Il Sessantotto a Napoli con un’antologia di testi del Movimento Studentesco napoletano 9788865426326, 9788865426333


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Il Sessantotto a Napoli con un’antologia di testi del Movimento Studentesco napoletano
 9788865426326, 9788865426333

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Il bene dello Stato è la sola causa di questa produzione Gaetano Filangieri

Società di studi politici Scuola di Alta Formazione dell’Istituto Italiano per gli Studi Filosofici

Diotìma Questioni di filosofia e politica

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Il Sessantotto a Napoli con un’antologia di testi del Movimento Studentesco napoletano

A cura e con saggi di Gianfranco Borrelli, Vittorio Dini, Antonio Gargano

La scuola di Pitagora editrice

© 2018 La scuola di Pitagora editrice Via Monte di Dio, 54 80132 Napoli www.scuoladipitagora.it [email protected] isbn isbn

978-88-6542-632-6 (versione cartacea) 978-88-6542-633-3 (versione elettronica nel formato PDF)

Stampato in Italia – Printed in Italy

in ricordo di Emilio Del Giudice Ennio Galzenati Gerardo Marotta

INDICE

Il Sessantotto a Napoli: un’occasione perduta di Gianfranco Borrelli

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L’anno breve, annus mirabilis di Vittorio Dini

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La Sinistra Universitaria. A ppunti per una storia di Antonio Gargano

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Antologia di testi Movimento Studentesco napoletano

del

«Lavoro Politico» Napoli – Sinistra Universitaria

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«Università 1968». Scritti e documenti della Sinistra Universitaria di Napoli Premesse politiche Introduzione a un discorso sulla politica internazionale “Sinistra da governo” e opposizione rivoluzionaria Valore politico del Movimento Studentesco Nuovi obiettivi per il movimento universitario di opposizione La Sinistra Universitaria di Napoli: cronaca Cambiamenti delle forze produttive Gli avvenimenti francesi e l’“unità antifascista”

127 128 130 153 196 213 225 245 260

Movimento Studentesco napoletano – A rchitettura Cronaca di otto mesi di lotta studentesca a Napoli Dicembre 1967-luglio 1968 263 Premessa Gli antefatti Le agitazioni di dicembre e il ruolo della Sinistra Universitaria La prima fase dell’occupazione di Architettura Una fase di transizione Verso una linea di massa La linea di massa Il lavoro operaio

263 264 269 272 274 276 278 283

Movimento Studentesco napoletano – Architettura La Cecoslovacchia e gli studenti 299

Sinistra Universitaria Esperienze di lotta politica del Movimento Studentesco a Napoli

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Per una strategia del Movimento Studentesco Un’esperienza di lotta (20-29 gennaio 1969)

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Gianfranco Borrelli IL SESSANTOTTO A NAPOLI: UN’OCCASIONE PERDUTA

1. Anni Sessanta: una nuova soggettivazione in rivolta contro il sistema L’aspetto peggiore del nostro attuale sistema organizzato (organized System) di fare le cose è il suo carattere indiretto, la sua tendenza a confondere gli scopi reali. L’idea di affrontare direttamente necessità oggettive urgenti di carattere pubblico, come quella dell’alloggio e dell’istruzione, e di usare le nostre risorse immense e davvero sovrabbondanti per soddisfarle, è davvero tabù. Nel sistema a catena delle grandi imprese, la vita dei singoli, infatti, non consiste nel lavoro, ma nella posizione sociale, nella parte che si recita e nella proprietà; e ciascuno lavora per portare al massimo rendite, prestigio, voti, incurante della pubblica utilità o disutilità. (Paul Goodman, Growing up absurd, 1956) La società industriale contemporanea tende ad essere totalitaria. Il termine “totalitario”, infatti, non si

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Gianfranco Borrelli applica soltanto ad una organizzazione politica terroristica della società, ma anche ad una organizzazione economico-tecnica, non terroristica, che opera mediante la manipolazione dei bisogni da parte di interessi costituiti. Essa preclude per tal via l’emergere di una opposizione efficace contro l’insieme del sistema. Non soltanto una forma specifica di governo o di dominio politico produce il totalitarismo, ma pure un sistema specifico di produzione e di distribuzione, sistema che può essere benissimo compatibile con un “pluralismo” di partiti, di giornali, di “poteri controbilanciantisi”, ecc. (Herbert Marcuse, L’uomo a una dimensione, 1964) Lo scorso maggio, la parola è stata presa come nel 1789 è stata presa la Bastiglia. La piazzaforte occupata è quel sapere detenuto dai dispensatori di cultura, destinato a mantenere l’integrazione o la reclusione di studenti lavoratori e operai entro un sistema che prestabilisce la loro funzione. Dalla presa della Bastiglia alla presa della Sorbona, tra questi due simboli vi è una differenza essenziale che marca l’evento del 13 maggio 1968: oggi è la parola a essere stata liberata. (Michel de Certeau, La prise de parole, 1968)

Nei paesi occidentali e in tanti altri luoghi, a partire dagli Stati Uniti d’America, accade negli anni sessanta qualcosa di straordinariamente nuovo e singolare. Si tratta dell’inizio di una nuova soggettivazione, di comportamenti e di modi di pensare impegnati da inedite soggettività rivolte a realizzare una vita altra, segnata dalla ricchezza delle differenze e dalla cura autentica di sé e degli altri. Questo esercizio multiforme di pratiche trova espressione nelle esperienze infinite della sperimentazione artistica, nella letteratura, in

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campo musicale, nella fotografia e nella produzione cinematografica: in modo complementare e con grande difficoltà, si cerca di offrire a questi percorsi la rappresentazione di una nuova costituzione comunitaria, di una politica finalmente diversa. Risulta ancora oggi difficile comprendere la genealogia di tali percorsi: sicuramente questi processi prendono forma dal senso vivo delle privazioni e delle sofferenze vissute nel periodo della ricostruzione postbellica, dalla critica radicale che emergeva dai conflitti attivi nelle società occidentali, che pure vivevano le possibilità indotte dalla congiuntura positiva di un periodo di “capitalismo democratico”1. Cercando di far sentire la propria voce, moltitudini di giovani invadono piazze e luoghi pubblici in tante parti del globo: la gioventù assurda descritta da Paul Goodman combatte contro il sistema a Berkeley per l’estensione dei diritti civili2, i Provos in Olanda manifestano con le loro biciclette bianche contro il consumismo e per l’ecologia (1965), in Giappone la storica organizzazione degli Zengakuren decide di praticare una svolta radicale, la swinging London apre al pop e ai Beatles, a Praga gli studenti vivono la loro Primavera di lotta per la libertà (1968), operai e studenti combattono a Parigi la breve stagione del maggio francese, ed ancora le rivolte studentesche Wolfgang Streeck utilizza questa espressione, in Tempo guadagnato (Milano 2013), per designare nel primo trentennio postbellico il periodo di più intenso benessere prodotto nell’ambito storico del neocapitalismo. 2 Il libro importante di Paul Goodman, Growing up Absurd. Problems of Youth in the organized System (1956) viene tradotto in italiano con il titolo La gioventù assurda (Torino 1964). 1

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in Messico, Brasile, fino alla rivoluzione culturale in Cina. L’esplosione demografica del secondo dopoguerra scuote dappertutto, soprattutto in Occidente, i fragili confini delle società tradizionali e dei costumi ancora arcaici; la richiesta di massa per un’istruzione qualificata, la prospettiva di una piena emancipazione economica e di una società prospera di consumi, soprattutto la liberazione dei corpi e la diffusa ricerca di pratiche di godimento sessuale: tutti questi impulsi si confrontano e si scontrano nelle situazioni locali con il sistema dei poteri che governano il mondo. Al centro, come avviene nel film Zabriskie Point di Michelangelo Antonioni (1968) la realizzazione piena dei desideri contro una società ove domina incontrastato il sistema perverso della razionalità strumentale e della tecnologia asservite all’economia. Questa categoria di sistema che tutto sottomette alla logica della dominazione economica, mediatica, militare e politica, costituisce il punto critico di riferimento delle più impegnate scritture di quegli anni (vedi sopra il comune riferimento di critica al sistema da parte di Goodman, Marcuse, De Certeau). Centralmente, il ’68 è l’annuncio della necessità di combattere frontalmente i poteri distruttivi di questo sistema. Ad un certo punto, siamo a metà di quel decennio, avviene l’ulteriore precipitazione dell’azione consonante delle masse giovanili contro lo spettro devastante della guerra del Vietnam: sulle reti televisive del mondo intero scorrono le immagini orrende di un generale sudvietnamita che si fa gloria di uccidere a bruciapelo un vietcong, mentre una bambina nuda e terrorizzata corre cercando disperatamente di sottrarsi allo strazio

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del napalm. Una giovane umanità s’impegna ora a porre termine a questi orrori. La prima rappresentazione del rifiuto e della lotta si afferma dunque contemporaneamente attraverso le forme dell’espressione artistica, delle trasformazioni culturali e dell’impegno civile: tanto accade come elemento universale di quella rivolta che assume una veste mondiale, quella appunto nominata con la data fatidica del Sessantotto. Nei decenni successivi capiremo che questa esplosione di comportamenti inediti e di nuova creatività umana sta aprendo in modo straordinario alla costruzione di un autonomo controcanto ai processi di crisi della soggettivazione rivoluzionaria moderna, partita a metà Ottocento con il 1848, che sta vivendo un’ultima fase di normalizzazione3. Tutte queste inarrestabili insorgenze hanno appunto in comune, in forma universalistica, l’elemento antisistemico4: peraltro, le rivolte degli studenti e delle parti sociali, il rigetto di ogni genere d’autoritarismo (nella Per approfondire le vicende relative all’affermazione e al processo di esaurimento di quel tipo di soggettivazione rivoluzionaria, rinvio ad un mio lavoro in cui rielaboro un prezioso suggerimento di Michel Foucault: G. Borrelli, Per una democrazia del comune. Processi di soggettivazione e trasformazioni governamentali all’epoca della mondializzazione, in Dalla rivoluzione alla democrazia del comune. Lavoro, singolarità, desiderio, a cura di A. Arienzo e G. Borrelli, Napoli 2015. 4 Giovanni Arrighi, Terence H. Hopkins, Immanuel Wallerstein svolgono la loro tesi secondo cui i movimenti del 1968 assumerebbero una forma di lotta specificamente antisistemica nei saggi contenuti in Antisystemic Movements, Roma 1992; secondo questi autori qualcosa del genere, su scale diverse, sarebbe accaduto pure nel 1848. 3

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famiglia, nelle università e nella scuola, nelle fabbriche, nelle istituzioni d’ogni genere), la lotta per l’estensione dei diritti civili assumono profili e configurazioni che risultano specifiche per i diversi contesti. Durate degli eventi, capacità d’intervento dei soggetti e dei collettivi, resistenze passive da parte delle comunità locali, conseguenze ed approdi effettivi delle lotte sociali e politiche: tutto questo assume figure e toni differenti in relazione alle storie ed alle culture locali. Negli Stati Uniti, i movimenti di rivolta avevano prodotto un lucido progetto di azione grazie al famoso documento di Port Huron (1962), elaborato dai leaders degli Students for democratic society: dapprima, ci si opponeva dichiaratamente a quella «economia telecomandata che esclude la massa dei singoli individui dalle decisioni di base che influiscono sulla natura e sull’organizzazione del lavoro, sullo stipendio, sulle opportunità»; quindi, venivano denunciate la spersonalizzazione e la malinconia diffuse nel popolo americano: «se solitudine e isolamento descrivono la distanza esistente oggi tra gli uomini, bisogna invece puntare su autodeterminazione, autocomprensione e creatività»; ancora, veniva in dettaglio analizzata la condizione di degrado del governo rappresentativo negli USA (laddove aveva preso origine nella seconda metà del Settecento5): A motivo dell’ignoranza diffusa in Italia relativamente alla storia e alla teoria del governo rappresentativo conviene rinviare al fondamentale lavoro di Bernard Manin, Principes du gouvernement représentatif, Paris 1996; prima edizione parziale pubblicata in Italia, La democrazia dei moderni, Milano 1992; quindi, la traduzione integrale I principi del governo rappresentativo, a cura di I. Diamanti, Bologna 2011. 5

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in particolare veniva con vigore messo sotto accusa quel sistema di potere «dominato da un intreccio di democratici del Sud con gli elementi più conservatori del partito repubblicano»; infine, veniva presentato il proprio progetto di lotta come il «tentativo faticoso di capire e cambiare la condizione dell’uomo del XX secolo, uno sforzo che si radica nella convinzione che egli possa influenzare in modo determinante le circostanze della propria vita»6. Da qui prese avvio pure il Free speech movement nell’Università di Berkeley guidato da Mario Savio; e dopo vicende politiche travagliate quell’organizzazione ebbe termine nel 1969. In Francia l’intensa stagione di lotte del ’68 durò pochi mesi, chiusa dall’esito delle elezioni anticipate volute da de Gaulle (30 giugno): qui il governo rappresentativo funzionava e spiegava agli sconfitti che, per migliorare la qualità della democrazia francese, bisognava inventare dispositivi governamentali del tutto originali. A Praga, dove non esisteva governo rappresentativo, il pronto intervento dei carri armati del Patto di Varsavia pose termine alle speranze di libertà dei cecoslovacchi a fine agosto. In Italia, le rivolte studentesche hanno storie e periodizzazioni proprie dei diversi contesti regionali; nel nostro paese governa un sistema politico bloccato, che non garantisce alternanza politica all’opposizione repubblicana, socialista e comunista: una composizione di poteri diversi – il padronato capitalistico, una destra Le Note da Port Huron, furono elaborate da Alan Haber e Tom Hayden; vedi Le radici del ’68. I testi fondamentali che prepararono la rivolta di una generazione, Milano 1998, pp. 3-107. 6

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politica che si avvantaggia della rappresentazione del potere pastorale cattolico, il sostegno coperto delle forze mafiose e massoniche – produce attivamente un quadro maggioritario di immutabile conservazione politica. Contro questa situazione si proietta la nuova ondata generazionale: nelle fabbriche del Settentrione ed ovunque nelle università e nelle scuole: tanti soggetti giovani, motivati e coraggiosi, decidono di prendere la parola. Si tratta di portare a compimento il progetto della Costituzione repubblicana: dare finalmente piena realizzazione anche nel nostro paese al normale funzionamento del governo rappresentativo. I movimenti di contestazione delle nuove generazioni segnalano la complessità degli antagonismi in campo proponendosi di utilizzare nelle lotte nuovi linguaggi e strategie differenti. Peraltro, il ’68 in Italia è solo l’inizio e la dichiarazione della rivolta; un’altra distinta storia avranno i percorsi rivolti a convertire quell’annuncio nell’impegno più duro di trasformazione sociale e politica del paese che impegnerà un decennio durissimo di conflitti e di lotte. Una parte consistente di queste masse giovanili pensa pure che sia indispensabile un evento di rottura, una vera e propria rivoluzione politica e sociale. In realtà, è minima la consapevolezza dello squilibrio tra le forze in campo; chi gestisce in modo conservativo il potere dapprima appare disorientato, quindi adotterà tutti i mezzi per reprimere e far scomparire il movimento. La rivolta studentesca tende comunque ad uscire subito dalle università e a diventare progetto politico generalizzato. Quali dispositivi politici queste parti saranno in grado di mettere in campo?

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2. Il 1967 a Napoli: si prepara la festa Una specie di festa (quale liberazione non è una festa?) ha trasformato dall’interno questi giorni di crisi e di violenze – una festa legata, ma non riducibile, ai giochi pericolosi delle barricate o allo psicodramma di una catarsi collettiva. Qualcosa ci è successo: dentro di noi qualcosa ha cominciato a muoversi. (Michel de Certeau, La prise de parole, 1968)

Anche a Napoli gli eventi della rivolta delle nuove generazioni e delle lotte studentesche riferiti alla mitica data del Sessantotto sono certamente da retrodatare. Per la città, lungo tutti gli anni sessanta, vale la narrazione di percorsi straordinari di produzione artistica e culturale imbevuti di pratiche di rivolta civile e d’impegno politico. In particolare, quell’anno 1967 per Napoli fu annus mirabilis (come descrisse in versi bellissimi Philip Larkin il 1963 per l’Inghilterra7). 7 Ecco i versi della breve poesia di Larkin, Annus mirabilis (1974): Sexual intercourse began / In nineteen sixty-three / (which was rather late for me) / Between the end of the “Chatterley” ban / And the Beatles’ first LP. –– Up to then there’d only been / A sort of bargaining, / A wrangle for the ring, / A shame that started at sixteen / And spread to everything. –– Then all at once the quarrel sank: / Everyone felt the same, / And every life became / A brilliant breaking of the bank, / A quite unlosable game. –– So life was never better than / In nineteen sixty-three / (Though just too late for me) / Between the end of the “Chatterley” ban / And the Beatles’ first LP [Un’autentica vita sessuale cominciò / nel millenovecentosessantatré / (che era già piuttosto tardi per

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Innanzitutto, anno fervido di produzione culturale ed artistica. Ricordiamo alcuni passaggi: alla galleria Il Centro mostra delle opere di Mario Sironi (gennaio), al teatro Politeama in scena Medea di Jean Anouilh con Anna Magnani (27 gennaio), Emilio Notte alla Galleria Mediterranea (4 febbraio), Pierre Klossowski interviene su Sade et le fait d’ecrire (16 marzo), al teatro Mediterraneo Virginio Puecher presenta L’istruttoria di Peter Weiss (18 aprile), all’Istituto Grenoble incontro con Georges Simenon, al Centro Teatro Esse SpatolaSanguineti-Miccini-Pignotti rappresentano Spasamiolipi (28 aprile), alla Modern Art Agency mostra di Dieter Hacker (29 aprile), interventi di Roland Barthes alla libreria Guida e all’Istituto Grenoble (12 e 15 maggio), il Living Theatre mette in scena al Politeama Frankenstein da Shelley e Antigone di Brecht (23 e 24 maggio; in più una performance pubblica a via Toledo viene interrotta dalla polizia); a Villa Pignatelli incontro con Allen Ginsberg presentato da Fernanda Pivano (30 settembre)8; presso l’Auditorium della RAI viene eseme) / tra la fine del bando a Lady Chatterley / e il primo ellepi dei Beatles –– Fino ad allora c’era stato solamente / una sorta di traffici d’affari / una disputa dura per entrare in gioco, / un senso di vergogna che iniziava a sedici anni / e si estendeva ad ogni cosa –– Poi, all’improvviso, il litigio cessò / ci sentivamo tutti uguali / e ogni vita diventò / una rottura briosa del banco, / un gioco a cui non si poteva perdere –– Così la vita non fu mai migliore / che nel millenovecentosessantatré / (anche se un po’ troppo tardi per me) / tra la fine del bando a Lady Chatterley / e il primo ellepi dei Beatles]. 8 Di Fernanda Pivano vale la pena ricordare in quegli anni la splendida pubblicazione in due volumi L’altra America negli anni sessanta, Roma 1971-72.

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guita la straordinaria sperimentazione di Luigi Nono “A floresta”9. Possiamo anche provare a elencare i nomi di alcune istituzioni pubbliche e private che danno vita a importanti eventi artistici e promuovono diffusamente formazione culturale: le gallerie Il Centro, Mediterranea, Modern Art Agency; le librerie con la saletta rossa della Libreria Guida, Macchiaroli, la sede d’incontri de La Nuova Italia; per la produzione teatrale il Politeama, San Ferdinando, Teatro Instabile, Cine Teatro Esse, Executive Club, Piccolo teatro della Mostra; i molti locali cinematografici che organizzano rassegne critiche: Astra, Amedeo, Lux, Cine Club, Dopolavoro PP.T.T., Gruppo Nuova Cultura; da segnalare in particolare, i cineforum cattolici del Vomero e di via San Sebastiano. Ed ancora gli spazi di Villa Pignatelli, la Biblioteca dello Stabilimento Olivetti di Pozzuoli, la sala “Mario Alicata” nella federazione del Partito Comunista Italiano. Le generazioni nate nell’immediato dopoguerra si formano in questa situazione ricca di tante sollecitazioni culturali che incoraggiano certamente all’impegno civile e di solidarietà; per lo stesso anno 1967 possono essere segnalate a Napoli associazioni e circoli, espres9 La maggior parte delle informazioni che hanno reso possibile questa ricostruzione di avvenimenti dell’anno 1967 proviene dalla cronologia, che abbraccia gli eventi internazionali, nazionali e locali degli anni 1967-1969, prodotta dal collettivo che diede vita alla mostra di Napoli frontale. Documenti, immagini e suoni a Napoli. Politica, soggetti sociali, ed altre storie (Napoli 1998); in particolare, per questo lavoro bisogna ringraziare i bibliotecari dell’Emeroteca della Biblioteca Nazionale di Napoli.

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sioni del più vivo dibattito socialista e comunista, che svolgono un’intensa attività di formazione ideologica e d’intervento politico: il Comitato per la pace e la libertà nel Vietnam guidato da Gustavo Hermann e Bruno Vitale, il Circolo “Che Guevara” nella sezione del PCI al Vomero con la presenza di Lidia Cirillo, il circolo “Carlo Pisacane” con Mario Benvenuto, il circolo “Rodolfo Morandi” sede di discussione degli iscritti del PSIUP napoletano, e particolarmente attivo il circolo “Francesco de Sanctis”, fondazione storica di Giuseppe Di Lillo10. Proprio in questa sede il 13 marzo di quell’anno si tenne un’affollata manifestazione in cui venivano presentati i volumi di Hal Draper, La rivolta di Berkeley. Il movimento studentesco negli Stati Uniti (1965) e di Gianfranco Corsini, L’America del dissenso (1966) con l’intervento di Roberto Giammanco, curatore del volume di Draper11. In città si vive quotidianamente la rappresentazione fervida e drammatica delle profonde sofferenze sociali indotte dal ripiego della grande avanzata economica del dopoguerra. Innanzitutto, le condizioni di miseria estrema vissute dai baraccati, di quanti hanno perduto la casa sotto i bombardamenti e sono ancora senza dimora, accampati in tante zone, dal rione Siberia a Per questo importante punto di riferimento della cultura impegnata a Napoli vedi la ricostruzione di V. Maone e V. Marmo, Il circolo di cultura Francesco De Sanctis (1960-1967). Ricordi e testimonianze, Napoli 2011. 11 All’epoca Roberto Giammanco aveva pubblicato due importanti lavori: Dialogo sulla società americana (Torino 1964) e Black Power. Potere negro (Bari 1967). 10

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Poggioreale e a Gianturco12; qui interviene il sostegno di carità di tanti cattolici organizzato da padre Mario Borrelli, soggetto d’intensa spiritualità, studioso di prim’ordine, sempre attento a tenere distinta l’opera di misericordioso aiuto dalle vicende degli interessi politici13. Ancora, le manifestazioni dei braccianti agricoli che attraversano periodicamente la città per migliorare il loro trattamento salariale (vedi i cortei del 26 gennaio e del 24 aprile); scontri destinati a durare a lungo fino ai tragici avvenimenti di Avola a fine del 1968. Quindi, il lungo elenco delle lotte degli operai dell’industria: i cantieristi di Castellammare di Stabia, gli scioperi dei lavoratori dell’AERFER di Pomigliano d’Arco, dell’Italsider a Bagnoli, della Cirio, della Deriver di Torre Annunziata: tutte fabbriche in fase di ristrutturazione, con licenziamenti già programmati. Gli stabilimenti della Soleri vengono occupati, mentre è particolarmente dura la situazione della CONE-CGE di San Giorgio a Cremano, dove la fabbrica viene dapprima chiusa, quindi occupata e poi sgomberata con l’intervento della polizia. Di seguito, le proteste dei combattivi autisti e del personale dell’azienda comunale dei trasporti ATAN. Tutto questo malessere converge nella giornata di sciopero generale per l’occupazione del 23 ottobre, 12 Vedi il contributo di Domenico Pizzuti, Esperienze di gruppi volontari operanti nei rioni periferici di Napoli, in «Il Tetto», n. 17/18, 1966, pp. 44-58; ed ancora il saggio di Antonio Drago, Lotte di quartiere a Napoli, in Le lotte per la casa in Italia. Milano, Torino, Roma, lavoro, a cura di A. Daolio, Milano 1975, pp.125-206. 13 Mario Borrelli racconta la storia della fondazione della Casa dello scugnizzo nel volumetto Napoli d’oro e di stracci, scritto in collaborazione con Anthony Thorne, Torino 1965.

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alla quale partecipano un numero enorme di studenti dell’università e delle scuole. Negli stessi mesi, affianco a queste lotte sociali, partiti e movimenti democratici danno prontamente vita a manifestazioni – a Napoli come in tutta Italia – in sostegno del Vietnam devastato dalla violenza delle armate USA e contro il colpo di stato realizzato dai colonelli in Grecia. In tale contesto intervengono le lotte dell’Università, provocate dalla proposta di riforma della legge presentata dal democristiano Gui, cosiddetta 2314. In realtà, la situazione dell’Università di Napoli “Federico II” era già nel vortice del dibattito politico cittadino, con dure prese di posizioni del Consiglio comunale, di partiti e sindacati; si trattava della gestione da parte delle autorità accademiche dell’ampliamento delle sedi universitarie. Negli ultimi anni era venuta infatti a maturazione tale necessità a motivo dell’enorme e crescente numero delle iscrizioni; infatti, a quell’epoca, l’Università di Napoli faceva da bacino a tutte le regioni meridionali e si era vicini a raggiungere il numero dei cinquantamila iscritti. Al rettore e al Consiglio di amministrazione si rimproverava (con veemenza) di decidere senza trasparenza e in modo imperativo sulla localizzazione dei nuovi insediamenti; soprattutto veniva paventata la manovra di smembrare e frazionare il corpo centrale dell’ateneo in modo episodico e senza pianificazione. Il Libro bianco sull’edilizia universitaria (1966), prodotto dalle associazioni dei docenti democratici e dai rappresentanti degli studenti (ANPUI, ANAU e ORUN), divenuto molto noto anche perché conteneva documentate informazioni sull’acquisizione dei terreni del costruendo Policlinico a Cappella

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Cangiani da parte di imprenditori legati a personaggi interni all’accademia, stigmatizzava un preciso orientamento delle autorità accademiche: «Si viene così a realizzare uno smembramento del corpo universitario per il territorio cittadino, vanificando la possibilità di collegamenti funzionali tra le varie discipline e rendendo impossibile la formazione di centri interdisciplinari… contemporaneamente si aggraverebbe la mancanza di comunicazione organica tra l’Università e la comunità civile… Lo smembramento delle Università in Facoltà staccate, articolate in istituti separati, come si profila per l’Università di Napoli, sembra quasi un deliberato preventivo sabotaggio di qualsiasi anche moderato tentativo di riforma»14. Intanto, in tutta Italia partivano agli inizi dell’anno dure iniziative di lotta contro la proposta di legge Gui. Nei giorni in cui si sarebbe dovuta tenere a Pisa la Conferenza Nazionale dei Rettori, i rappresentanti delle Università occupate (Pisa, Cagliari, Firenze, Bologna, Roma, Torino, Camerino) l’8 febbraio si rinchiudono nel palazzo della Sapienza, sede storica dell’università di quella città. Nasce il nuovo movimento studentesco che pone termine ai tradizionali istituti di rappresentanza. Gli occupanti della Sapienza danno origine ad un documento di piattaforma programmatica come proposta da sottoporre ai movimenti studenteschi degli atenei italiani. I punti principali del Progetto di tesi del sindacato studentesco riguardano la denuncia della politica verticistica dei rappresentanti eletti negli organismi rappresentativi che lavorano da tempo ad 14

Ivi, pp. 8-9

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un’alleanza tra forze di sinistra e cattolici; viene quindi centralmente lanciata la proposta di dare vita ad un’organizzazione di tipo sindacale, di rendere obbligatoria ovunque l’attuazione dei dipartimenti come assemblea di tutti coloro che vi lavorano, intraprendere una dura vertenza per l’estensione del diritto allo studio15. Anche a Napoli prende avvio la politicizzazione piena del movimento di lotta nell’università: gli eventi si susseguono incalzanti. Nello stesso mese di febbraio vengono occupate molte facoltà; gli studenti combattono contro il progetto di riforma Gui ed anche manifestano in massa contro la guerra del Vietnam e il colpo di stato in Grecia; numerosi gli scontri con i fascisti che manifestano a favore della dittatura greca. A fine aprile viene occupata l’Università centrale (dal 26 aprile fino al 5 maggio); quindi tocca alla facoltà di Architettura (5 maggio; il giorno successivo la polizia chiamata dal rettore sgombra Palazzo Gravina; dall’11 al 14 maggio la facoltà resta di nuovo occupata). Sul fronte dello scontro politico nel movimento studentesco, il congresso provinciale dell’UGI (26 e 27 maggio) vede la formazione di una forte opposizione interna che, nel giro di poche settimane, si organizza in modo autonomo come Sinistra Universitaria; dopo il congresso nazionale dell’UGI tenuto a Rimini (XVI e penultimo congresso: 28-30 maggio), quel primo raggruppamento prende distanza definitiva dall’UGI 15 Le tesi della Sapienza vengono pubblicate prontamente su «Nuovo Impegno», nov. 1966-aprile 1967, nn. 6 e 7, pp. 66-94. La costruzione di un sindacato degli studenti era stata discussa qualche tempo prima all’interno della FGCI e dell’UGI.

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e dagli organismi della rappresentanza studentesca (UNURI); tanto viene espresso nel primo Bollettino della SU (luglio 1967), dove troviamo l’annuncio della formazione della corrente interna all’UGI. Quindi già nel Bollettino successivo dell’agosto viene rappresentata la piena autonomia del progetto politico del folto gruppo di docenti e studenti: da questo punto prende corpo il soggetto che eserciterà a lungo un’egemonia politica nella maggior parte delle facoltà dell’ateneo e farà da riferimento alle lotte degli studenti dell’università e delle scuole a partire dall’ottobre successivo. In quel testo troviamo scritto: «Riprendere la tradizione teorica del movimento operaio, estenderla, arricchirla è il compito duro, ma essenziale, degli studenti di sinistra. Studiare quello che viene messo al bando e falsificato, respingere le allettanti sirene dell’inserimento nella società dei padroni, costruire una prospettiva di lungo periodo. Unificare le lotte di operai, studenti e contadini». La Sinistra Universitaria cerca di mettere mano ad un progetto politico complessivo. Intanto viene organizzata l’occupazione simbolica dell’Università centrale per denunciare l’uccisione di Che Guevara (18 ottobre): in quest’occasione i responsabili della FGCI (i giovani comunisti) impongono ai loro iscritti di allontanarsi dall’edificio centrale, mentre la polizia interverrà per fermare una parte degli occupanti che nel pomeriggio vengono via dall’ateneo. Con piena autonomia di soggetto politico, la Sinistra Universitaria partecipa all’incontro organizzato a Milano da Giangiacomo Feltrinelli e da «Nuovo Impegno» (11-12 novembre) tra i movimenti studenteschi della Germania occidentale e

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quelli italiani. Nella relazione tenuta dagli esponenti della SU si legge la motivata presa di distanza dal PCI ed anche dai gruppetti che operano a lato della sinistra politica tradizionale16. A fine 1967 prende corpo in tutte le università italiane il periodo fervido delle occupazioni delle università organizzate da soggetti decisamente antagonistici, che operano al di fuori del quadro tradizionale delle forze politiche che fino a quel punto governavano per conto dei partiti politici (con sigle diverse: FUCI, AGI, UGI, etc.) all’interno dei parlamentini delle Università. La critica all’istituzione universitaria era stata diretta dapprima contro il progetto di riforma Gui; sotto processo erano state poste le forme autoritarie e inefficienti di una didattica considerata non più idonea alla scolarizzazione di massa. Ora la critica viene via via investendo l’intera istituzione universitaria come luogo di quella funzione selettiva della formazione dei saperi e delle classi dirigenti rivolta esclusivamente a perpetuare il potere economico e politico; queste nuove generazioni annunciano di volersi impegnare nella trasformazione radicale dei rapporti di forza tra le parti sociali. Le occupazioni assumono ovunque un carattere pienamente autonomo; agli inizi di novembre viene occupata la Facoltà di sociologia a Trento, quindi Tra i numerosi soggetti presenti a quell’incontro conviene ricordare Romano Luperini e Gian Mario Cazzaniga per l’Università di Pisa, Renato Curcio per Trento, Sigrid Fronius per conto della SDS (Sozialisticher Deutscher Studentenbund). Il collettivo della Sinistra Universitaria aveva deciso di inviare a quell’incontro Gianfranco Borrelli, Vincenzo Sparagna e Ugo Troya. 16

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tocca all’Università Cattolica di Milano (17 nov.) ed a fine mese Palazzo Campana a Torino (27 nov.). Gli studenti decidono a Napoli di occupare l’Università centrale il giorno 11 dicembre: la partecipazione è enorme e l’assemblea svolge dibattito e votazione all’aperto, sullo scalone della Minerva; la polizia interviene per prevenire l’occupazione, ma questa viene portata a termine con successo il giorno successivo. La massa degli studenti comprende le ragioni della protesta ed aderisce alle forme estreme della contestazione. Nelle settimane di fine anno, bisogna pure ricordare qualche voce isolata che esprime la preoccupazione per la radicalizzazione ideologica che il movimento sta assumendo e per i possibili rischi conseguenti all’affermazione di un primato divisivo e dirompente della politica. Luciano Caruso, poeta visivo, esorta gli occupanti a non trascurare quelle pratiche di gioia e di cura di sé che stanno alla radice della nuova stagione di lotta, di comportamenti e linguaggi effettivamente differenti; propone allora al movimento di fare proprio un manifesto in cui la parola FESTA, riprodotta per tre volte, dalla pienezza della prima scrittura viene via via presentando incrinature e crepe sempre più marcate e preoccupanti. Il movimento rifiuta17.

Per questa vicenda vedi il secondo catalogo della mostra Napoli frontale. Documenti, immagini e suoni sul Sessantotto a Napoli. Teatro, arti visive e letteratura (Napoli 1998), p. 16. 17

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3. Parliamo almeno di un personaggio: Ennio Galzenati Quanti parlano di rivoluzione e di lotta di classe senza riferirsi esplicitamente alla vita quotidiana, senza capire quel che c’è di sovversivo nell’amore e di positivo nel rifiuto delle costrizioni, costoro hanno in bocca un cadavere. (Raoul Vaneigem, Trattato del saper vivere, 1967)

I soggetti che parteciparono agli eventi del Sessantotto a Napoli da sempre avevano deciso di non infrangere nelle pratiche del movimento, nelle scritture e negli interventi politici, la regola indiscutibile di dare forma impersonale agli avvenimenti. Negli eventi delle rivolte studentesche in tutta Italia è restata preponderante la forma anonima e impersonale delle iniziative di lotta; è accaduto, tuttavia, che in molte situazioni già a quell’epoca figurano i nomi di leaders e di personaggi che assumeranno in seguito la figura di guide carismatiche o almeno di imprescindibile riferimento politico. Leggendo le cronache degli avvenimenti napoletani impressiona certamente il fatto che, ancora fino ai nostri giorni, al di fuori dello stretto numero di persone che vi parteciparono, non si conoscono nomi e profili dei soggetti che a vario titolo contribuirono a quell’esperienza. Forse anche per tale elemento è derivata l’attenzione scarsa per il ’68 napoletano nel campo della ricostruzione storiografica e della critica; peraltro, più generali e complesse sono le motivazioni che possono spiegare la costante disattenzione da par-

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te della pubblicistica e del sistema dell’informazione in Italia per gli eventi che segnano percorsi di critica autonomia provenienti dalle comunità meridionali. L’autentica cultura del Sud dell’Italia peraltro ha da sempre tenuto a sedimentare nel silenzio e fuori dal clamore mediatico il senso profondo di esperienze esistenziali, differenti stili di vita e della stessa ricerca teorica. Oggi appare tuttavia necessario soffermarsi più estesamente su di un personaggio, di recente scomparso, che resta un punto fermo di riferimento per molteplici generazioni – certamente non solo per quegli anni sessanta – e che ci consente di ricostruire le reti dei percorsi principali e pure delle molteplici diramazioni della cultura civile napoletana che viene assimilata in una parte consistente del movimento studentesco di quegli anni, appunto la Sinistra Universitaria. Parlare di Ennio Galzenati consente di aprire alle esperienze vive delle riflessioni, degli scambi intellettuali, delle discussioni approfondite che in periodi particolari della vita – in questo caso per tanti giovani di quel periodo – hanno segnato il tessuto di senso rivolto alla formazione della nostra interiorità, agli sforzi di trasformare noi stessi per vivere in sintonia con gli altri. Nella seconda metà degli anni sessanta, Galzenati fa parte del gruppo di lavoro dedicato a campi e stringhe con Emilio Del Giudice, Renato Musto, Francesco Nicodemi e Roberto Pettorino; in seguito, negli anni settanta, con Ruggiero de Ritis e Giovanni Platania viene costituito il gruppo di ricerca su relatività generale e cosmologia. L’Istituto di Fisica Teorica napoletano svolge in quel periodo un’intensa attività scientifica coordinata dapprima da Eduardo Caianiello, Bruno

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Vitale e Roberto Stroffolini; in seguito si affiancheranno Giulio Cortini e Ettore Pancini. Qui, intorno a Galzenati, si forma il primo nucleo che troverà espressione nell’organizzazione della Sinistra Universitaria; ai primi nomi si aggiungono Elena Sassi, Guido Barone, Nanni Sartoris, Giovanni Criscuolo, Ugo Troya, e tanti giovani come Eliana Minicozzi, Piero Lo Sardo, Alfredo Laudiero, Sergio Cavaliere. Da giovane, nei primi anni cinquanta, Galzenati (nato il 1931) ha preso parte all’attività del Gruppo Gramsci che opera dapprima come espressione della Commissione culturale del PCI napoletano guidata da Guido Piegari, Gerardo Marotta e Gaetano Macchiaroli; oltre Piegari e Marotta, a questo gruppo, che ha posto al centro della propria ricerca i temi della questione meridionale, partecipano personaggi quali Ugo Feliziani e Giovanni Allodi. In seguito ad un confronto serrato con la direzione locale del partito, rappresentata da Giorgio Amendola, Giorgio Napolitano e Gerardo Chiaromonte, l’attività svolta da quei soggetti viene sottoposta a critica poiché non conforme alla politica del partito e quei soggetti vengono allontanati. L’attività del gruppo durerà ancora poco, fino agli inizi del 195618. Proprio al termine di questa esperienza vengono profilandosi i tracciati molteplici L’attività politica del Gruppo Gramsci prende avvio dalla fine del 1948 e viene a termine a fine 1954; a tutt’oggi la più approfondita ricostruzione di quelle vicende è costituita dal saggio di Giovan Giuseppe Monti, Guido Piegari, il Gruppo Gramsci e la Federazione napoletana del PCI, in G. G. Monti, F. Palazzi, G. Perconte Licatese, (a cura di), Tra ordine e conflitto. Filosofia, economia e politica nel Novecento europeo, Roma 2017, pp.14-36. 18

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dell’impegno culturale di Galzenati, che si affiancano in sostanza ai contenuti della sua ricerca di fisico; in verità molti dei docenti appartenenti all’Istituto di Fisica Teorica ampliano l’orizzonte dei propri studi in maniera impressionante19. Innanzitutto, dopo l’uscita del Gruppo Gramsci dal PCI, emerge con forza nei soggetti coinvolti l’impegno allo studio filosofico e in particolare di Hegel; tra la fine del 1955 e i primi mesi dell’anno successivo, Guido Piegari mette mano ad alcuni studi sulle categorie di dialettica e di storia nel filosofo tedesco (Enciclopedia, paragrafi 47-66); questi saggi vengono commentati e pubblicati molti anni dopo da Galzenati e da Feliziani20. Gli elementi della lettura 19 Questi personaggi vivevano la ricerca come impegno permanente di vita che inevitabilmente portava a congiungere lo studio delle scienze fisico-biologiche con i saperi storico-umanistici. Ricordo tre studiosi, purtroppo tutti scomparsi. Emilio Del Giudice affianca agli studi pioneristici sulla fusione fredda altri contenuti di ricerca come quelli dei comportamenti anomali dell’acqua in rapporto alla struttura della materia e alla cura omeopatica: vedi il breve interessante scritto introduttivo di Del Giudice al libro di Roberto Germano, Aqua. L’acqua elettromagnetica e le sue mirabolanti avventure, Napoli 2006, pp. 15-19; Ruggero de Ritis pubblica un lavoro su Il tempo in Freud (Napoli 1991); Renato Musto si dedica alla ricostruzione della storia della classe operaia negli USA: vedi la pubblicazione del saggio Gli I.W.W. e il Movimento Operaio Americano, Napoli 1975 (la casa editrice Thélème, che stampa il libro, è espressione del movimento di lotta di quegli anni); inoltre, appassionato di musica e storia della musica, insieme con Ernesto Napolitano pubblica Una favola per la ragione. Miti e storia nel “Flauto magico” di Mozart, Milano 1982. 20 Compare dapprima il breve testo di Piegari curato da Galzenati, La filosofia tedesca e il tentativo di Hegel (Napoli 2008); quindi il più corposo volume Speranze di civiltà. Una riflessione

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che Piegari fa di Hegel, sottolineati nell’introduzione ai volumi dei due curatori, richiamano l’importanza della nozione di dialettica che denuncia l’univoca riduzione di tutta la realtà a materia, aprendo piuttosto ad una più complessa concezione del mondo della vita; contro i limiti meccanicistici del materialismo dialettico, Piegari – ed anche Galzenati – sono interessati a sottolineare gli elementi accidentali e irrazionali che pervadono la realtà storica e le composizioni spirituali. Esiste un insieme della pratica sociale, che riguarda i comportamenti morali dei soggetti ed anche i dispositivi del diritto, che deve costituire il complesso di riferimento principale della teoria critica e dovrebbe essere assunto a riferimento principale di una politica liberata; nei suoi ultimi scritti, confermando la sua adesione al progetto di critica dell’economia politica di Marx, Galzenati arriva a precisare che «l’effettivo vivente movimento marxista non riuscì a rappresentare, e meno che mai per le grandi moltitudini, una proposta di esistenza che si ponesse in continuità […] con la tradizione del movimento operaio e col suo rifiuto dei modelli di vita che costituivano l’ossatura del cosiddetto capitalismo». Da un lato, viene ribadita l’importanza delle nuove condotte di vita di quei soggetti, operai e non, che a partire dalla seconda metà dell’Ottocento aprono con creatività e godimento ad un vivere altro; insieme, esplicita è la critica a quelle espressioni del movimento di lotta «che traeva ispirazione dal marfilosofica degli anni cinquanta, curato da Ugo Feliziani, che contiene gli studi di Piegari su Kant, Hegel ed ancora sul saggio di Engels dedicato a Feuerbach.

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xismo ma rimaneva essenzialmente e riduttivamente politico»21. Da queste profonde convinzioni derivava, già nella riflessione di Galzenati degli anni sessanta, la necessità di interporre distanza rispetto ai due notevoli complessi sistemi di pensiero che trovavano ancora convinto riconoscimento a Napoli negli anni del secondo dopoguerra: da un lato, lo storicismo di Croce, certamente apprezzabile per il suo radicale laicismo, che tuttavia richiamava la centralità dell’impegno di libertà dei soggetti nella determinatezza di un presente inteso come indifferenziata e speculativa rappresentazione dello scorrere vitale dello Spirito; per un altro versante, egli ribadiva l’impossibilità di accogliere le istanze deterministiche dell’analisi di Amadeo Bordiga, che a Napoli viveva ed ancora influenzava ridotti nuclei di comunisti; per quanto apprezzabile fosse il comportamento di coerenza che ancora sorreggeva il fondatore a Livorno del Partito comunista d’Italia ad approfondire l’analisi dell’economia imperialistica e del capitalismo di stato in URSS, la disattenzione teorizzata per i modelli di vita e per le pratiche della soggettivazione rivoluzionaria aveva ridotto lo sforzo teorico di Bordiga alla completa inazione politica. Non era allora un caso che Galzenati rivolgesse in quegli anni il proprio interesse ai cambiamenti nell’organizzazione della divisione del lavoro e nei modelli di condotta degli operai e dei lavoratori delle grandi imprese pubbliche e private. Intanto, nelle frequenti Queste sintetiche riflessioni provengono dal volume che raccoglie gli ultimi scritti di Galzenati, I nostri lunghi millenni, Napoli 2013, pp. 69-70. 21

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discussioni riferiva della nuova acuta interpretazione che Charles Wright Mills faceva dei white collars; questa veniva presentata nelle prime battute del suo volume con quell’efficacia espositiva: «I colletti bianchi sono entrati silenziosamente nella società moderna. Se hanno avuto una storia, essa è priva d’eventi; se hanno interessi comuni, non sono tali da farne una classe omogenea; se avranno un futuro, non sarà certo opera loro… All’interno il gruppo è atomizzato; all’esterno i suoi membri sono costretti a dipendere da forze più grandi di loro… Come gruppo non costituiscono una minaccia per nessuno, come individui non hanno un modo di vita indipendente». Il punto di maggiore riflessione riguardava certamente quell’affermazione di Mills, secondo cui i colletti bianchi «hanno sconvolto le previsioni dell’Ottocento secondo le quali la società si sarebbe divisa in imprenditori e salariati22. Il punto di riflessione riguardava allora l’analisi marxiana della proletarizzazione, l’espansione crescente della forma del lavoro salariato rivolto antagonisticamente contro il padronato capitalistico; infatti, venivano configurandosi forme diverse di lavoratori – burocrati stipendiati, anonimi dirigenti medi, commessi, capisquadra – che sembravano ampliare la platea del lavoro produttivo e dare vita a modi inediti di tradurre i propri desideri in dinamiche di diffuso consumismo. Inoltre, questo genere d’indagine sui cambiamenti interni all’organizzazione del lavoro della fabbrica neocapitalistica apriva ad un nuovo modo d’intendere la presenza stessa degli Ch. Wright Mills, Colletti bianchi. La classe media americana, New York 1961; trad. it Torino 1966, pp. 3-4. 22

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operai nei processi produttivi. In particolare, l’indagine di Serge Mallet – autore pure richiamato da Galzenati – si rivolgeva ad una modalità di costruire sindacalismo nelle fabbriche: non più un sindacalismo tradizionale di partecipazione conflittuale, piuttosto una nuova classe operaia che richiedeva maggiore peso nelle attribuzioni gestionali dell’azienda. Da un lato, questa più consistente partecipazione alle responsabilità da parte degli operai operava nel senso di contrastare i tecno-burocrati-dirigenti delle aziende; per un altro versante, secondo l’analisi di Mallet, il controllo della base sul vertice tendeva a diminuire ed a smorzare quella pratiche di democrazia diretta che si poteva fare intervenire nell’organizzazione dei processi lavorativi23. La preoccupazione che veniva sollecitata da questi studi diventava pienamente politica considerando almeno due punti focali; il primo riguardava il cambiamento della natura stessa del lavoro in un’attività sempre più cognitiva e intellettuale: si pensava che da questi processi sarebbe stata posta in crisi la figura del soggetto operaio di fabbrica, la sua capacità di pratica sociale e di cosciente conversione politica. Ma un’ulteriore preoccupazione si affacciava: grazie a quelle trasformazioni che venivano legando più strettamente gli operai ed i lavoratori ai luoghi della produzione, si sarebbe potuta acuire la distanza di questi soggetti dal nucleo principale dell’antagonismo politico, dal partito. Con preoccupazione si vedeva profilarsi all’epoca il ruolo crescente, particolarmente nell’organizzazione partitiIl libro di Serge Mallet, La nuova classe operaia, viene pubblicato a Parigi nel 1963; trad. it. Torino 1967, pp. 221-223. 23

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ca, della separazione tra dirigenti politici, provenienti dai ceti medi borghesi, e la base proletaria sempre più interdetta nei processi della decisione politica. Forse era proprio questo genere di preoccupazioni a rinforzare un ruolo particolare da assegnare al partito politico, alla sua necessaria funzione di costruire coscienza ideologica e politica; quindi, ai problemi nuovi indotti dalle trasformazioni della composizione della classe operaia dallo stesso Galzenati veniva offerta una risposta operativa che si rivelerà incerta e alla fine non adeguata. Il modello di riferimento restava Lenin: vale a dire un’efficace organizzazione politica comunque necessaria contro le forme pure nuove del sistema del capitale. Si trattava di rileggere, studiare e magari aggiornare alcune parti dell’opera leniniana; non tanto quella rivolta alla configurazione dell’intervento violento, rivoluzionario delle masse di Stato e rivoluzione. Piuttosto si proponeva di riprendere gli scritti problematici come il Che fare? (1901-1902), che riguardava appunto il problema della costruzione dello strumento politico per la realizzazione del progetto bolscevico; inoltre, bisognava riportare ai nuovi livelli degli antagonismi sociali quel richiamo che Lenin faceva alla gioventù socialista di studiare e lavorare insieme, di aiutare i ceti dei lavoratori a migliorare la propria cultura, ma soprattutto di cambiare se stessi con quelle nuove pratiche di espressione e di cura di sé che prefiguravano un’umanità differente, soggetti di una vita finalmente altra24. Al riguardo Galzenati richiamava il testo dello scritto indirizzato da Lenin al Komsomol, I compiti delle associazioni giovanili, 24

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Questo elemento finale del leninismo costituisce la chiave per intendere l’indirizzo che Galzenati aveva pensato di dare – e venne di fatto assegnato – all’organizzazione della Sinistra Universitaria. In una nota personale, dell’agosto del 1968, che appare come conclusiva del dibattito anche acceso che c’era stato su questo problema, veniva delineata un’organizzazione a doppia faccia, un centro politico esterno per la direzione del movimento studentesco ed un altro interno, più direttamente finalizzato alla ricerca teorica e alla preparazione delle decisioni più generalmente politiche. Dunque, con la costituzione del Centro interno veniva scelta una logica ingiustificabile di chiusura e di separazione per gli sviluppi dell’attività politica degli aderenti alla SU25. Questo indirizzo veniva a segnare insieme una forzatura, un fraintendimento e una contraddizione.

pubblicato sulla «Pravda», nn. 221, 222, 223 (5, 6 e 7 ottobre 1920), in Opere complete, vol. XXXI, Roma 1967, pp. 269-284. 25 Vedi dal Fondo Galzenati presso la Biblioteca Nazionale di Napoli, documento n. 6, datato agosto 1968. In un altro appunto manoscritto di Galzenati, datato 26 aprile 1968 (Fondo Galzenati, 1968, n. 107) viene annotato l’organigramma che avrebbe dovuto costituire il comitato direttivo della SU, con funzione politica di organizzazione del movimento, così registrato: U. Troya, A. Laudiero, A. Forlani, R. Musto (persone del «Centro»); P. Pasquino, P. Bazzicalupo, E. Moreno, G. Platania, M. Menegozzo, G. Carbonelli, (vecchi di SU), E. Rizzo, N. Laudiero, R. Pettorino, M. Castellano, A. Carola (nuovi di SU); L. D’Agostino, P. Cenci, V. Criscuolo, U. Di Porzio, C. Tonti (membri supplenti).

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4. 1968: la Sinistra Universitaria e le diverse radici del movimento studentesco La presa della parola ha la forma di un rifiuto. (Michel de Certeau, Prendere la parola, 1968) Quando rifiutiamo, rifiutiamo con un movimento senza disprezzo, senza esaltazione, anonimo, per quanto è possibile, perché il potere di rifiutare non si compie attraverso di noi e solo in nostro nome, ma a partire da un inizio poverissimo che appartiene innanzitutto a coloro che non possono parlare. Si dirà che oggi è facile rifiutare, che l’esercizio di questo potere non comporta grandi rischi. Probabilmente è vero per la maggior parte di noi. Credo tuttavia che rifiutare non sia mai facile, che dobbiamo imparare a rifiutare e a mantenere intatto, con il rigore del pensiero e la modestia dell’espressione, questo potere di rifiuto che ormai tutte le nostre affermazioni dovranno verificare. (Maurice Blanchot, Il rifiuto, 1958)

Dagli inizi del 1968 il movimento studentesco autonomo si estende a Napoli a macchia d’olio in tutte le facoltà universitarie26. Ovunque viene messa sotto Per la ricostruzione degli eventi del Sessantotto napoletano sono sicuramente utili i due cataloghi della mostra Napoli frontale, Napoli 1998, sopra citati; in quell’occasione venne acquisito dalla Biblioteca Nazionale di Napoli “Vittorio Emanuele III”, un gran numero di documenti relativi a quegli eventi divisi in fondi che prendono nome dai numerosi donatori (manifesti, volantini, documenti politici in forma ciclostilata; pubblicazioni a stampa 26

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accusa l’organizzazione tradizionale degli studi; la denuncia della didattica arretrata ed inadeguata per i contenuti e le forme dell’insegnamento viene affiancata alla durissima critica del sapere accademico sterile e separato dal fuoco vivo della ricerca scientifica e della crescita civile. La Sinistra universitaria organizza le attività degli studenti nelle facoltà di Scienze, Lettere, Medicina, Giurisprudenza. Il documento principale di riferimento di tale attività è costituito dalla raccolta di testi Università 1968, pubblicato in giugno, in cui troviamo sviluppato un organico progetto di lotta, che parte dall’università per poi investire con critica dell’epoca come giornali, riviste, libri; manoscritti di vario genere: documenti politici e lettere); tutto questo materiale è digitalizzato e consultabile sul sito della Biblioteca Nazionale di Napoli; per questo prezioso lavoro bisogna calorosamente ringraziare Antonia Cennamo, Luigi D’Amato e Lucia Marinelli. Recentemente un consistente numero di documenti sono stati pubblicati pure in forma digitalizzata sul sito del Centro di documentazione di Pistoia (www.centrodocpistoia.it) a cura di Alfredo Laudiero. Infine, il fondo dei documenti di Ennio Galzenati, donati alla Biblioteca Nazionale di Napoli dopo la sua scomparsa, sono in corso di catalogazione. Per quanto concerne i lavori di ricostruzione storiografica di quegli avvenimenti bisogna richiamare i primi studi: C. Oliva-A. Rendi, Il movimento studentesco e le sue lotte, Milano 1969; ed ancora di Franco Barbagallo, Il Sessantotto a Napoli: Lotte universitarie e potere accademico, in «Italia contemporanea», giugno 1989, n. 175. Recenti lavori di più completa ricostruzione sono quelli di Francesca Colella, Napoli frontale nel Sessantotto, Napoli 2008; la tesi di laurea di Elena Piave, Il movimento studentesco italiano. Il caso Napoli (1967-1969), Università di Roma. Sapienza, anno acc. 2006-2007; pure utile il contributo di Carmen Pellegrino, ’68 napoletano. Lotte studentesche e conflitti sociali tra conservatorismo e utopia, Tissi (SS) 2008.

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durissima il complesso dei rapporti politici e sociali nel paese: «l’esperienza che compiono gli aderenti alla Sinistra Universitaria napoletana si ricollega via via a quella dei gruppi italiani della dissidenza che si impegnano oggi nel lavoro di ricostruzione di raggruppamenti politici rivoluzionari. L’esigenza di superare le formulazioni approssimative, spesso soltanto motivo di convergenze occasionali, si va facendo strada negli ambienti della dissidenza di sinistra e spinge anche noi ad uno sforzo di lavoro interno, di precisazione e di lavoro teorico»27. Dunque, viene dichiarato il senso di un progetto complessivo: innanzitutto, lavoro di approfondimento teorico rivolto ai problemi principali della complessa realtà circostante, ma anche di chiarificazione per un impegno politico autentico effettivamente trasformativo, rivoluzionario. I contenuti di questa pubblicazione riguardano allora, secondo un’esposizione densa ed articolata, i problemi della politica internazionale, la situazione del movimento operaio in Italia e l’insoddisfacente politica del Partito comunista italiano, le questioni generali della natura e degli obiettivi del movimento studentesco nazionale e napoletano, la cronaca puntuale e documentata degli avvenimenti di costituzione della Sinistra Universitaria, un contributo di particolare rilievo sui cambiamenti delle forze produttive nella fase contemporanea del neocapitalismo. Tutti questi contenuti trovano come riferimento permanente il punto di vista critico che deve operare nel senso della costruzione di una prospettiva finalmente autonoma di rottura rivoluzionaria, 27

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che vada oltre l’incapacità e l’inadeguatezza delle organizzazioni politiche tradizionali socialiste-comuniste e degli stessi gruppetti della sinistra estrema (bordighisti, trotzkisti, operaisti, filocinesi). Viene infine ribadito che il dispositivo politico è quello dell’organizzazione autonoma del proletariato, rappresentata nella progettazione migliore dallo sforzo teorico e politico di Lenin. Questo genere di programma, proposto alla riflessione collettiva delle giovani generazioni meridionali che frequentano l’ateneo napoletano, riscuote un enorme consenso; nelle singole facoltà si affrontano i problemi particolari della didattica e delle iniziative di lotta all’autoritarismo accademico, ma soprattutto si avvia la formazione di soggetti critici che si preparano a praticare e a vivere un genere inedito d’impegno civile. Nella facoltà di Lettere, l’attività frontale di denuncia della peggiore docenza, l’utilizzo alternativo di controcorsi con la collaborazione di giovani docenti straordinariamente attrezzati (ricordiamo personaggi come Enrico Flores, Vittorio Russo, Giancarlo Mazzacurati), la splendida controguida del 1968 che spiega agli studenti tutta la serie delle connessioni tra il loro lavoro di studio con gli altri comparti nazionali e internazionali della ricerca e dell’insegnamento delle materie scientifiche e umanistiche: tutto questo costituisce per alcuni anni un terreno fertilissimo di formazione di coscienze libere, di ricercatori strepitosi, di docenti preparatissimi che saranno pure nella successiva professione impegnati in pratiche fervide di solidarietà. Ricordo alcuni soggetti di quest’attività autenticamente politica: Vincenzo Sparagna, Dora Caianiello, Vittorio

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Dini, Antonio Manselli, Vincenzo Pellegrino, Pasquale Pasquino, Annibale Elia, Emilio D’Agostino. Lo stesso genere di attività riguardava gli studenti di Medicina: tra questi Paolo Bazzicalupo, Umberto di Porzio, Guido Sacerdoti, Massimo Menegozzo, che fu il primo a pubblicare un contributo della SU nel libro collettaneo dei documenti delle lotte in Italia edito prontamente nel 196828. Nelle altre facoltà abbiamo esperienze differenti, ugualmente interessanti. Ad Ingegneria il movimento prende avvio a fine ’67 e agli inizi del nuovo anno si realizza un’occupazione che assume vicende e profili particolarissimi. Intanto, la facoltà sta vivendo il passaggio dall’assoluto dominio del settore di scienza delle costruzioni all’apertura alle nuove specializzazioni dell’ingegneria chimica, elettrotecnica, aeronautica; un processo di modernizzazione al quale gli studenti partecipano combattendo le parte accademica più Riporto un brano dal tono essenziale dell’intervento di Massimo Menegozzo che rende conto della lucida critica consapevolezza degli studenti dell’epoca: bisogna intendere «come le contraddizioni nelle quali si imbattono le masse studentesche sono legate a quelle di una società divisa in classi. Cioè, se si riconosce come tutti i processi di formazione professionale (contenuti, metodi, strutture universitarie) sono finalizzati alle esigenze produttive del capitale, e, più in generale, a conservare attraverso la gestione classista della cultura il mantenimento del privilegio di classe, si deve riconoscere che tali contraddizioni non potranno essere eliminate se non attraverso la contraddizione primaria: l’oppressione economica e quindi politica e ideologica da parte del potere dominante»; vedi Università: l’ipotesi rivoluzionaria. Documenti delle lotte studentesche Trento Torino Napoli Pisa Milano Roma, Marsilio editore, Padova 1968, p. 147. 28

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retriva e direttamente interessata in città negli affari della speculazione edilizia. Soprattutto, gli studenti di questa facoltà, di cui una buona parte proveniente da tutto il meridione, scelgono questi studi con forti motivazioni professionali, ma sono costretti ad una vita quotidiana tristissima, oppressi da un’organizzazione didattica durissima, che mediamente raddoppia da cinque a dieci anni il periodo medio necessario per il conseguimento della laurea. Questi studenti scoprono poco alla volta, durante l’occupazione avviata nel gennaio ’68 che dura 64 giorni, le procedure partecipative utili a migliorare la propria vita universitaria e attraverso una contrattazione con il Consiglio di facoltà ottengono il riconoscimento di una nuova regolamentazione della didattica, sintetizzata nel cosiddetto libretto azzurro. Personaggi come Peppe Di Gennaro, Francesco Siniscalchi, Peppe Gentile, Vittorio Losito e Mario Bellini contribuiscono a costruire un nuovo ambiente che cancella decisamente la figura triste e lo spirito rampante degli studenti che fino a quell’anno si sentivano obbligati ad applaudire i docenti due volte, all’inizio e al termine della lezione29. Nella facoltà di Architettura viene invece realizzandosi un’esperienza che riporta in breve tempo la lotta del movimento sul piano politico generale. Anche questi studenti partecipano alle vicende della crisi degli organi rappresentativi e dell’UGI; in polemica con la 29 Peppe di Gennaro offre una narrazione vivissima dei cambiamenti che avvengono in quell’epoca a Ingegneria nell’intervista prodotta dal lavoro di Napoli Frontale (1998), ora nei fondi della Biblioteca Nazionale di Napoli.

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Sinistra Universitaria viene formandosi un gruppo di Sinistra Architettura che decide di avviare un lavoro specificamente teorico sulle categorie principali della sociologia marxiana, al centro la tesi della proletarizzazione crescente che viene ad investire progressivamente e in modo inevitabile i lavoratori intellettuali30. Nel documento di occupazione di Palazzo Gravina (23 aprile 1968) troviamo argomentato il rifiuto di ogni genere di cogestione con l’istituzione, quindi rigetto della contrattazione con i docenti e di ogni sperimentazione disciplinare alternativa; l’obiettivo principale viene fissato nella «costruzione di un reale spazio per lo sviluppo del dibattito teorico e dell’azione politica del Movimento». Un gruppo di personaggi fortemente impegnati – Italo Ferraro, Vanni Pasca, Renato Carpentieri, Paride Caputi, Geppino Cilento, Romano Gattoni, Sergio Stenti, Daniele Corona – attiva una serie di seminari di studio, e contemporaneamente cerca di avviare contatti con gli operai dell’Italsider di Bagnoli, entrando pure in urto con il PCI e la FIOM-CGIL. La sede di Palazzo Gravina per un lungo periodo diventa luogo pubblico di permanente dibattito politico e a fine anno gli studenti danno vita ad una manifestazione di denuncia del ruolo corporativo ed ambiguo della 30 Da soggetti di questo gruppo viene prodotto una prima ricostruzione delle vicende del movimento studentesco napoletano, registrate per tempo nell’articolo Cronaca di otto mesi di lotta studentesca a Napoli (dicembre 1967 – luglio 1968), in «Quaderni piacentini», VII/nov. 1968, n. 36, pp. 83-106. Partecipe del movimento presso la facoltà di Architettura, Vittorio Dini scrive La Cecoslovacchia e gli studenti (entrambi i documenti sono riportati nella parte antologica di questo volume).

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figura professionale del tecnico-architetto, bloccando i lavori del XII congresso italiano d’Urbanistica (14 novembre 1968). Ancora negli altri istituti universitari, dall’Istituto Navale all’Università orientale, dalla facoltà di Economia e commercio a quella di Agraria: ovunque in città il movimento studentesco lascia i segni di un impegno civile di massa, mai così vivo negli anni del secondo dopoguerra. Un contributo interessante proviene anche dall’impegno vivo dei giovani cattolici che entrano in conflitto con la curia arcivescovile31. In effetti, gli studenti che vivono in città e i cosiddetti numerosissimi studenti fuorisede, giovani di estrazioni sociali diverse, provenienti da stili di vita familiari tradizionali, in prevalenza cattolici, a partire da quel fatidico 1967 vengono via via realizzando scambi intensi d’informazioni e di esperienze con modalità fino ad allora sconosciute. Tutti questi soggetti apprendono che esiste la possibilità di partecipare ad un’azione pubblica e comune: prendere la parola in assemblea, scrivere collettivamente mozioni su cui deliberare, venire a conoscenza che esistono procedure precise ed La dissidenza cattolica viene espressa dal dibattito favorito principalmente negli articoli pubblicati dalla rivista «Il Tetto», la cui redazione è composta da giovani fortemente critici: vedi in particolare, per il decennale del ’68, il numero dedicato interamente alle posizioni del movimento cattolico nazionale, anno XV, nn. 88-89, luglio-ottobre 1978; per la situazione napoletana vedi il contributo di Pasquale Colella, Il ’68 e la rivista “Il Tetto”, in «Nord e Sud» (XLV, giugno-luglio 1998, pp. 90-97), fascicolo uscito nel trentennale degli avvenimenti con il titolo Il 1968. Un’idea nuova di libertà?, a cura di G. De Martino. 31

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efficienti per poter prendere decisioni (magari anche in forme migliori e più efficaci di come fanno i docenti nei loro sgangherati organi istituzionali); viene via via affermandosi la convinzione che quanto viene proposto con gesto autoritario dall’alto della docenza e delle istituzioni accademiche può essere sottoposto a percorsi più complessi di dibattito al fine di risolvere anche quei minuti problemi che costituiscono gli affanni quotidiani di tante solitudini (mensa, libri e dispense introvabili, lezioni poco chiare, etc.). Crolla l’immagine mitica della scienza oggettiva dell’accademia (soprattutto nelle facoltà scientifiche) ed insieme viene sviluppandosi una diffusa disistima per quei docenti che operano con calcolata distanza rispetto agli studenti. Nei contesti delle singole facoltà cresce inoltre il bisogno di parlare di se stessi, delle proprie sofferenze, dei propri bisogni e dei propri desideri; vengono vissuti spontaneamente il godimento sessuale e il piacere di tante nuove amicizie; non è necessario per realizzare tutto questo una grande organizzazione, piuttosto funzionano i piccoli gruppi, figure e personaggi particolarmente attivi vengono presi ad esempio, le assemblee ricorrenti aiutano a dissipare le paure e la tristezza di stare lontano da casa. Vestire in modo più libero, ascoltare musica in compagnia, sottrarsi al grigiore delle mense, passeggiare con i nuovi amici: tutto questo lascia intravedere e riconoscere che esistono pratiche di se stessi che possono intervenire in un ambito di relazioni piacevoli e significative. In fondo anche tutto questo si può chiamare politica e merita di essere vissuto.

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5. Contro il ’68 a Napoli: la violenza fascista e il cinismo stalinista Se, infatti, la storia, al di fuori di ogni principio, è fatta soltanto dalla lotta tra la rivoluzione e la controrivoluzione, non c’è altra via d’uscita che darsi interamente a uno di questi due valori, per morirvi o risuscitarvi. Necaev porta questa logica alle sue estreme conseguenze. Per la prima volta, con lui, la rivoluzione si separerà esplicitamente dall’amore e dall’amicizia. (Albert Camus, L’Homme révolté, 1951)

Quanto sta accadendo nell’università preoccupa fortemente le istituzioni pubbliche del governo della città e l’intero arco dei i partiti: per questi soggetti risulta inammissibile che gli spazi dell’università siano difatti nelle mani di giovani rivoltosi che tentano l’autogoverno. Per tutto il ’68 non v’è alcuna capacità d’iniziativa contro il movimento. La reazione comincia tra fine anno e gli inizi del 1969. Il 24 gennaio di quest’anno i fascisti, che avevano occupato alcuni locali della sede centrale, reagiscono contro l’assalto messo in opera la notte precedente da militanti del PCI. L’azione di questi ultimi è stato un malsano tentativo di dare fastidio ai fascisti nell’università con qualche ordigno incendiario. Tanto è bastato per dare avvio alla reazione fascista. In effetti, in quel giorno, i camerati indirizzano la propria reazione contro gli studenti del movimento che occupavano da tempo altri locali della sede centrale. Per poco il movimento riesce ad evitare

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un disastroso scontro diretto; i fascisti danno comunque fuoco ai locali dove risiedevano gli occupanti e aggrediscono molti passanti. Si tratta dell’annuncio di una lunga serie di gravissimi atti di violenza messi in opera da questa parte che costituisce il peggio della città, composta da criminali di professione organizzati da coloro che avevano perduto potere nel passaggio alla fase repubblicana e cercano di tenere vivo un risentimento popolare diffuso fomentando tensioni e conflitti (a Napoli esiste una tradizione di questa parte organizzata dal MSI e dal partito monarchico): l’avvio era stato dato il 6 dicembre con ordigni incendiari contro il giornale Il Mattino; il giorno successivo all’incendio nell’università (25 gennaio) viene tentata un’aggressione alla Federazione del PCI di via dei Fiorentini; il 9 febbraio dopo un comizio del MSI al Ponte di Tappia, manifestanti in assetto di guerra bloccano via Toledo; il 12 febbraio esplode un ordigno sotto la sede del PCI; il primo maggio avviene il tentato incendio dei locali del giornale L’Unità; quindi una serie di esplosioni davanti alle sezioni del PCI: Secondigliano (16 luglio), Croce del Lagno (23 agosto), Vomero (29 ottobre), Case Puntellate (più volte); il ferimento di Ugo Stornaiuolo segretario della sezione Vomero del PCI (26 settembre); l’episodio più grave fu quello del lancio di bombe carte sulla folla di studenti riunita a Piazza Matteotti in un comizio (11 novembre 1969), che causò parecchi feriti anche gravi32. La cronaca degli atti della violenza fascista del gennaio 1969 viene pubblicata nel documento della SU, Esperienze di lotta politica del movimento studentesco a Napoli (febbraio 1969). La 32

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Si tratta dunque di un programma pianificato di violenza contro l’avanzata delle nuove generazioni democratiche della città; in realtà questa reazione è parte della strategia nazionale che la destra politica mette in atto in tutto il paese: alla fine di quest’anno si avrà la strage orrenda di Piazza Fontana a Milano. Ai fascisti viene ora assegnato il compito di organizzare la risposta che interviene in Italia periodicamente, e puntualmente, da parte di quell’aggregazione conservativa dei poteri nel momento in cui si stanno rendendo concreti i termini di uno svolgimento in senso democratico e progressista del paese. In più, questi scontri con i fascisti contribuiscono ad innescare un confronto permanente tra fascisti e militanti comunisti che costituisce anche il mezzo utilizzato dal PCI per riaccreditare la propria immagine di opposizione politica; prende via dunque quel perverso uso dell’antifascismo come strumento rivolto a riconfermare la centralità della parte democratica contro gli opposti estremismi, rossi e neri. In realtà, in questa fase del mitico ’68, a Napoli come in tutta Italia, il PCI rifiutò di costruire una convergenza con le espressioni del movimento studentesco; questa parte politica viveva forti tensioni provenienti dalle spinose questioni della critica di Mao ai dirigenti dell’URSS, a tutti i partiti comunisti occidentali e in particolare alla figura di strategia della violenza dei fascisti a Napoli, avviata dal 1969, è ricostruita nei dettagli con un interessante corredo fotografico nel libro 1969-1973. Libro nero sulle violenze dei fascisti a Napoli, a cura della Consulta antifascista, con introduzione di Mario Palermo (Napoli 1973).

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Togliatti; inoltre, l’affermazione del socialismo a Cuba e l’intervento militare delle nazioni aderenti al Patto di Varsavia contro la primavera di Praga spingevano molti iscritti a chiedere alla direzione del PCI una politica più autonoma rispetto al tradizionale schieramento filosovietico ed una più accentuata politica riformistica sul piano nazionale. Colti alla sprovvista dalle rivolte studentesche, incapaci pure d’intendere i germi di novità indotti dalle nuove generazioni, impegnati in un dibattito stringente sulle questioni internazionali ed italiane (che avrebbero condotto al distacco del gruppo del Manifesto), il partito si esprime decisamente contro le lotte studentesche per bocca dei suoi dirigenti (particolarmente dure le dichiarazioni di Giorgio Amendola nel giugno di quell’anno33). Solo in pochissime situazioni – in particolare laddove gli studenti sono riusciti a creare importanti relazioni di lotta con la classe operaia – il PCI interviene operando in modo da contrattare l’ingresso negli organi dirigenti locali delle punte di avanguardia del movimento degli studenti. Giorgio Napolitano viene inviato a Venezia e a Padova per operare tali mediazioni con quei gruppi che costituiscono il fulcro principale dell’operaismo italiano; una parte di quei giovani accoglie le proposte di inserimento negli apparati di partito34. Come introduzione al tema delle relazioni tra PCI e movimento studentesco è utile il saggio di Alexander Höbel, Il PCI di Longo e il ’68 studentesco, in «Studi storici», anno 45, Apr.-Jun. 2004, pp. 419-459. 34 Di queste trattative discute esplicitamente Massimo Cacciari nell’intervento Un Sessantotto di classe, contenuto in «Micromega», 2/2018, pp. 25-26. 33

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A Napoli i militanti del PCI non partecipano al movimento del ’68 e la chiusura da parte del partito è netta per decisione di Giorgio Amendola e di Giorgio Napolitano35. Una profonda diffidenza vive nei confronti delle diverse generazioni che hanno attivato pratiche e discorsi di contestazione politica all’interno dell’ateneo e delle scuole della città. La diffidenza diventa reciproca dal fronte degli studenti; queste parti in quel periodo, ed ancora negli anni a venire, non troveranno una sola dichiarazione di riconoscimento da quel partito; unico ad avere espressioni di attenzione sarà Luigi Cosenza36. Non a caso, da questi anni prendono avvio quei cambiamenti che portano il PCI ad allontanarsi sempre più dal terreno del vissuto quotidiano della città: le attività delle sezioni napoletane lentamente si smorzano e gli iscritti via via perdono voce, l’organizzazione partitica assegna maggiore peso alle componenti provinciali della città rispetto a quelle del centro cittadino, il maggiore riconoscimento viene assegnato a pochi personaggi (prevalentemente della provincia) che provvedono alla collocazione migliore del partito all’interno del mercato politico locale (vale a dire riescono meglio a procacciare pacchetti di voti). 35 Ancora vent’anni dopo quegli eventi, la rivista «NdR» decide di pubblicare un numero speciale in cui Attilio Wanderlingh e Nora Puntillo propongono una ricostruzione degli eventi raccogliendo una serie di contributi dai quali risultano del tutto esclusi i soggetti e i movimenti che avevano principalmente partecipato a quegli avvenimenti («NdR», 1988, 3, febbr.-aprile). 36 Luigi Cosenza, Intervento nella Commissione culturale PCI (Roma 1968), in Giancarlo Cosenza, La coerenza di un intellettuale, Napoli 2011, pp. 155-157.

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In definitiva, parti consistenti delle nuove generazioni napoletane rimarranno fortemente impressionate dall’atteggiamento di distanza e d’incomprensione da parte della forza politica che avrebbe dovuto reggere il ruolo principale di trasformazione sociale e politica nella città. Tanto vale a dire che il maggior numero di coloro che presero parte agli avvenimenti del Sessantotto napoletano – semplicemente, la migliore intelligenza della città, di varia estrazione sociale, che aveva intrapreso un intenso percorso di partecipazione civile – resta lontana dalla politica cittadina rappresentata dai rigidi interessi della burocrazia interna al PCI. Dal 1969 i settori diversi del movimento studentesco vivono l’esaurimento dell’originale forza propulsiva: le forze insorgenti del 1967 devono fare i conti con le spinte verso una sempre più intensa e rischiosa politicizzazione. Intanto, i soggetti delle avanguardie del movimento devono pure concentrarsi sui problemi della propria formazione personale: bisogna laurearsi e trovare un lavoro; tuttavia, una buona parte non demorde. Si assiste allora alle diramazioni diversificate e complesse da parte di quei soggetti secondo diverse collocazioni ideologico-politiche. Proviamo a ricostruire una rapidissima (e incompleta) cartografia: – l’attività della Sinistra universitaria perdura nella forma della tenuta del movimento all’interno delle facoltà ancora fino al 1970 con rigoroso impegno ideologico (un documento dedicato al Pieno appoggio delle lotte rivoluzionarie e popolari del “terzo mondo” data 23 settembre 1970); il collettivo organizzato nel Centro interno svolge prevalentemente lavoro di approfondimento teorico; ancora, aderenti alla SU organizzano

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il gruppo Rivoluzione operaia che svolgerà per qualche tempo attività a Bagnoli vicino alle fabbriche. Questo complesso di attività tende a scemare poco alla volta fino a cessare del tutto; – presso la facoltà di Architettura nel 1969 il collettivo di lavoro politico sopra richiamato discute ed accoglie le linee d’intervento dell’Unione dei comunisti italiani marxisti-leninisti che si richiama alle tesi di Mao; l’altra formazione filocinese, il Partito comunista d’Italia (marxista-leninista), realizzerà un importante diffusione a Napoli grazie alla rete dei Comitati di lotta (USCL) organizzata da Gustavo Hermann; – vengono pure costituendosi formazioni politiche che tentano un impianto autonomo locale: il Centro Lenin di Napoli-Salerno-Caserta (come promotori Vittorio Dini, Nando Iannetti e il sottoscritto) e il Centro di Coordinamento Campano (con Enrico Pugliese e Fabrizia Ramondino); si tratta di esperienze che durano pochi anni e non reggono al confronto con le più strutturate organizzazioni extraparlamentari sul piano nazionale; in effetti, a partire dagli inizi degli anni settanta anche a Napoli comincia il processo di colonizzazione delle aree di lotta: Calogero Palermo dà vita a Potere operaio campano; Cesare Moreno avvia la presenza di Lotta continua nella nostra città37, AvanLa nascita e gli sviluppi del gruppo di Lotta continua a Napoli sono ricostruiti da Cesare Moreno in “Lotta continua” a Napoli: una diaspora mai conclusa, in «Nord e Sud», cit. pp. 98-113. L’intervento ricostruisce l’impianto dell’organizzazione politica a Napoli come struttura di piena autonomia, guidata dal vertice nazionale che invia in città soggetti esterni incaricati della direzione locale, radicata in diverse esperienze sociali napoletane 37

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guardia operaia invia a Napoli Guido Piccoli, militante generosissimo, per ampliare la propria rete d’influenza. Questi ultimi percorsi costituiscono un’altra storia rispetto a quanto era accaduto negli anni precedenti. Un taglio viene producendosi rispetto al passato. Una soggettivazione di speranze e di gioia è venuta meno: questa insorgenza di comportamenti inediti non è riuscita ad esprimere dispositivi idonei a tradurre l’avvio di una festa in qualcosa di duraturo e valido per la città; su tutto questo sarebbe utile ancora oggi approfondire un’intelligente autocritica. Ritorna anche in questo campo quella politica di antica tradizione che separa e contrappone i soggetti: all’interno dello stesso campo dei rivoluzionari c’è chi si considera più abile degli altri in un gioco, diventato ormai perverso, di produzione di piccoli poteri. 6. La festa è finita: un’altra occasione è perduta Tutto già detto, tutto già scritto. Delle scelte e delle ripulse, dei compagni di strada e d’avventura. Di quelli vivi o morti dentro o morti davvero in uno spreco senza fine, come la mia dolcissima amica Gabriella Fittipaldi. I migliori fra noi (e si potrebbero anche fare i nomi, pochi) erano già protagonisti di

(fabbriche, quartieri, disoccupati), senza operare alcun riferimento alle vicende e alle inevitabili interrelazioni con soggetti e vicende delle precedenti lotte del movimento studentesco. Il taglio rispetto al movimento di lotta degli studenti del ’68 è netto nei fatti e nella narrazione.

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I l Sessantotto a Napoli: un’occasione perduta un’attesa o di un esilio, ma non tutto fu speso allora in una festa e un’ebbrezza improvvisa. Ci fu la necessità di riconoscersi e di contarsi. Ci furono quelli che riscoprirono da subito un ruolo di politici o di rivoluzionari di professione. Con una protervia nel ribadire la separatezza, che ancora brucia e ci fa leccare ferite inconfessate. E ci furono i figli di puttana, che non mancano mai, pronti ad attaccarsi a piccole meschine occasioni di carriere e di piccolo cabotaggio. Ci fu e c’è ancora la necessità di imparare a convivere con la propria sconfitta generazionale, senza indulgere in devianze e sforzi della memoria. Resta la domanda, perché Napoli? Forse senza risposta. Ma Napoli è una città che spesso regala stagioni irripetibili. Come il lungo settembre del ’66, in barca al Cenito, a parlare e parlare di qualcosa di eccezionale che si sentiva nell’aria, o la primavera del ’67, in cui fu occupata l’università e cominciarono a venir fuori discorsi, persone e parole, che con il PCI e la sinistra avevano davvero poco a che fare. La “ festa” che esplose nasceva, anche a Napoli, da autentiche esigenze esistenziali, da una sottotraccia che veniva alla luce. E contro la quale la “normalizzazione” fu difficile e radicale, ma destinata a vincere, grazie all’aiuto offerto da quella parte del “movimento” che scelse di rincorrere un’incredibile ed assai improbabile classe operaia. (Luciano Caruso, Tutto già detto, 1998)38.

Il Sessantotto napoletano dura la breve e intensa stagione di un anno, dall’autunno del 1967 fino al termine dell’anno successivo. A Napoli come in tutt’Italia, questi Dal catalogo Napoli frontale. Documenti, immagini e suoni sul Sessantotto a Napoli. Teatro, arti visive e letteratura, cit., p. 35. 38

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eventi hanno vissuto quella stessa carica di rivolta del movimento antisistemico che ha annunciato l’inizio di nuove resistenze in tutto il mondo. Certamente a fine ’68 è terminata la fase insorgente e espressiva, che ha segnato in modo irreversibile novità e scarti nei linguaggi artistici e nei vissuti di queste generazioni; numerose sono le impronte che il ’68 lascia nei comportamenti e negli stili di vita anche nella nostra città. Nelle diverse situazioni metropolitane la fine dei movimenti induce pure sofferenze depressive da elaborare nell’interiorità dei singoli soggetti e sul piano delle pratiche collettive; in alcuni contesti, soprattutto nel settentrione europeo, si tentano anche sperimentazioni di un vivere comunitario che possa favorire la crescita di soggettivazioni antagonistiche, aperte al libero esercizio dei desideri. Nel nostro paese, le cose vanno diversamente. Un’antica tradizione di conservazione sociale e politica aveva da sempre reso inattuabile il governo autenticamente rappresentativo. Come risposta impulsiva e generosa, nelle diverse situazioni della rivolta studentesca si era deciso di trasferire, pure con azzardo pericolosissimo, la contestazione interna all’università sul piano generale dei rapporti tra le forze economiche, sociali e politiche; si faceva avanti con determinazione un’esigenza di frattura netta, rivoluzionaria, rivolta a sbloccare le condizioni del ritardo civile e delle sofferenze sociali in cui versava il paese. In realtà, ragionando con il senno del poi, a nessuno erano chiari gli strumenti da adottare per realizzare qualcosa che avrebbe dovuto costituire un radicale cambiamento sul piano istituzionale; un’antica propensione repubblicana alla libertà, ripresa e

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lasciata incompiuta nella resistenza armata al fascismo, rafforzava l’immaginario diffuso di ricorrere ad una violenta resa dei conti con quella configurazione di forze egemoniche che da sempre bloccavano in Italia i processi della modernizzazione politica. Nell’altra fase politica che succederà al termine degli eventi del Sessantotto, seguirà un lungo periodo di circa dieci anni in cui avranno spazio quelle modalità distruttive, e purtroppo tradizionali, di praticare i conflitti, di agire gli uni contro gli altri senza capacità di convertire quegli antagonismi in forme pacificate di positivo confronto e di reciproco riconoscimento. Divisioni di ogni genere produrranno ovunque drammatiche lacerazioni: i fascisti aggrediscono la parte democratica; la destra politica utilizza massonerie, mafie e pezzi dello Stato contro coloro che vogliono ad ogni costo introdurre innovazioni; cattolici e laici si azzuffano, i cristiani delle comunità di base si scontrano con vescovi e cardinali; i partiti della sinistra combattono i movimenti di lotta delle nuove generazioni di operai e studenti; i gruppi extra-parlamentari entrano in lotta contro il PCI e confliggono pure tra di loro per conquistare l’egemonia politica sul movimento. A fine anni settanta, nel fatidico 1977, quanti in Italia avevano anche gioiosamente annunciato nel ’68 un inizio e una speranza devono prendere atto dell’impossibilità di assegnare una rappresentazione politica a quelle istanze d’innovazione. Dietro la spinta generosa delle lotte studentesche e operaie avviate a fine anni sessanta, nel 1976 il PCI realizza un’avanzata enorme, omogenea per i consensi elettorali ricevuti in tutta Italia; un successo che rimarrà improduttivo per il paese proprio a motivo dell’incapacità di questo partito

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di offrire a quei movimenti rappresentazione politica e istituzionale, indispensabile per attuare finalmente la carta costituzionale e per realizzare quei provvedimenti legislativi finalizzati a migliorare la qualità della vita degli italiani. Peraltro, i nuovi linguaggi rivoluzionari producono ormai solamente esasperazione e separazione dell’elemento politico; lo scontro contro il sistema diventerà sempre più astratto, assumerà la veste di un confronto univocamente riferito al piano della produzione di potere politico: verrà infatti perseguita la divisione di queste sedicenti avanguardie rispetto ai bisogni e ai desideri di tanti soggetti ormai resi sempre più passivi e isolati (basti ricordare la strumentalizzazione da parte degli appartenenti alla cosiddetta autonomia operaia dell’imponente manifestazione di Roma il 12 marzo 1977). La cosa diventa paradossale: anche se il cumulo delle resistenze e delle insorgenze è enorme, nessuno all’interno della cosiddetta sinistra ha chiarezza e iniziativa su come costruire un’alternativa politica specifica per l’Italia; l’incomprensione ed il mancato incontro tra le parti produrranno ulteriori insanabili divisioni. La sconfitta del lungo percorso di lotte degli anni settanta indurrà per tante generazioni successive una situazione dolorosa di depressione e di rimozione; su questo pericolo Paul Goodman aveva già messo sull’avviso: «il cumulo delle rivoluzioni mancate o compromesse dei tempi moderni, con le ambiguità e gli squilibri sociali conseguenti, ricade inevitabilmente soprattutto sulla gioventù, rendendole difficile crescere»39.

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P. Goodman, La gioventù assurda, cit., p. 213.

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Dopo quel fallimento, gli eventi in Italia assumono ritmi inarrestabili: da un lato, si accresce l’esercizio della violenza armata da parte di coloro che, dopo un così grande impegno di lotte, vorrebbero introdurre ad ogni costo un nuovo mondo di libertà e di giustizia sociale; dall’altra parte, chi detiene il potere risponde con la massima concentrazione di sbarramenti e di violenza. Non esiste più alcun rispetto per istanze fondamentali secondo cui la politica deve rimanere un dispositivo legato ai vissuti dei soggetti e va comunque sottoposto al controllo del maggior numero di persone; negli anni settanta, il movimento delle donne è l’unica realtà che mette con chiarezza sull’avviso che la politica non può assumere la veste di una resa finale dei conti che decide della morte degli avversari, tantomeno ridursi all’esercizio cinico della gestione di potere politico. Da un lato, nel Manifesto Marx aveva annunciato che l’obiettivo radicale dei comunisti era costituito proprio dall’abolizione del carattere politico del pubblico potere, dal momento che «il potere politico è il potere di una classe organizzato per opprimerne un’altra» (fine della parte seconda Proletari e comunisti); per un altro versante, la tragica esperienza storica del cosiddetto socialismo reale si era manifestata come il trionfo della massima concentrazione di potere, il cancro politico dello stalinismo. All’interno dei territori dell’URSS e in tutti i paesi del patto di Varsavia, l’assoggettamento di popoli interi era stato realizzato con lo sterminio di massa dei civili e attraverso l’assassinio di personaggi straordinari. François Fejtö, nell’introduzione agli scritti politici di Imre Nagy, il capo di governo condannato ed impiccato (16 giugno 1958) con l’as-

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senso di tutti i segretari dei partiti comunisti europei dopo il tentativo di sostenere la libertà degli ungheresi insorti, scriveva in quei mesi: degli staliniani «il tratto fondamentale – contrariamente a quanto si pensa generalmente – è, piuttosto che il settarismo, una curiosa alleanza dell’opportunismo più cinico e dell’attaccamento al partito considerato come un essere assoluto e divinizzato»40. Molti di noi hanno riconosciuto, nella nostra storia nazionale, questi tratti di chiusura e di cinismo in molti dirigenti del PCI e negli stessi leaders dei cosiddetti gruppi extraparlamentari. In un’intervista di fine anni novanta, Ennio Galzenati insiste sul carattere, purtroppo molto diffuso e pervasivo, di questa via staliniana, così presente anche in Italia nella sinistra politica di ogni specie: rifiutare di ascoltare gli altri e di rispettarne le volontà, rendersi comunque mediatori di processi che producono inevitabilmente potere politico, salvaguardare e promuovere meschini interessi d’individui appartenenti agli apparati dei partiti e delle organizzazioni politiche. Su questo punto Galzenati ritornerà ulteriormente in uno scritto successivo: «Un punto di svolta fondamentale, per la ricostruzione di un migliore e diverso futuro, potrà venire da una elevazione della vita della cultura al di sopra della vita della politica e dell’economia»41. Non sorprende allora che la tradizione storica dei comunisti italiani sia scomparsa, dopo l’assassinio di Imre Nagy, Scritti politici, Milano 1958, p. 32. La citazione proviene da I nostri lunghi millenni, cit., p. 180. Ancora su questo punto vedi l’interessante intervista nel Fondo Galzenati della Biblioteca Nazionale di Napoli. 40 41

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Aldo Moro, rigettata del tutto poiché divenuta parte integrante di un sistema politico perverso. Non solo la fine di quella soggettivazione rivoluzionaria che in Italia aveva preso corpo a fine Ottocento, pure l’incapacità di comprendere e di sostenere le novità indotte dalle generazioni del Sessantotto segna l’esaurimento della parte politica del PCI42. Conviene insistere su questo punto: il grande cambiamento di comportamenti e di mentalità avviato nel Sessantotto ed, insieme, tutto il bagaglio delle lotte sostenute lungo gli anni settanta restano senza rappresentanza politica sul piano istituzionale. Dopo lo scontro durissimo, viene ancora sancito che il normale esercizio del governo rappresentativo in Italia risulta impossibile: come pure resta confermato che valgono davvero poco i tentativi degli scarti radicali e della rivolte di strada improvvisate; fino a un certo punto chi gestisce conservazione politica lascia fare, poi puntualmente interviene la reazione violenta. Galzenati aveva bene compreso come proprio per il nostro paese i tempi immediati delle rivolte e delle fratture improvvisate fossero alla fine insufficienti e perdenti. Da un lato, aveva inteso le difficoltà della necessaria trasformazione e gli ostacoli al cambiamento così presenti nella storia delle regioni meridionali; peraltro, nel suo modo di vedere, tale consapevolezza non L’Italia è l’unica situazione in Europa dove il sistema politico nega completamente riconoscimento agli esponenti delle nuove generazioni del ’68 e delle sue figure politiche; per le altre nazioni europee un solo importante esempio: agli inizi degli anni ottanta in Germania, Ioshka Fisher entra nel parlamento tedesco, diventando vice-cancelliere e ministro federale degli affari esteri (dal 1998 al 2005). 42

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avrebbe dovuto comportare la resa inattiva e gli adattamenti opportunistici; piuttosto la lungimiranza sulle effettive e problematiche possibilità di cambiamenti, inarrestabili anche per l’Italia, induceva al permanente impegno civile e soprattutto al lavoro di riflessione critica che opera sui lunghi tempi, alla speranza che proviene dallo sguardo di prospettiva sui lunghi millenni. Da questo genere di considerazioni, si comprende che le lotte di quegli anni e, in particolare, l’esperienza della Sinistra Universitaria non hanno potuto offrire un contributo immediato di trasformazione politica; piuttosto, per tanti soggetti quegli eventi hanno garantito per la città una presenza importante di competenze in vari settori della vita civile e di tenuta critica della libertà democratica. Inoltre, quel genere di resistenze civili contribuì a Napoli in quegli anni a contenere le espressioni della lotta da parte dei giovani che s’indirizzavano decisamente allo strumento offensivo della violenza organizzata; vi furono nella nostra città alcuni tentativi di ricorrere alla lotta armata, episodi gravi e dolorosi, limitati tuttavia nel numero. In più, come strumento per contravvenire al facile oblio indotto dalle stesse sofferenze e per consentire comunque a tanta parte della città di prendere parte a quel genere di cultura che aiuta a praticare una migliore cura di sé, Gerardo Marotta e Ennio Galzenati – grazie pure al sostegno generoso di Antonio Gargano e di Francesco Del Franco – hanno dedicato una parte consistente del loro impegno civile a progettare e ad organizzare le attività dell’Istituto Italiano per gli Studi Filosofici. In definitiva, così come in tutta Italia, il Sessantotto a Napoli non costituisce un fallimento, piuttosto l’oc-

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casione perduta di creare qualcosa che forse sarebbe stata possibile: favorire l’incontro tra le parti della città, produrre una convergenza tra le esperienze politiche già formate alla lotta, costituite dai partiti e dalle strutture organizzate del movimento operaio storico e le istanze di bisogni e desideri provenienti dalle nuove generazioni, da processi di soggettivazioni differenti. Quell’inedita insorgenza di bisogni e desideri aveva voluto segnare un inizio e un annuncio, ma non riuscì a realizzare una conversione sul piano esplicitamente politico; costituì un fenomeno cui non si volle dare ascolto: appunto, un’altra occasione perduta. Nelle espressioni ormai sbiadite (che destano malinconia in quanti vissero quegli eventi) di quanto proviene ancora dal richiamo – certamente da promuovere, ma in modo non enfatico, piuttosto autocritico – dei progetti ideali e delle insorgenze gioiose degli anni sessanta, ancora si può leggere l’intelligenza capace d’intravedere con anticipo quei percorsi di sofferenze che si sono approfonditi nel tempo, fino alla nostra epoca. Si può quindi agevolmente intendere che le rivolte del ’68 rinviano con piena attualità alla lotta necessaria contro quel genere di mondializzazione costituita ancora oggi dal sistema di dominio dei mercati finanziari e dal pensiero unico: mortificazione delle libertà e dei corpi. Forse grazie anche alla narrazione diffusa di quelle antiche esperienze, attraverso invisibili circuiti di trasmissione, nuove generazioni s’impegnano a Napoli a perseguire percorsi della cura di sé, dell’autotrasformazione interiore che opera nel senso della solidarietà verso gli altri: da qui pure la possibilità di immaginare e praticare forme inedite di più

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diffusa autorappresentazione politica. L’intransigente e coraggiosa cura di soggettivazioni libere esercita ancora oggi la permanente necessità dell’insorgenza contro ogni genere di assoggettamento. Non è poco quel che nella nostra città rivive del ’68. Les soulèvements appartiennent a l’histoire. Mais, d’une certaine façon, ils lui échappent. Le mouvement par lequel un homme seul, un groupe, une minorité ou un peuple tout entier dit: “Je n’obéis plus”, et jette à la face d’un pouvoir qu’il estime injuste le risque de sa vie – ce mouvement me paraît irréductible. Parce qu’aucun pouvoir n’est capable de le rendre absolument impossible: Varsovie aura toujours son ghetto révolté et ses égouts d’insurgés. (Michel Foucault, Inutile de se soulever?, 1979)

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Vittorio Dini L’ANNO BREVE, ANNUS MIRABILIS La “prise de parole” di una nuova soggettività: il movimento studentesco nel ’68 napoletano

Il movimento del ’68 napoletano si inscrive a pieno titolo nel quadro del movimento mondiale giovanile che contrassegna quella data epocale; nonostante la scarsa considerazione che ha trovato nella storiografia politica di quell’anno. Allo stesso tempo, il movimento del ’68 napoletano ha caratteristiche peculiari che lo contrassegnano e distinguono dai movimenti delle altre città italiane e probabilmente proprio questo ha contribuito alla limitata considerazione. Innanzi tutto, la sua accentuata caratterizzazione manifestamente di carattere politico: antagonismo radicale sia sul piano della contestazione del potere accademico e governativo, sia sul piano generale della società e dell’assetto internazionale dominato dall’imperialismo esemplificato nella guerra del Vietnam e dall’egemonia americana. Specifiche, originali sono le premesse e le origini del movimento napoletano. Le premesse. Vivere negli anni ’60 a Napoli per gli adolescenti e i giovani non era certo una «dolce vita» nel

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senso felliniano, o almeno erano pochissimi a poterselo consentire e a pesanti costi esistenziali; neppure era per la maggior parte una vita buona, tranquilla e spensierata. Certo si allontanavano sempre di più i sacrifici del dopoguerra e le ristrettezze di una lenta e timida ricostruzione; si cominciava a vedere qualche segno del boom economico, i consumi iniziavano a crescere. Per una élite giovanile, universitari e liceali, non mancavano stimoli a crescere e a sviluppare uno spirito critico. Soprattutto nella cultura e nelle arti – tutte le arti: figurative, teatro, cinema, letteratura –, e nella cultura storica e filosofica molte sono state le occasioni organizzate, e bene1, con ampio respiro e respiro nazionale e internazionale, peraltro favorite da una eredità di esperienze significative, seppure limitate per platea e durata: basta pensare per la cultura teorica storica e politica al Gruppo Gramsci dei primi anni ’50, al Circolo del cinema, alle esperienze teatrali di avanguardia2. Nello sfondo, la sotterranea e permanente, influenza di una lettura del marxismo, il bordighismo, il pensiero di Amadeo Bordiga: il suo rigore sfocia in un determinismo economicistico cui si collega un ineluttabile processo storico che poco o nessuno spazio affida alla soggettività e alla scelta 1 Una sintetica, ma ampia, rassegna nel contributo di Gianfranco Borrelli in questo volume, pp. 13-68. 2 Un buon affresco di questa stagione nel bel libro di Ermanno Rea, Mistero napoletano, Einaudi, Torino 1995, che ricostruisce la ricaduta esistenziale drammatica dei conflitti politici interni al PCI; e nel film di Mario Martone, Morte di un matematico napoletano, con scenggiatura di Fabrizia Ramondino, scrittrice di un romanzo sul ’68 napoletano, Un giorno e mezzo, Einaudi, Torino 1998.

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individuale. Sul piano pratico, scarsa è l’incidenza di questa influenza, che si rappresenta organizzativamente in piccoli gruppi, minoritari, chiusi e inevitabilmente settari. Sotto traccia, ma sensibilmente invece opera questa influenza nello stesso Gruppo Gramsci e nella elaborazione della Sinistra Universitaria. Si avverte in tutte queste esperienze un sottofondo di grande inquietudine, di insoddisfazione, di crisi di civiltà, di profonda alienazione, che pervadeva il lavoro e la vita stessa; basta pensare al cinema di Antonioni, da Il grido del 1957 alla famosa quadrilogia degli anni ’60, L’avventura, La notte, L’eclissi, Il deserto rosso. E si affaccia l’idea che qualcosa di radicale sta per succedere, che questo mondo esploderà (Zabriskie Point); che la gioventù vive una vita assurda e inizia a reagire e ribellarsi, nei film di James Dean e poi nel 1973 in La rabbia giovane, primo film di Terrence Malick. Le origini, la genesi del movimento del ’68. Viene raramente ricordato, eppure il primo episodio di contestazione pubblica da parte studentesca avviene a Napoli all’università centrale in occasione della cerimonia ufficiale di inaugurazione dell’anno accademico 1963-1964, ripreso da vari giornali nazionali e sul quale il noto scrittore Elio Vittorini scrive un articolo originariamente destinato ad una rivista internazionale, «Gulliver», progetto che non si realizzò, e Vittorini scelse di pubblicarlo sulla rivista che dirigeva per Einaudi insieme ad Italo Calvino, «Il Menabò», nel n. 7 del 19643. Vittorini non si limita alla cronaca Dobbiamo la sua riscoperta al lavoro, imprescindibile per chiunque voglia approfondire l’analisi del ’68, di Giampaolo 3

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dell’avvenimento, e descrive da par suo l’atmosfera da regime democristiano della cerimonia, del parterre e della scena paludata e grevemente ufficiale. La sorpresa si manifesta quando prende la parola uno studente; quando sale sul palco accolto con sorrisi dall’intero parterre, e con simpatia dal più autorevole degli accademici, il giurista Giovanni Leone, uomo della maggioranza di governo e al tempo presidente della Camera. Lo studente dice: «Dalla Liberazione ad oggi la Repubblica italiana non ha saputo mutare le strutture della propria scuola. Essa si è limitata ad elaborare un fantomatico piano decennale che è già unanimemente condannato da tutte le forze che agiscono nella scuola. Un piano che politicamente non valido, è per giunta carente anche per quanto riguarda i finanziamenti…». A questo punto, è opportuno lasciare la parola al grande scrittore: Nessuno nel nostro paese, ripeto, ignora, che i problemi della scuola siano di questo calibro, e nessuno quindi si meraviglia più di nessuno che lo rilevi. Ma nell’Aula Magna dove lo denunciava, dopo la prolusione del Rettore, il piccolo Faust esasperato, i notabili mordevano il freno della tolleranza che s’erano imposta, e il più insigne di loro, il distinto e comprensivo onorevole Giovanni Leone, presidente della Camera dei deputati, si alzò infine di Borghello, a cura di, Cercando il ’68, Forum, Udine 2012, di ben 1250 pagine, antologia di testi, ma ben di più: indispensabile guida per la lettura storica e critica dei movimenti del ’68. L’articolo di Vittorini, alle pp. 50-54, ci informa Borghello, verrà pubblicato anche nella rivista «Che fare», n. 10, 1972, pp. 227-230.

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scatto, un ditino per aria, a manifestarsi offeso. «Faccia silenzio! – gridò (lo trascrivo dai giornali) –. Non è questa la sede per simili considerazioni. Qui non siamo in Parlamento. Siamo a scuola. Lasci stare la politica e faccia lo studente»4.

Altre tappe che precedono l’esplosione del ’68, quelle veramente genetiche. L’occupazione dell’aprile 1966 in seguito all’uccisione a Roma da parte dei fascisti dello studente di sinistra Paolo Rossi, costituisce un primo momento di aggregazione di studenti soprattutto già politicizzati e di confronto con una componente critica del corpo docente, quasi tutti assistenti, sulla riforma universitaria e sull’assetto urbanistico che si va disegnando per lo sviluppo dell’università di massa; e inizia anche un confronto con le forze politiche, soprattuto PCI, PSI e cattolici, DC e critici della stessa DC e della Chiesa ufficiale. Un salto ulteriore è costituto dall’occupazione in seguito all’uccisione di Che Guevara (18 settembre 1967), ma in un anno che ha già visto numerose occupazioni, manifestazioni cittadine anche contro la guerra in Vietnam, e soprattutto la crisi dell’UGI e la nascita della Sinistra Universitaria5, che avrà l’egemonia su una gran parte delle facoltà dell’ateneo napoletano; la facoltà di Architettura ha invece un suo autonomo sviluppo, non antagonistico ma differente rispetto alla S.U. Cercando il ’68, cit., p. 53. Anche per questo, si rinvia al contributo di Gianfranco Borrelli in questo volume, pp. 13-68. 4 5

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Marco Revelli inizia con questa pagina il suo contributo nella einaudiana Storia della Repubblica6: «Ci sono state solo due rivoluzioni mondiali. Una nel 1848. La seconda nel 1968. Entrambe hanno fallito. Entrambe hanno trasformato il mondo». Cosí scrivono Giovanni Arrighi, Terence Hopkins e Immanuel Wallerstein a conclusione di un libro tanto sintetico quanto fondamentale per comprendere lo spartiacque degli anni sessanta: Antisystemic Movements7. Né il loro è l’unico tentativo volto a stabilire un rapporto stretto tra l’“anno degli studenti” e l’“anno dei miracoli”, attribuendo a entrambe carattere di spartiacque storico. Esso ricorre quasi in ogni contributo che affronti in modo complessivo la vicenda dei “movimenti” nel Novecento compiuto. Al 1848 fa, per esempio, esplicito riferimento Ronald Fraser, nell’introdurre 1968. A Student Generation in Revolt 8, la piú completa ricostruzione “trans-nazionale” di quella stagione con il metodo della oral history, ricordando come non vi sia nulla di «storicamente nuovo, nel vedere combattere sulle barricate insieme studenti e lavoratori9.

6 Marco Revelli, Un nuovo ‘spazio’ della politica, Movimenti sociali e spazio politico 1, in Storia d’Italia Einaudi, Storia dell’Italia Repubblicana, vol. 2**, La trasformazione dell’Italia. Sviluppo e squilibri, Einaudi, Torino 1995, pp. 388-9. 7 G. Arrighi, T. Hopkins e I. Wallerstein, Antisystemic Movements, ManifestoLibri, Roma 1992, p. 85. 8 R. Fraser, 1968. A student Generation in Revolt, Pantheon books, London 1988, realizzato con la collaborazione di Bret Eynon e Ronald Grele per gli Stati Uniti, Jochen Staadt e Annemarie Tröger per la Germania federale, Daniel Bertaux, Béatrix Le Wita e Danièle Linhart per la Francia, Luisa Passerini per l’Italia. 9 Ibidem, p. 1.

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E ancora al 1848 si richiama Peppino Ortoleva, nel suo Saggio sui movimenti del 1968 in Europa e in America10, per rilevarne l’analogia sia nelle modalità di “circolazione della rivolta” sia, come si vedrà piú oltre, nel rapporto tra spazialità e tecnologia.

[…]

In effetti le assonanze tra le due date storiche sono numerose. Per i soggetti che vi parteciparono: in entrambi i casi gli studenti, i settori sociali in ‘formazione’, potremmo dire, coloro che per natura e vocazione trattano la delicata materia simbolica che definisce il ‘senso’ in una società, cosicché anche al ’68 può adattarsi la definizione coniata dal Namier per il ’48 di ‘rivoluzione degli intellettuali’. Per la forma che vi assunse la mobilitazione: spontanea, improvvisa, straordinariamente effervescente, capace di esprimersi in comportamenti quotidiani, di coinvolgere il modo d’essere degli uomini, di trasformarsi in ‘moda’. Per lo ‘spirito’ che animò le due ‘rivoluzioni’: il romanticismo, voltosi di colpo dal passato al futuro, nel ’48, non cosí distante dall’ambivalente carica di umanesimo radicale e di gelido strutturalismo che animerà il ’68. Ma soprattutto 1848 e 1968 si assomigliano per le dimensioni che assunsero: ‘mondiali’, appunto, in entrambi i casi. Transnazionali. Per la tendenza che in ambedue si manifestò alla diffusione rapida, simultanea, della rivolta in una molteplicità di paesi, lungo percorsi e concatenazioni imprevedibili.

Arrighi, Hopkins e Wallerstein hanno ragione nell’affermare il carattere antisistemico della rivoluzione generazionale del ’68, così come sono nel giusto indicando nella globalità la sua originalità rispetto al 1848. P. Ortoleva, Saggio sui movimenti del 1968 in Europa e in America, Editori Riuniti, Roma 1988. 10

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Ma occorre specificare con determinazione quando sostengono che ambedue hanno fallito: hanno fallito in quanto rivoluzioni politiche, rispetto cioè alla presa del potere, alla trasformazione radicale degli aspetti istituzionali. Anzi, di più, nel ’68 nessuna realtà ci ha provato, neppure l’hanno posto all’ordine del giorno come obiettivo politico, al massimo hanno prospettato allo sfondo la necessità di un radicale cambiamento e non di piccole, parziali, regionali riforme. Nel caso del ’68 napoletano, si nota che questa prospettiva è presente in modo affatto distinto nelle diverse componenti. I marxisti-leninisti sono rigidamente legati ad una dinamica di stretta ispirazione leninista declinata in senso maoista, o addirittura esplicitamente stalinista. La Sinistra universitaria prospetta un modello di costruzione di un partito rivoluzionario rigidamente centralizzato che leghi la classe operaia ad un’avanguardia intellettuale che con gli strumenti del marxismo, della teoria leniniana dell’imperialismo e del partito – teoria, innervata di hegelismo napoletano indichi la strada della rivoluzione politica, prima ancora di quella sociale. Il Movimento studentesco di Architettura ha poco presente nel proprio orizzonte la visione di un radicale scontro politico e di una prospettiva dichiaratamente rivoluzionaria; ha ben chiaro e afferma con radicalità l’antagonismo della propria libertà di parola e di espressione rispetto al potere accademico e a quello politico. E lo vive in quanto «giovani come classe» nelle modalità della festa, coniugando la dimensione ludica con quella del conflitto, con la politica. Perfino lo scontro con la polizia viene teatralizzato: ci si siede in ordine prefigurato in mezzo alla strada o si attraversa

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in fila indiana e ritmicamente le vie del centro cittadino ondeggiando; si interrompe, provocandone la chiusura, il congresso nazionale dell’ Istituto Nazionale di Urbanistica al Teatro Mediterraneo della Mostra d’Oltremare, salendo sul palco con configurazione teatrale di danza ritmata, quasi una marcia che mima un assedio alle autorità politiche e accademiche al grande tavolo della presidenza, performance alla Living Theater e anche sceneggiata. O addirittura si arriva a mimare un assalto all’ambasciata USA nello spazio aperto del lungomare Caracciolo. Questo fino a novembre ’68, quando l’anno breve volge al termine. Allora i ragazzini che stanno salvando il mondo – insieme, quelli che giocano poco e quelli che fanno festa lottando – (i FM, felici molti, nella metafora del poema di Elsa Morante11), cozzano contro il muro dell’ordine costituito e ripiegano su sé stessi. Nel caso del movimento di Architettura, le avanguardie spontanee dell’anno breve provvedono all’uccisione del padre, ma segue 11 Elsa Morante, Il mondo salvato dai ragazzini e altri poemi, Einaudi, Torino 1968; ora, nuova edizione, con Prefazione di Goffredo Fofi, Torino 2012; dello stesso Fofi è da ascoltare la trasmissone dedicata al ’68 di Radio3, «Pantheon» del 4 marzo 2018 dall’app Radiorai Play. Bene fa Enrico Deaglio a riferirsi a questi poemi morantiani a proposito delle manifestazioni che si sono succedute in America di giovani e giovanissimi contro l’uso e la vendita delle armi: L’America salvata dai ragazzini, «il Venerdi di Repubblica», 9 marzo 2018; Bravi ragazzi, ivi, 6 aprile 2018. Fofi fornisce una preziosa indicazione, la lettura di altri due testi, successivi al ’68, di Elsa Morante, raccolti nel fascicoletto: Elsa Morante, Piccolo Manifesto dei Comunisti (senza classe né partito). Lettera alle Brigate Rosse, nottetempo, Roma 2004.

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immediatamente la sottomissione ad un nuovo e più rigido padre, l’Unione di “Servire il popolo”. Con il risultato via via più evidente di ingrossare le fila degli IM, gli infelici molti della metafora morantiana. In ogni modo, il ’68 napoletano, nell’anno breve, ha mostrato il volto dell’avvenimento-sfinge. Come lo ha rappresentato Edgar Morin: Non è una rivoluzione mancata, piuttosto contiene un doppio messaggio rivoluzionario: mischiato a quello della vecchia rivoluzione, quello di una nuova rivoluzione. Non è soltanto una esplosione che illumina in un flash delle profondità invisibili del nostro mondo sociale. Al contrario di coloro che hanno ridotto il maggio ’68 all’insignificanza, al contrario di coloro che vi hanno visto i primi tre colpi della imminente rivoluzione, noi abbiamo diagnosticato, Castoriadis, Lefort ed io stesso, nel libro che reca questo titolo, che una breccia irrefrenabile si era aperta sotto la linea fluttuante del nostro ordine sociale. E, in questo senso, maggio può essere considerato un punto di passaggio una Pasqua. In cui tutto un rimosso, tutto un bisogno, tutta una libido si sono precipitati12. Edgar Morin-Claude Lefort-Cornelius Castoriadis, Mai 68. La Brèche suivi de Vingt ans après, Fayard, Paris 2008, pp. 2056. Dei soli scritti di Morin è annunciata la traduzione italiana da Raffaello Cortina per il mese di maggio, con l’anticipazione del risvolto editoriale: «Che cosa è stato il Maggio 68? Lo sguardo straordinariamente acuto di Edgar Morin sugli eventi di quel mese cruciale (università occupate, agitazioni, barricate, scontri) restituisce un’immagine vivida dell’amalgama che dà origine alla protesta. Sempre intrecciando istanze libertarie e velleità rivoluzionarie, conflitto generazionale e lotta di classe, il movimento studentesco e giovanile di quell’anno apre una faglia, 12

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Anno breve, dunque: grosso modo, da marzo a novembre del ’68. Già in uno dei due preziosi fascicoli che hanno accompagnato la mostra del 1998 alla Biblioteca Nazionale di Napoli, è scritto: «Anche per Napoli il Sessantotto è stagione breve, che si concentra in pochi mesi di critica radicale e spontanea»13. In realtà, in tutto il movimento del ’68, a livello globale, è avvenuto e si è compiuto un processo di soggettivazione. Il potere nell’età della mondializzazione, il biopotere produce mediante la pratica della biopolitica nuovi soggetti, ma questi soggetti non sono tutti immediatamente assoggettati. Agisce in essi uno stimolo alla resistenza all’assoggettamento, ad essere il più possibile autonomi, a pensare, parlare e agire in modo autonomo rispondendo alla propria individualità secondo dispositivi criticamente elaborati. Questo è il processo che Foucault definisce con la nozione di soggettivazione, e che comporta insieme la presa di coscienza di una dimensione interna del soggetto, la sua elaborazione in discorsi, la presa di parola conseguente, il passaggio ad una pratica a sua volta conseguente. E dunque dall’interno il soggetto una breccia, dentro la quale si riversano processi innovativi: la parità uomo-donna, la difesa delle minoranze, la coscienza ecologica, l’esigenza di riappropriarsi delle scelte di vita. La rivolta studentesca e giovanile del maggio non sfocia, secondo Morin, in una rivoluzione politica o sociale, ma annuncia un rinnovamento culturale e antropologico. La crisi che provoca non è una crisi politica ma una strisciante crisi di civiltà, di quella “civiltà del benessere” ancora trionfante negli anni immediatamente precedenti il 1968». 13 Napoli frontale; politica, soggetti sociali ed altre storie, edito dalla Biblioteca Nazionale di Napoli, p. 13.

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proietta il proprio sé all’esterno, verso una dimensione che è insieme, ma non simultaneamente, etica e politica. Passaggio decisivo è quello che Foucault definisce «la formazione futura di un “noi”», di un soggetto collettivo cioè. Judith Revel avverte, in conclusione, contro ogni semplificazione e riproposizione di schemi passati rivelatisi impotenti e fallaci: Se vogliamo rendere possibile la «formazione futura di un “noi”», dobbiamo ricominciare a pensare la soggettività come prodotto delle pratiche, e non, al contrario, come la condizione di possibilità di queste stesse pratiche. O, per dirlo con più chiarezza, “soggettivazione” è il nome di un rovesciamento che fa derivare il comune dall’agire; e che, avendolo prodotto, lo rilancia sempre più in là, dove la sperimentazione apre varchi nell’esistente14.

Michel de Certeau, ha a caldo, nel fuoco stesso del maggio parigino colto la novità e l’importanza del fenomeno che si realizzava, la presa di parola e il carattere di rivoluzione simbolica che lo caratterizza: Lo scorso maggio, la parola è stata presa come nel 1789 è stata presa la Bastiglia. La piazzaforte occupata è quel sapere detenuto dai dispensatori di cultura, destinato a mantenere l’integrazione o la reclusione di studenti lavoratori e operai entro un sistema che prestabilisce la loro funzione. Dalla presa della Bastiglia alla presa della Sorbona, tra questi due simboli vi è una differenza essenziale che marca l’evento del 13 maggio 1968: oggi è la parola a essere stata Judith Revel, Tra politica ed etica: la questione della soggettivazione, all’indirizzo: www.euronomade.info/?p=3572. 14

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liberata. […] Una specie di festa (quale liberazione non è una festa?) ha trasformato dall’interno questi giorni di crisi e di violenze – una festa legata, ma non riducibile, ai giochi pericolosi delle barricate o allo psicodramma di una catarsi collettiva. Qualcosa è successo. Dentro di noi, qualcosa ha cominciato a muoversi. Voci mai sentite ci hanno trasformato – originate in un luogo ignoto, riempiono improvvisamente le strade e le fabbriche, circolano tra noi, diventano nostre senza essere più il rumore soffocato delle nostre solitudini. Perlomeno, avevamo questa sensazione. Quanto si è prodotto è questo: ci siamo messi a parlare. Sembrava fosse la prima volta. Da ogni dove uscivano tesori, addormentati o silenziosi, di esperienze mai nominate.» Una rivoluzione simbolica la definisce il gesuita, psicoanalista e storico francese: «Rivoluzione simbolica, quindi, sia per il fatto che essa significa più di quanto metta in atto, sia perché contesta delle relazioni (sociali e storiche) per crearne altre di autentiche. Allo stesso modo, il “simbolo” è l’indice che marca tutto il movimento, nella sua pratica come nella sua teoria15.

La presa di parola manifesta la conquista di un “noi”, la realizzazione di una nuova identità di un nuovo soggetto, più di una classe, un “noi” in cui vive concretamente un senso di comunità, che si esprime nella festa, nella mescolanza di gioco e serietà. Maurice Blanchot lo sintetizza in maniera esemplare: Il Maggio ’68 ha mostrato che, senza progetto, senza congiura, poteva, nell’imprevisto di un incontro felice, come una festa che sconvolgesse le forme sociali ammesse Michel de Certeau, La presa della parola e altri scritti, Meltemi, Roma 2007, p. 37; p. 30. 15

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o sperate, affermarsi (affermarsi al di là delle forme usuali dell’affermazione) la comunicazione esplosiva, l’apertura che permetteva a ciascuno, senza distinzione di classe, di età, di sesso o di cultura, di frequentare il primo venuto, come un essere già amato, precisamente perché egli era il familiare-sconosciuto. […] Contrariamente alle “rivoluzioni tradizionali” non si trattava solo di prendere il potere, per sostituirlo con un altro, né di prendere la Bastiglia, il palazzo d’Inverno, l’Eliseo o l’Assemblea nazionale, obiettivi senza importanza, e nemmeno di rovesciare un mondo vecchio, ma di lasciare che si manifestasse, al di fuori di ogni interesse utilitario, una possibilità di essere-insieme che rendeva a tutti il diritto all’uguaglianza nella fraternità, in virtù della libertà di parola che esaltava ciascuno16.

Paul Goodman, il lucido, quasi profetico analista della condizione giovanile delle società avanzate, ha proposto una originale versione dell’anarchia adeguata ai nostri tempi: L’anarchia richiede competenza e fiducia in sé stessi, il sentimento che parte del mondo mi appartiene. Non fa presa tra gli sfruttati, gli oppressi e i colonizzati. Così, sfortunatamente, manca di una spinta potente verso il cambiamento rivoluzionario. E tuttavia nelle floride società liberali d’Europa e d’America abbiamo una favorevole possibilità di questo tipo: le persone sufficientemente autonome, fra la classe media, i giovani, gli artigiani e i professionisti, non possono fare a 16 Maurice Blanchot, La comunità inconfessabile, Feltrinelli, Milano 1984, p. 48. Alla comunità del ’68 è dedicata la prima parte dell’importante saggio di Francesca Socrate, Una morte dimenticata e la fine del Sessantotto, in «Dimensioni e problemi della ricerca storica», n. 2/2007, pp. 159-162.

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meno di vedere che non è possibile continuare così con le attuali istituzioni. Non possono fare un lavoro onesto e utile o praticare nobilmente una professione; le arti e le scienze sono corrotte; imprese modeste devono essere gonfiate oltre ogni misura per sopravvivere; i giovani non riescono a trovare una vocazione; è difficile crescere i bambini; il talento è soffocato dai titoli di studio; l’ambiente naturale viene distrutto; la salute è messa in pericolo; la vita della comunità è inconsistente; i quartieri sono brutti e insicuri; i servizi pubblici non funzionano; le tasse vengono sperperate per guerre, insegnanti e politici. Allora essi possono fare dei cambiamenti, per estendere le aree di libertà eliminando sempre più le interferenze. Tali cambiamenti possono essere a spizzichi e non drammatici, ma devono essere essenziali, poiché molte delle attuali istituzioni non possono essere rimodellate e la tendenza del sistema nel suo insieme è disastrosa. Mi piace il termine marxista «estinzione dello Stato», ma deve iniziare ora, non in futuro; e la meta non è una Nuova Società, ma una società tollerabile in cui la vita possa andare avanti17.

E dunque la libertà è condizione necessaria per liberarsi dall’oppressione di un mondo alienante e oppressivo, e perciò anche condizione necessaria per la costituzione di un “noi”, di un soggetto collettivo, in cui gli individui si sentano in comunità con altri individui. È questa la condizione per lo sviluppo della libertà in vera e propria autonomia, secondo la straordinaria indicazione di Paul Goodman, nel suo ultimo 17 Paul Goodman, Amo la libertà, ma preferisco l’autonomia, in «libertaria», a. 2, n. 1, 2000, pp. 93-96. Da leggere anche la raccolta di saggi Paul Goodman, Individuo e comunità, a cura di Pietro Adamo, elèuthera, Milano 1995; e naturalmente il classico Paul Goodman, La gioventù assurda (1964), Einaudi, Torino 1964.

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articolo, pubblicato sulla stampa americana dopo la sua morte nel 1972, molti anni prima del crollo dell’impero sovietico. Strada difficile e faticosa, perché non prevede scorciatoie, ma è anche la sola che conduca fuori dall’inferno e dal purgatorio. Per me il principio cardine dell’anarchia non è la libertà ma l’autonomia, la capacità di assumersi un compito e di portarlo avanti a modo proprio… La debolezza del ‘mio’ anarchismo è che la sete di libertà è una spinta potente al cambiamento sociale, mentre l’autonomia non lo è. Le persone autonome sanno difendersi con tenacia ma con mezzi meno irruenti, fra cui buone dosi di resistenza passiva. Vanno avanti comunque per la propria strada. Il dramma degli oppressi tuttavia è che, se d’un tratto conquistano la libertà, non sanno cosa fare. Non essendo abituati all’autonomia, non sanno cosa significhi, e prima che lo imparino hanno dei nuovi dirigenti che non hanno fretta di dare le dimissioni…

In questo mancato passaggio all’affermazione di una piena e salda autonomia – autonomia, vuol dire capacità di darsi le regole da sé, di autogoverno –, e quindi della compiuta realizzazione ed espressione di un “noi”, di una soggettività piena ma non chiusa, appunto in questo mancato passaggio matura la crisi del movimento del ’68 e a Napoli si spegne quel ricco, fervido, festoso anno breve. Non senza lasciarci un ammonimento: è un errore grave pensare e operare per imporre dall’alto una direzione di questo passaggio. Più utile, necessario l’ascolto e favorire occasioni, sedi e opportunità per la maturazione della autentica libertà e autonomia.

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Antonio Gargano LA SINISTRA UNIVERSITARIA. APPUNTI PER UNA STORIA …non parlate troppo presto perché la ruota sta ancora girando e nessuno può dire chi sarà designato il perdente di adesso sarà domani il vincente perché i tempi stanno cambiando (Bob Dylan, da: The times they are a-changing)

In occasione del decennale del ’68 Enrico Flores, che sarebbe stato poi autore di un romanzo autobiografico centrato su quell’anno (Felipe all’opera nel ’68, Liguori, Napoli 2004), in un articolo intitolato Napoli isolata ma non periferica, apparso su «La Voce della Campania» del 28 maggio 1978, dopo aver rilevato la “specificità” e la “diversità” del Sessantotto napoletano rispetto allo sviluppo del movimento studentesco in altre città italiane, costatava «il cronico isolamento di Napoli rispetto alla cassa di risonanza dei mass media nazionali», isolamento che contribuiva alla mancata comprensione di quel fenomeno. A quattro decenni

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di distanza da quell’articolo, questo rilievo si potrebbe ripetere inalterato, se si tiene presente quello che finora è il maggior contributo alla discussione sul ’68 italiano nella ricorrenza del cinquantenario, i fascicoli di «Micromega» I e II del 2018, che nel corso di circa 430 pagine non fanno alcun cenno agli eventi napoletani. A un livello locale si è identificata di volta in volta la specificità del movimento a Napoli nella partecipazione al movimento stesso – al fianco degli studenti – degli assistenti e dei professori incaricati, nell’insistenza delle lotte sull’inscindibilità del binomio ricerca-didattica (v. le battaglie sull’area della ricerca a Napoli), nelle piattaforme sull’edilizia universitaria (secondo Policlinico), e così via. Il movimento napoletano, insomma, avrebbe tenuto particolarmente conto della realtà cittadina, territoriale, e della concreta vita universitaria, anche se c’è da dire che di accuse di astrattezza gliene furono rivolte parecchie; una per tutte: «A quelli della S.U. interessava più un contadino vietnamita che un operaio della mensa» (da un’intervista riportata in: Giulio De Martino, La prospettiva del ’68, Liguori, Napoli 1998, p. 166). Ma Napoli non fu lo “specchio opaco” di quel che avveniva altrove, né si chiuse in problematiche puramente locali. Semmai la specificità del movimento studentesco napoletano fu proprio quella di “venire da lontano” e di guardare lontano, con l’inquadramento delle lotte in una cornice teorica di ampio respiro, come si cercherà di dimostrare nelle note che seguono. Girolamo Imbruglia, in un articolo intitolato Fare la storia del ’68 a Napoli (apparso nel dicembre 2017 su «la Repubblica» Napoli), dopo aver rilevato, contro

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La Sinistra Universitaria. Appunti per una storia

ogni riduzionismo, che «il ’68 non fu soltanto un segno del freudiano disagio della civiltà, ma fu un serio e non velleitario pensiero della rivoluzione, che suscitò una profonda riflessione sulle nuove condizioni storiche, sulle ideologie, sui soggetti», scorgeva il pericolo che prevalessero «affabulazioni individuali insignificanti, o peggio false», e indicava una via più corretta di ricostruzione degli eventi», quella della verità storica: rileggere e pubblicare i documenti dei gruppi che furono presenti e che rappresentano la storia reale, non romanzata […] di quel movimento». È grande merito di Alfredo Laudiero l’aver raccolto, riordinato e messo in rete [http://www.centrodocpistoia, alla voce “Movimento Napoli”] migliaia di pagine di documenti prodotti dalla Sinistra Universitaria fra il 1967 e il 1972, facendo seguito a un analogo e benemerito lavoro di un gruppo di bibliotecari della Biblioteca Nazionale Vittorio Emanuele III, fra i quali Antonia Cennamo, Luigi D’Amato, Lucia Marinelli. È proprio dalle brevi, ma dense e precise introduzioni di Alfredo Laudiero alle varie sezioni del fondo “Movimento di opposizione. Napoli 1967-1972” che prende l’avvìo questo contributo. Non ci si è proposti di ricordare gli eventi, fra cui quelli più significativi sono fra l’altro discussi negli scritti della presente antologia, ma piuttosto di dare un’idea del livello del contributo teorico germinato sul terreno del movimento studentesco a Napoli, la cui portata è di qualità enormemente superiore a quello di qualsiasi altro apporto di riflessione e di analisi, italiane e anche internazionali, fatta eccezione forse per qualche aspetto dell’opera di Rudi Dutschke. È auspicabile che a questi appunti faccia seguito uno studio

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accurato e sistematico delle circa 2.500 pagine di documenti raccolti da Laudiero (che pure non hanno «alcuna pretesa di completezza»). La complessità e la ricchezza delle tracce scritte lasciate dal movimento studentesco napoletano è testimoniata dalla stessa articolazione degli organismi afferenti alla Sinistra Universitaria: Movimento studentesco universitario, Sinistra studenti medi, Collettivo di Lavoro Operaio, poi Rivoluzione Operaia, Centro Studi sull’Istruzione e la Ricerca (CSIR), casa editrice Thélème e soprattutto il Centro, che nato nella primavera-estate del 1968, è forse l’elemento più peculiare dell’insieme di iniziative sorte intorno alla Sinistra Universitaria e in cui fu rilevante la presenza di due ex membri del Gruppo Gramsci attivo a Napoli intorno alla metà degli anni Cinquanta, Ennio Galzenati e Ugo Feliziani, il secondo nella fase intermedia della vita del Centro. Il principale indirizzo di lavoro del Centro si basava sull’idea che il mondo è entrato in una nuova fase di sviluppo, caratterizzata dall’allargarsi del ruolo della scienza nei processi produttivi, dall’estendersi dell’automazione e del ruolo dell’organizzazione del lavoro. Il Centro si proponeva l’obiettivo a lunga scadenza della costruzione di capacità teoriche e pratiche di direzione, valutando con saggezza e cautela l’immaturità delle forze storiche di opposizione e la persistente arretratezza dei livelli di scontro («mancano una teoria e una avanguardia adeguate al livello dello scontro e le nuove forze sociali subordinate non hanno ancora raggiunto una maturazione sufficientemente profonda»). In coerenza con questa valutazione, il Centro decideva di non rendere pubblica la propria esistenza al di fuori della Sinistra Universitaria. Quest’organismo, costituito

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di militanti “anziani” della Sinistra Universitaria, di ricercatori e di docenti, dava luogo a una vasta produzione teorica, animando una dimensione “esoterica” della Sinistra Universitaria, sconosciuta alla stessa maggioranza dei “semplici” militanti della S.U. Quest’organismo, che mi piacerebbe definire “pitagorico”, è stato il più significativo trait d’union fra il Gruppo Gramsci degli anni Cinquanta e l’Istituto Italiano per gli Studi Filosofici, nato a metà degli anni Settanta per iniziativa di Gerardo Marotta. In comune fra queste tappe d’un unico percorso c’è, fra l’altro, la rivendicazione della scienza come fattore decisivo della strumentazione teorica da elaborare a fini emancipativi, andando oltre l’apporto, importante, ma insufficiente, del marxismo. Durante la breve stagione del movimento studentesco, il Padiglione 19 della Mostra d’Oltremare, sede dell’Istituto di Fisica Teorica diretto da Eduardo Caianiello, fu la fucina delle idee del movimento grazie all’opera di una nutrita pattuglia di brillanti studenti e ricercatori di fisica, fra cui Ennio Galzenati, Emilio Del Giudice, Ruggiero de Ritis, Francesco del Franco, Renato Musto, Roberto Pettorino, Giovanni Platania, per ricordare solo gli scomparsi di cui mi resta un forte ricordo. Per quanto riguarda l’importanza della componente scientifica nell’Istituto Italiano per gli Studi Filosofici, basti pensare al ruolo di Presidente Onorario dell’Istituto ricoperto a lungo dal premio Nobel per la Chimica Ilya Prigogine e alle centinaia di convegni, seminari, pubblicazioni di scienze promossi dall’Istituto, fra cui basti ricordare soltanto quelli tenuti da premi Nobel da Rita Levi Montalcini a Carlo Rubbia, Sheldon Glashow, Robert Laughlin, Steven Weinberg.

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Nella “Dichiarazione programmatica degli aderenti alla Sinistra Universitaria” si rileva che con lo sviluppo delle forze produttive e dell’organizzazione sociale, maturano le condizioni «su cui si può fondare la trasformazione socialista della società». Con un linguaggio preciso e calibrato si sottolinea che soltanto sulla base di sviluppi oggettivi si crea l’apertura per un intervento soggettivo che possa portare all’abbattimento del privilegio e dello sfruttamento e alla direzione sociale della vita pubblica. Fin dal suo “biglietto da visita” la Sinistra Universitaria segnala una direttrice di marcia che rifugge sia dal bordighiano automatismo delle trasformazioni a prescindere dall’apporto cosciente, sia dal volontarismo e dall’avventurismo. L’opportunismo, le tendenze moderate e conciliatorie, hanno prevalso nelle formazioni politiche della sinistra tradizionale «con il sostegno delle forze privilegiate che dominano in Unione Sovietica». È da notare la cautela usata nella stessa denominazione dell’assetto dell’URSS, che non viene definita né con la categoria di “capitalismo di Stato”, né con quella di socialfascismo, né, ovviamente, con quella di “primo paese socialista”. La Sinistra Universitaria si distanzia quindi tanto dai trotzkisti e dai filocinesi, quanto dai revisionisti, e sottintende l’esigenza di una comprensione scientifica della natura dell’Unione Sovietica, cui si applicavano formule retoriche vuote, di carattere apologetico, o di altrettanto retorica condanna (queste ultime tuttora prevalenti). Alla comprensione della natura del “socialismo reale”, decisiva per la formulazione di una teoria adeguata alle nuove contraddizioni del mondo dopo il ’17, gioverà «il recupero dell’esperienza teorica e pratica del leninismo,

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arricchendolo con gli originali contributi del pensiero rivoluzionario degli ultimi quaranta anni ed anzitutto della Rivoluzione culturale cinese». Nel documento programmatico ogni azione politica nell’Università veniva ipotizzata come diretta contro le forze arretrate e conservatrici, ma anche contro «le forze sociali e politiche che ispirano il revisionismo moderno», vale a dire i partiti della sinistra parlamentare e gli “entristi”, che si illudevano di poter radicalizzare dall’interno i partiti della sinistra parlamentare. Gli aderenti alla Sinistra Universitaria, pur nella priorità assoluta dello sviluppo della teoria, si proponevano di «raccogliere e generalizzare» le esperienze di massa, vale a dire di esercitare una concreta direzione politica delle lotte degli studenti. Venivano aspramente criticati i gruppi che proponevano piattaforme “accademiche”, corporative, e sostenevano la “sindacalizzazione” del movimento universitario, a tutto vantaggio della politica di integrazione degli studenti da parte della sinistra ufficiale. Veniva inoltre vista come necessaria la formazione di «centri permanenti di orientamento e di iniziativa», preludio fra l’altro all’installazione, il 12 dicembre 1968, nell’Istituto di Storia Moderna e Medievale al corso Umberto, della sede del movimento studentesco napoletano, di cui si parla nell’opuscolo Esperienze di lotta politica, ristampato in gran parte nell’antologia presente in questo volume. Le proposte della Sinistra Universitaria al movimento erano sempre dettate dall’attenzione allo spazio politico oggettivo che era possibile occupare, evitando in ogni circostanza l’opportunismo di destra e l’estremismo di sinistra, cioè rifiutando da una parte

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il compromesso, la cogestione, l’abbandono delle rivendicazioni di punta (“socialiste”), il corporativismo, la settorializzazione, dall’altra il settarismo, il disconoscimento delle piattaforme di massa (“democratiche”), la presunta purezza rivoluzionaria, le fughe in avanti. Il movimento studentesco napoletano veniva dunque indirizzato a evitare ogni ipotesi di crescita quantitativa, orizzontale, così come di ogni impennata elitaria, che sfociasse in un velleitarismo verboso e staccato dalla realtà. Il leninismo, cui di continuo ci si rifaceva, era infatti inteso prima di tutto come confronto dialettico con i termini oggettivi della realtà. Le contraddizioni vissute dallo studente erano viste come legate al suo essere sociale più generale e venivano quindi interpretate come contraddizioni di tipo politico-culturale. Nel rifiuto di ogni ipotesi di sindacalizzazione del movimento studentesco, questo veniva spinto a rivendicare i più ampi livelli di generalità nella comprensione della realtà e nella collocazione delle proprie lotte politiche. «Un intervento politico in questi termini non esaurisce però il compito di proporre esperienze ai più ampi livelli di generalità. È necessario che questa esperienza di generalità sia portata avanti non solo in senso strettamene politico, ma in una prospettiva più vasta di formazione culturale e umana: il solo lavoro politico, teorico e pratico, che è un momento essenziale dello sviluppo della coscienza, non basta ad assicurare una maturazione ricca e piena se non è collocato in un contesto che ne renda evidenti i collegamenti con tutti i problemi connessi allo sviluppo della storia». La Sinistra Universitaria rivendicava la continuità con la tradizione del marxismo e del leninismo e si

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contrapponeva a ogni atteggiamento antiscientifico e anticulturale. Veniva indicata come decisiva la congiunzione della politica con i contenuti etici e conoscitivi dell’umanità. Con queste parole veniva annunciato il controcorso sulla Rivoluzione d’Ottobre vista nel quadro della storia dal 1870 al 1920: «Va riproposta, in una dimensione collettiva, una esperienza che stimoli la capacità di comprensione degli elementi complessivi di sviluppo della storia sulla base di un discorso che si colleghi al momento più maturo della tradizione rivoluzionaria, il leninismo, con una impostazione quindi coerente a una concezione rivoluzionaria del mondo». L’intervento teorico e politico di Lenin veniva ancora una volta proposto come decisivo. Il leninismo veniva inteso come la più matura teoria dell’intervento della coscienza nella storia. Che la coscienza, cioè la ragione, potesse, anzi dovesse guidare la storia, era riconosciuto come un concetto decisivo della rivoluzione borghese. Non aveva forse Hegel affermato nelle sue lezioni di filosofia della storia che la Rivoluzione francese è stata «una splendida aurora» per tutti gli esseri pensanti? Su questa scia il marxismo, rilevata l’oggettività delle leggi del procedere della storia, critica la presunta universalità della ragione borghese, ne identifica i limiti storici e indaga le specifiche leggi di sviluppo della società capitalistica. Ma oltre alle leggi dei fatti obiettivi «sulla cui base può profilarsi un modello di organizzazione umana in qualche modo contenuto nelle contraddizioni stesse della società in cui si vive» (Perché studiare Lenin), vi sono anche le leggi dell’intervento della ragione nella storia, che il leninismo ha individuato. Ogni spontaneismo irrazionalistico va

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respinto: la rivoluzione non è parto spontaneo della storia, moto insurrezionale improvviso, frutto della astratta volontà degli uomini, bensì «è processo lungo e faticoso di costruzione, irto di tutte le difficoltà connesse alla condizione di chi deve elaborare i propri strumenti teorici e pratici di lotta e ordinare le sue forze nel campo stesso del nemico; è intelligenza delle leggi della storia, e capacità di adoperarvisi e di servirsene […]». Il leninismo comporta la comprensione dell’assetto cui è pervenuto il capitalismo (L’imperialismo fase suprema del capitalismo), la collocazione delle contraddizioni particolari nel quadro generale delle contraddizioni dell’imperialismo, la differenziazione fra le “piattaforme democratiche” e le “piattaforme socialiste” e la subordinazione delle prime alle seconde, la centralità della direzione dei processi politici contro ogni indulgenza allo spontaneismo, l’autonomia dell’agire rivoluzionario al di fuori di ogni cedimento alla cogestione (all’accettazione cioè di un coinvolgimento in decisioni in una posizione subordinata), la denuncia dell’economicismo dei sindacati che va subordinato al primato della politica. «Il leninismo – concludeva la premessa al ciclostilato Perché studiare Lenin – rappresenta il complesso di dottrine e di esperienze politiche rivoluzionarie di gran lunga più importante cui un militante possa riferirsi nel suo sforzo di comprensione del mondo contemporaneo e nel suo impegno a trasformarlo». Anche la tempestiva analisi dei “fatti di Francia” pubblicata in ciclostilato con data maggio 1968 (Bollettino della S.U. dedicato ai fatti di Francia; v. anche

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Università 1968: “Gli avvenimenti francesi e l’unità antifascista”) si caratterizzava per una lucida identificazione delle contraddizioni interne agli schieramenti che si erano scontrati. Prima di tutto il “maggio francese”, in polemica con le posizioni terzomondiste, veniva visto come una conferma del ruolo centrale dei paesi avanzati nel mondo contemporaneo e dell’esistenza in questi paesi di forti contraddizioni in grado di scatenare una crisi rivoluzionaria «smentendo tutti quei gruppi che fino a qualche mese fa affermavano che il capitalismo dei paesi avanzati potesse essere distrutto solo sulla base di un attacco esterno, proveniente dalle zone di maggiore sottosviluppo – la campagna del mondo». È evidente che, pur nel rispetto e nell’ammirazione per la figura di Che Guevara, se ne respingevano le tesi sostenute nell’appello Creare due, tre, molti Vietnam è la consegna dei popoli. L’analisi partiva dalla ricostruzione del processo di modernizzazione dell’università e della ricerca scientifica promossi da settori del regime di Charles de Gaulle per inserire la Francia, con un posto di preminenza, nell’intenso processo di sviluppo industriale e tecnologico in corso nei paesi avanzati. L’ampio disegno di rammodernamento dell’Università implicava però un adeguamento dell’istituzione universitaria al modello dell’impresa, generando motivi di insoddisfazione in ampi strati di insegnanti e di studenti. Ne conseguiva la crescita di un movimento di opposizione nelle università tendenzialmente scisso in due filoni, uno più presente nelle facoltà scientifiche, l’altro in quelle umanistiche. Gli aderenti al primo schieramento avanzano la richiesta della partecipazione alla gestione e

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al controllo del potere nell’Università, reclamando la soppressione del vecchio autoritarismo accademico e la sostituzione della rigida suddivisione in facoltà con organismi misti di gestione formati da studenti, ricercatori, docenti. «L’immaturità politica di queste forze – veniva sottolineato – si rivela nel mancato esame dell’organizzazione della società moderna nel suo insieme e di conseguenza nel non affrontare in modo centrale il problema del potere politico». Il secondo filone si collegava all’avanguardia artistica di sinistra e al pensiero irrazionalista, giungendo a vedere nella scienza uno strumento di repressione e di dominio e rifiutando ogni pianificazione centralizzata «contestata in se stessa e non nel suo uso sociale». Alle rivendicazioni iniziali degli studenti di Nanterre, limitate alla richiesta di partecipazione al governo dell’università, di fronte alla totale chiusura del governo e alla superficiale ironia dell’opposizione, fa seguito una rapida radicalizzazione delle masse studentesche, che danno luogo a clamorose manifestazioni nel Quartiere Latino a Parigi, sfociate in durissimi scontri con la gendarmeria, e al dilagare della contestazione in vasti settori operai, attratti soprattutto dalle parole d’ordine della partecipazione e dell’autogestione. Il 19 maggio, quando l’ondata degli scioperi è ancora nella fase crescente (toccherà i dieci milioni di operai in sciopero), la Confédération Général du Travail, il sindacato equivalente alla nostra CGIL, denuncia gli studenti e gli operai in agitazione come “avventurieri e provocatori” e, subito seguito dal PCF, offre un appoggio al governo gollista, aprendo trattative sindacali pur di recuperare il controllo del movimento spontaneo che aveva ormai

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quasi perduto. Si profila a questo punto una lettura originale del “maggio” da parte della S.U.: i comunisti e i sindacati fanno blocco col capitale avanzato (facente capo a de Gaulle), che auspica una forte presenza autonoma della Francia nel campo imperialista, mentre «i ruderi della IV Repubblica pre-gollista», i protagonisti delle guerre coloniali di Algeria e d’Indocina, della guerra di Suez «si vestono di panni giacobini e danno fiato alle trombe rivoluzionarie, sperando nella caduta di de Gaulle per porre lo Stato francese al servizio dei gruppi capitalistici filoamericani». In un’appendice allo scritto sul “maggio” francese intitolata Come si riconoscono i nemici di classe, la Sinistra Universitaria rileva che si sta sviluppando un vasto movimento”alla sinistra” della sinistra ufficiale, di cui critica lo spirito accomodante e la sostanziale alleanza con i gruppi capitalistici più avanzati, nel quadro della “coesistenza pacifica” in politica internazionale: «Questo movimento ha il suo punto di forza nelle università, che sono il settore più politicizzato della società, ed estende la propria influenza, come hanno dimostrato i fatti di Francia, anche sui gruppi operai di più recente formazione». Già da qualche anno si era profilata questa spinta di sinistra tendente al rifiuto della subordinazione e all’affermazione dell’iniziativa autonoma delle masse. In questi fermenti, che sfuggivano al controllo della sinistra ufficiale, si sono inseriti gruppi provenienti da esperienze politiche vissute all’interno e ai margini dell’ufficialità di sinistra che hanno introdotto nel movimento elementi di carattere stalinista, trotzkista, anarchico, che hanno fuorviato e rallentato il processo di maturazione del movimen-

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to stesso. Questi svariati raggruppamenti, unificati dal loro carattere non leninista, hanno puntato sullo sviluppo di massa del movimento spontaneo, senza cogliere in alcun modo l’esigenza decisiva di costruire un centro di contropotere politico reale. La strategia di questi gruppi dissidenti tende semmai a creare centri di contropotere a livello della società civile (fabbriche, scuole), prescindendo dalle caratteristiche essenziali della società moderna «che vede tutti i centri della società civile strettamente subordinati alla società politica, la quale dispone di mezzi formidabili, forniti dalla crescente centralizzazione dei processi sociali, per imporre le proprie scelte ai centri periferici […]. Le stesse forze oggettive che portano alla sparizione dei capitalisti individuali e alla loro sostituzione con i trusts o con la gestione statale, confinano nel regno delle utopie il sogno, tipico della mentalità contadina, dell’autogestione al livello locale». Non a caso è proprio il titoismo, «estrema destra dello schieramento “socialista” internazionale», che assegna ampio spazio all’autogestione di fabbrica, perfettamente funzionale anche a un sistema economico decisamente capitalistico, sia pure più avanzato di quello tradizionale. I consigli di fabbrica jugoslavi, come i regimi assembleari predicati dagli spontaneisti, non hanno nulla in comune con i soviet e si limitano alla gestione di settori particolari della società civile, nell’ambito di un assetto complessivo basato sullo sfruttamento (capitalistico) o sull’oppressione (pseudosocialista). La vittoriosa rivoluzione di Mao in Cina nel 1949 aveva suscitato fra i membri del Gruppo Gramsci, che si sarebbe costituito di lì a poco, la convinzione

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che la rivoluzione comunista stesse per prevalere su scala mondiale. Questo ricordo di Ugo Feliziani testimonia del clima di entusiasmo e di aspettative che ancora in quell’anno regnava fra i giovani comunisti napoletani. La ripresa del discorso rivoluzionario nel ’68 manifesta invece cautela nei confronti della Rivoluzione cinese e anche della successiva fase della Grande Rivoluzione culturale proletaria, che suscitava in altri ambienti del movimento esaltazioni sommarie e adesioni ingenue improntate a un vero e proprio primitivismo, che in breve tempo portarono alla nascita di vari Partiti Comunisti marxisti-leninisti e di Servire il Popolo. Il fascicolo Università 1968, riprodotto nell’antologia presente in questo volume, testimonia dell’attenzione per il tentativo allora in atto di andare oltre l’esperienza sovietica, ma insieme manifesta cautela circa i possibili sviluppi del socialismo in Cina: «L’importanza storica delle indicazioni della Rivoluzione culturale cinese deriva dal fatto che essa è una prima azione di massa contro l’organizzazione della società e del potere che è riuscita a prevalere in URSS e nei paesi dell’est europeo. Naturalmente non si può negare che l’espansione di questo movimento di massa è fortemente ostacolata, da un lato dall’esistenza di un implacabile accerchiamento internazionale, dall’altro, dalla stessa situazione cinese, che presenta i caratteri tipici di una società contadina in via di sviluppo. Il basso livello delle forze produttive e delle relazioni materiali fra gli uomini pone rilevanti problemi in connessione con la necessità dell’accumulazione primitiva e si deve temere che, nel corso dello sviluppo sociale ed economico della Cina, possano

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riproporsi e prevalere soluzioni dello stesso tipo di quella dell’URSS, con i loro limiti profondi». La riflessione sui limiti della Rivoluzione culturale proletaria veniva condotta sul filo dell’analogia con le lotte popolari italiane del secondo dopoguerra, quando operai, ceti medi, “capitalisti patrioti” nella lotta antinazista, si erano configurati – nel linguaggio maoista – come “popolo”. Le posizioni di Mao, e dei maoisti italiani venivano viste – in controtendenza con le apparenze e con le dichiarazioni velleitarie del P.C.d’I filomaoista e di Servire il popolo – come sostanzialmente analoghe a quelle del PCI, che, al pari dei filomaoisti, aveva fatto leva su un generico blocco popolare, ignorando volutamente le contraddizioni antagoniste interne a quel blocco di forze. Ancora una volta si rivelava chiarificatrice la distinzione operata dalla S.U. fra “arretrati” e “avanzati”, fra le forze più arretrate della borghesia e la borghesia progressista: l’opposizione del PCI, e dei filocinesi, era di fatto rivolta solo contro le prime, tradendo una impostazione in ultima analisi moderata. «[…]… l’ufficialità cinese propone una piattaforma in cui si confondono piattaforme democratiche, arretrate o avanzate che siano, e piattaforme socialiste; e, quanto ad affermazioni sul tema dell’unità di lotte democratiche e lotte socialiste, non si discostano poi di molto dalle affermazioni proprie dei partiti “revisionisti” contro cui si vorrebbe combattere». Il Centro Studi sull’Istruzione e la Ricerca (CSIR) dava luogo a un’accurata discussione della crescente importanza dei fattori scienza, ricerca e sviluppo nelle società avanzate, che si concretizzava nel sag-

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gio intitolato Sviluppo della ricerca scientifica nella fase imperialistica del capitalismo. Come in tutta la produzione teorica che s’irraggia dalla S.U., l’attenzione è focalizzata sugli aspetti contradditori del fenomeno esaminato: quello appunto del crescente ruolo della ricerca scientifica. Viene rilevato che questa non si presenta come un fattore direttamente produttivo, eppure richiede investimenti elevatissimi, i cui frutti possono essere colti da industrie concorrenti. Per questo i monopoli privati tendono a limitare i propri investimenti nelle attività di ricerca, eppure hanno interesse a sviluppare queste ultime. Giocando sul fatto che la ricerca è fattore di produzione per l’industria avanzata e insieme bene sociale, i monopoli privati sollecitano l’intervento dello Stato, «chiamato in quasi tutti i paesi capitalistici ad essere il principale finanziatore della ricerca e sviluppo». Questo processo genera ulteriori contraddizioni: «I monopoli privati, infatti, devono pesantemente intervenire per sopprimere o controllare eventuali forze che, sviluppandosi intorno a queste iniziative statali, tentino di affidare allo Stato una funzione direttamente legata ad attività produttive». Queste dinamiche vengono affrontare nel documento in particolare con riferimento agli Stati Uniti d’America. Si rileva poi la posizione subordinata dell’Europa e infine viene analizzata la ricerca scientifica nella situazione italiana, in cui vengono identificate due posizioni fondamentali in conflitto tra loro: quella delle forze economiche legate a settori produttivi arretrati e a basso contenuto tecnologico, forze per nulla interessate alla ricerca scientifica, e quella delle forze interessate a processi di ammodernamento strutturale.

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A loro volta queste ultime sono divise dal contrasto fra i gruppi che accettano la subordinazione all’imperialismo USA e quelli che invece tendono a porsi su un piano di autonomia rispetto a quest’ultimo. Emerge un quadro di forti contraddizioni, che si riverberano a livello politico, dando luogo a scontri anche aspri, come viene esemplificato in un’accurata analisi della storia del CNEN (Consiglio Nazionale Energia Nucleare) il cui drastico ridimensionamento fu dovuto all’intervento dell’industria nucleare americana e del personale politico più legato agli USA (in primis il partito socialdemocratico di Saragat). Alcuni militanti della S.U., sia della prima ora, sia aggregatisi nel corso delle lotte del movimento studentesco, tentavano un aggancio col mondo operaio. Come nelle sezioni precedenti di questo breve e molto parziale resoconto, preferisco non nominare nessuno, per non far torto a nessuno. A fine 1970 dalla S.U. nasceva il Collettivo di Lavoro Operaio (C.L.O.), che interveniva in alcune situazioni di lotta della classe operaia napoletana (Mecfond, Olivetti, Italsider): «L’intervento del C.L.O. nel mondo operaio vuol muoversi sul filo di un contributo alla creazione di centri di riferimento teorico e politico rivoluzionari a livello di massa, completamente alternativi alla sinistra “ufficiale”, solidamente attestata su posizioni opportuniste». Nel ciclostilato del C.L.O. intitolato Riforme e rivoluzione, si tentava un’analisi dello sviluppo del capitalismo italiano tesa a coglierne – come in tutta la breve, ma intensa tradizione della Sinistra Universitaria – le contraddizioni, le linee di spaccatura interne. ll punto di partenza era il sorprendente ricorso all’arma suprema dello sciopero

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generale per le riforme da parte di un sindacato che, dopo l’autunno caldo del 1969, si era affrettato a chiudere, in funzione pacificatoria, 3.500 accordi aziendali in cui le principali rivendicazioni operaie restavano insoddisfatte. Il processo di riforma veniva inquadrato nella storia recente dello scontro tra i gruppi monopolistici più avanzati (FIAT, Pirelli, Olivetti, IRI, ENI) interessati a una presenza sui mercati mondiali e quindi all’ammodernamento del sistema produttivo, e i settori capitalistici più arretrati, legati a forme di sfruttamento del lavoro salariato più arcaiche, meno efficienti e spesso parassitarie. Come esempio della spinta in atto per la modernizzazione veniva segnalata la nazionalizzazione dell’energia elettrica, «che ha significato un rafforzamento del grande capitale pubblico e una grossa razionalizzazione della struttura produttiva». Lo stesso “autunno caldo” veniva interpretato come un episodio della lotta tra capitalismo avanzato e capitalismo arretrato. Pur riconoscendo che si era trattato di una importante esperienza per la classe operaia (nascita dei consigli operai, di avanguardie rivoluzionarie, etc.) si rilevava che essa era stata strumentalizzata dal grande capitale «che se ne è servita come massa d’urto contro i gruppi capitalistici più arretrati». Le piattaforme salariali e normative dell’“autunno caldo” avevano infatti costituito un duro colpo per il capitalismo arretrato «che vive sul sottosalario, sulla violazione dei contratti e delle normative». Ma su quegli stessi piani salariali e normativi le concessioni del 1970 erano state agevolmente sopportabili per la FIAT o l’IRI, che non a caso avevano rotto il fronte padronale accordandosi

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direttamente col sindacato, scavalcando la Confindustria. La riforma della casa, la riforma sanitaria, etc. si profilavano a questo punto come un passaggio necessario al capitale avanzato italiano per ammodernare il sistema-paese, mettendosi in condizione di poter concorrere sui mercati internazionali con i paesi più progrediti sviluppando la produttività, togliendo spazio alla rendita parassitaria, concentrando il capitale finanziario, integrando le spinte della classe operaia: «[…] con le riforme il denaro che affluiva nelle tasche dello speculatore edilizio o dei clinici sanguisughe, viene assorbito nelle grosse concentrazioni finanziarie, che ne risultano rafforzate; si tenta di smorzare, inoltre, lo spirito di lotta del proletariato attenuando alcune forme di particolare disagio». Spero che anche da questi brevi cenni si possa scorgere l’ampia e metodica articolazione di interventi teorico-pratici che si diramavano dalla S.U., rendendo unica la configurazione del movimento studentesco napoletano. Questo infatti non restava un fenomeno spontaneo, ma neppure – come avveniva altrove – finiva col portare acqua al mulino della sinistra ufficiale o si trovava colonizzato da gruppuscoli più o meno velleitari. Il movimento studentesco napoletano veniva innervato e diretto da un’organizzazione di massa, la Sinistra Universitaria, che, a sua volta, rientrava in un progetto articolato in varie organizzazioni settoriali (Sinistra studenti medi, Collettivo di Lavoro Operaio, poi Rivoluzione Operaia, CSIR), tutte ruotanti intorno al Centro, che configuravano un assetto di partito, pur senza la più piccola velleità di presentarsi come un embrione di partito rivoluzionario, e questo in un

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momento in cui proliferavano i “partiti” filocinesi, o afferenti alla IV Internazionale trotzkista. Il rifiuto di ogni volontarismo e velleitarismo, l’adesione dialettica (non di positivistica accettazione) al terreno reale di scontro, caratterizzavano tutta la vita della Sinistra Universitaria e del movimento studentesco napoletano, che hanno avuto durata breve e hanno nella sostanza proceduto a un tempestivo autoscioglimento (mi riferisco al serrato confronto interno sul “politicismo” dell’autunno 1970) sulla base di una saggia, ma insieme drammatica, presa di coscienza che, già dopo l’attentato di piazza Fontana del 12 dicembre 1969, non sussistevano le condizioni per portare avanti un progetto rivoluzionario. E infatti, chi si è intestardito a cozzare contro la realtà ha soltanto agevolato i piani più reazionari. Pur dopo la dissoluzione della Sinistra Universitaria e il sopravvento di una diaspora caratterizzata da differenti percorsi esistenziali dei suoi militanti, ancora ci sono state significative manifestazioni legate a quell’esperienza, prima fra tutte l’attività della casa editrice Thélème. Il rigore teorico travasato dal Centro nella Sinistra Universitaria si manteneva intatto nella fase di scioglimento di quest’ultima: dal rifiuto di tutte le pratiche opportunistiche, conciliatorie nei confronti del PCI, si risaliva alle debolezze della stessa teoria marxista e delle sue previsioni sulle tendenze di sviluppo delle società contemporanee più avanzate, nella consapevolezza che il marxismo finisce per acquistare una funzione apologetica, di difesa dei rapporti sociali esistenti. Una volta conclusa l’esperienza della Sinistra Universitaria, rimaneva vivo nei suoi militanti il ricordo dell’ostilità

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dei ceti dominanti verso le grandi speranze espresse dal movimento giovanile del ’68, come pure restava viva la coscienza della cooperazione all’azione repressiva offerta dai partiti di opposizione (il PCI in prima istanza) e dalle loro costruzioni ideologiche. Il tentativo di proseguire un’esperienza teorica di decostruzione degli apparati ideologici e del marxismo stesso fu portata avanti ancora fino al 1973 con le pubblicazioni della casa editrice Thélème, creata col generoso impegno, primi fra tutti, di Francesco del Franco e Renato Musto, e soprattutto con i due tomi di In nome della necessità di Jean-Paul Malrieu, un chimico-fisico che aveva stretto amicizia col fisico Ennio Galzenati. L’opera – una serrata analisi dell’economicismo delle teorie economiche – sfociava in una tesi politica: «L’economicismo del movimento marxista ha sistematicamente impoverito le poste della rivoluzione e condotto il movimento rivoluzionario nell’impasse del socialismo produttivistico, gerarchizzato, specializzato». Il marxismo – sosteneva Malrieu (I,10) – soffre di un economicismo costitutivo, nel senso che la dipendenza delle categorie economiche dall’extraeconomico non vi è sufficientemente esplicitata. Il ’68 ha smentito l’economicismo: «Il maggio […] ci confermava anche quanto l’economicismo, e quello del Partito Comunista Francese in particolare, poteva soffocare la speranza e il desiderio ancora incosciente di un rovesciamento dell’ordine sociale nelle sue stesse basi, ricacciare indietro il sogno, privare di voce il desiderio». Il marxismo è utile in quanto rileva le contraddizioni del modo di produzione capitalistico, ma esso non dimostra la necessità scientifica della morte del capitalismo, né per la ipotizzata caduta tendenziale del saggio di pro-

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fitto, né per crisi di sovrapproduzione, né per una crisi internazionale o per una crisi ecologica planetaria. Non c’è alcuna necessità, cui potersi affidare à la Bordiga. Ma non c’è neppure alcuna libertà di collocarsi immediatamente in una logica totalizzante con un discorso “ispirato-ispiratore” quale quello dei situazionisti, che rifiuta la critica analitica, approdando a un discorso in fondo moralistico, che si pone come negazione già in atto del regno della separazione (I, 11), e sfocia in «un discorso sovversivo immanente, invocatorio». L’opera si conclude con la considerazione che «la rivoluzione non è fallita per essere troppo ambiziosa, per aver troppo voluto, essa è fallita per aver conservato con il vecchio mondo, insieme con la rappresentazione borghese, troppi legami che la respingevano nei binari in cui noi viviamo» (II,198). L’errore più grave del marxismo sta nell’aver localizzato nei rapporti di produzione il luogo dello sfruttamento e dell’oppressione e nell’aver visto nella tecnica (II, 181) “per sé” l’arma della libertà. Ma dal maggior errore scaturisce la verità più significativa: «È nell’organizzazione materiale dell’esistenza che si iscrive il possibile degli uomini» (II, 182). Massimo Bontempelli, autore di una delle più brillanti sintesi degli eventi del ’68 planetario, Il Sessantotto. Un anno ancora da capire (CUEC, Cagliari 2008), in un’intervista a «Micropolis» (febbraio 2009), affermava: «Il 1968 non è stato un “nuovo inizio” di nulla. Ha dato un contributo importante allo svecchiamento del Paese dalla sua cultura chiesiastico-contadina ed alla liberalizzazione di costumi, ma, facendo questo, non ha dato inizio a un nuovo percorso, bensì ha impresso un’accelerazione ad un processo già in atto. La liberalizzazione dei costumi

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è legata in Italia al cosiddetto “miracolo economico” del 1958-63 […]. La liberalizzazione dei costumi ha preso fin dall’inizio la direzione del consumismo, dell’individualismo egocentrico, di un’emancipazione femminile avanzante mediante l’assimilazione delle donne socialmente in ascesa ai preesistenti modelli competitivi, insomma di una “rivoluzione passiva” in senso gramsciano, ed il movimento del ’68 non ha modificato in nulla questa direzione». Si deve concordare con Bontempelli sul fatto che il ’68 ha impresso fra l’altro un’accelerazione ai processi già in atto di appiattimento delle società a capitalismo avanzato – al di là delle appartenenze di classe – a una unidimensionalità subordinata all’imperativo del consumo, con l’acquisizione dei costumi e dei comportamenti ad esso funzionali, ma si può forse dire che nel ’68 si sono accavallate due ondate storiche tuttora da districare, da smembrare, e che questo annus mirabilis ha fatto anche emergere istanze, che erano nel profondo, di egualitarismo, di antimperialismo, di aspirazione all’autodecisione nelle esistenze dei singoli, lo spirito di un “nuovo inizio”; esso è stato un sussulto rivoluzionario globale paragonabile forse solo al Quarantotto per la sua esplosione pressoché simultanea in tanti diversi Paesi. Entrambi i due sussulti rivoluzionari, del 1848 e del 1968, si rivelarono insuccessi storici, ma entrambi si manifestarono all’unisono in tanti centri distanti fra loro e, pur nella sconfitta, produssero profonde trasformazioni (come sostengono Giovanni Arrighi, Terence K. Hopkins e Immanuel Wallerstein). Il Sessantotto, imparentato col Quarantotto, ha invece poco a che fare con gli eventi del 1977 e anni successivi. I movimenti giovanili sviluppatisi nel 1977 in Italia (e solo in Italia)

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La Sinistra Universitaria. Appunti per una storia

presentarono un carattere ambiguo. Negli anni ’60 e ’70 erano state introdotte nell’economia e nella società italiane ampie trasformazioni in senso neocapitalistico e consumistico, che avevano segnato la nuova generazione, spingendola sulle vie nichilistiche del “rifiuto del lavoro e del progresso”. Le trasformazioni delle forze produttive inducono solo lentamente trasformazioni nella mentalità e nel costume. È vero che il boom economico e l’avvio della seconda rivoluzione industriale erano già alle spalle della generazione del ’68, ma questa, costituita da giovani nati nell’immediato dopoguerra, più che risentire della spinta del consumismo, aveva dietro di sé gli stenti e la povertà degli anni di guerra patiti dai genitori e la mentalità parca e frugale di un mondo arcaico. I giovani del ’77 esprimevano invece un atteggiamento tracotante ed egocentrico, proprio di una società dei consumi ormai matura e “unidimensionale” e non trovavano in sé alcun anticorpo per resistere a spinte nichilistiche. La caratteristica più rilevante della società industriale avanzata non sta tanto nell’enorme incremento della produzione di merci, quanto nella capacità di creare atteggiamenti e tipi umani che le sono funzionali. L’abolizione di ogni “spazio interno” degli individui, preconizzata da Herbert Marcuse, si era realizzata: sullo scenario del ’77 agiva una gioventù “rasa al suolo”, per ricorrere a un’espressione di Pier Paolo Pasolini. Gli atteggiamenti di puro pragmatismo e di esercizio della violenza, fino al terrorismo (sapientemente utilizzato dai vari servizi segreti), non hanno radici nel ’68, ma purtroppo trovarono un brodo di coltura nel ’77. «Il mondo degli esseri umani, al presente, è tuttora in attesa di divenire il mondo di tutti gli esseri umani, non

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Antonio Gargano

più segnati dall’infausta contrapposizione fra predatori e prede», scriveva Ennio Galzenati al termine del suo libro I nostri lunghi millenni (Bibliopolis, Napoli 2013, p. 243). Nell’arco di questa attesa si è collocata l’opera quarantennale di Gerardo Marotta con l’Istituto Italiano per gli Studi Filosofici, da lui fondato nella consapevolezza del ruolo decisivo della filosofia per la costruzione di un apparato teorico adeguato alla comprensione delle contraddizioni del mondo contemporaneo nella prospettiva dell’emancipazione dell’umanità; in questa impresa è stata operante la condivisione della centralità del “mondo ideale” delineata da Guido Piegari: «Se è giusto sostenere che lo spirito nasce dallo sviluppo della realtà precedente, dalla materia, non è tuttavia lecito affermare che il mondo materiale sia il solo mondo reale. Il marxismo […] non si rende conto che ad un certo sviluppo della materia si forma uno stadio nuovo che procede secondo proprie leggi e che è diverso e superiore rispetto al mondo della materia. […] così il mondo ideale è immensamente più ricco di tutti gli stadi precedenti del reale». (G. Piegari, Speranze di civiltà. Una riflessione filosofica degli anni Cinquanta, a cura di Ugo Feliziani, Bibliopolis, Napoli 2010, pp. 30-31). D’altra parte una «regressione da una teoria congiunta con la pratica storica ad un pensiero astratto, speculativo: dalla critica dell’economia politica alla filosofia» era stata consigliata dallo stesso Herbert Marcuse, che concludeva L’uomo ad una dimensione, per ricorrere alle parole di Henri Lefebvre, evocando «l’incontro futuro della coscienza più sviluppata, quella dei filosofi, con le forze umane più oppresse e sfruttate» («Le Monde», 17-18 giugno 1968).

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ANTOLOGIA DI TESTI DEL MOVIMENTO STUDENTESCO NAPOLETANO*

I testi, apparsi anonimi nella redazione originaria, vengono qui riproposti senza indicazione dell’autore. *

«LAVORO POLITICO» NAPOLI – SINISTRA UNIVERSITARIA1

Premessa. – Questo scritto è il resoconto della relazione svolta nel recente incontro con i movimenti studenteschi della Germania Occidentale avvenuto a Milano, nei giorni 11 e 12 novembre presso l’Istituto Feltrinelli e organizzato da «Nuovo Impegno». In «Lavoro Politico», n. 2, Verona, novembre 1967. Sinistra Universitaria è un raggruppamento studentesco formatosi progressivamente e in data relativamente recente, attraverso le lotte condotte nell’Università di Napoli. Da tali esperienze è derivata una graduale elaborazione di posizioni politiche che hanno portato il gruppo a pronunciarsi su tutti i temi di fondo del dibattito in corso nel movimento studentesco italiano. Per questo – non potendo ancora disporre del documento politicoprogrammatico che Sinistra Universitaria sta elaborando – abbiamo ritenuto ugualmente interessante fornire, unitamente agli altri documenti di carattere teorico elaborati da differenti gruppi studenteschi italiani, un resoconto delle esperienze del gruppo napoletano. Si tratta di un resoconto redatto direttamente da dirigenti del gruppo, i quali pertanto ne assumono la responsabilità. 1

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Antologia di testi del Movimento Studentesco napoletano

Esso è, per il carattere prevalentemente informativo del convegno, una schematica introduzione alle lotte e alle posizioni politiche della Sinistra Universitaria napoletana e, come tale, potrebbe dar luogo a qualche fraintendimento. È in via di completamento comunque da parte della Sinistra Universitaria un ampio documento che articola le posizioni napoletane nel più vasto contesto politico generale. Relazione. – Negli ultimi tempi l’università di Napoli è stata teatro di lotte di ampiezza e violenza senza precedenti nel recente passato: un gran numero di studenti insieme ad assistenti universitari e professori incaricati vi si sono impegnati. Gli obiettivi di queste lotte non sempre sono stati strettamente universitari. Si è lottato sui temi connessi alla gestione del potere nell’università, ma si è lottato anche e si è manifestato sui temi attinenti alla politica interna e internazionale. Queste lotte hanno avuto per molti universitari il valore di un’esperienza cruciale. Esse sono state rivolte a livello universitario contro i due tipici avversari che le forze rivoluzionarie incontrano: i paleo-reazionari e i neo-reazionari o ‘rinnovatori’. I primi sono coloro i quali difendono le proprie posizioni di privilegio nell’università contro ogni possibile tentativo di ammodernamento delle strutture universitarie; i secondi quelli che vorrebbero portare avanti delle riforme al solo scopo di rendere più efficiente l’università nella preparazione dei quadri di tecnici e organizzatori del lavoro richiesti dalla programmazione economica dei paesi a capitalismo avanzato. Le lotte sono state condotte per assolvere essenzialmente a due funzioni: una di formazione di coscienza

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politica per gli studenti che vi hanno partecipato; una di contestazione del controllo che il capitalismo esercita sulla formazione degli studenti. Tale controllo viene esercitato attraverso l’influenza dell’ideologia borghese che si concretizza nella particolare impostazione data all’insegnamento universitario. Esso in alcuni casi si presenta ancora nelle sue forme più arcaiche, impostate secondo un accademismo di tipo tradizionale; in altri rivela un carattere tecnicistico e positivistico. Mediante il falso concetto della neutralità della scienza, tale insegnamento limita lo studio alla preparazione professionale e lo finalizza al soddisfacimento delle più moderne esigenze del capitalismo. Da quest’analisi appare quindi evidente l’esigenza di condurre delle lotte non per un qualsiasi tipo di cogestione dell’università (comitati paritetici e consigli di facoltà integrati), ma per la creazione nei fatti di situazioni che consentano una gestione alternativa da parte di tutte le forze che nell’università effettivamente lavorano. Lottando per l’unità delle sedi gli studenti hanno scoperto che le attività edilizie e urbanistiche sono nelle mani degli speculatori; affrontando il problema del policlinico, si sono resi conto che la sanità è in mano ai mercanti. Cercando di comunicare con l’opinione pubblica hanno sperimentato che la grande stampa d’informazione è controllata da falsificatori. Infine in ogni circostanza di lotta lo Stato è loro apparso nel suo vero aspetto: un apparato di repressione al servizio delle classi dominanti. Quando gli studenti hanno attaccato un ordinamento accademico ingiusto e retrivo, i cosiddetti rinnovatori non sono stati meno decisi dei conservatori nella difesa dei propri privilegi.

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Questi fatti sono stati sperimentati direttamente da migliaia di giovani che si trovavano per la prima volta impegnati in movimenti di massa. Perciò la partecipazione di base è andata crescendo ed è diventata man mano sempre più cosciente. Si sono tenute assemblee di facoltà con centinaia di studenti, assemblee generali con oltre mille persone. Alla fine delle agitazioni di febbraio tremila studenti sfilarono per le vie del centro cittadino portando alla cittadinanza la voce della propria protesta: era il più grosso fatto pubblico promosso dagli universitari a Napoli. Nel corso delle varie assemblee si è dibattuto e capito che occorre lottare contro la disgregazione dell’università in facoltà e in istituti, che si deve promuovere l’interdisciplinarietà delle attività di studio e di ricerca. Si è concluso inoltre che l’elaborazione di piani di studio alternativi da parte di studenti, assistenti ed incaricati è essenziale per incidere sulla formazione degli studenti. Tali piani vanno poi attuati con veri e propri contro-corsi là dove è possibile avere la collaborazione di un notevole numero di assistenti e professori incaricati; dove una situazione del genere non esistesse, occorre lavorare per crearla. Si è anche definitivamente concluso che ogni forma di rappresentanza delegata è superata e che, oggi, l’unico momento di vera democrazia è l’assemblea di facoltà e generale: da tali assemblee, e solo da esse, può e deve venire l’elaborazione di temi politici e della strategia universitaria. L’occupazione sarà pertanto utilizzata anche come il momento di autogestione dell’università. Nelle occupazioni di aprile e maggio il movimento, mantenendo intatta e anzi accrescendo la propria

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consistenza numerica, è andato sempre più politicizzandosi. Mai si è, ad esempio, abbandonato il terreno dell’internazionalismo: Vietnam, Grecia. E infine di fronte al tentativo autoritario delle autorità accademiche e di polizia che avevano fatto evacuare con la forza gli studenti che occupavano la facoltà di architettura, si è avuta una decisa risposta del movimento: duemila persone dopo una grande manifestazione di protesta si recavano in corteo a rioccupare la facoltà, difendendo così un diritto fondamentale per tutti gli studenti. Durante il periodo delle agitazioni, gli universitari, mentre i partiti ufficiali della sinistra organizzavano uno spettacolo di canzonette, per il primo maggio, hanno partecipato a un comizio e a un corteo promosso dalle minoranze marxiste-leniniste. I grandi avvenimenti mondiali hanno facilitato la crescita della coscienza politica e civile degli universitari. I problemi del mondo si vanno sempre più acutizzando e la macchina di sfruttamento costituita dal capitalismo diventa sempre più oppressiva. In seguito a queste lotte, tutte le forze tradizionalmente intese a mantenere l’ordine esistente: polizia e stampa, forze economiche e autorità accademiche, con la compiacente collaborazione delle burocrazie dei partiti ufficiali della sinistra, si sono trovate unite nel tentativo di soffocare i fermenti nuovi che si agitavano nell’università. I gruppi dirigenti giovanili collegati alle burocrazie dei partiti politici – anche dei partiti di sinistra – hanno sostenuto che le azioni del movimento universitario vanno agganciate strettamente alle linee strategiche moderate dei partiti ufficiali. Questa ipotesi si fonda

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sulla premessa che il movimento universitario possa collegarsi a movimenti politici di portata più ampia soltanto subordinandosi alle impostazioni dei partiti politici ufficiali (in questo caso soprattutto quelli di sinistra). Questa premessa è falsa. I commenti di stampa da anni sottolineano che le distanze fra burocrazie politiche e grandi masse sono molto considerevoli e tendono ad aumentare. In tutti i settori della società si verifica una analoga frattura fra movimenti particolari, portatori di rivendicazioni anche avanzate, e direzioni sindacali e politiche ufficiali. In questa situazione, la difesa a oltranza delle impostazioni dominanti nei partiti politici ufficiali è certamente inopportuna e fuori luogo. Conservando e valorizzando l’autonomia delle proprie impostazioni, il movimento universitario deve evitare tuttavia l’errore di rifiutare ogni alleanza con forze extra-universitarie. Condizione preliminare per la realizzazione di alleanze è comunque che il movimento stesso perda quei caratteri di un micropartito in lotta su temi esclusivamente universitari. Occorre ora ricordare il ruolo volto dall’UGI napoletana durante gli ultimi avvenimenti. Si è potuto constatare che man mano che il movimento cresceva, la capacità della direzione dell’UGI di fronteggiare gli eventi diminuiva fino a trovarsi definitivamente estranea al movimento, quando questo perse il carattere di piccolo gruppo di studenti partiticizzati, cessò di essere un micropartito e assunse il carattere di movimento autonomo di massa. In conseguenza di ciò si è avuta una continua tensione fra il movimento di base e il vertice dell’UGI. Questo stato di crisi è terminato nel rovesciamento della vecchia direzione e

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«Lavoro Politico»

nell’elezione di una nuova, nata dalle lotte, con il compito di preparare il congresso dell’UGN. Nel corso di tale congresso (26 e 27 maggio) si è sviluppata un’aspra polemica tra il nostro gruppo di opposizione di sinistra, che costituiva la nuova direzione, e i rappresentanti delle burocrazie dei partiti ufficiali, sostenuti da vari gruppetti di intermediari e conciliatori. Il nostro gruppo si è trovato in minoranza – nella votazione decisiva ha raccolto 87 voti di fronte ai 113 andati alle burocrazie riunite –, e si è costituito in corrente di sinistra all’interno dell’UGN. La corrente di sinistra dispone attualmente di una notevole forza, sia all’interno dell’UGI che nel più ampio movimento studentesco napoletano di opposizione. Essa ha diretto tutte le agitazioni universitarie e ha contribuito a far loro assumere un avanzato carattere di rottura; in quest’azione, ha acquistato un notevole prestigio e ha determinato una rinnovata partecipazione degli studenti alle lotte politiche. Dietro questa spinta, la partecipazione ai lavori del congresso è stata considerevole – più elevata che nelle altre sedi – duecento studenti contro poche decine. La debolezza dei gruppi delle burocrazie riunite nell’ambiente universitario napoletano è innegabile. Il loro successo numerico al congresso non deve trarre in inganno – esso è stato il risultato del massiccio intervento degli apparati dei partiti ufficiali, che hanno convogliato al congresso molte decine di studenti tesserati tra i fuori corso di tutta la Campania. Tali studenti erano stati estranei alle lotte del movimento e sono ritornati tali dopo le votazioni. Le prove della debolezza politica dei burocrati sono molte: si tenga presente che essi non hanno presentato al congresso alcuna mozione

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e si sono limitati a bocciare le mozioni della corrente di sinistra; dopo la votazione politica, hanno ripetutamente pregato i rappresentanti dell’opposizione di entrare in un comitato direttivo paritetico e si sono poi mal adattati a far eleggere un comitato direttivo (proposto da un trotskysta di «Bandiera Rossa») formato esclusivamente dal fronte burocratico FGS, FGCI e dai trotskysti di «Bandiera Rossa» e capeggiato dal socialdemocratico De Martino. Le burocrazie locali ci hanno impedito di mandare nostri rappresentanti al congresso di Rimini dell’UGI; due delegati napoletani della maggioranza fasulla eletta dai burocrati si sono colà allineati con le posizioni della sinistra nazionale costituitasi in corrente di minoranza al termine del congresso. A Napoli queste persone si erano schierate sulle posizioni della burocrazia; esse, coprendosi dietro una vacua fraseologia di ‘sinistra’, nelle fasi decisive del congresso erano state i nostri più fieri avversari. Il loro passaggio sulle posizioni della sinistra ci ha molto sorpreso e ci fa sospettare che nella sinistra nazionale abbiano trovato spazio i gruppetti conciliatori che a Napoli erano stati i più infidi avversari del movimento. Nella parentesi estiva il gruppo ha continuato il lavoro stampando alcuni numeri di un bollettino politico. Le lotte sono subito dopo riprese in occasione della morte di Guevara su un terreno estremamente politicizzato. La Sinistra Universitaria ha indetto un’assemblea che ha deciso all’unanimità un’occupazione delle sedi universitarie, votando una mozione in cui si sottolinea la necessità e l’importanza delle prese di posizione politiche generali da parte degli studenti. In questa mozione si denuncia la coesistenza pacifica e

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si esprime in modo chiaro il rifiuto di unirsi a coloro che, pur condannando questa politica a parole, nei fatti la seguono fedelmente predicando il fronte unico con i revisionisti e l’entrismo nei partiti ufficiali. Costoro spesso mitizzano perfidamente le lotte di uomini come ‘Che’ Guevara, e se ne servono come di un alibi per non assolvere al loro compito più importante (la realizzazione del quale è l’unico aiuto reale e consistente alle lotte dei popoli oppressi e alla liberazione del proletariato): preparare la rivoluzione nei paesi a capitalismo avanzato e nell’Unione Sovietica. Questo fatto ha scatenato la reazione dei burocrati i quali, impotenti a reagire, hanno denunciato alcuni compagni alla polizia. Questa, sapendo di non dover fare i conti con nessuno dei sedicenti ‘partiti d’opposizione’, ha scatenato ingenti forze contro gli studenti occupanti. L’urto ha avuto per la polizia, grazie all’abilità dei compagni, un esito assai scarso: solo alcuni fermati. Per quanto riguarda il lavoro teorico svolto, come già detto nella premessa, ci limitiamo a fornire brevissimi accenni. La Sinistra Universitaria ha denunciato sin dal principio il carattere economicistico delle proposte politiche dell’UGI. Il rifiuto della sindacalizzazione e la politicizzazione del movimento studentesco sono divenute perciò le basi del discorso svolto poi ininterrottamente. Il sindacato studentesco (che come tale senza alcuna discriminazione è esteso a tutti gli studenti) contrasta, per noi palesemente, con la più elementare analisi sociale dell’universitario, in quanto nega tra l’altro le diverse collocazioni future degli studenti, che, in quanto tali, non hanno negli anni di

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studio alcuna caratteristica definita di classe e non possono quindi essere considerati ‘forza-lavoro’ in via di qualificazione. Inoltre, limitando le rivendicazioni allo stretto ambito universitario, il progetto di sindacalizzazione crea una frattura fra università e società rendendo sostanzialmente ‘neutrale’ ogni lotta. Tale posizione obbedisce alla stessa logica della politica sindacale dei partiti della sinistra ufficiale mirante a circoscrivere le rivendicazioni della classe operaia entro limiti economicistici e settoriali per soffocare in tal modo la lotta per il potere politico. Il sindacato unico creato dal vertice per controllare direttamente tutti gli operai vuole inquadrarsi, infatti, nella politica di programmazione borghese dell’economia italiana, come una delle componenti più costruttive di questa politica. Anche il ‘sindacato’ studentesco avrebbe uguali caratteristiche di stimolo interno. Per il resto è soltanto grottesca l’unione tentata da alcuni elementi dell’UGI di inserire in questo piatto panorama contrattuale parole d’ordine sulla situazione internazionale; in un simile contesto esse non hanno altro scopo che quello di coprire con gratuite esclamazioni di verbosità ‘rivoluzionaria’ una politica profondamente reazionaria. In realtà lo scopo di un’opposizione all’interno dell’università, non solo quantitativa ma soprattutto qualitativa, è quello di una contestazione ideologicopolitica delle deficienti strutture universitarie e soprattutto della società borghese in cui l’università si colloca: tale aspetto viene del tutto trascurato dall’UGI nella sua concezione sindacalistica. Noi sostituiamo all’equivoca concezione dello studente come forza lavoro in via di qualificazione, quella dello studente come possibile

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quadro politico impegnato da una parte nella suddetta contestazione ideologica, dall’altra nella lotta politica generale; e ciò promuovendo continue iniziative che stabiliscono il più stretto legame fra avanguardie studentesche e avanguardie proletarie contro il sistema di sfruttamento dominante. Il nostro movimento intende perseguire una politica del genere senza cadere in alcun ibrido compromesso con i gruppetti della sinistra tradizionale: di qui la necessità di una politica autonoma che, nel superamento di tali gruppi, porti alla costruzione di quadri politici realmente avanzati. Abbiamo riconosciuto così, attraverso la lotta alla sindacalizzazione, come la lotta nell’interno dell’università non sia che un momento di un’ampia lotta da condurre per creare un potere politico rivoluzionario. Questo può avvenire soltanto se si conduce una seria analisi della politica rinunciataria dei partiti della sinistra ufficiale italiana, giacché essi controllano burocraticamente e strumentalizzano le lotte di una buona parte del proletariato italiano. Il loro rapporto con il capitale è infatti caratterizzato dalla falsa prospettiva dell’inevitabile raggiungimento, per mezzo di vie pacifiche, del socialismo, che giustifica poi una serie di disgustosi accordi nei momenti cruciali dello scontro tra le classi. Rifiutiamo perciò ogni forma di accordo sia interno che esterno con questi partiti, giacché crediamo che il contrasto fra il proletariato e il capitale sia irriducibile ed ogni forma di mediazione sia un tradimento della lotta di classe. Questa preclusione, lungi dall’essere un fenomeno di settarismo, è una fondamentale condizione per la ricostruzione di un autentico discorso politico rivoluzionario. Il tema

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centrale di questo discorso è la necessità di rifiutare ogni lotta socialdemocratica e di colpire al cuore l’imperialismo battendolo nel suo centro: i paesi di capitalismo avanzato. L’attuale livello dello sviluppo capitalistico è del resto mondiale e comporta quindi lo sfruttamento dei paesi economicamente arretrati; la rivoluzione in questi paesi è un contributo fondamentale alla sconfitta del capitalismo, ed è quindi lotta di classe. Nello svolgimento della loro rivoluzione, però, questi paesi incontrano un ostacolo durissimo nella politica di coesistenza pacifica dell’URSS. Essi vengono a causa di ciò isolati e condannati a uno scontro impari; le loro lotte, tradite nei fatti, subiscono il triste destino di vedersi poi mitizzate dai partiti revisionisti occidentali, tutt’intesi a mascherare la propria collaborazione con il nemico mediante il racconto delle favole rivoluzionarie. Noi crediamo che soltanto sviluppando la rivoluzione nei paesi avanzati ci si colleghi realmente alle lotte dei popoli oppressi. Riconosciamo che in ogni tentativo di lotta ci si scontra duramente contro il revisionismo il cui centro è l’URSS. È necessaria quindi una chiara analisi economico-storica del revisionismo sovietico e, per conseguenza, di quello dei partiti comunisti occidentali. Si scopriranno così le radici profonde della teoria della competizione economica col capitalismo che è il sostrato della politica di coesistenza pacifica. Con la scoperta e l’intervento nei molteplici fronti di lotta ci si collega a tutta la più viva tradizione rivoluzionaria fino alla Rivoluzione culturale cinese. In realtà la possibilità di impiantare un discorso politico del genere si fonda sul rifiuto di continua-

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«Lavoro Politico»

re a lottare all’interno dell’UGI. Conseguentemente la Sinistra Universitaria avanza una doppia esigenza immediata: da un lato, infatti, essa vuole contribuire a una coordinazione dei gruppi che svolgono il medesimo tipo di lotta, dall’altro mira a stabilire contatti duraturi con quanti sono disposti in campo nazionale a costruire un organismo universitario che si ponga come sintesi qualitativa di tutte le forze politiche che ora lavorano già nei limiti e con gli scopi a cui abbiamo molto brevemente fatto cenno.

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«UNIVERSITÀ 1968». SCRITTI E DOCUMENTI DELLA SINISTRA UNIVERSITARIA DI NAPOLI

In questo numero unico della Sinistra Universitaria napoletana «Università 1968» sono raccolti scritti e documenti di carattere politico generale e altri scritti, di argomento più specifico, legati alle polemiche universitarie. Con questo lavoro, la Sinistra Universitaria vuole offrire un quadro delle sue posizioni politiche, soprattutto nei punti più essenziali e qualificanti. Gli scritti e i documenti di questo numero unico devono servire a una presentazione; ed è bene che questa avvenga in termini abbastanza ampi e generali. Nel seguito, la Sinistra Universitaria napoletana inizierà un’attività pubblicistica più regolare e arricchirà la sua presentazione con scritti e documenti sulle lotte universitarie, dove cercherà di condensare i risultati delle esperienze del movimento studentesco di opposizione dell’Università di Napoli negli ultimi anni.

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Premesse politiche Durante le agitazioni universitarie degli ultimi anni sono venuti maturando, in molte città, nuovi gruppi giovanili, in polemica con la linea politica proposta, fuori e dentro la coalizione di governo, dai partiti che, “ufficialmente”, sono di sinistra. Nelle occupazioni delle università e nelle relative esperienze di lotta, nei dibattiti e nelle polemiche che si svolgevano nelle sedi occupate si mostrarono limpidamente gli orientamenti di retroguardia dell’ufficialità di sinistra, e dei suoi sostenitori. Molti gruppi furono inizialmente sollecitati a contrapporre soltanto una linea di “politica universitaria”, diversa da quella “ortodossa” sia nei contenuti, sia nella strategia di lotta; in seguito, cercarono e trovarono l’incontro con altri gruppi politici, a sinistra degli schieramenti ufficiali, e cominciarono a proporre orientamenti politici più ampi. A Napoli, la Sinistra Universitaria si è formata su queste basi circa un anno fa, raccogliendo insieme le sollecitazioni del movimento di opposizione che si sviluppava nell’Università e i contributi di alcuni gruppi della dissidenza di sinistra. La base immediata per l’attività comune fu inizialmente fissata dagli aderenti alla Sinistra Universitaria in una dichiarazione politica. Vi si ribadivano, in contrapposizione soprattutto con i gruppi di “mediatori”, che pretendevano di conciliare i gruppi della dissidenza di sinistra e i partiti della sinistra ufficiale, il rifiuto di ogni strategia politica fondata sul fronte unico antimperialista e sulla cosiddetta tattica entrista. Si riconosceva, d’altra parte, che la polemica per il socialismo può oggi svilupparsi, nelle

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Scritti e documenti della Sinistra Universitaria di Napoli

università, su ampie basi di massa, contro la politica di coesistenza e di integrazione dell’ufficialità di sinistra. Nei mesi seguenti, gli aderenti alla Sinistra Universitaria hanno verificato che questa piattaforma poteva offrire, nelle condizioni concrete in cui si muovevano i gruppi della dissidenza di sinistra, un importante punto di partenza. Più precisamente, si può affermare che la piattaforma di partenza è tornata utile perché i diversi gruppi che vi si riconoscevano inizialmente non si sono limitati a mantenere tra essi uno stato di neutralità permanente, ma sono stati apertamente disponibili alla polemica interna, e vi si sono impegnati decisamente. Per questa via, l’esperienza che compiono gli aderenti alla Sinistra Universitaria napoletana si ricollega via via a quella dei gruppi italiani della dissidenza che si impegnano oggi nel lavoro di ricostruzione di raggruppamenti politici rivoluzionari. L’esigenza di superare le formulazioni approssimative, spesso soltanto motivo di convergenze occasionali, si va facendo strada negli ambienti della dissidenza di sinistra e spinge anche noi a uno sforzo di lavoro interno di precisazione e di approfondimento teorico.

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Antologia di testi del Movimento Studentesco napoletano

I ntroduzione

a un discorso sulla politica

internazionale

La strategia dell’imperialismo e le sue interne contraddizioni Lo sviluppo dell’economia mondiale fino a oggi dimostra che si sono verificate le tendenze storiche del processo di sviluppo del capitalismo analizzato a suo tempo da Marx: la spietata espropriazione di tutti i detentori di merci e dei mezzi produttivi (artigiani, contadini, piccoli e medi imprenditori, industriali…), l’accumulazione crescente dei capitali con l’aumento e il rinnovamento dell’insieme dei mezzi di produzione, la concentrazione in un numero sempre minore di mani di queste forze sociali, con la creazione di giganteschi complessi di stabilimenti e di aziende. Sulla base della previsione marxista intorno alla crescente concentrazione e centralizzazione del capitale e dell’analisi marxista intorno alla scissione fra guadagno dell’imprenditore e interesse, e alla autonomizzazione del capitale produttivo di interesse in forme parassitarie, Lenin indica, nel 1915, i cinque principali contrassegni della fase imperialista, tutti ampiamente ritrovati nell’analisi strutturale della realtà storica contemporanea: 1) la concentrazione della produzione o del capitale, che ha raggiunto un grado talmente alto di sviluppo da creare i monopoli con funzione decisiva nella vita economica;

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Scritti e documenti della Sinistra Universitaria di Napoli

2) la fusione del capitale bancario con il capitale industriale e il formarsi, sulla base di questo capitale (finanziario), di una oligarchia finanziaria; 3) la grande importanza acquisita dall’esportazione del capitale in confronto con l’esportazione di merci; 4) il sorgere delle associazioni monopolistiche internazionali di capitalisti, che si ripartiscono il mondo; 5) la completa ripartizione della terra tra le più grandi potenze capitalistiche. Per la comprensione delle forme dell’intervento delle forze imperialiste nel mondo moderno, non ci si può distaccare da tali premesse di fondo: ancora una volta l’analisi rimanda a Marx e a Lenin. Verifichiamo, oggi, come le corporazioni multinazionali si estendano fino a dimensioni che superano largamente i confini dei singoli stati, e le holding nazionali si colleghino in accordi, dividendosi i mercati e le fonti di materia prima. Questa tendenza all’integrazione del capitale a livello internazionale non annulla però l’influenza dell’ineguale sviluppo del capitalismo nei vari paesi, e le contraddizioni tra i gruppi imperialistici continuano a riprodursi. I governi dei paesi imperialisti intervengono nella vita economica in forme che vanno molto oltre i limiti tradizionali degli interventi in materia fiscale e creditizia; usano largamente strumenti nuovi e tradizionali per un’azione continua di equilibrio e di orientamento. L’introduzione di una pianificazione economica di lungo periodo, mossa dagli interessi economici e politici dei grandi gruppi del capitale finanziario, si accompagna alla compressione dei centri decisionali indipendenti nei vari paesi. I sindacati sono aggiogati strettamente alle corporazioni economiche e politiche

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dominanti attraverso svariati mezzi, fino alla politica dei redditi; i partiti politici tendono a integrarsi reciprocamente e ad agganciarsi alle centrali politiche degli stati. Tutto questo permette agli stati imperialisti di trovarsi oggi inseriti in un ampio organismo e di contenere la spinta delle classi sfruttate dei loro paesi, e di temperare gli effetti di crisi parziali, economiche e politiche, utilizzando la solidale collaborazione degli altri stati imperialisti. Partendo dall’analisi degli Stati Uniti d’America, della sua economia interna e della sua iniziativa a livello internazionale, come centro dell’imperialismo occidentale potremo avere una visione un po’ più completa delle contraddizioni che travagliano l’area propria del capitalismo avanzato e dell’intero sistema imperialistico. Negli Stati Uniti d’America, gli inizi del 1967 hanno visto un graduale indebolimento dell’attività economica: dopo l’exploit industriale degli ultimi dieci anni (durante i quali si è avuto un aumento di quasi il 50% della produzione industriale) gli Stati Uniti si avviano verso una fase che, se non è ancora di recessione, è di un pesante ristagno. La produttività industriale è diminuita, mentre crescono i salari e il costo dei prodotti; lo stesso mercato finanziario è incerto, mentre le riserve di Fort Knox si sono ridotte pericolosamente. Tutto ciò avviene in una fase di elevata concentrazione: agli inizi del 1967 si registra la fusione di oltre mille società; e sulle 200.000 esistenti le 20 maggiori controllano il 25% della produzione nazionale, le prime 200 il 75%. Nella strategia che gli Stati Uniti mettono in esecuzione nel loro intervento imperialistico, è presente

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una prima direttiva: quella di mantenere in un costante rapporto di subordinazione economica e politica alla propria potenza tutti gli altri paesi capitalistici del mondo occidentale. Sebbene la supremazia americana in tale ambito sia ancora ben salda, già possono notarsi a questo livello incrinature non lievi della posizione di predominio degli Stati Uniti. Partiti da una posizione di assoluta preminenza nel dopoguerra, gli Stati Uniti trovano da qualche tempo resistenze nel campo economico come in quello politico, da più punti del sistema di alleanze con gli altri stati a capitalismo avanzato; la penetrazione del capitale americano comincia a trovare nuovi ostacoli, mentre diventa sempre più difficile la stabilizzazione del dollaro come unità monetaria dominante del commercio internazionale. Il piano Marshall dell’immediato dopoguerra, con tutti gli accordi successivi, mettendo in pochi anni l’Europa in grado di comprare, permetteva all’economia statunitense la soluzione di gravi problemi di giacenze finanziarie. Dei 500 miliardi di dollari, con i quali le società americane hanno raddoppiato negli ultimi sette anni i loro investimenti all’estero, oltre 1/3 riguardano l’area europea, che per molte società americane rappresenta ormai un mercato estero di vendita superiore a quello interno. L’influenza del capitale americano è tuttora permanente, ai fini di evitare gravi squilibri nei mercati dei paesi occidentali nel campo finanziario come in quello più propriamente economico. Tuttavia, anche i capitalismi “inferiori” iniziano la produzione di beni strumentali in maniera specifica a un certo livello del ciclo produttivo, pur non avendo né la forza né i mezzi necessari per portare a compimento

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un intero ciclo. L’industria americana – che è ben più forte, e può intervenire in qualsiasi momento del ciclo di produzione – domina a tal punto la situazione, che le industrie dei paesi occidentali, per quanto accentrate (al meno in questi ultimissimi anni), incontrano enormi difficoltà per rompere la situazione presente a loro favore. Comunque, i primi segni di una reazione all’assoluto predominio americano sono evidenti. Basti guardare all’antiamericanismo della Francia, dove il gollismo rappresenta gli interessi della grande borghesia francese, impegnata anch’essa strenuamente per una redistribuzione del mercato internazionale; o anche ai possibili sviluppi di un M.E.C. che non faccia parte della “frontiera della democrazia, che passando oltre l’Atlantico comprenda in sé pure l’Europa” (sono i termini con cui Kennedy esprimeva il programma americano di fagocitare interamente il capitalismo europeo), ma che anzi s’inserisca con proprie precise pretese imperialistiche nel sistema del capitalismo internazionale, in lotta quindi con gli stessi Stati Uniti. L’altra direttiva fondamentale dell’imperialismo americano investe le aree dei paesi ex-coloniali dell’Asia, dell’Africa, dell’America Latina, dove, dopo la seconda guerra mondiale, gli Stati Uniti hanno soppiantato gli imperialisti tedeschi, belgi, francesi etc. In tali aree la politica americana è rivolta a favorire un graduale sviluppo delle forze produttive indigene, in limiti che non pregiudichino il proprio processo di accumulazione (è il caso di quei paesi che si sono conquistati l’indipendenza politica, ma che restano economicamente dipendenti dall’ex-metropoli o dai

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loro nuovi protettori, come India, Turchia, Tailandia); oppure mira a conservare con la violenza nell’arretratezza economica e sociale quei paesi che non hanno ottenuto né l’indipendenza né l’unificazione territoriale, o che, dopo averla ottenuta, sono ricaduti sotto il giogo diretto dell’imperialismo (come Congo e Vietnam). Nell’uno e nell’altro caso l’imperialismo americano svolge, da un canto, la funzione di scaricare all’esterno dei propri territori le pressioni economico-sociali interne, dall’altra parte mira a conservare, o ad ampliare, la sua espansione. Gli investimenti dei paesi imperialistici nelle aree economicamente arretrate sono cresciuti di 47,4 miliardi di dollari dal 1951 al 1961. Ma questi capitali sono stati in effetti 20,9 miliardi se si tiene conto degli interessi, pari a 26,5 miliardi che i paesi arretrati hanno dovuto consegnare, e sono ancora maggiori se si tengono in conto i 13,1 miliardi praticamente annullati dalla degradazione della ragione di scambio. Infatti, all’incremento delle esportazioni dei paesi arretrati è seguito un crollo dei prezzi sempre più notevole; e l’aumento del tenore di vita delle popolazioni, derivante dall’accentuarsi degli scambi, ha approfondito la subordinazione all’imperialismo americano. Come unico esempio ricorderemo quello della Colombia dove se nel 1954 bisognava pagare 19 sacchi di caffè per un’auto, nel 1962 ce ne volevano 32. In tal modo, l’esportazione del capitale nelle aree del cosiddetto “sottosviluppo” si è estesa, conservando un ruolo importantissimo nell’economia dei paesi avanzati. I profitti degli Stati Uniti in tali aree sono più che raddoppiati in percentuale negli ultimi anni; i guadagni delle grandi corporazioni economiche sta-

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tunitensi per gli investimenti all’estero sono aumentati dal 1950 al 1965 di quasi quattro volte, da 2,1 miliardi a 7,8 miliardi di dollari. Per conservare tale posizione di predominio sulle aree arretrate, i grandi paesi imperialisti si sono impegnati in una serie di vaste azioni di repressione, per isolare e distruggere i focolai d’iniziativa politica e di azione armata che seguivano un orientamento antimperialista conseguente. Allo scopo di indebolire i gruppi anti-imperialisti, hanno spesso tentato di introdurre in essi elementi di divisione muovendosi a parziali concessioni nei confronti dei gruppi più moderati dei movimenti di liberazione sostenuti dalle borghesie nazionali; nella maggioranza dei casi, tuttavia, hanno dato incondizionato appoggio ai gruppi più reazionari e alle caste privilegiate feudali, contribuendo a spingere nelle file delle forze anti-imperialiste ampi gruppi popolari. A difesa del sistema imperialista su scala mondiale, gli Stati Uniti, forti dell’enorme supremazia politica, economica e tecnologica sugli altri paesi imperialisti, hanno assunto una posizione di punta. Essi si presentano, ovunque nel mondo, come i principali tutori dell’ordine politico promosso dai grandi stati imperialisti. Le basi militari, le flotte, gli aerei e gli eserciti americani sono sparsi in tutto il mondo; e in tutto il mondo gli uffici culturali e le organizzazioni economiche americane sono centro di raccolta dei gruppi più retrivi e delle iniziative più reazionarie, dal Ghana al Congo, dall’Indonesia al Medio-Oriente e così via. I ceti popolari sfruttati, dei paesi coloniali e semicoloniali, sono invece per la loro posizione pratica nelle società sottosviluppate, irriducibili nemici non solo

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dell’imperialismo, ma anche dei vecchi ceti feudali e delle borghesie nazionali. Tuttavia, i loro movimenti politici sono riusciti raramente a portare a compimento la lotta contro i gruppi privilegiati dei loro paesi e contro gli stati imperialisti. L’esperienza delle lotte dei popoli coloniali e semicoloniali ha smentito in modo definitivo, negli ultimi anni, i propagandisti di un “Terzo Mondo” unitario, da riguardarsi come un blocco di forze sostanzialmente compatto. In realtà questi paesi sono oggi profondamente e appositamente divisi, e forze molto diverse e contrastanti operano in essi. Nella maggior parte di questi paesi economicamente arretrati, specie dell’Asia e dell’America latina, dominano ancora i gruppi peggiori, agganciati strettamente alle centrali dell’imperialismo, e innanzi tutto ai circoli dirigenti degli Stati Uniti, e questi gruppi seguono all’interno e sul piano internazionale una politica scopertamente reazionaria. In altri paesi sono al potere gruppi relativamente illuminati della borghesia nazionale che assumono posizioni “centriste” e premono per un accordo generalizzato tra Stati Uniti e URSS, e per una stretta collaborazione nell’ambito dell’ONU. In altri paesi ancora, prevalgono gruppi più strettamente condizionati dai movimenti anti-imperialisti, che organizzano il loro potere sulla base del partito unico e della centralizzazione dell’economia intorno alle iniziative di Stato; sul fronte internazionale essi tendono a collegarsi con i paesi dominati dalle burocrazie, pur riservandosi ampi margini di indipendenza. Soltanto in pochi paesi, i gruppi dirigenti dei movimenti popolari sono rimasti legati alle più radicali impostazioni antiimperialiste e di lotta per il socialismo e sono riuscite a

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sconfiggere i gruppi più moderati. In tutti gli altri paesi, tuttavia, le condizioni raggiunte sono estremamente instabili, e le forze politiche rivoluzionarie hanno grandi possibilità di azione sui vari fronti, per la liberazione nazionale, contro l’imperialismo, e per il socialismo. Negli ultimi decenni, quindi, sono venute sviluppandosi ancor più le contraddizioni tra i popoli sfruttati del cosiddetto “Terzo Mondo” e i gruppi imperialisti dei paesi metropolitani: all’estensione, praticamente illimitata, del fronte di repressione imperialista degli Stati Uniti, si va accompagnando un indebolimento sul fronte interno e sul fronte esterno della stessa potenza americana. Sicché tali aree acquistano un particolare ruolo nella lotta per il definitivo abbattimento mondiale dell’imperialismo. In ogni caso, la profondità dei loro colpi all’imperialismo sarà efficace solo se stabilirà un accordo con le lotte che, nei paesi di capitalismo avanzato, le avanguardie rivoluzionarie portano e porteranno avanti, nella precisa convinzione che bisogna battere l’imperialismo nei centri vitali delle sue metropoli. U.S.A.-U.R.S.S., coesistenza pacifica e competizione economica L’ultima direttiva della strategia imperialistica, politicamente forse la più importante, è volta a stabilire un mantenimento stabile dell’equilibrio internazionale, attraverso la minaccia o l’accordo, tacito e palese, con quella potenza che in campo mondiale le ostacola di più il passo: l’Unione Sovietica.

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Nella fase successiva alla fine del secondo conflitto mondiale, si è attuato il consolidamento di quelle due potenze, la sovietica e la statunitense, che avevano saputo e potuto sfruttare abilmente il crollo dell’imperialismo tedesco. Sin d’allora si poneva un dilemma tra due vie strutturalmente possibili: o le due potenze affrontavano una disputa definitiva per il dominio mondiale, oppure tentavano di incontrarsi in un’economia mercantile unica. A vent’anni di distanza si può ben verificare come tra le due sia prevalsa la seconda. USA e URSS partecipano oggi a un unico sistema mondiale, e gli interessi dell’una e dell’altra potenza sono diventati interdipendenti, se non identici. A comprovare queste conclusioni sono i dati della politica economica internazionale sui rapporti di scambio tra i due “blocchi”, quello occidentale e quello sovietico. Gli Stati Uniti d’America, portando fino in fondo la strategia imperialistica di accordo internazionale cui si è prima accennato, hanno abolito i controlli sull’esportazione nel commercio Est-Ovest; hanno concesso crediti commerciali sempre più vantaggiosi a Polonia, Bulgaria, Ungheria, Cecoslovacchia; hanno ridotto i debiti della Polonia; hanno offerto un prestito di 50 milioni di dollari per finanziare l’industria che la FIAT costruisce nell’URSS. A questi e molti altri trattati economici, si aggiungono accordi di natura strettamente diplomatica. Per valutare la politica internazionale sovietica bisogna considerare la strutturale involuzione interna ed esterna dello stato sovietico, pure uscito dalla gloriosa Rivoluzione d’Ottobre. Fermiamoci per il momento sull’anti-imperialismo pacifico e coesistenziale dell’URSS. Dall’affermazione della possibilità

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di costruire un’economia nazionale che infrangesse la legge generale dell’accumulazione capitalistica e sfuggire alle ferree esigenze del mercato mondiale, fino a sostenere che in campo internazionale i paesi arretrati potessero accedere alla “indipendenza economica” e al “progresso sociale” nel regime internazionale odierno, il passo è stato breve. Ricordiamo Kruscev: «La competizione economica è diventata la via maestra della storia moderna»; o anche Suslov: «Oggi che la conquista dell’indipendenza economica e il progresso sociale sono divenuti il principale orientamento della lotta anti-imperialista dei paesi liberati, un’importanza particolare assume l’estensione della collaborazione economica dei paesi socialisti con loro, la concessione a questi paesi di un aiuto economico fraterno». È evidente che tali affermazioni si propongono di far credere che esistono formule di sviluppo del capitalismo mondiale che escludono il sottosviluppo, cioè il ritardo crescente dei paesi arretrati rispetto a poche grandi potenze. In altri termini, il “capitalismo del nostro tempo” non comporterebbe più l’accumulazione della ricchezza da un lato e la crescente miseria dall’altro; esso sarebbe divenuto popolare, sarebbe in grado di risolvere in campo nazionale e internazionale le sue contraddizioni. La teoria della coesistenza pacifica e della competizione economica sono saldamente impiantate sulle tesi di Kautsky. Costui riconosceva il processo di concentrazione capitalistica, la dominazione del capitale finanziario, ma affermava altresì che l’emancipazione delle colonie, il loro sviluppo industriale e gli accordi

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internazionali erano mezzi suscettibili di attenuare le ineguaglianze e le contraddizioni dell’economia mondiale. Le tesi della coesistenza pacifica e della competizione economica diventano una copia delle formulazioni kautskiane sull’ultra-imperialismo. A rispondervi basta ancor oggi la critica di Lenin che denuncia l’utopia di uno sviluppo “uguale” di tutti i popoli, dimostrando il crescente divario tra i paesi super-industrializzati e quelli (che i russi di oggi chiamano) “sottosviluppati”, e fa contemporaneamente rilevare la lotta accanita tra gli stati imperialisti per la suddivisione del mondo. Come esempi della realtà storica odierna, basti ricordare che solo un quarto del commercio dei paesi imperialisti si rivolge al “Terzo Mondo”, mentre il commercio di queste aree con i paesi super-industrializzati è ben 3/4 di quello globale; che tali paesi arretrati, mantenuti nelle forme economiche della monocoltura, sono dipendenti in modo assoluto dai paesi imperialisti nei loro scambi, e che i prezzi dei manufatti importati aumentano, mentre quelli dei prodotti di base esportati diminuiscono costantemente. Questi pochi esempi mostrano la costante subordinazione economica di tali paesi alle grandi potenze capitaliste. Ma ci si può convincere dell’assurdità delle tesi revisionistiche di una emancipazione economica pacifica per i paesi arretrati guardando alle continue guerre che piagano a morte le aree economicamente arretrate, prima tra tutte il Vietnam. In conclusione, la politica estera sovietica non contrasta granché gli interessi economici e politici perseguiti dagli Stati Uniti d’America. Su tale base il

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disegno politico dell’imperialismo su base mondiale è ampiamente incoraggiato e aiutato dai gruppi dirigenti dell’Unione Sovietica. Nei paesi “sottosviluppati”, essi hanno sostenuto e sostengono, con aiuti economici, politici e militari, governi e movimenti che hanno la loro base economica nella borghesia e nei ceti feudali, impedendo quindi la trasformazione di movimenti democratici di liberazione nazionale in movimenti per il socialismo e combattendone le avanguardie politiche rivoluzionarie. Negli stessi rapporti con le potenze imperialistiche l’URSS ha perseguito una politica dettata esclusivamente dalle esigenze di stato, ripiegando davanti all’iniziativa dell’imperialismo e abbandonando i programmi internazionalisti di sostegno alla rivoluzione negli altri paesi. Tale è la coesistenza pacifica: non strategia semplicemente “errata”, effetto esclusivo dei limiti “soggettivi” dei gruppi politici che dirigono lo stato sovietico, ma l’espressione più coerente e organica degli interessi pratici della classe dirigente sovietica, interessi che, d’altra parte, non sono di genere “subordinato”, ma interessi profondi di sfruttamento e di oppressione, né più né meno di quelli dei gruppi dominanti dei paesi imperialisti. In realtà, il collegamento dell’URSS col mercato mondiale capitalistico, nelle forme della coesistenza pacifica e della competizione economica, e la penetrazione del capitale occidentale nei suoi territori, si sono realizzati nel quadro di uno sconvolgimento delle strutture proprie dell’economia russa. Si è cioè determinata, in URSS e nei paesi dell’Est, una situazione ben lontana dall’auspicata organizzazione nelle forme di una econo-

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mia socialista. Tale situazione è caratterizzata strutturalmente dal prevalere di un ceto privilegiato che basa il suo dominio sullo sfruttamento dei ceti eminentemente produttivi: situazione da non considerarsi di livello “subordinato” rispetto a quella di più vecchia origine, che vede nei paesi del capitalismo occidentale la classe operaia opposta alla borghesia dominante. Il XXI Congresso del PCUS con le sue rivelazioni sull’economia sovietica, mal strutturata e mal diretta da Stalin, rimetteva in discussione il sistema staliniano di pianificazione centralizzata e con essa l’intera teoria staliniana che l’avanzamento delle forze del socialismo dipendeva dalle capacità dello stato sovietico di tener testa all’imperialismo. In realtà, dal fallimento strutturale dell’esperienza del “socialismo in un sol paese”, la classe dirigente sovietica concludeva che la centralizzazione statale dell’intera economia nazionale era più un impedimento che un vantaggio, e considerava che la “guerra fredda” non rispondeva né agli interessi economici, né a quelli politici dell’URSS. L’industria sovietica, ormai entrata a far parte organicamente del mercato mondiale, di fronte ai gruppi del capitalismo occidentale di elevatissima concentrazione, era nella necessità di diminuire i costi di produzione e di aumentare la produttività del lavoro, se voleva portare avanti, nel miglior modo, la concorrenza che l’entrata nel mercato mondiale imponeva necessariamente. Il Congresso della destalinizzazione ripropone perciò la pratica liberal-democratica “della competizione economica”, affibbiandole il nome di “socialista”. È in questo il più profondo significato delle nuove riforme che sanciscono, fra l’altro, il principio giuridico dell’au-

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tonomia di gestione e di finanziamento delle aziende di stato in URSS. A questo provvedimento se ne vanno a mano a mano aggiungendo altri, che autorizzano le concessioni di crediti secondo il rendimento aziendale, l’aumento delle possibilità decisionali dei direttori di azienda, fino al licenziamento degli operai senza la consultazione coi sindacati, etc.; ed effettivamente, in seguito a tali provvedimenti – d’altronde perseguiti in tutti i paesi dell’area socialista sovietica – si è constatato, a tutto i primi del 1967, un incremento produttivo. Questo incremento avviene grazie all’ormai completa apertura del mercato interno agli investimenti dei paesi dell’area occidentale: basti ricordare gli accordi con la FIAT, con l’Olivetti, con la BMC inglese, con parecchie branche dell’industria francese (per la televisione a colori, e per forniture di auto dalla Renault e dalla Peugeot); ed è addirittura vicino un accordo di vaste proporzioni con l’American Motor Corporation. Conseguentemente all’integrazione tra le aziende occidentali e quelle orientali dell’area sovietica, si va formando una fonte di sovraprofitti in campo internazionale. I gruppi revisionisti dei paesi cosiddetti socialisti tendono a partecipare più strettamente al mercato capitalistico internazionale, insieme con quei partiti dell’occidente europeo che usano ancora e falsamente il nome di “comunisti”, per ricavare da ciò la possibilità di sopravvivere come incancrenito fenomeno di corruzione in seno al movimento operaio. Si conservano ovunque le distinzioni tra il sistema occidentale e quello sovietico. A differenza del primo, che sfrutta ormai le sue forze produttive in maniera

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parassitaria, il sistema sovietico è in fase di pieno sviluppo delle proprie forze produttive. D’altra parte, il particolare accentramento statale sovietico compiuto a più livelli vi ha reso ormai definitivo il distacco tra società civile e società politica, e stabilito un rapporto di assoluta subordinazione della prima alla seconda attraverso un capillare apparato di controllo e di repressione burocratica. Possiamo perciò avanzare l’ipotesi che fa della Russia il modello sociale, in prospettiva, più avanzato. In rapporto a tali conclusioni, risulta evidente che il tradimento, da parte dell’URSS, degli interessi del movimento operaio internazionale, assume il valore di un disastro storico incalcolabile. L’appoggio strutturale nel campo economico-politico, che lo stato sovietico ha offerto e offre alle potenze del mercato mondiale capitalistico, e l’organico inserimento della stessa URSS in esso, propone alle forze rivoluzionarie la tesi che l’avversario principale da combattere, nella realtà storica contemporanea, non sia più solamente il capitalismo occidentale nella sua veste internazionale, ma forse ancor più la stessa URSS. I problemi della costruzione del socialismo in Cina La Cina, negli anni Sessanta, svolge un ruolo di primaria importanza storica, aiutando l’allargamento della comprensione del tradimento sovietico, oltre le ristrette avanguardie ancora ligie agli ideali rivoluzionari, alle più vaste masse sfruttate nel mondo. La posizione politica della Cina, di rinnovata rottura dell’equilibrio

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internazionale, si contrappone alle false tesi di pacifico progresso economico e sociale, propagandato tanto da parte americana quanto da parte sovietica. Essa contribuisce a rendere coscienti più vasti strati del movimento operaio della situazione di crisi in cui si trova oggi il movimento comunista internazionale. Questa situazione è caratterizzata, a livello internazionale, dal passaggio dell’URSS nel campo dei paesi che si reggono sullo sfruttamento e sull’oppressione, fatto che si riflette nella politica revisionista da essa perseguita a livello internazionale. A questa situazione si collega l’assoluta mancanza di partiti politici, strumenti di guida della rottura rivoluzionaria dell’ordine costituito, nelle realtà nazionali e in quelle internazionali. Senza impegnarsi in un discorso politico sulle possibilità rivoluzionarie a lunga scadenza della Cina, si può dire che l’esperienza cinese, anche se non completamente adeguabile alla realtà dei paesi industrialmente avanzati, dà un contributo largamente positivo all’allargamento della preparazione, teorica e pratica, della futura rivoluzione comunista. In realtà questa esperienza va inquadrata nelle difficoltà storiche che la Cina si trova ad affrontare nella costruzione del socialismo, difficoltà dovute soprattutto alla realtà internazionale che la condiziona da ogni lato. Per studiare un po’ più da vicino tali difficoltà, e quindi i limiti di alcune soluzioni, ma anche gli aspetti positivi da recuperare per una strategia rivoluzionaria nazionale e internazionale, possiamo analizzare la realtà politica cinese sulla base delle condizioni che Trotsky poneva, in un discorso al IV congresso dell’Internazionale Comunista del 1922, come preliminari

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alla costruzione politica ed economica del socialismo. Egli vedeva tale costruzione come dipendente: 1) dal livello delle forze produttive, specialmente dai rapporti reciproci tra industria ed economia contadina; 2) dal livello culturale e organizzativo della classe lavoratrice che ha conquistato il potere statale; 3) dalla situazione politica nazionale e internazionale (se la borghesia è stata vinta completamente o offre ancora resistenza, se hanno luogo interventi militari stranieri e così via). Tali tre punti non costituiscono per noi, naturalmente, un arido elenco, ma lo sfondo problematico su cui basare un’indagine sulla realtà economica e politica della Cina. Un primo punto fermo, per una comprensione un po’ più approfondita della realtà economico-sociale della Cina dei nostri giorni, è il giudizio sulla natura della rivoluzione cinese. Tale giudizio ce l’offre lo stesso Mao-Tse-Tung ne La Nuova Democrazia: «La rivoluzione cinese è una rivoluzione contadina, la lotta contro gli invasori giapponesi è fondamentalmente una lotta contadina, il regime di nuova democrazia consiste fondamentalmente nel dare il potere ai contadini». La sconfitta del proletariato cinese, avvenuta a opera del nazionalista Ciang Khai-Scek, fece sì che la rivoluzione dovesse ripartire dalle campagne; e ciò ha posto un primo condizionamento e un primo limite ai fini della costruzione del socialismo. La tradizione marxista, ha, in effetti, giustamente sottolineato l’incapacità delle classi contadine e piccolo-borghesi di avere una politica propria, e Lenin ha più volte specificato come la condizione prima per movimenti rivoluzionari dell’oriente economicamente arretrato fosse quella di

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una direzione proletaria che trascinasse dietro di sé i contadini, secondo quella formula della “dittatura rivoluzionarla e democratica degli operai e dei contadini” che era stata positivamente sperimentata nella rivoluzione del 1917 in Russia. Troviamo, dunque, in Cina una realtà in cui prevale fondamentalmente l’agricoltura sull’industria, in una situazione politica internazionale di isolamento della Cina dal resto del mondo (un isolamento cui contribuisce attivamente la politica dello stato sovietico). Come affermare in realtà il socialismo in Cina su di una base economica strutturalmente contadina? Come risolvere i problemi dell’industrializzazione e creare una grande industria moderna, condizione per una politica autonoma indipendente dall’intrusione e dall’influenza dell’URSS e del blocco occidentale? Queste domande pongono in tutta la loro drammaticità la lotta che strenuamente il popolo cinese sta portando avanti per avviare e consolidare le prime forme di economia socialista. In realtà non è assente dai convincimenti dei dirigenti cinesi che l’impianto economico e politico del socialismo nel loro paese può diventare duraturo solo nel contesto di un rivoluzionamento economico e politico internazionale e nella realtà di un’alta industrializzazione, sulla base di una situazione interna che veda definitivamente sconfitte le ancor vive resistenze dei ceti medi e piccolo-borghesi. Questa giusta impostazione nella linea della costruzione del socialismo in Cina ha determinato conseguenti comportamenti storici: il primo convincimento è rispecchiato nel rigetto deciso delle tesi sovietiche della

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coesistenza pacifica e sulla competizione puramente economica con le forze imperialistiche, e ha dato luogo, a partire dagli anni 1958-59, a un violento conflitto tra i due paesi; il secondo ha dato luogo a un potente rivolgimento interno alla stessa Cina. Su richiamo della direzione del PCC le masse cinesi si muovevano per superare le contraddizioni, seppur non antagonistiche, ma in seno al popolo, che Mao-Tse-Tung aveva da tempo individuato: iniziava come fenomeno storico la rivoluzione culturale proletaria cinese. Ci preme, a questo punto, caratterizzare correttamente la rivoluzione culturale proletaria cinese, per dimostrare come dalla maturazione dell’esperienza interna derivi il deciso atteggiamento di lotta in campo internazionale all’imperialismo e al revisionismo di ogni tipo. La rivoluzione culturale e proletaria è caratterizzata, a nostro parere, da due aspetti fondamentali: il primo di questi deriva dalla suddetta esigenza interna di una rapida industrializzazione; la situazione storica della Cina in campo mondiale è tale che essa deve contare sulle sue sole forze e, in mancanza di aiuto esterno, ricorrere a un poderoso sforzo di tutte le sue componenti sociali. Dunque, strutturalmente, la rivoluzione culturale e proletaria ha in primo luogo il significato di aiuto e appoggio solidale dell’intero popolo cinese alla classe proletaria, impegnata da questi anni in poi in un faticoso lavoro di produzione industriale. A questo significato della rivoluzione culturale si collega l’altro, pur di per sé fondamentale, significato, che è bene esprimere proprio con le parole della risoluzione dell’agosto 1966 del CC del PCC sulla grande rivoluzione culturale proletaria: «Trasformare la fisio-

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nomia morale di tutta la società col pensiero, la cultura e i costumi nuovi, propri del proletariato». È difficile cogliere l’importanza di questo punto in tutti i suoi infiniti aspetti. Basti pensare, comunque, a quanto si mostra necessario, nello stesso Occidente, raggiungere, per tutte le forze autenticamente rivoluzionarie, una fondamentale impermeabilità nei confronti dell’ideologia borghese, che è una delle cause dell’ingabbiamento delle energie rivoluzionarie della classe operaia occidentale. Al livello più propriamente politico, la rivoluzione culturale proletaria ricerca un livellamento su un unico piano sociale di tutta la popolazione, con l’eliminazione di quei gruppi privilegiati che agivano nella convinzione della necessità della reintroduzione dello sfruttamento in Cina. È qui il significato più profondo della rivoluzione culturale nella storia del movimento operaio: nel tentativo di sviluppare, in un paese economicamente arretrato, che presenta le prime fisionomie del socialismo, una linea politica che eviti di ripetere quelle esperienze che in altri paesi “socialisti” hanno portato alla costituzione di società basate sulla diseguaglianza sociale e sullo sfruttamento. Questo tentativo si è esplicato in diverse forme: oltre che in quella già ricordata della mobilitazione di massa contro i gruppi privilegiati nel Partito e nell’economia, attraverso l’opera di rigenerazione dal basso degli istituti rivoluzionari, secondo le concezioni di “pratica sociale” e di dialettica rivoluzionaria proprie dell’esperienza maoista. Questa è la risposta alla seconda condizione che Trotsky poneva come necessaria per la costruzione del socialismo. Non si può negare che «il livello culturale

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od organizzativo della classe lavoratrice che ha conquistato il potere statale» sia in Cina, effettivamente, molto alto. Comunque, rimane ancora aperta la soluzione del dilemma cinese: basteranno le forze oggettive e lo sforzo soggettivo della direzione e delle masse cinesi a resistere alla pesante oppressione e al ricatto costantemente esercitato in campo internazionale sulla Cina da parte dello strapotere americano e sovietico? Di qui scaturisce, per maturazione con la sua esperienza politica, l’impegno che in campo internazionale la Cina promuove. Purtroppo tale impegno è ancora limitato dall’esperienza propria della rivoluzione cinese e reso sempre più difficile dalla poco intelligente politica che alcuni gruppi che si richiamano alla Cina, portano avanti nei paesi a capitalismo avanzato. Alle fondamentali acquisizioni storiche, che hanno portato alla rottura dei maggiori partiti comunisti dell’ufficialità dell’occidente europeo, non è in verità seguito un eguale sforzo di comprensione della realtà sociale ed economica dei paesi avanzati. E i cinesi sono i primi a riconoscere come non si possa meccanicamente applicare il risultato storico dell’esperienza cinese, anche nella sua più approfondita elaborazione. In realtà, se in campo internazionale la posizione della Cina è difensiva rispetto alla pressione imperialista, seppure in posizione di reale frattura dell’ordine mondiale costituito, bisogna riconoscere che nelle aree di capitalismo avanzato si è ancora in una posizione di riflusso storico e a un livello limitato di elaborazione teorica. Solo quando questi pesanti condizionamenti che vincolano il proletariato occidentale verranno, col tem-

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po e con la dura pratica politica, sciolti, la lotta nel cuore dell’imperialismo, insieme all’ingabbiamento dell’imperialismo nelle aree coloniali prospettato dai cinesi, potrà portare alla definitiva sconfitta del sistema mondiale di sfruttamento, e alla possibilità per tutto il mondo di costruire una nuova realtà sociale ed economica, quale è prospettata dalla visione comunista di Marx e Lenin. Ritengo che per noi tutti, tanto per i compagni russi che per i compagni stranieri, l’essenziale sia questo: dopo cinque anni di rivoluzione russa, dobbiamo studiare. Soltanto ora abbiamo la possibilità di studiare. Non so per quanto tempo questa possibilità potrà durare. Non so per quanto tempo le potenze capitaliste ci lasceranno la possibilità di studiare tranquillamente. Ma ogni momento libero dall’attività combattiva dalla guerra, dobbiamo utilizzarlo per studiare, e per di più, cominciando dal principio. Tutto il partito e gli strati della popolazione in Russia lo dimostrano con la loro sete di sapere. Questa aspirazione allo studio dimostra che oggi il compito più importante per noi è: studiare, ancora studiare. Ma anche i compagni stranieri debbono studiare1.

Lenin, Relazione tenuta al IV Congresso dell’Internazionale, il 13 novembre 1922. 1

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“Sinistra da governo” e opposizione rivoluzionaria

Nell’ambito della dissidenza di sinistra, in Italia e fuori, si discute da molto tempo sul giudizio da dare sulle organizzazioni politiche tradizionali del movimento operaio, e sull’opportunità di costruire nuovi raggruppamenti politici in grado di esprimere le esigenze rivoluzionarie del proletariato. In quest’articolo ci proponiamo di esaminare questi problemi e di delineare alcune risposte preliminari ai vari quesiti. Movimento operaio e politica del P.C.I. Non si può negare che, negli ultimi anni, all’interno del movimento operaio nei paesi di capitalismo avanzato si sia diffuso un fortissimo senso di disagio e di frustrazione. I gruppi dirigenti dei partiti e dei sindacati della sinistra ufficiale sono stati sempre più spesso indicati come i responsabili di questo stato di disagio per la loro politica di rinuncia e di capitolazione. Si sono così sviluppate e acutizzate contraddizioni fra il movimento operaio di base e le sue organizzazioni tradizionali. Consideriamo il caso dell’Italia. Gli operai disertano i sindacati e i partiti politici: ad esempio, le cellule del P.C.I. sui luoghi di lavoro passano da 11.495 del 1954 a 5.917 del 1962, mentre gli iscritti al partito di condizione operaia passano da 856.314 del 1954 a 643.733 del 19622. Dati citati da Enrico Berlinguer, attualmente membro dell’ufficio politico della direzione del P.C.I., nel fascicolo di settembre-dicembre 1963 di «Critica Marxista». 2

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Gli operai votano scheda bianca alle elezioni delle commissioni interne di fabbrica; alla FIAT nelle votazioni del 1967 si è regolato così quasi il 30% dei votanti. Ma gli operai non si limitano a queste reazioni: si ribellano contro i funzionari politici e sindacali, scioperano e manifestano contro il loro parere, si organizzano in nuovi gruppi dissidenti. Anche al di fuori della classe operaia si registrano manifestazioni cospicue di dissidenza nei confronti dei partiti della sinistra ufficiale: ad esempio, le ultime agitazioni universitarie hanno visto da parte degli studenti scesi in lotta una notevole insofferenza nei loro confronti. Tale situazione è incoraggiata dagli stessi gruppi dirigenti di questi partiti, la cui linea politica è quella dell’alleanza con i gruppi più “avanzati” del capitalismo per realizzare un ordinamento che, pure eliminando alcune sacche di arretratezza presenti nella società italiana, vi conservi lo sfruttamento e il lavoro alienante. Si legge, infatti, nelle tesi del X congresso del P.C.I.: Antistorico, assurdo, sarebbe, infatti, ritenere di poter fondare un’alternativa all’attuale corso economico sul ritorno a un meccanismo capitalistico concorrenziale di vecchio tipo e di poterla fondare comunque al di fuori del capitalismo di stato… Ciò significa che è da respingere ogni modello di programmazione che tenda a fare dell’attuale ordinamento proprietario, dell’attuale struttura economica un limite invalicabile e che tenda quindi a precludere la strada a un’ulteriore estensione del capitalismo di stato… L’affermazione dell’autonomia della classe operaia, e in primo luogo l’autonomia rivendicativa e sindacale, non va intesa

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come tendenza della classe operaia a isolarsi o a difendersi dalla programmazione3.

Queste affermazioni non sono apparse improvvisamente negli ultimi anni, ma sono la naturale conseguenza di una linea politica adottata fin dagli anni della resistenza. Su «Rinascita» n. 3, agosto-settembre 1944, si legge: «La classe operaia sa che non è oggi suo compito lottare per l’instaurazione immediata di un regime socialista». Ma gli obiettivi e la strategia dei partiti della sinistra in questo dopoguerra sono meglio spiegati da Giorgio Amendola nella relazione presentata a un convegno tenuto all’Istituto Gramsci in Roma nel marzo 1962: Il partito comunista pose l’obiettivo della costruzione di una democrazia di tipo nuovo; non la restaurazione della vecchia democrazia prefascista, ma la creazione di una democrazia nella quale potesse essere limitato, attraverso profonde riforme di struttura, il potere delle vecchie classi dirigenti e dei gruppi monopolistici e assicurata la partecipazione delle classi lavoratrici alla direzione del paese. Era una nuova concezione strategica della rivoluzione, secondo la quale la lotta per il socialismo coincideva con una lotta per una profonda trasformazione democratica del paese, che permettesse alla classe operaia e alle forze lavoratrici di giungere democraticamente alla direzione del paese4.

In effetti, tale “concezione strategica” è tutt’altro che nuova nella storia del movimento operaio. Già nel Tesi del X congresso del P.C.I., pp. 48-51. G. Amendola, Classe operaia e programmazione democratica, Editori Riuniti, p. 208. 3 4

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1917 Lenin bollava di tradimento analoghi discorsi, e definiva “rinnegato” il loro autore, Karl Kautsky. Seguendo questa linea politica, la direzione della sinistra italiana ha costretto la classe operaia a limitarsi a una lotta anti-fascista, sotto la direzione della borghesia, e ad appoggiare, nel dopoguerra, sempre in funzione subalterna, lo sforzo di riedificazione del capitalismo in Italia. In quest’ambito, la linea della sinistra italiana è stata sempre molto precisa: appoggiare l’azione dei gruppi più avanzati del capitalismo, quelli legati alle forze più moderne del capitale finanziario e al capitale monopolistico di stato, nel loro sforzo di svecchiamento delle arretrate strutture della società italiana. Sviluppo economico e linea politica dei gruppi dominanti In Italia, il processo di “rinnovamento” e di adeguamento delle strutture agli sviluppi della grande industria è iniziato relativamente tardi; solo negli ultimi quindici anni ha assunto un ritmo sostenuto e i gruppi “rinnovatori” hanno potuto acquistare un certo peso. L’inserzione dell’Italia nel M.E.C. e la politica economica dei governi democristiani di cauto appoggio alle holdings di stato (esemplare è il peso che l’ENI ed Enrico Mattei hanno avuto nella politica italiana di questo dopoguerra), e alle grandi corporazioni private – anche se temperata da enormi riconoscimenti ai gruppi più retrivi, come nel settore agricolo – sono stati all’origine del cosiddetto miracolo economico italiano.

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Si considerino alcuni dati. Tra il 1950 e il 1962 il reddito nazionale italiano si è raddoppiato sulla base di un tasso medio di sviluppo annuo di circa il 6%; la quota destinata agli investimenti è passata negli stessi anni dal 18% al 25%; tra il 1948 e il 1963 la produzione industriale si è quasi quadruplicata, mentre il reddito lordo prodotto per lavoratore dipendente era nel 1962 superiore dell’82% al 1953. Tale sviluppo è stato fortemente aiutato dall’intervento pubblico che si avvaleva di uno stretto controllo statale sugli istituti di credito commerciale e industriale. La maggiore banca commerciale del paese, la Banca Nazionale del Lavoro, è controllata per l’80% dallo stato, mentre le altre tre maggiori banche sono controllate per 4/5 dall’IRI. Tutte le operazioni di credito si svolgono sotto il controllo dell’istituto centrale di credito, la Banca d’Italia. Il ruolo del settore pubblico negli investimenti nel settore dell’industria e dei servizi è messo in rilievo dai seguenti dati: nel 1963 l’investimento fisso complessivo delle imprese pubbliche (IRI ed ENI) fu di 700 miliardi di lire rispetto a un investimento totale complessivo di 3.150 miliardi. In particolare, l’IRI controlla il 100% delle linee aeree e dei servizi radio-televisivi e telefonici, l’85% della produzione di ghisa, l’80% dei cantieri navali, il 65% della produzione di mercurio, il 62% della navigazione passeggeri, il 55% della produzione d’acciaio, nonché rilevanti quote dell’industria meccanica. Si aggiunga il ruolo preminente dell’ENI nel settore dei combustibili liquidi e gassosi e nella petrolchimica, nonché il monopolio statale della produzione e distribuzione dell’energia elettrica. Si rilevi

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infine che i settori controllati dall’IRI e dall’ENI si trovano a un livello tecnologico superiore alla media nazionale e che nell’ambito del settore pubblico hanno quasi esclusivamente avuto luogo gli scarsi esperimenti italiani in materia di ricerca applicata e di formazione di personale tecnico e specializzato. Permangono, tuttavia, nella società italiana enormi sacche di arretratezza: l’agricoltura, la distribuzione, la scuola e l’università, l’organizzazione della ricerca scientifica, il settore edilizio, l’organizzazione sanitaria, la pubblica amministrazione. In questa situazione, le forze “rinnovatrici” non possono permettersi di combattere oltre certi limiti i gruppi più retrivi, che restano, sia pure in una posizione di subordinazione, dei partners ineliminabili. Questa circostanza è all’origine della cautela che i gruppi “rinnovatori” italiani dimostrano nella loro azione politica. Si può comunque riconoscere l’esistenza di una linea “cavourriana” dei gruppi dirigenti italiani, volta a costruire un assetto politico-sociale in cui le forme più progredite di conduzione dell’attività economica siano gradualmente introdotte, evitando però scontri troppo bruschi con le forze retrive del paleocapitalismo. La linea politica di centro-sinistra è stata elaborata appunto su questo filo. Questa politica è sufficientemente caratterizzata, anche alla luce delle considerazioni precedenti, dalla formulazione “progresso ordinato nella continuità”, dovuta a Moro, e dall’altra, dovuta a Fanfani, “progresso senza avventure”. Un importante settore della sinistra ufficiale italiana, il partito socialista, si è inserito, attraverso la politica del centrosinistra, nella classe dirigente italiana,

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diventandone uno dei pilastri principali. Il ruolo del partito socialista viene illustrato dall’onorevole Giolitti che, pur figurando su posizioni di “sinistra” all’interno del suo partito, deve assegnare una posizione importante alle forze legate alla proprietà privata: L’obbiettivo finale della politica socialista comporta una trasformazione sostanziale del sistema capitalistico, delle sue strutture economiche, dei suoi istituti giuridici (anche quando non venga più postulata la conversione totale della proprietà privata in proprietà pubblica), dei rapporti di potere tra le classi in esso esistenti, fino al totale superamento delle differenze e divisioni di classe5.

Dietro le roboanti promesse di “trasformazioni di struttura”, si intravede l’assicurazione che resterà in auge tutta la vecchia merda della proprietà privata. La politica del partito comunista in Italia I margini troppo ampi che restano nell’organizzazione economica alle forme più arcaiche, le forme “privatistiche”, creano gravi disfunzioni nel sistema produttivo, proprio per la presenza di centri decisionali indipendenti. La situazione è così sintetizzata da A. Shonfield: L’intero processo ricorda un poco il modo in cui un artista ostinato e sicuro di sé come Picasso ha costruito

5

A. Giolitti, Un socialismo possibile, Torino, Einaudi, p. 41.

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alcune sue sculture, usando gli oggetti che gli capitavano sottomano, inclusi i giocattoli dei figli, e incorporandoli in un suo disegno6.

Ciò provoca lo sdegno del signor Amendola che, condividendo evidentemente il giudizio negativo di Krusciov sull’arte moderna, pare si sia assunto il compito di mettere un po’ d’ordine, e magari di far rientrare nei ranghi perfino i cosiddetti “monopoli”. Leggiamo7 la seguente giustificazione della politica del P.C.I. uscita dalla penna del sullodato signor Amendola: Il punto di partenza del nostro discorso sulla programmazione deve essere dunque questo: lo stato del paese, la gravità dei problemi, l’urgenza delle esigenze oggettive di sviluppo della società nazionale, la dimostrazione dell’impossibilità di rispondere a queste esigenze nel quadro di un sistema dominato dai gruppi monopolistici. La necessità di una linea di sviluppo economico che sia alternativa a quella seguita dai gruppi monopolistici deriva, dunque, da questa provata impossibilità. Il nostro discorso sulla programmazione acquisterà il respiro e il vigore necessario, se sarà fondato sulla dimostrazione che si può uscire dalla crisi, superare lo stato di stagnazione, cui la politica del centro sinistra condanna l’economia italiana, e assicurare il progresso del paese, attraverso una politica di programmazione antimonopolistica, soltanto fondata sulle riforme di struttura. Riforme di struttura e programmazione democratica

A. Shonfield, Il capitalismo moderno, Etas-Kompass, p. 249. Nelle pagine di «Critica marxista» del settembre-dicembre 1965. 6 7

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non sono le conseguenze di un’aprioristica scelta ideologica, di una preferenza per un certo modello di sviluppo, né un mezzo eversivo per scardinare il sistema e per aprire la strada al socialismo. Se fosse solo questo, se le riforme di struttura dovessero essere considerate unicamente, come a volte si dice, come “strumenti della lotta per il potere”, esse potrebbero rispondere soltanto agli orientamenti di quell’avanguardia che ha già fatto una scelta socialista. È vero che questa parte in Italia non è una piccola minoranza, è un movimento robusto che già, in tante regioni e province, rappresenta la maggioranza del popolo che lavora. E tuttavia vi è sempre la necessità di convincere gli altri, coloro che non hanno fatto ancora una scelta socialista, o che non intendono farla. E per costoro non bastano la propaganda e l’agitazione; occorre la dimostrazione della necessità nazionale di un diverso tipo di sviluppo economico e politico, occorre la dimostrazione dell’impossibilità, senza un profondo rinnovamento strutturale e senza una programmazione democratica che determini la preminenza dell’interesse pubblico sugli interessi privati o di gruppo, di assicurare al paese non soltanto una precaria ripresa, ma le condizioni di un regolare sviluppo economico, che garantisca a tutti gli italiani un’occupazione, migliori condizioni di lavoro e di vita, sicurezza di progresso democratico. Riforme di struttura e programmazione democratica sono dunque gli strumenti necessari per dare una risposta ai problemi che travagliano il paese, per portare l’Italia fuori dalla crisi e dalla stagnazione. Se le riforme di struttura significano una modificazione del sistema di accumulazione capitalistico, dominato dai gruppi monopolistici, la loro necessità deriva dal fatto che questo sistema si è “ inceppato”, e che non si tratta di “riattivarlo”, per passare poi, alle riforme, in un secondo tempo, ma di trasformarlo… Il meccanismo dell’espansione monopolistica si è inceppato, provocando una rottura del precario e instabile equili-

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brio, e ha dimostrato, in ogni modo, di non risolvere ma di aggravare tutti i problemi del paese. È per realizzare un nuovo equilibrio, un “ordine nuovo” al posto del caos e dell’impossibilità del sistema capitalistico a risolvere i problemi della società italiana, che bisogna ricorrere alle riforme di struttura. Queste non sono, dunque, un capriccio, il frutto di un’astratta preferenza dottrinaria, ma una necessità nazionale… Perciò a questa linea di accumulazione monopolistica noi opponiamo, come alternativa democratica, una linea di politica economica programmata che vada oltre singole misure parziali non coordinate fra di loro, e sia fondata su una visione generale dello sviluppo economico del paese e su un piano di riforme volte a trasformare le strutture8.

Talvolta però anche il signor Amendola cede a debolezze “picassiane”, ed elogia disordine e confusione come nel seguente brano di un suo discorso al comitato centrale del P.C.I. nel maggio 1967, in cui esalta «un movimento generale di lotta che abbraccia milioni di lavoratori: le popolazioni meridionali, i contadini, i medici, gli infermieri, i magistrati, i cancellieri, i professori, gli assistenti, gli studenti, gli impiegati degli istituti di previdenza, i dipendenti pubblici, i ferro-tramvieri, i postelegrafonici, i pensionati», nell’elenco non figurano soltanto le guardie e le prostitute, escluse queste ultime per evidenti motivi di moralità pubblica. Una stringata enunciazione degli obiettivi strategici del P.C.I. è stata esposta dal segretario del partito, onorevole Longo, in un’intervista al settimanale «L’Espresso», pubblicata il 20 settembre 1964: «Noi 8

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G. Amendola, op. cit., pp. 605-607.

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non proponiamo la liquidazione del profitto, ma la liquidazione delle posizioni di rendita e di sovrapprofitto. Ogni imprenditore che si muoverà nell’ambito delle grandi scelte del piano dovrà avere la garanzia di un equo profitto». A garantire un “equo profitto” agli imprenditori, come si deduce dal testo, potrebbero provvedere amici e collaboratori dell’onorevole Longo, inseriti in una rinnovata burocrazia, dove si ritrovino un po’ tutti a godere le beatitudini del potere, in una società dove permanga, con il profitto degli imprenditori, lo sfruttamento dell’uomo sull’uomo. La stessa prospettiva di “conciliazione” generale è presente nella proposta politica di Antonio Giolitti. Le riforme «vengono a perdere ogni inutile coloritura punitiva, si presentano – come in effetti sono – non orientate contro qualcuno, bensì per conseguire fini che interessano l’intera collettività e per i quali è possibile sollecitare la partecipazione, trasformare la protesta in iniziativa politica costruttiva»9. Strategia dei “rinnovatori” e lotte popolari Il problema politico che maggiormente angustia i “rinnovatori”, i gruppi legati alle forze più moderne del capitale finanziario e al capitalismo monopolistico di stato, e i raggruppamenti della sinistra ufficiale, è quindi quello di guadagnare forza nei confronti dei gruppi più retrivi, evitando tuttavia che dall’intervento

9

A. Giolitti, op. cit., p. 63.

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delle masse possano nascere centri di riferimento rivoluzionari. Una soluzione di questo problema è illustrata sia da Giolitti sia da Amendola. In sintesi, tale soluzione, che del resto faremo esporre direttamente ai geniali autori, e la seguente: «da un lato eliminiamo ogni possibilità di generalizzazione delle lotte popolari, rinchiudendole nell’ambito della società civile; dall’altro lato, utilizziamo tali lotte a livello della società politica, come mezzo di pressione contro i gruppi più retrivi». Leggiamo la funzione che Giolitti attribuisce ai sindacati: La piena autonomia del sindacato nello svolgimento della propria funzione istituzionale postula una rigorosa delimitazione e non una indefinita espansione del suo campo di azione. Per adempiere alla funzione che gli è propria, il sindacato deve fare scelte di fini e di mezzi secondo un sistema di valori che non può essere quello di ordine politico-ideologico generale proprio dei partiti, bensì deve specificamente rappresentare, in un insieme coerente, le esigenze salariali e normative dei lavoratori dipendenti nel rapporto conflittuale a livello di azienda, di settore, di categoria10.

E se qualche partito suggerisse ai lavoratori obbiettivi rivoluzionari? Per carità, sentenzia mastro Antonio Giolitti, ciò vorrebbe dire spingere «la prevaricazione fino a voler assoggettare il sindacato a… scelte politiche e ideologiche, dando luogo a quel sindacalismo di partito che sovverte i termini “industriali” del conflitto e del con10

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A. Giolitti, op. cit., p. 56.

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trasto tra lavoratori dipendenti e imprenditori, calpesta l’autonomia sindacale e rende impossibile l’unità operativa e organizzata di sindacati a ispirazione partitica»11. Ed ecco, di rincalzo, il signor Amendola: La lotta (dei metallurgici) non ha obiettivi politici, ma dalla lotta, dai suoi sviluppi, dalle esperienze che suscita, derivano conseguenze politiche che vanno valutate in tutta la loro importanza. La lotta è stata condotta, in piena autonomia, dai sindacati, che hanno finora realizzato, malgrado momenti di acuta tensione, una larga unità. CGIL e FIOM dirigono con autorità ed efficacia la battaglia, in stretto contatto con la CISL e l’UIL. Ma la direzione autonoma del movimento rivendicativo non toglie alla battaglia il suo obbiettivo significato politico. E spetta ai partiti politici della classe operaia, spetta a noi comunisti, nell’adempimento della nostra autonoma funzione, sottolineare questo significato politico, trarre dalla lotta in corso la lezione politica che essa comporta, agire perché l’esperienza acquisita dalle masse nel corso della lotta si trasformi in coscienza politica e in volontà rivoluzionaria (sic!)12.

I dirigenti sindacali, autentiche “cinghie di trasmissione” del capitalismo, si sono naturalmente tuffati con entusiasmo nella nuova prospettiva. Dice il “teorico di sinistra” Vittorio Foa: La situazione di movimento che si è determinata nella CISL (e che trova riscontri importanti nella CGIL, come dimostra, tra l’altro, l’appassionato dibattito interno sull’ac11 12

A. Giolitti, op. cit., p. 56. G. Amendola, loc. cit., p. 343.

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cordo quadro) apre una fase nuova e promettente per l’unità sindacale, proprio in quanto rompe le cristallizzazioni tradizionali, che sono necessariamente condizionate dalle vicende degli schieramenti politici, e riapre il discorso unitario al solo livello in cui esso può procedere spedito, quello all’interno della società e delle sue organizzazioni sindacali, senza mediazioni esterne e tanto meno di governo… Al convegno dei giovani metalmeccanici tenuto dalla FIOM in febbraio, dall’insieme degli interventi è risultato che i giovani operai e tecnici non discriminano nel processo unitario a seconda della sigla sindacale, ma a seconda della combattività e della volontà di lotta. È solo su quel terreno che l’azione unitaria ha spazio per andare avanti13.

Torna qui acconcio ricordare l’aforisma del padre del revisionismo classico, Bernstein: “Il movimento è tutto, il fine è nulla”. La naturale conclusione di tutti questi discorsi sul sindacato è la costituzione del sindacato unico di tutti i lavoratori, completamente sterilizzato dai discorsi politici (naturalmente di opposizione), e invece aperto ai valori “industriali” della società (cioè alla ideologia della classe dominante). La naturale conclusione dei discorsi sull’“unità nazionale” attorno alle “riforme di struttura” è la proposta della Costituzione del “partito unico della sinistra italiana”. Qual è l’ideologia di questo partito? Eccola, dalla penna del signor Giolitti: L’inizio del processo di revisione ideologica, sulla linea delle “riforme di struttura”, può farsi datare dalla pubblica13

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V. Foa, «Problemi del Socialismo», n. 27, febbraio 1988.

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zione delle opere di Gramsci; il suo sviluppo è divenuto poi irreversibile quando con il rapporto Krusciov è suonata l’ora della verità… Si è andata da allora svolgendo l’elaborazione teorica – e, per quanto riguarda il partito socialista in Italia, anche una prima sperimentazione pratica – di una nuova linea politica “ riformatrice”… il livello tecnologico e l’organizzazione della produzione raggiunti dalle società industrializzate non consentono, senza compromettere quei risultati ai quali neppure la classe operaia è disposta a rinunciare, di reintegrare il lavoratore nella sua personalità di uomo a livello dell’impresa… La contraddizione tra la volontà di trasformare il sistema, e l’esigenza riconosciuta di assicurarne l’efficienza mentre lo si trasforma, è insita nei termini stessi in cui si svolge il conflitto di classe nella società industrializzata, e la politica riformatrice socialista non fa che rifletterla e darsene carico. La classe operaia per prima non è disposta a pagare, per la conquista del potere politico, qualunque prezzo, e meno che mai il prezzo di una crisi dell’apparato produttivo esistente14.

Riassumiamo ora il piano della “sinistra” ufficiale. Le azioni a livello delle società politica, dell’organizzazione generale del sistema di sfruttamento, sono solidamente monopolizzate dal “partito unico della sinistra italiana” a vocazione governativa, in condominio con i partiti borghesi. Tale partito dà ampie assicurazioni alla classe dominante di non turbare l’efficienza del sistema produttivo, anzi di difenderlo dagli attacchi dei singoli capitalisti, dei “monopoli” e degli operai. Esso non deve necessariamente avere l’appoggio attivo delle masse, che oltretutto sarebbero felici del tozzo di pane che gli 14

A. Giolitti, op. cit., pp. 42-45.

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si è gettato e non desidererebbero “fare la rivoluzione”, ma solo quello dei gruppi di tecnici e amministratori “progressisti “, dei funzionari degli enti di stato e simili. Per quanto riguarda le masse, basta che rinuncino a costituire centri alternativi di lotta politica. Esse possono sfogare gli eventuali bollori ribellistici nei movimenti settoriali (che i sindacati e i gruppi “spontaneisti” minoritari provvedono a tenere spoliticizzati), dove la loro lotta potrà essere utilizzata per la demolizione degli ultimi baluardi del potere delle forze più retrive. La dissidenza di sinistra: spontaneisti della “sinistra” PSIUP e “conciliatori” della IV internazionale Non ci si deve stupire se questa impostazione strategica dei partiti di sinistra, volta esplicitamente a incoraggiare il capitalismo di stato, ha condotto all’apparizione di cospicue manifestazioni di dissidenza a sinistra dello schieramento ufficiale. In questa sede vogliamo riferirci in modo particolare alla “sinistra” del PSIUP e ai trotskysti. La loro polemica si rivolge particolarmente contro la tendenza alla concentrazione tipica della società moderna; non si protesta contro la concentrazione capitalistica, ma contro la concentrazione tout court. Non a caso i modelli ideali di questi gruppi sono certe forme di “socialismo” contadino pre-industriale, rilanciate recentemente in alcuni paesi del terzo mondo. L’origine dei mali, secondo costoro, risiederebbe nella concezione leninista del partito, che avrebbe portato all’espropriazione dell’iniziativa politica delle

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masse a beneficio di un ristretto gruppo di “dirigenti”. Scrive ad esempio Lucio Libertini, “teorico” della “sinistra” del PSIUP: Viene in luce a questo punto un limite virtuale ma importante del pensiero leninista, perché contrapponendo così schematicamente l’elemento cosciente (ideologia e partito) e l’elemento spontaneità (lotte immediate di massa) si rischia di creare tra loro una frattura: può venire a cadere il necessario rapporto dialettico tra di essi e può aprirsi la strada alla concezione del partito-guida, del partito che sia l’unico depositario della verità rivoluzionaria, del partito-stato. Soggetta agli stessi limiti è la concezione del sindacato come cinghia di trasmissione dal partito alle masse: su questo terreno nasce una concezione strumentale del sindacato15.

In effetti, da questa esposizione traspare un sogno tipico della democrazia contadina, quello dell’“homo faber fortunae suae”; e, com’è noto, accade a molti che lasciano la campagna per la città, nel tentativo di far fortuna, di finire al servizio dei padroni delle fabbriche. Scriveva infatti Lenin nel Che fare?: Dal momento che non si può parlare di un’ideologia indipendente elaborata dalle stesse masse operaie nel corso stesso del loro movimento, la questione si può porre solamente così: o ideologia borghese, o ideologia socialista. Non c’è via di mezzo (poiché l’umanità non ha creato una “terza ideologia”, e d’altronde, in una società dilaniata dagli antagonismi di classe, non potrebbe mai esistere un’ideologia al di fuori o al L. Libertini, Dieci tesi sul partito di classe, ed. Samonà e Savelli. 15

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di sopra delle classi). Ecco perché ogni menomazione dell’ideologia socialista, ogni allontanamento da essa, implica necessariamente un rafforzamento dell’ideologia borghese. Si parla della spontaneità, ma lo sviluppo spontaneo del movimento operaio fa sì che esso si subordini all’ideologia borghese, … perché il movimento operaio spontaneo è il tradeunionismo, la Nur-Gewertschaftlerei, e il tradeunionismo è l’asservimento ideologico degli operai alla borghesia, Perciò il nostro compito, il compito della socialdemocrazia, consiste nel combattere la spontaneità, nell’allontanare il movimento operaio dalla tendenza spontanea del tradeunionismo a rifugiarsi sotto l’ala della borghesia; il nostro compito consiste nell’attirare il movimento operaio sotto l’ala della socialdemocrazia rivoluzionaria. Ma perché – domanderà il lettore – il movimento spontaneo, movimento che segue la linea del minimo sforzo, conduce al predominio dell’ideologia borghese? Per la semplice ragione che, per le sue origini, l’ideologia borghese è ben più antica di quella socialista, essa è meglio elaborata in tutti i suoi aspetti e possiede una quantità incomparabilmente maggiore di mezzi di diffusione. E quanto più giovane è il movimento socialista di un determinato paese, tanto più energica deve essere la lotta contro tutti i tentativi di consolidare le ideologie non socialiste, tanto più risolutamente bisogna premunire gli operai contro i cattivi consiglieri che gridano contro la sopravvalutazione dell’elemento cosciente… La classe operaia va spontaneamente al socialismo; ma l’ideologia borghese, che è la più diffusa (e che risuscita costantemente nelle più svariate forme), resta pur sempre l’ideologia che, spontaneamente, soprattutto s’impone all’operaio16.

Queste affermazioni – se erano vere al tempo di Lenin, quando non esisteva ancora la società “pianificata” 16

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Lenin, Che fare?, Opere scelte, Editori Riuniti.

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moderna – hanno oggi una validità incomparabilmente maggiore (e ciò si può desumere dalle testimonianze in negativo dei signori Giolitti e Amendola). Ecco perché la classe dominante e i suoi alleati “di sinistra” si battono così accanitamente contro la politicizzazione dei movimenti spontanei e ne rivendicano l’assoluta autonomia e “genuinità”. Essi sono così sicuri – e l’esperienza di tutti i tempi e di tutti i paesi lo conferma – che, in queste condizioni, i movimenti spontanei si rifugeranno sotto le loro ali, senza bisogno di sollecitazioni particolari. Per essi il nemico principale da combattere è appunto rappresentato dalle posizioni leniniste; e, nel quadro di una precisa divisione del lavoro, affidano questo compito a coloro che, apparentemente su posizioni di ultrasinistra, conducono la sciocca polemica della spontaneità contro l’elemento cosciente, delle “masse” contro i “capi”, della società contadina contro la società industriale. Cosa propone il signor Libertini al posto del partito leninista? Il partito di massa: La scelta del partito di massa – riconoscibile non solo e non tanto dal numero degli iscritti ma essenzialmente dal rapporto tra il partito, le masse e le loro lotte – nasce dall’esigenza di ricavare dalle contraddizioni dello sviluppo capitalistico, agendo nel cuore stesso della società, il rovesciamento del sistema e la costruzione di un potere nuovo. Questa scelta corrisponde alla concezione di un partito realmente democratico che non è il depositario di una misteriosa verità che apporta dall’esterno alle masse (mi riferisco qui esplicitamente a quel limite della concezione leninista del quale ho già parlato e che occorre superare), ma al contrario trae continuamente la sua teoria dall’esperienza dei lavoratori, un partito democratico per l’alto livello di consapevolezza che cancella la distinzione

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tra dirigenti e militanti, per il rapporto dialettico continuo con le lotte dei lavoratori, che annulla la separazione tra organizzazione e masse, per il rifiuto della doppia e tripla verità e il forte ancoraggio all’ideologia: perché ricava continuamente dalla lotta di classe un insieme organico di valori alternativi alla società borghese e in tal senso costituisce il nucleo di una società nuova… La presenza politica del partito nei luoghi di produzione si realizza seriamente nelle condizioni italiane, se ha il compito di collegare l’azione rivendicativa e la battaglia per il controllo operaio e l’esproprio dei mezzi di produzione: se si pone il problema di costruire, partendo dalle condizioni concrete e dalle lotte di ogni giorno, gli strumenti unitari di un potere nuovo degli operai, tecnici, impiegati nei luoghi di produzione: e se a questo tema ricollega il problema del rapporto tra fabbrica e società, della linea politica generale17.

In un certo senso, le prospettive politiche del Libertini possono apparire scontate – data la posizione pratica che questi occupa all’interno del PSIUP; ma possono essere di guida nell’analisi delle posizioni dei “cinesi” Bobbio e Viale, e degli altri gruppetti che ad essi fanno riferimento. Allo scopo è estremamente indicativa l’ultima intervista dei due “teorici” del movimento studentesco18: Di fatto, in questi ultimi mesi il movimento studentesco è stato un movimento extraparlamentare. Le stesse forme di partecipazione politica che sono state concretamente costruite nel corso del movimento, hanno indicato nuovi strumenti di partecipazione diretta che contestano in ogni 17 18

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L. Libertini, op. cit. Pubblicata su «Mondo Nuovo» il 24 marzo 1968.

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caso il principio della rappresentanza per delega. Questi temi, portati a un’ulteriore maturazione, non possono che condurre a una critica complessiva delle istituzioni parlamentari e dello stesso tipo di rappresentanza borghese. Al momento delle elezioni credo che il movimento debba sapere esplicitare sempre più questi temi, e quindi essere in condizione di fornire precise indicazioni. Non ci interessa assolutamente, in questo momento (e sarebbe inoltre contraria alla metodologia del movimento), una polemica con i partiti politici su un terreno puramente astratto e ideologico.

Potrà certamente servire ad accrescere la fama di sottili teorici dei due “cinesi” di Torino, la contraddizione tra prima e seconda parte del brano: si comincia affermando che il movimento universitario rifiuta una strategia di tipo parlamentare, e si finisce sentenziando che una polemica contro i partiti opportunisti – che vivono solo per il parlamento – non deve farsi, “al momento delle elezioni”, su un piano “astratto e ideologico”. Si dovrà comunque sottolineare, per la verità, che i due dichiarano di ispirarsi a una nuova metodologia, la “metodologia del movimento universitario” (sic!) – la cui formula centrale parrebbe quella che non vi è alcuna possibilità di conoscenza senza passare per esperienze soggettive di tipo immediato. Si può notare che questa metodologia rientra perfettamente nel modello proposto dal Libertini; e per questa via, nei modelli raccomandati dai gruppi dirigenti dei partiti di sinistra. E ciò che è comune a queste metodologie della dissidenza spontaneista e populista è il rifiuto dei risultati del lavoro di Marx e di Lenin: la costruzione di una scienza del proletariato, in grado di cogliere le relazioni fondamentali che sono alla base del movimento della società. Si ripropongono una visione soggettivistica

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e un attivismo irrazionalistico, che finiscono con il condurre nei binari già tracciati dalla borghesia. Nella moderna società capitalistica, infatti, sempre nell’ambito della divisione del lavoro, esiste un posto anche per gli apostoli delle non meglio precisate “contestazioni globali”. Scrive, infatti, il sociologo borghese Dahrendorf: … ogni tentativo di eliminare completamente il conflitto è destinato in quanto tale a fallire e anzi contribuisce all’intensificazione dei contrasti esistenti. La regolazione esige l’accettazione del conflitto; la cogestione è basata invece sulla convinzione che il conflitto sia un male e che esso debba essere abolito. Dal punto di vista di un’efficace regolazione del conflitto, essa costituisce una istituzione erroneamente concepita, che contrasta – anziché agevolare – la tendenza generale alla diminuzione della violenza e dell’intensità del conflitto industriale19.

Ben vengano quindi i suscitatori di conflitti, purché questi siano rigorosamente delimitati in ambiti settoriali, e sterilizzati dai germi generalizzatori di una concezione politica globale. Molte cose dette al riguardo della “sinistra” del PSIUP, possono essere ripetute per i trotskysti della quarta internazionale. In effetti, il legame che esiste fra questi gruppi non è occasionale, e già Lenin nel Che fare? metteva in evidenza il legame che esiste fra due facce della sottomissione alla spontaneità, l’economismo e il terrorismo. R. Dahrendorf, Classi e conflitto di classe nella società industriale, Laterza, p. 462. 19

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In generale, fra gli economisti e i terroristi, esiste un legame non accidentale, ma necessario, intrinseco… Gli economisti e i terroristi della nostra epoca hanno una radice comune: la sottomissione alla spontaneità. Economisti e terroristi si prosternano davanti ai due poli opposti della tendenza alla spontaneità: gli economisti dinnanzi alla spontaneità del “movimento operaio puro”, i terroristi dinnanzi alla spontaneità e allo sdegno appassionato degli intellettuali che non sanno collegare il lavoro rivoluzionario e il movimento operaio, e non ne hanno la possibilità… Gli intellettuali sviluppano la lotta politica con le loro proprie forze, ricorrendo naturalmente al terrorismo… L’attività politica, ha una propria logica indipendente dalla coscienza di coloro che, con le migliori intenzioni del mondo, fanno appello al terrorismo oppure domandano che si dia alla stessa lotta economica un carattere politico. L’inferno è lastricato di buone intenzioni20.

Analogo il comportamento dei terroristi russi del 1900 e in generale il comportamento dei trotskysti. Da anni, in effetti, i gruppi trotskysti, nell’incapacità di elaborare una strategia rivoluzionaria indipendente, vivono ai margini dei partiti della sinistra ufficiale, elaborando, via via, nuove tecniche parassitarie, dall’entrismo nel PCI, negli ultimi tempi un po’ fuori moda, al più recente entrismo nel PSIUP. In pratica non si contesta ai partiti opportunisti la direzione della lotta, e si finisce con accettarne la strategia globale; ci si limita a cercare di sfruttare i mezzi di cui questi dispongono per portare avanti, di volta in volta, gli slogan più di moda nella sinistra “à la page”. Del resto. Il costume 20

Lenin, Che fare?, Opere scelte, Editori Riuniti.

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“terroristico” dei trotskysti è facilmente verificabile: cosa è infatti, se non terrorismo, l’intervento che essi praticano alle manifestazioni promosse dal PCI? Essi vi s’inseriscono senza nessun lavoro preparatorio serio, senza nessun rapporto reale con le masse, dando soltanto fondo a un ricco repertorio di urla, che rivelano un inguaribile velleitarismo pseudo-rivoluzionario. Il fatto che i gruppi trotskysti s’impegnano in azioni di tipo “terroristico” è conseguenza del modesto livello delle loro analisi, che non consentono formulazioni strategiche al livello delle contraddizioni reali e della coscienza delle masse. Su questa base, essi si arrangiano come possono. Così accade che negli ultimi dieci anni, sulle bandiere della quarta internazionale sono stati scritti, di volta in volta, i nomi di Tito, Gomulka, Nasser, Castro, Guevara, Ho Chi Min; e, negli ultimi tempi, lo stesso Mao comincia a riscuotere un certo successo nei loro ambienti. Onde riuscire a giustificare questi accostamenti, che oggi sembrano paradossali, si possono tenere presenti molte eloquenti testimonianze, ricavabili dalle enunciazioni politiche di Livio Maitan. Ad esempio, nella prefazione alla Rivoluzione tradita (edita da Schwartz nel 1956), si legge: C’è appena bisogno di ricordare che la gestione operaia ha continuato e continua a essere assente dalle fabbriche sovietiche; e quando tale gestione comincia a essere introdotta, sia pure in forme limitate, in Jugoslavia, la polemica dei “teorici” sovietici si è scatenata furibonda, per il timore evidente dei burocrati che l’esempio possa riuscire contagioso.

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Nel numero di «Bandiera rossa» del dicembre 1965, si può poi leggere il resoconto dell’intervento di Maitan al congresso mondiale della quarta internazionale: (Maitan) ha quindi formulato una sua ipotesi sulla struttura attuale dell’Egitto e sulla possibilità, a suo avviso oggettivamente esistente, di una trasformazione dell’Egitto in Stato operaio, sulla base di uno sviluppo conseguente dei processi già delineatisi, soprattutto dal 1960…

Il Pantheon dei trotskysti ha bisogno di rinnovare continuamente i suoi ideali. I motivi di fondo della carenza di linea politica che i gruppi della quarta internazionale dimostrano sono da ricercarsi essenzialmente nello spirito “conciliatore”, di gusto socialdemocratico, da cui sono animati nei rapporti con la sinistra tradizionale. Sul loro atteggiamento pesa certamente l’esistenza dei notevoli interessi pratici che li legano ai partiti ufficiali, alla loro stampa e ai loro editori; ma, soprattutto, esso è il riflesso di una debolezza teorica di fondo, che impedisce di affrontare coerentemente le difficoltà connesse a una scelta rivoluzionaria. I trotskysti introducono così nel mondo della sinistra un atteggiamento di superficialità e d’incoerenza, che serve a renderli estremamente popolari nella media borghesia alla ricerca di “emozionanti” esperienze rivoluzionarie. Strettamente connessa a questo loro atteggiamento di matrice socialdemocratica è la loro valutazione dell’Unione Sovietica, fondata sul misconoscimento della natura insanabile delle contraddizioni in essa esistenti. Dalla convinzione che le contraddizioni esistenti nell’Unione Sovietica

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siano di “seconda classe” si fa poi seguire che ad essa va rimproverato soltanto di essere troppo debole nei confronti dei comuni “nemici di classe”: Va considerato, altresì, che nelle fasi più recenti gli aiuti militari della stessa URSS sono sensibilmente aumentati. Nel Vietnam sussiste il maggiore epicentro delle contraddizioni del mondo attuale e si scontrano duramente le forze dell’imperialismo e le forze della rivoluzione… E nella stessa solidarietà col Vietnam contro il nemico di classe è possibile e necessario stabilire un fronte unico che, pur senza ignorare le contrapposizioni e le divergenze esistenti, miri a realizzare la convergenza di tutte le forze legate, in ultima analisi, da uno stesso interesse di classe” (sic!)21.

Essi svolgono, in sostanza, il ruolo di copertura a sinistra dei partiti della sinistra ufficiale. Ciò è molto evidente, e diviene addirittura macroscopico se si guarda alle iniziative dei circoli “Che Guevara”, i cui militanti trotskysti sono all’interno o all’esterno del PCI a seconda della situazione locale. Laddove si sono radicalizzati e cominciano ad avere consistenza gruppi che si pongono in alternativa all’ufficialità, intere sezioni del PCI d’ispirazione trotskysta escono dal partito e servono a creare poli di riferimento “esterni”, che siano un elemento di confusione adeguata alla nuova situazione.

21

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Editoriale di «Bandiera rossa» del 15 gennaio 1968.

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La situazione dei paesi capitalistici avanzati La circostanza, ora verificata, che larga parte della dissidenza di sinistra finisce spesso con il porsi sullo stesso piano politico della sinistra ufficiale e con l’accettarne oggettivamente la direzione, rafforza il punto di vista, perfettamente naturale nell’ambito di una genuina impostazione marxista, che le posizioni della sinistra ufficiale non dipendono tanto da errori o tradimenti soggettivi, quanto dal suo collegamento con forze reali e interessi pratici esistenti nel mondo di oggi. Esiste uno stretto collegamento tra i partiti dell’ufficialità di sinistra e i gruppi privilegiati che sono al potere in Unione Sovietica e nei paesi dell’Est europeo; ed esiste una precisa convergenza di obiettivi, almeno a breve termine, tra questi ultimi e le forze legate all’ala più illuminata del capitale finanziario e al capitale monopolistico di stato dei paesi occidentali. Ogni gruppo che voglia realmente contribuire al processo di costruzione di un partito rivoluzionario, non può sottrarsi al compito di analizzare ulteriormente le forze reali presenti nel mondo d’oggi, soprattutto nei paesi avanzati. Si possono così ricostruire pienamente, muovendo dal recupero della tradizione rivoluzionaria del proletariato, e anzitutto del leninismo, la basi scientifiche, e non utopistiche o “ideologiche”, per le lotte rivoluzionarie. Individuare gli avversari, riconoscere gli alleati, capire le contraddizioni reali: questo resta sempre il punto di partenza, la premessa per la costruzione di un partito rivoluzionario. Nel seguito, accenneremo sommariamente ad alcuni aspetti delle moderne società “industriali”.

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Analizzare pienamente questi aspetti, e comprenderne l’interna dinamica, è certamente importante per l’arricchimento della teoria rivoluzionaria al livello del problemi di oggi. Senza tutto ciò, il riferimento alla tradizione rivoluzionaria di Marx e di Lenin può finire con l’assumere un significato puramente formale e scolastico, e così non basterebbe a offrire una base per le lotte rivoluzionarie. Importanti trasformazioni sono in effetti avvenute nei paesi avanzati, nei caratteri del modo di produzione, in seguito agli straordinari sviluppi dell’apparato produttivo dovuti all’espansione della grande industria, ai progressi della scienza e della tecnica. Si assiste in tutto il mondo a una crescente concentrazione finanziaria e industriale. Le connessioni fra le varie industrie diventano sempre più strette e si raggiungono così le basi minime per i colossali investimenti necessari alle nuove industrie, rese possibili dai risultati della ricerca applicata. Le grandi concentrazioni industriali diventano però rapidamente insufficienti a dirigere le iniziative produttive rese possibili dalla loro stessa esistenza. Negli Stati Uniti nessuno dei grandi colossi dell’industria aeronautica è stato in grado di affrontare il programma per la costruzione di un missile interplanetario e si è dovuto ricorrere all’intervento decisivo dello stato, che ha patrocinato l’alleanza di questi colossi in un unico consorzio. Gli stessi sviluppi della scienza, che tendono ormai a diventare una forza produttiva importantissima, non possono più essere controllati da nessun gruppo privato isolato e richiedono sempre più l’intervento dello stato.

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Questi sviluppi introducono nuovi elementi di turbamento per le vecchie forme politiche e sociali, tipiche delle società fondate sulla proprietà privata dei mezzi di produzione, che sono da tempo in crisi. Per superare le difficoltà, si cerca, oggi, di introdurre tutta quanta la pianificazione centrale compatibile con l’esistenza della divisione in classi. Sospinti dalle esigenze di sviluppo delle forze produttive, gruppi privilegiati dei paesi capitalistici avanzati cercano nuove soluzioni, in grado di assicurare la loro posizione di privilegio, e quindi l’esistenza dello sfruttamento. L’esistenza di forti spinte verso una nuova strutturazione della società, nel periodo dello sviluppo della grande industria, era sottolineata già da Federico Engels, nell’Antidühring: … in un modo o nell’altro, con “trusts” o senza “trusts”, una cosa è certa: che il rappresentante ufficiale della società capitalistica, lo Stato, deve alla fine assumerne la direzione… Se le crisi hanno rivelato l’incapacità della borghesia a dirigere ulteriormente le moderne forze produttive, la trasformazione dei grandi organismi di produzione e di traffico in società anonime a proprietà statale mostra che la borghesia non è indispensabile per il raggiungimento di questo fine. Tutte le funzioni sociali del capitalista sono oggi compiute da impiegati salariati… Ma né la trasformazione in società anonime, né la trasformazione in proprietà statale, sopprime il carattere di capitale delle forze produttive. Nelle società anonime questo carattere è evidente. E a sua volta lo stato moderno è l’organizzatore che la società capitalistica si dà per mantenere il modo di produzione capitalistico di fronte agli attacchi sia degli operai, sia dei singoli capitalisti.

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Lo stato moderno, qualunque ne sia la forma, è una macchina essenzialmente capitalistica, è uno stato dei capitalisti, il capitalista collettivo ideale. Quanto più si appropria delle forze produttive, tanto più diventa un capitalista collettivo, tanto maggiore è il numero di cittadini che esso sfrutta. Gli operai rimangono dei salariati, dei proletari. Il rapporto capitalistico non viene soppresso, viene invece spinto al suo apice22.

Tutto questo processo, che secondo Engels rappresenta l’ultima fase di esistenza della società divisa in classi prima della rivoluzione socialista, è così sintetizzato: … Parziale riconoscimento del carattere sociale delle forze produttive, riconoscimento a cui è obbligato lo stesso capitalista. Appropriazione dei grandi organismi di produzione e di traffico, prima da parte di società anonime, più tardi da parte di trusts e in ultimo da parte dello stato. La borghesia dimostra di essere una classe superflua, tutte le sue funzioni sociali vengono ora compiute da impiegati stipendiati23.

Questo processo di adeguamento delle strutture politiche e sociali richiede, per compiersi, notevoli sconvolgimenti. Tuttavia le forze legate al capitalismo monopolistico di stato non riescono, da sole, a imporre il loro programma per le resistenze delle forze legate alle più arcaiche forme di produzione. Le incrostazioni del passato, il peso dei compromessi che quasi ovunque 22 23

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Engels, Antidühring. Engels, op. cit.

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i gruppi capitalistici hanno dovuto stipulare con le forze più arretrate per conquistare e conservare il potere politico, sono spesso troppo difficili da eliminare, per forze che devono escludere programmaticamente la rivoluzione politica. In questa situazione, operano però oggi nuove forze, in qualche misura esterne al quadro interno al capitalismo dei paesi avanzati: le forze messe in moto dalla Rivoluzione d’Ottobre e dalle sue conseguenze. La rivoluzione del proletariato russo, dapprima vittoriosa, fu costretta, per la sconfitta della rivoluzione negli altri paesi europei e per il basso livello di sviluppo delle basi materiali della società russa, a una battuta d’arresto prima e a una rovinosa ritirata poi. L’ala moderata dello schieramento rivoluzionario – ispirata da gruppi provenienti dalle aristocrazie operaie e dalla piccola borghesia – riuscì a impadronirsi del potere e a realizzare un assetto economico, politico e sociale ben distinto dal socialismo, che consentiva una piena concentrazione e unificazione della produzione. Questo assetto sociale ha pressoché abolito la proprietà privata dei mezzi di produzione e la conseguente anarchia, e ha colpito a morte i gruppi sociali collegati con questo istituto. Sulla base della proprietà statale dei mezzi di produzione, esso è in grado di padroneggiare meglio degli assetti capitalistici tradizionali lo sviluppo delle forze produttive. Naturalmente, il livello delle forze produttive in Unione Sovietica non è oggi più elevato di quello dei paesi capitalistici avanzati; ma le sue istituzioni politiche e sociali consentono, in prospettiva, uno straordinario allargamento delle basi materiali della società, come è documentato dal

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ritmo di sviluppo dell’Unione Sovietica negli ultimi cinquanta anni, di gran lunga maggiore di quello degli altri paesi. Tutto ciò non vale però a eliminare lo sfruttamento e l’oppressione che sono anzi spinti ai livelli più progrediti. Leggiamo la testimonianza di J. Kuron e K. Modzelewski sulla Polonia “socialista”: Secondo la dottrina ufficiale viviamo in un paese socialista. Questa tesi si basa sull’identificazione tra proprietà statale dei mezzi di produzione e proprietà sociale dei mezzi di produzione stessa. L’atto della nazionalizzazione avrebbe assicurato l’industria, i trasporti e le banche alla completa proprietà della società e i rapporti basati sulla proprietà sociale sarebbero socialisti per definizione. Questo ragionamento può sembrare marxista. In realtà, si è introdotto nella teoria marxista un elemento che le è fondamentalmente estraneo, cioè la concezione formalistica e giuridica della proprietà. La nozione di proprietà statale può nascondere contenuti diversi a seconda della natura di classe dello stato… La proprietà statale dei mezzi di produzione non è che una forma della proprietà. Appartiene ai gruppi sociali cui appartiene lo stato. In un sistema di economia nazionalizzata ha un’influenza sulle decisioni economiche complessive (e, quindi, sul modo di disporre dei mezzi di produzione e sulla ripartizione e sull’impiego dei prodotti sociali) solo chi partecipa alle decisioni dei pubblici poteri o può influenzarle. Il potere politico è legato al potere esercitato sul processo di produzione e di distribuzione24.

J. Kuron-K. Modzelewski, Il marxismo polacco all’opposizione, Samonà e Savelli, 1967. 24

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L’assetto sociale dell’Unione Sovietica e dei paesi dell’Est europeo conserva, dunque, lo sfruttamento e l’oppressione. Ricordiamo Engels: «… Quanto più si appropria delle forze produttive, … tanto maggiore è il numero di cittadini che esso sfrutta. Gli operai rimangono dei salariati, dei proletari». Il rapporto di sfruttamento, dice ancora Engels: «non viene soppresso, viene invece spinto al suo apice». Anche questo assetto, dunque, è minato da profonde contraddizioni: esso contiene ancora in sé le forze che dovranno condurlo alla morte. Nei paesi capitalistici avanzati, è intanto in atto un complesso processo di “rinnovamento”, sospinto dai gruppi capitalistici più moderni, e in primo luogo da quelli del capitalismo monopolistico di stato, con l’appoggio delle forze della sinistra ufficiale, legate ai gruppi privilegiati che sono al potere in Unione Sovietica. Tutte queste forze sono unite, da un lato nell’obiettivo di distruggere le forze più retrive, dall’altro allo scopo di imporre un completo dominio sulla società civile. Servono allo scopo l’introduzione di una pianificazione di lungo periodo, mossa degli interessi economici e politici dei gruppi dominanti, la compressione dei centri decisionali indipendenti nei vari paesi e l’integrazione dei sindacati e dei partiti. Torna ancora una volta utile riferire il parere dell’onorevole Giolitti: I problemi di direzione politica nella società industrializzata non possono più essere affrontati con i metodi tradizionali del regime parlamentare, se non a prezzo di

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una crescente e ineluttabile soggezione del potere politico pubblico al potere economico privato25.

Giolitti chiama a suo soccorso l’opinione di Maurice Duverger: La preminenza del legislatore è tipica delle società ancora debolmente integrate, nelle quali i principali servizi collettivi sono espletati da imprese private e in cui il ruolo essenziale del potere è quello di arginare i conflitti tra gli individui e tra i gruppi, di favorire l’elaborazione di compromessi che vi pongano fine, di regolare con norme generali tali compromessi, e di gestire dei servizi comuni di natura amministrativa (polizia, esercito, fisco). In una società pianificata in cui lo stato coordini il complesso delle attività sociali, questa funzione organizzativa non può essere adempiuta dagli organi legislativi, ma soltanto dal governo che diviene così il centro di propulsione e di decisione politica. L’indebolimento dei parlamenti e l’accresciuta importanza dell’esecutivo, tratti connessi all’evoluzione odierna di tutte le democrazie, sono le conseguenze politiche della trasformazione delle strutture socio-economiche, trasformazione causata a sua volta dal progresso tecnico.

Si può ben capire la simpatia con cui i gruppi capitalistici più progrediti guardano alle istituzioni dell’Unione Sovietica, dove è vero che i capitalisti isolati sono quasi spariti, ma in compenso le centrali statali organizzano strettamente la classe operaia e controllano rigorosamente l’economia. Questi gruppi tendono quindi a ottenere l’alleanza delle organizzazioni della 25

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A. Giolitti, Un socialismo possibile.

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sinistra ufficiale e dei sindacati, e si proclamano sostenitori del “socialismo moderno”. Il legame di questo socialismo con gli interessi del capitale finanziario e del capitale monopolistico di stato è chiarito dalla seguente affermazione di Servan Schreiber, direttore dell’«Express», che, in un articolo dal titolo significativo, “Justice comme moyen”, scrive del socialismo moderno: Non si fonda più sui criteri innanzitutto morali (sic!), ma su considerazioni economiche. La giustizia sociale è in primo luogo il mezzo più efficace per far funzionare la macchina produttiva… La sinistra evangelica, missionaria di un universo di eguaglianza e fraternità assoluta, non ha che un avvenire di setta. La sinistra di governo (sic!), che per fare progredire il proprio ideale si applica a dimostrare la sua capacità di produrre più e meglio della destra, ha una grande carriera davanti a sé.

Su queste basi, il collegamento tra le forze della sinistra ufficiale e dell’Unione Sovietica, e le forze più “progredite” del capitalismo, assume nettamente un carattere internazionale. Tale carattere si manifesta attraverso gli accordi economici che collegano l’Unione Sovietica e i grandi paesi imperialistici, e attraverso il tentativo di costruire accordi di dimensione mondiale, i gruppi dirigenti sovietici e americani, dopo lunghi anni di “guerra fredda”, hanno lanciato la linea di coesistenza pacifica con questo scopo; essi erano interessati a una prospettiva di pianificazione delle forze produttive sul piano mondiale, che li ponesse in una posizione di preminenza e non li esponesse al rischio di una diminuzione di

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potere, per sommovimenti e turbamenti dello status quo, nei paesi capitalistici avanzati e nel terzo mondo. Nella linea della coesistenza pacifica si realizza l’alleanza tra le potenze imperialiste, a tutt’oggi caratterizzate da un alto sviluppo delle forze produttive, e l’Unione Sovietica caratterizzata da posizioni politicoeconomiche più stabili. Tale linea segna la trasposizione al livello mondiale dell’alleanza tra i gruppi del capitalismo monopolistico di stato e la sinistra ufficiale: e, non a caso, ha suscitato l’entusiasmo delle forze che nei vari paesi portano avanti la bandiera del “rinnovamento” del capitalismo. La ripresa dei raggruppamenti rivoluzionari L’esame delle posizioni dominanti nei paesi capitalistici avanzati, e nell’area sovietica del mondo “socialista”, conferma che le “debolezze” governative e collaborazioniste dei gruppi politici di sinistra sono espressione di forze profonde e di interessi reali. Il processo di formazione di nuovi raggruppamenti rivoluzionari nei paesi avanzati, che possano contrastare il loro disegno politico, è appena agli inizi. Tuttavia, esso è spinto avanti, man mano che larghe masse compiono nuove esperienze del ruolo di copertura che l’ufficialità di sinistra si assume sempre più apertamente. La formazione di una rinnovata coscienza dell’ineliminabilità delle contraddizioni tra il movimento operaio e i gruppi riformisti resta una condizione preliminare per questi sviluppi. In effetti, la persistenza di incrinature nell’apparato di dominio sollecita spesso

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azioni positive, attorno a cui riescono a cristallizzarsi piccoli gruppi politici. Tuttavia, il processo di maturazione dei gruppi che si formano dietro la spinta immediata di lotte di massa va avanti lentamente, in mancanza di solidi centri di orientamento teorico e politico. Nell’ambiente culturale della sinistra italiana e della stessa dissidenza, le formulazioni nella linea della tradizione leninista sono un po’ fuori moda; i successi dei vari Giolitti, Amendola, Libertini hanno prodotto un grave corrompimento teorico. In questa situazione, è di grande importanza che si vada determinando una ripresa di studi e d’interessi per il pensiero di Lenin, tale che ponga via i pregiudizi diffusi dalle interpretazioni di comodo (se ne legga un esempio nelle precedenti citazioni dalle tesi di Libertini). Accanto ai gruppi tradizionali, sollecitano oggi questa ripresa i comunisti cinesi con le loro polemiche teoriche e la loro iniziativa politica a livello internazionale. Le formulazioni della rivoluzione culturale cinese, in particolare, cercano di inserirsi nell’ambito della tradizione leninista e di arricchirla anzi al livello delle più recenti esperienze, anzitutto dell’esperienza sovietica, che ha segnato insieme una grave battuta di arresto per il movimento operaio e la riaffermazione dello sfruttamento. Si può valutare l’importanza della rivoluzione culturale cinese quando si tenga presente che, anche all’interno della Repubblica popolare cinese, esistono forze contrastanti, ma qui i gruppi più avanzati sono riusciti, almeno finora, a sconfiggere le influenze più moderate, che potevano condurre a una ripetizione dell’esperienza sovietica. Questa circostanza è stata

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indubbiamente facilitata dall’ampiezza della partecipazione popolare alla lotta contro il Kuomintang e, in seguito, dall’ampia partecipazione al processo di costruzione della Repubblica popolare cinese. Dietro le parole d’ordine della rivoluzione culturale proletaria ci sono masse grandi masse, che hanno combattuto i gruppi privilegiati a tutti i livelli della società civile, nel tentativo di estirpare le radici di quelle forze, che, nell’URSS, esercitano oggi lo sfruttamento. La distruzione del gruppo di Liu-schao-chi, “quartier generale delle forze che hanno imboccato la via del capitalismo” in Cina, non è stata perseguita attraverso destituzioni dall’alto e misure amministrative, ma attraverso la mobilitazione delle masse contro gruppi privilegiati nel partito, nello stato e nell’economia, e la rigenerazione dal basso degli istituti rivoluzionari. Si legge nella “risoluzione del comitato centrale del partito comunista cinese” dell’8 agosto 1966: Il principale bersaglio dell’attuale movimento è costituito da coloro che nel partito sono provvisti di autorità e stanno imboccando la strada del capitalismo. Il risultato di questa grande rivoluzione culturale sarà determinato dalla capacità o meno della direzione del partito di risvegliare coraggiosamente le masse… Nella grande rivoluzione culturale sono cominciati a emergere molti elementi nuovi; i gruppi, i comitati della rivoluzione culturale e le altre forme di organizzazione create dalle masse, in molte scuole e complessi, rappresentano qualcosa di nuovo che riveste grande importanza storica. Questi gruppi, comitati e congressi rivoluzionari sono eccellenti forme nuove di organizzazione, che consentono alle masse di autoeducarsi, sotto la direzione del partito

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comunista. Costituiscono un ottimo ponte di contatto tra il nostro partito e le masse, sono organi di potere della rivoluzione culturale proletaria. La lotta del proletariato contro le vecchie idee, la vecchia cultura, le vecchie abitudini, eredità di tutte le classi sfruttatrici che hanno dominato per migliaia di anni, prenderà necessariamente molto tempo. Perciò i gruppi, i comitati e i congressi della rivoluzione culturale non dovranno essere organizzazioni di massa temporanee, ma permanenti… Dato che la rivoluzione culturale è una rivoluzione, è inevitabile che incontri resistenza soprattutto da parte di coloro che, provvisti di autorità, si sono fatta strada insidiosamente nel partito e stanno imboccando la via del capitalismo. La resistenza viene anche dalla forza delle vecchie abitudini esistenti nella società.

Questa risoluzione serve molto bene a caratterizzare gli obiettivi della rivoluzione culturale proletaria. Essa riconosce implicitamente che i problemi della gestione e del controllo del potere hanno oggi una grande importanza, nelle condizioni concrete della fase post-rivoluzionaria in Cina. Le soluzioni proposte sono nella linea della tradizione leninista: il partito stimola le masse all’azione, ed esercita nei loro confronti una funzione di direzione; parallelamente, si formano consigli operai e altre associazioni di massa con lo scopo di introdurre un reale controllo operaio e popolare; a tutti i livelli questi organismi cercano di stabilire un “ponte”, tra le masse e il partito stesso, che diviene infine strumento centrale delle decisioni popolari. L’importanza storica delle indicazioni della rivoluzione culturale cinese deriva dal fatto che essa è una prima azione di massa contro l’organizzazione della

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società e del potere che è riuscita a prevalere nell’Unione Sovietica e nei paesi dell’Est europeo. Naturalmente, non si può negare che l’espansione di questo movimento di massa è fortemente ostacolato, da un lato dall’esistenza di un implacabile accerchiamento internazionale – opera dei paesi imperialistici e dell’Unione Sovietica – attorno alla Repubblica popolare cinese; dall’altro, dalla stessa situazione cinese, che presenta i caratteri tipici di una società contadina in via di sviluppo. Il basso livello delle forze produttive e delle relazioni materiali fra gli uomini pone rilevanti problemi, in connessione con la necessità dell’accumulazione primitiva; e si deve temere che, nel corso dello sviluppo sociale ed economico della Cina, possano riproporsi e prevalere soluzioni dello stesso tipo di quelle dell’Unione Sovietica, con i loro limiti profondi. Su questa base, tenendo presenti le enormi difficoltà dei comunisti cinesi, si devono valutare alcune delle più estreme e deboli loro formulazioni, da quelle che sembrano proporre una soluzione ai problemi della costruzione del socialismo in Cina sulla base della sola lotta “contro i residui ideologici del passato”; a quelle che sembrano ignorare che la vittoria del socialismo richiede che le forze nemiche siano battute nel cuore dell’apparato mondiale di sfruttamento, nelle “metropoli” del mondo, e ad opera, anzitutto, delle forze che agiscono al loro interno. L’influenza che può avere la rivoluzione culturale nei paesi dell’Europa occidentale è molto grande. Per la prima volta, dopo molti anni, sono riproposte, al livello di massa, le tesi leniniste: e nello stesso momento la Repubblica popolare cinese, sul piano internazionale,

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si presenta come elemento di rottura, dell’equilibrio coesistenziale tra Stati Uniti e Unione Sovietica. In effetti, le sollecitazioni della rivoluzione culturale proletaria cinese come quelle che nel primo dopoguerra venivano dalle iniziative di Lenin, non sempre sono profondamente recepite negli ambienti di sinistra. Richiamati dall’esistenza del nuovo centro di riferimento esterno al livello internazionale, si formano numerosi gruppi di vocazione “estremista”, espressioni del ribellismo endemico della piccola borghesia, del sottoproletariato, e dei gruppi sociali che, tagliati fuori dal progresso delle forze produttive, sognano, con le mani in mano, il riscatto dallo stato di frustrazione. Questo fenomeno è un segno accessorio dell’incapacità, propria di questi gruppi sleali, di porsi come forze antagoniste rispetto alla società, nel suo sviluppo: ai margini delle contraddizioni fondamentali del sistema capitalistico moderno, essi sono spesso i detriti di vecchie forme economico-sociali. Il fatto è che lo stesso richiamo al leninismo può finire con l’assumere un significato puramente formale, in mancanza di una analisi adeguata delle contraddizioni proprie del mondo moderno, a livello dei paesi avanzati. È necessario perciò il recupero pieno della tradizione teorica e politica del proletariato, devastata degli ultimi decenni, e la comprensione delle “novità”, che discendono dalla comparsa della pianificazione introdotta sull’onda delle esperienze sovietiche. Abbiamo già riconosciuto che lo sfruttamento e la lotta di classe sono tuttora vivissimi, e che le contraddizioni fra i ristretti gruppi dei detentori dei mezzi di produzione e del potere politico e le masse popolari, in primo luogo il proletariato, sono molto acute. Un

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pilastro fondamentale nel sistema di sfruttamento è costituito dai gruppi dominanti nell’Unione Sovietica e nei paesi dell’est europeo e dal sistema di cui sono espressione, caratterizzato da un elevato grado di centralizzazione e dall’introduzione della pianificazione economica. Nei paesi occidentali i gruppi legati all’ala più dinamica del capitalismo, al capitale finanziario e alle centrali statali, tentano di padroneggiare lo sviluppo impetuoso delle forze produttive e le conseguenti contraddizioni, orientandosi sempre di più verso il capitalismo di stato; in questo sforzo essi trovano la naturale alleanza delle forze della sinistra ufficiale, legate con i gruppi dominanti nell’Unione Sovietica. Si apre così una contraddizione fra il proletariato e le sue organizzazioni ufficiali. Partiti della sinistra ufficiale e sindacati diventano, da un lato i principali stimoli per la modernizzazione del sistema capitalistico, dall’altro i garanti della non pericolosità delle opposizioni. Il sistema dominante diviene sempre più centralizzato, i vari centri della società civile si trovano sempre più dipendenti dall’organizzazione politica centrale della società. Perciò le conclusioni di Lenin – che è indispensabile, per le forze rivoluzionarie, costituire un centro di reale contropotere a livello della società politica: il partito rivoluzionario – escono potentemente rafforzate dall’esperienza dei “nuovi” sviluppi della società moderna, piuttosto che confutate, come vorrebbe l’ala “spontaneista” del movimento operaio. Ai nostri giorni, i gruppi rivoluzionari, le avanguardie, che si formano all’interno delle società moderne, hanno due strade aperte. La prima strada passa attraverso l’impegno attivistico nelle varie lotte par-

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ticolari, la sottomissione alla spontaneità nelle lotte settoriali contro i gruppi più retrivi, nell’interesse dei “rinnovatori”: essa, quali che siano le intenzioni dei suoi propagandisti, conduce all’arruolamento nelle file dell’esercito dei gruppi “rinnovatori”, in lotta per l’introduzione di forme più “progredite” di sfruttamento. La seconda strada invece è quella che porta alla costruzione di una forza rivoluzionaria del proletariato, rinnovata e indipendente: su questa strada, le varie lotte particolari diventano, oggi, l’occasione per una scuola politica in cui, da un lato, le avanguardie apprendono dalle vive esperienze e sperimentano le proprio capacità di direzione politica, e dall’altro, le masse maturano la propria coscienza e acquistano una più precisa consapevolezza della reale natura della oppressione e dello sfruttamento subiti. La formazione di avanguardie politiche di tipo embrionale, di centri di riferimento permanenti, potrà favorire l’innalzamento del livello dell’attività spontanea delle masse, ponendole in condizione di combattere con efficacia l’influenza dell’ideologia borghese e dei discorsi truffaldini “moderni”. Ma sono anzitutto necessari lo sviluppo e l’approfondimento dell’analisi delle contraddizioni del sistema mondiale di sfruttamento, l’inizio della formazione di una più ampia coscienza di massa: di qui si deve muovere per la costruzione di un nuovo partito rivoluzionario. Il processo di formazione di un partito realmente rivoluzionario inizia soltanto su queste premesse. È vero che “senza partito rivoluzionario, niente rivoluzione”, ma è vero altresì che “senza teoria rivoluzionaria, niente partito rivoluzionario”.

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Valore politico del Movimento Studentesco Negli ultimi anni si sono sviluppate lotte universitarie particolarmente ampie, in diverse città statunitensi, tedesche, giapponesi, italiane. Un comune denominatore di queste lotte è la reazione degli studenti alla nuova organizzazione che le Università vanno assumendo, coerentemente con le nuove esigenze di formazione di larghi strati di lavoratori intellettuali. Il tipo di rivendicazioni che comunemente viene avanzato consiste nella richiesta del controllo e della gestione della struttura universitaria. Vedremo come questo tipo di proposta politica può essere adoperato come momento di maturazione verso un discorso politico più ampio e corretto, o come elemento di mistificazione in funzione di una lotta che si rinchiuda all’interno dell’Università. Questo articolo, basandosi sull’analisi precedentemente svolta dei mutamenti delle forze produttive e del ruolo degli intellettuali26, e analizzando la struttura universitaria e la figura sociale dello studente, intende proporre una prima soluzione della natura e del significato del movimento studentesco, alla luce del compito politico attuale: il problema della costruzione di un partito politico rivoluzionario. L’articolo procederà attraverso un confronto polemico con le risposte che agli analoghi problemi danno quei gruppi politici che si rifanno alle tesi della sindacalizzazione; nel confronto vengono adoperate, relativamente alla Questa analisi viene riportata nell’ultima parte dei presente numero unico, sotto il titolo: “Gli intellettuali nell’attività produttiva. Proposte politiche”. 26

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sindacalizzazione, le cosiddette tesi di Pisa, in quanto le più organiche e le più diffuse («Nuovo Impegno», n. 8; «Lavoro Politico», n. 2) e le tesi di “Potere Studentesco” («Quindici», n. 7). Forze economiche-politiche e gruppi accademici Nel nostro paese le contraddizioni tra gruppi del grande capitale e gruppi paleocapitalistici si sono sviluppate relativamente tardi, e hanno ricevuto una forte spinta negli ultimi quindici anni, soprattutto nel periodo del cosiddetto “miracolo economico”, che rafforzò enormemente le grandi corporazioni private e le grandi holdings di stato. Questa espansione, tuttavia, non ha condotto né al superamento delle debolezze originarie del capitale finanziario italiano, né a una rafforzata stabilità delle basi di potere dei gruppi privilegiati. In questa situazione, le forze rinnovatrici non possono permettersi di combattere oltre certi limiti i gruppi più retrivi, che restano, sia pure in condizione di subordinazione, dei partners ineliminabili. Questa circostanza è all’origine della debolezza dell’azione politica dei gruppi rinnovatori italiani, negli ultimi anni. Non è quindi per caso che i gruppi politici del centro-sinistra si devono adattare a lasciare largo spazio alle forze più retrive, in ogni settore della società civile, ogni volta che pongono mano a una riforma. La particolare ristrettezza del contenuto “rinnovatore” del centro-sinistra si è manifestato, con grande evidenza, nell’ambito della politica scolastica, e in particolare nell’ambito della politica universitaria. Negli

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interventi legislativi (vedi Piano Gui-Codignola) si ritrovano larghissime concessioni ai gruppi più retrivi, che ne limitano profondamente gli stessi contenuti “rinnovatori”. È indubbio che l’istituzione dei tre livelli di laurea corrisponde alle esigenze del grande capitale; ma in altri settori il progetto di riforma lascia largo spazio ai gruppi più retrivi, non contenendo né una regolamentazione del rapporto di lavoro universitario su basi di pieno impiego, né un’effettiva contestazione della baronia delle cattedre. Anche all’interno dell’Università esistono raggruppamenti di forze accademiche, naturalmente in connessione con i più ampi schieramenti sociali ed economici di cui prima parlavamo. L’Università non è, comunque, un organismo essenzialmente economico, ma si caratterizza piuttosto come una grande istituzione della società pratica umana. I gruppi che operano all’interno dell’Università non si qualificano quindi principalmente per i loro interessi economici, ma piuttosto per i collegamenti che stabiliscono con le classi economiche e per il ruolo conseguente che assumono nell’insieme della vita sociale. Non si deve perciò considerare l’Università come una piccola società chiusa, in cui i contrasti sorgono sulla base delle contraddizioni economiche interne tra i vari gruppi; bisogna invece muovere dall’esame delle posizioni che le varie classi sociali hanno nei confronti dell’Università, dell’istruzione, della tecnica, della cultura in generale, e pervenire a determinare le connessioni tra le forze accademiche e le più ampie forze sociali del paese. Con una formulazione schematica si può dire che esistono due raggruppamenti tra le forze accademiche.

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Un primo blocco di forze si raccoglie intorno ai gruppi accademici privilegiati (clinici, progettisti, manager dell’economia e della politica) che adoperano il loro potere accademico e le strutture stesse dell’Università per attività d’interesse privato, e sostengono una strutturazione dell’Università su base artigianale (nel cui ambito, ristrettezza mentale e paternalismo sono sufficienti strumenti di governo e di formazione dei giovani); costoro fanno capo alle forze che nel nostro paese ancora sostengono le forme più arretrate di sfruttamento capitalistico e gli ordinamenti più scopertamente autoritari della società paleocapitalistica. Un secondo blocco di forze, politicamente piuttosto eterogeneo, si raccoglie intorno ai gruppi di docenti più giovani e dinamici, che hanno spesso introdotto discipline d’avanguardia, e hanno organizzato istituti aperti ad attività di ricerca di tipo moderno, collegati con le grandi centrali internazionali. Essi, tuttavia, non riescono a uscire dalla cerchia relativamente angusta dei loro interessi particolari, rifuggono da un impegno più ampio, e finiscono col dedicarsi esclusivamente al miglioramento di qualche limitata branca dell’organizzazione universitaria; e in questo spirito accettano la proposta moderata della sinistra del nostro paese. I gruppi egemoni del loro schieramento si presentano come i candidati al ruolo di “rinnovatori” dell’Università e aspirano, così, a divenire gli uomini di fiducia dei gruppi più dinamici delle classi dominanti, che sostengono le forme più moderne e progredite dello sfruttamento capitalistico e gli ordinamenti più “democratici” della società politica. Questi gruppi “rinnovatori”, quindi, nel sostenere una strutturazio-

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ne dell’Università su basi di grande industria (in cui la compressione politica e la mitologia dell’efficienza e della tecnica sono gli strumenti più opportuni di governo e di formazione) difendono gli interessi dei gruppi privilegiati più moderni, connessi alle grandi corporazioni private “progressiste” e alle nascenti burocrazie degli enti di stato. Figura sociale dello studente Rimane da analizzare la componente più importante, ai nostri fini, del mondo universitario, cioè quella studentesca. Vari gruppi di opportunisti moderni, tendono a definire lo studente come produttore di plusvalore e come esecutore di un “lavoro” parcellizzato-subordinato; e possono giungere ad affermare che anche lo studente è figura interna alla classe operaia27: La definizione dello studente come figura interna alla classe operaia risulta pertanto confermata nei suoi temi politici di fondo. All’obiezione che lo studente non è un salariato, e pertanto non produce plusvalore, vanno opposti due ordini di argomentazioni: (a) … sul piano di un modello formale di processo di valorizzazione, lo studente appare come produttore di valore (si qualifica e pertanto si autovalorizza) e come consumatore di valore, distinto a sua volta in valore sociale (i servizi che gli fornisce lo stato) e valore-salario privato (il mantenimento da parte della famiglia). In questo Questo passo e i seguenti sono tratti dalle cosiddette tesi di Pisa: «Nuovo Impegno», n. 8; «Lavoro Politico», n. 2. 27

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senso lo studente appare come una figura sociale impura ai margini del processo di valorizzazione. Nella misura in cui s’introduce e si generalizza il salario universitario, tuttavia, lo studente assume il carattere di salariato produttore di plusvalore…; (b) … abbiamo precedentemente rilevato come non sia corretta una definizione di classe in funzione semplicemente del collocamento all’interno del processo di valorizzazione del capitale. In questo senso, la definizione dello studente come componente interna alla classe operaia risulta effettivamente motivata se riportata al problema della divisione capitalistica del lavoro e della funzione parcellizzata-subordinata che lo studente assume nella sua attività universitaria”.

In questo tipo di analisi, esiste una prima mistificazione quando lo studente viene definito come produttore di plusvalore. A questo proposito ricordiamo brevemente quanto scriveva Marx nelle Teorie del plusvalore, allo scopo di chiarire i termini adoperati nel discorso: … il lavoro del primo si scambia con capitale, quello del secondo con reddito. Il primo lavoro crea un plusvalore, nel secondo si consuma reddito. Il lavoro produttivo e improduttivo viene qui esaminato sempre dal punto di vista del possessore di denaro, del capitalista, non da quello del lavoratore, e da ciò le assurdità del Ganilh e di altri, i quali comprendono tanto poco il problema, da sollevare la questione se il lavoro, o il servizio, o la funzione della prostituta, o dei lacchè, … frutti denaro. Uno scrittore è un lavoratore produttivo (produce plusvalore, n.d.r.), non in quanto produce delle idee, ma in quanto arricchisce l’editore che pubblica i suoi scritti, o in quanto è il lavoratore salariato di un capitalista.

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In questo senso, si può immediatamente affermare, in contrasto con quanto viene affermato nelle tesi dei sindacalizzatori, che lo studente non è produttore di plusvalore, in quanto il suo lavoro non si scambia con capitale e il presalario costituisce semplicemente una forma di reddito. Bisogna concludere che la condizione dello studente non presenta la caratteristica fondamentale della classe operaia, l’alienazione economica, e quindi lo studente stesso non è valutabile come figura sociale interna alla classe operaia, né, come vedremo, risulta omogenea ad alcun parametro di classe. Questo tipo di formulazione certamente cade in difetto per certi strati studenteschi (ad esempio, una gran parte dei laureandi delle facoltà scientifiche risulta effettivamente soggetta a un reale processo di sfruttamento economico nella preparazione delle tesi di laurea, dove spesso si lavora direttamente su commesse di industrie; vogliamo però notare che accanto a questa situazione di oppressione economica si accentuano condizionamenti di carattere psicologico, che rendono più disponibili alla prospettiva della soluzione individuale). Infatti, il tipo di contraddizione che vive l’universitario non va ricercato in motivi di carattere economico, ma nella sua vita universitaria e nel suo essere sociale più generale. Quest’ultimo aspetto assume rilievo importante per controbattere la tesi dei sindacalizzatori che, a questo proposito, dà una versione mistificata delle condizioni concrete di vita dello studente, limitando l’analisi al solo momento universitario, per poi poter giustificare una omogeneità di fondo nella condizione studentesca, e quindi dare fondamento all’ipotesi di classe. Gli studenti,

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invece, provengono da diverse classi e si inseriscono in diverse classi. Ciò comporta una mancanza di uniformità di prospettive nella massa degli studenti universitari, che forniscono quadri di ogni genere, molti dei quali finiscono per inserirsi organicamente nei gruppi economici privilegiati; comporta, ancora, diversi condizionamenti ideologici, diverse reazioni di fronte alle situazioni della vita universitaria. In conseguenza delle diverse condizioni di vita. Vogliamo comunque notare che, nella misura in cui il sistema economico avrà necessità di formare masse sempre più numerose di quadri intellettuali, dovrà reclutare gli studenti tra classi sociali sempre più basse; e questo comporterà una rilevanza sempre minore, da un punto di vista numerico, degli studenti provenienti da classi privilegiate, e quindi una progressiva omogeneità della condizione studentesca. Crediamo che, pur esistendo queste differenziazioni, siano avvertite da larghi strati studenteschi, in modo sufficientemente esteso e omogeneo, una serie di contraddizioni proprie della vita universitaria, relative ai contenuti e alle condizioni di studio che il sistema dominante impone. Si può incominciare a notare che i gruppi reazionari e i gruppi “rinnovatori” portano avanti nelle Università due tipi di discorsi culturali: i primi rimangono ancorati a una impostazione falsamente generale che dovrebbe tendere a dare allo studente una visione globale, beninteso all’interno di una singola disciplina (ad esempio, nelle facoltà di medicina o di giurisprudenza); i secondi, in omaggio alla mitologia dell’efficienza, spingono al massimo il processo di specializzazione, curandosi, nel migliore

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dei casi, di fornire agli studenti la conoscenza di alcune tecniche. In entrambi i casi, la formazione del laureato deve risultare funzionale a una serie di mansioni, più o meno parcellizzate, che il sistema sociale gli impone di svolgere; ma deve tenerlo in una condizione tale da impedirgli di contestare il sistema sociale stesso: questo comporta che viene bandito dall’insegnamento ogni strumento d’indagine critica, che la metodologia e i contenuti della ricerca scientifica vengono presentati come un dato neutro, la filosofia borghese come la “filosofia”, la storiografia borghese come la “storiografia”. I piani di studio non offrono un susseguirsi di esperienze teorico-pratiche, funzionali alla formazione unitaria dello studente, ma piuttosto la media pesata delle varie cattedre esistenti nella facoltà. Nel tenere lontano gli studenti da qualsiasi forma di comprensione generale della realtà sociale, ci si preoccupa inoltre di portare alla meta quelli che hanno mostrato più degli altri di subordinarsi e accettare le scelte autoritarie del corpo accademico, relative a tutti gli aspetti della vita universitaria; questa selezione viene operata attraverso il sistema dei voti, degli esami, delle borse di studio, dei presalari, eccetera. Lo studente si trova quindi a operare, fin dai primi anni dell’Università, in una situazione di oppressione in cui viene privato di ogni indipendenza. Proposta politica per il movimento studentesco La proposta politica a cui giungono i “sindacalizzatori”, in accordo con la mistificazione di classe prima

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operata, è quella di un movimento studentesco che «rivendica il controllo degli studenti sulla propria formazione; analizza e contratta la condizione studentesca, in rapporto alla situazione storica determinata in cui essa si situa, e all’uso che ne viene fatto nell’attuale fase dello sviluppo capitalistico». Costoro, mentre affermano che «il movimento studentesco ha come controparte la classe borghese, storicamente determinata», si propongono «una serie di obiettivi che, utilizzati di volta in volta, e di volta in volta superantisi, consentono la progressiva maturazione del movimento; ciascuno di tali obiettivi può essere per sua natura funzionale allo sviluppo capitalistico, e quindi venire assunto da esso; ma il proporseli e superarli è un fattore di sviluppo del movimento studentesco». E giungono infine ad affermare: «Il sindacato studentesco, analizzando e contrattando il momento di formazione della forzalavoro, entra in rapporto col sindacato operaio. La base comune di questo rapporto è l’analisi dell’uso capitalistico della forza-lavoro. Partendo da questa analisi, il sindacato studentesco rivendica di essere inquadrato nel sindacato operaio». Questa proposta politica, che venne avanzata tre anni fa al congresso dell’UGI di Napoli, e che è stata variamente riformulata nel corso di questi anni, ha rivelato la non validità dei suoi assunti teorici (studente come forza-lavoro in via di qualificazione) nell’incapacità di tradursi in lotta politica di massa. Una politica universitaria che si autolimitava alla contrattazione della condizione studentesca, partendo dalla contraddizione economica come momento mobilitante di massa, era necessariamente costretta al fallimento, in quanto igno-

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rava le contraddizioni di carattere pratico-politico, che rimangono quelle fondamentali nella vita universitaria. Quindi, in questi anni, il movimento universitario ha continuato ad avere un carattere di élite, senza nemmeno riuscire a realizzare un’opera di qualificazione politica per la sua stessa impostazione sindacale. Ma il reale significato politico della sindacalizzazione consiste nell’adesione alla strategia riformista delle centrali politiche ufficiali, per le quali il momento sindacale si riduce alla sola lotta economica e il momento politico alla lotta per le riforme delle grandi istituzioni della società civile (ad esempio dell’Università). Nelle stesse formulazioni in cui si propone uno sblocco politico al movimento studentesco («il sindacato studentesco, attraverso la propria elaborazione teorica e le esperienze di lotta del movimento, procede per generalizzazioni che lo portano a confrontarsi globalmente con la controparte. Questa maturazione lo porta a investire direttamente il tema del potere capitalistico e della costruzione di una prospettiva rivoluzionarla alternativa», si rivelano le carenze di fondo dell’impostazione politica generale: infatti, o si prevede un processo di maturazione spontanea del movimento sindacale verso un nuovo movimento politico, o si ritengono validi gli attuali centri politici di riferimento. Il clamoroso fallimento dell’ultimo rilancio della sindacalizzazione (attuato dalla sinistra di Rimini) ha ormai ridotto molti dei suoi sostenitori agli elementi di destra delle burocrazie dei partiti ufficiali. La maggior parte della stessa sinistra di Rimini ha proposto, in seguito, la parola d’ordine del “potere studentesco”, che rappresenta un ulteriore camuffamento

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di una lotta corporativa. In effetti, rispetto alle tesi di Pisa, sono state abbandonate le formulazioni del tipo: “lo studente è forza-lavoro in via di qualificazione”; ed è stato accentuato, in generale, il carattere politicoculturale delle rivendicazioni. Ma il tipo di rivendicazioni e l’impostazione politica generale sono rimaste identiche. Così, come nelle tesi di Pisa, nei documenti torinesi si dice28: «riteniamo che l’Università debba e possa fornire a chi la frequenta, al tempo stesso, una preparazione professionale adeguata e degli strumenti di critica rispetto al ruolo professionale»; ritorna quindi al centro il tema del controllo sulla propria formazione. Ma il carattere riformista di questa proposta si rivela nella chiusura del discorso all’interno dell’Università nella prospettiva di una lotta all’ultimo sangue tra studenti (anche se non più forza-lavoro) e corpo accademico, per la costruzione di una Università “democratica” in un mondo di “merda”: una lotta, in definitiva, al servizio dei “rinnovatori”. È, quindi, necessario andare al di là e trasformare non solo la struttura del piano di studi, ma la scelta degli argomenti specifici di studio al suo interno, e dei metodi di studio… Questi scopi non sono raggiungibili nell’ambito delle strutture di potere attualmente esistenti nell’Università. Questa struttura di potere va rotta su due piani: a) va rotto il monopolio detenuto dal professore di cattedra, sulla materia che istituzionalmente gli compete; Queste citazioni e le seguenti sono tratte dal numero di «Quindici» sulle agitazioni di Torino. 28

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b) la capacità di decisione degli studenti va organizzata in forma autonoma dalla struttura istituzionale dell’Università». La mancanza più assoluta di un raffronto tra sistemazione interna dell’Università e organizzazione della società esime poi completamente questi gruppi da un qualsiasi discorso politico generale e dall’esame del problema dei collegamenti con le centrali politiche esterne; e li riduce, quindi, a teorizzatori di un movimento corporativo, di una nuova forma della sindacalizzazione. Come dirigenti pratici delle agitazioni universitarie, essi si muovono nella convinzione che “la radice del problema è il potere delle autorità accademiche”, e permettono ai partiti ufficiali la strumentalizzazione delle lotte che il movimento conduce. Il movimento studentesco, per poter riuscire a sviluppare la sua linea politica in azione di massa, deve partire dalle reali condizioni dello studente universitario per la formulazione di una precisa strategia. Secondo i risultati dell’analisi precedente, le contraddizioni proprie della vita universitaria escludono la possibilità di un movimento studentesco di tipo sindacale, al cui centro siano rivendicazioni economiche, ma piuttosto indicano come direzione strategica di fondo, la costruzione di un movimento che sia fin dalla sua prima istanza politico. Una seconda indicazione, che deriva dall’analisi precedente, riguarda il carattere e l’ampiezza di questo movimento: se ne deve rifiutare qualsiasi carattere di élite, fondando sulla potenziale insubordinazione di larghi strati studenteschi all’attuale struttura universitaria. I compiti fondamentali di questo movimento, che deve quindi avere un ca-

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rattere politico di massa, devono essere, da un lato, organizzare la protesta degli universitari, secondo le parole di Lenin: Noi dobbiamo assumerci il compito di organizzare una lotta politica multiforme, diretta dal nostro partito, affinché tutti gli strati dell’opposizione possano dare e diano a tale lotta, e in pari tempo al nostro partito, tutto l’aiuto che possono. Noi dobbiamo trasformare i militanti socialdemocratici in capi politici che sappiano dirigere tutte le manifestazioni di questa lotta multiforme, che, al momento necessario, sappiano dare un programma d’azione positivo agli studenti in fermento, ai rappresentanti degli zemstvo insoddisfatti…29

e, dall’altro, attraverso l’esperienza concreta di lotta, lo studio teorico, l’analisi e l’intervento in realtà sociali extrauniversitarie, promuovere un processo di maturazione che miri alla formazione di quadri politici rivoluzionari. In questa prospettiva, si deve prevedere una pluralità di livelli di discorso, che però siano in ogni momento compresenti e non scaglionati nel tempo. Esistono una serie di contraddizioni “accademiche”, che sono quelle individuate nell’analisi della condizione studentesca, e che si possono riassumere nella situazione di oppressione in cui è costretto a vivere lo studente, tramite il tipo di cultura, il sistema di discriminazione e di selezione, le condizioni materiali di studio: e queste contraddizioni possono dare l’avvio a una serie di discorsi, ed essere 29

Lenin, Che fare?

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la spinta per lotte di massa. Questo primo livello di discorso può essere articolato per facoltà, ad esempio nelle facoltà scientifiche, attraverso la denuncia del carattere “ideologico” delle impostazioni e delle scelte operate nella ricerca scientifica, e, quindi, attraverso la demistificazione della mitologia dell’efficienza, e la denuncia della volontà della classe dominante di formare dei tecnici che siano strumenti incapaci di comprendere e contestare una qualsiasi scelta che travalichi l’ambito del laboratorio o dell’istituto; nelle facoltà umanistiche, attraverso la contrapposizione al carattere oppressivo e ancor più apertamente ideologico della impostazione culturale (sostanzialmente ancora finalizzato alla formazione di “missionari dell’insegnamento”) del carattere scientifico e della possibilità di comprensione dei singoli problemi che permette il materialismo dialettico moderno. Le contraddizioni “accademiche” possono dare occasione per molti discorsi generali sul carattere della cultura, e sull’organizzazione della scuola; e possono spingere a un’analisi del rapporto università-società, che da un lato individui l’organizzazione universitaria come strettamente funzionale a una serie di esigenze poste dall’esterno dell’Università stessa; e dall’altro, quindi, indichi la necessità, per la soluzione degli stessi problemi universitari, oltre i limiti delle proposte “rinnovatrici”, del rovesciamento dell’attuale struttura sociale. D’altra parte, la maturazione politica può ricevere una spinta da avvenimenti politici, nazionali o internazionali, di particolare rilievo o drammaticità: e tutti i motivi di scontro possono diventare occasione di lotta, in cui possano riconoscersi grandi masse studentesche.

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Sull’esperienza offerta da queste lotte, devono inserirsi momenti di riflessione critica, che si articolino in corsi di studio di carattere ideologico, in dibattiti di carattere politico generale, in esperienze di analisi e di intervento in condizioni sociali diverse da quella universitaria, principalmente in quella operaia e in quella degli studenti medi (queste ultime iniziative possono, in particolare, articolarsi in forme organizzative stabili, con gruppi di lavoro specifico). Vogliamo riportare, a titolo di esempio, l’esperienza compiuta a Napoli, nel dicembre 1967, quando l’intervento della polizia nell’Università offriva la possibilità di lanciare un’agitazione su parole d’ordine che già invitavano a estendere le analisi al di fuori dell’Università. Questo permetteva, sulla base di una partecipazione di massa e di un’esperienza concreta e collettiva, da un lato di portare avanti il dibattito sulla politicizzazione del movimento studentesco, fino alla liquidazione dell’UGI, e dall’altro di avviare un controcorso sulla natura dello stato e dei suoi apparati di repressione, adoperando, come testo, Stato e rivoluzione di Lenin. Bisogna sottolineare la necessità della contemporaneità dei vari livelli di discorso: solo così si offre un’effettiva possibilità di maturazione ai movimenti spontanei, mostrando che i problemi particolari possono risolversi in uno schema più ampio, e che solo una teoria politica più generale permette di orientarsi nel delineare le strategie di lotta. Queste più elevate funzioni possono essere compiute, in maniera completa, solo da un partito politico, unico strumento valido nell’elaborazione della strategia generale e delle indicazioni d’intervento, e del coordinamento delle lotte

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nei vari settori della società. Nella situazione attuale, in cui le organizzazioni tradizionali della classe operaia hanno abbandonato il loro ruolo di guida per una strategia riformista, la costruzione del partito politico rivoluzionario della classe operaia va realizzata muovendo da una serie di interventi in realtà sociali specifiche e limitati geograficamente, i quali svolgano una doppia funzione: da un lato, incomincino a diffondere tra le masse il corretto modo di orientarsi secondo i principi del marxismo-leninismo, e stabiliscano un collegamento tra i quadri rivoluzionari e le masse; dall’altro, contribuiscano alla formazione di quadri rivoluzionari, attraverso una concreta esperienza di lotta e di studio teorico. Le organizzazioni che operano questi interventi devono contenere perciò un’ambiguità di livelli, dovendo proporsi anche compiti di elaborazione di carattere politico generale, che, in termini corretti, potrebbe essere operato solo dal partito politico. In questa prospettiva, un movimento universitario di massa, politicamente agguerrito, potrà, da un lato, far sì che i militanti rivoluzionari si radichino tra le masse; dall’altro, iniziare un processo di formazione di quadri politici, che, arricchendo la propria esperienza di lotta con interventi in realtà sociali extrauniversitarie e collegandosi ai quadri operai rivoluzionari, daranno origine al futuro partito rivoluzionario.

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Nuovi obiettivi per il movimento universitario di opposizione

Negli ultimi anni si è sviluppato nelle università italiane un ampio movimento di opposizione, che, in molti casi, ha posto istanze avanzate e ha condotto azioni di rottura. Nell’atmosfera stagnante della società italiana uscita dal “miracolo”, le manifestazioni di strada degli studenti, le occupazioni di massa delle università, gli scontri con la polizia, hanno contribuito a rilanciare una tematica “sovversiva”, tematica che ai tanti sonnolenti difensori della collaborazione coesistenziale sembrava ormai da riporre in soffitta. In effetti, le manifestazioni di strada contro le iniziative dell’imperialismo americano, le proteste operaie di Genova, Trieste e altre città, i movimenti contadini della Calabria, le manifestazioni di insofferenza degli studenti, riflettono l’esistenza di forti incrinature nell’organizzazione del potere delle classi dominanti italiane, che pure erano uscite rinvigorite dagli anni del miracolo economico. Il disegno politico dei gruppi moderati delle classi dominanti, rivolto a una razionalizzazione e modernizzazione della società italiana, incontra forti difficoltà per realizzarsi. In questa situazione i vecchi partiti della sinistra ufficiale – con la loro corte di burocrazie sindacali, cooperative semiprivatizzate, fiduciari negli enti di stato, editori e tecnici “illuminati” – cercano di inglobare le azioni di protesta nella loro strategia di coesistenza e di integrazione nel sistema dominante; e si propongono come la sola forza capace di mantenere la protesta nei limiti dell’“ordine”, di assicurare un lungo periodo di

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sopravvivenza del privilegio e dello sfruttamento. Nel processo di sviluppo di tutti i movimenti particolari di opposizione nel nostro paese entrano quindi in conflitto forze contraddittorie: da un lato, le formazioni politiche collegate all’ufficialità – al P.C.I. al P.S.I.U.P e ai gruppi della IV internazionale –; dall’altro lato, nuovi gruppi di opposizione, che ripropongono, nelle lotte particolari, una strategia politica rivoluzionaria. Naturalmente, le potenti centrali politiche legate alla pratica riformista sono sufficientemente forti ed esperte per riuscire a bloccare l’iniziativa degli avversari, troppo ingenui nella pratica politica e spesso incapaci di superare il livello delle formulazioni generali. Tuttavia, nelle lotte particolari, i gruppi dell’opposizione di sinistra vengono maturando le loro proposte politiche generali, e riescono ad arricchirle ed elaborarle negli aspetti più specifici. Il movimento studentesco nelle università si è sviluppato secondo questa traccia, sicché non è possibile individuarne le linee di tendenza senza un’analisi specifica del ruolo che vi hanno assunto i gruppi della sinistra ufficiale. A partire dal 1960, questi gruppi si sono successivamente assestati su due linee di difesa, via via che i movimenti studenteschi assumevano caratteri più radicali. In un primo periodo, le iniziative politiche condotte avanti dai giovani della F.G.C.I. e delle altre formazioni ortodosse s’inserivano strettamente nella tattica dei partiti di sinistra, volta a svuotare di significato autonomo i movimenti particolari di opposizione, e a inserirli nella ristretta logica delle iniziative riformistiche dei gruppi parlamentari. I gruppi ufficiali cercavano di

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mantenere le azioni del movimento di protesta nelle università in una posizione di copertura di iniziative legislative particolari, oppure di generiche rivendicazioni di riforma; di conseguenza, non curavano affatto lo svilupparsi di un movimento di opposizione a carattere di massa nelle università, come un possibile elemento permanente nella situazione politica del paese. Questa iniziativa politica di retroguardia si fondava sul fronte unico con tutte le organizzazioni dei docenti (in un primo tempo anche con l’A.N.P.U.R., associazione dei professori di ruolo), e sulla stretta collaborazione dell’U.C.I. e dell’Intesa nell’U.N.U.R.I. Dopo i primi segni di crisi di questa linea – già evidenti nelle agitazioni del 1964-65 – cominciarono a formarsi, dietro la proposta di “sindacalizzazione” del movimento studentesco, nuovi gruppi, a sinistra dei precedenti e in posizione polemica con essi, i quali presero a disporre una seconda linea di difesa dell’ufficialità di sinistra nelle università. In effetti, essi cercavano di sollecitare, con azioni di denuncia e agitazione particolari, la formazione di un ampio movimento studentesco di base, che doveva però limitarsi a un intervento di copertura e di appoggio nei confronti dei partiti di sinistra. Con molta spregiudicatezza, i “sindacalizzatori” si spingevano fino a sostenere le polemiche di base, rivolte contro i burocrati del partito, per la rivendicazione dell’“autonomia” del movimento studentesco; ma proponevano di limitarla agli aspetti formali e “amministrativi”, anziché allargarla nel rifiuto della tutela politica che i partiti ufficiali – spesso attraverso le frange delle loro cosiddette “sinistre” – riuscivano, in ultima analisi, a esercitare

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sul movimento stesso. Essi scoraggiavano quindi gli interventi politici sul terreno generale contro quegli stessi burocrati che criticavano a parole; e cercavano di mantenere le agitazioni nei limiti di azioni rigorosamente “accademiche”, e di evitare che vi si potessero fare strada posizioni politiche in contrapposizione a quelle ufficiali. Per questa via essi operavano perché restasse ai partiti della sinistra ufficiale la delega della rappresentanza politica del movimento di opposizione nelle università. D’altra parte, questa seconda linea di difesa si reggeva sull’equivoco. La stessa rivendicazione dell’“autonomia” diventò in breve pericolosa, via via che molti gruppi studenteschi comprendevano che soltanto sullo sviluppo e sull’affermazione di posizioni politiche alternative si potevano fondare rivendicazioni di autonomia che avessero contenuti reali. Si formarono gruppi di opposizione che chiedevano la politicizzazione del movimento universitario; e questi si scontrarono, su tale base, con i “sindacalizzatori”, mettendo in evidenza le contraddizioni delle proposte di sindacalizzazione e il loro valore strumentale a vantaggio dei partiti ufficiali. Questi scontri si sono sviluppati ampiamente nelle ultime agitazioni; in molte università, il movimento di opposizione ha potuto svilupparsi oltre la prima e la seconda linea di difesa dei partiti della sinistra ufficiale; e, dopo aver acquisito una capacità d’incidenza sul terreno delle lotte puramente “accademiche”, è andato oltre, su un piano politico generale, in contrapposizione con le posizioni “ortodosse” del P.C.I. e del P.S.I.U.P. La rottura del fronte avversario e la crisi della politica

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universitaria della coalizione governativa hanno però prodotto una situazione per molti versi nuova, in cui tentano un reinserimento i fiduciari dell’ufficialità sparsi nei vari gruppetti conciliatori, che vogliono tutti “mettere pace” e ristabilire “l’unità”. In effetti, le posizioni dei burocrati “veri e propri” – quelli di sinistra, per intenderci – sono oggi molto deboli in tutte le università, dove il movimento di massa si è sviluppato su basi ampie. In alcune sedi i fiduciari dell’ufficialità riescono ancora a reggersi, ma con molta fatica; cercano di affermarsi nell’azione pratica valendosi del pesante intervento delle formazioni riformiste di cui sono portavoce. In molte sedi sono stati sconfitti e posti ai margini del movimento e sono ora in grandi difficoltà. A Napoli, per esempio, evitano il dibattito con tutti i mezzi, dopo aver cercato inutilmente di rilanciarsi attraverso alleanze di vertice e agitazioni su ristrette piattaforme, all’ombra degli organismi rappresentativi e della alleanza con i gruppi “ufficiali”, perfino con quelli di estrema destra. In questa situazione, il movimento universitario di opposizione avrebbe già superato le attuali incertezze e si sarebbe radicalizzato nella sua opposizione agli orientamenti riformisti dei partiti della sinistra ufficiale, se non fossero entrati in campo altri gruppi alleati di copertura di questi partiti, i quali si rifanno in varia maniera alle tattiche “entriste” della IV internazionale e dei circoli operaisti della vecchia sinistra massimalista. Su tutti questi gruppi si deve dare un giudizio molto negativo. Su un piano generale, si deve ribadire che essi sono soltanto l’espressione delle speranze dei gruppi

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piccolo-borghesi che lo sviluppo del capitalismo moderno spinge ai margini della società. Per queste ragioni essi non riescono ad andare oltre un rivoluzionarismo verbale e si limitano a proporre una partecipazione in chiave emotiva e attivistica alle azioni pratiche, nello spirito di una piena sottomissione al costume irrazionalistico dominante, piuttosto che dell’affermazione dell’importanza autonoma e creatrice dell’attività pratica. Sul piano politico, si deve denunciare il loro orientamento “centrista”, che evita i contrasti netti, non vuole inimicarsi l’ambiente dell’ufficialità di sinistra, e raccomanda di lavorare per “migliorare” i partiti di sinistra con azioni “dall’interno”. Queste posizioni sono ispirate da quelle stesse concezioni della lotta politica, possibiliste e accomodanti, che i dirigenti della socialdemocrazia portano avanti nei confronti degli stati borghesi; esse rivelano una stessa disponibilità alla critica generica e lo stesso rifiuto di una lotta frontale contro i centri politici avversari. Su un piano più immediato, questi gruppi adempiono oggi a una funzione particolarmente importante, a copertura delle posizioni, ormai troppo squalificate, della ufficialità di sinistra. Agli scontenti che escono dai partiti o restano incerti ai loro margini, tutti pieni della “nobile” aspirazione a farli diventare “migliori”, i gruppi legati alla tattica entrista, operaisti e trotskysti, offrono un equivoco punto di raccolta, proponendo alle loro velleità rivoluzionarie facili sfoghi, per niente dannosi al dominio della ufficialità di sinistra. In questo modo, essi rallentano il processo di formazione di centri di riferimento che esercitino un ruolo realmente alternativo rispetto ai centri della politica riformista.

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La funzione negativa di questi gruppi si è rivelata in modo particolare nelle ultime agitazioni universitarie, dove hanno continuato a suggerire azioni “dall’interno” nei confronti dei partiti di sinistra, e a ostacolare la costruzione di centri autonomi del movimento d’opposizione nelle università, in alternativa ai centri ufficiali. E fino a quando, nel movimento studentesco, non si formeranno centri che, esplicitamente e senza mezzi termini, si proporranno alla direzione del movimento contro i fiduciari dell’ufficialità, saranno questi ultimi – grazie ai loro centri di potere reale, esterni alle università, e nonostante il discredito da cui sono circondati tra gli studenti – a dirigere di fatto le azioni di protesta. L’importanza primaria dell’obiettivo della costruzione di centri realmente indipendenti è riconosciuta oggi largamente negli ambienti dissidenti di sinistra. Tuttavia, questi centri sono più spesso concepiti come luoghi di dibattito teorico – che pure sono di grande importanza, oggi – che come centri d’iniziativa politica; e d’altra parte, in molti casi, sono lasciati aperti all’influenza di gruppi e gruppetti poco disposti a un’azione indipendente dall’ufficialità di sinistra e ad essa contrapposta. Su queste basi, l’insieme dei gruppi dissidenti resta in ritardo rispetto allo sviluppo spontaneo dei vari movimenti di opposizione – che arrivano facilmente a un avanzato punto di maturazione e hanno bisogno, per andare oltre, che si formino nuovi centri di riferimento adeguati al livello delle loro lotte. Nelle lotte particolari, d’altra parte, larghe porzioni dei movimenti di base acquistano coscienza della necessità e dell’urgenza di questi sviluppi.

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Anche i movimenti che nascono su piattaforme molto limitate, possono oggi sperimentare la insostituibilità e l’urgenza di centri indipendenti di iniziativa politica. In particolare, negli ultimi mesi, il movimento accademico, sviluppatosi sui temi della riforma universitaria, ha fatto esperienze larghissime in questa direzione. Può quindi tornare utile, in questo contesto, richiamare le vicende della polemica contro il piano di riforma presentato dal ministro Gui e “corretto” dal deputato socialista Codignola. I gruppi di opposizione sono restati soli per molti mesi, prima dell’inizio della discussione del progetto Gui-Codignola e della ripresa delle agitazioni universitarie, nel rifiuto della pseudo-riforma e nella polemica contro la cosiddetta politica degli emendamenti. Fino all’ultimo, la stampa del governo di centro-sinistra, gli uomini più rappresentativi del cosiddetto centrosinistra “avanzato” – dai lombardiani alla sinistra democristiana – sostenevano con grande accanimento il piano di riforma. Giornali, deputati, senatori e organi direttivi del P.C.I. si mantenevano in una posizione ambigua, invitando gli oppositori più irriducibili a presentare “alternative concrete” e incoraggiando la politica degli emendamenti. La relazione di minoranza presentata il 3 novembre 1967 dall’on. Rossana Rossanda (esponente della “sinistra”!) alla presidenza della Camera a nome dei deputati del P.C.I. si concludeva con queste parole: I tempi sono mutati, ed esigono una università democratica, autonoma e ad altissimo livello; questa legge ci offre una università prima che aristocratica, discriminatoria,

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subalterna e men che prudente nelle sue ambizioni scientifiche. Alle Camere spetta ora il compito di spezzarne la logica mortificante e costruirne, attraverso emendamenti di fondo, una nuova e corretta fisionomia. A questo compito, di fronte al movimento universitario e al paese, sono impegnati i comunisti.

L’azione dei gruppi di opposizione, che iniziarono – isolati e osteggiati dal mondo politico ufficiale – la lotta contro il piano di riforma, non riuscì a tradursi, fin dall’inizio delle agitazioni, nella costruzione di un potere reale, in grado di bloccare le prevedibili controffensive degli avversari. Valendosi di questa debolezza, gli stessi gruppi che, alcuni mesi fa, difendevano il piano Gui e la politica degli emendamenti, hanno tentato in seguito di recuperare le posizioni perdute, e molto spesso con successo. Ancora una volta i gruppi sostenuti da un potere sono riusciti a salvarsi dalla piena sconfitta. Si possono trarre alcuni insegnamenti da queste vicende, tutti a conferma della necessità e dell’urgenza, per il movimento di opposizione nelle università, di superare le debolezze, che hanno compromesso, finora, le possibilità di successo della polemica contro i tutori dell’ordine costituito. Tutti coloro che intendono realmente, e non e parole, “cacciare i burocrati dalle università”, devono lavorare per superare queste debolezze. Non vi è nulla di più importante, in questo momento, che costruire centri d’iniziativa, punti di raccolta dei gruppi che combattono le burocrazie dei partiti ufficiali. E questi centri, naturalmente, devono essere ben delimitati, ed escludere quanti – ne siano

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coscienti o no – operano all’interno della dissidenza come agenti dell’ufficialità, propagandando un costume “tollerante” nei suoi confronti, raccomandando le azioni “dall’interno” nei partiti e nelle associazioni della sinistra ufficiale, e cianciando vacuamente della necessità di iniziative “unitarie”. Le proposte di unità mal definita sono oggi le più pericolose. Esse riecheggiano quelle, fatte da Giorgio Amendola e Luigi Longo, di una “unità della sinistra”, nell’ambito del “partito unico della sinistra italiana”. A quanti sono incapaci di liberarsi, nella loro iniziativa politica, dalle impostazioni proprie dei peggiori gruppi riformisti, si devono opporre le formulazioni di Lenin: «Prima di unirsi è necessario definirsi, nettamente e risolutamente». Nell’atmosfera politica che ancora domina in molti ambienti di sinistra, anche nella dissidenza, il riferimento alla tradizione leninista, rischia di fare scandalo. Gli atteggiamenti qualunquistici, nel formato di “sinistra”, la fiducia mitica nell’attivismo pratico, la noncuranza per gli sforzi di comprensione teorica, l’esaltazione dello spirito accomodante, ribattezzato come “unitario”: queste sono le pesanti debolezze che la dissidenza si porta spesso dietro – un riflesso del corrompimento dei partiti ufficiali del movimento operaio. Non vi è dubbio, comunque, che l’esigenza del recupero pieno della tradizione leninista si vada facendo strada, in collegamento con le esigenze reali di sviluppo del lavoro teorico e dell’iniziativa pratica dell’opposizione di sinistra. Tutti i gruppi che hanno mantenuto un vivo legame con la tradizione leninista negli ultimi decenni, e i numerosi gruppi che si van-

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no oggi formando su queste stesse premesse, possono perciò avere, oggi, un’importante funzione positiva. Sul terreno pratico, questi gruppi antiriformisti di opposizione cominciano oggi a sviluppare le loro iniziative nel paese, per spezzare le “unità” fittizie e squalificate, e ricostruire centri indipendenti d’intervento politico. Non è sempre male se questi conservano, al loro interno, una relativa eterogeneità, specie quando quest’ultima sia la traduzione della relativa immaturità del processo di sviluppo, che si attua a sinistra delle formazioni politiche ufficiali, e dei gruppi conciliatori della IV internazionale e della sinistra massimalistica. In effetti, la maturazione di nuove forze politiche non potrà procedere che con estrema lentezza: non esistono ricette estrinseche, e nuove proposte politiche possono acquistare forma compiuta sulla base della conquista di nuovi livelli di analisi teorica della società moderna. Nella ricerca delle prospettive del movimento universitario d’opposizione, non ci si deve servire dei modelli di discorso mediati dagli ambienti della sinistra ufficiale, e finire con il proporre, senza accorgersene quasi, una specie di “via universitaria al socialismo”. È più opportuno lasciare l’esclusiva di queste proposte agli zelanti patroni del “potere studentesco”. Si deve piuttosto muovere dalla premessa che le lotte politiche universitarie sono parte delle lotte politiche che si combattono ampiamente nel paese, e che i problemi che vi si pongono, a un certo livello di sviluppo, sono gli stessi che si pongono fuori delle università. In particolare, le azioni di rottura volte a costruire centri indipendenti dall’ufficialità – che servano da riferimento per il movimento universitario di opposizione – vanno viste in

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legame stretto con le analoghe azioni che si sviluppano nel paese, nei vari ambienti di studio e di lavoro. Da queste premesse, si possono derivare i motivi specifici per cui l’azione dei gruppi di opposizione nelle università può oggi rivestire una notevole importanza. Intervenendo per liberare il movimento universitario dalla tutela dei partiti della sinistra ufficiale, sconfiggendone i burocrati e ponendoli ai margini dei movimento, costruendo centri indipendenti di iniziativa politica, in opposizione all’ufficialità – per questa via si spingono nuove forze a entrare a far parte dei movimenti di opposizione antiriformisti che operano nel paese. Su questa base ulteriori sviluppi diventano possibili, da un lato, perché i movimenti di opposizione che operano nell’università riescano ad arricchire, in legame con altre lotte di massa, la scuola di formazione politica che compiono nelle agitazioni universitarie; dall’altro, perché riescano a collegarsi allo sforzo dei gruppi di avanguardia per la ricostruzione di una formazione politica rivoluzionaria.

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La Sinistra Universitaria di Napoli: cronaca Le prime polemiche aspre contro la linea tradizionale dei partiti ufficiali – volta a mantenere i movimenti di massa nelle università nei limiti di iniziative settoriali e corporative, per poterne poi assumere la rappresentanza in operazioni di vertice, a fini elettorali e parlamentari – si verificarono nell’università di Napoli, durante l’anno accademico 1966-1967. Le polemiche iniziarono nelle agitazioni del dicembre 1966 e si svilupparono nelle occupazioni di febbraio e maggio 1967, con l’allargarsi del dibattito sui temi dell’unità delle sedi universitarie e dell’opposizione a un’“area della ricerca” extra-universitaria, voluta dal governo e dai “baroni” della ricerca: queste lotte costituirono per molti studenti il punto di partenza di una vasta esperienza politica. Nella battaglia per l’unità delle sedi universitarie si denunciava, da parte dei gruppi studenteschi di sinistra, il fatto che le decisioni del potere accademico venivano prese sulla testa degli studenti, degli assistenti e dei professori incaricati e che esse erano espressione degli interessi particolari di alcuni gruppi di clinici e progettisti, che facevano capo alle facoltà di Medicina e di Ingegneria; e si denunciava il fatto che tali gruppi erano direttamente legati ai padroni della città, e, attraverso gli apparati dei partiti, all’apparato nazionale del potere. In particolare, le denunce si soffermavano sul tema del nuovo policlinico, la cui realizzazione, già avviata, procedeva secondo criteri puramente speculativi; e sottolineavano che essa contrastava, di fatto, con il criterio dipartimentale ed era sulla linea delle

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posizioni culturalmente più arretrate, omogenee a una società addirittura pre-industriale. Nella battaglia contro la creazione di un’area di ricerca “internazionale” al di fuori dell’università, si denunciava, da parte dei gruppi studenteschi di sinistra, il fatto che la separazione della ricerca dall’insegnamento abbassava il livello di qualificazione del laureato, e creava, nel corpo studentesco e nello stesso corpo insegnante, una divisione permanente tra coloro che avevano accesso a tale area di ricerca e coloro che non l’avevano; e soprattutto si denunciava la creazione di organismi di ricerca rispondenti direttamente alle esigenze del grande capitale e dei centri di pianificazione scientifica legati alle centrali dell’imperialismo, che escludevano ogni possibilità di controllo dal basso della ricerca nell’università, in contrasto con le tradizionali aspirazioni del movimento studentesco per la riforma. Attraverso tali lotte, alcuni gruppi del movimento studentesco napoletano riuscivano ad acquisire, oltre alla capacità di distinguersi dalla controparte accademica più reazionaria, la capacità di respingere le offerte di alleanza dei cosiddetti “rinnovatori”, che avevano appoggiato la realizzazione dell’area di ricerca. Si facevano insieme strada la comprensione della necessità di riferire le contraddizioni particolari alla matrice strutturale economico-politica da cui esse nascono, e la comprensione del fatto che la crescita del movimento studentesco doveva avvenire attraverso il rifiuto delle vecchie rappresentanze e l’imposizione delle assemblee permanenti come reale luogo di dibattito e di scontro. Ma soprattutto, attraverso queste lotte, molti studenti cominciavano a sperimentare che, anche nelle

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lotte limitate sul controllo e sulla gestione della vita universitaria, lo scontro con i partiti riformisti era inevitabile. Nel corso delle agitazioni per l’unità delle sedi si manifestava la tendenza di questi partiti a evitare ampie denunce e a tentare di chiudere le questioni con accordi di vertice; e durante le agitazioni sul tema dell’area di ricerca, si verificava addirittura l’accordo plaudente dei partiti di governo e di quelli di sinistra, tutti uniti, nello stesso ardore “rinnovatore”, che si manifestava, proprio in quei giorni, nei consensi unanimi alla creazione dell’Alfa Sud, un acconto sulle “riforme di struttura” richieste dal PCI. Inoltre, il riconoscimento degli stretti legami tra strutture dell’Università e della società spingeva larghi gruppi del movimento studentesco a uno sforzo di elaborazione politica generale in cui inserire una più avanzata strategia di lotta. Questo sforzo di elaborazione e di precisazione politica era sistematicamente ostacolato dai portavoce delle burocrazie dei partiti ufficiali di sinistra preoccupati che la loro politica riformista potesse essere posta sotto accusa. In effetti, soltanto grazie a uno sforzo di elaborazione politica il movimento studentesco di opposizione può riuscire ad acquistare un’autonomia dalle centrali dei partiti ufficiali che sia reale, e non puramente “amministrativa”. Solo su questa base si possono costruire degli organismi di contropotere dal basso che si oppongano realmente all’ordine costituito e ai suoi tutori, i rappresentanti dei partiti riformisti. In molte università d’Italia, durante lo scorso anno, il movimento studentesco ha potuto fare esperienza della necessità di andare in questa direzione, vedendo le burocrazie di

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partito reinserirsi nel movimento studentesco, e comprometterne gli sviluppi, grazie al vuoto di proposte politiche realmente alternative Nel maggio del 1967, avvenne a Napoli un primo scontro frontale tra i portavoce delle burocrazie dei partiti di sinistra e un gruppo di opposizione – il gruppo che, in seguito, diede origine alla Sinistra Universitaria napoletana –. I dirigenti delle federazioni giovanili legate al PCI, al PSIUP e al PSU cercarono in ogni modo di evitare, durante l’occupazione, che la polemica contro la delega della rappresentanza politica ai partiti ufficiali si allargasse, e finisse col relegarli ai margini del movimento studentesco. A loro sostegno si posero i gruppi che sostenevano le tesi della “sindacalizzazione” in una versione “di sinistra”, vagamente populistica; e soprattutto i gruppi – aspiranti al ruolo d’intermediari e conciliatori per una vocazione profonda, di matrice piccolo-borghese – che operavano all’interno del PCI nella linea della IV Internazionale. Il gruppo di opposizione, si era formato attraverso ricche esperienze sindacali; e aveva maturato, attraverso vive esperienze di azioni di massa, la convinzione della necessità di superare la cornice delle lotte universitaristiche, inserendole e articolandole in lotte politiche più generali. Su questa base, il gruppo di opposizione riuscì a rovesciare, nel corso dell’occupazione del maggio 1967, la direzione dei burocrati al vertice dell’Unione Goliardica Napoletana, e preparò per il 26 e 27 maggio, il congresso provinciale. Nel progetto di risoluzione politica presentato al Congresso dal nuovo comitato direttivo era scritto:

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Il Congresso dell’Unione Goliardica Napoletana, riunitosi a Napoli nei giorni 26 e 27 maggio 1967… aderisce senza riserve alla strategia proposta dall’ala rivoluzionaria del movimento operaio internazionale; condanna pertanto la linea politica dei partiti della sinistra ufficiale, operanti nella prospettiva della integrazione in una rinnovata burocrazia, a sostegno dello sfruttamento capitalistico nei paesi imperialisti; prende atto della momentanea mancanza di un raggruppamento politico rivoluzionario che faccia proprie le fondamentali istanze rivoluzionarie della classe operaia, e a cui l’Unione Goliardica Italiana possa collegarsi in una alleanza organica e permanente; in questa situazione, ritiene quindi che l’Unione Goliardica Napoletana debba dare un suo originale contributo al processo di maturazione e di formazione di un partito politico rivoluzionario della classe operaia, nella prospettiva di una alleanza permanente del movimento studentesco d’avanguardia con le forze del proletariato industriale; riafferma in questo contesto la funzione essenzialmente politica dell’Unione Goliardica Italiana, come centro di iniziativa e di lotta su tutti i temi della politica interna e internazionale; ritiene pertanto che vada frenata la pericolosa tendenza a fare dei temi della lotta per la ristrutturazione dell’Università l’unico punto di riferimento permanente all’azione politica dell’Unione Goliardica Italiana; sottolinea comunque l’importanza tutta particolare delle lotte per il controllo e la gestione del potere nell’Università, che devono precisarsi nella prospettiva della unificazione con le analoghe lotte della classe operaia, elemento qualificante di ogni strategia politica rivoluzionaria volta alla costruzione di un potere politico, socialista e non burocratico, specie nei paesi di capitalismo avanzato.

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Muovendo da queste impostazioni generali, il Congresso dell’Unione Goliardica Napoletana ribadisce il ruolo dirigente dell’Unione nei confronti del movimento studentesco, dal cui autonomo sviluppo, nelle linee del progetto di tesi del Comitato direttivo, possono derivare nuove decisive sconfitte dei gruppi capitolardi, portavoce delle burocrazie dei partiti politici della sinistra ufficiale nel movimento universitario.

In occasione del Congresso, si verificò naturalmente un nuovo scontro tra i gruppi legati alle burocrazie della FGCI, della FGS e del PSIUP e il gruppo di opposizione. Nella votazione decisiva, 113 voti andarono alle burocrazie riunite, e 87 agli oppositori. Fu, per i burocrati della FGCI e del PSIUP, una vittoria di Pirro: essi erano riusciti a prevalere grazie alla stretta alleanza con la FGS e alla mobilitazione dalla provincia meridionale di decine di persone estranee alle agitazioni universitarie, ma in definitiva si isolavano ancor più dai gruppi più legati alle lotte del movimento studentesco di opposizione, e preparavano la propria sepoltura politica. Il gruppo di opposizione respinse le proposte di conciliazione, pur sapendo di essere in minoranza; rifiutò di entrare negli organi direttivi, lasciandovi isolate le burocrazie riunite e i gruppi entristi della IV Internazionale; e, al termine del Congresso, decise di costituirsi in corrente autonoma, contro i “vincitori”, col nome di Sinistra Universitaria napoletana. A seguito di questa scelta politica, i gruppi conciliatori – ingraiani, trotskysti, operaisti e simili – restarono tagliati fuori dalla viva dinamica del movimento universitario

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di opposizione, e persero ogni possibilità di influenza a livello di massa. Ancora oggi, l’Università di Napoli è una delle poche dove non imperversa il confusionarismo dei profeti del “potere studentesco”, portavoce della “sinistra” del PSIUP e della IV Internazionale. I delegati delle burocrazie locali partecipavano in seguito al congresso nazionale dell’UGI, a Rimini, e qui si associavano al gruppo di sinistra – la “sinistra di Rimini” – e contribuivano a propagandarvi le tesi della “sindacalizzazione” del movimento studentesco. Ad alcuni mesi di distanza, è ormai chiaro a molti che tali tesi sono soltanto servite ai gruppi legati al PCI e al PSIUP per tentare il recupero della direzione del movimento universitario di opposizione; ed esse sono state superate e gettate in un canto, non soltanto a Napoli, ma in tutte le sedi universitarie italiane. Gli stessi loro sostenitori al congresso di Rimini – Bobbio per la “sinistra” del PSIUP e Flores d’Arcais per gli entristi della IV Internazionale – le hanno precipitosamente rinnegate, tentandone prima una riverniciatura più “avanzata” con la proposta del “potere studentesco”, e infine accantonandole entrambe non senza rimpianti. Dopo il Congresso, la Sinistra Universitaria cominciò a darsi una prima provvisoria organizzazione e, per mantenere vivo il dibattito teorico e politico, prese a stampare un bollettino. In un articolo contenuto nel bollettino dell’agosto 1967, così si ribadivano le posizioni portate avanti nelle polemiche precedenti: Esiste una differenza fra politica riformista e politica rivoluzionaria; quella, volta ad attenuare i contrasti, a conciliare, a trovare l’accordo con tutti, a usare gli obiettivi delle

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lotte come mezzo di conciliazione fra i contendenti; questa, volta a generalizzare i contrasti, a inasprire la guerra contro il sistema di sfruttamento dominante, a collegare le varie lotte particolari, a usare gli obiettivi delle lotte come mezzo per generare scontri più radicali. Un movimento avanzato non si dovrà vergognare di perseguire, talvolta, obiettivi transitori, purché si adoperi ad accostare queste piccole scintille alla polvere da sparo che l’esistenza della società divisa in classi ha diffuso a piene mani dappertutto. Viceversa, anche obiettivi transitori apparentemente ambiziosi e avanzati possono essere usati in modo riformista, qualora li si inserisca in un processo di stabilizzazione della società. Su questa base, come dobbiamo giudicare le lotte che conduciamo nell’università? … Esiste un primo terreno di lotta in cui l’obiettivo è tipicamente democratico-borghese e il cui mancato conseguimento è un indice della particolare arretratezza della società italiana: quello della “deprivatizzazione” dell’università. Su questo terreno è possibile trovare facilmente alleanze anche con i gruppi d “rinnovatori”. D’altra parte, per l’esistenza dei legami derivanti dalla comune partecipazione alla classe dominante, i “rinnovatori” non possono spingere a fondo la lotta contro i gruppi retrivi. In tal modo gli universitari di sinistra hanno l’occasione di mostrare alle masse l’illusione del mito “rinnovatore” e possono far capire a tutti che, perfino per raggiungere obiettivi relativamente modesti, è necessario porsi in una prospettiva di mutamenti radicali. Un secondo fronte d’intervento è quello delle lotte per il controllo e la gestione del potere nell’università. Questo obiettivo è molto più ambizioso del precedente. In una società dominata dalla gestione privata di tutti i mezzi di produzione e in cui si approfondisce la contraddizione fra il

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carattere pubblico delle varie attività e il carattere privato del potere, questa rivendicazione apre la strada a duri contrasti. È possibile, da parte della classe dominante e dei suoi fedeli, escogitare formule mistificatorie e conciliatorie che vanno nel senso delle proposte di “cogestione” e “partecipazione agli utili” avanzate nell’ultimo mezzo secolo da tutto un vasto arco di forze politiche, dalla sinistra fascista alla destra socialdemocratica. Proposte di questo tipo sono state recepite dal piano Gui, che sancisce appunto l’inserzione negli organi di governo dell’università di limitate rappresentanze di assistenti e studenti; queste proposte si possono riassumere nella formula: “pesci grandi e pesci piccoli decidono assieme democraticamente quanti pesci piccoli devono essere divorati dai pesci grandi”. … Il problema del controllo e della gestione del potere, richiama subito il problema dell’uso del potere. Un’entità particolare come l’università svolge un ruolo ben preciso nella società. Gli universitari possono richiedere il potere nell’università per due motivi distinti. Possono da un lato chiedere di governare un’università bene integrata in un sistema, il cui modo di funzionare non viene contestato; questa prospettiva di “autocommittenza”, che rassomiglia molto al programma dell’“autogestione” propugnato dal maresciallo Tito e dai dirigenti della Repubblica Jugoslava, può essere riassunta dalla formula “abbiamo una banda di briganti: occorre sostituire il capo-banda con il consiglio democratico dei banditi e socializzare il frutto delle rapine”. … La prospettiva della sinistra è invece diversa; occorre utilizzare le fette di potere conquistate nell’università, come nelle fabbriche, come in ogni altro posto particolare, per combattere la società capitalistica nel suo complesso e preparare la sua distruzione.

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D’altra parte, per la Sinistra Universitaria era soprattutto importante lavorare per condurre il movimento universitario di opposizione fuori dalla gabbia delle rivendicazioni meramente economicistiche, cui vogliono legarlo le tesi ufficiali come la cosiddetta sindacalizzazione. La Sinistra Universitaria appoggiava, perciò, il 21 ottobre 1967, una manifestazione di carattere politico all’interno dell’università in occasione della morte di Che Guevara. Essa proponeva, piuttosto che una sterile commemorazione, come avveniva nelle manifestazioni dei partiti “ufficiali” della sinistra, un attento riesame delle posizioni, in materia di tattica e strategia della rivoluzione mondiale e di edificazione del socialismo, a cui la figura di Guevara era legata e per cui aveva combattuto. Al termine del dibattito, dal quale si erano astenuti i burocrati della F.G.C.I., evidentemente indisponibili a un discorso critico non genericamente apologetico, la Sinistra Universitaria presentava una mozione che si concludeva con la proposta di occupazione della sede centrale dell’università fino alle ore 20 dello stesso giorno, allo scopo di affermare che l’università è luogo dove gli studenti possono e debbono dibattere temi politici, diffondere le parole d’ordine più avanzate, e conseguenti alle cognizioni emerse dal dibattito, e portare avanti l’elaborazione dei temi enunciati negli interventi dell’assemblea. A questo scopo la Sinistra Universitaria diffondeva tra gli studenti una dichiarazione inedita dei guerriglieri boliviani in cui si critica l’atteggiamento dei partiti comunisti filo-sovietici dell’America Latina, organizzava la lettura all’altoparlante di brani significativi di Guevara e disponeva sulla facciata dell’università

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grandi striscioni e cartelli con gli slogan: “Coesistenza no, rivoluzione sì”, “Barrientos ha ucciso Guevara, il P.C.I. vuole imbalsamarlo”, e altri ancora. Frattanto alcune auto munite di altoparlante giravano per la città, distribuendo alla popolazione il seguente manifestino: L’insegnamento di “Che” Guevara Un combattente per la libertà e per il socialismo è morto. I rivoluzionari di tutto il mondo sono mossi a seguirne l’esempio e a continuare la sua lotta. I caduti della rivoluzione non vogliono mausolei, ma imitatori: “Che” Guevara aveva capito alcune cose fondamentali: – che il mondo è diviso in sfruttati e sfruttatori, che centinaia di milioni dì uomini sono spogliati dei frutti del loro lavoro e soggetti a duri apparati di repressione; – che gli sfruttatori sono associati in un sistema mondiale al cui centro è la classe dominante degli Stati Uniti d’America; – che le rivoluzioni finora condotte per la liberazione delle classi oppresse hanno spesso generato nuovi sistemi di oppressione, governati da burocrazie desiderose di inserirsi nel sistema mondiale di sfruttamento; – che i gruppi dirigenti dei partiti della sinistra ufficiale dei vari paesi non possono più essere considerati la guida delle forze rivoluzionarie. Perciò Guevara ha legato la sua vita alla rivoluzione mondiale e, dopo aver partecipato come uno dei massimi protagonisti alla lotta armata per la liberazione di Cuba dalla dittatura di Batista e dall’imperialismo Nord Americano: – ha assunto la posizione rivoluzionaria più conseguente determinando con la sua azione politica la svolta del movimento rivoluzionario cubano verso il socialismo; – ha difeso la linea più conseguente per la costruzione del socialismo a Cuba, combattendo le tendenze involutive e burocratiche;

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– ha abbandonato la sua carica di ministro del Governo cubano per unirsi ai gruppi rivoluzionari dell’America Latina, nella convinzione che lo sviluppo della rivoluzione su scala mondiale potesse condurre alla sconfitta dell’imperialismo e contribuire in modo determinante alla edificazione di un socialismo liberato dalle burocrazie; – ha sostenuto con decisione la lotta armata come unica via per la liberazione dell’America Latina, in aspra polemica con la linea dei partiti della sinistra ufficiale fondata sulla coesistenza pacifica e sulle vie parlamentari al socialismo. Attraverso la sua infaticabile opera di dirigente rivoluzionario, “Che” Guevara ha dato un fondamentale insegnamento ai rivoluzionari dei paesi avanzati: Condizione necessaria per il trionfo della rivoluzione socialista nei paesi avanzati è la sconfitta della burocrazia e questa richiede che la rivoluzione stessa assuma un carattere internazionale e si valga in ogni momento della attiva e cosciente partecipazione delle masse proletarie sotto la guida delle avanguardie rivoluzionarie. La Sinistra Universitaria

Le agitazioni universitarie del movimento “accademico” per la riforma ripresero in occasione della presentazione al parlamento del progetto di legge GuiCodignola. Le lotte condotte a Napoli dall’11 al 18 dicembre dimostrarono la maturità del movimento studentesco napoletano di opposizione, e la capacità della Sinistra Universitaria di guidare queste lotte, di farle uscire dal chiuso dell’università, e di trasformarle in manifestazioni politiche di piazza al livello cittadino. Da questa esperienza risultò evidente che la chiarezza politica e la netta definizione dei gruppi di guida, anziché essere un elemento di ostacolo, sono

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una condizione indispensabile per una reale azione politica di massa. I gruppi giovanili della sinistra ufficiale, nella settimana precedente – dal 4 all’11 dicembre –, avevano cercato con vani tentativi di occupazione di rimettersi alla testa del movimento. In poche ore tutti i tentativi, condotti com’erano da piccoli gruppi con veri e propri colpi di mano, erano miseramente falliti; e i poliziotti avevano potuto facilmente ristabilire l’“ordine”. Questi episodi particolari e la più generale situazione nazionale denunciavano che il governo intendeva introdurre il progetto di riforma Gui-Codignola nell’università, se necessario, con la polizia; ma altresì rendevano evidente che l’agitazione dovesse essere condotta avanti con ampia partecipazione di base; e che questa era ostacolata dai gruppi della sinistra ufficiale, orientati verso una battaglia per gli emendamenti al piano GuiCodignola, oppure verso generiche azioni protestatarie in chiave pre-elettorale. La Sinistra Universitaria promosse quindi un’azione di forza a carattere di massa; denunciò la situazione agli studenti e alla cittadinanza, distribuendo migliaia di volantini ciclostilati e inviando auto munite di altoparlanti in giro per la città: tutti venivano invitati a intervenire a un’assemblea generale, la mattina dell’11 dicembre. A questa assemblea parteciparono più di mille persone, stipate nell’atrio dell’università, e queste votarono a schiacciante maggioranza per l’occupazione: approvando una mozione della Sinistra Universitaria, in cui si chiedeva il rifiuto totale del progetto di legge Gui e della politica degli emendamenti e si negava in particolare che la lotta per il rinnovamento delle

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strutture universitarie potesse risolversi all’interno del sistema capitalistico. Una generica mozione, presentata dalla presidenza dell’organismo rappresentativo, era respinta a larga maggioranza. Appena avvenuta l’occupazione del corpo centrale degli edifici universitari, la polizia superava di forza gli ingressi ed occupava l’atrio. Immediatamente, gli studenti si attestavano ai piani superiori, di dove incitavano muniti di altoparlante gli studenti rimasti in strada ad intervenire. Il traffico veniva più volte bloccato malgrado le cariche della polizia. Intanto il rettore, raggiunto nel suo ufficio e circondato da moltissimi studenti, doveva capitolare e, sconfessando il suo stesso operato, ordinare lo sgombro della polizia. In giornata, la Sinistra Universitaria, che aveva guidato l’azione, distribuiva un volantino in cui sottolineava la lezione politica che le masse studentesche e la popolazione avevano ricevuto dalle lotte della giornata. In seguito, si tenne una prima assemblea di occupazione. I portavoce dei burocrati dei partiti della sinistra ufficiale, davanti all’allargarsi delle lotte universitarie sul piano politico, tentavano di nuovo di frenare e ingabbiare il movimento nell’ambito delle lotte puramente “accademiche”, riproponendo, in una mozione approvata a stretta maggioranza, l’adesione alle tesi della “sindacalizzazione”. Così iniziava, all’interno dell’Università occupata, una polemica teorica e politica fra i sostenitori della politicizzazione delle lotte e i “sindacalizzatori”. La Sinistra Universitaria indiva, nella mattina del giorno 12, una riunione su questi temi, in modo che gli studenti, che per le prime volte si avvicinavano alle lotte universitarie, potessero comprendere la natura

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politica del dissenso di fondo. Inoltre, nel pomeriggio dello stesso giorno, la Sinistra Universitaria organizzava un controcorso su “La natura dello stato” con letture in contrapposizione di Stato e rivoluzione e delle tesi politiche dei partiti capitolardi. Alla seconda assemblea generale di occupazione, del 12 dicembre1967, le tesi della sindacalizzazione venivano completamente rigettate, e veniva invece approvata una mozione presentata dalla Sinistra Universitaria. Essa diede l’occasione per un volantino, che fu diffuso la mattina dopo tra gli studenti, nel quale, tra l’altro, si diceva: L’Assemblea ritiene che la fase delle lotte sindacali corrisponde a un periodo ormai trascorso nella storia del movimento universitario napoletano e ritiene, inoltre, che il compito più urgente per il futuro sia la maturazione di una rigorosa coscienza politica. In quest’ambito, gli stessi interessi delle masse studentesche vengono molto più rigorosamente tutelati, com’è dimostrato dagli ultimi successi del movimento, ottenuti sotto la spinta della crescente politicizzazione della lotta. Ciò non vuol dire che il movimento universitario intenda trasformarsi in un partito politico, quanto invece proporsi come uno dei momenti di reale contestazione politica al sistema dominante. Lo scontro che si viene a determinare oggi, all’interno dell’Università, è tra coloro che sostengono la necessità della politicizzazione del movimento studentesco e quelli che sostengono che le agitazioni universitarie devono limitarsi alle lotte di carattere sindacale, facendosi portavoce della politica capitolarda dei partiti della sinistra ufficiale. Questo scontro è parte dello scontro più generale che si sta sviluppando oggi nel paese, e che oppone ai gruppi dirigenti

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riformisti dei partiti di opposizione nuove avanguardie tese nello sforzo di costruzione di un nuovo strumento politico, che ponga un’alternativa alla direzione del movimento operaio da parte dei vecchi partiti della sinistra ufficiale. A queste avanguardie intende collegarsi, con la sua lotta, il movimento universitario di opposizione. Sulla base di tali considerazioni, l’Assemblea delibera il proseguimento dei controcorsi, oggi iniziati, in cui si affrontino i temi centrali per la costruzione della coscienza politica degli studenti, perché essi costituiscano la base per la costruzione di una anti-università che contesti l’università della borghesia. Delibera, inoltre, di indire un’altra Assemblea generale per mercoledì 13-12-1967, alle ore 18, per discutere gli ulteriori sviluppi della lotta.

Due ore dopo il termine dell’Assemblea, nella notte tra il 12 e il 13, la polizia entrava di nuovo nell’Università e riprendeva a presidiare l’atrio. Il giorno 13, l’Università era teatro di scontri tra studenti e polizia, scontri in cui alcuni studenti restarono feriti. In quella circostanza si pose in atto, da parte di alcuni gruppi della sinistra ufficiale, un tentativo di trasformare l’agitazione in uno scontro su temi generici e squalificati, privandola dei suoi precisi contenuti politici, e di creare fittizi raggruppamenti unitari. Ancora una volta la Sinistra Universitaria sollecitò un’azione organizzata a livello di massa: propose, quindi, e organizzò per il giorno 14 un corteo di protesta. Più di 4.000 persone, studenti medi e universitari, sfilavano per le vie del centro, innalzando striscioni e cartelli che denunziavano il progetto Gui-Codignola come strumento del capitale e la violenza repressiva dello stato borghese. Si chiedevano a gran voce le dimissioni del Rettore e

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del Senato Accademico, mentre auto con altoparlanti spiegavano alla cittadinanza le ragioni del corteo. Il corteo si chiudeva in un sit-in di fronte alla prefettura, che bloccava il traffico del centro per circa due ore, mentre una delegazione chiedeva al prefetto il ritiro immediato della polizia dall’Università. Il prefetto capitolava. Il corteo, prima di rientrare nell’Università per procedere alla rioccupazione, si fermava a lungo sotto la casa del Rettore, denunciandone il comportamento e chiedendone le dimissioni. Dal pomeriggio dello stesso giorno, nell’Università tornata di nuovo agli studenti, proseguiva un serrato programma di contro-corsi e di discussioni su temi politici di fondo. Gli incontri e gli scambi con gli studenti medi, anch’essi in sciopero, si arricchivano mediante discussioni comuni sul significato politico della legge Gui-Codignola. Il giorno 16, un nuovo corteo di studenti medi e universitari si recava al Municipio di Napoli per portare ancora la protesta per le strade cittadine. Mentre una delegazione parlava con il ViceSindaco, vari oratori spiegavano ai presenti il significato politico delle agitazioni in corso. Gli studenti cominciavano a sviluppare, a livello di massa, la coscienza della necessità di costruire un contropotere da opporre al potere dello stato, strumento della classe dominante, un contropotere che all’interno dell’Università si opponga alla cultura mistificatrice e ai metodi di governo dei gruppi dominanti, e che sia capace di generalizzare le lotte collegandosi alle più avanzate avanguardie rivoluzionarie. Nell’assemblea conclusiva di questo periodo di agitazioni, la mozione della sinistra Universitaria veniva

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approvata con 229 voti contro i 75 riportati dalla mozione U.G.I., i 31 da quella dell’Intesa e i 99 astenuti. Dopo le brucianti sconfitte subite a dicembre, il potere accademico da un lato, e le forze riformiste dall’altro, si scatenarono, nei mesi di gennaio e febbraio, in una vasta controffensiva, nel tentativo di isolare la Sinistra Universitaria. Il Senato accademico napoletano, notoriamente uno dei più reazionari d’Italia, accoglieva, infatti, nella speranza di riuscire a ingabbiare il movimento studentesco, le più avanzate proposte dei professori “rinnovatori”, e lanciava a gran voce l’invito alla collaborazione e alla formazione di comitati paritetici a tutti i livelli. Il preside della facoltà di ingegneria – uno dei più reazionari tra i padroni della città – convocava un’assemblea comune di facoltà per “lanciare” una sua mozione. Insomma, pur di stroncare il vigoroso movimento studentesco di opposizione e la Sinistra Universitaria, il Senato accademico reazionario proponeva di fare dell’Università di Napoli un centro di riferimento “progressista” per le altre Università. In questo piano d’intervento, faceva da contrappeso alle blandizie – secondo le regole dell’arte di governo dei notabili meridionali, amici e protettori della camorra – il pugno di ferro: i mazzieri fascisti piombarono più volte sui manifestanti del movimento universitario di opposizione. In questa situazione, i gruppi più estremisti e zelanti dell’U.G.I., ormai scoperti a sinistra per l’azione della Sinistra Universitaria, si alleavano con la destra dell’Intesa, e – un po’ a malincuore, per la verità – con il FUAN-GUF, allo scopo di mettere insieme, a nome dell’organismo rappresentativo, una occupazione-fan-

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tasma, senza alcuna partecipazione di base, sui temi più squalificati. La direzione dei burocrati si mostrò subito in tutta la sua inefficienza – un comitato di agitazione fantasma, la più completa assenza d’iniziative rivolte alla città, il deserto e il silenzio all’interno dell’Università centrale, “occupata” da tre persone, la fuga dalle assemblee che potessero minacciare le posizioni “ufficiali” –. Ogni tanto, aperti i cancelli, si tenevano nell’Università centrale assemblee del tipo di “adunanze” fasciste, in cui i microfoni – tenuti sotto controllo dai mazzieri liberali e fascisti – servivano a orazioni generiche e deprimenti per gli ascoltatori. La Sinistra Universitaria negava fin dall’inizio il suo appoggio all’iniziativa degli organismi rappresentativi; e denunciava agli studenti il carattere “padronale” dell’occupazione e l’effetto di smobilitazione che essa produceva sul movimento. I suoi rappresentanti partecipavano alle assemblee di facoltà per farne una tribuna di denuncia e per creare centri di dibattito sui temi universitari e su quelli più generali; e organizzavano una serie di dibattiti e contro-corsi sulla posizione dei lavoratori intellettuali nelle società a capitalismo avanzato, e sulle connesse possibilità di iniziativa politica. Nella maggior parte delle facoltà furono così approvate mozioni in linea con le tesi della Sinistra Universitaria, che sottolineavano, in particolare, l’importanza dell’allargamento del movimento alla base, e del consolidamento di una rappresentanza dal basso su base assembleare in opposizione agli organismi rappresentativi, escrescenze sclerotizzate, erette a protezione dell’ordine “ufficiale”.

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L’allargamento e il consolidamento del movimento studentesco; l’elevamento del suo grado di coscienza attraverso la discussione su temi universitari e politici generali, sono oggi d’importanza vitale in tutte le sedi universitarie. La Sinistra Universitaria propone un’azione articolata, che si valga di gruppi di studio, assemblee, dibattiti, in uno sforzo di costruzione del movimento studentesco nelle università su ampie basi di massa; e ne ha posto le premesse durante gli sviluppi dell’occupazione di febbraio, nelle facoltà rimaste occupate: Architettura, Fisica e Ingegneria. Le agitazioni universitarie non sono finite. I gruppi di opposizione devono oggi continuare a lavorare, guardando alle lotte future.

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Cambiamenti delle forze produttive Lo scritto che segue è il testo della relazione letta – a nome della Sinistra Universitaria – come introduzione a un dibattito sul tema “Gli intellettuali nella attività produttiva: proposte politiche” nell’Università di Napoli occupata, nel febbraio 1968. Negli ultimi cinquanta anni, e in modo particolare nello slancio del boom economico legato alla seconda guerra mondiale, si sono verificati notevoli cambiamenti nel mondo, sia nei caratteri delle forze produttive che nell’insieme dei rapporti pratici della società. Tre fattori hanno principalmente contribuito ai cambiamenti nelle forze produttive: l’allargarsi del ruolo della scienza; l’introduzione di nuovi procedimenti nella produzione sulla via dell’automazione; l’estendersi del ruolo dell’organizzazione del lavoro. L’allargarsi del ruolo sociale della scienza si manifesta oggi ampiamente in molti modi. Gli stanziamenti per la ricerca scientifica si estendono con un ritmo molto elevato; i quadri intellettuali che si dedicano alla produzione crescono continuamente di numero; i prodotti più tipici della ricerca applicata, i brevetti, il know-how e certe tecniche intellettuali, sono già in vendita come oggetti di scambio qualsiasi. Sulla base della ricerca applicata sorgono rapidamente intere nuove branche d’industria – negli ultimi anni l’industria dei derivati del petrolio e delle materie plastiche, l’industria elettronica, aereonautica e missilistica –. Nei processi lavorativi automatizzati, i compiti centrali sono affidati agli addetti ai controlli, tutti di elevata specializzazione, e soprattutto di elevata qualificazione intellettuale. In secondo luogo, almeno

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nelle industrie chiave, il numero dei lavoratori non direttamente produttivi aumenta; e nell’insieme della società diminuiscono le forze di lavoro tradizionali, a vantaggio di addetti a servizi generali e organizzatori di lavoro: negli USA, per esempio, non vi sono più di 12 milioni di lavoratori direttamente produttivi su una forza lavoro complessiva di 68 milioni30; e in media, nei paesi anglosassoni, gli addetti alle attività industriali formano il 35% delle forze di lavoro, mentre circa il 60% svolge mansioni non immediatamente produttive. In terzo luogo (e questo è il fatto più importante per le proposte politiche), in tutta la grande industria la produzione si organizza secondo un piano rigoroso in cui ogni operaio svolge una mansione particolare, di cui vede svanire sempre di più il significato. Le tendenze di sviluppo nei paesi avanzati lasciano prevedere che operai e tecnici di tipo nuovo: organizzatori, ricercatori, intellettuali, si troveranno via via in una posizione di maggior rilievo all’interno del ciclo produttivo. L’inevitabilità di questi sviluppi riposa sul fatto che queste nuove forze sono oggi in grado di determinare uno straordinario allargamento nella produzione. Hanno una coscienza precisa di questa inevitabilità i gruppi politici che dirigono i paesi capitalistici avanzati; e cercano di aiutare questi sviluppi incoraggiando la diffusione della ricerca scientifica e dell’istruzione, specie dell’istruzione superiore. Allo Stato, oltre che controllare i prezzi e i salari, l’economista kennediano Galbraith assegnava solo altri due compiti fondamentali: curare o Dati della «Monthly Review», nel fascicolo luglio-agosto del 1963. 30

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promuovere la ricerca scientifica; curare la formazione del personale specializzato. L’interpretazione politica di questi fenomeni ha dato origine a molte polemiche, specie tra gli “eretici” di sinistra dei paesi avanzati; mentre sono pressoché assenti da questi dibattiti gli intellettuali ortodossi che prosperano ai margini delle burocrazie di sinistra. Ha colto il ruolo fondamentale della scienza lo stesso Marx, che pure viveva in un’epoca in cui tenui tendenze di sviluppo dovevano essere identificate in una congerie di fatti molto più appariscenti. Nel famoso brano sulle macchine Marx scriveva: Lo sviluppo del capitale fisso mostra fino a che punto il sapere sociale generale, knowledge, è diventato una forza produttiva immediata, e quindi le condizioni del processo vitale stesso della società sono passate sotto il controllo del “general intellect” e rimodellate in conformità ad esso… Via via che la grande industria si sviluppa, la creazione di ricchezze materiali dipende meno dal tempo di lavoro e dalla quantità di lavoro erogata che dalla potenza degli strumenti messi in moto durante il tempo di lavoro. Il lavoro umano non appare più racchiuso nel processo di produzione; l’uomo si colloca accanto al processo di produzione come sorvegliante e regolatore… In questa trasformazione, il fondamento della produzione non è più il lavoro immediato compiuto dall’uomo, né il suo tempo di lavoro, bensì l’appropriazione delle sue conoscenze e del suo dominio sulla natura tramite la sua esistenza sociale; in una parola del suo sviluppo come individuo societario.

Crediamo quindi di poter individuare questi nuovi ceti intellettuali come produttori di plusvalore, nel

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senso preciso indicato da Marx, come forza-lavoro intellettuale. Possiamo perciò condividere la seguente affermazione di Scalia31: L’ipotesi centrale del nostro discorso è la formazione della forza-lavoro intellettuale, la proletarizzazione dell’intellettuale come individuo e gruppo sociale. Essa presenta alcune caratteristiche strutturali: … la specializzazione delle diverse professioni intellettuali e la loro utilizzazione generale-comune come forza lavoro; disponibilità globale di questa forza-lavoro in senso classista. Si riproduce così, in questo settore, in forme specifiche, la struttura dei rapporti tra forza-lavoro materiale e capitale: carattere di contrattualità (“alienazione” in preciso senso marxiano), “mercificazione” e “feticizzazione” del lavoro intellettuale e dei suoi prodotti separati e oggettivati di fronte ai produttori (“reificazione” anche qui nel rigoroso senso marxiano). In questo “mercato universale” si stabiliscono rapporti oggettivi della forza-lavoro intellettuale con il capitale da un lato e con la classe operaia dall’altro. Il capitale fa un uso di classe della forza-lavoro nella totalità dei suoi aspetti e dei suoi momenti tendendo a superare o trasformare in tale uso dell’unica forza-lavoro la reciprocità e specificità separate dei suoi “settori” (intellettuali in quanto tali e “manuali” in quanto tali). Assistiamo così alla progressiva scomparsa della figura extra-produttiva dell’intellettuale, e alla costruzione della nuova figura del lavoratore intellettuale (nel senso forte del termine …). Come già sosteneva Marx, si tratta della produzione non solo di un oggetto (prodotto) per un soggetto (produttore-consumatore), ma di un soggetto per l’oggetto. E l’estensione del mercato dei beni culturali, nel duplice aspetto di promozione di bisogni (di accesso di mas31

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Tratto dall’articolo apparso nel n. 3 di «Classe e stato».

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sa alla comunicazione culturale, di tendenziale soppressione dei “circuiti comunicativi parziali, dialettali, regressivi” etc. nell’unico grande circuito del mercato) e della sistematica mercificazione e trasformazione dei “valori d’uso” culturali in “valori di scambio”. Tutto il discorso (che invoca, certo, un’approfondita ricerca teorica-sperimentale) si fonda, evidentemente, sulla trasformazione degli intellettuali in forza-lavoro salariata, sulla “metamorfosi” della produzione e dei prodotti culturali in merci misurabili e qualificabili come “ tempo di lavoro “, “ valori di scambio”, “prezzi” etc., secondo la tendenza sempre più evidente alla razionalità, calcolabilità e quantificazione anche del “lavoro intellettuale “. Ciò rientra nello sviluppo capitalistico, marxianamente considerato come continuo sviluppo delle forze produttive e continua innovazione, conoscitiva e tecnologica, dei mezzi e dei rapporti di produzione nell’ambito dell’appropriazione di classe; e si presenta oggi come crescita quantitativa e sviluppo di qualità (nel senso della qualificazione tecnica) degli intellettuali e come particolare forma di divisione del lavoro, che agisce in duplice senso contraddittorio: da un lato come estrema specializzazione tecnica; e dall’altro come unificazione sociale nell’uso globale di classe dell’unica forza-lavoro da parte capitalistica.

Analisi politica della figura dell’intellettuale Se si ritiene corretta la formulazione, proposta riguardo al ruolo nuovo che la figura dell’intellettuale viene ad assumere nel processo produttivo (per dirla con Marx: «La borghesia ha tramutato il medico, il giurista, il prete, il poeta, l’uomo di scienza in salariati…»), interessa, a questo punto, analizzare la disponibilità politica di questi nuovi strati a una lotta rivoluzionaria.

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A conclusioni opposte giungono due studiosi, rispettivamente della società francese e della società statunitense. Mallet, che analizza alcuni rami dell’industria francese particolarmente avanzati da un punto di vista tecnologico, in cui la maggioranza della forzalavoro impiegata è altamente qualificata, attribuisce a questi “nuovi strati operai” il ruolo di avanguardia nel processo rivoluzionario. La sua affermazione si basa, sostanzialmente, sulla considerazione della massiccia sostituzione del lavoro intellettuale con lavoro manuale, del soddisfacimento delle rivendicazioni essenziali; questa situazione lascia spazio a rivendicazioni sul problema della gestione e del controllo delle aziende e in genere dell’organizzazione sociale. Quindi, non più sul piano delle rivendicazioni immediate, ma su quello più generale dell’organizzazione prima delle industrie e poi della società; questa avanguardia rivoluzionaria combatterà l’organizzazione capitalistica di una società che è ormai giunta a uno stadio delle forze produttive (progressiva sostituzione del lavoro manuale, creazione di strati operai capaci di sostituirsi alla direzione delle aziende, etc.) che rende possibile l’organizzazione socialista della società. Marcuse, invece, che si trova a operare in una realtà più evoluta di quella francese, cioè in una società in cui alcune situazioni, che Mallet individua come linea di tendenza in Francia, sono divenute attuali, nota l’assoluta inesistenza o integrabilità di quelle rivendicazioni di carattere “superiore” di cui fa cenno Mallet, e descrive le rivendicazioni di tecnici e operai come assolutamente omogenee al sistema capitalistico. Le forze rivoluzionarie devono, piuttosto, trovarsi tra gli strati sottoproletari, e le minoranze che

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non partecipano al grande banchetto della società del benessere. In questa polemica si è inserito alcuni anni fa il marxista francese Manuel Bridier, con un articolo32 in cui si propone di confutare l’analisi condotta da Mallet, e in primo luogo di contestare l’affermazione dell’effettivo soddisfacimento a livello di massa dei bisogni materiali da parte della classe operaia: In realtà la società dei consumi, per la maggior parte dei lavoratori europei, è una mistificazione pura e semplice… Se la condizione materiale dei lavoratori, quindi, non è fondamentalmente cambiata (e a ogni modo non al punto da comportare un vero mutamento qualitativo), è chiaro che ancor meno si può dire sia cambiata la loro condizione sociale. I rapporti di produzione sono gli stessi, i legami di subordinazione si fanno sentire nella stessa maniera e, se è vero che la milizia politica e sindacale ha subito una crisi nel corso degli ultimi dieci anni, ciò non significa affatto che il lavoratore accetti la propria condizione, ma semplicemente che non crede alle soluzioni collettive. I sondaggi di opinione effettuati nelle officine francesi sono quanto mai rivelatori delle aspirazioni profonde degli operai: essere commercianti, piccoli proprietari, magari a parità di reddito, ma sfuggire alla subordinazione gerarchica dell’impresa.

In seguito Bridier analizza i nuovi strati intellettuali, e più in generale la classe operaia dei settori avanzati dell’industria, con particolare riferimento a due problemi essenziali: se le rivendicazioni di queste categorie hanno una portata generale al di là della categoria che 32

In «Problemi del Socialismo» n. 6 del 1966.

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le avanza; e se queste categorie stesse sono chiamate a svolgere nella società un ruolo crescente e positivo. Dalle statistiche riportate, Bridier svolge una serie di considerazioni generali sulla composizione della classe operaia: a) il gruppo dei manovali diminuisce ma non scompare affatto; un certo numero di compiti elementari sono tuttora eseguiti a miglior prezzo dai lavoratori non qualificati che dalla macchina… b) il gruppo degli operai qualificati diminuisce anch’esso, mentre si accrescono due gruppi ben diversi: quello degli operai semiqualificati o non qualificati da una parte; e quello dei tecnici, dei quadri e degli impiegati amministrativi dall’altra… Ci sono da una parte, quindi, gli ingegneri progettisti ecc., dall’altra degli “operatori”, capaci di effettuare solo alcuni lavori parziali (capaci di azionare una macchina ma non di ripararla né di comprendere il funzionamento di essa). Questi operai sono in realtà i nuovi manovali della nuova industria. Le loro condizioni di lavoro, il posto occupato nel processo di produzione non li conducono ai problemi di gestione e di struttura più del maneggiare la scopa o scaricare la carriola. Non è certo questa la nuova classe operaia… A meno che non la si vada a cercare nell’altro gruppo in ascesa, quello dei tecnici e dei quadri.

Dopo aver notato l’estrema eterogeneità di questi strati sociali per quanto riguarda le mansioni e la collocazione nella scala gerarchica sociale, Bridier cerca di individuare «alcune caratteristiche comuni che pensiamo svolgano un ruolo importante nei comportamenti sociali e negli atteggiamenti politici». La

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prima di queste caratteristiche è indicata nel benessere materiale (che dovrebbe rendere più accettabile il sistema sociale che procura questo benessere); la seconda (a nostro avviso estremamente più importante per determinare la differenza dalla classe operaia) nella «speranza, reale o illusoria, di miglioramento individuale nella gerarchia stessa dell’azienda. E se mai, malgrado ciò, arriva a rimettere in causa le stesse strutture sociali, sarà stimolato più da un’esperienza individuale di frustrazione nelle proprie aspirazioni di avanzamento, che da una coscienza collettiva di condizione di classe. Qui le vecchie stratificazioni, quelle cioè risalenti all’estrazione sociale, riprendono un ruolo dominante. Un gran numero di questi quadri e tecnici provengono dalla piccola borghesia e solo pochi dal proletariato». Tra questi stessi strati sociali Bridier introduce una seconda distinzione: quelli più elevati – «riconoscendosi capaci di dirigere l’azienda, l’economia e lo Stato –, avvertono come un’ingiustizia sociale la barriera della nascita, che gli ereditieri delle grandi famiglie del 19° secolo ancora le oppongono, negli Stati Uniti come in Europa. Questa categoria sociale aspira così a un tipo di società in cui potere economico e potere politico si confondano, la direzione dell’azienda e quella dello Stato, la competenza professionale e il successo sociale, sensibile più ai valori gerarchici che alle soddisfazioni materiali che ormai le sono date per scontate… Essa vede l’espressione di una razionalità superiore in una forma di democrazia orientata e di dirigismo economico in cui le sia affidato un ruolo di guida. Questa identificazione dell’ascesa al potere e della razionalità può assumere for-

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me politiche diverse. Il gollismo o Lecanuet in Francia, … Kennedy negli Stati Uniti…».

In sostanza quindi, secondo Bridier, questa categoria sociale non mette in discussione affatto il tipo di rapporti di produzione esistenti nella società borghese (da cui essa stessa ricava profitto e privilegio), ma combatte per un proprio più adeguato inserimento nella sfera dirigente reale cercando di scalzare quelli che attualmente la occupano in virtù di “discendenze e tradizioni”. Osserva ancora Bridier: Ma da un gran numero di quadri, meno elevati nella gerarchia o di origine più vicina al proletariato, questa soluzione neocapitalista è vista per quello che è… Il regime socialista appare allora a essi come il tipo di società in cui i detentori della scienza e della tecnica, e della scienza economica in particolare, sbarazzatisi infine dagli antichi proprietari privati, gestiscono più liberamente, secondo il meglio dei loro interessi e dell’interesse generale, i mezzi di produzione di cui la collettività detiene la proprietà giuridica. Questa nuova borghesia (visto che non si potrebbe evidentemente più parlare qui di una nuova classe operaia) apporta – è chiaro – al socialismo un contributo tecnico, un insieme di conoscenze e di esperienze che fece crudelmente difetto alla Russia del 1917. In questo senso essa costituisce per il proletariato, ancora incapace di assumere direttamente la gestione dell’apparato produttivo, un alleato prezioso nel periodo di transizione e di edificazione del socialismo; ma anche un alleato pericoloso nella misura in cui introduce perciò dapprima nel movimento operaio, quindi nella società socialista, le proprie concezioni e i propri interessi di classe che non coincidono necessariamente, come essa invece immagina, con gli interessi delle masse popolari…

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Il socialismo, così come essi lo concepiscono, non è nuovo tipo di gestione democratica, è il dirigismo di Stato senza la proprietà privata dei mezzi di produzione. La razionalizzazione dell’economia sotto la direzione dei quadri e dei tecnici risponde alla loro volontà di potenza ma non risolve il problema della loro alienazione.

In sostanza, quindi, Bridier individua tre fattori fondamentali che concorrono a limitare gli effetti della omogeneità degli interessi della classe operaia e dei nuovi ceti intellettuali: il soddisfacimento degli interessi materiali, la prospettiva della soluzione individuale e l’estrazione sociale. Probabilmente quest’analisi, che si arresta a considerazioni su fenomeni contemporanei, non è più valida se questi fenomeni vengono osservati in prospettiva. L’allargarsi del ruolo sociale della scienza, di cui abbiamo brevemente fatto cenno nella prima parte dell’articolo (realtà che è appena agli inizi del suo sviluppo), potrà creare vasti strati di forza lavoro intellettuale a cui il sistema dominante non potrà più offrire soluzioni individuali. Infatti, nella misura in cui questi strati andranno espandendosi nei vari rami e sezioni dei processi produttivi, e quindi aumenteranno quantitativamente, la soluzione carrieristica, che in tanto poteva avere presa, in quanto prospettata a un nucleo ancora poco numeroso, risulterà qualcosa di sempre più evanescente e lontana da effettive possibilità di realizzazione; inoltre la caratteristica specialistica della loro formazione renderà impossibile un qualsiasi significativo mutamento nella scala gerarchica sociale. Lo scontro con l’organizzazione della società, in questa

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prospettiva, potrà quindi aiutare a prendere coscienza, a livello di massa, della reale antiteticità degli interessi di questi strati sociali con l’organizzazione sociale dominante, della necessità di una soluzione collettiva, dell’irriducibilità del contrasto con ogni assetto sociale del tipo esistente o di tipo tecnocratico, e quindi, in ultima analisi, della sostanziale omogeneità di prospettive con gli “altri strati operai” e dell’uso di classe della forza-lavoro (di cui essi rappresentano solo un momento e un aspetto specifico). Pur ribadendo che questo rimane un discorso di prospettiva (che può, prospettato in termini scientifici, previa una analisi approfondita delle linee di sviluppo del capitalismo, con particolare riferimento alle effettive possibilità di sostituzione al livello di massa del lavoro manuale con il lavoro intellettuale, relativamente alla legge del profitto), bisogna sottolineare un altro limite fondamentale del discorso di Bridier (che pure individua giustamente la non disponibilità al livello di massa di questi strati sociali ad un’azione rivoluzionaria) nella mancanza di una proposta di azione politica tra questi gruppi sociali che, per la contrapposizione oggettiva al livello strutturale al sistema capitalistico (che deriva dalla parcellizzazione, subordinazione e mercificazione del lavoro intellettuale) possono maturare una effettiva coscienza rivoluzionaria. La sostanziale eterogeneità di questi strati e i condizionamenti pratici che prima abbiamo esaminato non devono pero condurre a una proposta di azione di massa di carattere sindacale, quanto piuttosto a un’opera di agitazione e di propaganda più strettamente politica che abbia come fine immediato la formazione

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di una coscienza rivoluzionaria. Rimane valido, per noi, il discorso leninista: da un lato è necessaria la conoscenza di tutti gli strati sociali per la formazione di una corretta visione dei rapporti di classe di una data organizzazione sociale, dall’altro è necessaria un’agitazione tra tutti gli strati sociali per un’azione politica che tenda concentricamente al comune fine dell’abbattimento della macchina statale borghese sotto la guida egemone del partito della classe operaia33: La coscienza politica di classe può essere portata all’operaio solo dall’esterno, cioè dall’esterno della lotta economica, dall’esterno della sfera dei rapporti tra operai e padroni. Il solo campo dal quale è possibile attingere questa coscienza è il campo dei rapporti di tutte le classi. Perciò alla domanda: “che cosa fare per dare agli operai cognizioni politiche?” non ci si può limitare a dare quella risposta che nella maggior parte dei casi accontenta i militanti, soprattutto quando essi pencolano verso l’economismo, e cioè: “andare tra gli operai”. Per dare agli operai cognizioni politiche, i socialdemocratici devono andare tra tutte le classi della popolazione, devono inviare in tutte le direzioni i distaccamenti del loro esercito… E non si ripeterà mai troppo che ciò non è ancora socialdemocrazia, che l’ideale del socialdemocratico non deve essere il segretario di una trade-union, ma il tribuno popolare, che sa reagire contro ogni manifestazione di arbitrio e di oppressione, ovunque essa si manifesta e qualunque sia la classe o categoria sociale che ne soffre, sa generalizzare tutti questi fatti e trarne il quadro completo della violenza poliziesca e dello sfruttamento capitalistico… Quanto al fatto che i nostri 33

Lenin, Che fare?

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studenti, i nostri liberali, ecc. siano “posti faccia a faccia col nostro regime politico” non solo ci penseranno essi stessi ma se ne incaricheranno soprattutto la polizia e i funzionari del governo autocratico. Ma “noi”, se vogliamo essere dei democratici di avanguardia, dobbiamo occuparci di spingere coloro che sono insoddisfatti solo del regime universitario o del regime degli zemstvo, ecc., a convincersi che quello che non va è l’intero regime politico. Noi dobbiamo assumerci il compito di organizzare una lotta politica multiforme, diretta dal nostro partito, affinché tutti gli strati dell’opposizione possano dare e diano a tale lotta, e in pari tempo al nostro partito, tutto l’aiuto che possono. Noi dobbiamo trasformare i militanti socialdemocratici in capi politici che sappiano dirigere tutte le manifestazioni di questa lotta politica multiforme…

Quindi, se da un lato consideriamo valida un’iniziativa di agitazione e di propaganda politica anche tra gli intellettuali, dall’altro canto dobbiamo sottolineare che la prospettiva politica che si offre loro oggi, per i rapporti pratici che essi vivono e le condizioni materiali in cui si trovano a operare, è quella del rifiuto globale della propria ideologia, l’ideologia borghese (rifiuto operato come una scelta individuale) e del materialismo scientifico come metodo di analisi e visione del mondo; la prospettiva politica è quindi quella dell’inserimento nella lotta rivoluzionaria come quadro politico e teorico del socialismo. «Nel corso dello sviluppo di questo movimento studentesco … noi ci mettemmo in testa che esistesse una barriera tra noi stessi e le persone che stavamo organizzando. Sviluppammo comunità di persone che avrebbero dovuto essere limitate socialmente, e che in molti casi finivano con l’essere limitate politicamente.

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Cominciammo a parlare di “potere studentesco”, come se esso fosse analogo a “potere negro”, e guardammo a noi stessi come organizzatori del nostro popolo, cioè come studenti che intendevano controllare la loro propria istituzione, l’università. Di qui, credevamo che avremmo potuto muoverci più in grande nella società, e realizzare delle trasformazioni. La lotta nel campus era ed è ancora d’importanza vitale per lo sviluppo di un movimento nel nostro paese, ma la nostra opinione, quella sua importanza sta per molti aspetti cambiando. Noi sappiamo che il socialismo in una sola università è impossibile. Noi sappiamo anche che non possiamo controllare l’istituzione politicamente o amministrativamente, e forse non lo desideriamo più. Quando chiesero a un gruppo di negri cosa pensassero della proposta che i negri controllassero il loro ghetto, essi risposero che non lo desideravano. Il ghetto è la colonia in cui i negri devono vivere. Esso non rappresenta la liberazione, ma soltanto il controllo coloniale. Piuttosto che controllare il ghetto, essi desideravano una nuova società. Anche la nostra opinione sull’università è cambiata. Guardiamo all’università per quello che è, uno strumento di irregimentazione. Noi non desideriamo controllarla. Noi desideriamo usarla per fare una società dove una nuova forma di università sarà importante. Noi dobbiamo fare libera la società, prima di poter avere una università libera»34.

The role of the student movement, nella rivista della SDS degli Stati Uniti d’America, «New left notes», del 6 novembre 1967 34

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Gli avvenimenti francesi e l’“unità antifascista” Negli ultimi giorni le sinistre ufficiali unite ai peggiori gruppi filo-americani hanno cercato di creare sugli avvenimenti francesi una fittizia “unità antifascista”. Su questa linea hanno tentato di rientrare nel movimento studentesco dal quale erano stati cacciati nei mesi scorsi. Con la collaborazione di alcuni gruppi di studenti confusionari, hanno creato in Italia e anche a Napoli, cortei, manifestazioni sul logoro tema dell’unità “antifascista” fra gli applausi della stampa filo-atlantica; tale manovra non ha però avuto molto successo, come si può desumere dall’approvazione della seguente dichiarazione – proposta dalla Sinistra Universitaria – da parte dell’assemblea studentesca, riunita il 3 giugno 1968 nella facoltà di Architettura: L’impetuosa espansione del movimento spontaneo di protesta in Francia dimostra che si vanno maturando nei paesi a capitalismo avanzato contraddizioni capaci di produrre crisi rivoluzionarie. Si verifica in questo modo l’infondatezza di tutte quelle strategie basate sull’equivoco teorico secondo cui la classe operaia nei paesi avanzati vada integrandosi nel sistema di sfruttamento imperialistico, e anzi si vede come si vada chiarendo che il centro delle contraddizioni dei sistema mondiale di sfruttamento risieda nel cuore del capitalismo, cioè nel paesi avanzati. Non a caso la crisi si è sviluppata così violentemente in Francia. Infatti, la Francia è il paese dell’Europa Occidentale dove il capitalismo di Stato ha raggiunto le forme più svi-

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luppate, e dove la centralizzazione delle scelte economiche è la più spinta. La posizione del PCF in questa situazione è stata quella di accettare in via subordinata la politica gollista, basata essenzialmente sulle forme del capitale di Stato, che ha trovato la sua condizione nell’elevata concentrazione del capitale bancario. La spinta delle lotte popolari sviluppate sulla base delle suddette contraddizioni ha lasciato scoperto il PCF, incapace strutturalmente di gestire e prendere la direzione di lotte rivoluzionarie. Ha finito per prevalere l’unica vera alternativa politica, che il l’UDI porta avanti, cioè la campagna per un fronte unico “antifascista” in chiave filo-americana con le forze della IV Repubblica: da François Mitterrand a Guy Mollet, noti lacchè del capitalismo americano. Così, come ha detto Mitterrand: «Si risponde a Parigi agli interrogativi posti a Praga», e si rinsaldano le nuove forze per il rilancio della coesistenza pacifica e dell’integrazione fra i sistemi mondiali di sfruttamento. Tale rilancio delle lotte “democratiche e antifasciste”, ultimo baluardo usato dai partiti revisionisti, è stato ratificato immediatamente dal PCI, espressione della destra internazionale delle forze opportunistiche. In definitiva, una forte spinta di lotte di base su contraddizioni centrali del capitalismo è stata utilizzata dalle forze opportunistiche per il rilancio in politica internazionale dell’atlantismo filoamericano, e in politica interna dei vecchi temi della cogestione titoista. È riconfermato così il valore fondamentale della concezione leninista del partito che si può in tal modo schematizzare: costruzione di un’organizzazione autonoma del proletariato in grado di imporre la sua dittatura e di contrapporre teorie rivoluzionarie a ideologie borghesi,

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il controllo operaio delle forze produttive allo sfruttamento capitalista, il popolo armato all’esercito borghese. In base a tali analisi l’assemblea rifiuta tutte le proposte di formale unità del movimento studentesco e ribadisce come la crescita del movimento non possa avvenire che sulla contrapposizione delle diverse analisi teoriche e strategiche.

Solo così si può evitare quell’ambigua unità, precipuo parto dello spontaneismo, che oggettivamente si pone al servizio dei gruppi più forti, ovvero delle centrali dei partiti ufficiali di sinistra.

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MOVIMENTO STUDENTESCO NAPOLETANO – ARCHITETTURA CRONACA DI OTTO MESI DI LOTTA STUDENTESCA A NAPOLI Dicembre 1967-luglio 1968

Premessa Questo testo costituisce, insieme a un documento sui fatti di Cecoslovacchia e a una discussione collettiva sulla rivoluzione culturale cinese, il primo atto politico con il quale il Movimento Studentesco di Architettura di Napoli ha ripreso in settembre la sua attività. Esso mira sostanzialmente a due scopi: il primo è quello di offrire al M.S. italiano la registrazione di un’esperienza che riteniamo significativa, poiché entra nel merito di alcuni nodi politici che sono tuttora aperti nel dibattito nazionale; il secondo è quello di offrire agli studenti napoletani e agli stessi studenti d’architettura una base di discussione, fondata non sulla contrapposizione di strategie alternative astratte, ma sul ripensamento critico di una fase di lotta, dal quale è necessario ricavare le ipotesi e le indicazioni per questo nuovo anno.

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Il fatto che si sia ritenuto di riprendere le attività con queste iniziative, rappresenta già di per sé un’indicazione del modo critico con il quale si guarda all’esperienza condotta. Da un lato, cioè, sottolineandone il valore esemplare nella situazione napoletana, nella misura in cui nei fatti e con la lotta ha dimostrato la funzione di freno che svolgono tutti coloro che sostengono la necessità di rimandare ogni intervento concreto alla dettagliata definizione di una strategia globale. Dall’altro lato, sottolineandone uno dei limiti principali nell’insufficiente livello del dibattito teorico che ha accompagnato lo svolgimento della lotta. Questa volontà di discussione concreta e generalizzata delle esperienze fatte giustifica anche il carattere narrativo del testo, che può apparire in certe parti troppo minuzioso: esso esprime la necessità reale di superare la fase di produzione del tipo di documenti politici che ha caratterizzato il primo anno di lotte, documenti che, avendo svolto una funzione assai positiva – non erano se non il riflesso di esigenze di autochiarimento oggi in gran parte superate, anche se non eliminate come indicazione di metodo, dai fatti. Gli antefatti L’occupazione di Architettura ha inizio nei primi giorni di febbraio 1968. Essa rinnova una tradizione di lotte ingaggiate dalla Facoltà di architettura prevalentemente sul piano disciplinare. Tali lotte investivano unicamente problemi di qualifica e aggiornamento professionale del tecnico-architetto: temi settoriali,

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corporativi, spoliticizzati nella misura in cui mistificavano il rapporto tra condizione universitaria e scelte politiche a livello generale. L’anno scorso il dibattito e lo scontro di vertice delle associazioni burocratiche universitarie si sviluppò su temi quali la legge 2314, l’Area di Ricerca, l’edilizia universitaria ecc.: ad Architettura questi temi erano vagamente ripresi all’interno di formulazioni di ipotesi dipartimentali alternative alla proposta governativa. Da questo scaturiva, a Napoli, la tesi dell’«autocommittenza», che significava la definizione di uno spazio di contrattazione nella disciplina e la ridistribuzione organica dei rapporti di potere a livello del territorio. Tutte queste formulazioni non avevano alcuna incidenza sulla gran massa degli studenti. Essa era incline a «sopportare» l’occupazione della sede sia per tradizione, sia perché tutto sommato rompeva la routine quotidiana. Questo purché l’agitazione non durasse tanto da compromettere gli esami. Non c’era alcuna possibilità che uno studente potesse riconoscersi nella lotta: essa era appannaggio di coloro che particolari capacità, attitudini, livello culturale rendevano idonei a ideare piani di intervento disciplinare (tesi a riorganizzare a un alto livello tecnico e culturale la facoltà). Quindi il disagio dello studente inserito in una struttura universitaria repressiva e autoritaria, oltre che arretrata, seppure determinava un interesse verso un’agitazione che oscuramente era sentita necessaria e rispondente a un bisogno soggettivo di partecipazione alle decisioni, cozzava inevitabilmente contro un muro

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di formulazioni «ad alto livello» che perpetuavano ipso facto nella stessa agitazione, la selezione ordinariamente in atto nell’Università. In concomitanza con l’inizio delle agitazioni in tutta Italia – e su temi comuni – queste ipotesi entrano in crisi: il confronto e gli apporti teorici e organizzativi delle varie sedi in lotta, il chiarimento di linea che ne deriva, insieme alla coscienza di combattere una lotta unitaria, e quindi alla necessità impellente di non rimanere isolati in falsi scontri, svolgeranno un ruolo fondamentale nel superamento degli obiettivi tradizionali e nel porre le premesse di una lotta di massa dentro e fuori l’Università. Nella fase iniziale delle lotte studentesche, lo scoppio prevalentemente spontaneo di agitazioni con carattere di massa coglie per lo più di sorpresa i partiti e i gruppi dissidenti della sinistra (carattere di spontaneità già analizzato da moltissimi documenti). Dai loro interventi in queste lotte sono riconoscibili due ordini di contrapposizioni, dalla cui risoluzione il movimento studentesco, fino ad allora verticistico e burocratico, diviene movimento di massa. a) Il primo ordine presenta posizioni contrapposte non conciliabili. Esse danno interpretazioni diverse del movimento studentesco e diverse ipotesi di sbocco politico, riconducibili all’analisi del rapporto Università-società, e in generale del rapporto lotte particolaristategia globale. Da un lato si sviluppa la tesi dell’«uso sociale delle scienze e delle tecnologie». Vi si prevedeva l’approntamento di «modelli d’uso» delle scienze, alternativi a quelli esistenti e, rivendicando all’Università la gestione

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degli aggiornamenti tecnologici (in correzione all’ipotesi dipartimentale governativa), la si concepiva come centro di programmazione A tutti i livelli in questo modo si pretendeva di «usare socialmente» le scienze in una società capitalistica. Si predisponeva in tal modo il settore Università ad una pacifica transizione verso la «società socialista» in conformità con una strategia di «riforme di struttura». Discendono da questa posizione una serie di proposte politico-organizzative, che vanno dal rilancio delle alleanze UGI-Intesa, alle prefigurazioni di sindacati unitari operai-studenti, alle operazioni di oggettiva copertura a sinistra dei gruppi entristi. In tutte queste proposte si riconosce la tendenza a cristallizzare il movimento su obiettivi che riguardano specificamente l’Università, nel tentativo di sintonizzarlo, in veste sindacale, alle altre lotte settoriali in corso nel paese. Ciò comporta espressamente la delega dell’organizzazione delle lotte ai partiti della sinistra ufficiale e, sia ben chiaro, non nella convinzione che tali partiti, essendo rivoluzionari, possano esaurire il compito di unificare queste lotte, ma nell’adesione esplicita a una linea riformista. Dall’altro lato si definisce una posizione che rifiuta questa logica di integrazione e, interpretando correttamente il rapporto Università-società, rileva che la scuola, come istituto produttivo di forza-lavoro intellettuale, costituisce un meccanismo importante e delicato all’interno del sistema, e che qualsiasi riforma delle strutture universitarie è in ultima analisi funzionale alle tendenze razionalizzatrici dello sviluppo capitalistico. Ne consegue il rifiuto di ogni strategia riformista, e la volontà di porre anche nell’Università le premesse della costruzione di una forza politica rivoluzionaria.

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Dallo scontro di queste tendenze venne fuori chiaramente che non soltanto un corretto uso sociale delle scienze e delle tecnologie non può avvenire senza un controllo collettivo, ma che non si può avere tale controllo senza attuare prima il rovesciamento del sistema. Su questa base si viene a tracciare una netta linea di demarcazione tra la linea dei partiti della sinistra e tutte le forze marxiste-leniniste dell’arco extraparlamentare. L’appartenenza a quest’area extraparlamentare non è d’altro canto di per se stessa sufficiente a definire una precisa linea rivoluzionaria. b) All’interno di quest’area si evidenzia una seconda contrapposizione in riferimento ai problemi di metodo e di organizzazione. Si trovano così di fronte due tendenze, che, pur cogliendo ambedue il salto qualitativo che il movimento ha compiuto, propongono soluzioni diverse. Da una parte la convinzione che l’organizzazione debba preesistere alla lotta politica porta come conseguenza la presunzione di potere elaborare, attraverso la disputa ideologica, la linea politica da calare poi nella realtà del movimento. Dall’altra invece si ritiene che soltanto collegandosi continuamente con le lotte reali («dalle masse alle masse») si possa raggiungere un livello organizzativo che corrisponda al livello delle lotte e, al tempo stesso, ne indirizzi gli sbocchi. Queste contrapposizioni costituiscono il terreno di scontro e di sviluppo del movimento a Napoli nel periodo che va da dicembre a febbraio.

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Le agitazioni di dicembre e il ruolo della Sinistra Universitaria A dicembre dell’anno scorso, sulla presentazione in parlamento del progetto di legge Gui-Codignola, l’Ateneo napoletano si mobilita. La Sinistra Universitaria1, che interviene nelle lotte, definisce la propria posizione a livello politico generale nei termini seguenti: lotta al revisionismo e ai partiti della sinistra ufficiale. Rifiuto delle tesi sindacaliste, necessità di generalizzazione dei contenuti politici e di collegamento delle lotte particolari nella prospettiva di radicalizzare la lotta contro il sistema. Individua inoltre i compiti dell’intervento nell’Università nella demistificazione del ruolo dei professori «rinnovatori», delle proposte di cogestione La Sinistra Universitaria nasce come corrente di sinistra dell’UGI: al congresso napoletano di questo organismo, la dissidenza di sinistra si presenta con tesi politiche precise, riferite specialmente alla natura dell’imperialismo e alla critica delle tesi sovietiche della coesistenza pacifica. A queste tesi aderisce un numero notevole di partecipanti al congresso, ma la vecchia dirigenza, mediante vari trucchi e metodi burocratici e terroristici (per es. iscrizioni fasulle, accettate all’ultimo momento), riesce a recuperare, seppure soltanto di stretta misura, la maggioranza. La radicalizzazione delle posizioni antiriformiste e in particolare anti-UGI (compresa la cosiddetta «sinistra» di Rimini), avvia però necessariamente una rottura con l’UGI. Una manifestazione di questa rottura si aveva in occasione di un’assemblea promossa dalla S.U. qualche giorno dopo l’uccisione di Guevara e culminata in una mozione della stessa S.U. con proposte di occupazione della sede universitaria. Le lotte di dicembre infine, sancivano nei fatti e nella forma la frattura con l’UGI e nello stesso tempo verificavano il completo esautoramento di questa organizzazione. 1

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e quindi nella necessità di utilizzare le fette di potere conquistate nelle Università per combattere la società capitalistica nel suo complesso. Il ruolo della S.U. nella direzione delle lotte va definendosi sempre più chiaramente nei dibattiti e nelle assemblee, che vengono sempre più investiti di temi politici di ampia portata, e nel confronto delle sue posizioni con quelle dei burocrati e dei rappresentanti dei partiti della sinistra ufficiale. La massa degli studenti prende coscienza degli stretti rapporti tra il piano Gui e la programmazione nazionale; della falsità di proposte di riforma e di emendamenti alle proposte stesse; dell’autoritarismo accademico come riflesso dell’apparato autoritario dello Stato. In sostanza «… Il m.s. comprende che ormai è un fatto arretrato rivolgere l’attenzione, lo spirito di osservazione esclusivamente o anche principalmente su se stesso perché la conoscenza di se stesso è indiscutibilmente legata alla conoscenza esatta dei rapporti reciproci di tutte le forze agenti nella società contemporanea, conoscenza non tanto teorica, quanto ottenuta attraverso l’esperienza della vita politica» (doc. S.U. di dicembre). Gli scontri con la polizia che seguirono alla violazione cosciente, da parte degli studenti delle «regole del giuoco», permisero di smascherare la vera natura, profondamente autoritaria, della società in cui viviamo, mentre le letture collettive di Stato e rivoluzione nei controcorsi tendevano a rendere chiara la funzione repressiva dello stato borghese, e che solo la rottura della macchina statale può rappresentare l’inizio di una società non fondata sullo sfruttamento.

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L’attività politica che la S.U. svolge nel periodo successivo a dicembre 1967 mostra però la debolezza fondamentale di questa formazione. Notevole in questo senso la sottovalutazione del ruolo svolto – nel determinare la situazione di lotta – dalla crisi in atto da tempo delle rappresentanze studentesche. Ciò conduce – tra l’altro – a una sopravvalutazione della linea politica, nel senso che la S.U. si illude che sia stata solo la giustezza di una linea politica a creare il Movimento Studentesco. Questo conduce la S.U. a grossi errori politici: l’abbandono dell’Università come luogo di confronto di ipotesi politiche diverse; la costante rinuncia ad una attività di politicizzazione degli studenti tesa a elevarne il livello di coscienza; la non comprensione della funzione oggettiva del M.S. in quanto tale. L’attività politica della S.U. si restringe così a una pura opera di addestramento ideologico dei quadri che sono venuti fuori dalle lotte precedenti. In sostanza, essa cade nell’illusione di potere arricchire e proseguire la propria ricerca teorica prescindendo dallo sforzo di verificarne i termini attraverso un lavoro politico costante a ogni livello e in ogni settore del movimento: in tal modo, la S.U. abdica di fatto alla propria funzione orientativa e abbandona praticamente intere parti del movimento all’azione spicciola ma costante dei riformisti, con grave pregiudizio delle possibilità immediate di proseguimento della lotta. Inoltre essa adduce proprio questa conseguenza del suo assenteismo politico come verifica delle sue valutazioni, le quali invece ne costituiscono chiaramente le premesse. Una conferma di questa diagnosi si avrà infine – come si dirà – nella completa assenza della S.U. dal lavoro operaio sviluppato in seguito dal movimento.

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La prima fase dell’occupazione di Architettura L’agitazione si apre nei primi giorni di febbraio, verificando una serie di carenze nella didattica portando avanti il discorso iniziato a ottobre con la presentazione in parlamento della 2314. (Allora si tentò per due volte consecutive di occupare la facoltà: la polizia intervenne dopo poche ore e portò in Questura, schedandoli, tutti i numerosi occupanti. Un mese dopo si partecipò all’occupazione dell’Università Centrale e, invece, nella facoltà si ebbe un tipo di occupazione «bianca», che diede un carattere di instabilità alle consuete attività che vi si svolgevano). L’assemblea di occupazione si definisce inizialmente «… come unico momento di analisi della didattica… momento permanente e organizzativo per la ristrutturazione disciplinare della Facoltà nelle sue connessioni politiche col territorio», ma già esplicita il rapporto di repressione tra corpo docente e massa studentesca, e si pone nella prospettiva delle lotte nazionali del movimento. Il gruppo di punta dell’agitazione conserva la denominazione formale di UGI-Architettura. In un documento così firmato, del 9 febbraio, si demistificano le profferte di «dialogo» da parte del corpo accademico, ponendole in relazione a provvedimenti come il disegno di legge 2314 e la legge di P.S. Si rivendica «il ruolo politico degli studenti» e si dichiara la volontà di sovvertire i rapporti di potere nell’Università; si pone tutto questo in relazione alle tensioni esistenti in altri settori della società, ed infine si rivendica la gestione degli aggiornamenti tecnologici contrapponendo al dipartimento della 2314 la generica proposizione dell’«uso sociale delle scienze» […].

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Nell’ultima decade di febbraio si presero diverse iniziative nella Facoltà. Si diffuse un questionario per registrare l’interesse e la convergenza politica degli studenti: i dati ricavati registrarono un atteggiamento positivo nei confronti dell’agitazione ma anche un basso livello d’informazione politica sui temi generali come sui temi specifici del movimento. Inoltre vennero fatti girare alcuni documenti pervenuti dalle altre sedi in lotta e un’analisi della 2314, e furono proiettati film a contenuto politico. Queste iniziative, atte a sviluppare il senso dell’associazione, della discussione in comune, della critica ebbero la funzione limitata ma positiva di chiarire agli studenti più attivi i termini politici della loro partecipazione all’agitazione. L’attività più rilevante di questo periodo fu il seminario sulla «forza-lavoro intellettuale», partito come iniziativa spontanea di un compagno che in un’aula avviò una serie di discussioni collettive. Esse tendevano a chiarire le modificazioni della figura tradizionale dello studente, riconducibili allo sviluppo tecnologico e alle scelte produttive che tendono a coinvolgere sempre più direttamente l’università: fornivano così agli studenti politicamente più attivi argomenti direttamente utilizzabili, e agli altri la possibilità di motivare politicamente il proprio scontento nei confronti della scuola. Queste e altre osservazioni – soprattutto in seguito – dimostrarono che l’informazione politica svolge un ruolo fondamentale ai fini della lotta contro l’ideologia dominante, come sforzo per garantire l’autonomia del movimento sostituendo alle fonti d’informazione ufficiale anche a livello della cosiddetta «opinione pubbli-

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ca» – una «controinformazione» continua e articolata (di cui si è rilevata la carenza un po’ dappertutto). Nel frattempo, la stampa comincia a interessarsi alla nostra occupazione. Il «Mattino», organo del Banco di Napoli, ospita una lettera dei docenti che condanna le agitazioni. Nello stesso periodo, si verifica il grave fatto dell’occupazione fascista alla Centrale, in seguito alla quale vengono presi contatti con i gruppi politici delle altre facoltà (in particolare con la Sinistra Universitaria). Una fase di transizione A una fantomatica occupazione UGI (realizzata mediante il compromesso con forze di estrema destra che collaboravano all’occupazione), che aveva la funzione oggettiva di rappresentare, col benestare degli accademici, le istanze qualunquiste presenti fra gli studenti, era succeduta una occupazione esplicitamente fascista, per la quale le «forze sane» erano state mobilitate dalla provincia e altre città. Si poneva così un problema d’immediato intervento contro l’occupazione «padronale»: a tale scopo fu convocata ad Architettura un’assemblea generale, cui partecipò il «plenum» della S.U. con il quale si concordò una linea immediata di azione. Si approvò una mozione in cui si intendeva «superare la generica piattaforma antifascista falsamente unitaria» e si chiedeva l’occupazione dell’ateneo napoletano a tempo indeterminato, nella prospettiva che il dialogo e il confronto politico apertosi tra i gruppi componenti il movimento si concretasse nella elaborazione di una li-

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nea unitaria definita già dai tre settori di contestazione di cui si è detto. Ciò che seguì è intuibile dal contenuto di un volantino a firma del CUC di Architettura, che denunziava le responsabilità nella S.U., la cui assenza completa dalle lotte a febbraio dimostrava il distacco dalla massa studentesca e l’incapacità o la non volontà di colmarlo. Il volantino aggiungeva: «… prevaricando le decisioni dell’assemblea del 3 marzo e quindi non dando luogo all’occupazione dell’Ateneo napoletano, né a un possibile approfondimento operativo e di lotta, la S.U., garantita dal “ripristino dell’ordine” da parte dei fascisti, indiceva, sulla base di un generico consenso legalitario, un’assemblea generale le cui conclusioni si concretizzavano, su indicazione della Sinistra stessa, in una ulteriore volontà di non partecipazione alla lotta che oggi investe tutti gli atenei italiani». (Queste decisioni erano significativamente avallate dai residui dell’UGI e dal gruppo Che Guevara). «Ciò significa che in questo momento a Napoli, la S.U., lasciando che si verifichino tali fenomeni (occupazione fascista), danzi essendone la principale responsabile, si pone come l’ultimo ‘questurino’ del capitale, quando concede a quest’ultimo di garantirsi nello svolgimento delle ‘serene e normali attività didattiche’». Alla Centrale tra assemblee «oceaniche», straordinarie filiazioni e mutuazioni di gruppi qualunquistici (ad es. il «gruppo costiera amalfitana») rapidamente dissolti nel nulla, fantomatici comitati di agitazione, in breve nella assoluta mancanza di una qualunque di reazione politica, 1e tensioni si attenuarono e si sciolsero nella operosità quotidiana degli esami.

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Verso una linea di massa Nel frattempo, il 7 marzo, su iniziativa della Sinistra Architettura, si apre la prima seduta del «seminario di sociologia marxiana» con la collaborazione dei “Quaderni Rossi”, che introduce, come, apporto teorico sostanziale, la tesi della proletarizzazione crescente che investe progressivamente in senso «verticale» (secondo la dizione borghese di strati sociali) i lavoratori intellettuali. La seconda seduta del seminario che registra al pari della prima un’affluenza notevolissima – si trasforma in assemblea di occupazione. Questo fatto indica che il Seminario, rinunciando a un carattere di «conferenza», aveva assunto il ruolo essenziale e diretto di organizzazione politica e di lotta. Vi hanno luogo scontri tra varie tendenze presenti nel movimento: da un lato quelle che oggettivamente (anche se non per collocazione soggettiva dei compagni) si ponevano al di fuori della logica dei partiti della Sinistra ufficiale, e in quanto tali potevano trovare momenti di confluenza nella lotta; dall’altro quelle che in una visione ancora «sindacal-politica» volevano strumentalizzare il Movimento studentesco per conto dei partiti. […] Il giorno 23, un documento unitario approvato dall’Assemblea di occupazione sancisce definitivamente il dissolversi dei gruppi, che confluiscono nella denominazione di Movimento Studentesco Architettura, e nella adozione esplicita della linea di massa. Questo comporterà un temporaneo stato di crisi dell’attività al livello di Ateneo, ma servirà a chiarire significato e metodi dell’estensione della lotta e indirizzerà per il periodo successivo verso il

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collegamento con la classe operaia. I punti fondamentali del documento sono: l’individuazione, per il passaggio da tipi di organizzazione indiretta (delega della gestione delle lotte agli Organismi Rappresentativi prima e ai gruppi politici poi) a tipi di democrazia diretta, di tre forme di organizzazione intermedia che realizzino “il rapporto tra il singolo studente atomizzato e lo strumento decisionale (assemblea generale)”. Esse sono: a) contro-corsi, come momento di autogestione della didattica e della ricerca, intesi solo come momento di Università critica e non di Università negativa; b) seminari come momenti di elaborazione di ipotesi politiche per l’organizzazione del m.s. su basi unitarie; c) commissioni interfacoltà, che realizzino l’obiettivo politico del m.s., di estensione della lotta a tutti i livelli della scuola (istituti tecnici, scuole serali, aziendali, ecc.). Nei giorni seguenti si tengono incontri con quadri operai della Italsider, dell’Olivetti e di altre fabbriche La positività della conoscenza di temi e problemi reciproci viene però messa in forse dal fatto che questi operai, esponenti dei sindacati e dei partiti ufficiali, intendono la collaborazione tra classe operaia e movimento studentesco unicamente nei termini di una generica solidarietà, per cui si disconosce o si mistifica la validità e la necessità di una lotta unitaria. Questo crea un’ulteriore spinta verso la sperimentazione diretta, cioè verso il contatto non mediato con la base operaia sotto le fabbriche, tenendo conto anche dell’interesse che le lotte degli studenti hanno

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provocato negli operai, soprattutto in rapporto alle repressioni poliziesche. Da parte della stampa borghese è evidentissimo il tentativo di creare una situazione di odio operaio nei confronti degli studenti. D’altra parte, è opinione corrente che non ci sia nessuna affinità tra le lotte operaie e quelle studentesche; che i problemi siano diversi, anzi opposti, dato che gli studenti saranno «la classe dirigente di domani». Dall’esigenza di chiarire questi e altri equivoci, dalla necessità di stabilire un rapporto reale con la classe operaia nasce un primo volantino diffuso all’Italsider e all’Olivetti. Vi si spiegano le ragioni della protesta e della lotta degli studenti come in realtà il nemico da sconfiggere sia lo stesso (i padroni delle fabbriche sono gli stessi che controllano le università), come soltanto l’unità fra gli oppressi possa realizzare quest’obiettivo. S’incomincia a discutere con gruppetti di operai all’entrata e all’uscita dal lavoro. Il movimento coinvolge un numero sempre maggiore di studenti nelle sue attività. Un’affollata assemblea approva, il 10 aprile, un documento che abbraccia nelle sue articolazioni l’attività organizzativa globale del m.s. La linea di massa Nella facoltà di Architettura, agli inizi di maggio, è ormai maturata la consapevolezza che l’occupazione è di freno piuttosto che d’incentivo agli sviluppi delle possibilità reali di lotta e che, d’altro canto, i vantaggi che da essa potevano derivare sono ormai in gran parte già maturati. Il lungo periodo di occupazione ha infatti

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contribuito in maniera determinante alla precisazione di un discorso politico, alla preparazione almeno potenziale di una serie di quadri. Ma le responsabilità connesse all’occupazione e la difficoltà di estendere in questa situazione il discorso alla massa degli studenti e ad altri strati sociali, tende ormai a generare pericolosi sintomi di stanchezza e a riprodurre fenomeni di settarismo e di divisione che nei momenti di maggiore tensione sembravano scomparsi. Appare ormai chiaro, cioè, che le possibilità reali di sviluppare operativamente la linea politica definita «dei tre livelli», e precisata nel documento del 10 aprile, sono, di fatto, impedite proprio dalla situazione di occupazione, la quale, come scelta a quel punto sostanzialmente difensiva, ha per effetto una carente partecipazione della massa degli studenti al complesso delle attività. Il dibattito intorno alle posizioni politiche sulle quali porre termine all’occupazione si sviluppa in modo aspro, focalizzandosi intorno a due ordini di problemi. Da parte di alcuni si dichiara la necessità di salvaguardare l’autonomia del movimento da ogni tentativo di implicarlo in forme di cogestione della Facoltà, e di immetterlo nel vicolo cieco di illusioni «autogestionistiche». In tal senso si propone di sviluppare le indicazioni politiche fornite dal documento di Rieser pubblicato sull’“Astrolabio”, relative alla distinzione, nell’Università, tra uno spazio politico, autonomamente gestito dal movimento, e il tradizionale spazio della didattica e della ricerca, da lasciare nelle mani dei burocrati. Da parte di altri si insiste sulla necessità (resa pressante proprio dal fatto che l’elaborazione politica sviluppata durante l’occupazione non aveva coinvolto l’intera

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massa degli studenti della Facoltà) di non assumere posizioni che possano apparire come rinunziatarie e difensive; e quindi sulla necessità di puntare su un discorso che, pur politicamente chiaro e niente affatto compromissorio, contenga momenti direttamente riferiti alla situazione concreta delle facoltà e degli studenti e quindi renda possibile un immediato rilancio della lotta al livello di massa. Il dibattito su queste posizioni, nella misura in cui ciascuna di esse, specificandosi in proposte concrete, tende ad apparire meno netta e a prestare il fianco ad accuse di settarismo da un lato e di riformismo sindacalistico dall’altro, si sviluppa sia nelle assemblee permanenti di occupazione che in assemblee più vaste nelle quali comincia a essere rilevante la partecipazione di larghi strati di studenti finora non interessati agli sviluppi della lotta. Il dibattito, anche se con molti limiti, serve a chiarire le differenti posizioni, e comunque a mettere in luce la necessità di porre termine all’occupazione su una linea unitaria, pena la frantumazione e il ritorno all’atteggiamento difensivo per quanto riguarda le prospettive di azione. Un denominatore comune sulla scelta di linea era del resto già presente di fatto nelle elaborazioni politiche compiute, e si specifica in un documento del 14 maggio […]. La stampa cittadina (come il monarchico “Roma” e soprattutto il “Mattino”, controllato dal clan dei Gava) saluta con soddisfazione la cessazione dell’occupazione e, più, o meno esplicitamente, fa colpa al corpo docente di incapacità di controllo della situazione. È soprattutto diffuso il riferimento alla Facoltà di Ingegneria, dove la mancanza di tradizioni di lotta, la

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situazione meno arretrata dell’organizzazione della didattica e della ricerca, la maggiore disponibilità alla ricettività di un discorso tecnocratico, ma anche la più articolata e abile presenza dei docenti, avevano permesso di imprigionare l’occupazione nell’ambito di proposte puramente ristrutturatrici della facoltà e di darle quindi uno sbocco riformistico. Il 27 maggio si giunge a una grande assemblea ad Architettura. Si ha un dibattito aspro, vengono presentate due mozioni contrapposte: una, sostanzialmente basata sulla proposta di dialogo con i docenti, dell’agonizzante Gruppo Autonomo; una seconda del gruppo che ha diretto l’occupazione e che ripropone, sia pure in termini più specificamente universitari, la propria linea politica e indice una serie di assemblee nella facoltà aperta. La seconda mozione passa a stragrande maggioranza. È l’inizio di un’estensione a livello di massa della linea politica elaborata durante l’occupazione, cosa che non manca di produrre azioni, avvertibili nello sconcerto del gruppo docente e nei commenti degli organi di stampa. (Il “Mattino” sottolinea amaramente e minacciosamente che gli studenti avrebbero deciso di perdere l’anno accademico) […]. Il 1º giugno una manifestazione sui fatti di Francia. Centro di organizzazione è la facoltà di Architettura, unica facoltà mobilitata, e di fatto unico centro politico, a Napoli, in grado di lanciare la parola d’ordine della manifestazione. Ad essa partecipano circa millecinquecento persone; dopo una breve assemblea nel cortile della facoltà, si forma un corteo che percorre per due ore circa le vie del centro cittadino, crescendo man mano. Raggiunta la sede dell’Università Centrale, viene

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occupato il tratto di strada di fronte all’ingresso e vi si svolge una pubblica assemblea che paralizza il traffico. La manifestazione, per quanto riuscita dal punto di vista organizzativo, conferma i limiti della situazione politica. Da un lato, il M.S. di Architettura è divenuto ormai l’unico punto di riferimento del M.S. Napoletano; d’altra parte, le parole d’ordine che fa proprie non vanno ancora molto più in là della solidarietà generica con gli operai e gli studenti francesi e della rivendicazione alla propria lotta di un contenuto anticapitalistico. Si giunge così, nella seconda metà di giugno, a un’assemblea che approva un documento che riassume tutti i termini del discorso politico finora elaborato e che, riaffermando la necessità di combattere l’autoritarismo, fa il punto sulla situazione della facoltà di Architettura, sull’impossibilità di distinguere «tra professore progressista e professore reazionario, tra autorità tecnica e autoritarismo, tra scuola attuale e scuola riformata», conferma che l’unica «possibilità di un reale mutamento della scuola è in un corrispondente mutamento della società e quindi in una emancipazione delle classi sfruttate»; e precisa infine che «quanto interessa al movimento non è la gestione (parziale o totale) della scuola, ma al contrario la gestione dell’autonomia politica eversiva del movimento stesso», la «gestione della crisi permanente della scuola come base per l’estensione dell’agitazione a una base sociale più vasta, e quindi per la costruzione di un rapporto diretto con le lotte operaie e contadine». Gli studenti di Architettura, per sottolineare il carattere «di non contrattazione» che il documento approvato riveste, danno inizio a una serie di momenti

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di mobilitazione nella facoltà, che si concretano nell’iniziativa di isolare singolarmente i docenti, invadendo in massa gli istituti o bloccandoli nelle aule, per costringerli a discutere nel merito le proposte fatte e quindi ridicolizzarli e demistificarne il ruolo puramente repressivo agli occhi di tutti. Tale iniziativa si sviluppa con larga partecipazione degli studenti e successo politico, e costringe la maggior parte dei docenti ad accettare, almeno in termini ufficiosi, le proposte del movimento. Si giunge infine a interrompere il consiglio di facoltà, invadendo l’aula. Il lavoro operaio Parallelamente a tale sviluppo della lotta nella facoltà si dà inizio all’unica esperienza di lavoro operaio che sia stata compiuta dal M.S. napoletano, almeno a livello di iniziativa di massa e fuori dall’ipotesi dei partiti della sinistra. Gli studenti di Architettura, come è già stato detto, avevano avviato dei contatti con gli operai di alcune fabbriche mediante volantinaggi e assemblee in facoltà nel periodo di occupazione. L’iniziativa si sviluppa ora in occasione di uno sciopero degli operai dell’Italsider di Bagnoli, sciopero iniziatosi spontaneamente in alcuni reparti al di fuori del controllo dei sindacati e poi proclamato unitariamente da CGIL, CISL e UIL (e sostenuto anche dalla CISNAL). È in occasione di un’assemblea in facoltà, a cui partecipano esponenti della SDS tedesca di passaggio per Napoli e alcuni operai di una fabbrica occupata (la CGE di S. Giorgio a Cremano), che gli studenti di

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Architettura decidono di distribuire il volantino di invito agli operai in sciopero dell’Italsider. L’incontro è estremamente interessante e dimostra come i fatti di Francia abbiano profondamente inciso nella coscienza degli operai, che ad essi fanno espresso riferimento sollecitando un intervento degli studenti. Sull’entusiasmo frutto di questo primo incontro, si sviluppa l’iniziativa studentesca. Gli studenti decidono di portare avanti l’iniziativa sulla base della seguente linea politica: l’obiettivo minimo è di verificare in concreto con gli operai ipotesi comuni di lavoro politico, sulla base della costituzione di comitati misti, nella più completa autonomia dai partiti e dai sindacati. Si ritiene corretto rifiutare ogni mistificato ruolo di avanguardie del M.S.: quindi non intervenire come portatori di indicazioni politiche da calare dall’alto, ed evitare ogni attacco aprioristico a partiti e sindacati. Ciò nonostante si ritiene legittimo avviare i contatti sulla base della propria esperienza politica, e quindi dai temi politici che, da essa emersi, vengono considerati generalizzabili: tra questi, fondamentalmente, l’originalità del M.S. come movimento anticapitalistico nato dalla coscienza della proletarizzazione della forza lavoro intellettuale, e costruito sulla base del rifiuto di ogni forma di burocratismo e sulla consapevolezza della mistificazione capitalistica della divisione della società in settori. Una prima fase dell’intervento studentesco all’Italsider inizia il 27 giugno ed è caratterizzata da due volantini successivamente distribuiti. Il primo volantino, distribuito per diversi giorni, presenta due caratteristiche di fondo: da un lato, ten-

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de a chiarire la posizione del M.S., anche in rapporto alla campagna di stampa volta a prevenire un possibile collegamento fra il M.S. e gli operai denunziando all’opinione pubblica gli studenti come «figli di papà»; dall’altra si tenta di chiarire agli operai che, soprattutto dal punto di vista delle forze organizzative della lotta, gli studenti potrebbero dare un contributo. In questo senso si dice: «nell’università per vivere si vende la libertà di ragionare, pensare, decidere con la propria testa. E quando ci si è bene abituati così si va a comandare in fabbrica. Ecco perché i cosiddetti privilegiati, gli studenti, si sono ribellati». Poi «la lotta di massa ha superato gli organismi rappresentativi… questo ha significato: rifiuto della burocratizzazione, partecipazione alle decisioni da parte di tutti, coscienza che soltanto la forza che deriva dall’unità può costringere gli avversari a cedere». Nel secondo volantino si danno indicazioni sulla linea politica, approfondendo il discorso sull’unità: «l’incontro tra operai e studenti davanti alla fabbrica non è stato casuale, … il nemico è comune, gli obiettivi sono comuni… abbiamo capito che la maggior parte delle cose che nell’università come nella fabbrica ci fanno ingoiare come necessità tecniche, in realtà non sono altro che trucchi per dividerci, per ridurci a bestie che dicono sempre di sì… vogliamo essere noi a decidere, ciò che ci riguarda…». In questa fase sono da sottolineare alcuni aspetti fondamentali. In primo luogo, l’immediata disponibilità degli operai alla discussione con gli studenti. Gli atteggiamenti di esplicito rifiuto al colloquio sono praticamente nulli, anche se dalle discussioni di fronte

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allo stabilimento emerge chiaramente una maggiore diffidenza degli operai più anziani rispetto ai più giovani. Tale diffidenza per altro è spiegabile – come si è rilevato nel corso stesso dell’intervento – non tanto come conflitto di generazioni, ma piuttosto tenendo conto delle caratteristiche della classe operaia napoletana, in cui i più anziani, spesso provenienti da altre attività, sono anche i più dequalificati. In questo quadro, due interventi di un sindacalista della CISL e di uno della CISNAL, che in circostanze diverse cercano di allontanare gli studenti, si configurano come vere e proprie «gaffes», e sono rintuzzati – ciò che e più importante – dagli stessi operai. La presenza studentesca viene interpretata in modi diversi, e prevalentemente in termini generici di solidarietà: comunque, la speranza esplicita è che porti a forme di lotta più incisive. Il dato rilevante è la diffusa coscienza che essa sia il segno di un’estensione dei problemi della fabbrica ad altri strati sociali e quindi un superamento dell’isolamento operaio. È sufficiente portare un megafono per improvvisare un’assemblea nella piazza di Bagnoli, davanti all’ingresso principale della fabbrica che dà direttamente sull’abitato. Viene bloccato il traffico sulla strada e sulla ferrovia secondaria locale, si verniciano con svastiche e scritte sul Vietnam automobili della NATO di passaggio nella zona. Gli studenti, su indicazione di alcuni giovani operai, invitano a entrare in fabbrica per continuare l’assemblea sotto gli edifici della direzione. Gli operai sono tutti d’accordo ed entrano scardinando i cancelli, mentre gli studenti sollecitano i più restii formando cordoni.

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In questa fase, l’atteggiamento della FIOM-CGIL è estremamente prudente. Evita di prendere posizione contro gli studenti, e in un volantino invita gli operai a isolare solo quei gruppi (qualificatisi come espressione del P.C.d’I. o dei trotskysti), i quali vengono significativamente definiti «non studenteschi». Cerca il colloquio con gli studenti i quali accettano un incontro nella sede locale, pur dicendo chiaro agli operai che il loro interesse non è rivolto al contatto mediato dalle organizzazioni ufficiali. Più preoccupato appare l’atteggiamento del PCI che, invitati gli studenti a un incontro nella locale sezione del partito, lo manda poi a monte senza giustificazione. Il primo indice di frizione si ha in occasione di un’assemblea in cui i sindacati comunicano agli operai i risultati di un incontro presso la prefettura. Uno studente viene invitato a intervenire, ma non appena comincia a far riferimento ai fatti di Francia, alcuni sindacalisti e membri di commissione interna cercano di togliergli il megafono. Comunque, dopo questa prima fase, si apre un secondo periodo, in cui gli studenti adottano la tattica di evitare scontri con le organizzazioni sindacali e di partito, almeno finché non si siano maggiormente approfonditi ed estesi i contatti con gli operai. Così ogni mattina, all’ingresso in fabbrica, sono presenti circa una cinquantina di studenti (numero che sfiorerà il centinaio nei momenti di maggiore tensione) che, approfittando del fatto che lo sciopero prevede un ritardo di un’ora e mezzo sull’entrata di ogni turno rispetto all’orario normale, organizzano il maggior numero possibile di discussioni su varie questioni, formando numerosi capannelli davanti a tutti gli ingressi. Ci si

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sforza soprattutto di rendere esplicito il contenuto dei volantini distribuiti, il significato della propria presenza, e l’esperienza della lotta basata sul rifiuto di ogni delega e sull’assemblea come momento di elaborazione e di decisione collettiva. Si verificano in questa fase due nuovi fenomeni: da un lato, l’iniziativa degli studenti di Architettura, pur verificandosi in un periodo in cui l’Università è sostanzialmente vuota, comincia a rappresentare un momento di unificazione per singoli e per gruppi delle varie facoltà, interessati all’esperienza che si va sviluppando. In tal senso gli studenti di architettura ritengono di riassumere, in questa fase della loro iniziativa, i contenuti del M.S. napoletano nel suo complesso: da questo momento in poi, per sottolineare e questa volontà, i volantini verranno firmati non più come commissione fabbrica del M.S. architettura, ma come M.S. napoletano. Dall’altro lato, il P.C. d’Italia intensifica in questa fase la sua presenza, sia pure con una partecipazione numerica estremamente limitata: ma le parole d’ordine che esso adotta si rilevano errate sul piano tattico: in particolare l’attacco aprioristico ai sindacati e la parola d’ordine del nuovo sindacato, appaiono agli operai come calati dall’alto e sono poco recepiti. Ciò sostanzialmente per due motivi: primo, perché queste parole d’ordine vengono presentate dall’esterno come ricette di per sé risolutive, e non possono quindi essere sentite come proposte alla cui costruzione abbiano partecipato gli operai tutti; secondo, perché nella difficile fase di sciopero in atto il sindacato pur aspramente criticato dagli operai, è comunque ancora sentito come garanzia minima non di uno sbocco positivo delle lotte – che gli

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operai sanno dipendere essenzialmente dalla propria combattività – ma della difesa a livello istituzionale dei loro interessi di categoria. In questa situazione s’intensifica il tentativo, da parte dei partiti e dei sindacati, di strumentalizzare gli studenti, avallandone la presenza nei termini della solidarietà e dall’appoggio generico agli operai, e quindi sostanzialmente presentandoli come alternativa all’intervento del P.C. d’Italia. Il tentativo viene apertamente respinto dagli studenti, che sostengono la legittimità di qualsiasi intervento fatto da compagni, indipendentemente dalle divergenze tattiche o strategiche. La situazione, però, precipita rapidamente. Il 5 luglio, in un’assemblea generale nella piazza di Bagnoli, i sindacati propongono agli operai due giorni di sospensione dello sciopero perché si possano sviluppare le trattative presso la prefettura. È opportuno chiarire che i sindacalisti avevano più volte, nelle assemblee precedenti, preso l’impegno che le trattative sarebbero avvenute con le agitazioni in corso, e che ogni proposta sarebbe stata discussa in assemblea generale prima di essere accettata. Gli operai urlano il loro rifiuto; in particolare un gruppo di operai giovani insiste per un intervento degli studenti, mentre sindacalisti e membri di commissioni interne cercano di opporvisi. Il segretario provinciale della FIOM, di fronte alla chiara manifestazione della volontà degli operai, nega il megafono a uno studente insultandolo, dichiara sospesa per un breve intervallo l’assemblea e si allontana. Lo studente può allora intervenire ribadendo tra gli applausi due concetti fondamentali presentati come frutto dell’esperienza di lotta del M.S.: la necessità

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di non sospendere la lotta, unica arma per imporre al padrone la volontà operaia, e la necessità che a decidere della lotta in tutti i suoi aspetti siano gli operai con assemblee permanenti, che realmente siano l’espressione della volontà di tutti e non truccate ad uso e consumo dei sindacati. Dopo questa assemblea, gli studenti elaborano un volantino, che presentano agli operai all’uscita dei turni. Si approfondisce il tema dell’unità: «Il padrone è forte perché ha tutti gli strumenti per opprimerci… lo strumento più efficace è quello di dividerci… prolungare, rimandare, rinviare le trattative… ciò che oggi ci ha uniti più di ieri è stata la volontà manifesta di tutti di non arrenderci, perché sospendere lo sciopero significa fare il gioco dei padroni… solo discutendo tutti insieme la continuazione della lotta e le forme che essa deve assumere, fino a quando tutti siano coscienti di ciò che si deve fare, sarà possibile realizzare quell’unità tra gli operai, tra gli operai e gli studenti, di fronte alla quale il padrone diventa debole». Dopo avere esplicitato che questa strada significa una continua disponibilità alla discussione, una piena volontà d’impegno e di lotta per la costruzione di un movimento di massa, si passava – fatto che segnava l’importanza che andava assumendo la presenza studentesca – alla proposta di un’assemblea generale da tenersi il giorno 6 luglio 1968 alle ore 7 nella piazza di Bagnoli, in cui «… tutti insieme si decida ciò che si deve fare e non si dica solo sì o no a chi ha già fatto certe cose». Ritornando all’Italsider gli studenti hanno però la sorpresa di scoprire che il sindacato è riuscito a capovolgere le carte in tavola: gli operai, entrati in fabbrica, sono stati invitati a una assemblea, svoltasi sotto l’occhio

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«paterno» di sorveglianti e capi-reparto; in essa i sindacalisti hanno annunciato di avere riportato una grande vittoria: per la prima volta essi sono potuti entrare nella fabbrica. Hanno inoltre proposto agli operai di chiedere alla direzione due giorni di orario ridotto, e cioè due giorni retribuiti di sospensione del lavoro, nei quali si possano svolgere le trattative alla presenza non solo dei sindacalisti, ma di delegazioni elette dagli operai stessi. Il carattere coatto dell’assemblea ha giuocato un ruolo determinante e la maggioranza degli operai presenti ha votato a favore della proposta. L’assemblea si è appena conclusa, che già la direzione affigge un annuncio in cui dichiara di accettare la richiesta dell’orario ridotto. Nei giorni successivi si svolgono le trattative, con risultati che il sindacato presenta agli operai come un successo. Il riflusso determinato dai due giorni di sospensione dello sciopero, e la consapevolezza che i sindacati hanno deciso dopo venti giorni di mollare la lotta – del resto non da loro iniziata – porta gli operai a subire, sia pure mugugnando, la conclusione della vertenza. Ma quello che ai sindacati è potuto sembrare un successo, ha segnato in realtà una loro evidente sconfitta. L’intervento degli studenti li ha costretti a scoprire il loro giuoco, e gli operai, nella stragrande maggioranza, non hanno dubbi: i sindacalisti sono potuti entrare in fabbrica solo perché l’accordo con la Direzione era già stato deciso in precedenza. Questo giudizio viene confermato dal fatto che le delegazioni operaie, oltre che essere manipolate in modo sostanziale, nella loro composizione, dai sindacati, hanno potuto partecipare solo in parte alle trattative e, comunque, con un ruolo puramente tecnico di informazione sulla situazione dei singoli reparti.

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Non vi sono esitazioni nel giudizio della grande maggioranza degli operai: i sindacati non volevano lo sciopero e ne hanno contrattato l’affossamento con il padrone. D’altro canto non vi è dubbio negli studenti, anche in quelli che avevano partecipato all’iniziativa senza rompere i loro legami con i partiti della sinistra e quindi riservandosi il giudizio sui sindacati: le potenzialità della lotta operaia sono enormi, e compito oggettivo delle organizzazioni ufficiali è quello di sopirle, incanalandole in un alveo settoriale. È ancora una volta la riprova della giustezza della linea adottata. Un salto di coscienza politica si è compiuto non sulla base di esercitazioni teoriche astratte, ma nel vivo dell’esperienza della lotta di massa. Nei giorni seguenti gli studenti distribuiscono all’uscita dei turni il seguente volantino: Operai dell’Italsider, voi avete visto, in questi giorni in cui siamo stati con voi davanti alla fabbrica, che ci siamo sempre sforzati di rafforzare l’unità operaia nella lotta, evitando polemiche che avrebbero potuto essere denunciate come provocazioni e come elementi di divisione. Ci siamo comportati così perché eravamo coscienti che la lotta era prima di tutto vostra, che eravate voi a dover decidere tutto ciò che la riguardava, anche il modo in cui la nostra presenza poteva esservi utile. Ma questo non significa che noi abbiamo paura di dire tutto ciò che pensiamo, quando è il momento. In merito all’accordo concluso dai sindacati noi pensiamo che se si accetta soltanto qualche soldo senza porre in primo luogo le questioni relative ai cottimi, all’organico, ai ritmi di lavoro, ai livelli di produttività, si ha la certezza che il padrone si

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riprenderà con la sinistra quei pochi soldi che ha fatto finta di dare con la destra. Ma noi tutti sappiamo che la lotta contro i padroni non finisce qui. È per costruire le vittorie future, che vogliamo ripetere ciò che ci sembra importante a questo fine e cioè: a) tutte le decisioni devono essere prese dagli operai nelle assemblee, realmente democratiche e non addomesticate ad uso e consumo del padrone o in cui possono parlare soltanto i sindacalisti; b) occorre formare comitati di fabbrica eletti nelle assemblee dagli operai e non dai sindacati; questi comitati devono poter essere sempre sostituiti se si rivelano incapaci di portare avanti gli obiettivi che di volta in volta l’assemblea degli operai indica; c) occorre rafforzare e approfondire l’unità tra operai e studenti, ricercandone via via le forme più adatte; noi riteniamo infatti che una delle armi più potenti dei capitalisti è la divisione della società in vari settori, il che permette loro di controllare meglio le lotte che avvengono in questi settori; in tal modo essi evitano, facendo credere che gli interessi siano diversi, che operai di diverse fabbriche e di diverse specializzazioni, oppure operai, studenti e contadini, si incontrino nelle lotte stesse. Operai, abbiamo capito tutti ormai, contro la volontà dei padroni, che dobbiamo lottare uniti e stroncare tutti i tentativi che vengono e verranno fatti per dividerci, da qualsiasi parte vengano. Per discutere di questi problemi noi torneremo spesso davanti alla fabbrica, e ci dichiariamo fin da ora disponibili per qualsiasi altra forma d’incontro che voi vorrete proporre. Noi stessi faremo nei prossimi giorni delle proposte in questo senso. Il nostro obiettivo e di formare commissioni studenti-operai che possano organizzare meglio e con continuità il lavoro e le lotte comuni. f.to: Movimento Studentesco Napoletano presso la Facoltà di Architettura.

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Per pochi giorni ancora si discute con alcuni degli operai più interessati sull’esperienza condotta e sulla costituzione di una Commissione operai-studenti, per avviare un’inchiesta sulla situazione dell’Italsider. Ma intanto si è giunti alla metà di luglio; molti studenti sono partiti per le loro sedi di residenza, sparse in tutto il Mezzogiorno, altri sono impegnati negli esami e inoltre si comincia a sentire la stanchezza derivante da sei mesi di lavoro politico ininterrotto. Si decide quindi di sospendere per il mese di agosto le attività. L’unica iniziativa che viene ancora proseguita a livello di tutti gli studenti impegnati, è quella di un dibattito nella lega della Federbraccianti di Giugliano, centro agricolo tra i più importanti della provincia. A questo incontro partecipano anche studenti del M.S. romano, impegnati in questo periodo nel lavoro con i fuori-sede, e in una serie di contatti, in alcuni centri meridionali, con gruppi operanti nelle situazioni locali. Dopo alcuni incontri si giunge così, il 29 di luglio, alla stesura di un documento da proporre come base di discussione ai compagni operanti per la costruzione di una linea rivoluzionaria nelle Università e nei centri meridionali, in vista della preparazione di un convegno sui temi affrontati. Conviene riportare qui il testo del documento: 1. Il M.S. si presenta sul piano politico con una duplice faccia:

a) da un lato, esso è espressione di una serie di contraddizioni generali del sistema capitalistico, soprattutto nella misura in cui smentisce alcune ipotesi di fondo sullo svi-

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luppo del sistema, e in primo luogo contiene il rifiuto della divisione del lavoro, nella sua forma primaria di divisione tra lavoro intellettuale e lavoro manuale. b) D’altra parte, esso rappresenta l’emergere – a livello di lotta – di un gruppo sociale determinato. In questo senso esprime interessi specifici, e i problemi organizzativi che si pongono al suo interno sono analoghi, anche se parzialmente diversi, a quelli che si pongono in altri gruppi sociali nei quali sia particolarmente sensibile la coscienza di una subordinazione alla logica dello sviluppo capitalistico. 2. Un’azione politica che si proponga di verificare la funzione del M.S. nell’attuale situazione dello sviluppo capitalistico italiano, deve fare di queste caratteristiche la piattaforma da cui è possibile sviluppare una linea di azione politica autonoma. 3. Il limite principale dell’azione sviluppata nello scorso anno, infatti, è consistito proprio nella mancata fusione di questi due aspetti in una linea unica e coerente, nella mancata creazione di un movimento politico che sapesse coinvolgere, insieme agli studenti, atri gruppi sociali sensibili a queste istanze, mostrando in modo evidente – al di sotto di apparenti differenze – una sostanziale condizione comune. La dimostrazione più chiara di questo, consiste nel fatto che esiste la possibilità concreta di individuare gli studenti coinvolti nel movimento – in molte situazioni locali – come appartenenti ad un numero limitato di gruppi sociali, esattamente (per inciso) quelli più sensibili a livello soggettivo (il che non significa certamente quelli più subordinati a livello oggettivo) al discorso sull’autoritarismo accademico. 4. Lo spazio di azione politica che noi individuiamo è quello delle contraddizioni specifiche dello sviluppo capitalistico nel Mezzogiorno d’Italia. Un avvio dell’attività in questa direzione può permettere un’elaborazione di temi politici a livello di classe, che contribuisca in modo originale,

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tenendo conto delle molteplici forme in cui si dispiega la realtà di classe del sud, alla tematica generale del movimento. 5. Naturalmente, ciò implica un deciso superamento tanto della problematica meridionalistica tradizionale, quanto dell’anti-meridionalismo fondato su una visione schematica delle potenzialità reali dello sviluppo capitalistico nazionale, e delle contraddizioni che ne scaturiscono a livello regionale 6. Il modo corretto – in questo momento specifico – per elaborare una linea di azione che non coinvolga soltanto gli studenti, ma tutti i gruppi che lavorano nel sud in modo contestativo (appartengano o meno a partiti ufficiali), proponendo chiaramente il M.S. di massa come momento unificatore, è di sviluppare un’analisi delle classi nel Mezzogiorno. Quest’analisi, intesa come ricerca di contatti e di forme corrette di organizzazione del proletariato e tendente alla elaborazione di una strategia generale rivoluzionaria che si contrapponga nei fatti (e non solo nei principi) alle attuali linee riformistiche del movimento operaio “ufficiale”, andrà sviluppata in modo realistico commisurandone cioè la portata alle forze reali del M.S. e degli altri gruppi politici che si riconoscano nella linea qui enunciata.

Su questi temi, che andranno meglio specificati, approfonditi e articolati, per metterne in luce le implicazioni politiche generali, e soprattutto i compiti specifici che ne scaturiscono per i militanti impegnati nei vari settori (università, fabbriche, campagne, quartieri sottoproletari), il dibattito è ormai riaperto. Lo stesso riesame delle esperienze fatte, che si è proposto qui, non è che un episodio di quel dibattito, le cui conclusioni sono in questo momento scarsamente prevedibili. Vi è una sola indicazione che – sulla base dell’esperienza di lotta dell’anno passato – i militanti napoletani

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del M.S. ritengono di poter considerare ormai acquisita: che il settarismo di gruppo, pur rappresentando in momenti determinati un utile metodo di chiarimento, rischia in prospettiva di deformare e di ridurre le capacità critiche e valutative dei compagni, sia perché ne svia l’attenzione verso falsi scopi, sia perché ne offusca la consapevolezza – che invece dev’essere sempre arricchita – che il compito fondamentale che sta loro di fronte è – come dice il compagno Mao – organizzare su basi politiche comuni, a fini rivoluzionari, milioni di persone.

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MOVIMENTO STUDENTESCO NAPOLETANO – ARCHITETTURA LA CECOSLOVACCHIA E GLI STUDENTI

Il recente convegno del Movimento Studentesco, tenutosi a Venezia a settembre (1968), pur presentando una varietà di posizioni e di ipotesi sulle forme di proseguimento della lotta, ha registrato una completa unanimità sull’impegno di accrescere e qualificare meglio l’unità del movimento. Ciò va perseguito anche attraverso la discussione e la messa a fuoco di argomenti che spingano a riflette sui contenuti positivi della lotta e sulle rivendicazioni di democrazia reale che le sono implicite. In questa linea il seminario politico della Facoltà di Architettura sottopone agli studenti napoletani questo documento sul problema cecoslovacco, che ponendo in discussione problemi di una reale democrazia socialista, sulla via già segnata dai compagni dell’SDS tedesca, premetterà probabilmente di riprendere la linea di edificazione dei movimento e di chiarire gli obiettivi a breve e a lunga scadenza.

I recenti avvenimenti di Cecoslovacchia pongono al centro dell’attenzione del movimento rivoluziona-

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rio mondiale alcuni problemi fondamentali per la sua stessa esistenza e per le sue prospettive strategiche. Il Movimento studentesco, che negli ultimi anni ha dato al movimento rivoluzionario un contributo certamente rilevante sia soggettivo (ripresa della coscienza di classe) che oggettivo (si pensi soltanto al “maggio” francese ed in genere allo sforzo di collegamento con altre forze rivoluzionarie, soprattutto con la classe operaia), non può perciò esimersi dall’analizzare quegli avvenimenti e verificare alla luce di essi la propria linea politica. Una prima considerazione generale sull’attuale sistema politico mondiale è che la logica di questo sistema è lineare e, allo stesso tempo, rigida. Ogni mossa di uno dei blocchi in competizione (non si può, infatti, parlare di antagonismo) provoca uno spostamento complementare dell’altro blocco; ad esempio, i fatti di Cecoslovacchia hanno avuto come conseguenza nei paesi occidentali un “ritorno” delle forze meno progressiste della borghesia (Nixon in U.S.A; centro-sinistra in Italia; rilancio dell’atlantismo in genere). Nonostante questa ferrea logica, il sistema tuttavia è costretto a subire alcune contraddizioni fondamentali, realmente antagonistiche in quanto contraddizioni di classe quali la esistenza della Cina e della sua linea rivoluzionaria non integrata nel sistema stesso ed il Vietnam con la sua eroica resistenza contro l’imperialismo e per il socialismo. Il potere sovietico come “comunismo del capitale” In questo sistema, l’Unione sovietica occupa un posto di estrema importanza come uno dei due poli,

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insieme agli U.S.A., della competizione mondiale. Tutta la politica dell’U.R.S.S. è legata a questo ruolo, dagli stretti legami economici con il mondo capitalistico alla coesistenza pacifica, al mantenimento di un cosiddetto “campo socialista” (realizzato sfruttando il suo passato socialista), allo stesso aiuto ai rivoluzionari vietnamiti. La Rivoluzione d’Ottobre, sviluppatasi in un paese dove le strutture capitalistiche non erano certo le più avanzate, dovette ripiegare sempre più su se stessa in seguito al mancato sviluppo contemporaneo della rivoluzione socialista nei paesi industrialmente più avanzati, sviluppo che avrebbe costituito la garanzia della costruzione del socialismo (si vedano gli scritti di Lenin tra il ’17 e il ’20). In questo modo, la prospettiva nazionale e non più la rivoluzione socialista internazionale (Marx e Lenin) diventava il presupposto per la società socialista. La pianificazione come mezzo per elevare le proprie capacità produttive diventava uno strumento fondamentale e lo Stato come struttura politica centralizzata assumeva un rilievo sempre più pesante; proprio il contrario di quanto affermato sia da Marx che da Lenin. Lo Stato unico centro di potere e il piano come modo di funzionamento di un’economia centralizzata si presentavano come forma modificata di un nuovo ordinamento capitalistico. Il capitalismo di Stato, che Lenin aveva visto come un momento transitorio di realizzazione della dittatura del proletariato, si andava sempre più cristallizzando fino a diventare, nella formulazione stalinista e post-stalinista, forma naturale di esistenza di uno Stato socialista prima e comunista poi. L’inserimento in questo sistema di altri paesi, avvenuto per la spartizione del mondo tra

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potenze e quindi senza che i proletari di questi paesi conquistassero la gestione del potere, portava a un sistema di tipo coloniale, seppure con forme diverse dal colonialismo tradizionale. Così le scelte produttive di ognuno di questi paesi venivano subordinate alle scelte del potere centralizzato sovietico. Le strutture politiche, lo Stato, assumevano un aspetto analogo a quello della Russia, con in più la dipendenza dallo Stato e dal piano sovietico. La Cecoslovacchia e l’intervento russo In Cecoslovacchia era al potere un apparato burocratico simile a quello russo e a esso subordinato. La classe operaia e i proletari in genere cecoslovacchi sono state le vittime di questo potere: completamente oppressi, veniva soffocata ogni loro partecipazione alle scelte politiche. A un certo punto, però, scoppiava una contraddizione tra la forma dell’“autonomia” nazionale e l’appartenenza di fatto ad un blocco rigido. Da una parte, l’“autonomia” nazionale richiedeva lo “svecchiamento” del partito ed in questo senso ha operato il gruppo di Dubcek, orientato a sostituire al dominio del gruppo un tipo di democrazia “borghese”. D’altra parte, però, questo “l’innovamento”, se non era in contrasto con l’ideologia sovietica specie economica (come dimostra la parentela tra le tesi di Otasik e quelle di Liberman), costituiva una minaccia per il blocco guidato dalla Russia, minaccia tanto più grave perché già i rivoluzionari della Cina, del Vietnam, dell’America latina e dei paesi afro-

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asiatici smascheravano dall’esterno e da sinistra la linea russa della “coesistenza pacifica”. Infatti, la divisione del mondo in blocchi è il cardine della “coesistenza pacifica”; ma, allo stesso tempo, è indispensabile alla U.R.S.S. per portarla avanti il controllo, all’esterno del blocco, dei movimenti rivoluzionari. Questo spiega ad esempio il tipo d’intervento della Russia nel Vietnam, che maschera il tentativo sempre più palese di una contrattazione diretta, “sopra la testa” dei rivoluzionari vietnamiti, tra U.S.A. e U.R.S.S. La contraddizione all’interno della Cecoslovacchia era acuita dal fatto che le masse cecoslovacche vedevano nella politica del cosiddetto “nuovo corso” un reale processo di democratizzazione, illusione che non può sorprendere considerato l’elevato grado di spoliticizzazione cui l’avevano costrette venti anni di dominio burocratico. Contribuiva a questa illusione l’ideologia dei consumi, introdotta dalla politica degli scambi commerciali con i paesi occidentali e del resto naturale “pendant” delle forme di stakanovismo fino ad allora imposte: “lavorare di più per produrre di più”, ma questo “di più” era legato alle esigenze di un potere burocratico e non a quelle della proprietà collettiva. Le stesse richieste di maggior libertà di espressione da parte degli intellettuali erano funzionali all’introduzione di una democrazia borghese, che di queste libertà giuridiche si nutre salvo a contraddirle nei fatti con la proprietà, il profitto, il potere. L’intervento dei carri armati russi in Cecoslovacchia ha risolto la contraddizione apertasi nel blocco sovietico in un modo tipico della logica del sistema.

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La mistificazione del “grave dissenso” del PCI È perciò contraddittorio e mistificante esprimere, come hanno fatto il PCF e il PCI, il “grave dissenso” nei confronti dell’intervento sovietico in Cecoslovacchia senza mettere in questione la natura socialista dell’U.R.S.S. In realtà questi partiti riescono sempre meno a mascherare i loro interessi elettoralistici e “governativi”, il loro ruolo di gestori per conto della borghesia della lotta di classe dei loro paesi. Così il PCI, sostanzialmente allineato alla linea revisionistica russa, ma allo stesso tempo preoccupato di non compromettere i sogni di “grande maggioranza” o di “allargamento del centro-sinistra”, è costretto, da un lato, a condannare l’intervento armato e, dall’altro, a considerarlo solo un “errore politico” da superare all’interno della logica “internazionalista” (sic!) delle “vie nazionali”. Una mistificazione ancora maggiore è contenuta nella posizione dei cosiddetti “sinistri” del PCI (Ingrao, Occhetto, ecc.): costoro, appellandosi all’esigenza di una “democrazia diretta” tanto all’interno dei partiti quanto negli stati “socialisti”, e contemporaneamente riaffermando la “via italiana al socialismo” e la strategia internazionale sovietica, tentano di riportare le masse al partito ai fini di questa politica. Ancor più scoperta è l’accettazione della leadership dell’Unione Sovietica a livello internazionale nelle posizioni prese dal PSIUP. Gli insegnamenti L’analisi dell’intervento russo in Cecoslovacchia porta ad alcune conclusioni che costituiscono impor-

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tanti indicazioni per il movimento operaio internazionale: 1) Dal punto di vista delle condizioni “oggettive”, la struttura politico-sociale dei paesi occidentali e dei paesi del blocco guidato dalla Russia presentano una sostanziale analogia. Gli uni e gli altri infatti sono caratterizzati da una struttura dicotomica (anche se i modi di funzionamento sono diversi): contraddizione tra capitale (che in U.R.S.S. assume l’aspetto di un piano centralizzato) e lavoro salariato da cui si sottrae con violenza più o meno nascosta pluslavoro e, a livello politico e organizzativo, contraddizione tra la gestione amministrativa e politica di pochi proprietari o comunque amministratori del capitale e l’enorme massa dei lavoratori sfruttati e oppressi da quelli, con conseguente esasperazione della divisione del lavoro. 2) La lotta rivoluzionaria contro l’imperialismo trova nell’Unione sovietica e nella sua linea di coesistenza pacifica il principale ostacolo, dal momento che questo paese è interessato al mantenimento dell’attuale divisione del mondo e per di più controlla, attraverso apparati burocratici fedeli, una grossa parte di forze rivoluzionarie. Nel riconoscimento di questa realtà consiste uno dei principali elementi di validità della posizione dei compagni cinesi. 3) Dalle esperienze negative della Russia e da quelle positive della Cina emerge chiaramente la necessità di considerare come legati strettamente i problemi della presa del potere con quelli della gestione della società

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da parte del proletariato. L’impostazione di alcuni problemi dell’organizzazione nella fase pre-rivoluzionaria, prima cioè della presa del potere, condiziona almeno tendenzialmente il lavoro di realizzazione della società socialista, lavoro che comporta il duplice compito della dittatura sulla classe reazionaria e insieme dell’edificazione della vera democrazia, la democrazia socialista. Anche su questo punto l’indicazione fornita dai compagni cinesi, attraverso quel grande fenomeno del socialismo del nostro tempo che è la “rivoluzione culturale”, è preziosa come lo sono state la Comune di Parigi e i Soviet per Marx e Lenin. 4) Perciò le nuove forme organizzative, che le contraddizioni di classe interne alla società capitalistica e il sempre crescente livello di coscienza corrispondente urgentemente richiedono, dovranno essere caratterizzati dalla ricerca di strumenti adatti a preservare da degenerazioni burocratiche e autoritarie. Il primo di questi strumenti può essere individuato nella limitazione del principio della delega: il mandato, attribuito soltanto nei casi di necessità e direttamente dalle masse è revocabile in ogni momento. 5) Occorre d’altra parte tener presente che nella fase precedente alla presa del potere da parte del proletariato, ogni tipo di democrazia diretta non è di per se stessa sufficiente ad assicurare il carattere rivoluzionario e socialista di una linea politica per il semplice motivo che, nel mondo borghese capitalistico, la stessa coscienza di classe degli oppressi è manipolata e questa manipolazione può essere annullata soltanto

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da uno “sporcaggio del cervello” opposto al “lavaggio” dei padroni. Di qui un’esigenza di una precisa “teoria rivoluzionaria” che consenta di combattere non solo gli effetti (per esempio bassi salari in campo economico; autoritarismo di ogni tipo di struttura organizzativa) ma anche la causa (modo di produzione capitalistico) della condizione di sfruttamento, della quale strati sempre più vasti sono vittime (proletarizzazione). Ciò non significa che un “corpus” rigido di ideologia già formata debba calarsi in una realtà che sarebbe destinata ad accoglierla (il che poi non si verifica mai); significa piuttosto che una corretta analisi di classe e una strategia rivoluzionaria costruita su questa analisi debbono incontrarsi e legarsi a forme di organizzazione del proletariato. È la dialettica espressa da Marx: «I socialisti non hanno creato il movimento, piuttosto essi hanno spiegato agli operai il suo carattere e i suoi fini». In questo senso, il richiamo a Marx, Lenin e Mao non significa appello ai “sacri testi”, ma riferimento a pratiche teoriche e politiche già sperimentate e verificate nella realtà storico-sociale.

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SINISTRA UNIVERSITARIA ESPERIENZE DI LOTTA POLITICA DEL MOVIMENTO STUDENTESCO A NAPOLI

Per una strategia del Movimento Studentesco È sempre più vero che la storia che noi viviamo è storia di tutto il mondo; non è più possibile, oggi, lo svolgersi in piena autonomia di alcun processo sociale, economico, politico, culturale; e ogni problema umano, per quanto particolare, non può essere compreso se non nel contesto più generale dei problemi dell’umanità. Fin dal 1848 Marx ed Engels, nel Manifesto, avevano indicato questo carattere essenziale del nostro tempo: all’antica autosufficienza e all’antico isolamento locali e nazionali subentrano uno scambio universale, una interdipendenza universale tra le nazioni. E come per la produzione materiale così per quella intellettuale.

Ma in contraddizione con il carattere unitario della storia contemporanea, il processo di formazione delle

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coscienze, diretta dalle centrali politiche, tende a generare livelli particolari e settoriali di comprensione del reale, in modo che la maggioranza degli uomini possa essere agevolmente esclusa dai momenti decisionali veramente importanti. Ciò avviene tramite le Università e le scuole di ogni ordine e grado, che vengono ammodernate nella misura e nei modi necessari alla formazione di vasti strati di tecnici richiesti dalle moderne esigenze della produzione economica e dalla complessità crescente della vita sociale. Ciò avviene nelle fabbriche, attraverso l’insieme dei condizionamenti che chiudono l’operaio nel suo ambito di lavoro, con l’appoggio dei sindacati che tendono a limitarne gli orizzonti nel cerchio degli interessi di categoria, e con la complicità dei partiti di sinistra. Ciò avviene a tutti i livelli della vita sociale, attraverso i rapporti di lavoro, il controllo dell’informazione, del tempo libero e di tutte le condizioni di vita. Una coscienza particolare non è soltanto limitata nei suoi contenuti; priva di parametri generali di orientamento, spinta a scambiare per generalità la propria ristrettezza o comunque a viverla come condizione “normale” dell’uomo, è in realtà una coscienza deformata. E da tante parti si leva il rifiuto, si leva l’aspirazione a un’umanità nuova, socialista, a un’umanità pienamente consapevole di sé, capace di svolgere liberamente tutta la ricchezza dei suoi contenuti etici e conoscitivi e di divenire artefice consapevole della propria storia. Ma assai spesso quest’aspirazione, non legata a uno sforzo di conoscenza delle leggi obiettive del corso storico per la conseguente indeterminatezza dei suoi contenuti, è volta a forme di rinnovata mistificazione, diviene essa

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stessa strumento di cattura e di contratto o si risolve in atteggiamenti di evasione di fronte a una realtà sociale governata dal particolare. Tutte le proposte politiche e di organizzazione della società civile che tendono a chiudere gli uomini nella gabbia degli interessi settoriali rientrano nel piano delle forze dominanti e ne esprimono gli interessi. Vi rientrano, naturalmente, gli inviti alla cogestione, rinnovati agli studenti universitari dal progetto Sullo; come vi rientrano i suggerimenti autogestionistici del PCI1. Vi si collegano sul piano dell’organizzazione economica e sociale, tanto le posizioni classiche del capitalismo, quanto le forme jugoslave di autogestione e la tendenza a reintrodurre il profitto in alcuni settori produttivi dell’Unione Sovietica o in Cecoslovacchia. In questo mondo che genera coscienze deformate, l’appello alla spontaneità non solo è assurdo, ma è la maggiore concessione che si possa fare alle forze politiche che diriIl “gruppo di lavoro del PCI sul movimento studentesco” così si esprime: «all’ipotesi della cogestione occorre perciò contrapporre – in una prospettiva che non è di autogestione corporativa ma di gestione sociale dell’Università – la lotta per la conquista di uno spazio autonomo di potere e di iniziativa che non sia una sorta di ghetto riservato agli studenti, ma sia lo strumento per incidere completamente sull’organizzazione della ricerca e per aprire realmente l’Università al confronto dei problemi che maturano nella realtà sociale» («Rinascita» n. 5, 31-1-69). Secondo la sottile distinzione tra “autogestione corporativa” e “gestione sociale”, gli studenti dovrebbero gestire l’Università non per se stessi – d’accordo – ma per questa società che essi vogliono distruggere; e li si invita a conquistarsi uno spazio autonomo di potere nell’Università. No, essi devono uscirne e collegarsi alle esperienze più generali della nostra storia. 1

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gono questa società o che mirano a parteciparne alla gestione. Pure, esso è ancora ampiamente accolto dal movimento studentesco sotto varie forme e proposte strategiche, dall’anarchismo dichiarato, al lavoro di formazione dei “comitati di base”, alla tesi della “lunga marcia attraverso le istituzioni”. Dal momento che non si può parlare di una ideologia indipendente elaborata dalle stesse masse operaie nel corso del loro movimento, la questione si può porre solamente così: o ideologia borghese o ideologia socialista. Non c’è via di mezzo… si parla di spontaneità, ma lo sviluppo spontaneo del movimento porta a subordinarlo all’ideologia borghese… Il movimento operaio spontaneo è il trade-unionismo2.

Vale forse la pena di ricordare ancora una volta questo noto brano del Che fare?, e sottolineare che il trade-unionismo è appunto la coscienza del particolare, la coscienza grettamente sindacale, la coscienza borghese. E che quello che Lenin dice agli operai tocca ancora di più gli studenti, nella stragrande maggioranza provenienti dalla piccola e media borghesia. La coscienza socialista non è un dono del cielo; elaborata da giganti del pensiero a ridosso del processo storico in cui si costruiva la società moderna, nata dal travaglio culturale del Settecento e dell’Ottocento, è opera di scienza e come tale va acquisita e sviluppata. Oggi più che mai, in un momento d’incertezza delle forze rivoluzionarie, l’unica direzione di lavoro che possa consentire l’elaborazione di una corretta strategia 2

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Lenin, Opere scelte, Vol. I, Mosca 1949, p. 167.

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rivoluzionaria nei paesi di avanzata industrializzazione, è lo sviluppo del livello teorico; e ciò significa in primo luogo il recupero del contributo scientifico di Marx e di Lenin3. Lo spontaneismo rifiuta lo sforzo di elaborazione teorica, esso rivela l’incapacità di comprendere l’importanza del momento della direzione e ha come conseguenza naturale l’accettazione di fatto, immediatamente o per via mediata, della direzione altrui dell’ala sinistra della borghesia russa, nella situazione in cui scriveva Lenin, del PCI e del PSIUP nella nostra. Direzione significa due cose: coscienza teorica e organizzazione. 1) Coscienza teorica è chiarezza ideologica e politica, comprensione, ai livelli più ampi e a quelli più specifici, delle leggi di sviluppo della realtà in cui ci si muove, capacità in ogni momento della lotta, per quanto particolare, di scorgere e di metterne in luce le connessioni più generali. Per questo aspetto non solo il movimento studentesco, ma tutti i gruppi e gruppetti della dissidenza presentano gravi carenze da cui nascono atteggiamenti e posizioni estremamente pericolosi. Dalla giusta con3 G. Viale di Torino, non senza compiacimento, dà qualche esempio dell’abito scientifico di cui possono essere dotati gli studenti: «la commissione “Scuola e società” ha praticamente votato una mozione in cui si proibiva ai suoi membri di far uso dei libri nel lavoro di commissione … infine la commissione delle facoltà scientifiche compiva l’estremo atto liberatorio nei confronti del dio-libro: lo squartamento dei libri in lettura per distribuirne un quinterno a ognuno dei membri». Contro l’Università, in «Quaderni piacentini», n. 33, febbraio 1968.

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statazione della mancanza nei classici di indicazioni pienamente adeguate ai problemi del nostro tempo, non solo non si trae la conseguenza della necessità di porre al centro, e col dovuto risalto, il problema dello studio e della formazione di un elevato grado di coscienza, ma si passa assai spesso a posizioni di rigetto del patrimonio teorico delle forze rivoluzionarie, e, in particolare, delle sue conquiste più avanzate. La preferenza che a volte si dà al Marx giovane, in arbitraria contrapposizione alla sua opera più matura, e il rifiuto più o meno deciso del leninismo, frequente nella dissidenza di sinistra, ne sono segni evidenti. Ed è molto grave che trovino ampia diffusione nel movimento studentesco, e che non vengano combattute, posizioni ideologiche che sono di fatto pre-marxiane o in vario modo collegate all’irrazionalismo contemporaneo. Né contribuisce al superamento di questa situazione il richiamo puramente formale ai classici, accompagnato dalla costante sottovalutazione della teoria e dalla subordinazione alla pratica, che è di fatto sostenuto dai militanti del P.C.d’I. La sottovalutazione dell’importanza delle questioni organizzative è di solito strettamente legata alla incomprensione della centralità della teoria. Ma è anche frequente la posizione ‘illuministica’ di chi crede che basti enunciare il verbo perché questo si faccia carne; è l’atteggiamento di chi comprende l’importanza della teoria, ma astrattamente, senza rendersi conto che il mondo pratico ha sue leggi d’intervento, relative all’ambito sociale in cui si opera. La provenienza piccolo-borghese di gran parte degli studenti, e la tipica incapacità di presa sulla pratica del mondo moderno di questo strato sociale, rendono

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frequenti questi atteggiamenti e rallentano lo sviluppo del movimento con i metodi artigianali di lavoro che ne derivano. Nel suo numero di ottobre, la rivista «Nuovo impegno» parte all’attacco contro lo spontaneismo, ma invece di spingere fino in fondo la sua polemica si ferma a metà strada, a tendere la mano all’avversario, enunciando la nuova teoria delle due avanguardie4. Formalmente si rivendica l’esigenza del partito “avanguardia esterna”, sostanzialmente si ricade nella sopravvalutazione del particolare, “avanguardia interna” e in una posizione di tipo spontaneista: «le lotte degli operai di uno stabilimento devono essere dirette dall’avanguardia rivoluzionaria degli operai di quello stabilimento, le lotte studentesche dall’avanguardia studentesca, le lotte dei contadini dall’avanguardia contadina, ecc.». La distinzione tra avanguardia “esterna” e “interna” – estranea alla tradizione rivoluzionaria – è una posizione non corretta di compromesso tra la linea di partito e quella settoriale e sindacale. L’avanguardia, nella concezione leninista, è unica: non “esterna”, perché “esterno” alla classe operaia è il processo di elaborazione della coscienza socialista, ma non il partito, che è anzi l’organo di collegamento tra la coscienza e la classe, organo della classe; non “interna” nel senso di settoriale e particolare, perché, in ogni situazione e momento di lotta, deve portare un’ampia visione della realtà storica e sociale. Nella situazione Partito sì o no, in «Nuovo impegno», n. 12-13, maggio-ottobre 1968. 4

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presente, la mancanza di un partito rivoluzionario non esime – anzi! – i gruppi più maturi dall’obbligo di porsi fin dall’inizio al più ampio livello di generalità possibile. E qui, come è giusto, le necessità della lotta si incontrano con le prospettive ideali: le prime esigono che si tenda alla più vasta comprensione dei problemi della nostra storia; le seconde richiedono che ci si sforzi di prefigurare, in qualche modo, il tipo di umanità che si intende costruire. Questa esigenza di generalità va sottolineata non solo in senso strettamente politico, ma in una prospettiva più vasta di formazione culturale e umana; il solo lavoro politico – teorico e pratico – che pure è momento essenziale dello sviluppo delle coscienze, non basta ad assicurare una maturazione ricca e piena se non è collocata in un contesto che ne renda evidenti i collegamenti con tutto il complesso dei problemi posti dallo sviluppo della storia. Bisogna perciò che si accompagni ad approfondite esperienze culturali che rispetto a quelle particolari e alienanti che lo studente è costretto a vivere in facoltà, siano più ampie nei contenuti e collettive nell’acquisizione. In questo senso possono dare buoni risultati le iniziative tipo università critica5, purché si curi preventivamente che sia raggiunto un livello di maturità politica e ideologica sufficiente a garantire che la direzione non sia tenuta da gruppi cogestionistici o dall’ufficialità di 5 Le posizioni contenute nella Proposta di foglio di lavoro a cura del m.s. di Trento, ripropongono l’autogestione e si presentano in un contesto in cui sono rigettati esplicitamente i risultati dell’elaborazione teorica rivoluzionaria.

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sinistra, e che l’impostazione dei discorsi sia coerente ad una concezione rivoluzionaria del mondo. Occorre dunque articolare così il lavoro: 1) Un momento necessariamente più interno, di studio e maturazione ideologica, il cui centro sia l’assimilazione dei principi fondamentali del marxismo; 2) un’attività di studio più spiccatamente culturale, che dia ampiezza di prospettive e ricchezza di contenuti al lavoro, e che potrà essere base molto ampia di incontri; bisogna però ribadire che non è opportuno sviluppare questa attività se non sia già stato curato il livello politico-ideologico; 3) un intervento attivo e costante di carattere politico, rivolto non solo ai problemi universitari ma al mondo operaio e al più vasto ambito sociale, che colleghi in modo stabile e articolato i gruppi con le masse e che attraverso comuni esperienze di lotta elevi la maturità politica complessiva del movimento. I gruppi d’avanguardia devono, in particolare, proporre una linea unitaria, uno stesso discorso, agli operai e agli studenti, reagendo ai condizionamenti interni al movimento e legati alle sue caratteristiche sociali, che spingono gli studenti a rivolgersi, in quanto tali, agli operai, per portare loro il verbo o per impararlo da essi, secondo i tipici atteggiamenti del populismo. Il corteo antifascista del 30 gennaio, col suo evidente carattere politico e antiriformista, è forse il primo esempio napoletano di una corretta impostazione del rapporto tra operai e studenti. Tra i gruppi politici che si collocano alla sinistra del PCI e del PSIUP, e tra i militanti più maturi del movimento studentesco, è diffusa la coscienza della

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linea strategica prevalente nella sinistra ufficiale; si tratta, come è noto, di una linea di ascesa al potere che passa per accordi di cogestione con gruppi espressi dalla società borghese, legati al capitale pubblico e a settori di capitale privato, cui sarebbe garantita la sopravvivenza. Linea a cui corrispondono il processo di ammodernamento, di concentrazione e di razionalizzazione portato avanti da alcuni gruppi capitalistici, e le esigenze di controllo statale sull’economia sostenute dal personale politico legato al capitale pubblico. I recenti sviluppi della politica interna italiana (elezioni di maggio, crisi del PSI e del centro-sinistra, consiglio nazionale DC e posizione di Moro, equilibrio interno del governo Rumor) spingono a pensare che i tempi di attuazione di un disegno di questo tipo non sarebbero poi così remoti. Per quanto i gruppi più coscienti della dissidenza di sinistra intendano opporsi alla realizzazione di questa strategia di tipo kautskiano, obiettivamente il movimento studentesco e tutti i movimenti di massa presenti nel paese, rischiano di favorirla contribuendo a spingere verso sbocchi di sinistra la situazione politica e rimanendo, d’altra parte, in una condizione di immaturità complessiva che li renderebbe incapaci di raccogliere i frutti delle proprie battaglie. È possibile, cioè, che nonostante le migliori intenzioni, il movimento studentesco renda alla sinistra ufficiale un servigio analogo a quello che i garibaldini hanno reso ai liberali nel corso del Risorgimento. È possibile soprattutto se si verificano due condizioni: 1) che il PCI faccia una politica più aperta e intelligente verso il movimento studentesco. E questo

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sta già avvenendo. Il comunicato dell’ufficio politico comparso su «l’Unità» del 29 gennaio e il documento del gruppo di lavoro del PCI sul movimento studentesco pubblicato su «Rinascita» del 31 gennaio 1969, mostrano come le posizioni di cui è espressione L’anno degli studenti di Rossana Rossanda, siano utilizzate dalla direzione del partito. 2) che il movimento studentesco accetti, di fatto, le proposte spontaneiste e autogestioniste del PCI e non riesca a esprimere livelli di direzione capaci di intendere i tempi, i modi e le ragioni più lontane della lotta, né a trovare adeguate forme di organizzazione. È di grandissima importanza perciò che si rigetti lo spontaneismo in tutte le sue versioni. La lotta non sarà né breve né facile; occorre ribadirlo per evitare illusioni e scoramenti. Il corso rivoluzionario nei paesi industrialmente avanzati è rallentato dal ritardo teorico. Bisognerà percorrere un lungo cammino di maturazione e di crescita, e vi saranno vittorie e sconfitte; ma se le forze rivoluzionarie a ogni svolta della lotta sapranno accrescere il proprio livello di coscienza, si sarà comunque andati avanti.

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Un’esperienza di lotta (20-29 gennaio 1969)

Il Movimento Studentesco napoletano Attraverso le lotte dello scorso anno, la maturazione politica del movimento studentesco è avvenuta a Napoli in maniera molto precisa: da un lato con l’acquisizione di un elevato livello generale di coscienza delle contraddizioni della società capitalistica; dall’altro con un vero e proprio scontro politico che ha visto impegnata la Sinistra Universitaria a difendere e a garantire l’esistenza autonoma del movimento studentesco come movimento politico di massa, dai tentativi egemonici dell’ufficialità di sinistra. La rivendicazione di autonomia nasceva dalla constatazione della carenza nell’attuale realtà storico-politica di una direzione rivoluzionaria. Alla tesi della sindacalizzazione portata avanti dai partiti ufficiali e dalle loro frange più o meno dissidenti, la Sinistra Universitaria contrapponeva l’esigenza della politicizzazione, negando che le contraddizioni esistenti nell’università, e che gli studenti vivono, abbiano le loro radici nell’università stessa, e affermando invece che esse riflettono la struttura, l’organizzazione e le trasformazioni della società capitalistica così come le forze politiche che agiscono nell’università si collegano, più o meno direttamente, a quelle che agiscono nell’intera società. La Sinistra Universitaria indicò, perciò, come un errore per il movimento rivolgere la propria attenzione solo su se stesso e ribadì la necessità di prendere coscienza di tutte le connessioni

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sociali e politiche tra l’università e la società. Questa impostazione delle lotte studentesche permetteva al movimento di svilupparsi non solo quantitativamente, ma anche qualitativamente. Alle lotte contro il progetto di legge 2314 si univa la discussione sulle linee di sviluppo del capitalismo e sul comportamento riformistico e parlamentaristico dei partiti della sinistra ufficiale, alla lotta contro la polizia si univa lo studio collettivo di Stato e rivoluzione. Costantemente si ribadiva l’importanza che l’elemento cosciente ha nella crescita del movimento, sostenendo che mettere al centro solo l’importanza dello sviluppo “orizzontale”, dire che il movimento studentesco ha come scopo quello di una “lotta dura e aperta” senza collegarla a un processo di maturazione teorica, fa parte di un preciso gioco dei partiti della sinistra ufficiale. Si radicalizzino pure le lotte, ci si scontri pure violentemente con la polizia, purché si rimanga chiusi nel ristretto cerchio particolare che la condizione di studente comporta. Si lotti duramente, ma senza impadronirsi di tutti quegli strumenti necessari per la comprensione dei rapporti che si stabiliscono tra gli uomini. Questi strumenti non vengono offerti spontaneamente né dalle classi dominanti, né dalle organizzazioni ufficiali di sinistra. Occorre che essi vengano costruiti dal movimento in maniera autonoma dalle centrali ufficiali; e ciò comporta lo sviluppo di un processo di maturazione teorica e politica, che attraverso un’attività di studio e di lotte pratiche divenga patrimonio cosciente della più ampia massa studentesca e ne sviluppi così di continuo la capacità di comprensione e di intervento nella realtà sociale.

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Occorre perciò costruire forze pratiche organizzate che portino avanti un discorso politico e culturale fondato sull’analisi marxista e leninista della realtà. Nello sforzo di attuazione di questa linea la Sinistra Universitaria è stata costretta a scontrarsi con altri gruppi “di sinistra” presenti nell’università. Come abbiamo detto, lo scontro politico dello scorso anno aveva emarginato completamente l’ufficialità di sinistra; il P.C.I. scompariva, ma da quello stesso momento incominciava il trasformismo del gruppo della F.G.C.I. legato alla facoltà di architettura, opportunamente arricchito dall’intervento di persone provenienti dall’esperienza dei “Quaderni Rossi”. Questo gruppo sotto i successivi nomi di UGI-Architettura, CUC-Architettura, Centro di informazione politica del movimento studentesco, Studenti in lotta, andava rivestendo di formule politiche i vecchi temi del sindacalismo e di velleità organizzative lo spontaneismo. Continuava a negare cioè la necessità per il movimento studentesco di sviluppare un discorso politico generale, attraverso il quale fosse possibile inserire le lotte in un contesto più ampio. Così, sottovalutando i problemi della coscienza e della direzione, questi adoratori della “linea di massa” hanno speso la maggior parte delle loro energie “rivoluzionarie” nel criticare la Sinistra Universitaria, senza riuscire a condurre una sola azione a livello di massa, come sa bene chiunque conosca la situazione napoletana, e come un lettore attento del loro articolo apparso sul numero 36 di «Quaderni Piacentini» può facilmente comprendere. Solo da pochi giorni la critica costante condotta dalla Sinistra Universitaria per oltre un anno contro lo spontaneismo, denunciando la

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convergenza di tale linea con la strategia dell’ufficialità di sinistra, è stata parzialmente recepita dalla base del gruppo di architettura, che finalmente si è deciso a rompere con la dirigenza. L’altra forza politica di sinistra che a Napoli è in qualche modo presente nell’ateneo è il P.C.d’I., che è però incapace di un efficace intervento politico nei settori centrali della società moderna, e in particolare nell’Università, per insufficiente comprensione delle contraddizioni che si sviluppano in una società industrialmente avanzata, e per la conseguente mancanza di una strategia rivoluzionaria adeguata. A Napoli, mentre in sede nazionale il piano di riforma Leone proponeva di rimettere in vita le rappresentanze studentesche, i gruppi locali, legati alle burocrazie di partito o al clientelismo e al malcostume dei gruppi di destra, indicevano per il 18 novembre un referendum per l’approvazione di uno statuto che restaurasse il defunto ORUN, riproponendo, a livello locale, la politica partecipazionistica e di inglobamento che il sistema è costretto a portare avanti. In una serie di volantini che convocavano un’assemblea generale per quello stesso giorno, la Sinistra Universitaria denunciava la vera natura dell’ORUN individuando in tutte le istanze di cogestione la tendenza generale dello Stato moderno che «organizza e riconosce le associazioni che dovrebbero difendere coloro che esso opprime. Lo scopo che si raggiunge è evidente: questi organismi non possono più difendere le ragioni dei loro associati nei confronti del potere ma assumono la funzione di difendere le ragioni del potere nei confronti dei loro associati». Il vasto consenso

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raccolto da questo discorso politico e il timore che esso venisse sviluppato e approfondito costringevano i gruppi dell’ORUN a rinunciare al referendum. L’assemblea ebbe luogo ugualmente, e al termine di essa venne votata una mozione in cui si riconosceva che «l’unico modo per combattere nell’università contro la oppressione e l’arbitrio dei gruppi dominanti è quello di contrapporsi nettamente ad essi», si condannava ogni forma di «autogestione e cogestione nella università, come mezzi attraverso i quali il potere cerca di ostacolare la formazione di una coscienza critica», si deliberava «lo scioglimento dell’ORUN», si rivendicava «l’uso di aule a totale disposizione del movimento studentesco», si stabiliva l’istituzione di «pubbliche denunce contro l’arbitrio e la mistificazione culturale perpetuata dagli attuali detentori del sapere». L’assenza da queste lotte del gruppo di architettura rivela insieme la sua incapacità di intervenire a livello di massa e la sua volontà di limitare il movimento nel suo sviluppo, mantenendolo in forme di protesta generica; e rivela la sua oggettiva convergenza su posizioni riformistiche, che sarà riconfermata in altre occasioni. In questa assemblea ricomparvero sulla scena napoletana i fascisti che, di fronte alla precisa volontà della base studentesca di rigettare le proposte governative, tentarono di provocare incidenti, coerentemente al loro ruolo di mazzieri privati al servizio dell’ordine borghese, pronti a intervenire ogni volta che ci sia un’opposizione decisa da parte di movimenti di massa a un disegno che veda convergere interessi delle destre e delle forze governative. Puntualmente, il 3 dicembre, quando gli studenti dei licei occupano le loro scuole contro la circolare Sca-

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glia, per il diritto di assemblea, i fascisti organizzano spedizioni punitive contro i liceali, appiccano il fuoco al liceo Vico, devastano il liceo Mercalli. La risposta a questi avvenimenti e alle violenze poliziesche di Avola fu un corteo che, dopo aver attraversato la città, scacciò i fascisti al grido di “Università Rossa”. Nelle parole d’ordine, nel comizio tenuto sullo scalone della Minerva, nei volantini, si denunciarono le forze di polizia e i fascisti come strumenti legali e illegali di cui lo stato borghese si serve al pari della sua facciata democratica per imporre la logica classista che lo ispira. «Quando le guardie sono consegnate in caserma, si scioglie il guinzaglio alle bande fasciste», come diceva un cartello che fu issato di fronte alla questura. Si individuò nella parola d’ordine lanciata dal PCI, “disarmo della polizia”, il confluire dell’esigenza di recuperare la direzione del livello di massa e quella di riaffermare il proprio carattere di “forza democratica”, aperta al compromesso con i gruppi dominanti. Il 12 dicembre 1968 il movimento studentesco, in un’assemblea generale, decise di adibire a sua sede permanente l’Istituto di storia medievale e moderna dell’Università centrale; la sede era intesa come uno strumento essenziale per l’organizzazione del movimento, come punto di riferimento di un lavoro politico collettivo che sviluppasse a livello di massa la coscienza della logica di sfruttamento che unifica tutti gli aspetti del mondo borghese, la capacità di incidere nella realtà sociale. Essa era anche tesa a superare la tradizionale carenza di vita associata che caratterizza l’ambiente civile e culturale napoletano e che è connessa con l’arretrato livello di sviluppo sociale della città. Si dette

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esplicitamente alla sede una dimensione non corporativa, invitando con volantini gli studenti medi, i ceti popolari, e in particolar modo la classe operaia, a servirsene come luogo di incontro e di dibattito politico. Alla costruzione nell’università di un tale centro di riferimento che si sottraeva alla loro egemonia, le forze politiche ufficiali opposero il silenzio nella speranza forse che la mancanza di scontri politici e di polemiche portasse in breve tempo il movimento a esaurire la sua spinta. La polizia non interviene, la stampa, dal «Roma» a «l’Unità», non pubblica i comunicati del movimento studentesco, né dà notizia dell’esistenza della sede. Ma nonostante quest’opera di boicottaggio portata avanti dalle centrali politiche, nonché dai gruppi di “sinistra” operanti nell’università, un sempre più largo numero di studenti si va raccogliendo intorno alle attività di sede, sviluppando capacità di analisi politiche e di lavoro organizzato. Sorgono gruppi di studio sull’Università nei paesi a capitalismo avanzato e sulla realtà economica e sociale cittadina; si organizzano gruppi di facoltà che conducono un lavoro di demistificazione del carattere classista degli insegnamenti impartiti; si formano gruppi d’intervento politico che fanno opera di denuncia della corruzione accademica e degli interessi clientelari e di classe cui è collegata la vita universitaria, si svolgono attività di controinformazione attraverso giornali murali, bollettini periodici, volantini, comizi volanti. Il discorso si articola e si arricchisce: si fanno dibattiti sulla strategia del movimento studentesco, sulla figura dello studente nella realtà sociale, sulla politica italiana e internazionale, sull’imperialismo. Tutta questa serie

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di esperienze rende via via più chiaro il tipo di intervento da condurre a livello cittadino e in particolar modo a livello operaio. La presentazione della legge Sullo al consiglio superiore della P.I. e al convegno dei rettori delle università italiane, una riunione a Roma di “gruppi studenteschi” che, non riconoscendo al movimento “capacità di rappresentare se stesso”, si mettono sulla via di resuscitare l’UNURI, rendono necessario riaffermare il netto rifiuto del movimento studentesco a ogni proposta di cogestione. Il 15 gennaio molte centinaia di studenti interrompono la riunione del corpo accademico costringendo i docenti ad ascoltare la lettura del seguente volantino di denuncia distribuito sin dal giorno prima all’università e alla cittadinanza: Impediamo una farsa. Sotto la veste di “democratiche riunioni”, ammantate di discorsi in nome dello “sviluppo della scienza” e del “progresso democratico e civile del paese” vengono avallate le decisioni che il ristretto gruppo di vecchi e nuovi speculatori ha preso in una sede ben diversa dall’Università. La politica seguita per anni da questa gente è stata quella di dividersi il controllo della città e di evitare che in essa si potessero formare centri di vita associata in cui si sviluppasse una presa di coscienza capace di dare vita a movimenti di massa che contrastassero i loro piani. Sotto questo aspetto uno dei fili conduttori delle loro scelte è stato quello di smembrare l’Università (Policlinico ai Camaldoli, Politecnico a Fuorigrotta, Economia e Commercio a via Caracciolo). Stiano attenti tutti questi signori: il movimento studentesco ha coscienza delle loro speculazioni private, dei loro interessi di potere e ha la forza di combattere e denuncia-

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re i loro disegni. Riuniti nella “decorativa” Aula Magna ci saranno domani tanto i malfattori più tradizionali quanto i servi più moderni del capitale che hanno sostituito all’interesse privato quello del neo-capitalismo e sono i responsabili della distribuzione di quella cultura parcellizzata e acritica che è funzionale al potere della classe dominante. Il Movimento Studentesco ha capito attraverso le sue lotte e le sue riflessioni l’importanza della costruzione di una forza politica autonoma in contrapposizione alle manovre di imbrigliamento messe in atto dagli “illustri docenti”, riuniti nell’Aula Magna, di una forza capace di denunciare costoro costantemente e di sviluppare attività volte a far crescere la capacita critica e la visione politica di ogni studente. Coerentemente con questa linea impediamo questa farsa, realizziamo mercoledì 15 un dibattito su uno dei problemi che è necessario affrontare per comprendere la realtà di oggi nel suo complesso. Studenti, operai, cittadini, intervenite in massa mercoledì 15, alle ore 10, nell’aula magna dell’Università centrale al dibattito sull’imperialismo.

Dopo aver sciolto la riunione accademica gli studenti aprono un dibattito sull’imperialismo. Si mette così in evidenza la necessità di collegare le lotte che sono condotte nell’università con i temi politici più generali, si chiarisce che l’interruzione della seduta del corpo accademico non è un’azione di tipo “democratico”, tesa a rivendicare partecipazione o spazi di potere all’interno dell’università. Senza possibilità d’equivoco sono contrapposte la linea delle autorità accademiche e politiche che tendono a rinchiudere lo studente in ambiti particolari e a dargli una visione mistificata della realtà e quella del

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movimento studentesco che aspira ad acquistare un livello più generale di coscienza dei rapporti sociali e a sviluppare, muovendo dalla base più ampia possibile, il proprio intervento politico. L’aggressione fascista Dopo l’interruzione della seduta del corpo accademico, lo sviluppo del movimento studentesco su una linea di radicale e conseguente opposizione e la sua presenza quotidiana nella vita universitaria, non possono più essere ignorati dalle autorità accademiche e dalle organizzazioni politiche. Il 20 gennaio un gruppo di fascisti occupa un’ala della Facoltà di Giurisprudenza, al pianterreno della centrale, di fronte alla sede del movimento studentesco. Affiggono cartelli e striscioni inneggianti all’“Europa nazione” e all’“università europea”; espongono la bandiera cecoslovacca, lanciando con megafoni e altoparlanti slogan contro i russi e parole d’ordine come “Italia-Europa-rivoluzione”. Si proclamano contro gli USA e contro l’URSS: di fatto le loro posizioni sono accentuatamente antisovietiche e anticomuniste. Dietro questo paravento ideologico, piuttosto trasparente, si riconoscono i volti – già noti all`università – di esponenti del MSI e di sue filiazioni (FUAN-GUF, Giovane Italia, Potere Europeo, Ordine Nuovo). È evidente l’intenzione di creare un centro di riferimento di estrema destra nell’Università per tentare di stroncare il movimento studentesco. Il discorso è stato rammodernato: al consueto nazionalismo

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provinciale si è sostituito un nazionalismo europeo, espressione degli interessi di alcuni settori del capitalismo privato e collegato alle posizioni della destra europea e particolarmente tedesca. Ma randelli, catene, chiavi inglesi, caratterizzano meglio il tipo d’intervento che sono venuti a compiere. Durante la notte del 20 gennaio penetrano nella sede del movimento studentesco e ne distruggono materiale di propaganda e d’informazione politica. Il giorno successivo, 21 gennaio, il movimento studentesco convoca un’assemblea generale: i fascisti disturbano e avvengono tafferugli. L’assemblea non può aver luogo. Nei giorni successivi, nella sede del movimento studentesco si svolgono riunioni nelle quali si esamina il significato dell’intervento fascista, collegandolo all’interesse del governo di stroncare il movimento studentesco prima della discussione in parlamento del disegno di legge sulla riforma universitaria. Venerdì mattina, un’assemblea discute il progetto Sullo denunciandone il tentativo di contenere ogni opposizione con proposte di partecipazione e cogestione. Frattanto è in atto un tentativo di isolamento del movimento studentesco: il ‘Roma’ dà notizia con simpatia degli “europeisti”, gli altri giornali cittadini danno rilievo a occupazioni di facoltà periferiche che portano avanti richieste di cogestione e non parlano dell’assemblea che ha respinto il progetto Sullo; gli incidenti avvenuti alla centrale sono presentati come scontri di estremisti di opposte ideologie; nell’ambito universitario il gruppo di Architettura non sa far di meglio che accusare la Sinistra Universitaria di aver creato un movimento studentesco di élite stac-

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cato dalle masse e di essere per questo responsabile dell’intervento fascista, ma, contraddittoriamente, rifiuta una piattaforma di massa come quella antifascista, definendola “squalificata”, e in un volantino a firma “Studenti in lotta” giunge a dire che «in questo momento alla centrale ci sono due sedi del movimento studentesco. Da una parte i fascisti… dall’altra la Sinistra Universitaria». Anche il P.C.d’I., forse per incomprensione della situazione politica, ritiene di doversi associare alla campagna d’isolamento e diffonde in quegli stessi giorni un volantino in cui si attacca la Sinistra Universitaria come “ala democratica della borghesia”. Completa umoristicamente il quadro il manifestino di due o tre studenti di ispirazione lombardiana che, firmandosi “Gruppi di Azione democratica”, in nome di un socialismo «più vero e umano» rifiutano «ogni metodo di rissa ideologica» per «discutere in eguaglianza». Il 24 gennaio, la Giovane Italia e il Movimento Sociale Italiano indicono per il giorno successivo un corteo cittadino per la morte dello studente cecoslovacco Palach. Nel tardo pomeriggio dello stesso giorno, poco dopo la diffusione di un volantino a firma delle federazioni giovanili del PCI e del PSIUP, un numeroso gruppo di cittadini, operai e studenti (prevalentemente della FGCI) entra nell’Università per scacciarne i fascisti. La polizia interviene immediatamente e protegge l’uscita degli “europeisti”, mentre i pompieri spengono un principio d’incendio dovuto al lancio di bottiglie Molotov da parte degli elementi di destra. Il tutto si conclude tra i sorrisi di soddisfazione dei parlamentari comunisti e dei commissari di

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polizia; gli studenti vorrebbero tenere con gli operai convenuti un’assemblea nell’Università, ma l’iniziativa viene bloccata dai dirigenti del PCI. L’indomani mattina la questura nega l’autorizzazione al corteo, ma la mobilitazione fascista all’università avviene ugualmente. Vi partecipano squadre provenienti da Roma e da altre città meridionali. Nei pressi dell’ateneo gruppi di teppisti aggrediscono esponenti isolati del movimento. Dopo essersi organizzati nell’atrio, i fascisti tentano di irrompere nella sede del movimento. Gli studenti chiudono i cancelli e le porte di accesso; gli assalitori, con bottiglie Molotov e pistole lanciarazzi, appiccano il fuoco alle suppellettili usate per barricare gli ingressi. Altre squadracce danno l’assalto al primo piano della facoltà di Lettere e di Giurisprudenza. La polizia e i pompieri, così solerti il giorno precedente, stanno fuori a guardare e intervengono solo quando le fiamme arrivano ai piani superiori e il fumo ha reso inagibile tutto l’edificio. Fuori i teppisti tentano di rovesciare un’autopompa dei vigili del fuoco, fermano un’autoambulanza per perquisirla, assaltano la federazione comunista. L’intervento fascista a Napoli non è stato un episodio isolato, fatti analoghi sono avvenuti, anche se non della stessa gravità, un po’ dovunque in Italia (attentati a sedi di partiti di sinistra a Milano, cortei, scontri e occupazioni a Roma, etc.); quindi, se se ne vuole comprendere il significato, bisogna tener presente la situazione politica nazionale nel suo complesso. In Italia lo sviluppo del processo di ammodernamento capitalistico, in una situazione generale in cui

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permangono i gravi tradizionali fattori di arretratezza economica e sociale propria del nostro paese, acuisce contraddizioni e squilibri. La diffusa condizione di disagio delle classi meno abbienti, e di vasti strati della popolazione, negli ultimi anni si è tradotta nella presenza di forti spinte di massa che hanno accresciuto il peso contrattuale dei partiti di sinistra, tradizionalmente egemoni dei movimenti popolari. I risultati elettorali del 19 maggio hanno reso evidente lo spostamento a sinistra dell’elettorato e il rafforzamento del PCI e del PSIUP, mentre la coalizione governativa è stata fortemente indebolita dal cedimento del PSI, e le destre hanno perduto ulteriormente posizioni. Il successo elettorale del PCI e del PSIUP ha spinto alcuni gruppi della DC e del PSI a sinistra: al congresso del PSI e al consiglio nazionale della DC, alcune correnti di questi partiti facenti capo a De Martino, Moro e altri, hanno apertamente mostrato di essere disposti a un incontro “polemico e dialettico” col PCI. Sembrano più vicine e concrete le possibilità di attuazione del disegno strategico delle sinistre italiane che tendono a giungere al potere attraverso una linea di accordi e compromessi con gruppi capitalistici. Il persistere, però, di forze economiche e sociali legate a forme più antiquate di organizzazione, condiziona fortemente le soluzioni politiche possibili. Le destre, in questo momento, hanno interesse a intervenire con tutto il loro peso per cercare di ostacolare ulteriori spostamenti a sinistra della coalizione di potere. Così, vecchi e nuovi fascisti si ripresentano in forza sulla scena politica, utilizzando lo spazio che l’attuale governo di centro-sinistra è costretto a lasciare loro, nella misura in

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cui intende resistere alla pressione da sinistra. Questo governo deve, da un lato concedere riforme che alleggeriscano le tensioni sociali per evitare che lo sviluppo eccessivo dei movimenti di massa vada a rafforzare il potere di contrattazione del PCI, e d’altro canto deve contenere lo sviluppo delle agitazioni e combattere in maniera dura quei centri di reale opposizione che si sono formati all’interno dei movimenti di massa, e che si propongono di portare fino in fondo la lotta al sistema di sfruttamento e di oppressione. Esemplare in questo senso è l’atteggiamento sui problemi della scuola: il ministro Sullo parla agli studenti del Mamiami, riconosce il diritto di assemblea, modifica gli esami di stato, ma la polizia è pronta a stroncare ogni possibile rafforzamento del movimento studentesco quando questo si ponga su di un filo di reale rottura. E a volte i fascisti sono uno strumento di repressione più comodo della polizia, il cui intervento nei contrasti sociali ha il grave inconveniente di mettere in luce il carattere di classe dello stato. Possono quindi incontrarsi l’esigenza delle destre di intervenire in modo massiccio nella situazione politica, e l’interesse delle forze di potere a servirsi dei fascisti, a lasciare loro il campo, purché naturalmente non vadano oltre i confini che sono ad essi assegnati. La risposta del movimento studentesco All’incendio della sede seguiva la campagna degli organi ufficiali d’informazione volta a far ricadere sul movimento studentesco, presentato come un gruppo

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di “estremisti”, le responsabilità dei gravi disordini avvenuti nei giorni precedenti. Gli studenti del movimento, fin dal pomeriggio del sabato, occupano locali di facoltà periferiche, e in riunioni e assemblee affermano la volontà di gestire fino in fondo le proprie piattaforme politiche e di proseguire anche sul piano cittadino la lotta iniziata nell’Università. La domenica mattina, nel corso di un’assemblea, veniva approvata la seguente mozione: Il m.s. napoletano denuncia il fatto che, pur di emarginarlo dalla vita universitaria e in particolare estrometterlo dalla sua sede, occupata fin dal 12-12-68, le autorità accademiche, in combutta con le autorità cittadine, non hanno avuto ritegno a usare un’altra volta le forze irregolari al loro servizio: i fascisti. Questo dimostra che, quando mancano altri mezzi per soffocare ogni attività continua e costruttiva delle masse, rimane come unico mezzo la violenza repressiva organizzata, culminata con l’attacco in forze delle squadracce armate fasciste che hanno dato fuoco all’Università. In questa violenza organizzata rientra anche la distorsione dei fatti che tende a far ricadere la responsabilità dell’accaduto su un ristretto gruppo di “estremisti” e a non permettere la comprensione del fatto che il m.s. è una forza pratica reale che trova il suo consenso nella vasta massa degli studenti, eccezione fatta, per loro esplicita dichiarazione, dei soli fascisti. Il m.s. sottolinea il comportamento delle forze di polizia, che così ancora una volta mostrano il loro vero volto. Esse, infatti, hanno costantemente protetto le squadracce fasciste favorendone l’uscita dall’Università la sera di venerdì 24, lasciando invece che il giorno dopo esse svolgessero fino alla fine la loro opera di attacco alle persone e di distruzione, intervenendo solo dopo che l’azione, culminata

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nell’incendio era stata portava a termine e i responsabili si erano dileguati. Perciò il m.s. ribadisce la necessità dello sviluppo di una seria coscienza di lotta antifascista. Il m.s. vede indissolubilmente legata tale lotta antifascista alla continuazione del suo lavoro di costruzione di un movimento politico autonomo di massa nell’Università e pertanto ribadisce la necessità del possesso di una sede stabile nel cuore dell’Università. Deve continuare l’opera di costruzione in essa iniziata attraverso dibattiti politici, riunioni di gruppi di facoltà, azione quotidiana d’informazione e di denuncia contro ogni sopruso particolare. Il m.s. denuncia come questa azione violenta, che tende a privarlo della propria sede e della propria autonomia politica, faccia parte di un disegno più generale della classe dominante che cerca di trasformare ogni organizzazione di massa in un organo di trasmissione delle sue decisioni e dei suoi interessi. Perciò viene riproposto in questi giorni al m.s., attraverso la legge Sullo, in cambio della sua autonomia politica e organizzativa, la possibilità di cogestire con i potenti il mantenimento del loro predominio e dei loro interessi nell’ambito dell’Università. Il m.s. invita pertanto alla mobilitazione generale gli studenti, gli operai, i cittadini e tutte le forze che condividono questa analisi e questi obiettivi di lotta.

La sera dello stesso giorno si dava inizio a un’attività di controinformazione, con lo scopo di diffondere la versione esatta degli avvenimenti, cercando di combattere, nei limiti dei mezzi a disposizione, la campagna di deformazione dei fatti organizzata dagli organi ufficiali di stampa e dalla televisione. Durante tutta la giornata di lunedì e di martedì erano diffusi, in migliaia e migliaia di copie, a tutta la cittadinanza, e in special modo agli universitari, agli studenti medi e agli operai, un volantino con il resoconto degli

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avvenimenti, e il testo della mozione sopra riportata. Il volantinaggio presso le fabbriche, accompagnato da comizi “volanti” con megafoni e altoparlanti, si inseriva in una visione dei rapporti tra mondo operaio e movimento studentesco che, rifiutando una logica settoriale (sindacalismo dei gruppi operaisti), invitava operai e studenti a combattere su di una stessa piattaforma politica. Un’iniziativa dello stesso tipo, nei confronti della classe operaia, era già stata presa in occasione dell’occupazione della sede, quando con un’analoga azione di propaganda era stato chiarito che essa non aveva alcun significato settoriale e corporativo, ma rappresentava un punto di riferimento politico a disposizione di tutti, rivendicando così la funzione sociale dell’Università. Contemporaneamente a queste iniziative veniva annunciata un’assemblea generale da tenersi martedì 28 gennaio, pubblicizzata anch’essa con una massiccia opera di volantinaggio. Il PCI, intanto, si faceva promotore, tramite la Camera confederale del lavoro, di una grande manifestazione unitaria antifascista cui aderiva pure la CISL. Si delineavano, così, due diversi atteggiamenti di fronte al problema del fascismo: la posizione del movimento studentesco, che metteva in evidenza come, nell’attuale fase di sviluppo del mondo borghese, i movimenti fascisti non fossero altro che strumenti di repressione, perfettamente compatibili con la facciata “democratica” della società capitalistica; e quella della sinistra ufficiale che, in linea con la propria strategia, proponeva una manifestazione “democratica” e interclassista di protesta contro “ogni velleità di rigurgiti fascisti”, considerati evidentemente una realtà estranea all’attuale contesto sociale.

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Questa manifestazione – un corteo cittadino da piazza Mancini a piazza Matteotti –, prevista per il martedì pomeriggio, veniva rinviata, poi, al giorno successivo, forse per evitare la coincidenza con la protesta studentesca e permettere alla sinistra ufficiale di presentarsi come l’unica forza capace di condurre, a livello cittadino, una vasta azione politica. Martedì mattina, dopo l’intensa azione di controinformazione dei giorni precedenti, aveva luogo l’assemblea generale in un clima di massiccia intimidazione, per la presenza di ingenti forze di polizia schierate di fronte al corpo centrale dell’università e accanto agli ingressi. Ciò nonostante, l’atrio e lo scalone della Minerva erano gremiti di studenti universitari e medi. Il PCI era assente come forza organizzata e i pochi quadri della FGCI intervenuti non partecipavano alla discussione. Al termine dell’assemblea, nella quale in numerosi interventi era stato messo in luce il significato politico dell’aggressione, gli studenti, in segno di protesta, decidevano l’occupazione dell’Università centrale. E poiché la sede del movimento era ormai impraticabile per i danni subiti, occupavano come sede provvisoria l’Aula magna. Nel corso delle assemblee tenute il martedì pomeriggio e il mercoledì mattina, emersero chiaramente nel movimento studentesco la volontà di continuare fino in fondo la lotta antifascista, sulla base della propria piattaforma politica, e la necessità di portare all’esterno dell’Università le propria lotte, legandosi in particolar modo alla classe operaia. Il movimento studentesco, quindi, con la prospettiva d’imprimere una svolta radicale alla manifestazione della Camera del Lavoro,

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imponendo ad essa la propria direzione, decideva di partecipare al corteo. Il corteo muoveva da piazza Mancini, sotto la direzione di sindacalisti e di dirigenti di partito, intonando canzoni di tipo resistenziale e gridando slogan di generico antifascismo. Dinanzi all’Università gli studenti, con i propri striscioni e cartelli, al canto dell’“Internazionale” ne prendevano la testa e lanciavano parole d’ordine polemiche contro le posizioni legalitarie e “democratiche” dell’ufficialità di sinistra (“lo stato borghese-unico nemico”; “riforme no – rivoluzione sì”; “dittatura proletaria”; “fascisti – poliziotti”; “Lenin”) raccolte dagli operai e da tutti i manifestanti. Ignorando l’organizzazione prevista dalle burocrazie di partito e sindacali, secondo le quali il tutto si sarebbe dovuto concludere con un composto comizio a piazza Matteotti, il corteo, rompendo il cordone dei sindacalisti della CGIL, proseguiva per via Roma diretto alla sede del MSI, continuando a scandire parole di ordine di lotta. Mentre l’oratore doveva limitarsi a rivolgere qualche parola improvvisata alle poche persone rimaste ad ascoltarlo: studenti, operai, militanti di base del PCI e PCd’I, nei pressi di piazzetta Augusteo si scontravano ripetutamente con le forze di polizia schierate a difesa dei fascisti. Più tardi altri violenti scontri avvenivano presso la questura. La sinistra ufficiale Il comportamento della sinistra ufficiale nei recenti avvenimenti di Napoli ha costituito un’utile esperienza

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per il movimento studentesco; è opportuno dunque soffermarvisi premettendo alcune considerazioni più generali. Nel momento in cui sembra che l’accresciuta tensione nazionale e internazionale faccia passare la volontà di governo della sinistra non solo attraverso le manovre di vertice, ma anche attraverso l’utilizzazione di movimenti di massa, il PCI, dopo le iniziali posizioni di condanna del movimento studentesco, deve in qualche modo reinserirsi in esso per potersene garantire la direzione. Con le lotte degli ultimi anni, l’ufficialità di sinistra era stata posta ai margini del movimento che ne aveva rifiutate le posizioni “riformiste” e “sindacalizzatrici”, nonché la parola d’ordine di “potere studentesco”. L’avvicinarsi della scadenza elettorale favorisce un atteggiamento più duttile del partito che riscopre, attraverso le proposte di Occhetto e della Rossanda, coerenti con le posizioni assunte dal leader del partito, la teoria gramsciana dell’“egemonia”. Il PCI comprende, cioè, che non è necessario “dirigere” in prima persona il movimento studentesco per utilizzarne politicamente le lotte, soprattutto se l’attestarsi del movimento su posizioni spontaneiste ne limiti le possibilità di caratterizzarsi con una propria fisionomia e di esprimere una propria direzione. È significativo, a questo riguardo, il comunicato dell’ufficio politico del PCI sui fatti di Napoli («l’Unità», 29 gennaio 1969) in cui si auspica «il rafforzamento dei movimenti in atto, della loro autonomia e del loro carattere di massa» e, si aggiunge, «errato sarebbe ogni atteggiamento… che portasse il movimento democratico e studentesco a un restringimento delle proprie basi di massa e all’adozio-

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ne di forme di azione che oggettivamente trasformassero la lotta in uno scontro di gruppi ristretti o slegati dalle masse». La proposta è chiara: niente gruppi che si qualifichino teoricamente e politicamente, bensì un largo movimento di massa genericamente caratterizzato a sinistra la cui direzione «non può, senza gravi danni, contrapporsi a quella operante in seno al movimento operaio e che si esprime attraverso i suoi organi di classe, partito e sindacati»6. In questo modo il PCI cerca di garantirsi la gestione politica della protesta studentesca. La diffusione nel movimento di posizioni antileniniste sostenute da vari gruppi della dissidenza, collegati soprattutto alle posizioni di «Quaderni rossi», contribuisce ad impedire una reale maturazione del movimento e favorisce di fatto l’attuazione della linea del PCI. Questa manovra, che è portata avanti a livello nazionale, a Napoli trova spazio minore che altrove per realizzarsi. Ciò è connesso essenzialmente a due fattori: a) la presenza massiccia a livello cittadino di forze reazionarie legate all’arretratezza economica e culturale della regione, e quindi la relativa debolezza delle forze rinnovatrici rappresentate dal PCI e dal PSIUP (quest’ultimo tra l’altro è quasi inesistente); b) la presenza nel movimento studentesco napoletano di una forza politica, la Sinistra Universitaria, che, nata dalla spaccatura dell’UGI (maggio ’67), muovendosi su posizioni leniniste, attraverso le lotte del ’67-’68, è riuscita a battere le posizioni della sinistra G. Amendola, Necessità della lotta su due fronti, «Rinascita», 7 giugno 1967. 6

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ufficiale e ad emarginare completamente il gruppo legato alla FGCI. La linea del PCI-PSIUP è stata, per questo da febbraio ’68 in poi, assente dalle lotte universitarie, tranne che in maniera mediata e senza molto seguito attraverso il gruppo della facoltà di architettura. Questi fatti spiegano perché di fronte al crescere e al consolidarsi a livello di massa del movimento studentesco al di fuori del controllo della sinistra ufficiale, l’atteggiamento del PCI sia stato quello di tentare di limitarne lo sviluppo, piuttosto che di rendersene egemone. In questo senso va interpretato il silenzio de «l’Unità» sulla sede del movimento e il largo spazio dato invece alle occupazioni “padronali” di facoltà periferiche, contribuendo al tentativo d’isolamento del movimento studentesco cui venivano contrapposti, dalla stampa governativa, i “bravi ragazzi” che, nella facoltà di Veterinaria, per esempio, richiedevano la “fattoria modello”. Caratteristico ancora è l’atteggiamento rinunciatario in occasione dei fatti di Marina di Pietrasanta tenuto dalla FGCI napoletana, infatti, mentre in campo nazionale il PCI, gestiva la protesta per l’accaduto, a Napoli l’organizzazione giovanile del partito non solo non prendeva iniziative, ma non partecipava neppure ai dibattiti organizzati dal movimento studentesco. La formazione, inoltre, nell’ultimo congresso provinciale del PCI, di un gruppo di minoranza su posizioni più radicali, costituito da un centinaio di delegati vicini all’ambiente giovanile del partito, è stato un ulteriore fattore di debolezza che ha pesato sulla valutazione di un eventuale intervento nell’Università, nel momento in cui la direzione del

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partito non era ancora riuscita a garantirsi il controllo di questa opposizione interna. Anche in occasione della provocazione fascista continua il silenzio de «l’Unità»: solo un breve trafiletto mercoledì 22 gennaio informa della presenza dei fascisti e dà notizia per la prima volta della sede del movimento studentesco. Ma quando il MSI e la Giovane Italia annunziano per sabato 25 un corteo per i fatti di Cecoslovacchia, il PCI si vede costretto ad intervenire perché non può permettere che un corteo anticomunista percorra le strade napoletane. Tanto più che il movimento studentesco ha preso l’iniziativa di diffondere volantini sull’accaduto alla cittadinanza e presso le fabbriche, e tende quindi a porsi come elemento di direzione della protesta anche fuori dell’ambito d’ateneo. Ma l’intervento (la sera di venerdì 24) non può essere condotto che dall’esterno della vita universitaria. Dopo l’incendio appiccato dai fascisti, l’importanza stessa degli avvenimenti spinge il partito ai farsi promotore di una mobilitazione cittadina delle forze antifasciste. L’impostazione politica della manifestazione riprende i temi del più generico antifascismo resistenziale, come emerge anche dalle posizioni assunte a livello nazionale: «L’aggressione fascista all’università di Napoli che ha fatto seguito ad altri episodi di violenza, testimonia la volontà dei gruppi reazionari di avvelenare con il ricorso a metodi teppistici la vita politica del paese» (dal comunicato dell’ufficio politico del PCI, «l’Unità» 29 gennaio). Si evita così di collegare il fascismo con la più generale violenza che caratterizza la società divisa in classi e di fare un

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discorso sulla polizia come strumento dello stato borghese; addirittura così conclude il comunicato: «spetta quindi oggi alla vigilanza attiva delle masse impedire nuovi episodi e scoraggiare nuovi tentativi teppistici ed imporre che vengano garantiti innanzitutto dagli organi del pubblico potere i diritti sanciti dalla Costituzione Repubblicana». In questo spirito si propone un corteo unitario indetto dalla Camera del Lavoro che si concluda ordinatamente con il discorso di un dirigente sindacale. L’insieme delle posizioni assunte dal PCI mostra chiaramente da un lato la rinuncia ad intervenire dall’interno nelle lotte universitarie e dall’altro la volontà d’impedire che il movimento studentesco si ponga come punto di riferimento politico autonomo anche all’esterno dell’Università. Si cercava così di cambiare il contenuto stesso della lotta: al posto di una piattaforma decisamente anticapitalistica e collocata nella prospettiva di una generale trasformazione, si proponeva un’impostazione più limitata, mirante ad emarginare alcuni gruppi particolarmente arretrati della società allo scopo di rendere più agevole al partito la strada dell’inserimento governativo. Coerente è quindi l’atteggiamento del servizio d’ordine della CGIL, che più volte durante il corteo ha serrato le file cercando inutilmente di tenere divisi gli operai dagli studenti; coerente l’atteggiamento de «l’Unità» il giorno successivo, che presenta una versione dei fatti tesa a dimostrare che tutto è avvenuto nella direzione voluta dal PCI: il comizio si è svolto regolarmente, solo dopo, alcuni manifestanti si sarebbero scontrati con la polizia davanti alla sede del MSI. Viene

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cancellata visibilmente sulla foto del corteo pubblicata la parola d’ordine “Riforme no, Rivoluzione sì”.

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Finito di stampare nel mese di maggio 2018 presso Vulcanica s.r.l. Nola (NA)