti delle case, ma sapevi che sprecavi semplicemente il tuo fiato: nessuno avrebbe creduto a una parola di ciò che dicevi" (17). L'anno dopo, nel 1943, quattro donne olandesi, testimoni di Geova, tornarono da Auschwitz in Olanda e si trovarono di fronte alle stesse reazioni: "I più si rifiutavano di crederci". In molti ambienti fu soltanto alla fine del 1943 e forse addirittura nel 1944, con le prove che si sommavano da molte fonti, che le notizie sui campi furono finalmente accettate. Non si può mettere in evidenza troppo spesso che le prove erano disponibili da molto tempo, ma non venivano credute. Nathan Eck, uno dei futuri storici dell'Olocausto, fuggì nel 1942 dal ghetto di Varsavia a Czestochova. In lettere inviate in Svizzera ad Abraham Silbershein, uno degli emissari dell'Agenzia ebraica che egli conosceva da prima della guerra, riferì più di una volta sulle deportazioni e lo sterminio. Un giorno, nel settembre 1942, ricevette una cartolina nella quale Silbershein gli chiedeva se le notizie erano realmente vere, se non c'erano state almeno alcune esagerazioni. Eck rispose che se, dopo tutte le informazioni che gli aveva inviato, Silbershein ancora non le accettava, allora aveva poco senso continuare la corrispondenza (18). E' una storia rivelatrice perché Silbershein era un "professionista" che quasi quotidianamente corrispondeva con ebrei nei paesi occupati. Se anche lui aveva i suoi dubbi, si può ben capire che gli altri non ci credessero. Varsavia-Londra, la rete clandestina polacca, fu il più importante canale di comunicazione per le notizie sulle prime fasi della soluzione finale. Ma ci fu un altro canale di uguale, o quasi uguale importanza, che conduceva da gruppi di sionisti o singole persone nell'Europa occupata a Ginevra e da qui a Gerusalemme, all'ufficio centrale dell'Agenzia ebraica per la Palestina. La Svizzera era un posto di ascolto vitale sul continente, più che nella prima guerra mondiale quando Copenhagen e Amsterdam svolsero un simile ruolo. L'importanza della Svizzera non era stata prevista dalle istituzioni ebraiche e non erano state prese speciali misure; la presenza di emissari ebrei a Ginevra e Zurigo era più o meno fortuita. Una volta scoppiata la guerra, e soprattutto dopo la caduta della Francia e l'entrata in guerra dell'Italia, la Svizzera fu quasi completamente isolata. Dopo l'occupazione della Francia di Vichy da parte dei tedeschi, l'isolamento divenne totale. Anche le comunicazioni con la Svizzera ne risentirono. La posta aerea dalla Svizzera in Palestina non impiegava quasi mai meno di quattro settimane e spesso di più. A volte le notizie importanti venivano trasmesse con il telegrafo via Istanbul, ma questi messaggi relativamente brevi sollevavano ulteriori domande. C'erano molti quesiti e richieste di particolari da Gerusalemme e così gli emissari di Ginevra si abituarono a scrivere lunghe lettere. Avrebbero potuto telefonare a Istanbul, ma questo era costoso e il loro bilancio glielo permetteva raramente (g). Da qui i ritardi e i malintesi che spesso nascevano. Fra i rappresentanti in Svizzera, Gerhard Riegner del Congresso mondiale ebraico è già stato menzionato. Ce ne erano alcuni altri: Nathan Schwalb, che rappresentava l'"Hehalutz", l'organizzazione pionieristica; Ullmann, direttore di un giornale ebraico locale; Pazner (Posner), un impiegato dell'Agenzia ebraica; gli Sternbuch, che rappresentavano l'ebraismo ortodosso, e il dottor Abraham Silbershein. Ciascuno di loro aveva i propri collegamenti nei paesi occupati: le lettere che scrissero e ricevettero durante tutta la guerra furono uno dei canali di

comunicazione più importanti con dirigenti e comunità ebraiche di tutta l'Europa. Il più anziano di loro era Richard Lichtheim, uno dei primi dirigenti e fautori del sionismo in Germania. Nato da una ricca famiglia a Berlino nel 1885, a soli ventotto anni diventò direttore di "Die Welt", l'organo centrale del movimento sionistico mondiale. Durante la prima guerra mondiale rappresentò i sionisti in Turchia, impegnandosi in varie missioni diplomatiche. Si adoperò a favore degli ebrei palestinesi che a quel tempo soffrivano maltrattamenti da parte di governatori turchi ostili. Dopo la guerra fu per un certo numero di anni membro dell'esecutivo sionista mondiale a Londra (capo del dipartimento organizzativo). Si oppose alla linea esitante e "debole" di Weizmann e nel 1925 entrò a far parte del movimento revisionista che prometteva una linea politica più energica ed efficace. Ma l'estremismo di Vladimir Jabotinski (e a maggior ragione quello di alcuni dei suoi più giovani seguaci) finì per deluderlo, e dieci anni dopo ritornò nella corrente sionista di maggioranza. Nessuno dubitava del suo talento e la dirigenza sionista si mostrò disposta ad avvalersi ancora della sua collaborazione, ma non in una posizione di preminenza. Lichtheim era sempre stato per l'apparato burocratico un po' troppo indipendente nei suoi giudizi. Non era mai stato a lungo in Palestina e la sua conoscenza dell'ebraico era perlomeno incerta. Era un ebreo tedesco, il che vuol dire che non si inserì mai completamente nel gruppo estremamente unito degli ebrei esteuropei che dominavano la politica sionista e che appartenevano a un diverso ambiente culturale e sociale. Quando fu mandato a Ginevra nel 1939 nessuno si rese conto quale vitale importanza avrebbe assunto Ginevra negli anni successivi come centro d'informazioni. Sotto certi aspetti Lichtheim era particolarmente adatto per questo compito: di tutti i dirigenti sionisti della sua generazione egli era quello che conosceva meglio la politica mondiale. Gli erano perfettamente noti tutti i più recenti fatti europei e aveva, naturalmente, seguito la politica internazionale degli ultimi tre decenni con occhio attento. La sua capacità analitica era straordinaria. Non aveva mai avuto illusioni sulle mire e sulle folli ambizioni di Hitler, né aveva nutrito false speranze riguardo alla fermezza degli Alleati occidentali nei confronti dei dittatori fascisti. Le sue previsioni sullo svolgersi della guerra e sugli sviluppi del dopoguerra erano notevolmente esatte. E' vero che i suoi rapporti non avevano una grande risonanza a Gerusalemme, ma è improbabile che qualcuno più in armonia con la dirigenza sionista sarebbe riuscito a spiegare meglio le orribili realtà dell'Europa nazista. Lichtheim, sotto altri aspetti, non era la persona ideale per il compito affidatogli. Non aveva molta esperienza in campo sionistico. La sua formazione era avvenuta in un modo diverso. Ma tali attività erano comunque impossibili a Ginevra; le autorità svizzere sorvegliavano attentamente gli emissari ebrei e non avrebbero accettato attività sospette. Così, allo scoppio della guerra, Lichtheim si stabilì al 52 di rue des Paquis, Palais Wilson, e cominciò la sua corrispondenza con Gerusalemme, che riguardava il destino di singole persone e quello di intere comunità. Egli diventò sempre più pessimista man mano che Hitler occupava un nuovo paese. Ma non era un pessimismo che conduceva alla passività. Aveva suggerimenti per come salvare almeno alcuni ebrei d'Europa e ripeteva continuamente le sue proposte senza molto successo (h). In una lettera scritta dopo la caduta della Francia menzionò l'esistenza di un "ufficio speciale che si occupava della soluzione della questione ebraica": la sezione di Eichmann all'Ufficio centrale per la sicurezza dello stato. Altri la dovevano scoprire oltre due anni dopo. Ma a quel tempo la soluzione finale non era stata ancora messa all'ordine del giorno; i nazisti progettavano una "emigrazione radicale" e il trasferimento nel Madagascar. Secondo Berlino c'era sufficiente spazio nel Madagascar. La Palestina invece, per citare Lichtheim, sarebbe appartenuta, nel Nuovo Ordine nazista, a

una potenza che avrebbe "liquidato gli ebrei lì residenti o in ogni caso non avrebbe permesso nuove immigrazioni" (19). Ma per ripeterci ancora una volta, a quell'epoca il problema era l'emigrazione e l'assistenza economica, non ancora la sopravvivenza fisica. "Cosa sarà degli ebrei d'Europa?", si chiese Lichtheim alla fine del 1940: "Sento che una parola di avvertimento agli ebrei più fortunati d'Inghilterra e d'America è necessaria. E' impossibile credere che una qualunque potenza della terra potrà (e vorrà) restituire agli ebrei dell'Europa continentale ciò che hanno perduto o che stanno oggi perdendo. E' una delle convinzioni superficiali di un certo tipo di ebreo americano e inglese che dopo la vittoria della Gran Bretagna per la quale, ovviamente, gli ebrei di tutto il mondo pregano - tutto tornerà di nuovo a posto per gli ebrei d'Europa. Ma anche se potranno essere reintegrati nei loro diritti civili, che dire delle proprietà confiscate, dei negozi depredati, della clientela dispersa di dottori e avvocati, delle scuole distrutte, delle imprese commerciali di ogni tipo chiuse o vendute o sottratte? Chi restituirà loro tutto questo, e come?... E cosa rimarrà degli ebrei d'Europa? Non parlo delle centinaia di migliaia che durante questi anni di persecuzione sono riusciti a fuggire e adesso cercano di costruirsi una nuova vita in Palestina, negli Stati Uniti, in Sudamerica, in Australia, a Santo Domingo o altrove. Parlo dei profughi in Europa che cercarono di scappare, ma non abbastanza velocemente e lontano... Cosa sarà di loro dopo la guerra?" (20). Era chiaramente un problema che non poteva essere risolto da semplici formule come lo slogan "Reintegrarli nei loro diritti". Secondo Lichtheim ci sarebbe stata, dopo la guerra, una massa di diverse centinaia di migliaia di persone in una "permanente terra di nessuno, spinta da una frontiera all'altra, da un campo di concentramento a un campo di lavoro, verso qualche paese e destino sconosciuti". Era una previsione notevolmente esatta. E' vero che quando Lichtheim parlò nel 1940 di "un oceano di sangue e di miseria" non prevedeva che milioni di persone sarebbero state uccise. Le sue previsioni possono sembrare adesso eccessivamente ottimistiche, ma fra i suoi contemporanei furono considerate esempi di ingiustificato scoraggiamento. La situazione stava rapidamente cambiando in peggio. Dopo l'invasione nazista della Iugoslavia e la costituzione dello stato fascista degli ustascia, fu la volta degli ebrei croati. "La situazione degli ebrei in Croazia è disperata", scrisse Lichtheim. Gli italiani si comportavano molto più umanamente, nelle zone da loro occupate, degli altri alleati della Germania, ma "i croati erano certamente fra i peggiori". Non ci fu nessuna reazione da Gerusalemme (21). Alcuni mesi dopo Lichtheim segnalò le deportazioni dalla Germania, dall'Austria e dal Protettorato: gli ebrei tedeschi venivano concentrati a Berlino, gli altri venivano deportati in Polonia o in altri paesi esteuropei. Simili ordini di espulsione erano stati dati anche a Vienna e a Praga. Ancora nessuna informazione era stata ricevuta che qualcosa di grave fosse accaduto ai deportati in Europa orientale. Chi era rimasto veniva impiegato nelle industrie belliche tedesche. Nel complesso, il quadro non sembrava troppo fosco: alcuni ebrei erano stati arrestati, ma poche persone erano state effettivamente uccise in Germania. Eppure Lichtheim aveva cupe previsioni perché così concluse il suo rapporto: "Sommando tutte le umiliazioni alla fame e al trattamento brutale, gli ebrei rimasti nelle comunità ebraiche della Germania, dell'Austria e della Cecoslovacchia probabilmente saranno sterminati prima della fine della guerra e non molti sopravviveranno" (22). Nel novembre 1941 le deportazioni in massa non erano ancora iniziate e i campi della morte non esistevano ancora. Ma Lichtheim concludeva di nuovo un dispaccio con una nota grave:

"Per quanto riguarda la Germania, l'Austria e il Protettorato bisogna dire che il destino degli ebrei è ormai compiuto... Tutto questo capitolo potrebbe avere per titolo: "Troppo tardi". C'era un tempo in cui gli Stati Uniti e gli altri stati americani avrebbero potuto essere d'aiuto concedendo visti. Ma ciò è stato impedito dalla solita inerzia della macchina burocratica" (23). C'era ovviamente qualcosa di più della "solita inerzia della macchina burocratica". C'era qualcosa che poteva essere ancora fatto per portare aiuto? Lichtheim osservò che l'America aveva ancora una certa influenza su Vichy e poteva farne uso. Almeno alcuni degli ebrei perseguitati in Francia potevano essere soccorsi in questo modo. Egli ritornò su questo punto in un altra lettera inviata a Weizmann attraverso J. Linton che si trovava a Londra. Sottolineò ancora una volta che il destino della maggioranza degli ebrei europei era segnato: dei deportati all'est soltanto una minoranza fra i più giovani e i più forti sarebbe sopravvissuta. L'intera politica di deportazione nel mezzo dell'inverno verso le devastate città della Russia occidentale era "assassinio misto a tortura" (24). La Croce Rossa era stata informata, ma cosa poteva fare contro la volontà della Gestapo? Egli trasmise le più recenti informazioni ricevute a Ginevra e poi osservò: "E' una cosa curiosa che il presidente Roosevelt non abbia mai menzionato gli ebrei parlando dei popoli oppressi. I governi democratici possono essere stati indotti a credere che ci sarebbero persecuzioni ancora peggiori se essi menzionassero gli ebrei nei loro discorsi. Io penso che questo sia un errore. I fatti hanno dimostrato che gli ebrei non avrebbero potuto soffrire più di quanto hanno sofferto se gli uomini politici dei paesi democratici avessero parlato" (25). Ma forse c'era anche un'altra motivazione; forse volevano evitare l'impressione che la guerra avesse qualcosa a che fare con gli ebrei. Questa tattica del silenzio avrebbe difficilmente messo a tacere gli antisemiti: "La Gran Bretagna e l'America dovrebbero dire: non siamo ebrei né facciamo la guerra per gli ebrei; stiamo combattendo per l'umanità contro il nemico dell'umanità" (26). Dov'erano le voci che condannavano queste atrocità e ammonivano coloro che le stavano commettendo "che ne saranno ritenuti responsabili" (sottolineato nell'originale)? Lichtheim pensava che in certi casi, come per la Romania, l'Ungheria, la Slovacchia, la Croazia e Vichy, un ammonimento avrebbe potuto avere e "può ancora avere" (sottolineato nell'originale) "un effetto deterrente". La cosa era ovviamente molto più difficile nel caso della Germania, ma anche lì alcune persone o ambienti potevano essere influenzati da simili ammonimenti. Perché tali ammonimenti non furono pronunciati, perché non ci fu nessuna parola di compassione e di consolazione? Non era forse vero che il mondo stava assistendo alla più terribile persecuzione degli ebrei mai avvenuta in Europa, e che superava per la sua crudeltà e vastità anche i massacri degli armeni che provocarono una tempesta di proteste in Inghilterra e in America? Non c'era risposta alle domande poste da Lichtheim. Nell'inverno del 1941 la macchina da guerra nazista subì un primo grande arresto nell'Unione Sovietica. Lichtheim nota le enormi perdite subite: forse la belva ferita avrebbe sentito presto che la fine era vicina. Ma non credeva minimamente alle voci secondo le quali i generali avrebbero preso il sopravvento mettendo Hitler in un angolo: "Per chi conosce veramente la Germania nazista tali voci suonano incredibili: Hitler e la sua milizia, la Gestapo, un milione di ufficiali e di S.S., saranno sempre più forti di un gruppetto di generali con alle loro spalle nient'altro che la loro stirpe prussiana" (27).

Non ci si poteva aspettare nessun miglioramento nella situazione degli ebrei, il quadro si faceva sempre più cupo. Da una lettera del febbraio 1942 ad Arthur Lourie, capo del comitato di emergenza di New York: "Il numero dei morti, dopo questa guerra, dovrà essere contato non in migliaia o in centinaia di migliaia, ma in diversi milioni, ed è difficile immaginare come potranno i sopravvissuti ritornare a una vita normale" (28). Semmai Lichtheim sottovalutava la grandezza della catastrofe (29). Ma simili nere previsioni erano rare eccezioni a quel tempo: nessuno voleva sentir parlare di milioni di vittime nel febbraio 1942. Queste sembravano fantastiche esagerazioni a cui non veniva creduto né da parte della dirigenza ebraica né da parte dell'opinione pubblica ebraica. Perfino alcuni di coloro che erano recentemente fuggiti dall'Europa orientale respingevano simili opinioni come eccessivamente pessimistiche, anzi pericolose, perché potevano provocare scoraggiamento. Lichtheim ripeteva frequentemente i suoi consigli sulle misure da prendere per ridurre almeno la marea delle persecuzioni. Continuamente sottolineava la necessità che i capi alleati esprimessero pubblicamente alla radio formali proteste e ammonimenti, e che si prendessero contatti con la Chiesa cattolica data la sua grande influenza in alcuni dei paesi coinvolti. Insieme con Riegner e Sally Mayer, presidente della comunità ebraica svizzera, incontrò nel marzo 1942 monsignor Bernardini, nunzio apostolico in Svizzera, e gli consegnò un dettagliato rapporto sulla situazione degli ebrei. Il nunzio dichiarò che era a conoscenza della sventurata situazione degli ebrei e che ne aveva già riferito in altre occasioni a Roma, ma che lo avrebbe fatto di nuovo, con la raccomandazione che si prendessero delle iniziative in favore degli ebrei. Ma poco dopo Lichtheim notava tristemente che gli sforzi del Vaticano in Slovacchia erano stati inutili (30). Mentre Lichtheim osservava la lenta distruzione dell'ebraismo europeo, gli furono riferiti i piani elaborati da notabili di Gerusalemme per ristabilire dopo la guerra le loro organizzazioni in Europa. Per questo tipo di "progetti postbellici" egli non aveva altro che sarcasmo. Un ritorno all'idilliaco sionismo di prima della guerra gli sembrava totalmente non realistico. "La mia prognosi personale è molto fosca. Quegli ebrei ancora vivi dopo la guerra saranno fagocitati dalla Russia e dai paesi confinanti. Io non condivido l'ottimismo di coloro che si aspettano la tolleranza, per non dire l'appoggio, del sionismo da parte del bolscevismo. I superstiti dell'ebraismo europeo si dovranno cercare un 'esistenza oltremare" (31). Le uccisioni in massa in Polonia furono rese pubbliche per la prima volta nella stampa mondiale alla fine del giugno 1942. A quell'epoca Lichtheim riferì che l'Europa centrale doveva essere resa "judenrein" (priva di ebrei) per mezzo di deportazioni e di uccisioni dirette o indirette, "a causa della fame o con metodi anche più sbrigativi": "Gli ebrei in quasi tutti i paesi di questo tormentato continente vivono soltanto nella paura della deportazione che mira alla loro distruzione fisica a breve o lungo termine, o temono i lavori forzati in condizioni intollerabili. Il loro unico pensiero è rivolto al salvataggio e alla fuga, ma ciò sarà possibile soltanto in pochissimi casi" (32). Nell'agosto 1942 un amico inglese gli mandò una copia di "Hansard", che riportava un dibattito alla Camera dei Comuni, avvenuto in quel mese, sui problemi di rinsediamento nel dopoguerra. Un oratore aveva parlato di sette e un altro di nove milioni di ebrei che avrebbero

avuto bisogno di una casa dopo la guerra. Lichtheim scrisse amaramente nella sua risposta: "La gente in Inghilterra non sa cosa sta succedendo in Europa". Come potevano anche i dirigenti ebrei credere che dopo la guerra ci sarebbero stati cinque o sei milioni di ebrei a cui trovare dove vivere? Dopo aver analizzato le cifre Lichtheim affermò categoricamente: "Adesso sappiamo che deportazione significa, prima o poi, morte". "Degli ebrei polacchi, tedeschi, austriaci, cecoslovacchi, iugoslavi in tutto tre milioni e mezzo - e degli altri che sono stati o saranno deportati, pochissimi sopravviveranno... Questo processo di annientamento va avanti implacabilmente e non c'è più nessuna speranza di salvare un numero considerevole di persone. Perciò non è esagerato dire che Hitler ha ucciso o sta uccidendo quattro milioni di ebrei nell'Europa continentale e che non più di due milioni hanno una probabilità di sopravvivenza. Ogni mese che passa questa probabilità diminuisce e fra un anno anche queste cifre potrebbero apparire troppo ottimistiche" (33). Nel frattempo (il 15 agosto) Lichtheim aveva dettato un rapporto basato sul resoconto di due testimoni oculari che erano giunti direttamente dalla Polonia, dei quali uno non era ebreo, "una personalità molto affidabile e ben conosciuta". Entrambi riferirono storie che erano, come scrisse Lichtheim in una lettera di accompagnamento, "così terribili che ebbi alcuni dubbi se dovevo trasmettere il rapporto o meno" (egli trattenne il rapporto per due settimane prima di spedirlo il 30 agosto). Era il rapporto già menzionato in un altro contesto (vedi cap. 4) che fu mandato anche a Stephen Wise e che fu intercettato dal dipartimento di stato. Si occupava delle uccisioni in massa di ebrei a Varsavia, in Lituania e altrove, menzionava Belzec, così come il fatto che Theresienstadt, il campo modello ("Musterghetto") nel Protettorato, non era altro che una stazione di transito per la maggior parte dei deportati. Il rapporto si soffermava sui treni della morte e sul ruolo dei collaboratori lituani delle S.S.; diceva anche che nessun ebreo era rimasto nelle regioni a est di Varsavia. Fra i consigli pratici contenuti nel rapporto c'era la richiesta dell'autore di portare questi fatti a conoscenza dell'ebraismo americano senza citarne la fonte. Egli si lamentava che telegrammi con le stesse identiche informazioni erano già stati inviati prima da Varsavia a Londra, ma erano stati resi pubblici alla radio (inglese) solo con ritardo. L'ebraismo americano non doveva essere tenuto all'oscuro per così tanto tempo. Il rapporto conteneva alcune affermazioni inesatte come quella che i corpi delle vittime venivano usati per fabbricare grasso e fertilizzanti o che l'intera popolazione non ebraica di Sebastopoli era stata uccisa. Ma nel complesso dava un quadro esatto della situazione, come Lichtheim mise in evidenza nei suoi commenti. Certi fatti, disse, erano stati confermati del tutto indipendentemente da altre fonti: "Tutto ciò dà un significato molto sinistro a tutte le altre informazioni contenute in questo rapporto, per quanto ciò possa sembrare incredibile ai lettori in Inghilterra e in America. In realtà io credo che il rapporto sia vero e del tutto in armonia con la dichiarazione di Hitler che alla fine della guerra non ci saranno più ebrei nell'Europa continentale" (i). Il rapporto incontrò incredulità non solo in Inghilterra e in America, ma anche a Gerusalemme. Yizhak Gruenbaum, una delle principali figure dell'ebraismo polacco e membro dell'esecutivo dell'Agenzia ebraica, mandò a Lichtheim un telegramma di risposta in cui diceva: "Sbalordito dalle tue ultime notizie sulla Polonia che malgrado tutto sono difficili a credere. Non essendo ancora stato reso pubblico farò tutto il possibile per verificare il rapporto".

Gruenbaun cercò di accertarsi se il rapporto era vero: mandò un telegramma al rabbino Marcus Ehrenpreis a Stoccolma, come aveva fatto già in luglio dopo le rivelazioni di Zygielbojm. Aveva il venerando rabbino sentito qualcosa al riguardo? Marcus Eherenpreis aveva allora circa settantacinque anni. Era nato a Leopoli ed era stato rabbino in Croazia e in Bulgaria. Era un autore prolifico e uno dei pionieri della moderna letteratura in ebraico. Era anche una delle personalità meno informate sugli avvenimenti nell'Europa orientale né era disposto a fare un grande sforzo per conoscerli. Lauterbach, capo del dipartimento organizzativo, fu un po' più cauto nella sua risposta a Lichtheim. "Francamente non sono propenso ad accettare completamente tutti i rapporti e, senza avere nessuna prova del contrario, ho grandi dubbi sulla esattezza di tutti i fatti ivi contenuti... Bisogna anche imparare dall'esperienza a distinguere fra la realtà, per quanto orribile, e le fantasie di una immaginazione distorta da una giustificata paura e che si dilata fino a credere ciò che viene sussurrato senza potere, date le circostanze, controllarne la veridicità". Ma poi aggiungeva che "senza scendere in orribili particolari" non si poteva far altro che accettare i fatti principali e l'interpretazione contenuti nella lettera di Lichtheim (34). Ciò che emergeva dalla perplessa lettera di Lauterbach era che, mentre Gerusalemme era ormai persuasa che la situazione fosse molto grave, non la giudicava tuttavia così grave come Lichtheim l'aveva descritta. Durante i giorni e le settimane seguenti altre prove vennero alla luce in rapida successione. Il 26 settembre Lichtheim telegrafò a Londra che i ghetti di Varsavia e di Lodz erano stati quasi completamente evacuati. Alcuni artigiani erano rimasti, mentre la maggioranza era stata deportata verso un'ignota destinazione. Il 29 settembre, in una lettera ad Arthur Lourie a New York, scrisse: "La totale distruzione delle comunità ebraiche in Belgio e in Olanda è quasi completa". Il 15 settembre in una lettera da Londra ripeteva di nuovo il suo lamento: "Troppo poco è stato detto e fatto dagli Alleati per ammonire i nazisti e i loro satelliti delle conseguenze dei loro crimini". Ma adesso, con il capovolgersi della situazione bellica, le prospettive erano migliori di quanto fossero mai state prima. Egli ammonì che, a meno che questo non venisse fatto, anche le ultime comunità ebraiche ancora esistenti in Europa, gli 800 mila ebrei ungheresi e i 300 mila romeni, sarebbero scomparsi. Il 5 ottobre Lichtheim inviò a Gerusalemme (e a Londra e New York) "un'atroce rapporto sulla situazione in Lettonia". Da molto tempo c'erano sporadiche notizie sui massacri nei paesi baltici, che in effetti avevano avuto luogo un anno prima. Ma era stato molto difficile ottenere rapporti attendibili; la corrispondenza con Vilna e Riga era interrotta e c'erano pochissimi contatti. Il terribile rapporto era basato sulla testimonianza di Gabriel Zivian, un giovane ebreo di Riga, che aveva assistito ai massacri, ed era andato poi nella Germania settentrionale dove aveva lavorato come ausiliario in un ospedale di Stettino. Miracolosamente aveva ricevuto un visto di entrata in Svizzera grazie ad alcune relazioni che aveva a Ginevra. Riegner lo aveva intervistato come un giudice inquirente (parole di Riegner) per otto ore (35). Questo accadde nell'agosto 1942. Poco tempo dopo un altro giovane ebreo di origine polacca aveva raggiunto illegalmente la Svizzera. Poiché era molto malato non poté essere rimandato in Germania, ma fu ricoverato sotto sorveglianza della polizia. Un medico chiamò Riegner: c'era un paziente che raccontava orribili storie. E poi gli chiese di andare all'ospedale per scoprire se c'era qualcosa di vero. Lichtheim spedì questo resoconto e disse in una nota di accompagnamento: "Abbiamo sentito da altre fonti di simili massacri in Polonia". Poi, l'8 ottobre, preparò una dettagliata risposta per Gruenbaum, che aveva dubitato della veridicità dei suoi precedenti

rapporti. "Posso facilmente capire che tu sia restio a credere al rapporto in questione". Ma le fonti erano degne di fede. Come si potevano verificare i fatti sul posto? A nessun osservatore era permesso di avvicinarsi alle regioni della morte, solo alle S.S. e a qualche lavoratore. Le sole testimonianze disponibili erano quelle di ufficiali tedeschi che tornavano dall'est, ma c'erano state anche lettere e cartoline da parte di ebrei in Polonia. Non potevano esserci più dubbi riguardo alle intenzioni di Hitler e della Gestapo. Egli finì la lettera con le seguenti parole: "Ho previsto questo sviluppo molto tempo fa. Nelle mie lettere a Londra e New York ho costantemente messo in guardia i nostri amici su ciò che stava per accadere e ho fatto certe proposte. Ma ho sempre saputo che, nel caso di Hitler, nulla che noi o altri avremmo fatto o detto avrebbe potuto fermarlo. Perciò ho chiesto ai nostri amici a Londra e New York di cercare di salvare almeno le comunità ebraiche degli stati semindipendenti di Romania, Ungheria, Italia e Bulgaria... Ma siamo di fronte al fatto che la grande maggioranza delle comunità ebraiche nell'Europa dominata da Hitler è condannata. Non c'è nessuna forza che potrebbe fermare Hitler o le sue S.S. che sono oggi gli assoluti padroni della Germania e dei paesi occupati. E' mio doloroso dovere dirti ciò che so. Non c'è nulla da aggiungere. La tragedia è troppo grande per far uso di altre parole" (36). La corrispondenza con Gerusalemme continuò. Ci furono altri fatti, ma non cambiarono il quadro generale. Il 16 ottobre in una lettera privata a Lauterbach: Ho l'impressione che i miei precedenti rapporti non abbiano trovato la necessaria comprensione. Alcuni dei nostri amici non hanno voluto credere che qualcosa del genere potesse accadere, altri possono essere stati fuorviati da rapporti di diversa natura (e cioè meno allarmanti). Adesso è inutile occuparci dei motivi che possono aver causato tutto ciò. I fatti parlano un linguaggio inesorabile e noi siamo impotenti di fronte a questi fatti, o quasi...". Il 26 ottobre trasmise una delle note che aveva consegnato insieme a Riegner quattro giorni prima al ministro plenipotenziario americano a Berna, e che conteneva un esame generale della situazione. Il 20 ottobre scrisse un altro lungo riepilogo dei fatti più recenti: le deportazioni in Polonia e all'interno della Polonia non avevano nulla a che fare con lo sforzo bellico nazista e il bisogno di maggiore manodopera; "c'è un piano, dietro a queste misure, di sterminare immediatamente il più gran numero possibile di ebrei". In precedenza c'erano stati pogrom ed esecuzioni in massa, ma avevano avuto una dimensione locale, e si era pensato che malgrado tutto, malgrado i lavori forzati, la fame e tutte le altre privazioni almeno i più giovani e i più forti avrebbero potuto sopravvivere, e che alcune comunità non sarebbero state interamente distrutte: "Ma era diventato sempre più evidente durante gli ultimi tre o quattro mesi (e lo avrai visto dai miei rapporti) che anche questa previsione era troppo ottimistica, e le ultime deportazioni hanno mostrato chiaramente ciò a cui si mira". Lichtheim menzionava poi rapporti secondo i quali c'erano state discussioni nel quartier generale di Hitler sullo sterminio degli ebrei previsto per i mesi successivi. Alla fine di luglio Hitler aveva firmato un ordine formale approvando il piano di sterminio totale di tutti gli ebrei d'Europa sui quali i nazisti avrebbero potuto mettere le mani. Testimoni attendibili avevano visto l'ordine firmato da Hitler nel suo quartier generale. Lichtheim così concludeva, questa volta con spirito di rassegnazione: "Per la grande maggioranza degli ebrei

d'Europa

sembra

non

esserci

rimasta alcuna speranza. Sono nelle mani di un pazzo furioso che è diventato l'assoluto padrone dell'Europa continentale per volontà del suo stesso colpevole popolo e per la tragica cecità di uomini politici che, dal 1933 al 1939, hanno cercato di fare un patto con il diavolo invece di cacciarlo quando c'era ancora tempo" (37). Cinque settimane dopo, il 25 novembre, in una riunione a Tel Aviv, Elijahu Dobkin, dell'esecutivo dell'Agenzia ebraica, disse: "Forse abbiamo peccato quando le prime terribili notizie ci pervennero due mesi fa da Ginevra e da Istanbul e non ci credemmo" (38). Questi sentimenti furono espressi da molti altri nelle settimane successive. Ma le informazioni erano ovviamente arrivate molto prima e adesso non rimane che da chiedersi che cosa abbia innanzitutto impedito che venissero credute e che cosa abbia causato un ripensamento in novembre. Quando la guerra scoppiò, più di mezzo milione di ebrei vivevano in Palestina; i più erano nati nei paesi occupati dalla Germania nazista. Avevano amici e familiari in Europa e cercavano di tenersi in contatto con loro in tutti i modi possibili: per mezzo di cartoline e lettere spedite tramite paesi neutrali o brevi "lettere della Croce Rossa", e cioè speciali moduli nei quali potevano essere trasmessi messaggi fino a venticinque parole. All'inizio giunsero molte cartoline e lettere del genere, ma poi diventarono sempre meno. Così la gente in Palestina cominciò a dipendere per le informazioni soprattutto dai resoconti dei giornali. I corrispondenti riprendevano sistematicamente notizie di interesse ebraico dai giornali dell'Europa occupata dai nazisti, dalla stampa svedese e svizzera e, ovviamente, anche dai rari rapporti nei mezzi di informazione inglesi, americani e sovietici. Ma, così come l'esecutivo dell'Agenzia ebraica pensava che Lichtheim esagerasse, e come i rapporti di Riegner e degli altri erano considerati eccessivamente pessimistici, la stampa ebraica palestinese si dissociava assai spesso dalle "informazioni allarmistiche" pubblicate sulle proprie colonne. Alcuni esempi saranno sufficienti. Moshe Prager, un giornalista ebreo polacco, fu l'autore (nel 1941) del primo, e a quell'epoca unico, libro sulla vita degli ebrei polacchi sotto l'occupazione nazista. Nella sua prefazione Y. Gruenbaum lodò la suprema capacità degli ebrei polacchi di adattarsi agli orrori e predisse che la loro forza d'animo avrebbe trionfato sulla degradazione, le torture e la distruzione. Lo stesso Prager giudicò scopo principale dei nazisti quello di ridurre gli ebrei in spregevoli mendicanti; gli ebrei stavano invece combattendo con le loro ultime forze per la loro dignità e per non essere sconfitti (39). Termini come adattamento, trionfo, dignità e sconfitta sono ovviamente espressioni particolarmente inadatte se riferite alla soluzione finale. Ma questi commenti furono fatti nel 1941 e a quell'epoca non sembravano del tutto irragionevoli. Ciò che era accaduto nell'Europa orientale nel 1940 era dopotutto già accaduto prima nella storia ebraica: gli ebrei erano privati dei loro diritti elementari, c'erano sporadici pogrom e spoliazioni. Ma non sembrava esserci alcuna ragione di dubitare che la grande maggioranza dell'ebraismo europeo sarebbe sopravvissuta alla guerra. Così i corrispondenti e i commentatori discutevano se il piano nazista di concentrare gli ebrei nell'area di Lublino non fosse poi così terribile (perché l'autogoverno aveva i suoi vantaggi come alcuni sostenevano) o se questo progetto non fosse altro che un inganno che avrebbe portato alla costituzione di un enorme campo di concentramento, come riteneva il "Forward" di New York. Ma non doveva esserci nessun concentramento nell'area di Lublino, né un progetto di rinsediamento nel Madagascar. Dopo l'invasione dell'Unione Sovietica le notizie ricevute non riguardavano più confische o violazione di diritti umani, e neanche la fame e le malattie. Riguardavano i massacri. L'atteggiamento mentale che si era formato in precedenza non era tuttavia cambiato. Secondo la stampa, la vita ebraica continuava nell'Europa orientale sebbene in condizioni

difficilissime. C'era una frenetica ricerca di raggi di speranza. Così la stampa di sinistra riportava con soddisfazione che i centri di istruzione agricola in Polonia e in altri paesi nei quali i "halutzim" (pionieri) si stavano preparando per la vita negli insediamenti collettivi in Palestina continuavano a funzionare. I giornali ortodossi notavano con uguale soddisfazione che nel ghetto di Varsavia erano ancora aperte quattro librerie ebraiche, e tre a Cracovia (40). "Ha'olam", organo del movimento sionistico mondiale, non pubblicò praticamente alcuna notizia sui massacri durante la prima metà del 1942; pubblicò tuttavia un articolo di Apollinari Hartglass, un dirigente ebreo polacco che era fuggito da Varsavia dopo l'invasione nazista e che, con logica contorta, cercava di provare che mentre il mondo aveva inizialmente ignorato la catastrofe ebraica, adesso aveva scoperto che la poteva usare propagandisticamente e stava "montandola" (41). Altri giornali ebraici riferivano che Amsterdam doveva essere il porto d'imbarco per gli ebrei europei verso un'ignota destinazione d'oltremare. Un altro giornale citava un professore polacco che era fuggito in America, affermando che mentre gli ebrei sarebbero stati semplicemente deportati, i polacchi sarebbero stati tutti uccisi dai nazisti (42). I giornali riportavano i massacri, ma anche ogni possibile voce, quantunque incredibile: veniva dato illimitato spazio alle illusioni e, certo inconsapevolmente, alle false informazioni dei nazisti. Le notizie sui massacri venivano pubblicate ma con commenti che le mettevano in dubbio; si supponeva che alcune sciagure erano effettivamente avvenute, ma che il numero delle vittime era stato enormemente esagerato. "Hatzofe" richiamò all'ordine, nel marzo 1942, i corrispondenti: dovevano mostrare maggiore responsabilità e non "gonfiare a dismisura ogni voce allarmante". "Davar" scrisse che si dovevano accogliere con grande cautela tutte le storie di atrocità presumibilmente riferite da "soldati di ritorno dal fronte" (43). Secondo "Davar", era stato riferito citando il giornale dell'esercito sovietico "Stella Rossa" che la maggior parte degli uccisi a Kiev (Babi Yar) erano ebrei. Ma in realtà, affermava "Davar", Stella Rossa aveva detto che la maggior parte delle vittime "non" erano stati ebrei. "Stella Rossa" non aveva detto né l'una né l'altra cosa, ma l'editoriale di "Davar" era chiaramente un sintomo della confusione dominante. Sia "Davar" che "Hatzofe" biasimavano da una parte lo scatenato sensazionalismo di giornalisti irresponsabili e dall'altra lo spirito di competizione delle varie agenzie giornalistiche: ciascuna voleva uccidere più ebrei dell'altra. "Questi irresponsabili informatori... fanno propria ogni voce, cercano disperatamente ogni cattiva notizia, ogni cifra enorme, e la presentano al lettore in un modo tale da far gelare il sangue nelle vene... Non capiscono gli informatori che le notizie su decine o migliaia di assassinati, di un quarto di milione di vittime non provocano molte emozioni perché non vengono credute a causa della loro esagerazione?... Noi ci ricordiamo ancora dei dispacci nei giorni delle sommosse [in Palestina, 1936-391 che furono inviati in tutto il mondo e che erano così esagerati". "Hatzofe" respinse il rapporto di Zygielbojm: tutti quei resoconti erano pieni di ripetizioni. Forse c'era stato un pogrom da qualche parte, ma poi la stessa notizia sarebbe stata un giorno riportata da Londra, un altro giorno da Stoccolma, il giorno seguente da ancora un altro posto. Quando il rapporto su Chelmno arrivò a "Davar" nell'ottobre 1942, fu introdotto dalla seguente nota redazionale: "Pubblichiamo questo orribile resoconto sotto responsabilità della fonte..." (45). Altri giornali misero in ridicolo le cifre astronomiche delle vittime che non potevano essere vere. Quando Czerniakow, capo dello "Judenrat" di Varsavia, si suicidò, "Haboker" commentò che la situazione non poteva essere del tutto disperata,

perché altrimenti (si sosteneva) sarebbe sicuramente scoppiata una rivolta. Quando in anni successivi si cercò una spiegazione alla interpretazione errata - per non dir peggio delle notizie provenienti dall'Europa, si poté ovviamente fare appello ad alcune circostanze attenuanti. L'estate del 1942 vide l'avanzata di Rommel in Egitto; l'Africa Korps era pronto ad attaccare nella valle del Nilo; l'invasione tedesca della Palestina sembrava prossima. Fu soltanto nella prima settimana di settembre 1942 che Rommel venne fermato ad Alam Halfa, e la controffensiva di Montgomery che dissolse i sogni tedeschi in Africa cominciò soltanto il 23 ottobre. Fino a quella data la comunità ebraica di Palestina sembrava in imminente pericolo. Tutti gli altri problemi erano destinati a passare in seconda linea. Ma ciò spiega difficilmente la mancanza di interesse e di comprensione prima della avanzata di Rommel durante l'estate. E certamente non spiega la mancanza di comprensione mostrata dall'ebraismo americano e britannico che non aveva di fronte a sé il pericolo di un'invasione e di un'occupazione. Non fu, in ultima analisi, una questione di mancanza di informazioni. Come disse un dirigente laburista, "le notizie avevano raggiunto la Palestina, i giornali le avevano pubblicate e anche la radio [l'emittente inglese] le aveva trasmesse. La comunità le lesse e le sentì, ma non le recepì; e non alzò la propria voce per mettere in allarme le comunità ebraiche di altri paesi" (46). Ci furono molte espressioni di autoaccusa dopo il novembre 1942, come quelle di Prager e di Hartglass. Come potevano essere stati così ciechi da non credere a quelle notizie? Ci furono molte recriminazioni nei confronti della dirigenza che, dopotutto, aveva avuto più informazioni a propria disposizione e non aveva dato l'allarme (l). Y. Tabenkin, un vecchio dirigente di kibbutz, scrisse che era semplicemente falso che gli ebrei in Palestina non fossero stati a conoscenza del destino degli ebrei europei: "Sapevamo tutto. E adesso cerchiamo i colpevoli fra di noi. Questa è una manifestazione di orribile impotenza. Sappiamo chi è colpevole, ma è difficile punirlo, e perciò lo cerchiamo fra di noi. Perché dovremmo accusare Gruenbaum?". Tabenkin disse che se qualcuno avesse riletto le pubblicazioni degli ultimi sei mesi di "Davar", il quotidiano della sinistra, avrebbe trovato che tutto era stato riportato: massacri, gas venefici eccetera. "Ma soltanto quando incontravamo persone che erano arrivate dalla valle dell'ombra della morte eravamo fortemente impressionati e sentivamo la catastrofe e tutto il suo orrore" (47). Gli alti funzionari dell'Agenzia ebraica leggevano ovviamente con attenzione le notizie dall'Europa. Il 17 aprile 1942 Moshe Shertok, capo della sezione politica, si rivolse a Sir Claude Auchinleck (comandante dell'Ottava Armata nell'Africa del Nord e predecessore di Montgomery) nel modo seguente: "C'è margine per pochissimi dubbi sul fatto che se la Palestina fosse conquistata dai nazisti il destino degli ebrei di questo paese sarebbe il completo sterminio. La distruzione della stirpe ebraica è un principio fondamentale della dottrina nazista. Gli autorevoli rapporti recentemente pubblicati dimostrano che questa politica viene attuata con una crudeltà che va oltre ogni possibile descrizione. Centinaia di migliaia di ebrei sono morti in Polonia, nei paesi balcanici, in Romania e nelle province russe invase, in seguito a esecuzioni in massa, deportazioni forzate e al dilagare della fame e delle malattie nei ghetti e nei campi di concentramento. Bisogna temere che uno sterminio ancora più rapido sarebbe riservato agli ebrei della Palestina se dovessero cadere sotto il dominio nazista" (48) (m). Queste erano parole forti e inoltre furono scritte ben prima del rapporto Zygielbojm e delle rivelazioni del governo polacco in esilio. Stando così le cose, perché l'Agenzia ebraica non credette a Lichtheim? La risposta, in breve, è che tutto ciò che Shertok aveva detto si poteva trovare anche nei giornali dell'epoca. E' vero che le

"istituzioni" avevano ricevuto maggiori particolari, il che non significa che le informazioni fossero del tutto credute. Inoltre le allarmanti parole di Shertok devono essere lette nel contesto in cui furono scritte. La comunità ebraica di Palestina si trovava in imminente pericolo, e, nella sua lettera, Shertok avanzava specifiche richieste per la difesa della Palestina: la "massima mobilitazione", cioè più soldati ebrei, più armi, un programma su larga scala di addestramento militare, l'aumento della milizia territoriale. Per rendere più efficaci queste richieste, Shertok non ricordava soltanto la minaccia militare rappresentata da Rommel (che era più che reale), ma anche le notizie sulle grandi persecuzioni in Europa che erano state riportate infinite volte, ma che cionondimeno erano più lontane e probabilmente credute solo a metà. Ancora una volta sarà sufficiente un esempio per illustrare la confusione allora regnante. Quando Shertok inviò la sua lettera ad Auchinleck, Meleh Neustadt (Noj) era in missione a Istanbul. Nel maggio 1942 ritornò in Palestina e in due lunghe relazioni, in seduta chiusa, dette alla dirigenza ebraica il più dettagliato e autorevole resoconto allora disponibile (n). Non c'era nessun altro meglio informato di lui a quell'epoca. Noj aveva stabilito un contatto dalla Turchia con cinquanta comunità polacche e praticamente con ogni altro paese europeo. Aveva scoperto, con sua grande sorpresa, che a parte certe eccezioni (i paesi baltici e la Polonia orientale) le comunicazioni potevano essere facilmente stabilite. Lettere per via aerea dai paesi occupati impiegavano da dieci a dodici giorni per arrivare, venivano ricevuti anche telegrammi, e si potevano anche prenotare telefonate internazionali (o). Noj osservò che gli ebrei nell'Europa orientale non usavano volentieri il telegrafo per non attirare l'attenzione. D'altro canto disse che all'interno dell'Europa occupata dai nazisti emissari ebrei viaggiavano frequentemente da un posto all'altro, che venivano pubblicati giornali clandestini e che avevano luogo riunioni a livello regionale e perfino nazionale. Le cattive notizie riguardavano il destino degli ebrei croati e in parte di quelli romeni, di cui egli già conosceva le condizioni (p). C'erano state vittime nella Galizia orientale. Lodz era più o meno tagliata fuori dal resto del mondo. Non c'era nessun contatto diretto, ma si era venuti a sapere che "elementi improduttivi" erano stati deportati da Lodz a Minsk, Kovno e Riga. Noj disse che era inutile commentare le voci che riguardavano il destino degli ebrei della Polonia orientale (e dei paesi baltici); non se ne sapeva semplicemente nulla. Ma egli disse anche che nulla era più dannoso delle "informazioni esagerate" che indebolivano e mettevano perfino in dubbio le notizie esatte sulle effettive atrocità. Egli espresse rincrescimento per il fatto che né il Congresso mondiale ebraico né qualsiasi altro ente ebraico avessero ancora stabilito un ufficio a Istanbul, e che lì non ci fosse nessun giornalista per vagliare e trasmettere le informazioni dall'Europa occupata. Perché Istanbul era il miglior posto di ascolto. Le buone notizie erano che in tutta l'Europa la vita ebraica continuava, che il movimento giovanile sionista era molto attivo in condizioni estremamente difficili e che meritava le più grandi lodi. Le informazioni di Noj erano in parte eccezionalmente dettagliate: egli aveva cifre esatte su ospedali e orfanotrofi di Varsavia, sul prezzo del pane nei ghetti, sul numero dei partecipanti ai vari corsi di agricoltura. In parte erano anche molto recenti: sapeva dell'inutile intervento del Vaticano in Slovacchia. Egli prevedeva che mentre i nazisti volevano distruggere fisicamente gli ebrei, volevano anche impiegarli nell'industria bellica: "Ed è possibile che questo salverà una gran parte degli ebrei europei". Che cosa era più sorprendente in questi rapporti: il grado di conoscenza o di ignoranza? Le uccisioni in massa nei territori sovietici occupati erano state riferite dalla stampa molti mesi prima e fonti polacche avevano confermato la distruzione della maggior parte delle comunità in Lituania e nella Galizia orientale. Ma, viste da Istanbul, queste erano ancora "voci"; il silenzio non significava necessariamente morte, ma forse isolamento. Chelmno non era preso sul

serio e l'inizio delle "evacuazioni" dalla maggior parte dei ghetti polacchi non veniva riportato. E' stato sostenuto in anni successivi che certi dirigenti ebrei sia negli Stati Uniti che in Palestina ritardarono la pubblicazione dell'intera verità sulla tragedia europea perché temevano che ciò avrebbe avuto un effetto deprimente o perfino paralizzante sul morale della comunità ebraica di Palestina in un momento di emergenza come quello. Ma spiegazioni di questo tipo sono più che discutibili. E' dimostrato che la maggior parte dei dirigenti ebrei erano realmente scettici circa la vastità della catastrofe fino al 18 e 19 novembre quando quattro di loro andarono a intervistare un gruppo di donne e bambini ebrei di nazionalità palestinese che erano appena arrivati in Palestina dall'Europa. Erano stati scambiati con un gruppo di cittadini tedeschi che erano stati trattenuti all'inizio della guerra in un territorio alleato. Un primo scambio del genere aveva avuto luogo nel dicembre 1941 e aveva riguardato quarantasei persone tra donne e bambini. Ma nessuno vi aveva fatto molta attenzione a quel tempo, e i nuovi arrivati non avevano chiaramente molte cose interessanti da raccontare. Non erano venuti dai paesi baltici e dalla Russia occidentale dove aveva avuto luogo la maggior parte dei massacri. Poi, nel novembre 1942, arrivò il secondo gruppo del quale parleremo più avanti; ci fu un terzo contingente molto più piccolo nel febbraio 1943 e qualche altro scambio nell'estate del 1944, soprattutto via Spagna. L'atteggiamento delle S.S. verso questi scambi era nel complesso negativo; più volte Eichmann e altri dichiararono che una certa persona non poteva essere rilasciata anche se ciò era stato richiesto da degli amici (come il partito fascista italiano!) perché "aveva visto troppo" e avrebbe attizzato la propaganda contro la Germania. Ma in certe occasioni venivano scavalcati o non insistevano nella loro opposizione. Così a un gruppo di 137 persone fu permesso di lasciare la Polonia il 28 ottobre e Vienna (dove furono tenuti alcuni giorni prima della loro partenza) l'11 novembre. Il 14 novembre il loro treno arrivò alla frontiera siriana. Fra di loro c'erano settantotto ebrei (dieci vecchi, trentanove donne e ventinove bambini), e di questi sessantanove erano cittadini palestinesi. Dopo un rapido interrogatorio da parte del servizio segreto militare britannico, furono portati ad Athlit, che era stato un campo militare britannico (e anche una prigione) ad alcuni chilometri a sud di Haifa, vicino al mare. Fu lì che due membri dell'esecutivo dell'Agenzia ebraica e due alti funzionari li incontrarono (E. Dobkin, M. Shapira, H. Barlas e Bahar). I nuovi arrivati provenivano da tredici differenti città polacche (fra cui Sosnowice, Kielce, Piotrkov, Cracovia, Sandomir e Bialystok), da Berlino e da Amburgo, dal Belgio e dall'Olanda. Avevano anche avuto l'opportunità di incontrarsi, a Vienna, con il presidente della comunità ebraica, Loewenherz, e il suo vice, Gruen, i quali dissero loro che di una comunità di 200 mila ebrei ne erano rimasti soltanto 400. Mentre la maggior parte delle donne erano state per alcune settimane in varie prigioni prima della loro partenza dalla Polonia, a Vienna potevano muoversi abbastanza liberamente. Così poterono fornire un quadro piuttosto completo della situazione non soltanto della Polonia, ma anche di altre parti d'Europa. Ma erano attendibili? Gli inviati di Gerusalemme sembrano essere stati molto scettici all'inizio. Troppo spesso, in precedenza, persone ingenue (e anche non così ingenue) avevano semplicemente ripetuto delle voci, e frequentemente senza fondamento. Ma i nuovi arrivati non potevano essere liquidati così facilmente: fra di loro c'era un ricercatore scientifico della Università Ebraica, due membri del kibbutz Degania B - appartenenti alla élite degli ebrei palestinesi -, un dirigente sionista di vecchia data di Piotrkov e altri testimoni ugualmente attendibili ("persone del cui giudizio ci si poteva fidare", doveva dire in seguito E. Dobkin). Dobkin riassunse le sue conclusioni in una relazione all'esecutivo dell'Histadrut il 25 novembre 1942; rapporti simili furono inviati alle direzioni dell'Agenzia ebraica e del "Mapai", il partito

laburista. Come rispondere alla domanda posta da tanti: era vero? si poteva credere?

Ci

"Mentre sedevo ad Athlit e ascoltavo le storie di decine di donne mi fu chiaro che, per quanto grande fosse il dolore, non rimaneva alcun dubbio e dovevamo accettare la realtà. Forse abbiamo peccato quando non abbiamo creduto alle prime notizie che giunsero via Ginevra e Istanbul due mesi fa" (49). Ciò che emerse da questi resoconti fu, in primo luogo, che era stata istituita all'inizio dell'estate una commissione governativa tedesca ("Sonder-" o "Vernichtungskommission"), presieduta da un certo commissario Feu o Foy, allo scopo di distruggere l'ebraismo polacco. Questa informazione era in realtà sbagliata o almeno inesatta. Non c'era nessun "comitato speciale"; una sezione era stata istituita diversi anni prima nell'Ufficio centrale per la sicurezza dello stato. Era l'"Operazione Reinhard" (in onore di Reinhard Heydrich che era stato ucciso a Praga) che doveva sterminare gli ebrei polacchi, ed era comandata da Odilo Globocnik. Paradossalmente, questi particolari inesatti ebbero un impatto maggiore sulla dirigenza ebraica e sull'opinione pubblica dei precedenti rapporti più precisi. Fino ad allora si era sempre pensato in termini di pogrom più che di sistematico sterminio. Ma se era stata nominata una speciale commissione, questo gettava ovviamente nuova luce sulla natura e il fine delle persecuzioni. Inoltre, continuava Dobkin, la maggioranza dell'ebraismo polacco era già stata deportata o stava per essere deportata. Fra coloro che erano arrivati non c'era nessuno di Varsavia, il ghetto più grande, ma essi avevano incontrato nell'Alta Slesia (polacca) alcuni ebrei che erano fuggiti da Varsavia e che avevano detto loro che nella capitale restavano soltanto 40 mila ebrei (ce n'erano in realtà ancora 60-70 mila). A Czestochow ne restavano 2000; a Piotrkov di 20 mila soltanto 2600, a Kielce di 30 mila soltanto 1500. Era un quadro generale di assassinio e di distruzione. Essi non avevano potuto avere da coloro con i quali avevano parlato informazioni sul destino dei deportati. Erano stati mandati verso una "direzione ignota" e non c'erano notizie da parte loro, nessuna lettera e nessun messaggio. Cosa significava tutto ciò? C'erano diverse voci in Polonia ed erano evidentemente esatte: alcune grandi strutture di cemento erano state costruite vicino alla frontiera russo-polacca, nelle quali le vittime venivano uccise mediante gas venefici e bruciate (ci si riferiva chiaramente a Sobibor che era vicino alla frontiera russa). Mentre una donna di Oswiecim (Auschwitz) aveva parlato di tre forni per bruciare gli ebrei costruiti in un campo vicino alla città (q). Soprattutto c'era il sistematico assassinio di bambini e anziani. Dobkin disse che non avrebbe mai dimenticato la storia di un bambino di otto anni che si era nascosto in casa con la sorellina di cinque anni quando la polizia venne a prenderli. Egli aveva avvertito la sorellina di non piangere, ma, sopraffatta dalla paura, lei aveva pianto facendosi così trovare e prendere. Una storia su centinaia di migliaia. Ma ciò che emergeva anche da questi resoconti era che la campagna di sterminio aveva ugualmente interessato altri paesi: Germania e Austria, Slovacchia, Iugoslavia e Olanda. Nessun paese sotto dominio nazista era stato risparmiato. In tutta la Germania erano rimasti soltanto 28 mila ebrei (il numero effettivo era circa 50 mila) e ce n'erano ancora meno in Austria. I rappresentanti dell'ebraismo palestinese che ascoltarono la relazione e che lessero la documentazione relativa furono ovviamente profondamente colpiti. Cracovia: più nessun ebreo. Siedlec: più nessun ebreo. Mislovice: un centinaio di ebrei rimasti. Queste erano state le più grandi comunità ebraiche: come potevano essere scomparse? Essi avevano letto tutto questo già prima, ma fino ad allora l'avevano considerate semplici voci. Ma una cosa era respingere le notizie indirette dei giornali o della radio basate forse su informazioni

discutibili. Era invece impossibile non accettare la storia personale di testimone dopo testimone: "Ho lasciato la Palestina nel giugno 1939 per andare a trovare i miei vecchi genitori a Cracovia...". Testimone dopo testimone si presentavano: l'abitante di Tel Aviv che aveva visto la distruzione della comunità di Piotrkov, la donna di Petach Tikva che era tornata dall'Olanda. E' più che probabile che le informazioni da Ginevra avrebbero avuto prima o poi in ogni caso un effetto. Il fatto che le notizie da Ginevra fossero confermate, seppure con riluttanza e con un certo ritardo, dai governi alleati fu di grande importanza. Ma per quanto riguarda la presa di coscienza da parte dell'ebraismo palestinese l'arrivo del gruppo dei sessantanove fu il punto di svolta. Coloro che ascoltavano i rapporti e leggevano la documentazione si chiedevano come David Remes: "E' possibile che tali autentiche notizie non abbiano raggiunto l'America? Ho sentito dire da Ben Gurion che essi erano a conoscenza di queste terribili notizie già prima di noi...". E Dobkin: "Le notizie raggiunsero noi e l'America via Ginevra. Ma dal modo in cui la gente ha reagito qui posso immaginarmi come abbiano reagito laggiù. Quando ricevemmo le informazioni molti poterono non credere alla loro autenticità. Ben Gurion dice che in America pensavano che questo fosse uno dei metodi di propaganda. Adesso dobbiamo far capire all'ebraismo americano che le informazioni erano effettivamente esatte" (50). Ci furono grandi pressioni perché si agisse immediatamente. Come disse uno dei partecipanti (M. Erem), "tre giorni sono già passati". Tre giorni! Il 22 novembre 1942 l'esecutivo dell'Agenzia ebraica pubblicò una dichiarazione secondo la quale era stata ricevuta notizia da "fonti autorevoli e attendibili" che i nazisti avevano iniziato in Polonia una sistematica campagna di sterminio. In due giorni, dal 30 novembre al primo dicembre, si doveva esprimere la solidarietà della comunità e si doveva mettere in allarme la coscienza del mondo. Ci furono dimostrazioni, riunioni, discorsi, e la prima pagina dei giornali fu listata a lutto. Si costituirono comitati di emergenza e di salvataggio, emissari furono inviati a Istanbul e in altri luoghi per cercare di raggiungere gli ebrei nell'Europa occupata; fu discussa per la prima volta l'idea di inviare paracadutisti (51). Ma, come scrisse in un telegramma a Washington il console generale americano a Gerusalemme, il sentimento generale era di tragica impotenza: che cosa poteva fare l'ebraismo palestinese per dare un aiuto effettivo? Dalla fine del novembre 1942 il dramma dell'Olocausto doveva turbare le comunità ebraiche in America, Palestina e Gran Bretagna. Ma anche allora l'enorme vastità della catastrofe non era stata del tutto compresa: organizzazioni ebraiche in America e altrove continuavano a pubblicare dichiarazioni sulla vita degli ebrei nei ghetti che andava avanti e sulla continua resistenza eroica delle masse ebraiche. I sionisti, compresi i dirigenti del Congresso mondiale ebraico, erano impegnati a elaborare i progetti per il dopoguerra e prestavano un'attenzione poco più che formale a ciò che accadeva in Europa, in forte contrasto con le invocazioni che provenivano da Ginevra e da Istanbul per immediate iniziative allo scopo di salvare quanti ancora restavano (52). In anni successivi il dottor Riegner osservò quanto lui e i suoi colleghi a Ginevra erano stati sconcertati dall'incapacità della dirigenza ebraica all'estero di capire sia la vastità che la rapidità dello sterminio. Parlavano di due milioni di vittime quando in effetti i morti erano già quattro milioni. Il direttore dell'Istituto degli affari ebraici di New York (J. Robinson) pubblicò uno studio con cifre del tutto inesatte che apparvero anche sulla stampa europea. Il comitato di soccorso di New York (diretto dal professor A. Tartakower) inviò liste di migliaia di ebrei polacchi a cui spedire pacchi; sembravano non accettare che quegli uomini, né i loro indirizzi, non

esistessero più. "Noi [a Ginevra] avevamo l'impressione che essi non capissero più ciò che succedeva. Il loro atteggiamento può essere spiegato con l'ottimismo e con l'incapacità di accettare il peggio. Per noi ciò era semplicemente incomprensibile" (53).

NOTE AL CAPITOLO 6. (a) "Congress Weekly", 28 novembre 1941; discorso alla Conferenza ebraica Interamericana: "E' inutile cercare di migliorare con un intervento politico l'incredibilmente tragica situazione degli ebrei nei paesi dominati dai nazisti. A che serve intervenire presso i governi romeno, bulgaro e ungherese praticamente burattini della Germania?". I governi romeno, bulgaro e ungherese non erano burattini, come doveva mostrare il loro atteggiamento nel confronti delle richieste tedesche sulla consegna degli ebrei. (b) Questo telegramma fu letto dalla censura americana e inviato al Dipartimento di stato. Vi è acclusa una nota per A. A. Berle: "Lo terremo segreto se approvate". N.A. 862.4016/2238. (c) In un discorso nel novembre 1944 Goldmann affermò che lui e Wise avevano dovuto acconsentire alla richiesta del dipartimento di stato di non pubblicare "per ora le storie di atrocità", perché altrimenti questo sarebbe stato l'ultimo telegramma che avrebbero ricevuto da Ginevra. Ma in ogni caso essi non avevano ricevuto le informazioni attraverso il dipartimento di stato: Washington cercò di bloccare in seguito la trasmissione di notizie (febbraio 1943), e ci furono altri canali per trasmettere le informazioni dalla Svizzera negli Stati Uniti. (d) Verso la fine della guerra ci furono alcune esecuzioni di prigionieri di guerra che avevano tentato la fuga, ma furono rare eccezioni. (e) Quanto sapesse un singolo, isolato individuo emerge dalla storia di Leonidas Sebba, un profugo di Riga che arrivò in Svezia nel 1943. Il suo rapporto scritto (in tedesco) si estende su oltre dieci pagine di carta protocollo e fu dattilografato, usando lo spazio uno, per Hillel Storch, il rappresentante del Congresso mondiale ebraico a Stoccolma. Sebba non descriveva soltanto la morte dei membri della sua famiglia e di conoscenti, ma riferiva particolari su tutte le maggiori comunità dei paesi baltici e arrivava a concludere che quasi tutti gli ebrei erano stati uccisi. Sebba, che allora aveva ventun'anni, era fuggito dalla Gestapo, per la quale aveva lavorato come elettricista, e aveva trovato lavoro su una nave tedesca celando la sua identità; aveva poi "disertato" a Helsinki l'8 gennaio 1943 proseguendo infine per Stoccolma. (f) Ci furono circa dieci fughe da Sobibor prima della rivolta e sessanta durante gli scontri; qualche decina di prigionieri fuggirono

da Treblinka prima della rivolta e forse venti mentre era Sono grato al dottor Y. Arad, direttore di Yad Vashem, cifre.

in corso. per queste

(g) Anche nell'ottobre 1942, quando si ricevevano a Gerusalemme da molte fonti informazioni sulla soluzione finale, c'era una certa riluttanza a spendere denaro in telegrammi troppo frequenti e troppo lunghi. Quando Gruenbaum, in una riunione dell'esecutivo dell'Agenzia ebraica, chiese uno speciale stanziamento di cento sterline palestinesi per i telegrammi, sia allo scopo di ricevere più notizie che di mobilitare le organizzazioni ebraiche all'estero, Elieser Kaplan, tesoriere dell'Agenzia ebraica, sostenne che cinquanta sterline sarebbero state sufficienti. Alcuni dei presenti dichiararono che proteste da parte delle organizzazioni ebraiche sarebbero state inutili; Shertok disse che le stesse informazioni venivano ricevute a Londra e a New York e che non aveva senso pressare i governi alleati di attaccare i nazisti visto che erano comunque in stato di guerra con la Germania. Protocollo dell'esecutivo dell'Agenzia ebraica, 25 ottobre 1942, citato in Y. Gelber, "Toldot Hahitnadvut", Gerusalemme 1979, 1°, p. 682. (h) Quanto segue si basa sulla corrispondenza di Lichtheim conservata nell'archivio centrale sionista a Gerusalemme (C.Z.A.). Ho conosciuto Richard Lichteim attraverso suo figlio, George, e ho discusso con lui, in varie occasioni, il suo lavoro a Ginevra passeggiando per Rehavia, il sobborgo di Gerusalemme dove egli andò ad abitare verso la fine degli anni quaranta. (i) 30 agosto 1942 (lettera 802) C.Z.A. La fonte del rapporto fu la legazione polacca a Berna che serviva da base per i corrieri provenienti dalla Polonia. La legazione era retta da Alexander Lados, fra i cui collaboratori c'era Julius Kuehl che era arrivato a Berna dalla Polonia come studente nel 1929 (la sua tesi di laurea si occupava delle relazioni commerciali svizzero-polacche). Dal 1938 in poi Kuehl fu impiegato al servizio consolare polacco. Aveva rapporti amichevoli con gli Sternbuch, una famiglia ebraica ortodossa che risiedeva a San Gallo. Egli trasmise informazioni a loro e a Silbershein a Ginevra. In una lettera al dottor Schwarzbart a Londra (8 ottobre 1942, archivio Schwarzbart) Silbershein dice che il rapporto summenzionato lo raggiunse attraverso la legazione polacca. Ma anche gli Sternbuch ricevettero lettere direttamente dalla Polonia. Le più famose, e le più atroci, sono due lettere di I. Domb da Varsavia, datate 4 e 12 settembre, in cui, in un linguaggio appena velato, lo scrivente annunciava che praticamente tutti attorno a lui erano stati uccisi. Adesso egli era completamente solo: "Per favore pregate per me". (l) "Hamashkif", 6, 11 dicembre 1942 e molti articoli nel 1943 e nel 1944 sulla stampa ebraica. Ma Prager, in anni successivi, non accusò soltanto se stesso, ma ancora più duramente quasi e tutti gli altri (ad eccezione soltanto dei suoi amici dell'ultraortodossa Agudat Israel) e alla fine arrivò alla conclusione che l'Olocausto non doveva diventare oggetto di ricerca storica. ("Bet Ya'akov", maggio 1974, 412). Prager (e altri) si riferiscono soprattutto al pessimismo espresso da Y. Gruenbaum, che nell'agosto 1942 mise in dubbio che gli ebrei polacchi potessero essere ancora salvati e che un effettivo aiuto potesse essere loro prestato (C.Z.A. S 26-1235, incontro fra Gruenbaum e il rabbino Levin). Gruenbaum pensava che soltanto la vittoria militare degli Alleati avrebbe salvato gli ebrei rimasti e credeva che le dimostrazioni di protesta e simili azioni rumorose fossero inefficaci e inutili (A. Morgenstern, "Va'ad ha'hazala" eccetera in "Yalkut Moreshet", giugno 1971, 71 e seg.). Molti anni dopo, quando Gruenbaum fu intervistato su ciò che allora sapeva, disse che verso la fine del 1942 "ricevemmo notizie da Ginevra che qualcosa di orribile stava succedendo in Polonia, ma non sapevamo cosa...": il

confuso resoconto di un vecchio ottantenne ("Etgar", 29 giugno 1961. Intervista di Gruenbaum a cura di Natan Yalin Mor). Per il "mea culpa" del dottor N. Goldmann (scritto in "pluralis majestatis") vedi "Davar", 14 settembre 1966: "La nostra generazione non fece il suo dovere, incluso me stesso... La maggior parte non capiva il pericolo del nazismo. Non prevedemmo la possibilità dei campi della morte. La nostra immaginazione era troppo limitata... Quando giunsero le prime notizie sull'assassinio degli ebrei, gli ebrei americani non reagirono". (m) Schertok non ebbe troppo successo con la sua richiesta al generale Auchinleck. Il Foreign Office era, nel complesso, ancora più contrario all'idea di armare gli ebrei di Palestina. Come scrisse Harry Eyes, commentando una lettera di Sir Lewis Namier sullo stesso argomento: "Dal punto di vista degli stessi ebrei sembra molto pericoloso armarli se mai i tedeschi raggiungeranno la Palestina. Sembra inconcepibile che i tedeschi potrebbero mettersi a massacrare a sangue freddo 400 mila ebrei. Ma nulla sarebbe più decisivo per spingerli a farlo del fatto che gli ebrei fossero armati e potessero resistere in certi casi all'avanzata tedesca o catturassero un gruppo di paracadutisti" (nota datata 1 maggio 1941). (n) Il 25 maggio, al segretariato mondiale del "Mapai" ("Ihud"), il 27 maggio al consiglio dell'"Histadrut" (sindacato). I discorsi furono stenografati e all'inizio di luglio circolavano ("riservati") fra un limitato numero di persone. (o) E' noto da varie fonti che i dirigenti ebrei slovacchi erano in contatto telefonico piuttosto frequente con i rappresentanti ebrei in Svizzera (Josef Kornianski, "Beshlichut Halutzim", Bet Lohamei Hagetaot, 1979, p. 93). Il dottor Silbershein a Ginevra ricevette una telefonata nel maggio 1942 da un ignoto rappresentante della Croce Rossa tedesca a Kolomea, Galizia orientale, con la quale gli venne comunicato che moltissimi ebrei erano morti di morte violenta e che i superstiti vivevano in condizioni di estrema povertà e che necessitavano di urgenti aiuti (Riegner a N. Goldmann, Ginevra, 17 giugno 1942. Congresso mondiale ebraico, archivio dell'Istituto per gli affari ebraici, Londra). (p) A quell'epoca si pensava generalmente che il destino degli ebrei croati era stato il peggiore. Così Silbershein in una lettera da Ginevra datata 4 maggio 1942: "Ciò che è accaduto a Zagabria non è accaduto in nessun altro posto...". (q) Non c'erano ebrei nella città di Auschwitz; la testimone era in realtà della vicina Sosnowice. Essa disse che erano stati costruiti altri due camini. Ogni tanto ebrei dei dintorni venivano portati nei campi. "Tamzit Yediot" eccetera, parte prima, 20 novembre 1942. La sezione informazioni dell'Agenzia ebraica diffuse immediatamente dopo la visita ad Athlit resoconti piuttosto dettagliati delle testimonianze ricevute. Altri nuovi arrivati menzionarono Belzec e Treblinka.

CONCLUSIONE. La documentazione fin qui raccolta dimostra che le notizie sulla soluzione finale erano state ricevute in tutta l'Europa nel 1942, anche se non tutti i particolari erano conosciuti. Stando così le cose, perché i messaggi furono così frequentemente fraintesi e rifiutati? 1. Il fatto che Hitler avesse dato un esplicito ordine di uccidere tutti gli ebrei non fu conosciuto per molto tempo. Questa decisione fu presa poco dopo quella di invadere la Russia. Victor Brack, che lavorò a quell'epoca nella Cancelleria di Hitler, testimoniò a Norimberga che già nel marzo 1941 non era un segreto nelle alte sfere del partito che gli ebrei dovevano essere sterminati. Ma "le alte sfere del partito" possono aver significato allora non più di una dozzina di persone. Nel marzo 1941 neanche Eichmann sapeva, perché i preparativi per le deportazioni e per i campi non erano stati ancora fatti. Le prime istruzioni a tal fine furono date in una lettera di Göring a Heydrich il 31 luglio 1941. Il fatto che un ordine era stato dato da Hitler divenne noto fuori della Germania solo nel luglio 1942 e anche allora in forma distorta: Hitler, fu affermato, aveva ordinato che nessun ebreo doveva restare in Germania per la fine del 1942. Ma non c'è alcuna prova che un tale limite di tempo sia mai stato fissato. Non sarebbe stato difficile, per esempio, deportare tutti gli ebrei da Berlino nel 1942, ma, in realtà, la città fu dichiarata priva di ebrei da Goebbels soltanto nell'agosto 1943. Testimoni affermarono di aver visto l'ordine, ma è dubbio che ci sia mai stato un ordine scritto. Ciò ha dato luogo a infinite congetture e ha ispirato un'intera letteratura "revisionista": del tutto inutilmente, perché Hitler, a parte i suoi altri vizi, non era un burocrate. Non era abituato a dare ordini scritti in tutte le occasioni: non ci furono ordini scritti per la "purga" del giugno 1934, per l'uccisione di zingari, per la cosiddetta azione eutanasia (T 4) e in altre occasioni del genere. Più abominevole il crimine, e meno probabilmente ci sarebbe stato un ordine scritto del Führer. Anche se Himmler, Heydrich o anche Eichmann avessero detto che c'era un tale ordine, nessuno avrebbe fatto domande o avrebbe insistito per vederlo. 2. L'ordine aveva conseguenze pratiche, riguardava la vita o, per essere più precisi, la morte di milioni di persone. Per questa ragione particolari sulla soluzione finale trapelarono praticamente subito all'inizio dei massacri. I massacri sistematici da parte delle Einsatzgruppen nella Galizia orientale, nella Russia Bianca, in Ucraina e nei paesi baltici furono conosciuti in Germania quasi immediatamente. E' vero che la scena della carneficina era distante ed essa aveva luogo in territori nei quali a quell'epoca civili e stranieri non potevano viaggiare liberamente, ma molte migliaia di ufficiali e soldati tedeschi assistettero a queste scene e in seguito le riferirono, così come fecero i soldati italiani, ungheresi e romeni. Il ministero degli esteri tedesco fu ufficialmente informato sui particolari dei massacri. Ci fu molta minore segretezza sulle Einsatzgruppen di quanta ce ne sarà in seguito sui campi di sterminio. Il governo sovietico deve aver saputo dei massacri dopo pochi giorni; nell'arco di alcune settimane le notizie furono conosciute anche nelle capitali occidentali, ben prima della conferenza di Wannsee. Il massacro di Kiev (Babi Yar) ebbe luogo il 29-30 settembre 1941. Giornalisti stranieri ne vennero a conoscenza dopo pochi giorni; poco meno di due mesi dopo esso fu riportato nella stampa occidentale. I massacri nella Transdniestria furono conosciuti quasi immediatamente. Chelmno, il primo campo di sterminio, fu aperto l'8 dicembre 1941; la notizia raggiunse Varsavia poco meno di quattro settimane dopo e venne pubblicata nella stampa clandestina. L'esistenza e l'attività di Belzec e di Treblinka furono conosciute fra gli ebrei e non ebrei di

Varsavia due settimane dopo che le camere a gas avevano cominciato a funzionare. La notizia del suicidio di Czerniakow, capo dello "Judenrat" di Varsavia, raggiunse la stampa ebraica estera in breve tempo. Le deportazioni da Varsavia furono conosciute a Londra dopo quattro giorni. Ci furono alcune eccezioni: la vera natura di Auschwitz non fu conosciuta fra gli ebrei come fra i polacchi per diversi mesi dopo la trasformazione del campo in un campo di sterminio. A quell'epoca in Polonia si credeva che ci fossero soltanto due tipi di campi, campi di lavoro e campi di sterminio, e il fatto che Auschwitz fosse un "campo misto" sembra aver confuso molti. 3. Se tanto si seppe così rapidamente fra gli ebrei dell'Europa orientale e se le informazioni circolavano attraverso giornali clandestini e tramite altri mezzi - c'erano stazioni radio in tutti i maggiori ghetti - perché non furono credute? All'inizio gli ebrei russi e polacchi erano veramente impreparati, e le ragioni sono state esposte: gli ebrei sovietici sono stati tenuti disinformati sulle intenzioni e le iniziative naziste, gli ebrei polacchi credevano che i massacri sarebbero stati limitati ai territori precedentemente sovietici. All'inizio la tendenza fu di interpretare questi avvenimenti alla luce del passato: persecuzioni e pogrom. I dirigenti ebrei di Varsavia che vennero a sapere degli avvenimenti in Lituania e in Lettonia all'inizio del 1942 avrebbero dovuto rendersi conto che non si trattava di pogrom in senso tradizionale, e cioè spontanei attacchi della plebaglia, e neanche di eccessi commessi da comandanti locali. Ci sono poche azioni casuali in un regime totalitario. Le Einsatzgruppen agivano metodicamente e a sangue freddo. La maggioranza dei dirigenti ebrei non si rendeva conto che questo era l'inizio di una sistematica campagna di annientamento. L'intero progetto andava oltre l'immaginazione umana: essi pensavano che i nazisti fossero incapaci di assassinare milioni di persone. Le comunicazioni fra alcuni ghetti erano irregolari; il ghetto di Lodz, il secondo per grandezza, era più o meno isolato. Ma d'altra parte le voci continuavano a circolare rapidamente. Se le notizie sulla soluzione finale fossero state credute esse avrebbero raggiunto ogni angolo della Polonia in pochi giorni. Ma non furono credute, e quando le "deportazioni" dai ghetti polacchi cominciarono nel marzo 1942 si pensava ancora che gli ebrei sarebbero stati trasportati in luoghi più a est. I giornali clandestini e le altre fonti trasmettevano notizie inquietanti, e si accennava alla possibilità che molti sarebbero morti. Ma le informazioni erano contraddittorie. I più non leggevano la stampa clandestina e non c'era nulla di certo. Forse i nazisti avevano davvero bisogno di una gran parte della popolazione ebraica come forza lavoro per l'economia di guerra; forse la guerra sarebbe finita presto; forse sarebbe accaduto un miracolo. Le voci sono tante in situazioni disperate ed è facile credere nei miracoli. Dopo il luglio 1942 (le deportazioni da Varsavia) è sempre più difficile capire che ci fosse ancora una grande confusione sui disegni nazisti nei confronti degli ebrei polacchi e che le voci non fossero riconosciute per ciò che erano: certezze. Ogni analisi razionale della situazione avrebbe dimostrato che il fine dei nazisti era lo sterminio di tutti gli ebrei. Ma le pressioni psicologiche ostacolavano l'analisi razionale e creavano un'atmosfera in cui l'illusione sembrava offrire l'unico antidoto alla più completa disperazione. 4. Di tutte le altre comunità ebraiche soltanto gli slovacchi sembrano essersi resi conto quasi subito di alcuni pericoli che li minacciavano (come pure i romeni, ma la loro posizione era del tutto diversa). Ma anche loro non riuscirono a capire fino alla fine del 1943 che i nazisti volevano uccidere tutti gli ebrei. Le altre comunità (compresi gli ebrei tedeschi, olandesi, danesi, francesi, greci eccetera) sembrano essere vissute in una ignoranza quasi totale pressoché fino alla fine. Queste comunità erano isolate, i mezzi di informazione a loro disposizione limitati. Ma malgrado tutto ciò, la maggior parte degli ebrei d'Europa, e molti non ebrei, dovevano aver almeno sentito

delle voci su qualche terribile fatto accaduto nell'Europa orientale, e alcuni dovevano aver sentito più che delle voci. Queste voci li raggiungevano in decine di modi diversi. Ma non erano credute o si presumeva che "questo qui non può accadere". Soltanto una minoranza relativamente piccola cercò di nascondersi e di fuggire, conscia che deportazione significava morte. La propaganda nazista contribuì alla confusione fra gli ebrei. Ma le menzogne naziste erano generalmente assai trite e non possono essere considerate come la fonte principale di disorientamento. 5. I dirigenti ebrei e l'opinione pubblica all'estero (Gran Bretagna, America e Palestina) trovarono estremamente difficile, nella loro grande maggioranza, accettare le numerose testimonianze sulla soluzione finale, e lo fecero soltanto con un considerevole ritardo. Anch'essi pensavano a persecuzioni e pogrom in un'epoca in cui era già emerso che la situazione era ben diversa. Si trattò di mancanza di intelligenza e immaginazione, causata da una parte da un'errata interpretazione della natura assassina del nazismo e dall'altra da un falso ottimismo. Altri fattori possono aver avuto una certa importanza: il senso di impotenza ("possiamo fare molto poco, così speriamo per il meglio") e i pericoli militari incombenti sulla comunità ebraica in Palestina nel 1942. Se le prove furono minimizzate da molti dirigenti ebrei e dalla stampa ebraica, ciò non avvenne per desiderio di tenere la comunità all'oscuro, ma perché c'erano reali dubbi. Quando le peggiori paure trovarono conferma ci fu incertezza fra i dirigenti circa le azioni da intraprendere. Ciò avvenne soprattutto negli Stati Uniti e causò ulteriori ritardi nel rendere pubbliche le notizie. A Gerusalemme la svolta si verificò con l'arrivo di quel gruppo di cittadini palestinesi che erano stati rimpatriati dall'Europa nel novembre 1942. I dirigenti dell'Agenzia ebraica, che non avevano voluto accettare i resoconti scritti raccolti da esperti osservatori, furono pronti a credere alle testimonianze dirette rese da questi nuovi arrivati. 6. La resistenza polacca ebbe un ruolo centrale nella trasmissione delle notizie in Occidente. Essa aveva una rete spionistica piuttosto buona e anche i mezzi per trasmettere le informazioni all'estero tramite radio a onde corte e corrieri. La maggior parte delle informazioni sulla politica nazista di sterminio raggiunse gli ambienti ebraici all'estero attraverso la resistenza polacca. I polacchi nutrivano poche illusioni sulle intenzioni dei nazisti, e i loro rapporti fornivano un quadro realistico della situazione. Sono stati accusati di aver minimizzato la catastrofe ebraica per non distrarre l'opinione pubblica mondiale dalle sofferenze del popolo polacco, e di avere temporaneamente interrotto le trasmissioni di notizie in Occidente relative all'uccisione degli ebrei. La resistenza polacca, inutile dirlo, era soprattutto preoccupata del destino del popolo polacco, non di quello di una minoranza. Ma nel complesso non soppresse le notizie sulle uccisioni in massa nei suoi bollettini e nelle informazioni trasmesse all'estero. Ci fu un'eccezione nel periodo che va dalla fine di luglio ai primi del settembre 1942 (le deportazioni da Varsavia), quando il governo in esilio a Londra, o per propria iniziativa, o per consiglio del Foreign Office, non rese immediatamente pubbliche le notizie ricevute da Varsavia. Le prove sono contraddittorie: le informazioni furono certamente minimizzate per un certo tempo, ma non ci fu mai una totale interruzione. Ci furono ritardi a Londra, ma non maggiori di quelli dei dirigenti ebrei che, anch'essi, non credettero alle informazioni quando le ricevettero per la prima volta. Non può essere provato se il governo polacco in esilio abbia mostrato o meno ai membri del Consiglio nazionale tutto il materiale ricevuto. Ma Zygielbojm e Schwarzbart ebbero certamente accesso a tutte le informazioni essenziali. Il governo polacco fu il primo a mettere in allarme i governi alleati e l'opinione pubblica mondiale, ma fu accusato di esagerare, come lo furono in seguito gli ebrei. Da allora fino alla fine della guerra il numero delle vittime

comunicato nelle dichiarazioni ufficiali dei governi alleati fu costantemente troppo basso. Anche dopo che a Londra e Washington si era accettato che le informazioni sui massacri erano esatte, i governi britannico e americano si preoccupavano che non venissero troppo pubblicizzate. 7. Milioni di tedeschi sapevano, alla fine del 1942, che gli ebrei erano scomparsi. Voci sul loro destino raggiunsero la Germania soprattutto attraverso ufficiali e soldati di ritorno dal fronte orientale, ma anche attraverso altri canali. C'erano chiare indicazioni nei discorsi dei capi nazisti che era accaduto qualcosa di più drastico di un semplice rinsediamento. Soltanto pochissime persone sapevano esattamente in che modo gli ebrei erano stati uccisi. E' in realtà assai probabile che molti tedeschi, mentre pensavano che gli ebrei non fossero più vivi, non credessero necessariamente che erano morti. Tale convinzione, inutile dirlo, è logicamente incoerente, ma moltissime incoerenze logiche vengono accettate in tempo di guerra. Pochissime persone erano interessate al destino degli ebrei. La maggior parte doveva affrontare molti problemi più importanti. Era un argomento spiacevole, pensarci non serviva a niente, e le discussioni sul destino degli ebrei venivano lasciate cadere. Per tutta la durata della guerra questo argomento fu evitato, cancellato. 8. I paesi neutrali e le organizzazioni internazionali come il Vaticano e la Croce Rossa seppero la verità fin dai primi tempi. Forse non tutta la verità, ma abbastanza per capire che pochi ebrei, nel caso migliore, sarebbero sopravvissuti alla guerra. Il Vaticano aveva un'eccezionale rete di informatori in tutta Europa. Cercò di intervenire in alcune occasioni a favore degli ebrei, ma non desiderava dar pubblicità alla questione. Perché ciò lo avrebbe da una parte esposto agli attacchi tedeschi e dall'altra a pressioni da parte degli ebrei e degli Alleati a far di più. Gli ebrei, dopotutto, non erano cattolici. In tempi normali la loro persecuzione avrebbe provocato espressioni di sincera deplorazione. Ma questi non erano tempi normali e siccome la Santa Sede poteva far poco - o pensava di poter far poco - anche per i fedeli polacchi, pensava di poter fare ancora meno per gli ebrei. Questa paura delle conseguenze di un aiuto agli ebrei influenzò tutta la sua politica. La posizione della Croce Rossa Internazionale fu grosso modo simile. Essa aveva, ovviamente, minori fonti di informazioni della Chiesa cattolica e minore influenza. Ma anch'essa esagerò la sua debolezza. In realtà era meno esposta ad azioni di rappresaglia di quanto pensasse, e, mentre le sue proteste avrebbero potuto risultare inutili, avrebbe potuto far conoscere direttamente o indirettamente i fatti di cui era a conoscenza. Alcuni dei suoi dirigenti lo fecero. I governi neutrali ricevettero molte informazioni sulla soluzione finale attraverso molti canali. Non c'era censura in Svezia (eccetto l'autocensura) e nel 1942 la censura svizzera sulla stampa non impedì la pubblicazione di notizie sul destino degli ebrei. Non tutti i giornali svizzeri dimostrarono un'uguale misura di comprensione e di compassione, e la stampa svedese ricevette istruzioni di non riportare "atrocità", ma i loro lettori avrebbero potuto avere pochi dubbi sull'effettivo stato delle cose verso la fine del 1942. 9. Né il governo degli Stati Uniti, né la Gran Bretagna, né Stalin mostrarono alcun particolare interesse per il destino degli ebrei. Essi erano tenuti informati attraverso le organizzazioni ebraiche e attraverso i loro propri canali. Fin dai primi tempi la stampa sovietica pubblicò molte informazioni generiche sulle atrocità naziste nelle aree occupate, ma soltanto raramente rivelò che gli ebrei erano designati allo sterminio. Fino a oggi la linea del partito comunista sovietico non è cambiata sotto questo profilo: non ha ammesso che siano stati fatti degli errori, che la popolazione ebraica era del tutto impreparata all'arrivo delle Einsatzgruppen. Non si riconosce neanche ora che se nel 1941 precisi avvertimenti fossero stati dati

dai mezzi di comunicazione sovietici (che erano informati sugli eventi al di là delle linee tedesche), delle vite avrebbero potuto essere salvate. Per quanto riguarda le pubblicazioni sovietiche, il governo e il partito comunista agirono correttamente: i cittadini sovietici di origine ebraica non ebbero problemi diversi dagli altri cittadini sovietici sotto il dominio nazista, e se invece non fu così, è giudicato sconsigliabile farne menzione. Le uniche voci blandamente critiche che si sono udite si possono trovare in qualche opera letteraria che descrive gli avvenimenti del 1941-42. Alcuni osservatori occidentali hanno sostenuto che le prime (rare) notizie sovietiche sui massacri contro gli ebrei furono a volte liquidate in Occidente come "propaganda comunista", e che per questa ragione i dirigenti sovietici decisero di non mettere più in risalto la specifica natura antiebraica della campagna di sterminio (a). Questa spiegazione non è affatto convincente perché la politica interna sovietica non era certo influenzata dal "Catholic Times", e si dovrebbe sottolineare che, internamente, fin dall'inizio fu data alle vittime ebraiche ancora meno pubblicità che all'estero. A Londra e a Washington i fatti sulla soluzione finale furono conosciuti piuttosto presto e raggiunsero i capi dei servizi segreti, i ministri degli affari esteri e della difesa. Ma i fatti non furono considerati di grande interesse o importanza o almeno alcuni funzionari non ci credettero o li giudicarono esagerati. Non ci fu nessun tentativo deliberato per interrompere il flusso di informazioni sulle uccisioni in massa (tranne che per un certo periodo da parte di funzionari del dipartimento di stato) ma soprattutto mancanza di interesse e incredulità. Questa incredulità può essere spiegata sulla base della mancanza di conoscenza da parte degli angloamericani degli affari europei in generale e del nazismo in particolare. Sebbene fosse generalmente accettato che i nazisti si comportassero in maniera meno civile dell'esercito tedesco nel 1914-18, l'idea di un genocidio sembrava tuttavia incredibile. Né la "Luftwaffe", né la marina tedesca, né l'Afrika Korps avevano commesso simili atti di atrocità, e questi furono gli unici reparti delle forze armate tedesche che i soldati alleati incontrarono prima del 1944. La Gestapo era conosciuta attraverso non molto credibili film di serie B. Il fanatismo barbaro era inaccettabile per persone che pensavano pragmaticamente, che credevano che i lavori forzati piuttosto che l'annientamento fossero il destino degli ebrei in Europa. La maligna natura del nazismo era al di là della loro comprensione. Ma se anche la realtà della soluzione finale fosse stata accettata a Londra e a Washington, la questione avrebbe comunque figurato molto in basso nella scala delle priorità alleate. Il 1942 era un anno critico nel corso della guerra, strateghi e burocrati non dovevano essere distratti dalla ricerca per la vittoria da considerazioni non direttamente connesse con lo sforzo bellico. Perciò troppa pubblicità sullo sterminio sembrava indesiderabile, perché era destinata a generare richieste di aiuto per gli ebrei, e ciò era considerato dannoso allo sforzo bellico (b). Anche in anni successivi, quando la vittoria era già assicurata, ci fu poca propensione ad aiutare gli ebrei. Churchill mostrò più interesse per la tragedia ebraica di Roosevelt e anche più compassione, ma anche lui non fu disposto a preoccuparsi troppo di questo argomento. L'opinione pubblica in Gran Bretagna, negli Stati Uniti e altrove fu fin dai primi tempi tenuta informata dalla stampa sugli sviluppi della soluzione finale. Ma l'effetto delle notizie era scarso o al massimo di breve durata. Il fatto che milioni di persone venissero uccise era più o meno insignificante. La gente si poteva forse identificare con il destino di un singolo individuo o di una famiglia, ma non con il destino di milioni di persone. Le statistiche sullo sterminio non erano credute o erano rimosse dalle coscienze. Da qui la sorpresa e lo stupore quando giunsero alla fine della guerra i rapporti su un "campo di transito" come Bergen Belsen: "Nessuno aveva saputo, nessuno era stato preparato a questo".

Così le notizie sullo sterminio di molti milioni di ebrei non furono accettate per molto tempo e anche quando furono accettate non ne furono comprese tutte le implicazioni. Fra gli ebrei ciò frequentemente causò in anni successivi un trauma che in casi estremi portò a credere che ogni pericolo che minacciava gli ebrei, sia individualmente che come gruppo, doveva essere interpretato in termini di un nuovo Olocausto. Una tale distorsione della realtà è psicologicamente comprensibile, il che non la rende meno pericolosa in quanto principio politico potenzialmente disastroso. L'effetto sui non ebrei è stato scarso. Ci sono stati, dopotutto, molti fallimenti simili nel corso della storia. Gli ottimisti potrebbero tuttavia sostenere che un fallimento non dovrebbe ispirare pessimismo e rafforzare così gli argomenti a favore delle analisi più negative. Un diplomatico inglese disse giustamente che a lungo termine (1910-50) il suo stato di servizio come inveterato ottimista era stato molto più brillante di quello delle cassandre di professione che non fanno che parlare di pericolo della guerra. Si era sbagliato soltanto due volte... E' stato detto che in tempo di guerra non ci sono "avvertimenti strategici", segnali non ambigui, assolute certezze. Non solo i segnali devono essere considerati, ma anche il rumore di fondo, le interferenze, l'inganno. Se anche Barbarossa e Pearl Harbor giunsero di sorpresa, malgrado il fatto che gli occhi di tutto il mondo scrutassero gli orizzonti alla ricerca di tali segnali, e malgrado il fatto che c'erano molte prove e molti avvertimenti al riguardo, non è forse naturale che gli ebrei europei siano stati presi alla sprovvista? (1). Ma c'era una differenza fondamentale: Barbarossa e Pearl Harbor furono attacchi di sorpresa, mentre la soluzione finale procedette in varie fasi per un lungo periodo. Alcuni hanno affermato retrospettivamente che "Mein Kampf" e i discorsi di Hitler avrebbero dovuto dissipare ogni dubbio riguardo alle vere intenzioni dei nazisti. Ma ciò è sbagliato. La "soluzione della questione ebraica" avrebbe potuto significare ugualmente la ghettizzazione o l'espulsione in qualche posto lontano come il Madagascar. Fu soltanto dopo l'invasione dell'Unione Sovietica che ci fu ragione di credere che larghi settori dell'ebraismo europeo non avrebbero sopravvissuto alla guerra. All'inizio furono soltanto voci isolate, poi le voci si intensificarono e alla fine diventarono certezza. Un ebreo di Varsavia abbastanza bene informato avrebbe dovuto trarre conclusioni esatte già nel maggio 1942, e qualcuno lo fece. Ma il tempo e il luogo erano poco adatti per analisi distaccate e oggettive; la disgregazione dell'intelligenza razionale è uno dei temi ricorrenti in tutti coloro che hanno scritto su questo periodo sulla base di una conoscenza diretta. Le società democratiche dimostrarono in questa occasione come in molte altre, sia prima che dopo, che esse sono incapaci di capire regimi politici di natura diversa. Non ogni dittatura moderna è di tipo hitleriano e mette in atto un genocidio, ma ognuna ha il potenziale per farlo. Le società democratiche sono abituate a pensare secondo categorie liberali e pragmatiche; credono che i conflitti si basino su dei malintesi e che possano essere risolti con un minimo di buona volontà; l'estremismo è un'aberrazione temporanea, come lo è il comportamento irrazionale, l'intolleranza, la crudeltà eccetera. Lo sforzo per superare tali handicap psicologici fondamentali è immenso. Viene intrapreso solo alla luce di immediate (e dolorose) esperienze. Ogni nuova generazione deve affrontare questa sfida perché l'esperienza non può essere ereditata. La reazione dell'ebraismo esteuropeo può essere capita soltanto considerando la sua particolare situazione nel 1942. Ma ci sono situazioni che non possono essere ricreate, per quanto sofisticate possano essere le tecniche di simulazione, per quanto grande sia la capacità di partecipazione e di immaginazione. Generalizzazioni sul comportamento umano di fronte a una catastrofe sono di limitato valore: ogni catastrofe è differente. Alcuni di coloro che hanno

vissuto questa catastrofe hanno cercato, in anni successivi, di trovare delle spiegazioni. Ma mentre i loro racconti sono di grande interesse, essi non sono più testimoni attendibili "a priori". Le loro spiegazioni sono radicate in una diversa situazione e ciò non può non portare a una razionalizzazione di un comportamento irrazionale. La soluzione finale procedette per fasi, cronologicamente e geograficamente. Questo avrebbe dovuto agire come impedimento, ma nel complesso non ebbe questo effetto. Non c'erano certezze, soltanto voci; nessun quadro generale, soltanto frammenti. Fu un caso di un "popolo senza discernimento", che aveva occhi e orecchi, ma non vide e non sentì? Il popolo vide e sentì, ma ciò che percepiva non era sempre chiaro, e quando alla fine il messaggio non fu più ambiguo esso non lasciò più posto alla speranza e diventò perciò inaccettabile. E' una sindrome osservata sia dai profeti biblici che dai moderni capi politici: che è naturale per l'uomo indulgere in illusioni di speranza e chiudere gli occhi davanti a una verità dolorosa. Ma non è naturale per l'uomo sottomettersi passivamente a un orribile destino, non cercare di fuggire per quante scarse siano le probabilità di successo, non resistere, anche se non c'è nessuna prospettiva di vittoria. E' vero che ci sono anche spiegazioni per la paralisi, ma le generazioni venute dopo non possono più accettarle; da qui il persistente mistero. La totale disperazione (dicono gli psicologi) porta all'inazione; quando non c'è alcuna via d'uscita, come in un disastro minerario o in un sottomarino, si è preda della rassegnazione. La reazione degli ebrei olandesi o ungheresi può essere paragonata a quella di persone di fronte a un'alluvione e che contrariamente a ogni evidenza credono che non saranno colpiti perché pensano di essere individualmente, o come gruppo, invulnerabili. Alcuni psicologi sociali diranno che un tale rifiuto di una minaccia tradisce la paura di non essere capaci di affrontarla. Ma se questa spiegazione valeva per alcuni, non si applicava certamente ad altri. Essi non sapevano veramente cosa li attendesse. Gli ebrei danesi potevano tranquillamente fuggire in Svezia e se lo fecero soltanto all'ultimo momento fu perché essi credettero veramente che non sarebbero stati deportati. Ugualmente, per fornire un altro esempio, gli ebrei di Rodi avrebbero potuto fuggire senza difficoltà in Turchia e lo avrebbero fatto se avessero conosciuto il destino che li aspettava ad Auschwitz. Ma non lo conobbero. Altre comunità ebraiche si trovarono effettivamente intrappolate, ma la loro situazione non era tuttavia identica a quella delle vittime di un disastro minerario. I confronti sono soltanto di limitato aiuto per capire il comportamento umano in situazioni uniche. In molti casi l'inazione degli ebrei, sia come individui che come gruppi, non fu il risultato di una paralisi, ma al contrario di un infondato ottimismo. Come ha osservato Isaac Schneersohn ("Monde Juif", 1963, [18]) riferendosi alla Francia: "Les juifs étaient alors divisés en deux catégories: les pessimistes et les optimistes. Les premiers cherchèrent à gagner les Etats Unis, la Suisse ou se camouflèrent comme ils purent. Les seconds, caressant de chimériques espoirs, devinrent par la suite les principaux candidats aux voyages à Auschwitz et Treblinka". Una delle domande poste inizialmente era se le cose sarebbero andate in modo diverso nel caso in cui le informazioni sullo sterminio fossero state credute fin dall'inizio. Sembra assai probabile che, anche in questo caso, relativamente poche persone sarebbero state salvate, e anche ciò non è assolutamente certo. Ma questo non è il modo giusto di porre la questione, perché l'errato giudizio su Hitler e sul nazismo non iniziò nel giugno 1941 né finì nel dicembre 1942. Il momento ideale per fermare Hitler non era quello in cui era all'apice della sua forza. Se le democrazie avessero mostrato maggiore preveggenza, solidarietà e risolutezza, il nazismo avrebbe potuto essere fermato all'inizio della sua campagna di aggressione. Nessuna potenza avrebbe potuto salvare la maggioranza degli ebrei del Reich e dell'Europa orientale nell'estate del 1942. Qualcuno di più avrebbe cercato di sfuggire al proprio destino se le informazioni fossero

state fatte conoscere ampiamente. Qualcuno avrebbe potuto essere salvato se i paesi satelliti di Hitler fossero stati minacciati e se i popoli d'Europa fossero stati chiamati ad aiutare gli ebrei. Dopo l'inverno del 1942 la situazione mutò rapidamente: i capi dei paesi satelliti e anche alcuni funzionari tedeschi non volevano più essere complici dello sterminio. Alcuni, almeno, avrebbero risposto a pressioni alleate, ma tali pressioni non vennero mai esercitate. Molti ebrei avrebbero potuto certamente essere salvati nel 1944 bombardando le linee ferroviarie che portavano ai campi di sterminio, e bombardando ovviamente gli stessi campi. Questo avrebbe potuto essere fatto senza distrarre nessuna risorsa importante dallo sforzo bellico generale. E' stato detto che gli ebrei non avrebbero potuto comunque fuggire, ma ciò non è esatto: i russi non erano più lontani, le forze tedesche in Polonia erano concentrate in alcune delle principali città e anche lì esercitavano il loro potere soltanto di giorno: la loro forza numerica non era più tale da permettergli anche la ricerca degli ebrei fuggiti. In poche parole, centinaia di migliaia di ebrei avrebbero potuto essere salvati. Ma questa discussione appartiene a un periodo successivo. Il fallimento nel leggere correttamente i segni nel 1941-42 fu soltanto un anello in una catena di fallimenti. Non ci fu soltanto una ragione per questo fallimento totale, ma molte diverse ragioni: paura paralizzante da una parte, e dall'altra, al contrario, sconsiderato ottimismo; incredulità proveniente da mancanza di esperienza e di immaginazione o effettiva ignoranza, o un misto di alcune o di tutte queste cose. In alcuni casi i motivi erano onorevoli, in altri esecrabili. In alcuni casi le categorie morali sono semplicemente inapplicabili, e ci furono anche casi che restano incomprensibili ancora oggi. NOTE ALLA CONCLUSIONE. (a) Così il "Catholic Times" di Londra il 24 dicembre 1942, vigilia di Natale: "Non è un segreto che la recente ondata di propaganda sulle atrocità tedesche contro gli ebrei è stata ispirata dai russi". Ma simili commenti erano piuttosto rari. L'arcivescovo cattolico di Westminster, cardinale Hinsley, fu una delle prime personalità in Inghilterra a parlare alla radio nel luglio 1942 sulle sofferenze degli ebrei. (b) L'ufficio per le informazioni di guerra negli Stati Uniti e il ministero dell'informazione in Gran Bretagna erano inclini per varie ragioni a minimizzare la pubblicizzazione dei massacri nel 1942-43: perché la gente non vi avrebbe creduto, perché ciò avrebbe provocato antisemitismo in Occidente, perché la cosa non sarebbe stata impopolare in alcuni paesi europei, perché avrebbe avuto un effetto devastante sul morale della resistenza europea eccetera. Non fu l'unica volta in cui le atrocità venivano minimizzate. Così, sebbene le autorità britanniche fossero bene informate sul destino dei prigionieri britannici dopo la caduta di Singapore, non vennero allora fornite dettagliate informazioni sul comportamento dei giapponesi per paura che ciò avrebbe avuto un effetto negativo sul morale del fronte interno. Resta da esaminare nei particolari quante informazioni venissero fornite dalla B.B.C. e dalle stazioni radio americane sulla soluzione finale per gli ascoltatori in patria e fuori. Una simile analisi quantitativa, unitamente a un'indagine sulle istruzioni fornite ai direttori dei programmi radio da parte del P.W.E. e dal dipartimento di stato, mostrerà probabilmente che una certa pubblicità venne data nel dicembre 1942 e nel gennaio 1943 dopo la dichiarazione delle Nazioni unite sulle atrocità naziste. Ma ce ne fu comparativamente poca in tutto il 1943; possono esserci state settimane, forse perfino mesi, durante i quali l'argomento non fu affatto menzionato. Soltanto nel 1944 esso diventò di nuovo un soggetto piuttosto frequente.

APPENDICI. 1. I COLLEGAMENTI CON L'ABWEHR. Informazioni sulla soluzione finale vennero passate durante la guerra dal servizio segreto militare tedesco ad ambienti alleati ed ebraici? Qualcuno afferma che ci furono tali messaggi, ma le memorie sono fallibili e molti importanti archivi dell'Abwehr sono stati distrutti o non si trovano nella Germania occidentale e sono quindi inaccessibili. Se Canaris era assai interessato al destino degli ebrei, sul quale era ovviamente tenuto informato e informava gli altri, non fece molto per aiutarli. Il caso del suo braccio destro, Hans Oster, fu diverso. Nato nel 1888 e figlio di un ecclesiastico protestante, combatté nella prima guerra mondiale e in seguito si arruolò nella Reichswehr. Convinto conservatore, fu fra i primi oppositori di Hitler, che considerava il "distruttore della Germania". La guerra era "follia"; in diverse occasioni egli passò agli Alleati avvertimenti di imminenti attacchi nazisti. Era a capo della Sezione 2 dell'Abwehr, che si occupava di questioni amministrative e finanziarie e conservava l'elenco principale degli agenti. Insieme a un più giovane amico, von Dohnanyi (che proveniva anch'egli da una importante famiglia protestante: Bonhoeffer era suo cugino), fece in modo di occuparsi di tutti i tipi di operazioni non collegate con i propri specifici incarichi. Hans von Dohnanyi, si noti incidentalmente, era in parte di discendenza ebraica. Egli fu "arianizzato" grazie a un ordine speciale di Hitler, ma mentre poté operare in posizioni chiave in vari ministeri e, alla fine, nell'Abwehr, non gli fu permesso di entrare nel partito nazista (1). La sezione di Oster non avrebbe dovuto impiegare agenti esterni, ma in pratica lo fece e aiutò a far uscire alcuni ebrei dalla Germania (in Svizzera) e fuori dall'Olanda (in Spagna) (a). Venivano assunti apparentemente per operazioni di spionaggio di minore importanza, ma privatamente veniva detto loro che non ci si aspettava che si impegnassero in attività segrete. Una di queste "organizzazioni paravento" fondate sotto la protezione di Oster dal colonnello Marogna-Redwitz (un altro conservatore oppositore di Hitler) fu un'impresa commerciale di Praga chiamata "Monopol". Il suo compito principale era quello di trasferire in Germania il denaro dai conti bancari congelati nei paesi neutrali allo scopo di finanziare l'attività dell'Abwehr. Diversi ebrei erano impiegati in questa impresa; avevano servito come ufficiali nell'esercito tedesco o austriaco durante la prima guerra mondiale e i loro compagni di un tempo cercarono di aiutarli. Secondo il figlio di uno degli impiegati della Monopol, Alfred Ziehrer, suo padre, che aveva per base Praga, era solito andare a Istanbul circa una volta ogni tre mesi; l'ultima volta fu certamente nel 1943. Un altro ebreo ceco, il dottor Reimann, che si unì a lui nella sua missione, non ritornò in Germania; Ziehrer vi ritornò e trovò la morte ad Auschwitz. Secondo la testimonianza del figlio, il suo compito consisteva nel trasmettere informazioni agli inglesi, "fra l'altro sul destino degli ebrei" (2). Ziehrer, secondo il figlio, era perfettamente a conoscenza della soluzione finale. Oster e von Dohnanyi furono arrestati nel 1944 e furono impiccati a seguito della loro partecipazione al complotto contro Hitler. Il fatto che Oster abbia aiutato gli ebrei e che abbia avvisato gli alleati è stato dimostrato al di là di ogni ragionevole dubbio. La scoperta (da

parte delle S.S.) che Oster e von Dohnanyi non avevano soltanto aiutato gli ebrei a fuggire all'estero, ma avevano anche mandato loro del denaro, causarono il licenziamento di Oster dall'Abwehr nel 1943. Ci sono buone ragioni per credere che questi strani servitori del destino incontrarono emissari ebrei a Istanbul. Non si può dimostrare ancora se essi trasmisero informazioni credibili sul destino degli ebrei e se i loro racconti furono creduti. Gli storici, per una ragione o per l'altra, non si sono ancora occupati di questo episodio e i sopravvissuti non ne hanno voluto parlare. Anche un tedesco in buona fede che avesse cercato all'estero di dare l'allarme era destinato a incontrare almeno una certa sfiducia e non senza ragione; perché, in chi si poteva avere veramente fiducia? Ancora una volta un esempio sarà sufficiente: Ernst Lemmer era stato nel 1918 uno dei membri fondatori del Partito liberale democratico tedesco e lo rappresentò al Reichstag dal 1924 al 1933. Durante l'era hitleriana lavorò per giornali stranieri a Berlino. Non c'è nessuna ragione per credere che nel profondo del suo cuore Lemmer abbia accettato l'ideologia nazista. Ma certamente egli servì i suoi padroni nazisti al meglio delle sue capacità. Da ex democratico era particolarmente adatto a mettere in risalto, nei suoi numerosi articoli pubblicati all'estero, il carattere moderato e i risultati positivi del nazismo (Lemmer lavorò per il quotidiano ungherese di lingua tedesca "Pester Lloyd", e per "Le Soir" di Bruxelles dopo l'occupazione del Belgio, così come, temporaneamente, per alcuni giornali svizzeri). I suoi scritti di quegli anni costituiscono una lettura imbarazzante, e i tedeschi orientali non hanno tardato a pubblicarne degli estratti negli anni sessanta (3). Fino a ora non hanno pubblicato gli articoli del grande Richard Sorge, che rappresentò i servizi segreti sovietici in Giappone sotto le vesti di un giornalista tedesco. Lemmer fece certamente il doppio gioco. Da una parte glorificava le vittorie tedesche in Russia, dall'altra, come mi è stato assicurato da un suo compagno di viaggio in un giro sul fronte orientale organizzato verso la fine del 1941 dal ministero della propaganda, a tarda notte e in stato di ubriachezza si sedeva al piano e suonava l'"Internazionale" fra la costernazione dei dignitari nazisti presenti. Ciò che importa, in questo contesto, è il fatto che Lemmer fu uno dei primi a trasmettere informazioni sulla soluzione finale a giornalisti e politici di sua conoscenza all'estero. Egli trascorse regolarmente, durante la guerra, le sue vacanze estive in Svizzera. Nel luglio 1942 incontrò a Zurigo diverse personalità svizzere e parlò loro delle camere a gas, fisse e mobili, nelle quali gli ebrei venivano uccisi. Lemmer sottolineò ripetutamente che trovava incomprensibile che gli Alleati tacessero e non si facesse alcun tentativo per mettere in allarme l'opinione pubblica mondiale. Uno di coloro che Lemmer incontrò durante quell'estate riassunse così molti anni dopo, a mio beneficio, le sue impressioni: "Egli aveva senza dubbio l'intenzione di informarmi, ma probabilmente era mosso anche da altri motivi. C'era una strategia generale dietro questi approcci: far sì che gli Alleati si impegnassero maggiormente a favore degli ebrei, malgrado il fatto che fossero impotenti al riguardo. La propaganda tedesca avrebbe sfruttato la cosa al massimo: i soldati inglesi e americani combattevano e morivano per salvare gli ebrei! I nazisti avevano sempre creduto che soltanto usando la questione ebraica come pomo della discordia sarebbero stati capaci di minare lo spirito combattivo dei soldati inglesi e americani. Alcuni ambienti tedeschi volevano tenere segreta la soluzione finale, altri, al contrario, erano interessati, per tutta una serie di ragioni indirette, a informare gli Alleati". Che questa interpretazione sia giusta o meno, è certamente comprensibile che nel 1942 Lemmer sia stato ricevuto in Svizzera con sospetto. Quanto alle sue vere motivazioni si possono fare solo delle ipotesi. Forse egli agì senza secondi fini, forse sapeva che veniva "usato", ma pensò che i calcoli di coloro che lo usavano fossero

sbagliati, e che fosse essenziale portare la soluzione finale a conoscenza dei paesi neutrali e alleati, qualunque ne fossero state le conseguenze. Dopo la guerra, Lemmer rientrò in politica e fu ministro nel governo di Bonn, con brevi interruzioni, dal 1956 al 1965. Morì nel 1970. Nella sua autobiografia non ci sono riferimenti ai suoi avvertimenti riguardo alla soluzione finale né alle sue attività per conto del "Pester Lloyd". Egli dice tuttavia che la politica nazista riguardo ai mezzi di comunicazione era quella di seminare diffidenza e discordia fra gli Alleati; i nemici di Hitler si comportavano nello stesso modo. Ma Lemmer non pensa che i corrispondenti neutrali e quelli dei paesi satelliti siano stati ingannati da tali manipolazioni (4). Fra coloro che si recarono in Svizzera durante la guerra patrocinati dall'Abwehr dovrebbero essere citati Dietrich Bonhoeffer e Adam Trott zu Soltz. Bonhoeffer era in contatto con il Consiglio mondiale delle chiese a Ginevra (Visser't Hooft) e Trott aveva eccellenti contatti con vari diplomatici inglesi e americani. Bonhoeffer fu in Svizzera due volte nel 1941 e di nuovo nel 1942; fra le informazioni trasmesse c'erano particolari sulla persecuzione degli ebrei. Ma è dubbio se essi abbiano detto agli inglesi e agli americani molte cose che essi non sapessero già, e anche il Consiglio mondiale delle chiese era tenuto bene informato dal suo condirettore svedese (Nils Ehrenstrom, che poteva viaggiare più o meno liberamente in Germania), e da Hanns Schoenfeld, il rappresentante tedesco presso il Consiglio che aveva contatti con la resistenza tedesca, così come li aveva il console tedesco a Ginevra, Albrecht von Kessel. Se anche informazioni della massima segretezza potevano essere frequentemente ottenute in Svizzera, non è sorprendente che si sapesse tanto su un argomento molto meno delicato come il destino degli ebrei. Infine il caso di Artur Sommer, studioso e spia, un caso strano, ma per molti versi non atipico nell'inquieta Germania degli anni trenta. Uomo massiccio dal fisico vigoroso e dalla voce profonda, Sommer (1889-1965) aveva combattuto con onore nella prima guerra mondiale. Negli anni venti cominciò a studiare economia e fu affascinato dagli insegnamenti di Friedrich List, uno dei pochi pensatori originali in questo campo nella Germania del diciannovesimo secolo. List fu quasi ignorato durante la sua vita, ma ci fu una sua rivalutazione diverse decine di anni dopo la sua morte. Sommer diventò una figura importante nel gruppo degli estimatori di List, scoprì alcuni suoi importanti manoscritti in archivi francesi e lavorò a fianco di Edgar Salin (1892-1974). Salin, che proveniva da una famiglia ebrea di Francoforte, aveva dapprima insegnato a Heidelberg e poi nel 1927 fu nominato professore a Basilea. Diventarono amici intimi. Uno dei loro punti in comune era l'ammirazione per la poesia di Stefan George; erano membri esterni del circolo George. Sommer visse per anni fuori della Germania, prima in Svizzera, poi in Inghilterra. Entrò nel partito nazista, per ragioni che non sono interamente chiare, nel 1932 mentre continuava i suoi studi a Londra. Si dovrebbe tener presente che anche altri più giovani membri del circolo George furono inizialmente molto attratti da Hitler; e il caso più famoso è quello del colonnello Stauffenberg che cercò di uccidere Hitler nel 1944. Quando, dopo il suo ritorno in Germania, Sommer cominciò a conoscere la violenta natura delle truppe d'assalto, ne fu scandalizzato e ne parlò a lungo in una lettera indirizzata a un amico all'estero, che per sua disgrazia fu intercettata dalla censura. Sommer fu arrestato e passò alcuni mesi in campo di concentramento. Non soffrì molto, ma con questa macchia sul suo curriculum la carriera accademica non era più possibile. Sommer decise allora di tornare nell'esercito; raggiunse rapidamente il grado di tenente colonnello e diventò uno degli ufficiali di collegamento fra il quartier generale e l'Abwehr. Grazie alle sue conoscenze di economia fu anche nominato membro della delegazione tedesca che riesaminava periodicamente le relazioni commerciali con la Svizzera. A cominciare dal settembre 1940 questo incarico lo portò frequentemente in Svizzera ed egli ristabilì i contatti con il suo vecchio amico e mentore Salin (5).

Salin riferisce che il suo amico gli parlò nel febbraio 1942 della tensione crescente nelle relazioni russo-tedesche e in seguito dell'imminente attacco contro la Russia. La polizia politica svizzera sembra essere stata bene informata sull'identità dell'amico di Salin e lo interrogò. Nel settembre o nell'ottobre 1941 Sommer inviò a Salin fotografie che mostravano atrocità naziste nell'Europa orientale, con la richiesta di farle avere al nunzio apostolico a Berna, cosa che Salin fece, anche se senza successo. Nel 1942 Salin trovò nella sua cassetta delle lettere un messaggio in cui si diceva che campi di sterminio erano stati preparati nell'Europa orientale per uccidere mediante gas venefici tutti gli ebrei europei e anche la maggior parte dei prigionieri di guerra sovietici. Sommer chiedeva che questa notizia venisse trasmessa direttamente a Churchill e a Roosevelt e suggeriva anche che la B.B.C. trasmettesse avvertimenti quotidiani. Salin riferisce che egli non sapeva come raggiungere Churchill, ma entrò in contatto con Thomas McKittrick, il presidente americano della Bank for International Settlement a Basilea, che conosceva Leland Harrison, il ministro plenipotenziario americano a Berna, il quale a sua volta era in una posizione tale da inviare messaggi direttamente alla Casa Bianca. L'informazione fu presumibilmente trasmessa a Washington, ma ancora una volta non ci fu una risposta, e, per citare Salin, "quando le truppe alleate scoprirono alcuni dei campi nel 1945 si pretese che nessuno ne avesse mai avuto sentore prima...". Sommer cercò anche di aiutare alcuni conoscenti ebrei a uscire dalla Germania durante la guerra; fra di loro c'era un parente di Ernst Kantorowicz, il noto medievalista, anche lui membro del circolo George. Dopo la guerra, Sommer riprese la sua carriera accademica e questa volta con maggiore successo. Gli fu offerto un posto a Heidelberg, le sue lezioni erano molto seguite, era conosciuto come un eccellente insegnante e gli fu chiesto di continuare a insegnare anche dopo aver raggiunto l'età della pensione. Morì nel 1965. 2. COMMENTI DELLA NAZISTI.

STAMPA

SULL'OLOCAUSTO

NELL'EUROPA

OCCUPATA

DAI

Quanto si sapeva a Londra e a Ginevra, a Washington e a Stoccolma, sul destino dell'ebraismo europeo in base ai resoconti dei giornali? Particolari sulla tecnica dello sterminio non furono pubblicati nel 1942-43 e c'era relativamente poco sulle deportazioni nella stampa tedesca all'interno del Reich, in Francia, Belgio e Olanda (b). In alcune occasioni emergeva tuttavia un po' della verità. Così la Gazzetta ufficiale tedesca, il "Reichsanzeiger", annunciò il 12 aprile 1943 che il signor Kurt Teichmann di Beuthen, Bismarckstrasse 33, aveva divorziato da sua moglie Ruth Sara Teichmann perché essa era stata evacuata nel giugno 1942 "e non ci si aspetta che ritorni". ("Per ordine del tribunale locale"). Alcune informazioni giunsero da corrispondenti di paesi neutrali che si trovavano in Germania e che, casualmente, non dovettero sottomettere i loro telegrammi alla censura. Essi sapevano, ovviamente, che sarebbero stati espulsi se i loro servizi risultavano ostili o se si occupavano di "argomenti delicati". Ma c'era anche una costante corrente di informazioni provenienti dai giornali pubblicati nei paesi occupati. Molti di questi erano reperibili a Stoccolma, Zurigo o Lisbona; altri - mi riferisco soprattutto a fogli regionali non avrebbero dovuto essere spediti all'estero, ma venivano comunque ricevuti e venivano letti dagli Alleati e dai governi alleati in esilio. Gli ebrei slovacchi furono i primi a essere deportati in Polonia nella primavera del 1942; questo venne a conoscenza quasi immediatamente dei corrispondenti svedesi a Berlino, che notarono che i tedeschi avrebbero continuato a deportare gli ebrei malgrado il fatto che avessero un gran bisogno di locomotive e di materiale rotabile per l'imminente offensiva di primavera (6). Dalla fine del marzo 1942 non passava quasi giorno che non comparissero alcune notizie sulla

deportazione nel giornale tedesco "Grenzbote" e in quello slovacco "Gardista", entrambi pubblicati a Bratislava. Il 2 aprile 1942 il "Gardista" scrisse che un intervento straniero a favore degli ebrei sarebbe stato del tutto inutile, e polemizzò a lungo contro certi ambienti che volevano proteggere gli ebrei "usando falsi argomenti cristiani". Da queste schermaglie giornalistiche risultava che entrambe le parti avevano un'idea piuttosto precisa del destino degli ebrei in Polonia. Così "Evanjelicky Posol" (Bratislava) aveva scritto che ciò che veniva fatto agli ebrei non era conforme ai principi di umanità per non parlare di quelli del cristianesimo. I giornali cattolici ("Katolicke Noviny" e altri) erano ambigui; a volte dichiaravano che gli ebrei, dopotutto, erano esseri umani, altre volte davano l'impressione che la Chiesa non fosse in teoria contraria alle deportazioni, purché i convertiti non ne fossero colpiti (7). "Gardista" e altri giornali slovacchi fornivano piuttosto regolarmente cifre precise sul numero degli ebrei deportati. Un'altra importante fonte sul destino degli ebrei nell'Europa sudorientale fu la "Donauzeitung" pubblicata a Belgrado e che si occupava dell'Ungheria, della Romania, della Iugoslavia e della Bulgaria. I lettori della "Donauzeitung", abituati a leggere fra le righe, sapevano che cosa era accaduto agli ebrei. Così, una volta, commentando un rapporto sul fatto che il governo iugoslavo in esilio a Londra aveva revocato tutte le leggi antiebraiche antecedenti al 1941, la "Donauzeitung" dichiarò che erano stati creati certi fatti compiuti che nessuno poteva annullare. Il giornale in lingua tedesca di Praga ("Neue Tag"), così come i giornali cechi (come "Ceske Slovo"), contenevano anch'essi frequenti e dettagliate informazioni sulla scomparsa degli ebrei. Nei giornali europei occidentali tali notizie erano molto più rare, ma vi si potevano trovare. Così un giornale olandese annunciò che le deportazioni stavano procedendo così rapidamente che non un solo ebreo sarebbe rimasto in Olanda alla fine del giugno 1943 (8). Fra i giornali tedeschi dell'Europa orientale la "Deutsche Zeitung in Ostland" (Riga) dava il numero maggiore di informazioni, sia smentendo certe voci che dando proprie notizie sulla liquidazione di alcuni ghetti. In alcuni degli stati satelliti della Germania c'erano discussioni aperte o semicelate sulla politica della Germania nei confronti degli ebrei. I finlandesi mostrarono il loro disaccordo in molte maniere. Così la radio finlandese annunciò che secondo un rapporto da Berlino [sic] il cardinale Hinsley aveva fatto un discorso a Londra dichiarando che 700 mila ebrei erano stati uccisi. Il papa, secondo questo resoconto, credeva all'esattezza di questo rapporto, mentre i tedeschi lo negavano recisamente. Ma innanzitutto i tedeschi non avevano riportato il discorso di Hinsley, e poi non avevano certamente aggiunto che il papa lo aveva avallato. C'erano aperte critiche sul trattamento che i nazisti riservavano agli ebrei non soltanto da parte di socialdemocratici finlandesi come Fagerholm, ma anche di filotedeschi come il professor Eino Kalla, un filosofo, che scrisse che i nazisti non potevano sostenere di difendere la civiltà europea se commettevano azioni che distruggevano le basi di questa asserzione (9). Qualche altro esempio preso dal breve periodo novembre-dicembre 1942 mostra quanto si poteva apprendere leggendo i giornali. Un piccolo foglio svedese, "Vestmansland Tidningen", riportava il 27 novembre 1942 che l'intero Governatorato Generale sarebbe stato libero da ebrei alla fine del mese. "Dagens Nyheter" pubblicava il 21 dicembre le impressioni di un uomo d'affari svedese, che era stato a Varsavia e a Bialystok, secondo il quale la popolazione ebraica era stata decimata. "Volk en Vaderland" (Rotterdam) annunciava il 12 novembre 1942 che presto le dimostrazioni antiebraiche non sarebbero state più possibili perché non ci sarebbero stati più ebrei. "Gardista" di Bratislava riportava il 22 novembre che c'era stata in Slovacchia una riunione ad alto livello sulla soluzione finale; il 6 dicembre, lo stesso giornale annunciava che un prete era stato arrestato per aver falsificato certificati allo scopo di salvare alcuni ebrei. "Transocean" annunciò

il 7 gennaio 1943 che il 77% di tutti gli ebrei slovacchi era stato deportato. "Leipziger Nachrichten" del 14 novembre 1942 scrisse che dei 60 mila ebrei che vivevano a Cernauti ne rimanevano soltanto 12 mila; l'"Abend" (Praga) pubblicò una notizia secondo la quale nella città di Nachod non c'erano rimasti più ebrei. Giornali in lingua ceca riportarono simili notizie su altre città. "Donauzeitung" (Belgrado, 10 dicembre 1942) riportava che nella città romena di Bacau la scuola ebraica era stata chiusa e confiscata dalle autorità; "Kauener Zeitung" (Kovno, 16 dicembre) scrisse che tutte le ex proprietà ebraiche in Lituania dovevano essere registrate. Il quadro che ne emerge è evidente: la scomparsa degli ebrei (c). E' vero che ci furono anche, in certa misura, informazioni falsificate: la visita ufficiale ad Auschwitz di Fritz Fiala, un corrispondente nazista, è già stata menzionata in questo studio (vedi cap. 5). Ma ci furono informazioni fuorvianti anche in riviste quasi scientifiche. Così "Ostland", un periodico che usciva due volte al mese, pubblicò nei suoi numeri del 15 novembre e del primo dicembre 1942 articoli sulla "conclusione del rinsediamento degli ebrei" che contenevano molte cifre, tutte sbagliate. Secondo l'articolo apparso il 15 novembre c'erano 480 mila ebrei nel ghetto di Varsavia, ma in realtà quasi il 90% di loro era già stato ucciso nei quattro mesi precedenti. La cifra data per i distretti di Varsavia e di Lublino (800 mila) era ugualmente falsa. Il primo dicembre venne pubblicata una lista completa di cinquantacinque "residenze ebraiche", compreso il numero degli abitanti al momento, la maggior parte delle quali non esisteva più. Era solo un errore? Ciò è abbastanza improbabile, perché "Ostland" aveva parlato in precedenti occasioni dello "sterminio" e del "trasferimento" degli ebrei polacchi e anche della "estirpazione dell'ulcera ebraica" (primo agosto 1942). I lettori della stampa quotidiana tedesca erano abituati a esplicite dichiarazioni del tipo: "Abbiamo ampiamente spezzato e distrutto il nucleo razziale della tenebrosa potenza ebraica. Per generazioni a venire nessun flusso di parassiti si riverserà dai quartieri ebraici dell'est nell'Europa occidentale" (10). Una tale dichiarazione si prestava a un'unica interpretazione. Quando nel dicembre 1942 venne pubblicata la dichiarazione congiunta degli Alleati sullo sterminio degli ebrei, la stampa tedesca, seguendo le direttive di Goebbels, contrattaccò immediatamente senza tuttavia negare in nessun modo la sostanza delle accuse. "Transocean" (17 dicembre) scrisse che i governi alleati dipendevano in grandissima misura dai desideri politici degli ebrei e che c'erano state in Persia dimostrazioni contro gli Alleati. Il corrispondente diplomatico di D.N.B., l'agenzia di stampa ufficiale, affermò che la dichiarazione di Eden non era altro che un esempio di tipica propaganda anglo-ebraica: "Persone che non espressero neanche una parola di pietà e di condanna quando nel settembre 1939 oltre 60 mila tedeschi furono massacrati in Polonia nel modo più crudele - uomini, donne e bambini - non hanno alcun diritto di parlare di umanità, perché ovviamente ne sono privi". Il popolo europeo sapeva che la dichiarazione era una manovra tendenziosa (18 dicembre). Soltanto pochi mesi dopo la stampa tedesca riportava che il ghetto di Varsavia era stato distrutto. La "Donauzeitung" del 23 marzo 1943 annunciava che la "dissoluzione" del quartiere ebraico di Varsavia aveva reso necessarie "misure straordinarie per rendere di nuovo abitabili strade e case, perché il loro stato era al di là di ogni immaginazione". Nel frattempo la stampa scandinava riferiva sulla distruzione dei ghetti di Riga e di Minsk e sul fatto che erano stati disinfettati per accogliere 150 mila tedeschi evacuati dalla Germania. A Leopoli, secondo queste fonti, di 160 mila ebrei ne rimanevano 7000: gli altri erano stati uccisi (11). Tutto ciò tende a dimostrare che i fatti essenziali sullo sterminio degli ebrei d'Europa furono riportati dalla stampa ben prima della fine della guerra. 3. IL FOREIGN OFFICE E LE NOTIZIE DALLA POLONIA: LUGLIO-DICEMBRE 1942.

Nell'agosto 1942 il telegramma da Ginevra del dottor Riegner che riferiva l'ordine di Hitler di uccidere tutti gli ebrei europei fu ricevuto a Londra. Il commento del Foreign Office fu scettico. Non venne messo in dubbio che gli ebrei fossero trattati brutalmente, ma nel complesso non si credette alla notizia sullo sterminio. Lo scetticismo fu particolarmente accentuato nei commenti sul telegramma dell'Agudat Israel (ricevuto a Londra l'11 settembre 1942) secondo il quale dai cadaveri si produceva sapone e fertilizzanti (d). Il Foreign Office dichiarò che questa notizia doveva essere "trattata con massima riserva"; i funzionari si ricordavano delle storie dell'orrore sull'ultima guerra. Ma il confronto con il 1914 non era affatto di aiuto, perché, mentre i bambini belgi non erano stati uccisi con la baionetta, gli ebrei erano stati uccisi davvero, anche se i loro cadaveri, come emerse in seguito, non furono usati per lo sforzo bellico tedesco. D. Allen arrivò a dire: "Per quanto riguarda i massacri non abbiamo prove precise sebbene sembri probabile che abbiano avuto luogo su grande scala" (12). I dubbi del Foreign Office riguardo alle notizie sulla soluzione finale non svanirono affatto quando venne richiesto nel settembre 1942 di fornire informazioni per una risposta a un'interrogazione che era stata posta in Parlamento da un membro del partito liberale, G. Mander: il ministro non aveva nessuna dichiarazione da fare in riferimento all'impiego da parte del governo tedesco di gas per uccidere un gran numero di ebrei in Polonia in camere a gas mobili? E se sarebbero stati fatti passi per prendere contatto con i tre uomini costretti a fare da becchini e che erano fuggiti, e questo allo scopo di raccogliere prove contro coloro che perpetravano queste ignominie? Ci si riferiva ai tre ebrei che erano fuggiti da Chelmno ai primi del gennaio 1942. I tre becchini avevano incontrato un rabbino in una piccola città dei dintorni e gli avevano raccontato ciò che erano stati costretti a fare; poi erano andati a Varsavia dove il gruppo di Ringelblum ("Oneg Shabbat") li aveva interrogati. Un dettagliato resoconto su Chelmno fu trasmesso sia alla stampa clandestina ebraica a Varsavia che alla resistenza polacca. Le informazioni furono portate in Occidente da un corriere. Furono ricevute a Londra in giugno e pubblicate in giornali americani alla fine di luglio. Il resoconto apparve anche in un piccolo giornale locale londinese, il "City and East London Observer", dal quale Mander o uno dei suoi amici l'aveva ripreso. A seguito di ciò D. Allen chiese a F. Savery dell'ambasciata britannica presso il governo polacco in esilio di scoprire se c'era del vero in questa storia. Savery aveva vissuto in Polonia per quasi venti anni. Era stato console generale a Varsavia, era ben conosciuto in ambienti sia polacchi che ebraici, e il suo polacco era eccellente. Savery dette una risposta in brevissimo tempo. Aveva discusso la cosa con il ministero polacco dell'informazione. Il resoconto era stato incluso in uno dei periodici rapporti che il ministero polacco degli interni aveva ricevuto dai suoi agenti in Polonia. Secondo Savery, il funzionario polacco con il quale aveva parlato era stato "francamente scettico sulla verità della storia sebbene non avesse nessun mezzo effettivo per controllarne l'autenticità". Malgrado i suoi dubbi, che, secondo Savery, possono non essere stati condivisi da altri membri del governo polacco, il resoconto fu reso noto all'Ufficio polacco per le informazioni sociali, un'organizzazione non ufficiale diretta in gran parte da socialisti polacchi. Savery pensò che questo fatto fosse probabilmente "attribuibile alle pressioni del gruppo legato agli ebrei nel Consiglio nazionale polacco". Quanto ai tre becchini, Savery si era accertato che essi erano ancora in Polonia e non c'era quindi nessuna possibilità di mettersi in contatto con loro. I polacchi avevano anche detto a Savery che qualunque risposta alla Camera dei Comuni comportava dei rischi. Il canale che univa il governo polacco alla Polonia poteva essere messo in pericolo; avrebbero potuto essere sollevati dubbi sulla attendibilità delle fonti di informazioni del governo polacco. Infine, "una inopportuna

pubblicità ai Comuni poteva provocare ulteriori sofferenze ai polacchi, in particolare ai tre becchini, e avrebbe soltanto portato i tedeschi a essere ancora più spietati, per poter essere sicuri che in futuro non ci sarebbero stati altri sopravvissuti per raccontare simili storie". Alcuni di questi argomenti erano così illogici che c'è da chiedersi se non furono mal riferiti: come poteva una "inopportuna pubblicità" danneggiare i tre becchini? Essi erano in fuga, e, d'altra parte, la storia era già stata pubblicata dalla stampa. Se essi erano riusciti a fuggire non fu perché i tedeschi avevano in qualche modo facilitato la loro fuga. Savery consultò poi Sir Cecil Dormer, ambasciatore britannico presso il governo polacco in esilio, ed entrambi decisero che la cosa migliore da fare sarebbe stata quella di chiedere al signor Mander di ritirare la propria interrogazione per "ragioni umanitarie". Altrimenti il governo avrebbe dovuto dare una "risposta molto cauta": non c'era nessun modo di confermare la notizia (13). La reazione del governo britannico solleva una serie di interrogativi. Nove mesi erano passati dalla fuga dei tre becchini. C'erano stati molti altri rapporti da fonti polacche ed ebraiche su massacri in tutte le parti della Polonia. La notizia sull'uso di gas venefici era stata pubblicata non soltanto nei rapporti clandestini provenienti dalla Polonia e dalla Russia, ma anche nella stampa. Se alcuni funzionari polacchi avevano dubbi al riguardo, altri, compreso il primo ministro, non ne avevano. In realtà, le ragioni addotte per persuadere Mander a ritirare la sua interrogazione implicano che il resoconto fosse essenzialmente vero: i becchini erano fuggiti, molti ebrei erano stati uccisi e se c'erano dubbi essi riguardavano il modo in cui erano stati uccisi. C'era, probabilmente per ragioni psicologiche, una resistenza particolarmente forte ad accettare che delle persone fossero uccise con il gas, una forma di assassinio considerata più riprovevole delle altre (e perciò più improbabile). Ci vollero tre mesi perché i dubbi di Savery scomparissero. Il 3 dicembre 1942 egli inviò a Frank Roberts del dipartimento centrale del Foreign Office le traduzioni di rapporti appena ricevuti da Mikolajczyk, il ministro degli interni. Questi rapporti comprendevano descrizioni molto dettagliate sulla liquidazione del ghetto di Varsavia, il resoconto di un poliziotto polacco nel ghetto, un resoconto sul campo di sterminio di Belzec (basato ovviamente su quello di Karski, di cui parleremo più avanti), così come la protesta contro i massacri in Polonia da parte di un gruppo chiamato "Front Odrozdenia Polski" (Fronte per la rigenerazione della Polonia) (e). Savery richiamò l'attenzione del Foreign Office su una frase della protesta del Fronte, a proposito dell'"ostinato silenzio dell'ebraismo internazionale" e degli sforzi della propaganda tedesca per incolpare dei massacri i lituani e perfino i polacchi, nella qual cosa essi intravedevano il delinearsi di un'azione ostile verso di loro (14). Questa frase non appariva nel "Polish Fortnightly" del primo dicembre 1942, ma era inclusa nella traduzione ufficiale dello "Sprawozdanie" che circolava manoscritto nelle redazioni londinesi e fra i membri del Parlamento. Savery aggiunse che fu impressionato dal tenore assai moderato ("sachlich") del rapporto: "Sento che possiamo accettare senz'altro ogni cosa che è detta nel rapporto sugli avvenimenti a Varsavia e nelle città vicine". Ma aveva ancora dei dubbi su come considerare esattamente i tre campi di Treblinka, Belzec e Sobibor (Chelmno e Auschwitz non erano menzionati nei rapporti): "Nel complesso, penso che è assai probabile che almeno i nove decimi degli ebrei deportati da Varsavia abbiano trovato la morte in quei campi". Ma non era soddisfatto delle testimonianze su Belzec. Scrisse che non considerava nessuna crudeltà indegna dei tedeschi nell'Europa centrale, e soprattutto in Polonia e nei confronti degli ebrei, ma le prove in quanto tali non sembravano molto convincenti (f). D. Allen, un altro di coloro che aveva avuto dubbi sugli avvenimenti in Polonia, scriveva adesso sulla comunicazione di Savery: "Un terribile e impressionante documento". Grande pubblicità venne data a questi rapporti nella stampa britannica

e le notizie furono trasmesse dalla B.B.C. in tutte le lingue. La nota direttiva settimanale per i servizi polacchi della B.B.C. del 17-23 dicembre affermava che "è comunque particolarmente importante continuare a dire ai polacchi che siamo a conoscenza delle sofferenze degli ebrei. Non dobbiamo necessariamente informarli sui particolari di queste sofferenze. Ciò che vogliamo far sapere loro è che sappiamo" (g). Poi la sezione polacca dell'esecutivo per la guerra politica suggerì che Savery parlasse alla radio in polacco sul trattamento che i tedeschi riservavano agli ebrei, cosa che egli fece il 17 dicembre 1942 dopo aver preso accordi con il Foreign Office, la censura e vari altri enti. Dovette fare un certo numero di cambiamenti. Tutte le cifre dovevano diventare più vaghe. Non 6000 ebrei venivano deportati giornalmente da Varsavia, ma "diverse migliaia". Non 350 mila ebrei (come egli scrisse originariamente) erano scomparsi da Varsavia, ma "centinaia di migliaia". Alla fine Savery si infastidì e scrisse a Frank Roberts: "Dopo averlo letto e riletto diverse volte non trovo nulla a cui i tedeschi potrebbero appigliarsi e che potrebbero usare per iniziare una polemica. La mia impressione è che gli stessi tedeschi non abbiano probabilmente statistiche molto precise sulle deportazioni da Varsavia e sui massacri degli ultimi mesi. Dubito che sappiano con esattezza chi hanno ucciso e chi hanno lasciato in vita". Savery aveva ragione: i tedeschi non sapevano, polemizzare (15).

né erano interessati a

4. IL DIPARTIMENTO DI STATO E LA DICHIARAZIONE DELLE NAZIONI UNITE DEL 17 DICEMBRE 1942. Randolph Paul (che ne fu il firmatario), John Pehle e Josiah E. du Bois junior, funzionari del ministero del tesoro, si occuparono nel gennaio 1944 della preparazione di una nota "Sulla acquiescenza di questo governo nei confronti dello sterminio degli ebrei". Vi si leggeva fra l'altro: "Essi [funzionari del dipartimento di stato] non solo non sono riusciti a ottenere informazioni sui piani di Hitler per sterminare gli ebrei d'Europa, ma nella loro posizione ufficiale sono arrivati a tentare surrettiziamente di bloccare le informazioni relative allo sterminio della popolazione ebraica d'Europa". Era questa una giusta esposizione dei fatti? Wise aveva scritto una prima volta a Sumner Welles, sottosegretario di stato, il 3 settembre 1942 a proposito del telegramma di Riegner; ricevette una prima risposta (telefonica) il 9 settembre. Ma già prima, il 27 agosto, insieme ai dirigenti delle maggiori organizzazioni ebraiche americane, Wise aveva scritto a Welles sulle deportazioni dalla Francia. In questa lettera si diceva che "conformemente alla annunciata politica nazista di sterminare gli ebrei d'Europa, centinaia di migliaia di uomini, donne e bambini innocenti erano stati uccisi in brutali massacri". Ray Atherton della sezione europea del dipartimento di stato suggerì a Welles che nella sua risposta a Wise poteva tranquillamente dichiarare che non era stato mai confermato che gli ebrei deportati erano stati effettivamente "sterminati". "Siamo piuttosto dell'avviso che essi vengono mandati ai lavori forzati per lo sforzo bellico tedesco, come è il caso dei polacchi, dei russi e di altri prigionieri di guerra che adesso stanno lavorando per il loro sostentamento quotidiano" (16). E' impossibile dire su quale base effettiva questa affermazione venne fornita. Non c'era nulla nei dispacci che dall'Europa raggiungevano il dipartimento di stato o nei giornali dei paesi neutrali che avrebbe potuto indurre a credere che gli ebrei lavorassero per lo sforzo

bellico tedesco. E' possibile che nell'agosto e ai primi di settembre del 1942 Atherton non fosse bene informato. E' più difficile spiegare simili atteggiamenti tre mesi dopo quando molte altre informazioni erano state ricevute e si stava preparando la dichiarazione delle Nazioni unite del 17 dicembre 1942. L'iniziativa di questa dichiarazione che condannava la "bestiale politica di sterminio a sangue freddo" venne dal governo britannico, che aveva ricevuto pressioni dalla comunità ebraica, dal governo polacco in esilio, da alcuni organi di stampa, da importanti ecclesiastici e da altre personalità. Il 7 dicembre il corrispondente diplomatico del "Times" riportava che gli ambasciatori americano e sovietico avevano incontrato Eden per discutere sulla terribile condizione degli ebrei di tutta Europa e che il conte Raczynski aveva portato a Eden delle prove provenienti dalla Polonia. Egli riportava anche che ogni paese occupato aveva ricevuto da Hitler una data entro la quale doveva essere ripulito della propria popolazione ebraica. Era soltanto ora che i piani tedeschi, a lungo elaborati e accuratamente preparati, potevano essere visti per ciò che erano. Il governo polacco aveva sottolineato la necessità non solo di condannare i crimini e punire i criminali, ma anche di trovare mezzi tali da far sperare che la Germania potesse essere effettivamente costretta a non continuare ad applicare i suoi metodi di sterminio. Dopo aver visto questa nota, Churchill chiese al Foreign Office ulteriori informazioni (17). Ivan Maisky, ambasciatore sovietico a Londra, aveva già espresso, il 2 dicembre, interesse a una dichiarazione comune. L'opposizione maggiore venne dagli Stati Uniti. Non mi riferisco a John Winant, ambasciatore americano a Londra, che in diverse occasioni era intervenuto a favore degli ebrei insieme al governo britannico. In un telegramma del 7 dicembre Winant disse che appoggiava una dichiarazione comune. Il giorno seguente egli trasmise una nota senza commenti sul suo incontro con Eden: "Discutemmo se potevano essere fatti utilmente dei passi da parte delle Nazioni unite per esprimere chiaramente la loro condanna di questi orrori ed esercitare possibilmente un effetto deterrente su chi li perpetrava. Convenimmo che, sebbene ci si potessero aspettare scarsi effetti pratici, poteva essere utile per gli Stati Uniti e per il governo sovietico unirsi al governo di Sua Maestà nel condannare queste atrocità e nel ricordare a coloro che le perpetravano che li aspettava una sicura punizione". Il più contrario a dare una inopportuna pubblicità alla situazione degli ebrei era R. B. Reams, che si occupava degli affari ebraici nella sezione europea del dipartimento di stato. Egli aveva "seri dubbi riguardo alla desiderabilità o alla opportunità di fare una dichiarazione di questo genere", come affermò in una comunicazione indirizzata ai suoi superiori Hickerson e Atherton. "Innanzitutto questi rapporti non sono confermati e provengono in larga misura dalla lettera di Riegner al rabbino Wise... Sebbene la dichiarazione non menzioni il sapone, la colla, l'olio e le fabbriche di fertilizzanti, essa verrà presa come un'ulteriore conferma di queste storie e sosterrà il punto di vista del rabbino Wise su una conferma ufficiale da parte di fonti del dipartimento di stato. Ci saranno inevitabilmente ulteriori pressioni da parte di gruppi interessati a promuovere iniziative che potrebbero indebolire lo sforzo bellico. La situazione degli infelici popoli d'Europa, compresi gli ebrei, può essere alleviata soltanto vincendo la guerra. Una dichiarazione di questo genere non può avere nessun buon effetto e può in realtà portare a misure ancora più dure nei confronti della popolazione europea" (18). Il giorno seguente, in un incontro con Sir William Hayter, in seguito ambasciatore britannico a Mosca e preside del New College di Oxford, egli si lamentò del fatto che la dichiarazione proposta dal governo

britannico era "estremamente forte e precisa". La sua pubblicazione sarebbe stata accettata dalle comunità ebraiche del mondo come una prova completa delle storie che si stavano diffondendo. "Queste persone sarebbero indubbiamente soddisfatte che i governi delle Nazioni unite dimostrassero un attivo interesse per il destino dei loro correligionari in Europa, ma in realtà le loro paure sarebbero accresciute da una tale dichiarazione. Inoltre, i vari governi delle Nazioni unite si esporrebbero a maggiori pressioni perché venga fatto qualcosa di più concreto per aiutare queste persone" (19). Reams disse poi: ("parlando personalmente" e "per informare Hayter") che credeva che il telegramma di Riegner a Wise fosse in buona parte responsabile dell'attuale ansia riguardo alla situazione. In altre parole, non ci sarebbero state noie se gli inglesi avessero collaborato a sopprimere il telegramma Riegner. Reams cercò di posticipare il più possibile la conferma delle "storie". Così, in una risposta al membro del congresso Hamilton Fish nel dicembre 1942: "Ho risposto che l'intera faccenda era adesso sotto esame e che difficile per me dargli informazioni esatte. Questi rapporti, quanto ne sapessi, erano ancora non confermati" (20).

era per

Questa era la linea generale seguita allora nei quadri intermedi del dipartimento di stato. Così Reams disse a un funzionario della sezione latino-americana, commentando alcune proteste dal Messico del 15 dicembre, che le informazioni sullo sterminio degli ebrei non erano confermate. Un telegramma inviato a San José in Costa Rica due giorni dopo la dichiarazione delle Nazioni unite affermava di nuovo che "non c'era stata alcuna conferma da altre fonti" dell'ordine di Hitler (tranne che da un dirigente ebreo a Ginevra). Rispondendo al "Christian Century" che chiedeva se il dipartimento di stato avrebbe confermato o smentito la dichiarazione del rabbino Wise, menzionata dalla Associated Press, che Hitler aveva ordinato lo sterminio di tutti gli ebrei nell'Europa dominata dai nazisti e che ciò era stato confermato dal dipartimento di stato, M. J. McDermot, capo della sezione notizie varie, rispose in una lettera: "Oggi ho informato in via riservata i corrispondenti e sono lieto di comunicarvi confidenzialmente che il rabbino Wise è stato diversi mesi fa al dipartimento di stato e anche ieri si è consultato con il dipartimento a proposito di certo materiale a cui egli era interessato, e adesso è in possesso di questo materiale. Il dipartimento di stato ha soltanto cercato di facilitare gli sforzi del suo Comitato per arrivare alla verità, e i corrispondenti dovrebbero rivolgere tutte le loro domande concernenti questo materiale al rabbino Wise" (21). In poche parole, il dipartimento di stato non voleva avere nulla a che fare con il contenuto del messaggio. La dichiarazione del 17 dicembre fu redatta al Foreign Office. Maisky propose un emendamento, e cioè l'aggiunta della frase "il numero delle vittime di questi supplizi sanguinari si ritiene che ammonti a centinaia di migliaia di uomini, donne e bambini del tutto innocenti". Esso fu accettato e apparve nella versione finale nel modo seguente: "Il numero delle vittime europee di queste sanguinarie crudeltà è calcolato in molte centinaia di migliaia di uomini, donne e bambini interamente innocenti". Gli Stati Uniti fecero tre emendamenti; due furono accettati, il terzo arrivò troppo tardi. Reams, desideroso di attenuare la dichiarazione, suggerì il seguente emendamento: la bozza originale aveva detto che "l'attenzione dei governi alleati era stata rivolta a rapporti dall'Europa "che non lasciavano nessun dubbio" sul fatto che i tedeschi stessero attuando la loro intenzione spesso ribadita di

sterminare il popolo ebraico in Europa". Reams volle cancellare le parole in corsivo. In secondo luogo, la bozza originale aveva: "Da tutti i paesi gli ebrei vengono trasportati "senza distinzione di età e di sesso" e in condizioni di incredibile orrore e brutalità verso l'Europa orientale". Di nuovo Reams insistette perché si cancellassero le parole in corsivo. Sostenne che in Francia ciò non era stato vero fino a quel momento e che poteva non essere vero in altri territori occupati (22). Reams si sbagliava completamente: era stato proprio questo fatto, la separazione dei bambini dai loro genitori, a provocare così tante proteste in Francia e in Svizzera. Il bollettino ufficiale delle chiese svizzere scrisse che il fatto che i bambini venissero brutalmente strappati ai loro genitori ricordava l'assassinio dei bambini a Betlemme ai tempi di Gesù Cristo. Il cardinale Gerlier disse in una dichiarazione di protesta: "Nous assistons à une dispersion cruelle des familles où rien n'est épargné". E Saliège, arcivescovo di Tolone: "Les membres d'une même famille sont séparés les uns des autres et embarqués pour une destination inconnue..." (23). L'ultimo emendamento venne dal segretario di stato, e non aveva nulla a che fare né con Hitler né con gli ebrei. Secondo la versione originale la prima frase della dichiarazione elencava i vari membri delle Nazioni unite e poi aggiungeva "e del Comitato di lotta francese" (o "Comitato nazionale francese"). Cordell Hull mandò un telegramma a Londra chiedendo urgentemente che si inserisse la parola "anche" prima del "Comitato francese". Fu l'unico telegramma relativo all'intera faccenda che venne inviato con triplice priorità, ma arrivò troppo tardi. Lord Halifax, ambasciatore britannico a Washington, spiegò (e Winant da Londra lo appoggiò) che a causa della differenza di fuso orario il telegramma aveva raggiunto Eden solo mentre stava per fare la sua dichiarazione alla Camera dei Comuni. Il ministro degli esteri britannico aveva inoltre detto che era troppo tardi per consultare gli altri firmatari. Di conseguenza la dichiarazione fu pubblicata a Washington con "anche" inserito prima di "il Comitato di lotta francese" mentre non ci fu nessun "anche" nella versione di Londra o altrove. Reams, McDermot, Breckinridge Long e gli altri dubitavano realmente delle informazioni disponibili? Ciò è difficile da credere. E' più probabile che la loro seconda argomentazione fosse decisiva: se il dipartimento di stato confermava le notizie sarebbe stato "soggetto a pressioni perché facesse qualcosa". Ma lo sforzo bellico era realmente la loro massima preoccupazione? Ciò ha un senso solo se si presume che i diplomatici americani fossero più sinceramente e inflessibilmente devoti allo sforzo bellico di Churchill, Stalin e tutti gli altri: una supposizione che sfida anche la più viva immaginazione. 5. LE MISSIONI DI JAN KARSKI, JAN NOWAK E TADEUSZ CHCIUK. La missione da Varsavia a Londra di Jan Karski (Kozielewski) è stata ripetutamente citata. Karski non fu né il primo né l'ultimo corriere ad arrivare da Varsavia, ma per quanto riguarda le informazioni sul destino degli ebrei in Polonia fu certamente il più importante. Karski scrisse un libro sulla sua missione che uscì negli Stati Uniti nel 1944 e diventò un bestseller; fu pubblicato anche in Gran Bretagna, Svizzera e Norvegia. Ma la guerra non era ancora finita quando il libro venne pubblicato e l'autore dovette autocensurarsi (24). Chi era Jan Karski, e quale fu lo scopo della sua missione? Era nato a Lodz nel 1914, aveva studiato legge all'Università Jan Kazimierz di Leopoli, aveva prestato servizio nell'esercito polacco nel 1935-36 e poi per due anni aveva viaggiato nell'Europa centrale e occidentale. Nel 1938 era entrato al ministero degli esteri polacco per un corso di perfezionamento e si era laureato nel gennaio 1939 fra i primi della sua classe. Allo scoppio della guerra prestò servizio come tenente nell'artiglieria. Con la sua unità si ritirò verso est e poi fu preso prigioniero dall'esercito sovietico in avanzata. Si fece passare per

soldato semplice. Gli ufficiali polacchi furono internati e la maggior parte di loro non ritornò più. Egli fu rimpatriato in Polonia dove i tedeschi lo misero su un treno diretto a un campo di lavoro. Lui saltò dal treno e andò a Varsavia dove diventò uno dei primi organizzatori della resistenza. Agì da corriere fra Varsavia e Angers, dove si era stabilito il Consiglio nazionale polacco in esilio prima della caduta della Francia. L'itinerario generalmente seguito era da Varsavia a Zakopane, poi con gli sci sui Carpazi fino a Budapest, quindi in Italia e infine in Francia. Il professor Stanislaw Kot, l'allora ministro polacco degli interni, gli chiese di tornare in Polonia portando con sé il primo progetto per la creazione delle varie istituzioni che dovevano costituire lo stato clandestino. Durante un'altra missione del genere, nel giugno 1940, fu catturato dalla Gestapo a Preshov, in Slovacchia. Dopo essere stato torturato egli cercò di suicidarsi tagliandosi le vene, ma non ci riuscì. Fu mandato all'ospedale della prigione dove un gruppo partigiano riuscì a farlo evadere. Questa operazione fu condotta da un'unità comandata da Jozef Cyrankiewicz, il futuro primo ministro della Polonia comunista, ma a quell'epoca ancora un dirigente del P.P.S., il partito socialista. Karski visse nella clandestinità a Varsavia nel 1941-42, si impegnò nella "propaganda nera" fra i soldati tedeschi, stampando e distribuendo volantini in tedesco. Nel 1942 gli fu chiesto di nuovo di recarsi a Londra come corriere per conto del Delegat. Varie tecniche erano usate allora per fare arrivare questi corrieri nell'Europa occidentale. Quella scelta da coloro che organizzarono il viaggio di Karski fu semplice. Migliaia di lavoratori francesi "ospiti" erano impiegati in quel tempo in Polonia. Essi avevano il diritto di tornare in licenza in Francia due volte all'anno. La resistenza polacca offriva loro una vacanza di due settimane molto ben pagata in una residenza nella campagna polacca in condizioni eccezionalmente lussuose dato il tempo di guerra. I lavoratori francesi consegnavano i loro passaporti; le fotografie venivano tolte e sostituite con quelle dei corrieri. Se il corriere non ritornava in tempo essi avrebbero dovuto denunciare la perdita del passaporto e pagare una multa che, inutile dirlo, sarebbe stata a carico della resistenza. Karski attraversò la Germania e arrivò nel novembre 1942 a Parigi dove rimase per dodici giorni in un appartamento di un prete. Passò le sue serate nei caffè, nei ristoranti e nei casinò di Montmartre e fu colpito dal modo in cui i francesi fraternizzavano con i tedeschi e dall'atteggiamento servile che veniva frequentemente mostrato. Fornito di nuovi documenti andò a Tolone dove operava una rete clandestina polacca. Fu portato a Perpignano e attraversò i Pirenei con un comunista spagnolo come guida. A Barcellona fu fatto salire su una automobile diplomatica che pare sia appartenuta all'O.S.S. piuttosto che al servizio segreto britannico. Da lì andò prima ad Algeciras e poi a Gibilterra dove pranzò con il governatore. Il giorno dopo volò a Londra. La missione di Karski riguardava, ovviamente, soprattutto affari polacchi. Ma prima della sua partenza egli aveva avuto diversi incontri con due dirigenti ebrei e aveva solennemente promesso di trasmettere il loro messaggio in Occidente. Allora non conosceva l'identità di coloro che aveva incontrato. In seguito seppe che uno di loro era stato Leon Feiner; l'identità dell'altro non è chiara neppure oggi. Si trattò chiaramente o di Menahem Kirschenbaum o di Adolf Berman. I due lo incontrarono grazie a un permesso speciale della Delegatura. Karski visitò anche il ghetto di Varsavia nell'ottobre 1942. La cosa, a suo dire, non presentò alcuna particolare difficoltà: l'area del ghetto si era assai ridotta dopo le deportazioni del luglio-settembre 1942; i tram attraversavano il ghetto per raggiungere le strade che erano state riprese dagli "ariani". Altrove si poteva entrare e uscire dal ghetto attraverso le cantine delle case che servivano da muro di confine. Karski riferisce che fu portato in un magazzino vicino a Belzec da un emissario ebreo ma dall'apparenza ariana (che gli aveva detto che si trattava di un campo di transito piuttosto che un campo di sterminio).

Lì venne avvicinato da un uomo in abiti civili che gli disse che gli avrebbero fornito sia un'uniforme (da guardia estone) che un permesso. Karski non sa se costui (parlava perfettamente polacco) fosse un contrabbandiere o un "tedesco razziale"; forse poteva essere perfino un agente della Gestapo pagato dalla resistenza ebraica. I due entrarono nel campo attraverso un cancello laterale senza destare sospetti. Là vide cose incredibili: per terra giacevano corpi scheletrici, centinaia di ebrei venivano stivati nei vagoni e ricoperti da uno strato di calce viva. I vagoni venivano chiusi e uscivano dal campo; dopo un po' di tempo venivano aperti, i cadaveri venivano bruciati e i vagoni tornavano al campo a prendere un nuovo carico. Dopo aver osservato questa scena per un po' di tempo egli si sentì male e cominciò a perdere il controllo dei propri nervi. Voleva fuggire e corse verso il cancello più vicino. Il suo compagno, che si era tenuto a una certa distanza, si rese conto che c'era qualcosa che non andava. Si avvicinò a Karski e urlò energicamente: "Seguitemi subito!". Uscirono attraverso lo stesso cancello da dove erano entrati e non furono fermati. Karski dice che seppe soltanto in anni successivi che Belzec non era un campo di transito ma un campo della morte e che la maggior parte delle vittime veniva uccisa in camere a gas. Egli non aveva potuto vedere le camere a gas durante la sua visita perché certamente erano circondate da mura e per avvicinarsi occorreva un permesso speciale. Karski arrivò a Londra nel novembre 1942. Il generale Sikorski era allora in America, ma egli lo incontrò in seguito; partecipò tuttavia a due riunioni del governo polacco in esilio. Nelle settimane successive incontrò molti dirigenti britannici, americani ed ebrei e li informò sulla situazione in Polonia e sul destino degli ebrei. Fra coloro che incontrò a Londra ci furono Eden, il ministro degli esteri, Lord Cranborne, Hugh Dalton e Arthur Greenwood, membri del Gabinetto di guerra, Richard Law, sottosegretario agli affari esteri, Lord Selborne, che in qualità di ministro della guerra economica era a capo del S.O.E., Anthony D. Biddle e Owen O'Malley, ambasciatori americano e britannico presso il governo polacco in esilio, cosi come vari membri della Camera dei Comuni. Fra coloro che incontrò negli Stati Uniti ci furono il presidente Roosevelt, Herbert Hoover, Cordell Hull, Henry Stimson, Francis Biddle, Adolph Berle, gli arcivescovi Spelman, Mooney e Strich, Felix Frankfurter, Bill Donovan e John Wiley (entrambi dell'O.S.S.), e il delegato apostolico. Fra i dirigenti ebrei: Stephen Wise, N. Waldman, S. Margoshes e M. Fertig. Parlò anche con molti scrittori e giornalisti, fra i quali: H. G. Wells, Victor Gollancz, Arthur Koestler, Kingsley Martin, Allen Lane, Walter Lippmann, Eugene Lyons, Dorothy Thompson, George Sokolsky, William Prescott e la signora Ogden Reed. Il messaggio che Karski trasmise all'Occidente nel novembre 1942 per conto dei dirigenti ebrei polacchi non poté essere pubblicato durante la guerra. Egli lo riscrisse su mia richiesta nel 1979 (h). -------------I. La mia missione presso il governo polacco e quelli alleati. Lo sterminio senza precedenti dell'intera popolazione ebraica "non" è motivata da necessità "militari" della Germania. Hitler e i suoi seguaci mirano al totale sterminio degli ebrei "prima" che la guerra finisca e "prescindendo" dal suo esito. I governi alleati non possono disconoscere questa realtà. Gli ebrei in Polonia sono inermi. Non hanno un loro paese. Non hanno una voce indipendente presso gli Alleati. Non possono contare sulla resistenza polacca né sulla popolazione. Essi possono salvare alcune persone, ma non possono fermare lo sterminio. Soltanto i potenti governi alleati possono

fornire un aiuto effettivo. Gli ebrei polacchi si appellano solennemente al governo polacco e a quelli alleati perché prendano misure "straordinarie" per cercare di fermare lo sterminio. Essi considereranno storicamente responsabili i governi alleati se non prenderanno queste misure straordinarie. Questo è ciò che gli ebrei chiedono: 1) Una dichiarazione pubblica che la lotta allo sterminio degli ebrei diventi parte della generale "strategia bellica" degli Alleati. 2) Informare il popolo tedesco attraverso la radio, volantini lanciati da aeroplani e altri mezzi, sui crimini del loro governo commessi contro gli ebrei. Tutti i nomi dei funzionari tedeschi coinvolti nei crimini, statistiche, fatti, metodi usati dovrebbero essere descritti minuziosamente. 3) Appelli "pubblici" e "formali" (radio, volantini eccetera) al popolo tedesco perché eserciti pressioni sul proprio governo al fine di fermare lo sterminio. 4) Richiesta "pubblica" e "formale" di prove che tali pressioni sono state esercitate e che le azioni naziste contro gli ebrei sono state fermate. 5) Far ricadere la responsabilità sul popolo tedesco come un tutt'uno se non risponderanno e se lo sterminio continuerà. 6) Dichiarazione "pubblica" e "formale" che, a causa degli inauditi crimini nazisti contro gli ebrei e nella speranza che questi crimini cessino, i governi alleati avrebbero dovuto prendere misure senza precedenti: a) alcune aree e obiettivi in Germania sarebbero stati bombardati per rappresaglia. Il popolo tedesco sarebbe stato informato, prima e dopo ogni azione, che lo sterminio degli ebrei perpetrato dai nazisti aveva causato il bombardamento. b) certi prigionieri di guerra tedeschi, che, essendo stati informati sui crimini del proprio governo, professassero ancora solidarietà e fedeltà ai nazisti, sarebbero stati ritenuti responsabili per i crimini commessi contro gli ebrei per tutto il tempo che questi crimini fossero continuati. c) certi cittadini tedeschi residenti in paesi alleati, che, essendo stati informati dei crimini commessi contro gli ebrei, professassero ancora solidarietà con il governo nazista, sarebbero stati responsabili di questi crimini. d) i dirigenti ebrei a Londra, in particolare Szmul "Zygielbojm" (Bund) e il dottor Ignace "Szwarcbard" (sionisti), sono solennemente incaricati di fare ogni sforzo perché il governo polacco presenti formalmente queste richieste agli Alleati. II. Riservato Raczkiewicz

al

presidente

della

Repubblica

polacca

Wladyslaw

Molti tra coloro che direttamente o indirettamente contribuiscono alla tragedia ebraica professano la fede cattolica. Gli ebrei polacchi e gli altri ebrei europei deportati in Polonia si sentono in diritto per ragioni umanitarie e spirituali di aspettarsi la protezione del Vaticano. Le sanzioni, proclamate pubblicamente, potrebbero avere un effetto sul popolo tedesco. Potrebbero perfino far riflettere Hitler, un cattolico battezzato. A causa della natura di questo messaggio e della sua provenienza, così come per ragioni diplomatiche, mi fu consigliato di inviare "riservatamente" il messaggio al presidente della Repubblica. Che egli usi la sua coscienza e la sua saggezza nell'avvicinare il papa. Mi è stato esplicitamente proibito di discutere questo argomento con i dirigenti ebrei. Un loro eventuale intervento malaccorto potrebbe essere controproducente. III. Per il primo ministro e comandante in capo (generale Wladyslaw Sikorski), per il ministro degli interni (Stanislaw Mikolaiczvk), per Zygielboim e il dottor Szwarcbard

Sebbene la popolazione polacca in generale simpatizzi con gli ebrei o cerchi di aiutarli, molti criminali polacchi ricattano, denunciano o addirittura uccidono gli ebrei nascosti. Le autorità della resistenza devono prendere dure sanzioni contro di loro, compresa la pena di morte. In questo caso l'identità dei colpevoli e la natura dei loro crimini dovrebbe essere pubblicata nella stampa clandestina. Zygielbojm e Szwarcbard devono esercitare la massima pressione perché vengano dati ordini in tal senso. Allo scopo di evitare ogni rischio di propaganda antipolacca mi fu esplicitamente proibito di discutere questo argomento con dirigenti ebrei "non polacchi". Dovevo informare Zygielbojm e Szwarcbard su questa parte delle mie istruzioni. IV. Riservato al comandate in capo delle forze armate (generale Sikorski), a Zygielbojm e al dottor Szwarcbard

polacche

E' nata un'organizzazione militare ebraica. I loro capi, così come gli elementi più giovani dei ghetti, in particolare del ghetto di Varsavia, si propongono una certa resistenza armata contro i tedeschi. Parlano di una "guerra ebraica" contro il Terzo Reich. Hanno chiesto armi all'esercito nazionale. Queste armi sono state negate. Gli ebrei sono cittadini polacchi. Essi hanno diritto ad avere armi se queste armi sono in possesso della resistenza polacca. Non si può negare agli ebrei il diritto di morire combattendo, qualunque possa essere l'esito della loro lotta. Soltanto il generale Sikorski, in quanto comandante in capo, può modificare l'atteggiamento assunto dal comandante dell'esercito nazionale (generale Stefan Rowecki). I dirigenti ebrei chiedono l'intervento del generale Sikorski. Io mi "rifiutai" di trasmettere questo messaggio a meno che non fossi autorizzato a vedere di persona il generale Rowecki per informarlo sulla protesta e conoscere il suo pensiero in proposito. I due dirigenti ebrei accettarono di buon grado. Incontrai il generale Rowecki, sentii la sua opinione e riferii la cosa a Londra secondo le istruzioni. Per non alimentare alcuna propaganda antipolacca mi fu esplicitamente proibito di discutere questo argomento con dirigenti ebrei "non polacchi". Dovevo informare Zygielbojm e Szwarcbard su questa parte delle mie istruzioni. V. Alle varie personalità polacche e dei governi alleati e ai dirigenti delle organizzazioni ebraiche internazionali: richiesta di aiuti finanziari e tecnici Ci sarebbe la possibilità di salvare un certo numero di ebrei se ci fosse il denaro necessario. La Gestapo è corrotta non soltanto nei gradi inferiori ma anche in quelli medi o superiori. Essi collaborerebbero in cambio di oro o di denaro in contanti. I dirigenti ebrei possono prendere i contatti necessari. a) Ad alcuni ebrei potrebbe essere permesso di lasciare la Polonia semiufficialmente: in cambio di oro, dollari, o della consegna di merce di cui le autorità tedesche necessitano. b) Ad alcuni ebrei sarebbe permesso di lasciare la Polonia purché avessero passaporti stranieri "originali". L'origine di questi passaporti non è importante. Ne dovrebbe essere inviata la maggiore quantità possibile. Devono essere "in bianco". Nomi falsificati, dati di identificazione eccetera non sarebbero ovviamente controllati dalle autorità tedesche pagate con denaro. Bisognerà provvedere affinché quegli ebrei che riusciranno a lasciare la Polonia vengano accettati dai paesi alleati o neutrali. c) Alcuni ebrei dall'aspetto non semita potrebbero lasciare i ghetti, ottenere falsi documenti tedeschi e vivere fra gli altri polacchi sotto falso nome. C'è necessità di denaro per corrompere le guardie dei ghetti, vari funzionari ("Arbeitsamt") e per costituire un fondo di sussistenza.

d) Molte famiglie cristiane acconsentirebbero a nascondere gli ebrei nelle proprie case. Ma essi rischiano l'immediata esecuzione se scoperti dai tedeschi. Anche loro si trovano in terribili condizioni. Il denaro è almeno necessario per la sussistenza. e) Denaro, medicine, cibo, vestiti sono urgentemente richiesti per i sopravvissuti "nei" ghetti. Sussidi ottenuti dal Delegato del governo polacco in esilio così come altri fondi inviati attraverso vari canali dalle organizzazioni ebraiche internazionali sono "totalmente insufficienti". Più denaro contante, inviato senza ritardi, è questione di vita o di morte per migliaia di ebrei. VI. Mobilitare l'opinione pubblica in Occidente a favore degli ebrei In aggiunta a tutti i messaggi che dovevo trasmettere, i due dirigenti ebrei mi fecero promettere solennemente di fare tutto il possibile per mobilitare l'opinione pubblica del mondo libero a favore degli ebrei polacchi. Io giurai solennemente che se fossi arrivato sano e salvo a Londra non li avrei delusi. -----------Karski, si ricorderà, raggiunse Londra nel novembre 1942. Il mese successivo (il 7 dicembre) il Consiglio nazionale polacco approvò una risoluzione che impegnava il governo ad agire senza ritardi per quanto riguardava lo sterminio degli ebrei. Conseguentemente, il 10 dicembre, il governo polacco rivolse un appello formale ai governi alleati, e il 17 dicembre il Consiglio alleato approvò la risoluzione che è stata citata altrove. Il 18 dicembre il presidente della Repubblica polacca inviò una nota a papa Pio Dodicesimo chiedendo il suo intervento. Il 18 gennaio 1943 il conte Raczynski, ministro degli esteri polacco, presentò le seguenti richieste al Consiglio alleato: "a) Il bombardamento della Germania come rappresaglia per lo sterminio degli ebrei polacchi. b) Esercitare pressioni su Berlino perché faccia uscire gli ebrei dai paesi dominati dai tedeschi, in particolare dalla Polonia. c) Prendere le misure necessarie affinché i paesi alleati e neutrali accettino gli ebrei che sono riusciti o riusciranno a lasciare i paesi occupati dai tedeschi". Raczynski non avanzò richieste di rappresaglie contro i prigionieri di guerra tedeschi e i cittadini tedeschi residenti nei paesi alleati, considerandole contrarie alla prassi accettata dalle leggi internazionali. Eden, che rappresentava il governo britannico, respinse le richieste polacche e fece invece alcune vaghe promesse di intervenire presso certi paesi neutrali. Le varie iniziative diplomatiche e le dichiarazioni del dicembre 1942 furono il risultato delle prove che si erano accumulate durante molti mesi, ma la missione Karski ebbe comunque una parte importante a tal fine. Che cosa si ricorda Karski dei suoi molti incontri dopo il suo arrivo in Gran Bretagna? Egli giudicò piuttosto precisamente i due membri ebrei del Consiglio nazionale polacco (i): Zygielbojm si mostrò sospettoso e reagì "irrazionalmente" ("Perché vi hanno mandato? Chi siete? Non siete ebreo. Fatemi vedere i polsi...") e Schwarzbart ("Un politico di professione e un po' intrigante"). Il presidente Roosevelt lo ascoltò per un'ora e gli fece molte domande; alla fine lo congedò dicendogli: "Dite alla vostra nazione che vinceremo la guerra" e con altre frasi ancora più roboanti. Non ci furono parole di conforto per gli ebrei. Stephen Wise fu il dirigente ebreo più interessato ai dettagli pratici: che tipo di passaporti occorreva? Qualsiasi passaporto sudamericano sarebbe andato bene... Ma la Gestapo non se ne sarebbe accorta? Probabilmente sì, ma impiegati di basso e anche di medio livello potevano essere corrotti. Ma chi doveva essere corrotto aveva perlomeno bisogno di un documento verosimile, anche se non autentico... Il rabbino Wise era affascinato da questo progetto (25). Karski disse al giudice Frankfurter tutto ciò che sapeva sugli ebrei,

e quando ebbe finito il giudice gli fece i complimenti e poi gli disse: "Non posso credervi". Ciechanowski, che era con lui, disse a Frankfurter che Karski era venuto a nome del governo polacco e che era quindi impossibile che non dicesse la verità. Frankfurter rispose: "Non ho detto che questo giovanotto stia mentendo. Ho detto che non posso credergli. C'è una differenza". C'era effettivamente una differenza, e questa è la chiave per comprendere perché le notizie dall'Europa orientale non siano state credute per così tanto tempo. In Inghilterra, H. G. Wells era attivamente ostile e Lord Selborne (capo amministrativo della resistenza) disse che Karski stava facendo un magnifico lavoro. Ma disse anche che nella prima guerra mondiale c'erano state storie raccapriccianti sui bambini belgi; il governo di Sua Maestà sapeva ovviamente che erano false, ma non aveva fatto nulla per intervenire. Il paragone fra i bambini belgi che non erano stati uccisi e quelli ebrei che erano morti non era rassicurante. Selborne disse anche che la proposta di riscattare alcune donne e bambini ebrei pagando con oro e/o merci era totalmente inaccettabile. Una tale transazione poteva forse essere mantenuta segreta in tempo di guerra, ma dopo la vittoria avrebbe dovuto essere rivelata, e nessun primo ministro o governo avrebbe accettato questa responsabilità. Sarebbe stato sicuramente biasimato per l'uccisione di soldati inglesi a causa del prolungamento della guerra. La massima preoccupazione di Eden riguardava il difficile problema di dove sarebbero andati gli ebrei se fossero stati liberati. La Gran Bretagna aveva già centomila profughi e non poteva accettarne di più (l). Anche Jan Nowak (Zdzislaw Jezioranski) agì come emissario a Londra nel 1943 e nel 1944. La sua storia è stata raccontata in tutti i suoi incredibili particolari, ma appartiene a un periodo successivo (26). E' comunque di interesse indiretto, perché Nowak conferma totalmente certi aspetti della testimonianza di Karski, soprattutto relativamente all'accoglienza ricevuta a Londra. Egli fu il primo emissario ad arrivare dalla Polonia dopo l'insurrezione del ghetto di Varsavia. Nowak fu interrogato da Frank Roberts, capo del dipartimento centrale del Foreign Office, dal generale di brigata Harvey Watt, segretario particolare di Churchill, dal maggiore Morton, consigliere di Churchill per i servizi segreti, da Osborn e da Moray McLaren di P.W.I., da rappresentanti di M.I.9 e da altri. Egli parlò a lungo del destino degli ebrei, ma non trovò nessuno interessato a questo argomento, ad eccezione di un ufficiale del controspionaggio che ne fu profondamente turbato. Le varie note (di Frank Roberts, Lawford, Morton) che sono state conservate confermano quanto detto. Nowak riferisce anche che nei suoi incontri con Schwarzbart ("una tragica figura") e con altri dirigenti ebrei fu consigliato di non soffermarsi troppo sul numero delle vittime, perché non sarebbe stato creduto, ma di riferirsi invece a casi individuali (27). Tadeusz Chciuk-Celt fu inviato due volte da Londra in Polonia, dove arrivò lanciandosi con il paracadute. La prima volta rimase in Polonia dal 28 dicembre 1941 al 16 giugno 1942. Poi fu a Budapest dal giugno al novembre 1942 e infine, dopo un viaggio avventuroso attraverso la Svizzera, la Francia e la Spagna, ritornò in Inghilterra, che raggiunse soltanto il 16 giugno 1943. Secondo il suo resoconto, egli inviò un rapporto da Budapest a Londra sulle esecuzioni in massa e menzionò specificatamente gli sforzi fatti per aumentare la "capacità di assorbimento" di Auschwitz. Menzionò anche i primi segnali della liquidazione del ghetto di Varsavia (il "piccolo ghetto") così come lo sterminio delle comunità ebraiche di Radom, Lida, Minsk, Rowne eccetera (28).

NOTE ALLE APPENDICI. (a) Mi riferisco a ciò che fu conosciuta come operazione U7, l'operazione personale di salvataggio intrapresa dall'ammiraglio Canaris per fare uscire da Berlino diretti in Svizzera due suoi amici, Conzen e Rennefeld, insieme alle loro famiglie. A questi sette protestanti non ariani (erano ebrei solo secondo le leggi di Norimberga) si unirono altre otto persone che erano state raccomandate da ecclesiastici protestanti. Non si sa se membri di questo gruppo trasmisero informazioni sul destino degli ebrei nell'Europa occupata dai nazisti, anche se si può dare per scontato che ebbero contatti con il Consiglio mondiale delle chiese a Ginevra. Anche un ufficiale dell'Abwehr in Olanda aiutò alcuni ebrei a salvarsi inviandoli come "agenti" in Svizzera. (b) I direttori dei giornali tedeschi ricevettero istruzioni nel febbraio 1942 di non pubblicare notizie sulla "questione ebraica" nell'Europa orientale, e neanche di riprodurre comunicati ufficiali dai giornali pubblicati nei territori occupati ("Zeitschriftendienst", 27 febbraio 1942). (c) Mi riferisco soltanto a giornali e periodici che effettivamente raggiunsero gli Alleati e che venivano citati nel quotidiano "News Digest" del ministero delle informazioni a Londra. Questa pubblicazione era a disposizione dei commentatori degli affari esteri: comprendeva anche materiale proveniente da altre fonti. (d) Il Foreign Office ricevette questo dispaccio l'11 settembre da Lord Halifax, che si trovava a Washington e ne aveva ottenuta una copia dall'ambasciatore polacco. (e) Tutti questi documenti furono pubblicati nello spazio di pochi giorni dal governo polacco in esilio sia in polacco che in inglese ("Polish Fortnightly", 1 dicembre 1942). (f) Savery aveva ragione su questo punto. Il rapporto su Belzec menzionava esecuzioni per mezzo dell'elettricità, ma non per mezzo di gas venefici. (g) Queste direttive furono emanate dall'esecutivo per la guerra politica. Le direttive delle settimane precedenti erano dello stesso tenore: "Le notizie sulle condizioni degli ebrei polacchi continuano a essere sempre peggiori... Mentre non c'è alcuna necessità di dire ai polacchi ciò che essi sanno già dobbiamo certamente mostrare loro che anche noi ne siamo a conoscenza. E' consigliabile quindi un attento esame, su questo punto, della stampa e della radio britannica" (3-9 dicembre 1942). "Dovremmo continuare a cogliere ogni opportunità per esprimere la rabbia britannica. Ogni dichiarazione fatta dalla Gran Bretagna e dai paesi alleati volta a condannare questa persecuzione si baserà soprattutto sulle prove prodotte dal governo polacco" (10-16 dicembre 1942). (h) Sono grato al professor Jan Karski per essersi pazientemente sottomesso a una minuziosa intervista (Washington, 3 settembre 1979). (i) Ce n'era un altro, Leon Grossfeld (membro del P.P.S.) che non tuttavia un ruolo prominente in questa storia.

ha

(l) Eden inviò due note al Consiglio di guerra dopo il suo incontro con Karski, ma si riferivano ad affari polacchi. I polacchi non

sarebbero stati disposti ad acconsentire alle richieste sovietiche di modificazioni territoriali, e queste erano cattive notizie.

NOTA SULLE FONTI. Ho avuto accesso alla maggior parte delle raccolte nelle quali si poteva trovare il materiale necessario al presente studio. Tre importanti eccezioni furono gli archivi sovietici e vaticani, e, meno nota, ma di considerevole importanza, la raccolta di Nathan Schwalb, conservata nell'archivio della Histadrut a Tel Aviv. Vorrei esprimere la mia gratitudine ai direttori e al personale dei seguenti istituti: l'Archivio nazionale a Washington; Yad Vashem a Gerusalemme; gli archivi della Haganà, del Movimento Laburista e dell'esecutivo della Histadrut, tutti a Tel Aviv; l'archivio centrale sionista e l'Archivio di stato a Gerusalemme; Moreshet a Givat Haviva; Bet Lohamei Hagetaot; l'Archivio di stato britannico, la Wiener Library, il Congresso mondiale ebraico, l'Istituto Sikorski e lo Studium Polski Podziemnej, tutti a Londra; l'Istituto YIVO, l'archivio Franz Kurski del Bund e l'Istituto Leo Baeck, tutti a New York; l'archivio del Reale Ministero degli Esteri svedese a Stoccolma; il Centro di Documentazione di Berlino; l'Archivio federale svizzero a Berna; l'archivio della Croce Rossa Internazionale a Ginevra; l'Archivio federale tedesco a Coblenza; l'Institut für Zeitgeschichte a Monaco e l'archivio storicomilitare a Friburgo. Purtroppo non posso dire con nessuna certezza di aver avuto accesso a tutto il materiale importante presente in queste raccolte. Particolari ringraziamenti vanno a coloro che mi hanno aiutato in questa ricerca: Josef Algasy (che mi ha aiutato moltissimo con ricerche negli archivi israeliani), la signora N. Pain e il signor Z. Ben Shlomo a Londra, Sofia Miskiewicz e Joseph Pilat a Washington, e il dottor Svante Hansson a Stoccolma. La lista di coloro che ho consultato su problemi particolari è lunga come è lunga quella di coloro che mi hanno aiutato a ottenere materiale altrimenti difficile da avere. Vorrei ringraziare in particolare: in Gran Bretagna: Peter Calvocoressi, dottor E. Eppler, signora Elna Ernest, prof. M.R.D. Foot, dottor J. Garlinski, dottor F. Hajek, prof. F. Hinsley, baronessa Hornsby-Smith DBE, prof. L. Labedz, Ronald Lewin, prof. M. Marrus, Sir Cecil Parrott, dottor S. Roth, prof. Sir Hugh Trevor-Roper, signora S. Wichmann, prof. Z. Zeman; in Israele: dottor Y. Arad, prof. Y. Bauer, dottor W. Eitan, dottor I. Fleischauer, dottor M. Gilbert, dottor I. Gutman, dottor M. Heiman, dottor S. Krakowski, dottor O. Kulka, Shlomit Laqueur, signor Philip, ambasciatore Gideon Rafael, prof. Y. Reinharz, dottor L. Rotkirchen, dottor M. Sompolinski, prof. B. Vago, dottor Reuben Hecht; in Svizzera: dottor H. Boeschenstein, Kurt Emmenegger, dottor O. Gauye, dottor Graf, dottor W. Guggenheim, M. J. Moreillon, A. Müller, dottor G. Riegner, signora C. Rey Schirr, dottor E. Streiff, dottor L. Stucki; in Svezia: prof. W. Carlgren, dottor H. Lindberg, ambasciatore M. R. Kidron, dottor Jozef Lewandowski, barone G. von Otter, prof. M. Peterson, Ake Thulstrup; in Germania: dottor H. Abs, dottor Auerbach, dottor H. Boberach, T. Chciuk-Celt, prof. J. Rohwer; nei Paesi Bassi: dottor Louis de Jong; negli Stati Uniti: ambasciatore J. Beam, prof. H. Deutsch, dottor L. Dobroszycki, Howard Elting Jr, A. Gellert, ambasciatore A. Goldberg, dottor R. Graham SJ, prof. Feliks Gross, dottor F. Grubel, David Kahn, prof. J. Karski, Hillel Kempinski, prof. G. Kennan, S. Korbonski, dottor David Kranzler, dottor J. Kuhl, dottor F. Lessing, prof. G. Lerski, Jan Nowak, A. Pomian, ambasciatore H. Probst, dottor B. Rubin, A. Szegedi Maszak, John E. Taylor, dottor H. Tutsch, dottor Robert Wolfe, Norbert Wollheim. Mi si perdonerà se non ho fornito una bibliografia. Tutti i libri più importanti sulla soluzione finale contengono una bibliografia e,

inoltre, ci sono cataloghi specifici su materiale inedito preparati da Yad Vashem.

NOTE. INTRODUZIONE. N. 1. Supplemento a "British Zone Review", 13 ottobre 1945. N. 2. D. Sington, "Belsen Uncovered", London 1945. N. 3. La vasta letteratura sull'argomento è recensita e analizzata in James M. Reed, "Atrocity Propaganda 1914-1919", New Haven 1941; vedi anche, molto più recentemente, Trevor Wilson, "Lord Bryce's Investigations into Alleged German Atrocities in Belgium 1914/5", "Journal of Contemporary History", luglio 1979, p.p. 369-83. N. 4. Particolari in Ino Arndt - Wolfgang Schaeffer, "Organisierter Massenmord...", "Vierteljahrshefte für Zeitgeschichte", aprile 1976, passim, che contiene anche una dettagliata bibliografia. N. 5. Per esempio, "Eine Statte des Grauens - Bericht aus dem K.Z. Lager Oswiecim [Auschwitz]", "Neue Volkszeitung", New York, 14 marzo 1942. CAPITOLO 1. N. 1. Le numerose ramificazioni burocratiche sono descritte dettagliatamente in H. G. Adler, "Der Verwaltete Mensch", Tübingen 1974. N. 2. Vedi anche le deposizioni giurate di Ferris, Longden e Davison, documenti di Norimberga, N.I.-11693, N.I.-11703, N.I.-11694. N. 3. Processo di Norimberga per crimini di guerra, 20 ottobre 1947, N.I.-1 1984. N. 4. Documenti di Norimberga, N.I.-6645. N. 5. Dott. L. de Jong, "Het Koninkrijk der Nederlanden in de tweede Wereldoorlog", 's Gravenhage 1976, VII, parte 1, p. 333. N. 6. Deposizione giurata Schulhof, 21 giugno 1947, N.L.-7967. Citata in R. Hilberg, "The Destruction of the European Jews", New York 1961, p. 596. N. 7. Documenti di Norimberga, N.G.-1535. N. 8. 10 dicembre 1941, T/120/465/226534-60 (Inland IIg 431), citato in Christopher Browning, "The Final Solution and the German Foreign Office", New York 1978, p. 74. N. 9. Montevideo a DIII, 2 settembre 1941 (P.A., Inland IIA/B 54/1), citato in Browning, op. cit., p. 54. N. 10. Il caso di Klingenfuss, un funzionario di "Abteilung Deutschland", è di carticolare interesse a questo riguardo. Browning, op. cit., p.p. 147-48. N. 11. Browning, op. cit., p. 152. N. 12. Testimonianza Tippelskirch, Documenti di Norimberga, N.G.-2429. N. 13. "The Secret Conferences of Dr Goebbels", New York 1970, p. 309. N. 14. W. Schwipps, "Wortschlacht im Aether, der deutsche Auslandrundfunk im zweiten Weltkrig", Deutsche Welle 1971, p. 20; "B.B.C. Europe Audience Survey", "Germany-European Intelligence Papers", serie 5, 28 giugno 1943; "U.S. Strategic Bombing Survey", Washington 1946. N. 15. Willi A. Boelcke, "Das Seehaus in Berlin-Wannsee. Zur Geschichte des deutschen Monitoring Service wahrend des zweiten Weltkrieges", "Jahrbuch für die Geschichte Mittelund Ostdeutschlands", 23, Berlin 1974, p. 231 segg. N. 16. "Wollt ihr den totalen Krieg? Die geheimen Goebbels Konferenzen 1939-1943", Stuttgart 1967, p. 212. N. 17. L'unica eccezione a me nota è R. Hilberg, "The Reichsbahn and its part in the killing of the Jews", "Yalkut Moreshet", ottobre 1977,

p. 27 segg. N. 18. Hilberg, op. cit., p. 48. N. 19. Bormann era a capo della Cancelleria di Hitler. Egli fece menzione che le misure furono discusse ("Erörterungen angestellt") fra la popolazione. La circolare diceva che le notizie su queste discussioni erano giunte da varie parti della Germania (VI 66/881 del 9 ottobre 1942. Ristampato in "Aus Verfügungen... von der Parteikanzlei", II, 1944, p. 131. Questa è una pubblicazione interna nazista della massima segretezza, stampata ma non in vendita). Un'altra circolare spedita da Bormann dal quartier generale di Hitler dopo l'assassinio di Heydrich l'8 giugno 1942 tende a dimostrare che il destino degli ebrei venne discusso anche prima (R 28/42 g). Questa comunicazione, diretta a tutti i maggiori dirigenti regionali nazisti, riporta il suggerimento, attribuito alla popolazione, che, dopo aver completato l'evacuazione degli ebrei, la stessa sorte sarebbe dovuta toccare ai cechi. N. 20. "Hitler's Table Talk", a cura di H. R. Trevor-Roper, London 1973, p. 162. N. 21. Sulle voci del 1943 vedi O. D. Kulka, "L'opinione pubblica nella Germania nazionalsocialista e il problema ebraico" (in ebraico), "Zion", 1975, p. 242 segg. Le attività dell'S.D. erano dirette dall'R.S.H.A., l'Ufficio centrale per la sicurezza dello stato. La sezione IV di questo ufficio era la Gestapo, la sezione VI si occupava dei servizi segreti stranieri. N. 22. Questa corrispondenza si trova nell'archivio del Leo Baeck Institute, New York. N. 23. Citato qui da "Strassburger Neueste Nachrichten", 20 maggio 1942. N. 24. "Das Reich", 14 giugno 1942. N. 25. Conversazioni con Andor Gellert (11 ottobre 1979) e Aladar Szegedy-Maszak (18 settembre 1979). Szegedy-Maszak era per importanza a quell'epoca il secondo funzionario dell'ufficio politico. I due resoconti concordano su tutti i punti essenziali. Szegedy-Maszak fu arrestato dai tedeschi dopo l'invasione e passò l'ultima parte della guerra a Dachau. Gellert fu inviato a Stoccolma verso la fine del 1942 e si impegnò nelle iniziative di pace con gli Alleati . N. 26. La nota appare in Elek Karsai, "A budai varto a gyepuig", Budapest 1966, p.p. 202-05. N. 27. N. M. Nagy Talavera, "The Green Shirts and Others", Stanford 1970, p. 184. N. 28. Milan S. Durica, "Dr Joseph Tiso and the Jewish Problem in Slovakia", Padova 1964, p. 12. La testimonianza è discussa nel saggio di Y. Jelinek in B. Vago e G. L. Mosse, "Jews and Non-Jews in Eastern Europe", New York 1974, p.p. 221-56. N. 29. Il generale Pieche rivelò in una intervista che questo aiuto era stato ottenuto da Gaddo Glass, un ebreo di Trieste. Il documento appare in "Relazione sull'opera svolta dal Ministero dgli Affari Esteri per la tutela delle Comunità ebraiche (1918-43)", Roma, s.d. Vedi anche Giuseppe Mayda, "Ebrei sotto Salò", Feltrinelli, Milano 1978, p. 21 segg. N. 30. Il rapporto Viherluoto è ristampato in Elina Suominen, "Kuoleman laiva S.S. Hohenhörn. Juutalaispakolastainen kohtalo Suomessa", Provoo-Helsinki 1979, p. 56. N. 31. Rapporto a Pilet-Golaz, 22 dicembre 1942. N. 32. Rapporto a Pilet-Golaz, 31 maggio 1943. N. 33. A. Szegedy-Maszak. N. 34. "Zror Reshimot", 3, Vaad Ha'hazala, p. 5. Queste sono le circolari dattiloscritte patrocinate dal Comitato di soccorso palestinese a Istanbul. N. 35. Utilizzo qui il capitolo 6 dello studio finora inedito su Vichy e gli ebrei del professor Michael Marrus. N. 36. "Les églises protestantes pendant la guerre et l'occupation", Paris 1946, p. 32. CAPITOLO 2.

N. 1. "Bericht der Polizeiabteilung zum Flüchtlingsproblem". Rapporto Jezler. Allegato a lettera datata 4 agosto 1942, Archivio federale svizzero. N. 2. Willi Gautsch, "Geschichte des Kanton Aargau", Baden 1978, p.p. 450-58. N. 3. Rudolf Bucher, "Zwischen Verrat und Menschlichkeit", Frauenfeld 1967, p.p. 187-88, e Benjamin Sagalowitz, "Was wusste man in der Schweiz vom Schicksal der Juden", Zürich 1955, edizione privata. N. 4. "Angelegenheit über die Vorträge von Dr. Bucher über die Ärztemission an der Ostfront", Bundesarchiv, Bestand 27-12707. N. 5. "Warschau 1942", Zürich 1945. La censura impedì la pubblicazione del libro durante la guerra. N. 6. Stucki a Pilet-Golaz, 17 settembre 1942; Marsiglia, 10 settembre 1942. N. 7. "Thurgauer Zeitung", 2 ottobre 1942. N. 8. "Deutsche Hörer, 55 Radiosendungen", Stockholm 1945, p. 44. N. 9. "Berner Tagwacht", 3 agosto 1942. N. 10. "Thurgauer Arbeiterzeitung", 25 agosto 1942, "Basler Nationalzeitung", 20 agosto 1942, "Die Tat", 29 agosto 1942, e molti altri. N. 11. Lettera datata 20 novembre 1942. N. 12. Georg Kreis, "Zensur und Selbstzensur", Frauenfeld 1973, p. 194. N. 13. Vedi per esempio "Schweizer Armeekommando", 20 novembre 1943, e lettera a "Nation", Berna, 17 dicembre 1943, Archivio federale svizzero. N. 14. "Basler Nationalzeitung", 18 dicembre 1942. N. 15. C. Ludwig, "Die Flüchtlingspolitik der Schweiz in den Jahren 1933 bis 1955", p. 242. N. 16. Comunicazione personale del barone von Otter e intervista in "Aftonbladet", 7 e 8 marzo 1979. Ci fu un'intervista precedente in "Rheinischer Merkur", 14 luglio 1 963 . N. 17. La lettera è datata 23 luglio 1945. Vorrei qui ringraziare il professor W. Carlgren e il dottor Svante Hansson. N. 18. Per esempio, Olle Nystedt, Göteborg, 29 novembre 1942, citato in "Nordiska Röster mot judeförföljelse och vald", Stockholm 1943, p. 14. N. 19. "Svenska Dagbladet", 6 dicembre 1942; "Nya Daglighl Allehanda", 27 novembre 1942; "Non è difficile immaginare il destino che li attende", "Social Democraten", 29 novembre 1942. N. 20. "Smalands Folksblad", 27 novembre 1942; "Falkuriren", 25 novembre 1942; "Barometern", Kalmar, 28 novembre 1942; "Göteborgs Tidningen", 29 novembre 1942; "Eskilstunakuriren", 30 novembre 1942. N. 21. "Göteborgs Handelstidning", 18 dicembre 1942; "Arbetet", Malmö, 19 dicembre 1942. N. 22. 24 luglio 1943. Documenti di Norimberga, N.G.-5050. N. 23. Citato in B. Wasserstein, "Britain and the Jews of Europe 19391945", London 1979, p. 237. N. 24. "Le Figaro", 14 dicembre 1963. N. 25. Hans Gmelin, Documenti di Norimberga, N.G.-5291; "Actes et Documents du Saint Siège relatifs à la Seconde Guerre Mondiale", VII, Vaticano 1974, p. 453. N. 26. Op. cit., VII, p. 608. N. 27. Casaroli all'arcivescovo Jadot, lettera datata 25 settembre 1979. N. 28. "Report of the I.R.C. on its activities during the second world war...", Genève 1948, I, p. 11. N. 29. Op. cit., 1, p. 21. N. 30. "Inter Arma Caritas", Genève 1947, p. 85. N. 31. Queste citazioni, se non indicato altrimenti, provengono dall'archivio della C.R.I. di Ginevra. Sono grato all'esecutivo della C.R.I. per avermi concesso il permesso di consultare questo materiale. Credo di essere stato il primo storico ad avere avuto accesso a questa raccolta se si eccettua l'autore di una storia generale ufficiale

della Croce Rossa fra il 1914 e il 1954 pubblicata alcuni anni or sono. La raccolta è tuttavia tutt'altro che completa. Il dottor Burckhardt, ministro degli esteri della C.R.I. e studioso di professione della diplomazia classica, non ha lasciato nessuna corrispondenza. N. 32. La nota di Squire fu redatta sotto forma di lettera personale a Harrison, inviata il 9 novembre 1942. Archivio nazionale. N. 33. Riegner, "Aktennotiz", Ginevra, 17 novembre 1942, nella Corrispondenza Lichtheim, archivio centrale sionista (C.Z.A.). CAPITOLO 3. N. 1. Glasberg, "A la recherche d'une patrie", Paris 1946, p. 64. N. 2. La struttura dei servizi segreti britannici è descritta autorevolmente in F. H. Hinsley et al., "British Intelligence in the Second World War", London 1979, I, passim. N. 3. "Die Zeitung", Londra, 25 ottobre 1941. II resoconto svedese fu pubblicato anche nel "Sunday Times" del 24 ottobre e in altri giornali. Il nome di Eichmann aveva già figurato molto prima nei rapporti di diplomatici svedesi, e cioè nel novembre 1939. Mi riferisco al rapporto di due membri dell'ambasciata svedese a Berlino, Einar von Post e Karl Damgren, su trasporti di ebrei dalla Moravia. Devo questa informazione allo studio di Hans Lindberg sulla politica svedese verso i profughi negli anni 1936-41. Il dottor Lindberg pensa che sia improbabile che le autorità svedesi fossero a conoscenza dello sterminio prima del rapporto di von Otter. Questa sua tesi si basa su una intervista con l'ambascitore Gösta Engzell che si trovava allora in una posizione chiave al ministero degli esteri svedese. Hans Lindberg, "Svensk flykting politik under internationellt tryck193641", Stockholm 1973. N. 4. "Stockholm Tidningen", 22 luglio e 10 agosto 1941; "Aftonbladet", 18 agosto 1941 . N. 5. "Pravda", 7 gennaio 1942. Occasionalmente ci furono rapporti sovietici da pubblicarsi esclusivamente all'estero. Mi riferisco, per esempio, al rapporto del Comitato antifascista ebraico di Kuybischev sull'assassinio di 72 mila ebrei a Minsk fra il novembre 1941 e l'aprile 1942. Esso comparve in giornali britannici e americani (vedi "Daily Telegraph", 15 agosto 1942) ma non nei principali giornali sovietici. N. 6. "Pravda" e "Izvestija", 19 dicembre 1942. N. 7. "Front bez liniya fronta", Mosca 1975, p. 63. Si tratta di un raccolta di saggi scritti da o su agenti dell'N.K.V.D. rimasti nelle aree occupate dai nazisti. Anche il romanzo di Vasili Ardamatski, "Granat calling Moscow", tratta questo argomento. La storia ufficiale in tre volumi dell'Ucraina durante la guerra menziona il fatto che il 28 settembre 1941 le autorità tedesche dettero ordine alla popolazione ebraica di radunarsi alle otto della mattina dopo, ma poi non si fa più menzione della nazionalità delle vittime. "Ukrainskaia S.S.R. v velikoi otechestvennoi voini Sovetskovo Soyuza 1941-45", Mosca 1978, I, p. 351. N. 8. "J.T.A. Bulletin", 15-16 maggio 1942. N. 9. Vedi l'eccellente monografia di Y. Gelber "Ha'etonut ha'ivrit be'Erez Israel al Hashmadat Yehudei Europa", in "Dapim le'heker hashoa ve'hamered", Tel Aviv 1969, p. 46. N. 10. "Benjamin Sagalowitz", un opuscolo pubblicato privatamente dai suoi amici dopo la sua morte nel 1970; p. 31. N. 11. Hinsley, op. cit., p. 58. N. 12. "Commentary", marzo 1980. N. 13. Commenti sul telegramma Riegner di F. Roberts, D. Allen, E. A. Walker, Miss Scofield e bozza preparata per Sir Brograve Beauchamp in PRO FO 371 30917 X.K. 6759. N. 14. Il dottor Riegner scrisse un "Rapporto concernente gli ebrei in Lettonia" sulla base della testimonianza di Zivian. Congresso mondiale ebraico, archivio dell'Istituto per gli affari ebraici, Londra. N. 15. 23 novembre 1942. Archivio nazionale 740.0016 E.W. 1939/726.

N. 16. Wasserstein, op. cit., p. 169. N. 17. Vedi, per esempio, Hilberg, op. cit., p. 470 (Slovacchia), p. 331 (Polonia) . N. 18. PRO FO 371/34551. Cavendish-Bentinck spiegò in seguito che prima della guerra la sua conoscenza della Germania era stata limitata e che per questa ragione non credette alle storie di atrocità nel 1942-43. Aggiunse che, quando visitò Auschwitz verso la fine del 1945 e riferì al Foreign Office che milioni di persone vi erano state uccise, ancora la cosa non veniva creduta. N. 19. D. Allen, PRO FO 371/30917, 14 agosto 1942. 20. Kelly a Roberts, PRO FO 371/26515. N. 21. Hinsley, op. cit., pp. 357-58. I documenti riguardanti le informazioni ferroviarie di Ultra non sono ancora accessibili all'Archivio di stato. N. 22. Rapporto Lahusen sul viaggio in Russia, N.O.K.W. 3147, 23 ottobre 1941. N. 23. "Neue Zürcher Zeitung", 5 maggio 1979. N. 24. PRO FO 371/30898. I rapporti della censura resteranno segreti in Gran Bretagna per altri cinquant'anni. Quello citato mi è pervenuto per caso. Esso mostra che questi rapporti erano una fonte di grande importanza. N. 25. Nota MOI, 25 luglio 1941, INF 1/251. Il P.W.E. suggerì che le atrocità naziste contro gli ebrei dovessero essere rese pubbliche dai mezzi di comunicazione, ma questo avvenne soltanto nel dicembre 1942 (10, 24, 31) e la cosa ebbe un seguito soltanto sporadico. Vedi Michael Balfour, "Propaganda in War", London 1979, passim. N. 26. Nota MOI, R. Frazer, 10 febbraio 1942, INF 1/251. N. 27. Ian McLaine, "Ministry of Morale", London 1979, p.p. 164-66. N. 28. Ibid. 29. "New York Herald Tribune", 25 novembre 1942. N. 30. Henry L. Feingold, "The Politics of Rescue", New Brunswick 1970, p. 180. N. 31. Documenti dell'O.S.S. all'Archivio nazionale, 26896. Questo rapporto concorda perfettamente con le informazioni ricevute da Lichtheim a Ginevra e da lui inviate a Gerusalemme (vedi sotto). N. 32. Documenti di Stephen S. Wise, Frankfurter a Wise, 16 settembre 1942. N. 33. La lettera di Sikorski è datata 22 giugno 1942; la risposta di Roosevelt è datata 3 luglio. Questi documenti, così come i telegrammi provenienti da Biddle, si possono trovare all'Archivio nazionale, gruppo 84. Varsavia 1942, filza 711 - Atrocità contro gli ebrei. 34, R.G. 226; O.S.S. 27275. N. 35. O.S.S., Ricerca e Analisi, n. 605; "New York Herald Tribune", 29 ottobre 1941 (dispaccio Oechsner). Richard Helms aveva lavorato per Oechsner all'ufficio berlinese dell'U.P.; quando Oechsner entrò nell'O.S.S. prese con sé Helms. N. 36. O.S.S. 88254. La sezione Ricerca e Analisi dell'O.S.S. giunse alla conclusione già nel marzo 1942 che "il disegno della violenza tedesca include la sistematica liquidazione degli ebrei" (rapporto 605, 14 marzo 1942). N. 37. O.S.S. 24736. N. 38. O.S.S. 24728. N. 39. H. Johnson al segretario di stato, Stoccolma, 5 aprile 1943. N. 40 Werner Rings, "Advokaten des Feindes", Düsseldorf 1966. N. 41. "New York Times", 4 dicembre 1942. Due giorni prima era stato scritto nell'editoriale dello stesso giornale che "per riassumere questa orribile storia, si pensa che due milioni di ebrei europei siano morti e che cinque milioni corrano il pericolo di essere sterminati". N. 42. W. A. Visser't Hooft, "Memoirs", London 1973, p.p. 165-66. CAPITOLO 4. N. 1. Sull'A.K. vedi "Polskie Sily Zbrojne", London 1950, III ("Armia Krajowa"); T. Rawski, A. Stapor, J. Zamojski, "Wojna wyzwolencza narodu polskiego...", Warszawa 1966, 1; gli importanti libri

autobiografici di Bor Komorowski, Korbonski, Zaremba, Jan Karski, Jan Nowak, Stefan Dolega-Modrzewski e altri. W. Jacobmeyer, "Heimat und Exil", Hamburg 1973, si occupa degli inizi della resistenza polacca fino al giugno 1941. N. 2. J. Garlinski, "Poland, S.O.E. and the Allies", London 1969. N. 3. L'intera storia del caso svedese è stata descritta solo recentemente in una interessante monografia di Jozef Lewandowski, "Swedish Contribution to the Polish Resistance Movement during World War II 1939-42", Uppsala 1979. Alcuni dei protagonisti, come Herslow (Moskva - Berlin - Warsawa, Stockholm 1946) e la cantante Elna Gisted ("Fran operett till tragedi", Stockholm 1946) hanno pubblicato in seguito le loro memorie, che, tuttavia, lasciano molte questioni aperte, come per esempio se la valigia diplomatica svedese sia stata usata per portare la posta. Il caso svedese è stato riscoperto in Polonia nel 1968-69 con la pubblicazione nella rivista di Varsavia "Stolica" di una serie di articoli dello storico Bohdan Kroll, come pure di Roman Papay e di Tadeusz Radzinski, che avevano partecipato agli eventi che descrissero. N. 4. Il rapporto Himmler, datato 31 dicembre 1942, è riprodotto in Lewandowski, op. cit., p.p. 86-99. La notizia dell'arresto venne pubblicata in prima pagina dai giornali svedesi. Vedi "Dagens Nyheter", 31 luglio 1942. N. 5. W. Bartoszewski e Sofia Lewin, "Righteous among Nations", London 1969, p. XXIV e passim. N. 6. Vladka Meed, "On both sides of the Wall", New York, s.d., p. 108. 7. Jan Karski, "Story of a Secret State", Boston 1944, p. 321. N. 8. K. Iranek-Osmecki, "He Who Saves One Life", New York 1971, p. 186. N. 9. Bartoszewski e Lewin, op. cit., p. 654. La data fornita è Varsavia, 30 novembre 1940, ma si tratta sicuramente di un errore di stampa. N. 10. "Sprawozdanie", 16-30 novembre 1941; filza 14-30 "Studium Polski Podziemnej" (S.P.P.). N. 11. S.P.P. 15-13. "Zalacznik do aneksu Nr. 28", "Masowe ekzekucje Zydow w powiecie kilskim". In inglese: "The Ghetto", 5 agosto 1942, e "The Black Book of Polish Jewry", New York 1945. N. 12. Meldunki, 10 luglio 1942, S.P.P. 15-81. N. 13. S.P.P. 14-102. N. 14. S.P.P. 14-57. N. 15. Vedi anche "Relacja Policjanta" - S.P.P. 15-84, datata 11 agosto 1942, sulla stazione di polizia nel ghetto di Varsavia. Questo e altri rapporti qui citati furono infine tradotti in inglese negli uffici dell'O.S.S., ma soltanto nel 1943 . N. 16. Natalia Zarembina, "Oboz smierci" ("Campo della morte"), Sofia Kossak, "W piekle" ("All'inferno"), Halina Krahelska, "Oswiecim, pomietnik wieznia" ("Auschwitz, diario di un prigioniero"). N. 17. "Informacja Biezaca" 33, 8 settembre 1942, citato in "Zeszyty Oswiecimskie", numero speciale, Warszawa 1968. N. 18. T. Bor Komorowski, "The Secret Army", London 1950, p. 99. Altre sezioni della resistenza devono aver ricevuto queste informazioni anche prima perché le notizie avevano già raggiunto Londra il 26 luglio. Vedi sotto. N. 19. Bor Komorowski, op. cit., p. 101. N. 20. Stefan Korbonski, "W Imieniu Rzecypospolitej", Paris 1954. N. 21. S.P.P., "Armia Krajowa W Dokumentacje", London 1973, II, p. 210. N. 22. Citato in Y. Gutman, "Polish attitudes towards mass deportations from Warsaw", in "Rescue Attempts", p. 406. N. 23. Il discorso fu pubblicato in seguito in un volumetto, "Stop Them Now", London 1942. N. 24. Comunicazione personale, settembre 1979. N. 25. Comunicazione personale, settembre 1979. N. 26. Hershel V. Johnson al segretario di stato, 21 luglio 1942, F.W. 862 4016/2237.

N. 27. O.S.S. 88254; 862.4016/2242. N. 28, Guerra europea 1939/597A P.S./S.F. N. 29. S.P.P. 74/221. N. 30. S.P.P. 74/252. N. 31. S.P.P. 15/107. N. 32. Karski, op. cit., p. 321. N. 33. Karski, op. cit., p.p. 327-28. A Belzec non si uccideva generalmente mediante calce viva (ossido di calcio) sparsa sul pavimento dei vagoni, ma in camere a gas. Vedi Appendice 5. N. 34. Karski, op. cit., p. 336. N. 35. Ibid. CAPITOLO 5. N. 1. Testimonianza Dvorzhetski citata in G. Hausner, "Justice in Jerusalem", London 1967, p. 195. N. 2. Il manifesto fu pubblicato in poche copie e letto alle riunioni. Ma il testo è stato conservato. Ne fu autore Abba Kowner, poeta e capo partigiano. Il testo è riportato in diversi libri fra cui Rozka Korczak, "Lehavot Be'efar", Merhavia 1965, p.p. 56-57; Yizhak Arad, "Vilna hayehudit", Tel Aviv 1966, p.p. 160-61. N. 3. Nina Tennenbaum-Becker, "He'adam Ha 'lochem", Tel Aviv 1964, passim. N. 4. I. Tabakblat, "Churben Lodz", Buenos Aires 1946, p. 124. N. 5. N. Blumental e Y. Karmish, "Hamen vehamered beghetto Warsha", Gerusalemme 1965, p. 75. N. 6. Joseph Kermish nella sua introduzione al libro di Ringelblum "Polish-Jewish relations during the second world war", Gerusalemme 1974, p. XVI. N. 7. I. Trunk, "Lettere dagli anni dell'Olocausto" (in ebraico), "Yediot Bet Lohamei Hagettaot", aprile 1957, p.p. 22-23. N. 8. Ibid. N. 9. "Dokumenty i Materialy", parte prima: "Obozy", a cura di N. Blumental, Lodz 1946, p.p. 232-33. N. 10. Ibid. N. 11. Parti del diario furono danneggiate. Vedi J. Kermish, "E. Ringelblum's notes hitherto unpublished", "Yad Vashem Studies", VII, 1968, p. 173. N. 12. Julian Leszczynski, "Biuletyn Zydowskiego Instytutu Historycznego", 1, 1979, p. 100. N. 13. "Powstanie i rozwoj Z.O.B.", rapporto sull'organizzazione militare ebraica, scritto nel marzo 1944. Citato da L. S. Dawidowicz, "A Holocaust Reader", New York 1976, p. 363. N. 14. "Scroll of Agony", New York 1965, passim. N. 15. Kermish, op. cit., p.p. 180-81. N. 16. S.P.P. filza 15, 26. Traduzione basata su Y. Bauer, "When did they know?", Midstream, aprile 1968, p. 57. N. 17. S.P.P. filza 15, 107. N. 18. "Slowo Mlodych", citato in "Etonut Gordonia be'machteret ghetto Warsha", Tel Aviv 1966. N. 19. Randolph L. Braham, "The Kamenets Podolsk Massacres", "Yad Vashem Studies" IX, 1973, p. 141. N. 20. P. Gosztoni, "Hitlers Fremde Heere", Düsseldorf 1976, p. 161. N. 21. Julius S. Fisher, "Transnistria", South Brunswick 1969, p. 161. N. 22. "Saint Siège", VII, p. 453. N. 23. "Min Hamezar", New York 1960, p. 13. Un libro di informazioni scritto in un ebraico rabbinico. Weissmandl riferisce anche che Kametka, l'arcivescovo del luogo, disse ai rappresentanti delle organizzazioni ebraiche nel marzo o nell'aprile 1942 che in Polonia tutti gli ebrei sarebbero stati massacrati (p.p. 34-35). N. 24. "Der Kastner Bericht", München 1961, p. 37. N. 25. Alex Weisberg, "Advocate for the Dead", London 1959, p. 31. N. 26. J. Kornianski, "Beshlichut", op. cit., passim. N. 27. Esso è riprodotto come documento 76 in Livia Rotkirchen, "Lo sterminio degli ebrei slovacchi. Una storia documentaria" (in

ebraico), Gerusalemme 1961, p.p. 166-204. N. 28. Oscar Neumann, "Im Schatten des Todes", Tel Aviv 1956, p.p. 119-20. N. 29. Karmasin, capo dei Volksdeutsche in Slovacchia, a Himmler, 29 luglio 1942. NO-1660. N. 30. Capo della polizia tedesca di sicurezza, rapporto 151 sulla situazione delle operazioni in URSS, datato 5 gennaio 1942. NO-3257. N. 31. Norbert Wollheim, New York, 24 settembre 1979. N. 32. Raccolta di lettere alla Wiener Library, Londra. N. 33. Eric H. Boehm, "We Survived", New Haven 1949, p. 293. 34. Billig, "Solution finale", Paris, s.d., p. 176. N. 35. Citato in Louis de Jong, "The Netherlands and Auschwitz", "Yad Vashem Studies", VII, p. 44. Il dottor de Jong si è occupato ancora di questo argomento nel suo ampio studio "Het Koninkrijk...", cit., VII, parte 1, "Wat weest man van Auschwitz an Sobibor?", p.p. 320-62. N. 36. De Jong, "Het Koninkrijk...", cit., VII, p. 340. N. 37. Citato da Leni Yahil, "The Rescue of Danish Jewry", Philadelphia 1969, p.p. 214-15. N. 38. Citato da "Pariser Zeitung", 353, 23 dicembre 1942. N. 39. Alfred Wetzler nel 1946 in un tribunale slovacco a Bratislava, in Rothkirchen, op. cit., p. 158. N. 40. De Jong, "The Netherlands and Auschwitz", cit., p. 47. N. 41. John Hinton, Dying, London 1967, p. 102. 42. De Jong, "The Netherlands and Auschwitz", cit., p. 54 CAPITOLO 6. N. 1. "Congress Bulletin", 16 febbraio 1940. N. 2. 2 dicembre 1942. Documenti di Stephen S. Wise. Brandeis University. N. 3. Congresso mondiale ebraico, archivio dell'Istituto per gli affari ebraici, Londra. Le reazioni dei dirigenti ebrei inglesi sono discusse in M. Sompolinski, "Ha'hanhaga ha'anglo-yehudit...", tesi di laurea, Bar Ilan University, Tel Aviv 1977. N. 4. Maria Syrkin, "Midstream", maggio 1968. N. 5. L'articolo di Greenberg uscì per la prima volta nel febbraio 1943 in "Yiddisher Kemfer"; apparve in inglese in "Midstream", marzo 1964. N. 6. M. Kwapiszewski, ministro plenipotenziario polacco a Washington, in una lettera datata 4 settembre 1942. Citata in "Polish Review", 1, 1979, p. 47. N. 7. Telegrammi datati 19 settembre, 1 ottobre e 10 ottobre. N. 8. Egli rappresentò una delle numerose fonti di notizie sui preparativi tedeschi per l'invasione dell'Unione Sovietica. Vedi "Master of Spies, The Memoirs of General Moravec", London 1975, e Hinsley, op. cit. Vedi anche L. Otahalova e M. Cervinkova, "Documenty z historie ceskoslovenske politiky", Praha 1966, che include i diari di Smutny, che fu il maggiore collaboratore di Benes in quel periodo. N. 9. Benes a A. Easterman, 11 novembre 1942. Congresso mondiale ebraico, archivio di Londra. N. 10. Antonin Tichy, "Nas zive nedostanou", Liberec 1969. N. 11. Thümmel, a differenza di molti altri ufficiali dell'Abwehr, era un vecchio membro del partito nazista ed era stato un tempo intimo di Himmler. R. Strobinger, "Spion mit drei Gesichtern", München 1966; Amort e Jedlicka, "Tajemstvi vyzvedace A-54", Praha 1965; V. Kural, "Vyhravaji spioni valky?", "Ceskoslovensky Vojak", 7, 1967. N. 12. Nichols, legazione britannica presso la Repubblica cecoslovacca, a Eden, 13 giugno 1942, FO 371/30873; rapporto XIX di Benes, "Situazione politica nel Protettorato", dal 23 maggio al 5 giugno 1942, ibid. N. 13. "48 mila ebrei deportati da Praga verso l'est", 29 ottobre 1941. Vedi anche "Nova Dobe", 16 gennaio 1942, sulla deportazione di tutti gli ebrei da Pilsen e su molti altri rapporti del genere. N. 14. "New York Herald Tribune", 25 novembre 1942. N. 15. Mi riferisco per esempio a giornali come "Grenzbote"

(Bratislava), "Donauzeitung" (Belgrado), "Krakauer Zeitung", "Warschauer Zeitung", "Minsker Zeitung", "Ukraine Zeitung", "Der Neue Tag" (Praga). N. 16. I documenti originali dell'I.S.L.D. a Londra sembrano essere scomparsi, o furono distrutti. Ma sono disponibili copie all'archivio centrale sionista (C.Z.A.). Il servizio segreto britannico prese in considerazione la possibilità di fare interrogare sistematicamente a Lisbona (da Ridley Prentice) i profughi ebrei provenienti dalla Germania nell'ottobre 1941, basandosi sugli elenchi di partenza pubblicati nello "Judisches Nachrichtenblatt", l'unico bollettino ebraico rimasto in Germania. (Adams a Lord Gage, FO 898/19). N. 17. De Jong, "The Netherlands and Auschwitz", cit., p. 78. N. 18. "Peulot Hazala be Kushta", s.l., 1969, p. 41. N. 19. "Bericht über die Judische Lage" in Europa, 15 settembre 1940, C.Z.A. N. 20. Rapporto da Ginevra datato 11 dicembre 1940, C.Z.A. N. 21. 27 agosto 1941 (lettera 461 via Istanbul), C.Z.A. Le lettere scambiate fra Ginevra e Gerusalemme durante la guerra furono numerate. N. 22. 20 ottobre 1941 (lettera 506 via Istanbul), C.Z.A. N. 23. 13 novembre 1941, C.Z.A. N. 24. 10 novembre 1941, C.Z.A. N. 25. Ibid. N. 26. Ibid. N. 27. 22 dicembre 1941, C.Z.A. N. 28. Così in una lettera datata 29 maggio 1942: "Non è certamente una esagerazione prevedere che alla fine di questa guerra due o tre milioni di ebrei europei saranno fisicamente annientati". C.Z.A. N. 29. 19 marzo e 13 maggio 1942, C.Z.A. N. 30. 30 marzo 1942, lettera personale a L. Lauterbach, C.Z.A. N. 31. 22 luglio 1942, C.Z.A. N. 32. Ibid. N. 33. Lichtheim a Linton (Londra), 27 agosto 1942, C.Z.A. N. 34. Lauterbach a Lichtheim, 28 settembre 1942, C.Z.A. N. 35. Intervista di Dvorzhetski a Riegner, Ginevra, 13 luglio 1972. N. 36. 8 ottobre 1942 (lettera 845 via Istanbul), C.Z.A. N. 37. 20 ottobre 1942 (lettera 858 via Istanbul), C.Z.A. N. 38. Protocolli della riunione dell'esecutivo della Confederazione generale del lavoro, p. 2. N. 39. Moshe Prager, "Yaven Mezula Hehadash", Tel Aviv, settembre 1941, p. 7. Ho letto la stampa palestinese di quel periodo (1941-42) ma ho utilizzato soprattutto lo studio pionieristico di Y. Gelber "Ha'etonut ha'ivrit...", cit. N. 40. "Davar", 12 luglio 1942; "Hatzofe", 8 febbraio 1942; citato in Gelber, op. cit., p. 43. N. 41. "Ha'olam", 27 agosto 1942. 42. "Hatzofe", 24 aprile 1942; "Hamashkif", 29 maggio 1942; citato in Gelber, op. cit., p.p. 44-45. N. 43. "Hatzofe", 18 marzo 1942; "Davar", 16 marzo 1942. N. 44. "Daf" in "Davar", 17 marzo, evidentemente le iniziali di Dan Pines, uno dei redattori. N. 45. "Davar", 8 ottobre 1942. Era stato pubblicato in agosto in "The Ghetto Speaks" nel "Forward" di New York (31 luglio) e altrove. N. 46. Y. Gothelf, "Davar", 10 dicembre 1942, citato in Gelber, op. cit., p.p. 50-51. N. 47. Y. Tabenkin in "Zror Mikhtavim", 22 gennaio 1943. Citato in Y. Gelber, "Tguvat ha'yishuv ha'ivri...", dispensa universitaria, Università Ebraica, Gerusalemme 1969. N. 48. S 25/6005 C.Z.A. N. 49. Protocolli dell'esecutivo dell'Histadrut. N. 50. Protocolli..., p. 8. N. 51. Le prime reazioni sono discusse dettagliatamente nello studio di Chava Wagman-Eshkoli "Emdat hamanhigut...", "Yalkut Moreshet", ottobre 1977, p. 87 segg. N. 52. Y. Bauer, "The Holocaust in Historical Perspective", Seattle 1978, p. 28.

N. 53. Riegner, intervista di Dvorzhetski, p. 11. CONCLUSIONE. N. 1. Roberta Wohlstetter, "Pearl Harbor, Warning and Decision", Stanford 1962, passim; Burton Whaley, "Codeword Barbarossa", Cambridge Mass. 1973, passim. APPENDICI. N. 1. Lettera firmata da Martin Bormann, datata 17 gennaio 1939, nell'Archivio centrale nazista (Centro di Documentazione di Berlino). N. 2. Yaadov Zur, in "Peulat Hazalah be 'Kusht"a, Gerusalemme 1969, p . 54 segg. N. 3. Ernst Lemmer, "Goebbels Journalist, Nazi Spitzel, Revanche Minister", Ostberlin 1964. N. 4. Ernst Lemmer, "Manches war doch anders", Frankfurt 1968, p. 208. N. 5. Quanto segue è basato su Edgar Salin, "Über Artur Sommer den Menschen und List Forscher", "Mitteilungen der List Gesellschaft", fascicolo 6, 30 novembre 1967, p. 81 segg. Secondo il dossier di Sommer all'Archivio centrale nazista (Centro di Documentazione di Berlino) egli entrò nel partito nel maggio 1933. Abbastanza stranamente, non venne espulso dal partito malgrado il suo arresto. Si menziona invece che nel 1935 fu privato del permesso d'insegnare e che aveva parenti ebrei acquisiti con il matrimonio ("jüdisch versippt"). N. 6. "Social Democraten", 31 marzo e 2 aprile 1942; "Stockholm Tidningen", 21 aprile 1942. N. 7. "Grenzbote", che cita "Gardista", 11 aprile 1942, "Gardista", 29 aprile; "Nationalzeitung", Essen, che cita "Gardista", 30 aprile. N. 8. "De Storm", 17 luglio 1942; era l'organo delle S.S. olandesi. N. 9. Lahti, 10 luglio 1942; Fagerholm in "Arbeterbladet", 6 ottobre 1943; "Hufvudstadsbladet", 5 ottobre 1943; radio Motala, 5 ottobre 1943. N. 10. "Das Hakenkreuzbanner", Mannheim, 24 dicembre 1943. N. 11 . "Aftontidningen", Stoccolma, 24 agosto e 5 dicembre 1943. N. 12. FO 371/31097, X/PO 3703. N. 13. Ibid. Mi sembra giusto aggiungere che, quando il rapporto su Chelmno fu pubblicato per la prima volta nella stampa palestinese, incontrò anche lì una certa incredulità. N. 14. FO 311/31093. N. 15. FO 371/31097, X/PO 3703. N. 16. 840.48 Profughi, 3 settembre 1942. Archivio nazionale, Washington. N. 17. Wasserstein, op. cit., p. 172. N. 18. 740.00 116 Guerra europea 1939/694 P.S./D.G. 5 dicembre. N. 19. Ibid. 10 dicembre. N. 20. Ibid. 674 10 dicembre. N. 21. Ibid. 656 25 novembre 1942. 22. Ibid. 664. 23. "Schweizerische Kirchenzeitung", 27 agosto 1942, "Tribune de Genève", 26 settembre 1942. N. 24. "The Underground State", Boston 1944. 25. La conversazione con Roosevelt fu descritta dettagliatamente nelle memorie dell'ambasciatore polacco, Jan Ciechanowski ("Defeat in Victory", New York 1948), che era presente. N. 26. "Kurier z Warszawy", London 1978. N. 27. Conversazione con Jan Nowak, Washington, 7 settembre 1979. N. 28. Comunicazione personale, ott. 1979. T. Chciuk-Celt descrisse le sue peregrinazioni in Polonia e all'estero in diversi articoli pubblicati poco dopo la guerra ("Nowa-Polska", London 1945; "Proza Polska", parte 2, Paris; "Tygodnik Powszechny", Krakow 1947; "Nasz Znak", Stockholm 1951).