Corpi e recinti. Estetica ed economia politica del decoro
 9788869481406

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Culture /

Pierpaolo Ascari

Corpi e recinti Estetica ed economia politica del decoro

ombre corte

Prima edizione: novembre 2019 © ombre corte Via Alessandro Poerio 9, 37124 Verona Tel./fax: 0458301735; mail: [email protected] www.ombrecorte.it Progetto grafico copertina e impaginazione: ombre corte Immagine di copertina: Timothy P. Schmalz, “Gesù senzatetto”, statua in bronzo. ISBN: 9788869481406

Indice

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INTRODUZIONE

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CAPITOLO PRIMO. Kracauer e gli spazi tipici

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CAPITOLO SECONDO. Marx e l’altro tempo

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CAPITOLO TERZO. Foucault e un certo modo di praticare la guerra

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CAPITOLO QUARTO. Il boulevard

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CAPITOLO QUINTO. Engels e il metodo Haussmann

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CAPITOLO SESTO. Fanon e la recinzione percettiva

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CAPITOLO SETTIMO. Per una critica punk al riformismo estetico

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CONCLUSIONE. Nei luoghi delle merci

INTRODUZIONE

Nel parco che attraverso ogni sera al rientro dal lavoro, fino a una decina di anni fa incontravo alcune comunità di stranieri che si davano appuntamento a fine giornata per bere o mangiare qualcosa insieme. Il parco separa i viali dalla zona a traffico limitato ed è abitualmente oltrepassato da tutti coloro che parcheggiano l’automobile per affollare il pub più frequentato della città. Poche decine di metri, allora, separavano la movida più o meno giovanile dalle panchine sulle quali stazionavano i tupperware, le carte da gioco e le bevande di un altro modo di occupare lo spazio pubblico e il cosiddetto tempo libero. Poi arrivò un’ordinanza del sindaco che vietava di bere alcolici fuori dai locali e quelle comunità di stranieri scomparvero. Scomparvero i barattoli di cibo, le donne e i bambini, mentre le bottiglie di birra sono tuttora lì, ma tra le mani di altri immigrati che invece di staccare dal lavoro vendono droga. “Questi – mi ha riferito un poliziotto che tallonavo nel corso di una retata – è già tanto se la sera arrivano a pagarsi un panino”. Che stessi prendendo parte a una retata l’ho scoperto solo dopo, mentre rincorrevo l’agente che aveva promesso di raccontarmi quale fosse il parco che vedeva lui. Ci eravamo conosciuti qualche tempo prima in circostanze altrettanto particolari, sempre all’imbocco del parco, dove un tipo mi aveva scroccato una sigaretta e solo passandogliela mi ero accorto che era ammanettato. “Dia pure a me – aveva detto l’agente in tuta da ginnastica – il signore è sotto la mia custodia”. E così era andata, con il prigioniero che lo mandava affanculo e lo sbirro che lo faceva fumare, reggendogli la sigaretta e limitandosi a ripetere di tanto in tanto: “Roba da matti”. Ho il sospetto che il poliziotto stesse osservando la stessa scena da una prospettiva più personale, ma rimango convinto che dentro

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CORPI E RECINTI

quella “roba da matti” ci fosse anche il giorno in cui le ordinanze dei sindaci avevano cominciato a far sloggiare dal parco gli uomini con i tupperware dal parco. Ai tempi la chiamavano sicurezza, oggi decoro, ma in entrambi i casi veniamo abbandonati in uno spazio pubblico totalmente ridotto alla zona di transito tra un parcheggio (che sulle strade di Modena paghiamo a un’azienda privata) e il successivo consumo di qualche altra merce. Non si tratta solo di una metafora, ma della distopia concreta che agisce da tensore nell’involuzione degli spazi che viviamo in comune. E non è sempre stato così, soprattutto. Io stesso, che pure non intendo millantare una giovinezza particolarmente spericolata, posso testimoniare come fino a qualche tempo fa fosse possibile trascorrere una notte in stazione o sulla panchina di un parco senza suscitare nei passanti lo stato di allerta. Qualche riserva, certo, qualche smorfia di compatimento, ma nessuna percezione dell’insicurezza. E non è affatto vero che da allora viviamo in un ambiente più pericoloso. Nel febbraio del 2017, quando la parola “decoro” debutta sulla Gazzetta Ufficiale, non sono ancora trascorse due settimane dalla relazione del Ministero degli Interni sulle attività di polizia, che rispetto al 2015 descrive una tendenza difficilmente compatibile con l’urgenza di molestare chi mangia o si addormenta in un luogo pubblico. Sono diminuite le violenze sessuali (del 6,04 per cento), le rapine (10,62), i furti (6,97) e l’usura (7,41). Sono diminuiti il favoreggiamento e lo sfruttamento della prostituzione (di 1049 unità rispetto al 2011) e l’impiego dei minori nell’accattonaggio (da 396 a 248 denunce). Ma a indemoniare la politica si direbbe ancora la vecchia storia delle finestre rotte, la dottrina neoliberista per cui si comincia sempre con lo stendere il bucato sulla ringhiera del balcone per poi degenerare nella tentata strage. Alle avventure ideologiche di questo catechismo e alle sue evoluzioni, Wolf Bukowski ha recentemente dedicato un bellissimo libro intitolato La buona educazione degli oppressi. Nonostante i numeri e le analisi contraddicessero lo spirito del decreto sicurezza, però, a qualcuno parve importante sottolineare che il ministro stava incassando il favore dell’Anci, l’associazione che riunisce tutti i comuni italiani – e importante lo era davvero. Perché il sindaco viene eletto direttamente “dal popolo” e la manutenzione del decoro, di conseguenza, risulta un modo eccezionalmente economico per rendersi popolare o programmare una rielezione sulla pelle dei più miserabili.

INTRODUZIONE

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I senzatetto, per esempio. Dal 2010 al 2016, la spesa delle abitazioni per le famiglie povere è aumentata in Europa del 10 per cento, mentre gli affitti sono arrivati ad assorbire il 42 per cento del reddito1. Alla stessa data, il 3,5 per cento della popolazione era in ritardo rispetto al pagamento delle mensilità o dei mutui, una percentuale che saliva nel caso del Portogallo (3,6), dell’Italia (4,2) e della Spagna (5,2). Capofila era la Grecia, con il 15,3 per cento, mentre il 15 per cento della popolazione macedone vive tuttora in rifugi illegali, con 120.000 squatter solo a Skopje. Sempre nel 2016 e sempre in Europa, la difficoltà a mantenere una temperatura domestica adeguata riguardava l’8,7 per cento dei residenti: il 10,1 degli spagnoli, il 16,1 degli italiani, il 22,5 dei portoghesi e il 29,1 dei greci. Intanto, nel 2018 è tornato spaventosamente a salire il numero degli sfratti, per esempio in Spagna (59.671), anche a seguito della ricapitalizzazione del sistema bancario, che dovendosi sbarazzare dei crediti in sofferenza ha sfrattato i debitori o ceduto il credito a fondi-avvoltoio. La Banca Centrale Europea ha quindi annunciato che entro il 2021 tutte le banche dell’eurozona dovranno ridurre questi crediti a un massimo del 20 per cento, per poi dimezzarli l’anno successivo2, inaugurando una stagione nella quale l’emergenza abitativa potrà solo peggiorare. Nel continente si contano già 37.000.000 di individui che vivono in condizioni di sovraffollamento e il numero dei senzatetto sta aumentando ovunque tranne che in Finlandia. Raddoppiano anche in Gran Bretagna (dal 2014), dove solo nell’ultimo anno sono morte per strada 597 persone, ma il dato più spaventoso si registra in Germania, con un aumento del 150 per cento in cinque anni, mentre le unità abitative destinate ai poveri vengono cedute agli investitori privati (diminuendo del 60 per cento rispetto al 1990) e la mancanza di alloggi fa salire il prezzo degli affitti. Più della metà dei senzatetto in Germania sono immigrati. È in questa cornice storica e sociale che intervengono i divieti a mangiare o dormire in un parco, dove anche in Italia il 67 per cento dei senzatetto assistiti dalla Caritas risulterebbero stranieri (2017). La premessa analitica che cercherò di sviluppare, quindi, è che a favorire il consenso delle politiche per il decoro sia proprio la loro contiguità 1 2

Abbé Pierre Foundation – FEANTSA, Third Overview of Housing Exlusion in Europe, 2018. European Action Coalition for the Right to Housing and to the City, Housing Financialization. Trends, actors and processes, Rosa Luxemburg Stiftung, Brussels 2019, p. 27.

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ai temi delle migrazioni, che a loro volta consentono di mimetizzare nel contrasto alla presunta sconvenienza allogena il disciplinamento e lo spossessamento della popolazione indigena. Nei parchi della mia città, tra le altre cose, il nuovo regolamento dei vigili urbani vieta di bagnarsi nelle fontane, giocare a pallone o fare un pic-nic: il Comune lo ha reso noto con un volantino che scritto molto in piccolo, sotto i loghi dell’Unione Europea e del Ministero dell’Interno, riporta la dicitura “Fondo Asilo, Migrazione e Integrazione 2014-2020”. Perché da un lato, scrive Sayad, l’immigrato pone sempre “la questione della relazione tra politica e buone maniere [politesse]”3, dal momento che la riconoscenza dovrebbe indurlo ad assumere comportamenti esemplari, che aderiscano passivamente alle forme dell’ordine costituito. Mentre dall’altro “non esiste oggetto sociale più fortemente determinato dalla percezione che ne abbiamo, percezione a sua volta determinata dalla definizione astratta a priori che ci siamo dati”4, che postulando la sconvenienza della migrazione stessa, associa l’opportunità del nuovo disciplinamento all’imperativo morale di correggere una forma di vita strutturalmente ingrata. La mia proposta, allora, sarà quella di interpretare la difesa del decoro come una modalità di costruzione e di pattugliamento di quelle che il filosofo ghanese Ato Sekyi-Otu ha definito recinzioni percettive, che delle enclosures della cosiddetta accumulazione originaria del capitale mantengono sia la valenza estrattiva (il calcetto si organizza nelle strutture a pagamento) che quella disciplinare. Anche qui, nessuna metafora: se come scriveva Andrea Mariotti il territorio andrebbe davvero inteso “come medium percettivo dell’intersoggettività”5, stilizzare o manipolare questa mediazione significa porre dei recinti al modo in cui gli individui si percepiscono l’un l’altro e percepiscono – in ultima istanza – se stessi. Evidentemente, è proprio nella dimensione percettiva e discrezionale della convenienza che oggi si va delineando una nuova geografia dei poteri6 – ed è anche la riflessione estetica, pertanto, a doversene occupare. 3 4 5 6

Abdelmalek Sayad, Immigrazione e “pensiero di stato”, in La doppia assenza. Dalle illusioni dell’emigrato alle sofferenze dell’immigrato, ed. it. a cura di Salvatore Palidda, trad. di D. Borca e R. Kirchmayr, Raffaello Cortina, Milano 2002, p. 375-376. Ivi, p. 239. Andrea Mariotti, Marxismo e territorio, in Gramsci e l’architettura e altri scritti, Dedalo, Bari 1978, pp. 105-115. Patrizio Gonnella, Le nuove norme sulla sicurezza urbana. Decoro versus dignità, in “Costituzionalismo.it”, 1, 2017, p. 61.

INTRODUZIONE

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Nel De Architectura, per esempio, Vitruvio definiva il decoro in rapporto al modo di stare, alla consuetudine e alla natura. A Giove dovevano corrispondere edifici a cielo aperto, dal momento che è nel cielo che osserviamo le sue manifestazioni. Il dorico si addiceva a Marte, perché la guerra non bada ai fronzoli, il corinzio a Venere, tenera e floreale, mentre Giunone e Diana richiedevano una via di mezzo tra la severità e la leggerezza, cioè lo ionico7. Quello che proverò a comprendere nelle prossime pagine, allora, è quale sia la divinità alla quale obbedisce la decenza della guerra ai senzatetto e ai lavavetri, delle panchine con il dissuasore e della sostanziale rappresaglia contro qualunque connotazione estetica della classe o della razza. Certo, bandire determinate forme di vita da un quartiere significa innanzitutto aumentarne la rendita e il valore immobiliare, ma la mia sensazione è che la posta in gioco sia ancora più alta: qualcosa come la formazione di una nuova servitù volontaria, rabbiosa e redditizia. Nota ai testi e ringraziamenti Nel primo capitolo ho cercato di inquadrare il problema nella prospettiva delle trasformazioni che hanno investito l’esperienza urbana negli ultimi decenni, ma ancorando le analisi alla definizione che di altri “spazi tipici” diede Siegfried Kracauer nella prima metà del Novecento. Sono infatti convinto che la funzione del decoro abbia innervato tutta la storia del capitale e della sua valorizzazione, non soltanto quella postfordista. Il capitolo è inedito, ma la proposta di attribuire un significato sistemico al concetto di bambinata nell’opera di Marx l’ho illustrata in occasione del colloquio internazionale “Qualifier le conflit”, organizzato a Firenze dall’Université Paris Diderot. Ringrazio Federico Tarragoni, Étienne Tassin e Vando Borghi per avermi invitato. Nel secondo capitolo, si trattava di adeguare allo spessore storico del decoro una riflessione sulla temporalità, intesa come potenziale di liberazione: se il nostro è il tempo in cui diventa indecente bagnarsi nelle fontane pubbliche, è anche quello che trattiene l’anacronia dei tanti pomeriggi estivi in cui abbiamo decorosa7

Vitruvio Pollione, Architettura (dai libri I-VII), trad. it. di Silvio Ferri, Rizzoli, Milano 2002, pp. 119-123.

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mente scoppiato centinaia di gavettoni, magari nello stesso parco. Nel terzo capitolo, attraverso il dialogo che Michel Foucault intrattiene con Marx nel cantiere di Sorvegliare e punire, propongo quindi di interpretare le ordinanze anti-bivacco dei giorni nostri come un prolungamento della guerra incessante che il capitale non ha mai smesso di armare e combattere contro l’esuberanza dei corpi. Le pagine relative alla rivolta dei Piedi scalzi sono già apparse in forma diversa sull’inserto domenicale de il manifesto: ringrazio Francesca Borrelli per avermi proposto di scriverle. Nel quarto capitolo, le analisi di Foucault sul rapporto tra inclusione ed esclusione, che lui stesso riconduce allo “schema del Secondo Impero o del fascismo”, mi hanno persuaso a individuare nel boulevard parigino uno degli spazi archetipici del decoro. Nel quinto, ho tentato di estendere il paradigma del boulevard e del “metodo Haussmann” alla formazione della città industriale, con particolare riferimento alla funzione morfogenetica che Friedrich Engels attribuisce al pudore nello sviluppo di Manchester. Una prima versione di questo lavoro l’ho presentata in occasione del seminario su “La Manifattura Tabacchi a Bologna di Pier Luigi Nervi tra storia e riuso”, organizzato e coordinato da Micaela Antonucci, che ringrazio. Nel sesto capitolo, attraverso le riflessioni di Frantz Fanon, propongo di interpretare le politiche per il decoro come una forma di provincializzazione delle politiche coloniali e della loro insistenza sulla dimensione estetico-percettiva dell’assoggettamento. Anche in questa luce, risultano centrali la figura del migrante e la produzione dei luoghi deputati al suo trattenimento. Ringrazio la Fondazione Ex-Campo di Fossoli per avermi dato l’opportunità di presentare un primo esito di questa ricerca nel corso del convegno internazionale “Campi di transito in Europa dalla seconda guerra mondiale a oggi” e la rivista “European Journal of Creative Practices in Cities and Landscapes”, che ne ha pubblicata una parte. Nel settimo capitolo sviluppo il tema delle gabbie percettive in rapporto ai processi di estetizzazione che investono in modo sempre più rilevante l’esperienza urbana e la creazione del valore. In forma di critica alle teorie di Gilles Lipovetsky e Jean Serroy, una prima e differente versione di queste pagine è apparsa su “Iride. Filosofia e discussione pubblica”, mentre del rapporto tra artisti e vandali avevo già scritto sul catalogo della mostra 1984. Evoluzione e rigenerazione del writing: ringrazio il curatore Pietro Rivasi. Nel capitolo conclusivo, infine, associo la

INTRODUZIONE

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domanda di decoro al feticismo della merce, con particolare riferimento al legame tra i bisogni e la conformazione dei luoghi destinati a crearli e soddisfarli. Oggi mi pare che senza il lavoro di intervento che abbiamo progettato qualche anno fa insieme a Luca Negrogno e Pietro Tarozzi, al tema del decoro non mi sarei mai risolto a dare tanta importanza: li ringrazio entrambi. Per l’odio che ci accomuna nei confronti di quella che lui ha meravigliosamente definito l’ondata pulizionista (e per la promessa reciproca di ricorrere al flessibile qualora nella nostra città fossero comparse le panchine con il dissuasore) ringrazio Ugo Cornia. Un ringraziamento analogo lo devo a Francesco Fantoni e Roberto Rabitti, ai quali ho inflitto un numero spaventoso di conversazioni sui temi del progetto modernista e del movimento punk. Grazie ad Andrea Pederzini per avermi invitato a parlare di Fanon presso il Laboratorio Scossa di Modena, dove in seguito ho avuto il piacere di contribuire a una bella serata di dibattito con Wolf Bukowski: grazie anche a lui. E sempre a Modena, è notevole il debito che non solo queste pagine hanno contratto con il blog Militantduquotidien. Questo è poi l’esito ancora parziale di una ricerca che sotto la supervisione di Andrea Borsari sto conducendo presso il Dipartimento di Architettura dell’Università di Bologna: ringrazio Davide Olori e Matteo Cassani Simonetti per la loro disponibilità. La ricerca è finanziata dal programma “Migrazioni e migranti in Italia” della Fondazione Alsos, che mi sta consentendo di avere a che fare con colleghe e colleghi davvero eccezionali. In questa cornice, ho potuto discutere una sintesi del mio lavoro con Sandro Chignola in occasione di un seminario organizzato all’Università di Padova da Devi Sacchetto: li ringrazio entrambi. Ci sono invece ringraziamenti che vengono da molto più lontano: ancora grazie a Mario Lavagetto, per il suo magistero e la sua amicizia, grazie a Giovanni Leoni, a Lina Bolzoni e a Roland Chollet, che posso solo ricordare. Un ringraziamento particolare per il tempo che mi hanno voluto dedicare e per i loro suggerimenti lo devo di tutto cuore a Valentina Antoniol, Giuliana Sanò e Ivano Gorzanelli. Infine, dal giorno stesso in cui mi sono messo a scrivere queste pagine, non avevo dubbi su quale dovesse essere la persona alla quale le avrei dedicate. Andrea Borsari l’ho conosciuto venticinque anni fa mentre ancora diciannovenne cercavo qualcuno che potesse apprezzare un mio imponderabile “saggio su poesia e rivoluzione”. Lo chiamavo così, ma lui lo les-

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se e lo corresse ugualmente. Ricordo ancora la panchina sulla quale stavamo seduti quando mi invitò a prendere in considerazione che se avessi continuato a citare lo storico francese “Paul Weyne” così, con la vu doppia, rischiavo di trasformarlo in un famoso attore di film western. Per dire la pazienza e l’amicizia. Da allora credo di avergli fatto leggere ogni altra riga di ogni altro “saggio” che ho scritto, anche dopo che ho smesso di intendermi di poesia e rivoluzione. Alla gratitudine sconfinata che provo per Andrea, però, oggi si accavalla il dolore per la perdita di Susi Pietri, sua moglie, che ci ha lasciati da pochi mesi. Susi era per me un riferimento insostituibile, un’amica carissima, dalla quale sarei sicuramente corso con il libro appena uscito. Non so come l’avrebbe giudicato (e l’avrebbe giudicato con molta benevolenza), ma sono certo che prima ancora di aprirlo mi avrebbe abbracciato dicendo: “Bravo ragazzaccio, bisogna che festeggiamo!”. E se qua dentro c’è qualcosa di buono, allora, lo dedico proprio a lei. Modena, 30 giugno 2019

CAPITOLO PRIMO

Kracauer e gli spazi tipici

È così bello la domenica mattina attardarsi sotto le coperte calde quando fuori piove. Mentre “le nuvole del temporale si ammassano in cielo” e le automobili giù in strada fendono le pozzanghere con i fari ancora accesi, sentire i figli che giocano davanti al televisore, la sigla e il ricordo infantile di Scooby-Doo, il senso di protezione emanato dalla luce sempre antica della cucina. Ancora meglio, nel sentimento che mi procura questo lento risveglio al riparo da un freddo già invernale, si riattiva la memoria del viandante sui mari ghiacciati e nebbiosi di David Kaspar Friedrich, una traccia del sublime. Qua, allora, su questo lettone dell’Ikea che ho montato tra mille avversità, sarei l’erede dell’ammirazione selvaggia per le azioni più intemerate – direbbe Kant – le gesta del guerriero al quale la civiltà ha poi richiesto di mostrare “nello stesso tempo tutte le virtù della pace, la dolcezza, la pietà e perfino una cura conveniente della persona”1. Cura della persona e dell’ambiente proprietario che lo circonda, anche, la città punitiva in cui ancora questa notte le guardie avranno scovato il nemico sotto un cumulo di stracci, il barbone, il vagabondo al quale puntare una torcia negli occhi per uscire vittoriosi dalla guerra contro l’indecenza. Ha scritto Siegfried Kracauer: “L’analisi delle manifestazioni superficiali di un’epoca aiuta a determinare il posto che assume nel processo storico con più sicurezza che non i giudizi che l’epoca ha dato di sé”2. E allora eccola una manifestazione dell’epoca, un mer1 2

Immanuel Kant, Critica del giudizio, trad. it. di A. Gargiulo, Laterza, Roma-Bari 1994, pp. 89-91. Siegfried Kracauer, La massa come ornamento, in La massa come ornamento, trad. it. di M. G. Amirante Pappalardo e F. Maione, Prismi, Napoli 1982, p. 99. La prospettiva in cui proverò a fare riferimento a Kracauer nelle prossime pagine, è quella di una “filosofia del-

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coledì notte di novembre, mentre dieci senzatetto venivano cacciati da Bologna perché dormivano sotto i portici di viale Masini. Sono i cosiddetti Daspo urbani, quelli comminati dallo stato per farci consumare una vita più decorosa. Ed è sempre Kracauer ad averci spiegato quasi un secolo fa cosa sarebbe accaduto in viale Masini: “Per i disoccupati – scrisse – la proprietà pubblica non è sufficientemente comune da perdere il carattere privato. Come se ciò non bastasse, essi devono tutelare e difendere questa proprietà dalla cui normale partecipazione sono esclusi”3. Bisognerà intendersi, allora, sui significati e l’effettivo movimento di questa esclusione, ma intanto da Bologna hanno subito fatto sapere che “al termine della contestazione dei verbali, tutte le persone si sono allontanate consentendo agli operatori di Hera la pulizia dell’area”. Se ne ricava una posizione abbastanza millimetrica della nostra epoca, simile al punto rosso che posiziona l’osservatore nelle planimetrie appese alle pareti di certi edifici, il ritrovarsi esattamente qui, dove agli uffici stampa dei pubblici poteri preme comunicare di aver tempestivamente provveduto a ripulire le strade dallo sporco e la puzza dei poveri. Un altro grande interprete contemporaneo delle nuove virtù guerriere, dunque, potrebbe risultare il vicesindaco leghista di Trieste che la mattina del 4 gennaio 2019 ha annunciato tramite Facebook: Sono passato in via Carducci, ho visto un ammasso di stracci buttati a terra... coperte, giacche, un piumino e altro; non c’era nessuno quindi presumo fossero abbandonati: da normale cittadino che ha a cuore il decoro della sua città, li ho raccolti e li ho buttati, devo dire con soddisfazione, nel cassonetto: ora il posto è decente! Durerà? Vedremo. Il segnale è: tolleranza zero!! Trieste la voglio pulita!! PS sono andato subito a lavarmi le mani! E adesso si scatenino i benpensanti, non me ne frega nulla!

I giornali locali hanno scoperto che gli stracci appartenevano a un senzatetto rumeno, ma intanto il vicesindaco non si doveva rassegnare all’idea che qualcuno potesse sottovalutare l’importanza della sua impresa, tanto che poche ore dopo tornava alla tastiera per puntualizzare: “Erano degli stracci, spero che non fossero contaminati perché li ho presi a mani nude. Poi me le sono lavate”. Dopodiché, sempre a mani nude e pulite, ha affrontato un intervistatore che gli

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le forme sensibili” tratteggiata da Andrea Borsari in Per una morfologia di cose e immagini. Siegfried Kracauer e Georg Simmel, in “Iride”, 79, XXIX, 2016, pp. 618-631. Siegfried Kracauer, Uffici di collocamento, in La massa come ornamento, cit., p. 138.

KRACAUER E GLI SPAZI TIPICI

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domandava del senzatetto: “Io non faccio la battaglia contro di lui – ha chiarito – ma i cittadini di Trieste devono avere il diritto di camminare in strade decorose. Io non posso tollerare che siano privati della loro libertà”. Il normale cittadino, nel frattempo, si era chiaramente tramutato in un uomo politico che per alimentare il proprio consenso proteggeva gli elettori dalla presenza liberticida della miseria, la stessa della quale non aveva mancato di enfatizzare la ripugnanza, perché il “sublime – scriveva sempre Kant – è ciò che piace immediatamente per la sua opposizione all’interesse dei sensi”4. E che piace al punto da non poterne fare a meno, forse, come testimonierebbe la notevole diffusione dei cosiddetti repulsori negli Stati Uniti e in tutta Europa, dove nella guerra alla ripugnanza non guasta ricorrere ad altre forme di ripugnanza: odori nauseabondi per allontanare da alcuni settori di Argenteuil le persone senza fissa dimora (il Malodore), apparecchi che causano l’emicrania con l’emissione di ultrasuoni (Beethoven) oppure lampade come quelle installate nei parchi di Mansfield, che rendendo incredibilmente vistoso l’acne giovanile tengono alla larga le bande di adolescenti5. Eppure quella in cui si collocano le epifanie di Bologna, Argenteuil, Mansfield o Trieste non si direbbe una posizione storica del tutto inedita, anzi: l’articolo di Kracauer sugli uffici di collocamento in cui la proprietà pubblica non risultava sufficientemente comune da perdere il carattere privato è del 1930. Che non valga la pena rileggerlo, allora, insieme a un secondo articolo che lo stesso Kracauer dedica sette mesi dopo alle sale riscaldate per i barboni di Berlino, riservandoci la possibilità di verificare l’ipotesi che alla precisione di un posizionamento della realtà storica non debbano necessariamente corrispondere “manifestazioni” del tutto nuove e per così dire sincroniche, ma un modo culturalmente determinato di connettere fratture e permanenze, discontinuità e sedimentazioni. Le analisi di Kracauer muovono dalla premessa che “ogni spazio tipico viene creato da rapporti sociali tipici”, i quali agiscono direttamente sulle caratteristiche 4 5

Kant, Critica del giudizio, cit., p. 96. Pierre-Jérôme Delage, Le bruit et l’odeur sur quelques formes nouvelles de la répulsion envers l’altérité humaine, in “Archives de politique criminelle”, 32, 2010/1, pp. 219-227. Sul tema di quella che potremmo definire recinzione acustica vedi anche Nicola Di Croce, Sonic territorialisation in motion. Reporting from the homeless occupation of public space in Grenoble, in “Ambiances. Environnement sensible, architecture et espace urbain”, 3, 2017; Brandon Labelle, Acustic territories. Sound culture and everyday life, Continuum, New York-London 2010.

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di un ambiente senza transitare dalle coscienze. Le forme esteriori e l’ambiente costruito, pertanto, si potrebbero definire i “sogni della società” che tende a riprodurre se stessa6. “Ogni strato sociale – scrive Kracauer – ha lo spazio che gli spetta”. E ai disoccupati spetterà un luogo in cui si realizza la loro esclusione dal processo produttivo, ma dove continuano tuttavia a risplendere “le categorie che gli hanno impresso il marchio di ineluttabile evento naturale”7. È lo stesso marchio che entra immediatamente in scena nell’articolo sulle sale riscaldate, dove circa duemila persone stanno sedute tutti i giorni “sulle panche della sala d’attesa come negli uffici di collocamento”, perché “la natura nella sua bontà tratta allo stesso modo tutti gli uomini, nonostante il loro reddito ineguale, sicché pure i poveri devono soffrire il freddo quando la temperatura si abbassa”8. Così, i manifesti appesi ai muri di questi spazi dovranno contribuire a naturalizzare i rapporti sociali che li hanno prodotti, esortando gli esclusi ad assumere un comportamento più adeguato alla riproduzione dello stesso mondo che naturalmente li respinge. Manifesti che invitano il disoccupato a non correre il rischio di un infortunio sul luogo di lavoro, a rimanere concentrato, perché una disattenzione potrebbe costargli cara: “Pensa a tua madre”, dice la scritta. Manifesti per la prevenzione delle malattie veneree, sul controllo delle nascite o che avvertono: “Un bicchiere di latte introdotto d’un fiato nello stomaco vuoto si coagula in un grumo difficilmente digeribile”. Manifesti che vietano le “soste inutili” a qualcuno che sta forzatamente sostando in un ufficio di collocamento da settimane, mesi, anni. Oppure manifesti che dicono: “È severamente proibito commerciare”, ma in una sala dove le poche cose che passano di mano in mano, assicura Kracauer, “sono semplicemente necessarie per vivere”. Vale a dire che “non sono più semplici merci”, ecco il problema, per cui disubbidiscono alla logica della riproduzione, perché il senso generale di tutti questi manifesti si direbbe proprio quello di confermare la moralità del capitale e l’immoralità di chi ne patisce la valorizzazione, colpevole di non saper nemmeno mangiare, accoppiarsi, fare cose utili, astenersi dal commercio o voler bene alla mamma. Negli uffici di collocamento e nelle sale riscaldate di Kracauer, così, potremmo assistere alla spazializzazione di quella che Marx ha 6 7 8

Kracauer, Uffici di collocamento, cit., pp. 135-136. Ivi, p. 139. Siegfried Kracauer, Sale riscaldate, in La massa come ornamento, cit., p. 161.

KRACAUER E GLI SPAZI TIPICI

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definito variamente una bambinata (die Kinderei), un punto di vista da abbecedario (der Standpunkt der Kinderfibel), il peccato di Adamo ed Eva in materia economica (der ökonomischen Sündenfall) o un idillio (die Idylle)9. Il riferimento di Marx è alla teoria propugnata dall’economia borghese secondo la quale le origini del capitalismo andrebbero ricercate, al tramonto del medioevo, nella caratterizzazione di due categorie ben distinte di individui: da una parte la minoranza delle persone laboriose, dall’altra la maggioranza dei fannulloni. La cosiddetta accumulazione originaria si sarebbe determinata in virtù delle qualità morali che hanno consentito ai primi di accumulare ricchezze, offrendo ai secondi la possibilità di rimanere vivi. Quello che poi a Marx non sfugge, ma che in qualche modo entrerebbe in conflitto con alcune delle sue stesse premesse, è come questo genere di spiegazioni non siano valse una volta per sempre abbattendosi sulle vite sconvolte dalla preistoria del capitalismo, perché anche dopo che ha giustificato l’espropriazione dei commons o la messa a morte dei mendicanti, dissimulando la violenza necessaria alla loro separazione dai mezzi produttivi, si direbbe che con i “lavoratori liberi” la bambinata non abbia ancora finito. Se da un lato il valore della forza lavoro corrisponde al valore dei mezzi di sussistenza necessari alla conservazione di un individuo, scrive infatti Marx, dall’altro il volume dei cosiddetti bisogni necessari, così come il modo di soddisfarli, è a sua volta un prodotto della storia, quindi dipende in larga misura dal grado di civiltà di un paese, [...] ed essenzialmente dalle condizioni in cui, e dalle abitudini ed esigenze di vita con cui, la classe dei lavoratori liberi si è venuta formando [sich gebildet hat]. Contrariamente alle altre merci – conclude Marx – la determinazione del valore della forza lavoro include perciò un elemento storico e morale [ein historisches und moralisches Element]10.

Ora, la mia impressione è che sia proprio questo “elemento storico e morale” a entrare in azione per produrre lo spazio in cui dieci senzatetto possono venir raggiunti a Bologna da un’ingiunzione analoga a quella che nel 1930 commentava Kracauer: “Disoccupati, tutelate e difendete la proprietà comune”11. 9

Karl Marx, Il capitale, trad. it. di A. Macchioro e B. Maffi, Utet, Torino 2017, vol. 1, p. 896-897. 10 Ivi, p. 265. 11 Kracauer, Uffici di collocamento, cit., p. 138.

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Se davvero le manifestazioni superficiali di alcuni spazi tipici ci consentono di stabilire qual è l’esatta posizione che un’epoca sta assumendo nel processo storico, allora, il posizionamento andrà inteso anche come un differimento o un’interferenza, perché le stesse coordinate fornite da Kracauer operavano già ai “primordi della rivoluzione industriale”, come li definisce Edward Thompson, quando “il massimo delitto contro la proprietà era non averne”12. A Londra, così, “il giudice di pace aveva ampi poteri di consegnare l’ubriaco o il vagabondo o la ragazza madre a uno dei tanti Bridewell”, le strutture tipicamente deputate al ripristino del pubblico decoro e alla correzione della “malavita”, una categoria che all’epoca comprendeva anche gli zingari, i disoccupati e i venditori ambulanti13. Ma in questo modo il rapporto tra le “manifestazioni superficiali” e la storia rischia di complicarsi ulteriormente, perché i venditori ambulanti continueranno a indemoniare l’esercizio dei pubblici poteri anche due secoli più tardi, per esempio in Italia, con uno straordinario dispiegamento di agenti e il sequestro di quintali e quintali di mimose sulle strade di Firenze, Venezia, Pesaro, Vigevano, Monza, Bologna, Cervia, Lodi, Como, Novara, Benevento, Rieti, Bari, Savona, Genova, Rimini e Piacenza. Al termine di quelle operazioni, il comandante della polizia locale di Sesto San Giovanni non esitò a rivelarne la delicatezza: “C’è stato un tentativo di scoraggiare la nostra reazione per effetto dell’elevata frammentazione dell’offerta – dichiarò – c’erano tanti venditori con poca merce. Alcuni hanno anche creato delle situazioni di pericolo, scappando e attraversando la strada all’improvviso, rischiando investimenti e incidenti”. Era l’8 marzo 2018, giornata internazionale della donna. Ma fu proprio manipolando lo statuto della povertà che poté avere inizio questa storia. A sostenerlo è Karl Polanyi: non tanto il sorgere delle città operaie, il formarsi dei tuguri, l’impiego assassino dei bambini, i bassi salari, l’aumento della popolazione, la concentrazione delle fabbriche o lo sviluppo tecnologico, quanto il rivoluzionamento del modo in cui vennero trattati, concepiti e castigati in una nuova forma di vita tutti coloro che stentavano a farcela. Sarebbe accaduto in Inghilterra, appunto, con la riforma della legge sui poveri del 1834. Nei tre decenni precedenti, il sistema dei sussidi aveva 12 Edward P. Thompson, Rivoluzione industriale e classe operaia in Inghilterra, trad. it. di B. Maffi, il Saggiatore, Milano 1969, pp. 62-63. 13 Ivi, p. 58.

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impedito la formazione di un autentico mercato della forza lavoro, perché a integrare i salari provvedevano i fondi pubblici amministrati dalle parrocchie. Senza nessuna contropartita, così, anche ai più indigenti veniva assicurata una sussistenza che li rendeva parzialmente autonomi rispetto al fabbisogno crescente e fluttuante di manodopera, determinando una certa tensione tra il diritto alla vita e l’ottimizzazione dei profitti. La legge del 1834 intervenne esattamente su questo nodo, con l’abolizione del diritto incondizionato al sussidio, pretendendo “di fornire un criterio di vera povertà attraverso la prova della workhouse”14. Prima di quella data, spiega Polanyi, non esistendo ancora un mercato concorrenziale del lavoro, non esisteva neppure un capitalismo inteso come sistema sociale: la vera rivoluzione si sarebbe compiuta solo il giorno in cui al povero venne estorta l’ammissione di una così totale mancanza di talenti da destinarlo alla disciplina della workhouse, dove lo sfruttamento doveva assumere il significato moralistico del ritorno a una vita meno sconveniente. Così, mentre “la sepoltura stessa di un povero fu trasformata in un’azione per mezzo della quale i suoi compagni gli rifiutavano la loro solidarietà perfino nella morte”, “l’unità tradizionale di una società cristiana doveva cedere il posto a una negazione della responsabilità da parte della gente perbene verso le condizioni del loro prossimo”15. Sarebbe appena il caso di aggiungere che una parte della comunità ecclesiastica aveva già fatto evolvere l’ideale della sancta paupertas in quello della povertà volontaria16, cioè indipendente dalle cause storiche e sociali, ma è solo con la legge del 1834 che ad assistere il miserabile indicandogli la strada della workhouse può effettivamente bastare la fame, vale a dire il modo in cui l’indigenza viene incorporata sotto forma di natura difettosa nel catechismo della riproduzione17. Eccolo allora il giorno esatto in cui l’azione naturale della fame entra al servizio del capitale, mentre l’uomo accucciato sui cartoni 14 Karl Polanyi, La grande trasformazione. Le origini economiche e politiche della nostra epoca, trad. it. di R. Vigevani, Einaudi, Torino 2010, p. 106. 15 Ivi, p. 130. 16 Silvia Federici, Calibano e la strega. Le donne, il corpo e l’accumulazione originaria, trad. it. di L. Vicinelli, Mimesis, Milano 2015, p. 52. Anche in questo caso si confermerebbe quindi il rilievo secondo il quale Polanyi “sembra rimanere ancora dentro ad una visione della trasformazione come aggressione portata dal di fuori a un mondo sociale [...] capace solo di subire”: cfr. Franco Ramella, Polanyi e il problema storico del mutamento, in “Contemporanea. Rivista di storia dell’800 e del ’900”, V, 4, 2002, pp. 757-762. 17 Polanyi, La grande trasformazione, cit., p. 148. Su questo punto rinvio a Jérôme Maucourant, Avez-vous lu Polanyi?, La Dispute, Paris 2005, p. 127.

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abbandona la realtà storica per rientrare definitivamente nella serie delle “rocce che sporgono audaci in alto e quasi minacciose, le nuvole di temporale che si ammassano in cielo tra lampi e tuoni, i vulcani che scatenano tutta la loro potenza distruttrice, gli uragani che si lasciano dietro la devastazione, l’immenso oceano sconvolto dalla tempesta, la cataratta di un gran fiume”. Ecco il momento in cui anche lo spettacolo della povertà, o di quello che forzando la terza critica di Kant si potrebbe definire il sublime dinamico della povertà ridotta a un caso della natura, “diventa tanto più attraente per quanto è più spaventevole, se ci troviamo al sicuro”18. Il sentimento che questo spettacolo suscita non risiede effettivamente nella natura, “ma soltanto nell’animo nostro”, nella facoltà di giudicare la natura da una prospettiva di sicurezza e di “concepire [quindi] la nostra destinazione come sublime rispetto a essa”19. A partire dalla legge sui poveri del 1834, allora, una volta contrabbandata allo stato dei mari e dei monti, anche la miseria potrà suscitare nell’animo dell’individuo socialmente integrato un sentimento di elezione. “I bassifondi non prosperano solo a Chicago – scriverà Kracauer nel maggio del 1931 – ma sono diventati di moda anche a Berlino”, dove “le bande dei delinquenti hanno assunto la direzione del turismo. [...] Oggigiorno – aggiunge – i borghesi sono attratti da tutte le forze che si trovano al di là dei confini borghesi”20. Starà parlando solo di un film, M – Il mostro di Düsseldorf, ma il senso di questa attrazione lo si poteva già cogliere cinque mesi prima in una dimensione più generale, quando a proposito delle sale riscaldate lo stesso Kracauer non escludeva ironicamente “che il pensiero della loro esistenza [riuscisse] di conforto proprio a coloro che abitano nei quartieri con il riscaldamento centrale”21. A questo punto però sarebbe sbagliato attribuire alle analisi di Kant un significato psicologico, perché è solo entrando in rapporto con lo sviluppo delle idee morali che un motivo di spavento può diventare sublime, elevando l’esperienza estetica al livello trascendentale dell’imperativo categorico o dei giudizi fondati a priori. Quando un’immagine ci commuove pretendiamo che lo facciano anche gli altri e li accusiamo di insensibilità se rimangono indifferenti: è 18 Kant, Critica del giudizio, cit., p. 90. 19 Ivi, p. 92. 20 Siegfried Kracauer, Nuovi film. Bassifondi, in appendice a Da Caligari a Hitler. Una storia psicologica del cinema tedesco, a cura di Leonardo Quaresima, Lindau, Torino 2007, p. 454. 21 Kracauer, Sale riscaldate, cit., p. 161.

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l’ancoraggio del sublime nella giurisdizione della ragion pratica a renderlo un sentimento necessario, che pertanto non si determina più nel campo della “psicologia empirica” ma in quello formalmente universale del giudizio estetico22. Kant, in questa luce, ci consentirebbe di osservare qual è la tendenza al consolidamento di una norma (la pretesa della commozione altrui) a partire dal momento in cui la percezione entra in simbiosi con la morale, derivandone una sorta di promozione o di avanzamento di carriera dal livello dei giudizi possibili a quello dei giudizi necessari. Le politiche per il decoro si potrebbero allora definire come un investimento di questa deriva modale nella produzione di uno spazio che permette di mimetizzare la riproduzione dei rapporti economici – con la loro quota di fame – nel rispetto di una decenza per così dire categorica e universale. Da questo punto di vista una domanda importante l’ha però posta Tamar Pitch: “A chi verrebbe in mente di chiamare decorosa l’abitazione di un ricco?”23. Azzardiamo una risposta: a nessuno, perché il criterio che interviene nella valutazione estetico-morale della ricchezza è diverso, il decoro abbandona immediatamente la scena e l’abitazione in pendenza di giudizio, adesso, si espone semmai al rischio di risultare pacchiana, volgare o cafona, cioè di confermare il punto di vista per niente universale che ricopre d’infamia la povertà (il patulum di patulanum è il pascolo, il vulgus è la plebe e per quanto l’etimologia di cafone rimanga incerta rinvia senz’altro a un’origine contadina). È anche in questo modo che la miseria non smette mai di dare spettacolo, come osservava lo stesso Kracauer: “Ora fa visibilmente sfoggio dei suoi stracci rattoppati, ora, con pudore borghese, si ritira in un angolo nascosto. Nel caso di quel sarto vestito meglio degli altri la povertà si è scelta come ultimo rifugio i polsini della camicia”24. Ma non esistono nascondigli sicuri, tanto più nella città neoliberista, dove il presunto torto e la fuga della miseria servono a ribadire che la società non esiste. A sublimare questa fuga, ha provveduto il passaggio al postmoderno, con il quale anche lo spazio urbano diventa “qualcosa di indipendente e di autonomo, che deve essere modellato secondo fini e principi estetici non necessariamente legati ad alcun 22 Kant, Critica del giudizio, cit., p. 94. 23 Tamar Pitch, Contro il decoro. L’uso politico della pubblica decenza, Laterza, Roma-Bari 2013, p. 8. 24 Kracauer, Uffici di collocamento, cit., p. 139.

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obiettivo sociale”25. Così, sostiene David Harvey, alla vecchia zonizzazione dell’urbanista, che pure rispondeva all’esigenza di ricostruire le città, creare la piena occupazione e garantire il welfare fisico, viene progressivamente sovrapposta la disciplina morfologica di “una zonizzazione prodotta dal mercato e basata sulla capacità di pagare”26. Il cambiamento di prospettiva si rispecchia in “una straordinaria trasformazione degli stili di vita”, che al tempo stesso partecipano e si adattano alla produzione di uno spazio pubblico “in cui il consumismo, il turismo, l’industria della cultura e della conoscenza, così come il perenne ricorso all’economia dello spettacolo, sono diventati i principali aspetti dell’economia politica urbana”27. Politica in cui si fondono armoniosamente due chiari obiettivi, secondo Harvey, dal momento che: [i territori] devono farsi pubblicità, proponendosi al mercato come le migliori posizioni disponibili per funzioni produttive, di consumo o di comando. La costruzione di un’immagine urbana [...] diventa quindi un aspetto rilevante della concorrenza interurbana, e al tempo stesso rappresenta un buon modo di riunire intorno a una causa comune una popolazione potenzialmente alienata28.

Il problema fondamentale, però, è che a riunire la popolazione alienata si candidano le determinanti di una città ridotta alla propria immagine concorrenziale e feticistica, cioè interne al cerchio dell’alienazione. Ci ritroviamo così di fronte a un meccanismo perfetto, che si alimenta dei propri gas di scarico, un luogo in cui la risposta a qualcosa che è andato incredibilmente storto consiste nel favorire “le stesse forme di oppressione e le stesse prescrizioni che hanno generato il problema”: sarebbe questa la struttura logica della revanchist city, secondo Neil Smith29. In realtà, scrive il geografo scozzese, la 25 David Harvey, La crisi della modernità, trad. it. di M. Viezzi, il Saggiatore, Milano 1997, p. 89. 26 Ivi, p. 102 27 David Harvey, Il diritto alla città, in Il capitalismo contro il diritto alla città, trad. it. di C. Vareschi, ombre corte, Verona 2012, p. 23 28 David Harvey, L’esperienza urbana, trad. it. di G. Ballarino, il Saggiatore, Milano 1998, p. 271. 29 Neil Smith, The New Urban Frontier. Gentrification and the revanchist city, Routledge, London and New York 1996, p. 207. Per un confronto tra le strategie revansciste della città americana e le strategie europee vedi Justus Uitermark e Jan Willem Duyvendak, Civilising the City: Populism and Revanchist Urbanism in Rotterdam, in “Urban Studies”, 45, 7, 2008, pp. 1485-1503. Sul rapporto tra etica imprenditoriale, città e revanscismo vedi

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stampa occidentale ha già fatto ricorso a questo genere di soluzioni ogniqualvolta le pestilenze, i terremoti o i massacri del Terzo Mondo non le sono risultati del tutto estranei a “una vendetta della natura contro una parte dell’umanità fatalmente imperfetta”, ma ora lo stesso copione viene interpretato sulle strade di New York, dove alla crisi economica intervenuta verso la fine degli anni Ottanta si è immediatamente associata la presunta colpevolezza di una marginalità interna30. Così, la borghesia declassata dal crollo dei valori immobiliari, la minaccia della disoccupazione, i tagli alla spesa pubblica e l’emergere di nuovi attori urbani, ha imputato il furto della città alla presenza in qualche modo colpevole o difettosa degli immigrati, i mendicanti, le minoranze sessuali, dissimulando la propria alienazione nel “linguaggio populista” della moralità civica e della sicurezza31. Qualcosa come la stampa occidentale, a dire il vero, aveva già cominciato a mettere in circolazione un certo tipo di sostanze tossiche molto prima di imparare a sversarle nel Terzo Mondo: le grandi epidemie di peste, per esempio, hanno da sempre rinviato alla presenza in città degli ebrei e delle prostitute, ai loro peccati e al modo in cui Dio si doveva essere risolto a sanzionarli. Ma ciò non toglie che nella prospettiva dei rapporti storici e più contemporanei in cui Smith inquadra l’emergenza, la revanchist city si possa definire anche una città postcoloniale32: sarà di questa possibilità che proverò a occuparmi nel capitolo dedicato a Fanon. La città revanscista, intanto, avrà ricodificato la presenza dei senzatetto come un attentato alla qualità della vita, una rubrica in cui si confondono “termini fisici, legali e retorici” per attribuire alla polizia il potere di rimuovere gli individui da alcune strade, di obbligarli a vivere altrove, nei tremendi quartieri che meritano. È dunque l’era del sindaco Giuliani, scrive Smith, la costruzione di un nuovo spazio pubblico che alla confusa responsabilità dei soggetti intollerabili fa corrispondere il taglio dei fondi destinati alle loro mense. Il cittadiGordon MacLeod, From Urban Entrepreneurialism to a “Revanchist City”? On the Spatial Injustices of Glasgow’s Renaissance, in “Antipode”, 34, 3, 2002, pp. 602-624. Per un tentativo di applicazione dello stesso paradigma nell’analisi delle trasformazioni urbane che investono il sud del mondo vedi Kate Swanson, Revanchist Urbanism Heads South: The Regulation of Indigenous Beggars and Street Vendors in Ecuador, in “Antipode”, 39, 4, pp. 708-728; Chinwe R. Nwanna, Right To The City: Lagos, An Emerging Revanchist City In Nigeria?, in “Advances in Social Sciences Research Journal”, 5, 4, 2018, pp. 59-69. 30 Smith, The New Urban Frontier, cit., p. 208. 31 Ivi, p. 207. 32 Per un’interpretazione dei rapporti tra la città appestata e la città coloniale mi permetto di rinviare a Pierpaolo Ascari, Ebola e le forme, Manifestolibri, Roma 2016.

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no e la forza lavoro revanscista costano meno, infatti, favorendo lo sviluppo di una “zonizzazione per decreto” basata sull’emergenza di smistare i poveri nella città attraverso la sospensione del loro diritto a plasmare lo spazio o lasciarvi anche solo delle tracce33. E sono proprio queste tracce, con il rilievo concesso alla loro soppressione e alla relativa performatività del paesaggio percepito, a trattenere la città contemporanea nel paradigma della città punitiva, come la definisce Michel Foucault, lo spazio fisico e al tempo stesso morale nel quale il fantasma della punizione è “presente ovunque come scena, spettacolo, segno, discorso”34. Non si tratta più di arrestare, rinchiudere, suppliziare, ma di trasferire nella dimensione estetica le istanze dell’innocenza e della colpa: “Agli incroci, nei giardini, sui bordi delle strade che vengono rifatte o dei ponti che vengono costruiti, nei laboratori aperti a tutti, nel fondo delle miniere che si vanno a visitare: mille piccoli teatri dei castighi”35. Così, alla fine degli anni Settanta, Stanley Cohen poteva legittimamente sospettare che la nuova città punitiva fosse quella in cui la comunità stava definitivamente incorporando le prerogative del carcere e del manicomio, assicurando al rito del capro espiatorio e al controllo sociale una copertura possibilmente più estesa rispetto a quella degli apparati36. L’animale non veniva più esiliato in “una regione selvaggia”, nei luoghi nettamente separati dalla città come l’isola, il cronicario, la prigione o il deserto, ma dovunque si replicasse il fallimento della sua reintegrazione. Con lo smantellamento del welfare, oggi, il rito purificatorio viene socializzato nelle forme altrettanto ubiquitarie del risentimento, mentre lo stato torna ad assumere un ruolo centrale nella recinzione della città rispetto alle nuove regioni selvagge come le periferie, l’iperghetto o la frontiera delle migrazioni37. Ma la città punitiva continua effetti33 Willem Schinkel, Marguerite van den Berg, City of Exception: The Dutch Revanchist City and the Urban Homo Sacer, in “Antipode”, 43, 5, 2011, pp. 1930-1933. 34 Michel Foucault, Sorvegliare e punire. Nascita della prigione, trad. it. di A. Tarcetti, Einaudi, Torino 1993, p. 142. Per un’analisi più approfondita della riflessione di Foucault sul tema della città negli anni successivi a Sorvegliare e punire vedi Pierandrea Amato, La genealogia e lo spazio. Michel Foucault e il problema della città, in Filosofie della metropoli. Spazio, potere, architettura nel pensiero del Novecento, a cura di Matteo Vegetti, Carocci, Roma 2009, pp. 49-78. 35 Foucault, Sorvegliare e punire, cit., p. 123. 36 Stanley Cohen, The Punitive City. Notes on the Dispersal of Social Control, in “Contemporary Crises”, 3, 1979, p. 356. 37 Loïc Wacquant, I reietti della città. Ghetto, periferia, stato, trad. it. di S. Paone e A. Petrillo, ETS, Pisa 2016.

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vamente a rappresentare un’alternativa teorica alla prigione, come sostengono Foucault e Cohen, se non altro perché consente di estendere la rete dell’espiazione oltre il perimetro delle colpe tradizionali, laddove risulta sconveniente e viene quindi messa al bando la mancanza di un’alternativa al parco cittadino per trascorrere la notte o bere una birra in compagnia38. Una volta allontanati da Bologna, così, anche sulle tracce dei senzatetto di viale Masini continueranno ad accanirsi gli addetti alla pulizia dei marciapiedi, gli uffici stampa e i vicesindaci a mani nude di Trieste, supportati dal lavoro infaticabile delle panchine con il dissuasore o di qualunque altro prodotto di unpleasant design. Spuntoni, soglie chiodate, gabbie, rastrelliere, reti metalliche, repulsori: il paesaggio urbano si riempie di agenti silenziosi o di architetture del controllo che rendono sempre più irriconoscibile “il confine tra interesse pubblico e interesse privato”, ma nella più totale evidenza dei soggetti cui devono complicare la vita: i poveri, gli stranieri, le controculture39. Dal momento che lo spazio pubblico viene appaltato ai consumi, infatti, sarà la forma-merce a determinarne gli usi, respingendo ai margini tutti i comportamenti e gli stili di vita indesiderati. La presenza dei senzatetto, quindi, anche senza interferire con la circolazione del capitale, danneggia gli spazi progettati o concessi allo scopo di facilitarne le prestazioni, costruiti in rapporto alla riproduzione di un pubblico ideale che teme il crimine, colpevolizza la povertà e non tollera l’accattonaggio40. Mentre chi dorme sulle panchine disobbedisce al più elementare principio morfogenetico della città revanscista e punitiva, alla sua estetizzazione per decreto, esecutiva e disciplinare, riproponendo una versione dell’ambiente urbano sufficientemente porosa da lasciar intravvedere gli aspetti meno neutrali dell’armonia estetica tacitamente instaurata dal panorama delle merci41. Servendo a tutelare questo paesaggio, così, dislocandone il feticismo nel cosiddetto spazio pubblico, sarà possibile affermare che proprio come la merce alla quale rinviano le loro funzioni, le panchine con il dissuasore si direbbero a prima vista una cosa ovvia 38 Katherine Beckett, Steve Herbert, Banished. The New Social Control in Urban America, Oxford University Press, Oxford 2010. 39 Gordon Savičić, Selena Savić, Unpleasant design, G.L.O.R.I.A., Belgrade 2012, p. 54. 40 James Petty, The London Spikes Controversy: Homelessness, Urban Securitisation and the Question of ‘Hostile Architecture’, in “International Journal for Crime, Justice and Social Democracy”, 5, 1, 2016, pp. 71-72. 41 Ivi, pp. 73-75.

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e banale, ma non lo sono affatto. Qualcuno ha proposto di classificarle nella categoria dei moralizing spaces, gli spazi “specificamente progettati per mediare o modificare il comportamento umano”42. Ma il problema è che gli elementi di questa mediazione, oggi, “vengono progettati con un ampio consenso sociale” che tende a farli risultare scontati, necessari, oggettivi, opportunamente morali ma non moralizzanti: spatialising morality. Se la città contemporanea respinge l’idea degli spazi deputati a socializzare una determinata condotta giudicandoli “anacronistici”, quindi, è solo per sostenerne con più efficacia l’azione, svincolando la presunta moralità degli spazi dal rapporto che continua a intrattenere con interessi e obiettivi molto specifici. Conclude Jeffrey Chan: “Non è affatto un’ironia immaginare che i moralizing spaces più efficaci siano quelli meno sospetti”43. Le panchine con il dissuasore, dunque, rendono insospettabile la continua trasposizione dei rapporti sociali nella forma fantasmagorica dei rapporti più armonici, decorosi e naturali tra i singoli elementi del paesaggio urbano. Ad abbandonare la scena, in questo modo, è l’evidenza dello stesso principio che Santa Giovanna dei Macelli riassumeva così: “Signori miei, esiste anche un potere d’acquisto morale. Se possedete il potere d’acquisto morale avrete anche la morale. E quando dico potere d’acquisto intendo una cosa semplicissima e naturalissima, cioè denaro, salari”44. Una rappresentazione molto immediata della stessa dottrina, l’ha fornita l’artista tedesco Fabian Brunsing con il progetto Pay & Sit - the Private Bench, una panchina rifornita di punte metalliche che si ritraevano solo inserendo cinquanta centesimi in una cassetta simile a quella dei videogiochi. Nelle riprese dell’installazione, un uomo che si direbbe appena uscito dall’ufficio attraversa il parco, acquista la possibilità di sedersi e ne approfitta per mangiare una mela. Dopo qualche minuto, un allarme avverte l’uomo che il tempo a sua disposizione sta per scadere e lui se ne va. Ma non è affatto necessario che l’insert coin rimanga tanto letterale per assistere a forme analoghe di selezione: proprio come aveva detto Marx della produzione di merci, le trasformazioni 42 Jeffrey Chan, Moral Agency in Architecture? The Dialectics of Spatialising Morality and Moralizing Spaces, in Anna-Lisa Müller, Werner Reichmann (a cura di), Architecture, Materiality and Society. Connecting Sociology of Architecture with Science and Technology Studies, Palgrave Macmillan, New York 2019, p. 199. 43 Ivi, p. 209. 44 Bertolt Brecht, Santa Giovanna dei Macelli, trad. it. di R. Leiser e F. Fortini, Einaudi, Torino 1963, p. 47.

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Fabian Brunsing, Pay & Sit - the Private Bench.

che stanno investendo lo spazio pubblico non si limitano a creare “un oggetto per il soggetto, ma anche un soggetto per l’oggetto”45, tendenzialmente pagante oppure colpevole. L’unpleasant design serve a estrinsecare questa tendenza, con la caratteristica di non ambire mai a risolvere un problema, ma di spostarlo. Così, dall’autostazione di Bologna alla provincia francese, da Londra a New York, fino a Lagos, Shangai o le città dell’Ecuador, i dieci senzatetto di viale Masini dovranno continuare a girare il mondo imbattendosi dovunque in una sacra rappresentazione della loro messa al bando, continuamente reduci da una guerra alla sconvenienza che tutte le forme di architettura ostile – secondo Gordon Savičič e Selena Savić – avrebbero ereditato dalla ricostruzione imperiale di Parigi, ai tempi del barone Haussmann46.

45 Karl Marx, Lineamenti fondamentali della critica dell’economia politica, trad. it. di E. Grillo, Nuova Italia, Firenze 1997, vol. I, p. 16. 46 Savičić, Savić, Unpleasant design, cit., p. 5.

CAPITOLO SECONDO

Marx e l’altro tempo

Prima di avventurarci nella Parigi ottocentesca e nella calca del boulevard, bisognerà ritornare sulle pagine in cui Marx operava una distinzione tra queste forme extra-economiche di disciplinamento e il giorno in cui avrebbero cominciato a mimetizzarsi nella muta pressione dei rapporti economici (der stumme Zwang der ökonomischen Verhältnisse)1. Anzi, attraverso la rilettura di Marx, vorrei sottolineare come la tendenza a molestare i poveri e la produzione di un nuovo spazio urbano in cui la proprietà pubblica non risulta sufficientemente comune da perdere il suo carattere privato, costituiscano un’ulteriore conferma di quanto il capitalismo rimanga correlato a una “preistoria” sempre rimossa, spietata e ricorsivamente attuale. In questa prospettiva, la fioritura delle gated communities e l’estensione del loro paradigma al carattere esclusivo di parchi, piazze, porticati e zone commerciali, rappresenterebbero il prolungamento della cosiddetta accumulazione originaria nella creazione di nuovi recinti che criminalizzando la presenza di poveri, senzatetto, ambulanti, attivisti politici, migranti e tipi strani, alterano la percezione dello spazio per incrementarne il valore di scambio2. Si tratta di una prospettiva che lo stesso Marx sembrava escludere nei Gründrisse, dove si riferisce alle “condizioni antidiluviane del capitale” che “fanno parte del passato e perciò della storia della sua formazione, ma non certo della sua storia contemporanea”3. L’esempio che porta è molto chiaro: la fuga dei servi della gleba verso le città rappresenta sicuramente una delle condizioni che hanno favorito la nascita del sistema comunale, 1 2 3

Marx, Il capitale, cit., p. 923. Stuart Hodkinson, The new urban enclosures, in “City”, 16, 5, 2012. Marx, Lineamenti fondamentali della critica dell’economia politica, cit., vol. II, p. 80.

MARX E L’ALTRO TEMPO

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il quale però non implica più la stessa fuga, una volta instaurato. E così “le condizioni e le premesse del divenire, nella nascita del capitale, sottintendono appunto che esso non è ancora, ma soltanto diviene; esse scompaiono perciò in presenza del capitale reale, del capitale che, partendo dalla propria realtà, pone esso stesso le condizioni della sua realizzazione”. In questo modo Marx intende liquidare l’idea che l’accumulazione sia “dovuta puta caso ad un risparmio sui prodotti e valori creati col proprio lavoro” dal capitalista, dal momento che si tratterebbe solo di una condizione preliminare “che egli ha realizzato in qualità di non capitalista” e dunque esterna all’azione immanente del modo di produzione. In riferimento ai Gründrisse, allora, che però verranno pubblicati solo tra il 1939 e il 1941, cioè dopo la sua morte, si direbbe che Rosa Luxemburg avesse ragione: stabilendo una frattura netta tra metodi storici e metodi preistorici o tra lo sfruttamento del lavoro salariato e la messa a morte, Marx non si sarebbe accorto che queste “due facce dell’accumulazione del capitale sono legate organicamente l’una all’altra dalle condizioni della riproduzione e [che] solo in questo loro stretto rapporto il ciclo storico del capitale si compie”4. Al contrario, secondo Dipesh Chakrabarty una lettura più integrale dei Gründrisse consentirebbe di interpretare i passaggi relativi al divenire o al non essere ancora del capitale in una prospettiva non molto distante dalle conclusioni cui perviene la Luxemburg. Il non ancora, infatti, non andrebbe inteso come un momento esterno o anteriore all’essere, ma come ciò che lo tiene in vita consentendogli di superare continuamente i propri limiti, vale a dire di corrispondere alla propria essenza. Se al divenire non attribuiamo questa funzione strutturale, scrive Chakrabarty, “si ha una visione storicista che riporta alla concezione della storia come sala d’aspetto, come periodo necessario per realizzare la transizione al capitalismo in tutte le situazioni di spazio e tempo particolari”5. Quella del non ancora è una funzione logica e decostruttiva, invece, che Chakrabarty illustra con l’esempio di un operaio che varca tutte le mattine i cancelli della 4

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Rosa Luxemburg, L’accumulazione del capitale. Contributo alla spiegazione economica dell’imperialismo, trad. it. di B. Maffi, Einaudi, Torino 1960, pp. 453-454. Per l’analisi del rapporto tra Marx e la critica di Rosa Luxemburg rinvio a David Harvey, Il segreto dell’accumulazione originaria, in Introduzione al Capitale. 12 lezioni sul primo libro e sull’attualità di Marx, trad. it. di F. Ceccherini, La casa Usher, Lucca 2014, pp. 293-301. Dipesh Chakrabarty, Provincializzare l’Europa, trad. it. di M. Bortolini, Meltemi, Roma 2004, pp. 94-96.

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fabbrica. In quel momento il lavoratore personifica la separazione storica tra la capacità di lavorare e i mezzi necessari per farlo, l’adeguamento alla disciplina del lavoro astratto e alla relativa “Storia 1” del capitale. Tuttavia, prosegue Chakrabarty, il nostro ipotetico operaio incarna anche altri tipi di passato. Questi ultimi, raggruppati dalla mia analisi nella Storia 2, possono essere sottomessi al dominio strutturale della logica del capitale e stare in una relazione di prossimità nei suoi confronti, ma non fanno parte del suo “processo vitale”. Essi permettono al portatore umano di forza lavoro di realizzare altre modalità di essere nel mondo – diverse, cioè, da quella di portatore di forza lavoro. Non possiamo nemmeno sperare di elaborare una descrizione completa di questi passati: essi si trovano parzialmente incarnati nelle abitudini corporee delle persone, nelle pratiche collettive inconsce, nelle riflessioni su ciò che significa stare nel mondo come essere umano e stare in relazione con altri esseri umani nel contesto che ci è dato. Nulla di tutto ciò si adatta automaticamente alla logica del capitale.

Da un lato, quindi, “il processo disciplinare della fabbrica serve [...] ad assoggettare/distruggere la Storia 2”, ma dall’altro Marx potrebbe aver indicato, con questi “fenomeni apparentemente pre- o non-capitalisti”, “il luogo di una battaglia ancora in corso”. A rendere opportuno l’uso del condizionale sono le precauzioni dello stesso Chakrabarty, il quale non manca di ammettere che in riferimento al non ancora, “nella frase di Marx rimane [...] una certa ambiguità e un equivoco temporale”, ma la sua interpretazione della temporalità sembra confortata dal modo in cui Sandro Mezzadra e Brett Nielsen propongono di impostare il confronto tra il testo di Marx e quello della Luxemburg in rapporto alla funzione dello spazio. Sebbene rimanga importante l’accento posto da Luxemburg sul ruolo giocato dal “fuori costitutivo” nello sviluppo capitalistico – scrivono – la comprensione di questo fuori in termini esclusivamente territoriali non le ha permesso di cogliere l’eccezionale elasticità del quadro teorico di Marx. La combinazione di “plusvalore assoluto” e “relativo” nella comprensione dell’espansione (estensiva e intensiva) delle frontiere del capitale apre una nuova prospettiva sulla produzione continua di questo fuori costitutivo (attraverso “la produzione di bisogni nuovi e la scoperta e la creazione di nuovi valori d’uso”) che può proseguire ben oltre il punto in cui non esistono più territori che si collochino concretamente al di fuori del dominio del capitale6. 6

Sandro Mezzadra, Brett Neilson, Confini e frontiere. La moltiplicazione del lavoro nel mondo globale, trad. it. di G. Roggero, il Mulino, Bologna 2014, p. 98.

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Anche lo spazio ancora esterno ma costitutivo dello sviluppo capitalistico, dunque, non andrà inteso “come sala d’aspetto” della conquista imperiale, ma viene costantemente prodotto dal capitale sulla frontiera interna dei bisogni in quanto “luogo di una battaglia ancora in corso”. Il legame organico tra le due facce dell’accumulazione, di conseguenza, non rinvia esclusivamente alla cornice storica e geografica del colonialismo, ma si determina in rapporto all’azione del capitale e alla logica estrattiva (e dunque coloniale) che informa dovunque la spazialità della valorizzazione. Per noi si tratterà anche di porre il problema degli intrecci tra le politiche per il decoro, che sono innanzitutto politiche dello spazio, e l’emergenza politica di questa frontiera interna. Intanto, però, a non concordare con l’interpretazione di Chakrabarty è Ellen Meiksins Wood, secondo la quale nelle pagine dei Gründrisse dedicate alle Forme precedenti la produzione capitalistica, Marx si atterrebbe effettivamente a una teoria della transizione che riduce la storia a una sala d’aspetto. Qui, osserva, il contributo delle forme non capitalistiche allo sviluppo del capitalismo verrebbe limitato alla concessione di spazi nei quali la mentalità e l’iniziativa economica più propriamente borghesi poterono progredire, ma indipendentemente dalla dinamica intrinseca e dai rapporti di proprietà costitutivi del passato, i quali risultano via via sempre più residuali e in ritardo rispetto all’affermazione della borghesia7. La ricchezza come fine a se stessa, aveva scritto in effetti Marx, si ritrova solo tra i popoli commerciali “che vivono nei pori del mondo antico come gli ebrei vivono nei pori della società medievale”8, ma “una volta cancellata la limitata forma borghese”, la ricchezza non è altro che “il pieno sviluppo del dominio dell’uomo sulle forze della natura, sia su quelle della cosiddetta natura sia su quelle della propria natura”, cioè lo “sviluppo di tutte le forze umane come tali, non misurate su di un metro già dato”. Da un punto di vista antropologico, allora, a caratterizzare la preistoria separandola nettamente dal capitalismo, sarebbe la presenza di un soggetto che “non cerca di rimanere qualcosa di divenuto, ma è nel movimento assoluto del divenire”, mentre “nell’economia borghese, e nella fase 7 8

Ellen Meiksins Wood, Il materialismo storico nelle Forme che precedono la produzione capitalistica, in Marcello Musto (a cura di), I Grundrisse di Karl Marx. Lineamenti fondamentali della critica dell’economia politica 150 anni dopo, ETS, Pisa 2015, pp. 170-171. Marx, Lineamenti fondamentali della critica dell’economia politica, cit., vol. II, p. 112.

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storica di produzione cui essa corrisponde, questa completa estrinsecazione della natura interna dell’uomo si presenta come un completo svuotamento”. Ora, si tratta chiaramente dell’analisi relativa a una delle tante forme che in Marx hanno sempre la funzione di descrivere una tendenza, un modo di essere che non trascende mai nella prima philosophia, dal momento che “la forma è determinata dal tempo e in esso nasce, passa e muta”9, ma è comunque possibile stabilire che se in questa prospettiva “le condizioni e le premesse del divenire, nella nascita del capitale, sottintendono appunto che esso non è ancora”, sarà perché “in presenza del capitale reale, del capitale che, partendo dalla propria realtà, pone esso stesso le condizioni della sua realizzazione”, la cosiddetta natura degli individui e dei loro rapporti di produzione tende a “rimanere qualcosa di divenuto”. Certo, concede Marx, il capitale e il lavoro salariato riproducono questi rapporti e ne attuano “l’estensione oggettiva”, ma senza modificarne la qualità, il principio della separazione tra il denaro divenuto capitale e l’operaio astratto, svuotato, divenuto merce. Perché “il capitale, di suo, non fa altro che unificare le masse di braccia e gli strumenti che esso trova già. Esso le agglomera sotto il suo potere. Questa è la sua effettiva accumulazione; l’accumulazione di operai in alcuni punti, assieme ai loro strumenti”10. Accumulazione degli uomini e accumulazione del capitale – confermerà Foucault in Sorvegliare e punire11. A mio modo di vedere, allora, ha ragione Meiksins Wood quando sostiene che nello sforzo di opporre alla teleologia della storia il rifiuto di proiettare i principi del capitalismo e della sua riproduzione indietro nel tempo12, Marx stabilisce una dicotomia tra l’essere e il divenire (o la storia e la preistoria) che rende opportune le precisazioni di Rosa Luxemburg, così come ha ragione ad anticipare che alcuni passaggi del Capitale implicheranno una stratificazione dei tempi che i Gründrisse non sembrano disposti a concedere13. Il movimento attraverso il quale il modo di produzione continuerà a trovare già 9 10 11 12 13

Alfred Sohn-Rethel, Lavoro intellettuale e lavoro manuale. Per una teoria della sintesi sociale, trad. it. di F. Cappellotti, Feltrinelli, Milano 1977, pp. 38-40. Marx, Lineamenti fondamentali della critica dell’economia politica, cit., vol. II, p. 139. Foucault, Sorvegliare e punire, cit., p. 93. Meiksins Wood, Il materialismo storico nelle Forme che precedono la produzione capitalistica, cit., p. 178. L’ipotesi della stratificazione è impostata e approfondita in modo esemplare da Massimiliano Tomba in Strati di tempo. Karl Marx materialista storico, Jaca Book, Milano 2011.

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formati gli elementi della propria costituzione, allora, coinvolgerà proprio la sfera delle abitudini, delle pratiche e dell’inestinguibile non-contemporaneità che secondo Chakrabarty sostanziano la definizione della Storia 2. Mi pare già questa l’indicazione che possiamo ricavare dalla celebre avvertenza che Marx inserisce nella prefazione del 1867, quando scrive: Oltre alle miserie moderne ci affligge tutta una serie di miserie ereditarie, derivanti dal fatto che continuano a vegetare modi di produzione antiquati e sopravvissuti a se stessi, col loro codazzo di rapporti sociali e politici anacronistici. Soffriamo a causa non soltanto dei vivi, ma dei morti. Le mort saisit le vif!14.

Nei termini dei Gründrisse, allora, si potrebbe stabilire che siamo già “in presenza del capitale”, che però continua a sussumere modi e rapporti di produzione sopravvissuti all’epoca del suo “divenire”, mettendo a valore “non solo lo sviluppo, ma anche l’assenza di sviluppo della produzione capitalistica”. Sviluppo e assenza di sviluppo vengono riferiti al dispiegamento della medesima forza storica, il capitale, che dunque li lega organicamente. In questo modo, ha scritto Daniel Bensaïd, “l’anacronismo finisce per imporsi non come anomalia residuale, ma come attributo essenziale del presente. La non-contemporaneità non si riduce alla differenza indifferente dei suoi momenti. Essa è anche il loro sviluppo combinato in un nuovo spazio-tempo storico”15. Del resto anche il valore della forza-lavoro, lo abbiamo visto, corrispondendo a un volume di cosiddetti bisogni necessari che vengono storicamente definiti “dalle abitudini ed esigenze di vita con cui la classe dei lavoratori liberi si è venuta formando” in rapporto al punto di vista dell’abbecedario, continua a riattivare gli effetti di una mistificazione originaria e al tempo stesso operante, cioè capitalistica16. 14 Marx, Il capitale, cit., p. 75. 15 Daniel Bensaïd, Marx l’intempestivo. Grandezze e miserie di un’avventura critica, trad. it. di C. Aruzza, Edizioni Alegre, Roma 2007, p. 50. 16 Scrive Ágnes Heller in riferimento al Capitale: “I bisogni “necessari” sono bisogni sorti storicamente e non diretti alla mera sopravvivenza, nei quali l’elemento culturale, quello morale e il costume sono decisivi e il cui soddisfacimento è parte costitutiva della vita “normale” degli uomini appartenenti a una determinata classe di una data società. Chiamiamo “mezzo necessario alla sopravvivenza” in un dato tempo o per una data classe quanto serve al soddisfacimento dei bisogni (vitali) e dei bisogni “necessari”” (in Marx. Un filosofo ebreo-tedesco, trad. it. a cura di Federico Lopiparo, Castelvecchi, Roma 2018, p. 91).

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In una lettera del 25 gennaio 1894, così, Engels potrà fornire una definizione del materialismo storico che sembra finalmente presupporre l’esistenza di un legame molto simile a quello cui fanno riferimento le “condizioni della riproduzione” di Rosa Luxemburg: Sono inoltre inclusi fra i rapporti economici – scrive a Walther Borgius – la base geografica sulla quale essi si manifestano e i residui effettivamente trasmessi di stadi precedenti dell’evoluzione economica, che si sono mantenuti, spesso soltanto per tradizione o per forza di inerzia, e naturalmente anche l’ambiente che circonda dall’esterno questa forma sociale17.

Saranno allora trascorsi dieci anni dalla Conferenza di Berlino e undici dalla morte di Marx, consentendo alle “due facce dell’accumulazione” di manifestarsi con maggiore evidenza, ma il legame necessario tra lo sviluppo economico e i tratti preistorici del capitalismo (quello che Rosa Luxemburg indicherà sostanzialmente come legame tra la fabbrica e la violenza imperialista) aveva già fatto la sua prima apparizione con i “rapporti sociali e politici anacronistici” della prefazione, mi pare, per poi venire ulteriormente evidenziato nelle pagine del Capitale che più ci riguardano, relative alla persecuzione dei mendicanti. Anche per Marx, in altri termini, quella del capitalismo si potrebbe definire la contemporaneità di epoche in tensione, diverse, intrecciate, come lo diverranno le forme storiche e geografiche di espressione nelle poetiche del Novecento: Per i cubisti – ha scritto a questo riguardo Roberto Esposito – il riferimento all’arte africana non vuole essere la rivisitazione moderna di un’esperienza lontana nel tempo e nello spazio, ma l’apertura di una breccia temporale dentro la storia dell’arte, in cui il termine “storia” entra in una relazione costitutiva con la dimensione dello spazio. In questo modo essi non intendevano né riattualizzare una forma d’arte primitiva, né conferire una tonalità arcaica all’arte moderna, ma formare ciò che Benjamin chiamava “costellazione” tra due temporalità reciprocamente irriducibili. Perché l’anacronismo non è un dispositivo di tipo dialettico, ma antitetico. Congiunge per opposizione. Non si tratta né di ammodernare l’arte arcaica né di rendere arcaica quella contemporanea. Ciò che l’anacronismo esprime è la possibilità che la storia – nella fattispecie dell’arte – piuttosto che derivarne, costituisca essa stessa la propria preistoria18. 17 Karl Marx, Friedrich Engels, Opere complete, L. Carteggio 1893-1895, a cura di Liana Longinotti, Editori Riuniti, Roma 1977, p. 227. 18 Roberto Esposito, Anacronismi, in “Filosofia politica”, 1, 2017, p. 21. Per una riflessione più estesa sull’anacronismo nell’arte vedi Georges Didi-Huberman, Storia dell’arte e anacro-

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Una storia che costituisce la propria preistoria, dunque, anche nel caso molto meno poetico delle settemila famiglie che vivono ancora in un vano solo – come scrisse una volta Alfredo Reichlin – nell’“Italia del 1959, anno 1 dell’era spaziale”. A confortare questa ipotesi sarebbe appunto il momento in cui Marx descrive le “leggi tra il grottesco e il terroristico” che attraverso la frusta, le amputazioni, le marchiature a fuoco e la condanna a morte, impongono al “contadiname espropriato [...] di sottostare alla disciplina necessaria al sistema del lavoro salariato”. Non basta infatti “che le condizioni di lavoro si presentino a un polo come capitale e all’altro come uomini che non hanno nulla da vendere fuorché la propria forza lavoro”, non è quindi sufficiente che avvenga la separazione tra lavoratori e mezzi di produzione, ma bisogna sviluppare “una classe operaia che per educazione, tradizione e abitudine, riconosce come leggi naturali ovvie le esigenze di quel modo di produzione” (als selbstverständliche Naturgesetze anerkennt)19. Come avverrà negli uffici di collocamento di Kracauer, dunque, dove i manifesti dovranno imprimere alla disoccupazione “il marchio di ineluttabile evento naturale”, anche per Marx il trattamento della povertà consente di contrabbandare le leggi del valore – e cioè un prodotto storico e sociale – allo stato di natura20. Con una soluzione che certamente non sarebbe dispiaciuta a Polanyi, così, quando Carlo Cafiero si ritrova a dover compendiare il paragrafo sul passaggio dalla preistoria alla storia del capitalismo, la formula che adotta per fare riferimento a quella che Marx aveva definito la “muta pressione dei rapporti economici” sarà la seguente: Se oggi non è più il ferro e il fuoco il mezzo ordinario della sempre crescente accumulazione, egli è perché v’ha un altro mezzo, in sua vece, molto più inesorabile e terribile, una delle moderne gloriose conquiste della borghesia, un mezzo che forma parte necessaria del congegno stesso della produzione capitalistica, un mezzo che agisce da sé solo, senza fare tanto strepito, senza produrre scandalo, un mezzo infine perfettamente civile: la fame21.

Solo quando la coercizione assumerà la consistenza naturale e non più storica della fame, quindi, il disciplinamento potrà dirsi connismo delle immagini, trad. it. di Stefano Chiodi, Bollati Boringhieri, Torino 2007 e Alexander Nagel, Christopher S. Wood, Anachronic Renaissance, Zone Books, New York 2010. 19 Marx, Il capitale, cit., p. 923. 20 Henri Lefebvre, La sociologia di Marx, trad. it. di A. Bonomi, Il Saggiatore, Milano 1968, pp. 105-106. 21 Carlo Cafiero, Compendio del capitale, Savelli, Roma 1976, p. 97.

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cluso, ma si tratta di un lavoro continuamente da rifare. Scrive infatti Marx: “Alla violenza diretta, extraeconomica, si ricorre pur sempre, è vero, ma solo in casi eccezionali”, perché l’uso quotidiano è quello per cui l’operaio viene affidato alle “leggi di natura della produzione” (die Naturgesetzen der Produktion). Una legge che incorpora la bambinata della cosiddetta accumulazione originaria, però, o la presunta tendenza della ricchezza a punire il vizio e premiare le virtù, il generale punto di vista da abbecedario al quale l’economia borghese riconduce la totalità del processo storico “eccezion fatta, naturalmente, per l’anno di volta in volta in corso” (natürlich mit jedesmaliger Ausnahme von diesem Jahr). Ma è proprio per naturalizzare questa eccezione quotidiana che intervengono l’idillio e la bambinata, che dunque dissimulano la permanenza di “rapporti sociali e politici anacronistici” (la messa al bando, lo schiavismo, l’esproprio o il mantenimento in condizioni di miseria) attraverso la sostituzione della realtà storica con le ragioni di ordine morale, il carattere e la presunta colpevolezza dei singoli individui. Un esempio davvero illuminante di questa sostituzione lo si ritrova in Capitalismo, socialismo e democrazia di Joseph Schumpeter, che se non altro ha il merito di porre il problema dell’abbecedario (Kinderfibel) in modo molto diretto. Anzi, con una determinazione maggiore rispetto a quella dello stesso Marx, Schumpeter non esita a riconoscere che “l’accumulazione primitiva percorre tutta l’era capitalista”, ma solo per rilanciare l’idea classica di una valorizzazione che essendo storicamente associata alla funzione innovatrice dell’imprenditore, non avrebbe mai smesso di misurare con equità e coerenza i singoli talenti del genere umano. Così, quando Marx “respinge con sdegno la favola (Kinderfibel) secondo cui alcuni piuttosto che altri divennero e tuttora divengono capitalisti per un’intelligenza e per un’energia superiori nel lavorare e nel risparmiare”, secondo Schumpeter è solo perché il pregiudizio gli avrebbe impedito di riconoscere che “quella ‘favola’, se è ben lontana dal dire tutta la verità, ne dice però una gran parte. Il successo industriale – infatti – e soprattutto la fondazione di solide imprese industriali, si spiegano in nove casi su dieci con un’intelligenza e un’energia superiori al comune”22. Anche in questo passaggio mi pare che Schumpeter “non colga il nesso ‘mo22 Joseph A. Schumpeter, Capitalismo, socialismo e democrazia, trad. it. di E. Zuffi, Etas, Milano 2001, p. 18.

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derno’ stabilito tra Politico e Innovazione ad opera di soggetti collettivi – come ha scritto Adelino Zanini – [...] il prevalere funzionale di un ‘senso’ socialmente dispiegato dell’agire che traspone le pratiche innovative”23. E dire che Marx lo aveva premesso in modo eccezionalmente chiaro: Io non dipingo affatto in rosa le figure del capitalista e del proprietario fondiario. Ma delle persone qui si tratta solo in quanto personificazioni di categorie economiche, esponenti di determinati rapporti e interessi di classe. Meno di chiunque altro, il mio punto di vista, che concepisce lo sviluppo della struttura economica della società come un processo di storia naturale, rende l’individuo responsabile di condizioni delle quali egli resta socialmente il prodotto, per quanto possa, soggettivamente, elevarsi al di sopra di esse24.

Al contrario, per Schumpeter è proprio il colore rosa a risolvere “una gran parte” dell’enigma, indipendentemente dalle condizioni storiche e sociali che lo fanno risaltare, tanto che in molte fabbriche del XVII e XVIII secolo, scrive in nota, “il lavoro manuale del futuro capitalista, insieme con un modestissimo fondo-risparmi (e, naturalmente, un fondo-intelligenza), era tutto quanto occorreva”25. Sarà dando il massimo rilievo al colore rosa che una lunga storia di violenze sistemiche potrà mimetizzarsi nel principio generale per cui qualunque ostacolo all’accaparramento del plusvalore si riduce alla protervia e alla necessaria neutralizzazione di un’umanità difettosa. La proprietà collettiva genera pigrizia, per esempio, e la pigrizia genera vagabondaggio: è in questo modo che nel XVIII secolo venne sostenuta la progressiva abolizione del pascolo vano in Francia, vale a dire il diritto alle seconde falciature che venivano concesse ai contadini quando pur non essendo proprietari dei terreni, non avevano altro mezzo per sfamare il bestiame. L’Ancien Régime aveva esitato, racconta Marc Bloch, i giacobini si erano mantenuti in equilibrio, ma nell’estate del 1795 venne finalmente sancito il carattere sacro della proprietà con la definitiva abolizione di un sistema che l’aveva disonorata, dettato “dall’immoralità e dalla poltroneria”26. Forse proprio 23 Adelino Zanini, Macchine di pensiero. Schumpeter, Keynes, Marx, ombre corte, Verona 1999, p. 51. 24 Marx, Il capitale, cit., p. 76. 25 Schumpeter, Capitalismo, socialismo e democrazia, cit., p. 427, nota 9. 26 Marc Bloch, La fine della comunità e la nascita dell’individualismo agrario nella Francia del XVIII secolo, trad. it. di D. Zardin, Jaca Book, Milano 2017, p. 118.

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perché i termidoriani assomigliavano alla descrizione che ne farà Richard Cobb, contribuendo ad arricchire il nostro profilo storico del soggetto decoroso: Per loro – scrive in Polizia e popolo – chiunque non fosse stato della loro stessa classe sociale, assomigliava moltissimo al proverbiale domestico infedele, allo sventurato ciabattino o al cenciaiolo. Essi davano un’immagine del popolo minuto che era contemporaneamente fisica e morale; il domesticoche-denuncia-il-suo-padrone è un esemplare perfetto, come lo è l’abitante della rue au Maire di orribile aspetto; lo straccivendolo presenta il vantaggio di essere sporco e di sembrarlo; il conciatore svolge un lavoro puzzolente e quindi puzza27.

L’immagine fisica e quella morale si fondono nell’identificazione di una povertà colpevole, responsabile, fraudolenta, sensibilmente scabrosa: la bambinata ha neutralizzato qualunque mediazione storica e socioculturale. Accade anche ai tempi della prima inchiesta parlamentare “sulla miseria e sui mezzi per combatterla” in Italia, dove la commissione viene istituita alla camera il 12 ottobre del 1951. Quando i commissari giungono tra le baracche di Roma 28, così, non possono fare a meno di rilevare il fetore che “ristagna nell’aria, causato in gran parte dalla mancanza di fognature e dai gabinetti di fortuna”, i moscerini che “pullulano dappertutto” e le abitazioni che “sono dei veri e propri buchi, piene di umidità, con finestre piccolissime, estremamente sporche”. Dopodiché gli atti tradiscono un primo impulso all’infantilismo, perché invece di raccontare quello che vedono, i parlamentari si limitano a riportare la tesi di “alcune famiglie che hanno denunciato l’inesistenza dei servizi igienici, la frequente presenza di serpi in casa, l’infestazione da cimici, la permeabilità delle coperture con conseguenti sistematici allagamenti durante le piogge”. Insomma, la cattiva abitudine di urinare e defecare nei “gabinetti di fortuna” è certa, mentre per quanto riguarda “l’inesistenza dei servizi igienici” bisognerà accontentarsi di una testimonianza indiretta e non necessariamente attendibile. Anzi, per niente attendibile, dal momento che per quanto l’occupazione dei testimoni risulti spesso quella di manovale e di domestica, 27 Richard Cobb, Polizia e popolo. La protesta popolare in Francia (1789-1820), trad. it. di V. Mortara, il Mulino, Bologna 1976, p. 100. 28 Inchiesta sulla miseria in Italia (1951-1952). Materiali della Commissione parlamentare, a cura di Paolo Braghin, Einaudi, Torino 1978, pp. 73-74.

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la maggior parte dei redditi hanno un’origine decisamente equivoca. Quasi tutte le famiglie sono irregolari. Una buona percentuale delle donne si dedica alla prostituzione. Da altre informazioni risulta che molti sono gli uomini che hanno avuto a che fare con la giustizia e molti giovani che alimentano il fenomeno della delinquenza minorile.

Un quarto della popolazione italiana vive in condizioni di povertà, quindi, ma invece di ricercare quali fossero le cause strutturali dell’emergenza, ha scritto Paolo Braghin, gli esperti e i commissari si concentrano su altri aspetti come la “psicologia dell’uomo in miseria”, “l’influsso del vizio”, la “non solidarietà” tra i baraccati e la “capacità di lavoro non assorbita”29. Tanto che al termine delle loro indagini, nella relazione generale del parlamento potrà nuovamente risultare che le cause della miseria si chiamano “ozio, ignoranza, malattia, inabilità fisica o psichica, temporanea o permanente”30. La povertà è una conseguenza della natura oziosa, ignorante o malata di un certo genere di individui: è questo il lavoro al tempo stesso storico (perché agisce nella storia), preistorico (perché ribadisce gli esiti di una violenza preliminare, “levatrice della storia”) e permanente che Marx attribuisce alla bambinata degli economisti borghesi. Ma le cose non andarono esattamente così: Gli uomini improvvisamente scardinati dall’orbita consuetudinaria della loro vita – leggiamo nel Capitale – non potevano adattarsi con altrettanta prontezza alla disciplina della nuova condizione; si trasformarono in massa di mendicanti, in predoni, vagabondi, sia per inclinazione, sia, nella maggior parte dei casi, sotto la pressione delle circostanze. Di qui, alla fine del secolo XV e per tutto il secolo XVI, in tutta l’Europa occidentale, una legislazione sanguinaria contro il vagabondaggio. I padri dell’attuale classe operaia vennero in un primo tempo castigati per la conversione loro imposta in vagabondi e paupers. La legislazione li trattò come delinquenti “volontari” e presuppose che dipendesse dalla loro buona volontà di continuare o meno a lavorare nelle antiche e non più esistenti condizioni di vita31.

Ma il nesso tra scardinamento, buona volontà, criminalizzazione e interferenza spettrale delle antiche condizioni di vita non avrebbe più smesso di perdurare. Uno dei principali compiti che si sarebbe dovuta assumere la filosofia della praxis, dunque, rimaneva quello 29 Ivi, p. XXII. 30 Ivi, p. XXVIII. 31 Marx, Il capitale, cit., p. 920.

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di rilevare le forze “che operano con una certa regolarità e automatismo” nella produzione del soggetto32, che secondo Gramsci appartiene sempre a una molteplicità di “tipi storici” dei quali è necessario inventariare le tracce33. Nella prefazione del 1884 a L’origine della famiglia, della proprietà privata e dello stato, con una formula apparentemente paradossale ma molto efficace, Engels si era riferito alla medesima evenienza per stabilire che “secondo la concezione materialistica, il momento determinante della storia, in ultima istanza, è la produzione e la riproduzione della vita immediata”. L’immediatezza è storicamente mediata, per cui accade che anche solo utilizzando parole come dis-astro o dis-grazia, scrive Gramsci, non resuscitiamo necessariamente l’intero corpus delle credenze relative allo zodiaco o alla predestinazione, ma ne ereditiamo comunque le scorie34. Proprio come la sofferenza cui fa riferimento Marx, dunque, anche “il linguaggio è insieme una cosa vivente ed un museo di fossili della vita e delle civiltà passate”35 che agiscono nella presunta immediatezza del presente, la contaminano e ne alterano la presenza. Quando Gramsci si ripropone di elaborare la filosofia implicita nella vita pratica36, di conseguenza, non intende assegnare all’azione un primato vitalistico sulla teoria (un primato che giudica piuttosto la cifra delle fasi primitive), ma cogliere nell’azione un modo sempre contingente di recepire la permanenza delle ideologie passate. Nella seconda metà del Novecento, a questo sforzo di interpretare la contemporaneità come un deposito di forme storiche che si contendono l’attuazione della vita immediata, le classi dominanti hanno reagito con una persistente e colossale iniziativa egemonica decretando a più riprese la fine della storia. La storia è finita – si è detto – per cui ora bisogna soltanto amministrarne gli esiti. È lo stesso teorema contro il quale cominciano a mobilitarsi gli studenti di Berkeley e l’Internazionale Situazionista, lo slittamento della politica dal campo della soggettivazione a quello contabile e repressivo delle scelte obbligate. “There is no alternative” sostiene allora la Thatcher, “Es gibt keine vernünftige Alternative” ripeterà Gerhard Schröder: 32 Antonio Gramsci, Quaderni del carcere, a cura di Valentino Gerratana, Einaudi, Torino, vol. II, pp. 1479-1480. 33 Ivi, p. 1376. 34 Ivi, pp. 1427-1428. 35 Ivi, p. 1438. 36 Ivi, p. 1382.

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che si tratti di reprimere i minatori o di mimetizzare il coinvolgimento economico e disciplinare dello stato nella valorizzazione dei capitali privati (l’Hartz-Konzept), la didascalia rimane identica. Così, negli anni immediatamente successivi alla caduta del muro che in qualche modo doveva comprovare la validità di questa dottrina, l’EHESS di Parigi ha opportunamente reagito al clima generale di banalizzazione e sequestro del presente finanziando un programma di ricerca interdisciplinare sul tema dell’anacronismo. A rendere parzialmente conto di quella ricerca, con un fortunato articolo del 1993, è la storica e antropologa Nicole Loraux, la quale sostiene che senza una certa dose di anacronismo o di esposizione al rischio di risultare anacronistici, lo studio del passato non sarebbe più in grado di cogliere l’altro tempo che circola nella formazione di qualunque presente. “Ma questo altro tempo – scrive – è anche il nostro, sempre”, perché il conflitto al quale rinviano la definizione del politico e il movimento storico, rende continuamente attuale “il lavoro di problemi molto antichi”37. Lo si potrebbe definire il lavoro dell’anacronia, aggiunge, un termine che dichiara di voler mutuare dalla “recente relazione” con la quale allo stesso programma di ricerca ha contribuito Jacques Rancière. Per disporre dell’originale, dunque, bisognerà attendere il 1996, quando Rancière pubblica l’articolo intitolato Le concept d’anachronisme et la vérite de l’historien nel quale precisa: Non c’è anacronismo, esistono piuttosto dei modi di connessione che possiamo chiamare positivamente anacronie: eventi, nozioni, significati che prendono il tempo in contropiede, che fanno circolare il senso in forme che sfuggono a qualunque contemporaneità, a qualunque identità del tempo con “se stesso”. L’anacronia è una parola, un evento, una sequenza significante fuoriusciti dal proprio tempo, capaci sia di indicare delle deviazioni temporali inedite, sia di assicurare il salto da una linea di temporalità a un’altra38.

Rimuovere il tabù dell’anacronismo, scrive dunque Loraux, significa promuovere l’“attenzione al ripetitivo” in quanto disarticolazione del presente e anticipazione del futuro, ricreando la tensione di cui tutti abbiamo potuto fare esperienza “quando il tempo è in un 37 Nicole Loraux, Eloge de l’anachronisme en histoire, in “Le Genre humain”, 27, 1993, pp. 33-35. 38 Jacques Rancière, Le concept d’anachronisme et la vérite de l’historien, in “L’inactuel: psychanalyse & culture”, n. 6, 1996, pp. 63-64.

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senso molto shakespereano ‘fuori di sesto’”39. The time is out of joint: nella primavera di quello stesso anno, le parole di Amleto finiscono al centro delle due conferenze con le quali Jacques Derrida, collega di Nicole Loraux presso l’EHESS, anticipa le riflessioni che dovranno poi confluire in Spettri di Marx. Nel 1999 sarà lui stesso a dichiarare che “una certa intempestività” era esattamente il tema di cui voleva occuparsi in quel libro40, dove solo attraverso Marx risultava possibile porre il problema di “cosa accade quando il tempo stesso diviene ‘out of joint’, dis-giunto, disaggiustato, disarmonico, disturbato, scordato o ingiusto”, cioè “anacronistico”41. Assumere l’eredità del marxismo, scrive dunque Derrida, significa “assumerne quel che più è ‘vivo’, cioè, paradossalmente, quel che continua a mettere ancora in cantiere la questione della vita, dello spirito e dello spettrale, lavie-la-mort al di là dell’opposizione tra la vita e la morte”42, in una prospettiva per molti versi confortata dalle considerazioni sul rapporto tra le miserie dei vivi e le miserie dei morti che lo stesso Marx aveva inserito nella prefazione al Capitale. Lo spettro sarà quindi il nome di un’interferenza tra il passato e il presente che il racconto della cosiddetta accumulazione originaria rimuove e scongiura, mettendoci “di fronte all’assenza di memoria radicale che caratterizza la storia”, come ha scritto Étienne Balibar, cioè al fatto che anche “il modo di produzione si forma trovando già formati gli elementi che la sua struttura combina”43. È proprio questa assenza di memoria a potersi tradurre nella bambinata che impone alla storia una direzione attraverso l’allineamento di qualunque dinamica alla leggenda senza tempo delle origini morali. Da un lato, infatti, come scriveva Georg Simmel, “se tutti gli orologi di Berlino si mettessero di colpo a funzionare male andando avanti o indietro anche solo di un’ora, tutta la vita economica e sociale sarebbe compromessa molto a lungo”44. Dall’altro, nel tempo ridotto a unità di misura del valore, 39 Loraux, Eloge de l’anachronisme en histoire, cit., pp. 23-24. 40 Jacques Derrida, Marx & Sons. Politica, spettralità, decostruzione, trad. it. a cura di E. Castanò, D. De Santis, L. Fabbri, M. Guidi, A. Lodeserto, Mimesis, Milano 2008, p. 240. 41 Jacques Derrida, Spettri di Marx. Stato del debito, lavoro del lutto e nuova Internazionale, trad. it. di G, Chiurazzi, Raffaello Cortina, Roma 1994, pp. 32-34 e p. 119. 42 Ivi, p. 73. 43 Étienne Balibar, Elementi per una teoria del passaggio, in Louis Althusser, Etienne Balibar, Leggere Il Capitale, trad. it. di R. Rinaldi e V. Oskian, Feltrinelli, Milano 1971, pp. 304-305. 44 Georg Simmel, Le metropoli e la vita dello spirito, trad. it. di P. Jedlowski e R. Siebert, Armando, Roma 2012, p. 40.

MARX E L’ALTRO TEMPO

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qualunque anacronia tenderà a rappresentare “un errore commesso nei confronti della concordanza dei tempi”, come lo ha definito Georges Didi-Huberman45, o una sorta di attentato alla sincronizzazione di “tutta la vita economica e sociale” che il capitale respinge sotto forma di anacronismo. Ma se l’anacronismo dovrà indicare una forzatura rispetto all’effettiva composizione del presente, l’unico gesto a rimanere spudoratamente anacronistico è quello che vorrebbe imporre alla storia la forma univoca della valorizzazione. Anche il mito fondativo della cosiddetta accumulazione originaria, in questo senso, è l’esempio di cosa accade al passato quando si trasforma in uno “spazio di fuga necessario” alle manipolazioni del presente46. Nel terzo capitolo di La guerra civile in Francia, così, Marx propone un bilancio della Comune che a mio modo di vedere dimostra quale fosse l’importanza che nella sua riflessione aveva già assunto la critica al tempo sincronizzato del valore. Scrive: “La grande misura sociale della Comune fu la sua stessa esistenza operante. Le misure particolari da essa approvate potevano soltanto presagire la tendenza a un governo del popolo per opera del popolo”47. Per tratteggiare questa tendenza potrebbe adesso fare riferimento a una serie piuttosto nota e considerevole di provvedimenti: la remissione degli affitti, l’annullamento della coscrizione obbligatoria, il limite imposto agli stipendi superiori ai 6000 franchi o il divieto di percepirne più di uno, i tre anni di dilazione concessi ai debitori, il decreto contro gli arresti arbitrari, il censimento delle fabbriche dismesse, la costituzione delle cooperative operaie... Ma il caso che Marx ritiene di poter considerare esemplare è un altro: “l’abolizione del lavoro notturno dei panettieri”. Si tratta chiaramente di una preferenza accordata in rapporto a un contenuto analitico molto preciso, quello relativo alla durata temporale come grandezza del lavoro astrattamente umano e dunque del valore, ma spero possa risultare plausibile cogliere in questo passaggio anche il riconoscimento di una qualità del tempo che non si lascia sincronizzare dai processi di valorizzazione, un contrattempo, una rivendicazione dell’altro tempo.

45 Didi-Huberman, Storia dell’arte e anacronismo delle immagini, cit., p. 40. 46 Jeremy Tambling, On Anachronism, Manchester University Press, Manchester and New York 2010, p. 9. 47 Karl Marx, La guerra civile in Francia, trad. it. di P. Togliatti, Editori Riuniti, Roma 1974, p. 48.

CAPITOLO TERZO

Foucault e un certo modo di praticare la guerra

È possibile che Marx avesse già cominciato a riflettere sul problema delle sopravvivenze della preistoria nell’autunno del 1842, quando scrive gli articoli relativi ai Dibattiti sulla legge contro i furti di legna. Sicuramente fu in quella circostanza che iniziò a occuparsi di problemi economici. Nei mesi precedenti, in Prussia, erano aumentati i processi a carico dei miserabili sorpresi a raccogliere ramaglie da un terreno altrui, un crimine che la Dieta renana, adesso, rendeva punibile con i lavori forzati. Nel criticare questo ulteriore giro di vite contro qualunque residuo di proprietà collettiva, Marx sembra introdurre una concezione della storia che non solo nasconde “sotto la forma esterna di un pensiero ancora hegeliano, la presenza di elementi materialisti”, come sosterrà Althusser1, ma risulterebbe in qualche misura più orientata alle ambivalenze del Capitale (dove progresso e posteriorità continuano a coabitare) che alla frattura tra essere e divenire istituita dai Gründrisse. Scrive Marx: “Noi rivendichiamo alla povera gente il diritto consuetudinario, e non un diritto consuetudinario locale, ma tale da costituire in tutti i paesi il diritto della povera gente. Andiamo anche oltre, e affermiamo che solo il diritto consuetudinario può costituire per la propria natura il diritto di questa infima massa diseredata e primordiale”2. Per questa massa, 1

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Louis Althusser, Il giovane Marx. Questioni di storia, in Per Marx, trad. it. di F. Madonia, Editori Riuniti, Roma 1969, p. 41. Parzialmente diverso è il giudizio di Michel Löwy, per il quale gli articoli relativi ai Dibattiti sulla legge contro i furti di legna rinviano ancora alla concezione hegeliana dello stato, ma tuttavia rappresenterebbero il momento in cui Marx “individua già in questi poveri alcune caratteristiche essenziali che sono proprie del proletariato” (cfr. Michel Löwy, Il giovane Marx e la teoria della rivoluzione, trad. it. di A. Marazzi, Massari Editore, Bolsena 2001, pp. 58-61). Karl Marx, Dibattiti sulla legge contro i furti di legna in Scritti politici giovanili, a cura di Luigi Firpo, Einaudi, Torino 1950, p. 185.

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la consuetudine rappresenta l’unico mezzo per disporre dei beni da consumare o da commerciare che le consentono di vivere3: le forme del passato non hanno nulla di residuale, dunque, ma dovrebbero valere in tutti i paesi in quanto forme elaborate dal soggetto per sopravvivere alla propria esclusione. Anche in riferimento al giovane Marx, Ernst Bloch ha interpretato il richiamo a queste forme come una “rivendicazione dei diritti pubblici soggettivi nella loro totalità”, che definiscono la “quintessenza ultima del diritto naturale classico”, il principio in base al quale “all’uomo, e non solo alla sua classe, non piace avere lo stivale in faccia”4. Nel diritto positivo – scrive Bloch – è ancor sempre considerato primario l’ordinamento oggettivo della legge; la liceità giuridica del volere, per non parlare della facoltà giuridica, sono considerate un puro esser-permesso; i diritti politici fondamentali sono considerati mere esenzioni dalla sfera dell’esser dominati. Il diritto naturale classico, al contrario, ha presentato i diritti fondamentali come primari e invece l’ordinamento giuridico oggettivo come secondario, imputando al secondo l’onere della prova in proprio favore5.

L’universalità è una qualità del soggetto, in altri termini, perché “il diritto non dipende dal caso che la consuetudine sia razionale – continua Marx – bensì la consuetudine diventa razionale in quanto il diritto è legale, in quanto la consuetudine stessa è diventata consuetudine dello Stato”6. Non vi è nulla di razionalmente universale nella legge che introduce il reato, ma solo una consuetudine in cui si esprimono forze storiche e sociali che le consentono di sopprimerne un’altra. Anzi, la stessa “esistenza della classe povera” è “una mera consuetudine della società borghese, che non ha ancora trovato un posto adatto fra le membra coscienti dello Stato”, vale a dire un elemento del passato (o del divenire) che pur continuando a riprodursi nel presente, non viene adeguatamente riferito alla sfera riproduttiva della legge. Scrive Bloch: “Fino ad ora il povero sa di stare in una brutta posizione non solo per i soldi. Uno vestito male fa sempre 3 4 5 6

Per gli usi più svariati che si potevano fare delle ramaglie vedi Pierre Lascoumes, Hartwig Zander, Marx: du “vol de bois” à la critique du droit, Press Universitaires de France, Paris 1984, p. 96 Ernst Bloch, Diritto naturale e dignità umana, trad. it. di Giovanni Russo, Giappichelli Editore, Torino 2005, pp. 189-206. Ivi, p. 186. Marx, Dibattiti sulla legge contro i furti di legna, cit., p. 187.

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bene a evitare le guardie. L’ occhio della legge sta nel volto della classe dominante”7. Al contrario, la Constitutio criminalis carolina del XVI secolo puniva solo l’asportazione della legna furtivamente recisa, stabilendo che nel rapporto tra la proprietà e colui che “raccoglie di giorno frutti da mangiare, e col portarli via non produce danno molto rilevante” non dovesse intervenire il diritto penale8. “I popoli barbari – infatti – fanno pagare alla parte lesa per un determinato reato una determinata somma. Il concetto della pena pubblica sorse solo in contrasto alla concezione che nel reato scorgeva unicamente un’offesa fatta all’individuo”9. Con l’introduzione della legge contro i furti, invece, ad arrogarsi la titolarità della pena privata e della pena pubblica è sempre l’individuo, che “una prima volta si fa pagare la legna come proprietario e una seconda l’intenzione delittuosa del ladro come legislatore”. E questo non solo dal momento che il legislatore ha sostanzialmente tradotto in legge le più equivoche consuetudini della borghesia, che spesso sono le proprie, ma perché nel caso in cui non riuscisse a pagare la legna, il ladro potrà risarcire un individuo penalmente, cioè con l’obbligo a lavorare non per lo stato che legifera e ha offeso, ma per il proprietario del terreno in cui ha commesso il furto. Conclude Marx: “I possidenti sfruttano il procedere del tempo, che è la confutazione delle loro pretese, per usurpare a un tempo stesso la pena privata della concezione barbarica e la pena pubblica della concezione moderna”10. Attraverso questo sfruttamento del tempo che le consente di sincronizzare sotto forma di anacronismo l’anacronia della povera gente, quindi, la società borghese dei Dibattiti sulla legge contro i furti di legna mostra già il profilo che Balibar le attribuirà nel XXIV capitolo del primo libro del Capitale, dove “il modo di produzione si forma trovando già formati gli elementi che la sua struttura combina”, il diritto barbarico e la penalità moderna. Ma lo fa in permanenza, perché anche quella che Marx ha appena descritto è la costruzione di una dimensione pubblica che non risulta sufficientemente comune da perdere il suo carattere privato, autorizzandoci a rileggere la storia sociale attraverso “il filo rosso che collega l’antico diritto consuetudinario – ha scritto Daniel 7 8 9 10

Bloch, Diritto naturale e dignità umana, cit., p. 186. Marx, Dibattiti sulla legge contro i furti di legna, cit., pp. 180-181. Ivi, p. 212. Ibidem.

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Bensaïd – ai diritti alla vita, all’esistenza, all’impiego, al reddito, alla casa, opponibili ai diritti della proprietà privata”11. Produzione dell’anacronismo: potrebbe risultare esattamente questa la logica interna alle politiche per il decoro. La loro incubazione rinvierebbe all’epoca delle città comunali, quando comincia a emergere l’esigenza di utilizzare il paesaggio urbano come una vetrina della moralità borghese12. A partire dal XIII secolo, infatti, il principale problema che i comuni si trovano ad affrontare, è quello della parziale mancanza di autonomia comportata dalla sopravvivenza delle consuetudini nobiliari: ampi settori della città vengono ancora ereditati e rimangono interdetti al dispiegamento dei nuovi poteri. Ma nessuno è realmente proprietario, nessuno può vendere, né affrontare spese di ammodernamento: sarebbero indispensabili notevoli mezzi e l’accordo di troppi capifamiglia. La pratica della comproprietà diventa quindi un sinonimo di degrado, per cui viene definita arcaica e contraria all’interesse pubblico13. Ma il vero problema è che da molto tempo, ormai, gli individui non frequentano più i grandi spazi aperti, il forum e le terme sono scomparsi, la piazza centrale non si è ancora imposta e la vita pubblica risulta frammentata in luoghi scarsamente controllabili come le corti interne, le piazzette, i portici, i conciliaboli o il sagrato delle chiese14. Così, infrangere queste “isole” in cui le comunità pregano, discutono o festeggiano le loro ricorrenze nei meandri della comproprietà e del degrado, diventa un obiettivo strategico. Il comune avrà quindi il compito di conquistare gli spazi, imporne il riconoscimento e farli rispettare, mobilitando una retorica in base alla quale “si parlava anzitutto del bene comune – scrive Jacques Heers – e si arrivava a promulgare norme più astratte, ispirate – come si diceva – a una preoccupazione estetica o quanto meno di decoro. Allineare le facciate lungo le strade era, per gli edili del tempo, risollevare il prestigio della città e servirne la fama”15. Dalle nuove piazze, poi, che sono spesso il prolungamento dei palazzi comunali nel “quartiere dei vinti”16, 11 Daniel Bensaïd, Gli spossessati. Proprietà, diritto dei poveri e beni comuni, trad. it. di A. Pardi, ombre corte, Verona 2009, p. 31. 12 Jacques Heers, La città nel Medioevo in occidente. Paesaggi, poteri e conflitti, a cura di Marco Tangheroni, Jaca Book, Milano 1995, p. 355. 13 Ivi, p. 238. 14 Ivi, p. 276. 15 Ivi, p. 381 16 Ivi, p. 532.

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vengono presto allontanati i vagabondi e le prostitute, insieme ai mestieri meno decorosi, mentre i delitti commessi nelle loro adiacenze possono prevedere sanzioni più pesanti. È in nome del decoro che viene conquistato uno spazio aperto a tutti: sarà in nome del decoro che l’accesso a quello spazio viene interdetto e disciplinato. Anche la città comunale, in altri termini, vale a dire il contesto in cui “la produzione capitalistica si sviluppa prima che altrove”17, si sarebbe formata in rapporto a una consuetudine nobiliare della quale modifica progressivamente le funzioni, un elemento già formato che la sua struttura incontra e combina. Sei anni dopo la pubblicazione di Leggere il Capitale, cioè il luogo in cui Balibar ha proposto questa formula, sarà Michel Foucault a ritornare sullo stesso tema. Gli appunti per la lezione del 1° dicembre 1971, pur non riferendosi esplicitamente alle conclusioni di Balibar, ne ripropongono lo schema. Nei confronti della giustizia regia, scrive infatti Foucault, la rivoluzione francese e l’epoca napoleonica avrebbero effettuato una selezione, perché imbattendosi nel “nuovo sistema repressivo messo in atto nel XVII secolo, la borghesia ne rifiutava la destinazione (prelievo della rendita feudale) ma non la forma (o almeno alcuni elementi formali: l’elemento di polizia)”18. Prima di affrontare l’analisi di questa affermazione, mi pare importante sottolineare alcune circostanze che la rendono particolarmente significativa nello sviluppo del nostro ragionamento. Lo stesso Balibar, innanzitutto, ritiene che sia proprio nella stagione compresa tra questi appunti e il 1976 che Foucault stesse affrontando un grande regolamento dei conti con il marxismo19. L’esito di questo corpo a corpo, attraverso il confronto con Althusser e una rilettura nietzscheana di Marx, gli consentirà di assegnare alla morfologia del potere un ruolo creativo e non semplicemente derivato nella dinamica del capitale. Anche i rapporti tra forma e destinazione, così, già negli appunti che dovremo prendere in esame, non rinviano necessariamente a una causa economica, ma al modo in cui si autodetermina la circolazione del potere. Uno dei modelli di questa variazione 17 Marx, Il capitale, cit., p. 899. 18 Michel Foucault, Teorie e istituzioni penali. Corso al Collège de France (1971-1972), trad. it. a cura di Deborah Borca e Pier Aldo Rovatti, Feltrinelli, Milano 2019, p. 39. 19 Étienne Balibar, L’anti-Marx de Michel Foucault, in Christian Laval, Luca Paltrinieri, Fehrat Taylan (a cura di), Marx & Foucault. Lectures, usages, confrontations, La Découverte, Paris 2015, pp. 84-102.

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rimane esplicitamente Marx, come Foucault riconosce l’anno successivo durante il corso su La società punitiva (1972-1973)20, dove gli articoli sui furti di legna – furti che insieme alla pratica del pascolo vano analizzata da Marc Bloch riappariranno in una parentesi di Sorvegliare e punire21 – gli forniscono un esempio di come sia possibile “analizzare le discussioni politiche, le opposizioni e le lotte a livello di discorso, all’interno di una situazione politica data”22. Gli stessi articoli che in qualità di assistente presso l’École Normale Supérieure gli aveva fatto leggere Althusser23, dunque, contribuiscono a indirizzare Foucault verso una nuova prospettiva di ricerca, perché “dopo un’analisi di tipo archeologico, si tratta di fare un’analisi di tipo dinastico, genealogico, basata sulle filiazioni a partire dai rapporti di potere”24. Da un lato, quindi, non esistono dubbi sul fatto che questa nuova esigenza debba rinviare alle pagine di Nietzsche, la genealogia, la storia (1971), ma dall’altro bisognerà sottolineare come nel capitolo sulla transizione di Leggere il Capitale, lo stesso Balibar avesse indicato proprio nella genealogia il metodo più adeguato alla comprensione del modo in cui si forma il capitalismo, cioè trovando e combinando elementi dei quali reinventa l’origine. “La genealogia – infatti – in luogo di riunire la struttura e la storia della propria formazione, separa il risultato dalla sua preistoria”25. Attenzione però, non si tratta di negare l’esistenza o l’attualità di una preistoria, ma di stabilire che a riformare il modo di produzione è una totale indifferenza nei suoi confronti, una ragione più contingente e smemorata, quasi bestiale, che disarticola la vecchia struttura e ne ricombina gli elementi: lo si potrebbe definire l’eterno presente del valore di scambio. La genealogia consente di separare il capitalismo dalla leggenda di una “vecchia struttura trasformatasi da se stessa” per meglio aderire allo sviluppo della propria costituzione morale, cioè alla bambinata. 20 Michel Foucault, La società punitiva. Corso al Collège de France (1972-1973), trad. it. a cura di Deborah Borca e Pier Aldo Rovatti, Feltrinelli, Milano 2016. 21 “Tutte le tolleranze che i contadini avevano acquisite o conservate (abbandono di antichi obblighi o consolidamento di pratiche irregolari: diritto di pascolo dopo la prima fienagione, raccolta di legna, ecc.) sono ora perseguitati dai nuovi proprietari che attribuiscono loro lo status di infrazione pura e semplice” (Foucault, Sorvegliare e punire, cit., p. 93). 22 Foucault, La società punitiva, cit., p. 75. 23 Bernard E. Harcourt, Nota del curatore, in Foucault, La società punitiva, cit., p. 300. 24 Foucault, La società punitiva, cit., p. 98. 25 Balibar, Elementi per una teoria del passaggio, cit., p. 305.

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Il presupposto di Foucault risulta davvero compatibile con quello di Balibar, allora, dal momento che adesso la genealogia andrà intesa come “riscoperta meticolosa delle lotte e insieme memoria bruta degli scontri”26, cioè di quanto avviene ed è avvenuto all’ombra della rappresentazione morale che procura ai “risultati” una presunta coerenza genetica e strutturale. Se dobbiamo tenere presenti gli articoli di Marx sui furti di legna, pertanto, è proprio perché “a partire da questi modelli si potrebbe forse vedere come analizzare le discussioni politiche, le opposizioni e le lotte a livello di discorso, all’interno di una situazione politica data”. Così, sarà nella prospettiva della contingenza, domandandosi quale sia stata la situazione in cui il crimine ha cominciato a rappresentare un attentato contro la società, che Foucault ricaverà subito le risorse per procedere alla destrutturazione di un’altra genesi decisiva nella narrazione della modernità capitalista, un’altra preistoria nel senso di Balibar: quella dello stato. Come gli hanno indicato le pagine in cui Marx ha evidenziato il contenuto barbarico della “pena pubblica”, la storia si determina in presenza e per effetto di un conflitto permanente che la dottrina politica ha poi teso a dissimulare nella guerra di tutti contro tutti, lo stato di natura al quale il Leviatano avrebbe posto rimedio e nella cui leggenda rivendica l’uso legale della violenza27. Nella “situazione politica data”, al contrario, il riferimento implicito che adesso Foucault sta facendo agli articoli di Marx, si potrebbe esemplificare nella constatazione che anche l’iniziativa della Dieta renana non ha affatto interrotto le ostilità, nell’estate del 1842, ma imponendo alla “povera gente” le consuetudini della società borghese e rendendo anacronistica la raccolta della legna, ha confermato la possibilità di interpretare il potere sovrano come un prolungamento della guerra civile condotta con altri mezzi. Il ricordo hobbesiano del bellum omnium contra omnes, allora, proprio come “la storia del peccato originale economico” in Marx, si riduce all’invenzione di una causa finale che in assenza di memoria consente allo stato di mistificare la propria partecipazione alla “guerra dei ricchi contro i poveri, dei proprietari contro coloro che non possiedono nulla, dei padroni contro i proletari”28. E in questa luce, conclude Foucault, “l’esercizio quoti26 Michel Foucault, “Bisogna difendere la società”, trad. it. a cura di Mauro Bertani e Alessandro Fontana, Feltrinelli, Milano 1998, p. 17. 27 Foucault, La società punitiva, cit., p. 41. 28 Ivi, p. 35.

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diano del potere deve poter essere considerato come una guerra civile: esercitare il potere è in un certo modo praticare la guerra civile”29. Nella prima parte del Manifesto, anche Marx ed Engels avevano fatto riferimento a una guerra civile più o meno latente (mehr oder minder versteckten Bürgerkrieg) della quale Foucault, negli appunti per il corso del 1971-1972, descrive la fase relativa alle sedizioni popolari del Seicento, attraverso la genealogia di un nuovo sistema repressivo, come abbiamo anticipato, del quale la borghesia abolirà la destinazione ma non le forme. Il caso che Foucault prende in esame è quello dei Piedi scalzi, un movimento che nel 1639, insorgendo contro l’inasprimento della pressione fiscale in Normandia, aveva reso evidente come l’aristocrazia feudale non fosse più in grado di assicurare il controllo del territorio. A riprendere il controllo provvide l’esercito, allora, perché “i rivoltosi si sono screditati in quanto sudditi e sono a tutti gli effetti nemici del re”. Non proprio tutti però, perché da un lato assistiamo all’esecuzione sommaria di contadini e pezzenti, all’allestimento dei patiboli, ai cadaveri che rimangono appesi per settimane e settimane ai portici delle case, mentre dall’altro lo spettacolo della guerra dovrà cominciare ad approfondire le linee di faglia che separano le varie parti del corpo sociale, dando alla borghesia cittadina l’opportunità di aderire spontaneamente alla resa30. In questa rifrazione della guerra, pertanto, è già possibile osservare la circolazione di un potere che non si limita a reprimere, ma fissa al tempo stesso una norma, cioè una forma più desiderabile e dunque naturale di assoggettamento. Quando il potere saprà ottenere lo stesso risultato anche senza spargimenti di sangue, così, quando avrà accolto le obiezioni dei riformatori, anche la nuova semio-tecnica del castigo non potrà derogare alla regola degli effetti laterali, come la definisce Foucault in Sorvegliare e punire, vale a dire il principio per cui “la pena deve produrre gli effetti più intensi presso coloro che non hanno commesso l’errore”31. Ma nel frattempo la sedizione dei Piedi scalzi avrà mostrato qual è il compito che le forme prestatali di repressione stanno per consegnare alle nuove tecnologie di controllo e al disciplinamento della popolazione. L’esercito sarebbe rimasto alle porte di Rouen, infatti, dove la giustizia civile intervenne solo nei primi giorni del 1640, creando l’inter29 Ivi, p. 45. 30 Foucault, Teorie e istituzioni penali, cit., pp. 63-64. 31 Foucault, Sorvegliare e punire, cit., p. 103.

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vallo favorevole alla borghesia per ambientarsi nello spazio politico compreso tra il declino del feudalesimo e l’emergenza delle classi sediziose. Se non fosse che mantenere i soldati nelle campagne costa caro, oltre a indebolire i confini, per cui le funzioni della guerra interna saranno presto trasferite nell’armamento di una nuova milizia, la polizia, della quale Teorie e istituzioni penali stabilisce la dinastica. La polizia, conclude allora Foucault, non è una risposta alla delinquenza o un’emanazione diretta della struttura economica, ma una soluzione militare al problema delle lotte popolari contro il potere32. E sarà sullo stesso terreno presidiato dalla polizia che, in nome della prevenzione, potranno finalmente fiorire tutte le verità di ordine psicologico, statistico, sanitario, pedagogico ed estetico che si attivano nella storia dei condizionamenti reciproci tra l’accumulazione degli uomini e l’accumulazione dei capitali. Per quanto Foucault non le nomini espressamente, allora, le politiche per il decoro andranno posizionate sul fronte di questo prolungamento legale e veritativo della guerra, ovvero del compito “di reiscrivere perpetuamente, attraverso una guerra silenziosa, il rapporto di forze nelle istituzioni, nelle diseguaglianze economiche, nel linguaggio, fin nei corpi degli uni e degli altri”33. Anzi, si tratta di politiche con le quali il dispiegamento della legalità intrattiene un rapporto costitutivo, perché rispondono all’esigenza di far corrispondere al potere politico ed economico un fondamento morale34. Bisogna riformare i costumi della popolazione “per ridurre i rischi assunti dal patrimonio borghese”, certo, ma in questo modo si otterrebbe un successo solo parziale, direbbe Marx, dal momento che la cosiddetta accumulazione originaria si compie solo in presenza di “una classe operaia che per educazione, tradizione e abitudine, riconosce come leggi naturali ovvie le esigenze di quel modo di produzione”. Anche per Foucault, quindi, la forza lavoro rappresenterà “il risultato di una produzione anteriore alla produzione, di una produzione della disposizione a produrre attraverso le istanze moralizzatrici dello stato, i meccanismi polizieschi del coercitivo, il controllo padronale dell’alloggio, dell’impiego, della mobilità e del risparmio”35. 32 33 34 35

Foucault, Teorie e istituzioni penali, cit., pp. 119-120. Foucault, “Bisogna difendere la società”, cit., p. 23. Foucault, La società punitiva, cit., p. 126. Stéphane Legrand, Le marxisme oublié de Foucault, in “Actuel Marx”, 36, 2004, pp. 3940.

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Ma tutto ciò dovrà perlopiù affidarsi alla regola degli effetti laterali, cioè al fatto che l’errore venga corretto a lato dell’infrazione, laddove a rappresentare il maggior pericolo “è l’operaio che non lavora abbastanza – scrive ancora Foucault – che è pigro, si ubriaca”. A finire sotto osservazione non è più il reato, così, non è l’azione che l’operaio può compiere “sul corpo della ricchezza dei padroni, ma sul suo stesso corpo, su quella forza lavoro di cui il padrone si considera il proprietario, perché l’ha acquistata con il salario ed è un dovere dell’operaio offrirla sul libero mercato”36. Adesso, dunque, “tutto ciò che può intaccare non solo il capitale accumulato dalla ricchezza borghese, ma il corpo stesso dell’operaio in quanto forza lavoro, tutto ciò che può sottrarla all’uso da parte del capitale sarà considerato un illegalismo infralegale, la grande immoralità su cui il capitalismo cercherà di fare presa”37. Ma questo “potere nell’estremità sempre meno giuridica del suo esercizio” è proprio quello militare, delle “manifestazioni di forza allo stato puro”38, e sarà quindi nella dimensione dell’illegalismo infralegale che lo stato potrà estendere la guerra civile al livello del pubblico decoro, risalendo il Nilo di tutti i comportamenti che pur non configurando alcun reato confermano l’esistenza di uno spazio alternativo alla workhouse e alla fabbrica. Per esaurire le molteplici dimensioni dell’individuo nell’offerta di forza lavoro, infatti, il capitale tende a sussumere ogni forma di vita, demandandone il disciplinamento alla muta pressione dei rapporti economici. Si direbbe che Foucault abbia proprio in mente il paragrafo in cui Marx descrive il passaggio dal potere statale (die Staatsgewalt) a questa muta coercizione (der stumme Zwang) quando sostiene che attraverso il controllo dell’illegalismo “abbiamo a che fare con una coercizione diversa dalla sanzione penale”, una pressione “quotidiana” che “riguarda i modi di essere” degli individui e “la loro natura, il loro carattere”39. Così, l’individuo escluso dai rapporti che il capitalismo ha instaurato, non sarà più chi “non arriva alla sussistenza e che per questo motivo viene sospinto via, ma colui che di sua spontanea volontà rifiuta l’offerta di lavoro”. Saranno la predisposizione e il carattere a causare la povertà: “Non è il disoccupato costretto a esserlo suo malgrado che, a poco a poco, 36 37 38 39

Foucault, La società punitiva, cit., pp. 188-189. Ivi, p. 189. Foucault, “Bisogna difendere la società”, cit., pp. 32 e 46. Foucault, La società punitiva, cit., p. 125.

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mendica e si sposta, ma colui che si rifiuta di lavorare”40. A validare l’autenticità del povero provvede quindi la workhouse, l’istituzione deputata a redimere il modo di produzione colpevolizzando la natura di tutti coloro che ha spinto ai margini. Quella dell’esclusione, così, si rivela una strategia molto ambigua, un movimento attraverso il quale l’indecenza della povertà viene imputata alla natura per naturalizzare la storia, messa al bando e al tempo stesso integrata nei processi di riproduzione e disciplinamento. A sostenerlo è anche Georg Simmel, che nel 1908 scrive: “Il povero sta naturalmente al di fuori del gruppo in quanto è un semplice oggetto di misure da parte della collettività, ma questo al-di-fuori è, per esprimerci in breve, soltanto una forma particolare del di-dentro”41. Perché tra le altre cose il mendicante procura un momento di estrema pubblicità alla muta pressione dei rapporti economici, potenziandone gli effetti laterali, ma solo in presenza di misure amministrative che non gli consentano di sopravvivere in deroga alla necessità implicita di una correzione. Anche il trattamento del povero, in altri termini, “deve produrre gli effetti più intensi presso coloro che non hanno commesso l’errore”, sovrapponendo alla presenza sensibile del mendicante una proiezione dei rapporti economici che lo hanno comprensibilmente penalizzato ma che ora può consolidare. Sarebbe proprio questo passaggio dalla sensibilità all’astrazione – sempre secondo Simmel – uno degli obiettivi raggiunti dalla legge inglese del 1834, con il trasferimento dell’assistenza pubblica dalle parrocchie allo stato centrale42, lontano dagli sguardi, in una dimensione burocratica alla quale il povero dovrà corrispondere adattandosi alla prova impersonale della workhouse, per restituire alla comunità l’immagine nuovamente sensibile della vittoria che ha riportato sulla natura, il carattere, la mancanza di volontà o di talenti che lo avevano perduto. La “cura conveniente della persona” non era una delle qualità che dovevano caratterizzare il guerriero civile, moderno, il quale affrontando con risolutezza qualunque ostacolo consentiva all’uomo di provare il sentimento sublime della propria eccellenza? E non avevamo colto nella logica formale di questo sentimento – che non implica necessariamente l’adesione a una metafisica – le correlazioni tra 40 Ivi, p. 60. 41 Georg Simmel, Il povero, a cura di Emanuele Rossi, Mimesis, Milano 2015, p. 59. 42 Ivi, pp. 47-48.

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natura, sicurezza, percezione e moralità che abilitavano l’esperienza estetica a rivendicare un posto tra i giudizi dal valore vincolante e costrittivo? Ecco perché il povero vestito a festa potrebbe indurre alla commozione mentre quello in abiti sudici spaventa, infastidisce, disturba: il secondo è uscito sconfitto dal corpo a corpo con la dissimulazione allo stato di natura del capitale, il primo la incarna. In entrambi i casi, però, la dimensione estetica del decoro e dell’indecenza confermano il successo di questa dissimulazione, ne ribadiscono gli effetti e ne approfondiscono il radicamento nelle forme moralmente giustificate della carità, dell’indifferenza o dell’allontanamento dalla pubblica via. Le politiche per il decoro urbano, in altri termini, rinvierebbero a una specifica tecnologia del potere che secondo Michel Foucault si colloca in una posizione indeterminata tra il sovrano e l’apparato amministrativo, il marchio e la traccia, la cerimonia e l’esercizio, il nemico vinto e l’individuo recluso: il potere che non circola più attraverso i corpi suppliziati o i corpi da addestrare, ma agisce sull’“anima di cui si manipolano le rappresentazioni”43. È quanto avviene nella città punitiva degli sguardi e della convenienza, dove il momento della punizione è “presente ovunque come scena, spettacolo, segno, discorso; leggibile come un libro aperto, operante attraverso una codificazione permanente dello spirito dei cittadini; garante della repressione del crimine per mezzo di ostacoli posti all’idea del delitto”. Lungo i viali della città stazioneranno i fuoristrada dell’esercito, quindi, che assicurando alla difesa del decoro un rigore marziale, non solo ostacolano l’idea del crimine ma agiscono più lateralmente sulle “fibre molli del cervello”. Così da ottenere un controllo “che si snodi attraverso tutta la rete sociale, agisca in ciascuno dei suoi punti e finisca per non essere più percepito come potere di alcuni su alcuni, ma come reazione immediata di tutti nei riguardi di ciascuno”. Reazione perché butta un mozzicone di sigaretta, beve una birra al parco, ride forte, mangia dove riesce, dorme su una panchina, passeggia a torso nudo, appende il bucato alla ringhiera del balcone, vende mimose o fazzoletti da naso, chiede l’elemosina, prega rivolto alla Mecca, possiede uno smartphone ultimo modello, sta seduto sui gradini di una chiesa o maledice la sorte. Rimane un potere di alcuni su altri, evidentemente, ma circola in modo corale e masochistico, 43 Foucault, Sorvegliare e punire, cit., pp. 142-143.

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mimetizzandosi nel buon gusto e nella decenza di tutti. La città ha rimosso l’evidenza del conflitto, così, rimpiazzando gli usi civici con una corporate identity in base alla quale anche la domanda di più decoro, come scriveva André Gorz dell’etica aziendale, rappresenta “un modo di proclamare la propria appartenenza alla élite dei winners (i vincitori, gli emergenti), élite che deve la sua posizione privilegiata alle superiori abilità e ambizioni, mentre i perdenti (losers) non hanno altri da biasimare che se stessi”44. Ma “se si osserva da vicino come avvengono le procedure di esclusione – dice Foucault – ci si accorge che non sono affatto opposte alle tecniche di assimilazione. Non esiste esilio, reclusione che non comporti, oltre a ciò che in generale si caratterizza come espulsione, un transfert, una riattivazione dello stesso potere che impone, costringe, espelle”45. Anche quando escludere significa non solo “interdire la presenza di un individuo nei luoghi comunitari”, ma “sospendere o proibire nei suoi confronti tutte le regole di ospitalità”, come è avvenuto per esempio a Como durante le feste natalizie del 2017, quando un’ordinanza comunale impedì ad alcuni volontari di distribuire la colazione ai senzatetto. Nel rispetto dell’ordinanza, ai mendicanti “in forma statica” che deturpavano il paesaggio, vennero sequestrati “i mezzi utilizzati per commettere la violazione”, cioè i cartoni sui quali stavano eventualmente seduti o avevano scritto frasi come “Per favore, ho fame”. Il paradigma è già quello del reato di solidarietà o del salvataggio in mare che diventa favoreggiamento dell’immigrazione. Ma da questo punto di vista, per quanto l’Italia rimanga pur sempre un agglutinamento di comuni e campanili, sono proprio le ordinanze contro il degrado a restituire l’immagine di una nazione finalmente omogenea, coerente, riconciliata46. Elencarle tutte sarebbe noioso: “Imperia, pugno duro contro i clochard, tolleranza zero per i bivacchi”. Oppure: “Teramo, scatta l’ordinanza anti-bivacchi”. O ancora: “Pisa, l’ordinanza anti-bivacco piace a Confcommercio”. A fare epoca fu l’ordinanza emessa dal comune di Firenze il 26 novembre 2009, con la quale il sindaco intese con44 André Gorz, Il lavoro debole. Oltre la società salariale, trad. it. di L. Del Grosso Destrieri e S. Mazzoni, Edizioni Lavoro, Roma 1994, p. 16. 45 Foucault, La società punitiva, cit., pp. 15-16. 46 Per un inquadramento delle ordinanze nella prospettiva storica dello sciopero del capitale o della controrivoluzione passiva, vale a dire della combinazione tra mancanza di investimenti e trasferimento del valore dai salari ai profitti, cfr. Marco Revelli, Poveri, noi, Einaudi, Torino 2010, pp. 11-66.

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trastare la piaga della mendicità in tutte le sue forme. Da quella di chi provava a “ottenere denaro per assicurare il mantenimento di un animale provocando stati di immotivato sentimento di pietà con progressiva perdita di decoro urbano”; a quella dei soggetti che evidenziavano “malformazioni agli arti e/o con simulazione di gravi difficoltà di deambulazione”. In sintesi, il divieto si abbatteva su “tutti quei comportamenti in cui la richiesta di denaro non è fatta palese con il semplice atto della mano tesa”, perché alla vita del miserabile devono evidentemente corrispondere un’estetica e una semio-tecnica che non è affar suo valutare. Ha scritto Simmel: “La funzione di membro che il povero svolge nella società esistente non è data con il fatto che egli è povero; soltanto in quanto la società – la collettività o i singoli individui – reagisce con soccorsi a questo stato, egli assume il suo specifico ruolo sociale”47. Non solo il ruolo, dunque, ma anche la forma, del tutto indipendente dall’espressione davvero specifica e soggettiva delle proprie condizioni. È il sensibile che deve scomparire in un’astrazione, come lo stesso Simmel aveva osservato della legge sui poveri del 1834, lo stesso motivo per cui nelle sale riscaldate di Berlino, dove pure è presente la bottega di un barbiere, quel “salone di bellezza si distingue da quelli dei quartieri occidentali non soltanto per i prezzi bassi – scriveva Kracauer – ma anche perché si tratta di una stanza sgombra, dove i clienti stanno seduti davanti a pareti senza specchi”48. Ma se da un lato le ordinanze tenderebbero a compiere questo gesto, dall’altro la Cassazione ha recentemente assolto un quarantenne che il tribunale di Palermo aveva condannato a versare mille euro perché dormiva in strada, tra i cartoni, nonostante il sindaco lo avesse espressamente vietato. La Corte ha infatti stabilito che le ordinanze possono avere un valore “preventivo” che riguarda una “generalità di soggetti”, ma che per tormentare qualcuno che dorme in strada “non è sufficiente l’indicazione di mere finalità di pubblico interesse”. Allo stesso modo nel dicembre del 2016 si era già espresso il TAR del Friuli, accogliendo il ricorso di un richiedente asilo. Anche le ordinanze della città punitiva hanno quindi svolto la funzione di un cinegiornale, uno spot politico, una tecnologia “presente ovunque come scena, spettacolo, segno, discorso” e “operante attraverso 47 Simmel, Il povero, cit., p. 66. 48 Kracauer, Sale riscaldate, cit., p. 162.

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una codificazione permanente dello spirito dei cittadini”, come scriveva Foucault. Per un verso il decoro è l’inserviente che all’ora del tramonto provvede a ripulire le strade dagli scarti, relegandoli nei quartieri difficili, gli stabili in disuso, le periferie, per un altro sono i desideri e i consumi (anche politici) di chi non ha commesso l’errore il vero target della città punitiva, la quale si rivela pertanto adeguata allo scopo di legare organicamente le due facce dell’accumulazione. Tutto questo chiama direttamente in causa la conformazione della città, la sua articolazione in spazi tipicamente sicuri e spazi altrettanto tipici in cui vengono stoccate tutte le antinomie della ragion civica: vedremo come il primo a sollevare il problema sia stato Friedrich Engels sulle strade di Manchester. Ma per comprendere meglio il rapporto tra il soggetto e la morfologia urbana, che in qualche modo insiste sulla distinzione classica tra civitas e urbs, è prima opportuno descrivere quali sono le caratteristiche che al decoro possiamo attribuire in quanto dispositivo che assimila per esclusione, così come ci è parso di poterlo definire nel percorso che conduce dalla città medievale alle ordinanze dei giorni nostri. Sempre a Foucault dobbiamo infatti un’ulteriore indicazione, che consiste nel ricondurre allo “schema del Secondo impero o del fascismo” il gesto paradigmatico con il quale lo Stato fa circolare le proprie funzioni attraverso il reclutamento o l’assimilazione più o meno letterale di tutti coloro che per altri versi esclude.

CAPITOLO QUARTO

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Quando il 26 ottobre 1930 entra in vigore l’articolo 670 del codice penale in materia di vigilanza sui mestieri girovaghi e prevenzione dell’accattonaggio, quella fascista si conferma senz’altro una strategia in base alla quale i fenomeni come la povertà, la malattia e la disoccupazione non si devono vedere. E se a renderli poi vistosi dovesse intervenire un fatto criminale, è sintomatico che gli scienziati provvedano a occultarne preventivamente lo scandalo con il rilancio delle teorie organicistiche, confinando l’origine del reato da qualche parte nella “fabbrica corporea”, la “costituzione amorale” o il sistema endocrino dei singoli individui1. L’epoca, in ogni caso, rimane quella in cui gli immigrati più poveri finiscono nei baraccamenti, lontani dalle vie di comunicazione2. Chiunque mendica in luogo pubblico o aperto al pubblico – dice quindi la legge – è punito con l’arresto fino a tre mesi. La pena è dell’arresto da uno a sei mesi se il fatto è commesso in modo ripugnante o vessatorio, ovvero simulando deformità o malattie, o adoperando altri mezzi fraudolenti per destare l’altrui pietà.

Intanto, però, sarebbe proprio agli elementi economicamente e politicamente più emarginati, come sostiene Foucault, che lo schema del Secondo Impero o del fascismo affida i compiti del controllo e della repressione, ricavandone “un’aria di spontaneità”3 e cioè di naturalezza, con un doppio movimento che a giudicare da alcuni segnali opererebbe tuttora nella stratificazione del presente. La legge, 1 2 3

Romano Canosa, Storia della criminalità in Italia (1845-1945), Einaudi, Torino 1991, pp. 302-304. Inchiesta sulla miseria in Italia, cit., p. XIII. Foucault, La società punitiva, cit., p. 140.

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innanzitutto, se non altro in rapporto alle “manifestazioni superficiali” del lessico, crea una notevole risonanza tra il 26 ottobre 1930 e il 7 novembre 2018, quando il senato italiano ha approvato l’emendamento di conversione del decreto sicurezza con il quale viene reintrodotto il reato di accattonaggio (era stato abolito nel 1999). Anche il nuovo testo prevede infatti l’arresto da tre a sei mesi per chiunque venga sorpreso a mendicare “con modalità vessatorie o simulando deformità o malattie o attraverso il ricorso a mezzi fraudolenti per destare l’altrui pietà”. Si direbbe che a scomparire sia solo l’aggettivo “ripugnante”, che comunque era ancora presente nella proposta depositata in parlamento il 23 marzo 2018. Proposta che veniva inoltre corredata dalle seguenti motivazioni: Se è vero che, in omaggio a una malintesa etica del capitalismo di matrice ottocentesca, chi mendica non può essere punito con una sanzione penale, è altrettanto vero che chi mendica simulando infermità per destare l’altrui pietà, o in modo fraudolento o vessatorio (si tratta della mendicità cosiddetta “invasiva”), deve essere arginato e punito poiché l’accattonaggio molesto o comunque invasivo provoca l’insicurezza dei cittadini, e quindi un problema di ordine pubblico, oltre a ingenerare nella collettività un forte stato di insofferenza.

A proporre di arginare e punire sono alcuni deputati dell’estrema destra di governo per i quali è solo “una malintesa etica del capitalismo di matrice ottocentesca” – quindi – a rendere incostituzionale la prima parte dell’articolo abrogato nel 1999. Perché a comprenderla adeguatamente, invece, l’etica del capitalismo non striderebbe affatto con il recupero integrale del decreto regio e fascista che sanzionava penalmente qualunque forma di mendicità. Ma il dramma è che nei termini in cui stiamo tentando di tratteggiare un’economia politica del decoro, i deputati potrebbero aver ragione. Scriveva infatti Polanyi: La soluzione fascista dell’impasse raggiunta dal capitalismo liberale può essere descritta come una riforma dell’economia di mercato raggiunta al prezzo dell’estirpazione di tutte le istituzioni democratiche tanto nel campo dell’industria che in quello della politica. Il sistema economico che era in pericolo di disfacimento veniva così rivitalizzato mentre i popoli stessi venivano sottoposti a una rieducazione destinata a snaturalizzare l’individuo e a renderlo incapace di funzionare come unità responsabile del corpo politico. Questa rieducazione, che comprendeva le norme di una religione politica che negava l’idea della fratellanza dell’uomo nelle sue varie forme, fu rag-

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giunta attraverso un atto di conversione di massa applicato ai recalcitranti con mezzi scientifici di tortura4.

La grande trasformazione comportata dal fascismo, in questo senso, non sarebbe altro che uno smascheramento del carattere fittizio del mercato autoregolato, cioè della dottrina incorporata nella legge del 1834, quando a mantenere la merce-lavoro al centro di questa presunta autoregolazione non era lo sviluppo autonomo dell’economia, ma il potere delle istituzioni5. La depoliticizzazione che ne derivava, di conseguenza, non coincideva con la scomparsa dell’azione politica ma con il suo occultamento, come spesso accade. È questa l’operazione che rende il fascismo un fedele interprete della rivoluzione industriale, anche con l’emendamento al decreto del 2018, dove le contraddizioni sociali e le politiche vengono coerentemente trasfigurate in un problema di ordine pubblico e di insofferenza. Il rispetto del decoro al quale tendono queste soluzioni, allora, non sarebbe altro che lo stratagemma con il quale senzatetto, alcolizzati, prostitute, mendicanti, depressi, schizofrenici, bipolari, lunatici, spacciatori, tossici, skater, imbrattatori e lavavetri vengono progressivamente abbandonati dal welfare e illuminati dai fari delle volanti allo scopo di nascondere la politica. Quando il reclutamento è ancora più diretto, sostiene Foucault, siamo nel campo degli apparati polizieschi (e non solo della “spontaneità” della loro legittimazione) che come le camicie nere o le camicie brune poggiano “sulle categorie sociali costituite dal Lumpenproletariat, dai proletari disoccupati o dagli elementi in rovina della piccola borghesia”. Lo schema non descrive solo il doppio movimento di una retorica che da un lato criminalizza la povertà, ne bandisce le manifestazioni e la allontana dagli sguardi, mentre dall’altro le assegna in qualche modo un compito, le propone una via d’uscita, una modalità di esistenza. Predicare l’ordine e sfruttarne al tempo stesso le eccedenze (cioè assimilarle in quanto escluse) fu senza dubbio il criterio al qua4

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Polanyi, La grande trasformazione, cit., p. 297. Per uno studio più approfondito della genesi, la portata e gli sviluppi dell’analisi del fascismo nell’opera di Polanyi vedi Alfredo Salsano, La filosofia politica di Karl Polanyi, in Alfredo Salsano (a cura di), Karl Polanyi, Bruno Mondadori, Milano 2003, pp. 3-104. Per un’analisi più dettagliata di questa dimensione fittizia vedi Sébastien Plociniczak, Karl Polanyi, les marchés et l’embeddedness. La grande transformation en question, in Richard Sobel (a cura di), Penser la marchandisation du monde aver Karl Polanyi, L’Harmattan, Paris 2007, pp. 63-83.

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le si attenne Luigi Bonaparte quando costituì la Società del Dieci Dicembre, l’organizzazione segreta che aveva il compito di malmenare i repubblicani per le strade o di acclamare l’imperatore durante le sue uscite in pubblico. Scrive Marx: Vi si trovavano vagabondi, soldati in congedo, forzati usciti dal bagno, galeotti evasi, birbe, furfanti, lazzaroni, tagliaborse, ciurmatori, bari, ruffiani, tenitori di postriboli, facchini, letterati, suonatori ambulanti, straccivendoli, arrotini, stagnini, accattoni, in una parola tutta la massa confusa, decomposta, fluttuante che i francesi chiamano la bohème6.

Ma è una funzione più strutturale e complessiva quella cui sta facendo riferimento Marx, perché è solo quando parla ai borghesi di ordine e di proprietà mentre ha dietro di sé questa massa fluttuante, dice, che Bonaparte “è Bonaparte in persona, l’originale”7. L’esclusione, quindi, offre il duplice vantaggio di reclutare in forme diverse sia la canaglia che il borghese, chi sta fuori e chi sta dentro, affidando a entrambi un ruolo attivo nel consolidamento dello stesso potere, che dunque li assimila. Non è poi necessario che l’attività degli esclusi sia consensuale: non lo può essere ai giorni nostri per i braccianti o gli edili che le politiche europee in materia di immigrazione rendono prima invisibili e poi consegnano deprezzati alle campagne e ai cantieri. Non lo è nel caso del numero crescente di poveri che il capitale sussume nelle forme spurie del lavoro a intermittenza o semigratuito: perfettamente integrati – dunque – ma in quanto esclusi dall’accesso a condizioni di vita meno pietose8. Si tratta di processi che possono venir adeguatamente compresi nei termini dell’inclusione differenziale, come la definiscono Sandro Mezzadra e Brett Neilson, vale a dire “la convinzione che le figure che abitano le zone di confine mondiali non siano soggetti marginali che sopravvivono ai bordi della società, ma protagonisti centrali nel dramma della ‘fabbricazione’ dello spazio, del tempo e della materialità del sociale stesso”9. Ha scritto a questo stesso riguardo Saskia Sassen: 6 7 8 9

Karl Marx, Il 18 brumaio di Luigi Bonaparte, trad. it. di P. Togliatti, Editori Riuniti, Roma 2015, p. 193. Ivi, p. 194. Marco Bascetta, Un reddito di inclusione alla disciplina. Dalla lotta ai poveri al reddito di base, in “QR - Quaderni per il Reddito”, 8, 2018, p. 14. Mezzadra, Neilson, Confini e frontiere, cit., pp. 201-212.

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“Individui considerati poveri, malpagati, portatori di scarso valore aggiunto, visti spesso come un peso anziché come risorse, [sono] connessi a livello sistemico a quelle che stanno emergendo come sostanziose fonti di profitto, specie nell’economia informale”10. La connessione dei raccoglitori di pomodori sarebbe anche quella delle lavoratrici domestiche, le bambinaie o i lavapiatti che costituiscono l’infrastruttura sociale degli assimilati11: è questa la funzione economica del consenso razzista e sessista, ma attraverso una mobilitazione che come tenterò di mostrare non si sottrae al dispositivo che regola i rapporti tra l’interno e l’esterno della riproduzione. “Se si osserva da vicino come avvengono le procedure di esclusione – è il punto di Foucault – ci si accorge che non sono affatto opposte alle tecniche di assimilazione”. I dieci senzatetto di viale Masini vengono espulsi da Bologna, quindi, ma proprio in questo modo incorporati, tenuti dentro, trattenuti nella forma di reietti alla quale corrispondono la circolazione e l’esercizio dello stesso potere che ne dispone l’allontanamento. È l’esclusione che assimila, appunto, che ingerisce e metabolizza. Eppure, se si osserva da vicino cosa accade nella frase di Foucault, la nuova compatibilità tra procedure di esclusione e tecniche di assimilazione si può leggere anche in direzione contraria, spostando l’accento su tutto ciò che viene respinto nel processo di incorporazione: è il metabolismo che disgrega, degrada, scarta. Nel contesto più specifico della città, quindi, Stuart Hodkinson propone di articolare il movimento delle new urban enclosures in tre atti: la privatizzazione di uno spazio, la spoliazione di chi viene respinto e la produzione in cattività del soggetto incluso, purificato, adeguato alla “dipendenza ideologica o materiale dalle relazioni sociali capitaliste”12. Ed è proprio a questo dispositivo che il Secondo Impero aveva già fatto corrispondere una serie coerente di spazi tipici come il grande magazzino, la ferrovia o le colonie, ma a catturare l’attenzione di Kracauer saranno soprattutto i boulevard, che si potrebbero considerare i coprotagonisti di Jacques Offenbach e la Parigi del suo tempo. Non si tratta di una metafora, gli spazi compiono realmente delle azioni: “La mia attuale convinzione – aveva già scritto Kracauer nel 1930 – è che a gridare per queste strade non 10 Saskia Sassen, Le città nell’economia globale, trad. it. di Nanni Negro, Il Mulino, Bologna 2010, p. 232. 11 Ivi, pp. 218-219. 12 Hodkinson, The new urban enclosures, cit., p. 509.

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siano gli uomini, ma le strade stesse”13. Nella metropoli ottocentesca, allora, anche le azioni compiute dal boulevard non possono lasciare indifferente l’archeologo del decoro urbano. La prima consiste nel produrre uno spazio “rigorosamente circoscritto”14, riconoscibile, che contiene “tutto il mondo” ma oltre il quale comincia la “Turchia” delle condizioni sociali. “Punto di incontro in campo neutro”, il boulevard crea una totalità che tende a respingere il conflitto oltre i confini del mondo, all’esterno di “una nazione che fervida di attività insegue mete non politiche”15. È il presupposto di ogni dittatura stabile, aggiunge Kracauer, la stessa depoliticizzazione che a noi era parso di poter attribuire alla matrice fascista dell’emendamento che reintroduce in Italia il reato di accattonaggio16. Ha scritto Henri Lefebvre: È tra il 1848 e Haussmann che la vita di Parigi raggiunge la massima intensità: non già la vita parigina, ma la vita urbana della capitale. Essa entra allora nella letteratura, nella poesia con potenza e dimensioni gigantesche. Poi tutto finirà. La vita urbana presuppone incontri, confronti fra differenze, reciproca conoscenza (anche nel confronto ideologico e politico) dei modi di vivere, dei “pattern” che coesistono nella città. Durante il XIX secolo, la democrazia di origine contadina, la cui ideologia animò i rivoluzionari, avrebbe potuto trasformarsi in democrazia urbana. [...] Poiché la democrazia urbana minacciava i privilegi della classe dominante, questa ne impedì la nascita17.

L’apertura dei grandi viali, dunque, consente innanzitutto di respingere e disperdere qualunque interferenza sociale al perseguimento delle “mete non politiche”. In secondo luogo, poi, al boulevard di Kracauer si accede abbandonando il proprio quartiere, che verosimilmente si trova in “Turchia”, per condurvi un’esistenza extraterritoriale che non è solo di sconfinamento rispetto alla zona di residenza o di lavoro, né di semplice fuga dalla propria terra18, ma 13 Siegfried Kracauer, Grida per strada, in Strade di Berlino e altrove, a cura di Daniele Pisani, Pendragon, Bologna 2004, p. 31. 14 Siegfried Kracauer, Jacques Offenbach e la Parigi del suo tempo, trad. it. di S. Montecucco, Garzanti, Milano 1991. 15 Ivi, pp. 158-159. 16 Sul boulevard come luogo di depoliticizzazione vedi Haejeong Hazel Hahn, Du flâneur au consommateur: spectacle et consommation sur les Grands Boulevards, in “Romantisme”, 134, 2006/4, pp. 67-78. 17 Henri Lefebvre, Il diritto alla città, trad. it. di G. Morosato, ombre corte, Verona 2014, p. 28. 18 Henrik Reeh, Ornaments of the Metropolis. Siegfried Kracauer and Modern Urban Culture, trad. di J. Irons, MIT Press, Cambridge-London 2004, pp. 176-177.

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soprattutto un distacco dalla realtà, dal momento che ogni spazio tipico deve rimanere il prodotto di rapporti sociali tipici, per quanto inconsci o rimossi. A questo riguardo, Walter Benjamin annota una considerazione sul barone Haussmann che può chiarire il senso dell’extraterritorialità cui sta facendo riferimento anche Kracauer: “La posizione di Haussmann nei confronti della popolazione parigina – scrive – è analoga a quella di Guizot nei confronti del proletariato. Guizot definiva il proletariato la popolation extérieure”19. Lo sventramento dei quartieri, la speculazione edilizia e il vantaggio che i grandi viali avrebbero assicurato alla repressione in caso di sommossa, fanno immediatamente pensare a una popolazione esterna nel senso di straniera e nemica. Scrive lo stesso Haussmann nelle sue Memorie, ricordando il giorno in cui ottenne i voti per cominciare i lavori: Dopo i dibattiti prolungati dalla grandissima pazienza con la quale ascoltavo e respingevo punto su punto gli argomenti dei miei oppositori – e dalla cura che mettevo nel cogliere qualunque occasione per affermare i miei – riportai su tutta linea una forte maggioranza. Mi sentivo saldamente in sella, adesso, pronto a conquistare la vecchia Parigi alla testa di un esercito che si fidava del suo capo20.

È il momento nel quale appare più spudorata la concordanza tra il decoro e un certo modo di intendere la guerra, come lo definisce Foucault, ma la popolazione continuerà a risultare esterna anche dopo la conquista, nel “campo neutro” del boulevard, dove alla pretesa vacanza dei contenuti sociali corrisponde la realtà socialmente determinata della riproduzione. Per comprendere i criteri ai quali si attiene questo lavoro riproduttivo, quindi, è sufficiente volgere lo sguardo alle merci, cioè al rapporto sociale tra gli oggetti e alle cause per cui vengono fatalmente esiliati in Turchia. O per meglio dire “in una lontana Siberia nel centro della città”, come Kracauer definisce i passages, luoghi che un tempo “ospitavano tutto ciò che, rifiutato dalla vita borghese, vi veniva cacciato dentro a forza, la somma di tutte quelle cose che non servivano al decoro della facciata”21. Mu19 Walter Benjamin, Opere complete. IX. I “passages” di Parigi, edizione italiana a cura di Enrico Ganni, Einaudi, Torino 2000, p. 151. 20 Mémoires du baron Haussmann, II. Préfecture de la Seine, Victor-Havard, Paris 1890, pp. 256-257. 21 Siegfried Kracauer, Addio alla Lindenpassage, in La massa come ornamento, cit., p. 154.

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sei anatomici, pornografia, cartoline illustrate, souvenirs, francobolli, stravaganze turistiche: “Questi oggetti di carattere transitorio ottenevano nei passages una sorta di diritto di soggiorno alla stregua degli zingari, cui non è lecito accamparsi in città ma solo lungo le strade provinciali”. È attraverso l’esclusione di questi oggetti dal carattere transitorio che la facciata del boulevard mantiene il proprio decoro, il quale ne assimila di conseguenza l’occultamento, ma se un tempo gli zingari hanno soggiornato in città, se quelle stesse merci sono apparse all’interno dell’ecosfera borghese, ciò significa che il loro carattere transitorio era già presente all’epoca in cui venivano esposte, glorificate e dunque integrate nella totalità del boulevard che ne mistificava l’indecenza. Così, “la Lindenpassage smascherava una forma di vita di cui ancora faceva parte” e ne testimoniava “la caducità”22. “Ciò che avevamo ereditato – aggiunge Kracauer – e che fieri chiamavamo nostro, era esposto in questi passaggi come in un obitorio, e lì mostrava la sua spenta smorfia”. Se la popolazione del boulevard può definirsi esterna, allora, è anche perché allo stesso titolo dei rapporti sociali tra gli oggetti, stabilisce con il mondo reale della Turchia, della Siberia o di quella che Edward Thompson chiamerà indifferentemente Nuova Zelanda o Camciatca, questo legame funereo. Ma è proprio l’assimilazione di quanto esclude a inculcare in questa popolazione “un maggior bisogno di isolamento”23, che degenera effettivamente nella produzione di uno spostamento all’esterno della vita stessa, dal momento che “la gente del boulevard era profondamente ostile agli eventi naturali”, spiega Kracauer, perché “la natura era vulcanica come il popolo”24. Così, in questa sua negazione della realtà sociale, della natura e del transitorio, mentre isola una folla alla quale “non occorrono né fini né orari” perché “fluisce senza tempo”25, la vera indecenza che il decoro della facciata assimila per esclusione è quella della morte26. 22 23 24 25

Ivi, p. 158. Kracauer, Jacques Offenbach e la Parigi del suo tempo, cit., p. 98. Ivi, 99 Siegfried Kracauer, Analisi di un piano urbano, in Strade di Berlino e altrove, cit., p. 17. Il tema del rapporto tra la cancellazione del tempo e la cancellazione della storia viene introdotto da Marx quando ne La guerra civile in Francia osserva: “Gli atti degli operai di Parigi furono ancora meno del vandalismo di Haussmann, il quale distrusse la Parigi storica per far posto alla Parigi dei bighelloni!” (p. 67). 26 Dorothee Kimmich, “Pensare tramite le cose”. L’estetica dell’attenzione come “fenomenologia pratica”, in “Iride”, 79, XXIX, 2016, pp. 576-577.

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Il viaggiatore tedesco al quale si affida Kracauer per avere una testimonianza diretta del boulevard ottocentesco, lo aveva descritto come “una specchiera di lastre di vetro dietro la quale si ammucchia la più varia e ricca raccolta di articoli di moda”: un momento prima che il tempo ne disveli la caducità e lo condanni alla deportazione nei passages, lo splendore risulta totalmente appaltato al decoro delle merci. Parafrasando Benjamin, allora, nella sua sostanziale mercificazione anche il decoro entra “in conflitto con l’organico” e “fa valere sul vivente i diritti del cadavere”, il “sex-appeal dell’inorganico”27. Alla fuga del boulevardier, adesso, corrisponde allora un’extraterritorialità dalle implicazioni masochistiche, qualcosa di molto simile al desiderio di abbandonare la natura, il tempo, la storia e la realtà sociale di se stessi, la propria coscienza e il proprio corpo. È in questo modo che le politiche per il decoro conducono a “un bivio in cui scegliere la vita significa scegliere la morte [...] e in cui scegliere la realtà, o ciò che è considerato tale, significa rifiutare il reale”28. Quando se ne va il sole, così, lo splendore delle facciate soddisfa questo stesso principio con i lampioni e le insegne luminose, perché “nei principali quartieri della vita notturna l’illuminazione è talmente abbacinante che ci si devono turare le orecchie”29. Qui, aggiunge Kracauer, “i lumi si sono dati ritrovo per loro diletto piuttosto che per risplendere sugli uomini”, e proprio come le merci della facciata esorcizzano l’incombenza della natura e del tempo, “potrebbero rischiarare la notte e invece si limitano a cacciarla via”. Era stato Simmel a descrivere quali fossero gli esiti di questa iperestesia, che in rapporto ai processi di depoliticizzazione si potrebbero riassumere in una sorta di esilio dalla concretezza, quando in seguito all’intensificazione della vita nervosa “tutto appare grigio, opaco, incapace di suscitare preferenze” e “il significato e il valore delle cose stesse sono avvertiti come irrilevanti”30. L’illuminazione notturna del boulevard ottiene il medesimo risultato (“offusca il pensiero come un velo”), contribuendo a una più generale impresa di estetizzazione che trova nel decoro delle merci la propria misura. 27 Walter Benjamin, Parigi. La capitale del XIX secolo, in Angelus Novus. Saggi e frammenti, trad. it. di R. Solmi, Einaudi, Torino 1962, p. 146. 28 Carmen Pisanello, In nome del decoro. Dispositivi estetici e politiche securitarie, ombre corte, Verona 2017, p. 67. 29 Kracauer, Analisi di un piano urbano, cit., p. 18. 30 Simmel, Le metropoli e la vita dello spirito, cit., p. 43.

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Si potrebbe dunque dire che l’artiste démolisseur, come amava definirsi il prefetto di polizia e barone Haussmann, abbia colto nel boulevard la matrice di un più complessivo projet d’embellissement che impone alla stratificazione sociale una disciplina cosmetica, in una dimensione esterna a quella in cui si determinano le reali condizioni di vita e le relative resistenze a una totalità che assimila qualunque genere di contraddizione sotto forma di sconvenienza, individuale e deplorevole. È appunto questo l’ambiente in cui si è espressa “la Parigi dei boulevard”, come la definisce Marx, la borghesia che nelle settimane della Comune “seguiva lo sviluppo della battaglia coi binocoli, contava i colpi di cannone e giurava sul suo onore e su quello delle sue prostitute che lo spettacolo era allestito molto meglio di quanto non si usasse al teatro della Porte St. Martin”31. Perché “la fame è fame – aveva già scritto nei Gründrisse – ma la fame che si soddisfa con carne cotta, mangiata con coltello e forchetta, è una fame diversa da quella che divora carne cruda, aiutandosi con mani, unghie e denti”: ecco il capitale che non si limita a produrre “un oggetto per il soggetto, ma anche un soggetto per l’oggetto”32, con i relativi bisogni. Kracauer sembra ricordarsene quando chiede: “Che cosa c’era di più banale della carne di vitello in umido? Ebbene, questa stessa carne al Café de Paris diventava una creazione artistica di cui nessuno poteva immaginare la modesta origine”33. A osservare lo stesso fenomeno è Charles Baudelaire, mentre in una sera estiva del 1864 si accomoda nel dehors di “un Caffè appena inaugurato, che formava l’angolo di un nuovo viale [qui formait le coin d’un boulevard neuf]”. Il Caffè scintillava, dice, il gas vi dispiegava tutta l’eccitazione di un debutto e illuminava con tutte le sue forze i muri accecanti di bianco, i laghi abbaglianti delle specchiere, gli ori delle modanature e delle cornici, i paggi dalle guance paffute tirati dai cani al guinzaglio, le damigelle ridenti al falchetto posato sui loro ditini, le ninfe e le dee acconciate di frutti, di pasticci, di cacciagione, le Ebi e i Ganimedi che offrivano, a braccia tese, la piccola anfora di crema bavarese o l’obelisco bicolore dei gelati misti: tutta la storia e tutta la mitologia – conclude Baudelaire – messe al servizio della ghiottoneria34. 31 32 33 34

Marx, La guerra civile in Francia, cit., pp. 52-53. Marx, Lineamenti fondamentali della critica dell’economia politica, cit., vol. I, p. 16. Kracauer, Jacques Offenbach e la Parigi del suo tempo, cit., p. 92. Charles Baudelaire, Lo Spleen di Parigi, in Opere, a cura di Giovanni Raboni e Giuseppe Montesano, Mondadori, Milano 1996, pp. 427-428.

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A questo punto, attraverso l’omologazione espressiva del passato e del lavoro, il cui rapporto organico con la merce (la “modesta origine” di Kracauer) viene reso addirittura inimmaginabile, a finire in Turchia e ad abbandonare il soggetto nella dimensione extraterritoriale, depoliticizzata, masochistica ed estetizzante del decoro è la possibilità stessa di un contatto tra aspirazioni, temporalità e bisogni diversi – cioè uno spazio realmente comune. Adesso, infatti, anche la dimensione pubblica era diventata un interno illuminato a gas e sorvegliato dalla polizia; la gente si sentiva al sicuro in una zona in cui edifici e luci creavano di notte un cielo artificiale. Standardizzate, e dello stesso tipo, ne erano le varie parti: dalla panchina alla lanterna, dal chiosco al pissoir, alla gabbia di ferro intorno agli alberi, al pavimento dei pozzetti – così che persino come la strada unificava una città fino a quel momento parcellizzata, così gli oggetti presenti in essa ricordavano ai cittadini che Parigi era una e uniformemente governata35.

La descrizione di Anthony Vidler stabilisce un rapporto tra decoro, sicurezza e polizia che ritroveremo nella riflessione di Fanon, ma intanto, quando sulla strada appare “un brav’uomo sui quarant’anni, la faccia scavata, la barba ingrigita, che teneva per mano un ragazzino e reggeva sull’altro braccio un esserino troppo indebolito per camminare”, Baudelaire confessa: “Non solo ero commosso da questa famiglia di occhi, ma provavo un po’ di vergogna per le nostre coppe e le nostre caraffe, più grandi della nostra sete”. In realtà lo aveva già confessato ne L’Examen de Minuit, una poesia pubblicata nel febbraio dell’anno precedente sulla rivista “Le Boulevard”, con la quale si era rivolto ai propri amici per condividere il bilancio di un’altra giornata trascorsa a bere senza sete e mangiare senza fame (nous avons... bu sans soif et mangé sans faim!)36. Sarà Walter Benjamin a indicare in quelle parole “lo svuotamento delle esperienze vissute, private della loro sostanza”37, fornendoci un’ulteriore sinte35 Anthony Vidler, Le scene della strada: trasformazioni nell’ideale e nella realtà (1750-1871), in Stanford Anderson (a cura di), Strade, trad. it. di P. Portoghese, Dedalo, Bari 1982, p. 106. 36 Charles Baudelaire, Aggiunte alla terza edizione de “I fiori del male”, in Opere, cit., pp. 340-343. 37 Walter Benjamin, Charles Baudelaire. Un poeta lirico nell’età del capitalismo avanzato, a cura di G. Agamben, Barbara Chitussi e Clemens Carl Härle, Neri Pozza, Vicenza 2012, p. 147.

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si delle proprietà che stiamo tentando di attribuire al boulevard in quanto spazio archetipico del decoro. Ma intanto Baudelaire osserva i tre poveri e vorrebbe coinvolgere nella propria commozione la donna seduta accanto a lui, la quale però lo anticipa esclamando: “Ma che gente insopportabile! con quegli occhi spalancati come porte cocchiere! Non potreste pregare il padrone del Caffè di mandarli via?”38. Laggiù, oltre quelle porte spalancate, a infastidire la donna è solo la riapparizione della Turchia, l’illegalismo infralegale del rimosso, la sconvenienza della realtà, qualcosa a cui oggi sembrano reagire anche gli ordinamenti e le istituzioni. Tanto che risulterebbe davvero impegnativo smentire Kracauer quando dopo aver descritto ciò che accadeva alla “superficie dei boulevards del centro”, concludeva l’articolo del 1926 intitolato Analisi di un piano urbano dicendo: “Non che questo avvenga soltanto a Parigi. I centri delle metropoli di scala mondiale, che sono pure i luoghi dello splendore, si assomigliano sempre più l’uno all’altro. Le loro differenze scompaiono”39.

38 Baudelaire, Lo Spleen di Parigi, cit., p. 428. 39 Kracauer, Analisi di un piano urbano, cit., p. 19.

CAPITOLO QUINTO

Engels e il metodo Haussmann

La metropoli ottocentesca viene spesso rappresentata come una tempesta di stimoli sensoriali nella quale si riversa la metafora oceanica della folla. A popolare le strade è una nuova varietà di figure eccentriche che di volta in volta cavalcano l’onda della mondanità (il boulevardier), l’affrontano con irriverenza (il dandy), si lasciano trasportare dalla corrente (il flâneur) o ne interiorizzano il flusso, rinunciando a qualunque tipo di soggettivazione (il badaut). Ad ogni postura corrisponde una specifica strategia intellettuale, che pur oscillando dalla resistenza alla resa reagisce comunque a una medesima e micidiale intensificazione dell’esperienza estetica. La fisionomia dell’epoca, così, sarà quella delle signore che si allontanano dai grandi magazzini con gli occhi gonfi e arrossati, allucinate e sedotte dalla fosforescenza delle merci, coinvolte nelle stesse tendenze all’astrazione che per Georg Simmel impronteranno la sociologia del denaro e il personaggio del blasé, l’individuo ormai incapace di far fronte al fabbisogno di vista, odorato, tatto e udito che gli consentirebbero di domare le nuove fantasmagorie della città. Eppure, ad alcuni di questi profili estenuati e al loro ripiegamento nell’interiorità, si poteva ancora attribuire una capacità di interpretare la trasformazione urbana che oggi non sembra avere eredi. “Se si eccettua il tassista esperto – ha scritto David Harvey – per gli altri apprendere il linguaggio degli spazi di una città è un’esperienza parziale, vincolata ai desideri e alle passioni del momento”1. Paradossalmente, però, se da un lato il tassista disobbedisce al tracciato delle singole funzioni esplorando il territorio più incoerente che gli restituiscono le corse dei suoi passeggeri, dall’altro rimane segregato in una città a motore 1

Harvey, L’esperienza urbana, cit., p. 289.

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che per almeno due motivi amplifica gli stessi limiti ai quali doveva sopperire. In primo luogo, come segnala Marc Desportes, “l’automobilista sente tutto in modo attenuato” e si deve dunque affidare a una serie di coordinate che “non fungono da introduzione allo spazio attraversato”2. Le guide satellitari e la cartografia elettronica, in questa prospettiva, rappresenterebbero il momento in cui il rapporto tra i limiti dell’esperienza e l’estensione del fenomeno urbano è giunto a un tale livello di esasperazione da migrare definitivamente nel cyberspazio. In secondo luogo, dicono gli storici, sarebbe proprio l’automobile ad aver favorito i processi che oggi si traducono in una drammatica lacerazione del tessuto metropolitano3. La stessa zonizzazione, infatti, che Jean-Cristophe Bailly considera una “malattia cronica” introdotta dalle teorie del Congrès Internationaux d’Architecture Moderne per un “errore di civiltà”, implica una nuova proporzione tra gli spazi e i tempi della vita quotidiana che solo la motorizzazione poteva rendere plausibile. Tuttavia, se davvero uno dei risultati più catastrofici dello zoning deve consistere nella creazione di un margine in cui vengono accatastate tutte le disfunzioni del funzionalismo, come suggerisce lo stesso Bailly, sarebbe frettoloso imputarne l’origine al progetto moderno, dal momento che prima ancora di separare il quartiere residenziale dagli uffici o gli impianti sportivi dai negozi, la “malattia cronica” si era già manifestata in forma grave con la zonizzazione della città operata nel corso dell’Ottocento dalle determinanti di razza e di classe. Nel prossimo capitolo, attraverso le analisi di Frantz Fanon, proverò a descrivere la formazione di uno spazio razzializzato, nel presente formulerò l’ipotesi che sia solo in rapporto alle dimensioni classiste del decoro e della produzione dell’anacronismo che si può comprendere la morfogenesi della città industriale. In questa prospettiva è innanzitutto importante sottolineare come il boulevard non abbia modificato la città solo in termini soggettivi, introducendovi nuove forme di esperienza o di privazione dell’esperienza, ma rappresenti piuttosto l’elemento intorno al quale si compie una più clamorosa riarticolazione dei rapporti tra la società e lo spazio. Ha scritto per esempio Louis Bergeron: 2 3

Marc Desportes, Paesaggi in movimento. Trasporti e percezione dello spazio tra XVIII e XX secolo, trad. it. di M. Bonini e I. Giordano, Libri Scheiwiller, Milano 2008, pp. 188 e 283. Jean-Christophe Bailly, La frase urbana, trad. it. di C. Tartarini, Bollati Boringhieri, Torino 2016.

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I più poveri sono costretti dal rincaro degli affitti a uscire dalla cinta dei Fermiers généraux e trasferirsi nei quartieri di periferia. Questi, a loro volta, diventano molto cari lungo i nuovi viali, che hanno immobili nuovi dotati di comodità senza confronto con i vecchi edifici. Anche le vecchie case, negli isolati rimasti intatti, diventano più costose. I commercianti e i mercanti possono permettersele; più difficilmente i salariati e i piccoli artigiani, che ne vengono estromessi. Comincia così il processo di reimborghesimento del centro e di proletarizzazione della periferia dell’agglomerato parigino4.

Lo aveva sottolineato lo stesso Benjamin: “L’aumento dei fitti spinge il proletariato nei sobborghi. Sorge la cintura rossa”5. Ma è a una lunga citazione di Engels che dovremo affidarci per riprendere il filo delle analisi condotte finora: In realtà la borghesia ha un solo metodo per risolvere a suo modo la questione delle abitazioni – scrive. – La risolve cioè in maniera tale che la soluzione riproduce sempre nuovamente la questione. Questo metodo si chiama “Haussmann”. Con “Haussmann” non intendo qui soltanto la maniera del parigino Haussmann, che è specificamente bonapartista, di tracciare strade lunghe, diritte e larghe nel bel mezzo dei fitti quartieri operai, erigendo ai lati delle strade stesse dei grandi edifici di lusso; con ciò si mirava, oltre che a uno scopo strategico (rendere difficile la lotta delle barricate), anche a formare un proletariato edilizio dipendente dal governo, specificamente bonapartistico, e a trasformare la metropoli in una pura città di lusso. Con “Haussmann” intendo la prassi, divenuta generale, di fare demolizioni nei quartieri operai, specialmente in quelli prossimi al centro delle grandi città, sia che esse prendano lo spunto dal risanamento e imbellimento della città, sia per soddisfare la domanda di grandi locali ad uso commerciale prossimi al centro, sia in base ad esigenze del traffico (apertura di strade, ferrovie, ecc.). Anche se lo spunto iniziale è vario, il risultato è lo stesso dovunque: i vicoli e vicoletti più indecenti scompaiono fra le più alte congratulazioni reciproche dei borghesi di fronte ad un successo così fenomenale, per ricomparire subito dopo in qualche altro posto e spesso nelle immediate vicinanze6.

Innanzitutto Engels definisce specificamente bonapartistica la formazione di un proletariato edilizio alle dipendenze delle scelte governative, cioè lo “schema del Secondo Impero o del fascismo”, confermando la validità dell’ipotesi avanzata da Foucault in merito 4 5 6

Louis Bergeron, Parigi. Il mito di una capitale, Einaudi, Torino 1993, p. 67. Benjamin, Parigi. La capitale del XIX secolo, cit., p. 152. Friedrich Engels, La questione delle abitazioni, trad. it di A.A. Santucci, Editori Riuniti, Roma 1988, p. 99.

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al momento storico in cui lo stato avrebbe fatto più sistematicamente ricorso all’assimilazione degli esclusi in quanto esclusi, o al reclutamento di una parte della popolazione nella circolazione di un potere che per altri versi la esclude. In secondo luogo, nel metodo Haussmann si ravvisano ancora le interferenze tra la motivazione estetica e lo scopo strategico che ci avevano indotto a posizionare le politiche per il decoro sul fronte concettuale della guerra civile7. Nel caso dei boulevard la dimensione militare è più esplicita, ma “il risultato è sempre lo stesso dovunque: i vicoli e vicoletti più indecenti scompaiono fra le più alte congratulazioni reciproche dei borghesi”. Terzo punto: la scomparsa dell’indecenza è solo uno spostamento, perché a caratterizzare il metodo è proprio la coincidenza tra la soluzione e la riproduzione dello stesso problema, come continuerà ad avvenire nella revanchist city di Neil Smith o sulle strade rese meno sconvenienti dalle panchine con il dissuasore. Poche pagine dopo Engels lo dice ancora più chiaramente: “I focolai di infezioni, i buchi e le caverne più infami entro cui per il modo di produzione capitalistico sono rinserrati una notte dopo l’altra i nostri operai, non vengono eliminati; vengono soltanto spostati! La stessa necessità economica che li ha prodotti la prima volta in un posto, li genera la seconda volta in un altro posto”8. La prassi divenuta generale e il cui “risultato è sempre lo stesso dovunque”, insomma, è anche quella della produzione e della riproduzione dell’anacronismo. Per stabilirlo, Engels si richiama nel testo alla Situazione della classe operaia in Inghilterra, dove all’abitudine di “tracciare strade lunghe, diritte e larghe nel bel mezzo dei fitti quartieri operai, erigendo ai lati delle strade stesse dei grandi edifici di lusso”, aveva già prestato molta attenzione. La Parigi dei boulevard e del Secondo Impero, da questo punto di vista, confermerebbe quindi un modello che rinvia alle “grandi città” della rivoluzione industriale. Per motivi parzialmente diversi, ma che ora si tratterà di comprendere, anche Lewis Mumford non esita ad affermare che “più o meno ogni città nel mondo occidentale fu improntata dai caratteri di Coketown”9, utilizzando il nome che a uno di questi centri 7 8 9

Per un’analisi più puntuale del rapporto tra decoro e militarismo vedi Wolf Bukowski, La buona educazione degli oppressi. Piccola storia del decoro, Alegre, Roma 2019, pp. 126-129. Engels, La questione delle abitazioni, cit., p. 102. Lewis Mumford, La cultura delle città, trad. it. a cura di Michela Rosso e Paolo Scrivano, Einaudi, Torino 2007, p. 134.

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aveva dato Charles Dickens nella trama di Hard Times. Per verificare la validità della sua tesi, dunque, bisognerà stabilire innanzitutto quali sono i tratti distintivi di Coketown o della non-city, come la definisce Mumford, la città che si sviluppa intorno alla manifattura a partire dalla prima metà del XIX secolo in Inghilterra, con particolare riferimento alla capitale dell’impero del cotone: Manchester. Le ragioni per cui fu proprio a Manchester che secondo Mumford si posero le basi del sistema industriale risultano essenzialmente tre: il facile accesso alla forza idraulica dei fiumi, la disponibilità di terreni a buon mercato e il fatto che “fino al 1838 – per esempio – né Manchester né Birmingham funzionarono politicamente quali borghi corporativi: esse erano conigliere di uomini, riserve di caccia di lavoratori, non organi di un’associazione umana”10. Conigliere di uomini, appunto, proprio come Jack London aveva definito l’East End di Londra e come Edward Thompson definirà gli alloggi di fango e calce in cui veniva stoccata la forza lavoro delle grandi città industriali verso la metà dell’Ottocento. Un primo riscontro di quella che si potrebbe considerare la globalizzazione di Coketown, quindi, che in una prospettiva storica postula la permanenza dei caratteri primitivi della cosiddetta accumulazione originaria nello sviluppo più maturo e contemporaneo del capitalismo, ce lo fornisce David Harvey quando supportando implicitamente la tesi di Mumford scrive: Città come Norwich e Bristol erano molto organizzate ed era politicamente difficile strappare il potere alle gilde. Nei greenfields di campagna non c’era invece nemmeno un apparato di controllo, né una borghesia cittadina, né tanto meno una gilda o un qualche sistema corporativo. Il processo di industrializzazione si svolse quindi perlopiù nei paesi vicini a Manchester [...]. Per quanto ciò differisca da processi di industrializzazione che si sono svolti altrove le aree verdi extraurbane sono sempre state la meta più ambita dal capitale per installarvi i propri distretti industriali. Quando l’industria automobilistica giapponese si spostò in Inghilterra negli anni Ottanta, evitò accuratamente le zone più sindacalizzate del Paese, scegliendo aree aperte a nuovi processi di sviluppo, dove le varie compagnie avrebbero potuto edificare qualsiasi tipo di stabilimenti (il tutto ovviamente con l’avvallo del governo Thatcher e delle sue leggi antisindacali). Negli Stati Uniti possiamo riscontrare la stessa tendenza11.

10 Ivi, p. 138. 11 Harvey, Introduzione al Capitale, cit., pp. 286-287.

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A definire Coketown, dunque, a fare di quello che nel 1727 Daniel Defoe chiamava ancora “il più grande villaggio d’Inghilterra” la Manchester esemplare di Mumford e di quasi tutti gli autori che dovremo trattare, sono in primo luogo una disponibilità di spazio e di forza lavoro che l’impianto manifatturiero articola in modo peculiare con la fondazione e l’espansione della non-city. Fu infatti “per avere l’eccedenza necessaria di operai – continua Mumford – per venire incontro alle richieste straordinarie nella stagione attiva”, che “era importante per le industrie fissarsi vicino a un grande centro abitato, perché in un villaggio di campagna il mantenimento dei disoccupati avrebbe potuto ricadere direttamente sull’industriale stesso”. Ed è così che il grande villaggio esplode nella caotica espansione della città, “perché fu con il puntello di manodopera irregolare, impiegata saltuariamente, pagata insufficientemente che i nuovi capitalisti riuscirono a deprimere i salari e ad accontentare ogni richiesta improvvisa di produzione”12. Una genesi analoga si ritrova negli Études sur l’Angleterre di Léon Faucher, il quale osserva direttamente sul campo che all’origine della manifattura “ogni fabbrica [...] diveniva un centro attorno al quale si raggruppavano i lavoratori, proprio come in altre epoche i contadini sotto la protezione del castello feudale”13. Ma è proprio “in linea generale”, secondo Raymond Vernon, che all’epoca dei primi insediamenti manifatturieri “le città si concentrarono in prossimità dei porti (e dei fiumi), poiché questi erano i punti focali dove le industrie e i magazzini potevano spedire e ricevere le merci. Una volta fissati questi punti focali urbani, le case degli operai, degli impiegati e dei mercanti vi si affollavano tutte intorno”14. La non-city, allora, risulta innanzitutto un luogo di fissazione della forza lavoro in attività o in esubero, la resa nello spazio di un sistema produttivo che senza ulteriori limitazioni “divenne il nucleo del nuovo organismo urbano. Ogni altro dettaglio della vita quotidiana – prosegue Mumford – fu subordinato a essa”15. Gli stabilimenti sorsero “per puro caso” in rapporto alla compravendita dei terreni, implicando la crescita per 12 Mumford, La cultura delle città, cit., p. 147. 13 Léon Faucher, Études sul l’Angleterre. Tome premier, Librairie de Guillaumin, Paris 1845, p. 386. 14 Raymond Vernon, Mito e realtà dei problemi urbani contemporanei, in Metropoli e sottocomunità, trad. it. a cura di Laura Balbo e Guido Martinotti, Marsilio, Venezia 1966, p. 139. 15 Mumford, La cultura delle città, cit., p. 150.

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gemmazione di quartieri altrettanto casuali e selvaggi nei quali le singole funzioni della manifattura, del commercio e degli alloggi risultarono sempre più confuse16. E alla confusione miasmatica delle funzioni, inevitabilmente, corrispose una violenta trasformazione delle esperienze, innanzitutto fisiche e percettive. Una delle conseguenze più disastrose della rivoluzione industriale, sostiene Thompson, consisterà anche per i contemporanei nella degradazione dell’ambiente estetico in cui vengono costretti e vivere17. Un po’ come avviene verso la fine dell’Ottocento nelle nuove città coloniali, che di Coketown rappresenteranno l’interfaccia o una succursale oltre confine, nei quartieri si registra una grave insufficienza dei servizi igienici, determinando casi drammatici come quello dei 7000 abitanti che proprio a Manchester – tra il 1843 e il 1844 – si sarebbero dovuti contendere 33 gabinetti. Immerse nel tanfo delle fognature a cielo aperto e dei rifiuti, così, le conigliere risultano un ambiente aggregato a una specifica produzione dei corpi, condizionando in modo altrettanto specifico l’esperienza che impongono di elaborare. La quale, oltretutto, dovrà formarsi attraverso la cronica interferenza di patologie e malanni, dal momento che il rapporto tra i corpi e lo spazio verrà inevitabilmente condizionato dalla straordinaria attività di modificazioni organiche – è sempre Mumford – rachitismo nei bambini causato dalla mancanza di sole, deformazioni delle ossa e degli organi, funzionamento difettoso delle ghiandole endocrine dovuto a un regime alimentare insufficiente; malattie della pelle per mancanza di acqua quale elemento di igiene; vaiolo, tifo, scarlattina, angina, diffusi attraverso la sporcizia e gli escrementi; tubercolosi favorita dal cattivo regime alimentare, dal sovraffollamento degli ambienti e dalla mancanza di sole concomitanti; tralasciando le malattie professionali dovute anch’esse in parte all’ambiente18.

Il nero e il grigio che regnano dovunque attutiscono il senso del colore, il fumo si diffonde dappertutto insieme all’odore degli scarichi e del grasso, l’udito viene costantemente aggredito da l’urlo mattutino delle sirene delle fabbriche, il fischio della locomotiva, il rintocco incalzante dello stantuffo a vapore antiquato, l’ansimare e lo stridere delle fornaci e delle cinghie di trasmissione, lo scatto e il ronzio del telaio, 16 Ivi, pp. 151-152. 17 Thompson, Rivoluzione industriale e classe operaia in Inghilterra, cit., vol. I, p. 325. 18 Mumford, La cultura delle città, cit., p. 158.

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i martellamenti del maglio, le grida degli operai che lavoravano e vivevano in mezzo a questi svariati clamori.

Ecco qual è l’elemento acustico, cromatico e olfattivo in cui si determina la nuova forma di vita connaturata allo sviluppo della città che Mumford definisce anche “paleotecnica”: sono queste le principali condizioni estetiche in cui si costituisce il nuovo soggetto urbano. Scrive Dickens: “Era una città di mattoni rossi o, meglio, di mattoni che sarebbero stati rossi se fumo e cenere lo avessero consentito. Così come stavano le cose, era una città di un rosso e di un nero innaturale come la faccia dipinta di un selvaggio”19. E poi: “I palazzi fatati si illuminavano tutti prima che la pallida luce dell’alba rivelasse i mostruosi serpenti di fumo che si snodavano sopra Coketown”. Più in generale, il volto tremendo della città non assomiglia solo alla faccia dipinta di un selvaggio (the painted face of a savage), ma evoca una serie coerente di metafore come i palazzi fatati (the Fairy palaces), i serpenti di fumo (the smoke-serpents), la foresta di telai (the forest of looms), i malinconici elefanti (the melancholy mad elephants) o le torri di Babele (like competing Towers of Babel)20 che riconducendo la nuova realtà industriale alle forme più arcaiche della natura e del mito, restituiscono una contemporaneità essenzialmente anacronica, la cui maggiore evidenza si direbbe proprio quella di risultare allo stesso tempo in ritardo e in anticipo rispetto a se stessa. La metafora potrebbe allora compiere lo sforzo di mantenere questa tensione tra le diverse incongruenze storiche, ma tanto da spingere Raymond Williams ad affermare che “Hard Times è più il sintomo della società industriale che un segno di averla compresa”: un sintomo “significativo e attuale”21. Ancora più significativo potrà quindi risultare il fatto che la stessa sintomatologia emerga dai resoconti di un altro testimone, il Léon Faucher al quale ho già fatto riferimento. Nelle pagine degli Études sur l’Angleterre dedicate alla “metropoli manifatturiera del Regno Unito”, infatti, a Manchester non accade solo che la forza lavoro venga domiciliata intorno alla fabbrica come in altre epoche era successo ai contadini del feudo (sous la protection du château féodal), ma 19 Charles Dickens, Tempi difficili, trad. it. di Gianni Lonza, Garzanti, Milano 2014, p. 26. 20 Ivi, pp. 67-83. 21 Raymond Williams, Cultura e rivoluzione industriale. Inghilterra 1780-1950, trad. it. di M.T. Grendi, Einaudi, Torino 1972, p. 130.

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le macchine ricordano le cento braccia del gigante Briareo (cent bras du géant Briarée)22, le officine assomigliano alle case dell’antica Roma (élevées de l’ancienne Roma), il lavoro è come l’attività sotterranea di un vulcano (l’activité souterraine d’un volcan)23 e nei periodi di stagnazione, la borsa che solitamente decreta allo stesso modo dei Medi e dei Persi (qui promulgue des décrets aussi immuable que ceux des Mèdes et des Perses)24, diventa altrettanto abbandonata di una catacomba egiziana (aussi vide et aussi abandonné d’un des catacombes d’Égypte)25. Nei dintorni della città, dove si potrebbe respirare un’aria appena più salubre, tutto è proprietà privata, così che gli operai devono sognare la campagna come gli ebrei davanti a una terra promessa che hanno solo potuto vedere (comme les Hébreux devant la terre promise qu’on leur laissait voir)26. E anche la definizione che Faucher contesta, quella della manifattura come Arcadia della civilizzazione (l’Arcadie de la civilisation)27, riproduce la stessa tensione tra l’esperienza urbana e le anacronie dalle quali tende a farsi rappresentare. D’altro canto i sintomi d’autore e la loro fuga nel tempo e nello spazio rinviano a un’altra caratteristica fondamentale di Coketown, vale a dire la tendenza a risultare in modo sempre più vistoso una “bottega dell’antiquario”. Al grigiore della non-city, infatti, avrebbero cominciato a reagire da un lato la stratificazione quasi maniacale di tappeti, vasi, ninnoli, ricordi, conchiglie, tende, ricami, fiori secchi, minerali, scatole indiane e vassoi cinesi che congestionano l’interno borghese; dall’altro, nello spazio pubblico, “l’immagine della strada perdeva qualunque armonia: essa era un guazzabuglio di stili contrastanti, attuato in materiali diversi senza alcuna preoccupazione d’insieme”28. Così, se l’intèrieur diventa il luogo in cui il singolo individuo “raccoglie il lontano e il passato”, come ha scritto Benjamin29, qualcosa di analogo accade alla periferia della città inglese e americana, dove secondo Mumford cominciano a spuntare tutti i cottages bizantini, gli châlets svizzeri, le ville italiane e i palazzi 22 23 24 25 26 27 28 29

Faucher, Études sul l’Angleterre, cit., p. 312. Ivi, p. 315. Ivi, p. 320. Ivi, p. 322. Ivi, p. 352. Ivi, p. 380. Mumford, La cultura delle città, cit., p. 190. Benjamin, Parigi. La capitale del XIX secolo, cit., p. 147.

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moreschi con i quali si esprime il disorientamento della classe agiata alla ricerca delle forme storiche e geografiche che le consentano di celebrare il proprio merito. L’accumulazione degli stili avrebbe caratterizzato anche il tramonto della Russia zarista, poi, dove negli anni che precedono la Grande Guerra e che coincidono con la prima industrializzazione del paese – scrive Anatole Kopp – i “mercanti arricchiti si fanno costruire residenze stravaganti in cui il gotico, il rinascimento, il moresco, la Roma antica e la Grecia si spartiscono stanze e piani, in accostamenti mostruosi che non esprimono altro che il cattivo gusto, la presunzione e il senso del possesso dei loro proprietari”30. Dietro le motivazioni di ordine psicologico e patrimoniale, però, Mumford coglie una frattura antropologica che ha l’ambizione di estendere a tutta la fenomenologia di Coketown, “l’insensata città industriale”, fornendoci una spiegazione che si può riferire anche al lavoro svolto dalla metafora nei resoconti di Dickens o di Faucher. Se a caratterizzare la non-city è il disordine stilistico, spiega, è perché all’accelerazione dei processi economici non corrispose “quella collettiva padronanza della forma che caratterizza una cultura vitale”31. Di conseguenza, anche nel caso più specifico della forma urbana, “la città quale unità sociale rimane estromessa dal campo delle invenzioni”32, obbedendo solo alla “legge del caso”. Anche la metafora, dunque, potrebbe confermare la tendenza dell’epoca a concepire se stessa ricorrendo agli espedienti formali accatastati nella bottega dell’antiquario: per Steven Marcus, che si è posto il problema, sembra che l’emergenza dei testimoni fosse appunto quella descritta da Mumford, che pure non cita. I tanti riferimenti alla storia e al paesaggio naturale, rivelerebbero infatti “lo sforzo di adattare un’esperienza nuova, strana e disturbante o sconvolgente a una struttura concettuale ed economica consueta. Rappresentano lo sforzo di ammansire, domesticare o controllare quell’esperienza prima che sfugga di mano”33. Si potrebbe contestare a Marcus una scarsa riconoscenza nei confronti della metafora, che non si limita quasi mai a strattonare 30 Anatole Kopp, Città e rivoluzione. Architettura e urbanistica sovietiche negli anni Venti, trad. it di E. Battisti, Feltrinelli, Milano 1987, pp. 42-43. 31 Mumford, La cultura delle città, cit., p. 190. 32 Ivi, p. 138. 33 Steven Marcus, Engels, Manchester e la classe lavoratrice, trad. it. di L. Fontana, Einaudi, Torino 1980, p. 41.

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la novità sotto la guida della consuetudine ma compie anche il movimento opposto, liberando il potenziale espressivo e cognitivo di una somiglianza imprevista. In ogni caso, l’esperienza della città assumerebbe un carattere sfuggente che i contemporanei avrebbero tentato di fronteggiare con le risorse della figurazione. Non tutti, però, dal momento che sarebbe proprio in rapporto a questo tentativo di fuga che andrebbe colta l’originalità di Engels, il quale pur fornendoci un’immagine precisa di Coketown, scrive sempre Marcus, “non si lascia mettere in imbarazzo dall’indescrivibile”34. È vero, quando La situazione della classe operaia in Inghilterra approda alla descrizione dei luoghi più abietti, Engels “ha appena cominciato ed è già rimasto a corto di superlativi”, perché “anche il linguaggio gli si esaurisce tra le mani”, ma ciò nonostante evita di ricorrere agli espedienti dell’antiquario. Piuttosto, se “una delle funzioni di sicurezza della lingua onestamente usata è quella di poter crollare di fronte a simili realtà”, bisognerà accettare il rischio di affrontarne il crollo. Gli orrori di Coketown, così, non rappresentano per Engels una realtà da “addomesticare con la sintassi e un repertorio di figure”, ma occasioni dalle quali lasciarsi travolgere, “senza temere cosa avrebbero potuto fare di lui e dove lo avrebbero potuto condurre”35, con un atteggiamento di partecipazione alla concretezza della vita operaia che anticipa per molti versi il programma dell’etnografia urbana. Come abbiamo detto, allora, Mumford esclude che a determinare la forma di Coketown siano intervenuti altri fattori rispetto alle esigenze della produzione, lo stoccaggio della forza lavoro, la ripetizione del reticolato e la “legge del caso”. Quasi un secolo prima, Léon Faucher era giunto alla medesima conclusione, stabilendo che Manchester era costruita “senza alcun tipo di piano”. Quando nel 1845 pubblica La situazione della classe operaia in Inghilterra, invece, l’etnografo che pure conosce e apprezza gli Études sur l’Angleterre per averne lette le singole parti tra il 1843 e il 1844, mentre apparivano sulla “Revue des Deux Mondes”, restituisce una visione molto più elaborata. Scrive Engels: La città stessa è costruita in modo singolare e si potrebbe abitarvi per anni e entrarvi e uscirne ogni giorno senza mai venire a contatto con un quartiere operaio, anche soltanto con operai, almeno fino a quando ci si limita a occu34 Ivi, p. 118. 35 Ivi, p. 198.

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parsi dei propri affari o ad andare a passeggio. E ciò deriva principalmente dal fatto che, per un tacito, inconsapevole accordo, come pure per una consapevole ed espressa intenzione, i quartieri operai sono nettamente separati dai quartieri destinati alla classe media, ovvero, dove ciò non è possibile, sono stati coperti con il manto della carità36.

La legge del caso, dunque, viene parzialmente contestata da una mescolanza di cinismo e inconsapevoli accordi che se non altro attenuano, correggono o informano la presunta anomia dello sviluppo urbano. In anticipo di svariati decenni rispetto alle teorie di Freud, così, Engels sembra formulare un’ipotesi che la sociologia contemporanea avrebbe fatto propria, vale a dire che la città è sì un prodotto, ma senza che a produrla sia per forza un’azione cosciente37. Ha scritto Henri Lefebvre: “Strategia di classe significa forse sequenza di atti concertati, pianificati con un solo obiettivo? Certamente no. Il carattere di classe sembra tanto più profondo quanto più diverse azioni concertate con obiettivi diversi convergono verso un risultato finale”38. Per esempio, continua Engels, lungo i due lati delle strade principali che dalla Borsa conducono in tutte le direzioni fuori di città si stendono negozi in fila quasi ininterrotta. Queste strade si trovano quindi nelle mani della piccola e media borghesia, la quale se non altro per motivi di interesse mantiene e può mantenere un aspetto più decoroso e pulito [anständigeres und reinliches Aussehen]. È vero che questi negozi hanno pur sempre un qualche legame con i quartieri che si stendono alle loro spalle, e perciò nel quartiere commerciale e nei pressi dei quartieri della borghesia appaiono più eleganti che non là dove celano i sudici cottages operai; tuttavia sono pur sempre sufficienti a nascondere ai ricchi signori e alle ricche dame, dallo stomaco forte e dai nervi deboli, la miseria e il sudiciume che costituiscono il complemento della loro ricchezza e del loro lusso39.

La non-city prenderà indubbiamente una forma casuale, dunque, ma al tempo stesso adeguata ad assicurare l’occultamento della pornografia operaia, contraddicendo il principio che tendeva a identificarla semplicemente con una caotica appendice dei cicli produttivi. 36 Friedrich Engels, La situazione della classe operaia in Inghilterra, trad. it. di R. Panzieri, Edizioni Lotta Comunista, Milano 2011, pp. 109-110. 37 Guido Martinotti, Sei lezioni sulla città, a cura di Serena Vicari Haddock, Feltrinelli, Milano 2017, p. 18. 38 Henri Lefebvre, Industrializzazione e urbanizzazione in Il diritto alla città, cit., p. 29. 39 Engels, La situazione della classe operaia in Inghilterra, cit., pp. 110-111.

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Perché a Coketown, conclude Engels, nella città che lui stesso considera una concrezione del profitto e del caso, “i fabbricanti liberali hanno avuto la loro parte in questa sistemazione urbanistica piena di pudori [an dieser schamhaften Bauart]”40. Senza rinunciare alla dimensione della casualità, in altri termini, La situazione della classe operaia associa alla mancanza di un piano la funzione morfogenetica e strutturante del decoro, che non si traduce solo nella scontata separazione dei quartieri, ma determina anche il modo in cui i singoli spazi si connettono nella conformazione complessiva della non-city. La quale, riferirà Edward Thompson, assomiglierà sempre più a una continua barriera di negozi, magazzini e stabilimenti che consentono al ricco di ignorare la presenza del povero, di presumerlo da qualche parte in Nuova Zelanda oppure in Camciatca, pronto a rifarsi occasionalmente vivo sotto forma di vagabondo o di potenziale delinquente41. Il rapporto tra la merce in quanto recinzione percettiva e la percezione dell’insicurezza non potrebbe assumere una forma più elementare. Ha scritto Alessandro De Giorgi: Queste politiche producono effetti paradossali, perché le persone sviluppano quello che Bourdieu avrebbe definito l’habitus a interagire con uno spazio urbano interamente ripulito di figure ingombranti, scomode, indesiderabili. Il problema è che in questo modo la tassonomia dell’indesiderabilità sociale tende a estendersi indefinitamente, fino al momento in cui ad essere allo status di frequentatori legittimi dello spazio urbano rimangono soltanto cittadini benestanti alla guida di enormi SUV o impegnati a consumare risorse negli spazi privatizzati della città neoliberale. Ma anche quando lo spazio urbano si ripulisce, la paura aumenta. È un dato ovvio di psicologia individuale, prima ancora che sociale: quanto meno le persone sono esposte alla differenza e all’altro da sé, tanto più tali differenze alimentano paure e angosce42.

Così, se negli ultimi anni della sua vita il materialista storico stabilirà di doversi occupare definitivamente del modo in cui si determinano “la produzione e la riproduzione della vita immediata”, sulle strade di Manchester il giovane Engels si direbbe già alle prese con la necessità di cogliere tutti i fattori che operano una dissimulazione 40 Ivi, p. 112. 41 Thompson, Rivoluzione industriale e classe operaia in Inghilterra, cit., p. 327. 42 Alessandro De Giorgi, Dalla Tolleranza Zero al Decoro, intervento trascritto e consultabile sul sito di DINAMOpress.

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dello sfruttamento nelle forme apparentemente immediate della morale e dell’abiezione, del decoro e dell’indecenza. Si tratta di forme complesse in cui si esprime, nella storia, “la produzione degli uomini stessi”, attraverso una continua rimodulazione dei rapporti tra razionalità e inconscio che intride la sfera percettiva di operazioni politiche, economiche e sociali. Non solo a Manchester, ma in tutta Coketown, perché anche in relazione a queste forme il teorema di Mumford (che pure non le riconosce) viene puntualmente confortato dalle annotazioni che nel 1861 compaiono in uno dei maggiori successi editoriali del Secondo Impero: L’Ouvrière di Jules Simon. Il quale, dopo che ha denunciato la “miseria che si nasconde” nei quartieri operai di Lille, Reims e Rouen, non ha alcuna esitazione a garantire che “tutte le città industriali offrono lo stesso spettacolo”43. Lo stesso Engels, come abbiamo visto, quando tra il 1872 e il 1873 scriverà la seconda parte di La questione delle abitazioni, ricollegandosi alla Manchester che aveva visto e descritto quasi quaranta anni prima ne estenderà il paradigma al modo stesso in cui la borghesia risolve ovunque il problema degli alloggi. L’impressione, allora, è che alla metà del diciannovesimo secolo la borghesia non abbia cominciato solo ad affermare con forza i valori della privacy e del comfort, ma anche le premesse fattuali di quella che oggi potremmo definire una psicogeografia del decoro44. In questo modo, La situazione della classe operaia ci permette di applicare anche a Coketown il principio di Kracauer secondo il quale “ogni spazio tipico viene creato da rapporti sociali tipici, che trovano in esso espressione senza l’interferenza perturbatrice della coscienza”. Ed è alla luce di questa integrazione che la non-city può effettivamente risultare un archetipo della storia urbana, uno spazio tipico o un “disordine specifico” (come lo definisce Henri Lefebvre)45 che si determina in qualunque contesto popolato dai rapporti canonici dell’industrializzazione. Per comprovare questa tesi, mi limiterò a segnalare alcuni affioramenti di Coketown alla superficie di uno sviluppo industriale che ha coordinate storiche, geografiche e politiche notoriamente peculiari: quello dell’Italia. Nel corso dell’Ottocento, infatti, il centro econo43 Jules Simon, L’Ouvrière, Librairie de L. Hachette, Paris 1861, pp. 157-159. 44 Bernardo Secchi, La città dei ricchi e la città dei poveri, Laterza, Roma-Bari 2013, p. 32. 45 “Secondo Engels, un ordine specifico, quello della produzione industriale gestita dalla borghesia [...] genera un disordine specifico, il disordine urbano” (Henri Lefebvre, Il marxismo e la città, trad. it. di M. Spinella, Mazzotta, Milano 1973, p. 26).

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mico della società italiana rimangono i campi e lo spopolamento riguarda semmai le montagne o qualche zona costiera. Nei soggiorni degli emigrati cominciano a comparire le marine o le scene di pastorizia, ma anche nel nord-ovest bisognerà attendere le commesse della grande guerra perché al modo di produzione corrisponda un rivoluzionamento della scena urbana. Prima di allora, al di là di qualche fondovalle o di qualche gasometro, “nessun centro industriale ha mai assunto l’aspetto di Manchester”46. Eppure, se davvero la storia di Coketown ha inizio “con il declino della sua organizzazione corporativa”, varrà la pena notare come anche in Italia la prima industrializzazione abbia coinciso con l’epoca del fascismo, quando le corporazioni rinunciano a qualunque autonomia politica e vengono mobilitate nei cosiddetti processi di accumulazione originaria del capitale47. Ma è solo negli anni del boom che il numero degli occupati in fabbrica supera quello delle campagne, mentre tra il 1955 e il 1970 le anagrafi registrano 24.800.000 spostamenti di residenza48. E così il paesaggio comincia effettivamente ad assumere alcuni connotati tipici, a partire dal triangolo industriale, dove una serie di fattori economici e culturali si intrecciano nella produzione della nuova periferia metropolitana. “Una casa di fronte – scrivono Franco Alasia e Danilo Montaldi – una di traverso, una di fianco, una isolata”: non ha neppure un nome questa nuova frazione “lontana, disorganica, disagiata”, priva di strade e di servizi, che in assenza di un piano o di quella che Mumford avrebbe definito una collettiva padronanza della forma, ignora qualunque principio morfologico alternativo al potenziamento della rendita fondiaria49. I residenti la chiameranno Corea, la zona a nord di Milano, perché ai loro occhi gli immigrati si presentavano “come gente che aveva perduto la guerra” da poco conclusa50. Uno spazio di relegazione dei losers, dunque, nel quale è possibile osservare un’ulteriore per quanto classica prestazione del decoro, che non si limita a creare compartimenti e raccordi, sul modello riferito da Engels, ma assume una funzione apertamente disciplinare: 46 Roberto Gabetti e Carlo Olmo, Discontinuità e ricorrenze nel paesaggio industriale italiano, in Storia d’Italia. 26, Insediamenti e territorio, Einaudi, Torino 1985, pp. 122-125. 47 Angelo Detragiache, La città nella società industriale, Einaudi, Torino 1973, pp. 36-37. 48 Guido Crainz, Storia del miracolo italiano, Donzelli, Roma 2005, pp. 87-88. 49 Franco Alasia, Danilo Montaldi, Milano, Corea. Inchiesta sugli immigrati, Feltrinelli, Milano 1975, pp. 60-62. 50 Ivi, p. 104.

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Nella disposizione topografica delle prime Coree – infatti – si rileva una più profonda intenzione di distacco, un maggior senso del privato. Se la prima casa è disposta frontalmente, la seconda è stata fatta apposta per un altro verso, così che finestre e porte non si affrontino. C’è dentro questo rifiuto di familiarizzare il contraccolpo dell’esperienza precedente: meglio non avere rapporti con gli altri; e poi non ci si vuol riconoscere nella situazione che si ha di fronte; il problema è personale, è quello della famiglia, della casa, del lavoro continuo di sistemazione della nuova abitazione51.

Anche a Torino, dove una “costante preoccupazione dell’esterno decoro” ha impedito ai nuovi insediamenti di rovinare nell’estetica delle Coree, “lo sviluppo edilizio è irrazionale e caotico”. Qui, ad aver espropriato la collettiva padronanza della forma pare sia stata la Fiat, che detiene il 15 per cento dei terreni edificabili52. Così, 98.000 individui vivono in alloggi sovraffollati, soprattutto le soffitte, dove bisogna fare anche con un gabinetto ogni cinquanta inquilini, oppure trovano una sistemazione in “stamberghe, abituri, sottoscale, scantinati, in vecchie cascine e vecchie case destinate alla demolizione” che risultano sostanzialmente inabitabili, ma senza dare nell’occhio53, come la Camciatca di Edward Thompson. Perché quando le aberrazioni della non-city emergono, per esempio a Le Vallette, interviene immediatamente La Stampa a denunciare “la sporcizia, il sovraffollamento, l’immoralità, il chiasso e il caos che i meridionali avrebbero portato nel quartiere”54. Ed è quindi la vecchia storia della bambinata, vale a dire la tendenza del capitale a risolvere le proprie contraddizioni imputandole alla presunta natura storta di chi le patisce. Con la medesima postura, spiegava Engels, “al socialismo borghese non rimane altra via d’uscita che spiegare la penuria delle abitazioni con frasi moraleggianti sulla cattiveria degli uomini, come risultato, per così dire, del peccato originale”55. Così, se anche in città mancano gli ospedali e le aule scolastiche, il prestigio impone innanzitutto la ricostruzione del Teatro Nuovo, in vista di Italia ’61, “specchio di una Torino provinciale e retriva, piccolo-borghese e umbertina”56. Ancora una volta, lungo il percorso che conduce dalle metafore di Dickens ai fasti di Italia ’61, attraverso l’analisi dei “rapporti so51 52 53 54 55 56

Ivi, p. 60. Goffredo Fofi, L’immigrazione meridionale a Torino, Feltrinelli, Milano 1975, p. 68. Ivi, pp. 179-180. Ivi, p. 183 Engels, La questione delle abitazioni, cit., p. 71. Fofi, L’immigrazione meridionale a Torino, cit., p. 68.

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ciali dentro l’uso della città” che proprio l’insediamento industriale avrebbe reso imprescindibile57, uno dei tratti più specifici di Coketown si confermerebbe quello di rendere forzatamente sincronica una varietà di tempi diversi. Tempi che non si possono comprendere solo nei termini dell’arretratezza o della posizione che assumerebbero nei confronti di una misura neutrale, dal momento che è proprio la genesi della nuova città a causare le conseguenze più diseguali e anacronistiche. Ha scritto Lefebvre: Tra le maglie del tessuto urbano perdurano agglomerati e luoghi di ruralità “pura”, territori spesso poveri (ma non sempre) popolati da contadini che invecchiano, che non riescono ad adeguarsi, spogliati di ciò che costituiva la nobiltà della vita contadina al tempo della miseria e dell’oppressione. Dunque, il rapporto “ruralità-urbanità” non scompare; al contrario, si intensifica proprio nei paesi più industrializzati58.

E questo perché “la produzione dello spazio non tiene conto del tempo se non per asservirlo alle esigenze e alle imposizioni della produttività. Strano circolo vizioso entro il quale il tempo è come rinserrato”59. Accade così che a rinserrare i tempi possano intervenire anche fattori banali come quelli menzionati da Louis Chevalier, che studiando lo sviluppo di Parigi tra la Restaurazione e la Monarchia di Luglio giungeva alla conclusione di quanto fosse “più facile abbellire e illuminare la città che pulirla, decorarne le facciate che sondarne gli abissi”60. D’altronde, all’inizio di questa storia era stato Alexis de Tocqueville a fissare forse per primo il canone paradossale di Coketown, quando il 2 luglio del 1835 aveva annotato sulle strade di Manchester: “È in mezzo a questa cloaca infetta che il più grande fiume dell’industria umana si origina per fecondare l’universo. Da questa fogna immonda sgorga oro puro. È qui che lo spirito umano si perfeziona e si abbruttisce, la civiltà produce le sue meraviglie e l’uomo civilizzato torna a essere quasi un selvaggio”61. Lo confermerà un ragazzino ripreso dalla Rai tra i baraccati dell’Acquedotto 57 58 59 60

Carlo Olmo, La città industriale. Protagonisti e scenari, Einaudi, Torino 1980, pp. 41-42. Lefebvre, Il diritto alla città, cit., p. 25. Lefebvre, Il marxismo e la città, cit., p. 155. Louis Chevalier, Classi lavoratrici e classi pericolose. Parigi nella rivoluzione industriale, trad. it. di S. Brilli Cattarini, Laterza, Roma-Bari 1976, p. 259. 61 Alexis de Tocqueville, Viaggio in Inghilterra, trad. it. a cura di Stelio Mazziotti di Celso, Guida, Napoli 1998, p. 115.

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Felice, mentre legge un paragrafo della lettera che insieme ai suoi coetanei ha indirizzato al sindaco di Roma. Lo si può tuttora ascoltare e vedere nel documentario che Fabio Grimaldi ha dedicato alla Scuola 725 di don Roberto Sardelli nel 2007, intitolato Non tacere. Dirà quel ragazzino: “Sul libro di storia della terza elementare abbiamo letto che nel tremila avanti Cristo gli egiziani costruivano le loro case con il fango impastato con la paglia. Oggi, cinquemila anni dopo, si va sulla luna, ma noi qui nel ghetto, come gli egiziani”.

CAPITOLO SESTO

Fanon e la recinzione percettiva

Per riprendere la formula di Kracauer, così come il boulevard o le baracche corrispondono a una tipica configurazione dei rapporti di classe, il campo rappresenta il paradigma più estremo dello spazio connaturato alle gerarchie razziali. Ma si tratta di due forme di spazialità interconnesse, che si sperimentano l’una nell’altra e che concorrono alla specificazione della medesima antropologia politica. L’apparizione dei campi in epoca e territorio di conquista coloniale (Sud Africa, Namibia, Cuba) prelude alla loro diffusione sul suolo europeo nel corso del primo Novecento e della Seconda Guerra Mondiale, si evolve in un metodo di contrasto ai processi di decolonizzazione e ne amministra le conseguenze nello spazio globale, dove è ancora il campo a intrappolare le vite di profughi, migranti e richiedenti asilo. A questo riguardo Federico Rahola ha parlato di un “movimento elastico”, cioè di “una storia che dalle colonie è destinata ad accentrarsi in Europa – ‘provincializzando’ l’Europa stessa – per poi riaffermarsi nel problematico e sconfinato scenario postcoloniale del presente”1. Anche in Italia, fu con la guerra di Libia che tra 1911 e il 1912 si fece nuovamente ricorso all’istituto del confino, molti anni prima che il regime fascista lo utilizzasse in modo più sistematico per isolare gli oppositori politici. Sarà anche nei luoghi di confino come Lipari o Ustica che sorgeranno i primi campi di internamento per i civili etiopi ed eritrei, gli stessi luoghi che nell’immediato dopoguerra verranno trasformati in centri di raccolta per gli “stranieri indesiderabili” in attesa di rim1

Federico Rahola, La forma campo. Appunti per una genealogia dei luoghi di internamento contemporanei, in “DEP”, 5-6, 2016.

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patrio2. La riflessione postcoloniale è poi concorde nel sostenere che con lo sterminio del popolo ebraico assistiamo a un cambio di paradigma rispetto alle forme di deportazione e di internamento che lo hanno proceduto, ma ciò non toglie che per precisarne le peculiarità rimanga importante inserire il campo nazifascista in una prospettiva più ampia, che evidentemente gli sopravvive3. “I campi di oggi non sono i campi di ieri – ha scritto a questo riguardo Georges Didi-Huberman – ma sono ancora dei campi: la loro stessa struttura è il frutto di una lunga storia. Una storia che già altre volte, senza che gli stati se ne inquietino troppo, è cominciata con delle ‘semplici’ procedure di trattenimento”4. L’orizzonte teorico in cui proverò a sviluppare il presente capitolo, dunque, sarà quello della città postcoloniale, che postula la sopravvivenza dei vecchi progetti imperiali nella strutturazione o nella produzione dell’attuale spazio europeo e nordamericano5. Come sostiene Didi-Huberman, infatti, oggi si direbbe ancora la funzione del campo a venir declinata in vario modo nei luoghi formali e informali del transito quali Calais, Idomeni, Lampedusa, Ventimiglia, Lesbo, Misurata o nelle città autonome della Spagna situate in Nordafrica, per tacere di tutti i centri deputati alla detenzione amministrativa degli stranieri tuttora indesiderabili e in attesa di rimpatrio. Si tratta di luoghi che possono evidentemente variare, assumendo di volta in volta la forma della bidonville o della tendopoli, dell’hotspot o del penitenziario, dell’isola o della distesa di container, ma rimangono accomunati da una serie piuttosto coerente di costanti tipologiche e strutturali. Sorgono spesso in prossimità di porti, snodi autostradali, passaggi di confine, dove le popolazioni in movimento attendono un colpo di fortuna e vengono trattenute dalla polizia o dall’esercito. Generano conflitti tra le molteplici culture della diaspora, gli autoctoni e gli stranieri, le autorità e le associazioni di volontari. Risultano soprattutto luoghi ai quali deve corrispondere una specifica forma di vita, sia di coloro che vengono trattenuti che di coloro che li trat2 3 4 5

Costantino Di Sante, Stranieri indesiderabili. Il campo di Fossoli e i “centri raccolta profughi” in Italia (1945-1970), ombre corte, Verona 2011, pp. 36-68. Achille Mbembe, Politiques de l’inimitié, La Découverte, Paris 2016, pp. 99-104. Georges Didi-Huberman, Niki Giannari, Passer, quoi qu’il en coûte, Les Éditions de Minuit, Paris 2017, p. 50. Brenda S. A. Yeoh, Postcolonial cities, in “Progress in Human Geography”, 25, 2001/3, p. 457. Per un primo approccio al tema rinvio a Neera Chandoke, The post-colonial city, in “Economic and Political Weekly”, 26, 50, 1991, pp. 2868-2873.

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tengono. L’antropologo francese Michel Agier, che presso l’École des hautes études di Parigi ha coordinato un programma di ricerca consacrato allo studio di questi temi, propone quindi di definire campo ogni “realtà sociale quanto spaziale generalmente associata all’immobilità o più precisamente all’immobilizzazione di persone in movimento”6. Come tenterò di dimostrare, allora, nella genealogia di questa forma contemporanea di immobilizzazione rientrano a pieno titolo le considerazioni di Frantz Fanon sulla città coloniale. Considerazioni che potremmo analizzare a partire dal 1954, quando nel tentativo di trarre una lezione dalla sconfitta in Indocina, l’esercito francese provvede a riarticolare il territorio algerino in base alle esigenze sempre più pressanti del controllo militare. Bisogna evitare qualunque contatto tra i civili e i ribelli, favorire la logistica della repressione e creare quindi dei centri destinati al raggruppamento in massa della popolazione. Cacciati dalle loro case, così, i contadini vengono trasferiti nei cosiddetti “nuovi villaggi”, centinaia e centinaia di campi circondati dal filo spinato nei quali si faticheranno a distinguere le funzioni del raggruppamento da quelle della detenzione. Come hanno evidenziato Joël Kotek e Pierre Rigoulot, poi, la letteratura ottocentesca ci consente di stabilire quanto il compromesso tra le due funzioni non rappresenti un “ultimo sussulto del colonialismo agonizzante”, ma la verità stessa del sistema coloniale. Frantz Fanon era giunto alla medesima conclusione: “L’indigeno è un essere chiuso in un recinto – si legge nelle prime pagine dei Dannati della terra – l’apartheid non è che una modalità della divisione in scomparti del mondo coloniale”7. I “nuovi villaggi” non fanno altro che intensificare una spazializzazione più usuale, quella dei quartieri in cui viene attratta e amministrata la forza-lavoro indigena che ambisce a un’integrazione socioeconomica all’interno della città europea, “la frazione del ceto contadino bloccato alla periferia urbana – come la chiama Fanon – che non ha ancora potuto trovare un osso da rosicchiare nel sistema coloniale”8. All’immobilizzazione di cui scrive Augier, in questo modo, si intersecano forme di trattenimento più spurie e sofisticate 6 7 8

Michel Agier (a cura di), La Giungla di Calais. I migranti, la frontiera e il campo, trad. it. di N. Manghi, ombre corte, Verona 2018, p. 146. Frantz Fanon, I dannati della terra, a cura di Liliana Ellena, Einaudi, Torino 2007, p. 16. Frantz Fanon, L’Algeria si svela, in Scritti politici. Volume II: L’anno V della rivoluzione algerina, a cura di Miguel Mellino, DeriveApprodi, Roma 2007, p. 52.

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che mettono a valore il rapporto tra spazi produttivi e spazi riproduttivi: è quanto accade ancora oggi alla manodopera migrante nelle campagne, per esempio, dove alla coincidenza tra luogo di lavoro e abitazione corrisponde una libertà di movimento soltanto formale9. Si tratta di una condizione che nella stessa Algeria occupata potrebbe rinviare al periodo compreso tra il 1845 e il 1863, quando alle popolazioni semi-nomadi che vivevano abitualmente nelle tende venne imposta una politique de cantonnement a ridosso degli affari europei10. Intanto, però, a partire dal 1830 la nuova pianificazione di Algeri avrà già aderito a quello che solo qualche tempo dopo si sarebbe cominciato a definire lo “stile haussmanniano”11. Le moschee vengono convertite in caserme e con i materiali dei monumenti abbattuti si ricostruiscono le città francesi. L’allargamento delle strade principali, che fino a quel momento dovevano consentire il passaggio di due asini a pieno carico, spazza via vecchie abitazioni e vecchi negozi, rimpiazzati da edifici a tre piani del tutto simili a quelli osservati da Engels a Manchester: le funzioni commerciali a piano terra, gli appartamenti per la borghesia europea ai piani superiori12. In un primo momento a dirigere i lavori sono gli ingegneri dell’esercito e la pavimentazione delle nuove strade deve attendere l’autorizzazione del Ministero della Guerra, finché negli anni Quaranta non giungono gli architetti, ma con una serie di progetti che secondo Paul Rabinow non fanno alcuna differenza tra Algeri e Bordeaux13. Scompare la tradizionale via del mercato, sostituita da una strada monumentale che collega i forti militari da est a ovest, mentre la popolazione indigena viene costretta a spostarsi dalla città bassa alla città alta o nelle zone rurali. Gli europei si installano allora nei quar9

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Valeria Piro, Giuliana Sanò, Abitare (ne)i luoghi di lavoro: il caso dei braccianti rumeni nelle serre della provincia di Ragusa, in “Sociologia del lavoro”, 146, 2016, pp. 40-55. Le autrici interpretano l’organizzazione spaziale del rapporto tra lavoro produttivo e lavoro riproduttivo attraverso la categoria di seclusione proposta da Ferruccio Gambino in Migranti nella tempesta. Avvistamenti per l’inizio del nuovo millennio, ombre corte, Verona 2003. Jean Loup Amselle, Le multiculturalisme français en Algérie, in Vers un multiculturalisme français. L’empire de la coutume, Flammarion, Paris 2001, pp. 99-100. Paul Rabinow, French Modern. Norms and Forms of the Social Environment, The University of Chicago Press, Chicago-London 1989, p. 311. Se non diversamente indicato, per le informazioni relative alla storia urbana di Algeri vedi Karim Hadjri, Mohamed Osmani, The spatial development and urban transformation of colonial and postcolonial Algiers, in Planning Middle Eastern Cities: An Urban Kaleidoscope, edited by Yasser Elsheshtawy, Routledge, London-New York 2004. Rabinow, French Modern, cit., p. 311.

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tieri in cui fino a un momento prima ha vissuto la borghesia locale, sovrapponendo alla vecchia gerarchia sociale dei luoghi una nuova corrispondenza tra “spazio ed etnicità”, trasversale alle appartenenze di classe14. Lo sviluppo di Algeri avviene in modo “anarchico e al tempo stesso volontaristico”15, insomma, il Plan d’Urbanisme per gli insediamenti superiori ai 10.000 abitanti giungerà solo nel 1930, ma dentro l’assenza di una forma condivisa e dunque di un piano, come la definirebbe Lewis Mumford, la città che Luigi Bonaparte firma con l’apertura del Boulevard Front de Mer (poi Boulevard de la République) è già un modello di zoning razziale. Anche perché lo sviluppo “anarchico e al tempo stesso volontaristico” rimane una funzione del programma che concepisce i territori d’oltremare come champs d’experience, laboratori in cui è possibile sperimentare le soluzioni ai problemi di ordine politico, estetico e sociale che sorgono in Francia. I principali beneficiari di questo programma saranno proprio gli urbanisti, oltre che gli antropologi16. Ma il movimento elastico della storia non risparmierà neppure la città decolonizzata, spiega Mike Davis, dove nonostante la retorica della liberazione, le élite “hanno adattato aggressivamente la zonizzazione razziale del periodo coloniale per difendere i propri privilegi di classe”17. Negli anni successivi al primo conflitto mondiale, intanto, la densità abitativa della Casbah costringe una parte degli abitanti a traslocare nelle periferie, dove cominciano a sorgere le bidonville che al termine della guerra di liberazione arriveranno a contenere più di 140.000 indigeni, provenienti perlopiù dalle campagne. Scrive Fanon: “Gli uomini che la popolazione crescente delle campagne e l’esproprio coloniale hanno portato a disertare la terra di famiglia, girano instancabilmente attorno alle diverse città nella speranza che un giorno o l’altro si permetterà loro di entrare”18. Una speranza speculare a quella dei centomila 14 Jean-Louis Miège, Algiers: Colonial Metropolis (1830-1961), in Robert j. Ross, Gerard J. Telkamp (a cura di), Colonial Cities, Martinus Nijhoff Publishers, Dordrecht/Boston/ Lancaster 1985, p. 174. 15 Ivi, p. 175 16 Gwendolyn Wright, Tradition in the Service of Modernity: Architecture and Urbanism in French Colonial Policy, 1900-1930, in “The Journal of Modern History”, 59, 2, 1987, pp. 291-316. 17 Mike Davis, Haussmann ai Tropici, in Il pianeta degli slum, trad. it. di B. Amato, Feltrinelli, Milano 2006, pp. 91-93. 18 Fanon, L’Algeria si svela, cit., p. 52. Vedi anche Zeynep Çelik, Urban Forms and Colonial Confrontations: Algiers Under French Rule, University of California Press, Berkeley 1997, p. 109.

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connazionali che nello stesso periodo, tra il 1954 e il 1962, vengono trattenuti nel chilometro quadrato e recintato della Casbah, “il nuovo ghetto di Varsavia”, come la definisce un articolo di El Moudjahid il 15 dicembre 196019. Scrive allora Fanon: La città europea non è il prolungamento della città autoctona. I colonizzatori non si sono insediati in mezzo agli indigeni. Hanno accerchiato la città autoctona, hanno organizzato l’assedio. Ogni uscita dalla Casbah di Algeri sfocia in campo nemico. E così a Costantina, a Orano, a Blida, a Bona. Le città indigene sono racchiuse, secondo un disegno, nella morsa del conquistatore. Bisogna avere in mano i piani urbanistici di una città coloniale con a fronte le annotazioni dello stato maggiore delle forze di occupazione per farsi un’idea del rigore con cui è organizzato il blocco della città indigena, dell’agglomerato autoctono20.

Ma l’aspetto di questo assedio che a Fanon preme esaminare riguarda la “dialettica del corpo e del mondo”21, vale a dire l’esperienza che del proprio corpo e attraverso il proprio corpo possono fare gli individui in rapporto agli ambienti in cui vengono bloccati e costretti a vivere. È in questa dimensione che il colonizzato riceve continuamente un ordine implicito che entra immediatamente in risonanza con la forma-campo definita da Agier: l’ordine di rimanere immobile, perché in presenza di un potere assoluto e discrezionale qualunque movimento potrebbe risultare colpevole e suscitare la reazione del gendarme. Ha scritto Matthieu Renault: La spazialità è essenziale nell’immaginario del razzismo. È una formula che si incontra continuamente nei discorsi discriminatori come nelle teorizzazioni e nelle critiche del razzismo: l’essere connotato razzialmente è quello che “deve stare al suo posto”. La differenza culturale e razziale si esprime in termini di luoghi, di posizioni. Fanon non dice nulla di diverso22.

Così, “il colonizzato sta sempre in ansia, perché decifrando con difficoltà i molteplici segni del mondo coloniale non sa mai se ha 19 20 21 22

Citato in Zeynep Çelik, Urban Forms and Colonial Confrontations, cit., p. 49. Fanon, L’Algeria si svela, cit., p. 52. Ivi, p. 57. Matthieu Renault, Frantz Fanon. L’essere transitivo del (post)colonialismo, in “Studi culturali”, 1, 2009, p. 28.

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oltrepassato o no il limite”23. Fanon la chiama “una specie di maledizione”, questa colpevolezza spaziale e corporea, ma poche pagine prima si era concesso una considerazione che estende la molteplicità e il lavoro dei segni alla metropoli, della quale nei Dannati della terra – per il resto – si interessa davvero poco. In colonia – scrive – l’interlocutore valido e istituzionale del colonizzato, il portavoce del colono e del regime di oppressione è il gendarme o il soldato. Nelle società di tipo capitalistico – invece – l’insegnamento religioso o laico, la formazione di riflessi morali trasmissibili di padre in figlio, l’onestà esemplare di operai decorati dopo cinquant’anni di fedele servizio, l’amore incoraggiato dell’armonia e della saggezza, forme estetiche del rispetto dell’ordine costituito, creano intorno allo sfruttato un’atmosfera di sottomissione e di inibizione che allevia notevolmente il compito delle forze dell’ordine.

In questo passaggio mi pare che emergano i presupposti per cominciare a riflettere su quello che Rosa Luxemburg avrebbe potuto definire il legame organico tra l’“essere chiuso in un recinto” e le “forme estetiche del rispetto dell’ordine costituito”, lo stesso legame che ancora oggi sembra perdurare nella contemporaneità degli hotspot alle politiche per il decoro urbano24. Scrive Abdelmalek Sayad: In quanto straniero e per quanto si definisca tale nel panorama sociale, culturale ed estetico (nel senso che è visto come un “tipo” diverso) della società di immigrazione, il lavoratore immigrato fa esperienza del sospetto che lo segue ovunque e durante tutta la sua immigrazione. [...] Ha la sensazione di essere diventato un eterno sospetto e ciascuno dei suoi atti lo rende un oggetto d’accusa: per strada, nei negozi, a casa, nei pubblici servizi (soprattutto i servizi sociali, la previdenza sociale e l’ospedale) e anche al lavoro, la presenza di un immigrato sorprende. Se non ci sono problemi dal punto di vista economico, indipendentemente dalla sue intenzioni viene subito sospettato di essere colpevole, di minacciare l’ordine estetico, politico, sociale...25.

Anche perché l’ordine estetico intrattiene con la discrezionalità del gendarme un rapporto molto stretto, dal momento che “agire in difesa del decoro significa [...] dare per scontato un concetto che non lo è affatto – e quindi produrre qualcosa mentre si agisce di23 Fanon, I dannati della terra, cit., p. 17. 24 Il riferimento è al “legame organico” tra la riproduzione della metropoli e la politica coloniale di cui Rosa Luxemburg tratta in Protezionismo e accumulazione, in L’accumulazione del capitale, cit., pp. 447-454. 25 Abdelmalek Sayad, La malattia, la sofferenza e il corpo, in La doppia assenza, cit., pp. 273274.

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cendo di agire in suo nome”26. Nello stesso territorio coloniale, del resto, per mettere al riparo i propri interessi, la borghesia assimilata “non ha altre risorse che erigere nella capitale costruzioni grandiose, fare quelle che si chiamano spese di prestigio”27 e mobilitare quindi la funzione estetica nella sfera del controllo razziale e dei rapporti di classe. Ed è proprio la colonia a instaurare una relazione più controversa tra la causa e l’effetto, la struttura e la sovrastruttura, l’essenza e l’estetizzazione del colonialismo: “Si è ricchi perché bianchi, si è bianchi perché ricchi” scrive Fanon, “perciò le analisi marxiste devono essere sempre leggermente ampliate ogni volta che si affronta il problema coloniale”, così come “il concetto di società precapitalistica, studiato bene da Marx, richiederebbe qui di essere ripensato”28. Da un lato, quindi, “l’attenzione portata da Fanon alle logiche di dominio [...] che non prendono la forma immediata della coercizione”, potrebbe motivarci a rileggerne l’opera in rapporto alle riflessioni di Antonio Gramsci sul concetto di egemonia29, mentre dall’altro le integrazioni che l’esperienza coloniale consente di fornire allo studio delle società precapitalistiche ci spingerebbero nella direzione indicata dalle pagine su Protezionismo e accumulazione di Rosa Luxemburg. Ma limitiamoci per il momento a registrare questo: secondo Fanon è possibile operare una generalizzazione dell’eccezione algerina in forme più o meno vandaliche o suadenti, poliziesche o sublimi, sanguinarie o edificanti, coercitive o culturali, africane o europee che sembrerebbero già implicare la tesi di Agamben rispetto alla necessità di “guardare al campo non come a un fatto storico e a un’anomalia appartenente al passato (anche se eventualmente ancora riscontrabile) ma in qualche modo come alla matrice nascosta, al nomos dello spazio politico in cui ancora viviamo”30. Quella che a noi ora interessa, però, non è una filosofia politica del campo, ma piuttosto una fenomenologia. Ha scritto recentemente Donatella Di Cesare: “Molti sono gli interrogativi filosofici e politici che il mondo dei campi solleva, anche nei suoi riflessi sulla città, 26 Alessandro Dal Lago, Serena Giordano (a cura di), Sporcare i muri. Graffiti, decoro, proprietà privata, DeriveApprodi, Roma 2018, p. 19. 27 Fanon, I dannati della terra, cit., p. 106. 28 Ivi, p. 7. 29 Hourya Bentouhami, De Gramsci à Fanon, un marxisme decentré, in “Actuel Marx”, 55, 2014, p. 99. 30 Giorgio Agamben, Che cos’è un campo?, in Mezzi senza fine, Bollati Boringhieri, Torino 1996, p. 35.

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interrogativi che richiedono di essere affrontati in uno studio complessivo. Per fare solo un esempio, non esiste ancora una fenomenologia della vita nei campi, né una riflessione sull’attesa”31. L’opera di Fanon ci consente allora di stabilire questa connessione tra il mondo dei campi e la dimensione urbana in rapporto al caso specifico del colonizzato, l’essere chiuso in un recinto la cui esperienza è innanzitutto quella di un corpo estenuato dal controllo muscolare e sensoriale dell’ingiunzione a rimanere immobile. Si tratta di un comando che infiamma i tendini ed esaspera il carattere minaccioso dell’ambiente percepito: è per questo motivo che il colonizzato non cessa di liberarsi “tra le nove della sera e le sei del mattino” – secondo Fanon – sognando di saltare, di correre, di nuotare o di arrampicarsi32, perché durante il giorno è costretto a mantenere una costante allerta di tutti i sensi. Alla violenta compartimentazione dello spazio operata dalle politiche razziali (the racial polity’s partitioned space), il filosofo ganese Ato Sekyi-Otu fa dunque corrispondere una recinzione percettiva (perceptual enclosure) che tende programmaticamente a interpretare come una metafora della limitatezza di visione, un limite dell’immaginazione politica e morale33. È quanto accadeva nel saggio sul velo femminile, effettivamente, dove le retoriche dell’occupante tracciavano intorno all’algerino un recinto di colpevolezza (un cercle de culpabilité)34, ma la mia impressione è che nei Dannati della terra ci si possa attenere a una lettura meno metaforica, che senza escludere la possibilità di attribuire a Fanon una retorica dello spazio ne qualifichi innanzitutto la dimensione clinica, corporea e letterale. Lo scandalo della violenza starebbe tutto qui: la violenza che innesca il processo di decolonizzazione, la violenza del colonizzato, è l’esatto opposto della violenza coloniale. Non è una violenza ideologica, preventivamente organizzata, che si determina in rapporto a una visione politica o una serie di istanze morali: è la violenza epilettica dell’uomo con le spalle al muro, come l’ha definita Achille Mbembe, 31 Donatella Di Cesare, Stranieri residenti. Una filosofia della migrazione, Bollati Boringhieri, Torino 2017, p. 213. 32 Fanon, I dannati della terra, cit., p. 16. 33 Ato Sekyi-Otu, Fanon and the Possibility of Postcolonial Critical Imagination, in Nigel Gibson (a cura di), Living Fanon: Global Perspectives, Palgrave Mcmillan, London 2011, pp. 45-60. Per uno sviluppo dello stesso concetto rimando a Katarzyna Pieprzak, Zones of Perceptual Enclosure: The Aesthetics of Immobility in Casablanca’s Literary Bidonvilles, in “Research in African Literatures”, 47, 3, 2016. 34 Fanon, L’Algeria si svela, cit., p. 41.

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l’essere chiuso in un recinto che cerca confusamente di significare la propria sopravvivenza35. Per cogliere le forme in cui si esprime questa sopravvivenza, varrà la pena approfittare di una coincidenza significativa, perché il valore che Fanon riconosce alle attività comprese “tra le nove della sera e le sei del mattino” entra immediatamente in risonanza con il titolo e la prospettiva antropologica di un’altra fondamentale ricerca sulle condizioni dei dannati della terra: Lo schiavo americano dal tramonto all’alba di George Rawick. Già sodale di C. L. R. James, Rawick ha curato un’edizione in quarantuno volumi di interviste orali agli exschiavi e ai loro figli di cui Lo schiavo americano dal tramonto all’alba rappresenta un tentativo di interpretazione. E la tesi fondamentale di Rawick è la seguente: “Gli schiavi usavano quello che avevano portato con sé dall’Africa nella memoria, nei sensi, nei discorsi per aiutarsi nell’adattamento al nuovo ambiente e nella costruzione di una nuova vita”36. Anche la sfera sensoriale, pertanto, viene subito coinvolta nella negoziazione delle nuove società afroamericane che “non sono dei fasci di caratteristiche africane, ma il prodotto delle interazioni di individui i cui progenitori erano venuti dall’Africa occidentale e avevano utilizzato forme ovest-africane per creare nuovi comportamenti che rendessero possibile la sopravvivenza nel Nuovo mondo”37. Ed è quindi adattando le culture di provenienza alle circostanze di approdo che lo schiavo ha potuto sopravvivere nell’ambiente ostile della piantagione, ricavandosi “dal tramonto all’alba” una quota di soggettività che gli ha consentito di contribuire attivamente all’abolizione della schiavitù. Attraverso i boicottaggi, le fughe e la partecipazione alla guerra civile, certo, ma anche grazie alle pratiche più ordinarie del culto o della vita domestica, dove la resistenza del soggetto e di un’intera comunità hanno coinciso con la rifunzionalizzazione di semplici utensili o di altre forme apparentemente anacronistiche della tradizione. Le pagine più convincenti che Rawick dedica a questo argomento sono quelle relative alle nuove funzioni che nel perimetro della piantagione vengono assunte dall’iron pot (una banale pentola di ferro) o attribuite alla trasmissione 35 Achille Mbembe, Critique de la raison négre, La Découvert, Paris 2013, p. 245. 36 George P. Rawick, Lo schiavo americano dal tramonto all’alba. La formazione della comunità nera durante la schiavitù negli Stati Uniti, trad. it. di B. Cartosio, Feltrinelli, Milano 1973, p. 74. 37 Ivi, p. 75.

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dei racconti orali in cui a risolvere l’intreccio – adesso – è sempre una variante sul tema del personaggio debole ma scaltro, ironico, imbroglione. Anche le ricerche di Rawick, in altri termini, confermerebbero che la sopravvivenza dei passati “incarnati nelle abitudini corporee delle persone, nelle pratiche collettive inconsce, nelle riflessioni su ciò che significa relazionarsi con gli oggetti del mondo [to relate to objects in the world]” costituiscono il non ancora della Storia 2 che Marx, secondo Dipesh Chakrabarty, avrebbe potuto intendere come “il luogo di una battaglia ancora in corso”38. Sulla scorta di queste indicazioni, sarà possibile constatare come anche nel mondo a scomparti di Fanon la sopravvivenza del soggetto non venga affidata esclusivamente al passaggio dall’atmosfera di violenza alla violenza finalmente canalizzata contro l’occupante, né confinata in senso letterale “tra le nove della sera e le sei del mattino”. Della recinzione fisica e percettiva alla quale sto facendo riferimento, lo stesso Fanon provvede a registrare le più piccole sospensioni, gli scarti, le deroghe all’immobilità che il colonialismo pareva istituire. Così, nei Dannati della terra la soggettivazione si determina attraverso la danza, i riti di possessione e la convocazione di un mondo sovrannaturale infestato dagli zombie, gli uomini-serpente, i cani a sei zampe e altre creature mostruose. La funzione di questi miti terrificanti è dialettica, spiega Fanon, perché se da un lato inibiscono l’aggressività, dall’altro favoriscono la creazione di uno spazio in cui “le forze del colono risultano infinitamente rimpicciolite”. “La religione era vicina a essere il centro della vita degli schiavi dal tramonto all’alba”, scriverà Rawick: “Terrificandomi – sostiene Fanon – essa mi integra alle tradizioni, alla storia della mia contrada o della mia tribù, ma nello stesso tempo mi rassicura, mi rilascia uno statuto, un certificato di stato civile (un statut, un bulltin d’état civil)”39. Il rapporto a un altro tempo e alla Storia 2 può fornire all’indigeno la “mediazione collettiva necessaria verso il recupero integrale e dinamico della cultura nazionale, uno strumento di difesa incomparabile per il recupero della propria particolarità nel quadro universale”40. 38 Chakrabarty, Provincializzare l’Europa, cit., p. 96: ho modificato la traduzione del testo inserito tra parentesi quadra, che nella versione di Matteo Bortolini diventava “stare al mondo”, per sottolineare la coerenza della definizione di Chakrabarty al tema più specifico della rifunzionalizzazione delle forme e degli oggetti. 39 Fanon, I dannati della terra, cit., p. 19. 40 Pietro Clemente, Frantz Fanon tra esistenzialismo e rivoluzione, Laterza, Roma-Bari 1971, p. 123.

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Ne L’anno V della rivoluzione, in modo analogo, assistiamo alle trasformazioni che investono alcuni oggetti più ordinari quali la radio o il velo femminile, oppure alla riarticolazione delle strutture parentali e dei rapporti di genere: Achille Mbembe lo ha definito “un immenso lavoro sugli oggetti e le forme”41 ai quali il transito affida adesso una nuova funzione – diversa, inedita e vitale – orientata verso la rottura di un legame fisico e al tempo stesso simbolico che Fanon chiama letteralmente Europa: “Quittons cette Europe”, dice rivolto agli esseri imprigionati nel recinto42. Legame fisico e al tempo stesso simbolico perché “la cultura è il complesso dei comportamenti motori e mentali sorto dall’incontro dell’uomo con la natura e con i suoi simili”43, aveva detto al Primo congresso degli scrittori e degli artisti neri di Parigi, nel 1956. Ed è proprio l’importanza che Fanon attribuisce ai comportamenti motori (l’ensemble des comportaments moteurs et mentaux), che ci obbliga a “pensare tanto i processi di assoggettamento quanto l’insorgenza (la soggettivazione) nella situazione coloniale a partire dalla loro elementare fisicità”, come ha sostenuto Sandro Mezzadra. Il quale poi aggiunge: “Scartando radicalmente rispetto a ogni immagine del soggetto costruita attorno al primato della coscienza, Fanon pare ritornare al racconto originario della filosofia politica moderna, a quella narrazione del contratto sociale di cui tuttavia sospende la temporalità progressiva per reintrodurci alla scena dello stato di natura”44. Uno stato di natura che non corrisponde alla causa finale di una determinata situazione storica, dunque, ma a una storicità dei corpi e degli spazi che precede e informa qualunque rappresentazione della storia: “La lotta contro l’oppressione coloniale – ha scritto a questo riguardo Homi Bhabha nella sua celebre introduzione a Pelle nera, maschere bianche – non solo cambia l’orientamento della storia occidentale, ma mette in discussione la sua stessa idea storicista del tempo come totalità progressiva e ordinata”45. Nel saggio sul velo femminile – che Stefan Kipfer ha definito “il più importante punto d’accesso alla riflessione di Fanon sullo spa41 Achille Mbembe, La pharmacie de Fanon, in Politiques de l’inimitié, cit., pp. 121-122. 42 Fanon, I dannati della terra, cit., p. 226. 43 Frantz Fanon, Razzismo e cultura, in Scritti politici. Volume I. Per la rivoluzione algerina, trad. it. di Filippo Del Lucchese, DeriveApprodi, Roma 2006, p. 45. 44 Sandro Mezzadra, Questione di sguardi. Du Bois e Fanon, in Miguel Mellino (a cura di), Fanon postcoloniale. I dannati della terra oggi, ombre corte, Verona 2013, p. 199. 45 Homi Bhabha, Interrogare l’identità. Frantz Fanon e la prerogativa postcoloniale, ora in I luoghi della cultura, trad. it. di A. Perri, Meltemi, Roma 2001, p. 63.

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zio e la città”46 – la dimensione della fisicità rinvia in modo ancora esplicito al magistero di Maurice Merleau-Ponty, del quale Fanon ha seguito le lezioni a Lione nel 1948 (e quindi tre anni dopo la pubblicazione de La fenomenologia della percezione). Mi limito a segnalare alcuni passaggi nei quali il dialogo con Merleau-Ponty risulta evidente, senza addentrarmi nel merito di un confronto più analitico47: “L’assenza del velo altera lo schema corporeo dell’algerina – scrive Fanon. – Deve rapidamente inventare nuove dimensioni al suo corpo, nuovi mezzi di controllo muscolare”48. E ancora: “L’algerina che entra tutta nuda nella città europea riapprende il proprio corpo, lo torna a insediare in modo totalmente rivoluzionario”49. Ma la fenomenologia della percezione femminile di Fanon è molto più minuziosa. In un primo momento, spiega, la donna che esce dalla Casbah deve confrontarsi con una spazialità completamente sconosciuta: “Abituata a spazi limitati – infatti – il suo corpo non assume una normale mobilità di fronte a un orizzonte illimitato di viali, di marciapiedi che s’allungano, di case, di macchine, di gente urtata”50. Nessuno le ha insegnato come si deve comportare “in quanto donna sola in strada”, né “può vivere la sensazione di recitare una parte letta innumerevoli volte nei romanzi o già vissuta al cinema”. Si tratta di “una nascita autentica, allo stato puro, senza propedeutica”, che può attenersi solo alla drammatizzazione di “una perfetta aderenza tra la donna e la rivoluzionaria”. Tutte le volte che finora ha attraversato la città europea, magari per recarsi al funerale di un parente che viveva altrove, lo ha fatto in auto, tanto che adesso “deve vincere un gran numero di inibizioni interne, di timori costruiti soggettivamente, di emozioni. Deve [...] affrontare il mondo essenzialmente ostile dell’occupante e le forze di polizia”, ma anche “riportare una vittoria su se stessa, sulle sue paure infantili. Deve riprendere l’immagine dell’occupante fissata in qualche parte della sua mente e del suo corpo per rimodellarla, dare inizio a uno strenuo lavoro di erosione, renderla inconsistente, alleggerire l’imbarazzo che prova, 46 Stefan Kipfer, Fanon and space: colonization, urbanization, and liberation from the colonial to the global city, in “Environment and Planning D: Society and Space”, 25, 2007, p. 703. 47 Per un primo approfondimento rimando a Jeremy Weate, Fanon, Merleau-Ponty and the Difference of Phenomenology, in Robert Bernasconi (a cura di), Race, Blackwell, Oxfrod 2001, pp. 169-183. 48 Fanon, L’Algeria si svela, cit., p. 57. 49 Ivi, p. 57. 50 Ivi, p. 50.

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sconsacrarla”51. A partire dal 1956, quindi, quando il Fronte di liberazione nazionale decide di rispondere al massacro dei propri civili con il massacro dei civili europei, “trasportando rivoltelle, bombe a mano, centinaia di carte d’identità false o di bombe, la donna algerina svelata si destreggia come un pesce nell’acqua occidentale”. Ora “non rasenta più i muri come tendeva a fare prima della rivoluzione”, le spalle sono libere, “l’andatura è elastica e studiata: né troppo veloce, né troppo lenta. Le gambe sono nude, non impedite dal velo, padrone di sé e i fianchi stanno ‘all’aria aperta’”. Eppure bisogna aver udito le confessioni di algerine o analizzare il materiale onirico di alcune di esse, da poco svelate, per apprezzare l’importanza del velo nel corpo vissuto della donna. Impressione di un corpo smembrato, lasciato alla deriva: le membra paiono allungarsi senza fine. Quando l’algerina deve attraversare una via, per molto tempo c’è errore di giudizio sulla distanza esatta da percorrere. Il corpo svelato pare sfuggirle, andarsene in pezzi. Impressione di essere mal vestite, persino di essere nude. Incompletezza risentita con grande intensità. Un sapore ansioso di incompiuto.

Finché nel 1957, nella dialettica tra lotta rivoluzionaria e controassimilazione, non ricompare il velo e “il corpo della donna algerina, che in un primo momento si è spogliato, ora si rigonfia. Mentre nel periodo precedente bisognava slanciare questo corpo, disciplinarlo nel senso della prestanza e della seduzione, ora bisogna schiacciarlo, renderlo deforme, al limite renderlo assurdo” per consentire al velo di nascondere bombe a mano e cartucciere, ma mostrare al tempo stesso le mani libere. Quello del corpo, insomma, è un movimento analogo al “dinamismo storico del velo”: All’inizio il velo è meccanismo di resistenza – spiega Fanon – ma il suo valore per il gruppo sociale rimane altissimo. Ci si vela per tradizione, per separazione rigida dei sessi, ma anche perché l’occupante vuole strappare il velo all’Algeria. In un secondo momento, il mutamento avviene in occasione della rivoluzione e in circostanze precise. [...] Il velo aiuta l’algerina a rispondere alle nuove esigenze della lotta52.

È anche in riferimento a queste considerazioni, forse, che la critica di Hannah Arendt a Fanon risulta meno convincente, perché la violenza collettiva – ne I dannati della terra – non favorisce mai 51 Ivi, p. 52, il corsivo è mio. 52 Ivi, pp. 60-61.

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l’esaltazione di una vita biologica indifferente alla morte dei singoli individui53, ma la soggettivazione di un corpo storicamente situato che si esprime in una nuova relazione con il mondo e con gli altri. Se la violenza consente alla cosa colonizzata di tornare a essere umana, infatti, non è in rapporto a un’esperienza quasi mistica della specie, ma a quella di una forma che liberandosi collettivamente della violenza subita e trattenuta, torna a farsi-viva, anche e soprattutto nel senso più idiomatico (e fenomenologico) del farci-sapere-di-sé. La preghiera con la quale si chiude Pelle nera, maschere bianche lo indicava chiaramente: “O mio corpo – aveva scritto Fanon – fai sempre di me un uomo che si interroga!”54. Sarà Judith Butler a interpretare con maggiore lucidità questa invocazione: “Come se si contrapponesse alla vita psicoaffettiva che pervade l’esperienza vissuta del colonizzato – scrive – Fanon cerca di spingere il proprio corpo verso un’indagine sempre aperta”, dove il corpo viene inteso e sollecitato in quanto “apertura verso il mondo e verso una collettività radicalmente egualitaria”55. Rimane pertanto corretto quanto afferma la Arendt: ciò che la concretezza della lotta fa immediatamente a pezzi è l’individuo56, ma non si tratta di un individuo generico – ecco il punto – bensì di “una società di individui rinchiusi nella propria soggettività”. Fanon lo scrive chiaramente: Ora il colonizzato che avrà la fortuna di seppellirsi tra il popolo durante la lotta di liberazione scoprirà la falsità di questa teoria. Le forme della lotta di liberazione gli proporranno un vocabolario insolito. Fratello, sorella, compagno sono parole proscritte dalla borghesia colonialista perché per essa il mio fratello è il portafoglio, mio compagno l’intrallazzo57.

Al contrario, grazie all’esplosione di una violenza condivisa, adesso “l’affare di ciascuno non cessa di diventare quello di tutti, perché, concretamente, saremo tutti scoperti dai legionari e quindi massacrati, oppure saremo tutti salvi”. Come ha scritto Stephanie Clare, quindi, la violenza in Fanon è “la vita che supera la stagnazione della morte”58, 53 54 55 56 57 58

Hannah Arendt, Sulla violenza, trad. it. di S. D’Amico, Guanda, Parma 1996, p. 73. Frantz Fanon, Pelle nera, maschere bianche, trad. di S. Chiletti, ETS, Pisa 2015, p. 208. Judith Butler, Violenza, non-violenza: Sartre su Fanon, in “aut aut”, 344, 2009, pp. 57-58. Arendt, Sulla violenza, cit., p. 73. Fanon, I dannati della terra, cit., p. 13. Syephanie Clare, Geopower. The Politics of Life and Land in Frantz Fanon’s Writing, in “Diacritics”, 41, 4, 2013, p. 66.

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una morte che non può avere solo a che fare – evidentemente – con il suo significato biologico. Che poi questo superamento avvenga nella dimensione della massa non deve sorprendere, perché è davvero “il colono ad aver fatto e a continuare a fare il colonizzato”59, spiega Fanon, inducendolo a scomparire in un “mondo senza interstizi” nel quale “gli uomini stanno gli uni sugli altri, le capanne le une sulle altre”, in una città ridotta appunto alla massa informe “di sporchi negri, di luridi arabi”60. Ed era stato proprio un testimone dei lager nazisti – Viktor Frankl – a spiegare quale fosse il desiderio che poteva spingere un deportato a mimetizzarsi in questo mondo privo di interstizi: “L’uomo del campo di concentramento cerca alla lettera di ‘essere assorbito’ dalla massa non solo per suggestione, ma anche, per più motivi, nella convinzione di salvarsi più facilmente”61. Se “il campo contiene masse e produce masse”, come hanno sostenuto Kotek e Rigoulot, è anche perché venir assorbito dalla massa, per il deportato, significa non dare nell’occhio, evitare le attenzioni sempre sadiche delle guardie, non farsi riconoscere. Prodotti allo stesso tempo dallo sguardo del colonizzatore e dal desiderio di sopravvivere, adesso, i comportamenti motori del colonizzato si determinano nella “coralità della lotta, i sentimenti e le emozioni provati all’unisono da una massa di uomini” e “l’entusiasmo per la battaglia collettiva”. A scomodare queste parole è Gillo Pontecorvo, che insieme a Franco Solinas ha fatto esplicitamente riferimento all’opera di Fanon per scrivere e girare le riprese de La battaglia di Algeri62. L’aderenza alle pagine dei Dannati della terra dedicate al tema della spontaneità è del tutto evidente: “È la lotta – aveva scritto Fanon – che facendo esplodere l’antica realtà coloniale, rivela sfaccettature sconosciute, fa sorgere significati nuovi e mette il dito sulle contraddizioni camuffate da quella realtà. [...] Senza questa lotta, senza questa conoscenza nella prassi, non c’è più che solfa e carnevalata”63. Adesso, però, per Solinas e Pontecorvo si sarebbe posto il problema di come rappresentare questa frattura epistemologica 59 Fanon, I dannati della terra, cit., p. 4. 60 Ivi, p. 6. 61 Viktor E. Frankl, Uno psicologo nei lager, trad. it. di N. Schmitz Sipos, Edizioni Ares, Milano 2013, p. 92. 62 Irene Bignardi, Memorie estorte a uno smemorato. Vita di Gillo Pontecorvo, Feltrinelli, Milano 1999, pp. 121-129. 63 Fanon, I dannati della terra, cit., p. 92.

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conseguente alla metamorfosi dei corpi e alla loro incursione performativa nello spazio. Un problema che emerse con forza al momento delle riprese della celebre scena in cui le tre militanti del Fronte di liberazione nazionale si preparano a posizionare le bombe nella città europea. Pontecorvo non era convinto del dialogo, racconta, o meglio ancora del clima che il dialogo instaurava mentre le tre donne si pettinavano e scherzavano in un’atmosfera “troppo femminile”64. Solinas lo riscrisse svariate volte, ma neppure lui si considerava soddisfatto. Sul set – ricorda allora Pontecorvo – si venne a creare quel brutto silenzio in cui tutti comprendono che il regista non sa che pesci pigliare. “Ma improvvisamente mi ritornò in mente una musica che avevo sentito e registrato – prosegue – un baba saleem, e cioè la musica tipica dei mendicanti arabi, che la eseguono con un tamburo e delle nacchere, una musica che assomiglia molto al battito del cuore”. Il baba saleem risuonò quindi sul set durante le riprese, per poi sostituire i dialoghi in fase di montaggio. È tuttora quella musica a restituire tutta la tensione del momento, probabilmente il più drammatico del film. Con la decisione di ricorrere a una forma della tradizione in quanto battito cardiaco, così, tra la corporeità e l’anacronia del baba saleem si crea un rapporto che coinvolge lo stesso dato biologico (e la violenza di cui è il supporto) in un processo di rifunzionalizzazione. Da questo punto di vista, il corpo si potrebbe definire non solo “un’apertura” rispetto al mondo e alla collettività, come sostiene Judith Butler, ma anche rispetto al tempo, che diviene un fattore determinante nella produzione dei nuovi significati e della loro acquisizione. Se per altri versi ci era parso che il “marxismo decentrato” di Fanon potesse entrare in dialogo con le riflessioni di Gramsci e di Rosa Luxemburg, qua sembrano farsi strada i termini di un possibile accostamento a Walter Benjamin. Si direbbe infatti qualcosa di simile alla facoltà mimetica di cui parla Benjamin, vale a dire “un resto rudimentale dell’obbligo un tempo schiacciante di assimilarsi e condursi in conformità”65, ad attualizzare le danze e le altre derivazioni del mito nella resistenza che il colonizzato oppo64 Per una critica relativa all’atmosfera ancora “troppo femminile” che la scena del film continuerà a creare nonostante le intenzioni del regista cfr. Lindsey Moore, The Veil of Nationalism: Frantz Fanon’s ‘Algeria Unveiled’ and Gillo Pontecorvo’s The Battle of Algiers, in “Kunapipi”, 25, 2, 2003, pp. 56-73. 65 Walter Benjamin, Sulla facoltà mimetica, in Angelus Novus, cit., p. 68.

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ne alla chiusura del recinto, la sua specie di maledizione66. Come forma di conoscenza incarnata, stabilendo con l’ambiente un rapporto creativo, la mimesi consente alla sfera percettiva di liberare l’esperienza di un tempo ancora multiplo, stratificato, disperso, alternativo al regime temporale instaurato dalla recinzione. Ed è soltanto in questi termini che percepire non significa più registrare passivamente un fenomeno, ma produrre una sorta di sfondamento prospettico. Fanon lo aveva già spiegato in Pelle nera, maschere bianche: So che se voglio fumare dovrò stendere il braccio destro e afferrare il pacchetto di sigarette che si trova dall’altro lato del tavolo. I fiammiferi sono nel cassetto a sinistra, dovrò farmi leggermente indietro. Tutti questi gesti li faccio non per abitudine, ma per una conoscenza implicita. Lenta costruzione del mio Io in quanto corpo all’interno di un mondo spaziale e temporale, questo sembra essere lo schema67.

Il soggetto prende forma, anche in rapporto all’eredità implicita e corporea della tratta, del colonialismo, “delle leggende, delle storie, la storia e soprattutto la storicità”68. In Pelle nera, maschere bianche il corpo vissuto del nero avrà quindi a che fare con “l’antropofagia, il ritardo mentale, il feticismo, le tare razziali, i negrieri e soprattutto, e soprattutto, ‘Y a bon banania’”, e cioè lo stereotipo commerciale e inferiorizzante della negritudine. Al contrario, il costante riferimento nei Dannati della terra alle ferite aperte, le paralisi muscolari, la respirazione o lo stesso battito cardiaco, rinvia all’azione di una connaisance implicite che aderisce a un programma diverso, analogo al reperimento dei fiammiferi nel cassetto ma che ora consente al colonizzato di “seppellirsi tra il popolo durante la lotta di liberazione”. Il corpo rimane un archivio di violenze ereditate e di recinti, ma anche di aperture e di metamorfosi che ancora 66 Zahid R. Chaudhary, Subjects in Difference: Walter Benjamin, Frantz Fanon and Postcolonial Theory, in “differences”, 23, 2012/1, pp. 151-183. Vedi anche Roberto Beneduce, La potenza del falso. Mimesi e alienazione in Frantz Fanon, in “aut aut”, 354, 2012, pp. 25-29. Per altri versi, di Fanon come “black Benjamin” ha scritto anche Henry Louis Gates in Critical Fanonism, in “Critical Inquiry”, 17, 1991, p. 467. 67 Fanon, Pelle nera, maschere bianche, cit., p. 110. Vedi anche Dilan Mahendram, The facticity of Blackness. A Non-conceptual approach to the Study of Race and Racism in Fanon’s and Merleau-Ponty’s Phenomenology, in “Human Architecture: Journal of the Sociology of Self-Knowledge”, V, 2007, p. 200. 68 Fanon, Pelle nera, maschere bianche, cit., p. 111.

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prima di assumere la forma storica e discorsiva della decolonizzazione si esprimono attraverso il contatto storicamente multiplo e composito con gli altri corpi.

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CAPITOLO SETTIMO

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Al “movimento elastico” della forma campo corrisponde il movimento analogo delle forma urbana che il campo affianca e completa. Così come i nuovi villaggi sorgevano in appendice allo spazio coloniale, i campi di oggi non possono che intrattenere con la trasformazione delle nostre città un rapporto altrettanto organico. La diffusione dei campi attrae la stessa metropoli in quello che Federico Rahola ha opportunamente definito lo “sconfinato scenario postcoloniale del presente”, portando a maturazione la logica non meno elastica che animava il programma di conquista del barone Haussmann. Del resto, quando Fanon indica nella dimensione estetica della metropoli un succedaneo dell’occupazione armata, sembra già fare riferimento a un contesto nel quale anche il metodo del colonialismo è “presente ovunque come scena, spettacolo, segno, discorso”, proprio come il castigo alternativo al supplizio della città punitiva. Alle contrazioni muscolari del colonizzato, adesso, corrisponde il corpo che viene colpito in quanto rappresentazione: dei vantaggi, degli svantaggi, degli interessi, del piacere e del dispiacere1. E ancora una volta, aggiunge Foucault, l’“investimento politico del corpo è legato, secondo relazioni complesse e reciproche, alla sua utilizzazione economica”2. Scrive Lefebvre nel 1968: “La Francia imperialista ha perduto le sue colonie, ma si è installato un neo-colonialismo interno. La Francia attuale comprende zone ipersviluppate, iperindustrializzate, iperurbanizzate. E molte zone in cui il sottosviluppo si aggrava”3. Il piccolo abitante dell’Acquedotto Felice intervistato dalla Rai non 1 2 3

Foucault, Sorvegliare e punire, cit., p. 140. Ivi, p. 29. Henri Lefebvre, Spazio e politica. Il diritto alla città II, trad. it. di F. Pardi rivista da G. Morosato e F. Biagi, ombre corte, Verona 2018, p. 121.

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testimoniava nulla di diverso. Allo zoning degli urbanisti subentra lo zoning del capitale e dei consumi, creando un rapporto circolare tra la produzione dell’anacronismo e le politiche per il decoro, dal momento che “quei luoghi ai quali si tenta di dare un’apparenza di libertà e di festa, che vengono popolati di segni il cui significato non è la produzione e il lavoro, proprio quei luoghi sono strettamente legati al processo produttivo”4. Inoltre, mentre le “attività a pagamento sostituiscono modalità gratuite d’uso degli ambienti urbani comuni e pubblici”, ridotti a una residuale “funzione circolatoria” tra un consumo e l’altro, anche il richiamo turistico “assume i connotati di un colonialismo messo in atto a scapito di città e territori di pregio, non più da parte degli Stati ma da parte delle imprese multinazionali”5. All’inizio degli anni Novanta, così, Anthony D. King avrebbe fatto riferimento a una generalizzazione frettolosa, perché da un lato “la città stessa è uno strumento di colonizzazione” e “ogni città può essere definita coloniale”, tanto più oggi nel regno di Airbnb, ma dall’altro è importante ricordare come la città colonizzata rimanga un “oggetto reale”, specifico e geograficamente determinato6. Si potrebbe allora definire postcoloniale lo spazio in cui questa specificità non solo viene rimossa, ma in quanto rimossa concorre alla globalizzazione dei programmi che l’hanno istituita e fatta evolvere. Le stesse politiche per il decoro ne sono un esempio: formalmente non badano alla razza, ma statisticamente sì, consentendo alle recinzioni percettive di risultare tanto opportune da legittimare l’eutanasia del welfare, così come il saccheggio delle colonie ne aveva reso possibile il finanziamento – vale a dire governando la medesima anestesia del conflitto tra capitale e lavoro7. La percezione dell’insicurezza non è solo un fattore economico in termini di tecnologie e nuovi prodotti, né un semplice fattore politico: è una delle funzioni strutturali che stanno modificando in profondità le “leggi naturali ovvie” della valorizzazione. Mi pare questo il senso radicale in cui andrebbe intesa la cosiddetta este4 5 6 7

Ivi, p. 47. Ilaria Agostini, Contro la dissoluzione della città pubblica, in Ilaria Agostini e Enzo Scandurra, Miserie e splendori dell’urbanistica, DeriveApprodi, Roma 2018, pp. 145-149. Anthony D. King, Urbanism, colonialism, and the World-Economy. Cultural and Spatial Foundations of the World Urban System, Routledge, London-New York 1991, pp. 15-17. W.E.B. Du Bois, Le radici africane della Guerra, in Id., Sulla linea del colore. Razza e democrazia negli Stati Uniti e nel mondo, a cura di Sandro Mezzadra, il Mulino, Bologna 2010, pp. 233-247.

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tizzazione del mondo, anche se nel motivarlo dovrò prendere le distanze dai due autori hanno proposto il tema: Gilles Lipovetsky e Jean Serroy. Loro stessi fanno riferimento all’“incorporazione strutturale” della dimensione estetica in tutte le forme di produzione, circolazione e consumo dei beni, il cui valore d’uso risulterebbe sempre più inseparabile dalle credenziali stilistiche che ne determinano il bisogno. Quella del “capitalismo artistico”, in altri termini, risulterebbe una vera e propria economia politica che non si limita a generare valore, ma crea al tempo stesso il soggetto più idoneo alla riproduzione dell’ambiente in cui le premesse dell’intero processo tendono a diventare ovvie, immediate, naturali. Anche per i due autori, infatti, definire il capitalismo come “un modo di produzione estetico” significa riconoscere che “il reale si costruisce ovunque come immagine che integra in sé una dimensione esteticoemozionale”8. Perché da un lato il settore dell’arte sarebbe servito da laboratorio per le attuali forme di occupazione e di sfruttamento9, cioè avrebbe informato quelli che in modo schematico si potrebbero definire i rapporti di produzione, mentre dall’altro è transestetico il mondo “in cui l’arte si infiltra nelle industrie, in tutti gli interstizi del commercio e della vita ordinaria”10, vale a dire laddove si strutturano la mentalità e le aspirazioni delle forze produttive. Ma da questo punto in avanti, la critica dell’economia politica e la “teoria antropologico-sociale dell’arte”11 prendono due strade opposte, dal momento che Lipovetsky e Serroy sembrano rinunciare a qualunque prospettiva storica, come se l’unica chance che il capitalismo artistico dovesse ancora concedere al soggetto fosse quella di contribuire alla migliore delle estetizzazioni possibili. La quale non consiste in un’effettiva liberazione delle energie inibite dal feticismo della merce nella sua nuova consistenza estetica ed emozionale, ma nel riconoscimento di quanto “la scuola, la formazione e la cultura umanistica classica mantengono tutta la loro importanza purché non si cerchi di contrapporle al mondo odierno e a quello che verrà, ma al contrario si provi a farle accordare a esso”, cioè alla realtà mercificata. 8

Gilles Lipovetsky, Jean Serroy, L’estetizzazione del mondo. Vivere nell’era del capitalismo artistico, trad. it. di A. Inzerillo, Sellerio, Palermo 2017, p. 21. 9 Ivi, p. 61. 10 Ivi, p. 32. 11 Ivi, p. 70.

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Secondo gli autori, l’evoluzione del capitalismo artistico si potrebbe suddividere in tre fasi12. La prima, che va dal 1850 al 1945, è la fase inaugurata dai grandi magazzini e dalla réclame, quando le merci cominciarono a esercitare la loro funzione sociale e politica. Ancora una volta, ritroviamo la cesura storica rappresentata dal boulevard, l’epoca in cui “uomini e avvenimenti appaiono come degli Schlemihl a rovescio – scriveva Marx – come ombre cui è stato tolto il corpo”13. A rendere conto di questa stessa tendenza è Kracauer, il quale scrive che allora “la città dispiegava la sua capacità di tramutare le cose. Rapito al cielo e alla terra si apriva qui un regno che sembrava distaccato da tutte le contingenze naturali e, come il teatro, offriva la possibilità di illusioni meravigliose”14. Nei termini di Lipovetsky e Serroy, dunque, all’effetto teatrale delle merci corrisponde il secolo del capitalismo artistico ristretto. La seconda fase andrebbe poi individuata del trentennio compreso tra il 1945 e la fine degli anni Settanta, all’epoca della produzione fordista e dell’industria culturale, quando la logica artistica aumenta la propria base sociale attraverso i consumi: è il capitalismo artistico esteso. La terza fase, infine, quella della globalizzazione e del capitalismo artistico transestetico, sarebbe tuttora in atto. L’intero processo, sostengono gli autori, sarebbe da inquadrare come un progressivo ricorso della riproduzione a una strategia ispirata dalla Controriforma, quando il sentimento estetico risultò un decisivo strumento di governo delle coscienze15, ma è esattamente questa concezione demiurgica del capitale, la cui evoluzione si determinerebbe esclusivamente in rapporto a se stesso e alla propria logica interna senza l’attrito di una storia più ampia e plurale, a indebolire la loro proposta. Nella critica che rivolgono a Boltanski e Chiapello, così, i teorici del transestetico escludono che a informare il passaggio dalla società fordista al nuovo spirito del capitalismo possano aver contribuito in modo significativo i movimenti sociali e la protesta. Fu “la mano invisibile dei manager”, piuttosto, a dirigere il cambiamento verso il “potenziale di profitto nascosto nei sogni, nelle finzioni e nelle emozioni umane”, proprio come il capitalismo artistico aveva cominciato a fare nelle gallerie dei grandi magazzini16. A partire dal 1850, insom12 13 14 15 16

Ivi, p. 119. Marx, Il 18 brumaio di Luigi Bonaparte, cit., p. 165. Kracauer, Jacques Offenbach e la Parigi del suo tempo, cit., p. 37. Lipovetsky, Serroy, L’estetizzazione del mondo, cit., p. 128. Ivi, p. 109.

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ma, lo straordinario sviluppo della creazione del valore aggregato alla dimensione estetica “si deve più al suo movimento autonomo stimolato dalle logiche concorrenziali e di innovazione permanente che non alle denunce nei confronti dell’economia liberista”17 – e se anche le controculture fossero riuscite a condizionare il costume della società contemporanea, è solo perché “il capitalismo dei consumi aveva già dissolto la vecchia cultura disciplinare-autoritaria [...], sotto la pressione permanente della concorrenza”18. Per addentrarci nella serie di problemi piuttosto seri che solleva una prospettiva di questo genere, prenderemo in esame ciò che della Controriforma aveva già scritto uno degli autori che la “teoria antropologico-sociale dell’arte” si ripropone di superare: Guy Debord. Anche nelle pagine de La società dello spettacolo, infatti, il barocco assume un’importanza paradigmatica, ma la sua contemporaneità non consiste tanto nel rilancio della sfera estetica quale strumento di propaganda e di dominio, quanto in un regime che restaura l’“unità da lungo tempo perduta”, la stessa che “si ritrova in qualche modo nel consumo attuale della totalità del passato artistico”. L’arte e la cultura del passato rappresentano “un edificio barocco a un livello più elevato, edificio nel quale devono fondersi la produzione stessa di un’arte barocca e tutti i suoi ritorni”19: produzione e consumo, attività e passività si fondono nel potere spettacolare a “un livello più elevato” rispetto alle tecnologie di assoggettamento che il capitalismo avrebbe ereditato dalla Controriforma. Non solo: l’“insieme barocco” che attualizza Debord consiste proprio nella confusione tra pittura, scultura, teatro, letteratura, religione, politica e investimenti che per Lipovetsky e Serroy avrebbe determinato il passaggio dalla società dello spettacolo – in cui tutto rimaneva separato – a quella dell’iperspettacolo. La quale, dicono, non funziona più per separazione, ma come un abbattimento delle frontiere tra cultura, economia, arte e industria alla ricerca di nuovi mercati e nuovi consumatori20. La società dell’iperspettacolo, dunque, sarebbe quella corrispondente all’evoluzione del capitale all’epoca della s-differenziazione (dé-différentiation)21, 17 Ivi, p. 111. 18 Ivi, p. 113. 19 Guy Debord, La società dello spettacolo, trad. it. di P. Salvadori e D. Strumia, Baldini e Castoldi, Milano 2013, p. 165. 20 Lipovetsky, Serroy, L’estetizzazione del mondo, cit., p. 84. 21 Ivi, p. 22.

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dove al contrario di quanto accadeva ai tempi di Debord, gli individui non subiscono più le immagini, ma “fabbricano e diffondono in massa le immagini, pensano in funzione delle immagini, si esprimono e hanno uno sguardo riflessivo sul mondo delle immagini, agiscono e si mostrano in funzione dell’immagine di se stessi che vogliono veder proiettata”22. Se non fosse che l’indiscutibile passività cui fa riferimento Debord era già intrisa di “adesione positiva”23, così come la centralità che Debord assegnava al lavoro della separazione non riguardava tanto la differenza tra un’entrecôte e una fuga per violoncello – che anche nell’edificio barocco dello spettacolo tendevano a confondersi – quanto il rapporto dei produttori con se stessi, con tutto ciò che andavano producendo e tra di loro24. “Lo spettacolo non è un insieme di immagini – infatti – ma un rapporto sociale tra individui mediato dalle immagini”25. Lo aveva già constatato Luciano Bianciardi all’inizio degli anni Sessanta, per esempio, definendo gli incontri che si potevano fare verso sera nel centro di Milano “un fatto puramente ottico. Non trovi le persone – spiegava – ma soltanto la loro immagine”, lo spettro di un vecchio amico o di un vecchio conoscente che porgendoti la mano si dileguava dicendo: “Fatti vedere”26. La tendenza all’ibridazione cui fanno riferimento Lipovetsky e Serroy, in altri termini, non risulta posteriore all’epoca dello spettacolo, dove era già possibile constatare come “uno stile di abbigliamento nasce da un film, una rivista lancia dei club, che lanciano panoplie diverse”27: sono già le immagini di un mondo ampiamente transestetico quelle che Debord utilizza per illustrare la differenza tra lo spettacolare concentrato e lo spettacolare diffuso nel film del 1973, una sequenza veloce di cibi, pittura, automobili, “quartieri-museo”, design, un camino acceso e dei nudi femminili che non allude alla sia pur minima compartimentazione tra gli ambiti e i generi. Al contrario, l’avanzamento di carriera che i teorici dell’iperspettacolo accordano al principio della separazione, decretandone il superamento ai piani alti del capitalismo artistico e occultandone la persistenza più propriamente politica nel lavoro riproduttivo, si potrebbe intendere 22 23 24 25 26 27

Ivi, p. 226. Debord, La società dello spettacolo, cit., p. 55. Ivi, p. 67. Ivi, p. 54. Luciano Bianciardi, La vita agra, Feltrinelli, Milano 2016, p. 196. Debord, La società dello spettacolo, cit., p. 83.

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come un contributo della loro “teoria antropologico-sociale dell’arte” alla “produzione circolare dell’isolamento”, che nei termini di Debord ha già da sempre assegnato alla dimensione estetica e unitaria delle immagini il compito di riunire il separato ma in quanto separato28. Di lì a poco, sarà Henri Lefebvre a definire “omogeneospezzato” lo spazio del design, quello in cui a unificare i caratteri funzionali del mondo provvede appunto “l’estetismo”29. Ed è proprio in corrispondenza di questo movimento di ricomposizione e consolidamento che Lipovetsky e Serroy – non avendo colto nella storia una riserva di autonomia espressiva e anacronica, che non si lascia mai totalmente ridurre alle evoluzioni del capitale o al principio dinamico della concorrenza – finiscono col fraintendere lo stesso modello al quale dichiarano di voler ancorare la propria definizione del capitalismo transestetico: l’immateriale di André Gorz. Un modello molto più articolato di quanto non lo siano le analisi del capitalismo cognitivo – dicono – dal momento che a creare il valore postfordista non interviene solo la conoscenza, ma concorrono una serie di altri fattori quali l’immaginazione, la fantasia, il gusto o le emozioni che danno vita a un’economia più complessivamente intuitiva ed estetica30. Secondo Gorz, questo lavoro immateriale si basava proprio su un patrimonio di “capacità espressive e cooperative che non si possono insegnare”, ma fanno parte della “cultura quotidiana”. Fino agli anni settanta del Novecento, spiegava, al momento del suo ingresso in fabbrica l’operaio veniva spogliato di qualunque cosa avesse imparato prima, mentre il lavoratore postfordista deve entrare nella produzione con tutto ciò che gli hanno insegnato la vita e la comunità. È questo “sapere vernacolare” che l’impresa postfordista mette a profitto e deruba, un sapere che comprende anche l’esperienza estetica di “attività teatrali, musicali ecc.”31. Ma con la totale messa al lavoro del vissuto – a ben vedere – l’immateriale mobilita una “servitù volontaria”32 molto più simile all’adesione positiva di Debord che all’individuo transestetico di Lipovetsky e Serroy, il quale si presumerà libero di elaborare un’immagine di se stesso comple28 29 30 31

Ivi, p. 62. Lefebvre, Spazio e politica, cit., p. 47. Lipovetsky, Serroy, L’estetizzazione del mondo, cit., p. 45. André Gorz, L’immateriale. Conoscenza, valore e capitale, trad. it. di A. Salsano, Bollati Boringhieri, Torino 2003, pp. 13-14. 32 Ivi, p. 17.

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tamente attiva e deliberata. Piuttosto, secondo Gorz, anche il “senso estetico” contribuisce a irrobustire la principale sostanza sociale comune a tutti le merci, che non è più il lavoro astratto ma l’intelligenza generale33: un senso estetico che non rappresenta semplicemente la nuova frontiera del valore, ma un territorio di disciplinamento ed espropriazione, vale a dire di resistenze. A permanere, insomma, si direbbe proprio quel conflitto che i teorici del transestetico tentano di espungere, come rivela l’importanza che le loro conclusioni concedono alla scuola o alla formazione umanistica “purché non si cerchi di contrapporle al mondo odierno e a quello che verrà”34. Scrive Gorz: Il consumatore, individuale per definizione, è dunque stato concepito sin dall’origine come il contrario del cittadino, come l’antidoto, in qualche modo, dell’espressione collettiva di bisogni collettivi, del desiderio di cambiamento sociale, della preoccupazione del bene comune. L’industria pubblicitaria non avrebbe mai smesso di assolvere una doppia funzione, economica e politica, facendo appello non già alla immaginazione e ai desideri di tutti, ma alla immaginazione e ai desideri di ciascuno in quanto persona privata35.

E così anche la pubblicità, come il design di Lefebvre o lo spettacolo di Debord, tiene insieme qualcosa di cui approfondisce contemporaneamente le divisioni, lo sbriciolamento, la stessa separazione che il capitalismo transestetico di Lipovetsky e Serroy presume di aver congedato sul piano delle ibridazioni tra cultura, economia, arte e industria, finalmente s-differenziate. Ciò che la loro tesi non tiene minimamente in conto, allora, è che molto prima di esprimersi attraverso l’immaginazione e i desideri di ciascuno e di evolvere in una nuova prospettiva dei consumi, l’immateriale costituisce un patrimonio di sensibilità e di cultura quotidiana, di saperi vernacolari, tradizioni, racconti, esperienze, bisogni collettivi, percezioni e “attività teatrali, musicali ecc.” che la produzione e l’estrazione del valore aggrediscono e fanno a pezzi, dovendone poi disporre nella 33 Ivi, p. 24. 34 La stessa rimozione del conflitto anima il programma di haking urbano (purché ispirato alla componente white hat del movimento, “che cerca di penetrare in un sistema informatico e di identificarne le debolezze con l’obiettivo di renderlo più sicuro”) proposto da Carlo Ratti in La città di domani. Come le reti stanno cambiando il futuro urbano, con Matthew Claudel, trad. it. di E. Benghi, Einaudi, Milano 2017, pp. 93-102. 35 Gorz, L’immateriale, cit., p. 47.

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nuova forma unitaria della separazione tra i consumatori. Oggi – sostengono Lipovetsky e Serroy – si porrebbero solo due alternative di vita estetica: “Una governata dalla sottomissione alle norme accelerate e attiviste del consumismo, l’altra all’ideale di un’esistenza capace di sfuggire dalle abitudini di spesa e di vita, di sospendere la dittatura del tempo precipitato, di assaporare il gusto del mondo prendendosi il tempo della scoperta”36. Ed è quindi la separazione reificata, in entrambi i casi, nella dimensione delle merci oppure in quella del godimento individuale. Così, Lipovetsky e Serroy possono celebrare l’indubbio progresso rappresentato dalle scarpe della Reebok sulle quali viene riprodotto un dipinto di Basquiat37, ma il pensiero di quanto Basquiat avesse preso dalla strada e la Reebok le restituisce sotto forma di brand non li sfiora neanche. Ha dichiarato una volta Jello Biafra, il leader dei Dead Kennedys: “Se sei a corto di ispirazione, prendi la metro fino in periferia e guardi come vive l’altra gente”38. E non si tratta solo di un problema etico o politico, sono proprio Lipovetsky e Serroy ad averlo sottolineato in premessa: “Il processo innescato dalla rivoluzione industriale prosegue inesorabilmente e giorno dopo giorno si delinea un mondo sempre più sgraziato”39. Oppure: “Più si esercita l’astuzia estetica della ragione commerciale e più i suoi limiti si impongono crudelmente alle nostre sensibilità”40. Si tratta quindi di un’aggressione alla sfera percettiva, artistica e intersoggettiva (nei termini di Gorz: al bene comune) che danneggia quotidianamente la qualità del “rapporto con le cose, con la cultura e con il tempo vissuto”, come lo definiscono gli autori, riproducendo un ambiente nel quale non solo “l’aumento della qualità di tutto un insieme di consumi non elimina lo spettacolo della nuova povertà”, ma lo aggrava e ne informa la sconvenienza. Furono esattamente questi i processi ai quali reagirono le controculture, accomunate dall’insofferenza nei confronti di un passaggio al postfordismo che non si sarebbe realmente concluso con la dissoluzione della “vecchia cultura disciplinare-autoritaria”, ma ne avrebbe mimetizzato il prolungamento nella progressiva depo36 Lipovetsky, Serroy, L’estetizzazione del mondo, cit., p. 39. 37 Ivi, p. 197. 38 Steven Blush, American Punk Hardcore. Una storia tribale, trad. it. di G. Carlotti, Shake edizioni, Milano 2007, p. 144. 39 Lipovetsky, Serroy, L’estetizzazione del mondo, cit., p. 20. 40 Ivi, p. 38.

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liticizzazione di qualunque cosa: dagli stili di vita ai desideri fino ai saggi sull’estetizzazione del mondo. Una prova inequivocabile di questa depoliticizzazione ce la forniscono proprio Lipovetsky e Serroy, infatti, proponendo di interpretare la poetica punk del doit-yourself come un’incubatrice del prosumer, il “consumatore-attore che deve attuare tutto un insieme di compiti che un tempo venivano svolti da un venditore, un bigliettaio, un consigliere, un tecnico, un riparatore”41. Varrà dunque la pena riassumere quali fossero le operazioni che un punk stava compiendo mentre modificava una maglietta o si cimentava in una qualunque altra estensione del doit-yourself. A titolo di monumento, Dick Hebdige cita una celebre pagina della fanzine “Sniffin Glue” in cui furono illustrate le diteggiature di tre accordi con la didascalia: “Ecco un accordo, eccone un altro, eccone un terzo, ora formati una band”42 (si veda figura riportata alla pagine seguente). A ben vedere, quindi, più che un invito a surrogare il lavoro di musicisti, compositori, fonici, maestri di solfeggio e discografici, anche al cuore dell’estetica punk ritroviamo lo stesso bisogno che si esprime in qualunque altra sottocultura: quello di fare cose insieme43. Se dalla scena inglese ci spostiamo a Los Angeles il discorso non cambia: “I Black Flag sono stati la prima band del quartiere – ha raccontato Milo Aukerman – poi i Minutemen sono nati più o meno quando si è formato il primo line-up dei Descentents. La cosa bella di quelle band è che dovunque suonassimo eravamo tutti insieme in cartellone, era una specie di unica grande famiglia, solidarizzavamo”44. Oppure Fat Mike: Speravo di integrarmi un po’ meglio, quindi ho messo una polo blu con una spilla da balia che trafiggeva l’alligatore del logo. È così che è cominciata. Ho iniziato ad andare a tutti i concerti, prendevo tutti i dischi che potevo al Rhino e ho comprato una spilla dei PiL per coprire il cavallino sulle altre polo che avevo. Non che avessi la minima idea di chi o cosa fossero i PiL45.

41 Ivi, pp. 311-312. 42 Dick Hebdige, Sottocultura. Il fascino di uno stile innaturale, trad. it. di P. Tazzi, Costa & Nolan, Milano 2000, p. 123. 43 Albert Cohen, Ragazzi delinquenti, trad. it. di G.A. De Toni, Feltrinelli, Milano 1981, pp. 194-195. 44 Steven Blush, American Punk Hardcore, cit., p. 102. 45 Jeff Alulis, NOFX. Una vasca per cesso e altre storie, trad. it. di V. Presti Danisi, Tsunami Edizioni, Milano 2017, p. 9.

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Anche la fine, per il movimento punk, non giunge in rapporto alla parabola del “consumatore-attore” e della s-differenziazione, ma in una forma contigua a quella del campo e dei nuovi recinti: La permanenza in corso Garibaldi durò un altro anno – racconta Marco Philopat –. I trenta superstiti di Correggio, dopo una serie di estenuanti lotte e trattative, ottennero dal comune sei appartamenti in una casa a Rogoredo, nell’estrema periferia sud di Milano. L’edificio che assomigliava a un carcere fu subito rinominato “il confino”, perché situato in una fossa a ridosso di un grande svincolo della tangenziale est, con gli aerei che passavano ogni dieci minuti, infiltrazioni d’acqua dai soffitti, muri di cartone e amianto, finestre tipo vasistas che si aprivano solo dall’alto. Con i punx e i compagni divisi in microappartamenti, separati da piani e scale diverse, iniziò a scomparire quella socialità che stava alla base dell’esperienza comunitaria46.

Un fare cose insieme, dunque, “come risposta codificata ai mutamenti che toccano l’intera comunità”47 e che la controcultura avreb46 Marco Philopat, Costretti a sanguinare. Racconto urlato sul punk, Agenzia X, Milano 2016, p. 211. 47 Hebdige, Sottocultura, cit., p. 87.

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be inteso proprio sul piano dello stile, non solo musicale. “La cosa più importante che mi ha insegnato il punk – scrive Don Letts – è stato un modo nuovo di affrontare le cose, tutta la faccenda dell’etica DIY. Nei paesi del terzo mondo, l’etica del fai da te o dell’autogestione che dir si voglia è quasi innata: o adotti un atteggiamento DIY o crepi”48. Dove Lipovetsky e Serroy colgono solo un precursore dei nuovi consumi e del capitalismo delle piattaforme, dunque, anche per Hebdige avremmo a che fare con una “forma di resistenza” che attribuisce alla poetica “transitiva” del do-it-yourself e dell’elaborazione stilistica un potenziale di movimento e di sovversione49. Il punk, in altri termini, non consegna al mondo un’estetica ma compie un’azione: “Se una cosa sensata Johnny Rotten mai la disse – scrivono Fant Precario e Girolamo De Michele – fu che punk non fu musica ma attitudine, emergenza di rifiuto, degrado materiale e morale. A informare il gesto che ritrovava così il soggetto, riunendo suonatore e pubblico, con lo sputo che era più importante del suono e di chi lo faceva”50. Con il gesto che ritrovava il soggetto, così, la stessa facoltà mimetica consente di sorprendere il punk – per un istante – al fianco del colonizzato. Un gesto animato dal “desiderio non solo di distruggere i limiti di razza e di sesso, ma anche di confondere la successione cronologica mischiando assieme elementi particolari di periodi diversi”51, operando nello spessore storico degli altri tempi. La “controcultura – ha scritto infatti Francesco Spagna – è una richiesta di spazio, di respiro, di libero pensiero” e “quando questo libero pensiero ritrova il respiro dello spazio simbolico della tradizione si sente ‘a casa’”52. Lo stesso vale per lo stile cui fa riferimento Hebdige, il quale avrebbe molto più a che fare con la soddisfazione delle “miserie ereditarie” di cui parla Marx che con il vintage, che i teorici del transestetico definiscono coerentemente un “ritorno della dimensione storica”53. Perché il punk “riproduceva l’intera storia stilistica delle culture dei giovani della working class nel dopoguerra nella forma del cut up, combinando cioè elementi che erano appartenuti origi48 Don Letts, Punk & Dread. Quando la cultura giamaicana incontrò il punk, trad. it. di S. Murer, Shake Edizioni, Milano 2015, p. 82. 49 Hebdige, Sottocultura, cit., pp. 137-144. 50 Fant Precario, Girolamo De Michele, If The Kids Are United. Ovvero: del demonio e del sabotaggio, manifestolibri, Roma 2017, p. 95. 51 Hebdige, Sottocultura, cit., p. 136. 52 Francesco Spagna, Cultura e controcultura, Elèutera, Milano 2016, p. 91. 53 Lipovetsky, Serroy, L’estetizzazione del mondo, cit., p. 211.

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nariamente a epoche del tutto diverse”54, arrivando a incorporare l’esperienza degli immigrati, il reggae, “la memoria viva del viaggio di un popolo”55 e la sua logica antifonale, la “formula di chiamata e risposta”56 che per molte culture ha rappresentato l’unico modo in cui salvare (mutandolo) un patrimonio collettivo dalla pressione dei processi economici e sociali ai quali venivano assoggettate57. Di questi processi e del loro approdo all’estetizzazione del mondo, il libro di Lipovetsky e Serroy ha sicuramente il merito di documentare l’imponenza, ma sulla base di un riformismo estetico completamente ridotto all’alternativa tra il mercato e il gusto individuale. Anche del punk, pertanto, i due autori non colgono quella che in termini più propriamente storici lo stesso Gorz avrebbe probabilmente definito una resistenza dell’immateriale al capitalismo artistico, o del cittadino al consumatore. Scrive ancora Hebdige: “È sul piano dell’estetica, nell’abbigliamento, nel modo di ballare, nella musica, nella retorica complessiva dello stile, che si trova il dialogo fra bianchi e neri registrato in maniera più sottile e più pregnante, quantunque in codice”58. Sarebbe dunque paradossale che fosse proprio una “teoria antropologico-sociale dell’arte” a non riconoscere questo genere di iscrizioni, contribuendo ad aggravare lo stesso impoverimento delle esperienze che Lipovetsky e Serroy, nelle ultime pagine del loro libro, invitano con urgenza a scongiurare. Perché il sistema più infallibile per stabilire quanto una proposta critica risulti davvero adeguata al contrasto del feticismo, forse, rimane proprio quello di osservare in che rapporto si pone rispetto all’emergenza della separazione. Emergenza del moderno e del capitale – come sosteneva Jules-François Dupuis – che al lavoro unificante del pensiero magico e del mito ha sostituito l’espropriazione dei mezzi produttivi, l’oggettivazione della natura, l’isolamento degli individui e la tendenza a recintare qualunque dimensione dell’attività umana, non solo i terreni59. Per Dupuis, che in realtà non era altri che Ra54 55 56 57

Hebdige, Sottocultura, cit., p. 27. Ivi, p. 34. Ivi, p. 33. Per una trattazione più estesa dell’etica e della logica antifonale vedi Paul Gilroy, The Black Atlantic. L’identità nera tra modernità e doppia coscienza, trad. it. di M. Mellino e L. Barberi, Meltemi, Roma 2003, p. 328 e seguenti. 58 Hebdige, Sottocultura, cit., p. 45. 59 Jules-François Dupuis, Controstoria del surrealismo, trad. it. di Rodolfo Demartinis, Arcana, Roma 1978.

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oul Vaneigem, vale a dire l’autore di quel Trattato di saper vivere a uso delle giovani generazioni che si sarebbe aggiudicato le fascette del “libro più rubato del Sessantotto”, al demone con il quale Dada aveva riaperto tutti i recinti il surrealismo si era avvicendato con una sorta di restaurazione. E questo perché il sacerdozio della cultura e dell’arte, malamente compensati dall’adesione al trotskismo, implicavano pur sempre il recupero di una separatezza che il ready-made si era risolto a distruggere, creando una sostanziale indifferenza tra il capolavoro e l’atto vandalico. Nonostante siano trascorsi quarant’anni dalla sua Controstoria del surrealismo, dunque, oggi la prospettiva di Vaneigem potrebbe risultare ancora valida per affrontare gli ostacoli nei quali continua a inciampare la discussione pubblica sul decoro e il degrado. Se non altro per cogliere nella tendenza ideologica a separare i veri artisti dai vandali – per esempio – un riflesso pavloviano dello spettacolo, al quale preme innanzitutto stabilire quale sia la rubrica in cui dovrà sussumere e mettere al lavoro tutto ciò che accade là fuori, staccandolo dal resto e riconsegnando all’opera di genio, alla decorazione urbana, al marketing territoriale, alla creatività giovanile o alla tolleranza zero le loro funzioni regali. In questo modo, come scriveva Asger Jorn in una pubblicazione dell’Istituto scandinavo di vandalismo comparato, anche il significato di “un’azione artistica che provoca l’azione” viene riannesso al dominio delle belle arti, dove l’opera non consiste più nel fare qualcosa con i segni ma nel segno stesso. Perché da un lato è molto probabile che mostrando le spalle “a tutte le estetiche del consenso” l’impresa artistica si debba poi rivoltare “contro colui che strappa violentemente gli spettatori dalle loro poltrone”60, mentre dall’altro rimane pertinente il giudizio di Henri Lefebvre secondo il quale “chi immagina la città e la realtà urbana come un sistema di segni li consegna implicitamente al consumo come oggetti interamente consumabili”61. Ed è negli uffici delle questure, laddove la produttività della recinzione viene amministrata con i metodi più disinvolti, che l’intero processo assume un’evidenza palmare. A questo riguardo basta sfogliare il dossier che nel 2012 ha portato all’arresto di Cokney, un writer condannato a pagare un’ammenda di 228.000 euro per 60 Asger Jorn, Guy Debord et le problème du maudit, in Guy Debord, Contre le cinéma, Institut Scandinave de Vandalisme Comparé, Bibliothèque d’Alexandrie, Aarhus 1964. 61 Lefebvre, Il diritto alla città, cit., p. 69.

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il “danneggiamento” di treni e metropolitane62. Perché a catturare immediatamente l’attenzione degli investigatori della “cellula tags”, come si evince dal rapporto che un sottobrigadiere invia al procuratore della ventesima sezione penale del tribunale di Parigi, è proprio la scoperta di quanto il “vandalismo dei graffiti” sia “legato alla nozione di gruppo” e di come “un linguaggio specifico accompagna l’attività di questi gruppi formando così una comunione di pensiero e di azione”. Lo aveva già sostenuto Foucault: il problema dell’accumulazione degli uomini e dei capitali non è il vagabondaggio, ma “l’insieme dei vagabondi, cioè un tipo di esistenza comune, un gruppo sociale che si presenta come una contro-società”63. Ecco qual è il “filo che lega insieme le streghe medievali e gli hippies, le tarante pugliesi osservate da Ernesto De Martino e gli sciamani nativi americani”, per tacere dei punk: in ognuno di questi contesti, ha scritto sempre Spagna, “è stata offerta un’alternativa di socializzazione. In ognuno sono stati compiuti atti trasgressivi in una cornice rituale”, “riti di passaggio collettivi per superare ciascuna epocale ‘fine della Storia’”64, forme di soggettivazione anacronica. Ora, quindi, anche per la cellula tags si tratterà di restaurare e armare un recinto, separando dalla prassi comune che si declina nel corpo del reato le generalità di un criminale, associando i filmati della videosorveglianza a uno stile caratteristico, un tratto distintivo, un segno. Il quale non fornirà solo un indizio, ma risulterà un vero e proprio quantificatore del danno prodotto sulle carrozze della RATP o delle ferrovie francesi, proprio come altrove suggella un coefficiente di scambio. Perché nella città postcoloniale e punitiva del decoro, qualunque interferenza alla chiusura in “un sistema di segni”, dalla povertà al writing, viene perseguita in quanto crimine di stile65. La separazione deve continuare a imporsi “con il vandalismo più spietato e sotto la spinta delle passioni più infami”, scriveva Marx, le quali si mimetizzano ancora oggi in un flusso legale di ordinanze, campagne, decreti, arresti e sentenze che solo a notte fonda, nei depositi ferroviari, tornano ad assumere i modi più espliciti della cosiddetta accumulazione originaria. Dal saccheggio materiale delle terre e delle colonie, la logica 62 63 64 65

Cokney, Scuro N. 1203264038, in Chiaroscuro, Classic, Paris 2015. Foucault, La società punitiva, cit., pp. 58-59. Spagna, Cultura e controcultura, cit., pp. 32-33. Sarah Nuttall, Achille Mbembe, Afropolis: From Johannesburg, in “PMLA”, 122, 2007/1, p. 283.

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estrattiva si estende allora a tutte le forme di cooperazione e di socialità che possono rappresentare una nuova frontiera del capitale66, le attraversa, creando e ricreando continuamente il confine in movimento del valore esterno da confiscare. Così, nel mondo estetizzato del boulevard e delle recinzioni percettive, anche il confine della legalità si riduce a una questione privata, strumentale e stilistica, priva di un fondamento esterno alle poetiche del capitale. E nell’estate del 2014, di conseguenza, i verbali di polizia relativi alle indagini sulle attività di Cokney venivano opportunamente esposti al Palais de Tokio insieme alle opere di Evol, Mode 2 e Futura 2000.

66 Sandro Mezzadra, Brett Neilson, On the multiple frontiers of extraction: excavating contemporary capitalism, in “Cultural Studies”, 31, 4, 2017.

CONCLUSIONE

Nei luoghi delle merci

Da qualche tempo accanto al portone di alcuni palazzi molto decorosi sono apparse delle targhe espressamente rivolte ai diffusori di dépliant pubblicitari: qui – dicono – non è gradita la pubblicità. Fino a non molti anni fa un trattamento simile veniva riservato in esclusiva ai testimoni di Geova, per informarli che non sarebbe servito a niente citofonare ai residenti. A rafforzare quel messaggio, spesso, provvedeva un’immagine della Madonna con il bambino, tanto perché fosse chiaro che le persone barricate all’interno non disdegnavano le proposte di salvezza, ma erano cattoliche. E qualcosa di analogo, forse, lo mandano a dire con la loro austerità le targhe che attendono al varco i messaggeri di una nuova palestra o di un centro estetico, perché a guardarle bene non si limitano a far passare il concetto che qualcuno non è minimamente interessato a ricevere dispacci dal fronte delle merci, ma forniscono una spiegazione. Così sobrie e disadorne, infatti, è come se recintassero un mondo che non contempla l’incontinenza grafica e plebea dei bollettini commerciali. Eppure i dossier di alimentari o di droni che buttiamo quotidianamente nella spazzatura, non risultano altrettanto invadenti delle interruzioni pubblicitarie, le telefonate, gli sms, i banner o gli algoritmi con i quali lo spettacolo delle merci ha cinto d’assedio le nostre vite. Perché nonostante le targhe continuino a vendere, probabilmente in pendant con il desiderio di non dover differenziare tutta quella carta, i luoghi in cui oggi la merce viene stoccata o messa in circolazione non si dispongono più in modo discontinuo sulle strade o nei passaggi più interessanti dei film, ma coincidono con la nostra stessa esperienza dello spazio e del corpo. Qualunque cosa divienemerce, il noleggio di un utero vivo e fecondo vale seimila dollari e per il compleanno di mammà alla Reggia di Caserta basta accordarsi

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sul prezzo. Ed è a questi processi che le politiche per il decoro fanno compiere un ulteriore giro di vite, mentre nello spazio urbano inteso come “medium percettivo dell’intersoggettività” modificano ancora una volta l’animale che siamo, assegnando a ciascuno le funzioni antropologiche del lupo, del gregge o dell’agnello sacrificale. L’analisi di ciò che accade negli spazi deputati all’attività commerciale, quindi, ci consente di porre l’accento sul carattere soggettivo delle merci, a partire dalla constatazione che il valore si determina pur sempre in rapporto a un’esperienza umana, anche dei luoghi. Ha scritto Lefebvre in polemica con Storia e coscienza di classe, che anche la forma-merce “non può giungere sino in fondo al processo di ‘cosificazione’ (reificazione). Essa non può liberarsi dei rapporti umani che tende a dominare, a deformare, a tramutare in rapporti tra cose; non può esistere completamente in quanto cosa; rimane cosa astratta per l’essere umano attivo e grazie a esso”1. Anche lo spazio risulta quindi una delle risorse con le quali la merce può aumentare le proprie chance di seduzione e di assoggettamento, ma proprio per questo deve implicare un lavoro indeterminato e sempre peculiare di soggettivazione. Se per certi versi è opportuno constatare la metamorfosi del consumatore nello zombie, dunque, non lo è di meno supporre che nella produzione e riproduzione della vita immediata sia ancora in gioco la libera espressione di una contingenza o di un “colpo di dadi”, come lo definisce Deleuze. Che poi questa libertà si riduca spesso all’alternativa tra la Pepsi e la Coca-Cola, secondo una celebre provocazione di Slavoij Žižek, significa solo che nel nostro caso sarà una bibita gasata a rendere effettivo il divenire-merce di una forma comunque specifica ed eventuale: quella dei rapporti di cose che mettono in relazione delle persone determinate, anche dai luoghi in cui vanno a riempirsi lo stomaco di anidride carbonica. Un’altra storia del decoro, così, potrebbe avere inizio nei mesi in cui nell’Illinois si costituisce la McDonald’s Systems, mentre a trenta chilometri da Los Angeles inaugura il primo parco della Disney. A Miami apre l’Insta Burger King, a New York nascono i discount, a Washington gli ipermagazzini e nello Utah arriva il pollo del Kentucky in franchising. Perché le politiche per il decoro hanno davvero a che fare con il consumismo e con quelli che solo dieci anni dopo Jean Baudrillard avrebbe definito “i miti complementari del 1

Lefebvre, La sociologia di Marx, cit., p. 52.

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benessere e dei bisogni”, vale a dire il portato di “un’antropologia naturalistica” in base alla quale la nozione di bisogno viene ancorata al valore d’uso2. Un mito, appunto, perché nella società dei consumi esisterebbe esclusivamente un sistema dei bisogni, vale a dire “una sistemazione razionale delle forze produttive a livello individuale”3. Questa sistemazione si spinge fino “al livello della bistecca”, aggiunge Baudrillard, dove la fame serve a stabilire “una relazione di utilità obiettiva o di finalità naturale davanti alla quale non vi è più disuguaglianza storica e sociale”4. Ma la fame che si soddisfa con forchetta e coltello, aveva detto Marx, non è la stessa di chi divora carne cruda con le mani, per cui considerarla naturalmente identica significa rendere plausibile l’oggettivazione di un valore che, procurando alle tensioni storiche e sociali della merce un fondamento naturalistico, cattura il soggetto in un processo di reificazione. Perché il consumismo “associa la felicità non tanto alla soddisfazione dei bisogni”, come tenderebbero a far credere le sue “credenziali ufficiali”5, quanto alla creazione di un ambiente in cui “gli individui desiderino fare ciò che occorre affinché il sistema sia in grado di riprodurre se stesso”6. Niente di nuovo, insomma, ma anche nel nostro caso il bisogno prelude alla conversione simbolica della città mercificata (un prodotto dell’uomo e della sua posizione nella società e nella storia) in una necessità senza tempo, vincolando il soggetto che si costituisce nella guerra alla sconvenienza a un lavoro non meno riproduttivo. Conseguenza, cosa o prodotto di una macchina mitologica, così, il decoro urbano rinvia a una “mentalità miracolosa” analoga a quella con cui gli indigeni della Melanesia presumevano di poter catturare gli aeroplani che vedevano planare sulle loro teste, riproducendone la sagoma. Dal momento che il simile veniva attratto dal simile, infatti, davano per scontato che un giorno o l’altro l’aereo si sarebbe posato sulla sua copia, proprio come il sistema dei consumi “mette in mostra tutto un dispositivo di oggetti-simulacri, di segni caratteristici di felicità, e poi attende (disperatamente direbbe un moralista) 2 3 4 5 6

Jean Baudrillard, La società dei consumi. I suoi miti e le sue strutture, trad. it. di G. Gozzi e P. Stefani, il Mulino, Bologna 1976, p. 40. Ivi, p. 73. Ivi, p. 40. Zygmunt Bauman, Consumo, dunque sono, trad. it. di M. Cupellaro, Laterza, Roma-Bari 2009, p. 40. Ivi, p. 86.

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che la felicità vi si posi”7. La divinità alla quale è conveniente associare le molestie ai senzatetto, evidentemente, è la stessa della nota in cui Benjamin definiva il capitalismo un “fenomeno essenzialmente religioso”8. Ma si tratta di una definizione che non convincerà tutti, per esempio Vanni Codeluppi, il quale sostiene che confondere i consumi con la religione vorrebbe dire postulare “un’irrealistica passività del consumatore”9. Non è così, però, perché dal giorno in cui Richard von Krafft-Ebing ha messo a punto la diagnosi di masochismo, che per Freud diverrà addirittura originario, anche nella più “irrealistica passività del consumatore” è plausibile sospettare una strategia del desiderio. Piuttosto che restaurare il soggetto per antitesi, allora, identificandolo con “un’autonomia decisionale” che si ridurrebbe davvero a una scelta tra la Pepsi e la Coca-Cola, varrebbe la pena “verificare se le forme contemporanee di capitalismo esibiscano o meno una qualche analogia significativa con la ritualizzazione”10, la quale continua a implicare il concorso e l’elaborazione dell’esperienza nell’attuazione di qualunque gesto ripetuto. E questo perché anche nei luoghi delle merci e del decoro, come in tutte le “macchine per far vedere e per far parlare”, il Sé rimane “un processo di individuazione che riguarda gruppi o persone – direbbe Deleuze – e si sottrae ai rapporti di forze stabiliti così come ai saperi costituiti: una sorta di plus-valore”11. Se in riferimento alle politiche per il decoro ha un senso opporre l’altro tempo del punk al mondo estetizzato, quindi, non è per tratteggiare il profilo di un nuovo soggetto rivoluzionario, ma in quanto espressione episodica di questo plus-valore. Alla figura della “cattedrale” in riferimento ai consumi, poi, si attiene anche Italo Calvino nel suo diario americano del 1959-1960, dove riporta la disavventura di un agricoltore che avendo ordinato una camera da letto per posta, si vide recapitare il mobilio in miniatura di una casa per le bambole. Fu assicurando ai propri clienti che non avrebbero subito truffe simili, spiega, che “la catena di ma7 8

Baudrillard, La società dei consumi, cit., p. 11. Walter Benjamin, Capitalismo come religione, in Il culto del capitale, a cura di Dario Gentili, Mauro Ponzi e Elettra Stimilli, Quodlibet Studio, Macerata 2014, pp. 9-12. 9 Vanni Codeluppi, Metropoli e luoghi del consumo, Mimesis, Milano 2014, p. 27. 10 Massimo De Carolis, “Non salvateci più”. Sulla vocazione rituale dei mercati finanziari, in Il culto del capitale, cit., p. 129. 11 Gilles Deleuze, Che cos’è un dispositivo?, in Divenire molteplice. Nietzsche, Foucault ed altri intercessori, a cura di Ubaldo Fadini, ombre corte, Verona 1999, p. 67-76.

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gazzini più diffusa in tutto il paese” conquistò il mercato12. Il quale, pertanto, tenderebbe a premiare un tipo di “onestà” riconducibile all’effettiva corrispondenza tra l’immagine della merce e il bisogno che quella merce si è candidata a soddisfare. Se non fosse che il mito del bisogno rischia di trasformare la storia del contadino americano in una robinsonata, vale a dire in una rappresentazione dei fatti che isola l’individuo dal contesto. Il contadino che sta sfogliando il catalogo, al contrario, non agisce in un ambiente antigravitazionale, esterno alla società e alla storia: supponiamo almeno che non sia libero di recarsi fisicamente a fare compere, perché abita o lavora sulla frontiera. E supponiamo che laggiù lo abbiano spinto il desiderio o la necessità di procurarsi una sopravvivenza contestuale alle opportunità di lavoro distribuite sul territorio. Per qualche ragione non si affida a una falegnameria e per qualche altra ricorre al servizio postale. In ogni caso, la garanzia o la sicurezza di non farsi truffare compensano una serie di mediazioni (fisiche, storiche, sociali, territoriali, estetiche, produttive e psicologiche) che determinano il rapporto di quel contadino con l’immagine della merce. Ma dal momento che la merce non è mai estraibile dalla forma in cui si presenta (o lo è solo in funzione di un’antropologia naturalistica), dal momento che appare sempre in relazione a un sistema stratificato di pubblicità, strategie, investimenti, desideri, capitali e luoghi specifici che la continuano a intermediare anche “al livello della bistecca”, non esistono merci del tutto autonome dall’esigenza di far corrispondere al differimento del loro consumo una prestazione di ordine morale. Lo confessa Murray Jay Siskind, per esempio, il visiting professor di Rumore bianco che all’inizio del romanzo di De Lillo deve spiegare per quale motivo predilige una certa linea di prodotti: “Mi sembra non soltanto di risparmiare – ammette – ma anche di dare un contributo a una sorta di consenso spirituale”. Ha quindi ragione Emanuele Coccia, quando scrive che “il capitalismo non ha prodotto la scomparsa o la minimizzazione della moralità, ma la sua estensione più radicale ed estrema fino ai limiti stessi dell’esistente e del reale”13. Anche in rapporto alla morale, però, la “società dei consumatori [...] cresce rigogliosa finché riesce a rendere perpe12 Italo Calvino, Le cattedrali di consumo, in Un ottimista in America, Mondadori, Milano 2002, pp. 96-97 13 Emanuele Coccia, Il bene nelle cose. La pubblicità come discorso morale, il Mulino, Bologna 2014, p. 64.

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tua la non soddisfazione dei suoi membri”14, in continua tensione tra l’ammanco e il rifornimento di qualcosa. I luoghi della merce e del decoro devono contribuire ad alimentare questa bulimia. Lo fanno innanzitutto creando artificialmente un paradigma della spontaneità15, come avviene in qualsiasi spazio rituale o come accadeva già negli uffici di collocamento o nelle sale riscaldate di Kracauer. Scrive Baudrillard: “I nostri mercati, le arterie commerciali, i nostri Superprisunic mimano così una natura ritrovata, prodigiosamente feconda, sono le nostre vallate di Canaan dove, invece di latte e miele, scorrono le onde del neon sul ketchup e sulla plastica”16. Ma perché l’impresa abbia successo, riconciliando la realtà alle “leggi naturali ovvie” del capitale, è necessario che la presenza degli artifici o l’intera “sintesi della profusione e del calcolo”, con il loro “sistema di costrizioni”17, vengano sottesi allo stato di natura, dove tutto ciò che potrebbe interferire con la presunta spontaneità delle merci rimane connaturato alla percezione dell’insicurezza: il vagabondo, l’ambulante, lo straniero. Anche di questo potrebbe parlare una storia delle forme, collegando il Crystal Palace a un concept store di Ralph Lauren, la grande serra in cui i commerci tradivano l’aspirazione a un’innocenza vegetale e il negozio che annette Madison Avenue a un mondo antico, ricco di tappeti e baldacchini che “servono a rassicurare il consumatore” e il suo “bisogno di certezze”18. Una storia che transita dall’ambiente “morale” di Disneyland19 in cui è vietato bere birra o da quello puritano di Facebook, che sanziona con molta più solerzia un utente sorpreso a postare l’Olympia di Manet che un emoticon giubilante alla notizia dei morti in mare. Risulta quindi impegnativo concordare con i consulenti del settore quando sostengono che, a causa della “mentalità squisitamente immobiliare del [loro] management”, le più recenti architetture dei centri commerciali non avrebbero contemplato una funzione estetica20. Ad averlo dichiarato è il fondatore di una società di ricerca sul 14 15 16 17 18 19

Bauman, Consumo, dunque sono, cit., p. 59. De Carolis, “Non salvateci più”, cit., p. 134. Baudrillard, La società dei consumi, cit., p. 4. Ivi, p. 213. Codeluppi, Metropoli e luoghi del consumo, cit., p. 73. George Ritzer, La religione dei consumi. Cattedrali, pelliginaggi e riti dell’iperconsumismo, trad. it. di N. Rainò, il Mulino, Bologna 2000, p. 12. 20 Paco Underhill, Antropologia dello shopping. Il fascino irresistibile dei centri commerciali, trad. it. di G. L. Giacone, Sperling & Kupfer, Milano 2004, p. 90.

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comportamento dei consumatori che oggi ha svariate sedi in tutto il mondo e per il quale i costruttori avrebbero ignorato che “l’esperienza dell’acquisto comincia con la prima occhiata all’edificio” 21. Certo, alla regola può fare eccezione il Vasco da Gama Center di Lisbona, dice, dove la struttura a forma di veliero obbedisce finalmente alle regole del marketing22, ma lo scenario più tipico nel quale si imbatte il cliente di un centro commerciale prevede quasi sempre “un grande muro con una piccola entrata, come la tana dei topi nei cartoni animati”23. Viene allora il sospetto che questa scena non sottovaluti minimamente l’importanza della “prima occhiata”, ma la tenga in grandissima considerazione, ricorrendo a una poetica che nella gloria di Tom & Jerry persegue lo stesso obiettivo delle guardie vistosamente armate all’ingresso dei mall brasiliani24. Allo stesso titolo, “rendendosi inaccessibili ai trasporti pubblici”, i centri commerciali degli Stati Uniti “riescono in buona misura a segregarsi da qualsiasi cosa che possa originare anche solo potenzialmente qualche timore”25, perché a servirsi degli autobus sono principalmente gli ispanici e gli afroamericani. Ma la recinzione percettiva della sicurezza genera insicurezza: è questa la scandalosa rendita delle politiche securitarie, proprio come il civismo che generava alienazione nella revanchist city di Neil Smith. Pur mantenendosi sempre in equilibrio tra la denuncia e l’intelligenza del branding, allora, mi pare che il lavoro di una celebrità come Banksy non abbia mai smesso di smascherare questo dispositivo, per esempio con la proposta di Dismaland, il “parco del disorientamento” inaugurato a Weston-super-Mare il 21 agosto 2015. Anche a Dismaland si accedeva attraverso un metal detector, ma di cartone, mentre gli addetti alla sicurezza urlavano ordini e svolgevano i loro enfatici controlli. Una volta entrato, il visitatore si imbatteva nei soliti animatori travestiti da Topolino, che però gli auguravano buon divertimento al colmo della debilitazione fisica e motivazionale. Non erano più gli apostoli ma i tossici della fun-morality. E del resto il colpo d’occhio era proprio quello di un parchetto abbandonato a se stesso, indecoroso e mal frequentato, dove le installazioni sem21 22 23 24 25

Ivi, p. 19. Ivi, p. 182. Ivi, p. 21. Ivi, p. 171. Ivi, p. 40.

NEI LUOGHI DELLE MERCI

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bravano vecchie giostre che continuavano inutilmente a sferragliare. Al centro di tutto svettava il castello di Ludovico II, di Biancaneve o di Rapunzel, ma lo si sarebbe detto più tozzo e simile a una fortezza espugnata e ridotta all’intelaiatura di un fondale. Inoltre, mentre la futura principessa stava rientrando dal ballo, il vetturino doveva aver perso il controllo della carrozza e ora i flash dei fotografi illuminavano il corpo senza vita di una povera sventurata. Il visitatore aveva già acquistato un palloncino nero con su scritto “I am an Imbecile”, aveva armeggiato con il radiocomando di una barchetta carica di profughi per farla ronzare da un capo all’altro dello stagno e adesso poteva finalmente ammirare il plastico di una periferia in cui gli unici sopravvissuti a chissà cosa erano cinquemila agenti di polizia, con le sirene delle automobili in sosta ancora accese, qualche palazzone, il buio dei campi, le ambulanze, un raccordo autostradale e la scientifica che rovistava nei bidoni dell’immondizia. Qualunque cosa fosse accaduta, quindi, ammesso che fosse realmente accaduta, le autorità non l’avevano potuta evitare e la loro funzione protettiva si era dunque capovolta nel significante di un’insicurezza trionfale, furtiva, che giocava d’anticipo e non dava scampo. Da qualche tempo, allora, accanto al portone di alcuni palazzi sono comparse delle targhe che delimitano uno spazio, lo recintano, proprio come lo spazio paradossale creato da Banksy, caratterizzando una piccola comunità di consumatori che per le ragioni più svariate non amano ricevere i dépliant pubblicitari. Effettivamente sembra che la ex dirigente comunale del primo piano non si sia più ripresa da una frattura al femore, tanto che adesso a portarle settimanalmente la spesa provvede la figlia. Al secondo piano stanno un notaio e una dermatologa che per nessun motivo al mondo passerebbero il sabato pomeriggio a sgomitare tra le corsie di un ipermercato: il pane lo comperano nella boutique all’angolo e per tutto il resto fanno con la gastronomia. Quando il pensionato del terzo ha saputo che l’amministratore proponeva di esporre quella targa, ha atteso con impazienza la riunione di condominio, perché tutte le volte in cui la moglie mette le mani su quei benedetti dépliant lo spedisce ad acquistare il vino in promozione. Ora finalmente possono stare tranquilli, tutti, perché hanno divulgato la notizia che non gradiscono ricevere pubblicità, ma nel loro rapporto con la medesima merce (quella che appare sui materiali informativi e la targa con la quale esibiscono il proprio disinteresse) danno pur sempre forma a una

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varietà di motivazioni e di esperienze singolari. L’oggettivazione del valore in quanto “lavoro astrattamente umano” non potrebbe aver luogo senza la contestuale differenziazione dei soggetti che si precisano nelle difficoltà di una donna inferma, nel desiderio di distinzione che dilaga tra la gente del secondo piano e nell’estenuazione coniugale del vecchio pensionato. Così, se da un lato il modello collettivo viene imposto nella forma paradossale della corrispondenza a se stessi, come sostiene Baudrillard26, dall’altro l’intero processo espone ogni condomino alla reificazione non ancora sperimentata né mai definitiva della propria esistenza. Perché “l’attuale – scrive Deleuze – non è ciò che siamo, ma piuttosto ciò che diventiamo, ciò che stiamo diventando”27 o la cosa ancora indeterminata che siamo mentre prende forma. Ma è proprio questa immanenza la principale ragione di insicurezza, forse, alla quale le merci rispondono con una promessa sempre rinnovata e inadeguata di protezione. Ed è la medesima promessa che la città punitiva del decoro serve a rilanciare e disattendere, con le recinzioni, per procurare al capitale ancora un quarto di santità.

26 Baudrillard, La società dei consumi, cit., p. 99. 27 Deleuze, Che cos’è un dispositivo?, cit., p. 73.

Finito di stampare nel mese di novembre 2019 per conto di ombre corte presso Sprint Service - Città di Castello (Perugia)