Il sovrano e l'imprenditore. Utilitarismo ed economia politica in Jeremy Bentham 8842038350


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Il sovrano e l'imprenditore. Utilitarismo ed economia politica in Jeremy Bentham
 8842038350

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Marco E.L Guidi IL SOVRANO

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E L'IMPRENDITORE |

. UTILITARISMO ED ECONOMIA POLITICA == IN JEREMY BENTHAM —_-.

Biblioteca di Cultura Moderna Laterza —_

Biblioteca di Cultura Moderna 1009

©1991, Gius. Laterza & Figli Prima edizione 1991

Marco E.L. Guidi

IL SOVRANO E L’IMPRENDITORE Utilitarismo ed economia politica in Jeremy Bentham

Laterza

Proprietà letteraria riservata Gius. Laterza & Figli Spa, Roma-Bari Finito di stampare nel giugno 1991 nello stabilimento d’arti grafiche Gius. Laterza & Figli, Bari CL 20-3835-8

ISBN 88-420-3835-0

a Claire e Gabrielle

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IL SOVRANO

E L’IMPRENDITORE

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ABBREVIAZIONI

BPU

Manuscrits Dumont, Bibliothèque Publique et Uni-

Chrestomathia

J. Bentham, Chrestomathia, a cura di M.J. Smith e W.H. Burston, Clarendon Press, Oxford 1983. J. Bentham, Constitutional Code, vol. I, a cura di F. Rosen e T.M. Burns, Clarendon Press, Oxford 1983.

versitaire, Genève.

Code Comment

Correspondence CW

J. Bentham, A Comment on the Commentaries, in A Comment on the Commentaries and A Fragment on Go-

vernment, a cura di J.H. Burns e H.L.A. Hart, The Athlone Press, London 1977. The Correspondence of Jeremy Bentham, voll. 1-5, The Athlone Press, London 1968-1981; voll. 6-9, Clarendon Press, Oxford 1984-89. The Collected Works of Jeremy Bentharz, edizione critica a cura di F. Rosen, The Athlone Press, London 1968 - (dal 1983, Clarendon Press, Oxford).

Deontology

EW FG First Principles

IPML Oeuvres

OLG

J. Bentham, Deontology, together with A Table of the Springs of Action and the Article on Utilitarianism, a cura di A. Goldworth, Clarendon Press, Oxford 1983. Jeremy Bentham's Economic Writings, a cura di W. Stark, Allen & Unwin, 3 voll., London 1952-54. J. Bentham, A Fragment on Government, in A Comment on the Commentaries and A Fragment on Government cit. J. Bentham, First Principles Preparatory to Constitutional Code, a cura di P. Schofeld, Clarendon Press, Oxford 1989. J. Bentham, Ar Introduction to the Principles of Morals and Legislation, a cura di J.H. Burns e H.L.A. Hart, The Athlone Press, London 1970. Oeuvres de Jérémie Bentham, 3 voll., Haumann, Bruxelles 1829-30. J.Bentham, Of Laws in General, a cura di H.L.A. Hart, The Athlone Press, London 1970.

1

UGE Works

Bentham Papers, University College Library, London. The Works of Jeremy Bentham, a cura di J. Bowring, XI voll., Tait, Edinburgh 1838-43.

INTRODUZIONE

Pubblicando, nel 1978, Adam Smith's Politics, Donald Winch

dava avvio a una stagione di revisione della storiografia sul pensiero economico classico e sulle sue origini: una storiografia che vedeva nella Wealth of Nations la tappa di un’unica tradizione liberale, iniziata con il contrattualismo di Locke. La dimostrazione smithiana delle virtù autoregolatrici del mercato avrebbe proseguito questa linea di pensiero, spostandone il centro di gravità dal campo morale e politico a quello economico e giungendo alla conclusione che al governo resta il compito di garantire «poco più che [...] pace, tasse moderate e una tollerabile amministrazione della giustizia»!. Il contesto culturale scelto per comprendere il messaggio smithiano era, in tale prospettiva, non quello settecentesco ad esso proprio, ma quello del liberismo economico ottocentesco e della teoria marxiana del capitalismo, concepita da taluni come il naturale prolungamento di una visione che ormai riconosce la fondazione economica della società e dello Stato. Donde l’esigenza di ricondurre l’opera dello Scozzese al quadro dei riferimenti teorici e ideologici nel quale era maturata e con cui si era misurata. L’ipotesi che sottende la revisione interpretativa proposta da Winch — che la teoria economica smithiana possa essere compresa nella sua integralità solo se vista come parte di una riflessione morale e politica complessa e unitaria — ha prodotto risultati fecondi nella storiografia dell’ultimo decennio?. Mi è 1 1978, 2 ssenn

D. Stewart, Account of the Life and Writings of Adam Smitb, cit. in Winch p. 4. Cfr., tra gli altri, Collini-Winch-Burrow 1983; Cremaschi 1984; Haakon1981; Hont-Ignatieff 1983; Pesante 1986; Pesciarelli 1988. Per una rassegna, cfr. Meoli 1983.

parso interessante estenderla al pensiero ‘economico di Jeremy Bentham (1748-1832), sebbene in questo caso il problema sembri di natura opposta: Bentham è infatti stato considerato dalla maggior parte degli interpreti come un filosofo e giurista, il cui contributo economico sarebbe tutto sommato modesto, anche se,

paradossalmente, proprio sull’ideologia dell’interesse mercantile e della concorrenza egli avrebbe costruito l’intera sua riflessione. Anche questa interpretazione riduttiva, però, deriva dall’aver letto il pensiero dell’autore alla luce di problematiche scientifiche e culturali che non erano più quelle del suo «orizzonte di attesa»3, nelle quali, in particolare, il rapporto tra sapere economico e politico, e tra questi due e filosofia morale, si presentava ormai sotto una luce del tutto diversa. Il «revisionismo» negli studi benthamiani è in realtà iniziato da tempo, ben prima di quello che ha coinvolto Smith: esso data almeno dalla fine degli anni Sessanta, quasi in coincidenza con l’avvio della nuova edizione critica dei Collected Works of Jeremy Bentham, promossa dal Bentham Committee e tuttora in corso di approntamento. Gli interpreti più recenti hanno dovuto misurarsi con una lettura consolidata, che collocava Bentham alle ori-

gini della cultura liberale-individualistica ottocentesca e al contempo all’apice di una tradizione «newtoniana» e utilitaristica che ne avrebbe posto le premesse nel secolo dei Lumi. Così Elie Halévy, nella Formation du radicalisme philosophique (19011904) vede in Bentham colui che ha dato espressione filosofica al «secolo di liberalismo» appena conchiuso e al «trionfo del liberoscambismo manchesteriano», grazie alla «sistematizzazione» della «filosofia utilitarista dell'identità degli interessi» che del liberismo costituirebbe il vero centro4. Questa filosofia, del resto, sarebbe l’erede diretta di una tradizione che nasce con la Rivoluzione del 1688 e con i suoi paladini teorici, Newton e Locke, e si prolunga nel «newtonismo morale» settecentesco, nel quale «due principi occupano il posto del principio dell’attrazione universale: il principio dell’associazione delle idee e il principio dell’utilità»?. Viene in questo ambito a porsi il problema della conciliabilità tra interessi privati e interesse della società, che 3 Cfr. Jauss 1988; Foucault 1969. 4 Halévy 1901-4, vol. I, pp. vii-vm, 216. >.Ivi, p. 4.

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Hume e Smith risolverebbero, in sfere diverse, rispettivamente con l’idea di fusione degli interessi attraverso il movente della simpatia e con l’idea di armonia naturale degli interessi attraverso il gioco degli interessi egoistici. Bentham, pur accogliendo entrambe queste prospettive, avrebbe avuto il merito di puntare l’attenzione sulla necessità dell’identificazione artificiale degli interessi, tramite la legge, in quelle sfere in cui non vi sia natu-

rale armonia. Il suo pensiero si collocherebbe perciò alle origini del liberalismo ottocentesco, con il concludere che «lo Stato ha una funzione giudiziaria da svolgere, ma la sua funzione econo-

mica deve essere ridotta al minimo»S. Pochi anni dopo, A.V. Dicey, nelle Lectures on the Relation between Law and Public Opinion in England during the Nineteenth Century (1905), fece di Bentham il campione teorico «dell’età dell’individualismo», posta tra un’età di paternalismo e di statocentrismo e l’età del collettivismo, che avrebbe preso piede nel tardo Ottocento con l’affermarsi delle idee socialiste e la crescita dell’intervento dello Stato in ogni sfera. Merito di Bentham sarebbe stato quello di chiarire che ogni individuo è il miglior giudice dei propri interessi e deve essere quindi lasciato libero di compiere le scelte che desidera, almeno nella misura in cui il suo comportamento non danneggi le posizioni degli altri. Con il saggio di J. Bartlet Brebner, Laissez-faire and State Intervention in Nineteenth-Century Britain (1948), comincia tuttavia

ad affermarsi una corrente opposta che, proprio polemizzando con le tesi di Dicey, sostiene che l’etica utilitaristica elaborata da Bentham sarebbe alle origini non del liberoscambismo, ma del suo esatto contrario, il collettivismo e l’interventismo governativo in ogni sfera. Da quel momento — pur non mancando analisi più articolate (Baumgardt, Viner, Robbins) — verrà a prevalere un modo molto astratto di valutare il contributo di Bentham al pensiero politico ed economico dell'Ottocento, consistente non nell’esaminarne l’opera e individuare che cosa in essa venga detto a proposito degli agenda o non agenda del governo, ma nel

partire dalla formulazione generale del principio di utilità, contrapponendola vuoi alla prospettiva dei diritti dell’uomo vuoi all’evoluzionismo burkeano, per concludere che mentre questi ul6 Ivi, p. 213. Cfr. ivi, p. 24.

timi danno avvio alla cultura liberale dello Stato minimo, la

filosofia benthamiana è il capostipite della cultura totalitaria moderna, che propugna il sacrificio delle minoranze agli interessi della maggioranza”. Si noterà che, pur con questa inversione di ottica, l’interpretazione del pensiero di Bentham continua ad essere compiuta prendendo come contesto di riferimento il dibattito ottocentesco e novecentesco, da Tocqueville a Hayek, potremmo dire: il problema rimane sempre quello del contributo di Bentham al liberalismo politico e al liberismo economico, anche se la risposta viene ormai data in negativo. Per contro, rispetto al pensiero dei classici dell'economia politica, quello di Bentham è stato meno investito dalla vu/gata marxista, che interpreta l’evoluzione del pensiero politico ed economico dei secoli XVII-XIX come il progressivo articolarsi di un unico «pensiero borghese», caratterizzato prima da un approccio più astratto e politico, poi da una concezione più economica e «scientifica» dei rapporti di produzione capitalistici, a misura che

questi ultimi si impadroniscono di tutte le sfere della società; infine dall’insorgere di una «apologetica» armonicistica che tende a negare il conflitto tra capitale e lavoro proprio quando la lotta di classe si fa più accesa. Il disinteresse per Bentham si deve in larga misura alle indicazioni fornite da Marx stesso, che, nel

Capitale, fa della «filosofia dell’interesse» il prototipo di una visione superficiale e apologetica che esalta i vantaggi della metamorfosi delle merci, ma non riconosce la realtà dello scambio ineguale tra capitale e forza-lavoro8. Questo marchio di infamia ha reso il pensiero di Bentham irrilevante per la maggior parte degli studiosi marxisti, anche se non è mancato chi, partendo

dalla lettura più generosa che Marx propone nella Deutsche Ideologie, ha voluto vedere proprio nella filosofia benthamiana l’esempio più compiuto di penetrazione della visione borghese o «individualista possessiva» all’interno del pensiero morale e politico del Sette-Ottocento?, o chi ha creduto di cogliere nell’o? Ayer 1948; Hayek 1949; Mack 1962; Himmelfarb 1968; id. 1970; Werner 1973; D'Alessandro 1981, pp. 89-94. Il dibattito si rafforza poi con l’acquisizione di interpretazioni di carattere più generale, che coinvolgono anche l’utilitarismo benthamiano e la sua filosofia sociale, come Talmon 1976 (1952) e Foucault 1975. 8 Marx 1982, Ixx1r.5. ? Marx 1972, vol. V, pp. 424-29; Macpherson 1962, pp. 2, 270; id., 1985,

cap. VII; Jackson 1973.

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pera giuridica del filosofo lo sforzo consapevole di creare le condizioni per permettere lo sfruttamento capitalistico della forza-lavoro!0. Vari sono gli angoli visuali da cui, nella letteratura dell’ultimo ventennio, è stato messo in discussione questo duplice paradigma interpretativo: studi su singoli temi e concetti (libertà, proprietà, oppressione, sovranità), su campi teorici cui Bentham si è interessato (diritto, etica, politica sociale, filosofia politica) o

tentativi di valutare nel suo insieme il contributo teorico del filosofo!!. La presente ricerca si propone di indagare il rapporto tra economia politica, etica e scienza della legislazione nel pensiero di Bentham. Nonostante le puntuali, seppure datate prefazioni di Werner Stark ai tre volumi dei Jeremy Bentham's Economic Writings (1952-54), qualche saggio su aspetti della teoria economica benthamiana!?, infine alcuni interessanti sondaggi all’interno di studi di carattere più complessivo!3, rimane molto da fare per comprendere con esattezza quale ruolo Bentham affidasse al sapere economico all’interno della propria «enciclopedia delle scienze»!4. La lettura in chiave ottocentesca svolta da Halévy e Dicey ha infatti condotto a vedere nella distinzione tra teoria giuridica (basata sull’idea di conciliazione artificiale) ed economia politica (basata su quella di identità naturale) l’articolazione fondamentale della filosofia benthamiana, un’articolazione che derivereb-

be a sua volta dalle conclusioni dell’etica dell’utilità, interpretata riduttivamente come «morale dell’interesse ben inteso». Per Halévy, infatti, la conclusione di Bentham è che esiste un conflitto tra la «psicologia edonistica», che sostiene che ogni individuo 10 Annette 1979. 11 Cfr. M.D.A. Freeman, Jeremy Bentham: Contemporary Interpretations, in Faucci 1982; F. Rosen, Jeremy Bentham: Recent Interpretations, in «Political Studies», XXX, 1982, n. 4, pp. 575-81; D. Lieberman, Historiographical Review. From Bentham to Benthamism, in «The Historical Journal», XXVIII, 1985, pp. 199-224. 12 Stark 1941; id. 1947; Hutchison 1956; Petrella 1977; Hollander 1979b. 13 Steintrager 1977, cap. 3; Hume, L.J. 1981, cap. 4; Boralevi 1984, cap. 6; Dinwiddy 1989, cap. 6.

14 Un lavoro fecondo in questa stessa direzione è stato intrapreso in questi anni da Paul Kelly, curatore della nuova edizione degli scritti economici di Bentham nell’ambito dei Collected Works. Cfr. Kelly 1990. In chiave più strettamente metodologica, cfr. Schmidt 1988.

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agisce in base al proprio interesse (e si intende con ciò «interesse

egoistico»), e la filosofia utilitaristica, che prescrive «la massima utilità del maggior numero». Donde il problema fondamentale della conciliazione fra gli interessi. Dal canto suo, l’interpretazione marxista — e non solo essa!5 — tende a leggere l’antropologia egoistica che starebbe a fondamento del tutto come il travestimento dell’etica borghese, basata sullo scambio e sul profitto: l’homo oeconomicus moderno sarebbe dunque il modello, nemmeno troppo occultato, di quell’essere umano generico e astratto che agisce in base alla ricerca del massimo piacere. Una conseguenza di questa netta separazione tra sfera giuridica e sfera economica, in seguito fatta propria da tutti gli interpreti, è che alla prima si attribuisce tutta la riflessione sulla regolazione politica, le sue forme e i suoi principi normativi, mentre l'economia politica viene specularmente trasformata in una scienza dei fatti, che studia le leggi regolanti la produzione e lo scambio della ricchezza. Il contenuto normativo di questa scienza, peraltro ristretto a un dogmatico «lasciar fare», scaturirebbe come una sorta di naturale, obbligata conclusione, dalla scoperta che l’economico è caratterizzato dall’equilibrio e dall’autonomia. Donde anche una presunta esemplarità, un preteso primato delle relazioni economiche nell’ambito dell’intera visione benthamiana, che gli farebbe meritare il titolo di iniziatore dell’ideologia liberistica, diffusasi in tutta Europa attraverso l'insegnamento di Say, Cobden, Bastiat e del nostro Ferrara. Nell’inversione di tendenza che prende avvio da Brebner, del resto, l’essenziale di questa impostazione viene mantenuto: solo che ora è la conciliazione artificiale a essere considerata la vera cifra del discorso benthamiano, mentre il liberismo economico finirebbe per concorrere, aggravandone le conseguenze, a una visione manipolatrice e ingegneristico-sociale, prolungando l’oppressione delle coscienze nel più selvaggio sfruttamento capitalistico. Lungo è il percorso da compiere per dimostrare i limiti di questa interpretazione: occorre prendere le mosse da alcuni aspetti dell’etica, termine con il quale Bentham designa l’insieme di discipline che trattano dell’agire umano. Distinta — secondo 15 Cfr. D'Alessandro 1981, pp. 41-42.

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un gusto peculiare per i neologismi impronunciabili — in etica «dicastica» e «censoria», cioè normativa, e in etica «descrittiva»,

questa forma di sapere si occupa da un lato dei principi che devono regolare le scelte morali («etica privata») e quelle politiche («etica polioscopica»), dall’altro dei moventi fondamentali che determinano l’agire in generale. Nel capitolo dedicato a questo argomento (cap. 4), ho cercato di mostrare in che senso l’etica benthamiana non sia un’etica dell’interesse egoistico «illuminato» o «ben inteso» e, più in generale, come sia erroneo pensare che i suoi problemi normativi più generali scaturiscano dalla conclusione che di fatto gli individui agiscono in base a questo movente. Come è stato da altri mostrato, il rapporto tra principi etici e analisi del comportamento umano è l’inverso di quello suggerito dall’interpretazione tradizionale: il principio di utilità non «deriva» da nessuna analisi dei fatti umani, ma viene viceversa discusso con una procedura argomentativa che ne mostra la logica superiorità rispetto ai sistemi normativi rivali (in particola-

re, l'etica ascetica cristiana e una famiglia composita di etiche razionalistiche e intuizionistiche che Bentham raccoglie sotto il titolo di «etica della simpatia e dell’antipatia» o «ipsedixitismo»). Sono le regole imposte da questo principio a fare appello ai fatti umani come «parametro esterno» in base al quale valutare le scelte: in particolare quella che impone di preferire le azioni che abbiano come conseguenza il massimo benessere dell’insieme degli individui coinvolti. Donde la necessità di una scienza in grado di comprendere come gli individui agiscono, quali sono i fini che si propongono e in quali situazioni la loro soddisfazione può essere considerata massima. Analizzando più da vicino le procedure da Bentham suggerite per la valutazione delle azioni, si può osservare come esse contengano una precisa definizione delle virtù morali, che tende tra l’altro a superare le rigidità di un troppo assoluto utilitarismo dell’atto: la lista delle virtù suggerisce che nessun rilievo speciale è attribuito all’interesse egoistico, sebbene Bentham pensi che esso di fatto prevale nelle relazioni umane, mentre al culmine della gerarchia sono chiaramente collocate virtù «semi-sociali» e «sociali» come l’amore dell’approvazione altrui e la benevolenza. Bentham, riprendendo un tema tipico del suo secolo, pensa anche che la società umana stia progredendo verso una condizione in cui queste virtù finiranno con l’avere maggiore spazio.

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Quanto all’etica «descrittiva», gli stessi scopi per cui è prevista fanno di essa, prima di tutto, una scienza generale dell’azione umana, una prasseologia, che riduce ogni motivazione alla fondamentale spinta a ricercare il piacere e a fuggire il dolore. Questa teoria dell’azione contiene a sua volta una teoria causale delle scelte e delle loro conseguenze, una classificazione di tutti i moventi e una teoria del calcolo dei piaceri e dei dolori. Quest’ultima — contrariamente a un pregiudizio diffuso — è la parte forse meno sviluppata da Bentham. La varietà dei moventi e la generalità della prasseologia, preliminare a ogni altra scienza «sociale», dimostrano come in nessun modo l’autore intendesse attribuire all’interesse egoistico e ai valori borghesi il ruolo di mo-

dello generale del comportamento umano. Parte dell’equivoco che ha portato a interpretare la «deontologia» benthamiana come proposta dell’interesse ben inteso è semmai dovuta, come ha suggerito John Dinwiddy, ad una «idiosincrasia del suo vocabolario» consistente nel sostenere che «per 0gri motivazione vi fosse un corrispondente interesse»!5, sicché anche i moventi sociali devono essere interpretati come frutto di un interesse dell’individuo a godere del piacere altrui. L’etica, poi, si suddivide non in diritto ed economia politica,

ma in morale privata e politica. Il centro di quest’ultima (cap. 5) è occupato dalla scienza della legislazione, che contiene i vari rami del diritto e una serie di scienze ausiliarie, tra cui la finanza e l'economia politica, definita dal filosofo come «una branca della scienza della legislazione». Che a questa disciplina non competa di stabilire la natura essenzialmente economica del vivere sociale è del resto ben illustrato dal fatto che la definizione di società civile viene costantemente data nell’ambito di una riflessione sulla natura generale delle leggi e sulla sovranità: costituisce una società, per Bentham, un insieme di individui disposti a obbedire ai comandi di un sovrano, cioè alle leggi e ai decreti da lui emanati. Una definizione essenzialmente politica, che rivela tra l’altro la volontà di opporsi al dualismo leggi di natura-leggi positive proprio della tradizione giusnaturalista. Anche la scienza della legislazione contiene una parte normativa, l’arte, e una parte positivo-analitica, la scienza. Di più, 16 Dinwiddy 1989, p. 23.

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questa duplicità attraversa ogni disciplina posta al suo interno e, in ciascun caso, è sempre l’arte a subordinare a sé la scienza,

facendone uno strumento per precisare in che cosa concretamente consista la felicità collettiva; solo che, nel caso del sapere po-

litico, la scienza non può limitarsi all’analisi delle conseguenze di una singola decisione sul benessere dei cittadini, ma deve passare attraverso una ricostruzione più generale dei fatti sociali e delle catene di relazioni che uniscono tra loro gli individui. Quanto all’arte della legislazione, essa viene fondata sulla dottrina dei fini del governo: questi fini sono la massima felicità totale (fine generale), e sicurezza, sussistenza, abbondanza ed eguaglianza (fini subordinati): questi ultimi precisano in termini di contenuto

il fine generale, vengono proposti sulla base di una classificazione dei bisogni umani più generali, infine sono detti «subordinati» per il fatto che è appellandosi al principio di utilità che si può decidere, caso per caso, quale di essi debba avere la precedenza in caso di conflitto tra i loro dettati. Bentham concepiva questa teoria come preliminare all’intero corpo della scienza della legislazione: appare anche da ciò come suo intento fosse quello di fornire un sistema di norme politiche alternativo e meno contraddittorio di quelli dominanti nel suo orizzonte culturale. Grazie all’analisi del benessere degli individui coinvolti, la teoria dei fini fornisce infatti un’alternativa più elastica ai diritti dell’uomo, evitando l’arbitrio con il quale questa dottrina risolve i conflitti tra diritti egualmente assoluti e imprescrittibili. Anche il diritto naturale alla libertà viene tradotto e inglobato nel fine della sicurezza, in quanto per Bentham la libertà civile altro non è che sicurezza della persona e della proprietà. L'approccio dei fini subordinati, inoltre, riprende in parte l'impostazione delle Scienze dello Stato tedesche del Sei-Settecento, che appunto nella felicità e nella sicurezza dei sudditi individuavano i compiti principali del sovrano. Viene però da un lato allargato il campo anche al fine dell’eguaglianza e dall’altro superata l’ottica paternalista e interventista che era tipica di questa tradizione. Il linguaggio utilitarista, peraltro, in cui quello della cameralistica viene ritradotto, non dà vita a quell’«eudaimonismo normativo»!? che sarà invece tipico, ad esempio, della tradizione italiana dei Verri e dei Beccaria: per Bentham l’interesse generale altro non 17 Cfr. Agnati 1982; Bianchini 1989.

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è che la somma degli interessi individuali dati; dall’asserzione che il governo deve promuovere «la massima felicità per il maggior numero» non deriva perciò necessariamente che la felicità possa essere solo l’opera dei suoi decreti e delle sue leggi. Anche l’economia politica (capp. 6, 7) si snoda attorno a una riflessione sui fini della legislazione: è il problema dell’abbondanza ad avere la parte maggiore in questa disciplina, dato che spetta ad essa indicare quali siano le condizioni che permettono la massima crescita della ricchezza e della popolazione; ma egualmente importante è la sussistenza, che Bentham non riterrà mai di poter sottrarre completamente alla sfera di competenza del governo. Del pari, viene a porsi il tema classico della compatibilità tra le politiche economiche e finanziarie e la sicurezza interna ed esterna dello Stato. Attraverso alcuni strumenti finanziari,

infine, può essere introdotta una moderata redistribuzione dei beni tale da favorire l'eguaglianza. Vi è dunque anche in questo campo un primato logico dell’arte, sebbene ciò non significhi che l'economia politica sia concepita come una lista di strumenti a disposizione del sovrano per favorirne l’opera: al contrario proprio la scienza finisce con l’occupare la maggior parte dello spazio, dato che a essa è affidato il compito di comprendere i meccanismi che sottostanno alla riproduzione dei beni e che essa stessa finisce con lo scoprire — in parte grazie alla lezione smithiana — il loto carattere sistematico e per molti versi autoconsistente: donde un’assai ampia indicazione di «lasciar fare», che tuttavia non riduce lo Stato a guardiano notturno né si presenta come problema centrale o conclusione ultimativa dell’intera riflessione. Ho cercato anche di dimostrare come la specificità della scienza economica benthamiana, rispetto a quella dei classici dell'economia politica, consista nel fatto che ogni suo asserto (in materia di valore, moneta, equilibrio, accumulazione) è formulato nei termini della teoria delle

scelte elaborata dall’etica descrittiva. Donde il posto centrale attribuito agli imprenditori — motivati dalla ricerca del massimo profitto — come agenti dell’innovazione e, tramite essa, dello sviluppo economico. Assieme ai banchieri, essi sono per Bentham «come dei sovrani indipendenti»! nel loro campo di a18 Gfr, BPU L, 290,

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zione e le loro scelte, in genere coronate da successo, limitano e condizionano,lepossibilità di intervento dei governi. L’economia politica è dunque arte-e-scienza del legislatore, e non scienza pura della ricchezza, né «fisiologia» o «anatomia» della società civile, come per Say e Marx. Essa non è neppure scienza ormai settoriale e specialistica dello sviluppo economico, come sarebbe stato per Ricardo, né, infine, scienza generale del comportamento razionale, dato che la prasseologia non deriva dall’analisi economica, ma viceversa è l’analisi economica a fondarsi su una teoria delle scelte di importo più generale. Tuttavia, se è vero che l’economia politica in Bentham non occupa alcuna posizione di rilievo, se è vero anche che egli condivide con il suo tempo l’idea della natura politica del vincolo sociale, è davvero legittimo sostenere che la sua riflessione sia del tutto estranea a quella «rivoluzione scientifica» che avrebbe condotto Jean-Baptiste Say a individuare nel sapere economico la chiave per la spiegazione dell’ordine sociale? Che cosa avrebbe allora permesso all’economista francese di considerare suoi maestri proprio Smith e Bentham? Una risposta possibile è che la scienza della legislazione benthamiana può da molti punti di vista essere considerata un’espressione liminare, potenzialmente eversiva del vecchio paradigma: ogni sua spiegazione dell’ordine sociale contiene infatti una tensione interna, una polarità che, se porta sempre a concludere a favore dell’assoluta necessità di un governo e di un sistema di leggi, nondimeno accenna all’esistenza di meccanismi di autoregolazione sociale che sostituiscono e limitano l’ordine politico: ne sono esempi la fiducia nel peso crescente dell’approvazione altrui e della simpatia come moventi dell'agire individuale, il ruolo conferito alla pubblica opinione e più in generale ai sistemi di valori nati progressivamente dalla comunicazione sociale, che costituiscono l’argine più efficace contro la tirannia dei governi; l’accurata analisi delle catene di eventi sociali messi in moto dall’insorgere di aspettative ottimistiche o pessimistiche circa gli eventi futuri; l’analisi stessa delle leggi della produzione e dello scambio, che rivela l’esistenza di complessi meccanismi di autoregolazione. Eppure, nonostante che l'economia politica svolga un ruolo rilevante in questo campo, essa non lo occupa da sola: una prova ulteriore del fatto che la dicotomia politico-economico non è rilevante per comprendere il contributo di Bentham.

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Molti sono i contenuti della scienza della legislazione benthamiana che vanno perduti quando tutta l’attenzione sia concentrata sull’alternativa secca tra liberismo economico e interventismo giuridico: uno dei più rilevanti è l’accento posto sulla «giustizia distributiva» come obiettivo diretto e primario delle leggi. Vi sono segni nei testi che mostrano come Bentham intendesse contrapporre questa impostazione al «sistema della libertà naturale» di Smith, che considerava proprio della sfera delle leggi solo quanto riguardasse la protezione della persona e della proprietà, la certificazione e il controllo dei contratti («giustizia commutativa»), la difesa della nazione e quei lavori di pubblica utilità che l’iniziativa privata non avrebbe potuto finanziare. Esplicita è anche l’opposizione nei confronti di quelle voci che si erano levate, specialmente nell’ultimo decennio del Settecento, contro

ogni intervento del governo nei mercati dei beni di sussistenza, nell’assistenza agli indigenti, nel soccorso temporaneo alle industrie in crisi. Il liberismo da Bentham propugnato, dunque, si ferma laddove la crescita spontanea della ricchezza, grazie al gioco degli interessi privati, non è considerata capace di riassorbire in sé tutti gli altri desiderata, assicurando il massimo benessere. Una delle caratteristiche della sua prospettiva utilitaristica è quella di considerare il benessere generale non solo come una funzione della quantità assoluta di beni e servizi di cui una società dispone, ma anche come risultato di una loro distribuzione più egualitaria: il problema della giustizia non è così affatto riassorbito in quello dell’efficienza!. Ciò non significa tuttavia, per il filosofo, proporre un «sistema livellatore» che potrebbe sopravvivere solo grazie alla paura, ma che, scatenando negli individui aspettative pessimistiche e scoraggiando ogni attivismo, porterebbe rapidamente la società alla crisi. Né significa proporre, in nome dell’utilità collettiva, la completa subordinazione dell’iniziativa individuale al volere di un legislatore onnisciente e onnipotente. Vi si oppone l’assoluto primato del fine della sicurezza — che non significa soltanto protezione della persona e del possesso, ma anche sicurezza delle attese — mentre l’avvertenza che la legge non deve in nessun !9 Il che richiama la problematica originaria dell'economia del benessere. Cfr. A.C. Pigou, A/cuni aspetti dell'economia del benessere, in Caffè 1956. Cfr. Viano 1989, p. 500. Su Bentham e l’eguaglianza cfr. Parekh 1970.

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caso interferire con la sfera delle scelte individuali che riguardano solo se stessi, né rendere obbligatoria la benevolenza e le altre virtù sociali, conduce a limitare l’ingerenza dei pubblici poteri a quelle azioni che possono avere, intenzionalmente o meno, conseguenze negative sul benessere altrui?0. E vero che Bentham, pur tenendo costantemente conto di queste avvertenze, formula una proposta, quella del Pazopticon, nella quale si è a ragione visto un microcosmo totalitario governato dalle più spietate strategie di condizionamento. Sarebbe tuttavia erroneo, come pure è stato costantemente ripetuto, voler riconoscere in ciò l’inveramento di una filosofia che, fissando come criterio ultimativo delle scelte la massima utilità collettiva, non porrebbe alcun argine teorico al sacrificio di qualche individuo al benessere dei più. Bentham non pensa che questa even-

tualità sia possibile, perché le sofferenze della minoranza non potrebbero essere compensate in alcun modo dal beneficio ottenuto dagli altri. Ciò che impedisce che il principio di utilità sconfini nel totalitarismo è dunque proprio la regola che impone di valutare le scelte pubbliche in base alle loro conseguenze sul benessere, nonché la concreta analisi, il concreto bilancio dei guadagni e delle perdite individuali. Per il filosofo, che considera astratta e contraddittoria la prospettiva dei diritti naturali, non è possibile andare al di là di questo punto, fissando in linea di principio una sfera invalicabile di prerogative individuali. Semmai, ciò che consente a Bentham di scrivere pagine tanto oscure è la sua idea estremamente semplificata — e così radicalmente settecentesca — della natura umana, le cui diverse componenti e le cui variegate manifestazioni sembrano poter essere ridotte a pochi impulsi fondamentali, perfettamente intellegibili e misurabili, e all’influsso delle circostanze esterne. Donde l’illusione che, quando le cattive influenze inducono i poveri all’indisciplina, allo sperpero delle energie lavorative, a comportamenti asociali, è sufficiente — nel loro stesso interesse — cambiare radicalmente l’ambiente in cui vivono, suggerire loro l’amore per il lavoro, per il risparmio e per l’igiene, perché essi ritrovino da soli la strada del comportamento razionale e lungimirante. Non è casuale, del resto, che anche i più accesi critici ottocenteschi 20 Cfr. Fagiani 1989; Viano 1989.

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della morale utilitaristica abbiano voluto riconoscere nel Pazopticon una proposta filantropica e ragionevole. L’idea che ogni individuo è un’entità insondabile e non malleabile stentava evidentemente ad affermarsi anche in piena età liberale o, quantomeno, si arrestava perplessa alle soglie della Corte dei miracoli. Giustizia distributiva significa dunque interferenza nelle scelte individuali, significa sovrapporre un giudizio di valore collettivo alle valutazioni dei singoli, ma — almeno in linea generale — la sfera della redistribuzione viene limitata in modo da non scoraggiare l'industria, dunque la crescita della ricchezza, non intaccare il fondamentale, primigenio desiderio di sicurezza di ogni essere umano e non ridurre in alcun modo la libertà morale degli individui nella loro sfera privata. Eguaglianza possibile, dunque, eguaglianza estremamente limitata, eguaglianza pruden-

te o meglio, scrive Bentham «diminuzione delle ineguaglianze»: un sistema di norme etiche illuminato e razionale non può tuttavia decretare l’impraticabilità almeno di questo circoscritto obiettivo. Sarebbe forse semplicistico proporre un’attualità del pensiero di Bentham sulla base di questo solo motivo, facendone un antesignano dello Stato del benessere, una voce che, da libri vecchi ormai di due secoli, si leva contro ogni ritorno di fiamma del liberismo più estremo, pur spiegando perché il mito di una società egualitaria sia irrealizzabile. Uno degli scopi di questo libro è anzi quello di mostrare fino a che punto l’opera del filosofo di Westminster sia datata, appartenga cioè ad un orizzonte culturale profondamente diverso dal nostro. Non si tratta dunque di riproporre l’ottica «benesserista» di Bentham tale e quale, quando due secoli di utilitarismo e antiutilitarismo hanno discusso, in verità con alterni giudizi, l’inadeguatezza di molti degli strumenti teorici adottati dal filosofo — dall’idea della comparabilità interpersonale degli stati di piacere e dolore, a quella di una sia pur rudimentale funzione cardinale di utilità, all'impostazione oggi nota come «utilitarismo dell’atto», solo per citarne alcune?! — e 21 Mi limito a qualche «classico»: L. Robbins, Ar Essay on the Nature and Significance of Economic Science, Macmillan, London 1935; R.F. Harrod, Utili tarianism Revised, in «Mind», XLV, 1936; Brandt 1959; J.J.C. Smart, B. Wil-

liams, Utilitarismo, pro e contro, ed. orig. 1973, Bibliopolis, Napoli 1985; R.M. Hare, Teoria etica e utilitarismo, in Utilitarismo e oltre, ed. orig. 1982, Il Saggiatore, Milano 1984. Per una discussione di questi temi cfr. T.W. Hutchison, Po-

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quando la prospettiva utilitarista, sia pure emendata e raffinata, si trova a dover fronteggiare la sfida di altre proposte normative per molti versi più convincenti, proprio a proposito del rapporto tra libertà individuali e posizione dei meno favoriti22. Il confronto con Smith e con l’economia politica di inizio Ottocento, da un lato, con la scienza della legislazione settecentesca, dall’altro, suggerisce tuttavia come sia corretto, in una pro-

spettiva «archeologica», far risalire proprio alle cesure linguistiche e teoriche introdotte da Bentham la genesi di una linea di pensiero moderna che ha assunto a problema centrale il miglioramento della situazione delle categorie meno favorite, la riduzione delle diseguaglianze e la protezione della persona dagli esiti indesiderati dell’agire altrui, pur nella consapevolezza dei vincoli oggettivi che sottostanno alla riproduzione materiale della società e delle complesse relazioni tra individui e sfera pubblica. Infine un’avvertenza: la mia ricerca si è occupata in prevalenza della prima, lunga fase del percorso intellettuale benthamiano, quella che comincia con gli scritti di diritto e di etica della fine degli anni Settanta e termina con il primo decennio del nuovo secolo, quando il filosofo, sotto l’influsso di James Mill, de-

ciderà di impegnarsi nella battaglia radicale per la democrazia rappresentativa e per la riforma del sistema politico inglese. La svolta del 1808-10, tuttavia, non costituisce una cesura radicale e non sarebbe difficile mostrare in che misura la riflessione del Bentham democratico inglobi, trasformandola parzialmente, la visione politica ed economica elaborata in precedenza. Il presente lavoro nasce da una rimeditazione della tesi di dottorato da me elaborata presso l’Università di Torino, sotto la direzione della professoressa Silvia Rota Ghibaudi, a cui va la mia riconoscenza per avermi spinto ad andare oltre i risultati allora raggiunti. Ringrazio i professori Arduino Agnelli, Massimo Augello, Marco Bianchini e Lea Boralevi, per aver letto una presitive Economics and Policy Objectives, Allen & Unwin, London 1964; M. Blaug, The Methodology of Economics, Cambridge University Press, Cambridge 1980, cap. 5; M. Bianchi, Utilità, in Dizionario di economia politica, a cura di G. Lunghini, vol. 10, Boringhieri, Torino 1985; Viano 1990. Cfr. infine i vari saggi raccolti in Caffè 1956 e Viano 1990. 22 Cfr. Rawls 1982; Veca 1986, cap. 1.

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cedente stesura di questo lavoro e avermi suggerito preziose integrazioni, come anche il professor Valerio Castronovo, che ha fin dall’inizio creduto nella mia impresa. I miei studenti, che hanno letto il dattiloscritto o parti di esso, e in particolare Giordana Colonna e Paola Fiorini, mi hanno aiutato a renderlo più intellegibile. Anche i suggerimenti di mia zia, Lea Stefanelli, hanno contribuito a dare miglior veste al testo finale. Ringrazio infine il personale della British Library, della Sala manoscritti della University College Library di Londra, della Bibliothèque Publique et Universitaire di Ginevra e della Fondazione Einaudi di Torino, per la cortese e competente collaborazione. Desidero infine ricordare John Dinwiddy, che in questi anni di studi su Bentham mi è stato maestro e amico e la cui scomparsa mi riempie di mestizia. Teramo, settembre 1990.

Parte prima

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Capitolo primo

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L'UOMO MECCANICO

I canoni della storia delle idee richiedono che l’indagine biografica preceda lo studio dei testi. Da essa dipende infatti la comprensione delle tappe che hanno scandito la vita dei pensatori e della vicenda sociale e culturale in cui si sono mossi. In effetti, un approccio non inteso come pura discussione teoretica non può

che accentuare la dimensione «peritestuale», mirando a ricercare nelle istituzioni sociali e culturali entro cui gli autori sono vissuti e i cui valori, linguaggi e codici essi hanno interiorizzato, una chiave di lettura decisiva per comprendere il loro pensiero!. Nel caso di Bentham, la quasi completa edizione della corrispondenza rappresenta un riferimento essenziale per questo genere di ricerca. Vi è tuttavia un secondo modo di avvicinare gli aspetti biografici di un pensatore, ricostruendo cioè l’immagine che egli stesso si forma della propria identità. Ciò non perché ci sentiamo partecipi di una visione romantica o idealista che trova nel soggetto il momento unificatore dell’opera?, ma in quanto il pensatore stesso si percepisce come autore e ordina la memoria della sua vita in modo da farne un insieme unitario e coerente con il contenuto della sua produzione. Si tratta allora di spostare l’attenzione dai dati biografici ai testi autobiografici, spesso sparsi nelle diverse opere dell’autore: prefazioni, appendici documentarie, opuscoli, infine autobiografie o memorie, come quelle redatte da

John Bowring, l’esecutore testamentario di Bentham, e seguite 1 Cfr. Berger-Luckman 1969; Bertaux 1981. Un’applicazione di questa imostazione è stata la ricerca collettiva sull’istituzionalizzazione dell'economia poFitica Cfr. Levan-Lemesle 1986; Augello et a/. 1988; Augello 1989; Barber 1988.

Per la nozione di «peritesto» cfr. Genette 1989. 2 Genette 1969, cap. 1; Foucault 1969, pp. 21-22.

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passo a passo dal filosofo stesso, che dedicò molto tempo a dettare i propri ricordi e rispolverare vecchi documenti che potessero aiutare il lavoro del discepolo. La biografia diviene, per questa via, parte integrante dell’opera dell’autore. Egualmente rilevanti sono certi segnali — racconti orali, riti quotidiani, abitudini, apparenze esteriori — «emessi» dall’autore e recepiti da coloro che lo frequentarono. Una loro testimonianza può trovarsi nelle memorie di alcuni di questi personaggi (Etienne Dumont, Samuel Romilly, John Stuart Mill, Samuel Parr, Jacques-Pierre Brissot de Warville, per esempio). Fonti preziose sono anche quegli affreschi biografici di cui l'esempio più ragguardevole è The Spirit of the Age del menzionato William Hazlitt (1825), come anche le voci dei repertori biografici, bio-bi-

bliografici o enciclopedici, opere certo di seconda o di terza mano, ma non di rado ispirate da intimi frequentatori di casa Bentham? o animate da intenti di rigore filologico, come il Dictionary of National Biography (1885) diretto da Leslie Stephen. E che dire dell’Encyclopédie nouvelle di Leroux e Reynaud (1836), che rompe l’impersonale e rituale elencazione dei caratteri del filosofo, per proporre un registro relativizzante, secondo cui non esiste un’identità unica, trasparente di Bentham, ma le tante immagini che ciascuno vuole attribuirgli: il metafisico vede in lui il discepolo di Helvétius, il democratico anglo-americano ne sottolinea la somiglianza con Franklin, per farne un mito fondatore della propria ideologia politica, il liberale ispano-americano lo immagina nella veste del saggio legislatore, da cui sperare un aiuto nella lotta per l'indipendenza. Si constatano così frequenze e consonanze, dal significato ambiguo, certamente, nella misura in cui, mentre possono rivelare caratteri o vicende su cui l’autore spesso insisteva, pongono

anche l’accento su quei dati che più sembrano rilevanti a chi li menziona, con la sua cultura e i suoi pregiudizi. Ma proprio in virtù di ciò esse sono doppiamente significative, nel gioco di specchi che viene a crearsi tra identità soggettiva, carattere dell’ope-

}? La voce Bentham della Biographie des hommes vivants (1816) è redatta, a detta di Bowring, da Edward Blaquière (benché sia firmata «R. et E.»). Cfr.

Bowring 1843, pp. 514-15.

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ra, immagine elaborata dall’autore e sua ricezione da parte di

spettatori benevoli o avversi*. Forse perché questo gioco appare tanto evidente nel caso di un carattere universalmente giudicato bizzarro come quello di

Bentham, forse perché la sua attenzione all’immagine è strettamente legata all’ambizione di divenire il grande codificatore degli Stati moderni, forse perché studiare lo sguardo degli altri ci sembra giusta nemesi storica nei confronti dell’autore del Paropticon, ci è parso opportuno dedicare questo profilo alla strategia benthamiana dell’identità.

L’osservatore

osservato

Il racconto dei primi biografi di Bentham tende a stabilire parallelismi talora espliciti, talora invece allusivi o ironici, tra vita del pensatore e contenuti della filosofia utilitarista. A tale scopo vengono selezionati i dati cui attribuire funzione emblematica: episodi, abitudini, caratteri del personaggio, opere importanti per il contenuto ma anche per le circostanze ad esse legate. Da simboli, quali sono nelle prime testimonianze, questi elementi diventano presto stereotipi, la cui semplice evocazione è carica di significato. Il racconto della formazione intellettuale del giovane Jeremy, nato nel 1748, tende a selezionare gli episodi che possono averlo condotto sulla strada dell’utilitarismo. Spicca tra tutti la lettura di De l’esprit di Helvétius, «quel libro famigerato»5; segue la precocità degli studi, già peraltro accompagnata, secondo alcuni, da un rigido dogmatismo; infine l’episodio del giuramento dei trentanove articoli della fede, imposto a tutti gli studenti che volessero accedere alle università inglesi (Bentham era entrato dodi-

cenne al Queen’s College di Oxford, per compiere studi giuridi4 Per costruire questo corpus, necessariamente molto parziale, sono stati uti-

lizzati i testi del periodo 1798-1900 recensiti nell’Index bio-bibliographicus notorum hominum, a cura di J.-P. Lobies, Pars C, Biblio Verlag, Osnabriick 1978, nonché le varie fonti dichiarate dagli autori delle voci biografiche da questo ricavate. Cfr. infra, Bibliografia, parte III. Mi sono inoltre avvalso delle indicazioni contenute in Dinwiddy 1984. 5 L'espressione è di Quérard 1840. Cfr. Leroux-Reynaud 1836; Larousse 1982; Vapereau 1876; Parisot 1834; Saghet 1886-1902; Raffalovich 1888, pp. XV-XVII.

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ci): racconta infatti egli stesso nei Memoîrs, che, pur giovinetto e inesperto, aveva trovato assurdo e penoso giurare per verità così astruses. Vengono così implicitamente sottolineati non solo l’in-

nato rigore morale, ma anche la genesi di uno dei più forti interessi benthamiani: quello per la ricerca di un linguaggio privo di ambiguità e di astrattezze metafisiche. L’inizio della carriera pubblica di Bentham è simbolizzato dalla subitanea rinuncia all’avvocatura, cui il padre lo aveva destinato”. È il momento della vocazione intellettuale. Saulo sulla via di Damasco; Rousseau e la «rivelazione» di Vincennes: i modelli letterari fanno risalire a un evento traumatico, a un’il-

luminazione subitanea, l’avvio di una grande carriera di studio e testimonianza, quasi che tutta l’opera non sia poi altro che esplicitazione di un’intuizione totale primigenia. Per spiegare il «trauma» benthamiano, alcuni preferiscono invocare ragioni oggettive, come la «debolezza del suo organo vocale»8, quasi a far risaltare la costituzione contemplativa del futuro filosofo. Questa versione non è del resto incompatibile con quella che punta sull'immediata, lucida quanto istintiva avversione per il corrotto mondo di «Judge & Co.» — la lobby dei giudici, come ironicamente amava definirla Bentham?. Per alcuni, secondo il racconto dello stesso Bentham (Indications respecting Lord Eldon, 1825),

l’episodio determinante era stata la conversazione con un collega avvocato, che gli avrebbe spiegato come il sistema delle propine, autorizzato dalla legge, rendesse vantaggioso dilazionare i processi!°. La funzione di questa versione è evidentemente quella di datare l'origine del forte e duraturo interesse del filosofo per la riforma della procedura giudiziaria. Altri utilizzano piuttosto la versione dei Merzoîrs, che pone in risalto, oltre a un maldestro

spirito conciliativo che avrebbe portato Bentham a consigliare i suoi primi clienti di rinunciare alle cause intentate, la vicenda di un clamoroso scacco, dovuto al non avere tenuto conto di un documento inaccessibile, ma che, citato dai suoi avversari, aveva 6 Bowring 1843, p. 37. Cfr. Penny 1835; J.M.l 1885. ? Quérard 1840; R. et E. (E. Blaquière) 1816; Blondeau 1819; Arnault 1821; Penny 1835; Rabbe et 4/. 1836; Molinari 1984; Allibone 1902; Larousse 1982; Dantès 1875; J.M.l 1885; Sagnet 1886-1902; J.B. 1925; Vivien 1833.

8 Arnault 1821; Quérard

1840.

? Quérard 1840; Raffalovich 1888, p. rv. Cfr. Dinwiddy 1989, p. 66. 10 Penny 1835, p. 245.

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assunto valore di precedente legale. Una variante questa che individua nell’episodio la vocazione a rimeditare da capo a fondo il common law inglese, criticandone l’indeterminatezza!!. Bentham diviene dunque un filosofo e giurista critico e irrequieto. Ma, per aver rinunciato alla professione legale, è anche in difficoltà economiche: emerge per questo, in molti resoconti, il mito del giovane letterato a pagamento, che traduce il Taureau blanc di Voltaire non solo perché ne condivide la visione spregiudicata, ma anche perché deve vendere la propria penna per vivere, come quei vivaci giovani letterati di Grub street, che si muovevano tra ristrettezze economiche, indipendenza spirituale e speranze di notorietà!2. Che di mito in parte si trattasse, lo rivela il fatto che il padre, in fondo orgoglioso dei progressi del giovane, sembra averlo assistito con una provvisione sufficiente!3. Dalla precaria vita dell’intellettuale a pagamento — ricordano i biografi — Bentham viene salvato in un modo classico per l'epoca: «scoperto», magari non proprio per caso!4, da un mecenate illuminato come Lord Shelburne (poi marchese di Lansdowne), egli entra, nel 1781, nel circolo di intellettuali e politici riformatori e radicali che si riunisce nelle ricche dimore del mecenate, come la residenza di campagna di Bowood. Qui — senza disdegnare gli svaghi e la compagnia delle dame — Bentham ha l'occasione di frequentare l’élite culturale e politica britannica. La protezione di Lansdowne non gli apre tuttavia la strada verso la carriera politica (come, in verità, almeno in un’occasione egli ha sperato)!?: lo status che, secondo molti biografi, la vita a Bo-

wood gli conferisce è piuttosto quello di mente brillante e ascol11 Reybaud 1842, pp. 206-7; JT.M.l 1885; Sagnet 1886-1902. Cfr. Bowring 1843, pp. 50 e sgg. 12 R. et E. (E. Blaquière) 1816; Arnault 1821, p. 354; Rabbe et alii 1836; Quérard 1840; Sagnet 1886-1902; Raffalovich 1888, p. v. Accanto a questa versione appare quella del «divertissement»: Bentham avrebbe tradotto Voltaire «pour se distraire». Cfr. Rabbe et alti 1836. Sulla figura dell’uomo di lettere nel XVIII secolo cfr. Saisselin 1988.

__ 1 Cfr. T.L.S. Sprigge, Introduction, a Correspondence, vol. I, pp. xx1v-xxvm. È però vero che Bentham ha dovuto seriamente pensare a vivere della propria penna tra il 1774 e il 1776, quando è innamorato di Mary Dunckley, partito che il padre non trova a lui confacente. Cfr. Burns-Hart 1977, pp. xxiv-xxv. 14 Cfr. Norris 1963, pp. 141-42; Molinari 1984; Larousse 1982; J.M.1 1885; Sagnet 1886-1902; Vivien 1833. 15 Sulla vicenda del seggio parlamentare che Bentham si era illuso gli fosse stato promesso da Shelburne, ctr. Bowring 1843, pp. 229-43.

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tata, consigliere del principe!s. Una versione fin troppo generosa, giacché il suo mecenate sembra considerarlo più come un fiore all’occhiello che come autorità da consultare, ma che continua a rafforzare l’immagine del Bentham scienziato e legislatore disinteressato. Se il giovane Jeremy è per tutti uomo di lettere bobère, poi gioioso frequentatore di Bowood, il pensatore dell’età matura e della lunga, vigorosa vecchiaia è costantemente ritratto come l’eremita che vive «come un anacoreta nella sua cella»!7 a Queen's Square Place, Westminster, nella dimora che era stata del poeta

Milton e che egli nel 1792 aveva ereditata dal padre, assieme a una fortuna tale da garantirgli finalmente l’ambita indipendenza. Come sempre, a taluni commentatori questa scelta sembra illustrazione perfetta di una filosofia che poco conosce l’animo umano!8, ad altri invece il coronamento di una vocazione totale ed esclusiva, spinta fino al sacrificio della propria persona. Non era stata questa la scelta di Rousseau? «L’opera da me incominciata — ricordava l’autore delle Réveries — non poteva essere eseguita che in un assoluto ritiro; richiedeva lunghe e pacate meditazioni, che il tumulto del mondo non sopporta»!?. Eppure quale differenza tra l’otium attivo di Bentham, aperto agli eventi del mondo e ispirato alla filantropia, e l’estraniamento di Jean-Jacques, mosso dal desiderio di cercare in se stesso, nel sentimento della propria esistenza, il candore e la verità che il mondo corrotto gli aveva negato. La vita romita viene spesso collegata a due abitudini peculiari: l'economia esatta, quasi religiosa, che governa le varie parti della giornata, ai cui diversi riti Bentham mai si sottrae, e le passeggiate attorno alla casa, compiute a ore fisse del giorno, a passo 16 Reybaud 1842, p. 219. 17 Hazlitt 1825, p. 190; Già S. Romilly in alcune lettere a Dumont degli anni Novanta descrive la vita appartata condotta da Bentham. Cfr. Romilly 1842, pp. 318-19. Sarà del resto lui l’unico ad avere l’onore di ricevere la visita di Bentham una volta all'anno. Cfr. Bowring 1843, p. 504; Parisot 1834; Penny 1835; Leroux-Reynaud 1836; Rabbe et a/. 1836; Quérard 1840; Reybaud 1842; Chasles 1973; Molinari 1984; Guyau 1879; J.M.l 1885.

18 Hazlitt 1825, pp. 190.91.

19 Rousseau 1964, p. 62. Southwood Smith (1843, p. 92) ricorda come questa scelta fosse concepita da Bentham necessaria per garantire a se stesso quell'indipendenza di giudizio che solo una vita lontano dai traffici e dagli interessi di categoria può garantire.

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«quasi di corsa»2°. Le passeggiate benthamiane non sono però solitarie occasioni per dare libero corso alla meditazione: vengono anzi imposte crudelmente ai visitatori e sono animate da vivaci conversazioni sulla politica del giorno. Anche qui, da un lato prevale l'elogio per un’organizzazione del tempo che massimizza lo sforzo intellettuale, e in cui la ritualizzazione dei gesti quotidiani è premessa di disciplina mentale e del distacco dalle preoccupazioni mondane?!, come era stato per il Kant di Thomas de Quincey?2. Non di rado, anzi, in una cultura che viene risco-

prendo il culto di Diogene, queste abitudini vengono associate ai costumi semplici e al vestire trascurato del vegliardo di Queen's Square Place, quasi a ribadire il «disinteresse perfetto»?? e la sincerità del suo apostolato di giurista e di critico della politica. É singolare che, più tardi, quasi a echeggiare questo apprezzamento, Bentham stesso sceglierà come motto del suo liberismo economico la celebre apostrofe del Cinico ad Alessandro: «Spostati un po’ dal [mio] sole!»24. : Tutto il contrario tra gli avversari. È stato sottolineato come queste abitudini stravaganti abbiano nociuto alla fama di Bentham. A leggere i primi biografi si ha piuttosto l'impressione che esse siano colte a pretesto per fare della vita del filosofo lo specchio di una filosofia giudicata inumana. Quale migliore prova di un animo privo del normale gusto per la varietà, l’imprevisto, le passioni momentanee e incorenti? Quale migliore esempio dell’intenzione di trasformare l’uomo in una macchina calcolatrice?25 Una carriera coerente, dunque, tutta dedita alla vocazione originaria, al punto, secondo alcuni, di non intendere l’uomo comune,

e proprio perciò sottoscrivere una visione meccanica e

«mostruosa». Tuttavia, anche il più impietoso dei critici di Bentham è pronto a riconoscergli la genuina volontà di presentarsi come filosofo-legislatore disincantato, alieno dagli «intrighi per20 Hazlitt 1825, p. 190. Cfr. R. Leroux-Reynaud 1836; Quérard 1840; Sagnet 1886-1902; Vivien 1833. 21 Reybaud 1842, pp. 198-99. 22 De Quincey 1827, passim. 23 Hazlitt 1825, p. 190; Reybaud 24 Oeuvres, vol. II, p. 200. Cfr.

et E. (E. Blaquière) 1816; Brissot 1830; Molinari 1984; Guyau 1879; J.M.l 1885;

1842, p. 222; Sagnet 1886-1902. Plutarco, Vita di Alessandro, Ed. Studio

Tesi, Pordenone 1989, 14.4. Sull’immagine di Diogene cfr. Herding 1989. 25 Hazlitt 1825, p. 192; Penny 1835, p. 246; Chasles 1973, p. 160; Guyau 1879. Cfr. inoltre Dinwiddy 1984, pp. 48-49.

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sonali e dalla politica di parte»26. Per significare ciò viene scelto un evento-simbolo: il rifiuto di un prezioso dono inviatogli nel 1815 dallo zar Alessandro I — speranza, ancora per poco, dell’intellettualità liberale europea — in segno di stima e di ricompensa per l’offerta di scrivere gratuitamente un codice di leggi per la Russia??. La lunga, macchinosa lettera con cui Bentham giustifica il rinvio del misterioso dono, neppure scartato dal suo involucro, viene spesso citata a dimostrazione dell’orgoglio, ma anche della rettitudine morale dell’autore, cui solo la gloria appariva meritato premio?8. All’immagine dello scienziato disincantato, si aggiunge per

questa via, tra l’altro, quella dell’amico dell’umanità, che offre i propri codici alla Russia, agli Stati Uniti, al Venezuela, al Messico, alla Spagna, al Portogallo, alla Grecia e alla Baviera, che

studia le lingue di tutto il mondo, che viaggia per meglio conoscere le abitudini, la cultura e la legislazione dei vari popoli??. Non tutte le biografie menzionano invece, in ragione della loro precocità o dell’incompletezza delle fonti cui attingono, la svolta politica degli anni 1808-10, allorché Bentham si associa al movimento radicale nella richiesta di una riforma parlamentare in senso democratico?9. L’immagine del legislatore universale, forse, mal si concilia per molti con questa così marcata scelta di campo. Un numero maggiore di volte — e sempre da chi condivide col filosofo un punto di vista laico e nemico dei pregiudizi — è invece menzionato l’episodio che segue la sua morte (1832): il sezionamento del suo corpo, donato per volontà testamentaria al laboratorio di anatomia dell'University College di Londra, in

26 Hazlitt 1825, p. 189. Cfr. Blondeau 1816, 1855; Arnault 1821; Vivien 1833; Parisot 1834; Penny 1835; Leroux-Reynaud 1836; Reybaud 1842, p. 219; Holland 1875; Vapereau 1876; Guyau 1879; Larousse 1982; J.M.1 1885; Sagnet 1886-1902.

2? Cfr. Correspondence, vol. VIII, pp. 467-87. Questa lettera fu pubblicata

dall’autore in Supplement to Papers Relative to Codification and Public Instruction (1817). Cfr. Works, vol. IV, p. 514 e ivi, vol. X, p. 478.

28 Hazlitt 1825, p. 189.

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29 Larousse 1982. Cfr. Blondeau 1816; Arnault 1821; Vivien 1833; Penny 35°

30 Arnault 1821; Vivien 1833; Mill, J.S. 1962, pp. 113-17; Reybaud 1842, p. 250; Blondeau 1855; Holland 1875; Guyau 1879; J.M.1 1885; Sagnet 18861902; Chasles 1973; J.B. 1925.

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una cerimonia solenne presieduta dall'amico medico Southwood Smith e a cui*assistono amici e collaboratori del «patriarca»?!. Quanto alle opere più citate di Bentham, esse sono quattro: il Fragment on Government (1776), primo frutto della vocazione

per la scienza della legislazione, sfida intellettuale rafforzata dalla scelta dell’anonimato; la curiosità suscitata dall’identità nascosta dell’autore era stata alla radice del successo delle Letters of Junius e Bentham, come egli stesso racconta, ambiva ripetere

l’exploit?2. L’obiettivo stesso del libro appariva ideale per lanciare un autore ancora sconosciùto: quale migliore presentazione

che «attaccare di fronte Blackstone, l’oracolo della giurisprudenza inglese»?33 Le molte citazioni di Defence of Usury (1787) sono dovute

alla rinomanza di questo opuscolo ultraliberista tra gli economisti europei, fin dall’epoca della Rivoluzione francese?4, e giustificano il fatto che Bentham venga definito dalla maggioranza dei biografi come «giureconsulto ed economista». Frequente è ancora il riferimento al Paropticon, «l’opera di tutta la sua vita»??,

«l’idea fissa di Bentham»?6. La passione per l’attuazione pratica di questa proposta viene variamente spiegata: i francesi, per esempio, preferiscono il registro filosofico, palesemente helveziano: «Se i malvagi conoscessero tutti i vantaggi della virtù, non sarebbero malvagi»?7. Ma vi è, nelle citazioni di questo saggio, un aspetto paradossale per noi, adusi a vedere nel Panottico l’archetipo della politica totalitaria: anche coloro che considerano Bentham l’autore di una filosofia immorale e nefanda trovano in quest’opera «punti di vista saggi e filantropici», scaturigine delle 31 Smith S. 1843; Bowring 1843, vol. XI, p. 76; Parisot 1834; Penny 1835; Leroux-Reynaud 1836; Molinari 1984, p. 501; Blondeau 1855; Dantès 1875; Holland 1875; Guyau 1879, p. 3; T.M.l 1885; Raffalovich 1888; p. Lx; Sagnet 1886-1902.

32 Cfr. Bowring 1843, pp. 77-79. 33 Arnault 1821, p. 354. Cfr. R. et E. (E. Blaquière) 1816; Penny 1835; Leroux-Reynaud 1836; Rabbe et al 1836; Molinari 1984; Quérard 1840; Holland 1875. 34 Molinari 1984, p. 500; Palgrave 1925; Chevalier 1852; cfr. Stewart 1855-

1856; vol. IX, pp. 156-57; Parnell 1830, p. 307. Sulle traduzioni francesi della Defence, cfr. Albertone 1991. 35 Quérard 1840, p. 280.

36 Reybaud 1842, p. 248. Cfr. Brissot 1830; Penny 1835; Leroux-Reynaud 1836; Holland 1875. 37 Quérard 1840, p. 280.

29

riforme penitenziarie dell’Ottocento?8. La ragione è intuibile: nessuno è scandalizzato dal fatto che la moralità sia considerata come una verità oggettiva, da poter imporre senza prevalicare la libertà degli individui; tutti approvano invece l’intento di creare prigioni salubri, razionali, promotrici delle virtù sociali, in un universo in cui il carcerale era ancora caratterizzato da violenze inumane??, Ultima opera spesso citata è la Chrestorzathia (1813-17), nella quale Bentham espone le sue idee sull’istruzione, sottolineando in particolare l’importanza, anzi la superiorità della cultura tecnica su quella letteraria e aderendo all’«economico» metodo educativo di Lancaster e Bell. L’esigenza di una riforma dell’istruzione attraversa, in effetti, tutto il XIX secolo e Bentham appare a molti un pioniere4°. Entra in gioco forse anche il fatto che era stato proprio l’interesse per l’istruzione a legare Bentham agli idéologues, a Brissot e agli ambienti massonici delle IX Soeurs, &

ramificati in tutta l’élite intellettuale europea"!. Veniamo ora ai caratteri del personaggio Bentham più spesso menzionati: nella linea di giudizio del pensatore disinteressato e critico si colloca l’idea che egli «mise in questione tutte le cose», come sostiene Bulwer Lytton (1833). Bentham

è colui che ha

ripensato da capo a fondo ogni tradizione ricevuta, sempre facendo affidamento sui propri strumenti concettuali, al punto di mostrare un ostentato disinteresse per le opere dei classici42, Identico concetto («il grande interrogatore di tutto ciò che è con-

solidato») ripeterà John Stuart Mill, l’ispiratore di Bulwer Lytton, nel celebre ritratto di Bentham del 1838: quivi, l'apparente disprezzo benthamiano per i grandi pensatori del passato viene assunto a esempio dei limiti della sua filosofia4, ma anche a spiegazione del suo esatto contributo: non di merito, in quanto le idee principali sarebbero prese a prestito da altri, ma di metodo, per avere cioè visto confusione e contraddizione laddove tut38 R. et E. (E. Blaquière) 1816, p. 286; Arnault 1821, p. 354; Molinari 1848, pp. 500-1.

39 Cfr. Rusche-Kircheimer 1978. 40 Raffalovich 1888, p. Lv; Palgrave 1925; Reybaud 1842, p. 249; Vapereau 1876; Larousse 1982; Leroux-Reynaud 1836. 41 Hans 1953. 42 Bulwer Lytton 1833, pp. 167-68.

43 Mill, J.S. 1962, pp. 79, 93-94.

30

ti vedevano invece una consuetudine cui conformarsi e vantaggi da sfruttare: «Chi, prima di Bentham [...], aveva osato parlare irrispettosamente, in termini espliciti, della Costituzione britannica o del diritto inglese»?4 Frequentemente Bentham è anche apostrofato come «spirito universale, cittadino del mondo in tutta la bellezza filosofica dell’espressione»4, anzi, perché no, «uno dei patriarchi di quella famiglia europea che cresce con il progresso delle sane idee politiche»*6. I commentatori francesi sottolineano a questo proposito il suo rapporto privilegiato con la Francia, dall’amicizia con Brissot all’interesse per la Rivoluzione francese, coronato nel 1792 dal conferimento della cittadinanza onoraria della Repubblica, alle lodi di Talleyrand e di Bonaparte, fino all’apoteosi del 1825, quando il vecchio filosofo visita la Francia e riceve gli applausi dei giudici del foro parigino, riuniti in seduta solenne. Il rovescio della medaglia di questa immagine di filosofo cosmopolita è quella di «un profeta» che «ha molto onore fuori dalla sua patria»48, un’etichetta che Bentham non riuscirà mai a scrollare dalla sua immagine, nonostante l’accresciuta notorietà degli ul-

timi decenni della sua vita. Quanto all’aspetto fisico del filosofo, sorprende la frequenza con cui i tratti del volto e della persona vengono associati a quelli di Benjamin Franklin. È vero che i biografi si copiano tra di loro, ma è vero che anche le notizie più brevi non trascurano di far risaltare questa somiglianza. Del resto una delle prime biografie, quella di Hazlitt, propone altri due paragoni, che invece vengono poco sfruttati: il poeta Milton e il leader whig Charles Fox. L’associazione ai tratti fisici di Franklin prevale dunque su due potenziali rivali per la sua forza semantica: essa serve evidentemente a enfatizzare «l'aspetto filosofico»*?, la bonomia filantropica, l’uomo dei Lumi, lo «spettatore pensoso delle scene della vita, o il ruminatore del fato dell’umanità», secondo l’ironica qualificazione di Hazlitt; altri evidenzieranno la comune capacità di

44 Ivi, p. 80. 45 Larousse 1982, p. 553. 46 Arnault 1821, p. 355.

47 Quérard 1840, p. 282; Reybaud 1842; Molinari 1984; Sagnet 1886-1902.

48 Haglitt 1825, p. 189.

49 Ivi, p. 191.

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lavoro0 e, perché no, l'essere entrambi partecipi, da pari a pari, di un’élite sociale e intellettuale, dagli insinuati quanto improbabili legami massonici. Se questi caratteri confermano l’immagine del filosofo e del filantropo, ve ne sono altri dallo statuto più ambiguo: ripreso più volte, a partire da Hazlitt, è il tema dell’eterno bambino «nei comportamenti in generale e in tutto eccetto che nelle sue imprese professionali»?!: il candore mostrato da Bentham, spesso collegato alla bonomia e allo spirito filantropico che lo animava, viene assunto, come sempre, a conferma della moralità della filosofia utilitarista?2 o invece come prova dello straordinario contrasto tra vita e opera?3, ovvero ancora, sosterrà J.S. Mill, come fattore che ne spiega la povertà e l’unilateralità. La salute costante, unita alla quiete dell’esistenza reclusa, avrebbe impedito a Bentham di conoscere, assieme al dolore, le grandi gioie e i grandi entusiasmi della vita, facendone un «orbo» e «un bambino fino alla fine». Già Hazlitt aveva sviluppato il tema scrivendo che egli «non ha dato conto del vento»??. Ci troviamo con questo al culmine della polemica romantica contro la filosofia dell’utilità, quella polemica che, ripresa da Carlyle, condurrà alla «conversione» milliana: l'essere umano non è una macchina egoista, né è costretto dalla sua natura a limitarsi al proprio interesse materiale, bensì è vario e disponibile all’incontro con gli altri. E l'individuo, capace di sentimenti elevati e generosi, sa contemplare quel «bello morale» staeliano che niente ha a che fare con

il calcolo prudente. L'eroe, non il meschino mercante, deve essere additato a modello. Anche lo stile adottato da Bentham nel comporre le sue opere è universalmente criticato: «eccessivamente topico», «arido e minuzioso», pieno di parentesi ed eccezioni, per di più peggiorato nel tempo, dalle arguzie dei primi saggi ai pedanti scritti della 50 Molinari 1984, p. 500. Cfr. Vivien 1833; Leroux-Reynaud 1836; Quérard 1840; Chevalier 1852; Blondeau 1855; Larousse 1982; Guyau 1879; Sagnet 1886-1902; Chasles 1973.

51 Hagzlitt 1825, p. 190. Cfr. Penny 1835; Leroux-Reynaud 1836; Holland

1875; J.M.1 1885. 52 53 54 55

Raffalovich 1888, p. 1. Larousse 1982, p. 553. Mill, J.S. 1962, pp. 96-97. Hazlitt 1825, p. 192.

D2

maturità”. Il tema è sfruttato dai detrattori di Bentham: quale migliore esempio dell’unilateralità e della misantropia dell’uomo e dell’opera? «C’è qualcosa di sdegnoso nel suo linguaggio e di amaro nella sua eloquenza», recita una biografia del 1821, quasi

che il filosofo scrivesse unicamente «per confortare il proprio spirito»?7. Conclude Hazlitt con una battuta divenuta celebre: «I suoi lavori sono stati tradotti in francese: dovrebbero essere tradotti in inglese»?8. Viene spesso sottolineato anche il disinteresse di Bentham per la pubblicazione delle proprie opere, ma, di nuovo, con valutazioni opposte, che ne fanno un ulteriore esempio del suo disprezzo per l’umano genere o invece la prova di un carattere «modesto quanto studioso»5?. Universale è in questo contesto il ricordo del devoto amico Etienne Dumont, il pastore ginevrino che dedicò gran parte della sua esistenza a emendare e pubblicare (in lingua francese) le opere di Bentham: a lui vanno le lodi unanimi di tutti icommentatori, che lo considerano il vero responsabile della fama del filosofo. Ultimo aspetto sovente richiamato è la convinzione benthamiana di essere all’origine di una nuova, duratura scuola di pensiero. Viene talora ricordato un sogno che il filosofo avrebbe una volta raccontato ai suoi convitati, quello di poter trascorrere ogni anno che gli restasse da vivere alla fine di ogni secolo futuro, per constatare di persona gli effetti che le sue idee avrebbero avuto sul mondo. Inutile dire con quale ironia questo episodio venga ricordato dai detrattori®0, Modesto conoscitore dell’animo umano, predicatore di una

morale meschina, carattere parziale, oppure devoto nunzio dell’utilità: Bentham diviene comunque «l’uomo da una sola idea»: un'espressione, questa, che viene di solito attribuita a Leslie Stephen, ma che nasce in realtà coralmente, ed è per la prima volta formulata in un’articolo del 18365!. 56 Hazlitt 1825, p. 198; Vivien 1833; Parisot 1834; Penny 1835; Mill, J.S. 1962, pp. 123-24; Quérard 1840; Allibone 1902; Larousse 1982; Holland 1875; Vapereau 1876; J.M.1 1885; Sagnet 1886-1902; Sismondi 1829, p. 262. Sull’origine di queste critiche cfr. Dinwiddy 1984, pp. 49-51. 57 Arnault 1821, p. 353. 58 Hazlitt 1825, p. 199.

59 Rabbe et a/. 1836. 60 Hazlitt 1825, p. 191.

61 Leroux-Reynaud 1836, p. 591. Cfr. Hazlitt 1825, p. 200; Quérard 1840,

p. 282; Mill, J.S. 1962, pp. 91, 98; Stephen 1900, p. 234. 33

Nell'insieme, due sembrano essere i poli attorno a cui ruotano i giochi di identificazione, parallelismo e contrasto tra l’immagine dell’autore Bentham e i contenuti della sua opera: l’antropologia e l’etica utilitarista, da un lato, la scienza della legislazione dall’altro, sempre interpretata come critica della politica. Ma in che misura e quali di questi accostamenti sono pilotati da Bentham stesso? Molti indizi lasciano intuire che l’immagine rilevata dagli osservatori non è composta di atti irriflessi e puramente caratteriali, ma deriva da una meditata preoccupazione per l'apparenza.

Vivere secondo utilità

Percorrendo i corridoi dell'University College di Londra, si può ancor oggi scoprire una vetrina nella quale siede uno strano personaggio dal volto di cera: è l’auto-icon di Bentham, composto dai resti ossei del filosofo, coperti di paglia e rivestiti degli abiti che egli portava abitualmente, con tanto di cappello a larghe tese e bastone. Gabbia di uccelli a parte (un paropticon?), la posa ricorda straordinariamente quella del Thérapeute di Magritte. I fondatori dell’università londinese vollero così adempiere a una volontà testamentaria del filosofo, come spiega un manoscritto, riprodotto su un’anta della teca di vetro: esponendo il suo simulacro, Bentham intendeva fornire ai discepoli un punto di riferimento tangibile, il simbolo di un’idea e di una filosofiaS2. Niente meglio di questa ieratica immagine finale potrebbe illustrare gli intrecci cercati tra pensiero e persona, il desiderio di mostrarsi, per mostrare una morale in atto e in simbolo. Si è già visto come i crescenti successi delle sue opere avessero convinto Bentham di essere all’origine di una scuola di pensiero dai destini duraturi e una lettera a Dumont, che gli aveva chiesto se i suoi seguaci potessero chiamarsi «benthamiti», rivela un palese orgoglio, appena celato dall’ironia: «Benthamita? che sorta di animale è questo? [...] E vero che una nuova religione sarebbe una strana cosa senza un nome: perciò se ne dovrebbe trovare uno, se non 62 Cfr. UCL'CXLIX 20%

34

altro per coloro che la professano. Utilitarista [utilitarian] [...] sarebbe il più propre»93. L’idea iperrealista di esporre il proprio auto-icon non si comprende al di fuori di questa simbologia di rifrazioni. Per di più, con tutto il suo carico dissacrante, la reliquia sottolinea l'influsso modernizzatore, ostile ai pregiudizi e alle superstizioni che la filosofia utilitarista intendeva portare fin nei gesti quotidiani e nelle apparenze. Il resoconto dalle tonalità evangeliche delle ultime ore del filosofo, fornito da Southwood Smith, ne è esempio: Qualche tempo prima della sua morte, quando fu fermamente persuaso di essere prossimo all’ultima ora, disse a uno dei discepoli, che lo stava vegliando: «adesso sento che sto morendo: la nostra preoccupazione deve essere di minimizzare il dolore. Non fare entrare alcuno degli inservienti nella stanza, e tieni lontani i giovani: sarebbe penoso per loro e non potrebbero essere di alcun ausilio. Tuttavia non devo restare solo: resterai tu con me, e tu solo; così avremo ridotto il dolore all’infimo ammontare possibile».64

Un altro episodio significativo, per comprendere l’attitudine di Bentham verso la propria immagine pubblica, si colloca all’estremo opposto della sua esistenza. Il racconto della formazione intellettuale comincia nei Merzoîrs con una lettura appassionata di Jeremy ancora bambino: quella del Té/érzague di Fénelon. In esso, egli dice, vidi l'esibizione di forti affetti; e da forti affetti, qualunque ne fosse la causa [...], mi lasciai permeare con la rapidità con cui l’acqua è assorbita da una spugna. Quello spirito romanzesco [rorzarce] può essere considerato come la testata d’angolo dell’intero mio carattere, la stazione di partenza da cui prese il via la carriera della mia vita. Il primo albeggiare del principio di utilità nella mia mente può, penso, essere ricondotto a esso.$5

Coincidenza singolare, la lettura di Fénelon nella casa di Madame de Warens aveva avuto per il giovane Rousseau lo stesso 63 Lettera di J. Bentham a E. Dumont, 28 giugno 1802, in Correspondence, vol. VII, p. 65. Vale la pena osservare che la convinzione di John Stuart Mill di essere stato il primo, assieme ai suoi giovani amici, a usare il termine utilitarian è infondata. Cfr. Mill, J.S. 1981, p. 63. 64 Bowring 1843, vol. XI, p 95 65 Bowring 1843, p. 10. Cfr. anche ivi, p. 79.

35

rilievo originario e fondatore66. Per situare questo ricordo occorre considerare che esso è dettato da Bentham negli ultimissimi anni della sua vita; la sua filosofia, al pari dell’esistenza, erano

già state raggiunte dalle ormai note critiche: freddo calcolo, arido e materiale egoismo, misantropia e splendido isolamento. Molti avevano anche rilevato con disapprovazione l’ostilità del filosofo per la poesia, da lui considerata come espressione confusa e ambigua, oppio dei popoli”. L’episodio del Télemague è probabilmente pensato allo scopo di replicare a questo coro di critiche: Bentham aveva voluto fare della sua vita lo specchio di una morale razionale e disincantata sì, ma filantropica, mossa dalla «forza della simpatia». Spiegare l’intuizione primitiva dell’utilità con la romance, significava correggere l’immagine negativa che si era creata, affermando che il calcolo dei piaceri e dei dolori non è in contrasto con quel «bello morale» che i romantici e i filosofi «germanici» contrapponevano all’edonismo del XVIII secolo, come farà notare il giovane editore ginevrino AntoineElysée Cherbuliez, in una pagina della rivista «l’Utilitaire» da lui fondata88. Nei Memoirs — opera da prendersi quindi non come archetipo, ma come replica alle biografie «ostili» — Bowring insiste di proposito su tutti i segni di sensibilità estetica e morale del filosofo: l’acuta attrazione per le bellezze della natura, la passione per la musica, l’amore per gli animali?. Quanto alle pesantezze dello stile benthamiano, Bowring, pur ammettendole, si sentirà

in dovere di prenderne le difese, facendo notare che molti dei neologismi creati da Bentham erano stati poi adottati dalla pubblicistica corrente (internazionale, codificare, massimizzare, mi-

nimizzare ecc.), e che la pretesa «scempiaggine delle sue enumerazioni» (Sismondi) o l’eccesso di parentetiche avevano lo scopo

di evitare inutili obiezioni?0. Due ulteriori esempi rivelano lo sforzo del filosofo per creare un’immagine coerente di sé: la giustificazione dell’isolamento e 66 Rousseau 1964, p. 60. 67 Cfr. A Table of the Springs of Action, in Deontology, p. 52. Cfr. Hazlitt 1825, p. 200; Leroux-Reynaud 1836; Mill, J.S. 1962, pp. 122-23. 68 «L’Utilitaire», II, 1830, p. 15: «La teoria del bellomorale appartiene eminentemente alla nostra scuola». 69 Bowring 1843, pp. 8-9, 17, 32. 70 Ivi, pp. 62, 668-69; Sismondi 1829, p. 262.

36

l’identificazione di se stesso con il legislatore universale. Bentham, nella corrispondenza, si riferisce spesso a sé come a un eremita. Due sono le qualificazioni prevalenti di questa scelta: in primo luogo la coscienza di una missione teoretica da adempiere: «Frattanto — scrive al cugino Mulford — me ne sto seduto a scrivere qui in questo mio eremo, senza vedere nessuno se non per qualche speciale ragione, e sempre mirando al servizio dell’umanità»?!. La seconda spiegazione è la volontà di mantenersi al di fuori della polemica ideologica e militante, senza per questo rinunciare a precise scelte di campo. Quando i coordinatori della Mutual Improvement Society, per bocca di Thomas Tucker, lo invitano a presiedere un banchetto, egli oppone un cortese rifiuto, spiegando, in un’affettuosa lettera, la sua scelta di rimanere appartato per lavorare ai grandi progetti teorici da lungo tempo avviati?2: il Constitutiona! Code sarebbe potuto divenire la bibbia dei democratici di tutto il mondo, solo a condizione che il suo autore conservasse il ruolo di filosofo disinteressato e imparziale. Ne scaturisce una conclusione: se questi sono i registri prevalenti nella spiegazione benthamiana dell’eremitaggio, l’interpretazione negativa che più di un testimone ne dà è dunque un effetto imprevisto, da attribuire in larga parte alla diffusa avversione verso la filosofia dell’utilità. Anche la figura del Bentham legislatore universale è costruita gradualmente dall’autore stesso. Principale veicolo ne sono le lettere inviate nel corso della sua vita a sovrani, ministri, capi di stato, sempre allo stesso scopo: candidarsi come estensore di un codice di leggi??. Lo schema di queste dichiarazioni è sempre lo stesso: critica della confusione e dell’incertezza in cui vive una nazione che non disponga di un complesso sistematico di leggi scritte; proposta di sé come redattore di queste leggi; garanzia delle proprie capacità nello specimen fornito con i Traités de législation civile et pénale — opera di grande successo pubblicata gra-

zie a Dumont nel 1802 — e più tardi con il primo volume del 71 Lettera diJ.Bentham a Mr. Mulford, 1° novembre 1810, in Correspondence, vol. VIII, p. 78. i 72 Bowring 1843, p. 505. 73 Lettera diJ].Bentham a J. Madison, 30 ottobre 1811, in Correspondence, vol. VIII, pp. 183-215; Lettera di J. Bentham a Alessandro I di Russia, giugno 1815, ivi, pp. 464-87; Lettera di J. Bentham al re di Baviera, 1827, in Works,

vol. X, p. 578.

37

Constitutional Code; infine gratuità del servizio: unica ricompensa, la fama. La maggior parte di queste proposte rimangono inascoltate o ricevono ringraziamenti di circostanza. Solo con le rivoluzioni liberali di Spagna, Grecia e Portogallo, negli anni Venti, giungono a Bentham le prime concrete richieste?4. Ma la triste sorte di questi moti si tramuterà nell’ennesimo scacco. Per questo, forse, anche quando le opinioni di Bentham saranno ormai chiaramente democratiche, egli non disdegnerà di offrire i suoi servigi a quelli che considera sovrani illuminati: è il caso della già menzionata lettera al re di Baviera, nella quale Bentham non cela il suo imbarazzo nel presentarsi come l’autore di un’opera, il Constitutional Code, le cui tendenze politiche non potranno essergli certamente gradite. La costante speranza di esercitare un’influenza decisiva sulle leggi di qualche paese — vero obiettivo primo dell’esistenza del filosofo — appare anche dal sapiente e ricercato miscuglio di opere teoriche, pamzphlets e progetti concreti che caratterizza tutta la produzione benthamiana. Del Fragmzent on Government si è già detto: saggio brillante e polemico, esso era la punta emergente di un’ampia ricerca sulla definizione e sui caratteri delle «leggi in generale». Analogamente, quando, sul finire degli anni Ottanta, ha ormai completato le linee generali del suo Projet d’un corps de loi complet, Bentham idea una serie di Political Essays, al modo di Hume, per mettere in luce gli aspetti più innovatori e sconcertanti della sua riflessione: tra i titoli più significativi troviamo saggi On Usury, On Lotteries, On the Extension of Escheat, On

Oaths e On the Maintenance of the Clergy, tutti temi dei quali egli si sarebbe di lì a poco occupato con proposte concrete?5. Anche il Panopticon e altri scritti sulla riforma del sistema penitenziario sono la ricaduta pratica di una riflessione sul diritto penale che data dalla metà degli anni Settanta. La pubblicazione della corrispondenza completa di Bentham mostra quanto spazio quel progetto avesse assunto nella sua esistenza, tra il 1794, quando il Penitentiary Act del parlamento britannico decreta la costruzione di un carcere sul modello di quello ideato da Bentham, affi-

74 Cfr. Works, vol. X, pp. 514, 534-35, 539. 7 UCL XCIX, 180. Cfr. Defence of Usury (1787), in EW, vol. I; Supply UR Burthen or Escheat vice Taxation (1795), ivi; Swear Not at All, in Works, vol. V.

38

dandogli l’esecuzione materiale del progetto, e il marzo 1802, allorché il Cancelliere dello Scacchiere deciderà di porre definitivamente fine all’esperimento?5. Analoga è la connessione tra i lavori di economia politica degli anni Novanta e i numerosi progetti finanziari proposti prima alla Francia rivoluzionaria, poi al governo britannico: una cartamoneta portante interesse destinata a ridurre il debito pubblico, una restrizione del diritto di successione a vantaggio dello stato, la creazione di lotterie e così via. Queste proposte ricevono attenzione da parte dei ministri in carica, ma nessuna giunge, ancora una volta, a essere attuata. Maggiore considerazione Bentham riceve invece, nel 18061807, quando propone misure per la riforma dell’organizzazione giudiziaria della Scozia. Una serie di circostanze favorevoli lo aiuteranno: intanto il suo lavoro teorico sulle prove giudiziarie e sulla procedura penale, noto ai molti uomini politici che lo frequentavano, appare più nuovo e indispensabile; inoltre, gli anni del governo Grenville-Fox si presentano, almeno agli inizi, come una stagione di riforme; infine la fama di Bentham è ormai consolidata grazie ai Traités?. Risale proprio ad allora una lettera dell'amico Dumont che invita il filosofo a mettere da parte «daemon pamphlet per dedicarsi invece alle cose davvero importanti, come le sue grandi opere teoriche sulla procedura giudiziaria?8. Assieme al rimprovero rivoltogli qualche anno prima dal fratellastro Charles Abbot, presidente della Camera dei Comuni, il quale gli paventava il rischio di vedersi screditato come bizzarro «faiseur de projets»7°, quell’invito contribuirà a stimolare Bentham, ormai circondato dalla pubblica stima, a prendere le distanze dalla politica concreta e assumere definitivamente l’identità del grande codificatore.

76 Cfr. Correspondence, voll. V-VII. 77 Cfr. J.R. Dinwiddy, Introduction a Correspondence, vol. VII, pp. xx1m-

XXVI.

78 Lettera di E. Dumont a J. Bentham, 3 novembre 1807, ivi, p. 451.

79 Lettera di Ch. Abbott a J. Bentham, 3 agosto 1800, in Correspondence, vol. VI, p. 342.

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Parte seconda

VISIONE: ETICA UTILITARISTICA E SCIENZA DELLA LEGISLAZIONE

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Capitolo secondo

IE COMANDO

DEL SOVRANO

Su un punto la memoria di Bentham risponde al vero: il Fragment on Government, pubblicato nel 1776, è davvero l’inizio di

tutto. Frutto di due anni di lavoro dedicati a criticare i Commentaries on the Law of England di William Blackstone (17651769)!, il Fragment, assieme al più voluminoso (ma non pubblicato) Comment on the Commentaries, contiene i germi dell’intera concezione benthamiana della politica: il rifiuto della teoria del diritto naturale; una spiegazione della natura delle leggi e del governo programmaticamente fondata sull’osservazione empirica; l'elaborazione di un linguaggio interamente riconducibile ad asserzioni di fatto; la costruzione di una teoria dell’azione umana e dei suoi moventi che serva a spiegare le relazioni politiche; infine, una chiara definizione del principio di utilità. Un esordio letterario a sensazione, quello scelto da Bentham, segnato dall’intento di proporre una radicale rifondazione del linguaggio politico, in polemica con la tradizione giusnaturalista e l'ideologia whig, di cui l’opera blackstoniana costituisce il coronamento. Alla polemica seguirà presto la costruzione: già alla fine del 1776 Bentham progetta un lavoro sull’intera scienza della legislazione, denominato nei suoi appunti come «Critical Elements of Jurisprudence», da cui scaturirà la Theory of Punishment, in seguito pubblicata da Dumont (1811), poi le due opere, l’Introduction to the Principles of Morals and Legislation (1880-89) e Of Laws in General (1880-82), che rappresentano il

fondamento di tutto il suo edificio teorico?. 1 Blackstone 1765-68, 1. 1. 2 Cfr. Burns-Hart 1977.

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Il diritto naturale di Blackstone

La versione blackstoniana della teoria del diritto naturale si ispira senza grande originalità all’ottimismo metafisico e razionalista di Grozio, ma soprattutto di Pufendorf e di Locke?. Mescolando gli argomenti canonici della teologia naturale con prove tratte dalla sacre scritture, il professore oxoniense muove dalla distinzione tra leggi di natura fisiche, che sono osservate invariabilmente dagli enti privi di volontà, e leggi di natura morali, universalmente prescritte agli esseri umani da un dio infinitamente potente, saggio e buono. Anch’egli sottomesso a tali leggi, il creatore ha dotato ciascuno del libero arbitrio e della ragione, affinché scelga volontariamente e scientemente di conformarsi ai suoi comandi*. Per aiutarli nel loro sforzo, tuttavia, egli ha predisposto il creato in modo che legge di natura e interesse individuale (se/f-/ove) tendano a coincidere, cosicché ogni persona, perseguendo l’uno, promuova spontaneamente l’altra”. Le leggi umane (designate nei Comzentaries come «diritto municipale»), sono, e al contempo devono essere, «esplicitazioni» della legge naturale6. Sono dunque valide e moralmente vincolanti solo se si conformano a questa e gli esseri umani hanno non solo il diritto, ma finanche il dovere di resistere a tutto ciò che se ne discosta”. Bentham individua nel carattere assoluto e generico delle leggi di natura il loro difetto essenziale. L'umanità è vincolata ad obbedirle senza riserve, ma i loro comandi sono spesso contraddittori. Ad esempio, il precetto di non fare del male ai propri simili, se applicato rigorosamente, entra in contrasto con il dovere altrettanto naturale di assicurare la giustizia punendo i rei?: come decidere allora quale dei due sacrificare? E se è necessario fare appello in tali casi a un criterio di utilità, perché passare attraverso la macchinosa mediazione del diritto naturale? Egual3 Blackstone, 1765-68, 1. 1, pp. 41, 52. Locke è spesso citato, cfr. ivi, pp. 7, 122. Sulla tradizione giusnaturalista cfr. Tully 1985; Vereker 1967, Viner 1972. 4 Blackstone 1765-68, l. 1, p. 39. 5 Ivi, p. 40.

6 Ivi, p. 42. 7 Ivi, p. 43.

8 Comment, p. 16. Cfr. Harrison 1983, pp. 80-84. ? FG, p. 444 (trad. it., Un frammento sul governo, a cura di S. Marcucci, Giuffré, Milano 1990, p. 111).

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mente contraddittoria e superflua è la nozione di contratto sociale ripresa anche da Blackstone. Forse utile in passato per alimentare l’opposizione ai governi dispotici, essa non è più necessaria alle menti illuminate che sappiano avvalersi del principio di utilità. «Questa chimera — conclude seccamente Bentham — è stata efficacemente demolita dal signor Hume»!0. Anche il dualismo diritto naturale-diritto «municipale» contiene ambiguità. Ambiguità innanzitutto quanto alla fonte del giusto e dell’ingiusto: è il sovrano, suzzzz4 potestas, a stabilire con i suoi mandati le regole «della condotta civile», eppure egli non

deve far altro che proibire ciò che è per natura ingiusto e ordinare o permettere ciò che per natura è giusto!!. Si verifica in

questo modo una sovrapposizione tra essere e dover essere, tra morale e diritto, da cui deriva, per esempio, che i comandi del sovrano vengono distinti in legali e illegali, ovverossia che una legge è tale solo se coincide con ciò che dovrebbe essere. Occorrerebbe a questo punto un criterio chiaro e univoco per distinguere le leggi dalle non-leggi, ma il linguaggio giusnaturalista manca proprio di questa determinatezza: è inevitabile dunque che insorgano divergenze di valutazione, dato che — sostiene Bentham sulla scia di Hume e Smith — una morale oggettiva è inaccessibile alla mente umana!?, e dietro affermazioni tanto assolute sul giusto e sull’ ingiusto si nascondono sentimenti puramente personali di approvazione e disapprovazione. È legale ciò che è conforme a natura, sostengono Blackstone e i suoi maestri: allora è legale, replica Bentham, quanto piace a ciascuno che sia tale e il linguaggio giusnaturalista è intrinsecamente anarchico, perché conduce a una resistenza intransigente a tutti i governi

civili, alla discordia e alla lotta senza quartiere!:. Tanto più paradossale appare questo esito se si considera la

torsione fortemente conservatrice che Blackstone imprime alla sua esposizione: l’essere umano è bensì libero di scegliere se adeguarsi o meno al dettato divino, ma l’onnipotente dispone dei mezzi per farsi obbedire «necessariamente» e «inevitabilmente». 10 FG, p. 439 (trad. it., p. 104). Cfr. Blackstone 1765-68, l. 1, p. 47; Hume 1978, II.II. vu.

11 Comment, pp. 53-54. 12 Cfr. Zanini 1991. 13 Comment, pp. 54-55.

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Donde la conclusione che «ogni cosa è tale quale dev’essere»!4, che richiama alla nostra mente la formula hegeliana secondo cui «tutto il reale è razionale». La scienza della legislazione benthamiana, all’opposto, è nemica di ogni conservatorismo aprioristico: «un sistema che non deve mai essere censurato, non sarà mai migliorato»!?. Tutte le critiche di Bentham si riassumono tuttavia in una: la distinzione tra leggi di natura e leggi positive è una mistificazione, che crea confusione attorno al reale significato di «legge». Mostrandosi partigiano di un empirtismo radicale, prolungamento del newtonismo morale di Hume e di Smith!6, Bentham propone una definizione di legge i cui termini linguistici siano senza residui e univocamente riconducibili all'esame diretto dei sensi. Una legge «è una riunione di [...] quelle parole che sono segno di, o che servono a esprimere, possiamo dire, una volizione». La definizione, come vedremo, non è completa, ma proprio così mette meglio in risalto gli scopi polemici di Bentham. Una volizione è il modo di una sostanza, l’essere umano, ed è costituita da un

insieme di parole, vibrazioni dell’aria o segni scritti su carta: questi segni esistono e sono stati emessi da questo o quel soggetto

particolare, identificabile. Di contro, le leggi di natura, per quanto siano precetti, possono essere chiamate «leggi» solo in un senso «immaginario»!7, non esistendo un soggetto concreto che le abbia pronunciate. Né si può invocare, a questo proposito, la volontà divina; la rivelazione, infatti, è generica e imprecisa, può fornire al massimo una «sanzione» (cioè una classe di moventi

dell’agire), con la prospettiva di pene e ricompense ultraterrene, ma non «precetti»!5. Quanto alla teologia naturale, prendendo le mosse dal dio della ragione quale autorità da cui scaturirebbe la legge, essa commette un bysteron-proteron, giacché «non è dagli attributi della Divinità che si può derivare un’idea delle qualità presenti nell’uomo: al contrario, è partendo da ciò che vediamo 14 Ivi, p. 13; Blackstone 1765-68, 1. 1, p. 49. 15 FG, p. 399 (trad. it., p. 45). 16 Cfr. Hume 1978, «Introduction»; Smith 1980, I. 1-7; II. 7-10; Dal Pra 1974, pp. 14-16; Cremaschi 1984, pp. 21-67. 17 Comment, pp. 7-8. 18 Ivi, pp. 22 sgg. E da notare che dalla stessa constatazione muoverà qualche anno più tardi Paley, per fondare il proprio utilitarismo teologico. Cfr. Paley

1828, pp. 3-4.

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delle qualità degli uomini che possiamo formarci una vaga idea degli attributi della Divinità»!?. Senza cadere in un ateismo che sarebbe non meno metafisico, Bentham relega in questo modo la religione al di fuori della sfera della morale e della politica. Relega però anche il diritto al di fuori dell’etica, concludendo che solo le leggi positive possono essere chiamate tali. I criteri di valore contenuti nel paradigma giusnaturalista, per quanto imprecisi e contraddittori, possono essere usati per criticare le leggi, ma non sono legge essi stessi?0,

Le leggi quali sono

Che cosa è dunque una legge? È l’espressione di una volizione, si è visto, ma una volontà è legge solo se pronunciata da un sovrano determinato nell’esercizio delle sue funzioni. E poiché egli è sumzzza potestas, il suo comando «può essere crudele, può essere impolitico, può essere incostituzionale: ma non può essere

illegale»?!. Che cosa sia poi un sovrano viene definito da Bentham in modo del tutto empirico. Anzi tale definizione non può che darsi contestualmente a quella di comunità politica; è di per sé, cioè, una relazione. Scrive Bentham: Quando si suppone che un certo numero di persone (che possiamo chiamare sudditi) siano avvezze a obbedire a una persona, o a un insieme di persone di una ben nota e certa categoria (che possiamo chiamare governante o governanti), si dice che queste persone nel loro complesso (sudditi e governanti) sono in uno stato di società politica.?2

Comando del sovrano e disposizione dei sudditi a obbedirne la volontà «in preferenza alla volontà di ogni altra persona»?> distinguono una «società politica» da una «società naturale», che 19 FG, p. 450 (trad. it., pp. 118-19). 20 Comment, p. 54. 21 OLG, pp. 1, 16; Pannomial Fragments, in Works, vol. III, p. 219; Comment, p. 7; Agnelli 1959, p. 17; Loche 1987, p. 146.

2 FG, p. 428 (trad. it. 89-90). 23 OLG, PAIS. Gir: Works, vol. III, p. 219.

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non è mai esistita in forma pura e di cùisi può avere soltanto «un'idea negativa»?4. La nozione di disposizione a obbedire viene invocata da Bentham anche per spiegare la possibilità tanto di una limitazione per legge della sovranità quanto di una sua suddivisione?5. La costituzione è una sorta di privilegio concesso dal sovrano al proprio popolo e consiste nella promessa «di non emanare alcuna legge, alcun mandato, alcun ordine o contrordine eccetto che quelli di questo o quell’importo, o eventualmente con il concorso di questa o quella persona»?6. Bentham fa notare che la costituzione non può essere considerata una legge in senso proprio, per-

ché il sovrano è suzzzza potestas, dunque nessuno può imporgli di rispettarla. Essa ha perciò lo stesso valore dei trattati tra potenze straniere: la sua forza riposa su un impegno di tipo morale, in

taluni casi rafforzato da motivi religiosi, ma non su un obbligo legale. «L'effetto di una tale concessione è di indebolire, nel caso sia violata, la disposizione del popolo alla sottomissione e all’obbedienza, dalla quale il potere del sovrano è di fatto costituito»??. Talora, però, Bentham sostiene che, in quanto emanata dal so-

vrano, la costituzione è propriamente un atto «legale»: è l’insieme delle /eges în principem?8. La stessa divisione (Bentham preferisce il termine distribuzione) dei poteri può essere spiegata in base alla relazione di fatto che lega sovrano e sudditi: se questi ultimi sono disposti a obbedire a una persona o organismo in date circostanze e ad una seconda in altre circostanze, la sovranità è di fatto divisa; può trattarsi di un sistema politico più o meno accettabile, ma pur sempre «possibile»??. Ma tornando alle caratteristiche delle leggi, ogni mandato del sovrano può essere o proibizione o comando (decisive mandates), oppure la loro negazione, vale a dire una non-proibizione (per24 FG, p. 429 (trad. it., p. 90). Bentham cita i «Lord Kaims's [sic] Historical Law Tracts» (ivi, p. 430 nota).

25 Hume, L.J. 1981, p. 64; Hart 1982, pp. 222-27.

26 OLG, p. 16. ° 27 Ivi, p. 16. Cfr. ivi, pp. 67-68. È questa la linea che sarà seguita da John Austin, primo professore di diritto all’University College di Londra e discepolo di Bentham, la cui teoria della sovranità è ben meno tlagtica di quella del maestro. Cfr. Agnelli 1959, pp. 116-19. 28 OLG, pp. 64-67. 2° OLG, pp. 18-19 nota, 69 nota.

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messo) o un non-comando (urdecisive mandates)3°. Sono natural-

mente i mandati «decisivi» a coprire la stragrande maggioranza delle leggi; ciò che il sovrano permette o non ordina, in effetti, è quasi sempre significato dal silentium legis. Tuttavia esiste una categoria di leggi «permissive» e «controimperative», necessarie da un lato a ribadire gli spazi di libertà esistenti ma minacciati o violati, dall’altro ad abrogare precedenti proibizioni o comandi?!. Inoltre le leggi, per indurre gli individui a eseguire ciò che comandano, devono fornire loro un motivo. Bentham ne distingue due, pene e ricompense, sebbene talvolta si possa fare affidamento anche su «sanzioni non legali», cioè confidare su determinati costumi diffusi nella popolazione ovvero indurne di nuovi tramite la propaganda e certi accorgimenti istituzionali (è questo

il campo della «legislazione indiretta» di cui Bentham si occuperà proprio nei primi anni Ottanta)??. Tuttavia, la maggioranza delle leggi implica costrizione e impone doveri e punizioni?3. Di conseguenza,

una legge «completa» contiene sempre una parte «pe-

nale» e una parte «civile», cioè un aspetto «imperativo» (il comando) e «comminatorio» (la sanzione penale, per le leggi che non siano basate su ricompense o strumenti indiretti), e un aspetto «qualificativo», «circostanziale» ed «espositivo»34. Il raggruppamento delle leggi penali e civili in codici diversi non deve perciò ingannare: il significato di ciascuna singola legge appare chiaro solo dalla sua relazione con altre leggi, cioè facendo riferimento al diritto nel suo insieme??. L’elemento della proibizione è posto anche a fondamento della definizione dei diritti. Un diritto è «la relazione che un uomo intrattiene con una cosa, che costui è lasciato libero di utilizzare

in vista del proprio piacere, una pena essendo annunciata contro chiunque altro gli impedisca di farlo o agisca in maniera analoga a lui in rapporto a quella cosa, senza il suo consenso»?5. Perciò, «per ogni diritto che la legge concede a una parte, che la parte in 30 OLG, pp. 95-96; IPML, p. 206 nota. 31 OLG, pp. 98-110. 32 Ivi, p. 133. La teoria della legislazione indiretta sarà pubblicata da Dumont in Principes du code pénal, parte IV, in Oeuvres, vol. I. 33 OLG, p. 54. Anche su questo piano Austin sarà più rigido di Bentham. 34 OLG, pp. 196-98. Cfr. Hart 1982, cap. 5.

35 Loche 1987, pp. 133-34.

36 Comment, p. 87. Cfr. IPML, pp. 205-7.

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questione sia un individuo, una classe subordinata di individui o il pubblico, essa impone contestualmente a qualche altra parte un dovere o un obbligo»37. Questa visione positiva è in esplicita contrapposizione con la prospettiva giusnaturalistica secondo cui la società politica è stata formata per proteggere i diritti naturali degli individui. Ancora in uno scritto del 1831, Bentham sosterrà che, al contrario, è l'assenza di diritti propriamente detti ad

aver messo in moto il meccanismo che ha fatto nascere i governi per crearli e proteggerli: «Ciò che è vero è che fin dall’inizio è stato sempre desiderabile che dei diritti esistessero», giacché senza diritti non c’è altro che «miseria sulla terra», «nessuna fonte di

felicità politica, nessuna sicurezza per le persone, per l’abbondanza, per la sussistenza, per l’eguaglianza»?8. Comando di un sovrano di fatto esistente, le leggi sono dunque un artefatto, ma non perché siano frutto di un patto originario «uniforme, onnicomprensivo e simultaneo, pianificato con flemmatica deliberazione e stabilito dal pieno e generale assenso»??. Come per Hume, da cui deriva in parte questi concetti, le istituzioni umane sono per Bentham acquisizioni precarie, frutto di scelte contraddittorie, molto spesso di imposizioni violente, che hanno sancito il successo di pochi sul resto della società, dunque privilegi e ineguaglianze. Esse sono comunque vantaggiose per gli individui, perché garantiscono una qualche protezione della persona e dei beni, ma in nessun modo si deve pensare che rappresentino il migliore dei mondi possibili*°. Accompagnandosi a una radicata consapevolezza del carattere mistificatorio e illusorio degli apparati ideologici ed esteriori che circondano il corpo politico4!, questa posizione benthamiana ben illustra l’entità della «rivoluzione» che egli si proponeva di introdurre nel linguaggio politico e giuridico inglese, distruggendo alla radice ogni possibile mito, ogni sacralità del politico? e distinguendo radicalmente tra il diritto quale è e quale dovrebbe essere. 37 IPML, p. 206 nota. Cfr. Comment, p. 88; OLG, pp. 57-58, 264-66; Plamenatz 1949, p. 69. ; ha Pannomial Fragments (1831), in Works, vol. III, pp. 217-18. Cfr. Rosen

1983, p. 71. 39 40 41 42

FG, p. 453 (trad. it., p..122). Ibid. Cfr. Hume 1978, IIL.II, 11; Robertson 1983, pp. 151-57. FG, p. 402 (trad. it., p. 48). Cfr. Hart 1982, p. 2, cap. 1. Battista 1989.

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La disposizione a obbedire e i limiti della politica La nozione di «disposizione a obbedire» non serve soltanto per definire i concetti giuridici di sovrano e di legge; essa apre anche una riflessione più propriamente politica, in quanto Bentham vi individua la variabile chiave per spiegare la stabilità dei governi, e soprattutto il baluardo invalicabile contro il dispotismo. Viene in tal modo ripreso un tema, quello del consenso, che attraversa tutta la cultura dei Lumi, trovando forse il più sensibile interprete nel Voltaire da Bentham tanto amato. «La potestà dello Stato — aveva scritto Spinoza — non consiste precisamente nel fatto che essa possa costringere gli uomini con la paura, bensì assolutamente in tutti i mezzi coi quali può far sì che gli uomini eseguano i suoi ordini. [...] Ciò che risulta assai chiara-

mente dal fatto che l’obbedienza non è tanto un atto esterno,

quanto una disposizione interna dell’animo»4. Gli fa eco Voltaire: «Nessuno Stato è dispotico per sua natura. Non esiste paese in cui una nazione abbia detto a un uomo: ‘Sire, noi diamo alla

vostra graziosa maestà il potere di prendere le nostre dame, i nostri figli, i nostri beni e la nostra vita, e di farci mettere al palo, secondo il vostro piacere e il vostro adorabile capriccio’»44. Da Bentham, il concetto di disposizione a obbedire è programmaticamente utilizzato come confutazione‘, ma anche ritraduzione «positiva» della prospettiva contrattualista: ciò che questa vedeva come una razionale verifica del patto, fondata sul riferimento ai diritti imprescrittibili, diviene nel discorso di Bentham una valutazione di opportunità (non necessariamente razionale) che di fatto, giorno dopo giorno, gli individui esprimono basandosi sulla conformità del governo ai loro bisogni e comparando i mali che possono derivare dalla ribellione (o dalla fuga)

con le sofferenze ingiunte da un’autorità dispotica'6. Né ciò significa che ogni costituzione sia labile e precaria, giacché l’inerzia dell’abitudine, la paura del nuovo e la spesso elevata capacità 43 Spinoza 1670, cap. XVII, spec. pp. 443-44 (trad. it.); Locke 1960, II. ESE

44 Voltaire 1752-56 (trad. it., p. 449). 45 In questo, ma in questo soltanto si potrebbe intravvedere l’ombra di un’influenza filmeriana. Cfr. Long 1977, p. 35; Burns 1985, p. 19. 46 FG, pp. 452-53 (trad. it., pp. 121-22).

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di sopportare le angherie di un potere ostile favoriscono piuttosto la conservazione dell’esistente?”. Non è tuttavia la semplice ripresa della discussione sul consenso che attribuisce rilievo politico alla nozione benthamiana di disposizione all’obbedienza. Essa, infatti, introduce anche una sorta di rilevante polarizzazione nel concetto di società civile che pure Bentham condivide, nella sostanza, con tutto il pensiero

politico dell’età classica (KVII-XVIII secolo). Fino a Smith incluso48, in effetti, il governo è considerato come fattore fondamentale e ultimativo della coesione sociale, o meglio, l’idea di società che tutti propongono, sia pur con argomenti diversi, è

quella di una collettività che è di per sé politica, da cui si distingue, semmai, lo stato di natura??.

AI contrario, non solo nel modello hegelo-marxiano, ma anche in una tradizione liberale tutta ottocentesca, che prende le mosse esplicitamente da Jean-Baptiste Say?° più che dall’economia politica ricardiana?!, compare una distinzione tra sfera del governo e sfera della società civile, quest’ultima considerata come un corpo autonomo e dotato di proprie leggi, che da un lato limitano le competenze della politica, dall’altro la sussumono, fa-

cendone uno strumento della propria riproduzione. Collocandosi nel punto di cerniera tra queste due visioni della società, la riflessione benthamiana presenta spunti suggestivi: se è vero, infatti, che è scorretto retrodatare il liberalismo ottocentesco, facendone la naturale prosecuzione di un’unica tradizione «liberale» o «individualista possessiva» che prenderebbe le mosse da Locke per arrivare sino a Saint-Simon, dal contratto sociale all’estinzione dello stato?2, resta tuttavia il problema di capire come esso sia nato e di quale patrimonio teorico abbia potuto avvalersi. Ha ragione in effetti Sheldon Wolin quando vede in autori come Smith i protagonisti di un allargamento della prospettiva 47 Ivi, pp. 483-84; Works, vol. III, p. 219. 48 Winch 1978; Haakonssen 1981; Pesciarelli 1988; Id. 1989. 49 Cfr. Pocock 1980; Bobbio-Bovero 1979, parte I. 50 Say 1843, pp. 1-2. Cfr. Steiner 1989; Moravia 1974, pp. 778 sgg.; Gusdorf 1978, parte IIIu.e. 51 Collini-Winch-Burrow 1983, cap. 2; Schumpeter 1954, pp. 472-73. Ma il vero compimento di un’ideologia liberale dogmatica è compiuto dai divulgatori del verbo ricardiano e dai propagandisti dell’«Economist». Cfr. Taylor 1972. 52 Pocock 1985, cap. 3; Winch 1978, pp. 1-27.

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giusnaturalista tale da condurla ai propri limiti53, anche se lo spazio autonomo della società non coincide, nello Scozzese, con i meccanismi autoregolatori ed espansivi del mercato, ma con l’attenzione degli individui allo sguardo degli altri, cioè con un processo di graduale aggiustamento dal quale traggono origine regole condivise di comportamento, suscettibili di generare stabilità sociale?4. Così è anche per Bentham: la «sanzione morale», quel giudizio collettivo che fonda la disposizione a obbedire, funziona per molti versi come lo spettatore imparziale smithiano; non a caso viene definita anche «sanzione popolare», un fenomeno collettivo, formatosi in seno alla società e dipendente in parte da circostanze di tempo e di luogo??. E, come lo spettatore, anche la sanzione popolare possiede un insieme di parametri di giudizio in base ai quali valutare l’agire dei «politicanti». Se una differenza v’è tra la due visioni, essa non risiede tanto nel fatto che Bentham, diversamente da Smith, riduce direttamente i giudizi morali a giudizi di opportunità?7, quanto nel fatto che la definizione benthamiana del rapporto governanti-governati si mantiene tutta sul terreno della fattualità politica, rinviando ad altra sede la ricerca sui fondamenti di tali giudizi, che lega invece la Theory of Moral Sentiments alle Lectures on Jurisprudence dello Scozzese. E proprio in questa dimensione fattuale che la polarizzazione di cui si è parlato ha luogo e risulta ancor più esplicita ed efficace: da un lato la sfera del dominio politico e delle leggi, dall’altra uno spazio sociale composto da una serie di «situazioni di comunicazione», in cui vengono a maturazione valori e resistenze che limitano il potere reale dei governi?8. Tuttavia, questa sfera non è autonoma, non è la società civile distinta dallo Stato: anzi, essa nasce come attiva reazione all’organizzazione politica costruita dal sovrano; ci troviamo così ai limiti di sfruttamento del paradigma politico classico, piuttosto che ai prodromi della rivoluzione scientifica introdotta dal liberalismo ottocentesco. Rimane 53 Wolin 1960, cap. 9. Cfr. anche Deleule 1984, capp. 5-6. 54 Smith 1976; Zanini 1991; Pesante 1986, pp. 24-26, 31-38.

55 IPML, p. 35. 56 Pesante 1986, p. 22. 57 Winch 1978, p. 181; Meoli 1983, p. 1046; Pesciarelli 1988, p. 51, sostengono l’esistenza di questa differenza. 58 Cfr. Hume, L.J. 1981, pp. 64-65.

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nondimeno intero il valore e la novità di una conclusione, che

non è più assimilabile alla critica morale delle leggi positive??: il governo tirannico non è solo ingiusto, ma anche impossibile, perché la società contiene meccanismi in grado di annullarne l’efficacia e distruggerne la stabilità. Governo libero e opinione pubblica: perla critica dell’ideologia whig Come ha suggerito L.J. Hume®, la prospettiva corretta per

valutare la teoria dell’abitudine all’obbedienza — in ciò che ha di vecchio e di nuovo, aggiungerei — consiste nel metterla in rapporto con altre nozioni usate da Bentham, che rivelano l’importanza attribuita alla «sanzione morale». Di rilievo sono in particolare le nozioni di «fiducia» (#59) e di opinione pubblica. Il

concetto di disposizione a obbedire e quello di fiducia sono, nelle riflessioni del primo Bentham, in qualche modo intercambiabili, caricato di una connotazione anti-contrattualista il primo, usato in un senso più positivo il secondo, per identificare le ragioni che legano i sudditi al proprio sovrano. Analogamente al primo Burke, che conosce approfonditamente®!, egli ricollega l’idea di fiducia a quella di stima popolare, cioè alla sanzione morale: se l’agire del sovrano non può essere illegale, questi è pur sempre responsabile di fronte alla pubblica opinione®?: chi governa è considerato come tutore degli interessi del suo popolo e se agisce arbitrariamente rompe il rapporto «fiduciario» (breach of trust). L’importanza attribuita alla sanzione morale emerge anche dalla riflessione sulle differenze tra governo libero e dispoticoS3 e sulla migliore forma di governo$4. L'approccio che Bentham adotta, nel Fragrzent e pet tutto il periodo che va fino all’esordio

della Rivoluzione francese, è volutamente pragmatico, relativistico, in contrapposizione con il mistico dogma whig della eccellenza della costituzione inglese, candidamente difeso da Black59 Koselleck 1972, capp. 1-2.

60 Hume, L.J. 1981, pp. 56-57. 61 Cfr. Burke 1981, pp. 277-79; Dickinson 1977, cap. II, spec. pp. 62-80. Sui rapporti tra il pensiero di Bentham e quello di Burke SA Dinwiddy 1977; Id. 62 UGL LXII, 10) 63 FG, p. 485 (trad. it., pp. 165-66). 64 UCL CLXX, 198.

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stone. Dopo gli scritti del 1774-76, le sue riflessioni si trovano sparse in vari manoscritti sulla Indirect Legislation e sulle ricompense, composti tra la fine degli anni Settanta e il 1782, nonché nel zzagnum opus cui egli lavora a partire da questa data: il Projet d’un corps de loi complet à l’usage d’un pays quelconque (17821787 ca.), dal quale Dumont trarrà gran parte del materiale inserito nei Traités de législation civile et pénale (1802). Relativismo, si è detto: come per Hume e Smith, non è soltanto né principalmente dalla forma di governo che dipende il benessere dei cittadini: «Se le altre leggi sono buone, se il sovrano non si oppone alla loro esecuzione, che importa loro in quali mani sia posta la sovranità? D'altra parte, per quanto le leggi politiche siano ordinate nella maniera più raffinata, se le altre leggi sono cattive, il cittadino sarà in proporzione infelice»66. Un Bentham «whig scientifico», dunque, per il quale è peraltro indispensabile che la costituzione preveda e assicuri un rigoroso controllo della condotta dell’autorità suprema, affinché gli interessi dei governati siano sempre rispettati. Tra gli strumenti atti a ciò il filosofo elenca un’ampia «distribuzione» dei poteri, «frequenti e agevoli cambiamenti di ruolo tra governanti e governati», meccanismi che assicurino la «responsabilità» del sovrano, infine pubblicità delle ragioni delle leggi, libertà di stampa e di associazione68, Una costituzione libera si distingue in sostanza da una dispotica per due ragioni: perché possiede un ordinamento politico garantista e non elitario; perché si sottopone al verdetto popolare e attribuisce un largo spazio alla san-

zione morale®?. Proprio l’opinione pubblica è destinata per Bentham a divenire l’ago della bilancia dell’ordine sociale, «dacché la massa del popolo diviene sempre più illuminata e sempre più preoccupata 65 UCL CXLII, 96; CLXX, 188-207; XXXIII, 72-80. Questi ultimi fogli corrispondono ai capitoli 20-22 della Vue générale d’un corps complet de législation, in Oeuvres, vol. I.

66 UCL CLXX, 201. 67 Forbes 1975, pp. 167-71; id., 1975a; Winch 1978, capp. 1-2. 68 FG, p. 485 (trad. it., pp. 165-66). Sembra dunque infondata la critica di Himmelfarb secondo cui Bentham avrebbe ignorato i capisaldi del «costituzionalismo liberale», quali la divisione dei poteri e lo stato di diritto. Cfr. Himmelfarb 1968, pp. 77 sgg. 69 UCL CLXX, 198.

do

di difendere il bene pubblico»?0. Il raccordo tra comando del sovrano e disposizione a obbedire si realizzerà così sempre meno attraverso l’extrezza ratio della ribellione, e sempre più in maniera dolce e continua. Insomma, una stampa libera, il diritto di petizione”! e di associazione”, la chiarezza e pubblicità delle leggi sono prima di tutto strumenti istituzionalizzati attraverso cui i cittadini possono esercitare una pressione sulla classe politica??. Non meno del dogma della costituzione mista, Bentham criticherà un caposaldo della cultura tory: il richiamo all’antico e agli aggiustamenti lenti, consolidati dal tempo e dalla consuetudine, per giustificare le leggi e le istituzioni esistenti?4. E per questo che gli argomenti delle Reflexions on the Revolution in France di Burke non lo convinceranno mai. Anche quando, alla metà degli anni Novanta, spaventato dagli effetti della Rivoluzione francese, Bentham assume quasi controvoglia attitudini solidamente conservatrici, scriverà che è una «nullità di Burke» quella di incatenare per sempre, senza possibilità di revisione, le

leggi di un paese alle decisioni prese da una «folla di barbari» in un tempo lontano: questo genere di «obblighi imprescrittibili sono assurdi, e ancor più rivoltanti per l'immaginazione e le passioni, e sommamente pericolosi, sebbene non altrettanto perticolosi dei diritti imprescrittibili»??. Per tutte queste ragioni il Bentham degli anni Settanta e Ottanta può essere considerato un moderato, per il quale il motto del buon cittadino (ma solo «sotto il governo delle leggi») è «obbedire puntualmente, censurare liberamente»?6; la sua posizione tuttavia sfugge a qualunque classificazione secondo i parametri del dibattito politico inglese dell’epoca. Il fatto è semplicemente che egli non pensa per il dibattito politico inglese, ma per costruire una teoria «filosofica» della legislazione. TOUEGL'XEVI, 225. 71 UCL CLXX,

189, 203-5; LXII, 153; LKXVII, 120. Tra i sostenitori di

questo diritto, vi è anche Blackstone 1765-68, 1. 1, pp. 136-39. 72 EG, p. 485 (trad. it., p. 165-66); UCL LXII, 153; LKXXVII, 119. 73 Cfr. UCL LXII, 153. Cfr. Rosen 1979, p. 52.

74 Cfr. il framm. Prejugés in favour of Antiquity, in Works, vol. X, p. 69. 7 UCL CVIII, 114. La critica a Burke sarà sviluppata in Defence of Economy against the Right hon. Edmund Burke (1810), in Works, vol. V; ora in First Principles. Cfr. Burke 1791; Dickinson 1977, cap. VIII. 76 FG, p. 399 (trad. it., p. 45).

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Bentham, il censore

Davanti alla legge gli individui si presentano con i loro bisogni e le loro debolezze, né possono fare appello a princìpi assoluti per difendersi. Il potere che sta loro di fronte, del resto, riposa unicamente sulla propria forza e sull’altrui consenso, non su un ordine naturale e provvidenziale. Ma che fare contro un potere che non risponde alle attese degli individui? Come criticarlo, in base a quali criteri dire che è ingiusto? E infine, quali riforme proporre? Bentham, l’espositore delle leggi come sono, si trasforma così nel censore”? ed elabora un'etica dell’utilità allo scopo di dare basi solide alle sue proposte. 77 EG, pp. 393-99 (trad. it., pp. 35-45). La discussione sul rapporto tra giusto e utile negli scritti benthamiani dei primi anni Settanta è stata studiata da G. Postema (1986, pp. 148-535).

Capitolo terzo

EMPIRISMO E UTILITARISMO: PREMESSE EPISTEMOLOGICHE

La ricerca dei criteri per riesaminare il diritto esistente e proporne la riforma è un’operazione complessa, che deve evitare le pastoie dei vaghi e metafisici linguaggi dominanti. La soluzione è nell’elaborazione dell’etica utilitarista, un’etica che si propone come sapere scientifico, privo di ridondanze, i cui termini possono essere ricondotti all'esperienza secondo regole rigorose. Ciò significa per Bentham introdurre il metodo sperimentale di Newton nella «scienza morale», prolungando lo sforzo delle menti più brillanti e indipendenti del secolo dei Lumi!. Ma che cosa significa ragionare sperimentalmente? Già Hume, con cui Bentham è pienamente in accordo, aveva chiarito i limiti cui il metodo newtoniano andava sottoposto quando lo si applicasse allo studio degli esseri umani, concludendo che è l’osservazione, più che l'esperimento, a potersi utilizzare, giacché mutevole e troppo varia è la materia osservata2. Ma non meno problematica è questa strada; com’è infatti possibile ridurre a conoscenza sistematica la congerie di nozioni e regole che le diverse società hanno a poco a poco elaborato? E come sono fatti quegli esseri umani dalla cui mente queste idee sono scaturite? Per rispondere a simili questioni occorre riconsiderare integralmente le strutture e le articolazioni del sapere e a questo lavoro Bentham si dedica fin dai primi anni della sua attività scientifica.

1 UCL XXXII, 158, intitolato «Civil Preface» (anni Ottanta).

2 Ibid.; Article on Utilitarianism, in Deontology, pp. 294-95; Hume 1978, pp. XVII-XIX.

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La funzione sintetica del linguaggio

Il linguaggio è concepito da Bentham come un insieme autonomo, complesso e strutturato di segni, indicanti idee di oggetti reali e relazioni. Esso è la cristallizzazione di un'operazione mentale denominata «discorso», «dalla cui esecuzione, per mezzo delle operazioni di designazione ed espressione, dipende la comunicazione delle idee formatesi in 474 mente e il loro trasferimento in un’altra mente»?. Ma il ruolo più importante del linguaggio non è questo: prima di essere codice sociale di comunicazione, esso dà infatti forma e senso al pensiero stesso: «Non ancora incorporati in parole, o privati di esse, i pensieri sono solo dei sogni; come le nuvole che scorrono nel cielo, fluttuano per un istante nella mente e svaniscono nell’istante successivo»*. Tutte le operazioni dell’intelletto presuppongono l’esistenza di questo insieme strutturato di segni: tanto quelle definite «passive», quali la percezione e la memoria, quanto quelle «attive», di cui fanno parte le volizioni, i giudizi, la designazione e accurata «metodizzazione» delle rappresentazioni, la classificazione?. Il linguaggio non è però, come per gli empiristi radicali, un mero aggregato di idee complesse e di inferenze riconducibili singolarmente alle impressioni da cui derivano, né il distillato di un lento processo storico di astrazione dalle esperienze dirette dei sensi, come per la «storia teoretica o congetturale» di Smith$, ma, viceversa, uno strumento di sintesi, un sistema di relazioni da cui dipende in ultima istanza la stessa conoscenza empirica”. Per operare in questo modo, esso fa ricorso a una serie di «entità» (ertities), che acquistano senso e si distinguono le une dalle altre solo 3 Essay on Logic, in Works, vol. VIII, p. 227. Su questi temi cfr. Essay on Language, ivi, pp. 302 sgg.; A Fragment on Ontology; Fragment on Universal Gram-

mar, ivi. La teoria blaltaniaria del linguaggio ha attratto l’attenzione di studiosi di logica e linguistica e di alcuni tra i più acuti interpreti del pensiero del filosofo. Cfr. Ayer 1971, passim; Ogden 1929; Ogden 1932; Steintrager 1977, pp. 20-40; Hart 1982, pp. 21-39.

4 Works, vol. VIII, pp. 228-29. Cfr. ivi, p. 198. Unicamente grazie all’articolazione del linguaggio e alla sua «chiarificazione» è possibile ogni progresso del pensiero. Cfr. ivi, p. 301.

5 Ivi, pp. 299-300, 224-27, 229.

6 Cfr. A. Smith, Considerations Concerning the First Formation of Languages, in Smith 1983.

7 Works, vol. VIII, p. 300.

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all’interno del discorso8, a seconda cidè della posizione e della funzione che svolgono e delle procedure attraverso cui possono essere ricondotte ai termini di esperienza. Un’entità può essere infatti «reale» o «fittizia»: la prima è «un’entità cui, in occasione e per gli scopi del discorso, si intende realmente attribuire esistenza». Fittizia è invece «un’entità cui in verità e in realtà non si intende attribuire esistenza, sebbene la forma grammaticale

usata per parlarne» — quella di sostantivo — «le ne attribuisca una»?. Di questo tipo sono tutte le categorie aristoteliche, da Bentham esplicitamente chiamate in causa, eccettuata quella di «sostanza», che viene interpretata come genus generalissimum delle entità reali!°. Esse sono strumenti del discorso, in quanto permettono di distinguere, situare, aggregare, confrontare le rea/ entities e, in ultima istanza, «metodizzare» la conoscenza. La loro esistenza è dunque esclusivamente linguistica (anzi, la nozione stessa di «esistenza» è, per Bentham, una entità fittizia)! e il loro significato è dato dalla relazione che stabiliscono tra una o più entità reali. E in sostanza la diversa «distanza» dall’esperienza dei sensi a distinguere le due classi di entità linguistiche: il significato di esistenza attribuito alle entità reali le rinvia, in quanto idee singole, direttamente all’esperienza, concepita come una sorta di «test» dal quale la persuasione stessa della loro esistenza risulterà confermata o smentita. Le entità fittizie, invece, sono sempre

individuate da una relazione con le entità reali e non direttamente con le percezioni; tale relazione è specificata dalla forma della frase. Ad esempio, proposizioni come «ir questa sostanza si trova questa materia», o «considera la materia di questa sostanza», designano la relazione tra entità reali e la categoria di materia!?. Confrontare le entità fittizie con l’esperienza (ovvero «interpretarle»)!* significa dunque passare attraverso la loro possibile relazione con determinate classi di entità reali. Qualora le evi, po195

? Ivi, pp. 196-97; A Table of the Springs of Action, in Deontology, p. 76. 10 Works, vol. VIII, p. 199. Non convince il tentativo di Zanuso (1989, pp. 20, 69-74) di dimostrare la totale estraneità di Bentham rispetto alla filosofia di Aristotele.

11 Ivi, pp. 198, 210-11, 262-63. 12 Ivi, p. 201, 13 Ivi, pp. 245-46, 253-56.

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«finzioni» (fictions) siano modificazioni di altre di genere superiore, la proprietà da esse significata può essere spiegata col metodo «della definizione», cioè analiticamente, per genus et diffe-

rentiam. Questa procedura — che resta comunque al di qua dell’esperienza — ha però senso fino a che non si incorra nei genera generalissima, astrazioni prive di un termine superiore da cui derivino (giustizia, diritto ecc.). Giunti a questo punto, la necessità di procedere a una «interpretazione» non è più rinviabile. Interviene allora il metodo della «parafrasi», che consiste nel costruire frasi ad hoc, per trasformare proposizioni il cui soggetto sia un'entità fittizia in altre il cui soggetto è invece un'entità reale. Quest'ultima, a sua volta, può essere riferita all’esperienza, se-

condo le procedure già dette. Le entità fittizie, in sostanza, non possono essere ricondotte all’esperienza per via di analisi e in quanto termini singoli, ma solo tramite frasi complesse. La loro validità è inoltre limitata alla funzione che svolgono e all’insieme delle esperienze cui possono essere riferite!4. Non tutte le finzioni sono però uguali tra loro. Anzi, la loro riconduzione alle entità reali, tramite la «parafrasi», serve proprio quale «criterio di demarcazione», per distinguere astrazioni utili come strumenti di conoscenza e astrazioni che non esprimono altro che l'opinione di colui che le formula (per quanto essa stessa sia, a suo modo, un'entità reale) e non contengono quindi propriamente «né verità né senso», anzi non sono «niente più di

un cumulo di sciocchezze»!?. Attraverso l’analisi del linguaggio e la distinzione tra entità reali e fittizie, Bentham sembra cercare una via per andare oltre il rigoroso programma empirista e induttivista di Hume!6. Pur ribadendo la necessità di far riferimento ai sensi per convalidare la conoscenza e distinguerla dalla pura opinione soggettiva, egli non ritiene che ogni idea possa essere direttamente ricondotta alle impressioni da cui scaturisce: dimostra invece che, allo scopo di conoscere, gli esseri umani elaborano una serie di strumenti la cui origine è puramente logica, che si oggettivano in una strut-

14 Ivi, pp. 246-48; A Table of the Springs of Action, in Deontology, pp. 78-79. Ma cfr. già FG, pp. 494-95 nota (trad. it., pp. 179-81). 15 A Table of the Springs of Action, in Deontology, p. 14. 16 Sull’empirismo humeano cfr. Dal Pra 1973; Stroud 1977; Forbes 1975, cap. 1.

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tura complessa, il linguaggio, e divengono per questa via strumenti di sviluppo della conoscenza e di comunicazione. Viene così recuperata alla soggettività quella funzione connettiva che ancora le attribuiva Locke, ma che era andata perduta con le critiche radicali rivoltegli da Browne e Hartley, poi con le conclusioni scettiche di Hume o con le semplificazioni di Condillac e Helvétius!7. Questa operazione di connessione, tuttavia, non è

più — come nell’autore dell’Essay on Human Understanding — dato primario e inspiegabile della coscienza, residuo del cogito cartesiano; né è la sintesi a priori di Kant: le manca per essere tale l’esplicita individuazione, nelle forme a priori della sensibilità e dell’intelletto, delle condizioni di una conoscenza universale e necessaria!8. E piuttosto una funzione sovraindividuale, impersonale, oggettivata in un sistema condiviso di segni. Servendosi di questi, il soggetto è in grado di porre in relazione le singole impressioni e organizzare le mappe della propria conoscenza!?. Esemplare è, a questo proposito, la critica alla nozione condillachiana di «analisi»: Attribuendo a ogni pretesa spiegazione il nome di analisi, Condillac, nella sua Logica, pensa di aver spiegato tutto: in realtà non ha spiegato un bel niente. L'analisi — egli dice — ron è altro che una lingua ben fatta. Non si rende conto che ogni nome che non sia grammaticalmente un nome proprio è segno e risultato di un atto di sintesi (l'oggetto dichiarato della sua antipatia) e che, se non fosse per questo disprezzato e tanto vituperato agente, il suo strumento preferito e da lui esclusivamente lodato non avrebbe un soggetto su cui operare.?0

Unacritica ingenerosa: non solo, infatti, Condillac ritiene che il linguaggio sia lo strumento stesso del raziocinio?!, ma, simmetricamente, Bentham attribuisce all’analisi un ruolo decisivo. Evidentemente però, quest’ultima ha solo una funzione complementare, quella di «pulire» il campo del linguaggio, individuando gli alberi di concetti e riconducendoli ai genera generalissima. 17 Cassirer 1955, l. VII, cap. IV. 18 Cfr. Kant 1781, pp. 45-62. 19 E da osservare che Locke stesso aveva inizialmente imboccato una strada molto simile a quella benthamiana, per poi abbandonarla nell’Essay. Cfr. Viano

1960, p. 473.

20 Works, vol. VIII, p. 27. Cfr. ivi, pp. 256-59. 21 Moravia 1974, p. 427.

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Questi soli costituiscono la vera, irriducibile fonte del conoscere, giacché con essi si costruisce quella struttura di relazioni tra diversi (e non tra identici, come nell'analisi condillachiana??) che permette di collegare tra loro, in modo nuovo, le disparate sensazioni??.

E possibile, credo, trovare nella logica di Bentham qualche parallelo con gli sforzi che, in Francia, Destutt de Tracy andava compiendo per superare «l’analisi» condillachiana. Sarebbe invece errato voler modernizzare al di là del dovuto questa teoria, magari facendole scavalcare lo stesso razionalismo critico kantiano, per accentuarne, come pure è stato fatto, la vicinanza alla teoria dei simboli incompleti di Bertrand Russell e al positivismo logico?4. Il ragionamento di Bentham resta ben saldo all’interno degli a priori storici del suo secolo e ogni forma di relativismo logico-linguistico o di convenzionalismo gli è estranea. La sua idea di fondo è che i nostri concetti non dipendono dal sistema

linguistico che possediamo, ma che esistono da un lato una «lingua ben fatta», in grado di rappresentare la realtà correttamente, e dall’altro una congerie di linguaggi incompleti, confusi e approssimativi. L’empirismo di Bentham, come quello di tutti i pensatori settecenteschi, presuppone sempre il rispecchiamento del reale nel pensiero e una continuità priva di salti nell’uno come nell’altro??.

L’importanza di queste acquisizioni per la costruzione dell’etica utilitaristica apparirà a poco a poco: essa risulta dal ruolo centrale attribuito alle entità fittizie e in particolare alle categorie di «relazione» e di «causa». Nel Treatise of Human Nature, Hume aveva individuato nella contiguità tra due impressioni, nella priorità temporale dell’una rispetto all’altra e nella loro congiunzione costante le componenti dell’idea di causa?6. Esse non definiscono però di per sé il si-

22 Ivi, pp. 355-56. Cfr. Klein 1985.

23 Dello stesso tono sono le critiche a Linneo per aver limitato il compito della scienza alla mera classificazione. Cfr. UCL XXVII, 154, cit. in Hume, L.J. 1981,

p. 61.

LISA di Ogden per la teoria del linguaggio di Bentham deriva del resto da questa operazione. Cfr. Hart 1982, pp. 21-39; Mack 1962, p. 163. 25 Foucault 1966, capp. IV-V; Bryson 1945, pp. 17-18. 26 Hume

1978, I.III.

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gnificato che si attribuisce ordinariamente a questa relazione: quando si dice che un oggetto è causa di un altro, sostiene lo Scozzese, si intende andare al di là della pura serie di impressioni di congiunzione, e predicarne la necessità. Questa idea, tuttavia, non può essere inferita tramite l’esperienza; come spiegarla allora? La risposta di Hume, come noto, è che l’origine dell’idea di causa risalga all'opinione o credenza (belief), cioè a «una vivida idea collegata o associata con un’impressione presente»?7. Mentre dunque l’idea di congiunzione costante è coerente con l’esperienza, quella di legame causale necessario appartiene all’opinione. Così ridimensionata, la categoria di causa è pur sempre utilizzabile28; ciò nondimeno, lo spettro dei suoi significati risulta fortemente ristretto. Poiché infatti l’idea di relazione causale deriva dal ripetersi di impressioni analoghe nello stesso stato di contiguità e di antecedenza temporale, viene esclusa esplicitamente la nozione di causalità contemporanea o logica??. Analogamente, poiché «tutte le cause sono dello stesso genere», infondata è la distinzione tra cause efficienti e cause sine qua non, o ancora tra cause efficienti, formali, materiali, finali, o ancora tra causa e «occasione»3°. E proprio il programma empirista humeano a essere responsabile di questa restrizione semantica; il tentativo di ridurre ogni idea a impressioni porta infatti a trovare nel linguaggio una pletora di ridondanze e a scartare o rimuovere nel campo fluido dell’opinione tutto ciò che non sembri corrispondere a dati ben distinguibili dei sensi. La versione logico-linguistica dell’empirismo fornita da Bentham permette, al contrario, un recupero della polisemia che investe le nozioni di relazione e di causa. «Relazione» è, per il filosofo, un’entità fittizia, una proprietà che #/ discorso introduce quando due sostanze supposte esistenti sono immaginate in una sorta di intervallo spaziale figurato, suggerito intuitivamente dalla preposizione «tra»3!. Tramite questa, la mente è messa in grado di passare da un’entità reale a un’altra, quando le idee di entrambe siano presenti in essa contemporaneamente o in due

27 Ivi, p. 96. 28 Cfr. Dal Pra 1974, pp. 31-32. 29 Hume 1978, p. 76.

30 Ivi, p. 171.

31 Works, vol. VIII, p. 235.

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istanti immediatamente successivi32. Questa concezione della re-

lazione come un oscillare del pensiero da una percezione a un’altra deriva probabilmente — e significativamente — da Locke?3; Bentham fa però notare che la preposizione befweer è prioritaria alla capacità della mente di collegare, spostando così la funzione di relazione dal piano del nudo intelletto ir 4ct4 a quello logicoformale. Con ciò stesso la strappa anche al regno dell’opinione humeana, per collocarla in quello delle entità logiche riducibili all'esperienza tramite la parafrasi. Nell’ambito dell’opinione rimane soltanto, come per Hume, l’idea di necessità, ma Bentham non ritiene che essa sia componente essenziale di quella di causa. La relazione causale è difatti una finzione di natura squisitamente linguistica, utilizzata per esprimere una classe circoscritta di relazioni, diverse da quelle, per esempio, di «concomitanza»?4; suoi elementi significativi sono l’idea di mzovimento «terminativo» (fermzinative) e quella di produzione o operazione?>. Di particolare interesse sono i moti di tipo «telematico», cioè gli atti di volizione, che hanno «come causa del movimento, cioè come causa prima di qualunque movimento ne derivi come conseguenza, l’atto psichico, l’atto di volontà della persona dalla cui volontà il moto è prodotto»56. In sostanza, ciò che distingue la causalità, in Bentham, proprio perché si tratta di una modalità del discorso e non di un’oscillazione della mente, è la proprietà di asirzzzetria, che include tanto eventi disposti in serie temporale quanto semplici connessioni del pensiero, che possono anche essere simultanee. A questo recupero del linguaggio causale — o meglio della causalità in un contesto logico-linguistico — corrisponde non a caso un allargamento e una complicazione del suo spettro semantico: tornano così ad avere una loro importanza distinzioni come quella tra causa primaria e «circostanze influenti». Elencando le caratteristiche della causalità, Hume aveva infatti sostenuto che «la stessa causa produce sempre lo stesso effetto, e il medesimo effetto non può che nascere dalla stessa causa», aggiungendo che, 32 Ivi, pp. 264, 203. 33 Cfr. Locke 1975, ILxxv, spec. p. 319. 34 Works, vol. VIII, pp. 203, 205-6.

35 Ivi, pp. 206-7. 36 Ivi, p. 207.

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laddove diversi oggetti determinano gli stessi risultati, «deve essere in virtù di qualche qualità che scopriamo a loro comune»?”. A ciò Bentham replica che ogni effetto è sempre il risultato di una «moltitudine di circostanze influenti», alcune delle quali agiscono come «cause promotrici e cooperanti», mentre altre contribuiscono «alla sua non-produzione, in qualità di ostacoli»?8. Nel mondo morale, specialmente, le «circostanze influenti» sono tante che quasi sempre è impossibile darne conto con esattezza. La conclusione è che nessuna di queste circostanze può essere considerata come la conditio sine qua non dell’effetto??. Una nozione corretta di causa deve dunque includere «l’intero ammontare di queste circostanze influenti»; una conclusione, questa, dalla quale muoverà direttamente John Stuart Mill — che da giovane aveva curato l’edizione del Razionale of Judicial Evidence di Bentham, opera nella quale tra l’altro è contenuta un’ampia riflessione su questi temi — per formulare il concetto di «causa in senso filosofico» intesa come somma delle condizioni sufficienti a produrre un dato evento‘9. Bentham può inoltre recuperare le distinzioni aristoteliche tra causa formale, materiale, efficiente e finale. Il concetto di causa efficiente, ad esempio, è utile per mettere in evidenza quella circostanza «che riveste la parte principale nella produzione dell’effetto»4! (la «causa primaria»), mentre il concetto di causa

finale può meglio specificare il carattere delle relazioni in cui entra in gioco un atto della volontà: causa finale di un’azione altro non è che il fine di chi compie l’azione o il risultato atteso e desiderato di essa. Non vi è dunque antecedenza dell’effetto rispetto alla causa; viceversa «l’effetto è il risultato del disegno di un essere sensibile». Né per causa finale può intendersi il piano necessario di un essere supremo che non abbia esistenza reale; al 37 Hume 1978, pp. 173-74. E vero che Hume ammette le concause, ma in un senso molto più rigido di quello benthamiano: egli sostiene che laddove un oggetto resta molto tempo senza produrre effetti, ha bisogno di qualche altro «principio» per produrli e non può dunque essere considerato una causa «completa». Cfr. ivi, pp. 174-75. 38 Works, vol. VIII, p. 208.

39 Ivi, p. 209. Cfr. Hume 1978, p. 174.

40 Cfr. Rationale of Judicial Evidence, in Works, vol. VII, pp. 76-115. Cfr. Cavalieri 1987-88. Sulla teoria benthamiana delle prove giudiziarie cfr. Twining 1985.

41 Fragment on Ontology, in Works, vol. VIII, p. 210.

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contrario, la validità del concetto di causa finale deve essere ri-

gorosamente ristretta alla causalità umana, anzi a quella parte di essa che coinvolge le sensazioni di piacere e dolore42. La critica alla teologia naturale, e con essa al fondamento della dottrina giusnaturalistica, scaturisce così dal cuore stesso dell’epistemologia benthamiana#3.

Il ciclo delle conoscenze

Parallela al programma di chiarificazione del linguaggio e della logica, corre nel pensiero di Bentham una rimeditazione completa dell’intero sapere umano, guidata dall’intento di snidare da esso la metafisica, le confusioni e le sovrapposizioni che ne ostacolano il progresso. Ogni scienza, per quanto complessa e autonoma possa apparire, è per il filosofo costruzione sistematica sopra un sapere di base estremamente semplice: la coscienza che ogni individuo si forma degli oggetti esterni e le sensazioni che egli ne ricava (sapere «ontologico»), nonché le decisioni che egli prende per migliorare la propria condizione (sapere «eudaemonico»). Partendo da questo assunto è possibile non solo individuare il contributo specifico che ogni scienza arreca alla conoscenza dei fatti e alla soluzione dei problemi di fondo dell’esistenza umana, ma anche gli obiettivi che essa non può e non deve proporsi. Ciò significa costruire un sapere utile. Già in alcuni schemi, risalenti probabilmente all’inizio degli anni Settanta, il filosofo fa precedere l’esame critico del diritto e l’illustrazione del principio di utilità da una definizione enciclopedica del sapere44. Saranno proprio questi appunti a essere ripresi nell’appendice quarta della Chrestomathia (1814-17), laddove Bentham presenta un «albero enciclopedico», in cui tutte le scienze e tutte le arti sono classificate e distinte le une dalle altre. Ad accomunare le due versioni, la giovanile e la matura, è il ri42 Ivi, pp. 205, 210. Cfr. su questo punto, Simon 1968, pp. 354-535. 43 Viner 1972, pp. 59-60.

44 UCL XXVII, 14-16; XCVI, 132. Le pagine sono intitolate «Introd. Encyclopaedical Sketch» o «Introd. CH I. Encyclopaedical Sketch». Ad esse segue il «CH II. of Happiness. Axioms», UCL XXVII, 20. Questi manoscritti dovrebbero essere quelli cui Bentham si riferisce nei Merzoîrs, dicendo di averli composti all’età di 22 anni. Cfr. Works, vol. X, pp. 79-80.

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chiamo al metodo adottato da D’Alembert nel Discours préliminaire al primo volume dell’ Encyclopédie*. Il rapporto di Bentham con l’impresa dei philosophes è in realtà intenzionalmente controverso: assunzione a modello e polemica si alternano in modo da rendere esplicito il disegno di appoggiarsi su quello che era il prodotto più significativo della cultura dei Lumi, per andare oltre, proponendo un sapere positivo e anti-metafisico fin nelle sue premesse più recondite*6. Egli condivide con il direttore dell’Encyclopédie l'intento di raggiungere un ordine «chiaro, corretto e completo» delle varie forme di conoscenza. A tal fine occorre, a suo avviso, distinguere due operazioni: l’ordinatrice (ordinary), che consiste di volta in volta nel

«presentare i contenuti della particolare branca che viene denominata», e la sistematica, consistente invece nella definizione di

«certe relazioni, che le diverse branche così denominate, e perciò stesso il loro rispettivo contenuto, hanno le une verso le altre»*?. Estrinseco e artificioso però è il criterio della «facoltà» proposta da d’Alembert: una suddivisione corretta delle scienze non può basarsi sulle facoltà umane, ma sul loro stesso contenuto; ora, se ogni forma di sapere ha come origine i sensi e il bisogno di felicità, il benessere (we//-being) è il solo contenuto (subject) comune a tutte:

Direttamente o indirettamente, il berzessere, in una forma o nell’altra, in diverse forme, o in tutte le forme prese assieme, è il soggetto di ogni pensiero e l’oggetto di ogni azione, da parte di ogni Essere conosciuto che sia al contempo sensibile e pensante.48

Ogni forma di sapere è dunque al contempo teoretica e pratica, in quanto conoscenza di esseri e ricerca della loro felicità‘. 45 D’Alembert 1899. 46 Chrestomathia, pp. 147-48, 216. L'interesse per l’Encyclopédie conferma l'opinione di coloro che vedono Bentham come uomo dei Lumi. Cfr. Burns 1974; id. 1984; Harrison 1983, pp. 7-13; Hume, L.J. 1979. Sull’Ercyelopédie, cfr. Groethuysen 1982, pp. 112-13; Gusdorf 1971, pp. 281-86; Venturi 1963, pp. 97-100; Hazard 1946, cap. VII. 47 Chrestomathia, pp. 144, 142.

48 Ivi, p. 179.

49 Ivi, p. 162: «Ma qual è il soggetto di arte e scienza prese assieme? — Risposta — l'essere in generale: l'essere, in tutte le mzodificazioni di cui è suscettibile al nostro sguardo. L'essere, in qualche forma o forme, il soggetto, il Beressere, in qs forma o forme, l’oggetto di ogni cosa che possa essere fatta o pensata all’uomo». Ma cfr. già UCL XXVII, 15.

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Come per D’Alembert, del resto, tutto il ciclo del sapere non è

che un articolarsi di arti strettamente collegate alle scienze?0. Per Bentham, anzi, non esiste scienza senza l’arte corrispettiva, dac-

ché «vi sono pochi casi in cui il sapere non conduca all’azione e non ve n'è forse alcuno in cui per agire non si debba sapere qualche cosa»?1. Esiste perciò un primato dell’arte sulla scienza. Ancor più esattamente, non si può parlare di scienza e arte come di strutture teoriche indipendenti: ogni campo di fenomeni è attraversato contemporaneamenteda una forma di conoscenza e da imperativi e valori pratici?2. E dunque corretto parlare di arte-

e-scienza e considerare il campo sotto l’uno o l’altro profilo a seconda dell’aspetto che più interessi?3. Su questa base, Bentham propone quella che considera l’unica suddivisione esaustiva delle scienze, la partizione dicotomica (dichotomous o bifurcate), il cui modello si trova ancora una volta

nella logica aristotelica. Ogni ramo del sapere ha una e una sola proprietà che lo distingue da tutti gli altri (proprietà generica). Al suo interno viene poi individuata una seconda proprietà, la proprietà specifica, che è posseduta soltanto da una parte dei suoi elementi. Usando la «formula contraddittoria» («A» h4 0 zon ha la

proprietà specifica «a»), si può così suddividere il tronco in due rami, ottenendo la classificazione binaria sistematica nota come albero di Porfirio?4. D’ Alembert ha fallito questo obiettivo, sostiene Bentham, perché ha adottato una classificazione ternaria?5; invece di trovare una primzary source unica, ha così trovato tre facoltà umane illogicamente giustapposte, frapponendo una mediazione inutile e sviatrice tra soggetto e oggetto della conoscenza?6. Eudaemonics: questo potrebbe essere il nome della scienza delle scienze e dell’arte delle arti, il soggetto comune, il ceppo originario. Da questa si dipartono poi l’eudaemzonica propriamente detta e l’ontologia, scienza e arte del benessere e dell’essere

rispettivamente, cui tutte le forme del sapere possono essere 50 D’Alembert 1899, pp.13, 22-23 (tr. it., pp. 8, 12). 51 UCL CXLII, 248 (Projet Matière. Récompenses Extraord., 1887-88 ca.). Cfr;Uni anche Chrestorzathia, p. 61. 52 Cfr. ivi, pp. 59-60, 206-7.

DACI

PIO

54 Ivi, pp. 157-58, 221-25. 2A tp ai) 56 Ivi, p. 158; cfr. anche p. 162.

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ricondotte57. Un sistema delle scienze unitario ed esauriente viene così ricostruito sulla base del problema della felicità umana: Bentham ritorna in tal modo all’esprit de système del XVII secolo senza tradire l’esprit de finesse dei maestri illuministi, anzi portandolo alle sue estreme conseguenze?8: non solo il sapere è utile, ma è anche sapere dell’utilità.

Logica dell’intelletto e logica della volontà

Lo studio dei meccanismi della conoscenza e questo metodo di classificazione del sapere sono tra di loro strettamente collegati. E infatti il recupero al linguaggio di una funzione connettiva e sintetica che, proprio perché consente di superare gli esiti più scettici dell’epistemologia humeana o le rigidità del meccanicismo sensista, fa concepire l’arte e la scienza, il sapere eudaemonico e quello ontologico come altrettanto sistematici e fondamentali, gettando un ponte tra volontà e intelletto, tra desiderio, comando e conoscenza dei fatti. Ciò, in particolare, ha l’effetto

di restituire dignità e autonomia al momento normativo, pur senza farlo ricadere nell’astratto apriorismo delle filosofie razionalistiche. Tanto l’intelletto quanto la volontà appaiono a Bentham dotati di una logica, in cui le astrazioni sono riconducibili, sebbene attraverso strade diverse, ad asserzioni di fatto, le cui regole compositive sono intellegibili e sistematizzabili. La ricerca di una morale a posteriori, che aveva segnato l’indagine di Hume

e di Smith, subisce ora una duplice sterzata: non si tratta più di indagare empiricamente come avvenga che nella società prendano corpo gradualmente regole condivise ed egemoniche di giustizia e di beneficienza??, ma da un lato, di distinguere linguisticamente un giudizio di fatto da uno di valore e dall’altro, e proprio in virtù di questa prima distinzione formale, di costruire — in assenza di principi validi 4 priori — un sistema di regole in grado di unificare le valutazioni individuali e guidare le scelte individuali e collettive®0, 57 58 59 60

Ivi, pp. 179-81. Cfr. Hazard 1946, cap. VII. Zanini 1991; Forbes 1975. OLG, p. 15 nota, cap. X.

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Il superamento della prospettiva humeana e smithiana, del resto, non è radicale e non solo perché anche Bentham parte dal ripudio di una morale oggettiva. Strettamente collegata a Hume è infatti anche l’esigenza di tenere distinto l'essere dal dover essere, e soprattutto l’affermazione di un primato della volontà (delle «passioni») sull’intelletto.

L'etica e le sue ramificazioni

Un aspetto della mappa benthamiana delle conoscenze che interessa da vicino il nostro discorso è la classificazione delle scienze umane da essa proposta. Una prima partizione rilevante è quella tra somzatology e pneumatology, giacché tende a ribadire la rigida distinzione lockeana-sensista, e ancor prima cartesiana°!, tra corpo e anima, il primo oggetto di scienze e base fisicochimica, la seconda invece dominio esclusivo delle scienze «morali». Nessun ponte esiste tra le due, sicché l’analisi benthamiana dell’intelletto è bensì sapere di «entità reali» estraneo ad ogni idealismo, ma è anche restia ad ammettere una qualunque forma di determinismo fisico, tanto nella versione meccanicistica proposta da D’Holbach o, in Inghilterra, da Hartley e soprattutto da Priestley, quanto in quella di un’unità organica e «attiva» del fisico e del morale sostenuta da Cabanis e dagli idéologues®2. «Analisi dell’intelletto», la pneumatologia è scienza-contenitore più che corpo dottrinale conchiuso, così come lo sono le due branche che da essa propagano, la «pneumatologia nooscopica», o scienza della facoltà intellettiva, e la «pneumatologia patoscopica», o scienza della facoltà sensitiva (non si possono enunciare questi termini senza dar torto ai detrattori dello stile benthamiano). Bisogna arrivare alle loro ramificazioni per trovare forme di

sapere realmente dotate di un contenuto proprio: la logica, la grammatica e la retorica nel primo caso, l’etica e l’estetica nel secondo. L’etica viene distinta a sua volta in dicastic o censorial (normativa), ed exegetic o expository o ancora enunciative (descrit-

tiva). L’etica descrittiva si occupa in particolare della facoltà sensitiva, avente la proprietà di condurre all’azione (è perciò psico61 Moravia 1974, pp. 35-49.

62 Cfr. ivi, cap. 1; Gusdorf 1978, pp. 451 sgg.

7%|

logia «ergastica»), l'estetica della medesima facoltà nel semplice atteggiamento contemplativo, la retorica e la grammatica trattano della «comunicazione», mentre alla logica — come era da aspettarsi — è riservato lo studio delle operazioni che portano alla conoscenza. Che cos’è dunque la pneumatologia? E quella che alcuni dei contemporanei di Bentham cominciavano a definire «psicologia»; più che una scienza in sé stessa, è per il filosofo un campo di scienze empiriche dell’intelletto9. In questa sua veste, la psicologia svolge una funzione della massima importanza, mostrando come sia da escludere dalle scienze umane — etica compresa — tutto ciò che non faccia capo a un’entità reale, a un suo modo o a una sua qualità, si tratti di concetti o di imperativi morali. Tra le ulteriori articolazioni di questo gruppo di scienze rilevante è proprio quella che riguarda l’etica: essa si suddivide in due grandi rami, a seconda che l’oggetto siano le scelte private o quelle pubbliche. La seconda è polioscopic ethics, etica pubblica o politica, la prima invece apolioscopic ethics, etica privata o morale propriamente detta64. La politica è pertanto una branca dell'etica, e, come questa, ha un aspetto normativo e uno descrittivo: «ciascuno di essi [è] considerato com'è, nella speranza di vederlo diventare ciò che dev'essere». Essa si distingue inoltre in legislazione e amministrazione. La scienza della legislazione è dunque il ramo del sapere politico che si occupa delle leggi, di quelle scelte pubbliche che hanno carattere generale e duraturo all’interno di uno stato sovrano$6. 63 Chrestomathia, p. 183 nota; Gusdorf 1973, pp. 32-34. 64 Article on Utilitarianism, in Deontology, p. 318. Cfr. Chrestomathia, Appendix IV, pp. 139-276, spec. pp. 202-4. 65 Article on Utilitarianism, in Deontology, p. 318. Questa duplicità spiega anzi la sinonimia polioscopic ethics-politics-government: «Con la parola Goverro, la pratica, e dunque l’arte, sembra essere più specificamente significata: con la parola Politica, la branca corrispondente della Scienza» (Chrestorzathia, p. 204 nota). Cfr. già UCL CXL, 60, in cui Bentham distingue tra «teoria della politica» e «arte della legislazione». Diversa è invece la suddivisione adottata da Austin tra «giurisprudenza», «scienza descrittiva», e «scienza della legislazione», di contenuto normativo. Cfr. Agnelli 1959, pp. 26-27.

66 Alla suddivisione legislazione-amministrazione della Chrestomzatbia (pp. 204-5), corrisponde quella legislazione-governo nell’Article (p. 318). Come si è visto, però, nella prima la nozione di «governo» è contrapposta a quella di «politica» e copre tutta quanta la pratica (arte), tanto legislativa che amministrativa. Cfr. anche UCL XXVII, 16; XCVI, 132.

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Capitolo quarto

ARIDA UTILITÀ

Le opere che fanno conoscere Bentham all'Europa, quelle pubblicate da Dumont a partire dal 1802, compaiono in un momento in cui, con l'avvio delle guerre napoleoniche e il risveglio delle nazionalità, con il risorgere della religiosità tanto in campo protestante che cattolico, infine con un più generale mutamento della sensibilità culturale ed estetica, prende corpo una reazione intellettuale contro i valori e le teorie del secolo dei Lumi. Ad essere al centro degli attacchi è in ispecie il «materialismo» dei filosofi sensisti e degli enciclopedisti, coloro che Carlyle definirà «i masticatori di logica». In questa ondata critica viene coinvolto anche il pensiero di Bentham, che da quella tradizione trae alimento.

Utilità triste, bella utilità

L’opposizione alla serena proposta filosofica dell’utilità dell’idea che la ricerca della felicità rappresenti invece il destino tragico degli individui è uno dei temi dominanti della polemica romantica. Non si tratta però di una dialettica del tutto nuova: essa, in realtà, aveva attraversato già il cosiddetto secolo dei lumi e della ragione!. Né le due concezioni erano state tra loro impermeabili, come lascia trasparire anche un filosofo accademico come William Paley, autore di una versione dell’utilitarismo ispirata ai principi della teologia naturale, quando, cercando di definire la felicità, nega senz'altro che essa sia figlia d’affanno, giac1 Cfr. Mauzi 1960.

LE.

ché lo stato d’animo che deriva dalla rimozione delle sofferenze «è di solito accompagnato non da tranquillità di spirito, ma da depressione, dall’assenza di interesse per qualunque idea, da ansietudini immaginarie e dall’intera gamma delle affezioni ipocondriache»?. Nondimeno, è la vivacità del contrasto a caratterizzare i tempi nuovi. L’impossibile ricerca della felicità è uno dei temi centrali dell’opera di Germaine de Staél, avversaria ma anche non ricambiata ammiratrice dell’eremita di Queen's Square Place?. Proprio coloro che desiderano di più essere felici, le anime passionali, sono inevitabilmente condannati, per la scrittrice, allo scacco e alla sofferenza. Esponendosi senza riserve agli altri, essi perdono ogni controllo sul proprio destino e il capriccio altrui o lo scorrere tragico degli eventi provocano la totale delusione delle loro attese. È questo il momento più doloroso, anche se non completamente negativo, giacché pone le condizioni per trascendere la cieca ricerca del piacere e vedere di più: occorre soltanto che «le tempeste delle grandi passioni» si plachino e che al dolore abbagliante si sostituisca «la dolce melanconia, vero sentimento dell’uomo, risultato del suo destino, sola situazione del cuore che lasci alla meditazione libero campo e l’intera sua forza»?. Questa, come l’ironia, è duplice e ambigua e può produrre quello sdop-

piamento della coscienza da cui deriva l’accresciuta visibilità: il temperamento melanconico è infatti disgustato di sé e al contempo ancora capace di interessarsi alla propria sorte; smette di soffrire soltanto per vedersi soffrire, di provare questo dolore per comprendere il dolore come tale. Dalla contemplazione di sé giunge alla coscienza del proprio io come una totalità indipendente e, al contempo, all’avvertimento degli altri come persone nell’intima essenza assolutamente eguali a sé, esseri umani in ge-

2 Paley 1828, p. 11. Sulla tradizione dell’utilitarismo teologico, di cui Paley è esponente, cfr. Vereker 1967, pp. 36-37; Viner 1972, pp. 70-73; Albee 1902, pp. 69-78, 165-74. 3 Bentham definirà Madame de Staél «insulsa gazza». Cfr. Works, vol. X, p. 467.

4 Staél 1979, pp. 11-12;J.Starobinski, Suicide et mélancolie chez Madame de Staél, in Balayé 1970, pp. 245-46; S. Balayé, Madame de Staél. Lumières et liberté, Kincksieck, Paris 1979, p. 58.

5 Staél 1979, pp. 53-54, 395, 314.15. 74

nerale, per quanto infinitamente (e perciò insondabilmente) diversi gli uni dagli altri6. Il solco che separa questa visione dalla tradizione sensista è scavato. Il dolore non è più solo una sensazione oppressiva da cui semplicemente si rifugge e l’essere umano non è più visto come natura senziente e conoscente, aggregato di impressioni particolari; è invece cosciente della sua soggettività e in essa trova i

motivi per donarsi generosamente agli altri?. Diffusa è d’altronde la visione dei sensi come prigione, segno dell’inevitabile iato tra aspirazione al sublime e debolezza delle forze individuali8. Del tema dell’effimera ricerca della felicità si approprierà anche la reazione cattolica ottocentesca, per farne un simbolo della sua rivincita sui lumi. Anche in Chateaubriand, punto di avvio di una vicenda degna di interesse è sempre la situazione di sconfitta in cui si trovano alcuni personaggi: René cerca l’esilio in una regione lontana «sospinto da passioni e sventure»?; Atala, pura e ingenua creatura, è indotta alla tragica scelta del suicidio per non aver saputo che anche il più terribile voto può essere sciolto. Riposando sulle sole sue forze, l’essere umano nulla può contro le avversità del mondo: solo la religione cristiana, con la promessa di un premio ultraterreno, appare in grado di ricomporre e pacificare l'animo deluso!°. Anche in questo caso il dolore, il tragico, sono esperienze risolutive e rivelatrici, ma questa volta l’oggetto dell’accresciuta visibilità non è la propria soggettività, bensì l'Eterno. Più direttamente rivolta contro la teoria utilitarista è l'accusa di aridità, di insensibilità verso lo slancio eroico, la contemplazione del «bello morale» e l’afflato religioso. Tutto essa appiattisce invece con la proposta della «triste utilità», come la definisce Madame de Staél, «quell’arido principio [...] che fertilizza qualche angolo di terra in più, condannando alla sterilità i vasti orizzonti del sentimento e del pensiero»!!. Il motivo della «triste 6 Ivi, pp. 293-300; Staél 1968, vol. II, pp. 96-97; F.P. Bowman, M.rze de Staél et l’apologétique romantique, in Balayé 1970, pp. 160-635.

7 Staél 1979, pp. 348, 354.

8 Cfr. Lamartine 1963, Méditation deuxième. ? Chateaubriand 1964, p. 74. 0 Mlvi,pp.(115;3 123, Cf. Moravia 1968, pp. 509-39. 11 Staél 1968, vol. II, pp. 183-84, 185-86 nota; Staél 1985, p. 216. Cfr. King 1970, p. 13.

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utilità» è destinato rapidamente a propagarsi!: sarà per esempio al centro dell’atto di accusa contro l’Età Meccanica pronunciato in Signs of the Times (1829) da Thomas Carlyle, secondo il quale

le regole della macchina, con la loro razionalità calcolatrice e pianificatrice, con l'esaltazione della velocità e dell’inanimato, minacciano ormai il mondo dello spirito e uccidono la vitalità, l’entusiasmo altruistico, eroico e religioso!?. La filosofia utilitarista, accogliendo la spiegazione sensista dell’animo umano, partecipa di questo meccanicismo insulso e superficiale; essa riduce la felicità a mera funzione delle circostanze esterne e l’individuo a meccanismo reattivo, capace di soffrire o godere a seconda degli stimoli ricevuti, preoccupato solo di sé, del suo interesse immediato!4. L’errore è di non vedere le sorgenti primarie dell’animo, i suoi moventi più profondi, infiniti e immutabili, che possono proiettarlo verso aspirazioni sublimi. Una conclusione condivisa ancora, un secolo più tardi, da Schumpeter, allorché sostenne

che l’utilitarismo è una filosofia «di insuperabile piattezza»!?. All’accusa di aridità è spesso associata quella di bassezza, che implica un’identificazione dell’utilità con l'egoismo, con i piaceri materiali, ovvero con lo spirito commerciale. Frequente è soprattutto la riduzione della morale utilitarista alla teoria helveziana dell’interesse ben inteso, secondo cui un comportamento egoistico illuminato e calcolatore, in un quadro di leggi che reprimano le scelte asociali, sarebbe il migliore strumento per realizzare il benessere generale: la teoria viene riprovata perché rinuncia a coltivare quanto di più elevato possa esservi nell’animo umano o perché elimina la netta frontiera che separa la virtù dal vizio!‘. Alcuni, come Sismondi, ammettono che Bentham avrebbe sem-

pre mantenuto distinto il principio di utilità dall’interesse ben inteso, convinto però che i due sostanzialmente coincidessero; egli avrebbe quindi escluso che il bene comune richieda talvolta cospicui sacrifici, mostrando l’insufficienza dell’utile quale fon12 Reybaud 1842, vol. II, p. 193. 13 Carlyle 1869, pp. 232-33. Cfr. J. Clubbe (a cura di), Carlyle and His Contemporaries. Essays in Honour of Charles Richard Sanders, Duke University Press, Durham (N.C.) 1976 (spec. i saggi di E. Spivey e I. Campbell). 14 Carlyle 1869, p. 236. 15 Schumpeter 1954, p. 407. 16 Reybaud 1842, vol. I, p. 32; vol. II, p. 194; Staél 1968, p. 185.

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dazione della morale!?. È evidente che il filtro del sensismo francese conduce a una lettura distorta e parziale della teoria benthamiana; nondimeno sarà proprio questa lettura ad imporsi per

tutto l’Ottocento. Sul registro storicizzante che gli è proprio, il Fichte dei Reden an die deutsche Nation raggiunge conclusioni analoghe: egli considera l’egoismo o utilità materiale come l’ideale dominante di un’epoca ormai tramontata grazie al risveglio patriottico messo in moto dalle invasioni napoleoniche: ormai la «buona volontà», necessaria alla «cosa pubblica», non deve più essere ottenuta attraverso il nesso timore-speranza (le benthamiane pene e ricompense), ma sarà il frutto della spontanea tensione verso il bene «assoluto»!8. La ricerca della felicità inevitabilmente conduce la società al disordine, favorendo nei governanti l’interesse sinistro e nei governati lo spirito di anarchia; lo slancio disinteressato, invece, prepara la sostituzione dello Stato autoritario con un «libero e meditato sviluppo dell'umanità», i cui contorni richiamano a tratti la volontà generale rousseauviana e a tratti anticipano il marxiano autogoverno dei produttori!?. Singolare coincidenza pur nell’opposizione delle visioni, anche Bentham giunge negli stessi anni a concludere che il potere conduce inevitabilmente i governanti a promuovere il loro interesse privato a spese di quello della nazione. La risposta non è però trovata nella fuga in avanti verso una soluzione comunitaria, ma nell’istituzione di controlli democratici atti a ricondurre l’agire dell’élite al potere verso l’utilità generale. La periodizzazione introdotta da Fichte è ripresa da altri filosofi tedeschi: più in generale, Hegel, nella Phanomenologie des Geistes, identificherà anch'egli il secolo del «rischiaramento», con l’analisi sensista e con l’etica dell’utile2°, per individuarne un comune difetto nella cattiva infinità del catalogare, senza riuscire a ricomporre lo spirito in un’unità autonoma e autopropulsiva. Un ulteriore passo in avanti nella critica dell’utilitarismo è il parallelo dispregiativamente stabilito da molti tra principio di 17 Sismondi 1829, pp. 263-64; Dinwiddy 1984, pp. 66-68. Sul tema dell’antinomia tra utilità individuale e collettiva cfr. Jouffroy 1876, pp. 326-27. 18 Fichte 1807-1808 (trad. it., pp. 47-51).

19 Ivi, p. 70. Sul pensiero politico fichtiano cfr. P. Salvucci, Fichte, in Questioni di storiografia filosofica, a cura di V. Mathieu, Morcelliana, Brescia 1975. 20 Hegel 1980, pp. 86-124. Cfr. Leroux-Reynaud 1836, pp. 591-92.

DI

utilità, etica del commercio ed economia politica. La morale dell'egoismo appare meschina, di per sé acquisitiva, giacché riduce i rapporti tra individui a un mero calcolo di profitti e perdite?!. L’utilitarismo di Bentham diventa con ciò «mammonismo», etica

del commerciante incapace di slancio, e viene sovrapposto all’economia politica — anch’essa vista come «scienza triste», «studio materiale», «pensare grave e preoccupato»?? — e, indistintamente, all’ideologia del libero scambio, il «nonfarnientismo»??: donde l’avvio di una duplice illusione ottica, che conduce ad interpretare l’utilitarismo come filosofia dell’hbomzo oeconomicus e l’economia politica come scienza fin dall’inizio fondata utilitaristicamente, illusione che, dopo Halévy e poi Robbins, diventerà luogo comune degli economisti del nostro secolo?4. Si vede da ciò fino a qual punto questa visione influenzi l’istintiva avversione per Bentham di Marx ed Engels, entrambi del resto impressionati dalla lettura di Carlyle. Anche per loro la morale di Bentham non solo si limita alla dottrina dell’inte-

resse ben inteso, ma è la «volgare» riduzione dell’uomo in generale al «filisteo inglese del XIX secolo»?5. Infine, a Bentham e agli utilitaristi si replica che il movente egoistico è inadatto a spiegare la pluralità delle scelte umane. Se esso predomina in quello che John Stuart Mill chiamerà l’aspetto «pratico» della vita2?, moventi altrettanto fondamentali sono il senso del dovere, lo spirito nazionale, la perfezione spirituale?8. Carlyle conclude perciò che la morale utilitarista è impossibile, dato che sovrumano sarebbe riuscire a computare tutte le mutevoli circostanze che influiscono sul benessere degli individui, pri21 Carlyle 1869, p. 241; Carlyle 1888, p. 25. Il tema è parallelamente ripreso da Adam Sedgwick in quel Discourse on the Studies of the University (Pitt Press, Cambridge 1834, p. 67) che segnerà l’inizio, a Cambridge, della reazione contro

il predominio dell’utilitarismo di Paley. Cfr. Birks 1874, pp. 7-15. 22 Le espressioni sono rispettivamente di Carlyle (1872a, p. 183; 1872b, p. 84), Bulwer Lytton (1833, p. 159) e Fichte (1807-1808, p. 51).

23 24 25 Carlyle

Carlyle Halévy Cfr. F. (1844),

1888, pp. 25-29, 124-25; Carlyle 1872a, p. 152. 1901-4, vol. I, cap. m, vol. III, cap. 1; Robbins 1965, lecture VI. Engels, La situazione dell'Inghilterra. «Past and Present» by Thomas in Matx-Engels 1972, vol. III. 26 K. Marx, F. Engels, La Sacra famiglia, in Marx-Engels 1972-, vol. IV, p. 146; Idd., L’Ideologia Tedesca, ivi, vol. V, p. 206; Marx 1869, p. 749 nota.

27 Mill 1962, p. 105.

28 Bulwer Lytton 1833, p. 322; Mill 1962, pp. 99-101.

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ma di decidere le scelte da compiere?9; e quasi hayekiana è l’osservazione di Hazlitt: l'essere umano ha bisogno di regole fisse per agire, perché è incapace di conoscere e valutare correttamente, in ogni momento, le conseguenze delle proprie azioni?°. Di nuovo, è la struttura teorica stessa dell’utilitarismo ad essere ri-

tenuta responsabile di queste omissioni: non è tanto che Bentham abbia dimenticato la benevolenza, la filantropia o il piacere estetico, ma egli non ha mai preso in considerazione la «coscienza», la capacità dell’individuo di ripiegarsi su se stesso, un individuo che non è aggregato di affezioni commensurabili, ma propulsiva soggettività?1. In fondo, in questa contrapposizione si trovano già i germi del futuro dibattito sulle condizioni di possibilità del calcolo felicifico (cardinalità e comparabilità interper-

sonale) e sull’alternativa tra utilitarismo dell’atto e della regola. Di contro a questa ricezione ostile, non mancano in tutto il

primo Ottocento voci che si levano per difendere la filosofia benthamiana. Meno ampia sembra essere l’eco in Inghilterra, dove solo James Mill e il gruppo dei «Radicali filosofici» (Perronet Thompson, George Grote, Francis Place, lo stesso David-Ricardo e altri) possono dirsi continuatori e diffusori del verbo del

maestro. Loro canale di espressione è la «Westminster Review», sulle cui colonne si sviluppa, tra il 1829 e il 1830, una polemica circa le critiche di T.B. Macaulay all’articolo Government scritto da James Mill per il supplemento all’Encyclopaedia Britannica (1820). Possibilità del calcolo utilitaristico, incompatibilità tra utilità generale e interesse privato, tirannia delle maggioranze sono i temi maggiormente dibattuti32. E inoltre da ricordare che, anche se sembra da escludersi una diffusa influenza di Bentham sulle riforme amministrative degli anni 1830-1840, accertato rimane almeno il debito nei suoi confronti di E. Chadwick, ispiratore della riforma del sistema sanitario inglese??. Ma un'accoglienza favorevole riserba all’opera di Bentham 29 Carlyle 1869, p. 241. 30 Hazlitt 1925, p. 193. Cfr. Bulwer Lytton 1833, pp. 318-21.

31 Mill 1962, p. 97.

ig

32 Cfr. Lively-Rees 1978; Dinwiddy 1984, pp. 63-64. Sui radicali filosofici, cfr. S. MacCoby, English Radicalism 1786-1832. From Paine to Cobbett, Allen & Unwin, London 1955. 33 Cfr. Hume, L.J. 1967; Briggs 1986, pp. 308-17.

DO

soprattutto una parte della cultura continentale. Che i suoi lettori più entusiasti si trovino tra gli autori di lingua francese non stupisce, anzi mostra, quasi per un gioco di rifrazioni, l'entità del debito del filosofo nei confronti della tradizione sensista ed enciclopedica. Nella geografia intellettuale e politica prima dell’Europa napoleonica, poi di quella restaurata, leggono e commentano le opere del filosofo in particolare alcuni gruppi di opposizione liberale, di cultura tardo-illuministica, espressamente ostili alle tesi romantiche, eclettiche e spiritualiste?4: gli «ideologi» parigini e i loro epigoni, come gli «Individualistes» dell'Union Parisienne35 o il giurista accademico Hyacinthe Blondeau, la generazione liberale ginevrina36, che annovera entusiastici fautori (Etienne Dumont, naturalmente, e il già menzionato AntoineElysée Cherbuliez), ma anche critici sia pur attenti della filosofia utilitarista: «Constant l’inconstante»37, Sismondi, Madame de

Staél, Pellegrino Rossi. La difesa di Bentham è in realtà strumento di una più vasta battaglia culturale e politica, anzi, un momento di identificazione e di scelta di campo?8; ancor più, un momento attraverso cui temi e concetti della cultura illuministica (la critica alla metafisica, al linguaggio retorico, lo spirito di indagine positiva nel diritto, nell'economia politica e nelle altre scienze umane) vengono mantenuti in vita e saranno trasmessi

alla generazione positivista di metà secolo. Non è in fondo proprio quello che Bentham stesso aveva auspicato con il suo Autoicon: divenire non solo auctoritas, ma anche simbolo, immagine

personale di una filosofia e di una nuova visione dell’umanità? Sottofondo comune alle difese dell’utilitarismo benthamiano è una decisa polemica contro le posizioni romantiche, viste come «sintomo di incivismo e disorganizzazione», «vecchiume» che intralcia il progresso della società??. Alle accuse di Madame de Staél all’«arido principio di utilità», e all’esclamazione «Oh, quanto 34 Moravia 1968, p. 26.

35 Welch 1984, pp. 159-60. 36 Rappard 1966; Roth 1981, pp. 69-96. 37 Works, vol. X, p. 467. 38 Cfr. Lettera diJ.-B. Say a E. Dumont, 5 marzo 1829, in Say 1843, pp. 660-61, nella quale Say propone a Dumont di scrivere un’apologia del principio di utilità, da inserire nellultima parte del Cours. Solo la morte del ginevrino farà fallire questo progetto. 39 Cherbuliez 1829, p. x. Analoga la reazione di Dumont alla morale dell'entusiasmo di Madame de Staél. Cfr. King 1970.

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amo l’inutile!» di Corinne-Germaine, commossa per la bellezza delle cerimonie religiose della chiesa romana, ribatte Say, citando il Sismondi storico d’Italia, che proprio da que/l’'inutile (’ingerenza della Chiesa sul destino della penisola) erano risultate «la miseria, lo spopolamento, la degradazione del carattere nazionale ecc.»4°. Osservazione da cui traspare una delle ragioni per le quali l’utilitarismo di Bentham esercitava un fascino sulla cultura liberale di quegli anni: proponendo come obiettivo la massimizzazione del benessere, esso, più che semplicemente rispecchiare il senso comune delle classi medie del tempo, poneva l’accento sul valore generale di un uso efficiente delle risorse umane e naturali, sullo sforzo necessario per superare la scarsità naturale e avviare a soluzione il «problema economico»4!. Anche Cherbuliez, replicando all'affermazione di Constant secondo cui l’utilitarismo ispirerebbe l’idea del profitto invece di quella del dovere, ribadisce che il principio di utilità niente ha a che spartire con una visione mercantile o materiale della vita, benché esso proponga un criterio ragionato e coerente per le scelte. Anzi, tanto

maggiore sarà il benessere collettivo quanto più di esso faranno parte piaceri superiori e raffinati e un diffuso spirito di benevolenza e generosità. Ottenere una tale situazione è tuttavia difficile e ogni energia va utilizzata al meglio*?. Si comprende perché un’intera generazione, da Say a John Stuart Mill, al nostro Cavour, ricordi come una rivelazione catartica la lettura delle taglienti critiche alla morale «dell’asceti-

smo» e del «principio arbitrario» contenute nei capitoli iniziali dell’Introduction to the Principles of Morals and Legislation*3. Morale del senso comune ed entusiasmo romantico, tradizione cristiana ed eroismo moderno appaiono loro d’un tratto come un

fascio di dottrine vaghe e incoerenti, rispetto alle quali risalta ancor meglio la modernità della proposta utilitarista. Da più parti viene del resto sottolineata la critica benthamiana ai sofismi 40 J.-B. Say, Essai sur le principe de l’utilité, in Say 1843, p. 677. 41 L'espressione è di J.M. Keynes, Prospettive economiche per i nostri nipoti, in id., Esortazioni e profezie, Il Saggiatore, Milano 1968. 42 Cherbuliez 1829, pp. 211-31, 306-23. Queste accuse richiamano l’attenzione anche di Say. Cfr. Lettera di J.-B. Say a E. Dumont 21 luglio 1829, in Say

1843, pp. 662-63.

43J.-B. Say, Essai sur le principe de l’utilité, in Say 1843, pp. 671-74; Mill, J.S. 1981, pp. 51-53; id., 1962, pp. 87-89; R. Romeo, Cavour e il suo tempo. 1810-1842, Laterza, Roma-Bari 19844, pp. 286-90.

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del diritto naturale, che appare di nuovo, dopo la parentesi rivoluzionaria, elemento di una visione conservatrice della politicast

A fare da cornice a questo dibattito è la nascente battaglia culturale attorno al valore dell’«industria», intesa come operosità, attività produttiva collegata all’ingegno e allo spirito di intrapresa, movente individuale capace di promuovere il benessere collettivo attraverso la crescita del potenziale produttivo di ciascun paese. Sono gli anni della rivoluzione industriale in Belgio, nei Paesi Bassi e soprattutto in Francia4 e questa battaglia ideologica non solo oppone reazionari cattolici e monaldeschi agli industrialisti liberali e utilitaristi, ma si fa ancor più aspra in seno allo stesso schieramento liberale. Ivi, mentre tutti condividono

la convinzione che, come scrive Constant, «la proprietà industriale si collocherà, in assenza di interferenze legali, ogni giorno di più al di sopra della proprietà fondiaria» e «vi sarà inoltre, quanto all’industria, libertà, concorrenza, assenza di qualunque intervento dell’autorità, sia per preservare gli individui dai propri errori [...], sia per assicurare al pubblico migliori oggetti di consumo», solo ad alcuni pare che la trasformazione economica e politica debba essere accompagnata dalla ricerca di un’etica positiva nelle sue premesse e ragionevole nelle sue argomentazioni, nonché da un approccio scientifico ai problemi della società. L’anti-utilitarismo dei romantici e degli eclettici appare a costoro un cedimento alle posizioni conservatrici o, alternativamente,

l’incoraggiamento di uno spirito anarchico e dissipatore che potrebbe vanicare i benefici della civilizzazione4?; la morale dell’u-

tilità, d’altra parte, è difesa non perché si presenti come il travestimento ideologico dello spirito pratico dell’imprenditore o dell’bomo oeconomicus, ma perché può ispirare agli individui di tutte le classi un comportamento coerente e razionale, una scelta oculata dei mezzi necessari per ottenere i propri fini. Sebbene le accuse di aridità, materialismo e «mammonismo»

vengano respinte, la versione idéologique e industrialista dell’u44 Cfr. le repliche alle accuse di Pellegrino Rossi in Cherbuliez 1829, pp. 24-25, 382-407, 445-68. Cfr. Blondeau 1819, p. 34. 45 Cfr. Augello 1979. 46 Constant 1957, p. 803. 47 Non mancano del resto coloro che stabiliscono una diretta continuità tra utilitarismo e industrialismo. Cfr. Leroux-Reynaud 1836, pp. 594-95.

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tilitarismo opera sulla visione teorica di Bentham almeno un duplice slittamento di senso. In primo luogo il reinserimento nella tradizione sensista, rivisitata nel frattempo dai Cabanis e dai Destutt de Tracy, tende talvolta a far leggere l’etica benthamiana come una più rigida e deterministica teoria dell’interesse ben inteso o della «coincidenza naturale tra il giusto e l’utile, il bello e il buono»48. Inoltre, pur senza cadere in un’interpretazione economicistica, la morale dell’utile viene gradualmente inserita all’interno di un discorso al cui centro si trovano i valori della produzione, della libertà d’intrapresa e dello sviluppo economico e sociale, che apre anch'esso la strada all’interpretazione dell’utilitarismo come filosofia borghese e acquisitiva. La pretesa, infine, di derivare da Bentham l’idea che ogni violazione del «gioco naturale degli interessi umani» è seguita «da una perdita e da un danno», farà dell’utilitarismo, rivisitato in chiave fisiocratica, la bandiera del liberismo economico di metà Ottocento, il liberismo di Frédéric Bastiat.

Come ogni ricezione, quella che investe l’opera di Bentham mette in evidenza alcuni aspetti del suo messaggio, ne ignora o ne distorce altri, rivelandone indirettamente i contenuti e le originalità, i messaggi facilmente comprensibili alla luce della tradizione e quelli invece che più colpiscono per la loro novità dirompente. Come ogni ricezione, essa diviene un filtro attraverso il quale tutte le letture successive sono costrette a passare. Proprio per questo, può essere un esercizio utile affrontare l’esame dell’etica benthamiana dopo averne portato alla luce i lineamenti.

Una prasseologia edonistica

Si è visto come Bentham riconduca ogni azione umana alla tendenza a cercare il piacere e rifuggire il dolore‘. E questo il 48 Molinari 1984, p. 501. Cfr. Blondeau 1819, p. 44; Guyau 1879, p. 22; Raffalovich 1888, pp. xx1, xxxv. Non è però d’accordo Say, per il quale l'egoismo è «un vizio e al contempo un cattivo calcolo» (J.-B. Say, Essai sur le principe de l’utilité, in Say 1843, p. 670). 49 Works, vol. VIII, pp. 205, 300. La nozione di azione prevale su quelle di scelte, preferenze e decisioni, pur definite accuratamente. «Preferenza» e «indif-

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nucleo portante dell'etica descrittiva, cui sono dedicati i capitoli III-XII dell’Introduction e alcune opere tarde, quali la Deontolog) (1814-19) e A Table of the Springs of Action (1815-17). Poggiando sulla propria concezione della causalità, Bentham scompone l’azione nelle sue varie componenti: a monte di essa si trovano sempre una o più motivazioni (motives), suddivise a loro volta in motivazioni della volontà e dell’intelletto ovvero, rispettivamente, «desideri» e «ogni considerazione la cui apparente tendenza sia di accrescere l’efficacia del desiderio», ricercando poi i mezzi più adatti per soddisfarlo. Nella linea di Locke e di Hume, viene così ribadito il primato della volontà sulla ragione, di quella «inquietudine» o di quelle «passioni» che muovono all’azione sulla calma e realistica valutazione del mondo circostante e delle possibilità che esso offre?°. Appartengono alla classe delle motivazioni desideri di ogni tipo, dall’appetito per il cibo al desiderio sessuale, fino all'amore e alla benevolenza?!. Esse sono, per usare un linguaggio non benthamiano, determinazioni di contenuto del fondamentale impulso edonistico; in termini più fedeli all’autore, la percezione di piacere o dolore, ovvero l’aspettativa del loro futuro sopraggiungere, sono sempre l’elemento più prossimo della catena causale delle motivazioni ir esse??. Se le motivazioni sono all’origine dell’azione esse dipendono

a loro volta dalle condizioni esterne in cui gli individui operano, le quali determinano i modi del piacere e del dolore??. Diverse circostanze influenti possono cioè confluire nelle decisioni dell'individuo, determinando diversi comportamenti. Di eguale riferenza» sono infatti introdotte nell’analisi delle intenzioni che spingono un individuo ad agire: quando due conseguenze sono «disgiuntivamente intenzionali», ovvero alternative, comportano preferenza «quando l’intenzione è che una di esse in particolare debba realizzarsi piuttosto che l’altra», mentre rivelano indifferenza «quando l’intenzione è esaudita egualmente qualunque di esse si realizzi» (IPML, p. 87). Queste due nozioni sono pertanto tipi particolari del genus «azione». Quanto alla nozione di decisione, essa è in pratica un sinonimo di quella di azione, con in più una connotazione incoativa, che evidenzia il passaggio dall’esame delle conseguenze attese all’azione vera e propria (Works, vol. VIII, p. 225). 50 A Table of the Springs of Action, in Deontology, pp. 92-93. Cfr. Locke 1959, vol. I, pp. 304-5; Hume 1978, III; Mack 1962, p. 166. In UCL CXXVII, 88-90, Bentham fa esplicitamente riferimento alla teoria dei moventi di Locke, Cfr. Dinwiddy 1975, p. 696. 51 IPML, pp. 42-50, 103-15. Alla classificazione delle motivazioni è dedicata in particolare A Table of the Springs of Action. 52 IPML, pp. 97-98.

53 Ivi; p. Sl.

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levanza è l'impatto delle circostanze influenti sugli esiti dell’azione. Non solo infatti molteplici concause, unendosi all’atto di un individuo, concorrono a determinarne l’effetto, ma da ogni azione derivano anche una serie di effetti collaterali, che innescano a loro volta altre catene di avvenimenti54. Del resto non tutti gli effetti sono intenzionali, anche se ogni azione, in quanto tale, comporta la precisa volontà di ottenere qualche risultato: «L’atto — infatti — può essere molto di frequente intenzionale senza che lo siano le conseguenze», ovvero «un atto può essere intenzionale in ogni suo stadio o insieme di stadi, anche se è inintenzionale nei precedenti». A determinare esiti non voluti concorrono proprio le circostanze collaterali, soprattutto se numerose o imprevedibili?>. Strettamente legato alle riflessioni giuridiche di cui si occupa l’ultima parte dell’Introduction e, in particolare, alla valutazione delle azioni delittuose, questo tema è di grande interesse perché verrà ripreso da Bentham nell’ambito delle riflessioni politica ed economica, assumendo una portata ben più generale. In particolare, il concetto di inintenzionalità, presente nelle elaborazioni teoriche di Hume e di Smith, ma mai formulato esplicitamente, permetterà di legare esplicitamente l’interpretazione delle scelte individuali e quella dell’ordine collettivo che deriva dal loro comporsi?‘. Nell’ambito di questa analisi dell'intreccio tra catene causali di scelte, appaiono rilevanti soprattutto quelle azioni le cui conseguenze vanno ben al di là degli individui immediatamente coinvolti (assignable), con un effetto moltiplicatore che tende a interessare tutta la collettività. Sono queste le conseguenze definite «secondarie», che sono di due generi: l'allarme e il pericolo, che si legano al meccanismo psicologico delle aspettative. L'allarme è infatti «un dolore di apprensione» che nasce dal sentimento di insicurezza alla vista del danno subìto da altri. Il pericolo è invece l’accresciuta «eventualità [...] di soffrire tali danni o incon54 Ivi, pp. 79-83. Cfr. Anche Essay on Language in Works, vol. VIII, p. 300, in cui è ulteriormente specificato il rapporto tra evento e azione. 55 IPML, pp. 84, 88; ivi, p. 89: «Un uomo ha nelle sue intenzioni l’atto; e mediante la sua intenzione produce l’atto; ma quanto alle circostanze, egli non /e intende, non le produce...». 56 Sul problema dell’inintenzionalità in Hume e Smith cfr. Haakonssen 1981. La formulazione teorica di questo problema può essere trovata in F.A. Hayek, Individualism: True and False, in Hayek 1949.

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venienti», che dipende dall’effetto di imitazione cui l’azione originaria (qualora coronata da successo) può dar vita, o da circo-

stanze collaterali che essa stessa ha prodotto?7. L’esito di un’azione, dunque, è sempre complesso, le catene causali da essa ingenerate sono molteplici e il risultato spesso imprevedibile. Questa, che potremmo definire una prasseologia edonistica, è il nucleo dell’etica descrittiva benthamiana. Come abbiamo visto, i primi lettori di Bentham sono pronti a cogliere il profondo debito di questa visione nei confronti della tradizione empirista e soprattutto di quella sensista. A partire da John Stuart Mill, anzi, prenderà corpo l’idea che l’originalità — se mai ve ne sia stata una — della filosofia benthamiana non risieda tanto nei singoli contenuti, quanto nell’organizzazione rigorosa e incisiva data loro?8. Bentham stesso contribuisce a creare questa interpretazione, insistendo spesso sul suo debito nei confronti di Helvétius; contemporaneamente, egli opera però una vera e propria scomposizione e ricomposizione del panorama filosofico precedente, col preciso scopo di crearsi un retroterra, una «scuola utilitarista», e presentarne sé stesso come il lucido sistematizzatore. Così di Locke loda la chiarezza nelle definizioni e il metodo adottato nell’Essay on Human Understanding, di Voltaire lo spirito critico, di Smith il rigore delle analisi economiche??, ma stigmatizza quelle che considera loro «cadute» nel linguaggio del diritto naturales®; di Hartley apprezza «la traduzione [...] del linguaggio (per così dire) della felicità nel linguaggio del piacere e del dolore»$!, ma ignora del tutto le implicazioni deterministiche insite nella sua teoria delle «vibrazioni», mentre più globale è l’apprezzamento per Hume e Helvétius, le cui teorie considera più incompiute che prive di coerenza®?. 57 IPML, pp. 144-47.

58 Mill, J.$. 1962, pp. 82-83. 59° UCL XCVI, 70-71, cit. in Jackson 1973, p. 7. Cfr. ivi, XXVII, 173. 60 Cfr. Article on Utilitarianism, in Deontology, pp. 298-99.

61 Ivi, p. 324. Da notare che Perronet Thompson farà confusione scambiando le osservazioni fatte da Bentham su Hartley con quelle relative a Helvétius. Cfr. P. Thompson, The «Greatest Happiness» Principle (1829), in Lively-Rees 1978, p. 138. Abbozzato da Bentham in risposta alle accuse mosse da Macaulay a James Mill, l’Article fu affidato a Thompson per la definitiva pubblicazione. 62 Article on Utilitarianism, in Deontology, p. 325; A Table of the Springs of Action, ivi, p. 48. Questa operazione di risistemazione è evidente nel già cit.

Article on Utilitarianism, ma traspare fin dalle prime opere. Cfr. IPML, p. 102 nota.

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La rilettura benthamiana del contributo di un insieme così variegato di autori è un’operazione sottile e complessa. Insistere troppo sul legame col sensismo, per esempio, potrebbe condurci a farcene trascurare il reale significato, che non è semplicemente di sintesi, sibbene di ridislocazione dei concetti. Rispetto all’«analisi» di Condillac e Helvétius, infatti, il centro della riflessione si sposta dall’osservazione degli stati di coscienza e dalla riconduzione delle idee alle sensazioni primarie, alla ricostruzione delle relazioni causali e dinamiche che legano aspettative, motivazioni (fondate edonisticamente), azioni e loro conseguenze®8?.

Questa prospettiva causale è peraltro quella dell’antropologia hobbesiana e lockeana, ma le differenze con l’approccio di Bentham sono anche qui rilevanti. Messo in moto dalla paura, l’agire dell’essere umano hobbesiano è infatti essenzialmente una fuga dal dolore, più o meno ordinata e calcolatas4. Non molto diversamente, Locke — che pure, nell’ Essay on Human Understanding, tenta un’analisi molto più complessa dei moventi — ritiene che alla radice di ogni azione vi sia un’inquietudine (ureasizess), la

spinta a rifuggire le sofferenzes5. Il dolore, dunque, fornisce il movente fondamentale, il principio di quella catena causale che va dalle sensazioni alla volontà, all’azione, fino alle sue conseguenze. Ora, è evidente che Bentham trae l'approccio causale da questa tradizione tutta inglese, che si prolunga del resto per l’intero XVIII secolo, sino a Paley, divenendo così un vero e proprio linguaggio filosofico. Egli la fonde però con la lezione sensista, il cui oggetto non è tanto la spiegazione dell’agire, quanto la riduzione ordinata dell’universo mentale, mediante analisi e classificazione, alle sensazioni. A una prasseologia del dolore, Bentham può così associare una tassonomia delle sensazioni che gli rivela un universo mentale non solo più ordinato e trasparente — addirittura troppo semplificato — ma anche agitato egualmente

63 Cfr. E. Bonnot abbé de Condillac, Traité des sensations, in Condillac 194651, vol. I; Id., Le commerce et le gouvernement considérés relativement l'un à l'autre, ivi, vol. II; Helvétius 1983; Gusdorf 1973, I. 2-3; Klein 1985. 64 Cfr. G. Sorgi, Quale Hobbes? Dalla paura alla rappresentanza, Angeli, Milano 1989, pp. 161-87.

65 Locke 1959, II.xx.6.

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dalla fuga dal dolore e dalla positiva ricerca del piacere, in tutte le loro forme concretes$. Del resto, qualcosa di analogo alla scienza dell’azione umana di Bentham può trovarsi nella riflessione dei suoi contemporanei idéologues, in particolare nel ruolo determinante attribuito da Destutt de Tracy alla volontà”. Anche in questo caso il centro della riflessione si sposta dall'analisi statica delle idee allo studio delle operazioni di sintesi che pongono in relazione gli esseri umani con il mondo circostante. Dove però le due linee di pensiero prendono le distanze è a proposito della relazione mente-corpo: mentre infatti in Destutt de Tracy e negli altri ideologi l’analisi della volontà si ricollega al programma cabanisiano di riconduzione del morale al fisico58, Bentham aderisce senza riserve ad

una impostazione dualistica: piacere e dolore sono dati primi della percezione e il rapporto tra moventi e azione è sempre esaminato in termini di pure operazioni mentali. Nell’Introduction, anzi, troviamo una polemica esplicita con «coloro» (i materialisti francesi? Hartley e Priestley?) che hanno tentato di spiegare i fenomeni della mente in termini di mutamenti corporei. Questa

strada gli sembra difatti impraticabile senza cadere in una nuova forma di metafisica, senza fuoriuscire cioè da una rigorosa «interpretazione» empirica dei fatti umani: se infatti «sembra quasi certo [...] che la sensibilità di un uomo alle cause che producono piacere o dolore, anche della mente, possa dipendere in misura considerevole dalla struttura originaria o acquisita del corpo», tuttavia «non abbiamo ragioni per pensare che essa dipenda in tutto e per tutto da questa struttura»S?. Con Bentham e con gli ideologi si consuma comunque un riorientamento del discorso sensista ed edonista, che pone l’accento sul momento del fare e dello scegliere. E forse proprio questa 66 Cfr. Helvétius 1973, II.1. Attenuerei dunque il giudizio di E. Vitale,

secondo cui tra Hobbes e Bentham vi sono «comuni premesse metodologiche e metafisiche», mentre la vera rottura avverrebbe solo nel «passaggio dall’etica alla politica». Cfr. Id., Hobbes e Bentham. Contrattualismo e utilitarismo fra moderni e contemporanei, in «Annali della Fondazione L. Einaudi», XXI, 1987, pp. 89-114, spec. p. 112.

67 Destutt de Tracy 1826-27, vol. 1, pp. 92-98; Moravia 1974, pp. 408-12. 68 In Tracy, almeno fino al Mérzoîre sur la faculté de penser, lo studio della volontà muove dall’ipotesi della «motilità», facoltà primaria dell’organizzazione corporea. Cfr. Moravia 1974, pp. 394-400. 69 IPML, p. 62.

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novità di impostazione che, al di là delle improbabili filiazioni dirette, rende fruibile questa tradizione settecentesca alle scienze sociali del nuovo secolo, fornendo tra l’altro la cassetta, più

che i singoli strumenti, al metodo adottato dai primi marginalisti. E vero infatti che né i fondamenti logici né i concetti specificamente economici elaborati da Jevons e da Edgeworth, che pure fanno riferimento a Bentham, si ispirano direttamente alle sue opere”; molte sono anche le mediazioni che si frappongono fra l’insegnamento di Say e degli ideologi e la teoria walrasiana dell’equilibrio economico generale?!; ma tutti ereditano da quella cultura non tanto la teoria del piacere e del dolore, quanto un'immagine dell’individuo come colui che decide e agisce, guidato in ultima istanza dalla ricerca della massima soddisfazione personale. Laddove invece l’etica benthamiana, nonostante la sua positività, nonostante la sua visione dinamica, è ancora integralmente immersa nella cultura «classica», è nella concezione dell’indi-

viduo non come unità irripetibile e autocosciente, ma come struttura determinata da impulsi fondamentali ben isolabili e da una sovrastruttura di motivazioni particolari perfettamente trasparente all'osservazione, descrivibile e ordinabile in maniera esaustiva. La natura umana è dunque un continuum di stati d’animo dati e immutabili, anche se non tutti presenti in ciascun individuo, ed è a sua volta parte della «grande catena dell’essere»?2. Compito della filosofia, e tanto più di una filosofia empirista e newtoniana, è eliminare il caos dell'apparenza «col rappresentare “— come dice Smith — la catena invisibile che lega assieme tutti questi oggetti disgiunti»?? e la riduzione del reale osservato a pochi principi è resa possibile proprio dalla tacita assunzione dell’assenza totale del discontinuo, del tragico, dell’irriducibilmen-

te originale. A questa visione della natura umana si legano in particolare due caratteri dell’etica benthamiana: il calcolo dei piaceri e dei dolori e la classificazione delle «sorgenti dell’azione». Dai mano70 De Vecchi 1976, cap. 1; Collison-Black 1988; Schmidt 1988. 71 Cfr. Ingrao-Israel 1987. 72 Lovejoy 1966. Cfr. Barsanti 1983, Foucault 1966, cap. 5. 73 A. Smith, Essays on Philosophical Subjects, cit. in Bryson 1945, p. 16. Cfr. Deontology, p. 23.

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scritti degli anni Settanta fino alla Deoztology, Bentham ribadisce la necessità di procedere al calcolo felicifico per raggiungere una conoscenza esatta dell’animo umano?4. E anche vero che egli ammette più volte le difficoltà della misurazione: intanto, dato che si tratta di entità soggettive e intensive, piaceri e dolori possono essere computati solo indirettamente, tramite uno strumen-

to di misura comune?5. Più facile sarà allora misurare i piaceri e i sacrifici «monetizzabili», dato che il prezzo dei beni e dei servizi può essere assunto come un indice della soddisfazione soggettiva attribuita al loro utilizzo o della pena legata alla loro erogazione: perciò, come «il termometro è lo strumento per misurare la temperatura dell’aria e il barometro lo strumento per misurarne la pressione», così «la moneta è lo strumento per misurare la quantità di dolore e di piacere»?5. Per le altre forme di piacere e dolore — Bentham è comunque convinto che in una società commerciale e industriale quasi tutto possa vendersi e comprarsi — o si possono stabilire equivalenze caso per caso, intensità per intensità, con beni del primo tipo oppure sarà impossibile compiere una misurazione esatta”?. Ma i dubbi riguardano più la difficoltà di reperire strumenti di misura adeguati che la stessa possibilità del calcolo. La natura umana, infatti, è un continuum di stati

mentali rappresentabili, comuni a tutti gli esseri, caratterizzati dal più e dal meno, dunque graduabili: deve poter essere misurata, e misurata, diremmo noi oggi, cardinalmente: In questo stato di cose — scrive Bentham —, la quantità di ricchezze che ciascuno possiede ne determinerà naturalmente la qualità. I beni particolari, imezzi particolari che sembrano dover contribuire maggiormente al suo benessere generale saranno quelli che egli cercherà di procurarsi per primi; quelli che non sembrano contribuirvi altrettanto, ma sempre più di altri, saranno quelli che si procurerà per secondi, e così via

74 UCL XXVII, 29-40, cit. in Baumgardt 1952; IPML, pp. 38-40; A Table of the Springs of Action, in Deontology, pp. 30, 35, 88-89. Un’analisi più approfondita di questo aspetto sarà svolta gut 6. 75 Codification Proposals, in Works, vol. IV, p. 457; Steintrager 1977, pp. 28-31; Baumgardt 1952, pp. 235, 456. 76 UCL XXVII, 36, cit. in Baumgardt 1952, p. 562. Cfr. ivi, pp. 558-59. 77 Ivi, p. 560; cfr. UCL LXIX, 198, cit. in Steintrager 1977, p. 17; Mitchell 1918, pp. 166-72; Stark 1947; Plamenatz 1949, pp. 74-76.

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[...]. In questa scala di ricchezze che comincia da zero per elevarsi a un’altezza indefinita possiamo mettere tanti gradini quanti vogliamo.?8

Bentham comunque — e sempre più con il passare degli anni — considera il calcolo felicifico come uno strumento ancora immaturo per lo studio dell’azione umana. Mentre infatti in alcuni manoscritti degli anni Settanta la storia stessa dell’utilitarismo è fatta coincidere con i progressi del calcolo dei piaceri e dei dolori??, cinquant'anni dopo, nel già citato Article on Utilitarianism, il calcolo recede in una posizione secondaria e nuovo filrouge diviene il progresso della classificazione dei moventi e dei tipi di azione8°. A suggestionare il filosofo è il modello della botanica di Linneo, che gli sembra, pur al di là di molti difetti logici e metodologici, coniugare approccio sistematico e osservazione empi-

rica8!. Applicata all’etica, la classificazione ha lo scopo di ricondurre la molteplicità infinita delle azioni e delle motivazioni alle semplici sensazioni di piacere e di dolore, le uniche «entità reali». Essa presuppone lo studio sistematico di tutte le circostanze che condizionano dall’esterno l’individuo: le sanctions, da quella «fisica», alla «morale», alla «legale» o «politica» e alla «religiosa» (cui si aggiunge in seguito la «simpatetica»)82; le innumèrevoli «circostanze influenti». Questa operazione gli sembra necessaria proprio per poter tornare ad affrontare il problema del calcolo stesso senza trasformarlo in un’ipotesi metafisica83. Una tassonomia rigorosa è presupposto di una mathesis della prassi, che resta comunque un obiettivo primario.

«La massima felicità per il maggior numero»

Il significato dell’etica «espositoria» diviene chiaro soltanto a confronto con quella che Bentham chiama etica «dicastica» o 78 UCL XXXII, 126-27.

79 UCL XXVII, 34, cit. in Baumgardt 1952, p. 557. 80 Cfr. Article on Utilitarianism, in Deontology, pp. 290-91, 323. 81 UCL XXVII, 103-4; Deontology, p. 219; FG, pp. 415-18 (trad. it., pp. 66-70); IPML, p. 278. Cfr. Harrison 1983, p. 149; Hume, L.J. 1981, p. 60. Su Linneo cfr. Gusdorf 1972, pp. 287-91; Cassirer 1936, pp. 116 sgg. 82 Cfr. IPML, cap. III; Deontology, pp. 183, 201-4. È in questa seconda opera che alle tradizionali quattro «sanzioni» è aggiunta la simpatetica. 83 Mitchell 1918, pp. 169, 182.

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«censoria», la parte «deontologica» di questa arte-e-scienza84. Essenziale è a questo proposito la relazione che intercorre tra il principio di utilità, o principio della «massima felicità per il maggior numero», e la teoria edonistica dell’azione. In estrema sintesi e adattando parzialmente la definizione dell’utilitarismo di Amartya Sen, il sistema normativo proposto da Bentham può essere ridotto ai seguenti elementi: in primo luogo la valutazione degli atti moralmente corretti deve essere compiuta in base alle loro conseguenze sulla condizione degli individui coinvolti: questo fa dell’etica benthamiana un'etica conseguenzialista. In secondo luogo vengono considerate rilevanti per la valutazione di tale condizione solo informazioni relative al benessere, o meglio al piacere e al dolore provato da quegli individui; come più volte Bentham sottolinea, l’unico punto di riferimento di chi voglia stabilire i corretti principi di morale e legislazione devono essere le «sensazioni umane»: l’etica benthamiana è dunque benesserista. Infine sono giustificate eticamente solo quelle azioni che rendono massima la differenza tra somma totale del piacere di tutti gli individui considerati e somma totale delle sofferenze (ordinamento-somma)8?.

Una delle più rilevanti implicazioni di questa definizione è che il benessere di ciascuno viene considerato egualmente rilevante. Se infatti l’obiettivo finale è rendere massima la felicità di tutti gli individui, «la felicità di uno qualunque di essi — scrive Bentham in un importante manoscritto del 1788 — non vale di più [...] di un’eguale felicità di un qualunque altro»86. Bentham ammette in realtà che in base a questo postulato e alla norma della massima utilità totale si dovrebbe concludere che, qualora vi fossero individui in grado di provare una felicità maggiore di altri, costoro dovrebbero essere preferiti nello scegliere a chi allocare benefici. Non bisogna tuttavia dimenticare che egli è scettico nei confronti di un’esatta «psicometria». Giacché non ci è 84 Deontology, p. 129.

85 IPML, pp. 39-40, 74, 84-89, 158; UCL XXXII, 159. Cfr. A.K. Sen, Preferenza, confronti di benessere e misurazione sociale: una visione d’insieme, in Sen 1986, p. 89. Sulla vicenda della formula «La massima felicità per il maggior numero» cfr. Shackleton 1972, che commette però l’errore di ravvisare in Hutcheson l’autore da cui Bentham l’avrebbe tratta. Cfr. Burns 1985, p. 12. 86 Représentation cit., pp. 426-27. Cfr. F. Engels, K. Marx, La Sacra Famiglia, in Marx-Engels 1972-, vol. IV, p. 148.

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dato conoscere con precisione la capacità di gioire e soffrire di ciascuno, è prudente, egli conclude, muovere dal postulato che essa sia eguale in tutti. Con queste specificazioni, si può attri-

buire alla teoria di Bentham la formula di John Stuart Mill, «che ciascuno conti per uno e nessuno per più di uno»87.

Una seconda caratteristica dell’etica utilitarista è l’individualismo: «La comunità — specifica infatti Bentham — è un corpo fittizio, composto delle singole persone che sono considerate come se fossero i suoi zerzbri. Che cos'è allora l’interesse della comunità? E la somma degli interessi dei diversi membri che la compongono»88,

Ma l’aspetto forse più importante è che tutte queste caratteristiche derivano dal particolare legame tra etica «descrittiva» e «censoria» instaurato dalla filosofia benthamiana, tramite la regola conseguenzialista: un legame che è stato spesso mal compreso, forse per il peso dell’interpretazione «helveziana» di Bentham. G.E. Moore, ad esempio, sostenne che l’utilitarismo benthamiano incorreva in una «fallacia naturalistica», pretendendo di trattare i principi etici alla stregua delle proprietà oggettive descritte dalle scienze naturali8?. Bentham avrebbe cioè creduto di poter «dedurre» la regola dell’utilità dalle conclusioni della psicologia edonistica. Anche Ayer sostenne che «l’oggetto della definizione di Bentham è dare a parole come ‘diritto’ e ‘torto’ un significato puramente descrittivo»?°. Una delle conseguenze di questa «fallacia» sarebbe l’introduzione di elementi deterministici nel campo della morale, giacché ciò che deve essere sarebbe interpretato come una necessaria conseguenza di ciò che è.

Non sembra tuttavia dimostrabile che l’etica benthamiana sia costruita secondo questa logica. In primo luogo, proprio la distinzione tra momento descrittivo e momento normativo è originariamente introdotta per fare del principio di utilità uno strumento di critica dell’esistente. Si potrebbe però ribattere che Bentham, riprendendo il ragionamento di Helvétius, pensi che lo iato tra ciò che è e ciò che deve essere si sia gradualmente creato 87J.S. Mill, Utilitarianism (1861), in Mill 1962, p. 319. 88 IPML, p. 122. Cfr. Baumgardt 1952, p. 173. 89 Cfr. E. Lecaldano, Introduzione a Moore, Laterza, Roma-Bari 1988, pp.

38-41. 90 Ayer 1948, p. 251. Cfr. Plamenatz 1949, p. 5; Hare 1952, pp. 81,91 e, più in generale, tutto il cap. V. Cfr. Popper 1966, cap. V, sez. 3.

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perché gli individui non sono stati in grado di valutare correttamente quale fosse il loro «interesse ben inteso»?!. In effetti, proprio l’esordio dell’Introduction, nel quale è contenuta la definizione del principio di utilità, potrebbe far credere che anche Bentham sottoscriva una visione naturalistica dell’etica: La natura ha posto l’umanità sotto il governo di due padroni sovrani, il dolore e il piacere. Spetta a essi soltanto mostrare che cosa dobbiamo fare, come anche determinare che cosa faremo. Da un lato la

misura del giusto e dell’ingiusto, dall’altro la catena di cause ed effetti sono legati al loro trono. [...] A parole un uomo può pretendere di abiurare il loro imperio: ma in realtà egli rimarrà loro soggetto in ogni istante.

È indubbio che si tratti di un esordio in cui la retorica ha la meglio sul freddo ragionamento, ma come è spesso il caso, la retorica svolge una precisa funzione: colpendo il lettore con l’esplicito riecheggiamento della tradizione settecentesca dei «masticatori di logica», Bentham intende schierarsi fin dall’inizio contro ogni fondazione metafisica e sentimentale della morale. Una lettura attenta di questo incipit nella sua globalità rivela tuttavia che anche qui l’analisi psicologica è distinta e subordinata al principio di utilità: «il principio di utilità — prosegue infatti Bentham — riconosce questa soggezione e l’assume come fondamento di quel sistema il cui obiettivo è erigere l’edificio della felicità con le braccia della ragione e del diritto». L'assunzione della norma è prioritaria e indipendente dalle conclusioni psicologiche, peraltro considerate universali e ultimative: essa deriva da un riconoscimento che è pur sempre un postulato normativo, la decisione di fare della felicità generale il fine di ogni azione e dell’analisi delle conseguenze

il «parametro

esterno»

(externa/

standard) in base al quale scegliere come comportarsi?3. Per esplicare la procedura attraverso la quale le norme si formano e vengono fatte proprie dagli individui, Bentham utilizza, %1 Helvétius 1983, discorso II, capp. 2-3; Gianformaggio 1979, p. 52; Talmon 1967, p. 44.

92 IPML, p. 11. Cfr. Harrison 1983, pp. 107-10; Baumgardt 1952, p. 33. Cfr. tuttavia Viano 1989, pp. 486-87, che sottolinea le differenze tra l'approccio benthamiano e quello di Sidgwick. 93 IPML, p. 25; Baumgardt 1952, p. 75.

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oltre alla nozione di assunzione, quelle di «approvazione» e «disapprovazione»?4, che riconduce il dover essere alla soggettività degli individui reali: siamo noi, esseri umani, ad esprimere desideri e volizioni e ad organizzarli più o meno logicamente per costruire una misura condivisa del giusto e dell’ingiusto. Come aveva infatti mostrato la ricerca di Hume e Smith, una volta sottratta l’etica a una fondazione teologica e razionalistica, altro non resta che cercare «newtonianamente» le sue regole nella mente degli individui e nelle convenzioni sociali che gradualmente si instaurano tra di loro?. Bentham prosegue questo percorso, cer-

cando nelle strutture del linguaggio — in particolare nella logica della volontà — le condizioni di possibilità di un sistema di norme il più possibile generale e condivisibile. Un risvolto interessante di questa posizione è che Bentham, altrove, stigmatizza l’uso delle nozioni di approvazione e disapprovazione fatto dai teorici del senso morale o, come egli li chiama, «della simpatia e antipatia»; né egli sembra dare molto peso alle importanti differenze che corrono tra le versioni di Shaftesbury o di Hutcheson, che attribuiscono al senso comune la capacità di percepire l’ordine oggettivo dell’universo?, e le versioni humeana e smithiana, che invece si fermano all’analisi della genesi e dell’apprendimento delle norme così come esse si presentano nella comunicazione sociale. Tra senso morale e approvazione-disapprovazione utilitarista, pertanto, la differenza non risiede tanto nel modo di formarsi dei «sentimenti morali», che Bentham, Hume e Smith, ma anche Hutcheson, descrivono con strumenti concettuali si-

mili, quanto nel diverso criterio invocato per corroborarli: non la infallibile certezza interiore né la persuasione del loro corrispondere al piano provvidenziale e neppure le convenzioni storicamente consolidatesi o i valori dell'individuo sociale medio, ma il confronto con il benessere della comunità. Bentham infatti non critica il criterio di simpatia e antipatia in quanto tale, ma solo qualora sia «indipendente dall’utilitarismo». Come ha scritto D. Baumgardt, egli intende così proporre «un dover essere ragionato», a metà strada tra relativismo scettico e apriorismo?”. 94 95 96 97

Deontology, p. 149. Zanini 1991. Vereker 1967, pp. 42-43. A Table of the Springs of Action, in Deontology, p. 35. Cfr. Baumgardt

1952, p. 33.

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L’influenza diretta della Theory of Moral Sentiments di Smith, di cui molto si era parlato nella cerchia di Lord Shelburne, protettore anche del filosofo scozzese?8, è del resto evidente nella esplicita ripresa da parte di Bentham della nozione di «spettatore imparziale», «un essere indipendente e superiore qualunque, che abbia bontà sufficiente per interessarsi alla sorte [degli individui], per provare piacere all’idea del loro benessere senza avere alcun interesse personale che lo condurrebbe a preferire qualcuno di loro agli altri» e che «proverebbe naturalmente un egual piacere a contribuire alla felicità di uno qualunque di loro»??. Come quello di Smith, anche lo spettatore benthamiano è guidato nei suoi giudizi dalla simpatia per le gioie e le sofferenze dei suoi simili; anch’egli formula un codice universale di norme. Tuttavia, oggetto della sua approvazione non è l’adeguatezza (propriety) dell’agire individuale alla realizzazione dei fini desiderati, ma direttamente la condizione di felicità di ciascun individuo, da un lato, e dall’altro la ricerca non del semplice interesse ben inteso, ma della massima felicità collettiva o, il che è per Bentham

lo stesso, di quella di ciascun individuo in egual misura. Una funzione per qualche verso analoga è svolta infine dalla nozione di «sanzione morale», che, come abbiamo visto, richiama per certi aspetti il meccanismo smithiano di formazione sociale delle regole di comportamento. Anche per Bentham gli esseri umani hanno bisogno di norme per orientare le loro azioni e la comunità stessa sopravvive e si sviluppa in parte grazie alle convenzioni sociali. Tuttavia quel «dover essere ragionato», che l'osservatore imparziale incorpora adottando il principio di utilità, insegna a non aderire di per sé a nessuna regola che venga socialmente selezionata, senza prima valutare le conseguenze che

le azioni da essa ispirate avranno sul benessere degli individui coinvolti. L’esplicito richiamo al linguaggio humeano e smithiano rivela infine la volontà di fondare il principio di utilità senza alcun riferimento alle cause finali, all'opposto di Paley, che avrebbe sostenuto in quegli stessi anni che la regola di valutare «la tendenza dell’azione a promuovere

o diminuire la felicità generale [...]

98 Cfr. R.H. Campbell, A.S. Skinner, Adam Srzith, Croom Helm, Becken-

ham 1982, pp. 138-39.

99 Représentation cit., pp. 426-27.

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muove dall’assunto che Dio Onnipotente vuole e auspica la felicità delle sue ereature; e, di conseguenza, che quelle azioni che promuovono tale volontà e tale auspicio devono essergli gradite e viceversa»!90, Dovrebbe a questo punto risultare più chiaro il nesso tra etica descrittiva ed etica deontologica: il principio di utilità non deduce le proprie regole dalla conclusione che ogni individuo agisce in ultima istanza in base alla ricerca del proprio piacere. Viceversa, sussume questa struttura di fatto, alla quale presume che tutta la fenomenologia umana sia effettivamente riducibile, come parametro di raffronto per la valutazione etica degli atti. È dunque la scienza dell’azione umana a divenire strumento della deontologia. Attorno a questa articolazione ruota anche la dimostrazione della superiorità del principio di utilità sulle proposte etiche rivali!°1. Proprio la riduzione della sfera delle assunzioni a priori e la creazione di uno spazio aperto alla verifica empirica consente infatti di raggiungere un più ampio e sicuro accordo intersoggettivo sui giudizi morali che ciascuno esprime. Donde l’apparentemente ambigua asserzione che «il modo nel quale l’utilitarista si esprime non è mai altro che l’indicativo»!°: essa non delinea, come aveva creduto Ayer, la volontà di tradurre le norme etiche in concetti di significato descrittivo e causale, ma quella di concentrare l’attenzione sull’analisi degli stati di benessere degli individui, di non discutere che di questo, prima di formulare o convalidare un giudizio etico. D'altra parte, il rinvio alla felicità degli individui coinvolti, cioè a una verifica 4 posteriori, che per

Kant costituisce il limite che impedisce alle massime eudaimonistiche di tradursi in leggi morali universali, è viceversa per Bentham l’aggancio che consente la massima generalità di un sistema di norme, date le strutture della mente umana e i limiti invalicabili della conoscenza!9. Nell’Introduction Bentham sottopone a critica due gruppi di

teorie, nei quali crede di poter raggruppare le diverse correnti filosofiche che lo hanno preceduto: da un lato la proposta «asce-

100 Paley 1828, p. 25.

101 Baumgardt 1952, p. 136; Harrison 1983, cap. VII. 102 Deontology, p. 337. 103 Cfr. Kant 1788, I.1.2,3.

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tica», rappresentata soprattutto dalle versioni più rigoriste della morale cristiana, secondo la quale il bene degli altri e la propria redenzione comportano il costante e totale sacrificio di sé. Bentham argomenta, tra l’altro, che il principio della mortificazione non è praticabile come regola costante e universale di condotta: «Poniamo che solo un decimo degli abitanti della terra lo persegua coerentemente, e nel lasso di un giorno essi avranno trasformato il mondo in un inferno»! Nel secondo gruppo, caratterizzato dal «principio della simpatia o antipatia» o «principio del capriccio»!95, vengono invece classificate, come già anticipato, le diverse varianti della dottrina del senso morale, assieme a tutte le forme di etica fondate dogmaticamente e metafisicamente. Loro principale difetto è l’apriorismo, anticamera dell’indeterminatezza e dell’autocontraddizione. Ma l’indeterminatezza genera l’arbitrio, nella morale privata come nel campo del diritto: come scriverà molti anni dopo un Bentham ormai impegnato a fondo nella causa della democrazia parlamentare, «l’ipsedixitismo» diviene strumento «di ogni proposito sinistro. Esso svincola l’uomo dai freni imposti dall’utilitarismo agli abusi in materia di governo, cioè al sacrificio dell'interesse di molti sudditi a quello di pochi governanti»!9. E all’interno di questa critica ai miti e alle mistificazioni della politica — che data fin dalle prime confutazioni di Blackstone e del cormzzzon law — che prende corpo anche il tanto stigmatizzato attacco di Bentham contro la poesia e la retorica in genere, fonti di confusione delle coscienze, dunque alleate «intime e durevoli del dispotismo»!°7. Superfluo ed eccessivo qual è, questo rifiuto dell’indeterminato in genere, anche nelle sue espressioni più inoffensive, nasconde in realtà molto più della probabile intenzione di mettere in risalto, con segnali provocatori e spettacolari, il messaggio di chiarezza e di positività contenuto nella proposta utilitarista: è un po’ come se la poesia e l’esperienza estetica in 104 IPML, pp. 17-21. 105 IPML, pp. 21-29. Nell’ Article on Utilitarianism, Bentham sceglierà la colorita denominazione di «ipsedixitism» (Deontology, pp. 304-5). Questa correzione è certamente dovuta all'introduzione della «sanzione simpatetica» come autonomo principio di azione, che rende necessario togliere una fonte di possibile ambiguità terminologica. Cfr. Harrison 1983, pp. 173-74. 106 A Table of the Springs of Action, in Deontology, p. 28. 107 Ivi, p. 52; Works, vol. X, p. 518.

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generale portassero alla luce un elemento conturbante, l'oscuro,

irriducibile contraltare della serena e razionale strategia di costruzione della felicità collettiva, «sviando il giudizio con l’agitare e infiammare le passioni»!98: quelle passioni smodate e assolute che creano le condizioni dello scacco e della tragedia. Anche tra le righe dei testi filosofici di Bentham, come in quelli di Paley e degli altri teorici dell’utilità, emerge dunque quale brusio appena percettibile il messaggio ambiguo e devastante dell’impossibile felicità. Non si colloca del resto sullo stesso piano anche l’accusa a Maupertuis — echeggiata anche da Paley — per aver concepito la felicità solo come un massimo, per poi dedurne una inaccettabile filosofia della melanconia?109 Utilità totale, eguaglianza possibile

Il problema del rapporto tra utilità totale e sua distribuzione tra i singoli membri della comunità ha richiamato l’attenzione degli studiosi di Bentham e dell’utilitarismo. L’accusa principale che molti muovono all’utilitarismo è che il principio della massima felicità approva tutte quelle scelte che massimizzanola somma totale del benessere e ritiene rilevante la sua distribuzione tra i singoli solo nella misura in cui influisce sul totale. Ma ciò significa che, almeno in teoria, possono essere giustificate distribuzioni fortemente inegualitarie o, peggio ancora, l'oppressione di una minoranza? La semplice formula utilitaristica sembra ammettere entrambe queste possibilità e per questo anche coloro che, come Sidgwick, l’hanno trovata attraente, hanno suggerito però che «occorre almeno integrare il principio della ricerca della massima felicità totale con qualche principio di giusta o equa distribuzione della felicità»!!0. Questa obiezione è rimasta uno dei principali punti di attacco all’utilitarismo anche nel dibattito contemporaneo. Rawls, per

esempio, ritiene che anche la soluzione proposta da Mill e Sidgwick non escluda completamente la «tendenza a considerare 108 Ivi, p. 510. 109 Ivi, p. 531; Deontology, pp. 132-33. 110 Sidgwick 1907, pp. 416-17. Va notato che per Sidgwick eguale distribuzione della felicità non significa eguale distribuzione dei beni che sono strumenti appunto della felicità. Cfr. ivi, p. 417 nota.

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gli uomini come mezzi del benessere feciproco»!!!. Anche per Ayer nella formula «la massima felicità per il maggior numero» la seconda parte serve ad enfatizzare, coeteris paribus, la correlazione positiva tra numero degli individui e utilità totale, ma non a indicare che il fine della massima utilità debba essere sottoposto a particolari vincoli relativi alla distribuzione!!2. Anche le modifiche che Bentham apporta alla sua formula nel Constitutional Code e in scritti coevi, allorché specifica che con il principio di utilità egli intende la massima felicità di tutti e, solo quando ciò non sia possibile, quella del «maggior numero», non servono, è stato detto, a limitare, ma a confermare l’unicità dell’obiettivo dell’utilità totale, correggendo soltanto un’ambiguità della precedente versione: essa poteva infatti lasciar intendere che ciò che va massimizzato è solo l’utilità della maggioranza, indipendentemente dalle condizioni della minoranza. Tutti gli individui devono invece essere tenuti nel conto e l’eventuale sacrificio parziale della felicità di una minoranza è giustificato solo se l’utilità totale viene incrementata, o meglio non è disturbata e diminuita dalle sofferenze della minoranza stessa!!3. Ciò non significa che l’utilitarismo di Bentham pervenga inevitabilmente a conclusioni potenzialmente totalitarie, sebbene non le scongiuri del tutto. A garantire da questa eventualità sono le informazioni edonistiche richieste dalla regola conseguenzialista: in primo luogo, la natura umana è asimmetrica, in quanto capace di esperire stati di dolore molto acuti e molto più limitati vertici di piacere. Ne consegue che la maggior parte delle scelte che provocano elevate sofferenze in qualcuno non possono di fatto aumentare il benessere totale!!4. Vi è in secondo luogo il fenomeno dell’utilità marginale decrescente, che conduce, come noto, alla conclusione che, a parità di altre condizioni, il massimo 111 Cfr. Rawls 1984, p. 141. Cfr. ivi, pp. 38-39; Hare 1982, pp. 26-27; G. Pontgtk, Utilitarismo e giustizia distributiva, in Lecaldano-Veca, 1986, pp. 70, 74-75. s 112 Ayer 1948, p. 250. Cfr. Rosen 1983, p. 211. 113 Code, pp. 18-19; Leading Principles of a Constitutional Code for Any State (1823), in Works, vol. II, p. 269 nota. Cfr. Rosen 1983, pp. 211-16; Burne 1949; Goldworth 1969; Werner 1973. Di parere opposto Reshdall 1907. 114 Cfr. Article on Utilitarianism, in Deontology, pp. 309-10. Cfr. Campos Boralevi 1984, pp. 2-3. L’anti-individualismo del principio di utilità è sostenuto da Himmelfarb 1969, pp. 32-81.

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di benessere coincide con una distribuzione perfettamente egua-

litaria!!»,

i

Questo argomento, peraltro, se corregge a favore di eventuali minoranze la regola della massimizzazione dell’utilità totale, legittima l'opportunità di interferire con le scelte degli individui e con la distribuzione delle risorse che spontaneamente ne deriva, per migliorare la posizione di alcuni e ridurre il vantaggio di altri. Ora, questa manipolazione, condotta in nome dell’utilità generale, sembra di nuovo autorizzare, in teoria almeno, una forma di organizzazione sociale collettivistica o totalitaria. Bentham, in

realtà, se ritiene auspicabile un certo grado di eguaglianza, è però radicalmente avverso a questa soluzione, perché la ritiene in contrasto stridente con alcune delle caratteristiche di base della «patologia mentale» degli individui: all’asimmetria tra piacere e dolore si associa infatti un’ulteriore differenza, quella tra moderato piacere dell’acquisizione e profondo dolore per la perdita di qual-

che oggetto!!6, differenza che giustifica solo la correzione delle diseguaglianze più stridenti. Inoltre, come avremo modo di vedere, ogni strategia di redistribuzione entra in contrasto con l’aspettativa fondamentale di sicurezza di ogni individuo, annullando così tutti i vantaggi della vita associata. Il principio di utilità ammette dunque l’obiettivo dell’eguaglianza, ma la limita di fatto in maniera molto restrittiva.

Pluralità dei moventi, virtà e vizi

Nella sua critica alla «morale fondata sull’interesse personale» Madame de Staél sostiene polemicamente che «se il calcolo deve presiedere a tutto, le azioni degli uomini saranno giudicate dal loro successo»!!7, mettendo così sotto accusa proprio la regola conseguenzialista, centro nevralgico della proposta benthamiana: se applicata direttamente alla valutazione delle singole azioni, essa impedirebbe una distinzione netta tra virtù e vizio, 115 UCL XCIX, 55 («Civil - Propositions de Pathologie (politique) (morale) mentale servant a faire voir le bien de l’égalité»); Principes du code civil, in Qeuvres, vol. I, pp. 60-61. Cfr. Long 1977, pp. 181, 193-94; Harrison 1983, p. xm; Parekh 1970, pp. 484-88.

116 Cfr. Institute of Political Economy, in EW, vol. III, p. 348. 117 Staél 1968, vol. II, p. 185. Ma cfr. ivi, pp. 185-86 nota.

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legittimando anche l’agire del reprobo qualora esso provochi conseguenze positive per gli altri. Bentham in effetti afferma esplicitamente che la regola utilitarista deve essere applicata a ciascun atto e che solo quelli le cui conseguenze sul benessere collettivo sono positive devono essere giudicati morali: anzi, disponendo di più alternative, deve essere preferita l’azione che produce il massimo benessere collettivo. Il problema di distinguere le virtù dai vizi lo interessa tuttavia tanto quanto ogni altro moralista: come sempré, però, egli rifugge da una definizione 4 priori. Dopo aver cercato, nell’Introduction, di aggirare il problema utilizzando i più neutrali termini di «tendenze» e «disposizioni», in Deontology egli conclude che l’unica strada percorribile, se si vuole parlare delle virtù, è ricondurre queste ultime alle singole azioni che generano benessere. «Virtù», come «legge», come «diritto», è pertanto una nozione aggregativa e relazionale, da definire attraverso la parafrasi: è virtù quella classe di azioni che de facto, in media, genera benessere!!8. Con ciò, il concetto di virtù non diviene tuttavia

superfluo; al contrario è compito del moralista lavorare sul comportamento ispirato a moventi virtuosi e promuoverlo a scapito

del vizio, da cui il bene può derivare solo raramente e per caso. Due sono però i vantaggi che Bentham riconosce alla definizione utilitaristica della virtù: in primo luogo l’analisi delle conseguenze tendenziali o medie di un movente permette di riconoscere la piena qualifica di virtuose ad azioni che potrebbero essere stigmatizzate in base a una valutazione astratta delle intenzioni o delle motivazioni. E il caso dell’interesse egoistico, almeno quando si presenti come inclinazione calma, non passionale!!9, ma,

vedremo più oltre, anche di passioni apparentemente più intense, come l’amore del rischio, qualora esso sia impersonato da individui razionali e calcolatori quali sono gli imprenditori. In seconda istanza, la norma utilitaristica invita a non seguire ciecamente una regola anche quando può produrre male. La razionalità implicita in questo richiamo è cioè una razionalità secondo lo scopo e non secondo il valore. In considerazione di tutto ciò, la distinzione introdotta da Roy Harrod (1936) e R.B. Brandt (1959) tra utilitarismo dell’at118 Deontology, pp. 154-60; IPML, cap. XI. 119 Deontology, p. 149.

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to e utilitarismo della regola mal si adatta a classificare il contributo benthamiano. Se è infatti chiaro che nelle sue definizioni più generali Bentham rinvia alla valutazione dei singoli atti, la sua discussione delle virtù conduce di fatto ad indicare come criterio morale un insieme di regole, la cui giustificazione deriva dalla loro attitudine a produrre, in genere, benessere. Si potrebbe sostenere che quello di Bentham è un utilitarismo della regola controllato in ultima istanza da un utilitarismo dell’atto, o meglio una teoria della virtù illuminata: certamente molto di più di una teoria dell’interesse ben inteso. Come sintetizza efficacemente una nota del Comzzonplace Book (anno 1827-28), «la classificazione delle virtù si risolve in

quattro: pura prudenza nei riguardi di sé stessi (se/f-regarding), prudenza nei riguardi degli altri (extra-regarding), benevolenza con effetto negativo (regative-effective), benevolenza con effetto positivo ovvero benevolenza accompagnata o seguita da beneficenza. Prudenza è prendere cura di se stessi, benevolenza degli altri, e questi due capi esauriscono l’argomento»!29. La prudenza nei riguardi di se stessi consiste nell’astenersi da quelle azioni che conducono al peggioramento del benessere personale, come, ad esempio, ubriacarsi o affaticarsi eccessivamente. La prudenza nei

confronti degli altri consiste invece nel tener presente la felicità degli altri nella misura in cui essa non ostacola la propria: è questo l'interesse illuminato. Entrambe queste virtù promuovono la massima felicità collettiva non privando ciascuno della felicità personale. La benevolenza consiste invece nel proporsi direttamente, quale obiettivo delle proprie azioni, la felicità altrui. Su questa lista di virtù si costruisce il giudizio sulle diverse forme di comportamento. Ne deriva una precisa gerarchia, all’infimo della quale si collocano gli individui passionali: una passione è una specie del genus «tendenza delle inclinazioni», ovvero una certa qualità dei moventi: «si dice che un atto è il risultato o l’effetto [...] di una passione [quando deriva] da uno stato mentale passeggero e permanente in cui l'emozione o l’affetto è considerato sussistere in un grado elevato di intensità»!2!. La ragione per cui la passione è in molte circostanze un sentimento moralmente riprovevole è che essa è quasi sempre accompagnata 120 Works, vol. X, p. 585. Cfr. Deontology, p. 124. 121 Works, vol. X, p. 509. Cfr. IPML, p. 111 nota.

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da dolore, sia che esso ricada sull’autore dell’azione per le conseguenze impreviste del suo comportamento, sia che venga invece rigettato sugli altri!22. Tuttavia anche le passioni non sono cieche: E quanto all’affermazione che la passione non calcola, questa, come molte di tali affermazioni molto generali e oracolari, non è vera. Quando fatti di così grande importanza come dolore e piacere sono in ballo, anzi quando si tratta di tali sensazioni al loro grado più elevato (le sole cose, in breve, che siano di qualche importanza), chi è che non calcola? Gli uomini calcolano, alcuni invero con minore, altri con maggiore esattezza, ma tutti gli uomini calcolano.!?3

È da notare che questa presa di posizione è inserita nell’ambito di una discussione sull’efficacia delle pene legali, da calcolarsi, secondo la lezione di Beccaria, in proporzione al crimine. Nella misura in cui le virtù della prudenza e della benevolenza prevarranno, lo spazio delle passioni si ridurrà, ma nel frattempo esse possono essere frenate dall’autorità del governo, perché la paura della pena farà riflettere e calcolare anche l’individuo più dissennato. Le passioni, anzi, dirà Bentham in Deorntology, pos-

sono divenire addirittura, «nello stato presente della società», strumenti della legge: la rabbia di chi ha subito un torto è necessaria a mettere in moto un processo e assicurare i criminali alla giustizia!?4.

Le passioni vengono così ridotte da Bentham — quasi volontaristicamente —

a sentimenti potenzialmente eversivi, bensì,

ma non inevitabilmente tragici. La sua visione olimpica e illuministica è per questo egualmente distante sia dalla condanna stoica e cristiana delle passioni, cui tutta l’epoca classica, da Thomas Mun a James Steuart, ad Adam Smith, aveva gradualmente e «prudentemente» contrapposto i calmi interessi e il dolce commercio!25, sia anche dalla nuova sensibilità per il discontinuo e il tragico propria del proto-romanticismo!26, Tramite la capacità di calcolare, di ponderare mezzi e fini, viene trovato un minimo 122 Deontology, pp. 243-45.

123 IPML, pp. 173-74. 124 Deontology, pp. 245-47.

125 Cfr. Hirschman 1979; Appleby 1983; Albertone 1991. 126 Cfr. F. Rella, Limzina, Il pensiero e le cose, Feltrinelli, Milano 1987.

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comune denominatore tra le passioni e la ragione, tra le inclinazioni violente e le calme: la ragione utilitaristica può così riacquistare il proprio controllo su tutti i reconditi della mente umana, può sperare che, di buon grado o per forza, i comportamenti più dissennati potranno essere trasformati in prudenti e lungimiranti. Può persino legittimare l’uso della forza legale, giacché essa agisce su una predisposizione, su una natura umana in fondo uniforme! Se esiste un appiglio per giudicare superficiale e «volgare» la filosofia benthamiana esso è proprio qui, nell’ottimistica negazione della contraddizione nell’essere umano in generale e non già nella pretesa ispirazione al senso comune del borghese. E proprio nel contesto di questa discussione sull’efficacia della legge nei confronti delle passioni che Bentham fa riferimento all’«interesse pecuniario». Tre sono le sue caratteristiche: innanzitutto, esso è una passione a pieno titolo, anche se «la più incline al calcolo»; né è una passione calma, prudente, intimamente so-

ciale, come appare invece nell’uomo commerciale (non però nell’avventuriero e nell’uomo di progetti) di Smith, ma una passione forte e costante, «dai cui eccessi [...] la società ha molto da

temere»!27. In secondo luogo, l’interesse pecuniario notf carat-

terizza specificamente una classe sociale, non è né l’impulso ad accumulare né la propensione a scambiare del capitalista, ma un istinto diffuso in tutta la società. I moventi inerenti alla «occupazione abituale», cioè alla comune attività lavorativa, sono per esempio strettamente legati a quelli pecuniari: il piacere del possesso e dell’acquisizione è infatti alla base dell’industriosità e della frugalità (termine con cui Bentham designa l’attitudine al risparmio delle classi povere), come delle operazioni tipiche del banchiere e del commerciante!?8. Infine, questo movente — in una prospettiva che ricorda quella di James Steuart!2? — non è presentato nella veste di principio di autonoma regolazione sociale, come movente potenzialmente armonico e benefico che non necessita della coercizione statale, ma anzi come leva su cui la politica può operare per meglio raggiungere i suoi scopi. In questo senso lo spettatore imparziale può approvarlo moralmen127 IPML, p. 174. Cfr. Pesciarelli 1986; 1989b. 128 IPML, pp. 58-60, 105. 129 Cfr. Steuart 1966, p. 142.

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te, considerarlo una virtù. Ma al di là di tutto ciò, l'interesse pecuniario non ha un vero statuto primario o egemonico tra le forme di interesse egoistico: anche il «piacere del potere», ad

esempio, spinge a comportamenti altrettanto calcolatori e anch’esso può condurre a prevaricare l’interesse della società, ma può anche essere «ambizione onesta» o «virtuosa» ed avere con-

seguenze benefiche50, Ciò non toglie che questo movente abbia una presenza in qualche modo privilegiata, o meglio insistita, ripetuta, nel discorso morale e politico di Bentham. Non solo esso è al centro della riflessione economico-politica, ma emerge in una funzione decisiva nella teoria penale, così come in tutto l’ambito della cosiddetta «economia pubblica», cioè la teoria dell’amministrazione e della burocrazia dello Stato. Si è già visto, inoltre, che Bentham parla esplicitamente della costanza e universalità di questo movente. Ha dunque ragione chi, con Marx, sostiene che egli attribuisce all’essere umano in generale le determinazioni del «filisteo borghese del XIX secolo»? Sarebbe un errore affermarlo. L’individuo astratto di Bentham non è un essere mosso esclusivamente dall’interesse egoistico né tantomeno il mercante o il capitalista che calcola il massimo profitto ricavabile da ogni scelta, ma il generico agente edonistico, mosso dalla ricerca del piacere e dalla fuga dal dolore, qualunque sia il contenuto specifico che questi ultimi assumono. Nemmeno la razionalità massimizzatrice è requisito indispensabile di questo agente: l’individuo passionale, si è visto, è in grado di discernere piacere e dolore nell'immediato, di tentare la ricerca della felicità, ma è incapace di volgere a buon fine i suoi sforzi. La massimizzazione della felicità è invece imposta a livello normativo dalla regola utilitarista, ma a questo livello l’obiettivo non è più l’interesse individuale, bensì il benessere collettivo, o meglio il primo solo nella misura in cui è compatibile con il secondo. Si può dire semmai che, come aveva osservato Sismondi ed avrebbe più tardi ribadito Sidgwick, Bentham è convinto che in molti casi vi sia coincidenza tra interesse personale e interesse della società: E vero che tra i due interessi così denominati esiste realmente una forte e quasi continua concorrenza. Ma d’altro canto è non meno vero 130 A Table of the Springs of Action, in Deontology, p. 81.

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che nella composizione dell’interesse personale di un uomo entra in ogni occasione una quota di interesse degli altri, e ciò in una pluralità di forme. In altre parole, in molte, per non dire in tutte le occasioni un

uomo ha interesse — un interesse personale — a promuovere e ad adattare la sua condotta all’interesse, l’interesse personale, di altri.131

E proprio da quest’ultima constatazione che deriva l’approvazione morale dell’interesse pecuniario: esso non è certo l’unico movente in grado di generare l’utilità collettiva, ma nelle sue componenti rivela da un lato una straordinaria simmetria con la regola utilitaristica (è un comportamento razionale, calcolatore e massimizzante), dall’altro una frequente, anche se non universa-

le, capacità di adattare l’interesse privato a quello pubblico. Il rapporto tra prasseologia edonistica, principio di utilità ed etica del capitalismo è dunque l’inverso di quello individuato dai critici romantici e socialisti di Bentham: non è quest’ultima a dettare il tipo umano dell’utilitarismo, ma è la riflessione sulla coerenza con il principio di utilità delle diverse specie di comportamento, a spostare l’attenzione sulle virtù sociali — ma anche sui vizi — del «filisteo borghese». Un ruolo di primo piano tra i comportamenti ispirati a prudenza occupano quelli che scaturiscono dai cosiddetti moventi semi-sociali ovvero dai piaceri della «reputazione», «del buon nome», «dell’amicizia», collegati alla sanzione morale o popolare. Bentham — mai come qui ispirato da Smith — attribuisce all’attenzione che ciascun individuo presta al giudizio e all’approvazione degli altri una capacità elevata di armonizzare i piani individuali con la massima felicità collettiva; e ciò sebbene anche i moventi semi-sociali non siano esenti da varianti peggiorative: la vanità, l’ostentazione, l’insolenza ecc.!32 La virtù che, però, meglio di tutte incarna e promuove il principio di utilità è la benevolenza, «virtù sociale» strettamente connessa alla simpatia per il piacere e il dolore degli altri. Essa non è, per Bentham, un altruismo disinteressato, pronto a spingersi alla scelta eroica del totale sacrificio di sé, ma, per portare al limite l'opposizione alla lettura «helveziana», una benevolenza 131 Deontology, p. 193. Cfr. ivi, pp. 123-24; Sidgwick 1907, pp. 34-35, cap. VI.

132 IPML, pp. 105-8, 115; A Table of the Springs of Action, in Deontology, p..83.

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ben intesa, la ricerca di quella massima felicità collettiva che comprende anche la propria, o almeno quella parte di essa che è compatibile con l’obiettivo generale. Peraltro la benevolenza non conduce l’individuo a superare la sua tendenza strutturale a cercare il piacere e fuggire il dolore; attribuisce soltanto un nuovo contenuto a questa ricerca: il piacere consiste, come per lo spet-

tatore imparziale, nell’alleviare le sofferenze altrui e nell’offrire a tutti nuove opportunità di gioire!3?. Come si è già detto, l’attenzione di Bentham per l'elemento della simpatia e per la virtù della benevolenza si accentua nelle ultime opere, in particolare in Deontology. In quest'opera non solo compare, accanto alle «sanzioni» già individuate nell’Introduction, una quinta sanzione, detta «simpatetica», ma viene svi-

luppata attorno ad essa una sorta di storia teoretica o congetturale al modo degli scozzesi: se negli «stadi primitivi» è la sanzione naturale a dominare e, con il sorgere delle prime società, le passioni senza limiti degli esseri umani possono essere tenute a freno, hobbesianamente, solo con la spada (la «sanzione politica»),

il presente e il futuro sono per contro aperti al progredire della sanzione simpatetica e, con essa, dei moventi sociali e semi-sociali, benevolenza e amore dell’approvazione altrui, che rendono gli individui soggetti consapevoli della costruzione dell’utilità collettiva!34. Il filosofo riprende a questo proposito, come avevano fatto Hume e Smith prima di lui, una tradizione, quella addisoniana,

che attribuiva al lavoro, allo scambio, alla progressiva affermazione delle buone maniere e al raffinamento dei costumi e della cultura la crescita della socievolezza e quindi l'allargamento dello spazio della società a spese della regolazione propriamente politica. «Chi conosce la storia di due o tre secoli fa e la nostra — scriveva il marchese Beccaria — potrà vedere come dal seno del lusso e della mollezza nacquero le più dolci virtù, l’umanità, la beneficenza, la tolleranza degli errori umani»!35. A Bentham, 133 Cfr. IPML, pp. 44, 57-58. 134 Deontology, pp. 201-7. 135 Beccaria 1971, p. 55. Cfr. N. Phillipson, Adarz Smith as Civic Moralist,

in Hont-Ignatieff (a cura di) 1983; Pocock 1983, p. 251. Mi sembra perciò da correggere l'affermazione di Pocock stesso che tra tradizione addisoniana e radicalismo filosofico vi sarebbe rottura, giacché i benthamiti «non erano educati e si curavano poco del raffinamento delle passioni» (ivi, p. 244).

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come rivela già un passo dei manoscritti sulla «legislazione indiretta» (1779-82), preme piuttosto sottolineare il ruolo della di-

sciplina lavorativa: la benevolenza, egli sostiene, «può in una certa qual misura essere l’effusione dell’istinto e il dono della natura, ma per la maggior parte almeno, se non del tutto, è il prodotto dell’industria, il suo frutto più raffinato»!36. Parallelamente, «i moventi per ogni sorta di crimine vengono sempre più ridotti dalla grande crescita dei mezzi di impiego determinata dal grande incremento delle ricchezze manifatturate. Qui si trova la ragione per la quale nella presente età di opulenza vengono perpetrati meno crimini di quanti ne fossero compiuti nei tempi passati di indigenza e di barbarie»137. In conclusione, l’analisi benthamiana dell’interesse pecuniario, dell'amore per l'approvazione altrui e della benevolenza rivela un sostanziale ottimismo sociale, peraltro del tutto pragmatico, spoglio di ogni connotazione teologica e finalistica. Gli individui appaiono capaci di agire spontaneamente in modo da promuovere l’utilità collettiva. Uno spazio di relazioni sociali indipendenti dalla politica e che non hanno bisogno del suo intervento esiste e tende ad accrescersi e l'interesse egoistico, e quello pecuniario in ispecie, ne sono parte preponderante, per molti versi attraente ed egemonica, ma né centrale né inevitabile. Mammonismo e filisteismo non sono dunque le basi, né esplicite né nascoste, della ricerca benthamiana sull’agire degli individui in società. La scienza che fonda questa ricerca non è l’economia politica, ma una scienza dell’azione a base edonistica. Infine, il collegamento tra etica e politica non scaturisce, come per gli epigoni ottocenteschi di Helvétius, tra i quali si colloca anche Elie Halévy, dalla riflessione che gli interessi privati o si armonizzano naturalmente, e allora non v’è bisogno di Stato, oppure entrano in contrasto tra loro, e diviene necessaria una «conciliazione artificiale»138, ma dalla constatazione che, qualunque sia il movente che sospinge i diversi individui, anzi proprio perché i moventi sono molti e diversi tra loro, la «sanzione politica» è sempre

parte integrante del vivere sociale, elemento che orienta le tendenze individuali. 136 UCL LXXXVII, 27. 137 Ivi, XCVI, 255. 138 Halévy 1901-4, vol. I, pp. 15-24, 160-219.

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Capitolo quinto

| FINI DEL GOVERNO

Se è nell’etica utilitaristica che dobbiamo ricercare i fondamenti del sistema teorico benthamiano, è tuttavia la scienza della legislazione a occupare il centro degli interessi del filosofo. Proprio alla sincera, precoce vocazione per questa disciplina il vegliardo di Westminster attribuirà più tardi la profonda unità della propria esistenza, ricordando quando, da giovinetto, tormentato dalle dilettantesche discettazioni del padre, che si aggirava per la casa brandendo il De l’esprit di Helvétius e interrogandosi sull’etimo della parola «genio», quivi incontrata, si era domandato angosciato: «e io, ho del gezio per qualcosa? Che cosa posso produrre io?» Helvétius considerava la legislazione come la più nobile delle imprese umane. Si chiese allora Jeremy: Ho forse del genio per la legislazione?» e «tra paura e tremori», rispose a se stesso: «Sì!»!.

Gli anni che precedono e seguono la stesura dell’Introduction sono dedicati a lavori sul diritto penale, la legislazione indiretta e la teoria delle ricompense. A partire dal 1782 e fino al 1787, Bentham lavora poi a un progetto che è in un certo senso la prosecuzione della ricerca sulle «leggi in generale»: uno studio delle varie branche in cui si suddivide la legislazione, un «pandicaion» o Projet d’un corps de loi complet à l’usage d’un pays quelconque?, redatto in un francese alquanto anglicizzato, nella speranza di trovare attenti lettori tra i sovrani illuminati del continente europeo. Nelle carte benthamiane, il Projet è suddiviso in due parti, denominate Forzze e Matière. La prima fornisce una definizione 1 Works, vol. X, p. 27.

2 UCL CLXX, 182. Cfr. Hume, L.J. 1981, pp. 89-90. Il materiale Projet è sparso in vari cartoni e principalmente in UCL XXXIII, XCIX.

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«enciclopedica» della legislazione, individuando differenze, collegamenti e incroci tra le sue diverse articolazioni; la seconda — di dimensioni ben più ampie — si propone invece di tracciare nelle sue linee generali il contenuto di ciascuna delle branche in precedenza definite. Mai pubblicato nella sua forma originaria, anche perché incompleto, il Projet sarà in seguito utilizzato da Dumont per comporre i Principes du code civil, i Principes du code pénal (1802), parte della Théorie des récompenses (1811) (tratti dal

Projet Matière), la Vue générale d’un corps complet de législation e il saggio De la promulgation des lois (1802) (tratti dal Projet Forme).

Sicurezza, abbondanza, sussistenza ed eguaglianza

Basata sulle conclusioni dell’etica in generale, la politica benthamiana ne incorpora i risultati: il principio di utilità è così assunto a «fine generale» della legislazione e del governo. Uno dei caratteri più rilevanti di questo principio consiste — lo si è già visto — nella definizione del benessere generale come somma degli interessi individuali*. Ciò attribuisce alla politica utilitarista, tanto come scienza che come arte, una marcata connotazione individualistica, la cui portata è ben chiarita da un passo dell’Ixtroduction nel quale Bentham distingue tra «circostanze influenti» primarie e secondarie: sono solo le prime — tra cui l’occupazione, il denaro, il potere, la simpatia — che «fanno il lavoro», cioè influenzano direttamente l’agire, mentre le circostanze secondarie — sesso, età, rango, clima, forma di governo, religione ecc. — esercitano il loro effetto condizionante solo tramite le prime. Le «classi» di individui non sono dunque per Bentham un soggetto sociale, né entità da prendere troppo sul serio nella spiegazione degli eventi o nella ricerca degli obiettivi politici. Tutto ciò rende particolarmente difficoltosa l’indicazione di obiettivi concreti e soprattutto di quei principi generali che devono ispirare la legislazione. E proprio per creare un ponte tra bisogni individuali e scelte pubbliche, evitando il vuoto di certezza della discrezionalità, che Bentham individua nei cosiddetti «fini subordinati» della legislazione (sicurezza, sussistenza, ab-

3 IPML, p. 12. 111

bondanza ed eguaglianza) i principi generali della politica*. Elaborata nei suoi dettagli nel Projet, la teoria dei quattro fini sarà spesso riproposta in opere della maturità, dai Leading Principles of a Constitutional Code, for Any Nation, del 1823, agli appunti raccolti sotto il titolo di Norzography (1814-31), fino ai Pannomial Fragments del 1831.

I fini subordinati sono regole di giustizia concernenti la distribuzione dei beni, dei doveri e dei diritti; vengono così chiamati perché sottoposti ultimativamente al vaglio del fine generale. Bentham precisa inoltre ripetutamente che la scelta dei fini subordinati non deriva da una riflessione aprioristica, ma da una ricerca empirica e classificatoria: essi sono gli obiettivi «di ogni società politica», a cui ogni legislazione del passato e del presente può in ultima istanza essere ricondotta, anche se le differenze «di tempo e di luogo» possono spiegare il prevalere dell’uno o l’eclissarsi di un altro6. In un secondo senso la ricerca dei fini del governo ha natura empirica: essa si basa sull’analisi delle motivazioni individuali. Come rivela infatti un passo del Manua! of Political Economy (1793-95), esiste una stretta parentela tra gli «usi della ricchezza» da parte degli individui e i fini del governo: sussistenza, «accrescimento», sicurezza altro non sono, pertanto,

che la prosecuzione e razionalizzazione, al livello più generale della politica, delle aspirazioni individuali più comuni”. Attraverso i fini subordinati, infine, come fa osservare John Stuart

Mill, viene dato male imperativo Tra i quattro una posizione di

un contenuto concreto al di per sé troppo fordell’utilità8. fini del governo, quello della sicurezza assume preminenza, non solo perché non v'è chi non ne

sia interessato, ma anche perché «la sussistenza, l'abbondanza e 4 UCL XXXIII, 102 («Projet. Introd. Buts Subordonnés»). ? UCL XXXIII, 102; Principes du code civil, in Oeuvres, vol. I, pp. 55-86; Nomography, in Works, vol. III, pp. 293-94. Cfr. Halévy 1901-1904, libro I, cap. Mit

6 UCL XXXIII, 128, 158. Cfr. Deortology, p. 125. Sulle differenze di tempo e di luogo cfr. UCL LXXXVIII (a), 1-51; De l’influence des temps et des lieux en matière de législation, in Oeuvres, vol. I. ?EW, vol. I, p. 226. Stark non ha incluso nel materiale relativo al Manual

da lui pubblicato un passo in cui si parla dei fini della legge in senso normativo, citandone in nota solo la parte relativa all’eguaglianza (cfr. ivi, p. 226 nota; UCL XVII, 22). In questo modo ha confuso tra usi della ricchezza e fini del governo, non cogliendo il senso dell’operazione benthamiana.

8 Mill 1962, pp. 18-20.

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l'eguaglianza non si rapportano necessariamente a più di un solo istante. La sicurezza invece riguarda tutti gli istanti avvenire, ed esprime l’estensione nel tempo tanto della sussistenza quanto dell'abbondanza e di qualunque altro bene e possesso a cui si applichi»?. E da notare che la nozione di sicurezza tende a comprendere in sé, per Bentham, quella di libertà: come ha chiarito Fred Rosen, egli distingue in realtà tra una libertà naturale, intesa come assenza di costrizione, e una libertà politica, quale sfera di diritti individuali legalmente protetti e garantiti dall’imposizione di una serie di doveri, ma preferisce chiamare «sicurezza» questo secondo tipo di libertà: infatti, «la libertà personale è una branca della sicurezza: sicurezza contro una certa specie di torti che colpiscono la persona. Quanto alla libertà politica, essa è un’altra modificazione della sicurezza: sicurezza contro qualunque ingiustizia che possa venire dai membri del governo»!°. E vero che è logicamente possibile per la sicurezza entrare in contrasto con la libertà, ma «il cittadino può [...] acquisire diritti soltanto con il

sacrificio di una parte della sua libertà. Tuttavia, anche sotto un cattivo governo, non c’è proporzione tra l'acquisizione e il sacrificio e il governo si avvicina alla perfezione nella misura in cui l'acquisizione è maggiore e il sacrificio minore»!!. La ragione di questa scelta è da ritrovare, ancora una volta, nell’opposizione al linguaggio dei diritti naturali, che, dietro una difesa della libertà individuale apparentemente più rigida, nasconde pericolose ambiguità. Proprio nel Projet, in aperta polemica con Smith, Ben-

tham dichiara assurdo asserire che una legge sia cattiva in quanto viola il «sistema della libertà naturale». Difatti, «dire che una legge è contraria alla libertà naturale significa semplicemente dire

che è una legge»!2, tale libertà significa Un'altra ragione ta dipendenza dalla

mentre dire che essa è cattiva perché viola negare validità a ogni legge. del primeggiare della sicurezza è la sua stretcertezza e dall’efficacia delle leggi!>. E per

9? UCL XXXIII, 102. Cfr. Principes du code civil, in Oeuvres, vol. I, p. 57. 10 UCL XXXII, 130. Cfr. UCL CLXX, 199; Principes du code civil, in Oeuvres, vol. I, p. 57; Pannomial Fragments, in Works, vol. III, p. 225; Rosen 1983, pp. 68-71.

11 Principes du code civil, in Oeuvres, vol. I, p. 56. 12 Vye générale d’un corps complet de législation, in Oeuvres, vol. I, p. 340 e

nota. 13 Principes du code civil, in Oeuvres, vol. I, p. 63.

do

questo che deve essere obiettivo primario non solo del diritto penale, ma anche del diritto civile, giacché le è indispensabile non solo la repressione e la prevenzione del crimine, ma anche una serie importante di leggi «liquidative» e «qualificative», dalla certificazione dei contratti alla fissazione delle procedure legali di scambio, alla regolazione della proprietà privata!4. Di contro, l'abbondanza e la sussistenza dipendono in larga misura da stimoli naturali, le privazioni, la disposizione all’industria, il desiderio di guadagno, rispetto ai quali l’opera del legislatore è «superflua» o addirittura «dannosa», anche se qualcosa rimane sempre da fare per garantire la sussistenza dei meno favoriti!5. La fame è del resto una minaccia per la sicurezza della proprietà: è dunque interesse di tutti che il governo provveda a nutrire coloro che non possono procurarsi il pane quotidiano. Quanto al rapporto tra sussistenza e abbondanza, esso si riassume nella differenza tra un minimo e un massimo: mentre la sussistenza è «ogni cosa il non-possesso della quale produrrebbe una positiva sofferenza fisica», l'abbondanza è tutto ciò che supera questo livello!6. La giustificazione utilitaristica dell’eguaglianza, infine, risiede negli «assiomi di patologia mentale» — come Bentham li chiama in una pagina dei manoscritti Projet — secondo i quali, data la proporzione decrescente tra incrementi delle «fonti del piacere» e variazioni della soddisfazione stessa, la massima utilità collettiva coincide con una distribuzione egualitaria. Perciò «l’eguaglianza è un mezzo potente per elevare l'efficacia dell'abbondanza nella produzione del benessere, per tacere qui della tendenza che essa può avere ad aumentare la stessa abbondanza»!7. Le drastiche limitazioni pratiche cui questo obiettivo deve tuttavia sottostare derivano dal suo conflitto con l’esigenza ancor più fondamentale della sicurezza. E proprio questo conflitto che fissa in ultima istanza i limiti della politica. 14 Cfr. UCL XXXII, 63. 15 UCL XXXII, 2; Principes du code civil, in Oeuvres, vol. I, pp. 57-59; Pannomial Fragments, in Works, vol. III, p. 227. Cfr. Lettera di Jeremy a Jeremiah Bentham, dicembre 1785, in Correspondence, vol. III, pp. 557-59. 7 rap Principles of a Constitutional Code, for Any Nation, in Works, vol.

, p.

269.

17 UCL XXIX, 22. Cfr. Principes du code civil, in Oeuvres, vol. I, pp. 60-61, re x Fragments, in Works, vol. III, pp. 229-30. Cfr. Long 1977, pp. 166167.

114

Il vincolo delle aspettative

Decisiva quanto la «patologia mentale» che spiega il «bene dell’eguaglianza» è quella che mette in evidenza la priorità della sicurezza. Bentham muove dall’assunzione che gli individui vivono in una condizione di fondamentale incertezza circa gli eventi futuri!8. Temuti sono gli attacchi altrui alla propria persona, al frutto del proprio lavoro o ai propri possessi abituali. In determinati momenti queste aspettative pessimistiche possono preva-

lere, determinando un diffuso sentimento di allarme e, per scoraggiamento, l’arresto totale dell’industria, cioè della disposizione degli individui a produrre con alacrità ed efficienza in vista di un maggiore benessere futuro. L’attacco portato alla sicurezza può dunque distruggere l’intera società, minando le pulsioni economiche e inducendo la gente a dissipare!. L’insistenza continua su questo tema è ricca di significato: essa mostra infatti come l’utilitarismo benthamiano non solo sia,

come abbiamo già detto, una risposta filosofica ai dilemmi posti dalla riflessione settecentesca sulla felicità, ma affidi anche alla

legge il compito principale nel fornire tale risposta. Più della morale, la politica utilitarista, vero gran consolatore, deve spengere le inquietudini che attraversano e minano l’esistenza di ogni essere, tanto più in quanto questi è percepito non come creatura e

destinatario di un piano provvidenziale, ma come individuo nudo, alla precaria ricerca del proprio benessere. Donde la conclusione: Aspettative! questa è la gran parola che dovrebbe perennemente risuonare nelle orecchie di chiunque intraprenda la costruzione o la modifica di un codice di diritto civile. [...] Nor disturbare la corrente delle aspettative: in queste parole è contenuta la grande pietra di confine del codice civile, la quintessenza di ogni cosa che l’utilità possa dettare in questo vasto terreno.?0

18 UCL XXIX, 17 (Civil Sdreté. Propositions de pathologie politique servant à faire constater l’avantage è proteger la sùreté). 19 UCL XXXII, 16, 22-23. Su questo argomento cfr. Kelly 1989, pp. 72-79. 20 UCL XXIX, 6. Questo passo è scritto dopo il 1791, quando cioè Bentham cominciava a nutrire dubbi sulla pericolosa piega presa dagli eventi della Rivo-

luzione francese.

115

Due cose deve fare dunque la legge: da un lato proteggere la sicurezza degli individui, dall’altro, soprattutto, limitare la sfera del suo intervento in modo da non generare inquietudine e scoraggiamento. Per questo l’ultimo Bentham assocerà al «principio della massima felicità» quello complementare della «non-delusione» (non-disappointment principle)?!, con lo scopo di sottolineare i profondi limiti cui l’operare di ogni governo è sottoposto. Mantenere inviolata la corrente delle aspettative significa però non alterare sconsideratamente la distribuzione della proprietà. Il campo d’azione del fine dell’eguaglianza rimane quindi teoricamente ben delimitato: «un solo errore potrebbe sconvolgere l'ordine sociale»?2. Non solo, infatti, l'individuo è più sensibile al dolore della perdita che al piacere del guadagno, ma «in tutti questi casi, [...] aggiungete i mali di second’ordine [...] e soprattutto l'allarme, e la sproporzione è infinita»?3. Inoltre «se la sorte dell’industrioso non fosse migliore di quella dell’ozioso, cesserebbe ogni motivazione all’industria»?4. Infine, la violenza necessaria per imporre l'eguaglianza delle fortune, e soprattutto per conservarla, è di per sé una condizione intollerabile??, Quest'ultima ragione vale anche per criticare l’utopia di un ordinamento sociale basato sulla abolizione della proprietà e sulla «comunità di beni», quale Mably aveva per esempio immaginato. Un simile ordinamento, chiarisce Bentham, sarebbe intollerabile perché «fatale alla libertà», anche se funzionasse dal punto di vista economico?6: «Che cos'è dunque l’istituzione di una comunità di beni? un apparecchio per sostituire la punizione alla ricompensa, il dolore al piacere, la paura alla speranza e la servitù alla libertà. [...] Per tenere assieme la società secondo questo

schema, gli uomini dovrebbero essere nel migliore dei casi trat-

21 Cfr. Official Aptitude Maximised, Expense Minimised, in Works, vol. V, pe deg Commentary on Mr. Humphrey's Real Property Code (1826), ivi, p. 22 Principes du code civil, in Oeuvres, vol. I, p. 57. Cfr. ivi, p. 68; Leading Principles, in Works, vol. II, pp. 271-72. Il fine dellasicurezza corregge quindi la teoria utilitaristica in senso sb erat Cfr. Rosen 1983, p. 72. 23 UCI XOCXII 19 Gertiviist 24 Principes du code civil, in Oeuvres, vol. I,p. 58. 25 Ivi, pp. 68-69. Cfr. Works, vol. I, pp. 358.64; UCL LXXXVIII (a), 5281; XXIX, 8.

26 UCL XXIX, 8. Cfr. Vereker 1967, pp. 250-52.

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tati come scolaretti, più probabilmente come schiavi»?7. Essa è

dunque — conclude un Bentham whig come non mai — una specie in estinzione, che ha svolto una sua funzione in organizzazioni sociali in cui la guerra assorbiva le maggiori energie della nazione e la disciplina e l’unità del popolo erano le virtù predominanti?8, oppure è l’utopia religiosa dei gesuiti del Paraguay o di qualche radicale incapace di cogliere i sentimenti dominanti dell’essere umano. Bentham non vuole con ciò sostenere che l’ineguaglianza delle fortune sia requisito indispensabile di una società prospera e felice, anzi egli è convinto che nella società moderna, a differenza dell’epoca feudale, esistano forze spontanee (ancora una volta motivazioni individuali) in grado di rigenerare continuamente una relativa eguaglianza: da un lato l’irresistibile ascesa degli «uomini industriosi», spinti a migliorare la propria condizione dal bisogno o dal desiderio del guadagno, dall’altro il naturale declino dei già ricchi, che diventano pigri e dissipano a poco a poco le loro fortune. Una dinamica mobilità sociale, dunque, un ciclo

polibiano delle fortune individuali, che eternamente si rinnova: tutto ciò, naturalmente, purché le leggi non siano fatte in modo da perpetuare artificialmente i privilegi dei potenti??. Perciò, «dovunque e qualunque sia l’attuale distribuzione dei beni, un grado sensibile di eguaglianza, se non la perfezione dell’eguaglianza potrebbe essere generato da misure che puntino soltanto alla sicurezza, ivi compresa la sanzione dei contratti, cioè assicurando a ciascuno [...] il frutto del proprio lavoro e il prodotto degli scambi che voglia fare con questo stesso frutto»5°. Intollerabile è solo l'eguaglianza imposta dall’alto, perché non è compatibile con le più profonde motivazioni individuali e con la domanda primaria che viene rivolta al corpo sovrano, quella della sicurezza della

persona, delle cose e delle aspettative. La conclusione non è però la totale rinuncia a ogni pratica redistributiva. L'unico conciliatore tra sicurezza ed eguaglianza è il tempo. Se la proprietà non può essere sottratta agli individui 27 UCL XXIX, 9. Cfr. Dinwiddy 1978, p. 19 28 UCL XXIX, 9. L'argomento sembra tratto da Bielfeld 1763- 72, tomo 1, pp. 156-57. 29 Principes du code civil, in Oeuvres, vol. I,p. 70. Singolare è la consonanza con le idee di James Steuart. Cfr. Sen, S.R. 1857, paidila 30 UCL XXIX, 22.

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durante la loro esistenza, possono tuttavia essere poste alcune limitazioni dal diritto di testare, si può sopprimere il diritto di primogenitura, estendere la trasformazione in beni demaniali delle eredità collaterali?!. Anche la correzione di quelle «ineguaglianze civili» che appaiono intollerabili (la schiavitù ne è un esempio) deve essere «una operazione lenta» e graduale, quando non addirittura accompagnata da indennizzo?2. Ammesso è infine il risarcimento pubblico contro i danni del crimine e delle calamità: in questo caso è l’eccezionalità delle circostanze e la distribuzione del carico su un numero elevato di persone a rendere l'operazione accettabile??. Qualche accenno di ampliamento della sfera dell’eguaglianza si ha nei Pannomial Fragments del 1831. Qui Bentham, sotto l’in-

fluenza del saggio On Government di James Mill e, più in generale, della teoria ricardiana dello sviluppo, sposta volutamente l’attenzione dall’antagonismo statico tra eguaglianza e sicurezza al rapporto dinamico che viene a instaurarsi tra crescita della ricchezza, soluzione del problema della sussistenza e diminuzione progressiva delle ineguaglianze, grazie all’infittirsi dei «ranghi mezzani» della popolazione: «Il piano distributivo che, applicato alla materia della ricchezza, è il più favorevole all’universalità della sussistenza e dunque, in altre parole, alla massimizzazione della felicità, è quello in cui, mentre la fortuna del più ricco, di colui la cui condizione è al sommo della scala, è più grande, i gradi tra la fortuna del meno ricco e quella del più ricco sono più numerosi, in altre parole, la gradazione è più regolare e insensibile»?4. Non è nuova, né per Bentham né per il suo secolo, l’idea che l'abbondanza sia una garanzia per la sussistenza; rilevante è però l’asserzione che l'aumento generale della ricchezza dia luogo alla crescita del peso sociale e del benessere delle classi me31 UCL XXXII, 39. Cfr. Principes du code civil, in Oeuvres, vol. I, pp. 68-69.

32 Cfr. Principes du code civil, in Oeuvres, vol. I, p. 69. 33 UCL XXXII, 91-92; Principes du code civil, in Oeuvres, vol. I, p. 62.

34 Works, vol. III, p. 230. Cfr. J. Mill, Essay on Government, in Lively-Rees 1978, pp. 88-95; M.E.L. Guidi, Sviluppo economico, distribuzione e rendita fondiaria in Ricardo. L'economia L'nn come scienza e come progetto, in «Annali della Fondazione Luigi Einaudi», XVII, 1983, pp. 57-112; G. Berta, La rendita e lo stato. Marx, il laissez-faire e l'economia politica classica, in «Quaderni della Fondazione G.G. Feltrinelli», n. 1, 1977, pp. 1-37. L’idea di un declino progressivo della sperequazione tra i redditi può comunque essere trovata, ir nuce, già nel Projet. Cfr. Principes du code civil, in Oeuvres, vol. I, p. 70.

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die. La riduzione delle ineguaglianze che ne deriva non è pertanto il frutto di una redistribuzione dei beni esistenti, ma della crescita assoluta del reddito prodotto. In secondo luogo, dalla riflessione sul fine dell’eguaglianza viene dedotta la giustizia degli alti salari. AI Bentham degli anni Trenta è più chiaro di quanto non gli fosse cinquant'anni prima che i «poveri» della società industriale sono i lavoratori salariati. Poiché essi sono la maggioranza schiacciante della popolazione, è utilitaristicamente giustificato difendere la loro richiesta di salari più elevati. Gli è anche chiaro, perché ha letto Ricardo, che elevati salari significano più bassi profitti, «giacché il profitto netto del capitale (stock) è composto dalla massa, o meglio porzione, che rimane al padrone del capitale, una volta dedotti i salari del lavoro applicato ad esso»3, ma ciò nulla toglie alla giustizia di un aumento salariale. Un oscuro, forse mal trascritto, commento a

questa affermazione sembra del resto alludere a una condizione di sviluppo tale da non rendere questa misura intollerabile per i capitalisti stessi: lo stato di cose auspicato dallo stesso Ricardo.

I limiti della legislazione definiti

Parlando della nozione di «disposizione a obbedire», si è osservato come essa individui, pur all’interno di una concezione della società civile dominata dal rapporto tra sovrano e sudditi, uno spazio istituzionale distinto da quello politico, fatto di relazioni comunicative e di giudizi collettivi: la pubblica opinione. Alle istanze che quest’ultima esprime vengono subordinate le scelte, anzi la sopravvivenza stessa dei governi. Il contrappunto tra fini del governo e aspettative approfondisce questa riflessione, rivelando l’esistenza di ulteriori limiti alla sfera della legge. Esso mostra che il legislatore non può imporre qualunque cosa; egli non ha, come il sovrano hobbesiano, il potere di determinare arbitrariamente la misura del giusto e dell’ingiusto?6, non solo perché può suscitare una corale mozione di sfiducia, ma anche perché i mandati che contrastano con i bisogni e le attese individuali determinano una sorta di crisi di rigetto molto più istin35 Works, vol. III, p. 230. 36 Hobbes 1968, I.xv.

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tiva e privata, una resistenza passiva è uno scoramento che con-

duce l’organizzazione sociale alla crisi. Da questo punto di vista, la portata della riflessione sui fini e sui limiti della legge può essere meglio afferrata se viene intesa come l’alternativa che Bentham propone alla teoria giusnaturalista del patto sociale. Dopo aver dimostrato che può definirsi legge solo il mandato di un sovrano determinato e che la nozione di legge di natura è una ridondanza inutile, Bentham deve trovare un criterio per giudicare la giustizia o ingiustizia delle leggi positive e suggerisce di cercarlo non in astratti diritti imprescrittibili, ma nei bisogni degli individui e nelle loro reazioni sociali alle decisioni politiche. Con ciò stesso, il limite della politica non è più semplicemente morale, com'è il giudizio sulla conformità delle leggi positive al dettato della natura, ma tende a divenire una realtà di fatto. Con le sue conclusioni limitatrici, la teoria dei fini subordi-

nati svolge perciò una dorfiana, ripresa anche da Paley nei Principles spostandola sul terreno

funzione analoga alla distinzione pufenda Smith nelle Lectures on Jurisprudence e of Morals, tra diritti perfetti e imperfetti, dell’utilità diretta?”7. L'intervento del go-

verno per assicurare sicurezza e sussistenza è giustificato in base

all’assoluta priorità del compito di eliminare sofferenze insostenibili, mentre ulteriori interferenze sono escluse o limitate, non

tanto perché è difficile trovare un consenso sociale preventivo sulla loro estensione, ma perché la loro messa in atto provocherebbe ex post una crisi di rigetto da parte del tessuto sociale. Giova notare che — pur ribadendo che la giustizia distributiva sia da porsi tra gli obiettivi delle leggi — Bentham raggiunge conclusioni di fatto molto vicine a quelle del «sistema della libertà naturale» di Smith, che prescrive al governo solo la difesa delle persone e della proprietà e l’amministrazione della giustizia, la difesa dai nemici esterni (sicurezza), e i lavori pubblici inacces-

sibili ai capitali privati?8. E non è tutto: in un importante capitolo dell’Introduction, 37 Cfr. Smith 1978, pp. 5-9 (trad. it., pp. 3-8); id. 1976b, II.11.1; Paley 1828, pp. 34-36. Su questo aspetto della concezione smithiana cfr. Haakonssen 1981, cap. 4. Già Hutcheson distingue tra diritti perfetti e imperfetti, ma l'estensione data all’intervento del governo non è limitata come quella di Smith e Bentham. Cfr. Vereker 1967, pp. 100-1. 38 Smith 1976b, p. 681; Winch 1978, pp. 172-73.

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intitolato Of the Limits of the Penal Branch of Jurisprudence, Ben-

tham discute i limiti «dell’arte della legislazione» rispetto «all’etica privata», in termini che richiamano ancor più da vicino la distinzione tra diritti perfetti e imperfetti, o quella analoga, introdotta da Blackstone, tra doveri assoluti e doveri relativi??. I doveri assoluti non possono essere resi obbligatori dalla legge in ogni circostanza, mentre sono sempre vincolanti moralmente: per esempio, non si può prescrivere a un individuo di non ubriacarsi, fino a che, così facendo, non calpesti i diritti degli altri, dando cattivo esempio o molestando il prossimo. Solo in tali casi, i governi imporranno dei doveri relativi o sociali, che consistono nel non violare i diritti assoluti (naturali) degli altri individui.

In alternativa a questo modo di ragionare, Bentham propone di prendere le mosse da un’analisi più circostanziata dei doveri dell’individuo, che sono per lui la prudenza, la probità e la beneficenza. Il primo di questi tre doveri, come sappiamo, riguarda solo se stessi e la propria felicità, mentre gli altri due sono «doveri verso gli altri»: la probitàè definita cone dn dovere «de: gativo», l’astenersi dal danneggiare senza motivi il prossimo, mentre la beneficenza è il dovere positivo di accrescere il benessere dei propri simili. Ora, tanto l’etica privata quanto la legislazione fanno affidamento su queste virtù, ma l’una non ha le medesime prerogative dell’altra nell’imporle agli individui. Più esattamente:

Non v'è alcun caso in cui un privato non debba orientare la propria condotta a produrre la propria felicità e quella dei suoi simili, ma vi sono casi in cui il legislatore non deve (almeno in via diretta e per mezzo di punizioni applicate immediatamente a particolari atti individuali) cercare di dirigere la condotta dei vari altri membri della comunità.°

In particolare, il grado di intervento è diverso per le «tre branche del dovere». Quella che meno di tutte ha bisogno del legislatore è la prudenza, giacché «può dipendere solo da qualche difetto dal lato dell’intelletto se un uomo possa mai mancare ai doveri verso se stesso» e, quanto al resto, ciascuno è il miglior giudice dei propri interessi: un argomento 39 Blackstone 1765-69, 1.I., p. 119.

40 IPML, pp. 284-85.

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antipaternalistico,

questo, che Bentham deriva da Smith"!. Tutto quello che la legge può fare a questo proposito è influenzare alcune «linee generali di condotta». Bentham pensa alla legislazione indiretta, che punta sulla sanzione morale per indurre gli individui a seguire i costumi da essa auspicati. Tuttavia, dimostrando così quanto infondate siano le apprensioni di coloro che hanno ravvisato proprio in questa parte della sua teoria giuridica le radici di una visione totalitaria‘, aggiunge: «l'adeguatezza della sua interferenza sarà nella maggior parte dei casi altamente soggetta a contestazione»; né il legislatore può attendersi una perfetta «acquiescenza» al suo dettato4. Quanto alla beneficenza, essa deve essere demandata in larga misura all’etica privata: la costrizione legale, infatti, può agire solo sull’interesse egoistico, mentre la beneficenza si basa su moventi sociali e semi-sociali e può prosperare solo se «libera e volontaria». E solo la virtù negativa della probità a domandare la massima interferenza del legislatore, giacché si tratta di impedire agli individui di danneggiare intenzionalmente gli altri, nella ricerca della propria felicità44. Anche per Bentham, dunque, il terreno proprio della legge è in prevalenza quello della giustizia commutativa, sebbene non unicamente. Un ulteriore modo di segnare i limiti della sfera del governo può infine trovarsi nella teoria delle ricompense. Nei testi su questo tema, appartenenti a due gruppi diversi, il manoscritto Reward (1778-1882) e la sezione sulla Législation rémunérative delProjet (1886 ca)45, Bentham definisce la ricompensa come «una 41 IPML, pp. 289-90. Cfr. Pesciarelli 1988, pp. 56-58. 42 Mack 1962, p. 11; Long 1977, cap. 8.

43 IPML, pp. 190-91.

44 IPML, pp. 291-93. Questo tema, finora mai rilevato dalla letteratura su Bentham, è stato di recente approfondito da Francesco Fagiani (1989). Non è tuttavia condivisibile la sua ipotesi che la sicurezza costituirebbe un autonomo vincolo al principio di utilità, oppure che vi sia un irrisolto conflitto tra i due: è chiara in Bentham la subordinazione tra i due, a vantaggio del secondo. Il fine della sicurezza, infatti, pur primeggiando, deve essere contemperato con gli altri tre fini, in base al principio di utilità. La teoria di Bentham non è contraddittoria, bensì pragmaticamente indeterminata. 45 Cfr. OLG, p. 309; Long 1977, p. 178. Etienne Dumont lavorò su entrambi questi manoscritti tra il 1809 e if1811, anno nel quale dette alla luce la Théorie des peines et des récompenses: la preparazione del secondo tomo (Des récompenses), dedicato appunto a quest’ultimo tema, fu particolarmente laboriosa e venne seguita con attenzione dallo stesso Bentham, come testimoniano la corrispondenza e i numerosi appunti datati 1809-1811. I due originali gruppi di manoscritti furono scorporati e rifusi in un’unica sintesi. Cfr. UCL CXLII, 14-

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porzione di beni impiegata in guisa di movente per far nascere qualche servizia, qualche azione la cui tendenza sia reputata utile alla società»46. Tuttavia la punizione rimane il principale «motore» del «macchinario del governo», mentre l’altra leva non deve servire che a «far nascere ciò che è raro»47: la promozione delle arti e delle scienze, delle invenzioni48, la gestione di servizi pubblici straordinari, l’incoraggiamento della difesa nazionale, soprattutto in circostanze di emergenza, infine il soccorso passeg-

gero all’industria in difficoltà‘. Non molto di più: l’uso delle ricompense resta dunque connesso a quei livelli minimi di intervento che riguardano soprattutto i fini «prioritari» della sicurezza e della sussistenza. Bentham «scopre» le potenzialità della leva remunerativa, ma non ne fa l'elemento cui spera di affidare l’integrale condizionamento di ogni scelta individuale59. Il vantaggio della ricompensa è di non imporre un obbligo a colui da cui si attende un servizio. Tuttavia, come la pena, anche la ricompensa è in effetti un «fardello» per chi deve sostenerne il costo, si tratti di un costo pecuniario o immateriale (il fatto che il beneficiario sia preferito per l’attribuzione di una carica, per esempio)?!. A questo proposito, Bentham suggerisce un test par-

ticolarmente limitativo: una ricompensa pecuniaria può esser ammessa solo se i suoi vantaggi superano il sacrificio imposto dall'ammontare equivalente della più onerosa delle imposte; altrimenti meglio sarebbe sopprimere quest’ultima. E evidente che solo risultati eccezionali giustificano spese quasi insopportabili52, È poi inutile stimolare quelle attività che ricevono una «ricompensa naturale» dalla società, come le attività volte al profitto, il lavoro produttivo in generale, le invenzioni e le opere di genio che possono trovare immediata applicazione produttiva??. 17; Correspondence, vol. VIII, pp. 28, 35-37, 165-66. 46 UCL CXLII, 29, 150. 47 Ivi, p. 150. Cfr. anche Des récompenses, in Oeuvres, vol. II, Iv. 48 Al tema sono dedicati il cap. X del libro I e l’intero, benché conciso, libro III di Des récompenses. 4° UCL XXIX, 24. 50 UCL XXXIII, 87. Per Zanuso, invece, il diritto premiale, associato a

quello penale, «consentirà l’auspicato controllo su tutte le azioni umane» (1989, 229)

;

51 Cfr. UCL CXLII, 58; Des récompenses, in Oeuvres, vol. II, I.v. 52 UCL CXLII, 57; Des récompenses, in Oeuvres, vol. II, Iv.

53 UCL CXLII, 76.

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Dai bisogni alle aspettative, al primato delle virtù negative, fino all’impossibilità di usare estesamente la leva delle ricompense: tanti sono i vincoli riconosciuti all’onnipotenza del legislatore. Occorre tuttavia ricordare che il giudizio sull’opportunità o meno dell’intervento rimane sempre subordinato a una valutazione che non può che essere compiuta caso per caso, analizzando le conseguenze sulla felicità collettiva: ogni regola, perciò, può avere le sue eccezioni?*. Queste conclusioni consentono di valutare meglio il debito di Bentham nei confronti di un’altra delle fonti di ispirazione della sua teoria politica: le «Scienze dello Stato» della tradizione cameralistica tedesca, che egli conosce tramite le opere di Bielfeld, di Beausobre e di altri giuristi continentali. Evidente è il ruolo di questa tradizione nell’orientare il filosofo utilitarista verso una scienza della legislazione fondata nella dottrina dei fini del governo, 0 dello Stato, come dicevano gli autori tedeschi (Staatszwecke). Notevole è, ad esempio, l’assonanza non solo a proposito della felicità dei sudditi come obiettivo primario del sovrano, ma soprattutto per l'enfasi posta sulla sicurezza come suo principale oggetto di sollecitudine e presupposto di ogni altro traguardo. Comune è infine l’idea che sia compito diretto dei pubblici poteri vegliare a una corretta e sufficiente distribuzione della sussistenza. Dove però il discorso di Bentham assume una piega completamente nuova è a proposito dei limiti dell’intervento: per gli scrittori cameralisti si trattava di regolare dall’alto ogni più minuto aspetto della vita sociale ed economica, attraverso l’opera della legge, ma soprattutto attraverso la costante azione della «polizia». Il filosofo utilitarista pensa invece che il compito del governo sia quello di indirizzare la società nelle sue linee generali, soprattutto con leggi efficaci, limitando quanto al resto l’intervento in modo da lasciare il maggior spazio possibile all'iniziativa individuale e non soffocare l’esplicarsi dei moventi socialmente benefici. Gli albori di un interesse per l'economia politica

E nei lavori degli anni Settanta e Ottanta sulla scienza della legislazione che Bentham inizia ad affrontare il tema dell’econo54. TPML;'ppx2902937 55 Cfr. Tribe 1984; Raeff 1975; id. 1983; Schiera 1975.

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mia politica. Ma quale ruolo essa gioca all’interno della sua concezione complessiva? E davvero il fondamento di un’etica modellata sull’ideologia del profitto, dell’interesse commerciale e del libero scambio, come volevano i critici romantici e Marx? Oppure, come sostenne Halévy, è una teoria dell’identificazio-

ne naturale degli interessi nella sfera degli scambi, contrapposta ad una teoria giuridica fondata sull’idea di conciliazione artificiale?56 Un primo breve riferimento all'economia politica è rintracciabile in un oscuro passo, scritto in un ancor più oscuro latino, appartenente al materiale Composition dei primi anni Settanta, nel quale Bentham definisce le «leges politico-oeconomicae» come leggi «onerantes», «prohibentes» e «regulantes»57. A quest’'epoca egli sta lavorando al problema della definizione delle leggi e anticipando, con una significativa variante, le conclusioni di Of Laws in General, introduce la distinzione tra leggi «penali», che hanno come oggetto le sanzioni comminate agli autori di un crimine, e leggi «civili, economiche o pubbliche», che si occupano della «parte dichiarativa» e «appropriativa» della giurisprudenza, ovvero della definizione ed esplicitazione di libeftà, diritti, proibizioni e incoraggiamenti?8. L’interesse di questa definizione risiede nel fatto che viene menzionata, accanto alle leggi «civili» e «pubbliche», una categoria a parte di «leggi economiche o accumulative». Per spiegarne la natura, Bentham riprende la riflessione humeana sulla scarsità come causa dell’origine dei governi e delle leggi, aggiungendo che, mentre compito delle leggi penali e civili è preservare e distribuire le risorse già esistenti, quello della legislazione economica è «produrne di nuove». «Di questo genere — egli prosegue — sono tutte le leggi relative al commercio, eccetto quelle il cui oggetto è prelevare una porzione del reddito»: loro scopo è dirigere il lavoro umano verso quelle attività che, stimolando ognuno a produrre di più «di ciò che farebbe se lasciato a se stesso», aumentano la disponibilità di «strumenti di godimento». L’ottica, dunque, è apparentemente regolatrice e statocentrica: non manca però una no-

56 Halévy 1901-1904, pp. 15-24, 160-219. 57 UCL XCVI, 90 «Composlition]. System of Codes. Head[ing]s».

58 Ivi, p. 102: «Division of Law. Characteristic of Penal Law».

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ta di prudenza sulla estensione che l’intervento dovrebbe assumere??,

Una volta di più, termine di riferimento di Bentham è Blackstone, anche se una fonte non trascurabile potrebbe essere la giovanile lettura del Té/émaque di Fénelon, vero e proprio viaggio iniziatico attraverso la polizia delle antiche nazioni. Rilevante è inoltre il ruolo di Nathaniel Forster, oxoniano, autore di nume-

rosi saggi di economia politica che rivelavano un punto di vista tory, ma attento ai mutamenti in corso nella società inglese. Bentham aveva conosciuto Forster nel 1762 e lo aveva a lungo frequentato in compagnia dell’amico John Lind; era stato lui a suggerirgli la lettura di James Steuart e Charles Davenant, gli autori che Bentham cita nei primi testi sull'economia politicas®. Tra le altre fonti vi sono poi soprattutto scritti e trattati di legislazione, dal Nakaz di Caterina II, tradotto in inglese nel 1768, alle Institutions Politiques di Bielfeld, all’ Esprit des Lois di Montesquieu, da lui considerato forse l’unico trattato completo di scienza della legislazione, proprio perché prende in considerazione anche la parte economicas!. Pur nella loro diversità, questi autori considerano l'economia politica come campo di intervento del sovrano illuminato, che si proponga per fini una popolazione ricca e numerosa, una nazione potente e sicura nei propri confini e che, a tal scopo, sorvegli e regoli con moderazione le attività materiali dei propri sudditi®2. Negli scritti degli anni 1879-82 l’ottica non è sostanzialmen59 Ivi, p. 104. Di analogo tono è la pagina in UCL CXL, 18, appartenente al materiale Crit[ical] Jur[isprudence] Crimlinal] (1775-76 ca), che commenta alcu-

ne affermazioni di Blackstone. Cfr. Blackstone 1765-69, 1. IV, cap. 12, Of Offences against Public Trade. 60 Cfr. Works, vol. X, pp. 61 sgg.; W. Stark, Introduction, inEW, vol. I, pp. 12-13. Steuart è citato pet la prima volta in Des récompenses, in (Oeuvres, vol. II, p. 217). Cfr. Lettera di J. Bentham a J. Anderson, 28 maggio 1783, in Correspondence, vol. III, pp. 165-69. Davenant è citato in manoscritti degli stessi anni. Cfr. UCL LI (b), 410-11. 61 Tra i luoghi in cui Bentham cita le leggi e le istruzioni della zarina, cfr. UCL XXVI, 171 (1778-82 ca). Bielfeld è citato in UCL XXVII, 114; Montesquieu in UCL XXVII, 171. Cfr. Montesquieu 1979 (trad. it. 19657), parte IV, libri 20-23. Si potrebbe aggiungere a questa lista L. de Beausobre, Introduction générale à l’étude de la politique, des finances et du commerce, Berlin, C.F. Voss, 1764, cui Bentham fa allusione in Des récompenses, in Oeuvres, vol. II, p. 219 ta.

62 Cfr. Catherine II 1971, pp. 303, 309; Montesquieu 1979, tomo II, pp.

17-18 (trad. it., pp. 538-40); Bielfeld 1763-72, tomo I, cap. X. 126

te mutata: nell’introduzione manoscritta al saggio sull’Indirect Legislation®>, l'economia politica è ancora vista come la branca della legislazione che ha lo scopo di «promuovere la crescita della ricchezza e della popolazione nazionale» e di assicurare il prelievo fiscale, anche se lo spettro delle sue finalità si allarga: in un altro manoscritto, Bentham, riprendendo un cliché tipico della tradizione cameralistica, attribuisce infatti alle «leggi che riguardano il commercio» un ruolo importante anche per la promozione della sicurezza pubblica, la quale si articola a sua volta in difesa dal nemico, dalla criminalità e dalle calamità naturalis4. La sicurezza è infatti un costo e come tale deve entrare nella sfera delle leggi economico-politiche. In un terzo passo, scritto all’incirca nello stesso periodo e significativamente intitolato Reward. Cases unmeet, Bentham introduce anche il problema della sussistenza collegandolo all’otmai tradizionale dibattito sulla priorità da dare all'agricoltura o alle manifatture: l’autore sostiene che la prosperità dell’agricoltura deve collocarsi sempre in testa ai compiti del legislatore, giacché essa «contribuisce di più agli scopi fondamentali della sussistenza e della difesa». Non solo infatti essa rifornisce una nazione delle derrate alimentari, ma le procura anche i migliori soldati, quei coltivatori (busbandmen) che sono al contempo più robusti fisicamente e più devoti allo stato dei mercanti95. Tuttavia, le interazioni tra i due settori sono tante che mai sembra

difficile ipotizzare interventi tali da non turbare l’equilibrio economico”$. 63 UCL LKXXVII, 2-4. Questo passaggio si trova segnalato in Long 1977, p. 135. Sbaglia però Long ad affermare che Bentham parla dell’indirect legislation come di una branca della political oeconomy. Bentham scrive invece che l’economia politica è una branca distinta, diversa da quelle che hanno a che fare con la prevenzione delle calamità, del crimine e del malgoverno, cui egli intende applicare più specificamente il metodo della legislazione indiretta. 64 UCL XXVII, 86. 65 UCL CXLII, 31. Cfr. Des récompenses, in Oeuvres, vol. II, p. 227; Catherine II 1971, pp. 303-4; Bielfeld 1763-72, tomo I, pp. 63-64. Questo tema, sollevato dai critici harringtoniani della società commerciale, è ripreso anche da

Smith. Cfr. Pocock 1980, pp. 672, 728-35, 755-99; Smith 1978, p. 541 (trad. it., 0/15).

si 66 Cfr. Agriculture not Dependent on Manufactures, in EW, vol. I, pp. 205207. Bentham si richiama qui a Smith più che ai fisiocratici. Cfr. Smith 1976, p. 160. Va osservato tuttavia che tra le letture di Bentham compaiono scritti di Mably e Mercier de la Rivière. Cfr. UCL XXVII, 171.

127

È tuttavia solo nel Projet che troviamo una meditazione più sistematica sull’economia politica. Il problema da cui prende le mosse il ragionamento di Projet Forme mette in crisi alla radice tutta l'impostazione precedente: Bentham si domanda se possa essere distinto un autonomo codice di «legislazione economica» o se invece leggi di contenuto economico debbano essere collocate nei diversi codici, secondo il carattere penale, civile, preventivo o altro che in esse prevalga. Il dubbio che mette in moto la revisione è di tipo logico: un simile codice non può essere definito secondo il metodo enciclopedico-dicotomico, perché manca del proprio opposto; così, il diritto internazionale si differenzia da quello nazionale, quello penale dal civile, ma l'economia politica e la finanza da che cosa diramano?9? Né sembra più significativa la distinzione fatta in precedenza tra leggi che si limitano a regolare la distribuzione della ricchezza e della popolazione esistente e leggi che ne assicurano la crescita, in quanto non solo promuovendo la produzione, ma anche garantendo eguaglianza e sicurezza si contribuisce allo sviluppo. Pertanto, non si può dire che esista un codice di leggi di economia politica il cui contenuto sia distinto e separato da quello di tutti gli altri codici. La raccolta di leggi concernenti questa materia consisterebbe per la maggior parte di leggi e frammenti importanti e sparsi, tratti indistintamente da tutti i codici, da tutte le altre suddivisioni del pandicaion.$8

È a questo punto che interviene una ridefinizione decisiva: l'economia politica è ora per Bentham una scienza «distinta e separata» ovvero una branca della scienza della legislazione, piuttosto che [...] «una suddivisione delle leggi», una formula che richiama quella data da Smith nel quarto libro della Wealth of Nations, opera che, almeno a datare dal 1782, il filosofo aveva letto, riletto e annotato6?. Meglio ancora, l'economia politica è al contempo un'arte e una scienza: lo «studio speculativo [...] della nascita e del progresso delle ricchezze nazionali» è infatti necessario per risolvere il «problema pratico di come bisogna fare per

contribuire e soprattutto per non nuocere a questa stessa cresci-

4

67 UCL XXXIII, 88, 112, 114. 68 Ivi, 88. Cfr. Vue générale d’un corps complet de législation, in Oeuvres, vol.

, p. 363

‘69 Cfr. UCL CXLII, 40, 58; XCIX, 182-83; XXV, 124. 128

ta». «E così — egli aggiunge — che nel corso di un processo si fa una specie di pausa, inviando qualcuno a constatare qualche fatto particolare per mezzo di informazioni o di inchieste.»70

Bentham dedicherà all’economia politica una sezione del Projet Matière, di cui rimangono tra le sue carte solo due fogli con la sintesi degli argomenti trattati7!: un «capitolo sulla popolazione» e un «capitolo sulla ricchezza», facenti parte entrambi della sezione denominata Econorzie (il capitolo sulla finanza, anch’esso perduto, era concepito come sezione a parte)72. Si tratta, come può vedersi, di una stesura già abbastanza ampia, un vero e proprio primo abbozzo di quello che sarà il Manua! of Political Economy (1793-95), poi ribattezzato Institute of Political Economy, nella stesura del 1801-1804. Fortunatamente però, il contenuto

di queste pagine non è andato perduto: nel quarto libro della Théorie des récompenses, redatto da Dumont sulla base di manoscritti in gran parte di epoca successiva, troviamo due capitoli,

XI e il XIII, intitolati rispettivamente De la Population e Des Moyens d’Accroissement de la Richesse, i cui temi seguono — pur con qualche riconoscibile interpolazione — i due indici conservati”3.

Il capitolo sulla popolazione inizia indagando che cosa debba farsi per incrementare la popolazione o, più esattamente, le classi produttrici, «la cui sola rzo/tiplicazione interessa il pubblico»?*. Sono queste classi, infatti, a costituire la «forza» e la «ricchezza» dello Stato, mentre le classi «non-produttive» o «consumatrici pure» sono piuttosto un peso sulle spalle delle altre: una buona ragione per non avere da preoccuparsi se tra esse per avventura predominasse il celibato...7. Nel definire la popolazione lavoratrice come «quella classe che fa la forza e che crea la ricchezza 70 UCL XCIX, 153. 71 UCL XCIX, 149, 190-91. 72 Cfr. ivi, 140 «Proj[ect]. Index»; IPML, p. 6. 73 Una tappa intermedia tra il manoscritto benthamiano e questa versione stampata è in BPU LI, 257-60. ?4 Des récompenses, in Oeuvres, vol. II, p. 218. La distinzione tra «moltiplicazione» e «procreazione» è tratta da James Steuart. Cfr. Steuart 1966, vol. I, pp. 71-78. 75 Des récompenses, in Oeuvres, vol. II, p. 218. Una nota nella stessa pagina

rivela che Bentham si è ispirato a Montesquieu. Cfr. Montesquieu 1979, libro 23. Ma cfr. anche Fénelon 1987, p. 521: «è il numero degli abitanti e l’abbondanza degli alimenti che fanno la vera forza e la vera ricchezza di un regno».

129

dello Stato», Bentham si richiama ad una concezione diffusa tra

gli economisti dei due secoli precedenti?6. Tuttavia, la netta contrapposizione tra l’utilità sociale dei produttori e l’inutilità dei percettori di rendite rivela che l’autore non ha tanto in mente il tema «mercantilista» della popolazione numerosa come garanzia di potenza e di ricchezza per lo Stato, quanto piuttosto la polemica settecentesca tra l'ideale repubblicano civico di una società gerarchica organizzata attorno ai liberi e fidi proprietari fondiari, e la difesa whig della società commerciale. Nello schierarsi a favore della seconda prospettiva, Bentham si riallaccia però alla distinzione smithiana tra lavoro produttivo e improduttivo”?, spostando l’accento sul fare e sul produrre più che sullo scambiare o sul prestare denaro: se le principali funzioni di «interesse pubblico» sono la difesa e la moltiplicazione della ricchezza, i cittadini più «virtuosi» sono proprio i produttori. Questa idea della superiorità civile dei produttori sui percettori di rendita, già marcata nel ragionamento di Hume, oltre che di Smith?8, sarà elemento centrale della visione politico-sociale di Ricardo e di James Mill??, come dell’ultimo Say e degli «industrialisti» francesi89. Assieme a Hume e a Smith, Bentham è stato dunque tra i protagonisti di quella trasformazione del linguaggio politico che ha spostato l’attenzione dal problema della partecipazione politica a quello del contributo alla riproduzione allargata della ricchezza. In generale, la conclusione è che il governo ha ben poco da fare: la popolazione dipende dalla sussistenza e laddove la ricchezza cresce con regolarità, non vi sarà pericolo che manchino le braccia per produrla e le bocche per consumarla8!. Volete incoraggiare la popolazione? Rendete gli uomini felici e confidate nella natura. Ma per renderli felici, non li governate troppo, non li costringete fino nelle loro disposizioni domestiche, e soprattutto in ciò che non può piacere loro altrimenti che sotto gli auspici della libertà.8? 76 77 78 79 I, cap. 80

Cfr. Schumpeter 1954, pp. 251-53; Garraty 1978, pp. 51-56. Cfr. Smith 1976, libro II, cap. III. Cfr. Robertson 1983, pp. 156-58; Pesante 1986, pp. 15-38. Cfr. D. Ricardo, Principles of Political Economy, in Ricardo 1951-52, vol. II; J. Mill, Elerzents of Political Economy, in Mill, J. 1966, IV.v. Cfr. Steiner 1989; Augello 1979.

81 Des récompenses, in Oeuvres, vol. II, p. 217.

82 Ibid.

130

La diffusa paura del governo tirannico potrebbe infatti innescare una catena di aspettative pessimistiche, con conseguenze note: «tutti coloro che saranno così incatenati saranno altrettanti scontenti e infelici, da osservare con sospetto e forse reprimere con mezzi più violenti, e che diventeranno nemici, vedendosi trattati come tali. Altri, che non avrebbero mai pensato di lasciare il loro paese, si preoccuperanno di vedersi costretti a restarvi; altri che potrebbero progettare di stabilirvisi, si guarderanno bene dal farlo»83. Il «Ch. Richesse», l’altro capitolo del Projet Economie, muove da una ricognizione dei fini del governo, per studiare come le ricchezze prodotte da una nazione possano essere incanalate verso di essi84. Il soggetto attorno a cui la riflessione si snoda è sempre il governo e l’oggetto è il suo ruolo nel promuovere la pub-

blica utilità: l'ampiezza dell’intervento dipende tuttavia da un attento esame dei mezzi attraverso cui la ricchezza viene prodotta e distribuita tra i suoi vari usi. Il ragionamento procede su un doppio binario: da un lato il problema centrale è l'accrescimento della ricchezza, reso possibile dall’esistenza non solo di un sovrappiù fisico, ma anche di una classe di individui che hanno per fine l’accumulazione. Dall’altro, la necessità di rispondere alla domanda se il governo possa fare qualcosa per stimolare la crescita conduce Bentham ad adottare un’ottica statica, centrata sull’allocazione del fondo di-

sponibile per questo scopo: il capitale. In questa prima versione Bentham presuppone una situazione di equilibrio generale, la cui stabilità è assicurata dallo spostamento dei fattori tra possibili usi alternativi, alla ricerca del saggio di profitto più elevato: «tutti esercitano un’influenza reciproca gli uni sugli altri e gli utili si suddividono egualmente tra di loro»8?. Dato il fondo di capitale 83 Ivi, p. 219. Si osservi che tra il 1719 e il 1825 l'emigrazione di artisans e artificers era proibita in Inghilterra. Cfr. Mathias 1983. 84 UCL XCIX, 149. In un manoscritto del Projet, appartenente alla sezione Droit civil, intitolato «Matière II Civil Economie (Renvoyer à Economie)», viene inoltre discusso il fine dell’Eguaglianza. L'incremento dei salari viene, ad esempio, giudicato in termini positivi. Poiché però, sulla base di Smith, Bentham pensa che si verifichi spontaneamente nelle nazioni prospere, non ritiene indispensabile che il governo intervenga. Cfr. UCL XXIX, 23; Manual, in EW, vol. I, p. 226 nota; Institute, ivi, vol. III, p. 307. 85 Des récompenses, in Oeuvres, vol. II, p. 227. Cfr. EW, vol. I, p. 205, dove, parlando dell’agricoltura, Bentham ribadisce chiaramente questo concetto. E

131

e data questa situazione di equilibrio, «il commercio è limitato dalla quantità di capitale». Ne deriva che ogni volta che il governo interviene con premi e proibizioni per stimolare la crescita di una branca produttiva, non può che diminuire il capitale disponibile per le altre, mentre rimane escluso ogni incremento della ricchezza86. È vero che il reddito prodotto non dipende solo dal capitale, ma anche dalla sua «efficacia» e si potrebbe ipotizzare che opportuni provvedimenti legislativi possano spostare i capitali verso branche più produttive. Tuttavia Bentham pensa che il movente del profitto sia sufficiente a stimolare la ricerca degli impieghi più vantaggiosi. «La ricchezza dello stato — egli sostiene nel Projet Economie — è la somma delle ricchezze dei privati. La ricchezza è la figlia dell’interesse. Regola generale: ciascuno sa occuparsi meglio dei propri bisogni di quanto il governo possa fare in vece sua»87. L’autorità pubblica può semmai contribuire con quelle opere infrastrutturali il cui costo sarebbe eccessivo per i singoli imprenditori e che costituiscono importanti economie esterne, anche se, in un clima di «fiducia» e in assenza di ostacoli legali, i privati potrebbero unire da soli i loro sforzi per produrle. L’importo di questo genere di interventi varia perciò a seconda dei tempi e dei luoghi: in una società commerciale e «industriale» sarà sempre meno rilevante88. Dovrebbero invece essere aboliti tutti quei vincoli che sono dannosi per la crescita della ricchezza, impedendo la mobilità dei capitali e della forza-lavoro, l'investimento e lo spirito di intrapresa. Bentham invoca tra l’altro la legalizzazione dei contratti di affitto della terra a lunga scadenza, favorevoli alle migliorie, e la soppressione della primogenitura e dell’inalienabilità dei beni, che avvantaggerebbe le forze più «intelligenti e industriose»8?. Per le stesse ragioni, sono da sopprimere quegli noto che su questa mobilità dei capitali Ricardo basò la sua teoria dell’unicità del saggio di profitto nell’ Essay del 1815. Cfr. D. Ricardo, Essay on the Low Price of Corn, in Ricardo 1951-52, vol. IV. 86 Cfr. UCL XVII, 16; Des récompenses, in Oeuvres, vol. II, p. 227. CIG UL XIX, 152. Cfr. CLXVI, 22; XCIX, 160. Come testimonianza dell’interesse di Bentham per i diversi processi innovativi cfr. XCIX, 149, 160, 190-91, 192. Questo tema è sottolineato da Robbins 1965,pp. 12- 13. 88 Des récompenses, in Oeuvres, vol. II, pp. 227-28. Cfr. UCL CXLII, 62, 239. Su questa attenzione a quelle ‘che sono state dopo > ero «EcOnomie esterne», cfr. Robbins 1965, pp. 38-43; Harrison 1983, 122-27. 89 Des récompenses, in Oeuvres, vol. II, p. 227. Cfr UCL XCIx, 190-91.

132

«scoraggiamenti» che impediscono alla «ricompensa naturale» di esercitare i suoi benefici effetti: dall’interdizione dell’usura?%,

alla confusionedi pesi, misure e standard di qualità?!, alla illegalità delle società per accomandita, che permetterebbero invece all’inventiva di incontrare il capitale e farebbero dell’investimento un’attività diffusa e popolare?2. Molto importante è infine stabilire un moderno sistema di brevetti e licenze che, proteggendo temporaneamente i diritti dell’inventore, ne stimolino lo sforzo??. Se d’altra parte, per quanto riguarda il fine dell’abbondanza, la ricerca economico-politica termina con la constatazione che «non potrebbe esservi incompatibilità tra la ricchezza di ciascuno e quella di tutti», le conclusioni sono diverse per la sussistenza e la difesa: «i privati potrebbero trovare il loro profitto individuale in operazioni commerciali che sono in opposizione con la sussistenza di tutti e la difesa di tutti»?4. Ciò non significa però che il governo debba per intero sostituirsi agli individui. Intanto, il movente del bisogno e, in qualche misura, anche quello acquisitivo funzionano come pungolo sufficiente per indurre tutti a lavorare per guadagnarsi da vivere: «ciò che può fare la legge, e che essa sola può fare è dare alla soddisfazione di questi desideri una certezza che senza di essa non si avrebbe»??. In secondo luogo, sottolinea un Bentham dichiaratamente anti-rousseauviano, il desiderio di lusso delle classi agiate, lungi dall’essere moralmente disapprovabile, è la migliore garanzia contro le crisi di sussistenza: La società che non ha del superfluo, anzi molte cose superflue, non 20 UCL CXLII, 257, 261-68. Parte di questo materiale sugli «scoraggiamenti», tratto dalla sezione del Projet dedicata alla ricompense, viene accorpato da Dumont con quello sull'economia politica. Cfr. Des récompenses, in Oeuvres, vol. II, IV.xm-x1v.

91 Ivi, 260. 92 Ivi, 152. Cfr. anche ivi, 258. Va osservato che la legge impediva alle manifatture di reclutare capitale presso il pubblico tramite l’emissione di azioni, e ciò fino alla metà del XIX secolo. Cfr. Mathias 1983, p. 135. 93 UCL CXLII, 259. Cfr. anche il progettato Essay on the Encouragement of Useful Inventions (1787 ca), in UCL XCIX, 180. Il tema è poi ripreso in una lettera a Mirabeau del 1789 (UCL IX, 39) e nel progetto di una «Industry Relief Tax» degli anni Novanta (UCL CLXVI, 13). 94 Des récompenses, in Oeuvres, vol. II, p. 229. Cfr. anche Manual, in EW,

vol. I, p. 243 nota. 2AUCISNXXTI

129;

DIS

può mai essere sicura del necessario. Nel buon tempo antico, sotto la povertà antica, le carestie erano frequenti nei paesi meno miserevoli [...]. Nello stato selvaggio, stato favorito o pseudo-favorito di tanti declamatori, sono cosa di tutti i giorni. Solo i paesi che traboccano di lusso [...] come l’Inghilterra e i Paesi Bassi sono interamente al riparo da Gssen*

Tra gli interventi del governo in questo campo, egli suggerisce sussidi temporanei per un ramo produttivo in crisi, in modo da assicurare una mobilità graduale della forza-lavoro?”, e l’istituzione di granai pubblici da aprire in caso di crisi di sussistenza o di accerchiamento bellico, una proposta che in quegli anni faceva molto discutere?8. Quanto alla difesa, Bentham, come Smith, giudica positivamente il Navigation Act, che fa del commercio marittimo dell’Inghilterra un «vivaio di marinai»??. La sicurezza militare può dunque imporre una serie di restrizioni alla libertà di commercio. Gli esordi della riflessione economico-politica, lungi dal produrre una sostanziale revisione dell’intera concezione politica benthamiana, confermano pertanto l'impostazione dalla quale il filosofo aveva preso le mosse: scopo dell'economia politica non è tematizzare la scoperta di un distinto terreno di relazioni sociali caratterizzate dall’identità naturale degli interessi per sostenere che da questo ambito la politica non ha che da ritrarsi, né proporsi quale «fisiologia» di questa entità sociale, ma analizzare i compiti del governo nell’assicurare la coesione e la felicità della società, partendo dalla constatazione che esso non può aggirare i vincoli cui è sottoposta la riproduzione della ricchezza e della popolazione, né pretendere di sovrapporre il suo intervento, meno efficiente, all’agire di individui dotati dei moventi di per sé adeguati a generare uno stato di benessere collettivo. La vera scoperta è quella del carattere sistematico delle relazioni econo26 Ibid. Cfr. anche UCL CLXVI, 22. Il tema viene ripreso in alcuni frammenti del 1801, polemici nei confronti del radicalismo angloamericano e giacobino. Bentham si oppone all’ideale egualitario di una comunità repubblicana stabile e morigerata. Cfr. UCL XVII, 209. Cfr. inoltre Leading Principles, in Works, vol. II, p. 269; Pannomial Fragments, in Works, vol. III, p. 228.

27. UCL'XCIX;190-91 GLXVI; 22

98 Cfr. Des récompenses, in Oeuvres, vol. II, p. 229; UCL XVII, 210 (23

agosto 1801). Cfr. Burke 1800, p. 27. 99 UCL XCIX, 190-91. Cfr. anche Institute, in EW, vol. III, pp. 340-41. Sul retroterra legislativo cfr. Mathias 1983, pp. 79-80.

134

miche, dei meccanismi equilibratori e dei vincoli quantitativi alla crescita. In questo senso l’economia politica è una scienza, anzi

«più una scienza che un’arte», giacché «presenta molto da imparare e poco da fare»!99; ma lo è in quanto scienza del legislatore, un sapere non più pratico, ma sistematico, necessario per non commettere errori, anzi per comprendere, una volta di più, i limiti della sfera della legislazione. Lo stesso albero delle scienze costruito da Bentham rispecchia questa impostazione: l’etica si suddivide in morale privata e politica, quest’ultima in scienza dell’amministrazione e scienza della legislazione!01. L'economia politica, tale qual è definita nel Projet Forme, è proprio una ramificazione di quest’ultima: l’errore di Halévy è stato invece di considerare legislazione ed economia politica come i due rami principali dell’etica pubblica benthamiana. In un’annotazione aggiunta in calce all’analisi dei «mezzi per accrescere la ricchezza», si affaccia semmai una seconda, interessante prospettiva. Scrive Bentham: «Utilità della suddetta analisi per [1.] l'inventore - 2. il sovrano...»!°. L’economia politica è dunque non solo scienza del legislatore, ma anche scienza dell’inventore, cioè (nella terminologia di Bentham) dell’imprenditore, pioniere di una nuova strategia produttiva. Questa prospettiva si collega del resto al contenuto delle prime riflessioni benthamiane sull’economia politica, nelle quali ampio spazio è attribuito alle innovazioni, alle tecnologie, alle strategie organizzative che possono incrementare la ricchezza!9. E, se si vuole, un'economia politica alla Young, attenta agli aspetti pratici della produzione, al saper fare, ai nuovi esperimenti: trasferita però dall'ambito agricolo a quello delle manifatture. 100 UCL XVII, 16. Cfr. Des récompenses, in Oeuvres, vol. II, pp. 200, 234.

101 Chrestomathia, pp. 202-4. 102 UCL XCIX, 149. 103 Cfr. Ivi, 149, 160, 194-95 (questi ultimi scritti da Dumont).

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Parte terza

. ECONOMIA POLITICA: TEORIA E ANALISI

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Capitolo sesto

LE API E L’APICOLTORE

Il lavoro al Projet si interrompe alle soglie della Rivoluzione francese, allorché Bentham, speranzoso di veder riconosciuto il

proprio genio legislativo dai protagonisti del mondo nuovo, si impegnerà per qualche anno a redigere proposte di riforma di ogni genere!. Con il 1792, tuttavia, il suo entusiasmo si spenge: si apre proprio allora una stagione di passione per l’economia politica. Non è però un interesse che lo assorbirà per intero: nel 1790 egli lavora a una seconda edizione della Defence of Usury, ma nel 1791 — prima di dedicarsi alle altre opere economiche — pubblica il Panopticon, con sostanziali aggiunte rispetto alla prima stesura (1787), e da quel momento quasi tutte le sue energie saranno per lungo tempo assorbite dall’attuazione di questo progetto?. Notevoli sono, tuttavia, gli approfondimenti nel campo dell’analisi economica e della riflessione sugli agenda e non agenda. Eppure proprio questa parte dell’attività di Bentham è stata presto dimenticata, sicché si è potuto credere, con Keynes, che egli «non è stato per niente un economista»?. Ma forse su questo pre-

giudizio ha pesato l'appuntamento mancato con l’economia politica ricardiana. Dimenticare Bentham

«Il mio motto, secondo il Signor Bentham, è ‘la massima felicità per il maggior numero’». Con queste parole, indirizzate a 1 Cfr. M.E.L. Guidi, Le citoyen Bentham, «raisonnable censeur des lois», et

l’économie de la Révolution frangaise, in «Economies et Sociétés», serie «Oeconomia», PE n. 13, luglio-ottobre 1990, pp. 485-502. 2 Cfr. Correspondence, voll. 5-8. 3 Cfr. Keynes 1926, p. 279, cit. in Hutchison 1956, p. 289.

159

Maria Edgeworth4, Ricardo sembra rivelare la sua completa adesione alla concezione morale e politica propugnata dal filosofo di Westminster. Se mai questa sia stata integrale’, ha però avuto

una rilevante eccezione: l'economia politica. Ricardo, infatti, non solo ha ignorato il Bentham economista, ma ha direttamente contribuito, almeno in un caso, a occultarne alcuni dei messaggi teorici più originali, giacché erano in contrasto con il dogmatico quantitativismo e con la logica implacabile della propria teoria

del valore e della distribuzione: sollecitato da Dumont a dare un parere sul manoscritto benthamiano intitolato Sur les prix, egli scrisse alcune pagine di osservazioni distruttive, che scoraggiarono qualunque velleità di pubblicazione. Donde la diffusa e in larga parte incontrovertibile opinione, già registrata dal Pa/grave Dictionary e poi ripresa tanto da Schumpeter quanto da Keynes”, che l’influenza di Bentham sull’economia politica benthamiana si sia limitata alle premesse filosofiche, alla riflessione metodologica sulla natura dell'economia politica e infine alla rigorosa definizione dei principi del /aisser-faîre. La messa da parte dell’analisi economica benthamiana diviene quasi schizofrenica in James Mill, che fu al contempo ispiratore della teoria benthamiana della democrazia rappresentativa, estimatore e volgarizzatore dell’etica utilitaristica8, e maieuta, poi custode fedele dell’ortodossia ricardiana. Interpellato da Dumont nel 1825, anche Mill (aiutato dal diciannovenne figlio John Stuart), scriverà una dura requisitoria contro tutti quegli elementi dell'economia politica benthamiana che ormai, alla luce del verbo ricardiano e del mutato clima economico e sociale, gli apparivano letteralmente incomprensibili: la difesa dell'Atto di Navigazione, per esempio, oppure la proposta di granai pubblici per garantire la sussistenza?. L’incomprensione di James Mill, come già quella di Ricardo, è in realtà duplice: analitica, perché dal punto di vista della loro teoria non appare ammissibile, per esem4 Lettera di D. Ricardo a M. Edgeworth, 13 dicembre 1822, in Ricardo 1951-52, vol. IX, p. 239.

> Cfr. Collini-Winch-Burrow 1983, cap. 2. ;

6 Cfr. D. Ricardo, Notes on Bentham, in Ricardo 1951-52, vol. III, pp. 261-

341.

? Palgrave 1925, pp.131-33; Schumpeter 1954, pp. 408-9; Keynes 1926, p. 279. Di recente O°Brien 1975, cap. 2; Collison Black 1988; Schmidt 1988. 8 Cfr. Mazlish 1975. ? Cfr. Guidi 1985; Winch 1966.

140

pio, che l’utilità sia all’origine del valore di scambio, che le va-

riabili monetarie possano avere effetti sulla crescita reale o che esistano sostanziali eccezioni alla legge degli sbocchi; metodologica, perché l’ampio spettro di preoccupazioni del legislatore settecentesco appare ormai estraneo a una scienza che si propone di

studiare soltanto gli effetti della distribuzione sullo sviluppo. Tra gli economisti britannici, solo Samuel Bailey fa riferimento ad aspetti importanti della filosofia benthamiana!°. John Stuart Mill, per parte sua, non solo prende le distanze dall’etica utilitarista, ma — anche lui — non si riallaccia alle tesi economiche del maestro di Westminster!!. Con una eccezione impor-

tante: la distinzione tra scienza e arte, che egli aveva trovata esposta nel Manuel d’économie politique di Bentham (versione Dumont). Proprio la rimeditazione milliana, tuttavia, rivela quanta acqua sia nel frattempo passata sotto i ponti: in Bentham il primato spetta all’arte del legislatore, resa rigorosa dal principio di utilità; essa si serve di una scienza al contempo sintetica ed empirica per rendere coerenti i propri precetti. In Mill, all’opposto, la scienza economica, adottando un metodo 4 priori, si propone unicamente di formulare le leggi ipotetiche e condizionali sull’astratto e universale comportamento dell’homzo oeconomzicus, relegando il momento normativo nel campo della mera precettistica, opinabile e variabile secondo i tempi e i luoghi!?.

Più favorevole è l’accoglienza delle idee economiche di Bentham sul continente. Anche in questo caso, tuttavia, la diversità degli aspetti sottolineati dagli interpreti rivela indirettamente quanto l’impostazione economica di Bentham sembrasse appartenere ormai al passato, quanto essa apparisse per lo più inuti-

lizzabile, non già perché meno acuta nell’analisi dei fatti o più normativa delle sue rivali, ma perché ancora immersa nell’ottica settecentesca della scienza del legislatore. Sicché anche gli aspet10 Collison Black 1988, p. 29. 11 Cfr. Schwartz 1972. 12 J.S. Mill, Or the Definition of Political Economy, in Essays of Some Unsettled Questions of Political Economy, in Mill, J.S. 1967 (trad. it., Mill, J.S. 1976). È noto peraltro che Mill stesso non rispetterà questa prospettiva nell’elaborare i Principles of Political Economy. Cfr. Mill, J.S. 1983, e l'introduzione di G. Becattini a questo testo.

141

ti più citati — la distinzione tra scienza. ed arte, la definizione degli agenda e dei non agenda del governo — sopravviveranno solo in quanto scorporati dal loro sottofondo e riletti con lenti diverse. Due esempi diversi chiariranno questo punto. Il primo è quello dell’economista tedesco Heinrich Storch, di formazione tardo-cameralista, dal 1803 docente di economia politica e statistica all’ Accademia delle Scienze di Pietroburgo ed educatore dei figli dello Zar Alessandro. Nel suo Cours d’économie politique (1815), egli definisce l'economia politica come una parte della scienza dello Stato, il cui oggetto è studiare come realizzarne il benessere e la sicurezza, i fini, cioè, per cui un Sovrano

è chiamato a governare i suoi sudditi!3. Nonostante questa impostazione tipicamente cameralistica, Storch allarga la prospettiva ecletticamente agli autori più recenti, da Turgot, a Say e Sismondi, da Steuart a Hume e Smith!4. Alla luce del sistema smithiano della libertà naturale, l’ottica interventista e paternalista dell'economia politica germanica risulta drasticamente ridimensionata, seppure non rovesciata: i fini della sicurezza e del benessere, scrive infatti Storch, sono «di natura tale da non poter essere realizzati se non dallo Stato»!:. Anche Bentham figura nel novero delle autorità invocate da Storch ed è in particolare apprezzato per aver posto in testa alla lista dei fini dello Stato la sicurezza e aver sostenuto che tutti gli altri fini, l'abbondanza

in primo luogo, ne sono

la naturale

conseguenza!6. Bentham, insomma, appare a Storch perfettamente comprensibile come economista, perché parla il linguaggio della scienza della legislazione classica. Più contrastato appare l'approccio di Jean-Baptiste Say. Pro-

prio commentando il Cours di Storch, l'economista francese dichiara la sua opposizione recisa all’affermazione che «l'economia politica [...] costituisca una parte soltanto, piccola in confronto al resto» della scienza dello Stato!?. Tutto un universo di pensiero, quello del movimento idéologigue, emerge da questa frase: in par-

13 !4 15 16 17

Storch 1823, pp. 1-5. Ivi, pp. xt, 21 e passim.

Ivi, p.4. Ivi, pp. 6, 134-35. Ivi, ps 15.

142

ticolare per la visione di una «economia sociale» che si propone di studiare l’organizzazione della vita collettiva nel suo complesso, partendo dalla riproduzione materiale per giungere alle attività spirituali più astratte. Dalla «matematica sociale» di Condorcet, alla «organizzazione sociale» di Roederer, fino all’idea tracyana della «genesi prevalentemente economica della vita associata» e

all'economia politica come «fisiologia della società civile» di Say!8, l’analisi dei moventi e dell’agire degli individui funge da punto di partenza per la ricostruzione delle leggi che regolano l'organismo sociale: una struttura autonoma e anteriore al reggimento politico, che anzi ne condiziona le scelte e che richiede alla politica di non essere nient'altro che «un’igiene», la cui «perfezione è di essere semplice, di procedere attraverso meccanismi poco complicati»!?. Avviene in tal modo una vera e propria rivoluzione scientifica: all'economia politica viene ora attribuito il compito

primario di analizzare l’infrastruttura materiale del corpo sociale. Essa diviene «fisiologia», «anatomia» della società civile, in quanto il fondamento dell’ordine sociale appare risiedere non più nel governo, ma nelle leggi della riproduzione economica. Che cosa pensa allora Say di quegli autori, come Smith:e Bentham, che avevano intrattenuto un’idea ben diversa dell’oggetto dell'economia politica? Ebbene, è lui stesso a confondere le piste, apostrofando i due maestri come i veri pionieri della nuova dottrina. Smith, al contrario di Steuart, dei fisiocrati e di Rousseau, che hanno confuso politica ed economia, sarebbe stato il primo ad aver «costantemente distinto questi due corpi di dottrina, riservando il nome di Econorzia politica alla scienza che tratta delle ricchezze»?°. Bentham avrebbe portato ulteriore luce, distinguendo tra economia politica come scienza e come arte. Il riferimento si fa quasi citazione letterale nell’evocare una delle

immagini-simbolo dell'economia politica benthamiana, quella dell’alveare. «Le api — aveva scritto Bentham in un abbozzo di 18 Cfr. Condorcet, Tableau géneral de la science qui a pour objet l’application du calcul aux sciences politiques et morales, in Condorcet 1847-49, vol. I; Roederer Cours d’organisation sociale, in Roederer 1853-59, vol. VIII; Destutt de Tracy 1826-27, vol. V, p. 68; Say 1843, pp. 1-2; Moravia 1974, pp. 706-15, 717-23, 775-90, 793.

19 J.-B. Say, nota, in Storch 1823, pp. 15-16 nota. 20 Say 1814, p. XIV.

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prefazione al Projet Economie — fanno il miele meglio di quanto sapremmo farlo far loro, ma poiché abbiamo bisogno di una parte del loro miele, per questo dobbiamo studiare l'economia delle api.» Un modo per sottolineare che «l'economia politica deve essere considerata come una scienza piuttosto che come un’arte» in quanto «offre molto da imparare e poco da fare»?!. E Say, che aveva letto questa affermazione nella poetica trasfigurazione di Dumont, riprende: Risulta in generale dallo studio dell'economia politica che conviene agli uomini, nella maggior parte dei casi, essere lasciati a loro stessi, perché è così che arrivano a sviluppare le loro facoltà; non ne segue tuttavia che essi non possano derivare un gran vantaggio dalla conoscenza delle leggi che presiedono a questo sviluppo. Se bisogna conoscere l'economia di un alveare per trarne partito, che dire dell'economia della società, che riguarda tutti i nostri bisogni, tutti i nostri affetti, la nostra felicità, la nostra esistenza???

L’apparente coincidenza di vedute non dovrebbe però occultare una differenza rilevante: l’idea di Bentham è quella di una scienza distinta ma ancillare alla politica; Say finisce per far posto all’idea di una scienza economica non riducibile agli interessi e ai problemi del governo, giacché «vi è nelle società una natura delle cose che non dipende affatto dalla volontà dell’uomo e che noi potremmo regolare solo arbitrariamente»?3. Se una subordinazione prevale, è semmai quella contraria: la proposta del /aîssez-faire non deriva più dall’interrogazione sui fini del governo, ma logicamente e quasi di necessità dalla ricostruzione delle leggi di movimento del corpo sociale?4.

2! UCL XVII, 16. Cfr. «Bibliothèque Britannique», VII, 1798, p. 110; Des récompenses, in Oeuvres, vol. II, pp. 200, 234.

22 Say 1843, p. 16. E da ricordare che Say conosceva bene il testo della Théorie des peines et des récompenses, di cui Dumont, suo amico fin dall’epoca del lavoro al «Courrier de Provence» di Mirabeau, gli aveva inviato copia. Cfr. Lettera di J.-B. Say a E. Dumont, 28 giugno 1814, BPU XXXIII-IV, 9; e Lettera di

J.-B. Say a E. Dumont, 10 aprile 1817, ivi, 15-16. Su Bentham e Say cfr. Schoorl 1982.

23 Say 1843, pp. 1, 8-12.

24 Klein 1985, pp. 61-62.

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L’arte-e-scienza del legislatore L’economia politica può essere considerata come una scienza o come

un'arte. Ma in questo caso, come in altri, è solo come guida all’arte che la scienza è di una qualche utilità.?5

Con questa definizione si apre il Manual of Political Economy (1793-95), dedicato da Bentham proprio all’indagine sull’arte, sulla portata e i limiti dell'intervento del governo «nel campo dell’economia politica». Tuttavia né il Manza! né il più tardo Ixstitute of Political Economy (1801-1804) sono una semplice guida pratica per legislatori e amministratori. Lo si intuisce fino dalla premessa del primo di questi due scritti, nella quale l’autore tenta — come sempre — di prendere le distanze da Smith, di cui pure si dichiara «allievo»26, accusandolo da un lato di essersi occupato quasi esclusivamente di ciò che è, e di aver trattato del prèpon, dell’arte, «solo incidentalmente e frammentariamente»; dall’altro, di non aver seguito un piano sistematico, soprattutto per non aver ridotto tutto il sistema all’«assunto di cui io faccio uso come pilastro del tutto: cioè la limitazione dell’industria in virtù della limitazione del capitale»??. E vero, dunque, che Bentham, per colmare il vuoto lasciato dallo Scozzese, intende occuparsi sistematicamente di «tutti gli argomenti dell'economia politica che possono richiamare l’attenzione dell’autorità legislativa», ma ciò non significa che il suo discorso rimanga limitato all’arte. Comprende invece anche la scienza e secondo l’unica ottica ritenuta corretta: quella di una stretta funzionalità al punto di vista del legislatore. Se in questo primo scritto Smith è accusato di occuparsi solo di ciò che è, e per giunta di farlo poco scientificamente, un testo di qualche anno più tardo, la Defence of a Maximum (1801), contiene una critica pressoché opposta. Riallacciandosi alla Defence of Usury, il filosofo fa osservare come la propria difesa di un tasso di interesse libero fosse stata da molti mal interpretata, giacché egli intendeva semplicemente sostenere che nel caso in questione «l’interferenza del corpo legislativo [...] avrebbe potuto essere

25 EW, vol. I, p. 223. 26 Ivi, p. 167, Teichgraeber 1987, pp. 362-63. 27 EW, vol. I, p. 225.

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anche risparmiata», e non confidare dogmaticamente in «cose che trovano il loro livello, osservando che un livello era una cosa molto appropriata da ricercare e che la moneta, se lasciata a se stessa, avrebbe avuto ottime possibilità di trovarlo». Non si può scambiare una «legge dell’idrostatica» per una asserzione normativa: Tra ciò che avviene naturalmente e ciò che dovrebbe avvenire v'è invero una certa differenza: ma è una differenza che i moralisti tendono sovente a trascurare e che trascurano costantemente quando parlano della legge di natura; come possono del resto non trascurarla se, invece di sofferenze e godimenti, si danno a misurare livelli?

Sono dunque i teorici del diritto naturale a commettere sistematicamente quella che Moore avrebbe poi chiamato «fallacia naturalistica», anche quando si occupano delle leggi economiche: non c’è nessuna ragione perché il modo in cui vanno le cose in questo campo debba essere assunto come criterio del giusto. Conclude allora Bentham, chiamando in causa l'economista scozzese: Non ho, non ho mai provato né mai proverò orrore, sentimentale o anarchico, per la mano del governo. Lascio ad Adam Smith e ai campioni dei diritti dell’uomo [...] di parlare di invasione della libertà naturale e di fornite come argomento specifico contro questa o quella legge un argomento il cui effetto sarebbe quello di opporre un diniego a tutte le leggi.28

Bentham, dunque, riconosce ora che anche la Wealth of Nations è attraversata da capo a fondo da un discorso normativo e che è proprio la nozione di «sistema della libertà naturale» a costituire un ponte tra analisi delle leggi che regolano lo scambio, da un lato, e riflessione sul dover essere, dall’altro. Tuttavia, più che di un ponte, si tratta di un corto circuito, nel quale il piano dell'essere e quello del dover essere si confondono. Perciò all’equilibrio di mercato viene attribuita la naturale virtù di assicurare l'ordine sociale e la giustizia distributiva. L’orizzonte entro cui queste riflessioni si collocano, il dibattito politico-economico di fine secolo, è caratterizzato da una forte dogmatizzazione del liberismo smithiano, quale traspare per 28 EW, vol. III, pp. 257-58.

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esempio dai Thoughts and Details on Scarcity di Burke?9: i prezzi naturali di Smith, centri di gravità del mercato, ma anche, nella misura in cui sono giusti, oggetto di approvazione di uno spettatore imparziale che è sempre definito empiricamente e storicamente?°, vengono reinterpretati nei termini di un più rigido ordine naturale, che sarebbe empio, oltre che vano, alterare. Bentham, senza troppe sottigliezze, accetta di considerare Smith stesso come un liberista dogmatico: altro non può essere, per lui,

chi utilizzi il linguaggio giusnaturalista per giustificare il libero commercio. A questa impostazione viene contrapposta un’economia po-

litica le cui asserzioni e le cui leggi da un lato siano rigorosamente prive di normatività e dall’altro possano venir interpretate in termini di piacere e dolore degli agenti, sicché su di esse possa basarsi con esattezza il giudizio utilitaristico?1. Per questo, tale scienza è fondata sulla teoria edonistica dell’azione umana, e per questo, i suoi connotati sono largamente diversi da quelli dell’economia politica smithiana: non solo nelle premesse antropologiche, per la distanza che la separa dalla teoria dei sentimenti morali dello Scozzese, ma anche nella parte analitico-economica, in quanto i fenomeni del valore, dello sviluppo e della distribuzione vengono riletti come risultati di scelte individuali motivate dalla ricerca del piacere e dalla fuga dal dolore. Con gli strumenti teorici di cui dispone, dunque, Bentham tenta quella che potremmo definire una fondazione microeconomica della macroeconomia??. Ma se questa opzione metodologica differenzia Bentham da Smith, a maggior ragione lo avvia per una strada divergente rispetto a quella intrapresa di lì a poco da Ricardo. E vero che le leggi del mercato contano anche nel ragionamento dell’autore dei Principles; è vero che egli affida alla domanda, in taluni casi, un ruolo rilevante nei meccanismi dinamici analizzati, ma nel nucleo del suo ragionamento fattori soggettivi, come i moventi degli attori, sono assunti come un parametro, mentre i fenomeni fonda29 Burke 1800. 30 Pesciarelli 1988, pp. 148-53. 31 Questo punto è stato chiarito da Ch. Schmidt (1988).

32 Hutchison pensa invece che l’intero discorso si svolga sul piano macroeconomico (1956, p. 290).

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mentali vengono spiegati unicamente in base a variazioni di grandezze aggregate, come mutamenti nella distribuzione del reddito e nella difficoltà di produzione??. Nella sua proposta di rifondazione della scienza economica, peraltro, Bentham continua ad adottare un punto di vista eminentemente settecentesco. Problema centrale rimane come promuovere la massima crescita della ricchezza e della popolazione?4, l’obiettivo dell’opulenza. A ciò si associano riflessioni sul tema delle sussistenze, sui legami tra ricchezza, ordine pubblico e difesa militare. La finanza, infine, suggerisce alcuni strumenti per creare maggiore eguaglianza tra i cittadini?5. Niente di più lontano dall’impostazione ricardiana, che porrà al centro dell’attenzione la distribuzione e i conflitti di interesse insorgenti in un’economia in via di industrializzazione, e ridefinirà in questa chiave il problema della crescita, restringendo peraltro ad esso il campo di osservazione e l'ambito prescrittivo36. Un esempio del diverso approccio dei due autori è il loro atteggiamento nei confronti dei risvolti negativi dello sviluppo: la disoccupazione, le crisi commerciali e finanziarie. Vi è bensì anche in Bentham una sensibilità accentuata per questi fenomeni, ma si tratta della stessa sensibilità che troviamo in tanti autori del primo Settecento, coloro che credevano che gli interessi individuali non potessero essere orientati al bene collettivo se non dalla mano visibile del sovrano??. Si prenda in particolare la contraddizione per eccellenza della società industriale, la disoccupazione tecnologica, che, come è noto, tormenta Ricardo da un’e-

dizione all’altra dei Principles. L’interrogativo che lo appassiona è se esista un conflitto di interessi tra capitalisti e operai in merito alla sostituzione del lavoro vivo con le macchine; l’ammissione di questo conflitto si accompagna però alla considerazione

che esso potrà riassorbirsi proprio in virtù della crescita del ritmo

33 Cfr. L. Pasinetti, Una formulazione matematica del sistema ricardiano, in Pasinetti 1977. Di parere opposto Hollander 1979a; Casarosa 1974. Sull’importanza della domanda in Ricardo, cfr. già St. Clair 1957. 34 Institute, in EW, vol. III, p. 318. 35 Cfr. A Protest against Law Taxes, in Works, vol. II; Supply without Burthen, in EW, vol. I. 36 Cfr. Napoleoni 1973, cap. 4. 37 Cfr. Appleby 1978, capp. V, IX; Hirschman 1977, parte II.

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di accumulazione?8. Bentham, al contrario, affronta il tema a partire dalla ricerca sui compiti del governo. Così, dopo aver constatato che, data la quantità di capitale, la sostituzione di lavoro con macchine produce una restrizione dell'occupazione, anche se può aumentare la ricchezza prodotta, conclude: L’opposizione alle macchine è fondata, se non si prende cura di fornire un impiego immediato per la manodopera licenziata. In un primo tempo, le sofferenze temporanee sorpasseranno il temporaneo benesSErelt?

‘Solo la crescita della ricchezza costituisce infatti un guadagno permanente. La miseria dei lavoratori disoccupati è invece un disagio che il legislatore deve occuparsi di evitare40. Anche per l'economia politica di Bentham vale una considerazione che può essere estesa a tutta la sua visione etico-politica: essa ci appare tanto più moderna, ostile a un liberismo senza fre-

ni, antesignana dello stato del benessere, quanto più affonda le sue radici in una cultura che proprio agli inizi del XIX secolo era ormai datata. E anche per queste ragioni che l'economia politica di Bentham è stata presto dimenticata. Essa proponeva una modernizzazione, una rifondazione del discorso tradizionale della scienza del legislatore, sottoponendolo al tiro incrociato della razionalità utilitaristica e di una scienza economica sistematica. Ricardo, in-

vece, proponeva una modernizzazione del discorso smithiano, privandolo da un lato della generalità dell’approccio del legislatore, e aggiornandone i contenuti in modo da adeguarli alla realtà sociale nata dalla rivoluzione industriale. Ciò mentre anche in Francia, tra Say e gli industrialisti, l’attenzione al ruolo dell’imprenditore si associava a un liberismo volto a sostenere lo sviluppo industriale. Questo verbo liberista e industrialista trionfa momentaneamente, almeno alla superficie4!, perché è più rispon38 D. Ricardo, Principles of Political Economy, in Ricardo 1951-52, vol. I, cap. XXXI. 39 Institute, in EW, vol. III, p. 333. 40 Cfr. l’abbozzo Declaration, Finance, UCL CLXVI, 21-25, nel quale Bentham sostiene, pur tra qualche esitazione, la necessità di un soccorso temporaneo alle industrie in crisi per difendere l'occupazione. 41 Perché studi recenti dimostrano come approcci all'economia politica di

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dente ai problemi all’ordine del giorno. La modernizzazione proposta da Bentham appare invece vecchia in partenza, quasi in-

comprensibile. Ne è forse una controprova il fatto che, nel corso dell'Ottocento, la migliore sorte di Malthus — che pure muoveva dalla definizione dell'economia politica come scienza del legislatore e dalla centralità del problema della crescita? — è dovuta in larga parte proprio alla reinterpretazione ricardiana. Il riscatto dell’approccio benthamiano sarebbe stato possibile, in teoria, più tardi. Ma quando Keynes farà riferimento a Bentham, lo vedrà con gli occhi di tutta la cultura ottocentesca, come un campione del liberismo estremo. Per questo, nel cercare un approccio diverso da quello classico, egli farà ricorso agli autori cosiddetti mercantilistici, a suo avviso gli unici capaci di comprendere il ruolo dello stato nel correggere o sostenere l’iniziativa privata4?.

Rimane da approfondire su quali fondamenti sia costruita la scienza benthamiana della ricchezza e quali ne siano i risultati più interessanti.

Valore ed equilibrio economico

Il fatto che Jevons e altri economisti marginalisti, tra cui Edgeworth, si siano riferiti alle idee di Bentham sul calcolo dei piaceri e dei dolori44 per fondare la loro teoria del valore e della distribuzione potrebbe far pensare che, almeno în nuce, anche la

scienza economica benthamiana sia costruita attorno allo stesso problema: l'equilibrio del consumatore e la determinazione dei prezzi relativi dei beni e dei fattori sulla base del principio dell’utilità marginale decrescente. È noto peraltro che i passi cui Jevons si riferisce sono tratti dall’Introduction to the Principles of Morals and Legislation, cioè tipo più tradizionale persistano a lungo nelle istituzioni educative e accademiche, anche in Inghilterra. Su questo tema si sono soffermate le relazioni presentate dal gruppo inglese al convegno su The Institutionalization of Political Economy in European, American and Japanese Universities, San Miniato (Fi), 1986.

42 Ricardo rimprovererà Malthus di questo. Cfr. lettera di D. Ricardo a T.R. Malthus, 9 ottobre 1820, in Ricardo 1951-52, vol. VIII, pp. 278-79. 43 Keynes 1936, cap. XXIII.

44 E del resto dubbio che gli strumenti adottati siano stati genuinamente benthamiani. Cfr. De Vecchi 1976; Schmidt 1988; Collison Black 1988.

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dall’etica, non dall’economia politica benthamiana, ed è in quest'ambito che Bentham introduce il problema del calcolo. Il principio di utilità, infatti, obbliga ciascuno a scegliere quel comportamento da cui consegua il massimo benessere totale degli individui coinvolti; ma ciò implica che il benessere sia esattamente quantificabile e misurabile, che la felicità di un individuo possa essere comparata a quella di chiunque altro. Donde una serie di suggerimenti, peraltro mai sviluppati in una teoria coerente: l’analisi delle «dimensioni» del piacere e del dolore (intensità, durata, prossimità e probabilità)4, quindi la definizione dell’unità minima del piacere come «il grado di intensità», o di durata e così via, «posseduto da quel piacere che è il più piccolo di qualunque altro che possa essere distinto come piacere», ovvero quello il cui «limite [...] dal lato della diminuzione è uno stato di indifferenza»46; e ancora, una chiara intuizione della legge della sa-

turabilità dei bisogni, normalmente attribuita a Gossen*7; infine — anche questo lo abbiamo già in parte visto — una riflessione sorprendente, proprio perché svolta in questo ambito generale e mai ripresa nei testi economici: constatato che una misurazione

e comparazione diretta degli stati individuali di soddisfazione non è possibile; per l’insondabilità della sfera soggettiva di ognuno, Bentham, come più tardi Marshall, suggerisce di utilizzare la moneta come strumento di «misurazione indiretta»*8. Ogni cosa che possediamo può darci piacere o dolore e la moneta, che è in grado di acquistarle tutte, è lo strumento ideale per misurare e comparare «le gradazioni» cui sono soggette tali sensazioni. La moneta, infatti, quale compratore universale, possiede essa stessa un’utilità ed è divisibile a piacimento in porzioni. «Ora a queste porzioni corrispondono altrettanti gradi di piacere», cosicché, conclude Bentham, siamo in grado di misurare

45 UCL XVII, 32-33, cit. in Baumgardt 1952, pp. 555-56; IPML, cap. IV, ripreso da Jevons i 11. Bentham, a sua volta (Baumgardt 1952, p. 557), attribuisce la paternità di queste idee a Beccaria. 46 UCL XVII, 32, cit. in Baumgardt 1952, p. 555. 47 Cfr. il ms. intitolato Représentation (1788), in UCL CLXX, 87-121, parzialmente pubbl. in Halévy 1901-1904, vol. I, pp. 424-39, spec. p. 428. 48 UCL XVII, 37, cit. in Baumgardt 1952, p. 562; Marshall 1920, 1.2; Stark

1947, pp. 322-23. Cfr. Pigou 1951.

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«con la massima esattezza» il «valore» di ciascuna di esse'?. Se per due quantità qualunque di due diversi oggetti sono disposto a cedere 5 sterline, ciò significa che «i due piaceri [...] sono eguali», ovvero che io sono indifferente di fronte a essi; se per otte-

nere un piacere o rimuovere una sofferenza sono disposto sempre a pagare 5 sterline, «il piacere e il dolore devono essere considerati equivalenti». Vi è in realtà un ostacolo a questo genere di comparazioni, che è costituito dal fenomeno oggi noto come «utilità marginale decrescente della moneta», che rende diverso, in individui diversi, il valore di ciascuna unità posseduta. Così si esprime l’autore: Una ghinea, supponiamo, dà a un uomo ur grado di piacere: [...] non è affatto vero che un milione di ghinee date allo stesso uomo nello stesso tempo gli darebbero ur milione di tali gradi di piacere. Forse neanche mille, forse neppure cento: chi [...] lo sa? Forse neanche cinquanta. In grandi somme, il rapporto tra piacere e piacere è in tal senso minore del rapporto tra moneta e moneta. Non v'è alcun limite oltre il quale la quantità di moneta non possa andare, ma vi sono limiti, e sono relativamente ristretti, oltre i quali il piacere non può andare.59

La soluzione proposta richiama ancora una volta quella di Marshall: la moneta può misurare l’utilità dei beni solo per variazioni molto piccole, entro cui l’«utilità marginale» è considerata costante. Chiunque abbia avvicinato la teoria dell’utilità di Bentham dal punto di vista dell'economia marginalista ha finito per trovarla approssimativa e contraddittoria. Si è così rimproverato al filosofo di non intravvedere le gravi difficoltà che si sovrappongono alla misurazione della funzione cardinale di utilità tramite la moneta. Il problema, scrive Stark, è che quest’ultima è presupposta, ma mai rilevata: noi osserviamo un sistema di prezzi e i livelli di consumo scelti in base a esso e poi presupponiamo che questa scelta sia coerente con la massimizzazione dell’utilità individuale, ma nulla possiamo dire sulla corrispondenza tra le scelte di ciascun individuo e i suoi stati di utilità?!. 4° UCL XVII, 35-37, cit. in Baumgardt 1952, pp. 557-62. 50 Ivi, n 55% 51 Stark 1947, pp. 323-33.

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E da notare che la riflessione benthamiana, proprio perché aperta e ipotetiea, contiene tutti i dubbi che sono poi stati sollevati contro di essa, quando è stata assunta a prototipo della versione cardinalista della teoria dell’utilità. Tuttavia proprio in questa assunzione risiede l’errore: la vicinanza di singole acquisizioni con certi aspetti dell’analisi marginalista non deve farci dimenticare né la diversità di ambito teorico, né la lontananza dei problemi che assillavano Bentham rispetto a quelli che i primi economisti neoclassici porranno al centro del loro discorso. Innanzitutto, Bentham si propone di misurare gli stati di piacere e dolore in generale, non il valore di scambio dei beni; quest’ultimo è semmai uno strumento che gli sembra rendere meno nebulosa la misurazione. Inoltre, egli procede sempre secondo un approccio comparativo e additivo, studiando la possibilità di individuare famiglie di piaceri eguali, in quanto rapportabili a identiche quantità di moneta, sicché, tolta la qualità, rimanga solo la quantità, che può venire sommata e sottratta a piacimento. Il problema non è invece quello dell’equilibrio del consumatore, per cui l’assunzione dell’utilità costante della moneta o il rapporto tra prezzo e utilità assumono una funzione diversa da quella che più tardi sarà loro conferita, quella cioè di determinare la posizione di ottimo individuale, sulla quale poi fondare la spiegazione del sistema dei prezzi. Che questa strada a Bentham sia preclusa lo sappiamo: egli, infatti, pensa bensì che ciascun individuo rifugge costantemente il dolore e persegue il piacere, e che tra due piaceri sceglie sempre il maggiore, ma è ben lungi dal-

l’assumere l’ipotesi di una rigorosa razionalità del comportamento, l'ipotesi che la massimizzazione della soddisfazione guidi costantemente ciascun essere umano e che ognuno abbia una coerente «funzione di utilità». Peraltro, il suo programma empirista e la sua vocazione classificatoria lo allontanano decisamente dalla

strada di una logica pura del comportamento, fatta di assunzioni semplificatorie e di astratte modellizzazioni, la strada che sarà poi scelta da Jevons?2. Anche per questo, i vari tentativi compiuti lo conducono alla fine allo scetticismo nei confronti della possibilità di calcolare esattamente piaceri e dolori. 52 De Vecchi 1976, cap. I.

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Esiste tuttavia un rapporto tra i temi appena evocati e l’economia politica benthamiana? Quando scrive ex professo di prezzi, valori e distribuzione, Bentham fa uso della sua teoria del calcolo dei piaceri e dei dolori? A dire il vero, egli non dedica grande attenzione a definire una teoria del valore. Questa svolge del resto una funzione molto limitata nel suo quadro teorico, il quale riesce, bene o male, a rispondere agli interrogativi posti anche senza di essa, cioè confidando sull’esistenza di un sistema di prezzi, piuttosto che indagandone le determinanti. In realtà, l’aspetto dell’etica descrittiva che la scienza economica benthamiana più strettamente utilizza è proprio la prasseologia, nel duplice senso di teoria causale dell’azione e di classificazione dei moventi individuali. Da essa deriva tanto la riflessione sull’allocazione dei fattori tra i diversi impieghi, quanto la spiegazione dello sviluppo e dei suoi possibili sentieri, quanto infine l'individuazione delle cause che contribuiscono a perpetuare le precarie condizioni di vita delle classi povere. Ciò conduce a dare un’importanza fondamentale, nella spiegazione del processo economico, alle decisioni individuali, in particolare a quelle di determinate categorie di persone, come gli imprenditori e i banchieri, da un lato, i lavoratori, dall'altro. Proprio in questo senso, se è vero?3 che la teoria economica benthamiana si muove in un quadro essenzialmente macroeconomico, è altrettanto vero che essa fornisce costantemente una spiegazione in termini individuali di ogni feno-

meno aggregato. La funzione delle scelte individuali nel determinare la riproduzione e la crescita della ricchezza sociale appare evidente in quello che è il dispositivo centrale di tutta la costruzione economica benthamiana: l’allocazione del capitale tra i diversi impieghi, dalla quale risulta un utilizzo efficiente dei fattori produttivi e un ordine implicito, che sarebbe improprio definire equilibrio solo perché Bentham rifugge da una definizione meccanicistica dell’economico. L’asserto tante volte ripetuto, secondo cui il lavoro e gli scambi sono limitati dal capitale, indica il vincolo della scarsità dei fattori, mentre la tendenza dei capitali a spostarsi verso gli impieghi più redditizi è la condizione che permette l’ottima allocazione. Questo meccanismo è chiaramente esposto nel 53 Hutchison 1956, p. 290.

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frammento Agriculture not dependent on manufactures (primi anni Novanta), nel quale Bentham contesta, come Smith, l’impiego di «mezzi artificiali» per dirottare il capitale verso le manifatture: l'investimento in agricoltura (come in qualunque altro settore produttivo), egli spiega, «non può essere esteso ad infinitum, a esclusione di tutti gli altri impieghi di capitale. Non può essere esteso al di là del punto in cui l’agricoltore (farzzer) trova che il suo profitto eguaglia il profitto dei fondi negli altri impieghi del capitale, ciò che cesserebbe di verificarsi se nel settore si determinasse un eccesso di investimenti

(if the business were to be

overstocked)»?4. In questo caso «il capitale, invece che in questo settore, sarebbe impiegato in un altro». Nel frammento Co/lonies and Navy (1790 ca), Bentham aggiunge che, qualora si verifichino differenziali di profitto tra i vari settori, il processo di riallocazione dei capitali non sarà bensì istantaneo nel caso dei capitali già investiti: «ma oltre alla vecchie volpi vi sono anche i giovani esordienti e la prima preoccupazione dell’esordiente che abbia un capitale da impiegare in una branca dell’industria, è di cercare l’impiego più favorevole»?». Dato poi che spetta all’imprenditore suddividere nelle proporzioni più efficienti il capitale, concepito come anticipazione, tra acquisti di capitale fisso e di capitale circolante (di cui fanno parte i salari) e suddividere il ricavato tra profitto, interesse e

rendita, ne consegue che l’allocazione del capitale tra i diversi settori garantisce al contempo il massimo saggio di profitto e di interesse e la più elevata rendita, nonché l’ottimo impiego di lavoro, terra e beni intermedi. Rispetto a Smith, che aveva indi-

viduato negli spostamenti di tutti i fattori produttivi indistintamente l'elemento che genera l'equilibrio di lungo periodo, Bentham pone così l'accento sul ruolo decisivo dei soli capitalisti produttivi, mentre salariati e proprietari fondiari sembrano subire passivamente le altrui scelte?9. Solo grazie a queste, anzi, il processo di crescita sponte acta della ricchezza appare dotato di intrinseca razionalità, giacché i commercianti, gli imprenditori, i 54 EW, vol. I, p. 205. Su Smith cfr. Hollander 1976, pp. 315-30. 55 EW, vol. I, p. 215.

56 Cfr. Hollander 1976, pp. 129-39. Una lezione, quella di Bentham, che lo stesso Ricardo sembra non aver ignorato. Cfr. D. Ricardo, Principles cit., in Ricardo 1951-52, vol. I, cap. IV.

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prestatori di denaro, mossi dall’interesse pecuniario, sono l’unica classe dal comportamento davvero coerente e massimizzatore. Il meccanismo appena descritto implica naturalmente che sia dato un sistema di prezzi le cui variazioni segnalano ai proprietari di fondi la strada da intraprendere. Sulle cause che determinano i prezzi relativi, tuttavia, Bentham resta, come si è detto,

assai vago, limitandosi spesso a contestare questo o quell’aspetto della teoria di Smith. Peraltro, coloro che finora hanno studiato la questione hanno posto l’accento su aspetti diversi, senza indicare come renderli coerenti tra di loro. Hutchison, basandosi su un passo del manoscritto Sur les prix — che costituisce, tra l’altro, l’unico tentativo di riflessione sistematica sul tema — ha sostenuto che la teoria benthamiana del valore punta nella direzione del valore-utilità, già percorsa da Galiani, Pufendorf e dagli Scolastici??. Hollander ha trovato invece passi che sembrano indicare come Bentham, analogamente a Smith, ritenga che i prezzi naturali di lungo periodo delle merci corrispondano ai loro costi, cioè alla somma di salario, rendita e profitto ai loro saggi usuali?8, In Sur les prix, in effetti, Bentham parte dalla asserzione che ogni differenza di prezzo tra un bene e l’altro può essere ricondotta a differenze di utilità, di conformità ai diversi scopi. Ciò

che giustifica la differenza di prezzo tra una patata e un ananas, per esempio, è il fatto che l’intero valore della prima è determinato dalla sua funzione di sussistenza, mentre solo una parte irrisoria del valore della seconda dipende da questa funzione: l’ananas non verrebbe nemmeno prodotto se non fosse perché il suo consumo procura un diletto speciale, derivante dalla ricercatezza dell’oggetto. Donde la distinzione tra valore «essenziale» e «invariabile», quello dei beni necessari, e «variabile» e «di fantasia»,

quello dei beni di lusso, più soggetto al capriccio delle mode e dei gusti??. Anche in questo caso, Bentham non tralascia di criticare Smith, per aver dedotto dalla distinzione tra valore d’uso e valore di scambio la conclusione che il primo è una condizione, ma 57 Hutchison 1956, pp. 290-91. 58 Hollander 1979b, pp. 5, 8-10. 59 BPU L, 86. (Nel seguito, rinvio tra parentesi alle parti corrispondenti nella retroversione di Stark, in EW, vol. III, pp. 61-216, qualora non siano state omesse; qui: ivi, pp. 84-85).

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non una misura del secondo. Facendo proprio il classico paradosso dell’acqua e dei diamanti, Smith non ha considerato il «diletto» come parte essenziale dell’utilità, dunque come elemento in grado di spiegare il valore dei diamanti, mentre ha tralasciato il fatto che nelle principali città l’acqua stessa ha un valore di scambio, in quanto disponibile in quantità limitate rispetto alla domanda©®. E evidente dunque che le schede di domanda degli individui e la scarsità relativa dell’offerta sono entrambi elementi che spiegano il prezzo dei béni. Così è per il prezzo dei metalli preziosi: «E perché l’argento e soprattutto l’oro sono in così piccola quantità relativamente alla domanda che una piccola porzione di questi metalli racchiude un così grande valore comparativo»6!. Di eguale interesse è la distinzione tra valore «finale», «intrinseco» o «immediato», quello dei beni di consumo, e valore «preliminare», «relativo» o «lontano», cioè il prezzo dei beni intermedi e dei fattori originari di produzione®2. La terminologia — che Bentham è costretto a coniare — è rivelatrice: poiché infatti l’utilità è considerata come unica misura del valore, il

prezzo dei singoli beni e servizi che sono necessari per produrre i beni finali non può essere calcolato se non in base alla loro rispettiva utilità per questa produzione. E la strada che sarà intrapresa più tardi da Menger con la teoria dell’imputazione: ancora una volta, però, il ragionamento di Bentham procede su un semplice terreno comparativo, senza adottare mai il principio marginale, anzi sottolineando la difficoltà dell’operazione, giacché le varie parti del prezzo preliminare «sono [...] talmente avviluppate le une nelle altre che è quasi impossibile districarle con un certo grado di precisione»9?. Più in generale, della precedente riflessione sul calcolo dei piaceri e dei dolori Bentham conserva solo l’idea che, ceteris pa60 BPU L, 89-91 (EW, vol. III, pp. 86-88). E da notare

però che Bentham

non accusa Smith di una totale disattenzione verso il ruolo della domanda. In un frammento di Sr les prix intitolato «Opinions d’Adam Smith sur les prix» egli asserisce infatti: «Occorre tuttavia rendergli [a Smith] giustizia per il fatto di aver visto ciò che è ancora nascosto a tanti politici: ha visto che il consumo e non la produzione e lo scambio erano l'oggetto definitivo, e che il lavoro delle braccia che producono aveva valore solo in rapporto alla bocca che consuma». Ivi, 306. 61 Ivi, 105. 62 Ivi, 40, 84. Cfr. l’introduzione di Stark, in EW, vol. III, p. 19. 63 BPU L, p. 187 (EW, vol. III, pp. 111-12).

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ribus, dietro a prezzi eguali possiamo ipotizzare soddisfazioni eguali, per cui ogni prezzo è indice dell’utilità media attribuita a ciascun bene. Non gli viene però mai in mente di applicare la teoria della saturabilità dei bisogni al problema del valore, fondando quest’ultimo sul grado finale di utilità. Il fenomeno dell’utilità marginale decrescente gli si presenta più come un ostacolo alla comprensione del rapporto tra prezzi e utilità, che come la strada maestra per risolvere il problema. Quanto al rapporto tra questi risultati e quei passi in cui Bentham sembra sottoscrivere una teoria del valore-costo di produzione (adding-up-cost theory of prices) simile a quella smithiana®4, è da notare che egli scarta, fin dalle sue prime note su Smith degli anni Ottanta, l’idea che il lavoro incorporato possa costituire una misura del valore delle merci nello «stadio rozzo e primitivo»: Il valore di una cosa rappresentato [da Smith] come dipendente interamente dalla quantità di lavoro impiegata nel produrlo ecc.: non dovrebbe essere incluso nel conto anche il valore della terra necessaria per la sua produzione? La rendita della terra è invero pagata dal lavoro. Ma il valore dei diamanti, dell’oro ecc. non dipende tanto dalla terra quanto dal lavoro?65

È evidente che questa contrapposizione tra spiegazione additiva e spiegazione secondo il lavoro incorporato — nella quale riemerge il tema della scarsità relativa — toglie anche qualunque legittimità a una misurazione del valore delle merci in base al lavoro comandato. In Sur les prix, infatti, Bentham mostra qualche difficoltà nel seguire la distinzione smithiana tra prezzo reale e prezzo nominale, o tra «prezzo in lavoro» e «prezzo in moneta»,

avanzata proprio per confermare la teoria del valore-lavoro anche nello stadio commerciale. Per Bentham è assurdo parlare di prezzo in lavoro: il costo in lavoro, semmai, può essere considerato sinonimo di prezzo reale, cioè «prezzo di vendita», solo se il bene è stato prodotto e portato sul mercato con il solo impiego delle braccia (una donna che vende i funghi raccolti nei boschi).

Altrimenti tale prezzo deve includere i pagamenti per tutti i fattori originari di produzione e i beni intermedi e può essere cal64 Frammento

Annuity Notes and National Wealth (marzo 1800), in EW,

vol. II, p. 303, cit. in Hollander 1979b, p. 5. 65 UCL XCIX, 183, intitolato «Projet Economie. Smith Observations on».

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colato solo in termini monetari. Nel primo caso il prezzo reale corrisponde al «costo in lavoro», nel secondo, invece, è di norma maggiore. Inoltre il prezzo reale corrisponde per Bentham a quello «attuale» o «nominale»66. Bentham, peraltro, non dedica molta attenzione a illustrare il rapporto tra prezzi finali e prezzi dei fattori produttivi e a definire con esattezza i meccanismi che determinano salario, rendita e profitto. Secondo la teoria additiva, infatti, è necessario che i prezzi dei fattori siano determinati perché i prezzi finali lo siano anch'essi. Per quanto riguarda il saggio di profitto, l'approccio adottato non sembra escludere una concezione di natura residuale, secondo la quale, cioè, il profitto risulterebbe dal valore delle merci prodotte una volta detratti il salario e le altre anticipazioni, ma in generale prevale una sia pur sommaria teoria del «contributo produttivo». Nell’Institute of Political Economy, il «profitto lordo» viene definito come la «ricchezza crescente» che risulta dal «capitale produttivo reale» investito in «cose e lavoro»®?: che il profitto «si aggiunga» agli altri elementi del costo è dunque giustificato, in termini reali, dalla maggior produttività del lavoro resa possibile dall’introduzione del capitale. Più chiare sembrano invece le idee dell’autore sulle variazioni del saggio di profitto e sui rapporti tra profitto e interesse. Se è dubbio che Smith credesse in una caduta tendenziale del saggio di profitto, è certo che Bentham non condivide questa ipotesi. Ovvero, il rendimento dei capitali può variare, ma senza una direzione predeterminata. Bassi tassi di profitto e di interesse sono

piuttosto la conseguenza di un elevato tasso di accumulazione, a sua volta frutto di incrementi nella produttività complessiva®8. Talvolta questo effetto viene collegato anche a una crescita improvvisa della massa dei capitali, determinata da fattori esogeni, come la decisione governativa di emettere nuova moneta. In tali circostanze, la concorrenza tra capitalisti produttivi, in seguito al crescere della massa dei capitali «impiegati nelle diverse branche 66 BPU L, 188 (EW, vol. III, p. 112). Smith 1976b, Lv.

67 Institute, in EW, vol. III, pp. 344-45. Cfr. EW, vol. II, p. 303. Si è visto

che più tardi Bentham aderirà al teorema ricardiano della relazione inversa salariprofitti. 68 EW, vol. I, p. 206.

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del lavoro produttivo», si manifesta — come per Smith — in bassi prezzi delle merci e in bassi saggi di profitto, «nella misura in cui il profitto del capitale costituisce una componente nella composizione di tali prezzi»®9. Inoltre, Bentham considera sempre la massa complessiva del capitale come un unico aggregato, che si suddivide in capitale produttivo e capitale monetario a seconda della redditività comparativa del prestito e dell’investimento. Profitto e interesse tendono dunque a influenzarsi reciprocamente: «il tasso di interesse dipende dalla quantità di capitale accumulato nell’intero paese, non dalla quantità che possa trovarsi nelle mani dei banchieri»?0. Così, è indifferente parlare di caduta del saggio di profitto o del tasso di interesse, quando l’offerta di capitali è sostenuta: il primo tende a decrescere per il ribasso dei prezzi delle merci, il secondo per l’eccesso di offerta di credito (o di risparmio). Ciò che conta è che questi ribassi sono simultanei e non compensabili con una riallocazione del capitale da un uso all’altro, perché dipendono dalla stessa causa: la rapida crescita dell’offerta di capitali. Complesso è anche il modo in cui viene affrontato il problema della rendita fondiaria: in generale, Bentham sembra aderire all’asserzione smithiana che l’investimento di capitale in agricoltura sia più produttivo che nel commercio e nelle manifatture «di un ammontare equivalente a quanto va a formare la rendita annuale»?!, E chiaro che tutto quanto eccede il saggio di profitto ordinario viene conferito ai proprietari fondiari. Non è chiaro però il perché: l’unica risposta possibile risiede di nuovo nella scarsità assoluta della terra rispetto alla domanda. I prezzi crescenti dei cereali, in effetti, sono considerati come un indice del-

la crescente scarsità della terra?2. Una strada per conciliare approccio della maggiore produttività agricola e approccio della scarsità sembra essere suggerita dallo stesso Bentham nell’ambito della riflessione sulla decolonizzazione, che accompagna le asserzioni citate: egli pensa che l'eventuale (ma per niente ovvio) 659 EW, vol. II, p. 303. 70 EW, vol. I, p. 373. 71 Ivi, p. 203; cfr. Smith 1976b, Lx1.1.

72 Paper Mischief, in EW, vol. II, p. 435; Frammento Annzity Notes and National Wealth (marzo 1800), in EW, vol. II, p. 303; Hollander 1979b, p. 8.

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ritiro di una parte dei capitali precedentemente investiti nel commercio coloniale non produca una riduzione della profittabilità degli investimenti se questi capitali vengono reimpiegati nell’agricoltura nazionale (ciò presuppone che la domanda di derrate agricole precedentemente rivolta verso le colonie sia dirottata sull’agricoltura domestica).

E chiaro che proprio l’accresciuta

scarsità della terra, con il conseguente incremento dei prezzi agricoli, è la condizione che garantisce non solo una profittabilità dell’investimento almeno eguale a quella degli altri settori, ma anche una rendita fondiaria. In altre parole, Bentham parla qui di produttività, cioè di redditività dell’investimento, non di produttività del lavoro agricolo grazie ai doni della natura, in senso fisiocratico, e questa redditività è determinata dalle forze della domanda e dell’offerta. Questa conclusione spiega il passo di Sur les prix in cui salario

e profitto sono definiti come redditi «originari» o «naturali», in quanto risultanti dal contributo produttivo, mentre la rendita è definita come un reddito «estratto» o «convenzionale», giacché è appropriato «senza un equivalente dato in ricchezza, anche se dato sotto altra forma» (il permesso di usare la terra)??. Perciò, le

rendite potrebbero essere annientate senza che il reddito aggregato subisca alcuna variazione. Infine, Bentham aderisce all’idea smithiana che i salari reali sono determinati dai saggi relativi di crescita di popolazione e capitale e quelli monetari dal salario reale e dai prezzi dei beni-salario?4. La relazione tra salario e profitto è talvolta concepita in termini smithiani: l’aumento di uno degli elementi componenti il costo (il salario) provoca un aumento generale dei prezzi?5. Ciò però non è vero nel caso di un rapido sviluppo, giacché «le stesse cause» che determinano alti salari promuovono bassi tassi di interesse. Infatti, «la quantità relativa di capitale crescerà, e conseguentemente il tasso di interesse diminuirà, quando la tesaurizzazione procede più speditamente della popolazione»?6. Ma con un tasso di investimento che supera quello

73 BPU L, 78-79, 83 (EW, vol. III, pp. 80-81, 83). 74 Hollander 1979b, p. 8; EW, vol. I, p. 207; Manual, in EW, vol. I, pp. 247-48. 75 EW, vol. II, pp. 303-304, cit. in Hollander 1979b, pp. 8-9. Bic 76 Agriculture not dependent on manufactures, in EW, vol. I, p. 206. E evidente che con il termine thesaurization Bentham intende l’accumulazione.

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di crescita della popolazione, la domanda di lavoro si accresce, e con essa i salari. Perciò, «quando il capitale è abbondante, l’in-

teresse sarà basso e il prezzo reale del lavoro elevato». Sarebbe azzardato trovare in queste affermazioni”? un’anticipazione della relazione inversa tra salari e profitti individuata da Ricardo, sebbene notevoli siano le assonanze, se non altro per l'accento posto sul fatto che la concorrenza tra i capitalisti impedisce loro di mantenere inalterati i profitti, agendo sui prezzi, proprio quando sono costretti a aumentare i salari. Il ragionamento sui prezzi di mercato dei fattori assume in Bentham il carattere di spiegazione sostanziale, mentre in Ricardo è la premessa per mettere tra parentesi le relazioni di mercato e individuare nelle condizioni di produzione le ragioni ultime dell’antagonismo tra le variabili distributive. Piuttosto, proiettate sulla questione del valore, queste riflessioni su salario, profitto e rendita confermano una spiegazione additiva, fondata sul duplice elemento del contributo produttivo e del rapporto tra domanda e offerta aggregata dei fattori. Non vi è dunque motivo di dar credito alla tesi di Hollander che «l’approccio additivo in termini di costi, secondo il quale l'aumento di un elemento del costo (come il salario) implica un conseguente incremento nel livello generale dei prezzi, è strettamente subordinato a una concomitante espansione dell’offerta di moneta», cioè al caso di un aumento generalizzato dei prezzi. Tuttavia i diversi scritti di Bentham non sono perfettamente coerenti tra loro e talvolta gli effetti di un aumento del sovrappiù accumulato sono assimilati a quelli di un’espansione della moneta a favore dei capitalisti?8. Il collegamento adombrato dallo stesso Bentham tra approccio dei costi e approccio dell’utilità rafforza ulteriormente questa conclusione, pur confermando l’impressione di un ragionamento lacunoso e incompiuto. I prezzi relativi dei beni sono determinati «unicamente in rapporto ai costi (fraîs) di produzione, così come sono indicati dai loro rispettivi prezzi»??. Sembra un ra77 EW, vol. I, p. 207. Esse sono del resto più esplicite della ricostruzione puramente inferenziale proposta da Hollander 1979b, pp. 9-10. Cfr. D. Ricardo, Principles cit., in Ricardo 1951-52, vol. I, cap. VI.

78 Cfr. il già cit. frammento in EW, sol II, pp. 302-305. Cfr. Hollander

1979b, p. 9.

79 BPU L, 85 (EW, vol. III, p. 84).

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gionamento circolare, ma l’idea sottostante è chiara: la domanda fissa i prezzi dei diversi beni in rapporto alla loro utilità comparativa. E però proprio essa che decide in ultima istanza quali beni possano essere prodotti e quali no: l’ananas, il cui costo di produzione (trasporto compreso) è di gran lunga superiore a quello della patata, non potrebbe mai essere prodotto se la sua domanda non giustificasse un prezzo tanto elevato. Per prendere il caso diverso dell’acqua, se la quantità domandata è inferiore alla quantità massima che può essere offerta a costo zero, essa sarà un bene libero. Ma se, per esempio per il concentrarsi della popolazione in certe aree, la quantità domandata supera quel livello, i trasportatori di acqua potranno imporre un prezzo pari almeno ai costi sostenuti. La mobilità dei capitali, poi, garantisce un livellamento dei saggi di profitto nei vari settori, eccetto in quelli in cui esistano barriere naturali o di altro tipo all’entrata, nei quali il «prezzo definitivo» differirà dall’insieme dei «costi primari». È evidente che Bentham pensa a un valore pur sempre positivo del saggio del profitto stesso, anche se la sua entità dipende dal livello della concorrenza tra i capitalisti. Lo stesso meccanismo permette anche il livellamento dei saggi di remunerazione di lavoro e terra, dato che, come si è visto, essi dipendono in sostanza dalle scelte dei capitalisti. Così, i prezzi relativi dei beni finali tenderanno a coincidere con i loro costi di produzione e le differenze di prezzo unitario dipenderanno in ultima analisi dalla diversa lunghezza

del periodo di produzione. In sostanza, la coerenza tra teoria del valore costo di produzione e teoria del valore utilità è possibile solo attribuendo un ruolo determinante al meccanismo di allocazione del capitale dato tra i diversi impieghi: Bentham pensa cioè a una situazione in cui i prezzi dei fattori di produzione e quelli dei beni intermedi e finali sono determinati simultaneamente, sebbene non abbia le idee chiare su tutti i prerequisiti necessari per rendere determinato l’equilibrio generale così risultante (ipotesi di razio-

nalità del comportamento del consumatore, ipotesi dei rendimenti decrescenti ecc.).

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APPENDICE

Una lettura in termini marshalliani della teoria dei prezzi di Bentham

Se alcune ipotesi di fondo non fossero così distanti, si sarebbe tentati di descrivere la teoria dei prezzi di Bentham in termini di equilibri parziali marshalliani. Prendiamo per primo l’esempio dell’ananas, nella cui domanda interviene soltanto il desiderio di

consumo ricercato. Si tratta dunque di un bene di lusso. Nella fig. 1 indichiamo con S la curva di offerta di lungo periodo, la cui equidistanza dall’asse delle ascisse riflette l'ipotesi di costi costanti: l’ipotesi più neutra, dato che Bentham non fa alcun riferimento a rendimenti decrescenti. L’intercetta tra la curva di offerta e l’asse verticale corrisponde al costo medio di lungo periodo, comprensivo del profitto medio. La quantità scambiata è, in queste circostanze, determinata dalla domanda. Con la curva D indichiamo appunto la curva di domanda, la cui inclinazione riflette l’elevata elasticità al prezzo (il «valore di fantasia»). Ora è evidente che se,

per un mutamento dei gusti dei consumatori o per la diminuzione del reddito, la curva della domanda subisce una traslazione verso il basso (curva D’, si può giungere a un livello in cui nessun consumatore è disposto a pagare per la merce nemmeno il prezzo di costo. In qusto caso, i capitali rifuggono dal mercato degli ananas, che non vengono più prodotti.

Fig 1. Mercato dell’ananas.

Se passiamo al mercato dell’acqua (fig. 2), possiamo supporre una curva di offerta coincidente con l’asse delle ascisse, fino a

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quella quantità (0Q.) che può essere appropriata senza alcun costo. Oltre quel punto, invece, le difficoltà crescenti di approvvigionamento e distribuzione danno luogo a un’inclinazione positiva della curva, che riflette il crescente costo di produzione. L’aumento della popolazione determina lo spostamento della curva di domanda verso destra. Se la quantità domandata è minore di Q., l’acqua sarà un bene libero. Ma se supera quel livello, il consumo di acqua dipende dalla disponibilità di una parte dei consumatori a pagare un prezzo positivo per essa. E chiaro che alcuni consumatori resteranno ipoteticamente esclusi, anche se il carattere indispensabile del consumo dell’acqua dovrebbe farci pensare a curve di domanda quasi perpendicolari all'asse delle ascisse.

Fig. 2. Mercato dell’acqua.

Vari sono dunque gli elementi della teoria del valore di Bentham che si apparentano all’analisi marginalista e differiscono, invece, da una teoria del valore determinata unicamente in base ai costi di produzione. Gli agenti dello sviluppo

Il problema centrale del Mana! of Political Economy, come già del Projet Economie, è quello smithiano delle cause dello sviluppo. Il reddito annuale di una nazione (l’anno è il periodo di produzione medio) si ripartisce infatti tra vari «usi» o impieghi: sussistenza, diletto, sicurezza e «accrescimento» (ercrease). Solo

l’ultima di queste voci permette il mantenimento (ed eventualmente la crescita) del livello di ricchezza esistente. Le altre tre —

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compresa, a questo livello, la spesa per sussistenza — sono forme di consumo puro, quindi distruzione della ricchezza precedentemente prodotta8°. In due modi il reddito può generare «accrescimento»: in primo luogo, aumentando «la proporzione di moneta spesa nel dar vita ad articoli di lento consumo, come migliorie dei terreni, edifici e mobilio, sulla moneta spesa nel dar vita ad articoli di rapido consumo, come tipi costosi di carne, bevande, addobbi e simili»8!; in secondo luogo, trasformandosi

in capitale (fisso e circolante). Di quest’ultimo fa parte anche «il cosiddetto fondo-salari»8?. L’esistenza di un capitale accumulato è la condizione per mettere in moto il lavoro. Infatti, «ogni accessione fatta al fondo della ricchezza nazionale è il risultato del lavoro impiegato con l’aiuto del capitale, risultante dal lavoro precedente»83. D’altra parte, senza «l’aiuto di una certa quantità di capitale precedentemente accumulato», il lavoro non può essere «produttivo», cioè garantire «l’accrescimento». In questo senso, il lavoro (o «l’industria»), e di conseguenza lo scambio, è limitato dalla scarsità

dei capitali e questi ultimi possono essere accresciuti in due soli modi: con l’aumento del risparmio (frugality) o con l’afflusso di investimenti dall’estero84. Il secondo fattore dello sviluppo, che Smith aveva individuato nella divisione del lavoro, è ridotto da Bentham, più in generale, alla «vantaggiosità della direzione» del capitale, cioè alla produttività del lavoro85, Ed è proprio in corrispondenza di questo progresso di analisi, che la teoria benthamiana dello sviluppo si diparte da quella del maestro riconosciuto. Mentre infatti questi aveva attribuito i progressi della divisione del lavoro all’allargamento del mercato e alla conseguente ulteriore specializzazione dei compiti, Bentham si concentra sulla funzione soggettiva degli imprenditori. La redditività degli investimenti dipende infatti da due fattori: «1. la scelta dell’attività stessa, 2. la scelta del modo di condurla», un duplice atto decisionale, condizionato 80 Manual, in EW, vol. I, p. 226.

81 EW, vol. II, pp. 325-26. 82 Manual, in EW, vol. I, p. 227.

83 Postscript a Defence of Usury, in EW, vol. I, p. 196. 84 EW, vol. I, p. 201; Manual, ivi, pp. 228, 231. ra u EW, vol. I, p. 196; Manual, ivi, pp. 228-29; Institute, in EW, vol. III, pp.

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ulteriormente da due importanti fattori «mentali»: l'inclinazione o interesse degli imprenditori a realizzare sempre il massimo profitto; la loro capacità di acquisire le conoscenze giuste al momento giusto, capacità che dipende, a sua volta, dall’interesse che essi hanno nell’impresa. Bentham sostiene che questi elementi sono insostituibili, nel senso che l’interesse degli agenti economici e la divisione delle conoscenze non possono essere sostituiti da un’autorità centrale razionale e onnisciente. Teoricamente il governo può riallocare il capitale tra le diverse branche produttive, tramite proibizioni e incoraggiamenti. Ma quasi certamente il risultato sarà inefficiente, perché la scelta dell’autorità centrale non sarà mai «la migliore possibile»8%. Tra le forme di incoraggiamento, inoltre, i prestiti statali di capitale o i trasferimenti alle imprese (grants of capital) costituiscono una forma di «accumulazione forzata» o «risparmio forzato», in quanto «impongowo tasse e ne aggiungono il provento al capitale impiegato nella produzione», almeno nella misura in cui le tasse incidono sulla spesa di consumo e non sul capitale87. Essi però sono «oppressivi, incoerenti con quello che è o dovrebbe essere il fine della società civile», per l’intervenire della consueta asimmetria tra piacere dell’acquisizione e dolore della pérdita e anche per il fatto che l’aumento di capitale così determinato condurrà a una diminuzione del tasso di interesse88. Non vi è nessuna ragione per preferire il guadagno di coloro che vedono accresciute le possibilità di investimento alla perdita dei proprietari di denaro: troppe volte, «nell’aritmetica politica, accecati da passioni e pregiudizi, gli uomini contano solo da un lato». Dal punto di vista utilitaristico, dunque (almeno in vista del fine dell’abbondanza), il libero scambio e la libera circolazione dei capitali sono doppiamente giustificati. Il compito del governo è semmai quello di assicurare la sicurezza e la correttezza delle transazioni e di facilitare la trasparenza del mercato8?. Nella Defence of Usury, del 1787, Bentham aveva già precisato che la «ricchezza impiegata in forma di capitale» equivale al 86 Manual, in EW, vol. I, pp. 229, 234-35; Institute, in EW, vol. III, pp. 333-538.

87 Manual, in EW, vol. I, p. 238. Cfr. EW, vol. II, p. 327; Institute, in EW, vol. III, pp. 342-44. Cfr. Hayek 1932, p. 124. 88 Manual, in EW, vol. I, pp. 237, 239. 89 Cfr. Robbins

1952, pp. 12-13.

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risparmio totale della nazione: «come si suol dire, chiunque risparmi moneta compie un’aggiunta proporzionale alla massa complessiva del capitale»?°. Tuttavia, nel prosieguo dell’analisi appare come questa identità risparmi-investimenti venga assunta quale semplice limite massimo, di fatto irrealizzabile: i risparmi sono un fondo disponibile per essere trasformato in capitale, ma una parte più o meno grande di essi può finire nelle mani dei consumatori improduttivi. Il proprietario di denaro ricerca sempre il più elevato guadagno: se la domanda dei consumatori improduttivi è molto forte, egli potrà esigere da loro un tasso di interesse più elevato. Perciò maggiore sarà la quota di risparmio

che non si trasforma in investimenti. Quanto alla quota destinata ai produttori, essa ha un effetto

positivo sulla crescita della ricchezza solo «se il valore di ciò che con essa si produce è maggiore del valore che viene pagato come interesse»?1. Per Bentham, non solo questa evenienza si verifica regolarmente (egli assume che «il saggio generale del profitto mercantile» sia «almeno il doppio» del saggio di interesse), ma è anche assicurata dal fatto che il capitale preso a prestito, aggiungendosi a quello risparmiato dai manifattori, permette di sfruttare meglio i vantaggi derivanti dalla divisione del lavoro e dall’ottima utilizzazione degli impianti. Il credito accelera dunque il circolo virtuoso dello sviluppo. Gli effetti sulla crescita della ricchezza sono inoltre diversi a seconda della ripartizione del capitale dato a prestito. Meglio è quando il finanziamento giunge ai «facitori di progetti» (projectors), veri e propri imprenditori schumpeteriani, che, nella ricerca del massimo profitto, promuovono l’innovazione nei metodi produttivi, nelle materie prime impiegate, nella ricerca dei mercati, nell’introduzione di nuovi beni o nel miglioramento di quelli già esistenti?2. Bentham si lancia in un’appassionata difesa di questi individui eccezionali, dotati di intelligenza e propensione al rischio superiore al normale, che Smith aveva invece condannato perché in contrasto con il suo ideale stoico di uomo prudente. Per lo Scozzese le leggi contro l'usura erano giuste, perché scoraggiavano i prestiti ad alto rischio (e ad alto tasso di interes90 Defence of Usury, in EW, vol. I, p. 196.

91 Ivi, p. 198.

22 Ivi, pp. 168, 170, 177. Cfr. Pesciarelli 1989.

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se). Per il filosofo di Westminster, invece, non solo gli innovatori sono esseri razionali e calcolatori, ma lo stesso meccanismo del credito conferisce ai proprietari della moneta il potere di selezionare le iniziative più sicure. Quando un imprenditore ha bisogno di denaro, infatti, deve sottomettere il proprio «progetto» al banchiere «i cui pregiudizi non propendono certo dal lato a lui favorevole»??. Bentham cerca anche di approfondire il meccanismo che determina la ripartizione del risparmio tra i vari richiedenti, in una situazione, come quella descritta nella Defence of Usury, in cui i banchieri prestano esclusivamente fondi di loro proprietà (come in larga misura avveniva a quel tempo), caso logicamente equi-

valente a quello di un sistema bancario che svolge una semplice funzione di intermediazione tra risparmi e investimenti. Chi possiede risparmi sceglierà o di investirli direttamente o di prestarli, a seconda della diversa redditività degli impieghi. La quota destinata al prestito, a sua volta, deve far fronte alla domanda di tre gruppi in competizione tra loro: i «mutuatari dissipatori», gli «innovatori» e gli investitori tradizionali. I più alti tassi di interesse possono essere realizzati prestando moneta agli innovatori, che si aspettano profitti superiori alla media. Se esiste dunque un numero sufficiente di progetti sicuri, essi tenderanno a racimolare tutto il credito disponibile e solo ciò che rimane potrà essere collocato presso gli altri due gruppi. La semplice assunzione di una separazione tra risparmio e investimento conduce dunque Ben-

tham ad attribuire ai proprietari di denaro (banche o privati) il potere di spostare risorse accumulate dalla routine alle innovazioni o dal consumo all’investimento. Di nuovo, elemento mo-

tore decisivo sono le decisioni dei soggetti e le loro valutazioni del corso del mondo, dati i vincoli esistenti e le relazioni tra quantità domandate e offerte. In virtù di tutto ciò, i risparmi non sono automaticamente eguali agli investimenti, e l’accumulazione procede secondo ritmi diversi a seconda del loro impiego. Pur nella diversità dei temi trattati, un filo rosso collega la Defence of Usury al Manuale all’Institute: l’attenzione all’imprenditore, agente di uno sviluppo inteso non come semplice accumulazione, ma come scelta dell'impiego migliore del capitale, che 93 Defence of Usury, in EW, vol. I, pp. 180-81.

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si tratti dell’allocazione tra i diversi impieghi dati o della scoperta di strade non ancora battute. Si ricordi l’accenno, annotato

nell’angolo di un foglio di appunti degli anni Ottanta, a un’economia politica «dell’inventore»: se è vero che questa prospettiva — che, se sviluppata, avrebbe rappresentato un altro dei terreni di intesa con il Say dalle simpatie industrialiste?* — scompare nell’economia politica benthamiana degli anni Novanta, nondimeno essa lascia una traccia, appunto, nell’attenzione alla funzione economica dell’innovazione?”. Gli anni 1798-1801 sono dedicati da Bentham all’approfondimento dell’altro tema trattato nella Defence: il ruolo del credito. Leggendo solo il Manual! of Political Economy nella versione arrangiata da Bowring peri Works, o anche l’Institute of Political Economy pubblicato da Stark, si potrebbe ricavare un’impressione ben parziale, seppure suggestiva, dell'attenzione dedicata ai temi monetari: accanto alla ripresa della teoria quantitativa della moneta troviamo infatti una chiarificazione del meccanismo del risparmio forzato che, come ebbe a rilevare Hayek, può essere considerata l'archetipo di molte delle teorizzazioni successive. Riprendendo e precisando gli argomenti già usati da Hume e Cantillon per descrivere i meccanismi attraverso cui una quantità aggiuntiva di moneta penetra in un sistema economico, alterando la distribuzione a vantaggio di coloro che per primi beneficiano del finanziamento e solo poi il livello generale dei prezzi, Bentham arriva a spiegare come una variazione dello stock di moneta, in un'economia moderna, interessi e avvantaggi in primo luogo gli imprenditori, provocando una temporanea e forzata riduzione dei consumi e un aumento degli investimenti e dei profitti, nonché una crescita della ricchezza prodotta. Solo in un secondo tempo, una volta che finisce nelle mani dei consumatori, la moneta aggiuntiva produce l’aumento generalizzato dei prez94 Cfr. Say 1843, p. 16. 95 Peraltro, l'approccio tecnologico non cessa di interessarlo, divenendo oggetto di ossessiva attenzione nella coeva ricerca attorno all’organizzazione scientifica delle prigioni e delle case di lavoro panottiche, per passare poi nella riflessione sull’organizzazione della «economia pubblica». È in questo ambito, per esempio, che Bentham elabora una teoria dei «vantaggi del principio della grande scala». Cfr. Lettera diJ.Bentham a A. Young, 8 luglio 1801, in Correspondence, vol. VI, pp. 411-13; Hume, L.J. 1970.

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zi, cessando di avere effetti sulle grandezze reali. Bentham conia

anche un nome fortunato per definire il fenomeno: forced frugality?®.

Se già queste intuizioni costituiscono un notevole allontanamento da una definizione rigida della teoria quantitativa della moneta — proprio perché a Bentham interessa definire non il rapporto tra grandezze aggregate, ma i meccanismi attraverso cui

le scelte individuali si trasmettono e determinano gli eventi collettivi —, ulteriori spunti sono tuttavia da trovarsi in altri scritti, tra cui la proposta delle Circulating Annuities (1800) e un lungo manoscritto, provvisoriamente intitolato da Dumont Sur les prix??, che contiene la traduzione di un testo composto da Bentham nel 1801 e andato smarrito. Intitolato in origine The True Alarm, quest’ultimo fu iniziato come opuscolo in risposta alla Letter to the Right Honourable William Pitt on the Influence of the Stoppage of Issues in Specie at the Bank of England on the Price of Provisions, and Other Commodities (1801) di Walter Boyd?8,

quando vivace era il dibattito sugli effetti della sospensione della conversione delle banconote della Banca di Inghilterra (1797).

Bentham poi pensò di trasformarlo in un’opera più sistematica dedicata all’influenza del credito sui prezzi e sulla produzione, ma, come Sraffa ha ricostruito, il testo non venne mai pubblicato, probabilmente a causa del commento drasticamente negativo di Ricardo??. In Circulating Annuities e in una serie di manoscritti ad esso collegati, Bentham propone l'emissione da parte del Tesoro di banconote portanti interesse, che avrebbero dovuto sostituire (e a un saggio di interesse minore) titoli del debito pubblico e, tendenzialmente, tutto il circolante cartaceo. Questa cartamoneta,

garantita dallo Stato, avrebbe tra l’altro avuto il vantaggio, secondo l’autore, di stimolare il risparmio delle classi povere, incoraggiandole a trattenere i biglietti nella prospettiva di incassa96 Cfr. Institute, in EW, vol. III, pp. 313-17, 342-49; Hayek 1932; D. Hume, On Money, in Hume 1898.

97 BPU L, 30-432. Un altro titolo è suggerito da BPU LI, 291: «Sur les effets du papier-monnoie». Cfr. Lettera di J. Bentham a E. Dumont, 22 marzo 1804, in Correspondence, vol. 7, p. 262. 98 Cfr. Hollander, J. 1911. 99 Cfr. W. Stark, Introduction, in EW, vol. III, pp. 7-18; P. Sraffa, Note on Notes on Bentham, in Ricardo 1951-52, vol. III, pp. 261-66; Silberner 1940.

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re l’interesse!°, Bentham — che discute fino alla più irrilevante minuzia i dettagli tecnici dell’operazione — sottolinea che la loro emissione, equivalendo a una riduzione del debito pubblico, aumenterebbe la massa del circolante. Egli pensa tuttavia che questa moneta aggiuntiva non si distribuisca a casaccio, ma finisca prevalentemente nelle mani dei capitalisti, contribuendo a incrementare il loro capitale. Sur les prix si concentra invece (come un breve scritto quasi

coevo, Paper Mischief), sul funzionamento del sistema creditizio inglese dell’epoca. Boyd aveva sostenuto che la causa dell’aumento dei prezzi fosse da ricercarsi nell’eccesso di cartamoneta emessa dalla Banca d’Inghilterra. Bentham ritiene invece che la fonte principale dell’inflazione sia l'eccesso di credito alla produzione da parte delle banche locali (o provinciali, le country banks), fiorenti soprattutto nei nuovi distretti industriali dell'Inghilterra settentrionale. Questo credito è rappresentato principalmente dalla cartamoneta emessa a favore degli imprenditori, per un ammontare che eccede le riserve in moneta metallica, banconote della Banca d’Inghilterra ed altri effetti, di cui le banche dispongono per far fronte ai pagamenti ordinari!°!. Per spiegare il fenomeno, l’autore fa ricorso a una definizione del moltiplicatore del credito adattata al caso della cartamoneta: una banca, ogni volta che riceve depositi in cartamoneta delle altre banche, vede accresciuta la propria «base»; così «con A che prende le banconote di B, e B

che prende quelle di A, [...] l’edificio cresce in altezza fino a un’estensione indefinita»!°, Bentham inoltre sottolinea come vi sia,

da parte di questi istituti, la tendenza a rimpiazzare il circolante detenuto come riserva con altri effetti (cambiali, titoli), accrescendo così la capacità di espandere il credito. A differenza di Ricardo, che lo critica su questo punto!93, e contrariamente a quanto assunto in Defence of Usury, Bentham non solo non ritiene più che il ruolo delle banche sia semplice-

100 EW, vol. II, pp. 275, 294-95. ;

101 BPU L, 124-37 (EW, vol. III, pp. 102-107). Cfr. Mathias 1983, pp.

148-59.

102 BPU L, 132-37 (EW, vol. III, pp. 104-107). È da osservare che Bentham tenta anche di calcolare l'entità dell'intirziona servendosi di alcuni indici-cam-

pione. Cfr. Lettera di J. Bentham a R. Watts, 8 settembre 1801, in Correspondence, vol. VI, pp. 445-46. 103 Cfr. Ricardo 1951-52, vol. III, p. 280.

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mente quello di trasferire risparmi agli investitori, ma non intende nemmeno gli impieghi come il frutto dei depositi. Le banche creano impieghi secondo le loro aspettative di redditività, e poi si pongono il problema di come assicurarsi una riserva sufficiente per far fronte alla domanda di conversione in moneta metallica!°*. La quantità di moneta è dunque regolata dalla domanda dei manifattori e dalla aspettativa dei banchieri di ricavare una remunerazione dal capitale imprestato. Analizzando le conseguenze dell'emissione di cartamoneta sulle altre variabili economiche, Bentham scopre che possono prodursi effetti non transitori e limitati sulla distribuzione e sulla crescita, al contrario di quanto aveva sostenuto Hume e avrebbe sostenuto poi Ricardo!°, Il credito cartaceo delle banche, infatti, o le proposte «banconote-rendite annue» (4un4ity notes) consentono agli imprenditori di disporre di un capitale maggiore di

quello ricavato dal profitto netto che resta loro una volta dedotte tutte le anticipazioni e spartito il ricavato (profitto lordo) con i banchieri e le altre figure «che hanno tutte cooperato alla produzione e circolazione di questi valori»!%; e anche maggiore del risparmio globale presente nel sistema. Con questo capitale incrementato, i manifattori potranno acquistare quantità aggiun-

tive di beni intermedi e impiegare un numero maggiore di lavoratori, qualora ne esistano di disoccupati, di parzialmente occupati, o sia possibile attrarre forza lavoro straniera, oppure ancora spostare quella esistente verso produzioni innovative o più produttive!07, In tutti questi casi il risultato è una crescita netta del reddito nazionale, «per l'ammontare del saggio corrente di profitto lordo sullo stock o capitale»!98. Il processo assume pertanto questa sequenza: la domanda aggiuntiva di forza lavoro, qualora esista una riserva di disoccupati e non si cerchi contemporaneamente di spostare verso nuovi im104 BPU L, 106-9 (EW, vol. III, pp. 92-94: definizione della cartamoneta), 124-27 (EW, vol. III, pp. 102-4: sulle riserve). 105 Cfr. Ricardo 1951-52, vol. III, pp. 298, 302. Bentham stesso, nell’incompleto Paper Mischief (1800-1801), che precede di pochissimo la stesura di The True Alarm, aveva intrattenuto opinioni più restrittive. Cfr. EW, vol. II, pp. 442-48. 106 BPU L, 241. Cfr. Institute, in EW, vol. III, p. 345. 107 BPU L, 33, 234-35 (quest’ultimo passo, in EW, vol. III, pp. 143-44); EW, vol. II, pp. 301-7. 108 Institute, in EW, vol. III, p. 345. Cfr. BPU L, 230 (EW, vol. III, p. 139).

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pieghi quella già occupata, non esercita alcun effetto sul salario. L’accresciuto monte-salari, tuttavia, conduce inizialmente a un aumento della domanda di beni di sussistenza, sicché, data l’of-

ferta ai livelli preesistenti, si ha un aumento dei loro prezzi. Contemporaneamente si verifica un aumento della domanda e dei prezzi dei beni intermedi, dato che i detentori della moneta cer-

cano di sottrarli ai precedenti impieghi. Man mano che la nuova produzione di beni-salario e beni intermedi entra sul mercato, tuttavia, i prezzi tendono a diminuire, fino a raggiungere, in linea teorica, i livelli precedenti. Il risultato è l’assorbimento della manodopera disoccupata e la crescita della ricchezza reale!09. Una situazione più prossima alla realtà potrebbe essere quella in cui l’accresciuta domanda anche di fattori già impiegati, la cui offerta non è elastica nel breve-medio periodo, assieme al ritmo sempre più rapido dei finanziamenti, esercitano una pressione sul settore reale tale da mantenere i prezzi elevati e generare un prolungato trasferimento di ricchezze dai detentori di redditi fissi ai capitalisti nel loro insieme: la «frugalità forzata»!!°. Accanto al profitto ordinario compare dunque un profitto aggiuntivo da redistribuzione, che consente l’ulteriore spostamento di risorse

dal consumo all’investimento. L’estremo opposto è quello da cui Bentham prende le mosse nell’Institute: quando la forza lavoro è pienamente occupata, o non appena viene raggiunta la piena occupazione, l’aumento del capitale monetario a disposizione di alcuni imprenditori esercita una pressione non solo sul mercato dei beni intermedi, ma anche sui salari. I prezzi dei beni capitali e del fattore lavoro e quelli dei beni di consumo acquistati dai lavoratori crescono contemporaneamente. Ma, mentre i profitti medi aumentano per effetto dell’accresciuta domanda, solo coloro che dispongono delle dosi aggiuntive di moneta sono in grado di procurarsi quantità maggiori di lavoro e beni intermedi, mentre solo i lavoratori sono in grado di mantenere almeno invariati i loro consumi!!! (anzi, il loro reddito reale dovrebbe aumentare, anche se Bentham non sembra mai prendere in considerazione esplicitamente questa evenien109 BPU L, 139, 142-43 (EW, vol. III, pp. 114-16: sui movimenti dei prez-

zi); 51-52, 60-61 (EW, vol. III, pp. 67-68, 109-10: sugli effetti reali). 110 BPU L, 47, 139 (EW, vol. III, pp. 65, 114), 290. Cfr. Hayek 1932. 111 Institute, in EW, vol. III, p. 346; BPU L, 234 (EW, vol. III, p. 143).

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za). Si verifica così, nella sua forma pura, il fenomeno del risparmio forzato, «una tassa il cui utile è raccolto da colui che ha emes-

so la moneta [Bentham fonde qui in un’unica persona il capitalista monetario e quello produttivo] e il peso sopportato dai possessori di ciò che si definisce reddito fisso»!!2. Tra questi ultimi sono compresi i dipendenti pubblici, i proprietari fondiari, i professionisti, i mercanti e i prestatori di denaro, il cui reddito, per di più, è «esposto a decrescere per l’operare delle medesime cause»; inoltre, «quella parte che, tra tutte le altre, è la meno in grado di tollerare tale pressione: gli anziani, gli infermi, gli orfani e le vedove»!!3. In sostanza, l’effetto globale del risparmio forzato è la riduzione del consumo di lusso e del consumo delle classi povere e l’aumento degli investimenti produttivi: la riduzione del consumo improduttivo a vantaggio di quello produttivo. Da ciò deriva la crescita della ricchezza complessiva, sia perché, nell'immediato, lo spostamento di risorse verso gli investimenti accresce pro tanto la quantità di capitale fisso, il cui consumo si prolunga per un arco temporale maggiore dell’anno, sia perché cresce l’output prodotto (anche se non aumenta necessariamente il «periodo di produzione», in quanto a ogni crescita del capitale fisso fa sempre riscontro quella del fondo salari senza che cambino di necessità le proporzioni). L’arrivo sul mercato del surplus di merci prodotte riduce solo parzialmente l’inflazione iniziale e mantiene alterata la struttura dei prezzi in modo da avvantaggiare ancora gli imprenditori e i banchieri. Tuttavia, non appena la moneta «passa dalla sua prima destinazione (quella di accrescere il capitale reale) all’altra, cioè a quella di accrescere la spesa improduttiva, la sua capacità di provocare una crescita della ricchezza reale si esaurisce [...]: da quel momento e per sempre essa seguita a contribuire per il suo intero ammontare all’aumento dei prezzi...»!!4. Ciò avviene perché, in un modo o nell’altro, tutte le categorie di consumatori

cercano di ripristinare il loto livello di consumi, facendo lievitare i loro redditi monetari. Purtroppo, però, qualcuno non vi riuscirà. L’unico freno al processo di moltiplicazione del credito car112 Institute, in EW, vol. III, p. 345.

113 EW, vol. II, pp. 335, 434. 114 Iystitute, in EW, vol. III, p. 349.

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taceo, peraltro, è dato dal progressivo assottigliamento delle riserve, che può indurre i banchieri a maggiore prudenza. Ma non è detto che questo sia l’esito più scontato, dato che quei banchieri che godono — almeno sul piano locale — di un’illimitata fiducia da parte del pubblico, possono accrescere le loro emissioni al di là di qualunque limite prudenziale!!5, Ora, mentre l’effetto del credito sull’occupazione e sulla crescita del reddito appare positivo e insostituibile, l’effetto sulla distribuzione è considerato un costo sociale inaccettabile per due ragioni: perché colpisce anche le categorie meno favorite (la cui sofferenza aggiuntiva è dunque molto elevata), e perché è involontario. Bentham — sia pure con qualche esitazione — sostiene che anche la scelta del consumo di lusso, per quanto improduttiva, deve essere in prima istanza valutata tanto quanto la scelta dell’investimento, giacché, «somma per somma», la costrizione cui è sottoposto il consumatore non può contare meno di quella di chiunque altro!!6. Così egli suggerisce di non emettere le «banconote-rendite» quando si è già raggiunta la piena occupazione, mentre nel terzo libro di Sur Ze prix formula una serie di proposte per restringere l'emissione di cartamoneta bancaria (imposizione

di un obbligo di riserva cospicuo, tassazione degli interessi), in modo da limitarla entro livelli compatibili con un’espansione produttiva e un’inflazione limitata. Contrario è però a sottrarre alle banche provinciali la facoltà di battere moneta e ad altre forme di restrizione creditizia. L'effetto deflattivo che queste misure comporterebbero gli appare infatti altrettanto ingiusto del risparmio forzato; inoltre, una subitanea restrizione del credito comporterebbe il rischio di bancarotta, «dato che la massa di impie-

ghi pecuniari assunti in un dato periodo di tempo è fondata ovviamente sul rapporto esistente tra moneta e oggetti vendibili in quel periodo e non sul rapporto che si è supposto sopraggiungere all'improvviso, o su qualunque altro rapporto inferiore»!!7. Per la stessa ragione, Bentham si preoccupa costantemente

del fatto che alla crescita della produzione complessiva faccia ri115 BPU L, 298-301 (EW, vol. III, pp.

161-64).

116 BPU L 59, 218-19 (questo ont passo in EW, vol. III, pp. 133-34); Institute, in EW, vol. III, p. 343. 117 Institute, in EW, ‘vol. III, p. 350. Cfr. Lettera diJ.Bentham a N. Vansittart, 11 maggio 1801, in Correspondence, vol. VI, pp. 397-400.

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scontro una continua espansione della base monetaria, in modo da evitare fenomeni deflattivi che potrebbero ritardare o arrestare la crescita stessa!18. La conclusione raggiunta nell’ Institute è perciò, che «quanto al rapporto tra moneta e oggetti commerciabili [...] la condizione migliore è che esso rimanga lo stesso in ogni tempo», ma ciò significa appunto che deve essere garantita una graduale espansione del circolante e che essa può essere pilotata attivamente dal governo ogniqualvolta esistano risorse disoccupate!!?,

Sui controlli cui sottoporre le banche, Bentham sembra a prima vista assumere posizioni diverse tra loro in quei medesimi

anni. L’idea che sta alla base di Circulating Annuities, per esempio, è quella di una nazionalizzazione dell'emissione di moneta, o comunque di una progressiva perdita di importanza del credito

privato, schiacciato dalla concorrenza della moneta di Stato. «Perché dovrebbe essere rinnovato lo Statuto della Banca d’Inghilterra? Anzi, perché dovrebbero esistere i banchieri?» gli scrive a caldo l’amico Patrick Colquhoun, quasi a rafforzare gli argomenti del progetto!20. In Sur les prix, invece, Bentham è dell’avviso che le banche locali debbano poter continuare ad emettere moneta in modo da far fronte alle domande di finanziamento degli imprenditori, domande che un organismo centralizzato non saprebbe interpretare e vagliare correttamente. In realtà, dopo aver accarezzato inizialmente l’idea di una completa nazionalizzazione dell'emissione di moneta!?!, egli passa a pensare 118 EW, vol. II, pp. 268-75. 119 Il capitolo E moneta dell’Institute pubblicato da Stark (EW, vol. III, pp. 344-51) dà l'impressione di una sostanziale chiusura rispetto ai lavori precedenti. Tuttavia, le glosse marginali a questo capitolo, datate 18 marzo 1804 e conservate in UCL XVII, 352-53, lasciano pensare a un capitolo molto più lungo (il testo stampato corrisponde solo ai punti 1-8 della facciata A, mentre manca il testo corrispondente allefacciate B, C e D), che si soffermava anche sul ruolo delle banche provinciali e della cartamoneta emessa dal Tesoro. Ad esso allude la lettera di Bentham a Dumont del 22 marzo 1804 (Correspondence, vol. VII,

pp. 262-63). Da notare infine che Bentham si interessa da vicino alle tesi di Thornton, la cui Enguiry into the Nature and Effects of the Paper Credit of Great Britain fu pubblicata nel 1802. Cfr. BPU L, 440-53: «Discussion sur le È monnoie à propos d’un ouvrage d’H. Thornton»; UCL XVII, 75, «Polit[ical] Economy. Paper Money. Thornton», datato 21 marzo 1804. 120 Lettera di P. Colquhoun a J. Bentham, 15 novembre 1799, in Correspondence, vol. VI, pp. 205-206. 121 Cfr. Plan for the Circulation of aNew Species of Paper Currency (1795-96), in EW, vol. II, pp. 155-58.

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a una divisione dei ruoli tra una banca centrale nazionalizzata e banche locali private, se è vero che il progetto di «banconoterendite» e quello di un controllo del credito locale procedono in parallelo. Solo più tardi, nel Constitutional Code, Bentham opterà decisamente per un istituto pubblico dotato del monopolio dell’emissione di moneta!?2, Le misure suggerite hanno comunque il vantaggio ulteriore di ridurre i rischi di bancarotta, per Bentham potenzialmente elevati, ma di fatto abbastanza contenuti, data la notevole razionalità di comportamento dei banchieri e degli imprenditori. Solo shocks esogeni sembrano in grado di creare situazioni di panico tali da generare una crisi generale di insolvenza. Il fattore scatenante è anche in questo caso il meccanismo psicologico dell’allarme che spinge i risparmiatori a ritirare i loro depositi presso le banche! 23. Dalla bancarotta generale deriva la crisi di tutte quelle imprese che facevano affidamento sul finanziamento bancario!24. In questo senso, Bentham riconosce al sistema creditizio il ruolo di potenziale fattore scatenante delle crisi economiche. La scienza e l’arte dell'abbondanza

Le ricerche economiche conducono Bentham a confermare la convinzione che, in linea generale, l’obiettivo dell'abbondanza economica è meglio realizzato dalle scelte spontanee degli individui. Come più tardi avrebbe scritto Benjamin Constant, infatti, «il governo, composto di uomini della stessa natura di quelli che governa, non ha più di loro opinioni incontestabili, credenze certe o lumi infallibili»!25: una conclusione che sembra far eco a quella tratta da Bentham nell’Institute of Political Economy: Ciò che spetta al legislatore è preoccuparsi che la comunità segua quel corso di azione che meglio conduce al fine generale proposto, il massimo benessere [...]. Ma [...] non segue che ogni passo fatto in questa direzione debba necessariamente essere il risultato di misure prese da lui stesso a questo scopo. Ciò che lo riguarda è che l’effetto desiderato ab122 Cfr. Works, vol. IX, p. 449, cit. in Dinwiddy 1989, p. 100. 123 BPU L, 48, 201, 281, 298 (EW, vol. III, pp. 66, 158-59).

124 Ivi, 302 (EW, vol. III, pp. 163-64). 125 Constant 1957, p. 803.

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bia luogo, non che debba avere il suo intervento come causa. Se il fine può essere raggiunto senza alcuna interferenza da parte sua, tanto meglio [...]. L'intero corso della legislazione è pur sempre un male, sebbene necessario. 126

Ciò non significa tuttavia che il governo non abbia alcun ruolo. Negli stessi meccanismi impersonali che presiedono allo sviluppo, nei rapporti tra banche e imprenditori, è insita infatti la possibilità del disordine e dell’ingiustizia e questa possibilità è il risultato inintenzionale delle scelte individuali: il male dell’inflazione, scrive il filosofo, «non è fondato su alcun atto di ingiustizia da parte dei suoi autori ir2zzediati, i commercianti e i banchieri. Nessun biasimo zz0ra/e può applicarsi alla loro condotta,

dacché essi agiscono sotto la protezione delle leggi»!27. Né la colpa è degli uomini di governo, ma, per il fatto di essere impersonale e oggettivo, il danno non è meno grave. Inammissibile è invece che il legislatore ignori le leggi dell’economia politica: la loro conoscenza infatti lo inviterà a intervenire per garantire la sicurezza delle aspettative e promuovere la giustizia distributiva. Emerge qui appieno il significato della sottrazione di qualunque valore normativo alle leggi economiche: è proprio perché l’equilibrio del mercato è privato da Bentham di qualunque significato finalistico o provvidenziale che può apparirgli così labile e incerto. Alla politica spetta dunque un ruolo primario, non quello del manipolatore universale, bensì, ma quello del reggitore e controllore di ultima istanza. Lo studio dell’economia politica ha suggerito una limitazione, non la subalter-

nità del governo e delle leggi. 126 Institute, in EW, vol. III, pp. 310-11. 127 BPU L, 49 (EW, vol. III, pp. 66-67).

Capitolo settimo.

SUSSISTENZA

Se il governo non ha il potere di far aumentare la ricchezza per decreto, può tuttavia attuare «quelle misure il cui scopo è circoscritto ad aumentarla in una di queste forme, a spese di una delle altre»!. «Invero — sostiene Bentham —, dal fatto che non è opportuno che una nazione dia un sostegno artificiale a un set-

tore per ottenere ricchezza, non deriva che [questo] possa nondimeno essere [dato] per garantire la sussistenza e la difesa»?. E

in ispecie il primo di questi due obiettivi a preoccuparlo costantemente: assicurare il sostentamento di tutta la popolazione è infatti un compito primario del legislatore, giacché «la pena di morte che ricadrebbe alla fine sull’indigente abbandonato sarà sempre un male più grave del dolore per la delusione delle attese che ricade sul ricco quando gli si tolga una porzione delimitata del proprio superfluo»?. Spetta all'economia politica indicare i modi per farlo. Non si tratta di una posizione semplicemente arretrata dopo le obiezioni dei Fisocrati e di Smith o dell’acritico adagiarsi sulle posizioni dei giuristi classici, che vedevano nella sussistenza un oggetto primario delle sollecitudini del sovrano. Prova ne sia l’affermazione, più volte ripetuta, che la migliore garanzia contro la fame e la povertà è un rapido e spontaneo sviluppo, la crescita delle ricchezze e anche del lusso. Tuttavia, proprio la scienza dell'economia politica rivela la possibilità della crisi, la fondatezza economica della speculazione e dell’accaparramento, il contrasto eventuale tra la logica del profitto e un’allocazione delle 1 Institute, in EW, vol. III, p. 339. 2 Manual, in EW, vol. I, p. 243 nota. ì Principes du Code Civil, in Oeuvres, vol. I, p. 74.

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risorse che possa garantire dal pericolo delle carestie. Peraltro le tecniche agricole del tempo sono ancora assai poco efficaci contro le cattive annate e le epidemie. La maggioranza dei cittadini rischia dunque di cadere nell’indigenza «per accidente, per le rivoluzioni del commercio, le calamità naturali e soprattutto per le malattie»4. L’economia politica, nella incipiente rivoluzione industriale, rivela anche che la disoccupazione tecnologica esiste, che le macchine mangiano gli uomini e che il mercato del lavoro non è abbastanza elastico da assicurare una redistribuzione rapida della forza lavoro tra i diversi impieghi; infine, che non è facile abituare i lavoratori della manifattura ai ritmi della fabbrica. A ciò si aggiungono gli ostacoli frapposti dalle leggi sui poveri elisabettiane ancora in vigore, che obbligano costoro a risiedere nella loro parrocchia e regolano in maniera troppo rigida l’apprendista to?. Le preoccupazioni di Bentham, insomma, sono quelle stesse che ritroviamo nei pubblicisti illuminati e nei filantropi del Settecento inglese, un misto di consapevolezza del nuovo e di opposizione ai vincoli corporativi e di polizia che ne rallentano l’emergere®. La povertà, l’ozio forzato sono pertanto dati strutturali. Donde una distinzione basilare, che fissa la permanenza di ciascuna delle condizioni chiamate in causa: La povertà è la condizione di chiunque sia costretto, per ottenere la sussistenza, a ricorrere al lavoro. L’indigenza è la condizione di colui che, essendo privo di proprietà [...] è al contempo o inabile al lavoro o incapace, anche ir cambio di lavoro, di procurarsi le provviste di cui possa aver bisogno.”

Diverso è il compito del governo nell’uno o nell’altro caso. Certo è che, poiché la carità occasionale non basta, «il legislatore

deve fissare un contributo regolare per i bisogni dell’indigenza». Tanto più che, così facendo, evita anche il pericolo sociale rapPIVImppi 74-72. 5 Works, vol. VIII, p. 400. 6 Cfr. McKendrick 1961; Pollard 1965, cap. 5; Berg 1985, cap. 2. 7? UCL CLIIIa, 21, cit. in Poynter 1969, p. 119.

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presentato da un esercito di nullatenenti in cerca ad ogni costo di quanto è necessario per vivere8.

Controllo dei prezzi e risparmio: l'emancipazione dalla povertà Ma che cosa fare? L’aiuto indiscriminato, la carità sistema-

tica, eliminerebbero la disposizione al lavoro, che dipende dal «bisogno presente e (dal) timore del bisogno futuro»?. Occorre trovare forme di assistenza che non impediscano lo sviluppo. Le strategie proposte da Bentham possono essere raggruppate in tre categorie principali: 4) integrazione e controllo del mercato del lavoro e delle sussistenze; 4) promozione nei poveri di abitudini

provvidenziali e acquisitive; c) assistenza e reclusione degli indigenti, riforma morale dei criminali. Nelle proposte per il controllo del mercato delle sussistenze aleggia l’eco della letteratura classica sulla polizia, seppure filtrata attraverso le acquisizioni dell'economia politica smithiana. Nel monumentale Traité de la police di Nicolas Delamare, commissario dello Chàtelet all’epoca di Luigi XIV!9, ampio spazio è infatti dedicato alla cosiddetta «polizia dei viveri», cioè alla sorveglianza dei mercati urbani acciocché siano regolarmente approvvigionati di tutti i beni necessari alla sussistenza, i prodotti delle campagne si distribuiscano equamente tra le varie città e vengano banditi i monopoli, l'ammasso di merci per speculare sul prezzo, le frodi e le falsificazioni. Il commissario di polizia non deve limitarsi a controllare i prezzi e a reprimere gli illeciti, ma deve anche ricercare, qualora necessario, nuove fonti di approvvigionamento, nonché favorire la produzione agricola e l’accesso dei suoi prodotti alle città!!. Anche nella scienza della legislazione settecentesca, il controllo dall’alto dei mercati dei beni di sussi-

stenza rientra nei compiti prioritari del governo, pur se, rispetto al modello lamariano, non è più oggetto esclusivo dei regolamenti 8 Principes du code pénal, in Oeuvres, vol. I, pp. 198-99; EW, vol. I, p. 267. ° Principes du code civil, in Oeuvres, vol. I, p. 72.

10 Delamare 1710-38. Cfr. Raeff 1975; Hume, L.J. 1981, pp. 33-36. !1 Il tema è sviluppato nella più ampia delle parti scritte dal commissario, il Livre V, Police des vivres. Cfr. Delamare 1710-38, voll. 2-3.

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di polizia, ma diviene scopo della politica in senso più ampio, cioè, della legislazione o dell’«economia dello stato»!2.

Anche il filosofo di Westminster vede per esempio con favore un premio per l'esportazione dei cereali, giacché «promuovendo un’esportazione costante di grano, esso promuove un costante sovrappiù. Col garantirci più del necessario al nostro consumo in annate di prezzi moderati, possiamo avere abbastanza per il nostro consumo quando i prezzi sono elevati. Ed è meglio dipendere da un sovrappiù cresciuto da noi che dall’importazione»!3. Avrà un bel dire James Mill, nel commentare le proposte benthamiane per la sussistenza, che «la libertà di esportazione e importazione» sarebbe una cura di gran lunga più efficace alla scarsità!4. La sicurezza della sussistenza, in un mondo diviso e ancora relativamente povero, non può, per Bentham, aspettare

l’aurora del libero scambio e della pur auspicata pace perpetua!5: essa è anche una questione politica e militare e come tale deve essere considerata. Lo stesso approccio è alla base della proposta dei granai pubblici: «se la sussistenza venisse assicurata coll’immagazzinamento, il paese potrebbe dipendere senza inconvenienti da una nazione straniera per il proprio approvvigionamento. L'Olanda, che non coltiva grano, soffre di carestie tanto poco quanto l’Inghilterra che ne coltiva in abbondanza». AI di là di queste misure, che attenuano gli effetti delle oscillazioni stagionali, ben poco altro si può fare per migliorare la condizione di vita dei poveri. Bentham è peraltro contrario alla

fissazione per legge di un salario minimo!”, che rischia di mettere in moto quello che Hayek battezzerà «effetto Ricardo»: «Contro la fissazione dei salari per prevenire la loro insufficienza — egli scrive — insorge [...] questa obiezione: che in tal modo si esclu12 Catherine II 1971, pp. 295-99; Bielfeld 1763-72, I.x, spec. a pp. 124-41. In Blackstone la «polizia edeconomia», sebbene comprenda molte delle mansioni economiche contemplate dai suoi predecessori, tende a concentrarsi piuttosto sulla cura del buon ordine. Cfr. Blackstone 1765-68, 1. IV, p. 162. 13 Manual, in EW, vol. I, pp. 265-67. 14 BPU L, 23. Cfr. Des récompenses, in Oeuvres, vol. II, p. 236; Guidi 1985, . 145.

Ù 15 Bentham scrive un Plan of Universal and Perpetual Peace, di cui ci restano frammenti in UCL XXV, 26-35, 59, 119-23. 16 Manual, in EW, vol. I, p. 268. Cfr. Institute, in EW, vol. III, p. 339. 17 Questa era stata proposta da S. Whitbread. Cfr. Poynter 1969, p. 121.

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dono dall'impiego molte persone che avrebbero altrimenti potuto ottenerlo»!8. È però possibile imporre un calmiere dei prezzi ai beni di sussistenza, come molti teorici sei-settecenteschi avevano credu-

to?!° I Fisiocrati e Smith avevano bensì dimostrato che simili provvedimenti erano controproducenti29, ma, alla fine del Settecento, ripetute carestie ponevano di nuovo in termini urgenti

la questione. E se Burke si dichiarava entusiastico seguace di Smith, scrivendo che «provvedere alle nostre necessità non rientra nei poteri del governo»?!, molti economisti e pamphlettisti si riallacciavano alle tesi «regolatrici» degli autori precedenti. Arthur Young, l’amico di Bentham, era persuaso che il potere politico potesse fare molto per prevenire annate di scarsità: «Che insulto al senso comune è udire che il raccolto è stato inferiore di così poco che le misure proposte vengono respinte per questa ra-

gione; come se un prezzo al di là delle facoltà dei poveri non fosse un motivo sufficiente per tendere ogni nervo a porvi rimedio»?2. E, invertendo il ragionamento fisiocratico, aggiungeva: «abbiamo una prova evidente che un prezzo alto non è un incoraggiamento sufficiente ad allargare la produzione oltre una certa scala»?3. Molti scrittori seguivano ancora Nathaniel Forster e James Anderson nel valutare positivamente le Com Laws, che consideravano uno strumento a favore di una sicura sussistenza: criticando

Smith per aver «generalizzato e spinto troppo lontano i suoi principi sul commercio, nell’applicarli all'agricoltura», l'anonimo autore del pamphlet intitolato Com Trade invocava in questo campo «il braccio della regolazione e del controllo, in contrasto con il principio generale del libero commercio»?4. La tesi tudoriana dei limiti morali del diritto di proprietà dell’agricoltore veniva infine 18 Works, vol. VIII, p. 442. Cfr. Hollander 1979a, pp. 303 sgg. 19 Cfr. Appleby 1983, pp. 32-35; Bielfeld 1763-72, vol. 1, pp. 124-25; Blackstone 1765-68, IV.x1, spec. pp. 156-60. 20 Hont-Igniatieff 1983. 21 Burke 1800, p. 2. 22 A. Young, The Question of Scarcity Stated, and Remedies Considered. With Observations on Permanent Measures to Keep Wheat at a more Regular Price, Macmillan, London 1800, p. 7.

23 Ivi, p. 67.

24 Corn Trade. An Examination of Certain Commercial Principles in their Application to Agriculture and the Corn Trade, as laid down in the Fourth Book of Mr. Adam Smith's Treatise on the Wealth of Nations..., John Stockdale, London 1800, pp.12, 16, 18-19. Cfr. Forster 1767; Anderson 1777.

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invocata — assieme all’argomentario dei diritti naturali — da un altro pamphlettista, che chiedeva leggi per regolare il prezzo del grano e la restaurazione degli antichi decreti contro la speculazione: «L’agricoltore — egli scriveva —, più di coloro che sono occupati in altre attività, è al servizio del pubblico, dacché la sua attività consiste nel coltivare e produrre i frutti della terra, nei quali abbiamo tutti un diritto innato e imprescrittibile: un diritto superiore a tutte le istituzioni umane, perché viene da Dio»??. Bentham è molto meno sicuro di sé: come Smith, egli crede che qualunque misura a favore di un ribasso dei prezzi delle sussistenze provochi una riduzione del salario monetario, lasciando invariati i salari reali. Qualcosa può essere tuttavia fatto per difendere il potere d’acquisto dei poveri da sbalzi di breve periodo dei prezzi, dovuti a carestie, guerre o fenomeni speculativi. E ciò che egli propone in uno scritto del 1801, la già menzionata Defence of a Maximum. Niente a che veder con il maximum giacobino, che funge semmai da termine di confronto negativo: il calmiere suggerito da Bentham serve solo a impedire l’insorgere di prezzi speculativi26. Rimane invece compito delle leggi dello scambio determinare il prezzo corrente, assicurare un razionamento efficace della merce, infine garantire un saggio di profitto tale da attrarre capitali sufficienti verso la produzione agricola.

Punendo la speculazione, il m2axî7247 non si propone di sottrarre spazio al mercato, ma di perfezionarlo. Vengono premiati i capitalisti produttivi e la produzione, mentre si elimina il parassitismo che sfrutta ogni posizione di monopolio per succhiare rendite immotivate. E dubbio che i meccanismi proposti da Bentham avessero qualche possibilità di funzionare, ma resta il fatto che l’intervento a favore della sussistenza viene questa volta presentato nelle vesti di un provvedimento ultraliberista27. La proposta di un r425 Reflections on the Justice, Advantage and Necessity of Limiting, within a Certain Compass, the Price of Wheat, by Legislative Authority... by the Author of Dearness of Provisions..., Dawson & co., Oxford s.d. (1801), p. 18. 26 Defence of aMaximum, in EW, vol. III, p. 293. 27 Sul maximum come provvedimento ultraliberista cfr. J.-M. Servet, Existe-til une pensée économique sous la Révolution, in Servet 1989, pp. 23-25. Cfr. anche M. Dorigny, Les Girondins et le droit de propriété, «Bulletin d’histoire économique et sociale de la Révolution Frangaise», a. 1980-81, pp. 15-31; id., Recherches sur les idées économiques des Girondins, in Actes du Colloque Girondins et Montagnards, Société des Etudes Robespierristes, Paris 1980.

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ximum getta così una luce ambigua e al contempo chiarificatrice sull'economia politica benthamiana: intrisa della cultura politica assolutistica, essa se ne distacca per la piena acquisizione degli argomenti smithiani, ma non al punto di negare legittimità a ogni forma di intervento diretto in favore della sussistenza. A giustificare quest’ultimo, del resto, al di là della consapevolezza della gravità e permanenza del problema della povertà, interviene non già l’antica riflessione sui doveri del re-pastore nei confronti del suo gregge, ma, da un lato, l’assunzione rifondatrice della felicità generale, che mostra come l’ottica del benessere non sempre coincida con quella dello sviluppo, dall’altra l'innovativa considerazione dei limiti entro cui le regole del mercato possono garantire risultati socialmente efficienti. E dunque proprio il principio di utilità, unito ai risultati della scienza dell'economia politica, a imporre una riconsiderazione positiva del messaggio interventista contenuto nella scienza della legislazione classica?8. Per combattere poi le rigidità del mercato del lavoro, Bentham suggerisce la soppressione di qualunque vincolo legale alla mobilità interna della popolazione, l’istituzione di «locande di frugalità» pubbliche a prezzi contenuti, per l'alloggio dei poveri in viaggio per cercare lavoro, infine una rete di uffici di collocamento, dotati di appositi strumenti di raccolta dei dati e di propaganda (le «gazzette degli impieghi») e di incentivi per attrarre l'interesse dei manifattori in cerca di manodopera??. Bentham finisce anche per accettare i piani formulati da mol-

ti suoi contemporanei per favorire la volontaria emigrazione di lavoratori verso le colonie. E evidente che il suo parere è in parte mutato rispetto agli anni Ottanta: dall’idea che la decolonizzazione non creerebbe problemi alla forza-lavoro e al capitale defluenti verso la madrepatria, egli giunge a vedere le colonie come un rimedio contro lo spettro della sovrappopolazione e la pletora di capitali. Le posizioni anti-colonialiste e pacifiste cedono allora il passo ad argomenti di crudo sapore imperialistico in favore della «colonizzazione sistematica», nei quali si cercherebbe invano una qualche ironia: 28 Bahmueller 1981, pp. 101-103. 29 Works, vol. VIII, pp. 398-99. Cfr. E. Hobsbawm, Gli artigiani migranti, in Studi di storia del movimento operaio. Classi lavoratrici e rivoluzione industriale nell’Inghilterra del secolo XIX, Einaudi, Torino 1972, pp. 42-75.

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La ricompensa per la spesa sostenuta è una scena dal Paradiso perduto — una prospettiva simile a quella che l'Angelo additò ad Adamo: uomini della migliore stoffa che si spandono in climi distanti, lungo epoche lontane, la terra coperta di popolazione britannica, ricca della ricchezza britannica, tranquilla grazie alla sicurezza britannica, frutto del diritto britannico.3°

A ragione Lea Boralevi ha scritto che, mentre Bentham rimane un rigido avversario della subordinazione delle colonie che sono abitate da popolazioni di origine europea, non è invece avverso a nuove strategie di colonizzazione, qualora siano orientate,

come nel caso dell’India, verso civiltà considerate più arretrate3!. La seconda strategia, quella della mobilitazione degli istinti acquisitivi, scaturisce dalla convinzione che, in condizioni ordinarie, il salario non è fissato al livello della semplice sussistenza,

ma comprende anche una quota che può essere accantonata e servire a far fronte alle malattie e alla vecchiaia??. «Sfortunatamente — sottolinea però Bentham — la maggior parte dei lavoratori, in ispecie quelli meglio pagati, sono imprevidenti. La previdenza può essere resa pi?) generale tramite agevolazioni appropriate [...], ma l’uomo dovrebbe essere rinnovato, prima che pos-

sa venir resa universale»??. Nonostante questo scetticismo, il filosofo di Westminster attribuisce al risparmio poteri taumaturgici, la capacità di creare l’uomo nuovo, il povero che sa badare a sé stesso. La frugalità, in se stessa una virtù, è l’ausiliaria di ogni altra: e di nessuna più che della gererosità, che pure una mente irriflessiva potrebbe considerare come la sua rivale. Il sacrificio del presente al futuro è la base comune di tutte le virtù e la frugalità è tra gli esempi più difficili e costanti di questo sacrificio. Importante in tutte le classi, lo è particolarmente in quelle che più abbondano di menti incolte. In queste, promuovere la frugalità significa promuovere la sobrietà, piegare quel vizio 30 Defence of a Maximum, in EW, vol. III, p. 302. Questa posizione ritorna in un manoscritto del 1831 ca, intitolato Colonization Society Proposal, cit. in

Kelly 1979, p. 62 nota. Cfr. Great Britain and the Colonies 1815-1865, a cura di A.G.L. Shaw, Methuen & Co., London 1970.

31 Campos Boralevi 1984, pp. 128-35. Cfr. Winch 1965, cap. III. 32 UCL XXXII, 127.

33 Works, vol. VIII, p. 367.

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furibondo che, in tempi di pace sorpassa tutte le altre cause morali di infelicità messe assieme. Nelle prospettive aperte dalla frugalità, la moglie e i figli hanno da guadagnare la parte principale: essi non ricavano nient'altro che vessazioni e dolori dal denaro speso alla mescita di gin o alla birreria. In rapporto al prodigo, il più incallito degli avari è un uomo virtuoso.34

Si tratta allora di stimolare in ogni modo la propensione al risparmio, di educare l'immaginazione popolare attraverso una serie di accorgimenti che la catturino e la spingano a poco a poco nella direzione della previdenza. A questo scopo Bentham propone — oltre alle già menzionate annuity notes — l’istituzione di una rete capillare di Banche di Frugalità, una sorta di casse di risparmio il cui scopo è attrarre piccoli depositi, in cambio di un modesto interesse?5. Egli, tra l’altro, intravede con chiarezza

come un diffuso piccolo risparmio significhi un accresciuto consenso sociale e politico, giacché il «piccolo interesse monetario» trae vantaggio dalla sicurezza della proprietà privata, dall’ordine e dalla stabilità «della costituzione e del governo»?5. Anche le lotterie, oltre che assicurare un sicuro introito fi-

scale, possono servire allo scopo: tra le molte «difese» redatte, Bentham produrrà anche una Defence of Lotteries, per dimostrare come, se gestite soltanto dalla mano pubblica, esse possono risvegliare il gusto per l’accumulazione, stimolando indirettamente anche il risparmio e la previdenza?”. Ma che cosa significa affidare al risparmio il compito di emancipare i poveri dalla loro condizione di precarietà? Significa affidare le loro sorti alla funzione regolatrice e disciplinatrice del 34 EW, vol. II, p. 295 nota.

35 Works, vol. VIII, pp. 407, 409-10. Sul ruolo educativo e disciplinatore delle «banche di risparmio» un fitto dibattito e un fervore di attività si sviluppò in breve tempo all’interno della cerchia benthamiana. Ricardo, per esempio, ne era accanito sostenitore. Cfr. Lettera di D. Ricardo e H. Trower, 9 marzo 1816, in Ricardo 1951-52, vol. VII, p. 26. 36 Circulating Annuities, in EW, vol. II, p. 296. Bentham propone anche un alessia deibanchi di pegno. Cfr. A Plan for the Augmentation of the Revenue, ivi, pp. 121-25.

37 Defence of Lotteries as they might be ordered: with a plan for ordering them, UCL CLXVI, 40. Il manoscritto contiene solo uno schema dettagliato di questo saggio. Un abbozzo di introduzione è contenuto in UCL CLXVI, 168. Bentham doveva però aver scritto qualcosa di più corposo, di cui rimane testimonianza se traduzione francese di Dumont. Cfr. BPU LI, 54-67. Cfr. anche EW, vol.

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movente pecuniario, il movente calcolatore e razionale per eccellenza. Sebbene non sotto forma di ricerca del profitto, anche ai poveri questo movente è accessibile nella moderna società commerciale e industriale. Con la sua caratteristica attitudine visionaria, presentando il progetto di «banconote-rendite», Bentham illustra l’essenza del suo progetto: Ogni povero potrebbe essere il banchiere di se stesso, potrebbe, accantonando la sua piccola riserva in questo modo, ricavare dei profitti di banchiere dalla propria moneta. Ogni casolare di campagna, ogni piccolo appartamento di città diverrebbe [...] una Banca di Frugalità38

Ciò non significa, però, trasformare i poveri in borghesi, bensì stimolare quei moventi acquisitivi che — come già aveva scritto nell’Introduction to the Principles of Morals and Legislation — sono legati all’industriosità (industry) e all’«occupazione abituale», cioè al lavoro dipendente??. Non sarebbe dunque corretto affermare, con Marx, che Bentham vede nel comportamento delle classi medie un modello per l’essere umano in generale40: l’esemplarità è semmai nel movente pecuniario, che pertiene però al lavoro salariato tanto quanto al capitale. Né questo movente rappresenta la perfezione dell’umanità. Esso è semmai una via realistica verso le virtù superiori, verso la generosità e la benevolenza.

Far lavorare e punire

Le strategie finora esaminate possono per Bentham lenire la povertà, ma non eliminare l’indigenza, l’esistenza cioè di masse di disoccupati, abili e inabili, che non hanno di che vivere. E se

questi fenomeni strutturali non possono essere evitati, il governo ha però il dovere di intervenire non solo per garantire il sostentamento degli indigenti, ma anche per metterli in grado di tornare sul mercato del lavoro, riducendo al minimo i guasti dell’inattività. 38 EW, vol. II, p. 295 nota.

39 IPML,, pp. 58, 105.

40 K. Marx, L’Ideologia Tedesca, in Marx-Engels 1972-, vol. V, pp. 426-28.

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La soluzione prospettata da Bentham è quella di una rete di Case d’industria (Industry Houses) organizzate secondo il modello del Panopticon. L'architettura e il modulo organizzativo panottico, in effetti, vengono fin dall’inizio presentati come adatti anche a scuole, manifatture, ospedali e altri stabilimenti collettivi41. Comune a tutte queste strutture è infatti l’intento di educare e disciplinare, e comune almeno a prigioni e case di lavoro è anche l’oggetto delle cure: una popolazione disordinata e riottosa, resa criminale dalla fame e dall’ignoranza, incapace di provvedere a sé anche qualora si prospettasse l’eventualità di un impiego. Così, se il fine del carcere panottico è la «riforma morale» del carcerato, il fine delle case d’industria è rieducare l’indigente, stimolandone le virtù sociali, la frugalità e l’operosità.

Niente meglio dell’analogia coniata da Philarète Chasles, sedicente frequentatore del filosofo, potrebbe descrivere la natura del Panottico e il ruolo del carceriere-Bentham: Una specie di alveare trasparente dove ciascuno dei malati morali aveva la sua loggia separata: egli doveva collocarsi in mezzo a tutti loro, esaminare da questo punto centrale gli atti di ciascuno, predicare a questa confraternita, darle un lavoro, toglierle ogni mezzo per nuocere, nutrirla, vestirla e rifornirla di scarpe. Poi, dopo averla convinta, a metà per forza e a metà con i suoi argomenti, che tutto era fatto per il suo bene, sperava di aprirle le porte e rendere alla società una truppa perfettamente convertita.4?

La voce di un osservatore esterno evoca di nuovo l’immagine dell’alveare: questa volta però non per richiamare l’idea di una comunità autosufficiente, nella cui vita l’apicoltore non deve interferire, ma piuttosto quella di un universo chiuso, minuziosamente plasmato da un’ape regina onnipotente. La strategia di recupero degli indigenti e dei criminali appare come un mondo alla rovescia: non quello prospettato dall'economia politica, in cui ciascuno è il miglior giudice dei propri interessi e il miglior strumento della felicità collettiva, ma quello di un’assoluta sottomissione alle decisioni di uno solo, per il presunto bene di chi è sottomesso. 41 Panopticon, or the Inspection House, in Works, vol. IV, pp. 60-62. 42 Chasles 1973, p. 165.

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A questo ammonta il piano per i poveri proposto da Bentham nel Pauper Management Improved (1797-98). L’istituzione delle Case d’industria avrebbe dovuto essere accompagnata dalla soppressione di ogni forma di assistenza a domicilio e dall’unificazione e centralizzazione del sistema assistenziale. Il progetto prevedeva inoltre la reclusione forzata dei mendicanti e l’obbligo del lavoro per tutti gli internati in grado di svolgerlo (questa stessa clausola vigeva anche nelle carceri panottiche). La reclusione, peraltro, doveva considerarsi temporanea ed essere associata ad uno sforzo volto a ricercare un nuovo impiego, il che Bentham credeva potersi verificare in tempi assai rapidi, settimane o mesi43. Gli scopi educativi e disciplinari venivano inoltre assicurati da una serie di regole. La prima consisteva nel «principio di nonpreferibilità» o di «severità», secondo cui la condizione del recluso doveva essere comunque inferiore a quella dell’ultimo povero libero, in modo da evitare l’interferenza tra il mercato del lavoro e l’assistenza. Proprio questa idea — si ricordi — sarà alla base del Poor Amendment Act del 1834, e contribuirà a decretarne il triste successo*4. Il secondo principio era quello «dell’ispezione», la continua sorveglianza del recluso nell’architettura panottica, che garantiva — grazie alla circolarità e all’illuminazione — la perfetta trasparenza di ogni cella allo sguardo del sorvegliante. Questi si trovava in una torre centrale, provvista di persiane che gli consentissero di vedere senza essere visto4?. Una rete di tubi permetteva inoltre sia l'ascolto del recluso che l’am-

monimento diretto. Infine, a stimolare l’operosità del carcerato intervenivano vari meccanismi non coercitivi, come l’istituzione

di un servizio interno di risparmio e soprattutto il «principio di auto-liberazione», stipulato per contratto all’atto dell’interna43 Outline of a Work Entitled Pauper Management Improved, in Works, vol. VIII, pp. 369, 401-402. 44 Alcuni studiosi hanno accentuato soprattutto le differenze tra progetto benthamiano e legge del 1834. Cfr. Himmelfarb 1970, pp. 121 sgg. Altri han-

no invece sottolineato importanti coincidenze. Cfr. Campos Boralevi 1984, pp.

102-3; Rusche-Kircheimer 1978, pp. 165 sgg.; E.W. Martin, From Parish to Union. Poor Law Administration 1601-1865, in Comparative Development in Social

rane a cura di E.W. Martin, Allen & Unwin, London 1972, p. 47. Circa l’influenza di Bentham sulle strutture dell’amministrazione britannica dell’Ottocento, cfr. Macdonagh 1958; Roberts 1959; Hart, J. 1965; Hume, L.J. 1967. 45 Cfr. Evans 1971, p. 26; Cooper 1981; Rodman 1968.

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mento, in virtù del quale l’indigente si impegnava a non abbandonare l’ospizio prima di aver ripagato, con il proprio lavoro, i costi complessivi di intrattenimento6. Il lavoro, peraltro, non doveva essere concepito come punizione, nemmeno quando fosse imposto ai detenuti delle prigioni. Al contrario esso veniva presentato come sollievo dalla disciplina della cella e dalla sofferenza per la privazione della libertà e la sua appetibilità era aumentata da un sistema di incentivi e ricompense. Dare del lavoro un’immagine negativa, sottolineava Bentham, è il peggiore errore che possa compiere chi abbia a cuore la riforma morale del carcerato e dell’indigente*?. Queste regole imposte al recluso avrebbero dovuto consentirgli di mantenere intatta la disciplina e l’esercizio necessari a conservare la propria capacità lavorativa o a recuperarla, qualora un periodo di ozio forzato lo avesse già reso pigro e inefficiente. L’istruzione e in particolare quella professionale dovevano inoltre fornire ai disoccupati le specializzazioni che più erano richieste su un mercato in rapida evoluzione*8. L'obiettivo di entrambi i Panottici ha perciò un contenuto sociale determinato: quello di creare e mantenere una forza lavoro disciplinata al ritmo di lavoro della fabbrica, anzi sempre più capace di autodisciplinarsi grazie, ancora una volta, alla motivazione pecuniaria, suggerita attraverso la simulazione delle regole di un mercato del lavoro che premia lo sforzo con maggiore salario e il risparmio con maggiore benessere9. Infine, l’amministrazione delle Case d’industria, come anche delle carceri, doveva essere affidata in appalto a privati, o meglio a una Compagnia modellata su quella delle Indie Orientali: la National Charity Company?®. Questa società aveva il compito di 46 Works, vol. VIII, pp. 398-400, 402-4. 47 Oeuvres, vol. I,E 257; Postscript (1791) al Panopticon, in Works, vol. IV,

p. 144. L'attenzione alle ricompense è già presente in A View of the Hard Labour

Bill (1778), ivi, p. 13.

48 Works, vol. VIII, pp. 395-96. 49 Cfr. M. Pavarini, I/ penitenziario come modello della società ideale, in D.

Melossi, M. Pavarini, Carcere e fabbrica. Alle origini del sistema penitenziario, Il Mulino, Bologna 1982, pp. 201-2. 50 Works, vol. VIII,

p. 369. Si ricordi la proposta di J. Child di una analoga

compagnia chiamata «bacioni of the Poor». Cfr. D. Marshall, The English Poor in the Eighteenth Century. A Study in Social and Administrative History, Routledge and Kegan Paul, London 1969, pp. 42 sgg.

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gestire l’intera struttura come una gigantesca azienda produttiva, con lo scopo di minimizzare i costi e ricavare un profitto dal lavoro dei reclusi. L’opzione per una gestione privata — che, sulla base di una triste catena di esempi, taluni hanno interpretato come un invito a lucrare sulla pelle dei reclusi! — è in realtà pensata da Bentham come il miglior modo per «identificare l’interesse dei prigionieri e del loro governatore», giacché se la regola dell’umanità venisse violata, anche l’economicità dell'impresa finirebbe per soffrirne?2. Il candore di questa riflessione non può essere frettolosamente stigmatizzato: deve invece farci riflettere sul fascino discreto che l’interesse pecuniario esercita su tutta la visione di Bentham??. Ciò che assicura che gli educatori siano a loro volta educati’, insomma, è proprio il movente economico, l’autoedu-

cazione che deriva dalla ricerca del profitto. Al legislatore è affidato semmai il compito di porre in atto quei vincoli che ne impediscano il degenerare: la «tassa sui morti» imposta ai carcerieri e la pubblicità della loro attività ne sono due esempi??. Simili misure realizzano il «principio della congiunzione dell’interesse e del dovere», che tanta parte dovrà giocare nel Corstitutional Code?®. È noto che Michel Foucault ha assunto il Panopticon benthamiano a modello di una visione politica paternalistica e totalitaria che accompagna tutta la cultura liberale moderna, facendo della società individualistica inevitabilmente anche una «società carcerale». Bahmueller ha poi sottolineato come anche la proposta della «Compagnia nazionale di Carità» rievochi questa ideo51 Cfr. Cooper, R.A. 1981, p. 678. 52 Oeuvres, vol. I, p. 254; Postscript al Panopticon, in Works, vol. IV, p. 124. Questo aspetto è messo in evidenza da Campos Boralevi (1984, pp. 102-3), e da D'Alessandro (1981, pp. 106-8). 53 Gli anni dell’economia politica ne segnano anzi l’apogeo: è allora che Bentham difende la superiorità dell’appalto sulla gestione burocratica e loda persino la venalità delle cariche. Cfr. Des récompenses, in Oeuvres, vol. II, pp. 183-87. 54 La questione è posta da M. Foucault, L’occhio del potere, in FoucaultPerrot 1983, pp. 20-21. 55 Oeuvres, vol. I, pp. 254-55. Cfr. Works, vol. VIII, p. 402. D'Alessandro (1981, pp. 106-7) mette in evidenza come il meccanismo della «tassa sui morti» sia modellato su quello delle assicurazioni per la vita. 56 Cfr. A View of the Hard Labour Bill, in Works, vol. IV, p. 12; ivi, vol. II, p. 209; Harrison 1983, p. 121.

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logia repressiva e manipolatrice. Non sono infine mancati coloro che hanno visto proprio nelle strutture panottiche l’inveramento della concezione politica di Bentham, pronta a immolare una minoranza ribelle sull'altare del benessere collettivo?”. Che una simile proposta sia totalitaria nella sua essenza non vi possono essere dubbi, come non ve ne sono sul fatto che tanto Bentham quanto i suoi contemporanei, significativamente, la vedessero piuttosto come una modernizzazione filantropica del sistema penale e assistenziale esistente. Né può confortare il pensiero che si trattasse di una soluzione realistica, in un mondo in piena urbanizzazione e industrializzazione, percorso da eserciti di affamati e di sbandati?8. Sarebbe semmai necessario spiegare come il Panottico possa convivere, apparentemente senza con-

flitto, con una visione politica che, dappertutto altrove, esalta il valore delle decisioni individuali e contiene messaggi radicalmente antistatalistici. Troppo semplice è invocare il collettivismo implicito nel principio di utilità, dato che Bentham, lo abbiamo visto, compie lo sforzo sistematico di recuperare alla sua visione tutta la portata individualistica delle teorie dei diritti naturali. Se il principio di utilità ha qualche responsabilità è casomai per l’idea di natura umana che esso implica, una natura semplice e, nelle sue linee fondamentali, trasparente allo sguardo di ogni osservatore avveduto: una natura invariabilmente dominata dalla ricerca del piacere e dalla fuga dal dolore. E per questo che Bentham può conciliare utilitarismo e individualismo finché fa riferimento a individui normali, autosufficienti, capaci di agire nel proprio interesse almeno entro un quadro di leggi certe, mentre quando vede in una massa come quella degli indigenti solo comportamenti irrazionali e dissoluti, non esita a concludere che compito del governo è spingere costoro, «a metà per forza e a metà con buoni argomenti», a mutare i propri istinti, a calcolare correttamente il piacere e il dolore. Per il loro bene, naturalmente. E perché, in fondo, essi sono fatti proprio così. Se nell’interesse pecuniario può individuarsi il simmetrico 57 Foucault 1975, pp. 201-19. M. Perrot, L’ispettore Benthar, in FoucaultPerrot 1983, p. 113; Bahmueller 1981, p. 110; Himmelfarb 1968, pp. 76-77; Rodman 1968, p. 204; Zanuso 1989, p. 263; Cot 1989. Annette vede nel Pano-

pticon il mezzo per ridurre il lavoratore a strumento del capitale. Cfr. Annette 1979.

58 Campos Boralevi 1984, pp. 100-6.

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più compiuto e praticabile del calcolo utilitario, nella dissolutezza degli indigenti, nel loro vivere ora per ora e nel loro lasciarsi andare, si fa strada l’ostacolo più oscuro e temibile alla desiderata riforma dei costumi e della politica. Come nel grido d’allarme contro le passioni, come nella inflessibile opposizione al linguaggio «anarchico» dei diritti, anche l’ossessiva minuzia con la quale Bentham espone i dettagli del «principio di ispezione» rivela quanto l’olimpica e filantropica filosofia dell’utilità riposi su un progetto di razionalizzazione delle coscienze che, in fondo, appare difficile, forse irrealizzabile, e domanda talvolta un atto di forza per sottomettere l’Irriducibile. E per questo che il Panopticon getta una luce sinistra su tutta la visione politica di Bentham.

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CONCLUSIONI

Sull’onda di una serie di eventi che avevano mostrato ai suoi occhi la corruzione e la gelosia di potere del ceto politico dominante, nonché sospinto dalle esortazioni dell'amico James Mill, Bentham approda attorno al 1808 a posizioni democratiche, proponendo una riforma del sistema parlamentare basata sulla «virtuale universalità del suffragio», sulla libertà di voto garantita dalla segretezza dell’urna e sulla durata annuale dei parlamenti!. Solo questo sistema rappresentativo, che attribuisce la sovranità al popolo e un «potere onnicomprensivo» all'autorità legislativa elettiva, avrebbe permesso di identificare l'interesse dei governanti con quello dei governati, dato che i primi sarebbero stati sottomessi alla prova del voto: sarebbe stato così eliminato ogni «interesse sinistro» e ogni forma di inefficienza della pubblica amministrazione da esso derivante?. E stato spesso fatto notare — invero fin dalle obiezioni del whig Macaulay ai progetti di Bentham e Mill — che, nell’entusiasmo per la democrazia rappresentativa, l’eremita di Westminster avrebbe trascurato di dare risposte persuasive al classico problema della tirannia delle maggioranze: un sistema democratico a suffragio universale, nel XIX secolo, avrebbe conferito una maggioranza schiacciante alle masse di non proprietari e di illetterati, che sarebbero naturalmente stati tentati di sovvertire la distribuzione della proprietà a loro vantaggio?. Invero, un esame isolato dei testi dedicati alla riforma parlamentare sembrerebbe suf1 Plan of Parliamentary Reform (1809), in Works, vol. III, p. 452. Cfr. Dinwiddy 1975, Rosen 1983, cap. III. 2 Official Aptitude Maximised, Expense Minimised, in Works, vol. V, pp. 27475. Cfr. Hume, L.J. 1981, pp. 189-90; James 1981. 3 Lively-Rees 1979, pp. 41-43.

197

fragare la tesi che Bentham si sia limitato‘a sperare nei progressi della ragione e dell’interesse ben inteso. Risulta allora evidente il vantaggio di leggere la svolta democratica alla luce del lavoro sulla legislazione e l’economia politica,

cui il filosofo aveva dedicato il primo sessantennio della sua lunga vita. Come si è visto, infatti, pur con qualche modificazione significativa, la teoria dei fini del governo viene ribadita anche negli scritti più tardi, non solo nei suoi aspetti prettamente normativi, ma anche in quel corredo di psicologia sociale e di analisi economica che vi si accompagna: in questa luce, l’idea di una distribuzione egualitaria si dimostra di fatto impossibile, giacché essa distruggerebbe l'ottimismo degli agenti sociali e quindi scoraggerebbe l’industria, eliminando in breve tempo i vantaggi del vivere associato. Non è casuale che il «principio di non-delusione» venga elaborato proprio in questi anni*. La superiorità del sistema rappresentativo sulla democrazia diretta risiede proprio qui, per Bentham: esso funge da ammortizzatore delle decisioni, rendendo responsabili di fronte al popolo gli eventuali sostenitori di redistribuzioni dissennate, quando gli effetti negativi delle loro risoluzioni si saranno ormai fatti sentire’. In queste circostanze, chi mai rischierebbe? Un passo di Radicalism not Dangerous (1819-20), dedicato espressamente a questo tema, va anche oltre, evocando l’analisi

delle scelte imprenditoriali e dell’equilibrio economico, a proposito del caso di un’eventuale riforma agrarias. In seguito a una redistribuzione tra i contadini poveri, la terra cadrebbe in mani inesperte; ora, poiché l'abbondanza dipende non solo dal «potere» di fare conferito dalla proprietà, ma soprattutto dall’inclinazione e dalle conoscenze, ciò condurrebbe all’immediata riduzione della produttività della terra. Ma così il reddito personale agricolo cadrebbe al di sotto del saggio di salario, causando una fuga dal podere verso l’occupazione dipendente. Se il legislatore democratico riflette a tempo su queste connessioni, il rischio della tirannia delle maggioranze sarà evitato. 4 Cfr. Rosen 1983, p. 105. ? Cfr. ivi, p. 52. Questo aspetto venne evidenziato da John Stuart Mill, che sostenne che la teoria benthamiana della democrazia è fondata sulla nozione di «responsabilità». Cfr. Mill, J.S. 1962, pp. 112-13. 6 Works, vol. III, p. 606.

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Più elastico sembra invece il filosofo nel valutare la proposta

di un consolidamento del debito pubblico, sollevata nei banchetti radicali di quegli anni e grandemente temuta da tutto il blocco politico dominante. E vero — egli scrive — che, per l'ammontare di questo debito, un’egual proporzione dei diritti di proprietà in questa forma sarebbe sovvertita, ma la proprietà in tutte le altre forme rimarrebbe intatta, qualunque altro effetto questo provvedimento avesse. Si noti bene che l’accusa è di mirare non al sovvertimento di «diritti di proprietà», cioè di alcuni diritti di proprietà, ma «dei diritti di proprietà», cioè di tutti i diritti di proprietà [...]. Si noti altresì che non vi sarebbe nessuna defalcazione della massa aggregata della proprietà del paese, anche se non si avrebbe nemmeno un’aggiunta.”

Il vantaggio dell'operazione, certamente da considerarsi straordinaria, è quello di «eliminare un fardello di egual proporzione, una deduzione equivalente dalla proprietà in tutte le altre forme: la deduzione esercitata dalle tasse»8. Riemerge qui la stessa posizione radicale — per la quale il diritto di proprietà non è sacro — che Bentham aveva espresso nel 1789 a proposito della nazionalizzazione dei beni del clero: vi sono misure che, senza scatenare la paura e l’inerzia degli operatori economici, possono

risolvere situazioni di disagio sentite da tutti. Un governo democratico è dunque, certamente, un governo in favore degli interessi delle maggioranze. Tuttavia, le regole stesse del vivere sociale impongono limiti severi alla promozione di questi interessi. Ma vi è anche una relazione di segno opposto tra le riflessioni sulla democrazia e quelle sull'economia politica. Scritti benthamiani come Rid Yourselves of Ultramaria! (1820), nuova versione

di Emancipate your Colonies! ad uso delle Cortes spagnole, così come le Observations on the Restrictive and Probibitory Commercial System (1821) e Paper Money for Spain, fanno proprio della ? Ivi, p. 608. 8 Ivi, p. 609. Da notare che, negli stessi anni, Ricardo proponeva una tassa sul capitale una tantum per risolvere il problema del disavanzo. Non a caso si è voluto vedere proprio in questa proposta il segno del «radicalismo» ricardiano. Cfr. Hollander 1979a, p. 593; B. Gordon, Political Economy in Parliament 18191823, Macmillan, Borca 1976, capp. 3-5.

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teoria «dell’interesse sinistro» il punto di partenza per suggerire il libero scambio, l'emancipazione delle colonie, come anche quei controlli che sono necessari a mantenere la circolazione moneta-

ria all’interno di regole del gioco accettabili?. Così il filosofo spiega a Edward Blaquière perché gli spagnoli dovrebbero rinunciare alle loro colonie: L’unico frutto di questi possedimenti per il popolo spagnolo è sempre stato e sempre sarà una spesa immensa e di conseguenza tasse im-

mense, senza che vi sia in cambio un mezzo penny di profitto in qualunque forma. Sfortunatamente, il caso è l’opposto per quanto riguarda i governanti, chiunque essi siano: a loro sono riservati enormi profitti, sotto forma di clientele. Ogni penny ricavato opera come materia di corruzione, corrompendo i membri del corpo amministrativo (sia perché ad essi giungono emolumenti, sia per la semplice prospettiva di riceverli), e dando loro la possibilità, anzi impegnandoli a corrompere i rappresentanti del popolo, i membri del potere legislativo.!°

Un abbozzo preparato per Codification Proposals!1, rivela come Bentham consideri ormai chiaramente l’aristocrazia come un unico blocco di cui fa parte tanto l’é/ite politica tradizionale quanto l’aristocrazia «monetaria». Il risveglio di interesse per l’economia politica in occasione della rivoluzione spagnola del 1820-23 è dunque il frutto di questa meditazione: l'intreccio perverso di interessi tra capitalisti e personale politico è in grado di distruggere ogni esperimento democratico. Come gli oppositori settecenteschi del partito di corte, anche i radicali del nuovo secolo dovranno perciò temere che dal credito e dal commercio possa provenire la «corruzione» della loro costituzione. Questi pochi accenni permettono da soli di mettere in dubbio l’idea condivisa ancora dallo stesso Stark di un brusco e quasi definitivo calo di interesse per l'economia politica, da parte del filosofo, attorno al 1802-1804. È pur vero che Bentham non entrerà nel merito di alcune delle questioni all’ordine del giorno nella politica economica inglese del nuovo secolo, come le leggi sul grano o il ritorno alla convertibilità in oro della sterlina, ma il suo interesse per questa «branca della scienza della legislazio? Cfr. Boralevi 1984, cap. 6; Kelly 1989. 10 Works, vol. X, p. 515.

1! UCL LXXXIV, 1-72, cit. in Hume, L.J. 1981, pp. 192-94,

200

ne» rimarrà invariato. Si può notare, infine, che l'approccio ai problemi economici rimane lo stesso di sempre: è dal problema del governo e dei suoi fini che dobbiamo continuare a muovere per comprenderne la natura. Proprio quest’ultima considerazione consente una breve conclusione di metodo: come altri «revisionismi» storiografici, anche quello che ha coinvolto la storia dell'economia politica settecentesca e del pensiero politico classico ha spesso avuto una forte carica ideologica, espressa proprio dal desiderio di favorire, as-

sieme alla crisi dei grandi, unitari «filoni di pensiero moderno», la morte delle grandi ideologie del nostro tempo — la marxista, la welfarista, la socialdemocratica, la liberal-democratica —, l’indebolimento della nostra ragione etica e politica, la riscoperta del passato storico come un «oggetto freddo»!2. Ciò, nella cultura anglosassone, viene definito come un ritorno alla storiografia tory, distanziatrice, attenta alle continuità e alle permanenze del passato e al contempo più sensibile alle differenze di linguaggi e di strutture sociali e istituzionali che ciascuna fase storica nasconde in sé, rispetto a una storiografia Whig che invece si erge a giudice del passato, che vede la storia come un processo a grande scala, evolutivo o dialettico, mosso dalle scelte dell’eroe e del villano, fatto di episodi che segnano rotture e di grandi correnti ideologiche e filosofiche che ne tracciano il cammino!?. La storiografia liberale e quella marxista, secondo le accuse revisioniste, avrebbero fatto un uso strumentale, attualizzante,

della cultura politica ed economica dell’età classica e anche della prima età moderna, non solo travisando il significato dei temi trattati e dei linguaggi usati dagli autori di volta in volta evocati, ma anche non prestando alcuna attenzione a paradigmi, dibattiti, problematiche che, per il fatto di essere ancor più lontani dalla nostra modernità, per il fatto di non essere utilizzabili nel quadro delle «grandi correnti di pensiero» astrattamente messe assieme, apparivano trascurabili o semplicemente incomprensibili!4. 12 L'espressione è di Frangois Furet a proposito della Rivoluzione francese. Cfr. M. Vovelle, Anatomia di una Rivoluzione, in «Prometeo», VI, n. 24, dicembre 1988, pp. 6-15.

13 Cfr. Macdonagh 1958; Hart, J. 1965. 14 È questo il caso del linguaggio «repubblicano civico» riscoperto da J. Pocock (1980; 1985), come anche delle molte, diverse correnti economiche presmithiane, che per il fatto di condividere alcune ricette di politica commerciale, sono

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Vi è molto di vero in queste accuse e per molti versi appare attraente una prospettiva critica e distaccata nell’affrontare tanto la storia delle idee politiche ed economiche in generale, quanto quella che, secondo Schumpeter, chiamiamo storia dell’analisi economica!5. Ciò non deve però significare tagliare i ponti tra passato e presente e ridurre lo studio dei paradigmi teorici trapassati a un esame delle differenze. La lettura di Bentham suggerisce a questo proposito due considerazioni. La prima è che risalire alla sua opera ha senso in una prospettiva archeologica volta a ricercare le condizioni di possibilità di alcune problematiche moderne: quella, per esempio, relativa allo Stato del benessere. È vero infatti che gran parte delle idee sostenute dal filosofo appaiono molto più radicate di quanto si sia di solito inteso in dibattiti settecenteschi non immediatamente traducibili nei termini della cultura politico-economica del secolo scorso e del nostro; e tuttavia, paradossalmente, proprio nella loro dissonanza con le opzioni teoriche innovative di contemporanei come Say o Ricardo, proprio laddove apparirono invecchiate e inservibili ai primi lettori, esse pongono problemi che hanno avuto una permanenza nel mondo nato dalla caduta dell’ Antico regime e dalla rivoluzione industriale. La ragione del paradosso, come pure della sfortuna di Bentham tra i suoi contemporanei, è che egli si applicò a modernizzare in senso individualistico e, nei limiti del possibile, anti-statalistico, una cultura politico-economica che il liberismo manchesteriano e l’industrialismo ottocentesco trovarono ben presto terribilmente démodée: quella del sovrano illuminato, che ha cura della felicità dei propri sudditi!6. E che dire della carica anti-dogmatica insita nell’utilitarismo benthamiano? A distanza di due secoli, l'approccio dei diritti ha forse preso una rivincita sulle aspre critiche mossegli dal filosofo, ma per farlo ha dovuto misurarsi con l’appello ai fatti e alle conseguenze delle scelte, all’analisi del benessere degli individui state etichettate come «mercantiliste». Cfr. Revisions în Mercantilism, a cura di D. Coleman, Metheun, London 1969.

!5 Dissento perciò dalle tesi di Walker, che ritiene utile solo la storia di quei concetti che, giudicati con gli occhi di oggi, appaiono validi. Cfr. D.A. Walker, Ten Major Problems in the Study of the History of Economic Thought, in «History of Economics Society Bulletin», X, n. 2, autunno 1988, pp. 99-115. 16 Si giunge così agli antipodi dell’interpretazione di Halévy, che aveva voluto vedere in Bentham — come si è detto — il precursore di queste correnti di pensiero.

202

coinvolti, con i quali Bentham ha qualificato la propria proposta etica. ; La spiegazione degli atti in termini di moventi edonistici, infine, ha costituito un modello per tutta la teoria economica moderna, da Jevons a Simon, al punto non solo di condizionarne tutti i successivi raffinamenti analitici e le più ardite formalizzazioni, ma anche di lasciare l’impressione di esserne stato l’unico genuino archetipo, anche quando altre erano le fonti più dirette di ispirazione. La seconda considerazione è che a far da ponte tra passato e presente, tra linguaggi tramontati e paradigmi oggi dominanti, vi è sempre quella «forza sradicante della parola»!7 che permette ai testi di ieri di trasmettere messaggi anche a chi non è capace di intendere appieno il loro senso originario. Così la polemica benthamiana contro il liberismo dogmatico, la sua critica dei sofismi politici, il suo richiamo a non chiudere con ipotesi troppo restrittive l’analisi delle scelte individuali, conservano per noi un valore di appello e di diretto ammonimento, così come altri aspetti del suo pensiero non possono che lasciarci freddi!8. 17 A. Finkielkraut, La défaite de la pensée, Gallimard, Paris 1987, p. 124. 18 Cfr. F. Diaz, Come possono parlarci i testi dell'età dei lumi, in L’IMluminismo francese alla Fondazione Feltrinelli, a cura di E. Tortarolo, Sellerio, Palermo 1989.

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BIBLIOGRAFIA

La presente bibliografia è limitata alle opere la cui citazione ricorre più volte nei capitoli precedenti. Nella sezione III, la nozione di «fonti primarie» deve essere intesa in un senso ampio, comprensivo delle opere utilizzate per ricostruire le fonti della riflessione benthamiana, il suo ambiente culturale, nonché la sua ricezione fino ai primi decenni del nostro secolo. La sezione IV comprende il corpus di profili biografici di Bentham di cui si è parlato nel cap. 1. La letteratura critica è stata suddivisa in due sole sezioni allo scopo di facilitare la ricerca dei riferimenti: studi su Bentham (sez. V) e tutti gli altri lavori critici (sez. VI). Di questi ultimi, per tazioni di spazio, è stata citata la sola traduzione italiana, qualora disponibile.

I. FONTI

MANOSCRITTE

Manuscrits Dumont, Bibliothèque Publique et Universitaire, Genève. Bentham Papers, University College Library, London.

II. OpERE DI BENTHAM a) Raccolte in inglese e francese

Oeuvres de Jérémie Bentham, 3 voll., Haumann, Bruxelles 1829-30. The Works of Jeremy Bentham, a cura di J. Bowring, Tait, Edinburgh 1838-43, XI voll.

Jeremy Bentham's Economic Writings, a cura di W. Stark, 3 voll., Allen & Unwin, London 1952-54. The Collected Works of Jeremy Bentham, edizione critica a cura di F. Rosen, The Athlone Press, London 1968 (dal 1983, Clarendon Press, Oxford).

Nell'ambito di quest’ultima opera sono stati per il momento pubblicati i seguenti volumi:

205

The Correspondence of Jeremy Bentham, voll. 1:5, Athlone Press, London 1968-1981; voll. 6-9, Clarendon Press, Oxford 1984-89. An Introduction to the Principles of Morals and Legislation, a cura di J.H. Burns e H.L.A. Hart, The Athlone Press, London 1970. Of Laws in General, a cura di H.L.A. Hart, The Athlone Press, London 197.05

A Comment on the Commentaries and A Fragment on Government, a cura di J.H. Burns e H.L.A. Hart, The Athlone Press, London 1977. Chrestomathia, a cara di M.J. Smith e W.H. Burston, Clarendon Press, Oxford 1983. Constitutional Code, vol. I, a cura di F. Rosen e J.H. Burns, Clarendon Press, Oxford 1983. Deontology, together with A Table of the Springs of Action and The Article on Utilitarianism, a cura di A. Goldworth, Clarendon Press, Oxford 1983.

First Principles Preparatory to Constitutional Code, a cura di P. Schofeld, Clarendon Press, Oxford 1989. b) Traduzioni italiane recenti

Il catechismo del popolo (estratti dal Fragmzent on Government e dal Constitutional Code), a cura di L. Formigari, Editori Riuniti, Roma 1982. Un frammento sul governo, a cura di S. Marcucci, Giuffré, Milano 1990. Il libro dei sofismi (estratti), a cura di L. Formigari, Editori Riuniti, Roma 1981. Panopticon ovvero la casa d’ispezione, a cura di M. Foucault e M. Perrot, Marsilio, Padova 1983.

III. ALTRE FONTI PRIMARIE

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INDICE



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Abbreviazioni

Introduzione

PARTE PRIMA

Bentham

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L’uomo meccanico L’osservatore osservato, p. 23 - Vivere secondo utilità, p. 34

PARTE SECONDA

Visione: etica utilitaristica e scienza della

legislazione

II.

43

Il comando del sovrano Il diritto naturale di Blackstone, p. 44 - Le leggi quali sono, p. 47 - La disposizione a obbedire e i limiti della politica, p. 51 - Governo libero e opinione pubblica: per la critica dell’ideologia whig, p. 54 - Bentham, il censore, p. 57

III.

Empirismo e utilitarismo: premesse epistemologiche

58

La funzione sintetica del linguaggio, p. 59 - Il ciclo delle conoscenze, p. 67 - Logica dell’intelletto e logica della volontà, p. 70 L’etica e le sue ramificazioni, p. 71

IV.

73

Arida utilità Utilità triste, bella utilità, p. 73 - Una prasseologia edonistica, p. 83 - «La massima felicità per il maggior numero», p. 91 - Utilità totale, eguaglianza possibile, p. 99 - Pluralità dei moventi, virtù e vizi, p. 101

235

V.

I fini del governo

110

Sicurezza, abbondanza, sussistenza ed uguaglianza, p. 111 - Il vincolo delle aspettative, p. 115 - I limiti della legislazione definiti, p. 119 - Gli albori di un interesse per l'economia politica, p. 124

PARTE TERZA

VI.

Economia politica: teoria e analisi

Le api e l’apicoltore

139

Dimenticare Bentham, p. 139 - L’arte-e-scienza del legislatore, p. 145 - Valore ed equilibrio economico, p. 150 - Appendice Una lettura in termini marshalliani della teoria dei prezzi di Bentham, P.164 - Gli agenti dello sviluppo, p. 165 - La scienza e l’arte delabbondanza, p. 178

VII.

Sussistenza

180

Controllo dei prezzi e risparmio: l'emancipazione dalla povertà, p. 182 - Far lavorare e punire, p. 189

Conclusioni

190

Bibliografia

205

BCM

annotazioni

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Biblioteca di Cultura Moderna

ultimi volumi pubblicati

600

L. Borghi (a cura di)

Scuola e ambiente

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A. Agazzi (a cura di)

La formazione degli insegnanti

602 603 604 605 606 607 608 609 610

G. M. Bertin (a cura di) Scuola e società in Italia A.W.H. Adkins La morale dei Greci E. Buonaiuti Pellegrino di Roma. La generazione dell'esodo W. A. Williams Storia degli Stati Uniti R. Villari Conservatori e democratici nell'Italia liberale L. Volpicelli (a cura di) Riforme di struttura G. Flores d’Arcais (a cura di) La ricerca pedagogica S. Valitutti (a cura di) Scuola pubblica e privata F. Ferrarotti Max Weber e il destino della ragione

611

H. Brenner

612 613 614 615 616 617 618

M. Dal Pra La dialettica in Marx A. Ventura Nobiltà e popolo nella società veneta del '400 e ’500 T. De Mauro Introduzione alla semantica A. Plebe Discorso semiserio sul romanzo P. Piovani Filosofia e storia delle idee M. Leroy Profilo storico della lingua moderna F. Saxl La storia delle immagini

La politica culturale del nazismo

619 AA.VV. Lascuolae la società italiana in trasformazione 620 A. Martinet Elementi di linguistica generale 621 ]J. Stenzel Platone educatore 622 J. Meynaud La tecnocrazia 623 G. Luti Cronache letterarie tra le due guerre 624 L. Rognoni Fenomenologia della musica radicale 625 C. Brandi Le due vie 626 AA.VV. Ilsognoe le civiltà umane 627 J.H. Lawson Teoria e storia del cinema 628 F. Compagna La politica della città 629 D. Cantimori Conversando di storia 630 G. Vacca Politica e filosofia in B. Spaventa 631 F. Michelini Tocci (a cura di) Imzanoscritti del mar Morto 632 G. Calogero Quaderno laico 633 E. Ragionieri Politica e amministrazione nella storia dell'Italia cui senita 634 P.M. Lugli Storia e cultura della città italiana 635 R. Villari La rivolta antispagnola a Napoli 636 F. de Saussure Corso di linguistica generale

637 638 639 640 641

642

643 644 645 646 647

E. C. R. W.

Moriondo L'ideologia della magistratura italiana Cellucci (a cura di) La filosofia della matematica Giammanco Black Power Leuchtenburg Roosevelt e il New Deal

G. Di Federico La giustizia come organizzazione. Il reclutamento dei magistrati P. Villani Feudalità, riforme, capitalismo agrario : P. Goubert Luigi XIV E. Rossi Elogio della galera E. Bernstein I presupposti del socialismo e i compiti della socialdemocrazia

B. Liv$ic L’arciere dall’occhio e mezzo S. Moravia I/ tramonto dell'Illuminismo 648, N. Merker L’Illuminismo tedesco 649 M. Tafuri Teorie e storia dell’architettura 650 L. Benevolo L’architettura delle città nell'Italia contemporanea 651 J. Bouvier I Rothschild Serziotica ed estetica 652 E. Garroni 653 C. Castellano - C. Pace - G. Palomba - G. Raspini L'efficienza della giustizia italiana 654 J. Laplanche - J.-B. Pontalis Enciclopedia della psicanalisi 655 B. Munari Design e comunicazione visiva 656 N. Tranfaglia Carlo Rosselli 657 Aristofane Le Commedie 658 Ph. Ariès Padri e figli nell'Europa medievale e moderna 659 G. Kraiski Le poetiche russe del Novecento 660 A. Santucci Sisterza e ricerca in D. Hume 661 G. Galasso Dal Comune medievale all'Unità 662 P. Casini L’universo macchina Università di oggi e società di domani 663 AA.VV. 664 R.H. Robins Manuale di linguistica generale 665 L. Colletti Il marxismo e Hegel 666 C. Cesa La filosofia politica di Schelling 667 A. Schmidt I/ concetto di natura in Marx 668 G. Bedeschi Alienazione e feticismo nel pensiero di Marx 669 B. Spaventa Unificazione nazionale ed egemonia culturale 670 R. TURCA Illusione e paura nel mondo borghese da Dickens a Orwe 671 AA.VV. Le scienze dell’uomo e la riforma universitaria 672 H.R. Trevor-Roper Protestantesimo e trasformazione sociale 673 F. Yates Giordano Bruno e la tradizione ermetica 674 G. Di Federico La giustizia come organizzazione. La Corte di cassazione 675 V. Quilici L'architettura del costruttivismo 676 P. Macherey Per una teoria della produzione letteraria 677 P. Ziff Itinerari filosofici e linguistici 678 L. Cassese La spedizione di Sapri 679 G. Neppi Modona Sciopero, potere politico e magistratura 18701922

680 681 682

J. Habermas Teoria e prassi nella società tecnologica K. Allsop Ribelli vagabondi nell’America dell’ultima frontiera A. Rossi Le feste dei poveri

683 684 685 686 687 688 689 690 691 692 693 694 695 696 697 698 699 700 701 702 703 704 705 706 707 708 709 710 711

L. Ganapini Il nazionalismo cattolico. I cattolici e la politica estera în Italia dal 1871 al 1914 G.M. Chiodi La giustizia amministrativa nel pensiero politico di Silvio Spaventa J. Weil La frontiera di Mosca - Il cucchiaio di legno M. Isnenghi I/ mito della grande guerra da Marinetti a Malaparte C.A. Madrignani Capuana e il naturalismo R. Odorisio - M.C. Celoria - G. Petrella - D. Pulitanò Valori socio-culturali della giurisprudenza G. Cingari Mezzogiorno e Risorgimento. La Restaurazione a Napoli dal 1821 al 1830

F. Governatori Stato e cittadino in tribunale C.'Pinzani Jean Jaurès, l'Internazionale e la guerra R. Campa Antologia del pensiero politico latino-americano. Dalla Colonia alla seconda guerra mondiale L. Strappini - C. Micocci - A. Abruzzese La classe dei colti. Intellettuali e società nel primo Novecento italiano F. Forte - P.V. Bondonio Costi e benefici della giustizia italiana L. P. S. C.

Formigari Linguistica ed empirismo nel Seicento inglese Vilar Sviluppo economico e analisi storica Moravia La scienza dell’uomo nel Settecento Gallini Protesta e integrazione nella Roma antica

J. Habermas

L.J. Prieto

A. Pepe

1911-1915

712 (o, 714 715 716 717 718 719 720 721 722 723

. Conoscenza e interesse

S.K. Saumjan Linguistica dinamica P. Sica L'immagine della città da Sparta a Las Vegas K. Marx - F. Engels Lettere sul Capitale S. Colarizi Dopoguerra e fascismo in Puglia (1919-1926) M. Bianchi La teoria del valore dai classici a Marx P. Merlin Le città nuove E. Decleva Da Adua a Sarajevo. La politica estera italiana e la Francia. 1896-1914 A. Agosti Rodolfo Morandi R. Morghen Civiltà medioevale al tramonto G. Germani Sociologia della modernizzazione. L'esperienza dell’America Latina Lineamenti di semiologia. Messaggi e segnali

Storia della CGdL dalla guerra di Libia all'intervento.

R. Rosdolsky Genesi e struttura del «Capitale» di Marx J. Habermas Storia e critica dell'opinione pubblica C. Gallini I/ consumo del sacro. Feste lunghe di Sardegna E. Coseriu Teoria del linguaggio e linguistica generale C. Sini I/ pragmatismo americano J. Beattie Uomini diversi da noi. Lineamenti di antropologia sociale A. Pepe Storia della CGdL dalla fondazione alla guerra di Libia. 1905-1911 P. Herriot Le psicologia del linguaggio R. Treves Giustizia e giudici nella società italiana S. Landucci I filosofi e i selvaggi. 1580-1780 J. Laplanche Vita e morte nella psicoanalisi G. Cera Sartre tra ideologia e storia

724 725 726

O. Mannoni La funzione dell’immaginario. Letteratura e psicanalisi A.Toynbee La città aggressiva A. Monticone Gli italiani in uniforme. 1915-1918. Intellettuali,

borghesi e disertori Le Corbusier Arte decorativa e design M. Mead I/ futuro senza volto. Continuità nell’evoluzione culturale 729 E. Garroni Progetto di semiotica. Messaggi artistici e linguaggi non-verbali 730 R. Giolli L’architettura razionale 731 G. Costa La leggenda dei secoli d’oro nella letteratura italiana 732 C. De Seta. La cultura architettonica in Italia tra le due guerre Utopia e riforma religiosa nel Risorgimento. Il sansimo733 F. Pitocco nismo nella cultura toscana 734 F. Boas L’uomo primitivo Totalità e selezione nella storiografia classica 735 L. Canfora Ricerche sulla cultura dell’Italia moderna 736 AA.VV. P. Casini Introduzione all’Illuminismo. Da Newton a Rousseau 19 I/ linguaggio dei giornali italiani 738 M. Dardano 739 F. Grassi I/ tramonto dell'età giolittiana nel Salento 740/741 P. Barcellona (a cura di) L’uso alternativo del diritto vol. I. Scienza giuridica e analisi marxista vol. II. Ortodossia giuridica e pratica politica 742 R. De Fusco Segni, storia e progetto dell’architettura 743 E.A. Havelock Cultura orale e civiltà della scrittura. Da Omero a Platone

727 728

744

E. Forssman scimento

745 746 747

G. Bedeschi Politica e storia in Hegel V. Cappelletti Freud. Struttura della metapsicologia V. Tomeo I/ giudice sullo schermo. Magistratura e polizia nel ci-

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752 753 754 755 756 157 758 759 760 761 762 763

Dorico, ironico, corinzio nell’architettura del Rina-

nema italiano G. Balandier Le società comunicanti. Introduzione all’antropologia dinamista M. Dal Pra Hume e la scienza della natura umana A. Pacchi Cartesio in Inghilterra. Da More a Boyle A.A. Leont'ev Teoria dell'attività verbale. La psicolinguistica in Urss G. Oldrini La cultura filosofica napoletana dell'Ottocento

E.E. Evans-Pritchard La donna nelle società primitive A.D. Nock La conversione. Società e religione nel mondo antico Sh. Avineri La teoria hegeliana dello Stato

W. Ullmann

Individuo e società nel Medioevo

D. Pesce Saggio su Epicuro J. Ferguson Le religioni nell’impero romano D. Corradini Storicismo e politicità del diritto G. Sabbatucci I combattenti nel primo dopoguerra

N. Lipari (a cura di) Tecniche giuridiche e sviluppo della persona L. Mangoni L’interventismo della cultura. Intellettuali e riviste del fascismo F. Cordova Le origini dei sindacati fascisti. 1918-1926

764 765 766 761 768 769 770 PIA Vo: 773 7714 UE)

776 CILE 778 719 780 781 782 783 784 785 786 787 788 789 790

A. Balestrieri - D. De Martis - O. Siciliani (a cura di)

Etologia e

psichiatria M. Dal Pra Logica e realtà. Momenti del pensiero medievale P.R. Corner I/ fascismo a Ferrara. 1915-1925 L. Kolakowski La filosofia del positivismo H. Warrender I/ pensiero politico di Hobbes N. Lipari Diritto privato. Una ricerca per l'insegnamento F. Restaino Scetticismo e senso comune. La filosofia scozzese da Hume a Reid G. Ghisalberti Dall’antico regime al 1848. Le origini costituzionali dell’Italia moderna R. Wietholter Le formule magiche della scienza giuridica E. Ennen Storia della città medievale M. Riedel Hegel fra tradizione e rivoluzione N. Lipari (a cura di) Giustizia e informazione. Atti del XV Congresso dell’Associazione Nazionale Magistrati A. Lorenzer Crisi del linguaggio e psicanalisi W. Ullmann I/ papato nel Medioevo

J. Lemmon Elementi di logica M. A. Toscano Evoluzione e crisi nel mondo normativo: Durkheim e Weber E. Gentile Le origini dell'ideologia fascista. 1918-1925 J. Habermas La crisi della razionalità nel capitalismo maturo E. Garin Rinascite e rivoluzioni. Movimenti culturali dal XIV al XVIII secolo i

A. Quondam

La parola nel labirinto. Società e scrittura del Ma-

nierismo a Napoli K. Dérner I/ borghese e il folle. Storia sociale della psichiatria

J. Lyons L. Zani

Introduzione alla linguistica teorica Italia libera. Il primo movimento antifascista clandestino.

1923-1925 P. Llewellyn

Romza nei secoli oscuri

W. Euchner Diritto di natura e politica in John Locke A. Alfoldi Costantino tra paganesimo e cristianesimo A. Schiavone Nascita della giurisprudenza. Cultura aristocratica e pensiero giuridico nella Roma tardo-repubblicana

191

R. Firth tiva

792 793 794 795 796 797 798 199 800 801 802 803 804

G. Pagano Architettura e città durante il fascismo H. Gouhier Filosofia e religione in Jean-Jacques Rousseau G. Barbiellini Amidei - U. Bernardi I labirinti della Sociologia N. Merker Alle origini dell’ideologia tedesca N. Luhmann Sociologia del diritto K. H. Ilting Hegel diverso. Le filosofie del diritto dal 1818 al 1831 M. Detienne I maestri di verità nella Grecia arcaica A. Tamborra Esuli russi in Italia dal 1905 al 1917 L. Formigari La logica del pensiero vivente F. Boll - C. Bezold - W. Gundel Storia dell'astrologia B. Grunberger I/ narcisismo R. Firth I simboli e le mode ; M. Detienne - J.-P. Vernant . Le astuzie dell’intelligenza nell’antica Grecia

Noi, Tikopia. Economia e società nella Polinesia primi-

805 806 807 808 809 810 811 812 813 814 815 816 817 818 819 820 821 822 823 824 825 826 827 828 829 830 831 832 833 834 835 836 837 838 839 840 841 842

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G. Freddi Tensioni e conflitto nella magistratura S. Timpanaro La filologia di Leopardi R. Romeo L'Italia unita e la prima guerra mondiale G. De Rosa Chiesa e religione popolare nel Mezzogiorno P. Nello L’avanguardismo giovanile alle origini del fascismo N. Dittmar Manuale di sociolinguistica E. Resta (a cura di) Diritto e trasformazione sociale B. Chiarelli L'origine dell’uomo R. e B. Chauvin I/ comportamento degli animali R. Banham Ambiente e tecniche dell’architettura moderna B.L. Derwing Alle frontiere del linguaggio J.A. Davis Società e imprenditori nel regno borbonico, 1815-1860 F.J. Demers Le origini del fascismo a Cremona F. Tentori Vite e opere di Le Corbusier F. Lo Piparo Lingua, intellettuali, egemonia in Gramsci L. Compagna Alle origini della libertà di stampa G. Contento Giudice penale e pubblica amministrazione Le Corbusier Precisazione sullo stato attuale dell’architettura e dell’urbanistica M. Damus L’arte del neocapitalismo S.F. Nadel Lineamenti di antropologia sociale A. Cederna Mussolini urbanista. Lo sventramento di Roma negli anni del consenso J.-B. Marcellesi - B. Gardin Introduzione alla socio-linguistica C. Ghisalberti Unità nazionale e unificazione giuridica în Italia P.C.W. Davies Spazio e tempo nell'universo moderno G. Vannoni Massoneria, fascismo e Chiesa cattolica C. De Seta Origini ed eclisse del movimento moderno I. Magli Introduzione all’antropologia culturale M. Serra Una cultura dell'autorità. La Francia di Vichy F. Furet Critica della Rivoluzione Francese J.M. Lotman Testo e contesto. Semiotica dell’arte e della cultura O. Cancila Impresa redditi mercato nella Sicilia moderna AA.VV. Immagini del Settecento in Italia J. Lyons Manuale di semantica P. Portoghesi Dopo l’architettura moderna M. Mida - L. Quaglietti Dai telefoni bianchi al neorealismo W. Ullmann Radici del Rinascimento M. Pera Popper e la scienza su palafitte I. Granata I/socialismo italiano nella storiografia del secondo dopoguerra M. Detienne Dioniso e la pantera profumata E. Cassirer Simbolo, mito e cultura D. Hay Storici e cronisti dal Medioevo al XVIII secolo J.W. Borejsza Il fascismo e l'Europa orientale. Dalla propaganda all'aggressione

M. Heidegger Kant e il problema della metafisica E. Guidoni La città dal Medioevo al Rinascimento B. Munari Da cosa nasce cosa R. Lanciani L'antica Roma

G. Oldrini L. Quaroni

I/ realismo di Chaplin La città fisica

853 854 855 856

L.M. Colli Arte artigianato e tecnica nella poetica di Le Corbusier F. Sanguineti Grazzsci e Machiavelli C. Lévy-Leboyer Psicologia dell'ambiente

857 858

P. D’Angelo L'estetica di Benedetto Croce E. Gentile I/ mito dello Stato nuovo dall’antigiolittismo al fascismo A. Chastel L’uso della storia dell’arte F. Dal Co Abitare nel moderno M. Pera Apologia del metodo K. Lowith Nietzsche e l’eterno ritorno AA.VV. Uomini e re B. Russel La visione scientifica del mondo A. Ja. Gureviè Le origini del feudalesimo C. De Seta Architetti italiani del Novecento F. Dal Co Teorie del moderno. Architettura. Germania. 1880— 1920

859 860 861 862 863 864 865 866 867 868

G. Petracchi 1917-25

P. Portoghesi

La Russia

rivoluzionaria

nella politica italiana.

L'angelo della storia. Teorie e linguaggi dell’archi-

tettura

869 870 871 872 873 874 875

J. Bouveresse Wittgenstein. Scienza, etica, estetica G. Careri Ordine e disordine nella materia G. Ryle Lo spirito come comportamento F. Ferrarotti Una teologia per atei J.A. Schumpeter L'essenza e i principi dell'economia teorica F. Barone Immagini filosofiche della scienza P. David - G. Vicarelli L'azienda famiglia. Una società a respon. sabilità illimitata 876 R. Campari I/ racconto del film La macchina territoriale 877 E. Concina 878 B. Gentili - G. Cerri Storia e biografia nel pensiero antico 879 S.S. Nigro Le brache di san Griffone. Novellistica e predicazione tra Quattrocento e Cinquecento 880 E. Pellizer - N. Norzetti La paura dei padri nella società antica e medievale 881 B.A. Farrell Ifondamenti della psicoanalisi 882 P. Scarduelli I/ rito. Dei, spiriti, antenati 883 A. Bruno Benedetto Croce, trent'anni dopo 884 H. Scholz Storia della logica 885 F. Gabrieli Cultura araba del Novecento 886 A.J. Ayer La filosofia del Novecento Antropologia psicologica 887 E. Bourguignon Struttura della società e semantica 888 N. Luhmann 889 Catullo Poesie 890 Cornelio Nepote Gli uomini illustri 891 J. Ziman Si deve credere alla scienza? Dostoevskij e la filosofia 892 S. Givone 893 B. This Come nascono i padri Torino operaia e fascismo 894 L. Passerini 895/896 C.Muscetta (a cura di) Francesco De Sanctis nella storia della cultura, 2 voll. 897 F. Fornari La riscoperta dell'anima

898 899 900 901 902 903 904 905 906 907 908 909 910 911 912 913 914 915

P.K. Feyerabend Scienza come arte F. Tateo Chierici e feudatari del Mezzogiorno AA.VV. Garibaldi e il socialismo U. Fabietti I/ popolo del deserto A. Schiavone Alle origini del diritto borghese. Hegel contro Savi-

gny

M. Nicoletti Dentro l’architettura moderna F. Héritier L'esercizio della parentela E. Cassirer Da Talete a Platone P. Marconi Arte e cultura della manutenzione dei monumenti G. Fiocca (a cura di) Borghesi e imprenditori a Milano H.I. Brown La nuova filosofia della scienza C. Baudelaire I fiori del male G. Cherubini L'Italia rurale del basso Medioevo M. Palumbo Imzmaginazione e matematica in Kant A.G. Gargani Lo stupore e il caso P.F. Strawson Saggio sulla «Critica della ragion pura» AA.VV. La filosofia italiana dal dopoguerra a oggi F. Cordova

Massoneria e politica in Italia. 1892-1908

916 N. Luhmann Arzore come passione 917 O. Calabrese La macchina della pittura 918 A. Monroy Alle soglie della vita 919 J. Habermas Etica del discorso 920 AA.VV. L’antropologia italiana. Un secolo di storia 921/922 AA.VV. Francesco De Sanctis. Un secolo dopo, 2 voll. 923 E. Cassirer Cartesio e Leibniz 924 L. Gianformaggio - E. Lecaldano Etica e diritto 925

L.Ferrarotti

926 927 928

I.P. Couliano Esperienze dell’estasi E. Garroni Senso e paradosso G. Barbieri - P. Vidali (a cura di) Metamorfosi. Dalla verità al senso della verità E. Lecaldano - S. Veca Utilitarismo oggi J.Van Sickle Poesia e potere. Il mito Virgilio F. D'Ippolito Giuristi in Roma arcaica S. Moravia L’enigma della mente M. Mamiani I/ prisma di Newton J. Watkins Certezza e verità per una epistemologia postpopperiana =; Finzi (a cura di) Salvatore Quasimodo. La poesia nel mito e

929 930 931 932 933 934 935

Oscar Lewis. Biografo della povertà

oltre

936

S.W. Carey

937 938 939 940

L. Caracciolo Alba di guerra fredda P. Scarduelli L'isola degli antenati di pietra G. Cingari Gaetano Salvemini tra politica e storia ]J. Ziman Il lavoro dello scienziato

941

G. Aliberti

942 943 944 945 946 947

La terra in espansione

Potere e società locale nel Mezzogiorno dell'Ottocento

B. Williams L'etica e î limiti della filosofia G. Vattimo (a cura di) Filosofia ’86 L. Canfora E/lenismo M. Ageno La biofisica I. Hacking Conoscere e sperimentare M. Niccoli Profeti e popolo nell'Italia del Rinascimento

948 949 950 951 952 795 954 955 956 957 958 999 960 961962

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E. Selleri Paradossi e realtà. Saggio sui fondamenti della microfisica » A.G. Gargani (a cura di) I/ destino dell’uomo nella società postindustriale L. Laudan La scienza e î valori G. Calandra Gentile e il fascismo C. Pignato (a cura di) Pensare altrimenti. Esperienza del mondo e antropologia della conoscenza D. Marconi L'eredità di Wittgenstein G.D’Amato L'architettura del protorazionalismo G. Alciati - M. Fedeli - V. Pesce Delfino La malattia dalla preistoria all’età antica P. Di Giovanni (a cura di) I/ neoidealismo italiano G. Vattimo (a cura di) Filosofia ’87 G. De Liguori Materialismo inquieto G. Comba Contadini, signori e mercanti nel Piemonte medievale G. spia - G. Cingari (a cura di) Preludi di socialismo nel XVII

secolo C. Calame

Il racconto in Grecia G.C. Jocteau L'armonia perturbata. Classi dirigenti e percezione degli scioperi nell’Italia liberale P. D'Angelo Simbolo e arte in Hegel U. Artioli L'officina segreta di Pirandello M. Ammaniti (a cura di)

La nascita del sé

K. Mannheim Conservatorismo. Nascita e sviluppo del pensiero G. Vattimo (a cura di) Filosofia ’88 R. Mac Mullen La diffusione del cristianesimo nell'Impero romano (100-400 d.C.) M. Vaudagna (a cura di) L'estetica della politica. Europa e America negli anni Trenta G. Contento Corso di diritto penale L. Canfora Le vie del classicismo A. Colquhoun Architettura moderna e storia A. Clementi-F. Perego Eupolis, la città giusta: vol. I. Periferie oggi vol. II. Periferie in cantiere L. De Rosa (a cura di) La storiografia italiana degli ultimi venVanni: vol. I. L’antichità e il Medioevo vol. II. L’età moderna vol. III. L’età contemporanea A. Ghisalberti Medioevo teologico G. Carchia Retorica del sublime G. Vattimo (a cura di) Filosofia ’89 L. Capogrossi Colognesi Ecomorzie antiche e capitalismo moderno M. Ammaniti - N. Dazzi (a cura di)

F. F. G. G. M.

Affetti

Frabboni (a cura di) Ambiente e educazione Grazzini Machiavelli narratore Fanelli - R. Gargiani Perret e Le Corbusier. Confronti Petronio Restauri letterari da Verga a Pirandello Cagnetta Antichità classiche nell’Enciclopedia Italiana

988 989 990 991 992

A. Steiner (a cura di) Foto-grafia L. Chiappa Mauri Paesaggi rurali di Lombardia. Secoli XII-XV M. Mancia Nello sguardo di Narciso L. Bianchi - E. Randi Le verità dissonanti A. Valente (a cura di) Da Einaudi a Ciampi. Le considerazioni finali dei Governatori della Banca d’Italia. 1947-1986

293 994 995

M. Vozza

Rilevanze. Epistemologia ed ermeneutica

G.R. Cardona I linguaggi del sapere F. Agostini - G. De Rosa Vita religiosa e cultura in Lombardia e nel Veneto nell’età napoleonica

996 9A 998 999 1000 1001 1002 1003 1004 1005 1006 1007 1008

E. Lecaldano

Hume e la nascita dell’etica contemporanea

A. Clementi (a cura di) urbanistica

I/ senso delle memorie in architettura e

M. Nicoletti L’avventura del progetto M. Ferraris La filosofia e lo spirito vivente E. Garin Editori italiani tra 800 e °900 J. Svenbro Storia della lettura nella Grecia antica M. Bettini (a cura di) La maschera, il doppio e il ritratto G. Vattimo (a cura di) Filosofia ’90 W. Hennis I/ problema Max Weber P. Bonetti L’etica di Croce M. Ammaniti - D.N. Stern (a cura di) Rappresentazioni e narrazioni A. Trione L’ostinata armonia M. Pera Scienza e retorica

_ Una nuova

lettura dell'intera tematica

| scientifica del capostipite dell’utilitarismo — moderno e dell'ideologia dello stato del benessere, condotta anche sulla base _ di manoscritti inediti. Epistemologia, etica, pensiero politico-giuridico,

“economia politica: questi i temi

principali di un contributo che si caratterizza per l'ampio spazio dato alle relazioni tra pensiero economico, etica e scienza della legislazione.

Marco Enrico Luigi Guidi (Lucca, 1958) è dal 1987 ricercatore in Storia delle dottrine economiche presso l’università «G. D'Annunzio» di Chieti, facoltà di Scienze politiche (sede di Teramo). Tra le sue principali pubblicazioni: «Sviluppo economico, distribuzione e rendita fondiaria in Ricardo. L'economia politica come scienza e come progetto», in «Annali della Fondazione Luigi Einaudi», XVII, 1983; «Le citoyen Bentham, ‘‘raisonnable censeur des lois’’, et l’économie de la révolution francaise», _ In «Economies et sociétés», n. 7-8-9, 1990.

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