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Italian Pages 194 [208] Year 1997
J. Derrida e M. Ferraris
cclL GUSTO DEL SEGRETO» Biblioteca di Cultura Moderna Laterza
T >. L'idea di tollerare gli altri, di sopportare la loro differenza, perché sappiamo di essere nel vero, è insieme dogmatica e relativistica, non relativistica e relativistica. E in certi casi ci vedrei, come lei ha suggerito, una forma di irrispettosità. Se si acuisce il concetto di tolleranza, certo spero di essere tollerante, ma preferirei un'altra parola e un altro concetto per acutizzare quello che mi pare debba essere l' apertura all'altro, il rispetto dell'altro. Se ci fosse tempo, tenterei di proporre una genealogia decostruttiva del concetto di tolleranza, e poi di vedere come si possa andare oltre. Ora, non c'è decostruzione che non parta dal tentativo di rispettare il testo o il discorso, dunque non si tratta assolu-
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tamente di distruggere il testo, le credenze o il pensiero dell'altro, né di sminuirlo, anzi. A questo proposito, vorrei riprendere ciò che ha detto della decostruzione come pensiero ancora più debole del pensiero debole. Credo che, in un certo senso, sia vero. Se «debole» presuppone un relativismo liberale, no; ma se definisce un certo modo di essere disarmati nel rapporto con l'altro, allora sì: c'è, in molti miei testi, un discorso sulla debolezza. È una debolezza che può trasformarsi nella più grande forza. Ma ci deve essere un momento di disarmo assoluto, e in fondo ciò che dicevamo poco fa dell'occasione, del caso, dell'alea, è appunto l'esporsi a ciò di cui non ci si può appropriare: a quel che c'è, prima di noi, senza di noi; c'è qualcuno, qualcosa, che (ci) avviene, e che non ha bisogno di noi per avvenire. Il rapporto con l'evento, l'alterità, il caso, l'occasione, ci rende del tutto inermi; e si deve esserlo. Il si deve dice sì all'evento: è più forte di me; c'era prima di me; il si deve è sempre il riconoscimento di ciò che è più forte di me. E il «si deve» si deve. Si deve accettare che questo (l'altro, qualcos'altro) sia più forte di me perché qualcosa avvenga. Perché qualcosa avvenga, bisogna che mi manchi una certa forza, e che mi manchi abbastanza. Se fossi più forte dell'altro, o di ciò che avviene, nulla mi potrebbe avvenire. Ci vuole una debolezza, che non necessariamente è fiacchezza, imbecillità, deficienza, o malattia, infermità. Ovvio che per dire questo tipo di debolezza bisognerebbe acuirne la semantica; ma un limite deve esserci, e l'apertura è un limite. Questa affermazione di debolezza è incondizionata; quindi non è né relativista né tollerante. E a chi dicesse il contrario di quanto ho appena detto, penso ci si dovrebbe opporre fermamente, e non in un modo debolmente tollerante, anche se, certo, in una situazione concreta, mi guardo bene, di solito, dall'oppormi alle figure del liberalismo e della tolleranza.
F. Continuo a vedere lo spettro di una /z'loso/ia della storia o di un «/atum mahometanum», che per di più reca una contraddizione interna: aprirsi alt'evento è aprirsi a tutto, tranne alla non-apertura al1'evento. D. Se per «filosofia della storia» si intende una filosofia della provvidenza, dove la storia ha un orientamento e un senso, tutto ciò che abbiamo appena detto ne segna i limiti. Dove c'è filosofia
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della storia, non c'è più storia, tutto è in linea di principio pre-vedibile, tutto è raccolto nello sguardo di un dio o di una provvidenza. Ora, se c'è una storicità, presuppone i limiti della filosofia della storia; una filosofia della storia che tenga conto della storicità è una contraddizione. E un momento fa suggerivo proprio un pensiero della storicità, che svuoti il progetto di una filosofia della storia - a meno che con «filosofia della storia» non si apra un altro gioco. Se tutto quel che cerco di dire è la rottura con le filosofie della storia, che - dall'illuminismo fino a Marx, passando per Hegel - costituiscono la nostra eredità moderna, la loro decostruzione non è nemmeno la proposta di un insieme di affermazioni teoriche. Dico spesso che la decostruzione è ciò che avviene: il fatto che avvenga basta da solo per mettere in questione le filosofie della storia. Perché scrivere? Ho sempre la sensazione, insieme molto modesta e iperbolicamente presuntuosa, di non avere niente da dire. Non penso di avere in me qualcosa di interessante che dovrebbe autorizzarmi a dire: «Ecco il libro che io stesso ho progettato, senza che nessuno me lo abbia chiesto». Quanta presunzione occorre per dire: «Ecco quel che penso, quello che scrivo, e che merita di essere pubblicato e lanciato nel mondo»; e quanta tranquillità per decidere di pubblicare qualcosa, di inviare un messaggio all'umanità! Son cose rispetto a cui ho sempre una sorta di sorriso scettico e impaziente. Quello che in parte mi esonera da questo sospetto di presunzione sta nel fatto che mi hanno chiesto di venire, mi hanno posto una domanda, e allora mi sento meno ridicolo, meno presuntuoso, perché ho risposto a un'occasione, educatamente, a un invito. Naturalmente questa modestia, non finta, è compatibile con una sorta di iperbolica presunzione, come se, in fondo, qualsiasi cosa dicessi, fosse interessante. Ci sarà un'occasione, si dirà che ho parlato, e sarà marcato o marcante, farà della storia, farà degli eventi; non sarà interessante perché avrò svelato una verità, ma perché ci sarà stata una performance. Tutti questi testi sono per/ormances performative, e basta una simile performance perché la filosofia della storia trovi il suo limite: la filosofia della storia dice ciò che c'è stato, ciò che c'è e ciò che ci sarà, non fa posto alla performance. Da che si dà un performativo, e qualcosa avviene grazie al discorso e nel discorso, la filosofia della storia è in panne.
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F Se è vero che in filosofia ci sono sia gli animali (i filoso/i) sia gli zoologi (gli storici della filosofia), in questa tassonomia dell' «animai rationale» professionale lei si mette allora senza esitazione dalla parte delle bestie. D. Credo che sia la stessa cosa. Naturalmente c'è una zoologia che distingue le famiglie di filosofi, ma è una ramificazione empirica; credo che di fatto ogni filosofo sia storico e speculativo. Non è possibile porre una questione filosofica, per astratta e povera di storia che sia, senza che si sia già incominciato a fare i conti con la presa in conto della storicità. Ti estì è già carico di storia. Naturalmente, ora sarebbe necessario un enorme discorso, anche storico, sul modo in cui la storia della filosofia è diventata una disciplina; c'è una storia della storia della filosofia, con dei mutamenti interessanti, ma non significa che non sia una storia speculativa: né la storia della filosofia, né la storia della storia della filosofia sono monde di speculazione, e, d'altra parte, non si dà speculazione senza storia. Nel mio piccolo caso personale, non riuscirei a distinguere, in quel che faccio, tra la presa in conto della storia della filosofia e un gesto che non è semplicemente storico. Il concetto di decostruzione è storico, e insieme mette in discussione i concetti di storicità, di storia della verità.
F Il problema, per una pura teoria, sarebbe il nome: se ci si riferisce a un Socrate ideale, perché chiamarlo Socrate? D. In filosofia c'è una tradizione che ripete regolarmente il gesto della ricusazione della storia. Tutti i filosofi, in modi diversi, hanno incominciato col dire che bisogna finirla con la storia della filosofia. La filosofia non consiste nel raccontare storie: lo ha detto Platone, lo ha detto Heidegger. Nell'intervallo, ogni grande filosofo ha incominciato dicendo: adesso romperemo con il racconto e con l'autorità della storia. Così Cartesio: la ragione non è la memoria; Kant ha fatto lo stesso. Hegel è il più storico di tutti, ma propone di rompere con la storia empirica. Anche Husserl, si capisce: anche se poi ha reintrodotto una storicità trascendentale, ha incominciato scartando la storicità. Dunque, in qualche modo, nulla è più filosofico dell'interruzione della memoria storica, e c'è tra i filosofi un continuo rilancio dell'antistoricismo.
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Per le ragioni che abbiamo appena detto, la maggior parte dei filosofi ha creduto che i nomi propri non contassero: «Non è interessante solo perché l'ha detto Platone»; ed è vero, in un certo contesto empirico. Ma se prendiamo sul serio i nomi propri e le firme, allora le cose cambiano; e prendere sul serio i nomi propri significa prendere sul serio la storia: storia delle opere, del performativo, della lingua (il fatto che la filosofia si sia legata ad alcune cosiddette lingue naturali). Ancor più complicata è poi la paradossale iscrizione dei nomi propri in una lingua: il nome proprio è ciò che, in una lingua, non ne fa parte, dunque è l'intraducibile. Prendere sul serio i nomi propri significa farsi carico del più antico luogo di resistenza contro l'autorità della traduzione; all'inizio di questa conversazione parlavamo dell'apertura all'altro, del fatto che l'altro si dà, e che si deve il «si deve» che mi disarmi davanti all'altro: è questo, il nome proprio. C'è stato Socrate, c'è stato Platone, momenti assolutamente singolari che sono venuti prima di me, e che sono la legge; devo provare a rispettare proprio l'intraducibile del1'evento chiamato Socrate. Il debole per il «ci vuole l'altro» passa, in filosofia, attraverso l'esistenza dei nomi propri.
F. In «Firma evento contesto» lei allude al /atto che iter e alter sono due esiti del sanscrito itara. Come è possibile, non nella lingua, ma nel'ontologia, che iterazione e alterazione coincidano? Kant parlava di un mistero deposto nell'anima umana, Husserl scriveva che per questo non e' è nome, ma altri diranno che rispondere cosi è una pistolettata nel buio. D. Tutto ciò che nei miei testi si articola sotto il nome di iterabilità ha da fare con il paradosso che lei ha appena ricordato. È un campo enorme che non possiamo dissodare in questa conversazione. Per servirmi di un'ellissi economica: quando Husserl dice di qualcosa: «Non c'è nome per questo», che si fa? o quando si dice - come ho fatto io, abusando, forse, dell'etimologia- che ci sono due significati apparentemente contraddittori che si saldano in una identità nominale, e che in fondo rfon c'è un solo nome, ci sono due nomi in uno? - e la chance speculativa di questo nome, direbbe Hegel, è che in un solo nome ci sono due nomi, e dunque non c'è nome, perché quando si dice che un nome è due nomi, non
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c'è nome. Che si fa quando si dice: per questo non c'è nome? Si designa forse qualcosa di là dal nominabile, innominabile? Credo che si compia un gesto più complicato: si nomina ciò per cui non c'è nome; e si nomina, di fatto, ogni volta, la possibilità del nome. Non c'è nome per la possibilità del nome, ma se ne nomina la possibilità; il che vuol dire, per esempio, che, tornando alla iterabilità, con i due aspetti di ripetizione dello stesso e di affermazione del nuovo, io nomino la possibilità del nome. Dato un nome - parliamo di nome proprio - la parola può restare la stessa per chiamare sempre di nuovo. L'iterabilità è la possibilità stessa del nome: possibilità di ripetere lo stesso, ma ogni volta per nominare un altro o per nominare altrimenti lo stesso. Con lo stesso nome designo, in un modo ogni volta nuovo, lo stesso. In altri termini, la stessa nominazione sarebbe impossibile senza iterabilità. Prendiamo Socrate, visto che ne abbiamo parlato poco fa: bisogna che il nome «Socrate» resti lo stesso, che si ripeta lo stesso, ma anche che ogni volta che dico «Socrate» la nominazione sia altra, e designi lo stesso altrimenti e qualcun altro. L'iterabilità e il senza nome sono nella nominazione, nella stessa nominabilità. Quando Husserl dice, per esempio, «non c'è nome per questo», parla sia del nome sia di ciò per cui non esiste nome; dice qualcosa sul nome: che cosa è un nome? Husserl sembra sapere cos'è un nome, e dice: per questo flusso di soggettività assoluta non c'è nome; la possibilità di nominare il nome è innominabile, data la struttura del lessico e della grammatica filosofica, non si può trovare la parola appropriata, e ogni nome è un tradimento perché stabilizza e spazializza il flusso. Il lingmJ~gio sarebbe per definizione incapace di definire questo divenire. E una tesi sul nome, su ciò che in un linguaggio, in una certa grammatica occidentale, reca il nome di nome, cioè la fissità ripetitiva di una denominazione che, insomma, stabiliz~a: «sta qui». Quando si dice: «non c'è nome per questo>~, è in causa questa struttura.
F. Lo storico crede sempre che il teorico suo contemporaneo sia un ingenuo, che si /accia delle illusioni. Credo che abbia ragione. D. I ~sti filosofici in cui si dice: ora si incomincia, si ricomincia da zer9, si riparte - lo fa Cartesfo; lo fanno Kant e Husserl a Joxo modo - sono rivendicazioni di ingenuità, ma sono anche ingenui, 61
ingenuamente ingenui: pretendono di ritrovare l' arché, il cominciamento, e dunque ambiscono a essere ingenui; ma, per così dire, sono più ingenui di quanto non vogliano, perché credono che sia possibile essere ingenui. L'ingenuità consiste nel credere che si possa essere ingenui, e che si possa incominciare dalla nascita, come se si fosse nati ieri (naif significa «appena nato»). Dunque l'ingenuità dichiarata ne nasconde una più profonda, credere che si possa incominciare, mentre è già tutto incominciato. Quando dico: sono un ingenuo, in qualche modo è più modesto, più scaltrito. Più scaltrito, perché cerco di tener conto del fatto che bisogna essere troppo ingenui per credere di poter essere ingenui; donde la critica decostruttrice di tutti i pretesi inizi assoluti in filosofia. Ma, insieme, più modesto, perché in effetti (basti tornare a quanto detto circa l'apertura all'altro) siamo di fronte a qualcosa di nuovo; sono sempre di fronte a qualcosa di nuovo. So che filosoficamente è ingenuo credere di poter essere ingenui, però, ogni volta, si dà una novità assoluta. Per esempio, in questa nostra conversazione, non avrei trovato l'energia per parlare, se non parlassi con lei, in una precisa situazione, di nuovo, con un sentimento di assoluta freschezza, a destra c'è il mare ... Eccomi disarmato, bisogna ricominciare daccapo, ci si deve esporre alla novità, alla sorpresa; davvero mi sento un principiante assoluto, ingenuo, perché devo far fronte alla sorpresa che viene dall'altro. Ed è cosl davanti a ogni testo. Dunque è senza malizia, anche, che dichiaro la mia ingenuità, perché lo trovo per la prima volta, e poi so, a partire dalla mia memoria culturale, se vuole, di filosofo e di storico della filosofia, che davanti al compito infinito del ricominciamento si è sempre ingenui - quale che sia l'età, la vecchiaia, la cultura ... Nessuna ripetizione esaurirà la novità di ciò che viene. Anche se si potesse immaginare che il contenuto dell'esperienza si ripete totalmente, che è sempre la stessa cosa, la stessa persona, lo stesso paesaggio, lo stesso luogo e lo stesso testo che ritorna, già il solo fatto che il presente sia nuovo basta a cambiar tutto. La temporalizzazione fa sì che non si possa essere che ingenui rispetto al tempo. E anche rispetto al luogo. È naturalissimo che due gemelli monozigoti non abbiano esattamente lo stesso carattere: A vede B, B vede A, dunque vedono tutt'altro.
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D. Vale per tutti i duali. Si immagini una coppia, nell'estasi del-
1' amore infinito - è la differenza infinita: gli occhi si incrociano, e uno vede l' assolutamente altro rispetto a quello che vede l'altro. Lo stesso è nell'armonia, nell'accordo più simpatetico, simbiotico e sinfonico. Quello che vedo in questo momento non ha alcun rapporto con ciò che vede lei, e ci comprendiamo: lei capisce quello che dico, e per farlo bisogna che, davvero, ciò che lei ha di fronte non abbia alcun rapporto, alcuna commensurabilità, con ciò che vedo io. Proprio questa infinita differenza fa sì che si sia sempre ingenui, sempre assolutamente nuovi. È la monadologia, il fatto che tra la mia monade, il mondo quale mi appare, e la tua, non ci sia alcun rapporto possibile: donde l'ipotesi di Dio, che pensa alla compossibilità, all'armonia prestabilita ecc.: ma da monade a monade, anche quando si parlano, non c'è rapporto né passaggio. La traduzione cambia completamente il testo. Da questo punto di vista il mio è, per dir così, un leibnizianesimo senza Dio: ma in queste monadi, in questo ipersolipsismo, l'appello di Dio ha posto; Dio vede allo stesso tempo dalla sua parte e dalla mia, come terzo assoluto, e dunque dove non c'è, c'è, e dove non c'è, è il suo posto. Napoli, 25 maggio 1994
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RICORDO un uomo giovane - un ancor giovane uomo - impedito a morire dalla morte medesima - e forse dall'errore dell'ingiustizia. Gli alleati erano riusciti a prender piede sul territorio francese. I tedeschi, già vinti, lottavano invano con inutile ferocia. In una grande casa (il Castello, la chiamavano), bussarono alla porta con qualche timidezza. So che il giovane andò ad aprire come a degli ospiti che chiedessero aiuto. Un urlo, questa volta: «Tutti fuori». Un tenente nazista, in un francese vergognosamente normale, fece uscire prima le persone più anziane, poi due giovani donne. «Fuori, fuori». Urlava, questa volta. Eppure il giovane non cercava di fuggire, avanzava lentamente, in modo quasi sacerdotale. Il tenente lo spinse, gli mostrò dei bossoli, delle pallottole, palesemente si era combattuto, il terreno era terreno di guerra. Il tenente si strangolò in un linguaggio bizzarro, mettendo sotto il naso di quell'uomo già meno giovane (si invecchia alla svelta) i bossoli, le pallottole, una granata, gridò distintamente: «È a questo che siete arrivato». Il nazista fece schierare i suoi uomini, per mirare, secondo le regole, al bersaglio umano. Il giovane disse: «Fate almeno rientrare la mia famiglia». Ossia: la zia (94 anni), la madre, più giovane, la sorella e la cognata, un corteo lungo e lento, silenzioso, come se tutto fosse già compiuto. lo so - lo so - che già nel mirino dei tedeschi in attesa soltanto del1' ordine definitivo, lui provò allora una sensazione di straordinaria leggerezza, una specie di beatitudine (per nulla felice, però), - un tripudio sovrano? L'incontro della morte e della morte? Al posto suo, non cercherò di analizzare quella sensazione di leggerezza. Era forse d'improvviso invincibile. Morto - immortale. Forse l' estasi. O la compassione per l'umanità sofferente, la felicità di non essere né immortale né eterno. Da allora, fu legato alla morte - da un'amicizia surrettizia.
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In quell'istante, ritorno brusco nel mondo, proruppe l'ingente rumore di una battaglia vicina. I compagni della Resistenza volevano andare in soccorso di chi sapevano in pericolo. Il tenente si allontanò per accertarsi. I tedeschi restavano in riga, pronti a rimanere così in una immobilità che fermava il tempo. Ma ecco uno di loro avvicinarsi e dire con voce ferma: «Noi, non tedeschi, russi», e, con una specie di risata: «annata Vlassov»; e gli fece segno di sparire. Credo che si sia allontanato, sempre con quella sensazione di leggerezza, tanto da ritrovarsi in un bosco lontano, chiamato «Bosco delle eriche», dove restò al riparo di piante che gli erano familiari. Fu nel folto del bosco che d'improwiso, e quanto tempo dopo, ritrovò il senso della realtà. Dappertutto, incendi, un susseguirsi di fuoco continuo, erano in fiamme tutte le fattorie. Poco dopo, seppe che tre giovani, figli di fattori, estranei a qualsiasi scontro, e che avevano solo il torto della loro giovinezza, erano stati abbattuti. Anche i cavalli gonfi, sulla strada, nei campi, attestavano una guerra che era durata. In realtà, quanto tempo era trascorso? Quando il tenente era tornato e si era reso conto della scomparsa del giovane castellano, perché la collera, la rabbia, non l'avevano spinto a bruciare il Castello (immobile e maestoso)? Perché era il Castello. Portava iscritta sulla facciata, come un ricordo indistruttibile, la data del 1807. Era colto abbastanza da sapere che si trattava dell'anno famoso di Jena, quando Napoleone, sul suo cavallo grigio, passava sotto le finestre di Hegel che in lui riconobbe, come scrisse a un amico, «l'anima del mondo»? Menzogna e verità, perché, come Hegel scrisse a un altro amico, i francesi gli saccheggiarono e depredarono la casa. Ma Hegel sapeva distinguere l'empirico dall'essenziale. In quel 1944, il tenente nazista ebbe per il Castello il rispetto o la considerazione che le fattorie non suscitavano. Però frugarono dappertutto. Presero del denaro; in un locale separato, «la stanza alta», il tenente trovò delle carte e una specie di grosso manoscritto - che conteneva forse piani di guerra. Infine se ne andò. Bruciava tutto, salvo il Castello. I Signori erano stati risparmiati. Fu allora probabilmente che cominciò per il giovane il tormento dell'ingiustizia. Non più estasi; sentire che era vivo soltanto perché, persino agli occhi dei russi, apparteneva a una classe nobile. Era questo, la guerra: la vita per gli uni, per gli altri la crudeltà del1' assassinio. Restava tuttavia, in attesa soltanto della scarica dei fucili, quella sensazione di leggerezza che non saprei tradurre: liberato dalla vita? L'infinito che si apre? Né felicità, né infelicità. Né l'assenza di timore e forse già un passo al di là. So, immagino che questa sensazione non analizzabile abbia cambiato quanto gli restava di esistenza. Come se la morte fuori
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di lui non potesse da allora che scontrarsi con la morte in lui. «Sono vivo. No, sei morto». Più tardi, tornato a Parigi, incontrò Malraux. Questi gli raccontò che era stato fatto prigioniero (senz'essere riconosciuto), che era riuscito a scappare, ma perdendo un manoscritto. Erano solo delle riflessioni sull'arte, facili da ricostruire, diversamente da un manoscritto. Con Paulhan, fece fare delle ricerche che inevitabilmente furono vane. Che importa. Sola rimane la sensazione di leggerezza che è la morte medesima o, per essere più precisi, l'istante della mia morte da allora e per sempre instante (Maurice Blanchot, L'instant de ma mort, trad. di Patrizia Valduga).
Derrida. Testimoniare - non solo essere testimoni ma testimoniare, attestare, bearing witness - significa sempre rendere pubblico. Il valore di pubblicità, del venire alla luce del sole, della fenomenicità, dell'apertura, sembra essenzialmente associato a quello di testimonianza, e l'idea di una testimonianza segreta sembra una contraddizione in termini. Tuttavia, lo stesso segreto implica un testimone, e l'idea di testimoniare un segreto, cioè di attestare che c'è un segreto senza rivelarlo, di attestare- per citare già Blanchot - l'assenza di attestazione, il fatto che l'attestazione non sia possibile, ci ha molto interessati negli anni scorsi. Testimoniare un segreto: che cosa vuol dire? Cosa può essere? Come si può testimoniare ciò che, per principio, è destinato a ricusare la testimonianza? E, per collegarci al tema generale del seminario*, cioè il rispondere, la responsabilità, quale può essere la responsabilità implicata in una simile testimonianza segreta, nella testimonianza sul segreto? L'impegno a serbare il segreto è una testimonianza. Il segreto presuppone non solo che ci siano dei testimoni, come minimo quelli che, come si dice, lo condividono: presuppone che la testimonianza non consista semplicemente nel conoscere un segreto, nel condividerlo, bensì nell'impegnarsi, implicitamente o esplicita* Il seminario di Derrida alla Ecole des Hautes Etudes en Sciences Sociales; il presente testo è la trascrizione della seduta inaugurale del corso per l'anno accademico 1994-95.
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mente, a serbarlo. Di modo che l'esperienza del segreto è, per quanto contraddittorio possa apparire, un'esperienza testimoniale. Si pone allora la questione del numero: del due, del tre, del terzo, del testimone come terzo. Cos'è il terzo in un segreto? Qual è il posto del testimone? È forse chi prende parte a un segreto duale, o è già un terzo nel segreto? Il mio primo quesito sarà: cos'è un istante? E in che cosa la testimonianza presuppone un'istanza dell'istante - istanza che pure distrugge, seduta stante? E la distrugge come se distruggesse la sua stessa condizione di possibilità? Testimoniare significa sempre farlo in presenza: il testimone deve essere presente alla sbarra, senza interposizione tecnica. Non si può spedire una cassetta che testimoni per noi; bisogna essere presenti, alzare la mano, parlare in prima persona e al presente, e testimoniare di un presente, di un momento indivisibile, raccolto in un certo punto nell'istantaneità; in ogni caso in un atomo temporale, perché deve resistere alla divisione. Se il momento in cui testimonio è divisibile, allora la testimonianza non ha più valore né pretesa di verità. E tuttavia, se la testimonianza richiede l'istante, una tale condizione di possibilità è distrutta proprio dalla testimonianza, nella misura in cui la percezione oculare, uditiva o tattile del testimone dev'essere un'esperienza che connette tempi diversi, non limitandosi, di conseguenza, all'istante. Nel momento del bear witness, del rendere testimonianza, si esige una connessione temporale per esempio, quella delle frasi-, e soprattutto che le frasi promettano di essere ripetute. Quando mi impegno a dire la verità, mi impegno a ripetere la stessa cosa, dopo un istante, dopo due istanti, il giorno dopo e, in qualche modo, per l'eternità. Proprio questa ripetizione porta l'istante fuori di sé. Così, l'istante è istantaneamente, seduta stante, diviso, distrutto da ciò che, tuttavia, rende possibile: la testimonianza. Il problema è allora: in che modo l'istante rende la testimonianza al tempo stesso possibile e impossibile? Ecco insomma gli interrogativi che cercheremo di saggiare. Li enuncio dapprima in modo formale, ellittico o implicito, più avanti cercheremo di dispiegarli con calma. «A l'instant, à l'instant meme, je parie français, nous parlons français». Ecco una testimonianza. All'istante, parlo francese, par-
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limno francese. E seduta stante, dicendolo, passo, sono già passato, dall'io al noi. Parlo francese, parliruno francese. Non posso dire che parlo francese se non supponendo, col solo fatto di parlare, all'istante, in questo preciso istante, che qualcuno, qui e ora, possa essere almeno capace di capire la lingua che chiruno francese, che si chiruna francese, e di formare lì per lì un noi con chi, in questo istante, sta parlando, cioè con me. Siruno dunque subito più d'uno, dacché si parla, certo, ma comunque dall'istante in cui parlo francese e dico che parlo francese. Non soltanto parlo francese: dico che parlo francese. Lo dico in francese. Anche se - ipotesi - nessuno qui e in questo istante parlasse francese, nessuno oltre a me, ebbene il mio atto di parola in francese continuerebbe comunque a presupporre qualcuno - per indeterminato o lontano che possa essere -, che capisca, che sia in grado di capire quello che dico e che faccia un qualche «noi» con me, che assuma un qualche «noi» con me stesso quand'anche fossi l'unico, qui, a parlare francese, o persino se parlassi da solo. Naturalmente, il «noi» senza cui non c'è testimonianza, questo «noi» indeterminato non presuppone alcun accordo su quanto dico, né simpatia, comunità o consenso di sorta, tranne un modo minimale di essere, direi di intelligenza con l'altro, con me nella lingua, nell'istante in cui dico: in questo istante parlo francese, parliruno francese e nell'istante in cui adopero - lo noto subito per ritornarci sopra più tardi e più a lungo - un'espressione fortemente idiomatica, quasi intraducibile, cioè «all'istante», che considereremo nella misura in cui attiene all'esperienza della testimonianza, del segreto e della responsabilità. L'implicazione a priori o originaria del «noi» nel gioco dell'enunciazione, dove, a livello minimale, non ne va che della comprensione della lingua, questa implicazione testimonia proprio un'essenza della testimonianza, e cioè che non potrebbe esserci un atto di attestazione - non tanto un essere testimoni, ma un rendere testimonianza, una testimonianza resa, attestata, un bearing witness - senza qualcuno che parli, ma soprattutto senza qualcuno che abbia, o che si suppone abbia, una sufficiente padronanza della lingua. Enorme problema: come misurare una simile padronanza? Fino a che punto può essere condivisa con l'uditorio? Si può raffinare questa analisi all'infinito. Comunque, nel concetto di attestazione è implicito un dominio sufficiente della lingua, per problematico che ne sia il concetto, e anche senza supporre, contem-
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poraneamente, un destinatario capace della stessa padronanza, cioè di comprendere e tradurre in modo univoco, senza malintesi, nella stessa proporzione - ma che cosa vuol dire «proporzione», trattandosi di una comprensione della lingua? e di dire o sottintendere «noi»?- anche se il destinatario dovesse contestare, smentire, sospettare, non credere al contenuto di ciò che è detto. Senza accordi di sorta, occorre almeno una comprensione condivisa della lingua, un medesimo grado o struttura di padronanza linguistica. Anche lo spergiuro, riel caso della falsa testimonianza - la falsa testimonianza è uno spergiuro-, anche la menzogna suppone la struttura dell' «io parlo», «noi parliamo la stessa lingua». Altrimenti, non ci sarebbe menzogna. Questa comprensione è presupposta anche nella rottura del «noi» più radicale, bellicosa, dissociatrice, nella menzogna, nello spergiuro, nell'inganno, nella falsa testimonianza che non è - lo ricordo - la testimonianza falsa. Una testimonianza può essere falsa, cioè erronea, senza essere una falsa testimonianza, ossia senza implicare lo spergiuro, la menzogna, l'intenzione deliberata di ingannare. La falsa testimonianza presuppone un tale accordo nella lingua. Non potrei mentire se non supponessi che l'altro capisce ciò che gli dico quando glielo dico, quando voglio dirglielo: «Io ti dico questo, tu lo credi, capisci ciò che voglio dire, e bisogna che tu comprenda esattamente ciò che voglio dire perché io possa mentire, o spergiurare». Non posso mentire se non a chi mi capisce, a chi mi comprende, a chi comprende la mia lingua nell'istante in cui gli parlo o in cui si suppone che la sua competenza eguagli rigorosamente, addirittura coincida, con la mia competenza, diciamo, linguistica, retorica, direi anche pragmatica, perché non ne va solo delle parole e del discorso - si può mentire senza parole - ma di tutti i codici impegnati in una pragmatica, come i gesti - lo sguardo, la mano - che accompagnano e circondano un atto linguistico. Per esempio, nella classica scena del giuramento: «giuro di dire la verità, tutta la verità, nient'altro che la verità», alzando la mano. Il momento di alzare la mano, senza macchine interposte, senza tecnica, senza fotografia o telegrafia, è pragmatico, e perché lo spergiuro abbia luogo è necessario che lo si capisca. Sia ben chiaro, quanto ho descritto in maniera così grossolana può dettagliarsi e affinarsi: possono esserci mille piccole menzogne in un atto in linea di massima vero, proprio in forza di una
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pragmatica complessa: uno può capire fino a un certo punto, poi perdere una connotazione o un sottinteso. E io posso mentire senza mentire totalmente: è la nostra vita quotidiana, non è mai sì o no, non è mai menzogna o verità, possono esserci mille piccole bugie che si insinuano nella pragmatica della testimonianza. Inutile insistere sul fatto che questo solleva dei problemi immensi. Il complesso enunciato: all'instante, in questo istante, parlo francese, parliamo francese, è una testimonianza, la cui frastagliata struttura meriterebbe anni di analisi. E una testimonianza esemplare per più di un motivo. Anzitutto, come ogni testimonianza, dice qualcosa, descrive qualcosa, fa sapere, porta a conoscenza, informa, si potrebbe quasi dire che racconta, rende conto. Ecco, io dico che parlo francese. Testimonio che parlo francese e ne informo dei destinatari che comprendono la lingua che parlo, ma il fatto che capiscano non impedisce di dissociare l'enunciato in due, vale a dire: apprendono che parlo francese (è il contenuto del mio messaggio); lo comprendono perché capiscono il francese, ma al tempo stesso comprendono il contenuto, ossia - e questa è una testimonianza - che gli dico che parlo francese. I destinatari apprendono. Potrei dirgli: parlo inglese, e anche in quel caso ci sarebbe un contenuto, sarebbe una testimonianza falsa, ma sarebbe un contenuto che si distingue dall'atto di testimoniare. Dunque, testimonio che parlo francese, e ne informo dei destinatari che capiscono la lingua in cui parlo. Ecco una prima questione nella quale si tratta senz'altro di testimonianza. Questo enunciato lo si fa come va fatta ogni testimonianza, in prima persona. Abbiamo spesso insistito a questo riguardo: una testimonianza si fa in prima persona. E qui si fa due volte in prima persona, perché ho detto: io parlo francese, noi parliamo francese - prima persona singolare, prima persona plurale. Infine, ed è quello che più mi interessa, e che ci richiama alla struttura in qualche modo bifida di ogni testimonianza, essa non si limita a raccontare, informare, descrivere, constatare, ma, all'instante, fa quel che dice, dunque non si tratta essenzialmente di una relazione narrativa o descrittiva: è un atto. L'essenza della testimonianza non si riduce necessariamente alla narrazione, ai rapporti descrittivi, informativi, al racconto, ma è un atto presente. Il martire, quando testimonia, non racconta una storia, si offre. Testimonia la sua fede offrendosi o offrendo la sua 70
vita o il suo corpo, e un tale atto di testimonianza non solo è un impegno, ma non rinvia ad altro che al suo momento presente. Un interessante test per saggiare questa situazione linguistica ci viene offerto dal Discours de la méthode, là dove Cartesio offre una lunga spiegazione del perché scriva in francese. Quando, successivamente, si è tradotto questo discorso in latino, il traduttore ha semplicemente omesso il passo, perché non era più funzionale. Non spiegando più, al presente, la scelta del francese, l'ha giudicato inutile. Cade il momento interessantissimo, e propriamente performativo, in cui Cartesio spiega in francese perché scrive in francese; ma, al tempo stesso, il traduttore ha lasciato cadere la spiegazione filosofica o politico-filosofica con cui Cartesio giustificava un ricorso al francese che costituiva, come sapete, una iniziativa sotto molti aspetti rivoluzionaria nella storia della filosofia francese. Qui dunque abbiamo da fare con due strati di performatività accumulati nello stesso istante. (1) La performatività generale della testimonianza o dell'attestazione: mi impegno a dire la verità, vi dico che vi dico la verità. Questa promessa è performativa. (2) Ma interviene una seconda, o prima, o comunque un'altra performatività: faccio ciò che dico nel momento in cui dico: parlo francese. Di fatto parlo francese; non ve ne informo solamente, lo faccio. E dico in francese (performance) che parlo francese (constatazione); lo comunico parlando nello stesso tempo in francese: hama, in greco, at the same time, dans le meme temps. Spingiamoci un po' innanzi. Seduta stante, dicendo che all'istante parlo francese e parliamo francese, non solo testimonio in francese del fatto che testimonio in francese: lo faccio intraducibilmente o, comunque, in modo tale che una traduzione senza residui risulterebbe difficile, se non addirittura impossibile. Qui riappare il problema con cui ho incominciato: che cos'è l'istante, che vuol dire «istante» in francese? E «istanza»? Già in francese, o comunque in una lingua neolatina, è difficile dirlo. Ma la difficoltà si accresce nell'instante in cui si prenda atto del fatto che, per esempio, gli apparenti omonimi inglesi, instant e instance, hanno un senso molto diverso. È a questo punto che ci si rende conto che per testimoniare bisogna essere abbastanza colti, informati, competenti, scolarizzati, e proprio qui sorge il problema dei rapporti tra l'educazione presunta e l'attitudine a rendere una testimonianza. Bisogna saper parlare, è una questione di educazione, di cultu71
ra, di tirocinio; è una questione sociale. E bisogna sapersi far capire. Bisogna saper scrivere? È ancora un altro problema. Se si prendono gli esempi delle testimonianze religiose, della rivelazione o dell'attestazione, la dissociazione tra parlare e scrivere può acuirsi. Si ritiene che Maometto non sapesse scrivere, ma questo non gli impedì di parlare e di testimoniare con la sua parola. Ciò detto, anche un testimone che non sappia scrivere, nel senso corrente e. banale della parola, deve essere capace di inscrivere, di tracciare, di ripetere, di ritenere, di compiere degli atti di sintesi che sono scritture; anche un testimone analfabeta deve essere in grado di scrivere, in ogni caso di tracciare, di imprimere un engramma su un qualche supporto. Ma la difficoltà si accresce quando si osservi - traggo l'esempio dall'inglese, che si presta meglio - che instance ci orienta piuttosto verso l'esemplarità; instance è un esempio, e l'esemplarità è un concetto essenziale per la problematica della testimonianza. Un testimone e una testimonianza devono essere sempre esemplari. Ossia, devono essere singolari, donde la necessità dell'istante: sono il solo che abbia visto quest'unica cosa, che abbia sentito, che sia stato in presenza della tale o della talaltra cosa, in un istante determinato, indivisibile, e bisogna credermi perché bisogna credermi (è la differenza tra credenza e prova), bisogna credermi perché sono insostituibile. Quando testimonio, sono unico e insostituibile. E al punto culminante di questa insostituibilità, di questa unicità, ancora una volta, c'è l'istante. Anche se siamo stati in molti a partecipare, ad assistere a una scena, il testimone può testimoniare solo là dove afferma di essere stato in un posto unico, dove, solo, poteva testimoniare della tal cosa, in un hic et nunc, vale a dire in un istante puntuale che, per l'appunto, sorregge questa esemplarità. L'esempio non è sostituibile, ma, al contempo, e insomma per la stessa aporia, proprio quella insostituibilità dev'essere sostituibile. Vale a dire che quando dico «giuro di dire la verità», laddove io sia stato il solo a vedere o a sentire, e sia il solo a poterlo attestare, è vero solo qualora chiunque al mio posto, in quell'istante, avrebbe visto o sentito o toccato la stessa cosa, e qualora io possa ripetere esemplarmente, universalmente, la verità della mia testimonianza. Dunque l'esemplarità dell'«istante» consiste qui nell'essere insieme singolare, come ogni esemplarità, e universale. Il singolare deve essere universalizzabile: è la condizione testimoniale. Simulta72
neamente, nello stesso istante, nel «bisogna credermi», pretendo, esigo, postulo l'universalizzazione, possibile e necessaria, della singolarità: «chiunque al mio posto»; e proprio per questo mi impegno anticipatamente a ripetere, e incomincio col ripetere. Ciò che dico per la prima volta, se è una testimonianza, è già una ripetizione, una ripetibilità, è una iterabilità: in una volta, è già più d'una, è più di un istante in un istante. L'istante si divide sempre, avanza una istanza di divisibilità. Donde il problema dell'idealizzazione: l'istante singolare, nella misura in cui è ripetibile, diventa un istante ideale. È questione di techne: la tecnica è esclusa dalla testimonianza, ma, visto che la testimonianza deve potersi ripetere, viene ad essere ammessa proprio là dove è esclusa, senza che ci sia bisogno di macchine fotografiche, di macchine per scrivere o di computer. Dal momento che la frase è ripetibile, è già strumentalizzabile e affetta da tecnica, da tecnologia, è già sempre iscritta in una drammaturgia tecnico-politica. Onde nella testimonianza, in quanto assume la responsabilità di dire il vero, è sempre questione di istante e di istanza o di instance. In più di una lingua, non solo perché ho detto instante instance, ma perché l'appello all'universalizzazione udibile sin dalla soglia della singolarità più idiomatica e intraducibile, è appello alla traduzione. Una testimonianza pretende di essere traducibile. Il je parie Jrançais, all'istante, per intraducibile che sia, può essere una testimonianza latrice di verità solo in quanto ne venga promessa la traducibilità. Bisogna poter tradurre questa frase, dunque si fa appello alla traduzione univoca e universalizzante proprio nel momento in cui la frase si lega a una singolarità. Una lingua e un istante; e, tuttavia, più di una lingua e più o meno di un istante. È la decisione testimoniale, la decisione impossibile; a questo si può pensare quando Kierkegaard dice che l'istante della decisione è una follia. Dunque l'esigenza dell'istante, dell'istantaneità come stigmè, come punta singolare del tempo, comporta l' aporia della testimonianza. Instance, in francese, significa, tra l'altro, «imminenza», ed è in questa imminenza che ci situiamo ora, vedremo tra poco perché. Uistante della mia morte ci promette un racconto o una testimonianza firmata da uno che dice «sono morto o sto per morire», ma vuol parlare della sua morte. Il testimone è sempre un soprav-
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vissuto, e questo rientra nella struttura testimoniale: si testimonia solo là dove si sia vissuti più a lungo di ciò che è accaduto, e questo non vale solo per gli esempi, tragici o patetici, di Auschwitz. Il testimone è il terzo, il superstes che sopravvive. Il testimone, nella parola testimoniale, è sempre e primariamente una parola sopravvissuta; poi, la morte è insostituibile, su di essa nessuno, oltre al morente, può testimoniare. Della mia morte, io solo posso testimoniare. Al tempo stesso, a norma di buon senso, della mia morte non posso, per definizione, testimoniare, visto che non posso dire: morii, sono morto. Si è molto scritto sul Valdemar del racconto di Poe, che risvegliandosi dice «sono morto», e sulla impossibile possibilità di quell'enunciato. Se dunque c'è un luogo o un'istanza in cui non c'è testimone per il testimone (Niemand zeigt /ur den Zeuge), è certamente la morte. Non si può testimoniare per il testimone che testimonia della sua morte, ma, inversamente, io non posso, dovrei non poter testimoniare della mia morte, se non nell'imminenza della mia morte. In effetti, ho appena ricordato che instance poteva significare imminenza, rinvio. Leggiamo l'ultima parola di !.:istante della mia morte: «L'istante della mia morte da allora e per sempre instante». Prima di affrontare il testo, ricordo a chi non avesse familiarità con l'opera di Blanchot, che qui converge l'intera sua tematica del testimoniare l'assenza di attestazione, del morire impossibile, o dell'imminenza del morire impossibile della morte impossibile necessaria, è una espressione di I.: écriture du désastre: «Morire, è in assoluto, l'incessante imminenza per cui, tuttavia, la vita dura desiderando, imminenza di ciò che è già sempre avvenuto». Ebbene, «l'imminenza di ciò che è già sempre avvenuto», proprio di questo ne andrà tra poco: l'istante sta per venire, c'è un rinvio, ma, anche, c'è già stato, la morte ha già avuto luogo. È un passato che non è mai stato presente, per questo posso testimoniarne. In I.:écriture du désastre, un'altra frase recita: «Muoio prima di esser nato»; la morte, per impossibile che sia attestarla come un presente che si sia presentato, ha già avuto luogo, e io posso testimoniarne. Avrete modo di constatare fino a che punto !.:istante della mia morte, appena scritto, o quantomeno pubblicato, illumini retrospettivamente, a partire da un avvenimento che fu reale, tutta l'opera di Blanchot. E quando dico «che fu reale», è una citazione da
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La /olie du jour, dove era questione di una testimonianza in qualche modo analoga. A un certo punto di quel racconto, dove la finzione era abissale, il presunto narratore, quello che non riesce a raccontare la sua storia, dice: «L'avvenimento fu reale, notatelo». Ora, ciò che adesso ci racconta Blanchot è reale, fu reale, lui era stato davvero condannato a morte, stava per morire. La metto giù alla buona, ma stiamo per leggere il testo di Blanchot che è altrimenti raffinato; enunciandolo o denunciandolo banalmente, l'evento narrato, l'evento reale o vero è che, proprio alla fine della guerra (e questo d'altra parte è noto, io lo sapevo prima di aver letto il racconto), Blanchot è stato arrestato dai tedeschi, e messo al muro con altri per essere giustiziato; e stava per esserlo: la morte era già arrivata, ineluttabile, come per Dostoevskij (ne riparleremo tra poco, perché in questa storia c'è una dimensione russa). Ma si è sottratto all'esecuzione, è potuto scappare, salvarsi, e ora ci racconta la sua storia. Ancora una volta a costo di essere violento con Blanchot, che è la discrezione in persona, e dopo che vi ho distribuito le fotocopie (che mi renderete) del suo libro, farò una cosa che non ho mai fatto in vita mia, ma che mi sembra importante a titolo di testimonianza. Quest'estate, dopo il 20 luglio, ho ricevuto una lettera di Blanchot; ve ne leggo le prime due righe: , non ci sono virgolette. Ora, per la prima volta, appaiono delle virgolette, qualcuno parla, «io» è «tu», ma non si sa se «io» è chi dice «io» all'inizio del testo: «RICORDO», o se è l'altro, il giovane. E dunque chi è il «tu»? La conclusione, come ognuna di queste frasi, è geniale. Uno dei due dice: «Sono vivo», quello che è sopravvissuto, l'altro; ma l'altro gli dice: «No, sei morto». Ecco il dialogo tra i due, entrambi vivi e morti, e pronti a dire dell'altro che è morto. «Sono vivo. No, sei morto». Sulla pagina fotocopiata c'è un post-scriptum, viene subito dopo per ragioni di spazio, ma nel libro c'è una pagina bianca prima
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degli ultimi due paragrafi. C'è un epilogo, o chiamatelo come volete: dopo un testo che si chiude con «sei morto», si volta pagina, dunque un tempo infinito. «Più tardi>>. Ci ha appena raccontato una storia che ha avuto luogo il 20 luglio 1944, cinquant'anni fa. «Più tardi, tornato a Parigi». La guerra è finita, e nella pagina bianca c'è tutto un film, tutta la storia che conoscete: liberazione, epurazione, Gallimard, NRF, Paulhan, Drieu La Rochelle. «Più tardi, tornato a Parigi, incontrò Malraux». Altro eroe della Resistenza, diventato anche lui resistente molto tardi, come Sartre, come molti eroi della Resistenza; poi, si ritrovano tutti da Gallimard: «Più tardi [... ] Malraux». «Questi gli raccontò che era stato fatto prigioniero (senz'essere riconosciuto), che era riuscito a scappare, ma perdendo un manoscritto». Ecco che si dicono due sopravvissuti quando si ritrovano da Gallimard: «E il tuo manoscritto?». Anche lui ha perduto un manoscritto. «Erano solo delle riflessioni sull'arte, facili da ricostruire, diversamente da un manoscritto». Interessante distinzione! Come se delle riflessioni sull'arte non fossero un manoscritto. Oppure si suppone che ci sia un'altra differenza: si possono riscrivere i libri di Malraux, sono riflessioni sull'arte, non è grave ... «Con Paulhan - è proprio rue Sébastien Bottin! -, fece fare delle ricerche che inevitabilmente furono vane». Il manoscritto il manoscritto di Blanchot - è andato irrimediabilmente perduto. «Che importa. Sola rimane la sensazione di leggerezza che è la morte medesima». È difficile scrivere «la morte medesima», la prova appresa nella leggerezza: «la sensazione di leggerezza che è la morte medesima» - dunque la vita. Più sopra c'era già la leggerezza: «quella sensazione di leggerezza che non saprei tradurre: liberato dalla vita?». La morte è leggerezza, perché la vita si è liberata dalla vita, non la si porta più: «o, per essere più precisi, l'istante della mia morte da allora e per sempre instante». En instance, in francese, non vuole dire instance, non è l'esemplarità, è l'attesa di giudizio. Nel linguaggio giuridico, che qui è pertinente, una causa in istanza è una causa che attende di essere giudicata, per la quale, cioè, il verdetto finale non è stato ancora pronunciato. È in istanza: non solamente sta per accadere, ma sta per essere giudicata. E l'istante della mia morte, di cui ha appena testimoniato, è ormai instante, cioè in attesa. Ciò che è accaduto, di cui testimonio - ed è la mia leggerezza - è ormai in attesa del giudizio
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finale, l'istante in cui la morte dal difuori viene a incontrarsi con la morte dal didentro. È a partire dall'imminenza, dall'istanza dell'istante, dall'essere instante dell'istante, che la testimonianza è possibile, e l'attestazione dell'assenza di attestazione. Così Blanchot ci parla di un segreto assoluto: tutto ciò che è veramente accaduto, non solo a lui, al giovane, ma anche a quel soldato dell'armata Vlassov, è per noi inaccessibile. Parigi, 9 novembre 1994
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Ferraris. In « The Concept of Mind», Ryle scrive che non si è testimoni essenzialmente se si ricorda, ma se si è visto. Lez; al contrario, che si è testimoni anzitutto se si ricorda. LA percezione e il miraggio dell'autenticità cedono il posto alla idealizzazione, alla iterabilità, alla tecnica. Derrida. Dato che la stigmé - la punta dell'istante che apparentemente è richiesta dalla testimonianza come pura presenza singolare, insostituibile e unica - non solo si divide, ma deve dividersi e ripetersi, l'autenticità si espone alla tecnica. Però la tecnica non è una minaccia per l'autenticità, non è un accidente negativo, è anche la condizione dell'effetto di autenticità. Se non potessi ripetere la mia testimonianza, e se questa iterabilità non venisse a intaccare e a dividere l'istante, non ci sarebbe nemmeno una verità, un valore della testimonianza. Anche il valore di autenticità è garantito per quanto possibile da ciò che sembrerebbe minacciarlo, la ripetizione, e se c'è ripetizione c'è possibilità di tecnicizzazione, dunque di registrazione, di archiviazione e di idealizzazione. I rapporti tra ciò che lei chiama autenticità e tecnica sono estremamente paradossali, perç~é, contrariamente a dç, che si potr:ebbè credere, sono possibilità reciproche e allo stesso tempo, naturalmente, un reciproco pericolo; l'iterabilità condiziona l'autenticità, e la condiziona minacciandola. Perciò non si potrà mai provare che una testimonianza è autentica. Non si potrà mai provare una menzogna o una verità. Se uno ti dice: «Non ho mentito, ho detto una cosa non vera, ma non ho mentito, la mia intenzione non era menzognera, ho reso una testimonianza ·falsa ma non una falsa testimonianza», non potrai mai provare il contrario, visto che è
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successo in lui, dunque è questione di fede, e di intenzionalità. Si può trovare la prova di una non verità, di un errore, ma non di una falsa testimonianza. Il che ha da fare con ciò che si diceva su autenticità e iterabilità. Ovviamente, c'è il tema dell'individuo, dell'ineffabilità, è un aspetto, ma qui si tratta del fatto che io non posso mettermi al posto dell'altro, non posso, come direbbe Husserl, avere alcun accesso intuitivo all'intuizione dell'altro. I.:idea di testimonianza richiede l'esemplarità, cioè, la singolarità assoluta: una testimonianza ha luogo una volta su ciò che ha luogo una volta, la testimonianza è unica, insostituibile e compresa nella logica dell'istante. Ma questa unicità deve immediatamente opporsi al suo contrario, devo poter essere sostituito proprio quando sono insostituibile. Se dico: «ecco la verità di ciò che ho visto», significa: (1) chiunque al mio posto avrebbe visto la stessa cosa, e proprio per questo quanto dico è vero; (2) sono pronto a ripetere universalmente e indefinitamente questo enunciato unico, ma che diviene ideale - e dunque improvvisamente l'unico diviene universale, universalizzabile. Lo schema dell'esemplarità presuppone· la testimonianza. Nella Metafisica dei costumi, il mio rispetto per l'altro consiste nel rispetto per chi sia un esempio di obbedienza alla legge; rispetto l'altra persona come unica, ma allo stesso tempo come esempio di essere finito che obbedisce alla legge, e il rispetto è dovuto alla legge. Il problema dell'esempio è in questo senso intimamente connesso alla legge morale, e anche la testimonianza lo è. È laJJaradossalità della testimonianza rispetto all'evento. La testimonianza implica che qJJ~O.S-a a~.enga. e che sia irriducibile; ma allo stesso tempo, nella misura in cui è esemplare e dunque universalizzabile; non ha nemmeno più bisogno di un evento determinato. Il testo di Blanchot che ho letto 1eri è ancorato nel reale, sono cose che gli sono successe dawero, ma, insieme, quanto dice della soprawivenza, della morte, potrebbe essere detto senza che il fatto fosse realmente awenuto: l'evento, in qualche maniera, è servito come illustrazione di una struttura. Tutto quello che Heidegger dice del rapporto con Ia morte come possibilità dell'impòssibile, è descritto da Blanchot in questa storia. In qtialchè modo, non c'è bisogno di aver rischiato la fucilazione per pensare e per dire la possibilità dell'impossibile. E tuttavia c'è stata una te91
stimonianza perché c'è stato un evento datato. Ma l'evento è un non-evento, è un evento in cui si racconta che, in fondo, non è avvenuto niente. Mi sono rimproverato di non aver posto, ieri, il problema dello statuto di quel testo. È letteratura o no? Il racconto può essere considerato come la narrazione di un evento reale, successo a Maurice Blanchot, oppure come una finzione letteraria. Si potrà sempre dire che non è vero, che Blanchot si è solo immaginato qualcosa che sarebbe potuta succedergli. E poi, chi lo garantisce? Non si sa se sia una testimonianza o una finzione. Il testo, anche nella sua scrittura, mima la finzione nel tempo («ce jeune homme que j'ai connu» ecc. ecc.); Blanchot è l'autore di un testo ma non c'è identità garantita tra lui e il narratore. Perciò si dovrebbero distinguere, all'interno del testo, vari momenti. Nell'ultimo paragrafo, quando dice che più tardi ha incontrato Malraux, si ha l'impressione che si tratti proprio di Maurice Blanchot. F Malraux non potrà smentirlo.
D. Né Malraux, né Paulhan. È un segreto. F Nel 1968 lei scriveva che la «dif/érance» che rende possibile la presentazione non si presenta mai come tale. Lo stesso potrebbe dirsi dello schematismo in Kant, come possibilità di sensibilizzazione dell'insensibile, e dunque, ne abbiamo già parlato, come segreto.
D. La differenza non si presenta, o la natura ama nascondersi. Ma
il segreto non è solamente il nascondere: il segreto professionale, il segreto confessionale, il segreto militare, il segreto politico, la polizia segreta, il segreto nei romanzi, ecc. ecc., tutte le semantiche del segreto, sono possibilità più determinate della possibilità generale di cui lei ha appena parlato. Insisterei particolarmente sul politico, sulle regioni pubbliche e private; il segreto non si riduce al privato; ma cosa dovrebbero fare la politica e la democrazia rispetto alla possibilità del segreto? In Politiche dell'amicizia ho inserito dei passi di Kant sul segreto, sul segreto a priori, ma anche sul segreto cosciente e sul mantenere il segreto. Abbiamo provato, nel seminario, ad articolare questo segreto con l'inconscio, la censura, ecc. ecc.
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Ora, non privilegio lo schematismo se non come un esempio tra gli altri, si possono trovare regolarmente dei terzi, dei misti, degli intermediari, che, partecipando ai due termini di una opposizione - sensibile e intelligibile per esempio -, la mettono sotto scacco. Ci sono altri esempi nella storia della filosofia. È vero dell'immaginazione in generale. Ma tutti i terzi termini, tutti gli indecidibili rispettano questa logica. Ovvio che Kant è di particolare interesse, per l'enorme ruolo che il terzo svolge dal punto di vista del tempo, e del rapporto passività-attività.
F Da Herder innanzi; poi in tutta l'epoca, che in parte è ancora la nostra, del «Linguistic Turn», si è detto che lo schematismo (e in generale la terzità che incarna) è linguaggio. Mi sembra un abuso e un impoverimento. Agostino, nel «De Trinitate» (XV, 10, 18), dice che «fuori» c'è il linguaggio e la visione, ma «dentro», quando pensiamo, sono lo stesso. È l'esperienza del ricordare Cartagine che abbiamo messo tn esergo. D. Il primo passo, per me, nell'approdo a ciò che ho proposto di chiamare decostruzione, è stata la messa in discussione dell'autorità del linguistico, del logocentrismo. Si trattava di una protesta contro il Linguistic Turn, che era già, sotto il nome di strutturalismo, pienamente avviato. L'ironia, per cosl dire, anche un po' penosa di questa storia, sta nel fatto che spesso, specie negli Stati Uniti, visto che ho scritto «il n'y a pas de hors-texte» e che ho sviluppato un pensiero della traccia, qualcuno ha creduto poterne concludere che il mio fosse un pensiero del linguaggio (è esattamente il contrario); si è iscritta la decostruzione nel Linguistic Turn, quando si trattava invece di una protesta contro la linguistica. Il che ha prodotto tanti equivoci non solo nella filosofia, nella critica letteraria, ma anche nella storia: ci sono storici ed epistemologi della storia (Clifford Geertz, Hayden White, ecc.) che hanno provato a praticare il Linguistic Turn nell'ambito storiografico. E li si è accostati, a mio avviso molto ingiustamente, a quello che faccio io. Benché, probabilmente, io abbia più affinità con loro che con certi storici più classici, tento però sempre, per quanto mi è possibile, di sottolineare i limiti della linguistica e della retorica; è il centro di un dibattito profondo con Paul de Man, che ha svi93
luppato un'interpretazione, per così dire, più «retoricista» della decostruzione. Come lei sa, mi interesso molto alle questioni del linguaggio e della retorica, e credo si debba accordare a essi la massima considerazione; ma c'è un punto in cui l'autorità di ultima istanza non è né retorica né linguistica, e neppure discorsiva. La nozione di traccia o di testo è introdotta per segnare i limiti del Linguistic Turn. È anche per questo che preferisco parlare di «marca» piuttosto che di linguaggio. La «marca», anzitutto, non è antropologica; è prelinguistica; è la possibilità del linguaggio, ed è sempre presente quando si dà rapporto con un'altra cosa o con l'altro. Per farlo, la «marca» non abbisogna di linguaggio. Quando ho incominciato a usare la parola «logocentrismo» e a farne un tema della decostruzione, non pensavo al logos in sé, ma piuttosto - data l'epoca in cui scrivevo - al centrismo, del linguaggio in generale e del discorso, nello strutturalismo. Poi la cosa si è estesa per designare non l'autorità o il privilegio del logos in sé, ma di una certa interpretazione del logos. Da questo punto di vista, il logocentrismo è una cosa molto occidentale, mentre c'è un certo fonocentrismo praticamente in ogni scrittura e soprattutto in ogni rapporto, in ogni interpretazione del rapporto tra parola e scrittura: in ogni scrittura in generale. L'autorità della voce si può riconoscere a un certo punto di ogni cultura in generale, come una fase economica della ominizzazione; il logocentrismo invece è legato non solo alla voce, ma in Occidente, nell'Occidente greco, al1' autorità del logos. Il paradosso è, di nuovo, che, nonostante abbia proposto di decostruire l'egemonia linguistica, spesso il mio lavoro è presentato come un linguisticismo. Detto questo, ha ragione, il centro, se ce ne è uno, non è n. L'analisi della idealizzazione, che, con l'iterabilità, permette di disincarnare l'individuo sensibile, e che mi serve come un concetto decostruttivo, è all'opera anche nella nozione di eidos. Eidos, in greco, è anzitutto una figura sensibile, un contorno sensibile, una forma che però designa una figura che non è sensibile. All'interno dello stesso eidos, c'è un processo che potremmo chiamare di metaforizzazione, di idealizzazione. Si può interpretarlo in modo platonico o no, ma quando ci si serve della parola «idealizzazione» si continua ad attingere là dove si è costituito quello che si assume come decostruibile, cioè l' eidos, l'idealismo dell' eidos, o il privile94
gio della vista, anche metaforica, il privilegio della oggettività. Il paradosso di questo processo, così come di quello di cui mi servo all'interno del processo decostruttivo, sta nel fatto che è mutuato in qualche modo da una sorta di platonismo che, da Platone a Husserl, privilegia la forma dell'intuizione sensibile-insensibile o insensibilizzata. Parigi, 10 novembre 1994
VII
Vattimo. Quando scrivo un saggio da solo, posso anche giustificarmi - mi hanno telefonato, mi hanno chiesto un articolo. Ma lavorando con altrz; per esempio adesso, sorge il problema di che cosa ci si immagini di /are, e del perché lo si /accia. Il lavoro di Capri sulla «Religione», per fare un altro esempio, è sorto da una iniziativa editoriale, però c'era un distacco tra l'idea economica e pratica dell'editore e la scelta del tema. Perché si sceglie un tema, specie di un lavoro collettivo? È un problema che si riflette retrospettivamente sulla giustificazione del lavoro individuale, e su quella del lavoro altrui. La curiosità che ho sempre avuto sui suoi lavori sarebbe: che ne è, che ne è stato, di certe importanti giustificazioni, riferite alle circostanze e all'epoca, che c'erano all'inizio della «Grammatologia»? E, inversamente, la decostruzione può essere l'oggetto di un lavoro collettivo, o non costituisce piuttosto - e in effetti è spesso in questi termini che se ne parla - una attività individuale, di carattere letterario o creativo? Derrida. La domanda mi sorprende un po' e insieme la trovo necessaria. Tenterò di legare due fili: il primo è che io provo a mettermi, o mi trovo messo, davanti alla domanda: che cosa succede oggi, che cosa avviene? Se devo parlare e scrivere pubblicamente, bisognerà che prenda in conto ciò che di singolare succede oggi. Prendo l'esempio della religione, questione enorme, vecchissima, di una ricchezza infinita - delle biblioteche mondiali - che ci oltrepassa a ogni istante. Non si può affrontarla seriamente, soprattutto nel corso di un incontro tra amici di due giorni [Capri, 28 febbraio-1° marzo 1994]. Però, ho avuto l'impressione che, malgrado l'enorme tradizione, millenaria, oggi accada qualcosa di sin96
golare, di cui si hanno molti segni nel mondo. Qualcosa di inedito, di cui bisogna rispondere e rispetto a cui ci si deve situare. E ho pensato che, per riconoscere oggi il nostro qui-ora, ciò che c'è di originale nella nostra situazione «storica», la religione non fosse il peggior filo conduttore. Tiro il secondo filo, tento di rispondere alla seconda parte della sua domanda, quando diceva: «Si dice che in fondo lei scrive in un modo un po' particolare, che si fa degli scrupoli estetici o poetici, ecc.». Mi faccio delle preoccupazioni che si possono chiamare estetiche - non amo molto questa parola -; ho una attenzione per la composizione, per la forma, che non è soltanto di origine estetica. Davanti alla singolarità dell'evento mondiale, bisogna che ne risponda in maniera singolare, con la mia firma, a mio modo, non come feticcio estetico, ma per assumere una responsabilità. Mi succede qualcosa, e bisogna che risponda, io, con la mia lingua, la mia età, la mia storia, il mio ductus, il mio modo di scrivere, di fare delle lettere, anche se è illeggibile. Naturalmente si deve inventare, non nel senso della finzione ma in quello del performativo: ecco la mia risposta a una situazione data; se è una firma, bisogna che costituisca a sua volta un evento, a suo modo, modestamente, ma che abbia la forma di qualcosa che non interviene solo per constatare, ma anche, come ogni atto di responsabilità, per impegnarsi, per dare un pegno. Spiegherei così lo scrupolo per la scrittura, per la forma, per la retorica, per la politica. Certo, non è solo uno scrupolo di responsabilità nel nobile senso etico-metafisico o etico-giuridico, è anche la cura della testimonianza, del testamento, di lasciare qualcosa che abbia una certa forma, che appaia. La grande questione è quella della bellezza, e non posso affrontarla tanto velocemente. Posso desiderare che questa responsabilità, che questa firma abbia una certa forma; che cosa mi guida nella strutturazione della forma? Difficile dirlo. Ma è vero che l'attenzione per la composizione ha un rapporto con il nome proprio, con il modo in cui ci si veste e in cui si appare. Si vuole che abbia questa forma, ecco. Non so se la chiamerei estetica, perché non so troppo bene, in questo caso, che cosa significhi; ha a che fare col desiderio, la bellezza, il sesso e la morte.
V. La distinzione tradizionale tra filosofia e poesia può essere individuata nel /atto che la poesia non dà giustificazioni preliminari. 97
Quando Heidegger inizia «Sein und Zeit», mette sul tavolo il problema del!' oblio del!' essere, giustz/icandolo con una citazione da Platone, che sarebbe l'indice della «descrizione» della situazione complessiva. La risposta sulla /orma è il secondo filo, ma è il primo che conta, il fatto che ci sia qualcosa che accade. Secondo una risposta filosofica tradizionale, si giustifica il punto di partenza sulla base di una situazione; poi la trattazione si fa descrittiva, appunto come la descrizione più fedele possibile della struttura dell'essere, perché la gente ci si conformi. Ma la nozione di risposta - nella sua prospettiva e /orse in quella in cui siamo noi tutti - non può più giustificarsi in forma di adeguamento e di adeguazione.
D. Avrei dovuto precisare che ciò che avviene, avviene decostruendosi. Non sono io che decostruisco, è l'esperienza di un mondo, di una cultura, di una tradizione filosofica cui avviene qualcosa che chiamo «decostruzione»: qualcosa si decostruisce, non funziona, qualcosa si muove, si sta dislocando, disgiungendo o disaggiustando, e incomincio a prenderne atto; si sta decostrueqdo e bisogna rispònderne. All'inizio della Grammatologia sono partito da una specie di constataziè;ne: il linguaggio oggi non è più una regione particolare, occupa la totalità dello spazio, c'è un.,a spede di estensione senza limiti del suo regno; e, insieme, diventa ;crittura, con un'invasione della struttura gr~ca dell'esperienza. N'è davo un certo numero di esempi, nella vita corrente, nella ·vita politica, nella genetica, nelle telecomunicazioni, una sorta di fotografia, di immagine del mondo, e di un mondo che sta cambiando, dunque decostruendosi. Molti miei testi possono dare l'impressione di incominciare senza previe giustificazioni, senza il momento ancora classico che lei descriveva in Heidegger. Direi che è un'impressione che dipende da una economia ellittica. Dato che scrivo, di principio, per una comunità molto ristretta di lettori, che presumo condividano con me una cultura filosofica, mi dico, anche per modestia: non ricomincerò, non aprirò il mio testo come si apre la Critica della ragion pura o Sein und Zeit. Il che significa che sono anche convinto che non si possa più scrivere una grande macchina filosofica. In ogni caso: non ne sono capace. Opero sempre con piccoli saggi obliqui. Anche Heidegger ha abbandonato Sein und Zeit, e poi non ha più scritto libri. La forma del libro sistematico, enciclope98
dico o circolare, mi pare impossibile; e nella Grammatologia incomincio dicendo: è finita, mai più libri. La sua domanda è forse quella dell'introduzione, della prefazione, dell'apertura. Nell'«Hors livre» della Dissémination tento di affrontarla sistematicamente, a partire da Hegel, per mostrare tutte le aporie delle introduzioni e della circolarità. Proprio questo mi sembra in decostruzione.
V Lei ha giustificato la mancanza di visione generale ed hegeliana in due modi complementari; ma /orse contraddittori: da una parte, «suppongo che lo si sappia già»; dall'altra, «penso che non sia più possibile». Se la prima risposta è quella giusta, ci si potrebbe chiedere se qualcosa sia cambiato dalla «Grammatologia» innanzi; e come la ripeterebbe o la riassumerebbe oggi. Se è la seconda, lei dirà, /orse, che era l'ultimo sguardo generale, che giustificava per l'appunto l'impossibilità di uno sguardo generale. Si può sempre dire che ci sono delle domande che non hanno risposta, ma allora si sarebbe nella situazione di quello che scrive al Papa e pubblica un epistolario che consi;te delle proprie lettere, perché il Papa non gli ha mai risposto. D. Anche nell'ambito della microcomunità per la quale scriviamo, a mio parere, sono molto pochi quelli che condividono degli assunti comuni; però, anche se fossero rarissimi, se non ce ne fosse che uno o due - e così ci avviciniamo già alla questione della comunità e dell'amicizia - è su di loro che mi regolo, che penso ci si debba regolare, non per aristocrazia, ma per economia, per delle ragioni di formalizzazione e di rapidità. Ma, d'altra parte, questi assunti comuni non riguardavano il mio lavoro e la gente che mi ha letto, parlavo della cultura mondiale, di ciò che succede oggi nel mondo. Non credo che ci siano veramente due tipi di testo, la Grammatologia e gli altri. Ogni testo incomincia diversamente, è un compromesso tra la retorica di una introduzione classica e un'altra specie di invenzione. Il secondo invito mi lascia molto più disarmato, e devo confessare che non posso rispondere alla domanda: perché, a che fine decostruire? Se la decostruzione è tutt'altro che una mia iniziativa, o un metodo, una tecnica, ma è ciò che avviene, l'evento di cui si prende atto, perché, allora, andare in quel senso? Perché aggravare la situazione? Non sarebbe meglio riparare? Si deve ricostrui-
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re? Se - per ipotesi- c'è un dovere minimo, è ovviamente quello di essere lucidi, di non mancare ciò che succede. Ma questa esperienza non basta, bisogna sapere se si è pro o contro, se si è contenti o no, e se si vuole accentuare il processo o rallentarlo. È qui che non ho risposta. Certo voglio che il gesto performativo, la firma, l'iniziativa che prendo, non sia troppo anacronistico. Si deve, perciò, avere una affinità con ciò che succede, anche se, poi, essere del proprio tempo si accordasse con qualcosa che in sé è anacronistico. La decostruzione è l' anacronia nella sincronia, è un modo per accordarsi con qualcosa di out o/joint, di disaccordato. Ci si deve accordare, ma si tratta anche di fare altro, e di invitare gli altri a fare qualcosa dicendo: ecco ciò che penso si debba fare. Qui non ho che esperienze di aporie, che credo non debbano essere dimenticate, e che, se c'è un dovere, è di prenderle sul serio. Ma non ho contenuti da proporre. Mi è successo di dire, per esempio, che vado nel senso della decostruzione perché è ciò che avviene, ed è meglio che ci sia un avvenire piuttosto che non ci sia. Perché qualcosa venga bisogna che ci sia un avvenire, e dunque, se c'è un imperativo categorico, è di fare tutto il possibile affinché l'avvenire resti aperto. Sono molto tentato di dirlo, ma al tempo stesso, in nome di che l' avvenire varrebbe di più del passato? più della ripetizione? perché l'evento varrebbe più del non evento? Qui potrei trovare qualcosa di simile a una dimensione etica, dato che l'avvenire è l'apertura nella quale l'altro avviene, e il valore di altro o di alterità servirebbe, in fondo, da giustificazione. È il mio modo di interpretare il messianico: l'altro può venire, può non venire, non posso programmarlo, ma lascio un posto perché possa venire se viene, è l' etica dell'ospitalità. Lei ha detto che, almeno, Heidegger, quando parla dell'oblio dell'essere, dice: «non bisogna dimenticare l'essere»; e che in fondo è questo che giustifica, motiva, comporta tutto il movimento. Sì e no: lo dice, ma dice anche il contrario, dice che non è possibile ricordarsi l'essere senza oblio; dunque non si può dire che Heidegger abbia fatto della memoria dell'essere una sorta di imperativo di ultima istanza.
V. Direi semplicemente che Heidegger vorrebbe che non si dimenticasse l'oblio, ossia che non ci si dimentichi che il ricordo dell'esse100
re è ricordo di /atti che abbiamo dimenticato, e che l'essere non può che essere dimenticato. È già qualcosa. Ma capisco benissimo quello che ha detto. Credo che l'apertura all'altro, lasciare che l'altro avvenga, potrebbe anche essere interpretato, da un «debolista» come me, nel senso che l'altro è sempre meglio di me. Dirlo cosl in generale, è /orse calunniarsz; ma perché dovrei far posto alt'altro, se non perché l'imperativo ancor più profondo, più categorico, è un imperativo estatico, di «excessus sui»? È il problema dell'amicizia e della comunità, e già della microcomunità dei lettori: non sono il portatore di una ragione universale in base a cui giustifico il fatto di parlare di una cosa piuttosto che di un'altra; d'altra parte, non parlo soltanto in nome della mia individualità puntuale. Piuttosto, riconosco una sorta di affinità. Pareyson, il mio maestro, il titolare dello studio in cui stiamo parlando in questo momento, parlava di congenialità: perché interpreto di preferenza certe opere, certi autori, e non altri? Non c'è.giustificazione, ma c'è congenialità. D. «Lasciar posto all'altro» non significa «devo far del posto per l'altro». L'altro è in me prima di me: l'ego (anche collettivo) implica l'alterità come propria condizione. Non si tratta di un io che eticamente fa posto all'altro; ma che è strutturato dall'alterità in lui, e che è lui stesso in stato di autodecostruzione, di dislocazione. Per questo poco fa esitavo a dire «etica». Questo gesto è la possibilità dell'etica ma non è semplicemente etica; perciò parlo di messianico: l'altro in ogni modo c'è, verrà, se vuole, ma prima di me, prima che abbia potuto prevederlo. Recentemente sono stato alla discussione di una tesi, in cui la candidata tentava di mostrare - contro Heidegger che dice: Hegel è il passato - che Hegel definisce un avvenire. Provando a ricostruire, in Hegel e nella tradizione, la possibilità del rapporto con l'avvenire, usava l'espressione francese «voir venir»: perché ci sia una anticipazione, un'estasi, bisogna voir venir. E io, nella discussione, ho provato a dimostrare che, perché ci sia un avvenire come tale, una sorpresa, un'alterità, bisogna ne plus voir venir, bisogna che non ci sia nemmeno un'anticipazione, un orizzonte di attesa. E dunque che l'avvenire mi venga addosso - mi avvenga, proprio quando nemmeno me lo attendo, non lo anticipo, non lo vedo venire - significa che l'altro c'è prima di me, che mi previene. L'altro non è nemmeno semplicemente il futuro, è, per così dire, il 101
prevenire, il pre-avvenire. Perciò non sono padrone di me, del luogo aperto all'ospitalità. Chi dà ospitalità deve sapere di non essere nemmeno proprietario di ciò che sembra poter dare. Lo stesso può dirsi della firma, che il più delle volte viene vista come il proprio contrassegno, ma che è ciò di cui non posso mai appropriarmi. La mia firma è il momento della più alta responsabilità all'interno di una profonda irresponsabilità. Quando dico: in fondo, scrivo per quelli con cui condivido una lingua, una cultura, un luogo, una casa, non si tratta di comunità di appartenenza o di proprietà, perché potremmo dire della lingua quello che ho appena detto della firma: il francese, per esempio, è la «mia» lingua, non ne ho altre, ma, insieme, mi è radicalmente straniera, non ne ho la proprietà. È in questa misura che «ho il mio» idioma. Il luogo, la famiglia, la lingua, la cultura, non sono miei, non esistono luoghi di appartenenza. Non voglio negare che parlo, in continuazione, di qualcosa che sembra una appartenenza, so bene che scrivo a partire dalla mia età, dalla mia cultura, dalla mia famiglia, dalla mia lingua, ma il mio rapporto con queste strutture apparentemente comunitarie è di esproprietà. Non appartengo a queste cose più di quanto non appartengano a me; il mio punto di partenza è là dove questa appartenenza si è rotta. Lo dicevamo all'inizio: prendo avvio da ciò che succede, ma nella misura in cui sta decostruendosi. Non so come suoni in italiano «congenialità», ma, in questa parola, mi farebbe paura il suo far segno verso la naturalità e lanascita, il genio. Politiques de l'amitié è un libro per certi versi contro la fraternità, questo motivo così potente, insieme cristiano, rivoluzionario, universale, che ha sempre un legame con la nascita, il suolo, il sangue.
Pareyson aveva letto molto Goethe, dunque c'era una componente un po' biologistica. Ma è più complesso: noi siamo qui perché abbiamo letto i suoi testi e non altri; e li abbiamo trovati più interessanti che quelli di Searle, per esempio. V.
D. Non credo che oggi nel mondo esista una comunità filosofica. Se insistessimo nel dire che c'è una comunità, anche se non si è d'accordo o non ci si capisce, allora direi che, sì, ci sono delle persone che condividono appunto questa situazione di assoluto malinteso e che sanno che sotto il nome di «filosofia» si tengono di102
scorsi che non possono tradursi gli uni negli altri. Se un giornalista della CNN, alle sette di mattina, mi facesse questa domanda, gli risponderei in un certo modo. Se me la si ponesse altrove, per esempio qui, oggi, credo che l'analisi di ciò che abbiamo in comune, malgrado le differenze, le incomprensioni o gli idiomi, ci porterebbe molto lontano. E la risposta non sarebbe la stessa se parlassi di ciò che abbiamo in comune noi, tutti e tre, per esempio, o un gruppo di filosofi di Torino che si incontreranno questa sera*. Oppure se la risposta fosse data in Inghilterra o in Germania. Abbiamo in comune, tra l'altro, evidentemente, una cultura tedesca, nietzschiana, heideggeriana, fenomenologica, ermeneutica, una attenzione a ciò che succede nel mondo contemporaneo. È una specie di capitale, per così dire, cui si attinge continuamente, e che fa sì che ci si possa comprendere, ma che unisce un piccolissimo numero di persone. Perché questo piccolissimo numero di persone, oggi, in Italia, in Francia, in Europa, pur non essendo molto letto, non è nemmeno del tutto sconosciuto?
V. Questa sera la presenterò. Incomincerò - come del resto lei suggerisce - dicendo: abbiamo una lunga tradizione di affinità con queste tematiche, perché proveniamo dalla stessa famiglia ecc. Non va male, ma è come spiegare perché abbiamo mangiato con uno piuttosto che con un altro, non è ancora una giustificazione. Vedo bene che cerco sempre di interrogarla dal punto di vista _della giustificazione di quello che fa, ed è un problema che sorge da una tradizione che /orse non abbiamo completamente in comune. E tuttavia: lei ha risposto alle mie domande, ma è come se non mi avesse dato la risposta che volevo. Forse l'altro è proprio questo, ma ... Diciamo che il problema del discorso fi"loso/ico mi sembra essere quello di una fondazione sfondante. Rispondere: parlo così perché mi garba cosz: è troppo breve per non essere violento; in fondo, la violenza è tagliare con l'accetta quello che si potrebbe sciogliere con più pazienza. Il discorso violento è la ma.ncanza di «discursus», di argomentazione come ciò che permette l'obiezione. Per questo il fondamento è demoniaco, è tacitante, mentre l'argomentazione, anche se non rivendica * Derrida, ospite dell'Institut Culturel Franco-ltalien e del Dipartimento di Ermeneutica della Università di Torino, vi lesse una versione ampliata della lezione del 9.11.94 su Blanchot.
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il valore metafisico della verità, è pur sempre un atteggiamento più amichevole. D. Le risponderò in modo inerme. Da una parte, credo cli essere capace, in certe situazioni, cli tenere un discorso sul «compito della filosofia», e cli dargli pure una certa dignità etica, politica ecc. Nella misura in cui questo discorso ha una qualche dignità, va oltre il momento presente, e differisce radicalmente dalle ragioni per le quali mangiamo insieme. Ma, d'altra parte, sono assolutamente scoraggiato, o scettico, o comunque senza illusioni, riguardo al gran discorso sul «compito», non tanto per la sua valenza intrinseca, ma piuttosto per quel che può importarmene. So che la mia vita è finita - era finita fin dall'inizio, ma ora lo è più che mai-, mi resta qualche anno da vivere e tutto ciò che faccio è sorvegliato, insieme, dalla morte e dal desiderio immediato. Per me, non c'è una distinzione radicale tra la dignità del grande discorso sul «compito» e le ragioni che fanno sì che abbia voglia cli mangiare con qualcuno. Non sono situazioni omogenee, ma non ci vedrei una vera opposizione. Terrei il gran discorso sul «compito» anche per il beneficio quasi immediato che mi procura, per.il desiderio che ne ho, per il piacere che posso trame. È ovvio che per me conta il desiderio di essere con uno piuttosto che con un altro, ma il mio piacere sarà molto più intenso nel mangiare; fare l'amore, o fare una passeggiata, con chi sarà dove io sono, e capirà quello che voglio dire quando tengo il discorso sul «compitm>. Per me, i due grandi paradigmi che abbiamo considerato in modo un po' astratto - il grande discorso ambizioso sul compito della filosofia, da un· lato, e le urgenze del desiderio, dall'altro - si condizionano reciprocamente, in modo in fondo molto rassegnato, disperato ...
V Ma anche partecipato. Avevo degli allievi che si facevano psicoanalizzare da un lacaniano. Gli psicoanalizzati, talvolta, hanno degli atteggiamenti un po' distaccati, sorridono sempre come se fossero su un palco. E mi chiedevo: com'è che passano dalla cucina alla camera? cioè, come trasformano una situazione qualunque in una situazione amorosa, per esempio? È un verso di Rilke che mi girava per la testa da anni, che non ho più ritrovato, ma che solo a quel punto avevo capito. La decostruzione è anche una coscienza della duplicità delle situazioni; del fatto che non c'è mai una presenza totale. 104
Anche quando lei parlava di morte - me lo lasci dire - avevo una curiosità che rimuovevo: lei pensa a una sopravvivenza, o no? D. Non penso che alla morte, ci penso sempre, non passano dieci secondi senza che la sua imminenza mi sia presente. Analizzo continuamente il fenomeno della sopravvivenza come struttura del sopravvivere, è veramente la sola cosa che mi interessi, ma proprio nella misura in cui non credo alla sopravvivenza post mortem. In fondo, è questo che comanda tutto, tutto ciò che faccio, sono, scrivo, dico. Non credo, invece, che il pensiero della morte, o ciò che lei ha chiamato distacco, disintensifichi, Nella de.costruzione c'è un movimento per rendersi attenti alla molteplicità dei livelli strutturali, in ogni istante, ci sono delle dislocazioni interne dell'istante. Ma l'esperienza, a mio avviso, lungi dal risultarne raffreddata o disintensìficata, ne è intensificata. Non credo che esista..un4odimento pieno; se fosse pieno, non sarebbe un godimento, dunque il demoltiplicarlo non comporta una perdita cli intensità.
Fe"aris. Se si scava un abisso tra l'estetica, la teoria e l'etica (ed è quello che si fa quando si dice che c'è la vita vera da una parte, poi l'arte, cioè l'estetica nel suo senso degradato difantasticheria), si sarà sempre ridotti a dare una descrizione impoverita per cui da una parte c'è la vita vera, e dall'altra delle variazioni immaginative cui si può decidere di cedere o meno, ma come se fosse in fondo una questione di ornamento. Ma se non c'è differenza di principio tra la realtà e il fantasma, è perché entrambi sono una modificazione di una possibilità generale di iscrizione, cioè, al tempo stesso, di ritenzione come origine della sensibilizzazione e della idealizzazione. D. Una parola su quanto ha detto delle diverse figure dell'apparire - immagine, morphé eidos, e soprattutto fantasma. Mi sembra che se prendiamo la parola «fantasma», seguendo la logica del suo discorso, come ciò che intreccia, nell'immagine, universale e singolare, si trova - e non abbiamo il tempo di svilupparlo - ciò che dicevamo poco fa sul prevenire, come fantasma, appunto, dell'altro nell'io. Ma non mi libererei facilmente del fantasma, come certi spesso credono cli poter fare («non è che un fantasma»); credo che siamo strutturati dal fantasmatico, e in particolare che abbia-
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mo un rapporto fantasmatico con l'altro; non si può ridurre la fantasmaticità del rapporto con l'altro, questo intervento pre-originario dell'altro in me. Ed è qui che si incontrano l'esemplarità, l'universalità, la singolarità. Fin dall'inizio del dialogo abbiamo lasciato correre la parola «giustificazione», come se in fondo si sapesse già cosa vuol dire. Ora, come lei sa, è una parola abissale, e c'è in essa, certo, una referenza alla giustizia: voglio tenere un discorso giustificabile, cioè giusto, di cui possa rispondere davanti a qualcosa che prende il nome di giustizia, e che, di per sé, non è, non esiste, non è un dato; e voglio inoltre rispondere aggiustando il discorso (questione di Fugen e di giustezza), prendendo atto di ciò che succede veramente oggi, aggiustando il mio discorso alla realtà storica, quale l'ho ereditata, e quale attualmente si sviluppa. La giustificazione significa aggiustare il proprio discorso alla storia, all'eredità, all'epoca, a ciò che è, ma aggiustarlo disaggiustandolo, aggiustandolo a ciò che ancora non si dà, che non è di questo mondo. La giustificazione ingiunge perciò che ci si aggiusti e disaggiusti in nome della giustizia, il che postula insieme la storia e una rottura con la storia, se per storia si intende la totalità di ciò che è o che è stato. La giustificazione davanti a ciò che non è ancora, di fronte a una giustizia cui mi appello o che viene, ma che può non venire, è ancora una volta la dimensione messianica, che è storica e insieme in rottura con la storia. Forse questa valenza di messianicità ci permette una connessione con quel che diceva Gianni sulla violenza del «lo faccio perché mi piace», per contrapposto all'argomentazione. Esiterei a porre una opposizione. Anzitutto, non sono sicuro che la violenza sia un male, e preferirei contrapporre più tipi di violenza piuttosto che opporre violenza e non violenza. Fare qualcosa perché se ne ha voglia non è solo violento e non è necessariamente in rottura con il desiderio di argomentare. So, per esempio, che preferisco tenere un discorso filosofico, parlare come facciamo adesso o scrivere, piuttosto che salire su una tribuna per fare un discorso politico. Non ho desideri politici, non ho ambizioni politiche; la politica mi interessa, e ho dei sogni che mi attraversano, essere un uomo politico o un uomo di teatro, ma so che lo farei malissimo. Faccio allora quello che voglio fare perché ho l'impressione che la mia immagine sia migliore; la mia immagine non è mia, è l'im-
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magine dell'altro, è un fantasma, per uno spettatore che neanche conosco. Ho l'impressione che questo non sia solo violento, e che sia un modo di conformarmi a quella che è la migliore immagine non solo per me, ma anche per la persona a cui voglio piacere in me o fuori di me. I modi dell'argomentazione sono diversi, ma non credo di argomentare di meno nell'esperienza più privata, più intima: ll, ho l'impressione che, per quanto mi riguarda, il dispiegamento della potenza argomentativa sia dieci volte più vicino al massimo della violenza, e ancor più sviluppato di quello a cui faccio ricorso nei libri di filosofia.
V È un problema cui sono molto sensibile, e condivido abbastanza quanto lei ha detto; solo, c'è una differenza fra tipi di violenza. Dire «lo al/ermo perché mi piace» in una discussione filosofica potrebbe essere una violenza di un certo tipo, mentre dire «ti amo» in una situazione amorosa, è una violenza di altro tipo. È vero però che non si sa mai dove finisca la violenza e dove incominci l'esperienza: e l'incontro, la rottura dell'omeostasi tranquillizzante è forse sempre una violenza. Ma la decostruzione non è /orse un modo per decostruire l'immediatezza come violenza, come ciò cui non si può opporre nulla? Per esempio, il maestro è colui al quale si riconosce un'autorità, cui ci si rivolge per sentirsi dire qualcosa di definitivo; ma il mio lavoro di esegesi sul maestro è poi sempre un modo per consumare, metabolizzare, mangiare. Chiamo questo «secolarizzazione». C'è sempre un legame sacro n·spetto al quale devo restare silenzioso, ma mi sento sempre impegnato in un atteggiamento secolarizzante, razionaliz.zante, formalizzante. La stona sarebbe un modo per denaturalizzare la fraternità, una /orma di fraternità culturale, perché senza fraternità o amicizia non avviene nulla. Ma non sono mica obbligato ad avere amici solo italiani: posso averne di francesi o di americani; non sulla base della naturalità di cui lei dubita, ma in base a un atteggiamento storico. D. Ascoltandola, mi veniva voglia di distinguere non solo tra molteplici violenze secondo le regioni del discorso e le regioni dell' esperienza, ma anche tra violenza e brutalità. La violenza di cui lei ha parlato, che si tratti di dressage degli animali o di raffinatissime forme di violenza simbolica nella comunità filosofica, per me è
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sempre la stessa: è molto differenziata, ma in fondo la violenza è irriducibile, si ha sempre dressage, Zucht und Zuchtung. Anche nel1' argomentazione più rispettosa dell'altro c'è un certo modo di imprimere delle abitudini che conserva la violenza, una violenza che non può né deve essere ridotta, perché altrimenti non ci sarebbe più cultura. Ma bisognerebbe distinguere dalla violenza ciò che sono tentato di chiamare brutalità, non l'animalità né la bestialità - la brutalità in una discussione, in una argomentazione, ilfiat dogmatico. Per definizione, non c'è violenza naturale, un terremoto non è violento, lo è solo nella misura in cui lede degli interessi umani. Se siamo d'accordo sul fatto che non c'è violenza naturale nel senso della naturalità, allora dovremmo chiamare «violenza» ciò che non permette all'altro di essere ciò che è, ciò che non lascia posto all'altro. Spesso mi si rimprovera, come lei sa, di non argomentare; trovo questo rimprovero molto ingiusto. Mi pare infatti di tentare di non essere mai brutale, dogmatico, o di dire: è così. La brutalità non è soltanto una violenza non raffinata, è una cattiva violenza, depauperante, ripetitiva, meccanica, che non apre all'avvenire, che non lascia posto all'altro. Qui, ovviamente, entra in gioco anche una connotazione estetica, sebbene non ne farei l'ultima istanza. Però la brutalità riduce all'amorfo, impoverisce la forma, fa perdere la differenziazione. Forse quanto dico è un modo un po' apollineo di difendersi contro la violenza orgiastica, o dionisiaca, che gioca con l'informe, con l'amorfo, con la fusione, ma se la differenza è violenza e la violenza è differenziante, la brutalità rende omogeneo e cancella la singolarità. Torino, 19 gennaio 1995
CHE COSA C'È? di Maurizio Ferraris
1. !.:indice. A torto si è fatto della ontologia una scienza della penuria, quando, da Clauberg innanzi, è scienza dell'abbondanza, e in questo senso ha pienamente ragione Quine allorché, nel primo saggio di From a Logica/ Point o/ Vi'ew, alla domanda che lui stesso si è posta: che cosa c'è? risponde, con tranquilla ironia: c'è tutto. Le difficoltà incominciano subito dopo, se ci si prova a distinguere i diversi modi d'essere implicati da una replica tanto ecumenica. Che cosa c'è, allora? C'è per esempio questo corpo, questo foglio, questo fuoco. Un dito, generalmente un indice, fa segno verso qualcosa, e la indica come questa. Ecco la presenza, l'ontologia in senso semplice e iperbolico. Si tratta di un phainesthai primario, a cui saremmo inclini a dare il nome di presenza in senso proprio - al modo in cui si oppone il proprio al traslato - se non fosse che, come nelle Meditationes de prima philosophia, in realtà c'è anzitutto un cogito rispetto al quale sono presenti (e di una presenza che si espone al dubbio iperbolico) il corpo, il foglio, il fuoco. Questa considerazione introduce una crepa (Kant anzi diceva che si tratta del vero e proprio scandalo della filosofia) dentro alla più antica persuasione della filosofia e del senso comune, il kriterion tes aletheias secondo cui tutte le sensazioni sono vere. Di colpo, tutto si capovolge, proprio come quando, nell'esempio di Husserl, l'uomo che vedevo in una vetrina mi si rivela come un manichino; allo stesso modo, proprio ciò che non si vede, il cogito, si presenta come l'unica presenza indubitabile, e per poter tornare a dire questo corpo, e in fondo anche questo cogito, il mio, dovrò sottometterlo a un'analisi mista di intuizione e di ragionamento (ossia di intuizione cieca o differita) che, rivelandolo come finito, consenta di postulare un infinito, onnipotente, esistente e verace, che
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debellerà il dubbio iperbolico che incominciava a intaccare persino la certezza del cogito (che, nella sua presunzione di esistenza, avrebbe potuto anche essere il sogno di una farfalla). Più vera che la sensazione, che appare comunque mediata (ed è per questo che, per Strawson interprete di Kant, il senso esterno, cioè lo spazio, è più irreale che il senso interno, cioè il tempo), è la presenza ideale e non effimera. La vera presenza sarà dunque non quella estetica, ma quella logica: la sensazione salvata nella sua idealità. Il modello generale della presenza, tratto dalla presenza estetica, quella che si può additare dicendo: questo, si solidifica nella presenza logica, che di quella estetica è il negativo (nel senso hegeliano che la possibilità di sparizione dell'empirico-sensibile è ciò che definisce per contrapposto il perdurare dello spirituale). La posizione ingenua della certezza sensibile è contestata. Ma in che misura? La situazione, infatti, risulta complicata dalla circostanza per cui, se la presenza logica sembra indubbia, a differenza di quella estetica, quest'ultima mantiene un inaudito primato, perché è proprio il miraggio della presenza estetica a farci preferire la presenza logica. In altri termini (e in una formulazione ancora largamente inadeguata), ciò che garantisce la presenza è la logica, ma ciò su cui questa garanzia modella il proprio ideale è l'estetica. L'inversione infirma la certezza sensibile e la sua presunzione di presenza, ma non intacca la forma della presenza, che viene semplicemente salvata nella logica. Certo, la presenza ideale ha un privilegio rispetto a quella sensibile; lo si constata quando si dice «hai presente?», «ho presente», «tieni presente». Lo si può fare; tuttavia con questo l' estetica non è stata cancellata, ma, al massimo, è stata tolta e conservata nella logica, perché, se il risultato di questo mantenimento è molto più efficace di quello che costituisce silenziosamente la presenza sensibile, resta che il primo tener presente, modello di tutti gli altri, è quello che ho tacitamente messo in atto nell'additare una qualsiasi cosa, assumendola come presente. Ciò che questa analisi sommaria suggerisce, è dunque un chiasma per cui la presenza estetica fornisce il modello della presenza logica, che la salva e la tutela; ma per cui, al tempo stesso, gli atti costitutivi e ritentivi della presenza logica sembrano mimare, a un livello riflessivo, una certa costituzione della presenza nel presente che si pone come la condizione della stessa presenza estetica. A rendere ulteriormente 112
complesso il movimento è poi la circostanza per cui, in questo intreccio esteticologico, il porsi empirico di qualcosa è reso possibile - come presenza, come evidenza arei-originaria e apparentemente immediata - da un sistema di ritenzioni che essa stessa ha reso possibile; specularmente (e vedremo più avanti lo svolgimento di questa logica), il semplice porsi di qualcosa è una tesi in senso forte, che la rende insieme unica ed esemplare, secondo il processo ali' opera nella circostanza comunissima per cui da pronomi come ipse e ille sono venuti, nelle lingue neolatine, gli articoli determinati. Sembra dunque che l'estetica e la logica - la presenza, per esempio, di ciò che si indica con un dito sensibile e con un dito intelligibile, e si vede con l'occhio del corpo o quello dello spirito risultino determinate da un terzo che regola la transizione dall'una ali' altra. Questo terzo dito o terzo occhio, notiamolo subito, sembra essere lo stesso, ossia si configura come un termine sopraordinato ai primi due, di cui partecipa rendendoli possibili. Che cosa c'è - che cosa c'è di invariante, l'invarianza essendo un carattere analitico della presenza, disatteso ma non contestato dal variare dell'esperienza o dalla labilità della memoria - nel tener presente logico e in quello estetico? Lo abbiamo visto: non la cosa, il percetto o il suo fantasma mnestico, ma un dito, e precisamente un indice che fa segno e dice «questo», lo assume come presente e nel presente, al modo appunto dell'indicativo presente. Questo questo indicato al presente sembra la matrice di ogni presenza, anche se abbiamo già incominciato a intravedere i limiti di un riferimento insieme inerme e catafratto: la presenza dell'indice è problematica non meno che tutto ciò che addita, dal momento che, come percetto, l'indice non è meno effimero di tutto ciò che indica, potendo essere questo o quell'indice, il mio o il tuo, quello della mano destra o della sinistra, così come ciò che viene indicato può essere questo, dunque nulla lo è. Se l'indice si salva e trae in salvo ciò che indica, è appunto come concetto, ossia come ciò che non è né questo né quell'indice determinato. La mano indica con un dito, poi si chiude e afferra (fantasia catalettica, cioè comprendibile, che si presta alla prensione e alla comprensione, all'afferramento, al grei/en di un Begri/f). Il questo che si indica al presente, si prende e si interiorizza, strappandolo, proprio come farebbe una mano, a un soggiorno 113
che ormai non sarebbe più effimero. Per questo ci sono tante mani nel pensiero, e non mani sensibili o ideali, ma mani trascendentali, ossia sopraordinate alla distinzione tra sensibile e intelligibile: è anzitutto la situazione del De anima aristotelico (432a 2-3), dove si legge che l'anima è come la mano, perché nell'anima, come nella mano, c'è la/orma della pietra, e non la pietra (che è afferrata, non incarnata), di modo che se la mano è lo strumento degli strumenti, l'intelletto è la forma delle forme e il senso la forma dei sensibili. Si noti per l'appunto che ciò che si dice della mano (e che può riferirsi retrospettivamente alla trascendentalità del dito) vale sia per la noesis sia per l' aisthesis: di qui il costante ricorso filosofico alla mano come strumento «universale» (Discours de la méthode, Adam-Tannery, VI: 57), dunque-ed è la formulazione più pregnante - come strumento «assoluto» (Enzyklopiidie, § 411), sino all'elogio della mano considerata, contro ogni evidenza, come il proprio dell'uomo nell'heideggeriano Was heijst Denken?, dove l'identificazione tra mano e pensiero (umano) fa il paio con l'interpretazione proposta nel § 4 di Sein und Zeit dove il passo aristotelico secondo cui l'anima è in qualche modo tutti gli enti viene specificato - contro la lettera aristotelica - come un riferimento specifico all'anima umana. Si capisce bene il ricorso di questa metafora talmente assoluta da essere il solo mot juste - cioè di questa catacresi insurrogabile, allo stesso titolo di «fondamento» così come lo analizzano Locke, Leibniz e Kant -: posto come concetto, preso o appreso, il percetto non scappa più. Quanto si è detto del carattere sopraordinato della mano rispetto ad aisthesis e a noesis illumina il punto: l'afferramento della mano sensibile-insensibile non significa affatto che allora, se la verità e il futuro del percetto stanno nel concetto che salva il Wesen come Gewesen, il concetto abbia fatto tutto da solo, e soprattutto che ad assicurare il passaggio di mano dal sensibile all'intelligibile sia stato un indice concettuale. Da una parte, l'indice non è immediatamente la mano: l'indice concettuale, infatti, spiega la sussunzione, e dunque funziona solo nella misura in cui è la parte di una mano, e non spiega in alcun modo l'indicazione preliminare all' afferramento. D'altra parte, anche ammettendo (come dimostreremo) che questo indicare comporta analiticamente un afferrare, l'indice non è più concettuale di quanto non lo sia la mano; è anzi, proprio come la mano sensibi114
le-intelligibile, una funzione sopraordinata a concetto e a percetto. Il concetto di indice, infatti, può voler dire due cose: dapprima, appunto, un indice che non è questo o quelf indice, e che come tale potrà valere come una definizione anatomica, e come guida per il riconoscimento di tutti gli indici determinati. Però, per indicare gli indici come percetti servendosi di un indice come concetto, sarà ancora necessario un «terzo» indice, che non è nemmeno il concetto di indice, e che è piuttosto un segno, la funzione dell'indicare (e che resta uguale anche se non mi servo di un indice e uso, per esempio, una bacchetta). Questo indice assoluto, che Kant chiamerebbe schema, è insieme la condizione della presenza (estetica o logica), e sembrerebbe dunque assolutamente presente. Ma è ben chiaro che nulla è meno presente (logicamente o esteticamente) di un tal indice; quale ne sarebbe, infatti, il ti estì? si può dire davvero questo indice come possibilità di tutti i questi? Paradossalmente, solo nella misura in cui non potessi dire questo indice, questo mi servirebbe per dire questo, secondo la logica immanente allo schema e già a ogni forma di segno, quella per cui l'essenza (ouszà come presenza sensibile, secondo l'etimo di possesso fondiario, o come presenza intelligibile) del segno consisterebbe nel non averne una. Insomma, mentre non posso dire questo schema, nel senso che non posso additarlo (è la difficoltà incontrata e occultata da Kant nella enumerazione concreta di schemi), senza uno schema (quello della presenza spaziotemporale) non posso dire questo oggetto o questo stato mentale. È la difficoltà che, in negativo, si presenta (ed è un caso non infrequente) quando si cercano gli occhiali che si hanno sul naso. E i bambini che, secondo la tenace superstizione che li vuole incapaci di astrazione, guarderebbero il dito (considerandolo come un questo) invece che ciò cui l'indice fa segno, sono semmai molto più astratti, dal momento che producono una inflazione di presenze (ogni percetto è un concetto, non ci sono nomi o idee generali, e non ci sono neanche indici come segni). Questo non significa che non siano capaci di segni o di schemi, ma semmai che ne hanno troppi, uno per ogni cosa, mentre l'uso e l'abitudine (ossia una funzione passiva di memoria) li porterà a ridurre l'inflazione - insieme semiotica e ontologica-, restringendo l'ambito dell'essere e esplicitando un certo non essere, il me on del segno, di cui si servono già nel momento in cui, guardando il dito, lo assumono come questo. 115
2. La cosa. Distogliamo per un momento lo sguardo dall'indice, e guardiamo anche noi ciò che indica. Per capire che cosa c'è, visto che il materiale, in apparenza, non manca, conviene seguire dapprima la via negativa, e chiederci che cosa non c'è. Non ci sono, per esempio, le cose immaginate, quelle che non hanno una corrispondenza nel mondo, e che differiscono perciò dalle cose ricordate, che furono presenti: «Cesare ha varcato il Rubicone» è in un mondo diverso da «Cesare ha bevuto la cicuta»; in questo mondo, il nostro, il primo Cesare non c'è più, il secondo non c'è mai stato. È vero però che non faccio nessuna fatica a immaginarmi Cesare che beve la cicuta, e che le risorse cui devo ricorrere per procurarmi l'immagine di cui ho bisogno (compresa quella di me stesso che varco il Rubicone o bevo la cicuta), non sono diverse da quelle che mi servono per ricordare la strada per ritornare a casa. Bisogna concluderne che ciò che realmente non è non pertiene ai frutti di una immaginazione riproduttiva, ma, semmai, a una immaginazione produttiva in modo assoluto, ossia priva di esempi? Non è così semplice. Per rifarci a una tipologia filosofica classica: che cosa vuol dire che l'immaginazione (produttiva) si distingue dalla immaginazione (riproduttiva) e dalla sensibilità perché ci può far vedere cose mai viste? Che cosa significa non essere mai visto? Che non lo si è visto mai. Ma questo deficit di fenomenizzazione ha due valori eterogenei: non ho mai visto Città del Capo o, a seguire l'esempio del De Trinitate, Alessandria - (ma potrei benissimo vederla); non ho mai visto un cerchio quadrato-o, a seguire l'esempio di Russell, la cupola rotondaquadrata del Berkeley College -. In questo secondo caso, la mancata sensibilizzazione non si presenta come un difetto empirico, ma trascendentale, designando qualcosa che non si è fenomenizzato per circostanze che non sembrano solo - in prima approssimazione - empiriche. Ma è davvero irrilevante l'empirico, o non si ha da fare piuttosto con una trascendentalizzazione di circostanze empiriche? Se nulla è più fondamentale di una indicazione empirica, nulla è più empirico di una ontologia fondamentale. Così, se a questo punto pare che l'ontologia incontri un limite insuperabile, è perché sembra impossibile indicare una cupola rotondaquadrata. Si badi bene che non si tratta di un deficit logico, dal momento che quando dico «rotondoquadrato» capisco benissimo che cosa significa; in una certa misura, la difficoltà può apparire logica solo 116
perché non pare (non videtur) risolvibile nei termini di una estetica. La cupola rotondaquadrata prolungherebbe semplicemente i limiti, che sono strettamente psicologici, della impossibilità di costruire una immagine mentale di un chiliagono: non si ha alcuna difficoltà a capire, e a dire, che cosa sia un poligono di mille lati; ma è impossibile sintetizzarlo - nella sua forma esatta - in un eidos mentale, a meno che non intervenga, per esempio, un supporto esterno, carta e penna, poniamo. La specifica difficoltà di una cupola rotondaquadrata consiste nel fatto che i suoi limiti di figurabilità non dipendono dalle risorse di una psicologia empirica, ma dai requisiti di una estetica trascendentale, per esempio dal fatto che in questo mondo, quello appunto che additiamo tutti i giorni, non esiste uno spazio curvo in cui potrebbe darsi una cupola rotondaquadrata. Il linguaggio più corrente si rivela del tutto filosofico quando dice «una cosa del genere non esiste» per dire che non è possibile (diviene irrealistico - e «metafisico» in senso triviale - quando, come spesso succede, l'espressione «non esiste» viene usata per esprimere il disappunto verso una cosa che si sperava che non ci fosse, e invece c'è). È l'argomento con cui Kant taglia corto con i mondi possibili: la logica non ha nulla contro la telepatia (che in quanto tale non è meno bizzarra dell'actio in distans di cui peraltro Newton ha mostrato la realtà), o la possibilità che una figura sia racchiusa tra due rette parallele; se questo non accade, è per le proprietà di questo mondo, che è del resto il solo che possiamo additare. In tutti gli altri casi, le cose mai viste sono cose che si potrebbero vedere (a questo allude Trendelenburg quando, contro Kant, sostiene che la distinzione tra analitico e sintetico è psicologica), e che risultano da cose che si sono viste. Che poi quelle cose esistano o meno non è questione della gnoseologia, ma, di nuovo, della ontologia: non vedrò mai Cesare, ma questo dipende da Cesare (o dall'anno in cui sono nato) e non dai miei occhi. Però, sotto il profilo delle facoltà in gioco, le cose che non si sono mai viste ma che si riescono a immaginare sono tutte sullo stesso livello: immagino Città del Capo un po' come San Francisco (non so perché, anche se presumo abbia da fare con una delle facoltà della immaginazione, di cui Kant discorre nel § 17 della terza Critica, e che consiste non solo nel richiamare dopo gran tempo segni dei concetti, ma anche nel riprodurre la figura di un oggetto traendola da molti og117
getti di tipo diverso o dello stesso tipo); immagino un centauro avendo in mente un uomo e un cavallo, o, d'accordo con McX, uno dei filosofi immaginati da Quine sintetizzando filosofi reali, penso a Pegaso. Ma che Città del Capo esista e il centauro o Pegaso no, non significa che l'immaginazione che pensa il centauro sia più produttiva di quella che pensa Città del Capo. Dirlo sarebbe non meno assurdo del concludere che esiste un dispositivo per stabilire apriori, o per fondare in ragione senza ricorso all'esperienza, la differenza tra la percezione e il ricordo. Io posso accompagnare l'immagine con un assenso, come nella phantasia kataleptè della fenomenologia stoica, e in questo caso si tratta di ricordo; posso accompagnarla con dello scetticismo, e in questo caso si tratta di immaginazione. Ma la variazione di coscienza su cui fondo la mia differenziazione trova la sua istanza ultima in un riferimento ontologico: se la città che credo di ricordare non è quella, allora anche se soggettivamente ho l'esperienza del ricordo-, «oggettivamente» (ma l'oggettività in questo caso è molto problematica) si tratta di una fantasia. È possibile anche l'inverso: posso immaginare qualcosa che credo inesistente; se verifico che però esiste, ciò che soggettivamente è vissuto come immaginazione, «oggettivamente» può essere considerato come ricordo, percezione o anticipazione. Se ne potrebbe concludere, allora, che per sapere che cosa c'è, invece di fantasticare sui mondi possibili convenga rivolgersi a questo mondo. È sulla base di un simile primato dell'ontologia che, nella Dioptrique (Adam-Tannery, VI: 85), Cartesio loda il valore filosofico degli occhiali, che hanno fugato le chimere che travagliavano le fantasie dei filosofi. Ma, una volta passati attraverso la prova del non essere, sembra che l'abbondanza si sia molto ridotta. Si cita spesso il detto di Amleto («There are more things in heaven and earth, Horatio / Than are dreamt in our philosophy») come una sentenza realistica, che faccia il paio con la lode degli occhiali, ma il filosofo danese ha appena visto il fantasma di suo padre, e avere una visione vuol dire tante cose che non coincidono esattamente col vedere cosa c'è. Prendiamo una casistica tratta da alcune situazioni che, per comodità, potremmo dire «limite» (ma è difficile trovare una zona dell'esperienza che ne sia intatta). In che senso «c'è» una stella esplosa da migliaia di anni, e che noi vediamo adesso? C'è davvero adesso, quando la vediamo, ossia la co118
gliamo intuitivamente come fenomeno, sebbene di per sé non ci sia più, o, più esattamente, il suo essere per sé valga ora soltanto come: al posto di sé, il fenomeno fungendo ormai solo come rimando? E da notare che, secondo la distinzione tra fenomeno e noumeno, ogni visibile, e noi stessi, potrebbe non essere che memoria e fenomenizzazione, non meno che le stelle esplose, e apparse proprio quando hanno cessato di essere un noumeno. Reciprocamente, se la misura dell'essere è la fenomenizzazione, è problematico dire in che senso sono gli atomi, i raggi x, i suoni emessi dai fischietti per cani. Volendo essere un po' più esigenti, se abbiamo assunto che c'è solo quello che indico attualmente, allora, con un argomento humeano, è molto difficile sostenere che ci sono i libri alle mie spalle, e che è solo una credenza continua, data dalla ripetuta ritenzione e dalla iterabilità dell'esperienza, che mi fa passare sopra questi dubbi. È però probabile che chi mi sta leggendo creda alla mia esistenza quasi quanto ci credo io. Si crede normalmente a molte cose che non si vedono. Si prenda, ad esempio, un altro caso di telecomunicazione, una conversazione telefonica: «C'è Francesco?»«Sì, c'è». In questo caso, posso parlargli senza averlo fisicamente presente e, salvo una serie di variazioni del resto non adiafore, come la simultaneità che rafforza l'effetto di presenza, è come se gli scrivessi. È caratteristico che qui un orizzonte scrittorio non tanto surroghi, quanto piuttosto - secondo il chiasma che abbiamo abbozzato nel paragrafo precedente - renda possibile una presenza logica come differimento della presenza estetica. Questo diviene più chiaro nel caso che mi si rispondesse: «No, non c'è». Non è perché Francesco è uscito che non è mai esistito (anche se questa sarebbe la conclusione cui dovrebbe pervenire Parmenide e con lui i neoparmenidei). Io ritengo una immagine di Francesco, l'ho visto altre volte, presumo che sia nato, ed è dunque sulla base di una scrittura interna (ritenzione, memoria) che mi aspetto una presenza (del resto congetturale: nel caso proposto, telefonica). In un certo modo, questa ritenzione mi orienta nell'attesa di una presenza estetica. Lo stesso - e con una più evidente caratterizzazione scrittoria - avviene quando a rispondere è una segreteria telefonica: «Non ci siamo». È probabile che non ci siano, ma so che ci sono stati e che verosimilmente ci saranno (ritorneranno), e non mi impunto nel trovare una disonestà o una contraddizione nel
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fatto che quando c'erano, registrando il messaggio, dicevano di non esserci. Questo essere e non essere, non per caso, è la forma caratteristica del tempo quale è stata analizzata da Aristotele ad Agostino a Hegel. Come è possibile che qualcosa sia e non sia? Di là dalla pochezza dei casi suggeriti, che del resto richiederebbero un raffinamento fenomenologico, perché rappresentano delle scene di scrittura in un contesto telecomunicativo che a sua volta si offre come un /rame scrittorio, è da notarsi una struttura minimale. Ciò che fa sì che io ritenga presente Francesco, anche se non è di fronte a me, e che non concluda che non è mai esistito quando mi rispondono che non c'è, è il tempo con cui sto costruendo la mia esperienza. Se la voce è presente, è perché è nel presente. Ma il paradosso è che ciò che rende possibile la presenza svanisce in ciò stesso che rende presente, e non faccio più i conti col tempo quando c'è Francesco, mentre, quando mi si risponde che non c'è, ricomincio a fare i conti, assumo che non è presente perché non c'è nel presente. L'evanescenza ontologica della voce si trasforma, in un atto comunicativo riuscito, in una presenza, mentre, a voler fare l'esperimento inverso, ossia a cercare di misurare il tempo con i canoni della presenza che ha reso possibile, mi trovo nella situazione di dover concludere che il tempo et est et non est, perché se non mi chiedi che cos'è, lo so, mentre se me lo chiedi, non lo so (Con/essiones, XI, 14.17): come leggiamo nella prima Enneade, la coscienza offusca ciò che rende possibile. Insomma, quando si dice che «c'è ancora tempo», e, ancor più, quando si dice che «non c'è più tempo», si fanno delle affermazioni intimamente paradossali, perché si afferma o si nega l'essere di qualcosa che, cometale, sembra esserne sprovvisto. Osserviamo sin da ora che queste caratteristiche sono le stesse dell'indice: se lo assumo come cosa, non è; ma non è di più se lo assumo come rimando, perché, per l'appunto, come rimando non ha un essere in sé. È un certo non esserci a porsi come la condizione dell'esserci: il non esserci della indicazione e del presente come possibilità della presenza estetica che a sua volta funge da modello anche di quella logica che la sopravanza e tesaurizza negandola. Ma proprio questa evanescenza importa una caratteristica astenia della presenza che esso ha reso possibile, che si riflette nella circostanza per cui Agostino (Contra Faustum, XII, 6) dirà 120
che anche la materia et est et non est: nel far questo, il filosofo cristiano ripete il Timeo: si sbaglia a dire «questo» fuoco, visto che «questo» è solo ciò che resta identico in tutte le forme prese dal fuoco o dall'acqua. Eppure sulla base di questa duplice evanescenza, del tempo e della presenza che ha reso possibile, il «questo» mantiene la sua sovranità illimitata. Forse perché l'indicazione è già, sin dall'inizio, protesa verso l'afferramento. All'inizio delle Philosophische Untersuchungen Wittgenstein condanna la filosofia del linguaggio di Agostino, proprio perché in questa si spiega l'apprendimento della parola attraverso l'ostensione. Ma la posizione agostiniana è in qualche modo inevitabile: è vero che Agostino non descrive correttamente il funzionamento del linguaggio, perché sta spiegando piuttosto l'apprendimento di una lingua (oltretutto, della prima); ora, un tale apprendistato è piuttosto quello di una scrittura, e a buon diritto Agostino non porta l' attenzione sulle parole, ma sul dito che procura l'ostensione. Ebbene, quando Wittgenstein, più avanti(§§ 385 sgg.), si pone l'interrogativo se sia possibile contare senza scrivere sulla carta o usare parole nella mente, ripete esattamente l'ipotesi per cui ogni evento, estetico o logico, trova la sua origine nella possibilità di ritenere, la cui prima /orma sarà l'ostensione assicurata dal dito. Per un processo che cercheremo di precisare, ma i cui contorni incominciano a definirsi, concesso un dito si finisce per prendere tutta la mano. Quando dico «immantinente» è come se dicessi «seduta stante»: si provoca una estensione convenzionale del presente o del questo, che vengono fermati come quando Giosuè chiese a Dio di fermare il corso del sole. Ma non è forse un miracolo banale? Quando Aristotele scrive, nel De memoria (449b 31-450a 5), che pensare è come disegnare una figura, porta esplicitamente l'attenzione sul fatto per cui non è questione di servirsi di immagini nel pensiero (perché appunto ciò che si disegna è grande o piccolo, determinato, diversamente da ciò a cui ci si riferisce nel pensare), ma piuttosto di mostrare come il pensare sia reso possibile da un insieme di ritenzioni. Ora, per il sentire non va altrimenti: secondo l'argomento del De anima (431a 14-15), per l'anima dianoetica i phantasmata fungono da aisthemata. Ma questi aisthemata non sono meno fantasmatici, dal momento che non sono mai le cose, bensì le loro impressioni, che si deponevano sulla tabula rasa mentre indicavamo. 121
Perciò l'indicazione al presente è al tempo stesso una ritenzione. È il caso del Filebo (34a-b): la ritenzione è la salvaguardia della sensazione, ne è in un modo complesso - il modo di una teleologia che si volge in archeologia -la possibilità e la risorsa. Essa offre infatti la possibilità di quel differire nello stesso che Hegel presenta nelle Vorlesungen uber die Asthetik quando, discorrendo del1' arte egiziana, dice che la morte avviene due volte, la prima come morte del naturale, la seconda come nascita dello spirito (Werke, ed. Michel-Moldenhauer, XIII: 451). Hegel vuol dire che uno stesso evento si salva come sensibile e trapassa nell'intelligibile attraverso una ritenzione che procura da una parte la sensibilizzazione - il faraone imbalsamato - e dall'altra l'idealizzazione - il primo annuncio della immortalità dello spirito, cioè dello spirito tout court. Ma questo differire nello stesso è anche la storia della sensazione e, nel modo di una estetica trascendentale, la storia come sensazione: si percepisce come sensibile, si ritiene come intelligibile. Lo stesso movimento caratterizza la dottrina hegeliana dello spirito soggettivo (e dunque la tradizione, di Wolff e di Aristotele, di cui questa dottrina è erede): l' aisthesis si salva nella ritenzione e, per questa via, è anche il tutt'altro, l'idealizzazione. 3. Il «questo». Ciò che silenziosamente si è introdotto (o meglio che era tacitamente presupposto) nell'analisi della indicazione schizzata nel primo paragrafo, poi dall'esame della ontologia tratteggiato nel secondo, era una certa potenza di ritenzione, dunque di temporalizzazione, che si poneva come condizione della indicazione del propriamente presente. Ma, per l'appunto, questo tempo sembra togliersi proprio perché riesce nel suo intento: presente è ciò che addito come semplicemente presente, senza nemmeno pormi il problema di quale sia il tempo in cui lo indico (e semmai il problema risorge in ingorghi percettivi come il fenomeno del déjà vu). È ovvio che sia il presente, dal momento che lo sto indicando: basterà considerare, ad esempio, con quanta determinazione Ryle, in The Concept o/ Mind, tien fermo alla distinzione che è empirica mentre lui la assume come trascendentale - tra vedere e ricordare; che questo stesso assunto operi nella dottrina degli atti linguistici di Austin, consegue da una comune ascendenza dalla critica aristotelica dell'anamnesi, per cui conoscere - come
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presente - e riprendere conoscenza di qualcosa conosciuto in precedenza, non sono la stessa cosa. Ma proprio questa critica appare densa di problemi. Aristotele scrive (De memoria, 4496 10 sgg.) che del presente si ha sensazione e non memoria, dunque non si ha memoria quando si guarda un oggetto presente, né quando lo si contempla con lo spirito; del pari, prosegue Aristotele, del futuro si ha attesa, e non si ha memoria che del passato. Ne segue che hanno ricordi solo gli esseri dotati di memoria, che ricordano con la stessa facoltà con cui avvertono il tempo. Non è difficile riconoscere il groviglio in cui si impigliano queste asserzioni: la facoltà con cui awertiamo il tempo è la koinè aisthesis, dunque, il nesso sintetico che opera già in ogni singola sensazione (se non ritenessi qualcosa, nemmeno sentirei); il tempo, infatti, è numero del movimento secondo l' antecedente e il successivo, ossia una formazione estetica in senso eminente. Ora, degli animali privi di memoria sarebbe molto difficile dire che sentono, se per l'appunto abbiamo fatto della sensazione qualcosa di presente per contrapposto al passato e al futuro. In che senso la loro sarebbe una sensazione presente, dunque una sensazione tout court, se non possono distinguerla dal passato e dal futuro? Il nyn come presenza del presente trova la sua risorsa e la sua definizione proprio a partire da ciò che non è - il passato e il futuro-, e che lo rende possibile. Questo è anche più chiaro sul piano obbiettivo: in che senso potrei dire che un evento è tale, ed è presente, se non lo confrontassi con uno stato precedente in cui non c'era? La definizione di «evento» implica analiticamente l'intervento della memoria. Attraverso l'iperbole della presenza, Aristotele non solo rende problematica la presenza della sensazione (proprio quegli animali che, privi di memoria, vivrebbero soltanto nel presente, non sarebbero mai nel presente), ma si impiglia in una aporia della memoria: ci si ricorda della cosa o della affezione che ci procura? in entrambi i casi, se si tien fermo alla determinazione della sensazione come di ciò che awiene nel presente, sia il ricordo della cosa sia quello della affezione risulterebbero indiscernibili rispetto all' aisthesis in senso proprio. A buon diritto, Kant (Kritik der reinen Vernun/t, A 99) afferma che una rappresentazione, se contenuta in un istante, ossia se posta per ipotesi fuori del tempo, non sarebbe che unità assoluta. Priva del temnein del tempo che ponendo il discontinuo nel continuo inaugura la ri123
tenzione, non sarebbe nemmeno sensazione, non permetterebbe di distinguere il senziente dal sentito (se, d'accordo con Aristotele, si assume che nell'aisthesis l'animale e la sensazione divengono una sola cosa), non si qualificherebbe come un evento nel tempo (da un prima a un dopo), e nemmeno come qualcosa di determinato nello spazio, presentandosi forse come un bagliore sconfinato. È come se Aristotele assumesse, al tempo stesso, che la qualità ontologica di una cosa (presenza/ assenza) dipendesse dal tempo in cui è appresa, e che il tempo aderisse alle cose. L'aporia della memoria, che risulta indistinguibile, in ragione, dalla sensazione, è la spia eloquente di questa situazione. Ora, per chiarire che cosa ne vada nel «questo-presente» conviene riconnettersi all'autoosservazione mentale suggerita da Locke nello Essay (IV, II): c'è differenza tra questo sole, che vedo con gli occhi a mezzogiorno, e il sole, che ricordo con la mente a mezzanotte, e che non potrà che essere quel sole. Ciò che rende tale quel sole, ciò che ne fa questo o quel sole, è la presenza o l'assenza alla percezione, ossia non una facoltà dell'anima, ma una proprietà dell'essere, e specificamente dell'essere sensibile. È necessario questo ricorso, come nella topica trascendentale rivendicata da Kant contro Leibniz (KrV, A 268/B 324 sgg.): bisogna distinguere da quale fonte ci venga una conoscenza, se dall'intelletto o dai sensi; in difetto di una simile topica, prosegue Kant, Leibniz e i suoi seguaci hanno omologato ogni conoscenza, facendo della sensazione una intuizione confusa, e hanno postulato una continuità tra sensazione e intelletto. Il risultato è che per Leibniz 100 talleri ideali sono uguali a 100 talleri reali, appunto perché sono uguali nel concetto (ma non si potrebbe anche dire che sono uguali nella intuizione? la/orma dei 100 talleri è uguale). La distinzione tra la vera e la falsa moneta non è però così evidente, perché si fa nel mondo e non nell'anima, e dunque non ha ancora aggirato l'ipotesi del genio maligno. Proprio per questo, la posizione di Leibniz rispetto a Locke nel commentario al luogo sopra citato così come è condotto nei Nouveaux Essais è molto realistica. Come si è detto, restando sul piano di una analisi delle facoltà (quello a cui si richiama Locke), non c'è modo di distinguere l'intuizione dalla sensazione, dal momento che la differenza sta nelle cose (presenza/assenza) e non nell'anima. Si può, al massimo, osservare che nella percezione e nelle altre operazioni dell'anima ci sono delle connessioni necessarie, ossia, si potrebbe dire, che 124
una grammatica regola l'iscrizione sulla tabula, indipendentemente dall'esistenza degli oggetti. Ed è caratteristico che, nella replica a Locke, Leibniz ricorra a una immagine scrittoria: metafisicamente parlando, non è improbabile che si dia un sogno lungo una vita (ossia che uno stato mentale si svolga in modo coerente indipendentemente da riferimenti costanti a un mondo esterno). Forse meno verosimile è che dei caratteri da stampa buttati a caso diano luogo a un testo coerente; la probabilità è molto bassa, perché si parte da una aggregazione puramente stocastica. Quanto dire che nel primo caso la tabula può procedere alla aggregazione di un testo sensato, in uno schematismo allucinatorio. Non c'è da sorprendersi se, nel quadro del cosiddetto «empirismo» (ossia avendo chiaro il ricorso prioritario a una evidenza che resta di coscienza), il Treatise di Berkeley abbia potuto pervenire a esiti non diversi da quelli leibniziani, e proprio muovendo dall'esame delle difficoltà interne della prospettiva di Locke, allo stesso modo che lo Essay towards a new theory o/ visian aveva svolto una contestazione analoga nei confronti di Malebranche e di Cartesio: nel primo caso, gli eventi particolari fungono da semplici richiami per un sistema di idee generali che si pongono nello stesso assetto del sistema platonico; nel secondo, le proprietà dello spazio non ineriscono obiettivamente al mondo esterno, ma fungono soltanto come segni e promemoria. Esse est percipi è la forma di tutti gli immaterialismi, che non contrasta affatto con l'idea che tutte le sensazioni sono vere. Ne è anzi la corretta risoluzione, ma solo quando si assuma che una scrittura si insedia già nella percezione; ciò che, in un ambito dominato dalla tabula rasa, non stupisce. L'adozione di un lessico kantiano, proposta poco sopra, non ci pare abusiva, se si considera che qui Leibniz enuncia un principio che non sarà contestato da Kant, che anzi lo porterà a una maggiore efficacia: la coerenza sintattica non viene dalle cose, ma dalle tracce, che possono procedere anche in modo fantasmatico, prolungando la facoltà della immaginazione di ritenere la traccia senza l'oggetto della percezione. Ora, al livello delle tracce, la differenza tra la presenza piena e le sue modificazioni mnestiche o immaginative è pienamente infondabile. Se Kant sottolinea l'esigenza di ricorrere a una topica trascendentale, è precisamente perché, al livello della traccia, non c'è modo di decidere, ossia di sostene125
re che il principio di ragione determina le cose (l'ontologia). Gli schemi non producono la realtà; semplicemente, rendono possibile l'esperienza; non sorprende perciò che in Kant si abbia un senso così acuto sia del valore di ultima istanza della ontologia, della sua insurrogabilità e non costruibilità, e del ruolo della ritenzione come costitutiva dell'esperienza. Dunque, quando dico «questo», per immediata che possa apparirmi la mia impressione, seguo una scrittura, che è ancora all'opera quando, dodici ore dopo, dico «quello». Non è proprio questo all'opera nell'esame e nella contestazione della certezza sensibile della Fenomenologia hegeliana? Se l'apporto hegeliano è così centrale, dipende proprio dal fatto che, in esso, la riflessione filosofica sul questo viene a saldarsi in modo del tutto esplicito col tema della scrittura: la norma della sensazione è la ritenzione, che è poi il modo in cui Hegel afferma e nega la validità della certezza sensibile, attraverso un esempio scrittorio ripetuto tre volte, nel quale la verità della certezza sensibile è confutata e confermata precisamente dalla iscrizione del dato percettivo. È l'esperimento suggerito da Hegel: si proponga all'uomo prefilosofico, convinto del valore primo e ultimo della certezza sensibile, di scrivere la sua certezza. Se è notte, questi scriverà: «Adesso è notte»; dodici ore dopo è giorno: il questo della certezza sensibile, l'ora, non è più vero, e si salva solo come coerenza sintattica, per ridiventare vero dodici ore dopo, al modo di un orologio fermo, che segna comunque l'ora esatta due volte al giorno. Ma la scrittura su cui si fonda la contestazione della certezza sensibile è anche la regola della verità: non della verità di ciò a cui si riferisce il questo (che anzi risulta invalidata), ma, per l'appunto, della ritenzione. Ciò in due sensi. Da una parte, la ritenzione appare un termine sopraordinato rispetto alla verità o alla falsità della percezione sensibile: il questo della sensibilità è svanito come percezione presente, ma resta come iscrizione. D'altra parte, il nuovo questo (adesso è giorno/adesso è notte) vale come temporalità in base a un insieme di ritenzioni: le dodici ore che separano il giorno dalla notte si distendono come temporalità proprio in forza di una ritenzione; e il questo del giorno o della notte vale come presente proprio in riferimento a un passato che si configura come una scrittura interna, semplicemente estesa o illustrata in forma sperimentale dalla scrittura su carta. Per questo la contestazione del tempo spazializzato degli astri, 126
nelle Confessiones agostiniane, non appare così cogente come ritiene, in particolare, Heidegger. È vero che un uomo poté chiedere a Dio di fermare il sole, e il tempo passava anche se il sole restava fermo. Ma passava il tempo proprio perché un continuum di eventi era in corso, e dunque il valore aristotelico della temporalità come numero del movimento secondo l'antecedente e il successivo non era in nulla alterato dall'arresto del sole. La misura della temporalità risulta dalla coincidenza di una duplice simultaneità: quella del movimento esterno, sul piano di ciò che Peirce chiamava foglio-mondo, e quella del movimento interno, sul piano dell'anima concepita come luogo delle forme e come tabula rasa. Il che significa che il tempo ha la sua origine proprio nella iscrizione della traccia, ossia nel momento in cui i due movimenti vengono a coincidere, in un istante unico e simultaneo, in un hama, in un atomo spaziale e temporale assieme come l' avverbialità che lo designa, in cui il foglio esterno si imprime sull'interno. Come si è visto, infatti, non solo il questo (presenza) ma anche l' adesso (presente) consegue dalla iscrizione, ossia si offre come una prestazione della traccia. Questa corrispondenza biunivoca, lo si è visto, viene da Kant: da una parte, perché l'esperienza sia possibile (ossia si presenti come continuum e come temporalità, dando il questo e l' ora), è necessario che l'anima ritenga; d'altra parte, l'anima ritiene, e si concepisce come flusso e tempo, proprio attraverso la postulazione di un mondo fisso ed esterno rispetto a cui il tempo possa concepirsi come tempo: è l'argomento della confutazione di Cartesio (KrV, B 274 sgg.), che sembra assumere una superiorità della spazialità sulla temporalità, contrariamente alla norma delle affermazioni kantiane in proposito, ma che di fatto mostra piuttosto una cogenerazione di spazio e tempo. Anche in questo caso, come già in Aristotele, non è questione di chiedersi se ci sia un movimento nell'anima, ma piuttosto di domandarsi se l'avvio della temporalità e del movimento (dunque, anche della presenza di là dalle evanescenze della certezza sensibile) non sia offerto dalla ritenibilità generale della traccia - dall'incontro dei due fogli. 4. La scrittura. Un corollario. In Consequences of Pragmatism (1982) Rorty fa valere, per la sua partizione tra 'kantiani' (filosofi scientifici) e 'hegeliani' (ermeneutici e decostruttori), una nozione di scrittura non più analizzata di quanto lo siano gli emblemi filo127
sofici di cui discorre: gli hegeliani scrivono, i kantiani assumono invece che la filosofia, di principio, non debba essere scritta, in quanto l'ideale è l'ostensione. Ma - avendo a mente quanto si è detto dell'indicazione - il punto è proprio questo. Se con «scrittura» non si intende il dato empirico dello scrivere, magari in forma alfabetica (e dunque trascrivendo la voce), ma ci si riferisce al sistema di ritenzioni operanti già nella certezza sensibile, e all'indicativo presente in opera nella ostensione, i kantiani o gli aristotelici non sono meno «scrittori» che gli hegeliani. Anche a prescindere dalla circostanza - empiricamente tutt'altro che adiafora benché riferita appunto a ciò che correntemente si intende con scrittura - che, tra i «kantiani», Quine ha pubblicato più di venti libri e Husserl ha stenografato 40.000 pagine, mentre Hegel in vita ha dato alle stampe poche cose (meno di Kant, per esempio), la questione dirimente è che, «kantiani» o «hegeliani», e anche filosofi o no, e persino uomini o no, ogni essere dotato di ritenzione scrive incessantemente, dal momento che il pensare e il percepire sono come disegnare una figura: tracciare una linea ritenendo dei punti. La circostanza congiunta dell'intendere la scrittura in un senso altamente ristretto e di assumere un fondamentale scetticismo rispetto alle possibilità di una filosofia come specchio della natura fa poi sì, nella interpretazione di Rorty, che i 'kantiani' abbiano rinunciato alla ostensione, e che gli 'hegeliani', scrivendo, condividano e ratifichino lo scetticismo di Rorty, di modo che la loro non sarebbe che una scrittura letteraria. In altri termini, i 'kantiani' avrebbero rinunciato a scrivere, tranne brevi articoli, e vani (o perché superflui rispetto alla ostensione, o perché assolutamente nulli, l'ostensione rivelandosi un sogno caduco), e gli 'hegeliani' si dedicherebbero alla composizione di lunghi romanzi sgangherati, sciupando il proprio tempo a devastare le poche cose che scrivono i 'kantiani', i quali a loro volta non avrebbero alcun desiderio di scrivere. Ma né un artista né un filosofo (e in realtà nessun uomo, che nella vita quotidiana è anzi massimamente esigente) sarebbero soddisfatti di una tale limitazione, che li priva per principio della possibilità di dire qualcosa di vero, sebbene li consoli assumendo che nessuna delle loro proposizioni potrà mai essere realmente falsificata, perché il gioco che si è aperto è tale che in esso vincono tutti. Crediamo tuttavia di capire per quale motivo Rorty deve aver 128
concepito l'ipotesi di un irrealismo degli 'hegeliani'; questi ultimi, infatti, insistono sul carattere costituito della presenza, ciò che sembra porsi come l'antefatto dell'immaterialismo. Il fatto è però che il ruolo della costituzione è un patrimonio normale delle fenomenologie della percezione, che molto presto concludono sul fatto che il modo in cui la verità della certezza sensibile è affermata si riferisce alle forme indubitabili di una impressione, piuttosto che alla presunzione di esistenza di ciò che esercita l'impressione. Secondo la formulazione del Teeteto (191 sgg.), ripresa da Aristotele (De anima, 424a 17-20, De memoria, 450a 31-32), indi nella tradizionale psicologia retorica (così, per esempio, Quintiliano, XI, 2, 4) - e che è soggiacente al valore ultimo di riferimento gnoseologico della tabula rasa -, ciò che si imprime nella mente intesa come tabula o come blocco di cera non è il ferro o il bronzo del1' anello, ma la sua impronta. Questa considerazione rende evanescente, in particolare, la differenziazione tra aisthema e phantasma, perché, in base al ragionamento appena svolto, gli stessi aisthemata non sono in nulla più materiali che i phantasmata.
Il
1. La forma. Studente nella classe di filosofia del liceo Louis-leGrand, Derrida redigeva dissertazioni «plotiniane» (Bennington 1991: 302). Ora, una sentenza capitale delle Enneadi (VI, 7, 33) recitato gar ichnos tou amorphou morphè. È un passo che Derrida ha citato esplicitamente due volte (Marges: 77, 187), ma per più versi il principio regola la sua intera riflessione: la forma è ciò a cui rinvia l'indice e si costituisce come presenza, come questo sensibile o intelligibile, ma, nel suo presentarsi, è sin dall' «inizio» l' ichnos di una non presenza che annuncia e ricorda il suo altro. Forma è il latino per un complesso di valori greci che ricoprono l'arco del puro eidos, della morphè in quanto implicata e contrapposta con la materia, dello schema, che vale sia per il visibile sia per l'invisibile, secondo l'alternativa, che vige ancora in Bacone, tra schematismus patens e latens; è la forma come principio della intelligibilità di un oggetto, in Cuvier, Geoffroy Saint-Hilaire, Thompson d'Arcy, ma già in Platone schema si connette sia con eidos sia con rythmos, il che spiega in che senso possa darsi una forma del tempo. La forma si vede, ma anche si sente (il ritornello, la forma-sonata), si intuisce e si pensa, presentandosi come una struttura invariante e adele, dunque irriducibile alla pura dimensione dell'immagine, ed è a giusto titolo che Mach, nell'Analyse der Emp/indungen, tien fermo alla distinzione tra Gebild (l'immagine) e Gestalt (la forma). Come si vede - e il punto sta anche nella naturalezza con cui si recepisce questo «si vede», trasponendolo dal sensibile all'intelligibile-, il contenzioso tra presenza e assenza di immagini nel pensiero è dato solo da un fraintendimento della nozione di eidos, morphè, schema. Come se si trattasse di optare, poniamo, per le sole metafore contro i soli concetti, e soprattutto come se fosse pos130
sibile isolare una nozione definita di metafora o di concetto, secondo l'ingenua prospettiva che viene stigmatizzata da Derrida (Marges: 247 sgg.): eidos e idea hanno la stessa radice, , e la distinzione tra gli occhi del corpo e quelli dello spirito sembra venire dopo questa identità primaria. Dunque non si tratta di svelare l'origine metaforica del concetto, o inversamente, ma piuttosto di illustrare in che modo metafora e concetto rilevino da una ritenzione originaria, indistinta non solo rispetto all'asse metafora/concetto, ma anche rispetto a quello natura/cultura, se il tropismo «metaforico» sarebbe quel medesimo tropismo che nel girasole, l'eliotropio, seconda il moto del sole da Oriente a Occidente. La forza della metafora (ammesso che di metafora si possa parlare, dal momento che sarebbe necessario indicare un nome proprio: diciamo piuttosto, della catacresi) scrittoria sta nel fatto che addensa in sé tutti i valori che abbiamo riepilogato. La scrittura è la traccia della voce, ma anche ciò che ne conserva l'essenza al di là della discontinuità temporale; è ciò che sparisce nel comprendere che ha reso possibile (secondo l'immagine che da Plotino giunge a Dilthey: le lettere svaniscono quando si è giunti a intendere lo spirito). Inventare la scrittura, allora, non significa introdurre un diastema radicale nella storia della cultura, ma piuttosto formalizzare in modo riflessivo uno schematismo e una estetica trascendentale che operano sin dalla più inerme delle impressioni. Scrivere significa annotare in modo convenuto ciò che si deve ricordare altrimenti (nota); trascrivere qualcosa detta con parole (alfabeto); imparare uno o più caratteri della cosa che si rappresenta (ideogramma); operare una mediazione tra concetto e percetto (esempio, schema, simbolo); ritenere in generale (di modo che la scrittura esplicita non sarebbe che una formazione riflessiva, come il numero, di quella icnologia trascendentale operante all'atto della percezione di cui abbiamo visto la sua prima manifestazione nel «questo»). A sua volta la scrittura, nei termini che si sono riepilogati, assolve una funzione che non è primariamente letteraria, ma si collega alla possibilità di fermare il tempo rendendolo possibile, così come di assicurare una correlazione e un transito tra sensibile e intelligibile. Per comprenderlo, è però forse utile rifarsi in prima battuta piuttosto all'esempio delle mnemotecniche (ossia della scrittura interna) che non alle pagine del Fedro in cui si racconta il ritrova131
to di Theut, la scrittura esterna. La scoperta di Simonide, l'inventore delle mnemotecniche, fu che chi vuole ritenere i ricordi, deve trasformarli in immagini e collocarli in luoghi mnemonici; i luoghi valgono per l'ordine, le immagini (notae) per le cose da ricordare. Il processo è doppio: gli oggetti vengono trasformati in notae psichiche, con un passaggio dalla sensazione alla intuizione, dall'aisthema alphantasma; le notae, però, vengono razionalizzate, e valgono in maniera diagrammatica, senza che l'iconico debba mantenere una somiglianza figurale con ciò che viene, non più rappresentato, ma ritenuto (con un passaggio dall'intuizione al ragionamento). L'analogia tra la scrittura materiale e la scrittura mentale è confermata dal fatto che, contestualmente al racconto della invenzione, Cicerone specifica che i luoghi valgono come la cera della tavola scrittoria, e le note o i simulacri come le lettere (De oratore, II, 86,354). Si tratta insomma di un'altra versione della tabula rasa, e sin da ora bisognerà chiedersi - in linea con l'impossibilità di considerare la scrittura come una metafora cui corrisponderebbe un senso proprio - se la percezione, di cui normalmente si ritiene che la tavola scrittoria sia metafora, venga semplicemente illustrata dall'esempio della scrittura, o se questa, più profondamente, non descriva i caratteri propri della percezione. Il ponte apparentemente più diretto tra l'esperienza della scrittura interna, come illustrazione ridotta della percezione, e la scrittura esterna, viene tradizionalmente assicurato dalla polarità e, più profondamente, dalla complementarità, di geroglifico e alfabeto. Per mantenersi a evidenze fenomenologiche, il geroglifico non è puramente sensibile, almeno non lo è più di quanto l'alfabeto sia puramente intelligibile; sono, entrambi, fenomeni di iscrizione del sensibile che, in una fenomenologia primaria e in realtà già ricostruttiva, si trasporrebbe nell'intelligibile. Già questa sola circostanza giustifica la continuità tra geroglifico e alfabeto. Molti dei segni alfabetici provengono dai geroglifici (anzi, secondo l'ipotesi di Warburton in The Divine Legation o/ Moses Demonstrated, Mosè avrebbe sfigurato i geroglifici egiziani per conformità all'ingiunzione «Tu non farai alcuna immagine»), il che rappresenta un caso speculare a quando, in un linguaggio, si usano delle lettere in funzione meramente iconica (I-shirt, T-boone steak, U Turn, golf a V, la Y come figura del dubbio), oppure quando si fa uso di acrostici o di parole dipinte o, ancora, quando si fa lo spelling, e A 132
diventa Ancona o Anatole, o si rifonetizzano in modo aberrante delle sigle, ad esempio in okay, jeep, deejay, pierre ecc. Sono altrettanti casi in cui l'alfabeto diventa un cifrario dove la lettera funge da simbolo, e nei quali, dunque, si dimostra che l'alfabeto non solo deriva dal geroglifico, ma può anche tornarvi. Ora, però - e questo sarebbe il terzo termine che regola la reversibilità -, è necessario rilevare una circostanza cruciale: questo «ritorno» non è un risalimento all'origine, al pittogramma da cui sarebbe derivato l'ideogramma e finalmente il fonogramma. Se così fosse, dovremmo assumere che i primi dipinti rupestri fossero perfettamente realistici, quando viceversa la prima manifestazione di un tracciare è costituita dall'iscrizione di punti e di linee (ossia di ciò con cui si aprono gli Elementi di Euclide: i quali poi, incominciando con una definizione negativa, quella del punto come ciò che non ha parte, suggeriscono un parziale ridimensionamento della diffusa persuasione secondo cui gli antichi, diversamente dai moderni, avrebbero privilegiato la positività di un ordine dato in natura). In altri termini, che all'origine ci sia una immagine realistica che progressivamente si estenua nel suo cammino verso l'alfabeto è un mito che nel suo fondo è empirista (dall'immagine al logos, versione originaria dello schema consolidato eppure tanto fragile di un «naturale» passaggio dal mythos al logos), e che non sa rendere conto di che cosa assicuri questa transizione - e anzi nemmeno se lo domanda. La situazione risulta particolarmente intorbidata dal fatto che in tanto si può assumere la progressività dell'alfabeto rispetto al geroglifico in quanto si postula che èntrambi non sarebbero che un ritrovato secondo di una oralità primaria, quasi che i popoli senza scrittura (empirica) fossero anche sprovvisti di una scrittura (cioè di una estetica e di una logica) trascendentale, interamente surrogata dal linguaggio. In una avventurosa risalita alle origini, si finisce dunque per supporre uno stato iniziale in cui qualcosa di perfettamente aniconico (la voce) si sarebbe contrapposto a qualcosa di assolutamente iconico {l'immagine), senza considerare che, come si è visto, già il dito che fa segno verso la cosa collegandola al suono opera in modo scrittorio. Lo si vede bene nelle Foundations o/ Grammatology di Gelb, dove il primato della oralità è al tempo stesso una supremazia della pittograficità, quasi che la storia della scrittura descrivesse il percorso tortuoso per cui una im133
magine e una voce, inizialmente separate, si sarebbero infine riunite nell'alfabeto, allo stesso modo che l'aritmetica babilonese e la geometria greca si sarebbero da ultimo congiunte nell'algebra (quando la congiunzione è stata resa possibile da una comune origine icnologica, operante già sul piano di una estetica trascendentale). Così, secondo Gelb, tutte le scritture - che succederebbero regolarmente a uno stato di oralità primaria - avrebbero un'unica origine, il protosumerico pittografico, da cui sarebbero derivati il sumerico cuneiforme (e di lì l'accadico e l'elamita), l'egiziano pittografico (all'origine anche dei sillabari semitici, indi, per evoluzione, degli alfabeti), il protoelamitico pittografico (all'origine del pittografico cinese e del giapponese sillabico, con l'intermediazione - congetturale e in fondo degna dei dotti irrisi da Voltaire, per i quali il cinese e il messicano sarebbero la stessa lingua - del protoindiano pittografico). Insomma, all'origine, ma già dopo la voce, è l'immagine e il rebus, ossia il modo imperfetto per rendere un alfabeto fonetico. Per quanto abbiamo detto inizialmente sul «questo», il problema è piuttosto un altro, e consisterebbe nel descrivere il processo per cui da un atto archiscritturale, l'indicazione, sarebbero derivate le due serie parallele del linguaggio e della scrittura. Gelb suppone dunque che il linguaggio precorra di gran lunga la scrittura, dipanandosi in dipinti (che non sono scrittura), indi precisandosi in precorrimenti più determinati come la semasiografia (prima descrittiva poi identificativa, ed è a questo punto che si collocano gli mnemonici), e, infine, come la fonografia (in quanto piena scrittura, secondo le ulteriori tappe interne della parolasillaba, sillaba, alfabeto). Ma se i sistemi di segni hanno il loro telos e la loro finale consistenza nella parola, è perché Gelb assume che il linguaggio è la vera cosa, mentre la scrittura ne è il dipinto, secondo una tesi che, ,a parere di Gelb, non verrebbe infirmata neanche dai casi - pure evocati nelle Foundations - di elementi non fonetici nelle scritture alfabetiche («Mr. Theodore Foxe, age 70, died to-day at the Grand Xing Station»), che non sarebbero probanti (allo stesso modo che i segni algebrici) perché sempre virtualmente reversibili in una lingua. Qui si osserva insomma una vistosa confusione tra lingua e codice, e la benevolenza di Gelb per l'alfabeto, non minore di quella di Theut per il geroglifico, è tale da fargli trascurare delle circostanze elementari. Si provi, per 134
esempio, a risolvere linguisticamente, attraverso il logos-linguaggio, una operazione semplicissima come 3 x 3; osservare che la si può fonetizzare in «tre per tre» non dimostra certo che la fonetizzazione sia un grande sussidio per arrivare a 9 (o «nove»), e giova piuttosto rilevare che proprio perché l'accesso al numero non è linguistico si rende necessario l'apprendimento mnemonico delle tabelline pitagoriche. Questo non vale solo per la matematica, o per altre forme di notazioni specifiche, come quella musicale, ma è all'opera sin nel cuore della cosiddetta scrittura alfabetica: si guardi la tastiera di un computer, dove, oltre alle lettere e ai numeri e simboli matematici, c'è una serie di valori (segni di interpunzione e altri che non sono rifonetizzabili: /:/ significa «due punti» in un modo del tutto diverso da quello in cui «A>> significa «A») che sono veri e propri ideogrammi nell'alfabeto: \, !, f., $, % , &, !, (,), =, ?, [, ], *, +,@, 0 , #, §, ,;, :, .,-, _, .Il funzionamento di una scrittura alfabetica, dunque, non solo non spiega la totalità dellé'operazioni icnologiche in atto nella scrittura, ma - ciò che pare anche più decisivo - una scrittura alfabetica non si spiega col solo ricorso al logos inteso come linguaggio. Inversamente, nemmeno un sistema puramente ideografico è davvero autoconsistente. Se la chiave della decifrazione dei grammata egiziani è venuta dal pieno riconoscimento che essi potevano avere anche un valore alfabetico (e dunque richiedevano che si postulasse una lingua soggiacente, il copto), contro le vecchie credenze che li concepivano come i simboli puramente ideografici di una sapienza antichissima (Kircher), o-in base allo stesso principio, ma con un pregiudizio negativo - come i rottami sformati di una antichità sterminata (Vico), questo non significa che i geroglifici fossero soltanto alfabetici, ma piuttosto che essi risultavano sopraordinati alla distinzione tra fonogramma- e ideogramma. È la dottrina che Champollion espone nella Grammaire Egyptienne: i geroglifici non hanno solo dei valori mimici o figurativi; possono averne anche di tropici o simbolici (di modo che il teorema vale anche come mnemoneuma); e, in forza di questo tropismo, in cui, per esempio, la parte vale per il tutto, non è da sorprendersi che possano valere anche come «signes de sons», ossia che si utilizzi un geroglifico come valore alfabetico che designa il suono della iniziale della cosa raffigurata. Proprio perché non ci sono mai delle immagini in quanto tali, non ci sono mai lettere in quanto tali,
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né - lo si è appena dimostrato con la tastiera del computer - una scrittura puramente alfabetica. Questa tesi richiede una osservazione supplementare, quanto alla inconsistenza di una iconicità pura, altrettanto improbabile che una oralità primaria: di fatto, già al livello mimico, il geroglifico non è la rappresentazione dettagliata di un singolo oggetto (e neanche una fotografia può esserlo, già solo perché è la presentazione bidimensionale di un corpo che spesso è tridimensionale); inoltre, sul piano pragmatico, il segno (perché, in base a quello che si è detto, è già un segno: un valore di mnemoneuma che si insedia nel cuore del teorema) viene utilizzato con una funzione diagrammatica, ossia serve a indicare, poniamo, tutti gli avvoltoi, e non solo questo avvoltoio. In altri termini, il processo che conduce dalla mimesi alla metafora all'alfabeto è programmato sin dal livello mimetico (estetico o teoretico). La conseguenza della considerazione che abbiamo appena svolta è che, se da una parte non si può porre un divario assoluto tra geroglifico e alfabeto, d'altra parte (venendo a questioni di estetica e di logica) il processo che dal mimico porta al tropico e di lì all'alfabetico (ossia, per esprimerci seguendo la distinzione kantiana dei diversi tipi di ipotiposi, dall'esempio al simbolo allo schema) non è resa, per esempio, dal processo humeano percezione/immaginazione/idea (dove si intende il passaggio da una presenza piena a una immagine illanguidita, a una ulteriore astrazione), proprio perché già sul piano della presenza piena operava una prescrizione segnica. A far problema, o almeno a polarizzare l'attenzione, è anzi il valore della rappresentazione primaria come ri-presentazione. Se questo è vero, però, se cioè ogni forma è ichnos, che cosa istituisce la natura di rimando della traccia? 2. Il nome. Quando Hegel, nella dottrina dello spirito soggettivo della Enzyklopiidie, pone l'intelligenza subito dopo la memoria meccanica, non formula, come è palese, una tesi empiristica, ma per l'appunto insiste sul meraviglioso insito nel raddoppiamento per cui dalla iterabilità resa possibile dalla ritenzione (che come tale non ha nulla né di empirico né di trascendentale) può venir fuori la libertà della intelligenza. Questa circostanza era anche più manifesta in Warburton (modello di Condillac, che a sua volta, come vedremo, è spesso il palinsesto della semiologia hege136
liana) che, d'accordo con Bacone, rileva come la scrittura nonnasca né dall'occhio né dall'orecchio, ma dal gesto - quanto dire che voce e scrittura non sono madre e figlia ma, in un modo difficile da pensare, sorelle, esiti di una traccia afona che si pone all'origine di due serie: il tempo, la voce, lo spirito come presenza logica della coscienza presente a se stessa; lo spazio, la scrittura, l' aisthesis come presenza estetica che parla agli occhi e dovrebbe trovare la sua verità nello spirito. È già la situazione del Perì hermeneias, ossia di una delle più antiche grammatologie che possediamo: i patemi dell'anima, che si esprimono in voci e in lettere, trovano la loro risorsa (il loro medio istitutivo) nei symbola, cioè nelle notae e nelle tracce che trasformano l'intenzione in espressione. Queste circostanze comprovano l'isomorfismo tra la scrittura e l'estetica trascendentale. Sotto il profilo della iterazione, la cosiddetta tradizione del «razionalismo» si rispecchia in quella del!'«empirismo». Nella Psychologia empirica di Wolff il passaggio dalle facoltà conoscitive inferiori, di natura sensibile (senso, immaginazione,/acultas /ingendi) alle superiori (attenzione, riflessione, intelletto), avviene nella memoria come facoltà di ritenzione, e le due parti, la bassa e l'alta, sono altrettante specificazioni di una sola facoltà conoscitiva. D'altra parte, Hume tratta della attesa di casi simili come possibilità della previsione, dunque della scienza (che non è certo un ambito meramente psicologico o regionale). Difficile non pensare, discorrendo di questo raddoppiamento, alla Au/hebung, e chiedersi se la sua forma iniziale non sia, per l' appunto, l'immaginazione come ciò che ritiene, nella idealizzazione, la provenienza sensibile. Il grande problema e la grande risorsa nascosta in questo raddoppiamento si addensa nella ritenzione: come ricezione della forma senza la materia, è la possibilità del senso; ma, in questa stessa misura, è l'origine della idealizzazione dunque è la possibilità dell'intelletto. Non per caso la memoria ha tradizionalmente impegnato la riflessione filosofica. Essa infatti, come ritenzione, è il sensibile e la sua possibilità; ma è anche l'intelligibile, ed è parte dell'intelligenza. Soprattutto, però, se si procede regressivamente, si osserva come la memoria sia trasversale rispetto alle differenziazioni di sensibile e intelligibile precisamente perché è ciò che le rende possibili. Spiegare l'intelligenza con la memoria, e questa con l'ipotesi di tracce neuronali permeabili o impermeabili, non sarà dunque co-
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sì rozzamente positivistico, a meno che non si retrodati il positivismo sino a fame il contemporaneo della metafisica antica. Negli Analitica posteriora, Aristotele osserva che l'inizio della intelligenza animale sta nella traccia della sensazione: il principio del logos, presto cancellato, dal momento che la sensazione si rivolge all' oggetto singolo, e il logos all'universale (87b 37-38), sarebbe il permanere di una iscrizione (monè tou aisthematos, 99b 36-37) che, svanendo come sensazione, si salva come intuizione, ponendosi al1' origine della techne e dell'episteme (e dello stesso logos, se la possibilità di un codice, ossia di un linguaggio, è l'iterabilità, e dunque preliminarmente la ritenzione). Così, già al primo livello della sensazione, in un animale muto ma non immemore, si incontra una scrittura. È risaputo che per fondare l'implicarsi dell'intelletto nel sensibile - e, reciprocamente, il raddoppiarsi del sensibile nell'intelligibile - Aristotele ricorre alla ipotesi di due intelletti e di due memorie, la memoria passiva e la reminiscenza che funziona come un sillogismo, e ricerca le tracce del ricordo. Sono in sostanza le due memorie di Hegel, l'inferiore (Erinnerung) e la superiore (Gediichtnis). Tra le due, sta la rappresentazione (Enzyklopiidie, § 451), come intuizione ricordata, punto medio tra una intelligenza ancora incatenata all'hic et nunc e la libertà. L'intuizione ricordata è dunque posta nel transito tra la intuizione incatenata al sensibile e l'emancipazione importata dalla memoria, per cui la rappresentazione fluttua liberamente, e questo fluttuare, esito della passività, è la libertà, che, in quanto proscioglimento dal sensibile, non sarebbe che la ripetizione della traccia. Tra la prima e la seconda memoria non c'è che un raddoppiamento; ossia, il transito non avrebbe potuto aver luogo senza ritenzione. Quanto dire che il superamento dell'aisthema nel phantasma che lo conserva è intramnestico, e, reciprocamente, che la libertà non è che raddoppiamento; dopo la rappresentazione si passa infatti al pensiero, equesto si pone sotto il segno della ripetizione. Così, il § 465 della Enzyklopiidie, dopo la trattazione di forme iterative, quali la memoria nelle sue due specificazioni (quella sensibile e quella spirituale, quella proveniente dai sensi e quella imparentata col pensiero sino all'immedesimazione) e la rappresentazione, inizia la sezione sul pensiero allo stesso modo che in Wolff o in Condillac, riuniti almeno dall'ipotesi che il segno funzioni secondo un processo di N + 1 (la prima volta non è un segno, lo è la seconda, dal 138
che risulta che la prima volta di un segno è al tempo stesso una seconda volta). Scrive Hegel: «L'intelligenza è due volte» (ist wieder, cioè iter, è iterazione), allo stesso modo che Condillac osserva che un uomo, se non fosse capace di segni, sarebbe un imbecille, senza considerare che ciò stesso su cui si fonda il proprio dell'uomo è all'opera nell'animale che segue una traccia. La posizione dell'intelletto è, così, problematica; perché da una parte si tratta di mostrare l'intelletto come la ripetizione del sensibile, ma d'altra parte questa ripetizione si presenta anche come una alterazione completa. li pensiero, anche nella sua forma più iperbolicamente speculativa, nasce dalla memoria, riflette qualcosa, la itera e la custodisce. li parallelismo e il raddoppiamento, come funzione tecnica che assicura il transito dall'inferiore al superiore, è per l'appunto una duplicazione e una iterazione che è due volte inferiore: sia perché avviene nell'empirico (l'empirico che si spegne) sia perché opera empiricamente (la traccia che si itera). Al principio, dunque, e sin dalla sensazione, non c'è logos o immagine, ma traccia. È ciò che sta alla base della dottrina platonica dell'anima come libro, dapprima alfabetico, e poi, se necessario, ideografico, o addirittura realistico, come in un film; ma è soprattutto ciò che, paradossalmente, induce a pensare Hegel proprio là dove, nella Enzyklopiidie - in una grammatologia che è anche una psicologia e una estetica trascendentale -, formula la più potente lode della scrittura alfabetica. Il punto è capitale: perché se si dimostrasse che c'è una reversibilità del geroglifico nell'alfabeto e dell'alfabeto nel geroglifico, allora apparirebbe chiaro che queste due prestazioni non si pongono come la natura e la cultura, l' ologramma e l'immagine illanguidita e infine astratta, ma come le due prestazioni (una più sensibile, una più intelligibile) di un'unica traccia che ne aveva offerto, e sin dall'inizio, la possibilità. Riassumendo in estrema sintesi gli argomenti hegeliani, che in prima battuta non potrebbero essere meno logocentrici: lo spazio si supera e si conserva nel tempo (dunque, c'è un primato della coscienza e della voce), allo stesso modo che il segno si cancella nella comprensione; ne segue il primato dell'intenzione, anche come intonazione (il tono della voce manifesta-e siamo di nuovo a Condillac - l'intenzione della coscienza); l'eccellenza della lingua sta nella sua universalità e semplicità, lessicale e morfologica (le lingue moderne sono più semplici delle antiche); il segno è sempre 139
secondario e derivato, è una parte minima e accidentale della lingua, mentre il linguaggio fonico è quello originario, che rafforza questa priorità archeologica con la superiorità teleologica che fa sì che la scrittura alfabetica, ombra della voce, sia in sé e per sé la più intelligente, allo stesso modo che l'arte greca è più aperta ed eloquente rispetto al simbolismo incosciente dell'arte egizia, che rappresenta uno spirito non ancora pervenuto alla chiarezza riflessiva della coscienza. Ma è proprio a questo livello che si attua l'apparente inversione, e si avanza l'ipotesi che - conforme alla descrizione che abbiamo offerto nel paragrafo precedente - sia una funzione alfabetica senza essere logocentrica (diciamo mnemoneutica o icnografica) quella che ha reso possibile, sin dall'inizio, l'ipotesi geroglifica. Alla fine dello Zusatz al § 459 dell'Enzyklopà'die, quello che più radicalmente afferma la superiorità (e l'eterogeneità) del geroglifico rispetto all'alfabeto, Hegel osserva che, tra i limiti dei geroglifici e in generale degli ideogrammi, sta il fatto che essi non procedono per analisi dei segni sensibili, come la scrittura alfabetica, ma per analisi delle rappresentazioni (ossia, essi si riferiscono all'ambito delle notae e non alla lingua). In rapporto alla progressione sopra descritta, si precisa che la superiorità dell'alfabeto è di carattere strumentale. Insomma, secondo l'argomento cartesiano, come la mano (simbolo della ragione) sopravanza gli arti degli animali (emblemi dell'abitudine e dell'istinto), perché è prensile e disponibile, sì da erogare molteplici prestazioni mentre gli organi e l' abitudine sono adibiti a una sola funzione, così l'alfabeto è più prensile del geroglifico. Questo, rappresentando una cosa soltanto (ma abbiamo visto il limite immanente di questa analisi) non può flettersi alle esigenze di una società evoluta, e si conviene a una civiltà immobile e povera di invenzioni come l'egiziana, e poi la cinese. Ora, però, nei tempi moderni, persino cose molto sensibili come gli acidi muriatici hanno cambiato nome. È dunque sempre necessaria una lingua per piegarsi alle molteplici necessità di una evoluzione spirituale, che non potrebbe essere resa da una caratteristica; l'alfabeto non ha il difetto del geroglifico, visto che è progressivo, ma ne ha il pregio, perché l'abitudine acquisita nel leggere fa sì che noi non leggiamo la scrittura come rappresentante della voce, bensì guardiamo direttamente allo scritto; il che «ne fa per noi una scrittura geroglifica». 140
La ricchezza di questo Zusatz fornisce un vero schizzo di estetica e di logica trascendentale. Da una parte, Hegel è passato, senza renderne ragione e apparentemente senza nemmeno rendersene conto, dal geroglifico all'ideogramma, dall'egizio al cinese, cioè dalla presunta sensualità egiziana (quella condannata nelle Vorlesungen uber die Asthetik come una parziale incapacità di riconoscere lo spirito in quanto differente dalla carne) alla intellettualità dell'ideogramma. Si potrà sempre obiettare che, nella geografia hegeliana, l'impero celeste è ancora più arretrato, asiatico e sensuale, che il regno egiziano; ma a questo punto si tratterebbe di spiegare perché i cinesi, più vicini al sorgere del sole, avrebbero scritto in ideogrammi, cioè, appunto, con quella forma di caratteristica sofisticata che poté sedurre l'intellettualismo di Leibniz, cui pure Hegel si riferisce esplicitamente in questo contesto. In questa anacronia, e nello slittamento non registrato dal percetto al concetto, dalla rappresentazione della cosa alla rappresentazione dell'idea, Hegel ha dimostrato in re, e apparentemente contro la propria intenzione, che nel geroglifico c'è già, nel concetto anche se non nel fatto, ossia per una infermità empirica o strumentale e non di principio, l'alfabeto. D'altra parte, come osserva Hegel, la prerogativa multifunzionale dell'alfabeto risulterebbe decurtata qualora (come tra gli antichi e i poco letterati) leggere significasse sillabare, ossia risalire laboriosamente dalle lettere ai suoni, e da questi a delle immagini mentali. Tuttavia quella stessa flessibilità che impone l'invenzione di nuove cose, e dunque di nuove parole, facilita anche una lettura silenziosa, dove lo scritto non viene più inteso come una successione di lettere, ma è assunto entro una lettura globale che isola nomi; questi ultimi, poi, vengono pensati come nomi, e non come immagini mentali. In altri termini, da una parte, l'abitudine ci porta a valerci dell'alfabeto come di un geroglifico, secondo un processo chiaro nell'esperienza più comune: gli errori nella lettura di parole nuove o straniere conseguono dalla forza assimilante dell'abitudine, che è invece la regola e la possibilità positiva di una lettura scorrevole; analogamente, per la scrittura, il ductus, idiomatizzandosi con l'età, fa sì che molte scritture divengano col tempo delle stenografie. D'altra parte, ciò a cui rinvia l'alfabeto ideografizzato non è - non altrimenti che nel geroglifico - un eidos individuale, e neanche una rappresentazione, ma qualcosa di altamente astratto e intimamente asemantico, il nome. 141
«È in nomi che noi pensiamo»(§ 462, Zusatz): questo significa che la scrittura alfabetica è infine intesa come una scrittura geroglifica che costituirebbe, insieme, la verità del geroglifico e la verità dell'alfabeto. L'uomo colto non legge più la scrittura alfabetica come la trascrizione della voce, e neanche come una via per ricreare regolarmente una immagine mentale, dal momento, per l'appunto, che si pensa in nomi e non in immagini: di qui la critica, condotta in questo medesimo Zusatz, delle mnemoniche, le quali, secondo una interpretazione del resto molto riduttiva, ricondurrebbero la memoria aniconica all'iconismo di un teatro della memoria. Il letterato si serve della scrittura come di un perfetto automatismo - ed è per questo che Wittgenstein osserva che solo nello scolaro che impara a scrivere si vede il lavoro dello spirito. La lettura dell'uomo colto è dunque più vicina alla natura (poniamo, al mito del cacciatore che segue le tracce) di quanto non lo sia il Buchstabieren del principiante. Infatti, dire che si pensa in nomi, e non in figure, e neanche in parole come flusso continuo della voce significa, per Hegel, segnalare quanto, come si è accennato, l'Essai di Condillac costituisca il palinsesto di questi passaggi del1' Enzyklopadie: tutto ha inizio con una iterazione; ciò che prima era natura riceve, sin dalla sua prima ripetizione, il valore di cultura. Il nome, come unione di visibile e invisibile, sarebbe dunque il fine di un processo che già al suo cominciamento è icnologico: non c'è, come pretenderà Rousseau travisando Condillac, un grido originario che sia espressione come tale, prima di ogni intervallo scritturale; se il grido esprime, è perché ripete (e dunque è assolutamente intenibile l'ipotesi di Heidegger, che è una iperbole di quella di Rousseau, secondo cui ci sarebbe una «parola originaria»; questa parola è originaria solo perché si inserisce in un discontinuo già incominciato, entro cui inserisce una cesura: è dunque, ed eminentemente, scrittura). Alfabeto e geroglifico trovano la loro verità in un terzo, che è lo schema o il nome - cioè una nuova metamorfosi del dito e della mano-, di modo che non solo l'alfabeto viene dal geroglifico ma anche il geroglifico viene dall'alfabeto. Si pensa, secondo Hegel come già secondo Condillac, in nomi, che sono la traccia astratta che si potrà specificare in alfabeto e in geroglifico, allo stesso modo che si percepisce attraverso gli schemi. Nei due casi, si ha da fare con una esemplarità in cui il singolo, come casus datae legis, si porta verso l'universale. È questa la 142
riflessione che paradossalmente si può ricavare da questa configurazione. Perché di fronte all'alfabeto noi abbiamo due possibilità: la prima è di farlo valere come uno schematismo patente; dunque, possiamo ricondurre il suono all'alfabeto, e l'alfabeto all'immagine. Ma possiamo anche mantenerci a un livello di traccia anteriore alla distinzione tra parola e immagine: nella traccia di un nome che si fa pensiero, e che non vuol dir niente (ossia, non si riconduce alla dimensione fonetica dell'alfabeto). Qui si ha la convergenza dell' eidocentrismo che porta Leibniz alla lode del geroglifico e del logocentrismo, del resto molto più temperato che in Rousseau e in Heidegger, che induce Hegel all'elogio dell'alfabeto. Ma se questa convergenza finale è possibile, dipende dal fatto che la incubava sin dall'inizio. È, per l'appunto, il caso della trattazione di geroglifico e alfabeto nei Nouveaux Essais: da una parte, Leibniz scrive che il geroglifico sembra inventato da un sordo (Gerhardt, V: 108); dall'altra, il suo uso è raccomandato perché suggerirebbe dei pensieri «meno sordi e meno verbali» (ivi: 379). Come è possibile? Il fatto è che nella prima occorrenza, e cioè nella relativa proscrizione del geroglifico, Leibniz designava con «geroglifico» la scrittura dei cinesi, dicendo inoltre che essa «fait l' effet de nostre alphabet»: quanto dire che il supposto pittogramma e il supposto ideogramma, l' aisthema e il noema presunti, sono di fatto prestazioni di un dito e di una mano trascendentali che vengono prima della distinzione tra parola e immagine, e che proprio per questo possono - come in effetti avviene - tenere l'ufficio pragmatico dell'alfabeto, che a sua volta non è che una trascrizione della voce, la quale non è meno subordinata all'indicazione e all'afferramento di quanto non lo siano il pittogramma e l'ideogramma. Così pure in Hegel, che, delle determinazioni leibniziane, recepisce la più negativa, per cui il geroglifico assicurerebbe ciò che, con formula barocca, è un leggere sordo e uno scrivere muto. Ma non è forse proprio ciò che accade nella lettura e nella scrittura silenziose dell'alfabeto presso i letterati? E, di là dalla cultura o dall'incultura, non è forse ciò che, sin dall'inizio e per tutti, avviene nel pensiero? È ben vero che, pensando in nomi, per il nome «leone», secondo l'esempio dell'Enzyklopiidie, noi non abbiamo bisogno né dell'intuizione dell'animale, né di una sua immagine; ma quando, nelle Vorlesungen uber die Asthetik (Werke, ed. Michel-Moldenhauer, XIII: 394 sgg.), Hegel 143
parla della duplicità, e di fatto della molteplicità immanente a ogni immagine in quanto può essere simbolo (staccandosi dalla intuizione immediata, e, ancora, valendo certo come immagine, ma non come rappresentazione di un individuo o di un genere), fa precisamente l'esempio del leone, che non vale solo come immagine di un animale, ma come simbolo della forza e della regalità. Chiunque prenda un leone per raffigurare un sovrano sta già pensando in nomi, e ci penserebbe ancor più se, come negli espedienti mnemotecnici (che non sono mai puramente pittografici, come assume Hegel), si servisse di un leone per ricordare non un sovrano qualunque, ma Leone Isaurico o Leone XIII. 3. Il logos. Un secondo corollario. È sintomatico che, sul piano storiografico, nella Grammatologie (1967) venga riportata l'affermazione di Madeleine V David secondo cui l'Ottocento, il secolo delle grandi decifrazioni, ha fatto tabula rasa (il termine non potrebbe essere più adatto) di tutte le riflessioni sulla scrittura, la caratteristica, il geroglifico, che avevano attraversato la riflessione occidentale, culminando tra Sei e Settecento. Ancor più sintomatico è che la David ricordi come questo occultamento non sia accidentale, ma risulti favorito in forma eminente dalla nostra qualità di scrittori alfabetici, tendenzialmente disposti ad assimilare la scrittura alla voce, e a fare della prima un semplice supporto o una mera trascrizione della seconda. Questo spiega in che senso un fenomeno fattosi esplicito nel moderno sia già preparato dalla condanna platonica della scrittura e perché i frequenti richiami alla grammatologia (e paradigmaticamente, lo si è visto, le Foundations di Gelb) siano orientati dall'idea dell'alfabeto come perfezione della scrittura. L'ingenuità di queste tematizzazioni è tanto più manifesta in quanto ali' asserto della perfezione della scrittura alfabetica (della sua spiritualità) si accompagna regolarmente una contrapposizione - affatto seconda e derivata - tra geroglifico e alfabeto, visti come fenomeni contrapposti e storicamente distinti entro un decorso evolutivo, mentre si tratta di variabili dipendenti (insieme alla matematica e alla fenomenologia della percezione, per esempio) di una icnologia generale. Dopo Rousseau, il mondo dei segni scompare di fronte a un olismo linguistico generalizzato. Si capisce per quale motivo la filosofia di Derrida conosca un momento istitutivo nella ricognizione
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delle fallacie e dei controsensi di un pensiero che sogna la presenza e il presente volgendo le spalle alle condizioni del loro sorgere. La forma generale di questa rimozione, dove il termine freudiano vale come terminus technicus, è la circostanza per cui nell'Essai di Rousseau venga riconosciuta, baconianamente, la priorità naturale del gesto come prima forma di comunicazione, ma anche la si subordini in breve al primato assiologico (che si fa cronologico) della voce come veicolo dei sentimenti. Il mito dell'originario, che Rousseau incarna meglio di ogni altro, nella sua costituzione simultanea di una natura e di una cultura che occultano la loro provenienza scritturale, è il sogno - improbabile sin dal livello percettologico - di una presenza che sia piena, immemore, non intervallata e non tagliata. È solo sino a un certo punto singolare che Nietzsche, che (è vero, negli ultimi suoi anni) farà di Rousseau e di George Sand il paradigma di ogni male moderno, avesse, nel suo esordio filologico e wagneriano, sposato interamente (attraverso il sogno di un dionisiaco indistinto su cui sorge l'apollineo) ciò stesso che, nei suoi anni maturi, coprirà di invettive. E se Derrida, da adolescente, si tormentava di vedere un disaccordo tra i suoi due eroi, Rousseau e Nietzsche, è vero che la composizione del dissidio consiste nel dire che apollineo e dionisiaco, forma e informe, si combattono prima della storia (I.:Ecriture et la di/férence, 1967: 47 sgg.); ma che, da quando c'è storia, non si ha - e per definizione analitica - altro che forma, ossia discontinuità e cesura. Detto questo (anzi, proprio per questo), si può ben capire il motivo della inflazione linguistica. Il linguaggio non conviene strumentalmente alle scienze umane: ne è la condizione di possibilità, specie dopo che si sia assunto che il linguaggio è il proprio dell'uomo, che mai un animale potrebbe parlare, che ogni traccia è orientata verso il logos - nel suo senso secondo e derivato di linguaggio - come verso il proprio telos. Malgrado il richiamo al segno, il momento pansemiotico, nella sua resurrezione novecentesca, è un momento panlinguistico. Ciò non dipende solo dal fatto che una delle fonti della sua reviviscenza è fornita dalla matrice linguistica saussuriana, ma dal fatto che anche l'aperto richiamo a Peirce come altra fonte ha lasciato in ombra le eventualità non linguistiche del segno. Questa rimozione brilla per la sua sintomaticità nella psicoanalisi, dove l'olismo linguistico si depone nell' affermazione di Lacan, così largamente recepita e senza alcuna par145
ticolare riflessione, secondo cui l'inconscio si struttura come un linguaggio. Così pure, il verbum cordis di Agostino non è né greco, né latino, né appartenente a qualunque altra lingua (De Trinitate, XV, 10, 19), e sospende ogni differenza tra una pretesa filosofia cartesiana, appoggiata a evidenze interne ed esterne, e una filosofia ermeneutica, radicata nella opacità del linguaggio: mentre si vedono bene i limiti del linguaggio (anzi, non si fa che tematizzarli), non è altrettanto agevole ravvisare quelli della traccia, e questo costituisce una severa obiezione alla pretesa di universalità dell' ermeneutica.
lii
l. La linea. In che senso i limiti della traccia sembrano invalicabili? Il questo hegeliano (la prima scrittura, fonte di tutte le altre, se è vero che la radice comune a tutte le lingue, prima della dispersione babelica, è, secondo i mai morti tentativi di risalire al1'origine del linguaggio, «tik», che indica insieme l'indice e il numero uno) si rivela un parente prossimo (in realtà, il gemello) dello hama aristotelico su cui si è intrattenuto Derrida (Marges: 31 sgg.), e che ricorre per due volte nel luogo (Fisica, 219a 3-6) in cui Aristotele sostiene che noi percepiamo simultaneamente movimento e tempo, secondo una simultaneità spaziotemporale (similislsimul) che si ripete sin nel particolare dell'awerbio di spazio e tempo insieme (zugleich) nella prima Critica, in uno dei molti luoghi (KrV, A 33/B 49-50) in cui Kant ribadisce la convenienza di tempo e di spazio come forme della sensibilità, attestata dal fatto che noi dobbiamo rappresentare il tempo, come tale invisibile, attraverso una linea tracciata nello spazio. Ora, se il tempo viene rappresentato, in forma esterna e figurata, da una linea, questa linea non soprawiene dopo la coscienza, ma la costituisce, essendo l'unità della coscienza nel concetto della linea; gli schemi, come forme del tempo, conseguono da questa configurazione fondamentale della linea. Kant, infatti, non si limita a dire che raffiguriamo il tempo attraverso lo spazio (KrV, B 154), e che questa raffigurabilità dimostra che il tempo non è idealità, ma una forma della intuizione; dice anche che per conoscere una linea nello spazio devo tracciarla (sulla carta o nel pensiero, sulla tabula esterna o in quella interna) e, soprattutto (KrV, B 137-138), che questa linea è l'unità della coscienza nel concetto della linea (l'istituirsi delle due tavole, l'interna e l'esterna, al primo tracciarsi). Ecco quanto si
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propone attraverso la catacresi scrittoria: da una parte (contro Husserl), la traccia è più originaria della originarietà fenomenologica; dall'altra, non è il prodotto di un cogito, ma lo produce. È quello che dice Kant sottolineando (e dopo aver parlato del tracciarsi della immaginazione trascendentale, in un passo, il § 24 della deduzione in B, dove ci sono due occorrenze della linea del tempo) che noi conosciamo noi stessi solo come fenomeni. L'unione di spazio e tempo si dà apparentemente nello spazio e nell'aisthesis, ma secondo una sintesi che non è spaziale più di quanto sia temporale, né estetica più di quanto sia logica. Kant scrive che l'io penso, prima del fenomeno (ossia del modo in cui, già nell'aisthesis, si coglie), è un pensare, non un intuire (KrV, B 157). A questa stessa logica sembra rispondere la contestazione kantiana del fatto che Aristotele raccolga nelle Categorie modi della sensibilità come simul (cioè hama), o - e ognuno di essi meriterebbe una analisi dettagliata, dal momento che sono tutti implicati nell'atto esteticologico del «questo» - quando, uhi, situs, prius, e persino un modo empirico come motus (KrV, B 107, A 81-82). Si ricorderà, però, come Kant, che sostiene che simili modi non hanno alcun posto nell'albero genealogico dell'intelletto, avesse rilevato che il tracciarsi della linea è la genesi della coscienza, che, fenomenologicamente, è sempre coscienza di qualcosa. Ora, per esempio, la traccia, che insieme viene dal questo e lo rende possibile, è considerabile alla stregua di un puro modo della sensibilità - ammesso che qualcosa del genere abbia mai potuto darsi? In effetti, ad hama Aristotele dedica una analisi nel capitolo XIII delle Categorie, dove si legge che simultanei sono gli oggetti la cui generazione cade nel medesimo tempo (14b 24-25; definizione ripetuta in 15a 11-12). In un certo modo, il gleich in questione non è dunque tanto la contemporaneità dei punti nello spazio, diversa dalla successività dei punti nel tempo, ma piuttosto la simultaneità dello spazio e del tempo, la loro genesi comune, che al tempo stesso (hama) sta all'origine della coscienza. Sembra che Kant abbia capovolto specularmente la tabula rasa, o che l'abbia rivoltata come un guanto; la tabula non è la mente, ma il mondo, su cui essa, unificando, traccia le conoscenze al modo di una proiezione geometrica. Come in Copernico i moti, apparentemente obiettivi, delle stelle fisse e del sole sono mere apparenze dovute alla proiezione del nostro moto nei cieli. Lo schematismo sarebbe l'atto della 148
iscrizione che istituisce al tempo stesso la tabula e il suo contenuto - la mente e il mondo, l'unità sintetica dell'appercezione e latotalità cosmologica del percepito. Tracciando il fantasma si istituisce la presenza. 2. La tabula. Spesso si intende la tabula come una metafora della percezione: degli atomi si staccano dagli oggetti, passano attraverso gli occhi o, se più sottili, attraverso i pori. Sembra una spiegazione rudimentale; in realtà, è inaccettabile. Non spiega come gli atomi si stacchino (Lucrezio suggerisce che sia per il calore degli animali, ma allora non dovremmo riuscire a vedere gli esseri inanimati), né chiarisce che cosa ne orienti la traiettoria (ad esempio: in strada dovrei vedere i simulacri in transito nella via traversa, e invece vedo solo quelli davanti a me). E anche ammesso che di tutto questo si possa dar ragione, resta il problema di dove awenga la sintesi e il deposito dell'immagine. Teofrasto, criticando la dottrina atomistica, fa notare tra l'altro che non è chiaro come awenga che io possa percepire più cose, o ricordarle, senza che si produca un ammasso di immagini fuori o dentro di me. Se la tabula vuol essere un buon candidato per spiegare la percezione (e lo è, se anche oggi si parla di engrammi cerebrali), deve preliminarmente spiegare la ritenzione e la cancellazione. Ossia, come avvenga che una sensazione si imprima, e che la cera resti sempre vergine (evitando gli ingorghi percettivi). Nel 1895, Freud e Breuer avevano avanzato questa esigenza dicendo che la mente deve funzionare insieme come una lastra fotografica e come lo specchio di un telescopio. Risolta dapprima da Freud in termini fisiologici, nello Entwurf einer Psychologie (ci sarebbero due tipi di neuroni, uno impermeabile, l'altro permeabile), questa richiesta trova la sua formulazione definitiva trent'anni dopo, nella Notiz uber den «Wunderblock», che spiega la conoscenza per analogia con quelle specie di lavagne dove si scrive con una punta che fa combaciare un foglio traslucido con una superficie sottostante di cera, e che si potrà sempre cancellare staccando i due fogli. Il modello «di Freud» che polarizza l'attenzione di Derrida (I.:Ecriture et la di/férence: 293) batte quello di Democrito. Anzitutto, esclude la possibilità di ammassi di icone, visto che, come Platone, Freud non parla (più) di immagini, ma di scrittura. Una pinacoteca si riempie troppo in fretta, è necessario che le per149
cezioni (non solo visive) si depositino in una forma compressa, appunto come una scrittura. Ma anche spiega il problema della cancellazione. Perché questa ritenzione giunga a buon fine, sono necessari due tipi di cancellazione. La prima è la compresenza di specchio e pellicola fotografica, ossia di rifessione che mantenga la tavola sempre vergine, e di ritenzione che renda possibile l'esperienza, di cui parla Freud e che viene risolta, esattamente come in Platone, attraverso il ricorso alla valorizzazione scrittoria della tabula. Per Platone (Filebo 38e-39b), la nostra anima assomiglia a un libro, sul quale dapprima uno scrittore annota dei logoi, e solo in un secondo momento, quando dalla traccia sia questione di risalire a una immagine mnestica, un pittore trasforma l'iscrizione in figura. Non è altrimenti in Freud: l'anima non è una pinacoteca, ma piuttosto un supporto scrittorio, un libro, in cui le icone si depositano in forma compressa. Ma, dietro a questa cancellazione, ne sta un'altra più decisiva: quella per cui gli atti di costituzione si ritraggono di fronte alla presenza cui hanno dato luogo, appunto al modo della trascendenza dell'immagine verso la realtà, di cui parla Sartre (sulla scia di Husserl), e della trascendenza del presente di fronte alla presenza cui ha dato luogo. Ora, è risaputo che Aristotele non solo, come si è visto, tematizza il ruolo della monè tou aisthèmatos nella costituzione della esperienza, ma scrive nel De anima (429b 30-430a 3) che l'intelletto è in potenza tutti gli intelligibili, ma in atto nessuno; proprio come una tavoletta in cui non ci sia nulla di scritto, appunto come sarebbe in un topos eidon, in quella chora di cui si dirà innanzi. Messa in questi termini, la formulazione non è chiarissima, perché porta tutta l'attenzione sul momento successivo, quello in cui la pagina bianca si riempie. E difatti c'è stato chi, come Thomasius, si è rifatto a questa visione per giustificare sull'autorità di Aristotele un empirismo che, in fondo, restituiva la tabula alla sua originaria (e insufficiente) versione percettologica. Fuori da questa ipotesi poco attendibile, gli interpreti antichi e moderni (con poche eccezioni) si sono rifatti alla interpretazione proposta da Alessandro di Afrodisia. Trendelenburg insiste sul fatto che il ricevere è una capacità, e che dunque non bisogna intendere la tabula come mera passività, al modo in cui la avrebbe interpretata Leibniz. L' asserto è contestabile, perché la ritenzione è di qua da attività e passività (e dunque non c'è motivo di negare che Teeteto 191 e 195 sia 150
l'antefatto della tabula: il blocco di cera è sì passivo, ma anche opera la più potente astrazione, traendo la forma senza la materia). Insomma, non è questione di pensare alla tabula - è già l'obiezione di Leibniz a Locke nei Nouveaux Essais: non si sono mai trovate delle tavolette nell'anima (Gerhardt, V: 99-101) -, ma alla ritenzione che essa raffigura; è l'argomento con cui Hicks e Rodier approvano la lettura di Alessandro. Per l'Esegeta aristotelico per eccellenza, l'intelletto materiale (nous hylikòs: il nous pathetikòs di Aristotele) assomiglia al «non essere scritto della tavoletta», dove l'anima fa da supporto materiale, e il non essere scritto sta nell'intelletto (ed. Bruns, 84, 20-25). L'intelletto è pura potenza di iscrizione, e dunque non patisce: è forma nel senso di formattazione, una ritentibilità anteriore alla distinzione tra attivo e passivo (85, 1-10) che si configura appunto come una voce media (è il termine che Derrida usa per qualificare l' «azione» della di/férance, Marges: 9): è passivo in quanto riceve, ma attivo in quanto una ritenzione è preliminare alla percezione, ne è la condizione di possibilità. Insomma, l'inscrivibilità è una capienza solo nella misura in cui è anzitutto una capacità. Come l'astrazione operata dalla sensibilità è la più grande che ci sia, dal momento che assicura il giudizio radicale che separa la forma dalla materia, così la «passività» della ritenzione è anche la più grande attività possibile, dal momento che origina tutte le operazioni dell'intelletto e della sensibilità: la percezione al presente e del presente, la sintesi di forme complesse, il ricordo, il ragionamento ecc. Fatte salve le differenze, in Alessandro siamo molto vicini a Leibniz, che concede a Locke che nulla è nell'intelletto che non fosse nei sensi, purché si ammetta la clausola: tranne l'intelletto stesso. Il migliore degli esempi con cui illustra la sua tesi (Gerhardt, V: 132) è quello per cui si può certo assumere, con Locke, che la nostra mente sia come una camera oscura, purché si conceda che la tela del fondale abbia delle grinze, che producono delle modificazioni (ecco perché la stessa impressione può piacere o dispiacere). Se - contro l'intenzione di Leibniz - si ipotizza che le pieghe sono solo aggregazioni di memoria, di innato, a rigore, non resta che la disposizione a ricevere impressioni. Questa versione non è che l' altro volto del principio per cui, come scrive Kant (KrV, A 102n.) presumendo della propria originalità, l'immaginazione interviene già nella percezione, con l'esito possibile - su cui Kant non si sof151
ferma - per cui vedere e fingere sono lo stesso. Ora, ciò che qui sembra interessante, è che la tabula non spiega soltanto la percezione, ma anche (come nei ragionamenti svolti in precedenza a proposito della linea) lo stesso sorgere della coscienza. Ciò per cui l' aisthesis e la noesis trovano la loro origine è un ritenere che viene prima del percepire e del pensare. A questo punto, si potrà anche assumere (insomma, con Leibniz, che nei§§ 26 e 27 del Discours de Métaphysique dichiara una congruenza fra la tabula e l'anamnesi) che il sovrapporsi delle impressioni sia piuttosto cancellazione che iscrizione, dal momento che graffia e ripulisce un palinsesto (o, se si preferisce, un «gratta e vinci») da cui uscirà il volto intero della verità; oppure che, secondo l'ipotesi di Hegel (Enzyklopiidie, § 464, Zusatz), proprio il garbuglio di iscrizioni facilitate dalla prontezza giovanile della memoria finisce per saturare la tabula, lasciando, nella maturità, il recipiente nudo e assoluto dell'essere puro e dello spazio puro in cui potrà farsi avanti la vera cosa. Ciò che tutte queste vie non possono escludere è il regno assoluto della ritenzione: come diceva Bergson, nessuna abitudine è inevitabile, tranne l'abitudine di prendere delle abitudini, la prima delle quali, se vediamo bene, è la temporalità come costitutiva del1'esperienza. Insomma, fra i tre tipi di apriori/aposteriori enumerati da Aristotele - secondo la natura, secondo l'ordine delle conoscenze, secondo il tempo-, la caratterizzazione decisiva, la matrice ultima sarebbe proprio quella temporale, perché la differenza tra ta saphestera te physei e ta saphestera hemt'n si dà già nel tempo, di un tempo che, come i movimenti dell'anima, non è empirico più di quanto non sia trascendentale, dal momento che è una pura «potenza» di ritenzione, a sua volta indecisa tra attivo e passivo. Secondo la sentenza di Spinoza, se una pietra che cade pensasse, crederebbe forse di farlo liberamente. Ciò che sembra più interessante è però l'argomento inverso: sino a che punto la passività è passiva? e quando incomincia l'attività? Sino a che punto, insomma, una tavoletta di cera è inerte, se, senza di essa, non ci sarebbe ritenzione? 3. La chora. Compiamo un passo successivo.L'anima riceve forme senza materia; ma che ne è della materia? E, caso ancor più complicato, in che senso questo formare sarebbe produrre (o, cosa diversa, costruire) la materia? Constructio è il latino per syntaxis, 152
secondo un valore grammatico e grammatologico, affine anche al-
1'esempio di Leibniz, dei caratteri di stampa come misura della realtà; il concetto di archivio è anche un percetto di archivio, nel senso che l'archiviabilità precede il concetto, ma anche il percetto, rendendoli possibili. Vico, nel primo discorso del De antiquissima, dedicato a Paolo Mattia Doria, teorico della geometria sintetica, tiene un argomento che sarà anche kantiano, e che si oppone a coloro che volevano dimostrare matematicamente l'esistenza (di Dio, ma in questo è secondario): mentre il demiurgo plasma su tre dimensioni, il vero umano è su due dimensioni soltanto, al modo di un monogramma. Tale è già la determinazione della differenza fra produzione e imitazione nella Repubblica: il letto divino, ripreso dall'artigiano, è quello intorno a cui si può girare; quello mimetico del pittore offre una immagine soltanto, e sempre la stessa. È appunto la caratterizzazione della scrittura nel Fedro, dove del resto, come nel Timeo e nella Repubblica, la scrittura viene paragonata alla pittura, che sembrerebbe parlare e non lo fa, così come il sofista non sa rispondere né domandare, ma risuona come un bronzo percosso (Protagora 329a). Qui bisogna intendere il «parlare» non come una contrapposizione tra logos e scrittura, ma come una alternativa tra il vivo e il morto; la scrittura è il male, ma, al tempo stesso, il bene che vi si oppone è il logos vivente, cioè, secondo una metafora che era già corrente presso i tragici, il logos scritto nell'anima che apprende (Fedro, 275c-276b). Può insQmma ben essere che l'idea sia come una scrittura, solo deve farsi scrittura vivente, allo stesso modo che le categorie devono realizzarsi nei fenomeni attraverso gli schemi. Per capirlo, è utile seguire i diversi significati di un termine abbastanza diffuso in Platone, e centrale sia nel Teeteto sia, soprattutto, nel Timeo: ekmagheion (attrezzo, arnese, apparato). Nel Teeteto, l'ekmagheion è esattamente la tabula rasa (191c 9: kerinon ekmagheion), il supporto di cera nell'anima intesa come libro, su cui si depongono le impressioni. Funzione ritentiva che trova il suo corrispettivo in una delle occorrenze dell' ekmagheion nel Timeo (75c 2), dove la parola si riferisce alla milza, che tiene sempre lustro lo specchio del fegato. Dunque nel primo caso è la pellicola fotografica, nel secondo lo specchio del telescopio. Però, con un movimento analogo non solo allo schematismo, ma al processo che porterà Kant, nell'Opus postumum, verso la ricerca di un 153
etere, sostanza ipotetica o problematica che permette l'articolarsi dello schema sino all'individuo, ekmagheion non è solo la tabula, bensì anche l'impressione che vi si depone. Nel primo caso, dunque, l'ekmagheion indica una certa ritentibilità (e cancellabilità); nel secondo, la traccia di una esistenza. È così che appare nel Teeteto (194d 6, e6), apparentato con semeion e in un contesto in cui si assiste alla ricorrenza sistematica di ichnos. Non è troppo sorprendente che, dati questi presupposti, ekmagheion venga a tradurre non solo la recettività della tabula e l'impressione che vi si depone, ma anche il terzo che rende possibile l'applicazione, secondo l'occorrenza dell' ekmagheion nelle Leggi, dove designa lo schema (ekmagheion te tritou, 801d 6-7) che vale come carattere (typos) necessario per l'applicazione pratica del nomos. La tabula come ekmagheion gioca dunque tutti i ruoli: è ritenzione, impressione, costituzione. Ora, in quello che è forse il più prossimo antefatto dello Schematismuskapitel, il Timeo, lo ekmagheion informe (48e 2, 50c 2, 51d 1) è definito come chora (58a 8 e 58d 2), che si presenta come un terzo genere, diverso dalla specie intelligibile, eterna e immutabile, che funge da modello (paradeigma) e da quella sensibile, sempre mutevole, che ne è l'imitazione (mimema). Già a questo livello è da notarsi il punto, centrale, che questo terzo è difficile da pensarsi proprio perché precede l'aisthesis, che ha una genesi tardiva (43c 6), di modo che ciò che fenomenologicamente è primo giunge per ultimo nella creazione del mondo, e viene a partire dal terzo, dalla sintesi resa possibile dalla chora (31 b 8). Abbozzando uno schema familiare: se il modello è il padre e l'imitazione è il figlio, la chora è la madre, «specie invisibile amorfa» (anoraton eidos ti kai àmorphon, 5 la 7). Ora, quando Platone parla dell' ekmagheion, descrive qualcosa che sta sia nell'anima sia fuori, insomma una cera sopraordinata all'anima e al mondo. È perciò ben naturale che sia in termini di ekmagheion che Alessandro caratterizza l'intelletto materiale, come sostrato che non si identifica con nessuna delle cose che esso può pensare (De anima, 84, 15-20); del pari, è prevedibile che (Taylor ad Timaeum 50e 1-4) si abbia una chiara reminiscenza dell' ekmagheion nel De anima aristotelico sia nell'assumere che l'intelletto è potenzialmente tutti gli enti che conosce (429a 10 sgg.) sia nell'affermare che il senso è potenzialmente tutti i percetti (418a 3 ). Invisibile e insensibile, polimorfa e adele - e perciò, come osserva Derrida 154
(Khora), esorbitante rispetto alla stessa determinazione della madre o della matrice -, la chora è dunque la pura potenza di ritenzione che sta ali' origine di ogni costruzione, tanto è vero che, con un ragionamento che si tiene accosto contemporaneamente al Timeo e al De anima, Plotino fonda esplicitamente il parallelismo tra anima e chora nel fatto che entrambe sono potenzialmente tutte le cose (Enneadi, II, 5, 5). L'anima e il mondo sorgono insieme, a partire da un atto di ritenzione che crea il tempo, ossia il numero e la grandezza che dà forma alle cose (III, 6, 18; sarà il nous morphotikòs negli scolli di Proclo al Cratilo). Così, l'universale matrice è anche Crono che divora i suoi figli, perché tutto nasce e perisce nel tempo, che, in quanto tale, è il sensibile insensibile: l'esistenza oscura e imperfetta del tempo - del divenire e già dell' aisthesis che non si dà mai in quanto tale - trova il suo punto archimedeo nel1' anima, che allora non si limita ad apprendere, ma costruisce in senso forte; non nel senso che produca della materia, ma appunto nel senso della syntaxis: costituendo il tempo, traccia la linea, che a sua volta pone il sensibile e l'intelligibile, gli schemi e le forme e, per una strana temporalità, pone l'anima stessa, che incomincia ad esistere nel primo atto di ritenzione. Tenendo presente quanto si è detto del non scritto della tabula, la scrittura non è una metafora alessandrina, ma piuttosto alessandrista. È evidente che Socrate non condanna la scrittura in nome del logos, ma appellandosi a un'altra scrittura, che adempia in modo pieno alle esigenze del matematismo platonico. Lo si può verificare sotto più profili. Anzitutto, logos non vuol dire dialogo, come per lo più si è inteso muovendo da Schleiermacher, ma, in forma matematizzante, rapporto o proporzione (è il valore di gran lunga prevalente del logos greco per contrapposto al verbum cristiano). Gli interlocutori dei dialoghi platonici sono altrettanti rapporti matematici, uno più grande, uno più piccolo ecc., e, appunto come logoi, si misurano (così, nella Repubblica, Platone propone un algoritmo per dimostrare quante volte un tiranno sia più infelice di un re, o, all'inizio del Parmenide, sembra stabilire un rapporto preciso tra Parmenide, che ha sessantacinque anni, Zenone che ne ha quaranta, e Socrate che «è ancora molto giovane»: in un certo modo, Socrate è il logos che permette di misurare Parmenide e Zenone). D'altra parte, è come sistematica di rapporti che viene presentata la scrittura nel momento in cui Theut pre-
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senta le sue invenzioni al faraone, ciò che è provato dal fatto che i ritrovati in questione sono tutti matematici, o, più esattamente, rendono discreto il continuo: la musica, il tric trac, e la matematica (la mitologia egizia voleva infatti che Theut fosse l'inventore non solo della scrittura, ma anche della matematica). Insomma (e ricordarlo è certo paradossale), Platone non è un teorico delle scienze dello spirito (e tipicamente l'elogio del dialogo non si traduce, come regolarmente avviene in quelle, in una apologia della letteratura: anzi, Platone la condanna), ma ha potuto passare per uno Schwà"rmer matematizzante. Ora, come la matematica e come la perfetta memoria, la scrittura interna raggiunge la propria perfezione solo nel momento della applicazione (ed è per questo che una scrittura che resti solo esterna, o inerte, viene condannata come astenica: ma è anche l'astenia del logos di chi, inetto, si faccia consulente della techne basilikè, o, ancora, l'astenia che tradizionalmente i fisici rimproverano ai matematici). Proprio per questo, è interessante riconoscere l'inflazione di scrittura, e insieme la sua valorizzazione, che caratterizza - contro altre e più diffuse prospettive in Platone - il Timeo, ossia il discorso sulla genesi per eccellenza. 1. All'inizio del dialogo (17a 13) si allude a un quarto. In questo «quarto», che non si sa chi sia, c'è il carattere esorbitante della chora: il quarto assente, e che il discorso di Timeo è chiamato a surrogare, è stato colpito da astheneia (17a 4), che è il carattere predominante della scrittura nel Fedro. 2. Poco più sotto (19b), l'esigenza della integrazione alla Repubblica offerta dal Timeo viene fatta valere in base all'argomento (che nel Fedro e nella Repubblica si riferiva alla scrittura) per cui la descrizione dello stato ideale sembra un animale dipinto, cui si vorrebbe dare esistenza e vita (appunto come la scrittura sembra viva, ma non lo è, come i dipinti del mimetico). 3. Quindi (22b sgg.) viene il racconto delle antichità egiziane e del dialogo tra Solone e i preti di Sais che Crizia dice di aver appreso da bambino da suo nonno. Il sugo del mito è che ciò che sembra essere una evidenza immediata non è che una mediazione che si è dimenticata, proprio come i diluvi hanno devastato gli archivi dei Greci. Dunque la critica della scrittura della seconda scena si trasforma in una lode della scrittura, come dimostra anche un dettaglio linguistico: Crizia dice di ricordare bene quel racconto perché l'ha appreso da fanciullo come un gioco (paidia, 26c 1). Ora, paidia è in Platone, 156
normalmente, la scrittura, che viene - per un paradosso - regolarmente connessa con la- vecchiaia; insomma, la paidia è il gioco dei vecchi. Così nella irrisione delle mnemotecniche (delle scritture interne ma inerti) di lppia, che procurano genealogie che deliziano le vecchiette (Ippia Minore, 268d-e, Ippia Maggiore, 285e), così come nel Fedro (276b sgg.) e nelle Leggi (685a) è un gioco che si addice al vecchio immemore, tombé en en/ance. Ora, nel Timeo - dove i Greci paiono agli Egizi come rimbambiti dalle alluvioni-, Crizia inverte il paradigma (o lo conferma): ricorda bene il racconto d'infanzia come se la narrazione fosse impressa col fuoco, a encausto (26c 3), che è per l'appunto un richiamo al logos scritto nell'anima. 4. La quarta scena di scrittura è quella di Timeo, che racconta la costruzione del mondo a partire dalle idee. Socrate sottolinea come sia importante che sia un racconto vero e non un mito inventato (26e 4-5). Come dire che dopo tante storie finte che parlano di scrittura ce ne è una vera. Ma circa la superiorità di questo racconto rispetto agli altri è lecito dubitare, perché il culmine del mito (la costruzione delle singole cose) è per Timeo solo una narrazione verosimile, un mito, appunto (proprio come per Kant la chimica è solo una scienza empirica, dunque non è una vera scienza), e la possibilità apriori della costruzione (cioè l'aspetto non mitico) è un terzo né sensibile né intelligibile, e che si intende come in sogno. 5. La quinta scena di scrittura, ossia la genesi materiale del mondo, porta alla massima tensione il gioco di inganno e verità, dal momento che si ammette di costruire qualcosa che nel suo telos è soltanto verosimile, e che trova la sua possibilità in una chora bastarda. 4. La geometria. Un terzo corollario. Nell'heideggeriana Ursprung des Kunstwerkes, con grande finezza fenomenologica, viene descritto il modo in cui, a partire dal consistere in se stessa dell'opera, si danno i due esiti dell'esporre il mondo e del porre qui la terra, ossia, la genesi dell'intelligibile e del sensibile. Non sarebbe difficile mostrare come qui si abbia a che fare con una metamorfosi determinata della tabula rasa e del ruolo primario della ritenzione, dal momento che il costituirsi del mondo e della terra è un esito del tempo, ossia della ritenzione primaria che taglia (tempus, temno: l'esempio degli esempi presentato da Heidegger, prima delle scarpe dipinte da Van Gogh, è per l'appunto un templum) 157
il continuo dando luogo a quella discontinuità a partire da cui diviene possibile l'esperienza, sia essa storia o natura. Che qui si abbia da fare con un terzo è del resto confermato dalla insistenza sulla lacerazione, il Riss, la congiunzione-disgiunzione «originaria» a l?artire dalla quale divengono pensabili il sensibile e l'intelligibile. E però facile osservare come la versione di Heidegger sia di una audacia solo apparente, perché in fondo assume che tutta questa descrizione non delinea lo stato normale dell'esperienza, ma piuttosto un tipo specifico di conoscenza che ci verrebbe consegnata dall'arte; per cui, o si accetta che con questo abbiamo illustrato soltanto l'esperienza artistica, cioè la domenica della vita che lascia inspiegati gli altri sei giorni, oppure si è costretti a un panestetismo che - contro ogni testimonianza dei sensi - dichiara sparita la realtà per far posto al virtuale e al simulacro. È da questo punto di vista caratteristico che il punto di partenza di Derrida sia invece l'origine della geometria. La costruzione geometrica è stata tradizionalmente il modello di tutte le costruzioni, come è attestato dal richiamo kantiano a Talete (KrV, B XI-XII). Kant prosegue illustrando i limiti di questo costruzionismo nella sua applicazione alla filosofia, che risulta assegnata al dato; così, già Pascal aveva pronunciato una sentenza famosa: «ce qui passe la géométrie nous surpasse» - ciò che segna i limiti esatti della potenza umana. Ora, Derrida sottolinea piuttosto come la stessa costruzione, anche geometrica, è circoscritta da un limite oggettivo, il fatto che il costruire suppone un atto minimale del ritenere. Specializzandosi nelle forme della matematica e della geometria, ma traendo le proprie risorse dalla propria origine, la scrittura appare come la più alta possibilità di ogni costruzione (Introduzione a I:origine de la géométrie: 86). A questo livello, il ruolo della ritenzione nella costruzione si manifesta anzitutto nel problema della costituzione della idealità e, ancor più, nella sua tradizionalizzazione: apparentemente, e nel suo principio ideale, il teorema di Pitagora e le verità scoperte da Euclide restano tali indipendentemente dalle forme della loro trasmissione. E tuttavia (con un movimento che sembra intrecciarsi nuovamente col De memoria), il mantenimento e la riattivazione della presenza ideale viene a dipendere dalla intersoggettività, indi dalla traccia in generale. Senza la scrittura, Talete, che aveva sperimentato sulla sabbia la potenza della costruzione, sarebbe confinato nella sua finitezza 158
mnestica (è la base dei discorsi «antiplatonici» sulla scrittura in Bacone, Cartesio e Leibniz, che ne lodano la facoltà di trasporre al1' esterno ragionamenti che finirebbero per ingombrare la memoria e l'immaginazione), e, ancor più, le sue scoperte -e con questo la possibilità del progresso - sarebbero minacciate dalla finitezza storica di un uomo o di una generazione (prima della scrittura, «l'art perissoit avec l'inventeur», scrive il Rousseau del Discours sur !es sciences et !es arts, recepito da Kant nello scritto sul Muthmaszlicher An/ang der Menschengeschichte). Indipendentemente dal fatto, che continua a non apparirci adiaforo, che diversamente da Heidegger non si ha da fare con l' origine dell'arte, ma con quella della geometria, ossia della /orma della verità in generale, qui non abbiamo a che fare solo con una possibilità della storicità trascendentale. Senza la ritenzione noi non già saremmo senza la scienza, ma senza il mondo. L'«atto» del ritenere è un tagliare, introduce una discontinuità in un flusso continuo che non è ancora esperienza: è l'immagine dell'esercito in rotta che Aristotele presenta negli Analitica posteriora (100a 1015), argomentando che l'esperienza ha inizio in modo analogo a quando uno dei fuggiaschi si ferma, e la falange si ricompatta. Ora, in questa prospettiva, diviene implausibile l'ipostatizzazione di una temporalità originaria, perché il tempo è già sempre secondo. Questa medesima tendenza ipostatizzante si ravvisa in Heidegger - et pour cause - nella determinazione della immaginazione trascendentale: come Hegel non sarebbe stato capace di pervenire a una temporalità originaria, ripetendo il tempo spazializzato della tradizione da Aristotele innanzi, così Kant, secondo la prospettiva offerta in Kant und das Problem der Metaphysik, si sarebbe ritratto di fronte all'abisso costituito per l'appunto dalla immaginazione trascendentale, come ceppo comune di sensibilità e intelletto. Prova ne sarebbe che nella seconda edizione dello Hauptwerk kantiano il ruolo della immaginazione verrebbe prevalentemente assunto dall'intelletto. Qui Heidegger omette di considerare che ciò che resta immutato è più decisivo, ossia il capitolo sullo schematismo (quanto dire la pragmatica cui è deputata l'immaginazione); e soprattutto che nella deduzione della seconda edizione il richiamo alla immaginazione come facoltà di ritenere la percezione in assenza del percetto è un rafforzamento della esigenza di ritenzione come possibilità della costituzione. Quanto al resto, non è che que159
stione di nomi: se l'immaginazione, come terzo, è, al modo della chora, un figurante che recita tutti i ruoli, non c'è nulla di regressivo nell'assegnarne delle funzioni all'intelletto. Il fatto è che il terzo non si può nominare, a meno di perderlo, e proprio per questo Derrida insiste (Marges: 28) sul fatto che non c'è nome per la différance, oppure che la traccia pura non esiste, la di/férance essendo, secondo la prospettiva della Grammatologie, l'articolazione.
IV
1. Il terzo. In Glauben und Wissen, Hegel muove dalla critica del finitismo (e dunque anche dell'empirismo) illuministico; però il movimento porta alla determinazione trascendentale di tutto l'empirico. La ricerca di Hegel, sulla scia di Kant, si orienta verso la determinazione di un «terzo», che stia all'origine di empirico e trascendentale. Per arrivare veramente a un infinito che non sia l'ombra del finito - questa l'ossessione della filosofia, e non solo nell'empirismo ma, tipicamente, in Cartesio-, è necessario non già pensare il primo o il secondo, ma il terzo che li deborda a partire dal suo eccesso, secondo la definizione della immaginazione trascendentale in Kant, che Derrida recepisce nella sua caratterizzazione della traccia. La verità, infatti, non può essere ingannata da una simile «consacrazione della finitezza» (Gesammelte Werke, ed. Buchner-Poggeler, IV: 323 ). Pensare il terzo significa dunque non ritornare al primo come presunto fondamento del secondo. La traccia, infatti, non è il sensibile che sta all'origine dell'intelligibile, ma ciò che si iscrive come sensibile e, all'atto dell'iscrizione, si salva come intelligibile (dunque sarebbe arduo definire la traccia come eminentemente sensibile, e lo stesso può dirsi, lo abbiamo appena visto, della tavola e della chora). Proprio a questo, ci pare, si riferisce Hegel quando osserva che l' oltrepassamento della prospettiva finitistica si dà in Kant per due vie, quella della immaginazione trascendentale (come terzo, fonte comune di sensibile e intelligibile) e quella della deduzione della terza categoria dalle prime due, all'atto della definizione della tavola delle categorie. Dietro a questo elogio, c'è l'idea della costruzione (e il rimprovero a Kant, che sarà ripetuto nello Zusatz al § 262 della Enzyklopiidie, di essere stato troppo timido nel costruzionismo); ma la co161
struzione non è tratta dal nulla, viene dal terzo, ossia dalla ritenzione come la sua possibilità. Il giudizio, infatti - ogni giudizio -, ha un soggetto (empirico e particolare) e un predicato (universale). La sintesi di questi due termini è una unità «originaria». Sulla originarietà di questo originario si appuntano le inquietudini di Derrida, che si focalizzano sul problema di come tutto possa incominciare con una complicazione, con una sintesi che sbarra la via a una origine semplice, secondo la tesi esposta sin da Le problème de la genèse dans la philosophie de Husserl (pp. 12-13 ), che delle opere successive costituisce a tutti gli effetti la sinopia. La sintesi è ritenzione originaria - il non scritto della tabula-, cioè la ritenibilità: è sintesi come sintetizzabilità prima di essere sintesi di questo e di quello; come scrive Hegel, è «sintesi assoluta, assoluta nella misura in cui non è un aggregato di unità raccogliticce», e così i giudizi sintetici apriori sono possibili per via della «originaria unità assoluta dell'eterogeneo» (GW: 328). Vale a dire, ancora una volta, che sono possibili in forza della ritenibilità garantita da una tabula che sorge nell'atto del tracciarsi di una linea, di una tavola che scrive se stessa scrivendo il mondo. Ma è quanto dire che i giudizi sono apriori in quanto sono aposteriori, allo stesso modo che la massima produttività della immaginazione consegue dalla sua riproduttività che la pone all' «origine» del tempo. Per questo l'immaginazione va vista per Hegel non come medio ma come originario, ciò che è recepibile solo se si assuma appunto il carattere complesso dell'originario, che si determina après coup. Ciò che lo stesso Hegel chiarisce quando rimprovera a Kant di essersi espresso male, vedendo nell'apriori una unità pura «cioè non originariamente sintetica» (GW: 330), dal momento che il senso della deduzione va visto nel mostrare che fenomeno e cosa in sé esistono solo nella loro unione - ossia nella convergenza, il terzo, dei due fogli del Wunderblock. Per questo il merito di Kant sta nell'aver mostrato.come la vera forma è triplicità, in cui si depone il germe dello speculativo, poiché ivi si trova sia la possibilità della dualità, sia la «aposteriorità stessa», che non è più «assolutamente opposta all' apriori», il quale perciò non si presenta più come vuota identità formale (GW: 335). È proprio la tabula nella versione hegeliana: la tavola arciscritta, che, per inflazione di tracce, torna ad essere cera vergine, così come la moneta, per la troppa usura, regredisce a metallo. 162
Non si tratta quindi di dire che l'intelligibile è l'ombra del sensibile, ma di pensare un medio esorbitante. Ogni filosofia trascendentale è quasi-trascendentale, mentre una filosofia «soltanto» trascendentale non sarebbe neanche trascendentale, dal momento che non riuscirebbe ad assolvere gli oneri della costituzione. Si tratta allora di portare sempre di nuovo l'occhio sul processo, sulla différance che assicura il transito dal finito all'infinito, dal passivo all'attivo, e inversamente. Ciò che è interessante, per il ragionamento che si è cercato di svolgere, è che qui, ben lungi dall'assistere a una consacrazione del finito (e non c'è consacrazione che non lo sia), si ha da fare con una implicazione necessaria di finito e infinito, passivo e attivo, estetica e logica, aposteriori e apriori, senza che nessuno dei due termini possa assumere un valore eminente, trattandosi (e il caso dello schematismo è esemplare) di due prestazioni della traccia che salva il sensibile costituendo l'intelligibile e di qui, nuovamente, attraverso il tempo, assicurando la possibilità dell'esperienza. Questo spiega perché Kant possa sostenere che l'immaginazione interviene già nella percezione (dunque è un giudizio dei sensi), e che la sintesi non la acquisisco dall'esperienza (dal momento che ne è la possibilità); che la sintesi dell'intelletto è solo logica (KrV, B 152), e che la sintesi in generale è il risultato della immaginazione (Kr V, A 7 8, B 103). Si tratta di un processo analogo a quello che induce Kant, tra lo stupore degli interpreti, a dire che la sintesi riproduttiva della immaginazione rientra fra le facoltà trascendentali dell'anima (KrV, A 102). Ma lo stupore si appiana se si assume che produttivo e riproduttivo conseguono da una distinzione tra apriori e aposteriori che nel suo fondamento è temporale, e che il tempo è un risultato della sintesi e della traccia. Così, nel giudizio riflettente, l'oggetto è dato prima della legge (appunto secondo i caratteri della esemplarità dell'esempio), il che introduce una «storicità singolare» (La vérité en peinture: 60), che introduce, già al livello della percezione, ciò che sul piano della coscienza Freud caratterizza come Nachtriiglichkeit. 2. La ragione. Questo terzo è la ragione, che Hegel, in Glauben und Wissen, rimprovera a Kant di trasformare troppo presto in qualcosa di condizionato, cioè, di nuovo, nell'intelletto. Ora, però, si tratta di vedere sino a che punto Kant sia finitista in questa scel163
ta. Come osserva Derrida leggendo la terza Critica, l'intelletto e la ragione si articolano attraverso un membro intermedio (Mittelglied), che è il giudizio (Urteil), che, paradossalmente, è una parte staccabile e non staccabile, ossia, al modo di Hegel, una parte originaria (Ur-teil) (ivi: 45). È evidente che quello che si dice del1' articolazione di ragione e intelletto vale anche della sintesi di intelletto e sensibilità attraverso lo schematismo. Questa sintesi disgiuntiva è opera del segno: si stacca un rappresentante, segno o simbolo (bello come simbolo della moralità, ipotiposi, Spur, Chzf /reschrz/t, Wink), a partire dal quale la congiunzione diviene possibile. A buon diritto Derrida scrive, nella Grammatologie, che il senso dell'essere è forse una traccia significante determinata: un semplice ente presente, e insieme l'informe di cui è ricordo e annuncio. Tra concetto e presentazione si stabilisce dunque un rapporto di mutuo scambio. È, per esempio, il caso del colossale nella Kritik der Urteilskra/t. Qui Kant scrive che «Kolossalisch (. .. ) wird die bloBe Darstellung eines Begriffs genannt, die fiir alle Darstellung beinahe zu groB ist» (§ 26). L'edizione dell'Accademia, seguita da Weischedel, sceglie appunto die (Akademie-Ausgabe, V, 253, 10), mentre Vorlander accoglie der (riferito dunque a Begriff e non a Darstellung), perché der stava nell'errata della prima edizione, anche se la seconda e la terza edizione hanno mantenuto die. Rilevando questa oscillazione tra concetto e rappresentazione, Derrida (La vérité en peinture: 165) si chiede se, alla fine, non sia lo stesso, dal momento che la presentazione di qualcosa che è troppo grande per presentarsi produce sempre una inadeguazione del concetto rispetto a se stesso. Se questo luogo sembra particolarmente significativo (e in particolare, più dell'inizio del capitolo sullo schematismo, dove Kant scrive - B 17 6, A 13 7 -, stupendo alcuni interpreti, come Vaihinger, che pensarono a un refuso, che si intuisce la rotondità nel circolo e la si pensa nel piatto), è perché qui non si può dar adito a una protesta di semplice empirismo. In altri termini, dire che la rotondità si pensa nel piatto può dare il via a una tematizzazione più o meno lockeana secondo cui le idee non sono che immagini empiriche ampliate, e che dunque il pensiero non è che la traccia della sensazione, dove però l'attenzione si polarizza sulla sensazione, e non sulla traccia. Dire invece che nel colossale la rappresentazione è inadeguata al coricetto, o il con164
cetto alla rappresentazione (come è appunto nel caso del rapporto tra idee estetiche e idee della ragione) significa mostrare che ciò che si presenta è per l'appunto la traccia di un informe, che insieme si dà e si nasconde nella forma, secondo un processo il cui funzionamento è assicurato dalla traccia. La traccia è l'unione assoluta (dunque anche l'assoluta disunione, il differenziale) di sensibile e intelligibile, e questo spiega il suo valore sopraordinato rispetto al concetto e alla rappresentazione. È, letteralmente, la formulazione di Derrida (Marges: 206n.): la traccia non è il misto, il passaggio tra la forma e l'amorfo, ma ciò che, sottraendosi a questa opposizione, la rende possibile. Abbiamo detto unione assoluta (con tutti i paradossi di questo legame che slega) perché ichnos viene prima del logos, e anche prima del numero, come il nesso di tutti gli illimitati legati dal limite di cui è questione nel Filebo (27 d), che il giovane Schelling riprenderà nelle sue postille al Timeo: un terzo genere che, come la chora, «non è misto soltanto di due certi elementi, ma è il genere di tutti gli elementi infiniti i quali siano stati legati dal finito». La contrapposizione reale e metafisica tra sensibilità e intelletto, aposteriori e apriori, passività e attività, e, ovviamente, finito e infinito, viene da un assoluto icnologico, il legame senza legame che in La voix et le phénomène (114-115) Derrida sintetizza nel principio secondo cui la differenza infinita è finita. Finitismo assoluto, dunque, che, in quanto assoluto, comprende anche il suo altro. Finitismo della vita mista di piacere e intelligenza nel Filebo, così come dell'identità tra legame e slegarne nell'assoluto secondo Hegel, o, per riprendere il linguaggio iperdialettico del mémoir derridiano del 1954, dialettica tra il dialettizzabile e il non dialettizzabile. 3. Vassoluto. Un ultimo corollario. Ci si può domandare che senso abbia andare alla ricerca di terzi, dal momento che non si ha da fare che con primi e con secondi. Nelle numerazioni arcaiche, il tre designava l'illimitato, ossia tutti i numeri superiori alla monade e alla diade (e per questo si ritiene che «tre» abbia lo stesso etimo di trans). Incamminandosi sulla strada del terzo, non ci si rende ridicoli? Secondo Diogene Laerzio (Vita Platonis, 26), il comico Teopompo, nell'Autochares, irrideva Platone attribuendogli la sentenza «Uno è nulla; due a mala pena uno», come a ironizzare su una insoddisfazione verso il sensibile e l'intelligibile che era 165
la premessa negativa di una Schwà'rmerei che si sarebbe scatenata nel Timeo. E poi, si potrebbe aggiungere, il ridicolo è il meno; il fatto è che la ricerca del terzo è pericolosa, se solo si pensa agli esiti (dall'assolutismo della coscienza a quello dello stato) della definizione kantiana della ragione come facoltà dell'incondizionato. Anche per questo la religione dei nostri tempi ha puntato sull' empirico-finito, sul positivo e sul dato, con qualche franchigia per supplementi d'anima compulsivi (come l'arte assunta regolarmente quale dominio della irrealtà), e ha mantenuto, quanto al resto, un maestoso silenzio. Così, se l'invasione del linguaggio è stata la penultima moda, prima della invasione dell'etica, è perché fra i due termini c'è una continuità genetica. Dapprima, con l'identificazione di essere e linguaggio, si mette da parte il richiamo al valore fondamentalmente gnoseologico della filosofia, e si pongono le basi per l'appello esistenzialistico secondo cui siamo su un piano in cui ci sono soltanto uomini. A questo punto non restano che l'etica, la politica e la storia. Ma in entrambi i casi si assiste al preliminare mettere tra parentesi di ciò che definisce come limitati gli ambiti dell'etica e del linguaggio, così che il finitismo illimitato della nostra epoca conserva un rapporto non analizzato con l'infinito, ma si rifiuta di affrontare il problema delle condizioni genetiche di finito e infinito, se non con l'appello a una cattiva infinità che è in effetti una lode del finito. La situazione è aggravata dal fatto che non ci sono neppure grandi motivi per rallegrarsi degli sparsi tentativi di tener fermo all'infinito, o di gettare uno sguardo sul terzo. «Di ciò di cui non si può parlare bisogna tacere», però, quando se ne faccia più che un'ovvia norma del galateo, scientifico o d'altro tipo, diviene un detto falsamente profondo, proprio perché parlare o tacere non cambia una virgola, e quest'ultima è una delle tante prestazioni non linguistiche dell'alfabeto. Dire che «di ciò di cui non si può parlare, bisogna scrivere», cambierà meno che mai, se per «scrittura» si intende una prestazione empirica, che, in più, resterà nell'incertezza quanto al fatto che qualcuno abbia letto (al telefono non abbiamo bisogno di confer,me, nei fax invece è assolutamente necessario). Non di questa parola o di questa scrittura è questione, e nemmeno di dilettarsi di occultismo guardando in un buio che, se è davvero tale e totale, non potrà mai essere mitigato da un adattamento, quello per cui si dice, sbagliando, che 166
i gatti vedono al buio. La filosofia è pensare ciò che è - ossia, per quanto abbiamo suggerito: che cosa c'è-, anche se, come è molto probabile, in un gran numero di circostanze (e non solo nella morte) il saperlo non cambia nulla; per poco che talora possa essere, il sapere, il saperlo, è qualcosa; proprio per questo la filosofia non può permettersi finzioni né raccontare storie. E se Derrida ha non solo coniato, ma anche dato la sola interpretazione tenibile della sentenza «di ciò di cui non si può parlare, bisogna scrivere», non voleva certo suggerire che questo scrivere sia una risorsa estrema e rara cui si ricorre quando si resta senza parole, quando si ammutolisce davanti a un arcano; suggeriva piuttosto che si scrive prima e dopo che si parla, insomma che si scrive sempre, anche se può capitare di non saper come, allo stesso modo in cui si usano continuamente le mani, senza sapere come funzionano (e il saperlo o il non saperlo non cambia nulla). Pensare ciò che è, però, comporta allora - e su questo punto non siamo più sicuri di seguire Derrida - privilegiare la sintesi rispetto alla disgiunzione. Non riusciamo insomma a considerare come una sfortuna il fatto che la dialettica sia la padrona assoluta; solo per lei un resto ritornerà. O, nel latino della Vulgata: Reliquiae convertentur reliquiae inquam Iacob ad Deum/ortem (Isaia, 10, 21).
JACQUES DERRIDA, BIBLIOGRAFIA
La presente bibliografia, che si è giovata dell'apporto dell'ampia bibliografia dattiloscritta di E. Weber, che teniamo a ringraziare, riporta i libri e le loro eventuali traduzioni italiane (sezione I), i contributi apparsi in opere collettive, le prefazioni, gli articoli (sezione II). Non sono compresi gli articoli poi raccolti in volume, gli estratti da opere già pubblicate, le interviste (tranne quelle raccolte in volume) e le traduzioni di articoli, o le traduzioni in altre lingue (anche in questo caso, escludendo quelle raccolte in volume). Di norma, si danno i titoli nella data e nel luogo della loro prima pubblicazione in francese, tranne il caso di testi apparsi solo in altre lingue, o raccolti in volume in lingue diverse dal francese. Bibliografie più estese si potranno trovare in M. Ferraris, Postille a Derrida, cit.: 287-307 (aggiornata al 1989, comprende gli articoli raccolti in volume e la riedizione di estratti); J. Derrida-G. Bennington, Jacques Derrida, Seuil, Paris 1991: 329-76 (aggiornato al 1990, comprende anche la letteratura secondaria); P. Kamuf, a c. di, A Derrida Reader between the Blinds, Columbia UP, New York 1991 (con particolare attenzione alle traduzioni e alla letteratura secondaria anglo-americana); M.L. Mallet, a c. di, Le passage des frontières, Galilée, Paris 1994: 581-84 (letteratura primaria sino al 1993); P.V. Zima, Die Dekonstruktion: Einfuhrung und Kritik, Francke, Tiibingen-Basel 1994 (versione abbreviata: La déconstructzon. Une critique, P.U.F., Paris 1994; con particolare attenzione per la letteratura secondaria in lingua tedesca).
I. LIBRI
1953-54
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171
Paris (Introduzione a Husserl «L'origine della geometria», trad. it. e intr. di C. Di Martino, Jaca Book, Milano 1987). 1967
- De la grammatologie, Minuit, Paris (trad. it. di AA.VV., Della grammatologia, Jaca Book, Milano 1969). - L'écriture et la di/férence, Seuil, Paris (trad. it. di G. Pozzi, La scrittura e la differenza, Einaudi, Torino 1971; nuova ed. con una intr. di G. Vattimo, ivi 1990).
- La voix et le phénomène. Introduction au problème du signe dans la phénoménologie de Husserl, P.U.F., Paris (trad. it. di G. Dalmasso, Lavoce e il fenomeno. Introduzione al problema del segno nella fenomenologia di Husserl,Jaca Book, Milano 1968; seconda ed. con intr. di C. Sini, ivi 1984). 1972
- La dissémination, Seuil, Paris (trad. it. di S. Petrosino e M. Odorici, La disseminazione,Jaca Book, Milano 1989). - Marges - de la philosophie, Minuit, Paris. - Positions, Minuit, Paris (trad. it. di M. Chiappini e G. Sertoli, a c. di G. Sertoli, Posizioni, Bertani, Verona 1975). 1974
- Glas, Galilée, Paris. 1976
- L'archéologie du frivole. Lire Condillac, Denoel-Gonthier, Paris (ed. or. 1973, nuova ed. Galilée, Paris 1990; trad. it. di M. Spinella, intr. di M. Ferraris, L'archeologia del/rivolo. Saggio su Condillac, Dedalo, Bari 1992). - Eperons. Sporen. Spurs. Sproni, testo quadrilingue, con una intr. di S. Agosti, Corbo e Fiore, Venezia (nd solo fr. Eperons, Flammarion, Paris 1978; nella sola trad. it. a cura di S. Agosti, Sproni. Gli stili di Nietzsche, Adelphi, Milano 1991). 1978
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- Sopra-vivere, trad. it. di G. Cacciavillani, Fdtrindli, Milano (trad. di un saggio compreso in Parages, infra). 1983
- D'un ton apocalyptique adopté naguère en philosophie, Galilée, Paris (trad. it. di A. Dell'Asta e P. Perrone, Di un tono apocalittico adottato 172
di recente in filosofia, in G. Dalmasso, a c. di, Dz~Segno, La giustizia nel discorso,Jaca Book, Milano 1984). 1984 - La filosofia como instituci6n, trad. spagn. di A. Azurmendi, intr. di V. Gomez Pin, J uan Gran eia, Barcelona.
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- De l'esprit. Heidegger et la question, Galilée, Paris (trad. it. di G. Zaccaria, Dello spirito. Heidegger e la questione, Feltrinelli, Milano 1989). - Feu la cendre, Editions des femmes, Paris (trad. it. di S. Agosti con testo a fronte, Ciò che resta del fuoco, Sansoni, Firenze 1984). - Psyché. Inventions de l'autre, Galilée, Paris. - Ulysse gramophone. Deux mots pour Joyce, Galilée, Paris. 1988
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- L'Autre cap. Suivi de La démocratie ajournée, Minuit, Paris (trad. it. e cura di M. Ferraris, Oggi l'Europa, Garzanti, Milano 1991). - Choral Work (con P. Eiseman), Architectural Association, London. - Circonfession, in]. Derrida-G. Bennington, Jacques Derrida, Seui!, Paris.
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- La mano di Heidegger, trad. it. di G. Scibilia e G. Chiurazzi, intr. di M. Ferraris, Laterza, Roma-Bari. 1993
- Khora, Galilée, Paris. - Passions, Galilée, Paris. - Retorica della droga, trad. it. di C. Verbaro, Theoria, Roma (ed. or. in «Autrement», 106, aprile 1989).
- Sauf le nom, Galilée, Paris. - Spectres de Marx, Galilée, Paris (trad. it. di G. Chiurazzi, Spettri di Marx. Stato del debito, lavoro del lutto e la nuova Internazionale, Cort~a, Milano 1994). 1994
- «Essere giusti con Freud». La storia della follia nell'età della psicoanalisi, trad. it. di G. Scibilia, intr. di P.A. Rovatti, Cortina, Milano. - Force de loi, Galilée, Paris. - Politiques de l'amitié. Suivi de l'Oreille de Heidegger, Galilée, Paris (trad. it. di G. Chiurazzi, Politiche del!'amicizia, Cortina, Milano 1995; non comprende l'Oreille de Heidegger, tradotto in La mano di Heidegger, cit.). 1995
- Mal d'archive, Galilée, Paris (trad. it. di G. Scibilia, Mal d'archivio, Filema, Napoli 1996).
- Moscou aller-retour (seguito da una conversazione con N. Autonoma, V. Fodoroga e M. Ryklin), Editions de l' Aube, Paris. 1996
-
Apories, Galilée, Paris. Echographies (con B. Stiegler), Galilée, Paris. Monolinguisme de l'autre, Galilée, Paris. Résistences. De la psychanalyse, Galilée, Paris.
II. ARTICOLI
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1967 - La linguistique de Rousseau, «Revue internationale de philosophie»,
82. 1968
- Culture et écriture: la proli/ération des livres et la/in du livre, «Noroit», 127 e 130.
- Débat avec ]acques Derrida, «Noroit», 132. 1970
- D'un texte à l'écart, «Les Temps Modernes», 284. 1972
- Edmond ]abès aujourd'hui, «Les nouveaux cahiers», 31. 1974
- Mallarmé, in Tableau de la Littérature Française, Gallimard, Paris (trad. it. di M. Ferraris in S. Mallarmé, Poesie, Mondadori, Milano 1990). 1975
- A-coup, «Digraphe», 6. La philosophie et ses classes, «Le Nouvel OhservateuD>, 541. Economimesis, in AA.VV., Mimesis des articulations, Flammarion, Paris. La philosophie re/oulée [sulla riforma Hahy], «Le Monde de l' éduca-
tion», 4.
Pour la philosophie, «La Nouvelle Critique», 84. Une lettre de ]acques Derrida à La Nouvelle Critique, «La Nouvelle Critique», 85.
Le Voyage du Dessin, in De"ière le miroz'r, Maeght, Paris. 1976
- Fors, pref. a N. Ahraham e M. Torok, Cryptonymie. Le Verbier de l'Homme aux Loups, Flammarion, Paris (trad. it. di M. Ajazzi Mancini, F(u)ori, in Idd., Il verbario dell'uomo dei lupi, Liguori, Napoli 1992). Lettre, «Archives des Lettres Modernes», 160. Où commence et comment /init un corps enseignant, in G.R.E.Ph. (Groupe de recherches sur l'enseignement philosophique), Politiques de la philosophie, a c. di D. Grisoni, Grasset, Paris (trad. it. di S. Petrosino, Dove comincia e dove finisce un corpo insegnante, in G. Dalmasso, a c. di, Il corpo insegnante e la filosofia, Jaca Book, Milano 1980).
Où sont les chasseurs de sorcières?, «Le Monde», 1.7. 1977 - G.R.E.Ph., Qui a peur de la philosophie?, Flammarion, Paris. - Scribble. Pouvoir I écrire, pref. a W. Warburton, Essai sur !es hiéroglyphes des égyptiens, Auhier, Paris.
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- Le Colossal, «Erres», 6-7. - Legs de Freud, «Etudes Freudiennes», 13-14. - Table ronde avec le G.R.E.Ph.: Qui a peur de la philosophie?, «Noroit», 224-227. 1979
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INDICE
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VII
3
I, p. 5 - Il, p. 18 - III, p. 32 - IV, p. 54 - V, p. 64 - VI, p. 90 - VII, p.96
Che cosa e'è?, di Maurizio Ferraris
109
I, p. 111 - Il, p. 130 - III, p. 147 - IV, p. 161
Jacques Derrida, bibliografia
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annotazioni
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L. Borghi (a cura di) Scuola e ambiente A. Agazzi (a cura di) La formazione degli insegnanti G. M. Bertin (a cura di) Scuola e società in Italia A.W.H. Adkins La morale dei Greci E. Buonaiuti Pellegrino di Roma. La generazione dell'esodo W. A. Williams Storia degli Stati Uniti R. Villari Conservatori e democratici nell'Italia liberale L. Volpicelli (a cura di) Riforme di struttura G. Flores d'Arcais (a cura di) La ricerca pedagogica S. Valitutti (a cura di) Scuola pubblica e privata F. Ferrarotti Max Weber e il destino della ragione H. Brenner La politica culturale del nazismo M. Dal Pra La dialettica in Marx A. Ventura Nobiltà e popolo nella società veneta del '400 e '500 T. De Mauro Introduzione alla semantica A. Plebe Discorso semiserio sul romanzo P. Piovani Filosofia e storia delle idee M. Leroy Profilo storico della lingua moderna F. Sax! La storia delle immagini AA.VV. La scuola e la società italiana in trasformazione A. Martinet Elementi di linguistica generale J. Stenzel Platone educatore J. Meynaud La tecnocrazia G. Luti Cronache letterarie tra le due guerre L. Rognoni Fenomenologia della musica radicale C. Brandi Le due vie AA.VV. Il sogno e le civiltà umane J.H. Lawson Teoria e storia del cinema F. Compagna La politica della città D. Cantimori Conversando di storia G. Vacca Politica e filosofia in B. Spaventa F. Michelini Tocci (a cura di) I manoscritti del mar Morto G. Calogero Quaderno laico E. Ragionieri Politica e amministrazione nella storia dell'Italia unita P.M. Lugli Storia e cultura della città italiana R. Villari La rivolta antispagnola a Napoli F. de Saussure Corso di linguistica generale
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E. Moriondo L'ideologia della magistratura italiana C. Cellucci (a cura di) La filosofia della matematica R. Giammanco Black Power W. Leuchtenburg Roosevelt e il New Dea/ G. Di Federico La giustizia come organizzazione. Il reclutamento
dei magistrati P. Villani Feudalità, riforme, capitalismo agrario P. Goubert Luigi XIV E. Rossi Elogio della galera E. Bernstein I presupposti del socialismo e i compiti della socialdemocrazia B. Livsic L'arciere dall'occhio e mezzo S. Moravia Il tramonto dell'Illuminismo N. Merker L'Illuminismo tedesco M. Tafuri Teorie e storia dell'architettura L. Benevolo L'architettura delle città nell'Italia contemporanea J. Bouvier I Rothschild E. Garroni Semiotica ed estetica C. Castellano - C. Pace - G. Palomba - G. Raspini L'efficienza della giustizia italiana J. Laplanche - J.-B. Pontalis Enciclopedia della psicanalisi B. Munari Design e comunicazione visiva N. Tranfaglia Carlo Rosselli Aristofane Le Commedie Ph. Ariès Padri e figli nell'Europa medievale e moderna G. Kraiski Le poetiche russe del Novecento A. Santucci Sistema e ricerca in D. Hume G. Galasso Dal Comune medievale all'Unità P. Casini L'universo macchina AA.VV. Università di oggi e società di domani R.H. Robins Manuale di linguistica generale L. Colletti Il marxismo e Hegel C. Cesa La filosofia politica di Schelling A. Schmidt Il concetto di natura in Marx G. Bedeschi Alienazione e feticismo nel pensiero di Marx B. Spaventa Unificazione nazionale ed egemonia culturale R. Runcini Illusione e paura nel mondo borghese da Dickens a Orwell AA.VV. Le scienze dell'uomo e la riforma universitaria H.R. Trevor-Roper Protestantesimo e trasformazione sociale F. Yates Giordano Bruno e la tradizione ermetica G. Di Federico La giustizia come organizzazione. La Corte di cassazione V. Quilici L'architettura del costruttivismo P. Macherey Per una teoria della produzione letteraria P. Ziff Itinerari filosofici e linguistici L. Cassese La spedizione di Sapri G. Neppi Modona Sciopero, potere politico e magistratura 18701922 J. Habermas Teoria e prassi nella società tecnologica K. Allsop Ribelli vagabondi nell'America dell'ultima frontiera A. Rossi Le feste dei poveri
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L. Ganapini Il nazionalismo cattolico. I cattolici e la politica estera in Italia dal 1871 al 1914 G.M. Chiodi La giustizia amministrativa nel pensiero politico di Silvio Spaventa J. Weil La frontiera di Mosca - Il cucchiaio di legno M. Isnenghi Il mito della grande guerra da Marinetti a Malaparte C.A. Madrignani Capuana e il naturalismo R. Odorisio - M.C. Celoria - G. Petrella - D. Pulitanò Valori socio-culturali della giurisprudenza G. Cingari Mezzogiorno e Risorgimento. La Restaurazione a Napoli dal 1821 al 1830 F. Governatori Stato e cittadino in tribunale C.'Pinzani ]ean Jaurès, l'Internazionale e la guerra R. Campa Antologia dei pensiero politico latino-americano. Dalla Colonia alla seconda guerra mondiale L. Strappini - C. Micacei - A. Abruzzese La classe dei colti. Intellettuali e società nel primo Novecento italiano F. Forte - P.V. Bondonio Costi e benefici della giustizia italiana L. Formigari Linguistica ed empirismo nel Seicento inglese P. Vilar Sviluppo economico e analisi storica S. Moravia La scienza dell'uomo nel Settecento C. Gallini Protesta e integrazione nella Roma antica J. Habermas Conoscenza e interesse S.K. Saumjan Linguistica dinamica P. Sica L'immagine della città da Sparta a Las Vegas K. Marx - F. Engels Lettere sul Capitale S. Colarizi Dopoguerra e fascismo in Puglia (1919-1926) M. Bianchi La teoria del valore dai classici a Marx P. Merlin Le città nuove E. Decleva Da Adua a Sara;evo. La politica estera italiana e la Francia. 1896-1914 A. Agosti Rodolfo Morandi R. Morghen Civiltà medioevale al tramonto G. Germani Sociologia della modernizzazione. L'esperienza dell'America Latina L.J. Prieto Lineamenti di semiologia. Messaggi e segnali A. Pepe Storia della CGdL dalla guerra di Libia all'intervento. 1911-1915 R. Rosdolsky Genesi e struttura del «Capitale» di Marx J. Habermas Storia e critica dell'opinione pubblica C. Gallini Il consumo del sacro. Feste lunghe di Sardegna E. Coseriu Teoria del linguaggio e linguistica generale C. Sini Il pragmatismo americano J. Beattie Uomini diversi da noi. Lineamenti di antropologia sociale A. Pepe Storia della CGdL dalla fondazione alla guerra di Libia. 1905-1911 P. Herriot La psicologia del linguaggio R. Treves Giustizia e giudici nella società italiana S. Landucci I filosofi e i selvaggi. 1580-1780 J. Laplanche Vita e morte nella psicoanalisi G. Cera Sartre tra ideologia e storia
O. Mannoni La/unzione dell'immaginario. Letteratura e psicanalisi 725 A. Toynbee La città aggressiva 726 A. Monticone Gli italiani in uniforme. 1915-1918. Intellettuali, borghesi e disertori 727 Le Corbusier Arte decorativa e design 728 M. Mead Il futuro senza volto. Continuità nell'evoluzione culturale 729 E. Garroni Progetto di semiotica. Messaggi artistici e linguaggi non-verbali 730 R. Giolli L'architettura razionale 731 G. Costa La leggenda dei secoli d'oro nella letteratura italiana 732 C. De Seta La cultura architettonica in Italia tra le due gue"e 733 F. Pitocco Utopia e riforma religiosa nel Risorgimento. Il sansimonismo nella cultura toscana 734 F. Boas L'uomo primitivo 735 L. Canfora Totalità e selezione nella storiografia classica 736 AA.VV. Ricerche sulla cultura dell'Italia moderna 737 P. Casini Introduzione all'Illuminismo. Da Newton a Rousseau 738 M. Dardano Il linguaggio dei giornali italiani 739 F. Grassi Il tramonto dell'età giolittiana nel Salento 740/741 P. Barcellona (a cura di) L'uso alternativo del diritto voi. I. Scienza giuridica e analisi marxista voi. II. Ortodossia giuridica e pratica politica 742 R. De Fusco Segni, storia e progetto dell'architettura 743 E.A. Havelock Cultura orale e civiltà della scrittura. Da Omero a Platone 744 E. Forssman Dorico, ironico, corinzio nell'architettura del Rinascimento 745 G. Bedeschi Politica e storia in Hegel 746 V. Cappelletti Freud. Struttura della metapsicologia 747 V. Torneo Il giudice sullo schermo. Magistratura e polizia nel cinema italiano 748 G. Balandier Le società comunicanti. Introduzione all'antropologia dinamista 749 M. Dal Fra Hume e la scienza della natura umana 750 A. Pacchi Cartesio in Inghilte"a. Da More a Boyle 751 A.A. Leont'ev Teoria dell'attività verbale. La psicolinguistica in Urss 752 G. Oldrini La cultura filosofica napoletana dell'Ottocento 753 E.E. Evans-Pritchard La donna nelle società primitive 754 A.D. Nock La conversione. Società e religione nel mondo antico 755 Sh. Avineri La teoria hegeliana dello Stato 756 W. Ullmann Individuo e società nel Medioevo 757 D. Pesce Saggio su Epicuro 758 J. Ferguson Le religioni nell'impero romano 759 D. Corradini Storicismo e politicità del diritto 760 G. Sabbatucci I combattenti nel primo dopogue"a 761 N. Lipari (a cura di) Tecniche giuridiche e sviluppo della persona 762 L. Mangoni L'interventismo della cultura. Intellettuali e riviste del fascismo 763 F. Cordova Le origini dei sindacati fascisti. 1918-1926 724
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A. Balestrieri - D. De Martis - O. Siciliani (a cura di) Etologia e psichiatria M. Dal Pra Logica e realtà. Momenti del pensiero medievale P.R. Corner Il fascismo a Ferrara. 1915-1925 L. Kolakowski La filosofia del positivismo H. Warrender Il pensiero politico di Hobbes N. Lipari Diritto privato. Una ricerca per l'insegnamento F. Restaino Scetticismo e senso comune. La filosofia scozzese da Hume a Reid G. Ghisalberti Dall'antico regime al 1848. Le origini costituzionali dell'Italia moderna R. Wietholter Le formule magiche della scienza giuridica E. Ennen Storia della città medievale M. Riedel Hegelfra tradizione e rivoluzione N. Lipari (a cura di) Giustizia e informazione. Atti del XV Congresso dell'Associazione Nazionale Magistrati A. Lorenzer Crisi del linguaggio e psicanalisi W. Ullmann Il papato nel Medioevo J. Lemmon Elementi di logica M. A. Toscano Evoluzione e crisi nel mondo normativo: Durkheim e Weber E. Gentile Le origini dell'ideologia fascista. 1918-1925 J. Habermas La crisi della razionalità nel capitalismo maturo E. Garin Rinascite e rivoluzioni. Movimenti culturali dal XIV al XVIII secolo A. Quondam La parola nel labirinto. Società e scrittura del Manierismo a Napoli K. Dorner Il borghese e il folle. Storia sociale della psichiatria J. Lyons Introduzione alla linguistica teorica L. Zani Italia libera. Il primo movimento antifascista clandestino. 1923-1925 P. Llewellyn Roma nei secoli oscuri W. Euchner Diritto di natura e politica in fohn Locke A. Alfoldi Costantino tra paganesimo e cristianesimo A. Schiavone Nascita della giurisprudenza. Cultura aristocratica e pensiero giuridico nella Roma tardo-repubblicana R. Firth Noi, Tikopia. Economia e società nella Polinesia primitiva G. Pagano Architettura e città durante il fascismo H. Gouhier Filosofia e religione in Jean-Jacques Rousseau G. Barbiellini Amidei - U. Bernardi I labirinti della Sociologia N. Merker Alle origini dell'ideologia tedesca N. Luhmann Sociologia del diritto K. H. Ilting Hegel diverso. Le filosofie del diritto dal 1818 al 1831 M. Detienne I maestri di verità nella Grecia arcaica A. Tamborra Esuli russi in Italia dal 1905 al 1917 L. Formigari La logica del pensiero vivente F. Boll - C. Bezold - W. Gundel Storia dell'astrologia B. Grunberger Il narcisismo R. Firth I simboli e le mode M. Detienne - J.-P. Vernant Le astuzie dell'intelligenza nell'antica Grecia
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G. Freddi Tensioni e conflitto nella magistratura S. Timpanaro La filologia di Leopardi R. Romeo L'Italia unita e la prima guerra mondiale G. De Rosa Chiesa e religione popolare nel Mezzogiorno P. Nello L'avanguardismo giovanile alle origini del fascismo N. Dittmar Manuale di sociolinguistica E. Resta (a cura di) Diritto e trasformazione sociale B. Chiarelli L'origine dell'uomo R. e B. Chauvin Il comportamento degli animali R. Banham Ambiente e tecniche dell'architettura moderna B.L. Derwing Alle frontiere del linguaggio J.A. Davis Società e imprenditori nel regno borbonico, 1815-1860 F.]. Demers Le origini del fascismo a Cremona F. Tentori Vite e opere di Le Corbusier F. Lo Piparo Lingua, intellettuali, egemonia in Gramsci L. Compagna Alle origini della libertà di stampa G. Contento Giudice penale e pubblica amministrazione Le Corbusier Precisazione sullo stato attuale dell'architettura e dell'urbanistica M. Damus L'arte del neocapitalismo S. F. Nadel Lineamenti di -antropologia sociale A. Cederna Mussolini urbanista. Lo sventramento di Roma negli anni del consenso ].-B. Marcellesi - B. Gardin Introduzione alla socio-linguistica C. Ghisalberti Unità nazionale e unificazione giuridica in Italia P.C.W. Davies Spazio e tempo nell'universo moderno G. Vannoni Massoneria, fascismo e Chiesa cattolica C. De Seta Origini ed eclisse del movimento moderno I. Magli Introduzione all'antropologia culturale M. Serra Una cultura dell'autorità. La Francia di Vichy F. Furet Critica della Rivoluzione Francese J.M. Lotman Testo e contesto. Semiotica dell'arte e della cultura O. Cancila Impresa redditi mercato nella Sicilia moderna AA.VV. Immagini del Settecento in Italia J. Lyons Manuale di semantica P. Portoghesi Dopo l'architettura moderna M. Mida - L. Quaitlietti Dai telefoni bianchi al neorealismo W. Ullmann Ralici del Rinascimento M. Pera Popper e la scienza su palafitte I. Granata Il socialismo italiano nella storiografia del secondo dopoguerra M. Detienne Dioniso e la pantera profumata E. Cassirer Simbolo, mito e cultura D. Hay Storici e cronisti dal Medioevo al XVIII secolo J. W. Borejsza Il fascismo e l'Europa orientale. Dalla propaganda ali'aggressione M. Heidegger Kant e il problema della metafisica E. Guidoni La città dal Medioevo al Rinascimento B. Munari Da cosa nasce cosa R. Lanciani L'antica Roma G. Oldrini Il realismo di Chaplin L. Quaroni La città fisica
L.M. Colli Arte artigianato e tecnica nella poetica di Le Corbusier F. Sanguineti Gramsci e Machiavelli C. Lévy-Leboyer Psicologia dell'ambiente G. Petracchi La Russia rivoluzionaria nella politica italiana. 1917-25 857 P. D'Angelo L'estetica di Benedetto Croce 858 E. Gentile Il mito dello Stato nuovo dall'antigiolittismo al fascismo 859 A. Chastel L'uso della storia dell'arte 860 F. Dal Co Abitare nel moderno 861 M. Pera Apologia del metodo 862 K. Lowith Nietzsche e l'eterno ritorno 863 AA.VV. Uomini e re 864 B. Russe! La visione scientifica del mondo 865 A. Ja. Gurevic Le origini del feudalesimo 866 C. De Seta Architetti italiani del Novecento 867 F. Dal Co Teorie del moderno. Architettura. Germania. 18801920 868 P. Portoghesi L'angelo della storia. Teorie e linguaggi dell'architettura 869 J. Bouveresse Wittgenstein. Scienza, etica, estetica 870 G. Careri Ordine e disordine nella materia 871 G. Ryle Lo spirito come comportamento 872 F. Ferrarotti Una teologia per atei 873 J.A. Schumpeter L'essenza e i principi dell'economia teorica 874 F. Barone Immagini filosofiche della scienza 875 P. David - G. Vicarelli L'azienda famiglia. Una società a respon. sabilità illimitata 876 R. Campari Il racconto del film 877 E. Concina La macchina territoriale 878 B. Gentili - G. Cerri Storia e biografia nel pensiero antico 879 S.S. Nigro Le brache di san Griffane. Novellistica e predicazione tra Quattrocento e Cinquecento 880 E. Pellizer - N. Norzetti La paura dei padri nella società antica e medievale 881 B.A. Farrell I fondamenti della psicoanalisi 882 P. Scarduelli Il rito. Dei, spiriti, antenati 883 A. Bruno Benedetto Croce, trent'anni dopo 884 H. Scholz Storia della logica 885 F. Gabrieli Cultura araba del Novecento 886 A.J. Ayer La filosofia del Novecento 887 E. Bourguignon Antropologia psicologica 888 N. Luhmann Struttura della società e semantica 889 Catullo Poesie 890 Cornelio Nepote Gli uomini illustri 891 J. Ziman Si deve credere alla scienza? 892 S. Givone Dostoevski; e la filosofia 893 B. This Come nascono i padri 894 L. Passerini Torino operaia e fascismo 895/896 C. Muscetta (a cura di) Francesco De Sanctis nella storia della cultura, 2 voll. 897 F. Fornari La riscoperta dell'anima 853 854 855 856
P.K. Feyerabend Scienza come arte F. Tateo Chierici e feudatari dei Mezzogiorno AA.VV. Garibaldi e il socialismo U. Fabietti Il popolo del deserto A. Schiavone Alle origini dei diritto borghese. Hegel contro Savigny 903 M. Nicoletti Dentro l'architettura moderna 904 F. Héritier L'esercizio della parentela 905 E. Cassirer Da Talete a Platone 906 P. Marconi Arte e cultura della manutenzione dei monumenti 907 G. Fiocca (a cura di) Borghesi e imprenditori a Milano 908 H.I. Brown La nuova filosofia della scienza 909 C. Baudelaire I fiori del male 910 G. Cherubini L'Italia rurale dei basso Medioevo 911 M. Palumbo Immaginazione e matematica in Kant 912 A.G. Gargani Lo stupore e il caso 913 P.F. Strawson Saggio sulla «Critica della ragion pura» 914 AA.VV. La filosofia italiana dal dopoguerra a oggi 915 F. Cordova Massoneria e politica in Italia. 1892-1908 916 N. Luhmann Amore come passione 917 O. Calabrese La macchina della pittura 918 A. Monroy Alle soglie della vita 919 J. Habermas Etica del discorso 920 AA.VV. L'antropologia italiana. Un secolo di storia 921/922 AA.VV. Francesco De Sanctis. Un secolo dopo, 2 voll. 923 E. Cassirer Cartesio e Leibniz 924 L. Gianformaggio - E. Lecaldano Etica e diritto 925 L. Ferrarotti Oscar Lewis. Biografo della povertà 926 I.P. Couliano Esperienze dell'estasi 927 E. Garroni Senso e paradosso 928 G. Barbieri - P. Vidali (a cura di) Metamorfosi. Dalla verità al senso della verità 929 E. Lecaldano - S. Veca Utilitarismo oggi 930 J.Van Sickle Poesia e potere. Il mito Virgilio 931 F. D'Ippolito Giuristi in Roma arcaica 932 S. Moravia L'enigma della mente 933 M. Mamiani Il prisma di Newton 934 J. Watkins Certezza e verità per una epistemologia postpopperiana 935 G. Finzi (a cura di) Salvatore Quasimodo. La poesia nel mito e oltre 936 S.W. Carey La terra in espansione 93 7 L. Caracciolo Alba di guerra fredda 938 P. Scarduelli L'isola degli antenati di pietra 939 G. Cingari Gaetano Salvemini tra politica e storia 940 J. Ziman Il lavoro dello scienziato 941 G. Aliberti Potere e società locale nel Mezzogiorno dell'Ottocento 942 B. Williams L'etica e i limiti della filosofia 943 G. Vattimo (a cura di) Filosofia '86 944 L. Canfora Ellenismo 945 M. Ageno La b~ofisica 946 I. Hacking Conoscere e sperimentare 947 M. Niccoli Profeti e popolo nell'Italia del Rinascimento 898 899 900 901 902
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F. Selleri Paradossi e realtà. Saggio sui fondamenti della microfisica A.G. Gargani (a cura di) Il destino dell'uomo nella società postindustriale L. Laudan La scienza e i valori G. Calandra Gentile e il fascismo C. Pignato (a cura di) Pensare altrimenti. Esperienza del mondo e antropologia della conoscenza D. Marconi L'eredità di Wittgenstein G. D'Amato L'architettura del protorazionalismo G. Alciati - M. Fedeli - V. Pesce Delfino La malattia dalla preistoria all'età antica P. Di Giovanni (a cura di) Il neoidealismo italiano G. Vattimo (a cura di) Filosofia '87 G. De Liguori Materialismo inquieto G. Comba Contadini, signori e mercanti nel Piemonte medievale G. Spini - G. Cingari (a cura di) Preludi di socialismo nel XVII secolo C. Calarne Il racconto in Grecia G.C. Jocteau L'armonia perturbata. Classi dirigenti e percezione degli scioperi nell'Italia liberale P. D'Angelo Simbolo e arte in Hegel U. Artioli L'officina segreta di Pirandello M. Ammaniti (a cura di) La nascita del sé K. Mannheim Conservatorismo. Nascita e sviluppo del pensiero G. Vattimo (a cura di) Filosofia '88 R. Mac Mullen La diffusione del cristianesimo nell'Impero romano (100-400 d. C.) M. Vaudagna (a cura di) L'estetica della politica. Europa e America negli anni Trenta G. Contento Corso di diritto penale L. Canfora Le vie del classicismo A. Colquhoun Architettura moderna e storia A. Clementi-F. Perego Eupolis, la città giusta: voi. I. Periferie oggi voi. Il. Periferie in cantiere L. De Rosa (a cura di) La storiografia italiana degli ultimi vent'anni: voi. I. L'antichità e il Medioevo voi. II. L'età moderna voi. III. L'età contemporanea A. Ghisalberti Medioevo teologico G. Carchia Retorica del sublime G. Vattimo (a cura di) Filosofia '89 L. Capogrossi Colognesi Economie antiche e capitalismo moderno M. Ammaniti - N. Dazzi (a cura di) Affetti F. Frabboni (a cura di) Ambiente e educazione F. Grazzini Machiavelli na"atore G. Fanelli - R. Gargiani Pe"et e Le Corbusier. Confronti G. Petronio Restauri letterari da Verga a Pirandello M. Cagnetta Antichità classiche nell'Enciclopedia Italiana
988 A. Steiner (a cura di) Foto-grafia 989 L. Chiappa Mauri Paesaggi rurali di Lombardia. Secoli XII-XV 990 M. Mancia Nello sguardo di Narciso 991 L. Bianchi - E. Randi Le verità dissonanti 992 A. Valente (a cura di) Da Einaudi a Ciampi. Le considerazioni finali dei Governatori della Banca d'Italia. 1947-1986 993 M. Vozza Rilevanze. Epistemologia ed ermeneutica 994 G.R. Cardona I linguaggi del sapere 995 F. Agostini - G. De Rosa Vita religiosa e cultura in Lombardia e nel Veneto nell'età napoleonica 996 E. Lecaldano Hume e la nascita dell'etica contemporanea 997 A. Clementi (a cura di) Il senso delle memorie in architettura e urbanistica 998 M. Nicoletti L'avventura del progetto 999 M. Ferraris La filosofia e lo spirito vivente 1000 E. Garin Editori italiani tra '800 e '900 1001 J. Svenbro Storia della lettura nella Grecia antica 1002 M. Bettini (a cura di) La maschera, il doppio e il ritratto 1003 G. Vattimo (a cura di) Filosofia '90 1004 W. Hennis Il problema Max Weber 1005 P. Bonetti L'etica di Croce 1006 M. Ammaniti - D.N. Stern (a cura di) Rappresentazioni e narrazioni 1007 A. Trione L'ostinata armonia 1008 M. Pera Scienza e retorica 1009 M.E.L. Guidi Il sovrano e l'imprenditore 1010 G. Bartolini - F. Cardini Nel nome di Dio facemmo vela 1011 F. Prontera (a cura di) Geografia storica della Grecia antica 1012 L. Longhin e F.M. Mazzei Maisetti (a cura di) Psicoanalisi e potere 1013 G .F. Azzone Biologia e medicina tra molecole, informazione e storia 1014 U. Curi (a cura di) Metamorfosi del tragico fra classico e moderno 1015 G. Giorello - P. Strata (a cura di) L'automa spirituale. Menti, cervelli e computer 1016 B. Pellegrino Vescovi «borbonici» e stato «liberale» (1860-1861) 1017 V.M. Caferra Il sistema della corruzione. Le ragioni, i soggetti, i luoghi 1018 L. Canfora Tucidide e l'Impero. La presa di Melo 1019 M.M. Olivetti Analogia del soggetto 1020 G. Cingari - S. Fedele (a cura di) Il socialismo nel Mezzogiorno d'Italia. 1892-1926 1021 G. Vattimo (a cura di) Filosofia '91 1022 M.A. Visceglia (a cura di) Signori, patrizi, cavalieri nell'Età moderna 1023 G.P. Caprettini Semiologia del racconto 1024 E. Resta La certezza e la speranza 1025 G. Clark L'economia della preistoria 1026 A. Clementi L'Università dell'Aquila 1027 R. Simone Il sogno di Saussure 1028 M. Salvati Il regime e gli impiegati
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E. Banfi . A.A. Sobrero (a cura di)
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G. luffrida Territorio e città nell'Italia fascista M. Ammaniti · D.N. Stern (a cura di) Attaccamento e psicoanalisi
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M. Bettini Lo straniero ovvero l'identità culturale a confronto R. Pellerey Le lingue perfette nel secolo dell'utopia A.G. Gargani Il coraggio di essere. Saggio sulla cultura mitteleuropea
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N. Antonetti Gli invalidi della Costituzione M. Ridolfi Il Psi e la nascita del partito di massa R. Simili (a cura di) Scienza, tecnologia e istituzioni in Europa L. Fonnesu Antropologia e idealismo L. Gedda Recitare !'«Enrico IV» di Pirandello I. Peri Villani e cavalieri nella Sicilia medievale P. Jachia e A. Ponzio Bachtin e ... G. Bonacchi e A. Groppi Il dilemma della cittadinanza G. Vattimo (a cura di) Filosofia '92 G. Fanelli e R. Gargiani Ornamento o nudità P. Puppa La parola alta. Sul teatro di Pirandello e D'Annunzio M. Sansone Manwni francese (1805-1810) M. Bettini (a cura di) Maschile/femminile P. Emanuele Il mito dell'analisi da Aristotele a Rorty F. Tuccari I dilemmi della democrazia moderna. Max Weber e Robert Michels
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D.N. Stern · M. Ammaniti (a cura di) Psicoanalisi dell'amore G. Quagliariello La politica senza partiti M. Pelaja Matrimonio e sessualità a Roma nell'Ottocento G. Oldrini L'estetica di Hegel e le sue conseguenze S. Ferrari Scrittura come riparazione C. Natali e F. Ferrari (a cura di) Modelli di ragionamento nella filosofia antica
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G. Vattimo (a cura di) Filosofia '93 M. Onofri Storia di Sciascia E. Scribano L'esistenza di Dio. Storia della prova ontologica da Descartes a Kant
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G. Sadun Bordoni Linguaggio e realtà in Aristotele A. Groppi I conservatori della virtù. Donne recluse nella Roma dei Papi
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G.F. Azzone Il senso della vita. Natura, scienza ed etica nell'evoluzione mediante il caso G. Spadolini (a cura di) Nazione e nazionalità in Italia M. Cuaz Valle d'Aosta. Storia di un 'immagine E. Lled6 Il soko del tempo P. Horwich Verità M. Luzzati (a cura di) L'Inquisizione e gli ebrei in Italia S. Cotta e L.A. Radicati di Brozolo (a cura di) Il nuovo volto dell'universo L. Montoneri (a cura di) I filosofi greci e il piacere R. Lanfredini Husserl. La teoria dell'intenzionalità
1070 M. Morano Storia di una società rurale. La Basilicata nell'Otto-
cento 1071 V. Vitiello Cristianesimo senza redenzione 1072 G. Vattimo (a cura di) Filosofia '94 1073 P. Parrini Conoscenza e realtà. Saggio di filosofia positiva 107 4 V. Cagli Sognando l'Ippogrifo. Per un incontro tra medicina e psi-
coanalisi 1075 N. Irti Codice civile e società politica 1076 U. Artioli Il combattimento invisibile. D'Annunzio tra romanzo 1077 1078 1079 1080 1081 1082 1083 1084 1085 1086 1087 1088 1089 1090 1091 1092 1093 1094 1095 1096 1097 1098 1099 1100 1101 1102 1103 1104 1105 1106 1107 1108
e teatro A. Panepucci (a cura di) Psicoanalisi e identità di genere E. Tiezzi (a cura di) Ecologia e... P. Di Giovanni (a cura di) Platone e la dialettica M. Ammaniti - D.N. Stern (a cura di) Fantasia e realtà nelle relazioni interpersonali G. Bonacchi Legge e peccato. Anime, corpi, giustizia alla corte dei papi J. Derrida - G. Vattimo (a cura di) Annuario Filosofico Europeo. La Religione M. Terni La pianta della sovranità S. Fontana (a cura di) La Federconsorzi tra Stato liberale e Fascismo A. Pedone (a cura di) Antonio De Viti De Marco A. lsolcliJacobelli Tommaso Campanella. «Ildiversofilosofarmio» T.J. Taylor L'incomprensione linguistica M. Caffiero La politica della santità P. Di Giovanni Kant ed Hegel in Italia P. Montani Estetica ed ermeneutica R. Dworkin - S. Maffettone I fondamenti del liberalismo J. Trabant La scienza nuova dei segni antichi A. Trione Estetica e Novecento J. Hamann Scritti di filosofia del linguaggio (in preparazione) P. Frini La filosofia cattolica italiana del Novecento G. Vattimo (a cura di) Filosofia '95 V. Vitiello Non dividere il sì dal no P. Donghi (a cura di) Il sapere della guarigione G. De Rosa - F. Traniello Cesare Balbo alle origini del cattolicesimo liberale A. Clementi - G. Dematteis - P. C. Palermo (a cura di) Le forme del territorio italiano. I. Temi e immagini del mutamento A. Clementi- G. Dematteis - P.C. Palermo (a cura di) Le/orme del territorio italiano. II. Ambienti insediativi e contesti locali S. Tubert La sessualità femminile e la sua costruzione immaginaria G. Alpa L'arte di giudicare F. Curi La scrittura e la morte di Dio. Letteratura, mito, psicoanalisi G. Preterossi Cari Schmitt e la tradizione moderna T. Griffero L'estetica di Schelling N. Merker Il socialismo vietato. Miraggi e delusioni da Kautsky agli austromarxisti G. Israel La visione matematica della realtà