La voce incomparabile del silenzio 8861455603, 9788861455603

Le riflessioni e gli aforismi sulla scrittura annotati nei decenni da uno dei più grandi (e appartati) filosofi italiani

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La voce incomparabile del silenzio
 8861455603, 9788861455603

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AndreA emo

La voce incomparabile del silenzio dai taccuini

L

a scrittura è la voce incomparabile del silenzio. La sua sonorità è l’eco di tutti i silenzi; un silenzio di cui niente interrompe la loquacità. Un discorso in cui la vista si è sostituita al suono e l’astrazione alla rappresentazione visiva. Scrivere troppo è pericoloso: noi abbiamo così, sempre dinanzi agli occhi, scolpita in parole incancellabili, l’immagine di quello che valiamo, lo specchio sincero che rispecchia il nostro autentico aspetto. Mentre la memoria delle parole volanti è vaga e si lascia facilmente corrompere dalle seduzioni AndreA emo

La voce incomparabile del silenzio

Andrea Emo

La voce incomparabile del silenzio A cura di Massimo Donà e Raffaella Toffolo

Andrea Emo La voce incomparabile del silenzio Prima edizione elettronica nella collana EGAL: luglio 2013 Prima edizione cartacea nella collana HD: luglio 2013 © 2013 Carlo Gallucci editore srl – Roma è un libro della sezione EGAL per l’editoria elettronica Libro elettronico formato pdf ISBN 978-88-6145-628-0 www.galluccieditore.com

Questo libro elettronico (ebook) contiene materiale protetto da copyright e non può essere copiato, riprodotto, trasferito, distribuito, noleggiato, licenziato, trasmesso in pubblico o utilizzato in alcun altro modo, fatta eccezione di quanto è stato specificatamente autorizzato dall’editore, ai termini e alle condizioni alle quali è stato acquistato o da quanto esplicitamente previsto dalla legge applicabile. Qualsiasi distribuzione o fruizione non autorizzata di questo testo così come l’alterazione delle informazioni elettroniche sul regime dei diritti costituisce una violazione del diritti dell’editore e dell’autore e sarà sanzionata civilmente e penalmente secondo quanto previsto dalla legge 633/1941 e successive modifiche. Questo libro elettronico (ebook) non potrà in alcun modo essere oggetto di scambio, commercio, prestito, rivendita, acquisto rateale o altrimenti diffuso senza il preventivo consenso scritto dell’editore. In caso di consenso, tale ebook non potrà avere alcuna forma diversa da quella in cui l’opera è stata pubblicata e le condizioni incluse alla presente dovranno essere imposte anche al fruitore successivo.

Indice

Nota introduttiva

7

Autore 13 Scrittura

23

Parola 67 Linguaggio e letteratura

113

Biblioteca 161 Libro 167 Poesia e prosa

183

Miscellanea 221

Postfazioni Massimo Cacciari

235

Giulio Giorello

243

Massimo Donà

247

Raffaella Toffolo

259

Nota introduttiva

Andrea Emo ha scritto per tutta la vita, senza cercare confronti e senza mai rivolgersi a un possi­ bile pubblico di lettori. Gli bastavano poche, ma “stellari” amicizie (con Cristina Campo e con Alberto Savinio, ad esempio) e una famiglia cui teneva moltissimo. La sua ricerca filosofica, pur inizialmente in­ fluenzata da Giovanni Gentile, è ben presto diven­ tata una perla preziosa e originalissima. Un vero e proprio diamante incastonato nel greve brusio del­ la modernità, fieramente estraneo nonché indiffe­ rente ai tic e alle idiosincrasie del tempo cui gli era capitato di appartenere. Scriveva per “pensare”, il nostro filosofo; in­ tento ad approfondire e svolgere senza tregua le proprie ossessioni speculative, sempre in perfetta solitudine. Infatti in vita non ha mai pubblicato nulla. Ma ha scritto costantemente, riempiendo centinaia di quaderni con una scrittura fitta e regolare, carat­ terizzata da pochissime correzioni. Ha affrontato i temi più disparati, con un occhio di riguardo per le tematiche squisitamente metafisiche. Aveva par­ 7

ticolarmente a cuore anche le questioni dell’este­ tica; non a caso avrebbe insistentemente riflettuto sui “grandi” della letteratura e dell’arte del passato. Amava anche elaborare e svolgere i temi chiamati in causa dalla politica del proprio tempo. Pensava e ripensava in continuazione le pagine dell’Antico e del Nuovo Testamento, nonché le narrazioni della grande mitologia greca. Indagava con grande inte­ resse il rapporto tra scienza e filosofia. Insomma, viveva “pensando” la vita e riflettendo in continua­ zione sul destino suo e degli umani in generale. Per questa pubblicazione abbiamo estrapolato, dall’immensa mole dei quaderni (circa quattrocen­ to), alcune tra le sue riflessioni più significative intorno al tema della “scrittura”; concepito, co­ munque, in senso lato. Una questione che avrebbe costretto Andrea a fare i conti con il senso stes­ so della propria esistenza; dedicata per gran par­ te, appunto, alla scrittura di questi straordinari quaderni. Abbiamo quindi ritenuto opportuno suddivi­ dere il volume in diversi capitoli; specificamente dedicati ad alcuni dei tanti volti che caratterizzano l’esperienza della scrittura: poesia, prosa, bibliote­ ca, libro, parola, letteratura, eccetera. I frammenti del corpus emiano pubblicati in questa occasione sono stati ordinati in ordine rigo­ rosamente cronologico, per rispettare il più possi­ bile l’effettivo svolgimento della sua riflessione. 8

Ringraziamo infine la figlia Marina per averci gentilmente consentito di realizzare questo nuovo volume, che ci auguriamo contribuisca a riportare al centro della discussione filosofica contempora­ nea una delle sue voci più intense e sicuramente originali. Massimo Donà e Raffaella Toffolo

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La voce incomparabile del silenzio

Autore

Note caratteristiche: Andrea Emo, persona di poco fondamento, inetto a qualunque cosa, con qualche vena di pazzia. Con tutto ciò, qual è la cosa che io amo di più al mondo? Me stesso. (Quaderno 9, 1929)

Io scrivo sussultariamente, come un uomo am­ malato o convalescente. L’intelligenza è fallita? Ha essa chiesto un concordato ai suoi creditori perpe­ tui, i rappresentanti della vita, cioè l’azione, la fede, l’economia, l’amore? Ma può essa fallire? Non lo posso affermare. In essa io vissi e vivo come in una crisalide, come in un sogno, un sogno bello, pro­ fondo e iridescente, ma che sempre teme le dure scorze del reale, che lo facciano fuggire e nel risve­ glio misurare quella paura senza fine e quel terrore dell’esistere puro, senza attributi, senza relazioni, senza sogni e senza intelligenza, il senso dell’uni­ ca e semplice realtà. Non è questa la forza stessa dell’amore? Questa forza tanto terribile, questo senso della sua irriducibilità all’intelletto, alla cono­ scenza, alla ragione. L’amore che considera l’intelli­ 13

genza come un suo ornamento o un suo riflesso: ma che cosa è ancora l’intelligenza se essa non è tutto? Non è allora dannata e con essa tutta la nostra vita? Essa deve essere tutto; ma intanto non lo può e non lo vuole: poiché ove essa fosse tutto, quale sarebbe ancora il suo oggetto? (Quaderno 9, 1929)

Io vi parlo e agisco non per conoscere o posse­ dere le anime vostre, ma solo per conoscere e pos­ sedere la mia. È questo il modo di evocare tutte le altre anime incuriosite di poterne vedere un’altra, e disposte a seguirla appunto perché tale. (Quaderno 22, 1934)

Quando io sarò finalmente morto, dove saran­ no allora la mia coscienza, la mia esperienza, la mia cultura, la mia memoria, la mia personalità e indi­ vidualità, il futuro di cui vivo e che respiro in ogni istante presente? Nulla di tutto questo sarà soprav­ vissuto. E che cosa può sostituire questa coscienza e conoscenza? Che cos’è un’eternità o immortalità senza conoscenza o coscienza? Che rimane di noi, della nostra anima, se ci to­ gliamo coscienza, conoscenza, nozione, memoria e via dicendo? E qual è la forza che crea coscienza, nozione, ecc., restando ad esse inferiore? 14

E che valore hanno tutte queste qualità, se non hanno il carattere dell’immortalità? Noi continuiamo ad essere, noi saremo ciò che ora siamo, cioè la negazione assoluta di ciò che siamo. (Quaderno 188, 1957)

Vi sono alcune idee stravaganti che appaiono le prime volte danzando sulle cime della fantasia. Non le prendiamo sul serio, nemmeno se ne siamo gli autori; ma col tempo ci accorgiamo che queste biz­ zarre danzatrici imprimono il loro ritmo alla mente, alla vita… (Quaderno 221, 1960)

Dialogo d’amore: rendimi a me stesso affinché tu possa renderti a te stessa; se tu vorrai restare estranea a te stessa, anche io dovrò restare estraneo a me. Inseguirò te e me inutilmente. (Quaderno 229, 1960)

Si odono nelle vaste stanze delle case campestri, rumori e voci rare, isolate e semplici, che sembrano nate per generazione spontanea dal silenzio, figlie del silenzio, che si limitano a sottolineare e com­ mentare il silenzio, senza turbarlo e dandogli una 15

voce misteriosa, cioè affine al silenzio stesso. Così vi sono idee e pensieri che nascono dalla medita­ zione del nulla, pensieri che commentano il nostro nulla, pensieri che nascono puri ed eterni. Figli di una meditazione negatrice che è la nostra migliore preghiera. (Quaderno 252, 1962)

Noi dobbiamo ridurci al nulla e al silenzio; que­ sta riduzione è un movimento infinito, anzi è l’infi­ nito essa stessa: non deve però proporsi alcuna in­ tenzione, alcun vantaggio. Deve essere proseguita per puro eroismo. (Quaderno 252, 1962)

Che cosa possiamo pubblicare se non ciò che è privato e intimo, cioè più universale, perché pro­ prio a ciascuno, che gli universali astratti? Ma come pubblicare ciò che è sacro e bello finché resta pri­ vato e occulto, e diviene osceno, come ogni nudi­ tà, non appena si manifesta? Come evitare questa metamorfosi del medesimo, come salvare la castità di ciò che è intimo e privato e appunto perciò vuo­ le conoscersi, cioè esprimersi, divenire altro (cioè pubblico e formale) restando se stesso? Qual è il miracolo di una forma che è trasformazione? (Quaderno 256, 1963) 16

La gloria, cioè il consenso pubblico ci raggiun­ ge, o meglio ci insegue, né mai ci raggiunge, quan­ do dimostriamo di non avere bisogno del pubblico per la nostra salvezza, per essere; quando disprez­ ziamo il pubblico, come disprezziamo tutto ciò di cui non abbiamo bisogno, questo è il sintomo da cui il pubblico si accorge di avere bisogno di noi; altrimenti come lo saprebbe? Il pubblico disprezza e deride chi ha bisogno di lui, chi gli fa la corte, chi lo invoca per la propria salvezza o per essere. Chi cerca nel pubblico la propria celebrità e nella celebrità la propria salvezza, il fondamento della propria universalità e perciò della propria indivi­ dualità, otterrà alla lunga l’universale disprezzo, la sua sola universalità; universalità la cui espressione, in questo caso, è il silenzio e l’oblio. La più singola­ re ed efficace espressione. Ma come possiamo fare a meno del pubblico, cioè dell’universale? Come possiamo non associare il pubblico alle nostre vicende private, se vogliamo che esse abbiano una realtà e passino alla vita della loro gloria come puramente singolari? Come può il privato diventare pubblico restan­ do privato, intimo, singolo? E se non è più privato, il singolo dilegua nel pubblico che non lo apprezza più. Il pubblico si interessa al privato, vuole che di­ venti pubblico e universale, ma che resti privato. In realtà la sola universalità è quella del singolo e dell’individuo. Non esiste un’universalità in sé che 17

non sia individuale; un “pubblico” non sarà mai universale; il pubblico, il popolo deve diventare na­ zione, cioè individualità, per trovare un’universali­ tà (l’universale, l’eterno, è anche nella relatività del tempo); oppure cercarla nelle grandi individualità singole. (Quaderno 256, 1963)

L’occasione è un pensiero grave, un’universalità, una perpetua fedeltà, un assoluto, incarnati in una farfalla, simbolo dell’inconsistenza, dell’irrazionale. Eppure l’assoluto, per “vivere”, per divenire eterno ed immortale in un’opera d’arte, deve incarnarsi in una farfalla, in una irrazionale, casuale, incostante occasione. Così l’assoluto scopre la sua fedeltà a se stesso. (Quaderno 256, 1963)

La nostra giornata è una triste commedia reci­ tata da diversi personaggi, da diversi attori e figu­ re sceniche in ciascuna delle quali riconosciamo lo stesso personaggio, cioè noi. Ma ciascuno di questi noi ha assunto una convinzione irriducibile, abita una sfera impenetrabile che non può avere con le altre, come in una strana dissonanza e disarmonia prestabilita, alcun rapporto. Come passiamo da un personaggio all’altro, come assicuriamo la nostra 18

continuità o la nostra discontinuità? Come avven­ gono queste trasmutazioni alchemiche, il nostro viaggio attraverso regioni e mondi tanto diversi? Forse siamo soltanto numeri che appaiono e dispa­ iono sul comune denominatore dell’incoscienza? E testimoniano, alla fine, di essa soltanto? Come potremmo sopravvivere se fossimo un unico perso­ naggio, se realmente fossimo? (Quaderno 256, 1963)

Il filosofo è un triste personaggio che scopre dif­ ficoltà insormontabili là dove soltanto l’ignoranza di esse può consentire il progresso della scienza, l’agire e l’operare della vita. La moderna “scienza” cominciò a progredire quando eliminò la filosofia, cioè la scienza dei principi primi e dei fondamenti ultimi (cioè la contemplazione della morte), co­ minciò a progredire quando accettò l’ignoranza, la vera ignoranza, l’ignoranza di ciò che sarebbe importante sapere e che nessuno ha mai saputo o saprà; cominciò a progredire quando si arrese all’umano destino, alla volontà divina, quando ri­ nunciò a sapere. Allora cominciò il destino della scienza. I primitivi si distinsero per il fatto che essi vole­ vano sapere, conoscere non soltanto tutte le cose, ma il tutto in sé. Volevano conoscere la vita e il de­ stino e non ebbero la forza o l’umiltà di rinunciare 19

alla conoscenza del destino, cioè alla speranza di dominarlo. Pertanto non poterono mai comincia­ re a conoscere. Appunto, la ricerca del principio dell’essere o della vita non permetteva ad essi di co­ minciare a conoscere o a vivere. Così oggi il melan­ conico filosofo, vero tipo di superstite, superstite di un mondo perduto, è tuttora arroccato sui principi, che possiamo conoscere “sperimentalmente” come inconoscibili, si pasce e si bea della constatazione dell’inconoscibilità di ciò che tenta invano di cono­ scere, e, attaccato ai principi, non riesce mai a co­ minciare; né a cominciare a conoscere, né a comin­ ciare a vivere. La sua missione è di vedere, cioè di creare le difficoltà, gli ostacoli, gli abissi, i misteri. Forse in alcuni momenti della vita può essere dolce pensare che non sappiamo nulla, che i misteri esi­ stono. Il filosofo è l’uomo dell’indefinito regresso verso i principi irraggiungibili, le origini nascoste, in un mondo dedito al progresso. Ridotto in umili condizioni dal suo sovrumano orgoglio, si trova ora in dimesso atteggiamento di fronte a coloro cui l’o­ riginaria umiltà delle origini ha dato successo e po­ tenza. Ciò non toglie che la sua ostinazione, il suo regredire, il suo aderire al passato, ne faccia ancora un essere pericoloso e abitualmente apocalittico. Umile ed alto, più che creativo. (Quaderno 256, 1963)

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Noi forse scriviamo per una minoranza – per una piccola e misteriosa associazione consapevole della sua minoranza – di eletti; ma non democra­ ticamente, perché eletti dall’alto, e dall’altro. Non dai loro simili, come prevedono le nostre costitu­ zioni democratiche, appunto perché essi non han­ no dei simili. E questa consorteria dove regnerà il presente che noi siamo e preconizziamo è futura; è una consorteria di uomini non ancora nati, una consorteria di nascituri; che dovranno riconoscere in noi un riflesso dell’eterna Presenza. (Quaderno 344, 1971)

Ho ben poche frecce per il mio arco. Frecce e dardi che partono per l’illusoria destinazione dell’infinito, ma poi ritornano subito ai miei pie­ di. Sono sempre i medesimi dardi per il medesimo spazio? I dardi dovrebbero inventare essi stessi lo spazio che li sostiene. (Quaderno 372, 1975)

La scrittura è la voce incomparabile del silenzio. La sua sonorità è l’eco di tutti i silenzi; un silenzio di cui niente interrompe la loquacità. Un discorso in cui la vista si è sostituita al suono, e l’astrazione si è sostituita alla rappresentazione visiva. (Quaderno 372, 1975) 21

Scrittura

Il carattere degli uomini veri è continuamente diverso, a differenza del carattere delle marionette o maschere, che è perpetuamente uguale a se stes­ so. Nel dramma, nel romanzo, nell’opera d’arte, si deve mostrare come ogni carattere umano abbia la sua propria catarsi, la sua spirituale rinascita, la so­ luzione della propria logica, che ne fa un carattere universale e ne spiega le diversità. (Quaderno 4, 1927)

In un vero artista si nota anzitutto il galantuomo; egli non promette mai più di quello che effettiva­ mente dà. Le pretese, gli atteggiamenti, le intenzio­ ni, i propositi, ecc., sono sempre realizzati nell’atto stesso dell’espressione, nella realtà dell’opera. Non vi è quel solito squilibrio interno, romantico, fra le aspirazioni e i risultati – ciò che provoca nei lettori una crisi di sfiducia verso l’artista e verso l’uomo e la sua serietà; che provoca nell’artista un conti­ nuo malcontento verso di sé e verso l’opera sua; per cui sembra che l’artista voglia quasi sempre vendi­ carsi della logica della propria opera: sovrapporre 23

sé alla sua opera. Le folle si spaventano di queste incertezze dei loro condottieri, e si rifiutano di se­ guirli. Mentre invece gli scrittori classici, cioè quelli in cui intenzione e realtà, desiderio e possibilità, si equilibrano con architettonica simmetria, rivelano nell’artista l’uomo, ed è questa la più alta rivelazio­ ne cui l’artista possa giungere. Non vi sono che gli esseri deboli e impudichi che aspirino a rivelare, a mettere in mostra, nell’uomo, l’artista. Quanto sopra dimostra la necessaria superiori­ tà di tutto ciò che è classico su tutto ciò che è ro­ mantico. (Quaderno 12, 1931)

Pensare per scrivere, cioè ridurre il valore di ogni pensiero al valore dell’effetto che esso può fare (e per chi scrive, se non per il pubblico, o per dare a noi stessi, al sistema delle nostre idee e atti, un aspetto presentabile, comprensibile, valevole pres­ so il pubblico?), è diminuire il valore di tutti questi pensieri. Dove è ancora la libertà dei pensieri? Non sono essi tutti dei subordinati, schiavi, cariatidi di un sistema o di una persona? Non sono proprio quelli che obbligano il pubblico ad essere veramen­ te pubblico, lo obbligano a restare nella posizione di pubblico, ciò che il pubblico trova assai sgrade­ vole? Poiché il pubblico vuole entusiasmarsi, cioè cessare di essere pubblico: sono proprio questi 24

pensieri che fanno anche di noi stessi una parte del pubblico. Ora, l’arte, la poesia, consiste appunto nell’ob­ bligare ciascuno a diventare un privato di fronte a se stesso e a noi. Il poeta è colui che sa i nomi di tutte le cose: cioè che dà del tu a tutti gli esseri, che ne scopre e afferma la particolarità (il pubbli­ co desidera riconoscersi in qualche cosa che non sia pubblico, per esempio nell’anima dell’artista, dell’oratore, in quanto esso appunto abbia la forza di sottrarsi all’essere pubblico, si ponga come ani­ ma; e che cosa vi è di meno pubblico di un’anima?) Cioè il poeta è colui che scopre l’essenza delle cose all’infuori del sistema a cui appartengono; cioè che mostra la propria affinità con le cose, l’affinità della sua anima con la particolarità delle cose. (Quaderno 12, 1931)

È più facile scrivere il più bel poema del mondo o la più bella sinfonia che dire che cosa è la poesia o la musica. Perché infatti, mentre stiamo per defi­ nire che cosa è la poesia, siamo presi e trascinati da un tale impeto poetico, che riusciamo a dire cose belle e poetiche, ma non più quello che razional­ mente, cioè impoeticamente, dobbiamo dire (cioè intendere, e criticamente e razionalmente spiegar­ ne l’essenza) della poesia. Dire impoeticamente che cosa è la poesia, cioè ridurre la poesia a qualche 25

cosa di razionale – e dunque di impoetico –, ecco il tentativo paradossale dei critici. Ciò dimostra che la scienza di qualunque cosa è sempre un’azione diretta di un uomo sull’altro, nel cui cuore suscita realmente la poesia, non la sua immagine, e quindi la possibilità di comprenderla. (Quaderno 14, 1932)

È assurdo che uno scrittore intenda imporci, per centinaia di pagine, le sue opinioni o i suoi parados­ si. Noi preferiamo ancora i libri che non intendo­ no fare continuamente violenza alla nostra libertà interiore; che, per la loro antichità o primitività, non hanno bisogno, per essere apprezzati, di essere presi sul serio o discussi. Per esempio, il Corano, il Vecchio Testamento, i poemi omerici, les chansons de geste; essi sono una lettura piacevolissima, an­ che perché spesso non hanno alcun senso – e sono come un ritmo fondamentale sul quale liberamente si snoda e si libera la fantasia musicale e poetica, comunque personale, del nostro pensiero. Nella maggior parte dei libri moderni è proprio invece il pensiero che si vuole coartare e legare, im­ pedendogli tutte le vie di scampo, ad eccezione di quelle ove l’autore vuole, per i suoi scopi, condurlo. Questo rende tanto opprimente la lettura dei libri moderni. (Quaderno 14, 1932) 26

Scrivere troppo è pericoloso: noi abbiamo così, sempre dinanzi agli occhi, scolpita in parole in­ cancellabili, l’immagine di quello che valiamo, lo specchio sincero che rispecchia il nostro autentico aspetto. Mentre la memoria delle parole volanti, la memoria delle situazioni o delle azioni interpreta­ bili è vaga e si lascia facilmente corrompere dalle seduzioni o dai premi del nostro amor proprio; le parole scritte, invece, ci ripresentano perpetuamen­ te la testimonianza incorruttibile del loro fermo si­ gnificato, che è un significato di condanna per noi e una deposizione a carico della nostra inettitudine. L’illusione del presente e la speranza dell’avvenire addormentano facilmente la memoria, ma non pos­ sono nulla contro la verità scritta, contro la rivela­ zione delle Scritture. Ma in questo consiste anche l’utilità dello scrivere e dello scrivere molto; poiché, dal continuo sforzo e dal continuo insuccesso, si può comprendere la difficoltà e l’eccellenza di que­ sta arte di pensare ed esprimere, e per conseguenza ammirare e anche capire i veri grandi autori, spe­ cialmente in quello che vi è di più importante nelle loro opere, cioè nella loro tecnica. I profani, che non hanno mai saggiate le loro forze e, quindi, mai constatate le loro debolezze ed insufficienze, non sono in grado di apprezzare la tecnica e la vittoria dei maggiori autori, così come un profano non è in grado di capire il valore del taglio di un diamante o di una statua. 27

In questo senso anche la propria insufficienza può essere utile, purché ci si sforzi di rendersene conto. (Quaderno 18, 1933)

Vi sono due categorie di scrittori (che si disprez­ zano a vicenda): i creatori e gli analitici. I primi creano delle situazioni, dei caratteri, dei sentimenti che prima di loro non esistevano; gli altri, invece, scrivono e inventano con l’unico scopo di analizza­ re e di capire. I primi, e sono i veri classici, sembra­ no non avere alcun bisogno di capire il mondo che hanno creato, paghi di avergli dato la vita; gli altri non sono contenti se prima, di questa vita, non han­ no esaurito tutti i significati. Quando si hanno que­ sti poeti-critici, l’epoca è certamente più romantica, e in continua opposizione con quella classica della creazione: quasi a testimoniare la necessità di un nuovo mondo, la necessità di una diversa e nuova creazione. L’interesse a conoscere (o ad analizzare) qualco­ sa, è sempre una conseguenza del desiderio di cam­ biarla. E forse è anche una legge che nulla si può conoscere senza contemporaneamente mutarne le forme e l’essenza. Da che l’uomo si è messo a voler conoscere il mondo scientificamente, il mondo non fa che mutare significato ed essenza. Tanto più ciò è vero per la storia, la morale etc.; e si può anzi dire 28

che la spinta stessa a conoscere è data dal desiderio di cambiare ciò che è o che appare come essere. Forse in questo solo consiste la parentela fra il pen­ siero e l’azione. È certo che la conoscenza storica dei classici ha cambiato la visione generale del mondo come era stata creata dai classici o dal classicismo. (Quaderno 18, 1933)

Ogni scrittore, come ogni uomo, ha come suo scopo ultimo di esprimere lo spirito, l’essenza, l’a­ nima, etc., del tempo (e dell’ambiente, società, Na­ zione, etc.) in cui vive. Senonché, come i sentimenti, così quest’anima (che, infine, è anche l’anima di ciascuno), non può essere mai conosciuta né espressa direttamente. Noi non possiamo mai conoscere direttamente i nostri sentimenti, noi stessi; non sapremo mai che cosa i nostri sentimenti effettivamente sono. Perciò per questa espressione occorrono degli interme­ diari, degli spiriti fra la terra e il cielo; noi siamo sempre alla ricerca di qualche cosa che possa spie­ gare (cioè rappresentare a noi stessi) il significato e il valore della nostra anima e dei nostri sentimenti, di qualcosa che si ponga come intermediario fra noi e noi stessi. Questo intermediario è, qualche volta, l’occasione (“al par del vento / precipitosa l’occasione e lieve”, dice il Redi), nella quale scor­ 29

giamo, improvvisamente, qualche luce di intuizione o rivelazione, senza riuscire a fermarla. In genere si cercano dei mezzi di espressione, cioè di cono­ scenza, più durevoli, in cui la rappresentazione di noi e del nostro tempo possa avere un carattere di maggiore durata. In generale l’uomo ama tanto più la propria opera, quanto maggiormente in essa riesca a pervenire alla vera immagine di sé, alla vera conoscenza di sé. Così gli scrittori sono continua­ mente alla ricerca di immagini, o fatti immaginari (come romanzieri e simili), di idee astratte ritenute eterne e definitive (come i filosofi), di avvenimenti trascorsi (come gli storici), di forme e colori (come i pittori e i poeti), unicamente per arrivare, con tut­ ti questi mezzi, questi intermediari, a conoscere la propria anima e quella del proprio tempo. E questi mezzi sono tanto più espressivi, quanto più sem­ brano esteriori ed eterogenei all’essenza e all’ani­ ma. Questi mezzi possono anche essere la lotta per il potere o l’esercizio attuale del medesimo; e così, il voler stabilire regole di vita, norme di azione, come i moralisti etc. La prova, per assurdo, di quanto sopra, ci è data dai settatori della poesia, così detta “pura”, i quali vorrebbero arrivare alla poesia (cioè a se stessi e all’anima propria) direttamente; eliminando i ma­ teriali estranei, le così dette scorie, ciò che non è puramente poetico (volontà, azione, moralismo, didascalismo, pratica e perfino sentimento etc.); e, 30

in questo folle proposito di conoscenza diretta di sé e della poesia, essi riescono a comporre illeggi­ bili e simbolici criptogrammi, ma non certo della poesia. (Quaderno 18, 1933)

Uno scrittore è tanto più grande e tanto più in­ teressante, quanto maggiore è il suo coraggio di confessare quello che egli è veramente, di con­ fessare la vera natura e qualità del suo carattere. La maggior parte delle persone parla e scrive per nascondersi; lo scrittore dovrebbe essere quell’uo­ mo di eccezione che scrive per manifestarsi, per mettere le cose a posto e dire effettivamente quale è la realtà. Solo chi è sincero, chi ha il coraggio di manifestare quello che egli è (o quello che gli altri, o che le cose sono), può sperare che altri si riconosca in lui. (Quaderno 18, 1933)

Quando si pensa o si scrive, non si deve crea­ re solo il pensiero (la mente, l’anima, etc.) proprio, ma anche l’altrui. La creazione dell’interlocutore è l’espressione del pensiero, la nascita di un altro pensiero è la sua realtà e concretezza. Nell’altro si assommano tutte le difficoltà e gli ostacoli al pen­ siero, cioè tutto il contrario del pensiero; ed è di 31

questo contrario che il pensiero ha bisogno per ma­ nifestarsi; perché è di questo contrario, di questo altro, che è costituita l’espressione, ogni espressio­ ne, e quindi anche l’espressione del pensiero. Un contrario posto da lui stesso; e che cosa vi è di più contrario a noi che un’altra volontà, carattere e pensiero? E insieme di più simile? Cosa di più con­ trario all’io che il tu? (Quaderno 28, 1934)

Narrando anche nel modo più semplice la più semplice cosa, noi ne estraiamo il significato. Ogni narrazione è la trasformazione di un fatto o accadi­ mento in un significato. (Quaderno 28, 1934)

Quando rileggiamo i nostri ricordi degli anni perduti, dei tempi che furono nostri, quando rive­ diamo i “monumenti” (nel senso latino, come am­ monire) delle varie epoche del nostro vivere, rima­ niamo stupiti del contrasto tra l’inerzia, la nebbia di questi documenti superstiti e l’infinito valore, l’infinita bellezza della vita reale, che è passata e che passa. Ed è questo contrasto che vale, che co­ stituisce tutto il valore dei documenti inerti e sordi, sordo-muti. Sono essi che per contrasto rievocano il valore autentico e inesprimibile della vita che li 32

ha creati ed abbandonati; del paesaggio a cui si ri­ feriscono con la loro immobilità. Del diverso a cui accennano con la loro identità. (Quaderno 217, 1959)

Il romanzo ha valore in quanto autobiografico, ma a condizione che l’autore non lo sappia. (Quaderno 217, 1959)

Scrivere vuol dire rinunciare felicemente a dire ciò che si pensa, e anche eventualmente a dire ciò che non si pensa. (Quaderno 219, 1960)

Lo scrittore, l’artista, può essere radicalmen­ te, totalmente consapevole di ciò che dice? Non è forse questa una via mortale che impedisce ogni espressione e cioè creazione? La creazione è in­ consapevole; è fatta avendo un altro scopo. Anche l’espressione è una pura creazione; è la creazione di un mondo. La perfetta consapevolezza conduce all’astrazione. L’idea di pervenire all’arte, cioè alla creazione, mediante la perfetta consapevolezza, si può accet­ tare soltanto se la consapevolezza è consapevole di essere perfetta negazione. E con ciò la creazione 33

mediante la negazione è ancora più inconsapevole, e il mistero è ancora più profondo. (Quaderno 219, 1960)

Ciò che scriviamo è una lunga lettera ad igno­ ti, a lettori sconosciuti o futuri, che forse non esi­ steranno mai; che porteranno il nome omerico di: Nessuno. Nemo, Hercule. Nemo? Vel duo, vel nemo. È difficile scrivere una lettera a un destinatario sconosciuto; l’equilibrio portato dall’appoggio di una presenza, dalla presenza di una persona nota e reale, all’azione dello scrivere, manca; e soltanto il vuoto attira turbinosamente le nostre parole defor­ mandole con le sue temibili prospettive. Anche spiritualmente, se un giorno sarà dimen­ ticata la nostra presenza, sarà sufficiente che sia ri­ cordata la nostra assenza. Ma l’una delle due cose non va senza l’altra; benché l’assenza possa essere ricordata anche inconsciamente; una sensazione di cui non si ricorda il perché. I poeti si salvano spiritualmente grazie alla loro mancanza di scopi, alla loro rinuncia a uno scopo qualsiasi; che coincide con la distruzione dei fon­ damenti e delle origini. Questo è il valore indistrut­ tibile, questo è “l’insegnamento”, la predicazione, la misteriosa eppur tanto luminosa metafisica della poesia. (Quaderno 221, 1960) 34

Quanto più perfettamente ci esprimiamo, tanto più siamo certi di non essere compresi. (Quaderno 225, 1960)

La moderna casta sacerdotale, che è appunto la classe dei letterati, degli umanisti, degli scritto­ ri, ecc., gli uomini spirituali, è fatta da coloro che sono i più vicini allo squilibrio e alla follia, perché devono vivere contemporaneamente in due sfere, la sfera della libertà e quella della necessità. Sono necessitati alla libertà, e con ciò rinunciano per do­ vere professionale alla rinuncia, allo spirito, cioè rinunciano alla necessità, nella quale soltanto pos­ sono generarsi la libertà e lo spirito. (Quaderno 229, 1960)

In alcune circostanze il silenzio è il più riuscito degli epigrammi. (Quaderno 238, 1961)

Gli echi innumerevoli del (nel) silenzio, che in essi manifesta la propria impenetrabilità, l’impene­ trabile vacuità, restituiscono tutte le voci e i rumori senza alcuna modificazione o commento. Quando una voce si perde nel silenzio, si può pensare che il silenzio l’abbia udita; ma quando viene restituita 35

intatta nella sua identità, vuol dire che non ha tro­ vato nessuno disposto ad accettarla, cioè a modifi­ carla, nemmeno il silenzio. (Quaderno 238, 1961)

Lo scrittore è colui che pubblica; che rende pub­ blico ciò che vi è di più privato, cioè l’anima singo­ la, individuale. Mette la sua privatezza, la sua singo­ larità, la sua immagine in possesso di tutti. Secondo i primitivi chi possedeva il ritratto di una persona ne possedeva l’anima, poteva agire su di essa; l’a­ nima dello scrittore moderno, specie se impegnato, è un possesso pubblico, un luogo pubblico: egli è in potere del pubblico che lo conduce dove vuole e con tanta maggior sicurezza quanto maggiore è la presunzione dello scrittore di essere lui il duce. L’arte dell’artista dovrebbe essere quella di rimane­ re nascosto nella propria arte, nella propria opera, come la volpe nella tana; come un uomo solo in una folla; a meno che egli non riesca a difendersi dietro tutte le solitudini che ha evocate nell’animo dei let­ tori e che si collegano in alleanza difensiva, che si associano nel culto di un Dio ignoto, ignoto, come l’uomo, a sé e agli altri. Forse la divinità sa restare ignota a se stessa (di qui la sua terribilità); altrimenti come potrebbe es­ sere o restare ignota agli uomini? (dopo tante rive­ lazioni.) (Quaderno 238, 1961) 36

Forse possiamo anche concedere che noi ripe­ tiamo cose già dette, e che, ripetendole, diciamo assai male cose che altri hanno detto assai meglio, o addirittura con illimitata perfezione. Ma forse ridi­ re male e appassionatamente male concetti già va­ riamente intuiti, può essere utile perché rivela man­ canze, difetti, contrasti che sono indispensabili al progresso e che una espressione perfetta abolisce; e abolendo contrasti e vuoti e mancanze il mondo si isterilisce… nella beatitudine, nella bellezza entu­ siasticamente sterile. (Quaderno 238, 1961)

L’autore deve saper disprezzare il suo pubblico, cioè deve saperlo forzare. (Quaderno 238, 1961)

Lo studio delle lettere – e tutte le lettere sono sacre lettere – è appunto, letteralmente, lo studio di un misterioso alfabeto, lo studio delle misteriose “rime”, lo studio dei segni con cui possiamo co­ municare con i defunti, con i regni dell’infinito. È inammissibile che a noi, che siamo in tutto e per tutto soltanto tempo, sia vietato di comunicare col passato, quando il solo mezzo per comunicare col passato è appunto la poesia, l’arte, la letteratura, la storiografia, cioè il ritmo. Il ritmo che presiede alla 37

nostra esistenza, al nostro organismo, il ritmo che è arte sacra, il ritmo che è coscienza del tempo, cioè trasfigurazione del tempo; la trasfigurazione del tempo è la memoria, che appunto è essenzialmen­ te poesia, arte, musica, storia e ritmo. La memoria è infine l’unica forma della nostra coscienza; dob­ biamo scendere nel regno dei morti, con la lira di Orfeo, per trovarvi la nostra coscienza, che non è altrove; la sempre perduta Euridice. (Quaderno 242, 1961)

La penna da scrivere come mediatrice necessa­ ria tra il pensiero e l’espressione, tra il pensiero e la sua immagine. L’universo con la sua fuga da sé cerca di fuggire l’immagine della propria assurdità; ma questa fuga è proprio la sua immagine. (Quaderno 242, 1961)

Noi scriviamo non perché ciò che scriviamo ab­ bia il minimo valore, ma per un atto di fede mani­ festato come una preghiera. Noi preghiamo con la penna, per confortare con la costanza originaria, la fede vacillante e obbligata a traversare le sue gior­ nate tra l’ironia, talvolta mascherata di malvagità, delle cose inanimate e di quelle viventi; noi pre­ ghiamo per chiudere in noi stessi e in ogni istante il 38

circolo e il cielo eterno del destino; per chiudere in noi stessi il circolo magico in cui la fede e l’invitta presenza strettamente limitate e circoscritte, diven­ gono vaste come l’universo che le ignora; e tutto ritrovano nella propria inviolata solitudine. (Quaderno 242, 1961)

La funzione dello scrittore moderno può essere soltanto l’analisi del suo strumento, senza conside­ razione per ciò che questo strumento può produrre. Analisi, cioè ironia sui pensieri, analisi, cioè iro­ nia sulle parole, sulle loro povere o illustri origini, sull’ambivalenza dei loro significati, ecc. (Quaderno 242, 1961)

Noi creiamo ai nostri pensieri una distanza, una prospettiva, un orizzonte in cui li prolunghiamo fino all’infinito, fino all’ignoto. Una prospettiva che noi siamo i soli a vedere. Siamo i soli in que­ sto privilegio. Chi consideri obiettivamente i pen­ sieri altrui (o anche, i propri, quando si distaccano dall’attualità del pensiero), vede in essi soltanto delle definizioni (come Aristotele), delle limitazioni, delle classificazioni, delle categorie; cioè vede nei pensieri il contrario del pensiero. Pertanto dobbiamo perdonare l’orgoglio degli scrittori e degli uomini in genere, che vedono, soli, 39

l’al di là del loro pensiero e del loro essere (ognuno è solo a contemplare se stesso) e giustamente consi­ derano sia il loro essere che il loro pensiero un me­ raviglioso e inaccessibile miracolo. Se taluno fosse capace di vedere il proprio essere, vita, ecc., in tutto il suo rilievo (non ottuso o attutito dall’abitudine) avrebbe ragione di essere stupito. Ognuno deve sostenere e portare la propria cro­ ce sull’ardua salita: dove la conclusione della lun­ ga fatica è che egli viene poi finalmente sostenuto e portato, senza amenità, dalla sua croce. Tragica gratitudine. (Quaderno 242, 1961)

Le forze principali, anche quelle spirituali, che sono in noi, quelle che sostengono la nostra vita, sono quelle che non dobbiamo mai rivelare. Le principali e più tipiche nostre forze sono quelle di cui più ci vergogniamo; che ci vergogniamo di co­ municare e di pubblicare. Come possiamo rendere pubblico ciò che ha forza e valore in quanto è pri­ vato, individuale, ecc.? Ciò che è individuale è sa­ cro, ciò che è intimo è sacro e perciò non può essere pubblicato, cioè reso pubblico, profano e profana­ to. Ma d’altra parte la nostra individualità, la nostra intimità è anche universale; noi siamo non soltanto un’individualità, ma un mondo. E questo mondo non raggiunge la sua universalità se non quando 40

è pubblicato. Si potrebbe anche rispondere che il nostro mondo è ciò che vi è di più privato perché è la nostra anima; ora come si può pubblicare un’ani­ ma? Ora, un mondo pubblicato è un mondo in cui chiunque può accedere, o invece la pubblicazione è il pubblico divieto di accedere a un mondo univer­ sale e privato che nessuno potrà imitare, avvicinare, fare proprio, senza perdersi? La pubblicazione è un mondo che si chiude, che esce dal vago e dal generico per definirsi; diviene quindi pubblicamente noto che un mondo, un uni­ verso, ha preso un carattere, un nome, una indivi­ dualità, e perciò è divenuto una proprietà privata, su cui nessun altro potrà vantare dei diritti. Vi è un momento in cui abbiamo bisogno di un universo per salvare la nostra anima, la nostra particolarità, la nostra privatezza; il nostro mondo diviene la no­ stra fortezza, in cui ci difendiamo. (Quaderno 243, 1961)

La comunicazione suppone che vi sia qualcosa da comunicare, cioè una diversità intrinseca nel co­ municante, atta ad evocare una altrettanto essenzia­ le diversità nell’animo dell’interlocutore; due diver­ sità si intendono meglio di due identità, dove non vi è nulla da intendere. La comunicazione è appunto la presenza della diversità, che è comunicazione in sé; la diversità essendo il luogo comune dove tutti si 41

intendono perché si riconoscono. Le anime si rico­ noscono come intima diversità e squilibrio. La fantasia è l’universo fondato sul nulla; è la realtà assoluta e originaria dell’arbitrario. La fantasia è un’eternità senza legge. (Quaderno 252, 1962)

L’espressione è ciò che rende pubblico e aperto, ciò che svela impudicamente agli uomini e al tempo quanto vi è in noi di intimo e privato, più interno a noi di noi stessi. Perciò l’espressione poetica o d’altro genere è un sacrilegio e una sacra prostitu­ zione dell’intimità: e appunto in quanto sacrilega, l’espressione è sacra e feconda. E tutti la veneriamo come tipica dell’essere umano, il solo che sappia es­ sere sacrilego. Si potrebbe anche sostenere che la conoscenza di ciò che è interno, di ciò che è anima, mostrandone la complessità e la profondità, la na­ sconda, la celi, la veli. Non vi è quanto il tentativo di conoscersi per rendersi inconoscibili. (Quaderno 252, 1962)

Anche tra gli scrittori, coloro che raggiungono gli universali non sono coloro che li cercano o li esprimono direttamente e coscientemente, bensì quelli che si occupano solo del contingente, del particolare, del momentaneo ed eventualmente 42

del frivolo. E senza volerlo o saperlo raggiungono, anzi nell’istante stesso sono, l’universale. L’uomo, il mortale non può fare progetti, programmi o previ­ sioni; la sua vita è di breve raggio: e tanto meno può prevedere gli universali che nasceranno: i tre Magi, seguendo la stella babilonica delle leggi celesti, trovarono l’universale in una stalla; e noi moderni, pur individuando la bellezza della credenza antica che domiciliava gli Dei sulle vette di un inviolato Olimpo, sappiamo che essi risiedono più volentieri nell’effimero, nel transeunte, nell’imprevisto. Essi stessi sono non tanto gli invisibili, perché tutti noi li abbiamo visti, ma gli imprevedibili. Larvati prodeunt. La stupidità per alcuni individui o per alcuni gruppi di individui è necessaria per vivere e soprav­ vivere. È perciò che essa deve essere compresa (ciò che richiede dell’intelligenza) e perdonata, benché sia tanto meno interessante di una colpa. (Quaderno 252, 1962)

Quale sforzo occorre perché uno scritto o un pensiero non abbiano più la traccia di alcuno sfor­ zo, abbiano eliminato questo tossico, questo osta­ colo all’altrui simpatia, all’altrui illusione? Quale sforzo occorre per eliminare dalla cosa bella, dal pensiero liberatore, dall’ispirazione crea­ trice, tutta la moralità del lavoro? (Quaderno 253, 1962) 43

Dobbiamo scrivere sempre nuovi libri per spie­ gare, manifestare il significato di libri più antichi; e questi nuovi libri hanno anch’essi un significato, un profilo, una profondità che essi sono i primi ad ignorare (hanno questo privilegio di priorità nell’i­ gnoranza), e per cui occorre l’esegesi di nuovi libri, et sic in infinitum. (Quaderno 256, 1963)

Il filosofo è simile a un romanziere, a un “narra­ tore”, in quanto egli tenta di insufflare la sua vita in strani e fantastici fantasmi di personaggi chiamati idee, descrivendone la natura e il dramma, e condu­ cendole, attraverso la disperazione, alla salvezza di un diafano Nirvana. Ma al contrario del romanzie­ re, perseguita l’immagine, la spoglia, la svela come illusione, errore, colpa; cerca in essa il significato in cui essa scompare. (Quaderno 256, 1963)

Autobiografia. Veramente patetica è la storia di chi per tutta la vita sua ha cercato la verità e l’asso­ luto, senza mai riuscire a farsi prendere sul serio da chicchessia. Il fatto di non essere mai stato preso sul serio da alcuno è forse la conseguenza, e in un certo senso, cioè nel senso morale, è forse un pre­ mio dell’avere preso sempre sul serio una quantità 44

di persone, di anime, di idee, di opere, di valori, di entità spirituali. Di avere preso sul serio persino l’assoluto, che in genere nessuno considera senza disprezzo, perché l’assoluto per sua natura, o me­ glio a causa della natura umana, è sempre ritenuto molto meno importante del relativo; del relativo che è sempre l’unico assoluto dei viventi. L’assolu­ to, che si presenta proteiforme, sempre sotto diver­ si travestimenti, e può essere una formula religiosa, un mito, un’opera d’arte, un motto di spirito o un mendicante, può essere accettato tutt’al più come un divertimento, una distrazione o una curiosità. E per chi, grazie alla sua serietà, non è nemmeno divertente, non vi può essere altra speranza che la vita in incognito. (Quaderno 256, 1963)

Se, per assurda ipotesi, si pubblicassero le nostre opere, si pubblicherebbero le nostre “opere incom­ plete”. Formalmente ed essenzialmente incomplete. Ma di quale autore si possono pubblicare le “opere complete”? Se un uomo facesse qualcosa di completo, il tempo morirebbe nel momento stesso in cui, in quell’opera, esso divenisse perfetto, com­ pleto, ecc. E la morte del tempo è appunto la fine del mondo, l’unica apocalissi seria. Se esistiamo ancora oggi, dobbiamo essere grati a tutti i nostri padri, nonni, ecc., a tutti i predeces­ 45

sori della nostra generazione, che hanno accurata­ mente evitato di essere perfetti, assoluti, completi, di raggiungere l’ultima sillaba dell’operare, l’omega dell’alfabeto eterno. (Quaderno 256, 1963)

Scrivere è leggere se stessi. (Quaderno 258, 1963)

È generalmente inteso che, mediante lunghe let­ ture, ci si prepara a scrivere, ad inventare. Ma si po­ trebbe anche pensare, al contrario, che scrivendo, ci prepariamo sempre più a letture severe, occulte e decisive. Ma, se tutti avessero pensato in tal modo, che cosa avrebbero letto i primi? Certamente non pos­ siamo sapere a quale genere di letture si preparasse­ ro i primi, e cioè i primitivi. Ma chi scrive ha impli­ citamente fiducia che una lettura sia possibile, che un testo, qualunque esso sia, possa essere decifrato. Decifrato nel e dal nostro scrivere. Gli antichi dicevano che i sapienti e gli ispira­ ti scrivevano sotto dettatura; questo era appunto perché, scrivendo, si erano preparati alla dettatura, cioè alla lettura. Nei libri leggiamo per speculum in aenigmate: scrivendo ci prepariamo a comprendere ciò che nei 46

libri è soltanto scrittura, ciò che è soltanto lo spec­ chio e non la magia e l’enigma. E a sentire quindi la presenza della magia e dell’enigma. (Quaderno 265, 1964)

La conversazione è pericolosa per un’idea, per uno spirito, per una verità che non resiste alla lieve immediatezza (e cioè rapidità) che è l’anima irridu­ cibile di una conversazione e di una comunicazio­ ne tra viventi (e che altro è l’arte?). E così l’idea è pericolosa per una conversazione. Conversazione (espressione, comunicazione ecc.) e idea tentano continuamente di sopraffarsi. Appunto perché l’u­ na non può vivere senza l’altra. (Quaderno 265, 1964)

È lecito ad un artista prendere sul serio ciò che scrive? Non decade dalla sua qualità di artista e di creatore per divenire soltanto un credente? Il torto dei romantici è stato principalmente quello di prendersi sul serio; i più antichi scrittori pren­ devano sul serio il loro argomento, ma sempre conservandosi estranei ad esso; senza considerare la loro soggettività di creatori come l’oggetto stes­ so della loro creazione. I romantici invece pren­ devano sul serio se stessi, e ciò li rendeva ridicoli, perché ovviamente non potevano più mantenersi 47

al di sopra del proprio argomento. Si dovette per­ tanto, da Baudelaire in poi, ricorrere ad una forma di ironia. Ciò che distingue la sfera (moderna) del sacro è la mancanza di ironia; eppure può anche darsi che l’universo che abitiamo sia una forma dell’ironia divina, manifestatasi come creazione. Nella sfera antica del sacro, gli Dei di Democrito e di Epicuro ridevano negli intermundi. La sfera della sacralità antica si differenzia dalla sfera della sacralità moderna appunto perché gli antichi Dei, grazie alla loro pluralità, conoscendosi l’un l’altro, ridevano. Un’ilarità che non si addice a un Dio unico e solitario, ma che forse potrebbe, se l’Uni­ co non fosse troppo preso da se stesso e dalla sua onnipotenza, tradursi nel termine più moderno di ironia. A noi uomini accade appunto di osservare che l’ironia è il solo modo di distaccarci dalla no­ stra onnipotenza, di uscire all’esterno della nostra assolutezza. (Quaderno 265, 1964)

Un autore vero, cioè colui che crea qualcosa di nuovo, che ha la famosa scintilla del creatore, è colui che ha l’unico privilegio di essere il primo, il primogenito di tutti coloro che sono destinati a non capirlo. Gli autori analitici, cioè coloro che si sfor­ zano di capirsi sempre più, o, nel tempo, si ridu­ 48

cono al silenzio, oppure decadono fatalmente dalla qualità di creatori. (Quaderno 267, 1964)

Noi grafomani, autori di giornali “intimi”, ab­ biamo fede che una specie di provvidenza storica, di superiore ordine, che abita in noi come nella sto­ ria umana, possa dare un senso e un organismo al nostro disordine, a tutti i pensieri che non sappia­ mo più controllare e dirigere, che sono per così dire autonomi, e di cui non riusciamo a comprendere la direzione e il senso. Essi sono in cerca d’autore, cioè in cerca di un sistema, di unità. Anche noi sia­ mo in cerca di autore. Siamo in cerca dell’autore che agisce in noi. (Quaderno 267, 1964)

La penna deve correre per arrivare alla fine della sua storia o alla sua frase prima che tramonti l’ispi­ razione, che, dopo il sole, è l’unica cosa gratuita che abbiamo su questa terra. Subito dopo il crepuscolo dell’ispirazione viene la notte, la notte dei freddi astri lontani con le armonie intraducibili delle sfere trasparenti e invisibili. L’infinito in forma di sfera è un limite e non può “contenere” l’ispirazione, nem­ meno la più semplice. (Quaderno 267, 1964) 49

Le opere d’arte, come tutte le immagini, sono in realtà dei ricordi. Sono la memoria. Noi amiamo un’opera d’arte perché essa è la nostra memoria che si risveglia, che riprende possesso di noi, e del suo universo, cioè di tutto. La memoria talvolta dimen­ tica; ed essa ricorda quando dimentica. (Quaderno 280, 1965)

Il canto senza fine delle origini; sappiamo e sen­ tiamo che l’origine è ciò che non ha mai fine, per­ ché soltanto l’origine risorge. (Quaderno 280, 1965)

La forma letteraria in cui meglio ci si può espri­ mere è appunto la lettera (l’epistola). Perché l’altro è sempre presente mentre scriviamo e abbiamo la facoltà di creare il destinatario. Abbiamo la facoltà di creare un pubblico come destinatario? Se non avessimo la facoltà di creare un destinatario, indi­ viduale e universale, non scriveremmo mai. Forse non penseremmo neppure. Nessuno scrive per sé. (Quaderno 309, 1967-68)

Scrivere, pensare, comporre, sono l’assoluta libertà. Ma si può applicare l’aggettivo assoluto a quel fuggente sostantivo che è la libertà? Come si 50

può procedere nel vuoto della libertà se non si è guidati e condotti? Quando leggiamo i grandi scrit­ tori, abbiamo l’impressione che essi scrivessero sot­ to dettatura, che tutto ciò che essi hanno creato e inventato fosse predestinato ab aeterno. La stessa impressione ci è data dalla storia. Noi facciamo o scriviamo o pensiamo sotto det­ tatura. E chi è il “dittatore”, colui che detta? (Quaderno 309, 1967-68)

Anche la poesia, l’arte in genere, è il canto del­ la salvezza; il canto della trasparenza delle parole e delle immagini, la trasfigurazione della negazione, la negazione come purificazione. Le parole sono opache, sono fatte opache dall’uso. Scopo dell’ar­ te, l’arte dello scrivere e del parlare, è di restituire ad esse trasparenza e luminosità. Che cosa vedia­ mo attraverso le parole? Quali origini? Quali oriz­ zonti? Le parole possono vedere se stesse? E che cosa vedono le nostre immagini, anche le immagini della comune rappresentazione? A quanto assicu­ rano i filosofi, le immagini che sono soggettive, cioè soggetto del vedere, vedono qualcosa (una cosa in sé?), un oggetto che è differenza assoluta dall’im­ magine, come l’immagine è differenza assoluta da questo soggetto. L’immagine e la rappresentazio­ ne, che dovrebbero essere la fedeltà assoluta delle cose rappresentate, sono allora infedeltà altrettan­ 51

to assoluta, diversità radicale dal rappresentato? Il rappresentato in quanto oggetto è per definizione diversità assoluta dal soggetto; come allora, con quale sintesi si può superare questo iato? In quanto differenza dal soggetto, l’oggetto ne è la negazione, la pura negazione; e questa negazione, in quanto puramente se stessa, è soggetto essa medesima, cioè è il soggetto che si nega; è l’atto del soggetto, in quanto questo atto è l’atto del negarsi. Quindi noi siamo la rappresentazione, siamo l’atto in cui tutte le cose sono e vivono, cioè l’attua­ lità, in quanto siamo autonegazione. La negatività è l’universalità dell’atto. (Quaderno 331, 1970)

Noi abbiamo l’impressione, scrivendo o pensan­ do, o immaginando, di essere tangenti a una sfera eterna, tangenti all’eternità-trascendenza dell’at­ tualità, di essere per un istante compresi in essa. Ma quando si è compresi nella sfera dell’eternità, dell’assoluto, della presenza, ogni istante è eterno; anzi, il nostro istante è l’unico istante, trascenden­ te e eterno, perché è soltanto il proprio morire. La misteriosa, luminosa presenza, è la metamorfosi del nulla. (Quaderno 331, 1970)

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Gli universali non sono traducibili nello stile epistolare; lo stile epistolare è lo stile letterario e narrativo. Una lettera è un ponte aereo come è un ponte aereo l’arcobaleno; e l’arcobaleno è una Iri­ de; l’Iride messaggera degli Dei come la fantasia. Ogni idea è un’iride, non ha una sola luce perché scopre i colori della luce; soltanto l’opacità rivela i colori e le differenze che sono nascosti nell’assoluta trasparenza della luce. Iride e Idea, le guardie des Iridées. (Quaderno 331, 1970)

L’eco è la voce del nulla, la parola del nulla, appunto perché è esattamente la nostra voce e la nostra parola, obiettivata, ripetuta. L’obiettivi­ tà è la ripetizione del soggetto che non può mai ripetersi? La scrittura, il filo nero che dovrebbe legare i nostri concetti sempre al di là di questo filo, tenue legame, infido conduttore. Quelli che cercano la celebrità o la gloria, cioè l’applauso, la considera­ zione, l’approvazione, il riconoscimento altrui per salvarsi, sono uomini di poca fede? Non hanno fede nell’abolizione del fondamento, che è l’unico fondamento, l’unico assoluto. (Quaderno 336, 1970)

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Tutto ciò che pensiamo o scriviamo è nell’atto stesso una metamorfosi. Il nostro pensiero non ha altro oggetto che il proprio nulla. (Quaderno 336, 1970)

Anche la scrittura e l’espressione che in essa si configura devono suscitare una diversità, pur es­ sendo ridotte all’identità con se stesse. La scrittura rimane per sempre ciò che è stata quando è stata scritta; e traversa con la sua immutabile identità se­ coli e millenni di mutamento. Ma il paradosso è che tale identità vive ed esiste in quanto è il perpetuo annuncio ed insieme la perpetua realtà della muta­ zione: la mutazione che è la vita stessa e la salvezza della vita e dell’anima. Mutazione che è impossibile se non la vediamo definita, cioè negata dall’espres­ sione, dall’immagine. L’annuncio della mutazione traversa i secoli grazie alla propria identità. (Quaderno 340, 1971)

L’arte dello scrivere è l’arte di far dire alle parole tutte le trasmutazioni che esse contengono e sono – tutta la loro attuale diversità, tutta la negazione che esse sono quando si affermano, e tutta l’affermazio­ ne che viene espressa dalla negazione. Mediante la loro trasmutazione, che è l’affermarsi dell’attualità di una negazione (cioè dell’attualità dell’atto che si 54

riconosce come negativo), le parole finiscono per creare un organismo, un organismo di parole, cioè la frase. L’organismo della frase e del verbo che tra­ sforma la negatività della parola in un atto. La paro­ la è la diversità dell’atto. Negarsi e attualità, negarsi e trascendenza e diversità, sono sempre, e sempre attualmente, congiunti; perciò la parola contiene il seme della frase, del discorso. (Quaderno 340, 1971)

Il lettore è un traduttore che scopre il senso e il significato di ciò che l’autore, l’eterno autore, cioè il soggetto, l’attualità, ha detto senza saperlo. I let­ tori traducono l’autore nell’altro linguaggio; forse nello stesso linguaggio con cui egli non sapeva di scrivere. (Quaderno 344, 1971)

La nostra “penna”, quando scorre nei cieli astratti della carta, assume talvolta il suo significato etimologico, il suo antico significato, diventa l’ala, penna plurima, di un Icaro distratto che le si affida. (Quaderno 344, 1971)

Scrittori, artisti, citaristi, pittori, tutti gli allievi dello spirito e delle Muse, sono dei pescatori; sedu­ 55

ti sulle rive del fiume della vita, gettano i loro ami malfidi nelle acque fuggenti e deludenti che non si arrestano, sperando di pescare qualche immagine che guizza nascosta nella fugacità del tempo. Le immagini, poveri pesciolini, dovrebbero essere la realtà, cioè l’eternità di quel trapassare. (Quaderno 344, 1971)

Forse il nostro nome è soltanto uno pseudoni­ mo; forse anche i nomi delle cose sono pseudoni­ mi. Ma qual è il vero nome? È più probabile che le cose come crediamo di vederle siano soltanto gli pseudonimi di un nome; e noi stessi e il nostro es­ sere siamo pseudonimi; di un nome che forse non conosceremo mai e che appunto per questo ha una realtà suprema. Una realtà unica. Una sintesi invisi­ bile di realtà e verità. Una realtà che la conoscenza (la scienza) non può dissolvere, analizzare. Paradiso e inferno sono poli di nome opposto che si esaltano e si “inducono” (secondo il termi­ ne scientifico); e la scintilla che distrugge simul­ taneamente l’uno e l’altro è ciò che essi hanno in comune. È questo il metodo della storia (la storia che agisce o è agita, non la storia scrivente e meditan­ te quando tutto è avvenuto)? Abolire gli opposti colpevoli di essere tali mediante una scintilla di lu­ minoso e terribile fuoco celeste; Dies irae dies illa, 56

solvet saeclum in favilla. Ogni secolo si dissolve nell’apocalisse (il nostro secolo è indubbiamente apocalittico), quando gli opposti si distruggono nel fuoco cosmico creato dalla loro tensione. Sono i due poli opposti che si esaltano inducendo ognu­ no il proprio opposto nell’altro. Si caricano reci­ procamente di opposizioni sempre più assolute e terribili. E il ponte tra esse è l’arco di fuoco, di­ struttore e tragico come l’opposizione che è il suo unico, benché diviso, nido. Tutto il furore del seco­ lo diventa cenere, oggetto di contemplazione per la storia che pensa e scrive, conosciuta sotto il nome di Clio; quando, di fronte alle sue ceneri, la Storia, da Erinni, diventa Musa. (Quaderno 344, 1971)

Anche la fantasia ha lasciato il campo dei vinti, il campo degli scrittori, degli umanisti, degli arti­ sti – che hanno scoperto l’irriducibilità dell’arte a ogni altra denominazione proprio nel momento in cui essa moriva. Anche la fantasia si è rifugiata nel campo dei vincitori, nel campo dei matematici, su­ blimi iconoclasti; nel campo dei persecutori della fantasia, che ora si vedono costretti a ricorrere ad essa per sostenere le proprie costruzioni. (Quaderno 344, 1971)

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Lo scrivere è una forma silenziosa (fonicamen­ te) del parlare; ma è un parlare che ha il singolare privilegio di non essere interrotto, se non dalla pro­ pria coscienza; la coscienza è la madre, l’origine del discorso, ma è anche la coscienza che fa al discorso, cioè a se stessa, le continue obiezioni. La coscienza è il maggiore obiettore di coscienza. La coscienza parla per affermarsi o per smentirsi? (Quaderno 347, 1972)

Gli scritti di aforismi o di idee frammentarie, di epigrammi o di formule, sono modi di esprimere l’assoluto, o qualche assoluto, qualche verità in forma breve. Ma ognuno di questi frammenti vuo­ le essere l’espressione dell’assoluto, e quindi non può essere frammentario. Frammenti e parti che sono relative all’assoluto, senza esserlo, si trova­ no nelle opere di una certa ampiezza, ampie come la vita. La vita, essendo universale, può essere plurale. (Quaderno 347, 1972)

La comunicazione con il nostro prossimo (simi­ le o dissimile che sia) è tanto più vivace, energica, illuminante e persuasiva, quanto più noi siamo di­ scesi nelle nostre scoscese profondità, quanto più ci siamo separati, rinchiusi nel castello magico che ci 58

difende con le sue apparenti, cioè trasparenti, opa­ cità. Siamo tanto più comunicativi quanto più sia­ mo soli, e quanto più intuiamo un’altra solitudine. Come un corpo in preda ad una elettricità evocata induce in un altro una elettricità di nome opposto, tanto più intensamente quanto più coibente, cioè inadatto e contrario alla comunicazione è l’ele­ mento interposto, così anche noi comunichiamo la nostra interiorità quanto più la sua separazione le vieta di espandersi nelle paludi della banalità. (Quaderno 347, 1972)

Ogni nostro pensiero è soltanto un’astrazione, come un cristallo, o è invece un germe? Qual è lo scopo e il significato del germe? La pianta e il fiore. Quale è lo scopo e il significato della pianta o del fiore? Il germe. (Quaderno 355, 1973)

La nostra scrittura è geroglifica come la nostra parola, che non coincide con ciò che vuole esprime­ re, ma soltanto vi allude simbolicamente; allude a qualcosa di originariamente noto od originariamen­ te ignoto. A qualcosa di diverso. La parola stessa è originariamente diversità. La Parola è diversità da se stessa e perciò coincide con la diversità dell’at­ to, con la diversità originaria che vuole esprimere? 59

Questa coincidenza era l’ideale, lo scopo, la fede dell’età dell’autocoscienza. L’età dell’autocoscienza e la tirannia; vi è sempre un quid al di là dell’espressione, senza questo quid l’espressione non sarebbe una metamorfosi. La me­ tamorfosi vuole esprimere se stessa con la negazio­ ne; noi alludiamo alla diversità con la negazione; con la identificazione. (Quaderno 355, 1973)

Uno scritto, una lettera, una letteratura, sono degli echi di un verbo ignoto; sono gli echi dell’in­ finito; sono la risposta alle interrogazioni dell’infi­ nito. Noi possiamo captare l’eco, farla parlare con la nostra voce, obbligarla a parlare in silenzio con i segni arabescati e oscuri per definizione (essi viola­ no, contaminano il candore della carta). Noi possiamo scrivere le nostre interrogazioni, cioè i nostri echi, trasformandoli in segni muti; e le lettere, con il responso interrogativo e vuoto della chimera, possono essere spedite, in una busta, a do­ micilio, a portarvi la vanità della chimera, la vanità del nulla. (Quaderno 359, 1973)

I grandi scrittori, come la memoria, sono i grandi creatori dei miti. Il mito di Don Chisciotte è anche 60

il nostro; anche noi traversiamo la vita portati da uno squallido Ronzinante, credendo di essere ciò che non siamo; e con questa immagine come Gia­ cobbe con l’angelo lottiamo per tutta la vita. Chi si rassegna ad essere quello che è, cioè nullo? Ma forse proprio da questa rassegnazione, da questa apparizione, nascono e rinascono tutte le fantasie. L’immaginazione di Don Chisciotte immaginava che non soltanto lui stesso, ma anche le cose fosse­ ro altro da quello che sono, fossero metafore; con ciò inaugurava il barocco. Ma chi ci assicura che anche la nostra rappresentazione visiva, auditiva, tattile non sia una metafora? Tutto è realtà o tutto è metafora, l’altro dalla realtà; la verità è l’altro dalla realtà; o viceversa. La verità è il mito di una realtà cosciente; ma la coscienza è sempre metaforica. For­ se l’attualità e l’Essere sono una metafora del nulla. Noi siamo la verità; è proprio per questo che ci è impossibile conoscerla. La conosciamo quando diventa altro, altro da noi. La conoscenza, l’espres­ sione, la stessa memoria creano l’anteriorità della verità e della sua attualità. Se la verità è un Eden, noi possiamo conoscerla solo quando ne siamo fuo­ ri, quando ne siamo espulsi ed esiliati. (Quaderno 359, 1973)

Il Budda, Socrate, Cristo, Maometto, non hanno mai scritto nulla. Quello che rimane di loro sono 61

barlumi di memorie, interpretazioni di discepoli (forse nemmeno Omero ha mai scritto una riga). Essi non hanno mai voluto imprigionare la parola vivente nelle carceri dell’alfabeto. Eppure di nes­ suno si è mai scritto tanto come di quegli analfa­ beti, nel senso etimologico; perché la loro parola non venne da essi dissacrata nelle analisi astratte, nei simboli artificiosi e morti dell’alfabeto. Gli scritti riguardano la vita e l’azione, che non san­ no scrivere. Nessuno dei nostri sensi ha bisogno di scrivere. Lo scritto nacque come segretario (un segretario che diffonde e comunica tutti i segreti) quando la memoria dell’umanità cominciò a de­ clinare, senescente come l’umanità quando questa ebbe raggiunto lo stadio del progresso che aboliva il passato. (Quaderno 359, 1973)

L’arte dello scrittore consiste nel creare una complicità nel lettore; e di quale colpa diviene complice il lettore? Non lo si è mai saputo. Esisto­ no innumerevoli sistemi di estetica e di spiegazioni complesse e fallaci di un atto che è la semplicità originaria. Una complicità del lettore con l’autore. Il delitto (e diletto) perfetto. (Quaderno 370, 1975)

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Noi scriviamo delle disperate lettere al nostro passato, che non ha più la forza di risponderci. Il nostro passato è un sepolto vivo? Si agita nella sua tomba? O forse è per sempre morto e la memoria è un fantasma che turba le nostre notti, come i so­ gni. Amleto è un essere vivo che obbedisce a un fantasma, al fantasma che lo ha generato, o che lui stesso ha generato. Noi dovremmo essere, ma non riusciamo ad essere dei domatori di fantasmi. (Quaderno 372, 1975)

Ogni pensiero desidera esprimersi appunto per­ ché desidera morire e giacere nella pesante tomba dell’espressione e della forma; per rinascere nuovo, cioè altro (la novità è la forma umana e tempora­ le della divina alterità); per attingere l’altro, cioè la salvezza. Che altro può desiderare il medesimo che siamo e che è soltanto solitudine? (Quaderno 372, 1975)

Soltanto l’inesprimibile è degno di un’espressio­ ne; soltanto l’incredibile è degno di fede; è degno della fede. Ma forse è proprio l’espressione che crea l’inesprimibile (ed ha valore quando giunge a que­ sto), forse è la fede che crea gli Dei. Noi abbiamo fede nelle nostre creature. L’inesprimibile è la no­ stra creatura primogenita. L’inesprimibile è ciò che 63

si sottrae alla predestinazione, o è una libertà pre­ destinata? L’individuo è la coincidenza tra l’asso­ luta identità e l’assoluta diversità. Una miracolosa inaccessibile diversità, il diverso in sé. (Quaderno 372, 1975)

La parola è un irrazionale ed è strano che essa esista in un mondo razionale e quantitativo; nel mondo dell’identità. La razionalità è soltanto nel numero; la Parola è divina, anzi la scrittura ha iden­ tificato la Parola (il Verbo) e la divinità; per gli an­ tichi il numero aveva significati simbolici, cioè spi­ rituali. Oggi il numero privato di ogni significato è identificato dalla sua “posizione” (nello spazio è o sarà il vero successore della parola – ma troverà in se stesso una nuova irrazionalità?). Il numero è la massima razionalità e insieme la massima irrazionalità come serie infinita; non pos­ siamo vivere senza irrazionalità, appunto perché la vita è essa stessa irrazionalità; il numero può vivere? (Quaderno 372, 1975)

Anche il passaggio dalla scrittura geroglifica con i suoi ideogrammi alla scrittura alfabetica, fonetica, costituisce una dissacrazione, la morte di un innu­ mere popolo di simboli, di allusioni ai significati, alle immagini delle cose. Ma con la scrittura alfabe­ 64

tica dormono nell’immortalità le grandi letterature come cattedrali di nuove sacralità. Le sacralità am­ bigue e perciò divine, nate dalla dissacrazione, nate dalla tragedia, come tutte le cose. (Quaderno 372, 1975)

Noi parliamo, noi scriviamo, senza ricordarci la suprema scadenza del silenzio; senza ricordarci che tra brevissimo tempo, pausa fugace, noi saremo condannati a tacere, a tacere per tutta l’eternità. E a dimenticare tutto assolutamente, a dimenticare l’e­ ternità stessa; e, durante tutta l’eternità, non ricor­ darci mai dell’eternità. Non ricordarci più di noi. (Quaderno 372, 1975)

Ars scribendi: definire qualcosa negando la pos­ sibilità della definizione. Le sens trop précis rature. Ta vague littérature. (Quaderno 381, 1977)

Un foglio non contaminato dai labirinti della scrittura è uno spettro bianco e vuoto che attira tutte le possibilità; forse il destino può venire a trac­ ciarvi le sue linee e i suoi segni, i suoi simboli, i suoi decreti; oppure può essere una tavola su cui cadono i dadi della fortuna o delle sorti cieche. Ma se uno 65

scritto si avvia sul foglio bianco con tutti i suoi in­ trecci, i suoi labirinti, le sue linee oscure, il foglio bianco percorso dalle linee nere diviene luminoso. Le eterne nozze tra la bianchezza della carta e l’o­ scurità dell’inchiostro sono feconde di luce; l’incan­ tesimo spettrale è esorcizzato. La corsa delle linee nere guidate dallo spirito illumina la vuota spettrale bianchezza della carta. L’incanto dell’identità. (Quaderno 381, 1977)

L’espressione più perfetta è quella che crea l’ine­ sprimibile. La voce più ammonitrice è la più silen­ ziosa. Inesprimibile è la dolcezza della vita; essa è però turbata dal desiderio di esprimersi, cioè di co­ noscersi, che è il desiderio di permanere, di perpe­ tuarsi. Essa vorrebbe non essere tradita dall’istante, da se stessa; ed è questo timore che la tradisce. (Quaderno 381, 1977)

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Parola

Giuochi di parole e loro legittimità artistica. Il giuoco di parole rivela il fondamento umano delle parole e la superiorità dell’oratore ai suoi istrumen­ ti (e ai suoi argomenti). Rivelano l’origine poetica delle parole e in questo senso sono poetici i loro giuochi. Che cosa è questa origine poetica? È la trasformazione di aggettivi in sostantivi; ma non si dimentichi che l’unico sostantivo è sempre il sog­ getto. Quindi il giuoco di parole fa rapidamente intravedere la differenza fra la parola come sostan­ tivo e la stessa parola come aggettivo. Ne fu in certo senso la storia, la genesi. Questo processo dimostra la superiorità del soggetto di cui l’aggettivo si pre­ dica sull’aggettivo stesso sostantivato. Questa su­ periorità è fonte di ilarità; ma è fonte anche della congiunta poesia (per soggetto si intende il sogget­ to parlante, l’uomo). (Tutte le parole del vocabolario nascono dalla trasformazione di aggettivi in sostantivi. Questa fi­ gura è la cosiddetta metafora, e pertanto è poesia – su questo argomento vedi Vico e Croce). (Quaderno 4, 1927)

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Giuoco di parole come simmetria di parole, di suoni, di tempi grammaticali, ecc, da una parte, e di concetti, di azioni, ecc. dall’altra. Simmetria fra le espressioni e il soggetto. (Quaderno 4, 1927)

Il nome, cioè il sostantivo, in origine è sempre un attributo, un aggettivo. È il trovarsi nel com­ plesso dei rapporti con gli altri nomi che gli dà ben presto un valore, diremo così, “personale” di nome proprio. Così presso gli antichi il nome della città era sempre e solo un attributo del nome vero, del vero sostantivo conosciuto solo da pochi iniziati. “Roma” era un aggettivo, uno dei tanti attributi di un nome proprio e occulto, noto a pochissimi che erano puniti con la morte ove lo avessero rivelato ai profani. Gli antichi erano profondi: non bisogna mai far saper al volgo che cosa “Stato” effettiva­ mente significhi; solo fargli conoscere qualche ap­ pariscente attributo di questa misteriosa e terribile forza. (Quaderno 9, 1929)

L’aforisma e l’ironia sono una professione di scetticismo nei confronti della poesia. L’aforisma è la definizione, l’analisi, la spiegazione, la risoluzio­ ne in termini umani della lirica; l’ironia è la scoper­ 68

ta dei suoi motivi non lirici: uno sguardo dietro le quinte… (Quaderno 9, 1929)

La maggioranza delle persone è molto più poeti­ ca in prosa che in verso; le loro vite possono essere dei poemi sublimi di forza d’animo, di fedeltà, di sacrificio: le loro parole fanno ridere, specialmente se vogliono essere l’una più alta dell’altra. Inversamente, quegli strani individui che sono poetici anche in verso, lo sono pochissimo nella prosa dei loro giorni, e le loro vite compongono un insieme di immagini poco edificanti. (Quaderno 9, 1929)

L’importante, per un uomo, è trovare un modo di espressione. Come esprimerò io il mio pensie­ ro, la mia vita, la mia esperienza? Questa dovreb­ be essere l’interrogazione da ogni uomo posta a se stesso. Vero è però che in genere l’inesprimibile è ciò che per noi ha più valore e importanza; quello verso cui ci sentiamo più attirati; quello per cui sen­ tiamo come un’antica, istintiva e simpatica affinità e parentela. Anche gli uomini che hanno avuto il maggior successo in questa loro impresa di narrarsi sanno che la miglior parte di loro è rimasta silen­ ziosa e inespressa, che la loro verità è rimasta in­ 69

compresa. La parte migliore della vita non si lascia ridurre né a pensieri, né a parole, né ad opere, né a versi, né a musica. Essa è sempre al di là di tutto questo, invincibile e semplice. Ma quello in cui ci è lecito guardare è questo stesso desiderio di conoscersi, di guardarci, questo desiderio di amare noi stessi: questa possibilità di ridurre tutte le cose a noi stessi; o meglio, di fare di tutte le cose la vera, la sola espressione di noi stessi. Le cose, gli aspetti degli esseri, sono forse un alfabeto misterioso, che, ad ogni modo, tutti sanno leggere. Noi ce ne serviremo per costruire un’im­ magine ingrandita ed eterna della nostra stessa in­ sondabile essenza. Espressione è l’universalità, la specie eterna di ciò che vi è di più particolare, cioè la nostra essen­ za e l’altrui. Dunque la vera espressione è sempre espressione di individualità; non solo la creazione di una nuova universalità, ma anche la creazione di una nuova particolarità. Ogni artista, così come ogni vita, crea questa particolarità, questa obietti­ vità nuova; ed è quello che ci sembra, nell’arte e in noi, così irriducibile, così irraggiungibile, così semplice. È quella inappagabile nostalgia di noi stessi, della nostra naturalezza, della nostra sempli­ cità, del nostro Eden. E la possibilità di raggiunge­ re questa verità intima e terrestre non può esserci data che in un atto di fede verso le virtù creatrici del nostro pensiero e di noi; può esserci data da un 70

atto di umiltà verso la nostra infinita miseria e par­ ticolarità; che solo con questa umiltà, con questa rassegnazione, con questa accettazione, può essere compresa. Forse la vera rinuncia non consiste nel respingere, ma nell’accettare noi stessi. (Quaderno 9, 1929)

Forse anche le gioie della conoscenza della pro­ pria individualità, dell’Arte, dell’Amore e della Re­ ligione, non possono essere ottenute direttamente, ma sono un premio, la conseguenza di un’opera, di un lavoro, di una negazione di sé, di una morte volontaria. Per cui tutte le parole dei poeti sarebbero voci di oltretomba; o, nel miglior caso, parole di risorti che hanno conosciuto la morte e il sepolcro. (Quaderno 14, 1932)

La quantità di parole inutili che uno scrittore in­ serisce nel suo scritto è inversamente proporzionale all’importanza dello scrittore stesso. Vi sono scritti in cui nessuna, o quasi, parola può essere tolta sen­ za grave danno per l’opera e per noi; altri in cui si possono togliere tutte… (Quaderno 14, 1932)

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Ogni parola ha una lunga storia; la lunga storia della sua origine e della sua carriera, dei suoi diversi significati; trasporta con sé il ricordo dei secoli che ha attraversato ed a cui ha servito. Ora, il più alto poeta è colui che mette ogni parola, o per lo meno quelle più importanti in cui si esalta il discorso, in condizione di manifestare tutto il loro tempo, tutto il loro passato. Ed è effettivamente indiscutibile che in certi versi noi riusciamo ad ammirare le parole per il loro fascino personale, per il loro suono, per se stesse, più che per il senso che esse danno al di­ scorso. Non le parole sono in funzione del discorso, ma il discorso in funzione delle parole. (Quaderno 21, 1934)

Quando alcune parole, passando da una lingua all’altra, peggiorano il proprio significato origina­ rio, viene dimostrata la cattiva opinione che il po­ polo assuntore delle nuove parole nutre per il po­ polo in cui quelle parole sono state formate. (Quaderno 22, 1934)

Sostantivo e predicato. Il sostantivo è il partico­ lare, cioè l’oggetto in quanto posto dalla soggettivi­ tà dell’atto. L’aggettivo (o attributo), o meglio anco­ ra il predicato, è l’universale, cioè è l’io (o l’oggetto?) in quanto oggetto di autocoscienza. (Quaderno 24, 1934) 72

Dire o pensare cose originali rispetto agli altri o al proprio tempo vuol dire questo: esprimere, formulare, un quid o delle idee o dei caratteri di indole affatto diversa dall’indole delle espressioni, delle frasi, parole, ambiente, idee, opinioni, etc., di cui ci serviamo come mezzi indispensabili per ma­ nifestare le prime. Questo accade quando fra con­ tenuto ed espressione vi è una radicale differenza; quando l’indole del contenuto è diversa dall’indole dell’espressione in cui compare. Ciò si può ridur­ re al caso più generale dell’eterna novità del pre­ sente rispetto al passato: mentre l’unica sua forma non può essere che il passato; l’unico suo modo di esprimersi è il passato. Noi siamo sempre il nostro presente, mentre la nostra espressione o forma è sempre il nostro passato. L’espressione dell’io sono sempre sentimenti, desideri, passioni: cioè il suo contrario; per natura ed essenza contrari all’io; l’io è unità, i suoi affetti sono pluralità; l’io è interiorità, i suoi affetti sono la tendenza stessa all’esteriorità. (Quaderno 28, 1934)

Il mistero dell’arte, come il mistero della parola o della musica, è e rimarrà impenetrabile. Eppure tutti sappiamo che cosa sia l’arte, tutti ne sentia­ mo la presenza, la identifichiamo e come identità e come diversità; sentiamo il mistero della sua evi­ 73

denza impenetrabile e della sua inaccessibile e in­ violabile chiarezza. Tutti sentiamo la certezza della sua presenza, che è la sola che dia alla nostra esi­ stenza la certezza e la convinzione di esistere. Che cosa ci insegna l’arte, che cosa impariamo da essa? Che cosa possiamo comprendere in essa e da essa? L’arte italiana è forse l’arte più pura appunto perché essa è quella dove tutto è chiaro e aperto; dove non vi è intenzione di nascondere o rivelare alcun mistero, ma appunto perciò l’incomprensibi­ lità è somma. Dove non vi è alcuna possibilità di penetrare nella corazza di luce. L’arte è tanto più pura e quindi tanto più inconoscibile, indefinibile, quanto meno vi sono in essa elementi di oscurità, di mistero, di inconoscibilità obiettiva. Quanto meno vi sono, in essa, riferimenti a misteri spirituali, a significati spirituali, religiosi, storici, ecc., median­ te i quali essa possa essere spiegata e intesa. L’arte italiana essendo una delle arti più chiare e pure, è perciò stesso la più inspiegabile. (Quaderno 214, 1959)

In principio era il Verbo e mediante il verbo tut­ te le cose furono fatte. Il Verbo è luce nelle tenebre, In tutte queste affermazioni del Vangelo giovanneo manca l’affermazione del sacrificio del Verbo, del­ la morte del Verbo. Tutto l’universo fu creato me­ diante l’eterna nascita e l’eterno sacrificio del Ver­ 74

bo. La nascita eterna è la rinascita eterna e non vi è rinascita senza morte e coscienza di morte. Il Verbo e la Parola sono l’attualità di un’espe­ rienza di morte. In questo senso il verbo (la Parola) è ontologico. (Quaderno 217, 1959)

Non si può dialogare che con le ombre, cioè con la propria ombra. Il noi stessi a cui ci rivolgiamo è la nostra ombra. Qualcosa di vano. (Quaderno 219, 1960)

La sola Musa è il paradosso; il paradosso, l’in­ timo contrasto di tutte le cose; tutte le cose sono il loro contrario. E ciò è il loro vero significato. (Quaderno 220, 1960)

Un poema o qualsiasi opera letteraria può defi­ nirsi come “un gioco di parole” – un jeu de mots. (Quaderno 220, 1960)

Quando siamo abbandonati da tutti, allora e solo allora troviamo la parola che vale per tutti, la parola di cui tutti hanno bisogno, la parola allo sta­ to puro. Tantum dic verbum. Tutti i grandi annunci sono nati nel deserto, nell’estasi tragica del deserto. (Quaderno 229, 1960) 75

Che cosa sussurra il vento, il Sovrano, nelle in­ numeri chiome degli alberi? Io sono il Signore del Cielo, della terra e delle acque, io sono l’anima invi­ sibile degli spazi; io sono l’anima; possente, libero, fugace, vario e volubile come la vita, e misterioso come essa, perché nessuno sa da dove io venga, nessuno sa dove io vada. E gli alberi che hanno le chiome nel cielo, le radici nella terra oscura, sono percorsi, come le acque, da vaste onde d’argento, le onde del vento che scorrono sulle loro vette; e col loro stormire, simili al suono delle onde sulla riva, diffondono le parole del Signore invisibile degli spazi, delle acque, della terra e del cielo. (Quaderno 229, 1960)

Vi sono parole che non dicono più perché sono state dette, perché sono diventate dei “detti”. Non sono più soggettive. Parole astratte come simboli algebrici che si possono riferire a qualsiasi realtà. Di qui la difficoltà della poesia nelle lingue adulte, dove le parole si possono vivificare solo ironizzan­ dole, contrapponendo la loro origine alla loro astra­ zione. I giuochi di parole. (Quaderno 221, 1960)

Noi creiamo, forse inconsapevolmente, le parole che poi vivono di vita propria, e si fanno indipen­ 76

denti dal loro creatore, di cui conservano la simili­ tudine, essendo fatte a sua immagine e somiglianza; e la principale similitudine è appunto l’indipenden­ za, insieme con la diversità e la creatività. I rapporti tra noi e le parole, tra noi e il verbo, sono il de­ stino delle parole; significato che è il destino che esse contengono, e che esse “seguono”. La Parola è il mediatore tra noi e noi stessi; le Parole sono gli arcangeli che volano negli spazi incommensurabili che separano l’Io dal me, il soggetto da se stesso. Noi ci raggiungiamo e ci possediamo nelle parole; forse in esse, cioè nell’altro da noi che è simile a noi e per l’identità e per la diversità, noi conosciamo noi stessi; le parole sono l’attualità dell’autodistrug­ gersi del tempo. Le parole sono cariche dei loro significati, cioè delle similitudini con ciò che non conosciamo, con la parte sconosciuta di noi. (Quaderno 238, 1961)

Approfondendo la poesia insita e chiusa nelle parole, raggiungiamo la poesia delle idee. (Quaderno 238, 1961)

Ogni parola è un’idea innata e la storia di un’idea. (Quaderno 238, 1961)

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La poesia può essere l’approfondimento o la rivelazione (due parole in evidente contrasto) del verbo, della Parola in sé, ma può essere anche l’arte di trattare tutte le parole come sinonimi. Liberan­ dole dalle limitazioni a cui le ha costrette l’uso, e spiegandone la diversità essenziale. Forse l’identità della Parola è la diversità. (Quaderno 238, 1961)

La Parola è originaria o è commento? (superflui­ tà dal punto di vista dell’animale). (Quaderno 238, 1961)

Vi è una musicalità nelle idee, una musicalità nelle parole e nei versi, vi è perfino una musicali­ tà nella musica (ma non già in tutte le musiche); una musicalità congiunta e diversa dai suoni e dalle melodie che gli strumenti esprimono e annunciano. Così vi è nelle parole, nei versi dei poemi (talvolta nelle prose) una musica sovrana e insieme tacita, che nessuno strumento musicale può riprodurre, che non può essere trasposta nella musica delle note, nella musica che si esprime senza parole. Essa è il ritmo con cui procede il secondo senso della poesia, quel senso che si diversifica dal senso grammaticale della poesia, dal suo discorso. Quel secondo senso che vive di vita propria e diversa 78

quanto più è unito e identificato col primo senso che deve avere un senso. (Quaderno 238, 1961)

La funzione dello scrittore moderno può essere soltanto l’analisi del suo strumento, senza conside­ razione per ciò che questo strumento può produrre. Analisi, cioè ironia sui pensieri; analisi cioè iro­ nia sulle parole, sulle loro povere o illustri origini, sulle ambivalenze dei loro significati. (Quaderno 242, 1961)

Il filosofo è l’uomo condannato a dire soltanto parole definitive; e perciò dovrebbe non proseguire mai il suo discorso (che, in realtà, non è mai fini­ to); dovrebbe essere muto fin dalla giovinezza. Una volta raggiunta e detta la verità, perché continuare a parlare? E se la verità non è mai raggiunta perché continuare a inseguirla? Se essa vuole la sua solitu­ dine, lasciamogliela. (Quaderno 242, 1961)

Soltanto coloro che sono iniziati e trasformati dall’esercizio degli studi conoscono le parole sacre e segrete con cui si interrogano i morti e il loro re­ gno, e con cui si possono ottenere da essi risposte, 79

premonizioni e profezie. Se non vi fossero più i di­ scepoli della storia, delle lettere (sempre sacre), del Verbo, si perderebbero per sempre le vie con cui tornare ai morti, con cui evocarli mediante gli ap­ passionati incanti. (Quaderno 242, 1961)

L’astrazione è il puro monoteismo dello spirito, è una negazione di tutto ciò che è misteriosamente universale affermazione. Di qui l’arabesco islamico; la sostituzione dei disegni delle lettere dell’alfabeto alle figurazioni di figure e valori reali. Come nell’ar­ te poetica la parola si riferisce a un preciso oggetto, ma si giustifica con un significato che è nella parola, che è creato dalla parola, che è la parola stessa, ma di cui la parola non può essere l’espressione. Ulti­ mo paradosso: ciò che la parola esprime non è mai ciò che la parola veramente è; è l’obiettivazione di ciò che la parola vuol significare o è, e cioè il con­ trario di ciò che la parola è. (Quaderno 242, 1961)

Mallarmé è l’utopia di una poesia e di un’arte perfettamente consapevole di sé e del proprio si­ gnificato. Utopia assurda che, desiderando e pro­ ponendo la più trasparente coscienza di ogni verso, di ogni ritmo, di ogni parola, di ogni intenzione, 80

finisce per creare l’oscurità impenetrabile agli oc­ chi umani, il labirinto inestricabile dei concetti, e in fondo ad essa il Minotauro del nulla, a cui la giovi­ nezza del poema si sacrifica. Però è un’utopia che una volta espressa, teorizzata e praticata, non può più essere elusa o dimenticata; un’utopia che divie­ ne l’unica regione che i poeti possono colonizzare, e diviene il nido dove, eterna Fenice della poesia, dell’arte, si consuma nella sua fiamma, si inceneri­ sce nella sua coscienza fatale, in vista di gloriose e mostruose metamorfosi. (Quaderno 242, 1961)

Quando scriviamo, possiamo avere molti falsi scopi, che possiamo anche centrare; ma lo scopo unico è quello di fissare il momento attuale, o di scinderlo; di lasciare di esso un ricordo, di trasfor­ marlo in memoria; l’unico momento, l’unico atti­ mo, l’unico atomo indivisibile di cui è formata la nostra vita. Ciò che scriviamo e di cui scriviamo è sempre e soltanto l’attimo stesso in cui scriviamo, e della cui materia le parole dette o scritte eterna­ mente partecipano. Anche gli universali sono tali soltanto in quan­ to partecipano dell’istante; è l’istante che trasmet­ te ad essi la propria universalità nell’atto stesso in cui tenta di pensare un’universalità come superiore all’istante, nell’atto in cui tenta di pensare un’uni­ 81

versalità come diversa dall’istante. L’istante si affer­ ma come tale nell’atto in cui si nega, in cui si nega nell’universale; la negazione è il vero universale. (Quaderno 242, 1961)

Il Verbo creò il mondo; cioè l’universo è real­ mente un gioco di parole. Certamente è un gioco di parole la spiegazione ultima dell’universo e dell’as­ soluto. Comunque, nessuno può mettere in dubbio la creatività dell’espressione. Unica e misteriosa po­ sitività del mondo negativo, cioè dell’infinito. L’uni­ verso stesso può definirsi un’espressione. (Quaderno 243, 1961)

Le parole sono tanto più creatrici (l’universo è stato creato dal Verbo), quanto più riusciamo a co­ noscerne l’inconsistenza, cioè la mancanza di obiet­ tività e di contenuto. La parola non è mai oggetto, ma unicamente soggetto e quindi non è il suo con­ tenuto, ma la sua creatività. Il mondo e la spiega­ zione metafisica del mondo, in quanto esso è creato dal Verbo, sono un giuoco di parole. (Quaderno 248, 1962)

Anche la parola, la cui origine è sconosciuta, e che è forse la creatura di un mistero iniziatico di­ menticato, anche la parola viene da noi volta ai no­ 82

stri fini pratici; ai fini pratici del discorso. Nel corso della frase le parole corrono al loro scopo, divengo­ no verbi e azioni immediate, e appunto per questo indifferenziate; ma l’artista dovrebbe sapere illumi­ nare la parola nel cuore stesso del discorso, ridurla a semplice presenza, cioè distaccarla dal futuro; non più in funzione del futuro, nel destino di una frase, a cui non si deve supporre che essa debba necessa­ riamente partecipare. Estratta ed astratta dall’orbi­ ta della frase, essa diviene reale perché diviene se stessa; si rifiuta di seguire i nostri arbitrari voleri, ritorna ad essere l’Eden paradisiaco in cui nacque in un tempo ormai inaccessibile ai nostri ricordi. (Quaderno 249, 1962)

Le nostre parole, anche le più semplici, sono frammenti di antichi sistemi filosofico-metafisici; che, sollevatisi, come è proprio di ogni sistema, in zone elevate e rarefatte, esplosero, volando in mille pezzi; parole con cui dobbiamo fabbricare nuovi sistemi e astronavi per le nostre ascensioni ed ele­ vazioni, e che non sempre sono congeniali al nuovo sistema; ma, considerandole in se stesse, esse val­ gono molto di più del nuovo uso a cui dovrebbero essere rivolte, perché sono i frammenti di un antico e lucido specchio, nei quali ancora si riflette tutto l’universo che quello specchio attirava in sé. (Quaderno 252, 1962) 83

In ogni uomo il pensiero, l’espressione, la paro­ la, la voce, così come il moto, hanno un ritmo che è il rapporto di ciascuno con la morte che ha in sé; che è il modo con cui ognuno supera questa morte, cioè incorpora questa morte alla sua vita. (Quaderno 253, 1962)

Splendore della parola pura, senza appoggi, sen­ za relazioni, la parola protagonista. (Quaderno 253, 1962)

La sola parola che possa rimare con “sì” è “no”. Il coraggio del sì e del no è lo stesso coraggio. Nella loro nudità, il sì e il no si identificano. Ma onde per­ venire all’uno dei due, occorre cominciare dall’al­ tro. E tutta la bellezza della vita e del pensiero è questa via. (Quaderno 253, 1962)

La Parola non è soltanto la trasmissione della conoscenza, ma è conoscenza essa stessa, è essa stessa la fonte e l’origine della conoscenza. Essa è la nozione. Essa contiene la conoscenza; è il sogget­ to unico che non ha bisogno dei cosiddetti oggetti, perché è il tutto, e non cerca sostegni o conforti per la differenza che è. (Quaderno 253, 1962) 84

La poesia è fatta non di cose, ma di parole, come tutta la realtà. In principio era il Verbo, era la Paro­ la; di cui le cose sono una imitazione, spesso assai triste. La Parola, cioè il pensiero, ha creato tutte le cose, ma tutte le cose non valgono a creare una parola o un pensiero – e ciò perché il pensiero e la Parola sono la loro redenzione. Questa è la re­ ligione tanto spesso dimenticata (anche la poesia dimentica, per nostra fortuna, le cose). (Quaderno 254, 1962)

Le parole senza etimologia o di etimologia igno­ ta sono senza tradizioni e perciò pericolose. Come tutte le idee o le persone o le forme senza tradi­ zione, cioè senza “educazione”; ovvero senza espe­ rienza, senza una certa dose di scetticismo, senza esperienze tragiche. (Quaderno 256, 1963)

Quanti geni e quante opere sono periti prima ancora di essere conosciuti, per le avversità delle condizioni? E con il loro non-essere, con il loro sparire prima di essere apparsi, muti eroi, hanno reso possibile l’apparire di altre civiltà, di altri ge­ nii futuri, che sono nati appunto perché non erano stati preceduti. Non avevano trovato dinanzi a loro ciò che li avrebbe resi superflui. 85

È poetico cercare una giustificazione a tutto ciò che pensiamo e diciamo, cercare il senso, l’e­ timologia, l’onestà in tutte le parole, perfino in ciò che è sacro, la probità del sacro, giustificare il volo nell’atto in cui lasciamo la terra? Il volo non si giu­ stifica da sé? Come il moto dell’antico filosofo. Ma la giustificazione di tutto è forse anche l’o­ rigine, la condizione, la giustificazione della poesia, che è la razionalità assoluta, radicale, forse suicida; l’autocoscienza perfetta che è autonegazione. (Quaderno 256, 1963)

In principio era il Verbo; poi la solitudine ori­ ginaria del Verbo si trasformò nel suo contrario, cioè nella conversazione; il Verbo divenne conver­ sazione, comunicazione; ma non poté mai comuni­ care ciò che effettivamente era, cioè la solitudine, il silenzio. Il Verbo è creatore quando è solitudi­ ne; quando è “in principio”. E che cosa venne (o verrà) dopo la conversazione? La conversazione dimostra solo la propria vanità, cioè l’impossibili­ tà di moltiplicare, di “coniugare” il verbo; il verbo non può essere coniugato con altro, non sopporta alcun giogo. Dopo la conversazione non possiamo che ritornare agli ineffabili (è il caso di dirlo) silenzi del Verbo; agli originari silenzi del Verbo. (Quaderno 258, 1963)

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La conservazione delle lingue attraverso secoli e millenni, la conservazione essenziale di tante paro­ le, anche tenendo conto delle mutazioni inevitabili, appare miracolosa ove si consideri l’uso continuo e violento di queste parole in milioni di bocche, il continuo agitato correre delle parole senza riposo, da un estremo all’altro delle conversazioni, l’uso in­ considerato che ne facciamo per tutte le circostanze ed occasioni, senza considerazione per le gloriose e divine origini e per la nobiltà intrinseca delle paro­ le, di ogni parola. (Quaderno 258, 1963)

Le parole sono costrette a correre da un capo all’altro delle frasi e delle conversazioni, sempre ne­ cessarie e sempre insufficienti: sempre all’estremo delle loro forze, ma si raffinano con l’uso ed evo­ cano virtù segrete e a loro stesse ignote. Anche le parole si salvano con la metamorfosi. (Quaderno 258, 1963)

I poeti riconducono le parole al loro valore pri­ mitivo; le sottraggono ai banali riferimenti, sottrag­ gono loro ogni fondamento. Gli assurdi fondamen­ ti con cui tentiamo di giustificarle. Anche la parola, come l’immagine, trascendenza e insieme diversità, non può essere riferimento che 87

al nulla, non può essere che la gloriosa coscienza del nulla. (Quaderno 260, 1963)

La sede, la dimora della poesia è nelle parole, nell’espressione. Non vi è poesia delle cose o degli avvenimenti, non vi è poesia obiettiva, come non vi è una rappresentazione obiettiva. Perché allora non vi è una poesia dei concetti? Se la poesia è co­ scienza, perché non può essere concetto? La poesia è pensiero dal momento che è parola, periodo, etc. Perché non è vera la reciproca, perché il puro pen­ siero non può essere poesia? (Quaderno 263, 1963)

La Parola può ridursi a un giuoco di parole? Abbiamo appreso a giocare con le parole? Che cosa di più sacro della parola? Come può la parola farci ridere? (Quaderno 267, 1964)

La parola serve a nascondere il pensiero; ma questo velame del nostro pensiero vale forse più del pensiero stesso, che non guadagna nulla ad es­ sere rivelato. La parola sta al pensiero come il ve­ stito al corpo. Il vestito è l’inconsapevole allusione 88

alla nostra perpetua metamorfosi. La parola non è direttamente il pensiero, ma è la metamorfosi del pensiero, la radicale trasformazione del pensiero. Nella sua essenza il pensiero è un atto semplice e immediato che ha bisogno di essere nascosto, cioè rinnegato. Anche il pentimento è un aspetto della nostra metamorfosi. L’espressione è la metamorfosi, ed essa, come ogni manifestazione, è la metamorfosi di una real­ tà ignota che vive in noi, cioè la vita stessa. Anche la coscienza è una metamorfosi; cioè è ontologica­ mente in sé una metamorfosi; e pertanto ciò che vi è di più chiaro e trasparente è la metamorfosi, ossia la nuova forma di ciò che vi è di più oscuro; e con l’oscurità conserva una continuità dialettica. (Quaderno 270, 1964)

Le piante, gli alberi, hanno le radici nelle pro­ fondità del mondo sotterraneo, e le chiome nel vento e nella luce. Sono una sintesi delle forze del cielo e della terra; una sintesi che non vuole espri­ mersi con parole, così sovente analitiche, per non dissolversi. Le parole sono così sovente analitiche, benché con vaghe intenzioni sintetiche. Gli alberi sono muti e soltanto il vento riesce a trarne una misteriosa e profetica voce. Che è una protesta per il silenzio turbato. La parola dei vegetali, testimo­ ni sopravvissuti dell’innocenza del mondo, sono i 89

fiori; i loro concetti sono i frutti. Il loro mondo è l’Eden. L’Eden vive ancora intorno a noi; la nostra espulsione dall’Eden è particolarmente crudele perché viviamo immersi in un Eden presente da cui siamo espulsi e separati. (Quaderno 309, 1967-68)

Le persone che non hanno nulla da dire non si decidono mai a tacere; quelli che annunciano mes­ saggi gravi, solenni e meravigliosi, sono gli angeli del silenzio; essi parlano con la loro sola presenza. (Quaderno 309, 1967-68)

I suoni, o i medesimi differentemente disposti, sono dissonanze e stridori che ci fanno soffrire? I suoni non sono parole, non sono traducibili in parole, né in concetti, non hanno parentele con pensieri e concetti, e appena possono riflettere le colorazioni dei sentimenti. I suoni della musica non sono suoni articolati in parole; perché allora hanno tanto significato, benché non siano mai immagini? Qual è la magia senza parole e immagini che si eser­ cita attraverso la musica? Il suono è sempre il suono del tempo; il suono è l’attualità, cioè l’infinita diversità del tempo, la diversità della radicale negazione del tempo, la ten­ sione tra negazione e continuità che è nel tempo, 90

anzi nella continuità stessa, nella durata. La durata è tempo, cioè negazione di sé. La musica è la coscienza e la magia del tempo, del divenire, che è la nostra sostanza, perché è la nostra distruzione. È quindi la trasformazione, la metamorfosi del nostro negarci in divenire; la ne­ gazione che si trasforma in affermazione, cioè in fantasia e creazione – il nulla, la mancanza di fon­ damento, che diviene assoluta, cioè fondamento di tutto. Ed infine la coscienza della nostra sublime presenza, mediante il tempo, che ne è la negazione. La tensione tra la negazione e il divenire (cioè la continuità) è il ritmo; in quanto coscienza della pre­ senza mediante il tempo, la musica è l’abolizione del tempo (nell’eterna presenza) mediante il tempo. (Quaderno 331, 1970)

Forse le parole sono tutte allusioni ad antichi miti, sono tutte di origine mitologica; a che cosa si riferisce il mito? Il mito è la sola espressione pos­ sibile, cioè creatrice, dell’inesprimibile; è la sola espressione possibile del nostro rapporto con la morte (con il nulla) e con la salvezza. Che è sempre l’impossibile salvezza dalla morte. Il mito termina con il successo di questo impossibile, l’impossibile e il successo che si aprono sull’al di là e importano nell’al di là, al di là di questo orizzonte, dove tutti i misteri vivono occulti nella vita di cui l’al di là è privo. 91

L’al di là è sterile perché i misteri fecondano soltanto la vita. Ma l’al di là è sempre analitico della vita, o meglio dell’attualità che non si estingue con l’analisi e la negazione, anzi trae da esse la sua immortalità, la sua vittoria sul dragone necessario; necessario, con la sua assenza di mistero, al mistero della vita. (Quaderno 331, 1970)

Quali monumenti di immagini e di parole – det­ ti “poemi” – innalziamo ai nostri sentimenti o alla nostra vita perché la Parola, che è sempre parola divina, porti la vita eterna? La vita eterna appartie­ ne ad ogni istante; ad essa ogni istante aspira ed ha ragione di aspirare, appunto in ragione della sua fu­ gacità, che lo rende unico e irripetibile (l’istante ha diritto ad aspirare all’eternità perché la è; è l’unico istante, l’eterno – eternità vivente perché l’istante è pura negazione). Grande è la nostra felicità quando l’apparizione di qualche grande espressione sembra assicurarci della possibilità o della presenza di una vita eter­ na, della più bella delle vite. L’espressione nostra o altrui è l’immortalità del fugace istante, la più alta delle sintesi, cioè l’immortalità dell’attualità, quan­ do è attualità pura, cioè attualità del proprio nulla. Cerchiamo in ogni immagine la rappresentazione di un’eternità nell’atto stesso in cui rappresenta la sua fragilità. La fugacità in sé è l’attualità del nulla, e 92

perciò è eterna. L’immagine non è il desiderio di eternità; è appunto l’assenza di ogni desiderio, ed in questo senso è eterna. (Quaderno 331, 1970)

Le prime parole, anzi le prime sensazioni, sono delle interrogazioni; sono delle interrogazioni an­ che le nostre abituali rappresentazioni delle cose e del mondo mediante la vista, l’udito, etc… delle interrogazioni che sembrano contenere la risposta, che sembrano essere la risposta, la risposta colora­ ta, figurata, sonora etc. alla nostra interrogazione; sono occorsi millenni e millenni perché il pensiero umano potesse accorgersi che la risposta era una illusione e che ciò che sussiste è l’interrogazione, che forme e colori e suoni e parole sono l’interro­ gazione stessa. L’attualità dell’interrogazione; come l’attualità e come la luce piena di diversità, iride di colori. Ma in sé chiara e trasparente come cristallo; l’interrogazione è unica; l’attualità è in tutte le cose e tutte le cose sono in essa; ma essa rimane chiara, trasparente e impenetrabile come il diamante. (Quaderno 331, 1970)

La Parola ha la potenza di credere in ciò che dice? La Parola intesa come la buona novella è l’an­ nientamento di ciò che dice. Anche il delirio dioni­ 93

siaco è l’annuncio dell’annientamento, è la volon­ tà dell’annientamento, la volontà della potenza, o dell’onnipotenza dell’annientare. E l’eterno ritorno dell’attualità; che è l’attualità dell’annientamento. Anche Nietzsche, che proclamò la crocifissione di Dioniso, era un apostolo, come Lutero, della giustificazione per fede, giustificazione per la fede nell’assoluto? (Quaderno 336, 1970)

Mallarmé tendeva a una sintesi sublime e impos­ sibile tra la parola e il silenzio; in cui la parola di­ ventasse tutto, e cioè nulla, ossia silenzio. Silenziosa come l’assoluto. In cui perciò il silenzio diventasse parola; parola assolutamente giustificata. (Quaderno 336, 1970)

Le parole sono una profondissima memoria e un lungo oblio. Dobbiamo liberarle dall’involucro dell’oblio in cui si sono per così lungo tempo difese, in cui hanno difeso la loro ambiguità, la loro vita? (Quaderno 336, 1970)

Sono le parole che inseguono i pensieri, i rapidi pensieri, o sono i pensieri che inseguono le parole, nate prima di loro? (Quaderno 336, 1970) 94

Nelle antiche tragedie, cioè negli antichi raccon­ ti più o meno mitici, la Parola era la protagonista, vestita delle vere immagini; la Parola, che è resur­ rezione e catarsi, cioè purificazione; anche il mito cristiano diventò, mediante la morte e la dissacra­ zione, Parola, Immagine e Sacralità. Nell’arte moderna del racconto, compendiata dal cinematografo, dalla fotografia, soltanto l’atto o l’avvenimento sono i protagonisti – e le immagi­ ni sono pseudoimmagini, perché immediate, senza alcuna possibilità di trasformarsi nel loro contrario, di essere cioè diverse da sé, come avviene invece nel mondo immaginario dell’arte, che è un mistero di salvezza. (Quaderno 340, 1971)

L’albero, che non sente, non vede, non sa né co­ nosce, che non parla se non coi venti, è però una compiuta bellezza, un’armonia, una simmetria. Un equilibrio di forme, una suprema innocenza, una mancanza di colpa. Esso non sa che cercare il sole e donare tutti i suoi frutti; dalle sue fibre si fanno gli strumenti musicali, e il risuonare di quelle fibre è l’assoluto spirituale della musica. L’albero intero è l’inconsapevole parola, è l’in­ consapevole creazione della bellezza. La bellezza esteriore è la sua interiorità. L’albero conosce per­ ché crea; e questa bellezza non è una nostra con­ 95

venzione o un nostro arbitrio, appunto perché è autonoma creazione e metamorfosi. (Quaderno 340, 1971)

Quando illimitatamente abbiamo parlato, scrit­ to e pensato, quando crediamo di aver tutto cono­ sciuto e tutto detto, allora ci accorgiamo di essere alla presenza dell’inconoscibile, dell’unico pensiero che meriterebbe di essere pensato, dell’unica paro­ la che meriterebbe di essere detta, dell’unico senti­ mento che meriterebbe di essere espresso; il pen­ siero, la parola che non sapremo mai né pensare né dire; il sentimento inesprimibile che non sarà mai espresso, anche perché l’espressione in sé sarebbe un mistero ancora più grande e impenetrabile di ciò che dovrebbe esprimere. Non abbiamo reti per pescare le ombre che sfuggono rapide e guizzan­ ti, abitatrici delle profondità nel più liquido degli elementi. (Quaderno 344, 1971)

Noi dobbiamo costringere le parole a dire tutto ciò che sanno senza saperlo, e tutto ciò che hanno dimenticato. E così dobbiamo obbligare lo sguardo a dirci tutto ciò che vede senza accorgersene. La Parola di Dio è la Parola che sa tutto di se stes­ sa, che sa le proprie origini, tutto il suo passato, la 96

sua innocenza e la sua colpa, la sua altezza e la sua degradazione. Chi ricordasse tutto di sé, potrebbe essere… conoscerebbe anche la profezia infallibile. (Quaderno 344, 1971)

La potenza poetica che hanno certe parole o certe frasi, anche di origine popolare, è forse una delle tante forze o energie cosmiche di cui igno­ riamo l’origine, l’essenza e il fine, o la fine; astri e aurore che traversano i nostri spazi verso inimmagi­ nabili tramonti, accennando a mondi e verità di cui ignoriamo tutto, fuorché che sono essenziali e dissi­ mili da noi; di cui abbiamo la continua esperienza perché sono costitutivi di noi; ma quanto più li sperimentiamo, tanto più divengono inconoscibili e irraggiungibili. Si potrebbe anche accennare a un semplice colore che la strega tiene prigioniero nella sordida banalità. Colori, suoni, azioni, for­ me… sono di origine divina, di una impensabile divinità. (Quaderno 344, 1971)

L’assoluto è un gioco di parole; l’assoluto dell’u­ niverso è una necessità puramente logica, cioè di nuovo un gioco di parole? Come altrimenti possia­ mo costringere l’universo ad essere un assoluto, e cioè eterna negazione di sé? L’universo può essere 97

un’attualità? Come costringere l’universo a negar­ si? Con il nostro esempio. (Quaderno 344, 1971)

Un pensiero certo ma inesprimibile è più luci­ do di una definizione delineata sui moduli dell’evi­ denza. Anche la “Parola” è autonoma rispetto alla sua base obiettiva, al cosiddetto oggetto cui allude o che afferma? Ma la differenza dal suo oggetto è solo apparente. L’oggetto della parola e dell’affer­ mazione è la parola stessa; l’oggetto della parola e dell’affermazione è la negazione della parola e dell’affermazione. Affermare l’affermazione è ne­ gazione della parola e dell’affermazione. Affermare l’affermazione è negarsi; perché l’affermazione è soggettiva e quando è affermata è nulla. (Hegel ha detto che la negazione della negazione è afferma­ zione; ma è vero anche che l’affermazione dell’af­ fermazione è affermazione del nulla, è negarsi, è negazione). Pertanto anche la Parola ha la propria autonomia, è un astro del proprio cielo, è sola. Sola salvezza. Tanto più quanto più sa di essere inespli­ cabile. La Parola, come il Pensiero, che dovrebbero tutto spiegare, sono a loro volta inesplicabili. E che potrebbero spiegare o affermare, se fossero spiega­ ti, affermati, conosciuti? (Quaderno 344, 1971)

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L’opera d’arte, l’opera letteraria, la frase, la pa­ rola, sono una metamorfosi del nostro perpetuo abolirci; sono la nostra metamorfosi, sono la nostra differenza ed il nostro al di là; sono l’assoluto al­ tro nell’atto in cui esprime, giustifica, afferma l’i­ dentico. La cosiddetta struttura suppone una me­ tamorfosi, cioè una negazione e una resurrezione, di cui questa negazione è la forma. La resurrezione è un’attualità vista nella forma della morte – nella forma della negazione. Come diversità dell’identico, attualità della ne­ gazione, la parola, il discorso, lo scritto, il concetto, sono un’immortalità; perché immortale è la meta­ morfosi. La metamorfosi è l’universo stesso – è l’es­ senziale legge dell’essere. L’Essere non è obiettiva­ mente, non può essere obiettivo, ma è resurrezione, cioè attualità. La forma è sempre metamorfosi. La parola è la metamorfosi della cosa, perché è metamorfosi dell’atto, eternità dell’atto. Noi perveniamo all’eternità quando perveniamo all’attualità che possediamo negandola e possedendo questa negazione con l’esserne l’attualità. L’attualità è eterna perché è attualità di tutto ciò che la nega. (Quaderno 346, 1972)

Le parole possono essere chiavi o serrature. Pos­ sono aprire o serrare le vie del pensiero, possono essere redenzione o condanna. (Quaderno 346, 1972) 99

Le più belle frasi sono le frasi musicali; forse le più belle fantasie amano diventare realtà come musica. Ma quale verità intraducibile in parole e concetti è narrata dalla musica? Né noi né la mu­ sica potremo mai saperlo. La musica ignora la pro­ pria verità, quanto più apertamente, potentemente, profondamente la dice. La verità emigra sempre in tutto ciò che la cela. Il sogno della musica come il sogno del pensiero (e di ogni arte) è la salvezza; e la salvezza è quella che salva, nell’unico istante, il passato e il futuro; appunto perché salva il presente. Ma il dubbio ri­ mane: la salvezza è la verità? E dobbiamo rinuncia­ re all’una delle due per ottenere l’altra? Ma che mai possiamo ottenere o possedere? L’unica saggezza è dormire; e la morte lo sa. To sleep, perchance to dream? (Quaderno 347, 1972)

Le parole sono nate dal canto, cioè dal ritmo. La cosiddetta poesia è il coniugare le parole secondo il ritmo, più che secondo il senso. Coniugare secondo il ritmo è anche coniugare le parole secondo il loro senso, secondo la loro origine. L’origine non ha un senso, una direzione: la pa­ rola non ha uno scopo. La parola è una affermazio­ ne, un’affermazione di noi. È l’affermazione di un tutto (l’origine è il tutto); il tutto che si ricostruisce 100

mediante le proprie autonome negazioni e divisio­ ni, mediante la coscienza della sua fragilità. La di­ versità rinasce dall’unità del negarsi; la diversità è diversità di un’unica immagine. La diversità non è oggettiva; noi dimentichiamo sempre la memoria, che è l’origine – più antica di ciò che ricorda. (Quaderno 348, 1972)

Vi sono forme di espressione come la pittura, la scultura, l’architettura, la musica, che ignorano la parola. Ma anche le nostre sensazioni sono forme di conoscenza e di espressione senza parole; anche gli animali si esprimono con le sensazioni e le immagi­ ni che, più o meno confusamente, vedono; anche i suoni o la musica dei loro richiami sono senza pa­ role. Che significato ha l’apparizione delle parole? Il Verbo era effettivamente in principio; era effetti­ vamente un’origine, o è un risultato, l’estrema me­ tamorfosi delle sensazioni, delle rappresentazioni, della vita? È ciò che risorge quando sono aboliti tutti questi valori? È l’origine o la fine, o entrambe? La Parola, il logos, il discorso, è un costruttore, un creatore o un distruttore? La coscienza dell’origine è appunto la fine; il sovvertimento della vita, delle conoscenze primigenie come sono le sensazioni? Ma la conoscenza fu mai ingenua? Non vi è vita senza coscienza; non vi è vita che non abbia in sé il principio della propria distruzione, della pro­ 101

pria morte – che essa, con il suo rigoglio, crea. La conoscenza è il principio, il supremo valore che distrugge i valori; la storia dell’arte è la storia del­ la guerra civile tra i valori della vita e la conoscen­ za; è l’incendio universale, la sola illuminazione dell’universo. (Quaderno 355, 1973)

Il nome, cioè la parola, è un’identificazione che diviene diversità; come l’immagine. Il nome, come la parola, identifica e diversifica; come l’individuo si diversifica identificandosi. La parola, il verbo, è l’individualità dell’attualità. Che cosa è il significato? È un’affermazione come attualità della propria negazione; un’affer­ mazione giustificata dalla propria negazione. Cioè fondata sulla propria negazione. La presenza degli inferi. E qual è il significato di questa affermazione? È il significato, la diversità che questa affermazione assume diversificandosi da sé; è la diversità assoluta dell’attualità che si identifica in quanto attualità del suo nulla. La diversità, l’inconoscibilità è il signifi­ cato dell’attualità? Il significato è il rapporto con la nostra trascendenza; con la trascendenza creata dalla nostra negazione; è una trascendenza attuale. Il significato è il nostro rapporto o la nostra identi­ ficazione con l’universale annullarsi, che è il nostro soggetto. Il significato è il soggetto in quanto tra­ 102

scendenza. La trascendenza è il segno senza signifi­ cato a cui tutti i segni si volgono. Il significato è quella diversità che il discorso in­ consapevolmente crea quando dice la propria iden­ tificazione. Il significato è il riferirsi al mistero dell’attualità, al mistero trascendente, cioè assolutamente privo di significato. Il significato è l’attualità come puro togliersi e il puro togliersi come attualità; e perciò è attualità come diversità dal significato. L’attualità è come il mare che ha tutti i significati e nessuno, tutte le forme e i colori, e nessuno. Il significato è il riferimento alla soggettività che ha tutti i significati e nessuno. L’attualità è una meta­ morfosi attuale. Il significato è la metamorfosi. Il significato è il rapporto dell’essere e del non essere; la continuità è paradossalmente il negarsi dell’attualità. (Quaderno 355, 1973)

È vano opporre alla morte un gioco di parole per vincerla e opporle l’immortalità di un mosai­ co di concetti. Ma è anche vero che un concetto o una concatenazione di frasi può assomigliare al movimento dialettico della morte reale (se così può denominarsi l’irreale per eccellenza); che sia cioè un negarsi infinito, che sia anche l’attualità 103

del negarsi; che sia l’assoluto vuoto e l’assoluta re­ surrezione. (Quaderno 355, 1973)

Anche la letteratura, il discorso, sono fatti di immagini; le parole sono immagini. Può esservi un discorso iconoclasta? Forse soltanto il discorso che corrisponde a una intenzione; ma quanto più la let­ teratura, il discorso, le parole, si liberano dall’inten­ zione pratica, per diventare soltanto se stesse, tanto più sono soltanto immagini, adorazione di immagi­ ni; anche quando servono o seguono profeti icono­ clasti, il cui entusiasmo religioso si esprime con un meraviglioso mondo di immagini. Noi abbiamo il torto di non meravigliarci abba­ stanza del mondo e delle cose che ci stanno intorno; se la nostra meraviglia fosse al livello del mistero che siamo e che tutto è, noi e la nostra mente non saremmo che l’estasi di un punto esclamativo. (Quaderno 359, 1973)

Il Verbo è il padrone e il servitore del nostro pensiero; il pensiero nasce dal Verbo e il Verbo dal pensiero; il Verbo è l’origine e la conclusione, la conseguenza, del pensiero. (Quaderno 359, 1973)

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L’illusione della parola che ci conduce al silen­ zio. La terra con tutti i suoi linguaggi è essa stessa la torre di Babele; tutta la terra è Babilonia. E così la società, la società di quelli che un muro ed una fossa serra, è Babele; e così l’anima nostra. Noi eterni naufraghi. Anche l’anima parla diversi lin­ guaggi. È più fallace l’esistente o l’inesistente? Solo l’inesistente è fedele a sé, fedele alla propria inesistenza. (Quaderno 362, 1974)

La parola in sé è sacra; ma essa è vittima della frase, del discorso, del logos. Il suo peccato è il non bastare a se stessa. La Parola originaria ci è ignota; ma essa si scinde subito in due parole: il sì e il no. Le due parole ori­ ginarie, dopo la fine dell’unica Parola originaria che era l’Eden; parola ignota come il Paradiso. Niente è noto e ignoto come il paradiso. Il sì e il no, sono Abele e Caino dopo l’estinzione dell’ignoto; l’igno­ to che era il paradiso. Sono Romolo e Remo, dal cui dissidio nasce la Storia. La musica risveglia ciò che di più noto abbiamo in noi: cioè l’ignoto. La storia è il dialogo istituito all’origine, o meglio alla fine dell’Origine, tra il sì e il no. L’anima è un simbolo, un simbolo di che cosa? È simbolo della conoscenza e dell’ignoto? Simbolo dell’essere. Anche l’Essere è un simbolo. Ma di che 105

cosa è simbolo l’essere? L’Essere è il simbolo del nulla. (Quaderno 362, 1974)

Le parole sono angeli ed arcangeli. Sono la me­ tamorfosi, la trasformazione del mondo, dell’essere (della realtà?) in un’essenza o sostanza ignota. Igno­ ta come la coscienza, come la rappresentazione. La parola è una forma o aspetto della luce, che tutto rivela restando ignota; tanto più ignota quanto più rivela. Come la coscienza. (Quaderno 362, 1974)

La poesia è sempre in esilio; questa parola si deve intendere nel senso che la poesia, per vivere, deve trovarsi in esilio in una regione arida e impo­ etica, ove essa compare spontaneamente sottopo­ nendosi a tutte le leggi e a tutti i divieti. Oggi, per esempio, la poesia si è rifugiata nella razionalità del­ le scienze. La razionalità è l’esilio per l’irrazionale, per la fantasia, per la libertà. L’Eden irrazionale in esilio – le oasi dell’esilio. (Quaderno 365, 1974)

In principio era il Verbo, poi venne il sostantivo. La parola è prima di ciò a cui apparentemente essa 106

si riferisce. La parola è prima della cosa – filosofia idealistica. (Quaderno 365, 1974)

Il più banale discorso è un poema che si ignora. Chi conosce la profondità delle parole che adope­ ra, le loro lontananze, le origini, le tragedie storiche che hanno attraversato? Ogni sostantivo è un ag­ gettivo fossile. Anche le parole hanno una storia, cioè una tragedia e una gloria. (Quaderno 365, 1974)

Mallarmé non ricercava la salvezza nella lettera­ tura, nella poesia, etc.; non si serviva della letteratu­ ra, della prosa o del verso, come di uno strumento di salvezza; anzi, i suoi scritti manifestano l’intima rinuncia alla salvezza; sono l’espressione dell’estre­ ma rinuncia alla salvezza; in cui effettivamente la salvezza consiste. Forse egli stava trovando il pun­ to in cui immagine e diversità possono coincidere con l’assoluta negazione, cioè con la salvezza. Cioè, quando sono l’espressione e la rappresentazione di una rinuncia alla salvezza; il sacrificio supremo, degno della divinità quando si apre in essa l’abisso della coscienza. Inimitabile ascetismo che finisce nel silenzio; vi può essere una rivelazione della sal­ vezza oltre il silenzio? Forse la fede che il silenzio 107

possa per virtù propria ridiventare Parola. Ma il problema e la sua soluzione o non conquistano il silenzio o non riconquistano la parola. (Quaderno 369, 1975)

Grazie a Te tutto è vano, o mio Signore; anche la diversità è vana quando appare nella forma del­ la creazione, nella forma del tutto come creazione. Tutto è vano quando è affermazione; quando è nel­ la forma dell’affermazione. Soltanto la negazione è reale. La poesia è la rivelazione della Parola; e il ri­ velarsi della parola è pensiero e poesia. Nel tempo che fu, la rivelazione della Parola era Dio, ed era insieme Dio stesso che rivelava la parola. Quando i valori estetici, le opere, esistevano veramente, la Parola non li rivelava, né rivelava se stessa. I valori estetici si nascondevano in Dio ed ora è Dio che tenta di nascondersi nei valori estetici che lo rinne­ gano. Anche la storia è perpetuamente il ripudio di se stessa. E, ahimè, anche di noi. Tutto finisce con l’Amen che è l’origine di tutto, che è il tutto. Amen. (Quaderno 372, 1975)

Raramente si può tradurre in parole una musica o una pittura. Non si può tradurre in parole nem­ meno una poesia; nemmeno una bella prosa si può 108

tradurre in parole. La parola stessa è intraducibi­ le in se stessa; essa vive e si illumina del proprio mistero. Noi traduciamo tutto nell’intraducibile; il mistero non sa e non può, o non vuole uscire da se stesso; esso si traduce in una metamorfosi che è un mistero alla seconda potenza. Il Verbo era la salvez­ za, ora sembra essere una perdizione. (Quaderno 372, 1975)

Anche la parola, la frase, il discorso sono durata (S. Agostino); la parola, infatti, come ogni espres­ sione, è un atto; un atto come coscienza del suo at­ tuale abolirsi – è l’attualità (qualità, diversità) del suo abolirsi. Una parola è la qualità, l’alterità, la positività attuale del suo abolirsi. (Quaderno 374, 1976)

La musica è la coscienza che abbiamo del tempo come negazione, del negarsi del tempo, del negarsi della realtà; e la trasfigurazione, cioè la coscienza della negazione è il suono, il suono come trasfigu­ razione della negazione. Il suono (la voce, la musi­ ca) sono la trasfigurazione del tempo. La negazione (il tempo) è l’essenza di quell’affermazione che è il suono, che è la voce. La parola è figlia della me­ moria, è l’individuazione dell’universale. La parola non è immediatamente universale, ma l’afferma­ 109

zione come atto dell’universale, atto del negarsi dell’universale. (Quaderno 374, 1976)

Le parole che si riferiscono a dei valori, si sva­ lutano progressivamente come le monete, come, appunto, i valori. (Quaderno 374, 1976)

Quando pensiamo troppo profondamente, per­ diamo l’uso della parola. La parola si può “usare”, cioè profanare, quando non se ne comprende il significato. Se comprendessimo il significato delle parole, non usciremmo mai più dal silenzio. (Quaderno 374, 1976)

L’eco ripete, riflette, con la propria perfezione, tutti i suoni, tutte le parole e i loro significati più luminosi, rimanendo perfettamente inconsapevole di ciò che dice; luminosa e inconsapevole come lo specchio. Forse noi siamo soltanto un’eco, soltanto uno specchio, con in più un oscuro rimorso. Ma la volontà moderna vuole abolire questo rimorso; che bisogno ha l’eco, ha lo specchio di una giusti­ ficazione? (Quaderno 374, 1976) 110

La sintesi può essere considerata un fallimento, ma in realtà è una resurrezione che suppone una morte, un assoluto fallimento; e la sintesi è appun­ to la coscienza del proprio fallimento, del proprio nulla, della propria inferiorità. (Quaderno 374, 1976)

Tra viventi vi possono essere delle corrispon­ denze di parole, ma anche delle corrispondenze di silenzi; le distanze si corrispondono, si rispondono più che le prossimità. (Quaderno 374, 1976)

L’eco è lo specchio dei suoni e lo specchio è l’e­ co delle immagini; e in entrambi i casi la risposta è sempre identica all’interrogazione; per quanto an­ gosciosa sia l’interrogazione. (Quaderno 374, 1976)

La parola è una crisalide del suono? Suoni, luci, colori, etc., sono metamorfosi della negazione asso­ luta che noi siamo, e perciò incontrollabili e inac­ cessibili come la nostra soggettività. (Quaderno 381, 1977)

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Così come la musica, anche il discorso, la rap­ presentazione visiva, la narrazione, sono la meta­ morfosi del tempo distruttivo; sono una nuova di­ rezione del tempo? (Quaderno 381, 1977)

Come lo scopo della scienza è la creazione dell’inconoscibile, cioè, nella creazione, del crea­ tore, così lo scopo della poesia è la creazione, me­ diante la parola, dell’indicibile, dell’ineffabile. La parola non crea soltanto il conosciuto. (Quaderno 387, 1978)

Un’impressione, un’emozione artistica, non può essere tradotta in parole, riprodotta in parole. E nemmeno l’impressione, l’emozione che produce in noi un poema o una prosa, possono essere tradotte in parole – da quelle stesse parole che costituiscono il castello inconquistabile dell’opera d’arte. Nessun entusiasmo può essere espresso razionalmente con concetti; sono piuttosto i concetti che tentano di divenire organiche opere d’arte, che distruggono l’oggettività delle opere d’arte, evocando la loro resurrezione, come i pellegrini d’altri tempi si re­ cavano ai loro santuari apparentemente lontani. L’inesprimibile; l’opera d’arte è l’inesprimibile che la costituisce. (Quaderno 396, 1981) 112

Linguaggio e letteratura

Chi vuole avere della buona letteratura, non deve pensare a fare della letteratura; così, chi vuo­ le creare una cultura non deve pensare che questa cultura debba portare altri frutti che la semplice ri­ cerca della verità. La cultura crea da sé a se stessa la propria gloria e la propria diffusione, a condizione che chi crea la cultura non pensi alla cultura, ma al culto (cioè etimologicamente, alla cultura della verità). (Quaderno 9, 1929)

Un’espressione (anche artistica) è bella e degna quando si vede che essa non è lo scopo di chi parla, ma solo un accessorio, l’apparenza di un altro sco­ po. L’apparenza di un’essenza diversa; l’accidente di una vera sostanza, lo scherzo attorno ad una cosa seria. (Quaderno 14, 1932)

Le donne tendono ad acquistare, nella letteratu­ ra contemporanea, un’importanza sempre maggio­ 113

re, per non dire dominante. Ciò dipende dal fatto che, nella nostra epoca, le volontà umane hanno un’importanza sempre minore di fronte alla volon­ tà delle situazioni e delle cose; la volontà dell’indivi­ duo ha un’importanza sempre minore di fronte alla volontà sociale, il pensiero ha importanza minore di fronte al sentimento. L’uomo è nato per coman­ dare il mondo e per cambiarlo, e così il pensiero; il pensiero non tocca nulla senza cambiare qualcosa, mentre il sentimento puro accetta tutto; l’uomo, dunque, ha l’arte di mutare le situazioni, la donna ha l’arte di accettarle (e da qui dipendono le sue attitudini sentimentali e pratiche). E quindi sono le donne che, più degli uomini, sono capaci di espri­ mere convenientemente (e di avere ancora dei veri sentimenti, anche perché le donne sono, forse, i soli esseri capaci di avere dei sentimenti allo stato puro e senza mistura di intenzioni od elaborazioni) e di comprendere le cose col loro semplice accettarle. (Quaderno 18, 1933)

In tempi trascorsi, fino al XVII secolo, la nar­ razione dei fatti che si ritenevano degni di esser narrati, doveva sottostare a leggi rigorose: l’espres­ sione di un fatto doveva esser cosciente di sé come espressione dell’intervento della coscienza umana nell’interpretazione del fatto. Perciò questa digni­ tà dell’espressione assumeva la forma del ritmo; 114

il ritmo era la costruzione umana per eccellenza, opposta al disordine dei fatti o degli avvenimenti. Cioè, quell’assoluto che è l’interpretazione umana di un fatto doveva anche avere uno stile assoluto; un ritmo e le leggi di questo ritmo: il freno dell’arte. Perciò quelle narrazioni assumevano quasi sempre la forma del poema, creazione regolata da parti­ zioni regolari e simmetriche e dalle leggi musicali del ritmo. Nel secolo scorso lo stile divenne libero, come era giusto nel secolo della libertà, e si credet­ te possibile l’espressione immediata, verista, delle cose: abbandonando le regole ritmiche, ed imitan­ do la prosa scientifica, senza pensare che la prosa scientifica aveva nel contenuto stesso una legge e un freno ben maggiore di quelli della metrica e della musica. Nella narrazione dei fatti, nella descrizione dei caratteri era il ritmo; la retorica o poesia dell’e­ spressione o descrizione, che era l’equivalente del­ la scienza, in quanto equivaleva all’interpretazione scientifica, cioè umana, delle cose. Oggi, l’unica possibile narrazione drammatica è la filosofia: solo nella filosofia vi è uno sviluppo dia­ lettico dei concetti, poiché i concetti, le idee, sono i soli personaggi moderni che abbiano un destino: cioè una libertà, e insieme una legge. Una legge di vita, un destino di morte e una rinascita o sopravvi­ venza oltre la morte e il destino. Gli uomini moder­ ni non hanno più un destino poiché non hanno più una libertà e un’iniziativa. Il destino, se mai, è dive­ 115

nuto destino delle società collettive. Quindi l’uomo moderno, non essendo più drammatico (cioè prota­ gonista), non può più sentire una vera poesia nella vita. La poesia, per l’uomo, è tutta nella sua libertà ed attività, nel destino personale della sua attività. Dove non è libertà e iniziativa d’atti, non vi è più vera drammaticità della vita e quindi vera poesia. Difatti le classi degne di esser rappresentate nell’ar­ te perché libere, attive e drammatiche, furono le feudali e le borghesi (borghesi della Rinascenza o del secolo scorso). Ora, la poesia dell’attività e del dramma che ne risulta, poesia maschile e creatrice per eccellenza, è sostituita dalla poesia della mera sensibilità e sensa­ zione immediate, e in essa hanno più attitudine le donne, i vuoti esteti, etc. Epoca dell’Idillio. Forse nella società moderna la donna tornerà ad essere la profetessa, l’unica sacerdotessa di Apollo; rap­ presenterà tutto il bello, il buono, il delicato, il po­ etico che la società non può toccare, organizzare, asservire ai suoi fini razionali. L’immediata sensibi­ lità ritornerà ad essere l’unica bellezza. Così, nelle società perfettamente razionalizzate, la natura im­ mediata torna a riprendere il primo posto. (Quaderno 28, 1934)

L’arte, per esempio l’arte del linguaggio, con i suoi aggettivi, attributi, etc., l’arte plastica con le 116

sue forme, la musica con i suoi rapporti, dimostra­ no come la conoscenza dell’obiettivo sia essenzial­ mente un’autocoscienza. (Quaderno 22, 1934)

La vera letteratura deve sapere che essa non può trovare un pubblico già pronto: perché allora e a che cosa servirebbe l’opera e l’azione della lettera­ tura? La letteratura sarebbe superflua; la letteratura deve creare il suo pubblico. (Quaderno 214, 1959)

Le immagini poetiche, le idee dell’arte in genere, hanno la forma e i colori del tempo, del momento storico, cioè temporale, la divina unicità dell’atti­ mo (passaggio e unicità); e insieme sono la forma e l’immagine dell’eternità; l’eternità come immagine. Cioè come temporalità. E la temporalità come im­ magine, cioè come eternità. Testimoni del tempo e guardiani della soglia dell’eternità; perfetto ritratto del tempo e perfetta immagine dell’eternità. (Quaderno 217, 1959)

Noi siamo la traduzione dell’universo, del co­ smo, ecc., in termini di sensazione e di tempo. Tra­ duzione dell’ignoto in un linguaggio incompren­ 117

sibile, appunto perché è la comprensione stessa, è la comprensione, cioè la coscienza di un ignoto che resta tale perché la traduzione vive di se stes­ sa; la nostra sensazione qualitativa e temporale ha distrutto il testo. Essa stessa è diventata un testo, mentre il testo originario non è più che un pre-te­ sto. Da millenni l’uomo si sforza di comprendere la traduzione, per poter, attraverso di essa, giungere al testo originario e perduto (forse si è talmente in­ namorato della sua traduzione, da perdersi in essa; come sempre, la realtà si innamora della sua tradu­ zione in poesia e si perde totalmente in essa). L’uni­ verso, la realtà si sono perduti, sono perduti per noi e sono perduti in se stessi. Dopo tanta disperazione per dover pervenire alla realtà attraverso la tradu­ zione (la sensazione, la qualità, il tempo, la diversi­ tà), i sapienti, i filosofi propendono a pensare che il vero testo sia la traduzione, che è originaria; e che l’universo, oltre che un pre-testo, sia esso stesso una traduzione, che la realtà sia una traduzione, ma una traduzione in un linguaggio infinitamente povero che non spiega nulla. Che non spiega né la qualità, né il tempo, né la diversità, né, insomma, tutto ciò che noi siamo. (Quaderno 214, 1959)

Quando in un modo o nell’altro ci esprimiamo, siamo sempre gli storici del presente. E il futuro 118

ci apprezzerà non come espressioni di una mitica verità (la verità non ha altra veste che il mito), ma come testi di storia. Perciò, qualunque cosa diciamo o facciamo, siamo degli autori postumi, siamo del­ le vite postume; che possono interessare soltanto i nostri discendenti, postumi rispetto al nostro tempo. (Quaderno 214, 1959)

L’angoscia è un testo, una traduzione in termi­ ni disperatamente umani, di una realtà ignota che forse è soltanto il nulla. (Ma la presenza del nulla è il massimo mistero). L’angoscia è pura, cioè non ha cause. Quando riteniamo che essa abbia una cau­ sa, persuadiamoci che questa causa sia soltanto un pre-testo; una superflua prefazione al testo. (Quaderno 214, 1959)

Soltanto il fuoco e le fiamme dello Spirito pos­ sono trasformare la realtà immediata e oggettiva in forma; in misteriosa soggettività. La metamorfosi è sempre una trasformazione in forma. Tutta la no­ stra vita opera in questo senso e la storia sembra avere questo scopo della trasformazione del reale in forma; tutta la nostra vita è una metamorfosi. La me­ tamorfosi non è il trapasso da una forma all’altra, ma il trapasso dall’informe, dall’immediato, alla forma. (Quaderno 214, 1959) 119

Pittori, scultori, musici, ecc., insomma tutti quelli che pensano senza parole, sono i più adatti ad inventare lingue nuove, ad ispirare nuovi rap­ porti tra le Parole, forse perché intendono il vero senso delle parole, ciò che sta dietro ad esse. La pit­ tura, il mondo spirituale e morale in cui vive. (Quaderno 214, 1959)

Noi abitiamo un linguaggio come inquilini in un alloggio e ne siamo abitati, o ne siamo il soggetto? Questo equivale a chiedere se siamo il soggetto del­ la nostra attualità o se la abitiamo come qualcosa di diverso da noi. Se il linguaggio e l’attualità sono un assoluto, l’assoluto della coscienza, anche se creati da noi, ci contengono. L’anteriore, il primo, l’ori­ gine, il trascendente sono sempre creati da noi at­ tualmente (così come creiamo l’assoluto), e questa creazione è sempre una negazione. Il fondamento, la verità, è sempre negazione; un fondamento negativo, e perciò non un fondamento oggettivo. Il fondamento negativo è il fondamento soggettivo. E l’assoluto creato dal negativo ha valo­ re di trascendenza. (Quaderno 214, 1959)

Lo stile letterario, come lo stile di vita, può ac­ compagnarci soltanto fino a un punto del nostro 120

cammino, del nostro processo, come Virgilio ac­ compagna Dante attraverso i regni dell’espiazione, fino al punto in cui la gravità del mondo positivo cessa, e si entra nel mondo meraviglioso delle attra­ zioni, nel mondo negativo e paradisiaco della veri­ tà, che noi non possiamo volere, perché essa vuole noi; il mondo della verità in cui non valgono né le nostre leggi, né le nostre affermazioni, né i nostri desideri, perché il desire e il velle non muovono più, ma sono mossi come una ruota. Una ruota che gira a vuoto, come un cielo. Perché non deve più andare in nessun luogo, perché è fuori del luogo. Lo stile allora ci abbandona perché esso è misura e, nel terzo regno, nel regno della verità, non esi­ stono più misure. Non esiste l’idea di misura e di rapporto. (Quaderno 217, 1959)

La vera letteratura, nel suo insieme, dovrebbe essere la narrazione di una storia che non sarà mai conosciuta, un racconto il cui oggetto resterà sem­ pre ignoto; perché probabilmente tutta la sua realtà consiste nella sua inconoscibilità. Anche i romanzi che raccontano una storia che normalmente comin­ cia e finisce come le favole, se hanno un qualche valore, è perché si riferiscono a un’altra storia, a cui il racconto in superficie allude continuamente, rive­ landola e nascondendola come una divinità, e che è 121

profondamente ignota, forse, perché indicibilmen­ te nota, al suo autore e al suo lettore. (Quaderno 229, 1960)

Il pensiero si adatta alle possibilità di espressio­ ne assai più facilmente che l’espressione al pensie­ ro. Il pensiero è forgiato dalle sue espressioni. Un pensiero segue la musicalità della propria lingua, le lusinghe delle sua possibilità. L’errore consiste nel credere di poter separare ed opporre pensiero ed espressione. Lingue, arti, letteratura, lirica, ecc., sono create insieme al pensiero, alla visione delle cose, al modo di affermare e negare, di accettare e rifiutare, che sono propri di un popolo. Vi sono diversi modi di essere identici a se stessi; è dal tentativo di identifi­ carsi che nascono tutte le diversità. (Quaderno 229, 1960)

Quanto più perfettamente e puramente ci espri­ miamo, tanto più siamo certi di non essere com­ presi. Limpidità e chiarezza sono spesso barriere insuperabili che sviano gli spiriti confusi e inquieti. (Quaderno 229, 1960)

Definire, formulare, enunciare il proprio pensie­ ro è relativamente facile; ma capirlo, comprendere 122

il significato del proprio pensiero è molto arduo. Perché l’averlo creato pone già per questo in una condizione difficile per capirlo. Le nostre creatu­ re sono qualcosa che non possiamo ridurre a noi stessi. Quanto più sentiamo, intuiamo la bellezza, la profondità della vita, tanto più questa bellezza diviene impossibile e irraggiungibile. (Quaderno 229, 1960)

Poche persone hanno abbastanza fantasia per comprendere quanto scarsa sia la loro importanza e per rinunciarvi, con l’aiuto e la consolazione della fantasia. La fantasia ristabilisce l’equilibrio quando tutto è perduto. (Quaderno 229, 1960)

Noi dobbiamo pagare il nostro debito ai pensie­ ri che sorgono in noi; e lo paghiamo conoscendo­ li; rendendoli chiari e distinti, cioè inesistenti; per il pensiero cosciente, il pensiero non ha diritto di esistere; eppure il vero pensiero originario esiste; esiste soltanto perché non è coscienza; poi diviene coscienza e pertanto esiste sempre meno; esiste tan­ to meno quanto più è coscienza e viceversa; questa coscienza può tornare ad essere creatrice in quanto, a sua volta, si conosce come negazione; allora essa coscienza, negando (negando l’essere, la creazione), 123

crea incoscientemente: e crea pensieri nuovamente ontologici e ingiustificabili. (Quaderno 242, 1961)

Ogni affermazione sicura ed evidente, certa di sé, è in realtà un ingresso mascherato ed occultato verso il mondo sotterraneo, verso il mondo nega­ tivo, il mondo degli inferi che è l’anima nascosta (sempre l’anima vive nascosta) del mondo; anche del mondo superficiale, positivo e luminoso. È l’a­ nalisi che, attraverso affermazioni sempre positive, ci introduce nel mondo negativo, dove tutto im­ provvisamente muta leggi e dimensioni. La regione dei fondamenti del mondo che sono negativi; dove ogni affermazione è soltanto l’attualità (la presenza) di una negazione. (Quaderno 242, 1961)

Noi “datiamo” i nostri discorsi sull’eternità; sta­ biliamo il momento del tempo in cui sono stati te­ nuti; ma quel momento è appunto l’eternità; un’e­ ternità assolutamente negativa, e perciò attuale; la negatività che la fa eterna è il tempo; che essa deve conoscere come relativo per identificarlo all’asso­ luto e all’eterno. Che essa eternità deve conoscere come pura negazione e perciò ad essa essenziale; essenziale e insieme relativo. (Quaderno 242, 1961) 124

Ogni testo poetico è in realtà costituito da due testi: uno dei quali è leggibile, decifrabile, com­ prensibile, in nostro possesso; l’altro testo, che ap­ parentemente si identifica col precedente, e perciò se ne diversifica assolutamente, è l’arcano, il segreto poetico, l’irraggiungibile, l’indecifrabile, la lingua segreta, l’essenza della poesia che ci possiede e che noi non potremo mai possedere (e fortunatamente! Altrimenti dissolveremmo anche quella). Lo stesso avviene nell’umano, in un uomo o in una donna. Anche in essi, come nella poesia, il segreto viene manifestato ed espresso nelle forme più sempli­ ci, nel linguaggio più comprensibile; e, appunto, aderendo a questo linguaggio, a questa evidenza, rimane nascosto in esse come nelle più oscure e im­ penetrabili latebre, e diviene un al di là presente e irraggiungibile. (Quaderno 234, 1961)

La lingua si sviluppa non secondo i grammatici, i retori, i dotti, ma al contrario essa procede con la semplice inventività del popolo e dell’uso, che la modifica in contrasto con i grammatici, tipici con­ servatori. La lingua è perpetuamente un “volgare” che si divincola dalle spire del classico. Ma il cu­ rioso è che le leggi della glottologia, della fonetica, della grammatica, osservate e codificate dai dotti, si verificano, si realizzano nella realtà del linguag­ 125

gio, soltanto quando quest’ultimo è in piena balìa del popolo, del volgo, dell’uso. Quando quest’uso e questa libertà senza freni, totalmente ignoranti delle grammatiche statiche e delle fatali leggi del proprio sviluppo, possono liberamente esercitarsi; e sono esse le inventrici di quelle leggi fonetiche e glottologiche che i dotti vedono poi riflettersi nei loro specchi. (Quaderno 243, 1961)

Nel dialogo eroico tra noi e il destino, il linguag­ gio, dall’una parte e dall’altra, è quello dell’ironia. (Quaderno 243, 1961)

Ogni linguaggio è un linguaggio sconosciuto; e appunto perché sconosciuto, può essere adopera­ to e può raggiungere fini di comunicazione, cioè di comunione. Se un linguaggio fosse perfettamente autocosciente, scomparirebbe nella propria luce. Nessuna parola potrebbe esser detta senza estin­ guersi nella sua luce (il fuoco che illumina e accen­ de, estingue e si estingue). La Parola è inconsapevo­ le? Inconsapevole come la coscienza? (Quaderno 243, 1961)

Quando l’uomo inventò il linguaggio, i primi muti rudimenti del linguaggio, poteva egli imma­ 126

ginare gli infiniti significati che le parole, sempre più indipendenti dal creatore, avrebbero assunto, la loro interna logica di dominio, la loro prolifera­ zione, che ne ha fatto le dominatrici della nostra mente, del nostro pensiero? La nostra gloria è di creare delle creature e cioè dei creatori. Le parole, il linguaggio, il suo sponta­ neo e non predeterminato sistema, sono la mirabile creatura, la creatura che può stupire il suo creatore, e che a sua volta lo crea. Noi, creatori delle parole, siamo così profonda­ mente nascosti in queste ultime, che non riuscia­ mo più a riconoscerci in esse, né senza di esse. Esse sono le mediatrici tra noi e noi stessi; sono le crea­ trici del nostro mondo, della nostra totalità. Sono il significato, involontario come ogni significato, che abbiamo dato alla nostra vita e al nostro pensiero; l’umanità che abbiamo dato al nostro desiderio. Sono la storia degli infelici rapporti tra il creatore e le sue creature indipendenti. In ciò è il significato. La ricerca di una giustificazione, portandoci sempre più in alto, ci rende colpevoli? (Quaderno 238, 1961)

Non si può con un linguaggio umano esprime­ re il divino. Ma il linguaggio (la poesia, l’arte ecc.) non è forse per se stesso divino, non è il vertice della coscienza, del giudizio, cioè dell’assoluto? 127

Non è creazione? E la divinità non è forse Verbo, Parola? (Quaderno 243, 1961)

Storia letteraria. La letteratura è come una rap­ presentazione, in cui diversi attori recitano parti prestabilite, parti che essi stessi si sono attribuite; (e si tenga presente che una letteratura non è sol­ tanto attuale, ma è anche classica, cioè appartiene al passato); e ogni tanto, durante questa rappresenta­ zione (una finzione consapevole e perciò tanto più colpevole, come ogni commedia?), qualcuno del pubblico si alza a parlare e interrompe lo spettaco­ lo. È una voce del pubblico, il pubblico che è una presenza necessaria per ogni spettacolo, e senza di cui non potrebbe esservi né commedia né tragedia, ma che non ha alcuna parte nello spettacolo, nel­ la rappresentazione che pretende rappresentarlo. Quando qualcuno del pubblico si leva a parlare, con un linguaggio non previsto in alcun copione, allora si dice che la letteratura si rinnova, che ha ritrovato un nuovo protagonista. Talvolta il pubblico si accorge di essere il prota­ gonista. E quando esprime questa scoperta, il mon­ do si rinnova, la commedia si rinnova. E ricomincia. (Quaderno 238, 1961)

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A una certa età il lettore è sempre più un tra­ duttore: un traduttore di tutto ciò che legge nel suo linguaggio, nel linguaggio che giorno per giorno la vita gli ha insegnato. E perciò a una certa età non sappiamo più leggere; non possiamo più accogliere nulla senza sospetto o diffidenza, senza modifica­ zione o metamorfosi, tanto meno lo Spirito degli autori. La comunicazione diretta è propria della gioventù che apprende molto perché è priva di esperienza e di esperienze. E non può confrontare ciò che apprende pura mente. I giovani come Sigfri­ do sanno intendere il canto melodioso degli uccelli nascosti nella foresta; noi dobbiamo tradurre tutte le melodie della vita originaria nel linguaggio aspro dell’esperienza. Tutto il diverso nell’identità. Dob­ biamo confrontare, tradurre. (Quaderno 243, 1961)

I poeti delle epoche tarde forzano il proprio linguaggio, inseguono e raggiungono le parole, le costringono con violenze e torture a rivelare tutti i loro significati; e in questo clima di turbolenze e di violenze, la lingua si dissolve, perde in possibili­ tà e si scinde in numerosi varchi da cui passano le invasioni barbariche, e penetrano gli stranieri con i loro arbitrii. (Quaderno 238, 1961)

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I letterati professionali hanno, come deforma­ zione tipica, la mania di credere nella propria “ope­ ra” come nella cosa più importante del mondo, an­ cora più importante di loro stessi; ciò che per essi è tutto dire. Noi non crediamo più nell’opera come sco­ po programmato, perché già il considerarla come scopo la rende impossibile; può sorgere spontane­ amente; ma non ne sappiamo nulla. E nemmeno noi stessi possiamo essere il nostro scopo. Il nostro scopo può essere l’altro, il nostro essere altro, il di­ vino altro che si nasconde nella nostra prigione, nel carcere dell’io, dell’identico, dell’uno, dell’afferma­ zione; anche lo scopo è sempre un altro. Siamo noi che diamo vita e importanza all’even­ tuale opera e non l’opera a noi. Non ci salviamo per opere. (Quaderno 252, 1962)

I moderni letterati e autori non possono sperare di creare grandi figure, grandi statue umane, gran­ di avvenimenti, come li creava l’antica umanità. Noi viviamo soltanto di analisi, e cioè viviamo per fede. La fede nasce da una analisi consapevole; ne è il necessario complemento. Ed è fede che l’analisi stessa crei una sintesi, si trasformi senza che questa trasformazione sia una sua intenzione. La fede in 130

una divina e celeste metamorfosi. Non desiderata né prevista. (Quaderno 253, 1962)

Quale può essere il linguaggio di ciò che è inti­ mo e negativo? L’espressione è per universali, ma si riferisce sempre all’intimo, al singolare e all’indivi­ duale. Perciò il linguaggio ha sempre due significa­ ti, due sensi. (Quaderno 253, 1962)

Ricetta letteraria: nella retorica tradizionale e poetica versate una forte dose di ironia, mescolate con cura, e servite a freddo. (Quaderno 246, 1962)

Il nostro parlare, la parola che tutto illumina, è in realtà la traduzione di un linguaggio sconosciuto in un altro linguaggio di cui ignoriamo le origini e il significato. La parola è illuminazione e rivela­ zione; ma rivelazione di ciò che non conosceremo mai. Come tutta la nostra vita, la parola è essa stes­ sa un’esperienza, che non potremo mai tradurre in una conoscenza analitica e riflessa. Una conoscenza che distruggerebbe, se fosse possibile, noi e il mon­ do nell’istantaneità di un immediato incendio. 131

L’atto inventa la propria parola, la parola in cui si traduce quando, seguendo la linea della sua lo­ gica onestamente e fino alle conseguenze, diventa polemico contro se stesso, si abolisce e si sente im­ possibile: cioè colpevole. La parola è spontanea­ mente il grido verso la salvezza, è la salvezza stessa. La parola nasce, come il mondo, dalla salvezza, il perdono dalla colpa, dalla colpa di agire. (Quaderno 253, 1962)

Nella parola è tutto il mondo dell’indicibile, dell’irripetibile e unica esperienza, eternamente intraducibile. E così nella pittura può essere vi­ vente tutta la sfera dell’invisibile, tutto l’invisibi­ le che la pittura (come l’architettura) evoca me­ diante il visibile, il visibile sempre più trasparen­ te, quanto più la pittura è perfetta, quanto più la pittura è perfettamente visibile. Intima metamor­ fosi della pittura, epifania dell’impossibile. Come nell’amore, così nell’arte, l’ultima parola, cioè l’ul­ timo silenzio, è la manifestazione, non divulgabile, dell’impos­sibile. La muta contemplazione dell’impossibile che si chiede alla pittura come all’amore, è forse, come contemplazione, metamorfosi dell’atto. Metamor­ fosi di Beatrice, metamorfosi dantesca dell’amore in paradiso. Dante si era fuorviato? Non era più ve­ ritiera una metamorfosi infernale o tragica? Beatri­ 132

ce accusa Dante di avere amato qualcosa di diverso dall’impossibile. (Quaderno 253, 1962)

Dobbiamo trovare nel puro pensiero, nelle fi­ bre sonore del pensiero astratto, tutti i riposti sensi poetici, i ritmi nascosti, che possono udire soltan­ to coloro che conoscono le armonie delle sfere, le rime lontanissime. Le rime che giungono da lon­ tano come profeti, abbandonando l’Oriente per un’epifania radiante in umili forme. Dove l’umiltà è la radiazione stessa, una radiazione che ripudia l’esteriorità e rivolge i suoi strali verso l’interno, per colpirlo. I profeti vengono dall’Oriente come raggi, raggi che sono le rime dell’epifania. Il pensiero è come un vecchio violino, fatto di un legno morto e astratto; astratto e separato dalla vita reale e vivente dell’albero; legno in cui la vita dell’albero è ormai soltanto una memoria cieca, risonanza misteriosa e profonda di una vita perduta. Come il puro pensie­ ro, il violino è cavo, vuoto, inabitato, sagomato e costruito nelle forme artificiose di un sistema. Ma quando le corde, i nervi della vita che sin tendono su di lui, lo invocano disperate con la voce del loro martirio, allora il vuoto, il cavo, il deserto violino, vibra con le fibre dell’albero della conoscenza, ri­ sponde con la voce dell’infinito, intraducibile nei 133

nostri linguaggi, che appunto perciò comprendia­ mo subito. (Quaderno 256, 1963)

La lingua che parliamo è una grande costruzio­ ne dello spirito umano, è una grande opera d’arte a disposizione d’ognuno, che ognuno può possedere senza spesa né sforzo. Mentre parliamo, dum loquimur, sono innumerevoli generazioni defunte che parlano con la nostra voce. Uomini comuni e gran­ di poeti, Dèi e demoni, gioie e sventure hanno la­ vorato per secoli e millenni a quest’opera, a questa preziosa tela; tela di Penelope che continuamente si tesse e disfa. Quest’opera è stata illuminata dai più splendidi soli ed è passata per le più gravi pro­ celle; ha conosciuto tutti i regimi, le monarchie, le oligarchie e le democrazie: opera d’arte che è insie­ me e continuamente archeologia e attualità. E che non potrebbe essere l’una cosa se non fosse anche l’altra. Durante i regimi aristocratici e monarchici vi è una lingua colta, talvolta cortigiana, che salva il passato, salva l’opera del grande artista denomi­ nato “il tempo”, e, presso ad essa e sotto di essa, una sapida e forte lingua popolare, piena di indi­ pendenza e libertà fiorisce di metafore e conserva anch’essa un suo passato. Talvolta diviene dialetto. Nel regime democratico non è la lingua popolare che viene in onore, ma è l’esproprio per ragioni di 134

pubblica utilità della lingua superiore, che diviene artificiale, astratta, desiderosa di farsi popolare (e cioè demagogica; perché serve più a nascondere che ad esprimere un pensiero d’altronde inesisten­ te). Il farsi generica e artificiale rende popolare la lingua superiore, ma condanna alla sparizione la lingua veramente popolare, rendendo sterile quella superiore. (Quaderno 263, 1963)

Le lingue morte, quelle che non possono più agire direttamente, dominare direttamente la vita e il pensiero, divengono di solito lingue sacre, di que­ sto o quel culto, dei più vari culti religiosi, letterari o scientifici; e continuano ad agire indirettamen­ te; mediante un lungo circuito attraverso questo o quell’al di là. Questo o quel paradiso di cui deten­ gono le chiavi. (Quaderno 263, 1963)

Essere l’unico lettore del proprio unico libro, della propria unica vita, del proprio unico assoluto. Avere e conservare questo privilegio. Unico abita­ tore dell’unico assoluto (quale altro assoluto se non il nostro?). Essere come un principe dello spirito, travestito da mortale che, incognito e ignorato, vive tra i suoi sudditi. Travestito da ultimo, appunto 135

perché è il primo. Ogni uomo è un ultimo e un pri­ mo, perché ogni uomo è un assoluto. (Quaderno 263, 1963)

L’espressione come il primo, il più importante; che risolve in sé la sostanza del discorso, dell’ar­ gomento, l’oggetto, il sentimento. Oggetto e senti­ mento trasformati in ciò che non sono, anzi nel loro contrario, cioè nell’espressione. Nella serenità, che è il contrario della sensazione e dell’oggetto. Estetica di Mallarmé e di Croce. Ed estetica di D’Annunzio. Il mondo come immagine, come forma, come espressione, cioè come resurrezione da una nega­ zione universale della realtà. Estrema espressione lirica e religiosa di un umanesimo, di una civiltà. L’affermazione della realtà come il contrario della realtà e di sé. (Quaderno 256, 1963)

L’opera letteraria, come quella artistica in gene­ re (e forse ogni “opera”), deve trovare nel lettore o nel contemplatore un collaboratore volonteroso, che dia tutta la sua anima, tutta quella parte o quel­ la totalità della sua anima che l’opera è capace di accogliere, di assimilare in sé. L’opera feconda il nostro spirito e ne è feconda­ ta; noi abbiamo bisogno di essa, ed essa ha bisogno 136

di noi. Così i libri sacri, i più importanti dei libri, non sono nulla senza l’anima (totale) che i lettori donano ad essi – i lettori che in questo caso si rive­ lano con il nome che un lettore dovrebbe sempre portare, il nome di credente e di fedele. I libri più antichi sono quelli più recettivi, libri la cui millenaria esperienza sa rivelare le anime a se stesse, dando loro il senso di una eterna novità non fittizia. Perciò gli antichi lettori erano una élite, erano appunto degli eletti; ad essi si richiedeva uno sforzo ed una volontà. Quanto più le classi delle città divennero prati­ che, tanto più richiesero una letteratura facile, di­ vertente, che li di-vertisse da ciò che essi erano e sono, senza chiedere la contropartita di uno sforzo. Sorse una letteratura “gratuita”; una letteratura ed una lettura che non costano nulla, e appunto perciò valgono sempre meno. (Quaderno 260, 1963)

Poeti, romanzieri, ma anche uomini pratici, po­ litici, possono rappresentare od essere tutte le cose e situazioni, in quanto rappresentano e sono la di­ versità delle cose come diverse ed opposte da ciò che sono; attualmente diverse da ciò che attualmen­ te sono. In quanto rappresentano e sono la verità. Noi filosofi, che vogliamo intenzionalmente rappre­ sentare e possedere, nonché affermare la verità in 137

forma didascalica e cioè affermativa, siamo condan­ nati a vivere nel falso, cioè nell’identità; siamo con­ dannati a credere che la verità si possa direttamente insegnare – a credere che la verità sia quello che è. (Quaderno 270, 1964)

Il linguaggio della vita, il misterioso linguaggio sconosciuto, pur essendo il più noto, è traducibile in parole? È traducibile nel linguaggio delle parole? Il linguaggio delle parole è un linguaggio a parte, chiuso in sé, pur volendo essere la trasparenza uni­ versale, una creazione del linguaggio intraducibile della vita. Il linguaggio delle parole è la traduzione di un altro linguaggio, oppure, benché esso sia es­ senzialmente una traduzione, è un in sé, un mondo chiuso benché trasparente, è un insieme intraduci­ bile? Il mondo delle parole è intraducibile; la paro­ la è intraducibile? E, in che cosa dovrebbe essere tradotta, cioè trasportata (trans-ducere), la parola? Tutto ciò che è, crea. L’assoluto è creatore perché è: ma noi non cre­ iamo delle creature, ma dei creatori. Sia fisicamente che spiritualmente creiamo degli organismi, organi­ smi o sistemi che sono dei creatori. Così il linguaggio incognito della vita crea altri linguaggi, come, per esempio, il linguaggio delle parole: e il linguaggio delle parole crea il linguaggio delle idee. Vi sono linguaggi espliciti, benché senza 138

parole, come la musica e l’architettura. La musica è una lingua senza immagini, l’architettura è senza immagini antropomorfe – e, ognuno di questi lin­ guaggi è creatore. Creatore dell’infinito altro da sé. (Quaderno 287, 1965)

Il Verbo è un altro linguaggio, il valore artisti­ co è un linguaggio diverso da quello in cui esso si esprime. L’arte è parola; ma è una parola diversa da quella che è, da quella che dice. Così l’immagine ar­ tistica è un’immagine diversa da quella che è; l’im­ magine è sempre una doppia immagine. L’immagi­ ne è l’oggetto, è la negazione di noi, e insieme una realtà, una possibilità, un’attualità assolutamente diversa dall’oggetto, dalla negazione di noi. (Quaderno 280, 1965)

Noi scriviamo traducendo nel nostro linguaggio comune il linguaggio misterioso e ignoto con cui pensiamo. Vorremmo rendere noto, “pubblicare”, il linguaggio ignoto, il linguaggio che parla in noi e che possiamo noi stessi parlare finché ci rimane ignoto. Forse i posteri individueranno questo lin­ guaggio; per noi rimane ciò che noi siamo (e ces­ siamo di essere quando sappiamo quel che siamo – Dio ci salvi dalla Rivelazione), il monologo dell’e­ terno Amleto. Abbiamo amato Amleto in gioventù; 139

era nostro destino vivere e diventare il suo mono­ logo (come può esservi un monologo, un discorso con sé, cioè con il nulla, che non sia il monologo del dubbio?). Il monologo dell’Essere che parla col suo non-essere. Il monologo è il dialogo col nulla. (Quaderno 309, 1967-68)

Il nostro linguaggio, il linguaggio che parliamo, è la traduzione del linguaggio ignoto che parliamo, e che possiamo parlare finché non lo conosciamo, perché lo conosciamo immediatamente e diretta­ mente, senza la mediazione della conoscenza, che è la negazione. Parliamo noi negativamente, negando ciò che affermiamo? L’affermazione è forse la traduzione del linguag­ gio originario, padre di tutti i linguaggi e di tutte le affermazioni, che è il linguaggio negativo? Noi sia­ mo e parliamo direttamente e immediatamente la negazione; siamo immediatamente la mediazione? (Quaderno 309, 1967-68)

Il discorso delle piante, il discorso fatto col lin­ guaggio dei fiori e dei colori, meravigliosa glotto­ logia, linguaggio intraducibile perché unico e da tutti compreso, ignora la menzogna. Quando noi abbiamo tradotto il linguaggio vegetale nell’arte espressiva (ma meno dei fiori) della parola, abbia­ 140

mo contemporaneamente inventata la menzogna. Mentire viene da mente. La tendenza della mente è di mentire. E il nostro discorso umano sarebbe senza rilievo, senza vivacità e vivezza, se non fosse ravvivato dal continuo mentire. Manca al linguag­ gio delle piante il rilievo dell’immanente mentire, sempre presente e invisibile nel nostro discorso? Il mentire è un’espressione, spesso perfetta, che non sarebbe tale, non sarebbe né mentire né perfezione, se non fosse invisibile, nascosto, impercettibile. Ma le piante e i vegetali hanno indubbiamente inventa­ to i veleni. I veleni sono la loro menzogna, sono l’in­ ganno, la frode. Il dolo di un mondo tanto nutritivo e per noi nutriente. La tossicologia è una gramma­ tica elementare del mondo vegetale. Il linguaggio doloso che si apparenta alle nostre stregonerie; for­ se la menzogna, il falso, il fallace, sono necessari per dare realtà al mondo reale (come il nulla dà realtà all’essere, l’irreale al reale, l’irrazionale al raziona­ le); altrimenti il mondo reale svanirebbe nell’idilli­ co, nella banalità educativa. (Quaderno 309, 1967-68)

Oggi è generale l’interesse per il linguaggio; ed è un pessimo segno. Ci si occupa intensamente, si scopre finalmente, si individua e si mette in luce tutto ciò che sta per abbandonarci; tutto ciò che stiamo per perdere. Tutto ciò di cui stiamo dive­ 141

nendo incapaci. I pacifisti sono legione, raccolgono l’unanimità dei consensi alla vigilia delle guerre più terribili, si esalta la libertà quando oscuramente, senza osare dirlo, si comprende che essa è ormai un bene divenuto impossibile. Ritornando al linguaggio, e all’odierno culto di cui è il Dio, è chiaro che questo culto è sintomati­ co del pericolo che il linguaggio sta, letteralmente, correndo. Il linguaggio è figlio dell’anima, dell’in­ dividuo, il linguaggio è nato come canto, è nato come aggettivo; è il sontuoso aggettivo il cui og­ getto rimase ed è tuttora un mistero. Pertanto esso è colpito dalla medesima maledizione da cui sono colpite l’individualità, la qualità, l’arte, la divinità e tutto ciò che per noi moderni non ha giustificazione alcuna, come non ne ha la fede, che giustificava le generazioni che ci hanno precorso. Il paradosso è che dobbiamo aver fede nel futuro, ma che la fede, essendo di origine individuale e irrazionale (come ogni fondamento), non può essere in alcun modo giustificata. Il futuro, quando è certo e sicuro, la abolisce. Il linguaggio di origine tipicamente in­ dividuale e poetica, e quindi ingiustificabile e im­ morale, sta per essere sostituito da formule, sigle, espressioni astratte, equazioni, ecc., forme e imma­ gini dirette e convenzionali. Una civiltà per cui il passato è il regno della maledizione, la terra corrot­ ta, infame e sterile, l’irrazionale ingiustificabile, non può più lasciare il ruolo di protagonista del proprio 142

pensiero, sua unica espressione e comunicazione, al linguaggio che ha le sue radici nei millenni del­ le generazioni antiche, che è stato da esse creato, raffinato e amato, e costituito mediatore tra noi e l’anima nostra, tra noi e i nostri simili, tra noi e l’u­ niverso, tra noi e Dio. Dio stesso è la Parola. Se la Parola non fosse assurda, non potrebbe essere la parola di Dio, il supremo Irrazionale. Il linguaggio è il regno dei morti; con esso i morti parlano con noi e noi con essi; quando parliamo, sono centina­ ia di generazioni defunte che si esprimono con la nostra voce. Come può questo elisio, questo hortus conclusus di asfodeli, identificarsi con la nostra pre­ senza, essere attuale come la nostra modernità, es­ sere la voce e il logos della nostra modernità e della nostra razionalità? (Quaderno 309, 1967-68)

Il mito è la sola lingua che i Fati sappiano par­ lare. Noi conosceremmo la nostra vita e la volontà dei Fati se potessimo tradurla in un mito; anzi, se potessimo tradurre o riconoscere i miti con cui ha parlato a se stessa. (Quaderno 344, 1971)

Il linguaggio, nato per significare, si purifica sempre più, diviene una creazione autonoma, di­ 143

viene il suo proprio scopo, cioè abolisce lo scopo, e si distacca da qualunque significato. (Quaderno 341, 1971)

Ogni affermazione contiene il dramma di una negazione creatrice. La creazione assoluta è la crea­ zione dell’attualità ed è insieme assoluta conoscen­ za, perché creazione negatrice. La negazione è ra­ zionale e sacra. (Quaderno 347, 1972)

Le immagini letterarie, le immagini musicali e le immagini pittoriche (tutte immagini nate nello stesso cranio, riducibili allo stesso Io, alla stessa at­ tualità, ma irriducibili tra loro) sono le nostre im­ magini sacre, le nostre icone. Immagini sacre di una religione che è soltanto il culto di tali immagini – immagini che si riferiscono soltanto alla propria divinità. Infatti le immagini stesse e i loro auto­ ri, i loro cultori e contemplanti, credono che non vi sia altra divinità all’infuori di esse, e che esse sorgano e vivano una giovinezza perenne come gli Dei dell’Olimpo, senza giustificazione, cioè senza sacrificio. (Quaderno 346, 1972)

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Il linguaggio è tanto più poetico quanto più è consapevole della propria diversità e della meta­ morfosi della negazione che in esso si opera, e della resurrezione dal nostro nulla, dal sacrificio che esso è. Il linguaggio, come la sensazione, è l’altra faccia del nostro negarci, cioè ne è l’attualità. Perciò è impossibile distinguere e separare ragionamento e logos dalla poesia. (Quaderno 347, 1972)

Ogni discorso (ogni “logos”) ha valore quando significa più di quello che dice, cioè quando è di­ versità da ciò che dice. La diversità inespressa del discorso è il pregio della sua espressione, perché l’espressione è essa stessa, e in sé, diversità da ciò che esprime, definisce e delimita. Un’opera d’arte è l’espressione della diversità, perché appunto è diversa da ciò che immediatamente afferma. Forse l’origine del valore è appunto la diversità; la diversi­ tà irraggiungibile che ogni cosa, come ogni parola, è, e a cui si riferisce. Si riferisce a una diversità che non ha alcun riferimento. (Quaderno 347, 1972)

Il silenzio e il nulla sono la nostra patria interio­ re, il nostro cielo interiore. Il nostro spirito. Lo Spi­ rito è la verità oppure il nostro errore, l’invincibile 145

errore, il profeta divino e perennemente fallace, appunto perché sottratto alla gravità, all’equilibrio delle cose? All’equilibrio del suo contrario? L’este­ riorità è fallace come l’interiorità. Noi dobbiamo costruire l’edificio della vita, dell’assoluto, con tutte le fallacie; l’edificio della verità è fatto di spettri, di fantasmi, di specchi che mentono; della profondità di una superficie liscia, di immagini riflesse e mo­ mentanee; la sola “realtà” della verità è la fantasia. (Quaderno 347, 1972)

Il linguaggio, come la sensazione, è un’attuale diversità dedicata all’identico. La diversità come espressione dell’identico. Anche la verità, come la divinità, è la propria negazione. (Quaderno 347, 1972)

Io meritavo forse un destino che non fosse un destino di silenzio. (Quaderno 347, 1972)

Occorre una straordinaria fantasia per mante­ nersi nei limiti dell’esattezza. (Quaderno 347, 1972)

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Il linguaggio, nato per esprimere, per rendere tutto chiaro e pubblico, è in sé inesprimibile e in­ conoscibile; velato dalla sua chiarezza, conserva il suo mistero insondabile; ed è un mistero il modo in cui noi, cioè il bambino che è in noi, lo apprende senza distruggerne l’inconoscibilità. Il linguaggio, il logos, è sacro e profano, è pubblico e infinitamen­ te privato, è ciò che ci unisce alla collettività e ciò con cui ci distinguiamo da essa. È un labirinto che tenta di uscire da sé, che tenta di abolire il proprio labirinto, e crea il labirinto appunto con questo ten­ tativo. Che cosa vi è al di là del labirinto, al di là del labirinto del nostro pensiero, del nostro cervello, del nostro passato e del nostro futuro? Quale gloria cerchiamo in questo al di là? L’abolirsi del labirinto è una gloria come la sua creazione. (Quaderno 347, 1972)

È vero tutto ciò che non può e non deve essere detto; ogni traduzione della verità nel nostro lin­ guaggio è pericolosa, infedele. Il linguaggio, ossia la Parola, è forse la verità, ma è intraducibile in se stesso, nella sua forma. È anch’esso una verità, una realtà che deve affermarsi negandosi – che deve es­ sere tradotta nella propria negazione. (Quaderno 347, 1972)

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Il linguaggio, come la sensazione, è un’attuale diversità dedicata all’identico. La diversità come espressione dell’identico. (Quaderno 347, 1972)

L’arte è il paradosso che crea le immagini eterne mediante l’iconoclastia, mediante la profonda ico­ noclastia della negazione. Le immagini sono eterne perché giustificate (le immagini del greco “sanno” di essere giustificate dalla negazione; perciò sem­ brano danzare sul nulla, sul colore nero delle te­ nebre, della negazione). Anche il linguaggio, la cui origine è sacra, è una creazione della nostra intima iconoclastia. Come le immagini, così anche la felicità nasce dalla disperazione, dall’iconoclastia della di­ sperazione. La disperazione, come l’autonegazione, è essenziale e perciò può essere inconsapevole; per­ ciò è sempre in agguato. Perciò la felicità, che nasce come un’immagine o come una Parola dalla profon­ da disperazione della negazione, è di essenza eter­ na, ma è sempre effimera. Niente sa essere effimero, niente ha l’esperienza dell’effimero, come l’eterno. (Quaderno 346, 1972)

Le costellazioni notturne della menzogna; quale menzogna? Si può definire, delimitare la menzo­ gna? La menzogna è la delimitazione della verità. (Quaderno 347, 1972) 148

Le piste nere dell’inchiostro sul candore della carta, nei fogli sibillini che il pensiero segue e con­ duce. Le piste nere della verità, le piste che si at­ torcono alla parola effimera cercando di renderla prigioniera e duratura. Che la tengono prigioniera nel filo del proprio inchiostro come il ragno impri­ giona un insetto. L’eco è la voce del nulla; è la risposta del nulla; la voce del nulla. L’eco risponde alle parole come lo specchio risponde alle immagini. Esso risponde alla nostra voce traducendo le parole nel suo lin­ guaggio, nei modi del nulla, nel mondo del nulla. Una traduzione come quella dello specchio, esatta, fedele e illusoria. Il nulla è identico, ed è l’illusione dell’identico. (Quaderno 359, 1973)

Il linguaggio è all’origine immagine; ma nello sforzo di tradurre l’immagine, diviene abolizione dell’immagine, sostituita dal concetto. Il linguag­ gio diviene logos; ma ritrovando nel concetto, nel logos, la stessa ambiguità dell’immagine, ritorna ad essa come all’unica sintesi, necessaria a qualunque analisi. Dopo aver abbandonato l’immagine, l’e­ videnza diretta, la restaura avendone conosciuto l’ambiguità, la sublime fallacia. Anche l’immagine ha un ritmo, e cioè un’occulta fallacia, un’occulta sublimità, come il pensiero puro (cioè depurato di 149

ogni immagine). Il ritmo (affermazione-negazione) è il soggetto del pensiero, del concetto; uniti come nel poema, procedono ignorandosi. Nel poema, il ritmo e il pensiero, il ritmo e l’immagine sono mon­ di e piani o profondità diverse che si ignorano, che hanno potenze, facoltà e scopi diversi; e forse op­ posti, pur essendo strettamente uniti e fusi come amanti o come nemici. (Quaderno 355, 1973)

L’espressione è simbolica; il simbolo è la diver­ sità di una medesimezza. Il colore, il suono, la qua­ lità, sono simboli? Simboli della propria attualità. L’attualità può essere rappresentata, trasfigurata, cioè espressa e conosciuta, soltanto simbolicamen­ te. Ogni alfabeto è simbolico. Il simbolo è astra­ zione e insieme fantasia. È diversità e si riferisce a una profonda identità. Il negarsi, l’infinito negarsi, è l’infinita identità. Anche il simbolo è l’attualità di una negazione; il simbolo della negazione è un’at­ tualità; che è il contrario della negazione di cui è attualità. L’atto deve conoscersi come negazione. (Quaderno 362, 1974)

Dantesca. Le lunghe spiegazioni teologiche di Dante, derivate dalla scolastica, sono una giustifi­ cazione dei suoi simboli, dei simboli che si iden­ 150

tificano con l’al di là, e perciò dominano la nostra vita nell’al di qua, oppure servono a spiegare, a ri­ velare a se stessa la poesia del dolce stil novo? Ogni filosofia è l’autoconoscersi del linguaggio, l’auto­ giustificarsi del linguaggio. E quindi le spiegazioni, le autogiustificazioni del linguaggio stilnovistico rientrerebbero di diritto nella poesia stilnovistica. Anche una filosofia o una teologia possono avere un’essenza, un’aura poetica. Quando le immagini di una poesia sono simboli, la poesia cessa di esse­ re? Si potrebbe sostenere anche il contrario, e cioè che tutte le immagini poetiche sono o rimangono dei simboli. Anzi, ogni vera immagine è simbolica. (Quaderno 362, 1974)

Perché l’arte letteraria e tutte le altre ci danno felicità, gioia, e perfino una paradisiaca pace? All’o­ rigine vi deve essere una causa non causata, e que­ sta causa prima è la trascendenza, e la trascenden­ za è questa gioia – che è originaria, che è la nostra origine (l’immanenza della nostra attualità nella sua negazione è una sublime trascendenza; è la trascen­ denza dell’attualità alla negazione che essa è, cioè di cui è l’attualità – la felicità della creazione dell’at­ tualità mediante la sua negazione, la felicità della creazione della trascendenza, cioè della creazione dell’origine). (Quaderno 365, 1974) 151

Noi tutti parliamo, parliamo il nostro linguag­ gio, senza conoscere né l’origine né la storia, né i segreti meravigliosi che brillano e si nascondono in ogni parola. Noi ci esprimiamo con la parola, che è coscienza di noi e di sé, permanendo sem­ pre più misteriosa quanto più riesce ad esprimersi. L’espressione non è tale se non è una creazione; l’e­ spressione è una novità che distrugge il suo presun­ to oggetto o soggetto. (Quaderno 362, 1974)

La poesia, il pensiero in genere, sono i rivelatori di un’interiorità insondabile, ciò che è più nostro. Come poesia, arte e pensiero, l’intimità nostra di­ viene immortalità quando diviene l’intimità delle anime altrui. Strano paradosso dell’immortalità let­ teraria e di ogni immortalità. L’immortalità è un’en­ tità in sé, amica della vita, che ci abbandona per sempre quando moriamo. (Quaderno 369, 1975)

I grandi libri della letteratura sono dei libri di esorcismi. Lo spirito è insieme stregone ed esorci­ sta. Come la lancia di Achille, ferisce e guarisce. (Quaderno 372, 1975)

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Anche i grandi linguaggi vivono alla giornata; vi­ vono di incontri fortuiti, di furti, di grandi ricordi e di aspirazioni sbagliate; amano la musica, ma gli uo­ mini parlanti li straziano con le loro dissonanze. Il popolo li crea. Essi si danno una costituzione, una grammatica, una legge, ma poi il popolo stesso che li ha creati ne rivendica il possesso e democratica­ mente li distrugge. E finalmente li dimentica. (Quaderno 372, 1975)

La lingua italiana è divenuta retorica da quando, nel periodo barocco, è divenuta scettica. La gran­ diosità barocca corrisponde alla nascita del nostro scetticismo. Anche questa è una iperbolica sepa­ razione nel seno del barocco, che è anch’esso una iperbolica separazione. (Quaderno 372, 1975)

La parola tanto abusata di “charme” serve per esprimere qualcosa che nessuno sa definire; essa è una specie di convenzione generalmente accettata per esprimere una misteriosa magia, un vago sor­ tilegio a cui le anime sono sensibili; una specie di stazione trasmittente per un linguaggio ignoto, oc­ culto e intraducibile. Ma lo “charme” deve essere inteso nel suo signi­ ficato etimologico: lo charme è il carmen latino, l’in­ 153

cantazione sacra. Tutti quei molti o pochi individui che hanno qualche volta nella loro vita udito questo canto, sono per sempre divenuti partecipi della sua segreta potenza. Una rivelazione che ci rende dei ri­ velatori. Il carme sacro che dorme e tace in tutti noi e che, evocato dalle analogie dell’anima o del co­ smo, si risveglia e rinasce come un’eternità sepolta. (Quaderno 369, 1975)

Tutte le cose sono metafore del nostro spirito, della nostra mente, della nostra sensibilità. Queste metafore somigliano molto a delle metamorfosi. Le metafore sono una traduzione del “tutto” nel no­ stro linguaggio; ma le cose stesse sono le metafore in cui il nostro spirito si esprime. In cui il nostro spirito si trasfigura e diviene Altro. La metafora è anch’essa come noi; l’altro e il medesimo. (Quaderno 369, 1975)

Perché tutto in noi è intraducibile? E in quale linguaggio dovremmo tradurre l’inconoscibilità? In quello che, traducendola, la salvi, in quello che, tra­ ducendola, la crei. Se la nostra intelligenza non crea l’inconoscibilità, se la conoscenza non crea l’ignoto, a che serve pensare? A che cosa vale creare? Gli Dei sono l’altro nome dell’ignoto, o meglio dell’incono­ scibile. Qual è il linguaggio della conoscenza? È il 154

linguaggio della distruzione, unico creatore, crea­ tore del proprio opposto, appunto perché crea­tore. (Quaderno 372, 1975)

La grammatica è la predestinazione creata dalla libertà dell’espressione. La predestinazione è più grande di noi perché è una nostra creatura. Noi siamo i creatori di ciò che ci sorpassa; noi siamo i creatori di tutte le trascendenze di cui siamo le gloriose vittime. (Quaderno 372, 1975)

I veri poeti sono quelli che riescono ad essere poetici anche quando scrivono poesie. Le nostre vite umili, semplici e modeste, sono infinitamente poetiche e commoventi; diventano assurde e ridi­ cole se taluno tenta di tradurle in poesie, cioè in sublimità consapevoli. La semplice prosa della vita umile è inconsapevolmente sublime, e quando vie­ ne folgorata dalla consapevolezza, fulmine fallace di un più fallace Giove, diviene grottesca, comica e sacrilega. La poesia è un istrione che si esibisce e si denu­ da sulla scena, in presenza del pubblico. Un’inti­ ma privatezza che osa esibirsi nuda a un pubblico che non intende abbandonare la dignità delle pro­ prie vesti. 155

Noi scriviamo non per ricordare come vorrebbe Mnemosine, ma per dimenticare, come vorremmo noi. Oblii agitati e con più rimorsi che le memorie. La moneta moderna è una metafora del valore; in sé la moneta moderna non ha alcun valore; essa vale come metafora. Forse anche il nostro linguag­ gio è una serie di metafore che si riferiscono al va­ lore cui invano aspirano. Noi oggi non sappiamo veramente che cosa sia il valore: forse esso è sim­ boleggiato da un trono vuoto, il trono vuoto di un sovrano assente, di cui siamo obbligati ad ammette­ re l’esistenza misteriosa e opinabile. Il mondo ateo dell’utile vive per fede. E muore per fede. I poeti sono spesso quelli che non riescono ad essere poetici in prosa, nella prosa che è la via mae­ stra della vita. La prosa che rima col fato. (Quaderno 374, 1976)

Quale voce saprà esprimere la sacralità del silenzio? (Quaderno 374, 1976)

La musica parla un linguaggio che è insieme il più comprensibile e il più indecifrabile, il più in­ traducibile. Il nostro linguaggio parlato, le parole nate per esprimere, sono anch’esse un mistero, forse il maggiore dei misteri, che con la sua in­ 156

comprensibilità illumina gli altri. La luce crea tutti i misteri; la luce è il mistero che non può essere svelato; il luminoso velo. La poesia celebra il mi­ stero del linguaggio, trasformandolo in un mistero più luminoso e profondo, in una vastità di misteri, in una serie di echi che si rispondono e si riflettono all’infinito. Noi sappiamo di essere l’assoluto. Che cosa vi è fuori di noi? Che cosa vi è di più assoluto di una sensazione, della coscienza, dell’unità, dell’io? Sembra quindi naturale che si voglia in ogni modo pervenire all’assoluto. E questo appunto ci è vie­ tato. Il pervenire direttamente a noi stessi. Come per gli antichi il pervenire direttamente alla divini­ tà, ci è assolutamente vietato perché, se pervenissi­ mo a possedere l’assolutezza che siamo, saremmo immediatamente fulminati. Forse l’assolutezza a cui aspiriamo è il nulla, ed è meglio continuare ad ammettere di essere inferiori a noi stessi. Il nostro paradiso può essere soltanto il sacrificio. Quanto più ci avviciniamo all’assoluto, tanto meno siamo in grado di parlare. La parola è la ricerca dell’assoluto lungo un’altra via. La via che conduce a riconoscere la nostra inferiorità; che è il cammino proprio della conoscenza; la conoscenza, come Dante, deve scen­ dere nell’inferno della propria inferiorità. (Quaderno 374, 1976)

157

Noi parliamo un linguaggio che forse non com­ prendiamo in tutti i suoi significati, e non sappiamo prevedere quale avvenire saprà intendere, scioglie­ re ed insieme esaltare l’enigma del nostro linguag­ gio odierno, l’enigma del nostro pensiero, tanto più misterioso quanto più crede di avere spiegato il proprio enigma e quello del suo mondo, poiché i nostri linguaggi sono simboli, memorie e miti. Il passato è mitico e noi, le nostre parole, le nostre anime, etc., siamo o meglio saremo dei miti per co­ loro che il nostro tempo chiameranno antico. (Quaderno 374, 1976)

Il linguaggio, quando si avvia alla sua perfezio­ ne, diventa uno stile che è qualcosa di differente dal linguaggio, un al di là del linguaggio che ha degli scopi diversi da quelli per cui il linguaggio è nato; cioè l’espressione di se stesso (perciò è chiaro, misterioso e indefinibile); vuol essere il suo diffe­ renziarsi dalle cose, dagli eventi che dovrebbe se­ gnalare, il suo differenziarsi dal linguaggio stesso. Forse lo stile al di là del linguaggio è la riduzione dell’oggetto al soggetto. Quando il soggetto si ac­ corge di essere, è come il Dio dei nostri monoteisti, che non ammette un altro Dio davanti a sé, e con­ sidera tutti gli oggetti come vani idoli. Lo “stile” è l’equivalente letterario dell’idealismo filosofico; è un sistema chiuso di un’irrealtà perfetta, in cui la 158

realtà esteriore (per lo stile non esistono realtà este­ riori) appoggia soltanto un cono d’ombra che viene incluso, come una pausa nel sistema, nella presenza trasparente e arcana dello stile. Il linguaggio all’o­ rigine era fine a se stesso. Era anzi la rivelazione dell’altro da sé. (Quaderno 381, 1977)

Dell’assoluto non si può parlare direttamente, obiettivamente; dell’assoluto si può parlare soltan­ to negandolo. Non possiamo parlare senza negare i fondamenti del linguaggio. Ogni discorso è la nega­ zione dell’assoluto, la negazione della realtà del lin­ guaggio, e solo in tal modo il discorso, il linguaggio, l’atto, possono essere affermativi. (Quaderno 381, 1977)

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Biblioteca

La nostra biblioteca è un mosaico; un mosaico composto di tessere, particelle, cellule, ciascuna delle quali è per sé, con la sua colorata o luminosa diversità, il cui insieme forma sempre più un’imma­ gine che finisce per somigliarci. Un mosaico dove abbiamo involontariamente disposte le tessere in modo che esso ci somigli, come tutto ciò che è fatto senza intenzione. Un mosaico e uno specchio ma­ gico; sempre e comunque un’immagine. E forse, come tutte le immagini, porta sfortuna. Quando l’uomo muore, la biblioteca rimane con il contorno del suo profilo. Un’arte astratta che parla con voci e forme non create da noi, senza che vi risuoni una sola delle nostre sillabe, ma che non di meno divie­ ne figurativa. Disponiamo le opere altrui in modo da ritrovare la figura nostra; quella che fino a che vive, non sa fare altro che nascondersi. (Quaderno 256, 1963)

Una biblioteca è un mosaico le cui tessere sono i libri; nessuna tessera e nessun libro possono esse­ 161

re tolti senza togliere significato alla loro interezza, alla loro plenitudine. (Quaderno 344, 1971)

Una biblioteca è il tempio della memoria, la grande Dea madre delle Muse; immortale per de­ finizione. La Dea che salva ogni istante dalla sua morte. La memoria perenne come la morte. L’oblio sono gli inferi da cui la memoria ritorna purificata, giustificata, l’al di là della nostra continua morte, dell’attuale morire dell’attimo e dell’attualità. Chi è l’alloro, chi è Laura… se non la memoria, la Dea Mnemosine? L’alloro è il simbolo di una vittoria, e la memo­ ria è la perenne nostra vittoria sull’abisso, sul nulla, sull’oblio, sul distruggersi del tempo. È il distrug­ gersi che diviene attualità, trascendenza etc. Se, come nelle antichissime lingue, la stessa paro­ la può avere due significati contrari e opposti, anche la predicazione francescana, mentre all’oriz­zonte sorge il primo capitalismo, anche la predicazione francescana della povertà equivale alla predicazio­ ne e alla profezia della nuova ricchezza; la nuova splendente ricchezza capitalistica che, nei confron­ ti dell’antica ricchezza del possesso obiettivo e im­ mediato – della ricchezza immobiliare e immobile, l’utopia realizzata del possesso, simboleggiata dalla terra e dal castello – è invece una ricchezza mobile, 162

che si può possedere con la rinuncia ad essa (con il reinvestimento etc.); una ricchezza che si ricrea in quanto si nega, si nega come possesso obiettivo. Ricchezza che non è un oggetto, ma un atto; l’attua­ lità del proprio distruggersi, della propria rinuncia a sé; e perciò una ricchezza che è sempre povertà e una povertà madre di nuova ricchezza. I lettori, come posteri, riescono a identificare sempre meglio quell’Altro, quella diversità che era la nozione inconoscibile dell’autore. La conoscenza inconoscibile dell’autore. (Quaderno 344, 1971)

Quando siamo nel paradiso di una biblioteca, il senso della nostra superiorità, del nostro valore, si esalta nell’umiltà, nell’umiliazione; nel senso di inferiorità verso tutti i capolavori dello spirito, a cui ci è aperto l’accesso e di cui possiamo possedere l’inaccessibilità, che è al di là di noi perché è in noi; siamo umiliati da tutta la grandezza che è al di là di noi, infinitamente superiore a noi, ma che noi soltanto possiamo far rivivere, richiamare sulle rive della luce, in luminis oras. L’interiorità è l’al di là; l’al di là sono gli inferi, gli inferi sono la via all’al di là, e perciò sono l’al di là stesso; che è soltanto una via, una via senza fine. Ma quanti umani e sovrumani significati ha la via? La via è un’idea antropomorfa, antropomorfa 163

come lo spazio che ci nega. Lo spazio è creato dal moto che esso nega, di cui è la negazione. Forse la negazione è la credenza primogenita dello spirito, e viceversa. (Quaderno 347, 1972)

La biblioteca è lo specchio della nostra vanità, ha tutto il peso delle cose morte, dei pensieri dissa­ crati o disintegrati, delle voci spente; tutta la vanità e l’inutilità degli sforzi umani attirati dalle Chimere dell’immortalità e fissate dalle impressioni dell’in­ chiostro sulle pagine chiuse. Una biblioteca vive soltanto quando la nostra generosità la fa rivivere; è il nostro pensiero, il nostro spirito, la nostra pre­ senza in ciascuno dei suoi libri, a ricondurla dalla sua autosepoltura in luminis oras. Come compenso essa ci insegna quasi con un coro la vanità del tutto, l’invincibilità del destino. (Quaderno 359, 1973)

La maggior parte degli scritti viene divorata, come una preda, da un mostro chiamato “cestino”. O da quel mostro ancora più tenace e mortale che è la biblioteca. (Quaderno 359, 1973)

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La biblioteca è la tomba, il mausoleo ove tante anime morte e imbalsamate nella carta attendono il risveglio, attendono la mente, cioè il salvatore che le resusciti. (Quaderno 374, 1976)

Forse non è giusto pensare e continuare a pen­ sare fino a che si sia giunti a una conclusione; la conclusione è la nemica del pensiero che conduce ad essa; anzi, che la crea. La conclusione è un punto d’arrivo ove il pensiero si riposa, si arresta; cioè si estingue. Il pensiero dovrebbe pensare per distrug­ gere le conclusioni, che impediscono la continuità del suo cammino; il cammino senza fine del pelle­ grino perpetuo, del pellegrinaggio verso i santuari illusori dell’infinito. Una biblioteca è sempre un santuario; dove si vive circondati dai misteri latenti nei grandi libri. (Quaderno 387, 1978)

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Libro

Circoli letterari in cui si è persuasi che i singo­ li letterati siano realmente creatori di nuovi mondi spirituali! Creatrice del nuovo spirito è sempre la vita, la vita come interezza; ed essi sono al più de­ gli specchi, e non sempre tersi! Così fungono da mosche cocchiere e maltrattano nei loro libelli chi non li prende sul serio ed impedisce loro di essere al timone. Essi invece si prendono sul serio, e pre­ tenderebbero di agire, di creare, invece di guardare. Mancano a loro l’umiltà e il disinteresse di fronte alla vita, senza i quali essi sono inetti alla propria funzione. Invece di avere il mondo per spettacolo, si fanno essi stessi spettacolo al mondo. Origine della retorica. (Quaderno 4, 1927)

Lettura dei classici: conoscendo queste grandi creazioni di personalità, noi veniamo a conoscere l’individualità in generale, e quindi anche la no­ stra individualità. E tanto meglio la conosciamo, in quanto essa è vista nella profondità del tempo. È la nostra individualità sentita come tempo. (Quaderno 9, 1929) 167

La lettura del mattino; soltanto il mattino sa leg­ gere, grazie alla sua novità, che esso trasferisce su tutte le cose, e al dono del “rilievo” di cui è prodigo. (Quaderno 242, 1961)

Il nostro modo di leggere una pagina è uno scendere dall’alto in basso, dalla sua altezza; il suo principio è la sua altezza, l’altezza è originaria, fino all’ultima sua profondità, fino al fondo del basso. La lettura della pagina finisce con una delusione? Perché non si dovrebbe leggere salendo dal bas­ so verso la sublimità? Ma allora la pagina sarebbe un’opera umana e non l’opera di un principio, cioè la deduzione da un principio che, appunto perciò, è origine e creazione. La deduzione è l’autocoscienza autonoma del principio, è il suo arbitrio. L’origine non è tale se non è arbitraria. L’arbi­ trio, splendida luce dell’onnipotenza. (Quaderno 336, 1970)

Dovremmo riflettere sulla disparizione, dalle o­pere letterarie, del sentimento; tenuto in vile di­ spregio perché testimone della nostra originaria in­ coscienza e perciò incapacità a dominarci, a gover­ narci; il sentimento viene sostituito dalla coscienza dell’analisi, dalla presa di possesso; un possesso che si accorge di aver distrutto ciò che avrebbe dovuto 168

possedere. Un possesso che si giustifica e si salva come possesso del nulla. (Quaderno 242, 1961)

Quando scriviamo a un corrispondente, quan­ do raccontiamo, il corrispondente, l’avvenimento, non sono che pretesti, occasioni o falsi scopi; noi scriviamo a noi stessi per rivelare la nostra incono­ scibilità. E così ogni opera d’arte, musica, poesia, architettura, etc., è la rivelazione di un’inconosci­ bilità; la differenza dalla nostra identità, dal nostro conoscere. Noi, come differenza dal nostro cono­ scere, il nostro conoscere come differenza da sé. Il conoscere è negazione, autonegazione e attualità. Il conoscere è anch’esso differenza da sé. Ed è la su­ prema inconoscibilità. (Quaderno 372, 1975)

Nei sacri testi non possiamo cercare né ispi­ razione né insegnamento, ma soltanto conferma: conferma di ciò che ci è stato ispirato e tacitamente insegnato. Da chi? (Quaderno 242, 1961)

Il tentativo di ridurre anche il più lieve senti­ mento, anche la più elementare sensazione, nello 169

scrigno di una definizione, di un sistema, di un intelletto, è impresa vana e forse sacrilega. Perché sentimenti e sensazioni, cioè tutti i misteri che por­ tiamo e manifestiamo con tanta disinvolta indiffe­ renza, con tanto singolare e a sua volta misterioso oblio, sono in noi i testimoni della presenza dell’in­ finito e della diversità assoluta; perpetua e attuale trasmutazione nella forma dell’identità. (Quaderno 344, 1971)

Vi sono dei libri delicati, trasparenti e diafani, la cui fragilità sembra scritta ab aeterno. Anche la fragilità è eterna; fragile ed eterna, come la vita. V’è sempre un’ora senza tempo che rimpiangiamo per lungo tempo. (Quaderno 344, 1971)

I libri devono essere scritti per pochi intimi: anche attraverso i tempi conversiamo con pochi intimi. I pochi intimi sono quelli la cui interiori­ tà è al superlativo – intimo come superlativo di interno. (Quaderno 260, 1963)

Gli spettri sono dei postumi della malattia chia­ mata vita. 170

La carriera degli uomini insigni, insigni per la loro arte o il loro pensiero, è la carriera dell’uomo postumo, cioè, la carriera dello spettro. Nell’altra accezione della parola, lo spettro è l’analisi della luce, la rifrazione in sublimi colori del mistero-luce, del mistero luminoso, illuminante e impenetrabile. Anche il mondo del pensiero e delle lettere, il mon­ do umanistico dei letterati, è un mondo defunto, un mondo di spettri, di “spiriti”, che un negromante evoca; di cui evoca i magici incantamenti, di cui si serve dominandoli fino al punto di esserne esclu­ sivamente dominato. Il negromante è l’uomo che legge i libri magici e le loro formule incantatorie, che fanno rivivere i morti, cioè tutti i veri libri; tutti i veri libri sono libri sacri, sono i “classici” della resurrezione. Quelli che si iniziano alla carriera di uomini po­ stumi hanno la consolazione, o meglio l’illusione, di non invecchiare. Anche quando invecchiano nel­ la realtà attuale, e non sanno più fare la corte ad uomini o donne reali, quando la gioventù li sfug­ ge, pensano di poter fare la corte con successo alla posterità, che è sempre più giovane della gioventù attuale. (Quaderno 265, 1964)

I libri sono come gli uomini; invecchiando di­ ventano noiosi. Forse per i libri, per le idee, come 171

per gli uomini, occorre il battesimo della morte per ritornare giovani. La morte, come il sonno, rigenera. (Quaderno 221, 1960)

Un libro è uno stato d’animo che ne cerca de­ gli altri, che cerca degli stati d’animo affini. Perciò quando gli stati d’animo di un’epoca mutano, il li­ bro, che resta, perde lettori e infine perde anche se stesso. Solo alcuni libri privilegiati hanno la facoltà di creare intorno a sé delle anime sempre nuove, cioè sempre più antiche. (Quaderno 238, 1961)

La maggior parte degli autori scrive libri di cui l’unico possibile lettore non può che essere l’autore stesso. Perché l’autore è l’unico per cui tale libro può avere un significato, ricordandogli qualche cosa della sua vita passata, dei suoi ricordi, o qual­ che suo ordine di pensieri che egli non sia riuscito ad esprimere. È rarissimo il caso, ed appare quasi un miracolo, in cui un autore scriva qualcosa che possa significare e avere un senso anche per gli altri, per gli estranei. Sembra quasi che egli abbia indovi­ nato o vissuto la vita degli altri, e dei più scaltri fra gli estranei. (Quaderno 18, 1933) 172

La Divina Commedia è il libro dei tre labirinti; in ciascuno dei quali la personalità umana è pri­ gioniera; e così l’anima, e così le due forme della poesia, Dante e Virgilio; che cercano un’uscita, crean­do il labirinto con questa ricerca. La persona­ lità umana, ossia, infinite persone sono prigioniere secondo vari gradi di intensità e speranza, senza catarsi; le passioni infernali sono ciò il cui martirio è inutile e senza senso; corpi opachi e pesanti che non hanno altra anima che il furore e il dolore e i loro demoni. La loro sopravvivenza è una crudeltà della divinità; e questa crudeltà è il modo con cui la divinità stessa è presa nel labirinto, essendone anch’essa prigioniera. E il labirinto non fa che scendere verso il centro di gravità, il centro del peso, dove il peso si annulla e la catarsi capovolge il mondo. (Quaderno 347, 1972)

Vi sono delle complicità tra noi e le opere d’arte, tra noi e i libri, tra noi e gli Dei. Noi ci riconoscia­ mo infinitamente in esse, ed esse si riconoscono in noi; noi viviamo in esse e soltanto in esse possiamo morire (forse in esse riconosciamo il nostro destino di morte e di gloria); ed esse soltanto in noi possono vivere e morire. Che si vuole di più per una compli­ cità? Il reciproco riconoscersi, così come la vita e la morte reciproca, sono appunto l’amore; e l’amore è 173

la massima complicità. Complicità in quale delitto? Nel delitto della creazione. Nell’amore siamo posseduti dal nuovo essere. Complicità nell’essere più ancora che nel creare; noi abbiamo bisogno della complicità degli altri per essere, per essere sicuri di essere, di essere del­ le individualità. La sofferenza della solitudine è la sofferenza dell’incertezza di essere, del non essere più sicuri di essere. Che siamo noi nella solitudine? (Quaderno 248, 1962)

I grandi libri, i grandi classici, sono i libri che insegnano sempre qualcosa, perché sono libri che apprendono sempre, apprendono mentre insegna­ no, ricevono sempre nuovi sensi e significati. Si in­ segna sempre nell’atto in cui si apprende: questo è anche il destino dei libri, anche secoli dopo la loro nascita. Essi mutano e si rinnovano continuamente, allo stesso modo del tempo che li trasporta. Mentre li leggiamo, ci accorgiamo che essi apprendono da noi con la stessa intensità con cui noi stiamo ap­ prendendo da essi. (Quaderno 254, 1962)

Il libro assoluto di Mallarmé può ridursi ad un’unica idea: l’idea dell’assoluto e dell’universale. La negazione dell’essere, la purificazione dell’esse­ 174

re. Può ridursi ad un unico concetto o perfino al nulla; a quel nulla, a quell’inesprimibile che miglia­ ia di libri riescono a non spiegare. La dimostrazione dell’inspiegabilità e dell’inconoscibilità è l’unica ed essenziale conoscenza; perché l’Inconoscibile non ha altra consistenza, altra essenza ed esistenza che la sua Inconoscibilità. Non è altro che Inconosci­ bilità. E tale inconoscibilità viene conosciuta come tale, viene riconosciuta. Conosciuta, distrutta e conservata. Perché rinasce dalla razionalità che la distrugge. (Quaderno 341, 1971)

Mallarmé è stato il profeta del libro assoluto; in­ sieme assoluto concetto e assoluta poesia. Il libro che mai nessuno riuscirà a scrivere. Ma i grandi libri dell’umanità, dalla Bibbia e da Omero fino a noi, non sono forse libri assoluti? Il libro che dovrebbe essere interpretazione orfi­ ca della terra, cioè assoluta coscienza di quello che dice, un’arte assolutamente autocosciente che fosse perfettamente conoscibile e insieme inconoscibilità e trascendenza, è forse l’irraggiungibile che però è raggiunto nel momento stesso in cui viene concepi­ to, cioè negato; concepito e negato come concetto. Il concetto è appunto un concepimento. Nei versi e nelle prose, entrambi oscuri, di Mallarmé, il concet­ to è stato espresso sperimentalmente, cioè è stato 175

espresso in forma poetica; una poesia che resta se medesima, ma è consapevole del concetto. Consa­ pevole in forma puramente poetica. Che esprime indirettamente il concetto. (Quaderno 341, 1971)

Nessuno sa conservare il proprio segreto come un libro il quale abbia in sommo grado l’arte di ma­ nifestarlo. Esempio di questo luminoso mistero è la luce stessa. La luce è il sommo mistero; misteriosa come la vista e il vedere – e insieme la luce è la chia­ rezza per definizione. La punta d’oro della penna, così obbediente nel delineare il lungo filo oscuro del discorso scritto, forse affine al filo delle Parche, filo di comunicazio­ ne tra oggi e domani. (Quaderno 309, 1967-68)

Il poeta è colui che viene creato dalle parole, che è salvato, nel profondo dell’animo, dalle parole e che a sua volta salva le parole trasmettendole ai po­ steri incastonate nel suo entusiasmo, temprate per sempre dal suo fuoco. Il poeta è la pura immagine della riconoscenza; egli restituisce all’avvenire il capitale ricevuto dal passato, moltiplicato dagli interessi che suscita. Te­ soro aureo che si moltiplica quanto più lo si spende. 176

Nessuno sa meglio conservare il proprio segreto di un libro che sia degno del suo segreto. Prova ne siano le innumerevoli esegesi, gli infiniti commenti, spiegazioni, interpretazioni che i grandi libri susci­ tano; e tutte le glosse di eruditi e critici testimo­ niano soltanto l’inviolabilità del segreto e il proprio fallimento, di cui sembrano felici. I libri che dicono apertamente ciò che sono, muoiono nell’atto stesso in cui cominciano a parlare. (Quaderno 309, 1967-68)

Leggendo il Libro, spezziamo uno degli infiniti suggelli che chiudono il silenzio della Parola di Dio; la Parola di Dio è l’unico silenzio. Per questo, forse, invochiamo Dio che benedica la lettura, cioè la pro­ fanazione della sua parola. Infinita e interminabile è l’esegesi, la spiegazio­ ne dell’Istante; l’esegesi non potrà mai raggiungere l’Istante, né eguagliarne la purezza. (Quaderno 309, 1967-68)

Il Libro, i primi libri come le prime scritture, ap­ parvero sacri. La Scrittura, e forse la Parola, hanno evidenti origini sacre. E così apparvero sacri, cioè misteriosi, i primi strumenti: l’aratro, l’ascia, la lan­ cia, e perfino il bastone. E infine la ruota, la casa. Che noi oggi abbiamo portati al supremo grado 177

di astrazione; astrazione, cioè negazione della vita, della divinità e della sacralità. La subdola mediazio­ ne, le prime creature della negazione, dell’ateismo nei confronti della vita, divinità immediata, appar­ vero sacre, e, rivestite di sacralità, vennero intro­ dotte, come cavalli di Troia, nel tempio originario, nella originaria città sacra: l’Ilio degli Dèi. Nessuno conosceva e prevedeva quali armi esse contenessero e fossero, quali distruzioni annunciassero. Gli Dèi non sono mai previdenti; essi vedono soltanto, san­ no vedere. Nessuno è meno previdente degli Dèi… gli Dèi sanno soltanto vedere; la virtù meschina del­ la previdenza, della cautela, della diffidenza (preve­ dere è diffidare) è ignota agli immortali. (Quaderno 309, 1967-68)

Uno scrittore, cioè un libro, anche se l’autore è ignoto, può essere salvato da un lettore che cerchi in esso la sua salvezza, che metta in esso la sua sal­ vezza o la sua forma di perdizione. I tempi in cui sentiamo di essere incarnazione, cioè di essere una sintesi, sono i tempi della grande dissociazione. I tempi in cui comprendiamo finalmente l’origine, cioè la sintesi, sono i tempi della fine, dell’anali­ si, dell’apocalisse, del giudizio; l’Omega è la luce dell’Alfa (la coscienza dell’Alfa). (Quaderno 309, 1967-68)

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Un libro di memorie è un’orazione funebre pro­ nunciata dal morto stesso. Così, se non fossimo, ol­ tre che vivi, anche attualmente morti, non potrem­ mo rievocare, ricordare, commemorare. (Quaderno 229, 1960)

Quando invecchiamo, l’unico libro che leggia­ mo volentieri è il libro della nostra vita e del nostro passato, tutto pieno di scritture geroglifiche, ideo­ grafiche e simboliche, che difficilmente riusciamo a decifrare; ma che, ciò non di meno, appunto per­ ché tanto nascosto, appunto perché più misterioso e impenetrabile di un futuro, è pieno di fascino, come la bellezza eternamente entusiasmante e sem­ pre inesplicabile di un poema. Noi diveniamo i guardiani di un segreto su­ premo, non divulgabile fuorché nell’affermazione della sua assoluta importanza; il segreto di ciò che avrebbe potuto essere e non fu, e insieme fu, eter­ namente fu e non potrà più essere; (ciò che fu, sarà eternamente, sarà eternamente stato) qualcosa di realissimo e irreale, di eternamente e per sempre passato ed eternamente e per sempre futuro; di tra­ montato e intramontabile: la nostra giovinezza. (Quaderno 242, 1961)

È inutile avere delle immense biblioteche: l’u­ nico libro che leggiamo capitolo per capitolo, fino 179

alla catastrofe finale, siamo noi stessi. I libri sono i dizionari in cui cerchiamo la definizione, la spiega­ zione del nostro nome, del nostro misterioso essere, la cui inesplicabilità è la nostra luce. Che cosa av­ verrebbe se riuscissimo a capire, a definire perfet­ tamente noi stessi, cioè a distruggere perfettamente noi stessi? Ma sembra che il nostro compito, che rimane felicemente incompiuto fino alla morte, è di distruggerci conoscendo. Possiamo conoscere sol­ tanto la nostra inesplicabilità. Per arrivare a noi stessi, cioè all’assoluta e per­ petua origine, vale il motto degli antichi navigato­ ri: buscar el levante por el ponente. Raggiungere il levante, il paese dell’aurora e della resurrezione seguendo la rotta verso ponente, verso il tramonto e la morte. Soltanto questa rotta è la giustificazione del viaggio. (Quaderno 387, 1978)

I libri per noi più nuovi sono i vecchi libri che rileggiamo dopo un lungo lasso di tempo e di oblio. Essi allora sono carichi di tutta la nostra novità, del­ la novità che abbiamo creata in anni di lente muta­ zioni e inconsapevoli metamorfosi. È il confronto con la nostra novità di prima, incorporata nella me­ moria del libro, con la nostra novità di oggi, che sempre si incorpora con la perpetua novità del me­ desimo libro. Vi sono pensieri la cui eternità riesce 180

a sopportare tutte le metamorfosi, riesce a colorarsi ai soli e alle stagioni di tutte le novità, senza che mai muti o tramonti la sua presenza immutabile, che ci riferisce, ci narra la novità nostra. Pensieri e libri sono i nostri creatori e con essi, con la loro virtù creatrice, possiamo confrontare la nostra novità di creatura. (Quaderno 221, 1960)

Quando desideriamo leggere un libro quale non esiste in commercio, e sentiamo che noi soli sarem­ mo in grado di scriverlo, allora possiamo dire di avere raggiunto un certo grado di originalità. (Quaderno 225, 1960)

Quale può essere il nostro libro sacro, quello a cui ci possiamo rivolgere per la nostra salvezza, all’infuori dei miti, delle individuazioni e delle nar­ razioni? Questo libro non esiste e forse non esisterà mai; non esisterà mai il libro assoluto, come non esiste una parola assoluta. Anche la Bibbia, l’antico testamento, è una rac­ colta di scritti su argomenti diversi; è la testimo­ nianza di una cultura. Come siamo condannati ad essere assoluti solo quando viviamo nel relativo, così, per parlare dell’assoluto, dobbiamo parlare d’altro; la luce può essere guardata nelle sue ombre 181

o nei suoi colori; non nella sua sorgente soggettiva. Ma la grande dottrina è la dottrina della negatività, del negarsi dell’assoluto. Il modo di contemplare l’assoluto è di negarlo. Dobbiamo dissolvere la vita, la compattezza della vita costituita dalla sua volontà e dai suoi desideri, per poterla possedere nella sua attualità. Ma quale libro potrà avere la semplicità, il candore, la verità e l’autorità per persuadere questa dottrina e confortarci con essa? Un libro assoluto privo di mitologia può essere umano fino al punto di confortarci? (Quaderno 336, 1970)

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Poesia e prosa

Commiato (3 febbraio 1929 - Pernumia) Ars poetica. Nelle pagine di questo diario vi è ora più saggezza di quanto io non ve ne abbia mes­ sa, e queste pagine possono ora essere per me un insegnamento. Il tempo è passato, e io non sono più quello che le scrisse. Io sono divenuto verso quel tempo un estraneo, simile ed assimilato agli estranei e ai profani. E sento di essere ancora affine solo a quei pensieri che sono nati liberi (ingenui, latina­ mente), non schiavi o liberti di presupposti teoreti­ ci o di finalità metafisiche. Le metafisiche hanno il passo ritmico e cadenza­ to, come previsto dai regolamenti; sanno dove van­ no, e concludono entrando a suon di trombe nella consueta caserma. Altra è la danza dei pensieri e dei sentimenti; essi non amano altra coesione fra loro che quella della loro musica, elemento in cui vivono e si muo­ vono: amano apparire e sparire senza altro scopo che quello di essersi accesi e senz’altra conclusione che quella di spegnersi. Sono divinamente. (Quaderno 10, 1929)

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La poesia è il segno, la manifestazione della nostra superiorità, del superamento delle passioni in genere, e particolarmente delle passioni dello spirito. È la conquista della serenità con la catarsi, il superamento delle passioni. Le più gravi, tra le nostre passioni, sono le passioni dello spirito, e le più difficili a vincersi, come quelle che inquinano la fonte stessa delle acque destinate alla purificazione. Ora, la poesia è tanto più grande quanto più è al di sopra delle passioni, quanto più è servita a liberare l’uomo dalle sue passioni; e quindi quanto più for­ ti queste passioni e quanto maggiore la sofferenza dell’uomo nel subirle. Questa serenità superiore è una specie di solitu­ dine, dove l’uomo si trova ormai inattaccabile dal­ le passioni e dagli interessi degli altri, e dove non riescono a salire che corpi distaccati dalla gravità terrestre, che si uniscono a lui per formare il suo sistema, non per turbare la serenità e la solitudine di questo sole spirituale che sa imporre a tutti la propria legge. Certo, rari sono i momenti del nostro tempo in cui siamo dei soli; in generale subiamo una quantità di forze e attrazioni. Talia locutus faenerator Alphius, etc. (Quaderno 14, 1932)

Nei grandi romanzi, per arte magica, tutti i per­ sonaggi sono posti in relazione con l’assoluto, con 184

il loro assoluto. Perciò essi sono tutti simboli; sim­ bolica è sempre la manifestazione, l’espressione, la parola dell’Assoluto. Infatti un fait divers qualsiasi, che non abbia, relativamente a noi, un significato qualsiasi, non interessa né noi, né il nostro portie­ re. Ogni personaggio significa qualcosa, anche se la sua azione non gli permette d’esplicare interamente questo significato: egli è costantemente in rappor­ to con qualche cosa, con una legge, con una verità occulta. Egli è come un messaggero dell’al di là, dell’inconoscibile, dell’assoluto. L’araldo di un dio ignoto; mandato sulle nostre rive per un ammoni­ mento, per una annunciazione, per una speranza. Apre nuovi spiragli, nuove porte, le porte eterna­ mente vietate dell’al di là; fa intravedere nuove luci e nuove profondità. (Quaderno 14, 1932)

La parola del mago, dell’incantatore, che è un carmen – ma non il carmen del poeta –, ha un valore in sé e per sé, senza riferimento ad alcuna immagine o cosa, anche se è perfettamente incomprensibile a chi dice e a chi ascolta. (Quaderno 14, 1932)

La poesia è sempre un inno di vittoria, è un epi­ nicio. È la somma libertà trovata nella somma ne­ 185

cessità; è l’universale trovato nell’accettazione del particolare, è la consolazione che emerge dall’im­ mersione nelle pene – è il grido di vittoria dell’uo­ mo che riesce ad imporsi alla cieca legge delle cose, che vede la necessità delle cose assumere a poco a poco un’immagine umana. Pertanto è l’espressione, la manifestazione, la descrizione, la spiegazione di questa vittoria sulle cose e sulla necessità, ottenu­ ta accettando la necessità, immedesimandosi nella cieca volontà delle cose. Da qui la possibilità della critica: essa può ricostruire la situazione, l’opposi­ zione, le condizioni in cui questa vittoria si è pro­ dotta. Il fatto stesso, in sé, di questa vittoria, è un mistero – ma, come tutti i misteri, è noto a tutti. È quello che ciascuno ha in sé di più noto, profondo e familiare (altrimenti chi si interesserebbe ancora di misteri? E perché i misteri sarebbero per noi la cosa più interessante di tutte, se essi ci fossero del tutto ignoti ed estranei?)? Perciò il prodursi di questo mistero di vittoria può essere da ciascuno riprodotto in sé, sperimentato in sé, ove siano date le condizioni, il contrasto, l’avversità, da cui esso è sorto. La descrizione del panorama, del clima, della necessità di questo mistero è la funzione della cri­ tica. La poesia, essendo questa vittoria, è ciò che di più umano, di più spirituale, di più interno vi sia. (Quaderno 14, 1932)

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L’ideale della poesia è l’espressione dell’indivi­ duo a prescindere da qualunque idea, non appog­ giato su alcuna idea; la vera poesia sorge quando l’espressione è priva di qualsiasi contenuto ideale; ogni idea, in genere, è un’universalità priva di fon­ damento nella particolarità. (Quaderno 18, 1933)

Il miracolo della poesia è sempre l’impersona­ lità. Ogni poesia ha, forse, origine da una rinuncia alle cose e a sé, come forse ogni idea (forse per que­ sto un’idea non è mai razionalmente dimostrata, ma sempre sperimentalmente sperimentata, provata, fondata su una esperienza indubitabile. Anche per le idee ha valore il metodo sperimentale e, forse, solo esso). In questa potente forza di saper rinunciare a tut­ te le cose e a tutte le forze, per non subirne alcuna e poterle giudicare tutte da una posizione personale inviolabile, è il segreto della poesia, il mistero delle parole, del Verbo. Un poeta non parla mai in fa­ vore di sé; né in favore del proprio utile, né della propria vanità; i suoi sentimenti devono apparire assolutamente spontanei, cioè nati da sé, per gene­ razione spontanea, senza alcun intervento della sua volontà. Egli deve essere puramente un medium, un intermediario, che, col rinunciare alla propria personalità, permette ai sentimenti di apparire allo 187

stato puro; permette l’apparizione di una verità as­ soluta, impersonale, e quindi utile e vera per tutti. Il poeta scompare pienamente nelle proprie verità, e questo è il suo pudore. È, però, proprio in questa impersonalità e rinuncia, che egli può riconosce­ re la realtà dell’individuo e il valore di se stesso; e apparire con una personalità nuova, che è più sin­ golare e unica di quella che ha perduto nella sua rinuncia; una personalità che ha tutta l’esperienza della nascita in sé, delle verità e dei sentimenti ge­ nuini, che, nascendo in lui, hanno in lui lasciato una particolare impronta, un particolare timbro, da cui ogni sua parola resta marcata. Quel particolare ine­ briamento che per sempre fermenta in chi ha una volta avvicinato il calice dell’assoluto. Una inegua­ gliabile sintesi di umiltà e gloria, un’umiltà privata, congiunta col sentimento più glorioso dell’umano destino. Solo chi ha veramente saputo e potuto ri­ nunciare a se stesso, sa per esperienza con quale violenza, con quale spontaneità e genuinità, nasca­ no in lui i semplici sentimenti e le universali idee, che sono come la veste della sua resurrezione, la sua forma universale. E questa sua interiore catastrofe è la sua perpetua consacrazione. Tutta la dialettica della poesia si svolge in questa necessità di dover perdere la propria personalità, in conflitto con la necessità di conservarla, di esse­ re assolutamente personalità. Essere perfettamente personali, individuali, semplici uomini, conservare 188

tutte le caratteristiche immediate dell’umanità, pur essendo portatori di una personalità trascendente, pur, cioè, essendo assolutamente impersonali, come si deve essere dopo la consacrazione di una rinuncia e di una rinascita; non è questa la definizione stessa del superuomo, dell’Übermensch? Non è l’autenti­ co superamento dell’umanità, pur restando perfet­ tamente uomini con tutte le caratteristiche umane, dalle passioni alla volontà, con le caratteristiche di un egoismo sublimato da esperienze morali e arti­ stiche? È perciò che la dialettica dell’arte conduce alla creazione del mito, del genio e del superuomo (del simbolismo, dell’uomo simbolo, dell’espressio­ ne come simbolo), in cui, finalmente, trova la sua pace e la sua morte. (Quaderno 18, 1933)

Noi non possiamo mai conoscere direttamente i nostri sentimenti, noi stessi; non sapremo mai che cosa i nostri sentimenti effettivamente sono. Per­ ciò, per questa espressione, occorrono degli inter­ mediari, degli spiriti fra la terra e il cielo; noi siamo sempre alla ricerca di qualcosa che possa spiegare (cioè rappresentare a noi stessi) il significato e il va­ lore della nostra anima e dei nostri sentimenti, di qualcosa che si ponga come intermediario fra noi e noi stessi. Questo intermediario è, qualche volta, l’occasione (“al par del vento / precipitosa l’occa­ 189

sione e lieve”, dice il Redi), nella quale scorgiamo, improvvisamente, qualche luce di intuizione o rive­ lazione, senza riuscire a fermarla. In genere si cer­ cano dei mezzi di espressione, cioè di conoscenza, più durevoli, in cui la rappresentazione di noi e del nostro tempo possa avere un carattere di maggio­ re durata. In generale l’uomo ama tanto più la sua opera, quanto maggiormente in essa può pervenire alla vera immagine di sé, alla vera conoscenza di sé. Così gli scrittori sono continuamente alla ricerca di immagini, o fatti immaginari (come i romanzieri e simili), di idee astratte ritenute eterne e definitive (come i filosofi), di avvenimenti trascorsi (come gli storici), di forme e colori (come i pittori e i poe­ ti), unicamente per arrivare, con tutti questi mezzi, questi intermediari, a conoscere l’anima propria e l’anima del proprio tempo. E questi mezzi sono tanto più espressivi, quanto più sembrano esteriori ed eterogenei all’essenza e all’anima. Questi mezzi possono anche essere la lotta per il potere o l’eser­ cizio attuale di esso; oppure, il voler stabilire rego­ le di vita o norme dell’agire, come per i moralisti etc. La prova, per assurdo, di quanto sopra, ci è data dai settatori della poesia, così detta “pura”, i quali vorrebbero arrivare alla poesia (cioè a se stes­ si e all’anima propria) direttamente, eliminando i materiali estranei, le così dette scorie, ciò che non è puramente poetico (volontà, azione, moralismo, didascalismo, pratica e perfino sentimento etc.); 190

anche se, in questo folle proposito di conoscenza diretta di sé e della poesia, essi riescono a comporre illeggibili e simbolici criptogrammi, ma non certo della poesia. (Quaderno 18, 1933)

La poesia è sempre presente nel mondo, lo do­ mina, lo governa e lo conduce. Nessuno sa resiste­ re alla sua forza, come nessuno sa tollerare la sua essenza. Soltanto che essa si presenta ora con una veste, ora con un’altra. Difficile è l’arte di ricono­ scerla sotto i suoi continui travestimenti. Impedita ad apparire in una forma, essa ricompare subito in un’altra forma, mentre tutti si affannano ad inse­ guirla sotto le spoglie in cui l’ultima volta era ap­ parsa. L’arte di pochi è di trovarla appunto dove nessuno la cercava – di riconoscere la sua identità. (Quaderno 21, 1934)

Ogni poema, come ogni sistema filosofico, con­ tiene un ragionamento profondo che non si trova in alcuno dei molti ragionamenti che ne costituiscono la trama. Il loro profondo ragionamento consiste nella creazione di una specie di necessità (quale ne­ cessità non è da noi avvertita o creata? Anche la fame e il bisogno sono un’invenzione della vita), di una specie di simmetria e di rapporti fra i dati 191

che essi creano o dispongono. È questo rapporto necessario fra le entità spirituali a costituire la realtà da essi inventata. E nello stesso tempo la ne­ cessità da essi inventata. E in questo senso sono un ragionamento, come è un ragionamento la musica, in quanto il ragionamento è sempre l’immagine, la constatazione di una necessità. Ma i diversi ra­ gionamenti, che sono appunto constatazioni, non somigliano in nulla al ragionamento fondamentale che è posizione, cioè invenzione (e creazione) di ne­ cessità e rapporti. (Quaderno 21, 1934)

Il mistero dell’arte, come il mistero della parola e della musica, è e rimarrà impenetrabile. Eppure tutti sappiamo che cosa sia l’arte, tutti ne sentia­ mo la presenza – la identifichiamo e come identi­ tà e come diversità. Sentiamo il mistero della sua evidenza impenetrabile e della sua inaccessibile e inviolabile chiarezza. Tutti sentiamo la certezza del­ la sua presenza, che è la sola che dia alla nostra esi­ stenza la certezza e la convinzione di esistere. Cosa ci insegna l’arte, cosa impariamo da essa? Che cosa possiamo comprendere in essa e da essa? L’arte ita­ liana è forse l’arte più pura appunto perché è quella dove tutto è chiaro, è aperto, dove non v’è inten­ zione di nascondere o rivelare alcun mistero – ma appunto perciò dove l’incomprensibilità è somma, 192

dove non v’è alcuna possibilità di penetrare nella corazza di luce. L’arte è tanto più pura, e quindi tanto più inconoscibile, indefinibile, quanto meno vi sono in essa elementi di oscurità, di mistero, di inconoscibilità obiettiva – quanto meno vi sono in essa riferimenti a misteri spirituali, a significati spi­ rituali, religiosi, storici, ecc., mediante i quali essa possa essere spiegata e intesa. L’arte italiana, essen­ do una delle arti più chiare e pure, è perciò stesso la più inspiegabile. (Quaderno 214, 1959)

Tutti i poemi sono simbolisti; ma gli antichi non sanno di esserlo e i moderni invece lo sanno; gli antichi cercavano il reale e trovavano il simbolo; i moderni cercano il simbolo e cosa trovano? Forse soltanto il nulla, o forse, al di là di se stessi, il presa­ gio, il presentimento di qualche nuova realtà. (Quaderno 28, 1934)

Il critico, analizzando la poesia, crea e affina una coscienza analitica e critica che è l’opposto di quella attitudine immediata necessaria a creare l’ar­ te, di quella ignoranza ed inesperienza da cui l’arte germoglia. (Quaderno 49, 1937)

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L’anima della poesia è l’inesperienza. Cioè la sincerità. L’anima è la poesia dell’inesperienza. (Quaderno 214, 1959)

L’arte (la poesia) è un pensiero che una logica implacabile ha condotto all’assurdo, un pensiero che la logica ha condotto al suo contrario e lo fa convivere con esso. (Quaderno 225, 1960)

Su tutte le cose noi gettiamo il mantello della poesia, cioè dei nostri ricordi, dei nostri sentimen­ ti; ma sotto questo mantello che vale solo per noi, perché è nostro, le cose continuano ad essere quello che sono, cioè un’estraneità assoluta a noi, alla no­ stra poesia, ai nostri sentimenti, a tutto e a se stesse. Quando le vediamo nella loro nudità, nel loro es­ sere, o meglio nel loro non-essere, nel loro non es­ sere quello che noi crediamo o vogliamo che siano, abbiamo in esse lo specchio della nostra solitudine; e cioè del nostro non-essere, dell’opacità del loro essere. Le cose in sé sono mostruose perché sono e non sanno di essere; ignorano la loro solitudine e la nostra. (Quaderno 229, 1960)

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Poeti e filosofi si confortano reciprocamente della loro negazione delle evidenze. L’uomo distrugge l’evidenza triste e necessaria delle cose per il fatto stesso che la vede. Felice l’uo­ mo che può vedere l’evidenza, riconoscerla, giudi­ carla. (Quaderno 229, 1960)

Cercare una musica inconfutabile nelle idee o nei loro sistemi, proprio là dove le estreme astrazio­ ni sono l’opposto della fluidità della musica. (Quaderno 238, 1961)

I sistemi sono le città indifese e inespugnabili delle idee. Città dell’al di là, dell’al di là di tutte le cose a cui vorrebbero riferirsi, di tutte le cose che sempre più dimenticano le loro idee, i loro al di là, e che hanno il loro paradiso soltanto in se stesse; città che risuonano ai raggi dell’unico sole che può sorgere e muoversi sopra di esse. (Quaderno 238, 1961)

Le armonie, i ritmi, cioè le leggi della musica e dei versi non sono convenzionali, non sono stabilite da noi, dal nostro arbitrio. In nostra potestate non sunt; essi ci sono imposti, non sappiamo da chi o da 195

quale legge; le nostre più sublimi e più individuali li­ bertà ci sono imposte. Subiamo la legge della libertà. (Quaderno 238, 1961)

La prosa è sempre prosa di poeti; la poesia con le sue dure leggi e regole è maestra di libertà, ed insegna la libertà alla prosa, che è “soluta”. Le belle prose, che spesso valgono più delle poesie, ne sono però alunne; accompagnano o seguono le stagioni poetiche; ne sono o le luminose estati o i fastosi au­ tunni; l’uomo impara prima a cantare che a parlare. (Quaderno 238, 1961)

Il non prendere sul serio la poesia è il segreto necessario non tanto per divenire o essere poeti (ciò può accadere talvolta e momentaneamente a tutti), ma per restarlo per tutta la durata di un poema. Qui occorre l’intervento di una rara facoltà, capace di dominare la propria poesia, la propria sponta­ neità e di servirsene; di servirsene per scoprire che la poesia stessa non deve conoscere, pena la morte. (Quaderno 238, 1961)

La poesia, la creazione lirica, non è gratuita, ma è generata da un’interna mediazione o negazione o tragedia; la tragedia è la catarsi. 196

Pertanto il mondo lirico non è crocianamente un in sé, diverso dal rimanente mondo dello spi­ rito, ossia, una immediatezza; l’espressione dell’in­ tuizione è la tragedia, è la rinuncia, è la negazione; è il negarsi dell’intuizione; e perciò l’espressione è interna all’intuizione. (Quaderno 238, 1961)

Mallarmé è l’utopia di una poesia e di un’arte perfettamente consapevoli di sé e del proprio si­ gnificato. Utopia assurda che desiderando e propo­ nendo la più trasparente coscienza di ogni verso, di ogni ritmo, di ogni parola, di ogni intenzione, finisce per creare l’oscurità impenetrabile agli oc­ chi umani, il labirinto inestricabile dei concetti, e, in fondo ad esso, il Minotauro del nulla, a cui la giovinezza del poema si sacrifica. Però è un’utopia che, una volta espressa, teorizzata e praticata, non può più essere elusa o dimenticata. Un’utopia che diviene l’unica regione che i poeti possano colo­ nizzare, e che diviene il nido dove l’eterna Fenice della poesia, dell’arte, si consuma nella sua fiamma, si incenerisce nella sua coscienza fatale, in vista di gloriose e mostruose metamorfosi. (Quaderno 242, 1961)

L’arte e la poesia sono la poesia dell’occasione, dell’irrelato, dell’improvviso, di ciò che appare sen­ 197

za causa, come un arbitrio sempre giovane. Chi è più giovane della pura origine, del puro arbitrio? Ma il pensiero che dovrebbe esprimere e an­ nunciare come un angelo, divulgare la divina gio­ vinezza dell’occasione, ne abusa, invece, non per fecondarla, ma per distruggerla, per torturarla nell’analisi; per toglierle ogni carattere di occasione e di arbitrio. La uccidono per giustificarla e forse per “espiarla”. Questi neri insetti, con le miriadi delle loro zam­ pe nere, le lettere dell’alfabeto, che si diffondono approfittando e abusando del candore delle carte, questi insetti, che cosa pretendono, dove vogliono salire? Forse sulle vette gelide del pensiero? Voglio­ no forse vivere ed eventualmente respirare nelle so­ litudini cosmiche dell’anima? (Quaderno 242, 1961)

Ogni poesia è la celebrazione di un mistero; è un significato che sorge dalla sua negazione, cioè da una semplice affermazione. Ogni arte è la celebra­ zione del mistero di una liberazione, di una reden­ zione che nasce dall’accettazione di una necessità. La necessità, in quanto pura, cioè attuale negazio­ ne, è coscienza, cioè libertà, trascendenza rispetto ad ogni necessità. La necessità, in quanto apparte­ nente al mondo negativo, coincide con la libertà. (Quaderno 242, 1961) 198

La poesia non è diversa dal concetto; come il concetto, è un concepimento; il mistero di un con­ cepimento. Ogni concepimento è un organismo che si riferisce unicamente a se stesso. È un uni­ verso come il grande universo che ci circonda, ma più nobile di esso, perché è un universo coscien­ te; cosciente anche della sua trascendenza, cioè dell’impossibilità di conoscersi. La poesia, in quan­ to concetto, è totalità come il concetto, e tende ad espellere ogni riferimento estraneo; tende ad essere puramente se stessa. E tende, come ogni concet­ to, alla coscienza di sé. La coscienza di sé, che è negazione di sé, distrugge fatalmente l’innocenza del concepimento, l’innocenza dell’attualità. Ogni conoscenza di sé non può essere che coscienza di colpa. Il nulla è pura innocenza o oscura colpa nel seno della vita? (Quaderno 243, 1961)

La filosofia è la poesia dell’astratto, cioè la poe­ sia dell’aridità; la poesia dei deserti; ma non delle oasi dei deserti. Bensì del deserto come tale, del de­ serto che ripudia l’oasi come una colpa. (Quaderno 243, 1961)

La musica è un’armonia, un senso del tempo e del ritmo, una diversità sempre attuale ed una at­ 199

tualità sempre diversa, che cerca un’espressione consapevole e riflessa, per potersi assolutamente conoscere. Il discorso, la poesia, che deve sempre adoperare la prosa delle parole, è un’espressione consapevole e riflessa che tenta di trasformarsi in altro: in musica. In ciò che riesce ad essere assolu­ tamente altro dal pensiero o concetto, in cui risiede o con cui si esprime; assolutamente altro dalla co­ scienza, al di là della coscienza. Lo scopo della poesia è il sistema dell’irraziona­ le; è il senso del tutto, che, appunto perché è tutto, non può avere fondamento. Il tutto è inutile perché non ha relazione con alcunché; e per la medesima ragione non ha fondamento alcuno. (Quaderno 248, 1962)

Animati dalla poesia, non vogliamo più appren­ dere nulla, vogliamo soltanto annunciare come arcangeli tutto quello che non sappiamo e non sa­ premo. Ma perché non ammettere che questa igno­ ranza sacra, che solo la poesia può ispirare, corri­ sponde, per l’ispirato, alla scienza suprema, che è l’amore struggente e felice per la suprema “Musa”, Musa e suprema, perché invisibile, inesistente, in­ violabile e irraggiungibile. (Quaderno 249, 1962)

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La poesia è l’arte delle scorciatoie, l’arte di arri­ vare prima, in anticipo – per vie traverse, sentieri, salti e dirupi – dove il pensiero razionale e riflesso perviene mediante vie maestre e lente, cioè alla ve­ rità. Ma il pensiero razionale, grazie a queste vie, ri­ schia di non pervenire mai. Trova che l’anima lirica ha già occupate le alture e le vette, e che la verità è troppo diversa dalla via maestra. (Quaderno 253, 1962)

La poesia è creazione della nozione con la nega­ zione, e conoscenza della trascendenza della nozio­ ne alla conoscenza; irriducibilità della nozione alla conoscenza razionale. L’irriducibilità dell’attualità alla conoscenza, cioè la trascendenza dell’attualità, della presenza. Suprema conoscenza. Noi conosciamo negandoci, riducendoci a pre­ senza, ma non possiamo conoscere la conoscenza stessa – che è appunto la trascendenza alla cono­ scenza. La conoscenza in sé è la presenza stessa. (Quaderno 253, 1962)

La poesia suppone un’operazione, consapevole o meno, dello Spirito, per cui tutto viene negato, e il mondo e noi; e pertanto tutto – e il mondo e noi, e la parola stessa – appare con carattere e aspetto di assoluta novità. La poesia, come il pensiero in gene­ 201

re, è una rigenerazione; la rigenerazione di ciò che il tempo, l’abitudine, l’uso e la fatica consumano e livellano. La poesia è una creazione o rigenerazione di dislivelli e di distanze; restituisce alle cose, a noi, alle parole, e all’universo stesso, il rilievo che dà la contemplazione delle realtà nostre e universali, sul­ lo sfondo del nulla da cui provengono e su cui sono sospese. Sensazione rarissima, perché essa è l’eclissi di tutte le evidenze, di tutti i dati, di tutti i presup­ posti e le condizioni. Il nulla può essere una contemplazione o un’e­ sperienza, o una convinzione; mai una convenzio­ ne. Ma il nulla nostro, come il nulla universale, che alla fine si identificano, sono principalmente una conoscenza sperimentale; esperienza che nes­ suno desidera – però condizione di ogni rinascita e di ogni certezza. La certezza non può essere ri­ generata in altro modo. Il dislivello tra l’essere e il nulla, tra l’attualità e il nulla, è infinito; è l’infinito. Ma l’attualità è sempre attualità del nulla; cioè ne è l’esperienza. La musica è la rigenerazione del tempo. (Quaderno 254, 1962)

La poesia e in generale l’arte moderna tentano di divenire sempre più consapevolezza; sì che ogni espressione debba essere cosciente di tutti i suoi significati e delle sue relazioni. Quest’arte è dive­ 202

nuta perciò o incomprensibile o sempre più simile al nulla. (Quaderno 254, 1962)

La notte saliva da ogni parte, e con la sua oscuri­ tà, alla terra priva di ogni luce rivelava l’universo e i suoi misteriosi segni astrali. I segni astrali, i signi­ ficati siderei si rivelano soltanto quando in noi è la profonda oscurità. Una prosa in cui ogni parola sia autocosciente è una poesia. Ogni parola si abolisce nella propria autocoscienza. (Quaderno 256, 1963)

Vi è in ognuno di noi una determinata, o me­ glio una indeterminata poesia, che pochi riescono ad esprimere, ma che è un sentimento, o meglio un’attualità assolutamente identica a noi e insieme assolutamente diversa, infinitamente nota e infini­ tamente ignota, immediatamente presente e inac­ cessibile, una poesia che porta il nostro nome e che è l’evidenza stessa dell’altro, il puro altro da noi. Un’attualità o un ricordo che sono nostri, ma che non possediamo mai; pochi sono coloro che pos­ siedono la propria attualità, cioè il proprio al di là. Il ricordo è nostro e diverso da noi, in quanto vive di vita propria, e costituisce una sfera a cui sia­ mo relativi. (Quaderno 256, 1963) 203

La fantasia (poetica, cioè creatrice) è uno stato inconsapevole, un oblio di tutto ciò che è, del pro­ prio stesso essere, oppure è una perfetta conoscen­ za, la perfetta autocoscienza? Tra questi due poli si muove l’arte. (Quaderno 256, 1963)

La nemica mortale della poesia è l’ironia; la poesia deve assicurarsi dal nemico impadronendo­ si delle sue armi, cioè conoscendo la singolarità di ogni parola, persuadendosi che ogni parola deve avere abolito in sé il sentimento e l’anima. La parola deve essere creatrice e non creata; essa è la resurre­ zione di ciò che, per risorgere, deve prima morire: l’anima, il desiderio, il sentimento, l’immediatezza, l’evidenza, la verità e via dicendo. La poesia si ade­ gua all’ironia quando non è una materia prima. (Quaderno 260, 1963)

I romanzi hanno sostituito i poemi (come i dram­ mi in abito quotidiano e in prosa hanno sostituito le antiche tragedie in costumi), ma hanno rivelato ciò che effettivamente il pubblico cercava e desiderava nei poemi e nelle tragedie. E così il cinematografo ha rivelato ciò che il pubblico cercava nei romanzi e nei drammi. E via dicendo. La parte migliore dei poemi, delle tragedie, dei drammi, era quella che 204

non interessava il pubblico, quella che esso tollera­ va con sopportazione per amore del resto. Questo è il giudizio desolato di noi posteri che apprezziamo invece in quelle opere d’arte quel poco che non era interessante. (Quaderno 263, 1963)

I veri poeti e artisti sono la prova reale e indu­ bitabile che la conoscenza, cioè la negazione (ridu­ zione a presenza) dell’atto, cioè di noi, è una re­ surrezione; una realtà nuova, più reale ed eterna di quella negata. (Quaderno 263, 1963)

La bellezza, cioè il valore di una poesia o di una prosa non consiste in ciò che essa racconta, ma nel modo di raccontare; nella poesia l’essenza è la for­ ma: la verità dell’arte non è ciò che essa annuncia o rivela, ma è l’arte stessa, il suo ritmo, la sua immagi­ ne. E l’immagine non prende valore dal suo imma­ ginato, ma da se stessa. Essa è l’immagine di sé, ed abolisce il suo oggetto, l’immaginato, lo espropria totalmente a proprio favore. L’immagine è un in sé – ed essa è la norma e il criterio della propria verità. E lo stesso può dirsi della filosofia; la verità della filosofia non dipende dal suo presunto oggetto: la verità della filosofia è l’individualità, la bellezza del 205

sistema, della costruzione della mente, che non può avere una norma fuori di sé. Questi assiomi posso­ no riferirsi alla nostra convinzione che arte, imma­ gine e pensiero siano egualmente conoscenza del nulla; la misteriosa e semplice conoscenza del nulla, la misteriosa e semplice conoscenza del nulla che è in sé la verità. La conoscenza del nulla è perciò stesso ontologica e trascendente. (Quaderno 267, 1964)

Quale insegnamento può venirci dalla poesia? È essa l’arte di apprendere o l’arte di disappren­ dere ciò che crediamo di sapere? Così come non sappiamo se la consacrazione sia in sé dissacrazione e attualità, e perciò metamorfosi di una dissacrazio­ ne (attualità può essere soltanto diversità e perciò metamorfosi; metamorfosi di ciò di cui è l’attuali­ tà) – anche la memoria è la metamorfosi dei nostri giorni –, così anche non sappiamo se il nostro ap­ prendere sia un puro disapprendere e se pertanto l’arte non sia appunto questa arte di disappren­ dere la propria positività (o presenza) e la propria metamorfosi. (Quaderno 270, 1964)

Lo scopo della poesia (come della fede) è dimo­ strare che tutte le cose sono infinitamente diverse 206

non tanto da ciò che sembrano, ma effettivamente da ciò che sono; da ciò che realmente sono. L’infi­ nito è la differenza. Perciò la poesia è il paradiso, il regno dell’infinito; Dio stesso è unicamente dif­ ferenza. Possiamo immaginare l’inferno e la dispe­ razione come il regno della perfetta identità – dove tutto è identico a sé, dove tutto è identico a tutto; e quindi dove non vi è salvezza, dove non vi è scam­ po. La salvezza è un’apocalisse, quando nascono i nuovi cieli e la nuova terra. (Quaderno 272, 1964)

Ogni poesia, per quanto triste, per quanto ras­ segnata, è un atto di fede; come è un atto di fede il Verbo. L’atto di fede contro cui sembrano collegate le forze della morte e le forze della vita. Possiamo chiedere qual è la nuova terra e il nuovo cielo, la nuova verità in cui la poesia, il Verbo, la fede, trasfi­ gurano la realtà, la volontà della morte e la volontà della vita? È lecito chiedere al Verbo qual è il con­ tenuto, e cioè l’oggetto, della sua affermazione? Il Verbo può avere un contenuto? Il Verbo afferma se stesso, la sua realtà, in quanto afferma il suo nul­ la. E quale è l’oggetto della poesia? Precisamente ciò che essa narra, ciò che essa nega; la necessità, la legge, la morte, la vita etc. Noi “cantiamo” ciò che neghiamo, ciò che trasfiguriamo. Esistono ci­ viltà morte, civiltà sepolte, universi e infiniti spenti, 207

realtà ridotte a cenere, e realtà della cenere? Chi può avere la forza di far rivivere le civiltà morte, e perché dovremmo farle rivivere? Sorge da esse un canto eterno? Ed è il canto delle origini o il canto della fine? Vi sono in esse i simboli dell’origine e i simboli della fine. (Quaderno 280, 1965)

La poesia, similmente alla musica, è la ricerca delle misteriose assonanze tra le parole, i sentimen­ ti, le idee, le memorie e gli oblii, nell’attrazione oc­ culta di un’unità preesistente ma imprevista. (Quaderno 331, 1970)

Quando tutti divengono poeti, i veri poeti si ri­ fugiano nella filosofia, nella scienza, nella fede, o meglio nel silenzio. Come Mallarmé, quando com­ prese che la sua Musa era musicienne du silence, che la sua presenza era l’assenza. L’assenza, cioè l’ulti­ ma dimora. (Quaderno 331, 1970)

Il poeta, cioè il creatore artistico, è latore di un segreto e la sua missione è di divulgarlo; egli lo di­ vulga e tenta di annunciarlo come un angelo che 208

abbia traversato ignote regioni per venire a noi; ma quanto più si sforza di divulgare il suo segreto con scritti, opere, immagini e canti, tanto più il segreto diviene inaccessibile, inesplicabile, inconoscibile. Tanto più si colloca al di là di ogni spiegazione e definizione. Chi ha annunciato il suo messaggio meglio di Dante, di Shakespeare e di tanti altri po­ eti? Il loro messaggio perviene alla nostra mente e al nostro cuore, possiamo viverlo con tutta l’anima, identificarci ad esso, alla suprema differenza in cui il medesimo consiste, ma non possiamo decifrarlo. Esso è un’esperienza, non una conoscenza. (Quaderno 331, 1970)

Vi è una forma altissima e trasparente di poesia, una poesia che ha rinunciato a se stessa, che è anda­ ta oltre se stessa, oltre la propria definizione, come la mitica armonia delle sfere. Questa poesia può es­ sere la filosofia (o la matematica), purché la filosofia non divenga soltanto una abdicazione. (Quaderno 331, 1970)

Il ritmo, il ritmo della prosa o del verso, è uno scrigno che conserva e protegge lo Spirito, il pen­ siero, l’immagine e il tempo, adattandoli alla pro­ pria immortalità contro le loro stesse dissonanze. Vi è un ritmo interiore del pensiero, come vi è un 209

ritmo interiore del tempo, che lo preserva da se stesso. Il ritmo è insieme tempo (è la caratteristica prima del tempo) ed eternità; è identità e diversi­ tà, mutamento. Infatti, il ritmo diviene immagine e rapporto del tempo con la propria assolutezza; con la propria attività. L’alterità è ritmata; anche la vita è ritmata; è il ritmo della propria continuità, che è negazione di sé. Il ritmo che cade e interrompe è l’anima della continuità; la continuità, per essere, deve diversificarsi. La musica è la continuità come mutazione. Il ritmo è il canto solenne dell’identità ed è perciò stesso mutazione; armonia e melodia. Tutta la vita, come il suo organismo, è ritmata; il ritmo della vita e della morte, del principio e della fine; l’alfa e l’omega sono ritmici. Come salvezza e perdizione, essere e non essere. Possiamo pensare, credere e conoscere soltanto nella forma del ritmo, che è la forma del conoscere. (Quaderno 336, 1970)

La vita può essere corrotta, ma il giudizio deve essere integro; mistero della prosa e del racconto. (Quaderno 336, 1970)

La poesia è l’arcobaleno che unisce le due rive ignote dell’essere e del non essere. L’arcobaleno su cui passano i nostri pensieri e le immagini, e tutto ciò che non obbedisce alla forza di gravità. 210

L’arcobaleno riconcilia il cielo e la terra, è lo spettro della luce; è una rivelazione e una promes­ sa. L’arcobaleno è il simbolo della poesia, lo spettro della luce celeste. E la poesia è anch’essa profezia e promessa, ma una promessa che si realizza nel mo­ mento e nell’atto in cui viene formulata. La poesia è formulazione di se stessa; è la sostanza, cioè la re­ altà della promessa; promessa che diviene intera e attuale quando la poesia la enuncia e la annuncia. (Quaderno 336, 1970)

La poesia è una struttura, mentre il puro pen­ siero è una evasione dalla struttura che la poesia dà alla semplice realtà delle cose e delle espressioni? Il pensiero metafisico è più radicalmente fantastico della poesia che vuol essere soltanto metafora? Ma forse si potrebbe anche dimostrare che la metafi­ sica, come l’immagine e la parola, è soltanto una metafora dell’ignoto. La poesia è infatti la creazione (etimologicamente) di un ignoto mediante la meta­ fora del noto. Due specchi che si trasmettono i loro inganni e le loro luci, o le loro oscurità. Come la luce, lo specchio è tanto più misterioso, tanto più carico di contraddizioni, quanto più è lucido. (Quaderno 344, 1971)

Il rimprovero fatto ai vecchi di ripetere conti­ nuamente gli stessi pensieri si spiega con la patetica 211

condizione di coloro che si avvicinano al traguardo della morte e si affaticano nel tentativo di salvare il mondo magico e incantato che la vita, anche oltre la loro volontà, e al di fuori della loro coscienza, ha creato intorno a loro. L’edificio aereo e poetico dei significati intraducibili, il mondo delle immagini e delle memorie, il mondo delle speranze – traspa­ rente e impenetrabile come il cristallo; e infinita­ mente fragile. Il mondo in cui e per cui sono vissuti. Essi desiderano che sopravviva, vogliono, ma senza speranza, che esso possa rimanere stabile come una immortalità nella labilità di tutte le cose, nel dissol­ versi della vita di cui la loro grande età è testimone. Essi si affannano a rendere stabile e sicuro il loro edificio; e, senza saperlo, danno ad esso l’immor­ talità triste, caratteristica dei monumenti sepolcrali grandi o piccoli. (Quaderno 344, 1971)

Le cose, per essere, devono avere un significato; e il significato è il rapporto o l’armonia con le altre cose; ma un’armonia che suppone nelle cose una verità irriducibile al rapporto; e il rapporto serve a illuminare l’irriducibilità, la meravigliosa incono­ scibilità degli esseri. La geometria, la scienza esatta che è iconoclasta, dissolve tutte le cose nei rappor­ ti, e con essi tenta di ricreare significati di un altro ordine; pur dopo aver sacrificato tutte le immagini, 212

onde propiziare il sacrificio, l’avventurosa impresa. L’avventura ha avuto successo, ma in qualche sua piega deve pur nascondersi la vendetta degli Dèi protettori delle immagini, anche se essi stessi invi­ sibili: e la vendetta dell’immagine sacrificata è ap­ punto la sua mancanza; noi andiamo incontro a un tragico mondo iconoclasta; un tragico mondo senza immagini. Senza più gli arcipelaghi dell’irriducibi­ lità, cioè dell’assoluto. Il soggetto del pensiero, il segreto soggetto che ci anima e ci domina, può es­ sere senza immagine? Il creatore di tutte le imma­ gini non ha un’immagine? Eppure ciascun essere vivente ha una forma e un volto, e perciò un’im­ magine. L’ascetismo aspira all’abolizione dell’im­ magine. L’Io, per essere immortale e assoluto, deve abolire la propria immagine; ma anche le immagini dell’arte, creature di questa stessa dialettica, sono immortali. L’Io senza immagini è al di là della verità. (Quaderno 344, 1971)

Una sintesi poetica è sempre la conclusione fina­ le e inconfutabile di ogni discorso, appunto perché è la resurrezione dell’inconoscibile. (Quaderno 344, 1971)

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I poeti, gli scienziati e i filosofi sono la più grave obiezione spirituale ai mistici della rinuncia. (Quaderno 347, 1972)

La vera poesia (la vera arte) è quella che dice assai più di quello che dice; tutto quello che dice non comprende quello che veramente dice. Essa è una continua allusione al suo al di là; essa crea un al di là, una inconoscibile ed inesprimibile diversità da sé; diversità creata dall’espressione. (Quaderno 347, 1972)

La prosa giustifica la sua poesia. Ma la poesia cosiddetta pura come si giustifica? Quale sacrificio la giustifica? È moralmente uno scandalo? È incon­ sistente come la retorica? Il latino è una lingua universale e sacra, appunto perché è una lingua morta. I poemi, le opere letterarie sono le testimonianze che un linguaggio lascia, in forma di eternità, quan­ do è arrivato, insieme al tempo, verso la sua morte. Sono l’eterna attualità del suo perire; la fantasia che nasce dal suo perire, che esprime il suo perire, è l’attualità stessa. (Quaderno 355, 1973)

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Il solo modo legittimo di raggiungere la poesia è la prosa. La poesia raggiunta direttamente, come accade in rarissimi poeti, è moralmente uno scan­ dalo, un sacrilegio, perché infrange una legge, la sola legge; perché l’affermazione deve nascere da una negazione, dal sacrificio, cioè dall’abisso. Della poesia si può solo dire: «son le leggi d’abisso così rotte?». Ma quando rinasce dall’abisso del sacrifi­ cio, cioè come coscienza del nulla, la spontaneità e la necessità, la libertà e la legge, l’arbitrio e il fato si incontrano in un istante unico, assoluto ed effime­ ro, immemoriale e memorabile. (Quaderno 355, 1973)

La poesia ha origine dal carmen, dall’incanta­ mento magico, dal sortilegio che tentava di agire sugli Dei, sugli uomini, sui morti e sul futuro. E pertanto la poesia è rimasta per sempre un incanta­ mento; la poesia dice, ma è qualcosa di diverso da ciò che dice; è la sua azione incantatoria che agisce sulle cose e su se stessa. Diviene diversa da ciò che dice; è parola e musica. E ciò che non dice, ossia il contrario di ciò che dice, coincide perfettamen­ te con il suo dire. La sua espressione coincide con l’inesprimibile, che diviene tanto più inesprimibile quanto più espresso. Così i numeri, i versi, i ritmi, le rime, coincidono con le parole, pur essendo cie­ camente diversi da esse. (Quaderno 355, 1973) 215

Alcuni poemi sono come un’oscura previdenza, una luminosa Provvidenza. Una divinità che ci ha conosciuti prima che nascessimo. Siamo noi che ci inchiniamo sul loro specchio, misterioso come ogni specchio, sulla cui pupilla inesistente e diabolica si guardano i calmi cieli. Siamo noi che riconosciamo in essi la nostra inconoscibilità. Anche l’inconosci­ bilità può manifestarsi come una rivelazione. La memoria delle nostre stagioni è il ricordo dell’inco­ noscibile. La nostra conoscenza è memoria ed essa testimonia soltanto la nostra inconoscibilità. (Quaderno 362, 1974)

I poeti sono il ricordo che abbiamo, o che ritro­ viamo, di epoche in cui non abbiamo mai vissuto. Come i poeti, le cose sono degli specchi, ma degli specchi che riflettono il passato, specchi magici. Lo specchio brillante è effimero, è privo di memoria e di significato, è la pura presenza di un’immagine; è l’affermazione superficiale che si spegne con l’oc­ casione. Lo specchio simula la profondità; simula l’immagine che non è. Le cose, anche se opache e silenziose – perché l’immagine che in generale parla con chiarezza sa essere silenziosa –, come gli antichi poeti, sono gli specchi della memoria. (Quaderno 362, 1974)

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L’amara poesia del conoscere ci riconduce a un giovane, vivente, invisibile aprile; all’aprile delle nostre origini. L’origine è l’inverno o l’aprile? È l’al di là o la vita? La conoscenza vuol essere l’esclusio­ ne della poesia, esclusione rigorosa e astratta; e ap­ punto perciò ci riconduce ad essa; al vivente aprile delle origini. Nell’inverno è la radice delle origini; nell’aprile non vi sono radici; tutto è origine. L’ori­ gine di tutto. Anche del tramonto. (Quaderno 362, 1974)

Dichtung und Wahrheit. Noi ci persuadiamo che la poesia sia la prima e l’ultima verità, e che la verità sia poetica. Dove è la prova? Soltanto la luna, nel senso melancolico della parola, è insieme poetica e reale, è il lucido sogno della notte – la notte che essa non sa abolire. La luna è ambigua come noi, è una realtà e un simbo­ lico sogno – una luce senza fuoco che le tenebre alimentano. (Quaderno 365, 1974)

La poesia è sempre in esilio; questa parola si deve intendere nel senso che la poesia, per vivere, deve trovarsi un esilio in una regione arida e impo­ etica, ove essa compare spontaneamente sottopo­ nendosi a tutte le leggi e a tutti i divieti. Oggi, per 217

esempio, la poesia si è rifugiata nella razionalità del­ le scienze. La razionalità è l’esilio per l’irrazionale, per la fantasia, per la libertà. L’Eden irrazionale in esilio – le oasi dell’esilio. (Quaderno 365, 1974)

La poesia è tale quando riesce a liberarsi dal suo peso. Dalla gravità dei sentimenti e delle idee. Una parola parlata è già un dono offerto all’oblio; è una diversità che muta insieme all’istante. (Quaderno 365, 1974)

Nella poesia, i ritmi e i numeri, gli accenti, le rime, sono la nostalgia dell’unità, dell’identità, nel moto della fantasia, nel moto del tempo. Sono il richiamo dell’identità originaria; sono la legge che evoca la fantasia, e la fantasia figura come una meta­ morfosi dell’identità, dell’identità proclamata dalla legge. La nostra felicità, la nostra anima accesa, è la metamorfosi, la metamorfosi attesa e accesa delle tenebre assolute della negazione. Noi siamo l’at­ tuale miracolo della metamorfosi, che è il miracolo dell’attualità; e, tutto, intorno a noi, è metamorfosi dell’abolizione, della sua abolizione. Il tutto è una metamorfosi del proprio attuale destino, che è la sua radicale abolizione. (Quaderno 365, 1974) 218

La poesia, la parola, la musica, nascono quan­ do la vita ha pietà di se stessa, quando la vita ha coscienza della propria infinita inferiorità. Che al­ tro può essere la superiorità se non la metamorfosi, cioè la coscienza, dell’inferiorità? Ogni opera d’arte, ogni creazione dello Spirito, è essenzialmente immorale; nemmeno l’idea del divino può resistere ad un esame da parte della moralità. Tutto ciò che non è riducibile ad astratta razionalità è immorale. Tutto ciò che è spontaneo è immorale; la libertà è la suprema immoralità. I mo­ vimenti politici di carattere socialista o comunisti sono ispirati alla morale dell’eguaglianza (l’immo­ ralità è la diversità), e pertanto sono spiritualmente iconoclasti. (Quaderno 370, 1975)

I poeti e i profeti sono coloro che sanno cono­ scere l’attualità, la Presenza, che è la divinità. L’at­ tualità è l’inaccessibile, il Graal, il Santo Graal. L’at­ tualità è la sacralità o la santità? Dalla sacralità, dal purificarsi sacrificale della sacralità nasce la santità – attualità pura che tende a ritornare sacralità. La sacralità può essere una colpa? Analogo è il rappor­ to di libertà e autorità. (Quaderno 372, 1975)

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Ogni scrittore, come ogni uomo, ha come suo scopo ultimo di esprimere lo spirito, l’essenza, l’a­ nima, etc., del tempo (e dell’ambiente, società, Na­ zione, etc.) in cui vive. Senonché, come i sentimenti, anche la poesia comincia con la rinuncia alla poesia. Tutto comin­ cia con la rinuncia a tutto. La rinuncia a tutto è on­ tologica perché creatrice del tutto; la negazione è ontologica. La negazione è al di là dello scetticismo; lo comprende. (Quaderno 374, 1976)

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Miscellanea

Non so se la vita valga la pena di essere vissuta: certo, vale la pena di essere compresa. (Quaderno 9, 1929)

Un avversario è la sola cosa che dia importanza e attualità a un discorso. Che altrimenti sarebbe un vaniloquio. L’avversario dà attualità al tempo e alle nostre opere appunto perché ci rende attuali, cioè attivi. Attività e attualità evidentemente coincido­ no: e come essere attivi se non contro qualche cosa: persona o difficoltà, resistenza, etc.? Non si dà at­ tività a vuoto. (Quaderno 22, 1934)

La forma più pericolosa della mediocrità è la me­ diocrità degli intellettuali; perché, almeno, la me­ diocrità della gente comune è francamente persua­ sa di essere tale e si vanta di esserlo; mentre quella degli intellettuali è convinta, invincibilmente, della propria assoluta superiorità. L’umiltà di fronte al reale è ciò che fa la superiorità indiscutibile della gente comune sugli intellettuali. (Quaderno 22, 1934) 221

L’arte primitiva è quella in cui più si rinuncia alla fantasia libera e in sé, in favore della maestria, della tecnica e della conoscenza (come Dante che è altrettanto teorico che poeta). Ed è appunto allora che appare la fantasia più fondata, più originale; si potrebbe dire anche la più fantastica, come quella che, sotto specie di immagine, si sviluppa nel pro­ cesso della conoscenza. (Quaderno 30, 1934)

L’idea di pervenire all’arte, cioè alla creazione, mediante la perfetta consapevolezza, si può accet­ tare soltanto se la consapevolezza è consapevolezza di essere perfetta negazione. E con ciò la creazione mediante la negazione è ancora più inconsapevole, e il mistero è ancora più profondo. (Quaderno 219, 1960)

Quello che vi è di migliore in noi, i pensieri, le fantasie, ecc., non è mai esistente; ma è in compen­ so reale, appunto perché inesistente. Ciò spiega come mai le figure della pittura, delle tragedie, dei romanzi, ecc., pur non essendo esistenti, siano po­ tentemente, sicuramente e perennemente reali. (Quaderno 229, 1960)

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Diario intimo. Al mattino, nelle ore antelucane, essere sveglia­ ti dal diavolo; colloqui angosciosi e poi sereni col diavolo; lo sguardo aperto nell’oscurità gira sugli orizzonti infernali. Poi il diavolo se ne va correndo, per raggiungere le sue tenebre in fuga all’occidente. E promette di tornare la sera, orientale come il sole mattutino, quando il sole diviene occidentale come la notte. E io rimango solo nella luce inesplicabile che non mi dà né ascolto né aiuto. (Quaderno 238, 1961)

Lo scopo del pensiero è soltanto quello di rive­ lare la sua e cioè la nostra irrimediabile contraddi­ zione; e questa è per noi l’ultima verità. (Quaderno 242, 1961)

La fantasia non è una divagazione, ma piuttosto un ritorno alle origini. La vera fantasia, essendo un ritorno alle origini, cioè alla presente attualità, non è mai un significato, appunto perché è. Allora la fi­ losofia non ha bisogno di fantasia? O la suprema filosofia è mancanza di ogni significato? (Quaderno 242, 1961)

Speriamo ogni giorno di poter dare un giudi­ zio su tutti gli altri giorni e poter finalmente capi­ 223

re qualcosa della nostra vita. Desidereremmo che ogni giorno fosse il giorno del giudizio, del giudizio universale. E che cosa può giudicare il giudizio uni­ versale, se non tutti i nostri giudizi? Che cosa sono tutti i nostri ieri se non la serie dei nostri giudizi, e cioè dei nostri giudizi universali, che appunto do­ vremmo giudicare: e poiché ogni giudizio, anche il più semplice, come ogni pensiero, non è tale se non ha il carattere dell’universalità e della libertà, cioè della soggettività, esso è una colpa, poiché dà, alla nostra singola individualità limitata, l’universalità suprema e la libertà incondizionata e arbitraria del divino: il giudizio è la colpa originaria e originale; è l’essere universalità del singolo, eritis sicut dei, ed è suo dovere di essere universale, di giudicare – il dovere della colpa. Ma il giudizio universale di tut­ ti i giudizi, non è esso stesso una colpa? Che cosa altro può essere, appunto, essendo un giudizio? E perché non può essere anch’esso giudicabile, cioè condannabile? Il giudizio assoluto deve essere una grazia, cioè quell’essere che è al di là del giudizio, e che abolisce il giudizio. Il giudizio è sempre giudizio negativo, perché perpetuo giudizio di giudizi, cioè di colpe. Il giudizio è sempre negativo, e la sua ultima universa­ lità consiste nel riconoscere questa negatività; cioè la sua universalità e il suo valore come atto di que­ sta negazione ed autocondanna. La sua condanna è la sua redenzione. È la conoscenza della negazione, 224

cioè la fede nella negazione. Che si identifica con la fede nella storia. La catena delle negatività diviene l’unica grande positività; da cui tutto dipende. Al­ trimenti si dovrebbe dire che giudicare, cioè pen­ sare, sia impossibile, mentre è appunto il giudizio negativo, il riconoscimento della colpa che è reale. (Quaderno 252, 1962)

Come possiamo dire ciò che siano il piacere e il dolore, l’amore, la sensazione, la qualità, ecc.? Non possiamo dire ciò che le qualità sono, perché esse non sono obiettivamente, e se fossero, non sarebbe­ ro più (quanti abissi in questa proposizione condi­ zionale!). Cioè sarebbero soltanto soggettivamente. Esse non sono obiettivabili, definibili. Non sono come non siamo noi, noi che non siamo appunto perché pensiamo, diveniamo, ecc. Cogito ergo sum, si dovrebbe accettare soltanto ove per cogitare si intenda “negare”. Qualità, sen­ timenti, ecc., sono la presenza (soggettiva) di una universale e radicale negazione. Come si può “defi­ nire” ciò che è soltanto in quanto non è? (Quaderno 252, 1962)

La Fantasia è per natura e dovere un’entità (non possiamo dire una persona) di liberi costumi, che ama fare le corna alla realtà, al reale che tenta di 225

legare la fantasia a sé con le sue attrazioni gravi­ tazionali. E la Fantasia ha perciò spesso il torto di stancarsi, e di accasarsi con la pacifica abitudine. La Fantasia ha bisogno di giovani adulteri che la risveglino; i suoi peccati sono l’abitudine, la rego­ larità, l’equilibrio, l’onestà, la bontà, forse anche il pudore. Per la Fantasia che è stata ed è sempre la maggiore forza di creazione, ciò a cui tutto deve l’essere, vige una morale contraria alla nostra; il suo vero peccato è ciò che tra noi si denomina moralità; e quelle che riteniamo tra noi delle colpe, sono la vera luminosa moralità e ragion d’essere, nonché dovere, della Fantasia. Altra prova che noi viviamo sospesi tra due mondi di cui essenzialmente non conosciamo nulla, fuorché le loro opposizioni; che ci straziano, per­ ché quei due mondi sono in noi e ci appartengono come noi siamo in essi e apparteniamo a loro. (Quaderno 265, 1964)

L’intellettuale moderno odia e disprezza se stes­ so, la sua arte, la sua vocazione, quella che un tem­ po si chiamava la sua missione. È un umanista che invoca il momento in cui ogni umanesimo venga abolito nella nuova civiltà (se così si può chiamare) comunista e tecnica. Il moderno pittore odia la fi­ gura, il letterato è impegnato (cioè è un transfuga), tutti parteggiano per i regimi in cui la libertà dello 226

spirito sia abolita definitivamente. L’uomo moder­ no odia se stesso e soprattutto odia lo Spirito, cioè il suo spirito. L’intellettuale è il vessillifero e il corifeo di questo odio, di questa tregenda. L’uomo moder­ no è veramente un dannato. Nei paesi ancora liberi egli è all’opposizione, gridando libertà e giustizia. E in realtà è “impegnato” a far cessare ogni libertà e lo Spirito con essa. L’uomo moderno sogna giusti­ zia ed eguaglianza, ma comincia con l’essere ingiu­ sto verso se stesso. Appunto perché nessuno di noi è un’eguaglianza, nessuno è eguaglianza nemmeno con se stesso; nessuno è eguale a se stesso. L’eguaglianza è arte astratta. Anche la giustizia è arte astratta? (Quaderno 265, 1964)

La Preghiera è la voce della solitudine; lo scopo ecclesiale non è di risolvere in sé le solitudini, ma di crearle. (Quaderno 309, 1967-68)

La verità e la realtà non si incontreranno mai, pur inseguendosi sempre. La verità distrugge la re­ altà; la distruzione della realtà è la condizione del suo essere, dell’essere della verità. Il mondo moder­ no, contrariamente alle apparenze, ha sottoposto la realtà a una morte progressiva, sotto la tortura di 227

una verità sempre più astratta. Il mondo delle mas­ se – le masse sempre più obiettive, più materiali, più reali – è anche il mondo della verità astratta, della scienza, della tecnica. La vita è realtà o veri­ tà? Il nostro mondo è senza realtà e senza verità? E… quid est veritas? La verità è l’al di là. Noi vi­ viamo sempre nell’al di là. Le nostre idee, le nostre speranze, le nostre morali, la nostra memoria, sono l’al di là, sono il mondo inconsistente e dominatore della Verità. Il mondo delle masse è quello in cui la Verità è divenuta coscienza del proprio nulla; perciò non può giustificarsi che come coscienza del nulla. La Verità può essere coscienza del nulla, ma non coscienza dell’essere. (Quaderno 344, 1971)

Gli antichi poemi sono esperienze e metamor­ fosi di una realtà; di una realtà alla ricerca di una coscienza che la distruggerà. Alla ricerca di una ve­ rità che la distruggerà; alla ricerca del cerchio che è perfezione e prigione, suprema conoscenza e follia. Suprema astrazione che, a sua volta, aspira alla me­ tamorfosi in immagine. Metamorfosi di cui nessuno può essere certo. (Quaderno 344, 1971)

Anche la luce è una nostra interpretazione di qualcosa di misterioso e ignoto; è una interpretazio­ 228

ne di qualcosa di estremamente oscuro. Noi siamo la trasformazione di un’oscurità forse diabolica (o meccanica) in luce; la luce siamo noi, la luce tota nostra est. Nelle città antiche nulla è più bello che vedere la luce indugiare sulle vecchie mura, sulle vecchie creazioni dello Spirito umano – lo Spirito che, nel nostro tempo, è diventato autonomo e ste­ rile (nell’atto in cui conquistava la libertà, l’autono­ mia, la sovranità, la potenza, la sterilità gli è stata inflitta come un maligno dono del destino). Forse le vecchie mura sono simili a noi ed emanano la loro luce, una luce, una metamorfosi che appartengono a loro come appartengono a noi. L’arte del tempo che fu, prima del Sacrificio della grande Ifigenia, era l’oggetto di un soggetto interamente trasfuso nel suo oggetto. Le creazioni avevano una loro soggettività e superiorità, che era anche la nostra; il soggetto si contemplava nel suo oggetto come in un divino specchio, e trasfondeva nell’oggetto le proprie virtù, le proprie capacità, i propri privilegi, i propri doni. Ma forse è assurda la distinzione tra l’opera come oggetto e il creato­ re come soggetto; l’opera e il creatore coincidono come il soggetto e il discorso, come il pensiero e la parola. Perché la creazione artistica fiorì soltanto nell’e­ poca artigianale? Le astrazioni tecniche e scienti­ fiche dovrebbero favorire le metamorfosi. Eppure noi, così orgogliosi della nostra civiltà razionale 229

e tecnica, dovremmo sentire con umiltà e timore come soltanto la civiltà artigianale sapesse creare l’immortalità. (Quaderno 348, 1972)

La filosofia non ha significato perché è quell’as­ senza di significato a cui tutti i significati si rife­ riscono, e senza la cui assenza svanirebbero. Che cosa sarebbe di noi se non avessimo il conforto del­ la negazione? Il conforto del nulla abolisce il nulla del conforto. (Quaderno 372, 1975)

Gli alberi autunnali si ricordano della primave­ ra, sono il poema dorato della loro memoria? Ma perché la memoria è così diversa dai suoi ricordi? La memoria è l’essere, l’essenza degli uomini, come degli alberi; essa ha insieme la forma del perpetuo morire della propria morte e l’essenza delle splen­ dide resurrezioni. L’essere è in quanto è diverso da sé. (Quaderno 372, 1975)

L’opacità delle cose rivela alla luce i suoi colori. La luce si conosce nella qualità del colore. Forse, senza l’universale opacità, la luce nulla sapreb­ 230

be di sé. Senza ombre non si distinguerebbe dalle tenebre. (Quaderno 372, 1975)

Il compito dello storico è di scoprire in ogni epo­ ca il denominatore comune delle opposte passioni, degli opposti contendenti. Così la loro diversità ser­ virà a scoprire le loro similitudini. La sintesi può essere considerata un fallimento, ma in realtà è una resurrezione che suppone una morte, un assoluto fallimento; e la sintesi è appunto la coscienza del proprio fallimento, del proprio nulla, della propria inferiorità. L’assoluto è necessario al fallimento; sol­ tanto l’assoluto può fallire, soltanto l’onnipotenza può conoscere il proprio nulla. Soltanto l’assoluto può essere soggetto e oggetto del sacrificio. (Quaderno 374, 1976)

Secondo Hegel, secondo la grammatica, due ne­ gazioni affermano; ma noi vogliamo sostenere che una negazione afferma; soltanto la negazione asso­ luta è un’affermazione assoluta. (Quaderno 381, 1977)

La verità è la spettrale metamorfosi dell’errore, dell’errore che siamo; siamo un errore cosmico, e 231

il cosmo stesso è un errore? L’origine di tutto è un errore? L’errore infinito. (Quaderno 381, 1977)

I discorsi di Socrate non erano mai scritti; il ri­ sultato della negazione è sempre la verità della re­ surrezione attuale nella negazione stessa. Forse la verità è sempre anonima; noi conosciamo la verità quando essa sorge o risorge in noi; ma non osiamo darle un nome. Forse essa ha il nostro nome; un nome che sorge puro e purificato da tutti i disastri. Ma chi conosce il proprio nome? Quello che cono­ sciamo come nostro nome, è sempre uno pseudoni­ mo. La verità può avere uno pseudonimo? Larvatus prodeo. (Quaderno 387, 1978)

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Postfazioni Massimo Cacciari Giulio Giorello Massimo Donà

Per il battesimo dei nostri frammenti di Massimo Cacciari

Quando, ormai parecchi anni orsono, l’amico Ernesto Rubin mi parlò di Andrea Emo e mi fece leggere alcuni dei suoi quaderni, la prima meravi­ glia per il carattere del personaggio, o, meglio, per il suo daimon (quella completa, assoluta, concen­ trata in se stessa dedizione al proprio problema, che neppure ammette la “distrazione” della ricerca del lettore), si trasformò ben presto in una seconda meraviglia: emergeva da quelle pagine esattamente l’opposto del dilettante di genio che ci si sarebbe potuto aspettare – emergeva il pensatore sistematico, che in ogni frammento, in ogni aspetto della sua ricerca “ama” lo stesso, tesse e ritesse la sua rete. Mi venne subito alla mente quel passo di Schopen­ hauer: «i sistemi sono di natura così poco socievoli come i ragni…». La solitudine del personaggio e il carattere violentemente sistematico del suo pensie­ ro formano una polarità indissociabile. 1. La forma in cui Emo esprime il problema del Principio non è quella dell’idealismo hegeliano (né, a guardar bene, dell’idealismo fichtiano, da cui, più direttamente, dipenderà l’attualismo), bensì quella 235

schellinghiana. Il Subjekt delle “diverse membra”, che rende possibile un sistema, non è predicabile come ente, anzi: non è ente (né in quanto definitum né in quanto definiendum). Se fosse ente (e perciò predicabile) sarebbe “membro” e non Subjekt di tutte le membra del sistema. Esso non è predicabi­ le, ma pensabile soltanto – anzi: è “ponibile” soltan­ to attraverso il mio libero pensare. Subjekt del siste­ ma è, allora, la stessa libertà (= pensare, in quanto non-predicare). È lo Schelling dell’über die Natur der Philosophie als Wissenschaft (1821), pregno di motivi eckhartiani, e da cui Heidegger riprenderà in pieno il motivo stesso del “denken”. 2. Il Principio equivale alla negazione del Prin­ cipio: il Principio non è ente. Docta ignorantia. “Sprofondandomi” alla ricerca del Principio non pervengo ad alcun fundamentum inconcussum, all’Ente realissimo per eccellenza, ma a Ni-ente. Il Subjekt, anzi, poiché è negazione di ogni determi­ nazione, sarà negazione di se stesso, nell’istante in cui si pensa come Ob-jekt. (Qui sembra che Emo rimediti radicalmente la Logica dell’essenza hege­ liana.) Il Subjekt è tale allorché si nega, è nel suo negarsi, si spiega nel suo negarsi, si “rappresenta” negandosi. Sono motivi ben difficilmente riporta­ bili a matrici attualistiche. Io ritengo che Emo “ri­ salga” dall’attualismo a quei motivi più segreti, ma forse anche più profondi, dell’idealismo classico, 236

che, per molteplici e a volte contraddittorie vie, lo ricollegano, come già accennato, al neo-platonismo di Meister Eckhart, del Cusano – fino a Leibniz. 3. Mi conforta in questa interpretazione lo stret­ to rapporto tra l’Emo “filosofo” e l’Emo “teologo”. La “verità” del Principio, per cui esso consiste nel suo stesso negarsi – e il suo negarsi non è che la pre­ senza, il Da-sein – è la Verità stessa che Cristo pre­ dica di sé. Cristo è Aletheia esattamente in questo senso: “Dio consiste nel suo annichilirsi”: il Princi­ pio = Ni-ente e il Ni-ente del Principio = Dasein. Per poter essere (nel senso del Dasein, appunto), Dio deve essere la perpetua negazione di sé; e pro­ prio in tale negazione perennemente risorge (ek-si­ ste). Lo sforzo teologico di Emo consiste, dunque, nell’intuire nella Croce stessa (non “oltre” la Croce o “dopo” la Croce) la Resurrezione. La teologia he­ geliana della Croce (da cui deriva grandissima par­ te della teologia contemporanea significativa) non riesce a giungere, a mio avviso, a una spiegazione altrettanto coerente, rigorosa di tale nesso. Tanto­ meno quella schellinghiana che distingue (senza riuscire poi a congiungere) la figura del Crocefisso con il Figlio stesso, in quanto unum col Padre. 4. Ma se lo “spiegarsi” della ni-entità del Prin­ cipio è lo stesso Dasein – se questa presenza è il Ni-ente del Principio – allora il Principio ha “bi­ 237

sogno” di tale presenza per dimostrarsi, per essere, per “risorgere”. Emo rimedita, intorno a questo “scandalo”, il nucleo stesso del pensiero hölderlin­ iano sul rapporto tra classico e cristiano. Di una cosa soltanto il divino abbisogna: di mortali. Ma questo “bisogno” nel classico si mantiene nei limiti di un rapporto estrinseco; solo col Cristo esso si spiega integralmente: il divino deve assumere fino in fon­ do la mortalità del mortale per manifestarsi davvero come divino, e cioè come assoluta ni-entità. L’imita­ tio Christi consisterà, allora, nel movimento stesso del de-crearsi. L’atto autentico del soggetto sta nel negare la propria ek-sistenza, nell’atto del ritirarsi da sé. Sono pagine che ricordano immediatamente Simone Weil, la sua preghiera per divenire niente – ed è da credere che l’ammirazione per Cristina Campo abbia rafforzato vieppiù in Emo l’interes­ se per la scrittrice francese. Ma, appunto, gli stessi motivi possono essere sistematicamente riscoperti in quei “veleni” del grande idealismo classico, ri­ masti ancora in gran parte inauditi alla contempo­ ranea filosofia dell’Università, e ancor più, va da sé, a quell’anti-idealismo di maniera, che di tale filoso­ fia sembra essere il più recente e chiassoso erede. 5. Salvezza è «meditazione del nulla» (si badi: non la classica melete thanatou, esercizio e cura del­ la morte, che presuppone sempre, se non altro, il dubbio che questa vita sia in realtà la vera morte, 238

ma meditazione intorno alla ni-entità del Principio, che, in quanto niente, si dà, appunto, in ogni pre­ senza, “risorge” nella presenza – e ciò costituisce, appunto, non l’oggetto del pensiero, ma il pensiero stesso come libertà). «Noi scendiamo nel nulla, ci ri­ battezziamo nel nulla» scrive Emo (Per il battesimo dei nostri frammenti, ho annotato accanto a queste parole, un giorno, dopo aver ascoltato Mario Luzi leggere alcune delle sue ultime, altissime poesie). È rinuncia all’attendere (all’“infuturarsi” avrebbe detto Michelstaedter), ritirarsi, rilasciarsi (il tema della Gelassenheit, da Eckhart a Heidegger) dalla volontà-alla-vita, dalla cura che assoggetta all’ente, come se l’ente potesse costituire il fine del pensare, mentre esso non è che l’esserci del Ni-ente. Ma una profonda nostalgia di riposo (un timbro che inces­ santemente risuona anche nei classici greci) domina la «meditazione del nulla» di Emo. E che di nostal­ gia debba trattarsi, mai, in quanto tale, appagabile, lo mostra, ancora una volta, la sua stessa filosofia: è impensabile la de-creazione come semplice, astrat­ ta negazione dell’ente, poiché l’ente, appunto, non è la mera apparenza da cui, proprio perché mera apparenza, è possibile liberarsi, ma la realissima presenza del Ni-ente stesso. Nulla è più lontano da Emo di quel Nirvana che Schopenhauer fa balenare nell’ultima pagina del Mondo come volontà e rappresentazione.

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6. Ma la vita, allora, questa vita, la sua distensio temporis, nella molteplicità irriducibile dei suoi enti, delle sue immagini – questo multiverso delle dissomiglianze – ci incatena veramente. La libertà del pensare non ce ne libera astrattamente, ma lo intuisce come esistente Nulla. Lo sappiamo Nulla, e sappiamo, in uno, che Nulla è questo molteplice di enti e di immagini. In tale paradosso viviamo: indistricabilmente in questa presenza e nella medi­ tazione che essa è niente. Questa vita Emo la chiama l’inferno. Sarà bene leggere le sue pagine come provenienti da questa “regione”; allora le avvertiremmo secondo il giusto tempo e il giusto timbro. Doveva sembrare impos­ sibile per il loro autore riportarle alla luce – tanto profondamente erano nate. Ma non c’è alcuna com­ piacenza letteraria, nessun estetismo pessimistico in questo «inferno»; è lo “spirito del sistema” a dettarlo, quello stesso che, giungendo alla meditazio­ ne del nulla, poteva anche parlare di salvezza. E da dove si può parlare di salvezza se non dall’inferno? Altra cosa è sapere se questa parola possa o deb­ ba essere comunicata. È sempre un grave arbitrio quello di decidere la pubblicazione di opere il cui autore non ha voluto parlassero (nemmeno «a un popolo di morti», come Saba diceva), mentre era in vita. Ma come il Ni-ente del Principio è questa stessa nostra presenza, così, io penso, la solitudine e il lunghissimo silenzio di Emo non vengono tra­ 240

diti in queste pagine, ma esistono in esse. Si avverte spesso, leggendo Emo, un pensiero nascosto, che si potrebbe così formulare: l’oscenità del lettore. Rendersi leggibili è affrontarne lo sguardo alla cac­ cia di “sintomi”, di intenzioni nascoste, di tracce “d’altro”. Ma anche questo è l’inferno: non solo la solitudine dell’identità di questa presenza, ma, in­ sieme, la mai perfetta solitudine e identità. E, allora, forse, Emo avrebbe compreso la “miseria” della no­ stra decisione: tutto all’opposto che tentare di “ri­ sarcire” la sua sofferenza, abbiamo voluto colmare la misura – in ciò davvero fedeli a quanto abbiamo compreso dei suoi scritti.

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Il labirinto del linguaggio di Giulio Giorello

«Note caratteristiche: Andrea Emo, persona di poco fondamento, inetto a qualunque cosa, con qualche vena di pazzia». Così si presentava (1929) l’autore dei testi di questa antologia; e pochi anni dopo (1934) ai suoi ipotetici lettori che, almeno nelle sue intenzioni, forse non ci sarebbero mai sta­ ti, dichiarava di non voler «conoscere o possedere le anime vostre», ma solo «conoscere e possedere la mia», come se in tale modo intendesse «evoca­ re tutte le altre anime incuriosite di poterne vedere un’altra». Chi si affida alla parola scritta, aveva detto a suo tempo Novalis (Friedrich von Hardenberg, 17721801) è «un entusiasta del linguaggio», ma il lin­ guaggio, gli ribatteva idealmente Emo, è un labirin­ to di cui Arianna e Teseo hanno perduto il filo. «Le piste nere dell’inchiostro sul candore della carta, nei fogli sibillini che il pensiero segue e conduce [sono…] le piste che si attorcono alla parola effime­ ra cercando di renderla prigioniera e duratura». Ci si impegna in quella sorta di “tela di ragno” perché così facendo, per dirla con Spinoza, «sentiamo e sperimentiamo di essere eterni»; e per Emo l’im­ 243

mortalità è sì nostra compagna, ma una compagna che inevitabilmente ci lascia quando moriamo. Del resto, come ha osservato Romano Gasparotti nella sua curatela (con Massimo Donà) del Diario filosofico 1973 (apparso postumo col titolo Supremazia e maledizione presso Raffaello Cortina, Milano 1998), «pubblicare significa obiettivare, e rendere pubblico e partecipabile qualcosa che, in quanto indicibile e privato, nella sua manifestazione essoterica non può che alienarsi e diventare vuota astrazione». La parola è quindi sempre tradita dalla scrittura. Ma questo tradimento è pressoché inevitabile e ri­ guarda ogni parola, a cominciare dal Logos divino. «Possiamo noi ospitare e salvare un Dio profugo da ogni sito?», chiedeva ancora Emo nelle pagine che formano il citato Supremazia e maledizione. Gli es­ seri umani – cioè i membri di quella specie biologica che possiede il linguaggio e ne è anche posseduta – sono sempre più prigionieri delle conquiste del loro pensiero, al punto da ritrovarsi schiavi delle “chi­ mere” che loro stessi hanno evocato e che non sono più in grado di riconoscere come tali: sono dunque sospesi tra la consapevolezza che nulla «è più serio, più alto, più sublime della vita» (supremazia) e la constatazione che nulla è più “tragicamente” fragile della nostra esistenza (maledizione). Maledizione e supremazia riguardano anche la stessa divinità! «Come pensare un Dio, fornito di ogni potenza e di ogni qualità, ridotto a essere 244

inquilino di esseri spregevoli, banali, mediocri, e spesso malvagi come noi?», si domandava nel Diario filosofico 1973 Andrea Emo (1901-1983), che, in piena coerenza col suo pensiero solitario, era ben convinto che «la socialità» fosse «il nido della men­ zogna». L’uomo pubblico ha concluso un vero e proprio patto col diavolo. Anzi, «il diavolo è l’unica verità dell’uomo pubblico», e questi «per ritornare nel suo equilibrio con se stesso deve essere più forte del diavolo, deve […] opprimere il diavolo, cioè la società. […] L’uomo pubblico, se è degno di questo nome, deve essere un oppressore. La tirannia è la sua redenzione». Emo, però, ha scelto di non essere un redento­ re, ovvero un tiranno. Eppure, man mano che la parola emiana è diventata (almeno parzialmente) di dominio pubblico, chi legge può oggi constatare come quel bizzarro filosofo «da nulla» sia riuscito nell’obiettivo «rinunciatario» non di «salvare», ma di «incuriosire» chi abbia mai l’avventura di imbat­ tersi nelle sue pagine. «Quale voce saprà esprimere la sacralità del silenzio?», si era chiesto (1976) in uno dei frammenti riportato ora in questa antologia del suo lungo monologo interiore. Questa domanda suona ancor più eccentri­ ca della stessa scelta di vita operata da Emo, non foss’altro perché non pochi di noi ritengono di po­ ter ampiamente constatare una vera e propria eclissi del sacro, oggi certo resa più drammatica dall’emer­ 245

gere di vecchi fanatismi e di nuovi fondamentali­ smi, echi irrigiditi o mediocri tradimenti delle varie “buone novelle” che nei tempi andati hanno anima­ to come fuoco questa o quella fede religiosa. È per questo motivo che la parola emiana può diventare sempre di più un genuino programma filosofico. Proprio come il «Dio negativo» di Emo, anche «la vera filosofia ha la natura della Fenice», il mitico uccello che per gli antichi faceva il nido tra le fiam­ me destinate a distruggerlo. Per questo l’opera filosofica garantisce quel tipo di libertà che scaturisce dalla negazione di tutte le idee ricevute, quando esse tendono a trasformarsi in abitudini del pensiero, cristallizzazioni linguisti­ che, dogmi o ideologie. È questo il germe libertario che ci pare scorgere nel presunto nichilismo emia­ no. Un germe che ci consente di cogliere «la voce delle Muse» – cioè della riflessione razionale come della creazione poetica, delle scienze come delle arti. Perché, come diceva ancora Emo (1973), «gli Dei temono l’uomo schiavo». E noi non amiamo né paura né schiavitù.

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La silenziosa ritmica dell’origine di Massimo Donà

Che quella dello scrivere sia un’attività assolu­ tamente “vana”, Emo lo sapeva benissimo; forse per questo teneva nascosti i propri quaderni, che a nessuno, in vita, avrebbe mai fatto leggere. Eviden­ temente, il nostro sapeva bene che renderli “pub­ blici” non sarebbe servito a nulla. Ma proprio per questo, forse, Emo sapeva an­ che che solo tale attività gli avrebbe consentito di non sentirsi servo di nulla e di nessuno. Non a caso, avrebbe continuato a scrivere fino alla fine dei propri giorni; pur avendo sempre piena consapevolezza dell’assoluta vanità delle migliaia di pagine che riteneva destinate a farsi sterili «echi di un verbo ignoto», ossia segni muti capaci di evocare al massimo l’assoluta vanità del nulla. Il fatto è che le parole sono fatte opache all’uso; come tutto il grande edificio del sapere costruito dall’umanità nel corso della sua lunga e tormentata storia. Eppure, quale, se non quello di scrivere, cono­ scere, e dunque cercare di dire le cose per quel che sono, avrebbe potuto essere il compito dell’uomo della conoscenza? E in ogni caso, a qual fine scri­ 247

vere? – ci si potrebbe anche chiedere. E a che scopo? Anche perché sapere, ovvero conoscere il mondo – ed Emo ne era ben consapevole – finisce quasi sempre per renderci rovinosamente disattenti alle emergenze della vita, alle sue necessità. Alle sue in­ combenze. Rendendoci progressivamente sempre più inetti. Lo sapeva bene il filosofo veneto: che, non a caso, così avrebbe efficacemente e ironicamente sintetizzato le proprie note caratteristiche: «Andrea Emo, persona di poco fondamento, inetto a qua­ lunque cosa, con qualche vena di pazzia. Con tutto ciò, qual è la cosa che io amo di più al mondo? Me stesso». Come a dire che, quanto più si riesce a sapere, quanto meno ci si sente preparati ad affrontare i compiti di cui la quotidianità vorrebbe ci facessimo carico; stante che la vita sociale, le responsabilità familiari e le incombenze lavorative ci costringono sempre e comunque a fare delle scelte. A corrispon­ dere al mondo, più che a conoscerlo, magari riu­ scendo a coglierne le verità più nascoste. D’altro canto, il mondo non attende certo i no­ stri comodi; mai, cioè, la storia potrà rallentare, e tanto meno interrompere, la propria corsa, rima­ nendo in paziente attesa che ci si decida sul da far­ si; quasi che l’esito delle nostre azioni dipendesse davvero dalle loro più o meno fondate ragioni. 248

Il fatto è che la vita procede comunque; come un fiume, essa scorre, calma o impetuosa, ma in ogni caso indifferente. E le immagini che riusciamo a costruire non possono che farsi abissalmente “altre” dal reale che, attraverso le medesime, ci illudiamo di poter prima o poi dominare, sì da renderlo il più possibile inoffensivo, se non addirittura amico. Scrivere, dunque, significa per Emo segnare in primis l’abisso che ci rende incommensurabilmente estranei alla vita che pur vorremmo fosse “nostra”. Significa rendere perfettamente visibile la differenza assoluta di cui facciamo continuamente esperienza. Ecco perché, solo facendo, senza attardarsi in domande e dubbi che sarebbero fatalmente disper­ sivi, possiamo sperare di riuscire a trasfigurare l’e­ straneità del mondo; e tradurla nel semplice ritmo di un esistere che, proprio in ragione di una consa­ pevole rinuncia a fissarne la forma (che mai è stata, né mai sarà), potrà utilmente accordarsi alle spinte e alle controspinte che indicano direzioni sempre nuove, e mete almeno apparentemente raggiungibili. Perciò chi, come Emo, abbia dedicato o decida di dedicare la propria esistenza alla scrittura non potrà che avere le sembianze di un soggetto stan­ co e incapace di vivere; e proprio per questo quasi totalmente privo di ritmo, se non altro nell’ordine della quotidianità. 249

Ma proprio per questo fortemente motivato a disegnare un proprio ritmo ideale sulla pagina bianca, nella speranza di riuscire a farlo da gran vir­ tuoso; per quanto perfettamente consapevole della propria irrimediabile visionarietà. D’altro canto, inadatti a vivere sarebbero stati moltissimi dei grandi intellettuali del Novecento: da Franz Kafka a Stefan Zweig, da Thomas Bernhard a Martin Heidegger, da Fernando Pessoa a Emil Cio­ ran… tutti incapaci di vivere, e per ciò stesso “co­ stretti” a disegnare una vita parallela fatta di segni e discorsi tragicamente vocati a testimoniare un’origi­ naria e per ciò stesso inguaribile mancanza di senso. L’aveva ben capito, e con un certo anticipo, il nostro Leopardi; già perfettamente consapevole del fatto che solo a questo può ritenersi destinata l’attività dell’artista, così come quella del filosofo… ma forse di chiunque svolga una qualche attività conoscitiva: a riconsegnare alla pagina bianca il ra­ dicale nulla di senso che le nostre frenetiche attività pratico-poietiche tendono a rimuovere o tenere in qualche modo nascosto. Da cui una inutilità e una inettitudine che, a dire il vero, somigliano molto all’apparentemente vuota ripetitività dei “riti” con cui l’umanità ha sempre ritenuto di dover rendere testimonianza della ne­ cessaria separatezza del Sacro. Il fatto è che gli umani hanno sempre avuto bi­ sogno di uno spazio entro i cui confini potersi dedi­ 250

care a una “pratica” oltremodo paradossale, quale è appunto quella religiosa. D’altronde, l’avrebbe detto bene anche Mircea Eliade, «per l’uomo religioso la non-omogeneità dello spazio si identifica in una pratica contrapposi­ zione tra lo spazio sacro, l’unica cosa reale, realmente esistente, e tutta la restante informe distesa che lo circonda»1. Come in una sorta di vera e propria esperienza primordiale, che riconosce, proprio nel­ la non-omogeneità dello spazio, l’unica condizione possibile per qualsivoglia ipotizzabile fondazione del mondo. Giova ricordare, a questo proposito, che il pas­ saggio da uno spazio all’altro (da quello profano a quello sacro) sarebbe stato sempre e comunque accompagnato da una variegata serie di riti – a partire da quelli necessari finanche alla semplice individuazione del Sacro in quanto tale, sino all’ar­ bitrario disegno di quelli che potrebbero essere i suoi misteriosi, ma comunque sempre possibili, contorni – risolventisi ogni volta in una enigmatica, per quanto semplice, evocazione di figure. Che sa­ rebbero potute apparire “Sacre” – chiariamolo fin d’ora – solo in quanto capaci di offrire un qualche orientamento. Ossia, una qualche traduzione-in­

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Mircea Eliade, Il sacro e il profano, trad. it. Edoardo Fadini, Torino, Bollati Boringhieri, 2013, p. 19. 251

dicazione. Necessari, anche solo per il fatto che la “separatezza” in questione allude sempre e comun­ que a qualcosa di costitutivamente indecifrabile e inesprimibile. E dunque per ciò stesso bisognoso di “traduzione”… nonché di trasfigurazione. D’altro canto, come rileva con grande lucidità Andrea Emo, «l’espressione più perfetta è proprio quella che crea l’inesprimibile. La voce più ammo­ nitrice essendo appunto la più silenziosa». Per questo, solo le indicazioni e l’orientamen­ to evocati dal “rito” (e dunque dal linguaggio, in quanto anch’esso espressione di un rito: quello del­ la scrittura) avrebbero potuto dar vita a un «pensie­ ro in grado di rinascersi sempre nuovo, cioè altro». Nuovo in quanto “libero”, in primis, dai sistemi che avrebbero voluto vincolarlo e assoggettarlo al sem­ plice imperium della “funzionalità”. Libero e per ciò stesso “poetico”; in quanto ca­ pace, per dirla sempre con Emo, di scoprire «l’es­ senza delle cose al di fuori del sistema a cui appar­ tengono». Non è un caso che, sempre per il filosofo veneto, lo scrivere, il pensare e il comporre «presuppongano un’esperienza di assoluta libertà». E non potrebbe essere altrimenti: se non altro là dove determinate affermazioni riescano a corrispondere alla logica di una negazione come quella che da sempre le sostie­ ne, rendendole peraltro sempre anche paradossal­ mente possibili. In conformità a una “negazione”, 252

dunque, che è sempre e innanzitutto negazione dello spazio omogeneo e indifferenziato della doxa, nonché della prassi, tanto individuale quanto so­ ciale. L’unica “negazione” in grado di sostenere e “giustificare” le molte e incomprensibili espressioni del Sacro. D’altro canto, Emo è molto chiaro anche a que­ sto proposito: per lui, infatti, «l’affermazione ha va­ lore soltanto in quanto è negazione di sé». Anche perché, se è vero che «soltanto l’inespri­ mibile è degno di espressione», è anche vero che un tale inesprimibile è ciò di cui la vita non ha al­ cun bisogno. Anche solo perché non rientra affat­ to nell’orizzonte dei cosiddetti “bisogni”: ma dice piuttosto l’inutile ricerca della «spiegazione di tut­ to» – la stessa che nessuno riuscirà mai a raggiun­ gere. Nessuno potendola davvero rinvenire – stante la sua radicale ingiustificabilità. E proprio in quanto “principio”, nonché “fondamento” di tutto. Ecco perché la parola, così «come il Pensiero, che dovrebbero tutto spiegare, sono a loro volta inesplicabili». D’altronde, di cosa potrebbe mai parlare la scrittura, se non dello stesso scriversi dell’origine? Ossia, dello scriversi di quel principio ingiustificabile che da sempre si scrive… anche solo per il fatto che, ferma restando la sua ineludibile infondatezza, mai potrà fare a meno di provare a rendere ragione di se medesimo, prima che di ogni altra cosa o real­ 253

tà – come potrebbero infatti la sua gratuità e la sua sacralità fare a meno di provare a rendere ragione sempre anche di se medesime? E poi, se la ragione delle cose è ciò cui ogni re­ altà rinvia come alla condizione necessaria e impre­ scindibile finanche del suo semplice “significare”, anche del principio dovremmo a questo punto ri­ conoscere che, in quanto ragione di tutte le cose, dovrà pur cor-rispondere (come tutte le cose di cui esso sia ritenuto appunto “ragione”) alla domanda che in ogni caso solo lui si sarebbe potuto rivolgere. Da ciò l’originaria “metamorfosi” di quan­ to sembrerebbe esservi di più oscuro: ossia, del principio, dell’arché… del “fondamento”. Lo stes­ so da cui proviene ogni parola, e viene resa pos­ sibile qualsivoglia espressione… valevoli tutte, in ogni caso, come inconsapevoli allusioni alla nostra perpetua metamorfosi. Che è sempre e comunque metamorfosi del pensiero e insieme della scrittura; o meglio, del suo – del pensiero – scriversi come impossibile e irragionevole ragione di tutto. Sì da non poter fare a meno di negare di essere quel che, nello stesso tempo, il medesimo dovrà sempre e co­ munque anche essere. Da cui il suo farsi “linguaggio” e “scrittura”; e il farsi delle parole medesime… che sono tutte, evi­ dentemente, profondissima memoria e lungo oblio. Sì, oblio di quello stesso di cui esse sono sempre an­ che “memoria” (ossia, del “principio”, o condizione 254

trascendentale di qualsivoglia esistenza; condizione di possibilità di tutto ciò che sembra potersi dire e scrivere grazie a parole destinate a dire, in primis, quella che potremmo definire appunto l’originaria “aporia” dell’esistere). Parole che sono tutte, per ciò stesso – precisa ancora una volta Emo – «esplicite allusioni ad an­ tichi miti». D’altro canto, come non riconoscere che le pa­ role hanno tutte un’origine mitologica? Anche per­ ché dire “mito” significa alludere all’unica possibi­ le espressione dell’inesprimibile; e dunque al fatto che le diverse possibili risposte alle interrogazioni in cui consistono, di fatto, già le nostre prime parole, si sarebbero rivelate tutte “illusorie”; per quanto siano occorsi «millenni e millenni perché il pensiero umano riuscisse ad accorgersi che la ri­ sposta era una illusione e che ciò che sussiste è l’in­ terrogazione». Insomma, la risposta avrebbe avuto sempre e co­ munque la forma della “favola”… che tutto avreb­ be finito per rivelare, pur continuando a rimanere tanto più ignota quanto più disposta a svelare. Disegnata cioè in forza di un semplice mecca­ nismo compositivo, analogo a quello che avrebbe reso operativa finanche la “miracolosa” macchina progettata da Adolph Knipe, il protagonista di Lo scrittore automatico – un delizioso e intenso raccon­ to di Roald Dahl. Che chiama in causa uno stra­ 255

nissimo marchingegno reso capace di produrre rac­ conti e romanzi grazie a un complesso elaboratore letteralmente destinato a farci giocare con le parole. D’altro canto, ogni dotta e rigorosa argomenta­ zione non è altro che un gioco di parole. Un rutilan­ te e miracoloso gioco di parole. Ma lo stesso Assoluto è invero – per dirla sem­ pre con Emo – un semplice «gioco di parole». De­ stinato a disegnare nient’altro che un “ritmo”: anzi, sempre e solamente “il” proprio ritmo. Più che nella forma di un significato, infatti, l’as­ soluto tende a disegnarsi come semplicissimo ritmo; perché in ogni caso la sua originaria insignificanza “risuona”, e decide innanzitutto della ritmica che ogni discorso dovrà imporsi di rispettare, là dove voglia farsi in qualche modo significante. Anche perché è solo come ritmo che i molti possibili logoi sembrano potersi fare rammemorazione dell’o­ rigine in quanto tale. Declinando in modi sempre diversi un’unica intraducibile e incomparabile voce: quella del silenzio. Che dice l’unica vera, per quanto impossibile, “origine delle parole”. Sempre che le parole siano davvero nate dal canto, ossia dal ritmo. Esse, che tutto creano… cioè, ogni realtà; e sempre in quanto parole dell’origine – in quanto parole, cioè, di quel “principio” che indica direzioni sempre diverse, senza poterne mai scegliere “solo” una (quasi potesse esservene dav­ vero una più giusta delle altre). 256

L’origine da cui provengono tutte le parole, dunque; la stessa che ad ogni parola impone la propria irrisolvibile “ambivalenza”. Rendendola, in ogni caso, specchio fedele di una duplicità che, in quanto originaria, andrebbe riconosciuta finan­ che in quella sacra “natura” a partire dalla quale, solamente, saremmo tutti invitati ad arrenderci al fatto che «le parole possono essere chiavi o serra­ ture. Possono aprire o serrare le vie del pensiero, possono essere redenzione o condanna».

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«Vi sono alcune idee stravaganti» Suggestioni a margine di Raffaella Toffolo

Leggere Andrea Emo è esperienza particola­ rissima, visto che, come per tutti i postumi, si ha sempre l’impressione di violare, forzare un’identità; cosa resa ancor più evidente dal fatto che si tratta di manoscritti, dove la grafia, appunto, segnala umori e stati d’animo, scandendo i tempi e i modi della scrittura. Entrare in nuovi mondi senza interlocutore si­ gnifica ipotizzare anche discorsi interiori e nuovi percorsi di evocazioni e suggestioni. È stato un dialogo rispettoso, ma anche “gioco­ so”. Per entrare nel suo-nostro mondo ho cercato di rintracciare un filo rosso tra questi suoi “aforismi”, in modo tale che componessero, questa volta loro per me, il disegno dell’esistere attraverso la scrittura. «Vi sono alcune idee stravaganti che appaiono le prime volte danzando sulle cime della fantasia. Non le prendiamo sul serio, nemmeno se ne siamo gli autori; ma col tempo ci accorgiamo che queste biz­ zarre danzatrici imprimono il loro ritmo alla mente, alla vita…» 261

…quando alcune idee rimaste in mezz’ombra vengono illuminate dalla tersa nitidezza del pensie­ ro, trasformandosi, a volte, da semplici forme so­ gnate in provocatorie presenze. «Che cosa possiamo pubblicare se non ciò che è privato e intimo, cioè più universale, perché pro­ prio a ciascuno, che gli universali astratti? Ma come pubblicare ciò che è sacro e bello finché resta pri­ vato e occulto, e diviene osceno, come ogni nudità, non appena si manifesta?» Ostinato e sfrontato pudore che, solo, si conce­ de in presunte affinità. «La nostra giornata è una triste commedia reci­ tata da diversi personaggi, da diversi attori e figu­ re sceniche in ciascuna delle quali riconosciamo lo stesso personaggio, cioè noi. Ma ciascuno di questi noi ha assunto una convinzione irriducibile, abita una sfera impenetrabile che non può avere con le altre, come in una strana dissonanza e disarmonia prestabilita, alcun rapporto». Accecati e maldestri ci muoviamo… provando a vivere. 262

«Ho ben poche frecce per il mio arco. Frecce e dardi che partono per l’illusoria destinazione dell’infinito, ma poi ritornano subito ai miei pie­ di. Sono sempre i medesimi dardi per il medesimo spazio? I dardi dovrebbero inventare essi stessi lo spazio che li sostiene». Forse solo attraverso l’infinito tentativo trovano sostegno, creando “l’infinito ponte”. «La maggior parte delle persone parla e scrive per nascondersi; lo scrittore dovrebbe essere quell’uomo di eccezione che scrive per mani­ festarsi». Per finalmente ricevere risposta, nel silenzioso deserto. «Quanto più perfettamente ci esprimiamo, tan­ to più siamo certi di non essere compresi». …senza appello!

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Le rifLessioni e gLi Aforismi suLLA scritturA AnnotAti nei decenni dA uno dei più grAndi (e AppArtAti) fiLosofi itALiAni deL novecento. un tesoro compiLAto A mAno e reso finALmente disponibiLe A chi AmA “pensare e comporre come esperienza di assoluta libertà”. “In Emo, il pensare concresce al linguaggio, si chiarisce e approfondisce nella ricerca della parola, nella nettezza dell’espressione” Massimo Cacciari