Il satiro scientifico. Storie di merda. Scienza, usi e costumi della materia fecale [1/1, 1 ed.] 9788835730378

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Table of contents :
PROLOGO. di Pierluigi Tosi
IL MANUALE DELLE TATTICHE DI CACCA A COMANDO. di Jacopo De Luca
IL SIMPOSIO FECALE. di Papucy
CHIMICACCA. di Eva Munter
QUELLO CHE LE DONNE NON ESPLETANO. di Martina Catuzzi
COME SI FA NELLO SPAZIO (E ALTRE DIFFICOLTÀ COSMICHE). di Luca Perri
DESIDERI DI MERDA. di Federica Cacciola
IL SISTEMA GASTROINTESTINALE: COME TUTTO QUELLO CHE MANGI SI TRASFORMA IN MERDA. di Claudia Penzavecchia
COME NON CAGARE IN UN BARATTOLO. di Edoardo Confuorto
LA MIA COLLEZIONE DI CACCHE. di Pierluigi Tosi
A PROPOSITO DI STERCO…. di Dario Vergassola
SONO FATTE COSÌ: ESPLORANDO LE FECI DEGLI ANIMALI DOMESTICI. di Lorenza Polistena
IL DONO DELLA CACCA. di Daniele Fabbri
INQUINAMENTO DA NUTRIENTI. di Ruggero Rollini
MAL D’AFRICA (O DI QUELLA VOLTA IN CUI ANDARE IN BAGNO MI HA APERTO GLI OCCHI SULL’OCCIDENTE). di Daniele Tinti
SESSO DI GRUPPO, DEFECAZIONI TARDIGRADE E ALTERNATIVE A TINDER. di Alessandro Mustazzolu
PORTA FORTUNA!. di Velia Lalli
CACCA SU MARTE. di Silvia Kuna Ballero
LA MERENDA COMPLETA DEL DOTTOR KEVORKIAN. di Alessandro Gori
TUTTOCACCA: DEIEZIONI DI PIANTE E ANIMALISSIMI. di Marco Martinelli
VENITE, ADOREMUS. di Eleazaro Rossi
A CACCA DI FOSSILI: L’INCREDIBILE MONDO DEI COPROLITI. di Willy Guasti
TRE RICERCHE DI MERDA. di Pierluigi Tosi
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Il satiro scientifico. Storie di merda. Scienza, usi e costumi della materia fecale [1/1, 1 ed.]
 9788835730378

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Pierluigi Tosi (Barbascura X)

Il satiro scientifico

STORIE DI MERDA Scienza, usi e costumi della materia fecale

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INDICE

Copertina L’immagine Il libro L’autore Frontespizio IL SATIRO SCIENTIFICO. Storie di MERDA. PROLOGO. di Barbascura X IL MANUALE DELLE TATTICHE DI CACCA A COMANDO. di Jacopo De Luca IL SIMPOSIO FECALE. di Papucy CHIMICACCA. di Eva Munter QUELLO CHE LE DONNE NON ESPLETANO. di Martina Catuzzi COME SI FA NELLO SPAZIO (E ALTRE DIFFICOLTÀ COSMICHE). di Luca Perri DESIDERI DI MERDA. di Federica Cacciola IL SISTEMA GASTROINTESTINALE: COME TUTTO QUELLO CHE MANGI SI TRASFORMA IN MERDA. di Claudia Penzavecchia COME NON CAGARE IN UN BARATTOLO. di Edoardo Confuorto LA MIA COLLEZIONE DI CACCHE. di Barbascura X A PROPOSITO DI STERCO…. di Dario Vergassola SONO FATTE COSÌ: ESPLORANDO LE FECI DEGLI ANIMALI DOMESTICI. di Lorenza Polistena IL DONO DELLA CACCA. di Daniele Fabbri INQUINAMENTO DA NUTRIENTI. di Ruggero Rollini MAL D’AFRICA (O DI QUELLA VOLTA IN CUI ANDARE IN BAGNO MI HA APERTO GLI OCCHI SULL’OCCIDENTE). di Daniele Tinti SESSO DI GRUPPO, DEFECAZIONI TARDIGRADE E ALTERNATIVE A TINDER. di Alessandro Mustazzolu PORTA FORTUNA!. di Velia Lalli CACCA SU MARTE. di Silvia Kuna Ballero LA MERENDA COMPLETA DEL DOTTOR KEVORKIAN. di Alessandro Gori TUTTOCACCA: DEIEZIONI DI PIANTE E ANIMALISSIMI. di Marco Martinelli VENITE, ADOREMUS. di Eleazaro Rossi A CACCA DI FOSSILI: L’INCREDIBILE MONDO DEI COPROLITI. di Willy Guasti TRE RICERCHE DI MERDA. di Barbascura X Crediti iconografici Copyright

Il libro

A

un certo punto, il signor Mondadori mi chiede di diventare il curatore di una rivista scientifica. «Signor Mondadori, sono lusingato, ma mi concede un azzardo?»

«Quale, o villoso Barbascura?» «Mi faccia fare una rivista a modo mio.» «Intendi a cazzo di cane?» «Esatto. Una rivista scientifica più pop, dove possiamo parlare anche di roba sconcia, che sia tanto scientifica quanto spassosa, e che se ci scappa faccia venire pure una paresi facciale.» «Intendi “ridere”?» «Non esageriamo.» Quel babbeo del signor Mondadori ha accettato, ed eccoci qui. L’idea è semplice: 1. Scegliere l’argomento del volume. 2. Chiedere a varati e ben noti divulgatori scientifici di scrivere pezzi su tale argomento nello stile più smaliziato e pop possibile. 3. Chiedere a stand-up comedian di gettarla in caciara in inserti a loro dedicati. 4. Mischiare il tutto con una mannaia. 5. Ingollare crudo. Considerando che Riprodursi male, il numero precedente, era il primo, se la matematica non mi inganna questo dovrebbe essere il secondo. Potete immaginare la mia gioia: se state leggendo queste parole significa che non ci hanno chiuso la baracca. Non ancora. Anzi, ci hanno addirittura dato un premio, il “Premio Satira” per la scienza. E qui non vi nascondo la mia ansia da prestazione. Adesso bisogna alzare l’asticella, parlare di qualcosa che tutti amano ma su cui ci sono ancora un sacco di dubbi. Ero indeciso tra la meccanica quantistica e la merda, ma alla fine come vedete ha vinto la merda. Quindi, buona lettura. Che la cacca abbia inizio!

L’autore BarbascuraX è chimico, divulgatore scientifico, performer teatrale, scrittore, autore televisivo e pirata male. Laureato in chimica organica e con un dottorato in chimica verde e produzione di materiali da fonti rinnovabili, ha lavorato in importanti laboratori di tutta Europa. È divenuto celebre sul web per la rubrica “Scienza Brutta”, una serie di pseudodocumentari parodistici e irriverenti in cui vengono raccontati gli aspetti meno noti e sconvolgenti delle scienze naturalistiche. Tra divulgazione e comedy, ha portato la scienza in teatro, web e televisione. Per il suo modo inusuale di trattare questi argomenti è stato definito il punk della divulgazione scientifica. Per Mondadori, nel 2021, ha pubblicato Saggio erotico sulla fine del mondo. Instagram: barbascura_x YouTube: Barbascura X

Crediti iconografici

I numeri di pagina si riferiscono all’edizione cartacea. P. 14: Foto di Fabrizio Nizza - La Capannina, Forte dei Marmi P. 25: Mondadori Portfolio / Age P. 28: Rushen / Khao Yai National Park P. 31: Photomaster / Shutterstock P. 40: Frank Deschandol & Philippe Sabine / Biosphoto / Mondadori Portfolio P. 64: Universal History Archive / Universal Images Group / Getty Images P. 77: Science History Images / Alamy Foto Stock P. 80: Courtesy Smithsonian National Air and Space Museum P. 82: NASA images P. 83: NASA images P. 84: Yuen Man Cheung / Alamy Stock Photo P. 98: Valentina Antuganova / Shutterstock P. 100: Cenveo P. 101: Vectomart / Shutterstock P. 109: Cenveo P. 112: Baldezh / Shutterstock P. 122: Studio Romantic/Shutterstock P. 150: Joshua Gao / Shutterstock P. 164: Bespaliy / Shutterstock P. 166: Atovot / Shutterstock P. 170: Jacquie Klose /Shutterstock P. 172: Nonzy / Shutterstock P. 174: Octavian Lazar / iStock / Getty Images Plus P. 219: Mondadori Portfolio / Archivio GBB P. 221: Image from: Møbjerg, N., Neves, R.C., New insights into survival strategies of tardigrades, in “Comparative Biochemistry and Physiology Part A: Molecular &Integrative Physiology”, 2021. Courtesy Nadia Møbjerg, Copenaghen Universtity P. 227: Courtesy Tessa Montague, PhD Columbia University P. 234: Nadja Golubitskaya / Shutterstock P. 238: Paopano / Shutterstock P. 244: Valery Rybakow / Shutterstock P. 250: Dr Jeremy Burgess / Science Photo Library / AGF P. 251 (in alto): Ldarin / Shutterstock P. 251 (in basso): Kallayanee Naloka / Shutterstock P. 253: Kallayanee Naloka / Shutterstock P. 255: Macronatura.es / Shutterstock P. 259: Irina Borsuchenko / Shutterstock P. 264: BlueRed / REDA&CO / Universal Images Group / Getty Images P. 265: Wellcome Collection P. 267: Immagine tratta da: On the Discovery of Coprolites, or Fossil Faeces, in the Lias at Lyme Regis, and in other Formations, by The Rev. W. Buckland, D.D. V.P.G.S., F.R.S. F.L.S. Professor of Mineralogy and Geology in the University of Oxford (Read Feb. 6th, 1829) P. 268: Marie Lemerle / Shutterstock P. 269: Wellcome Collection P. 272: Foto James St. John P. 279: Courtesy Poozeum.com P. 280: United States Geological Survey P. 285: Apiwich Pudsumran / Shutterstock P. 290: Nukul Chanada / Shutterstock P. 293 (a sinistra): Ken Griffiths / Shutterstock P. 293 (a destra): Pixelheld / Shutterstock

L’Editore ha cercato con ogni mezzo i titolari dei diritti delle immagini. È ovviamente a piena disposizione per l’assolvimento di quanto occorra nei confronti dei titolari di eventuali diritti non chiariti.

BARBASCURA X

PROLOGO Shakespeare, in Romeo e Giulietta, scriveva: “Che c’è nel nome? Quella che noi chiamiamo rosa, anche con altro nome avrebbe il suo profumo”. Ora sostituite “rosa” con “merda”, ed eccoci qua signor giudice. Amici, amiche e venditori di coriandoli, bentornati su Il satiro scientifico, la prima libro-rivista-collana-tuttecose al mondo nata per sbaglio dall’accoppiamento tra un divulgatore e un comico, tra un dotto e un idiota, tra un Nobel e un candidato Nobel. Una specie di ornitorinco impagliato a caso di cane che divulga duro ma dice un sacco di cazzate. Sono felice di aver creato questa roba, mettendo in difficoltà il pudore di Mondadori. Per lo meno, adesso possono dire di aver pubblicato un libro con l’illustrazione di un tricheco che si fa un soffocotto da solo (vedi numero precedente). E considerando che il volume precedente era il primo, se la matematica non mi inganna questo dovrebbe essere il secondo. Potete immaginare la mia gioia: se state leggendo queste parole significa che non ci hanno chiuso la baracca. Non ancora. Anzi, dato che siete una massa di masochisti maledetti, a quanto pare avete addirittura apprezzato questo progetto, così tanto che a settembre 2023 sono stato invitato a ritirare un premio al Premio internazionale di Satira di Forte dei Marmi. Quando me l’hanno detto m’è venuto un coccolone. Non per niente, ma nel corso della sua storia questo premio è stato assegnato a tizi come Monicelli, Proietti, Fo, Benigni, Raffaele, Aldo Giovanni e Giacomo, Camilleri ecc. Non so se li conoscete, mi dicono che siano famosini. A me è stato dato il premio “satira scientifica”. Capiamoci, che qualcuno voglia premiarmi è cosa buona e giusta: so muovere le orecchie, e conosco perfettamente il sistema di accoppiamento di qualsiasi malabestia, specialmente dei miei vicini. Tuttavia, credo che ad averli spinti a premiarmi non sia stata solo la mia carriera da divulgatore malvagio, né tantomeno Armando – quel mio amico robusto armato di machete che ho mandato a salutare l’organizzatore a casa sua mentre le sue figlie dormivano –, quanto forse proprio questo progetto che tenete tra le mani. O, almeno, così mi piace pensare. E dire che la categoria “satira scientifica” nemmeno esisteva. L’hanno creata apposta per me. Oooooh Grazie, Armando. Ho sempre sognato di vincere un Nobel, ma diciamocelo francamente, questo è molto meglio. Non mi risulta che Einstein, Curie o Heisenberg abbiano mai vinto un simile premio. Poveri scemi.

Così, nella mia ingenuità, animato da un breve moto d’orgoglio quasi autocelebrativo, ho scritto spavaldo su Twitter: “Cazzo, ragà, questo significa che sono il primo premiato della storia?”. Non solo eroe del popolo, culturista e amante eccezionale, adesso addirittura pioniere! Gli utenti dei social, col loro incredibile e inarrestabile carico d’amore, non si sono fatti attendere con commenti di gioia e ludibrio, in particolare Marisa91, che ha commentato: “Hai vinto un premio in una categoria in cui correvi da solo. Complimenti, bella merda”. Grazie, Marisa. Grazie per avermi ricordato la caducità dell’esistenza, e che gioire è cosa deprecabile. Non proverò mai più entusiasmo in vita mia, lo giuro. Anche se in realtà, cara Marisetta, dei tantissimi commenti tu sei stata l’unica a riportarmi coi piedi a terra, Marisuccia. L’unica a dirmi quello che il mio cuore davvero anelava, Marisotta. Quindi mi rimangio tutto, o mia Marisignina, io tornerò a provare entusiasmo un giorno. Il giorno in cui ti troverò e ti inseguirò col trattore. Scherzi a parte, va bene anche un monopattino. Dove cazzo lo trovo un trattore? Scherzi a parte a parte, avete espresso un immenso e impressionante entusiasmo per il Satiro, e pertanto ci terrei a ricordare, con la mia

sindrome dell’impostore in mano, che è merito di tutti coloro che hanno partecipato e partecipano al progetto se questa roba funziona ed è figa. È un’opera corale. Insomma, la riuscita di una festa non è merito di chi mette a disposizione la casa, ma di tutti gli invitati, soprattutto di chi porta l’alcol. E quindi, eccoci alla seconda festa di questo strano circo scientifico. Ci troverete qualche vecchio conoscente e tanti nuovi partecipanti, carichi dei loro traumi scientifici. Che poi, potete immaginare in che posizione mi trovi in quanto curatore del Satiro. Dal punto di vista umano è diventato abbastanza impattante, dato che in tanti mi hanno scritto chiedendomi velatamente di poter dare il proprio contributo. Con una persona ho avuto letteralmente questa conversazione su WhatsApp: “Ciao, ho visto il tuo nuovo progetto, è una figata. Sai, pensavo che potrei scrivere qualcosa per il prossimo numero” “Ciao. Ah, cavolo, figo. Ma è una rivista scritta da divulgatori e comici, lo sai?” “Certo” “Sei un divulgatore o un comico?” “No” “Ciao” “Ciao” Poi, ovviamente, c’è quel pensiero laterale che rimbomba nella mente: “E se ora quelli che non ho richiamato per il secondo numero, vedendo che ci sono altri che al contrario ho richiamato, mi vengono a bucare le ruote dell’auto? Lo capiranno che non potevo richiamarli tutti? E poi che famo, gli Avengers? Ci dobbiamo accollare Occhio di falco anche se combattiamo contro dei caccia alieni? Ma ti pare?”. A tutte queste persone posso dire che io non c’entro nulla, è stato il mio manager, il signor Bugio Fittizio, ad aver scelto i nomi degli autori, e che potete inviare un reclamo direttamente al suo numero: 309 92241209992124234. Sarà lieto di ignorarvi tutti. Parlando seriamente, per motivi editoriali è necessario un ricambio nella redazione; alla fine anche questo contribuisce alla piccantezza del tutto. E non è stato facile, considerando che bomba di autori abbiamo ospitato nel numero precedente. Tratto il Satiro come se fosse un progetto a conduzione familiare, solo che i miei cugini mi stanno sul cazzo, e quindi troverete qui i partecipanti migliori che mi siano venuti in mente per affrontare un argomento così delicato e a cui tengo tanto. E ovviamente un sacco di miei amici, che ci ho messo dentro anche se non sanno scrivere un cazzo, per pura tracotanza di potere (ma soprattutto sotto raccomandazione dei Poteri Forty, che ci seguono sempre). Arrivati a questo punto, non vi nascondo la mia ansia da prestazione. Adesso bisogna alzare l’asticella, parlare di qualcosa che tutti amano ma su cui ci sono ancora un sacco di dubbi. Ero indeciso tra la meccanica quantistica e la merda, ma alla fine, come vedete, ha vinto la merda. Perché io amo la merda, e non in senso cinepanettoniano. San Boldi, veglia su di noi e fa’ in modo di tenerci lontano dal facile cabaret, e in caso contrario fa’ calare la truce scure della vendetta sociale, abbattendoci come bestie malate del tormentone da prima serata. La merda, scientificamente parlando, è un argomento incredibile. Tanto bistrattata eppure tanto importante. Lo so, noi abbiamo ’sto problema di fondo di reputarla un qualcosa di vergognoso, di terribile, di deprecabile. Una roba che va tenuta celata il più possibile, e che solo se messi con le spalle al muro si è costretti a confessare: “Sì, anche io cago! Possa Iddio avere pietà della mia anima impura”. E dire che c’è tanto di noi là dentro. L’abbiamo creata, covata e lasciata andare. Noi siamo alchimisti, semidivinità che modellano il cibo e lo trasformano in pongo di soddisfazione. E poi pensateci, quella roba che ora vi guarda attraverso lo specchio dello stagno chiamato water e che voi ripudiate al tocco, quella non l’avete semplicemente toccata, l’avete proprio avvolta con tutto il vostro corpo.

Voi siete il guanto della vostra merda. Vi ha attraversato come un palo lubrificato, per poi tuffarsi in un lampo di gioia. E a cosa è servito questo miracolo? A cosa? A vedersi subito dopo rinnegata? Siete voi le merde, a ’sto punto. L’atto di cagare, poi, è talmente importante che durante lo sviluppo del feto nell’utero l’ano è il primo orifizio a originarsi. Quindi, c’è stato un momento nella vostra esistenza biologica in cui tutto ciò che eravate era un buco di culo. E quanto eravamo innocenti e felici a quel tempo? Quanto? Possiamo incolpare coloro che, pur raggiunta la maggiore età, non sono rimasti altro che quello? Un buco di culo? Sono forse loro degli inguaribili sognatori, idealisti di un’esistenza senza pretese? In questo numero risponderemo a domande che ci dovremmo essere posti tutti almeno una volta nella vita. Domande tipo: “Come cagano gli astronauti?”. Scoprirete il funzionamento del sistema gastrointestinale, la composizione chimica della materia fecale, il modo in cui alcuni animali la utilizzano per la propria difesa, quanto sia importante riciclarla per le missioni spaziali, i segreti della cacca fossile e altre storie di merda. E soprattutto, vi racconteremo il suo ruolo naturalistico. E sì che, non dimentichiamolo, ci sono tanti animali che usano le feci per comunicare, un concetto che ai non esperti potrebbe apparire caco-fonico. Marcano il territorio, le usano come risorsa alimentare, alle volte ci fanno crescere la propria prole all’interno, oppure semplicemente le usano come deodorante per nascondersi dal fisco. Vi sconsiglio di provarci, o al massimo di scegliere il periodo con la giusta motilità intestinale, più che altro per una questione di spalmabilità. Inoltre, più efficacemente di un’app di incontri, con la merda cercano l’amore. Si richiamano, si struggono, si dedicano sinfoniche deiezioni, indicano quando c’è il desiderio e quando si è pronti a darci dentro con la danza dell’asdrubale lombare. A vincere, come vedete, è sempre l’amore. Il tutto, come da buona missione del Satiro scientifico, sarà infarcito dalla presenza di stand-up comedian che cercheranno di gettare quel poco di discorsi seri in caciara, ricordandoci che il fine ultimo è sì il piacere della scoperta, però sempre diffidando di chi si prende troppo sul serio. Quindi, buona lettura. Che la cacca abbia inizio. Ma prima di iniziare a addentrarci nella divulgazione fecale, non posso fare a meno di chiedermi: “E se la nostra società avesse intrapreso un percorso diverso? E se avessimo iniziato a usare le feci così come le usano gli altri?”. Immaginate. Siamo nel 3200. Per un’antica tradizione da neogalateo nata nel lontano 2023 (casualmente stesso anno di pubblicazione di questo volume), è ormai buon costume marcare il salone del proprio cubospazio con le feci. Non feci di chiunque, bensì quelle del padrone di casa. È un segnale, un monito, un attestato di proprietà, che non si nasconde ma, al contrario, si innalza con orgoglio. Su di un glorioso capitello in carboresina transvisibile di stampo meta-romanico, prodotto su una luna di Giove, svetta la merda del proprietario fresca del giorno, fumante e oculatamente preservata sotto una campana traforata che ne rilascia l’aroma a temperatura e umidità controllate. È un’epoca grandiosa per l’industria alimentare. Moltissime diete si sono adattate alla necessità di ottenere l’odore più penetrante e armonioso possibile, che impregni ma in qualche modo risulti anche maestoso e sensuale. La gente del 3200 si sottopone, raggiunta la maggiore età (i 9 anni), ai test delle fragranze genetiche, esami condotti in laboratrofoni in grado di valutare le diete ideali per raggiungere l’effluvio migliore in base alle proprie preferenze organolettiche. La lotta di classe è spietata. I poveri falliscono nel reperire i giusti ingredienti e nel seguire la dieta prestabilita, arrivando addirittura a mangiare indiano, e talvolta cadendo nella inutilizzabile diarrea. I ricchi, al contrario, hanno feci da catalogo, meravigliose e invidiabili, al punto che qualcuno ha iniziato a indossarle in particolari ninnoli, tuttavia reputati dalle alte sfere della moda protarocca una volgare ostentazione autocelebrativa. Alcuni ingredienti sono divenuti introvabili, se non estinti. L’androide del tredicesimo clone di Bill Gates, di cui dopo il terribile incidente non restò altro che metà del cervello e lo sfintere anale, comprò tutta la vaniglia del mondo, fino a causarne l’estinzione. Ora ha le riserve che gli servono per continuare a produrre feci perfettissime ed esotiche, memoria di quella leggendaria terra ormai sprofondata di Madagascar, mentre l’industria gelatiera ha dovuto sostituire l’ingrediente con il frullato di panda. La pizza costa più di un citofronoz, da quando si è scoperto che è davvero magica come si diceva nel XXI secolo, e in grado di donare a chiunque delle feci perfette a forma di cuore e dall’odore di “abbraccio di mamma”. Sui giornali, assieme agli immortali annunci di allungamento del pene (sia esso reale o uno di quei nuovi prostetici dalle forme cefalopodiche) attraverso creme di lumaca di Ganimede, appaiono pubblicità contro la stitichezza. Grande infatti è la vergogna degli stitici nel 3200, che si

rinchiudono in casa per nascondere le loro incapacità escretorie e quindi la loro inadeguatezza nel difendere il focolare. Se la polizia abitativa dovesse scoprire che non è presente il loro odore genetico in quello che millantano essere il loro cubospazio, questo verrebbe sequestrato, e loro sfrattati e arrestati per rammarico. E quando finalmente gli stitici cagano, ecco la festa grossa, e a tutto il circondario giunge l’olomessaggio sulla cupola satellitare che li invita a un ricevimento grasso e sfarzoso a casa del vittorioso. Così, una volta ogni due settimane anche gli stitici possono fingersi persone normali. Resta tuttavia un casino con le relazioni. Non sono molto aperti di mente, quelli del 3200. Sulle app di incontri ormai è un delirio, con tutte quelle shit-pick inviate a tradimento. Qualcuno ha caricato con il nasatron la composizione chimica delle proprie sostanze volatili; in questo modo chiunque, usando l’opportuno dispositivo, può testare a naso una simulazione abbastanza credibile delle capacità dell’aspirante partner. I kebabbari sono in crisi. Purtroppo non mancano gli scandali. Xylon Maron XI, dopo anni a millantare proprietà psichioniche nella cerebroTV, che dimostrava con feci coloratissime e multisfaccettate, impossibili da ottenere da chiunque se non da un santo, si scoprì che deteneva una volpe beta estinta e clonata illegalmente. Mischiava le feci della volpe con le sue. Per questo è stato selvaggiamente ucciso, secondo le leggi della temucrazia. E comunque, se volete un consiglio, amici, evitate quelle puttanate moderne che usano i giovani. Quella roba che prendono dal ruloweb che colora le feci di pantoni impossibili e ne aggiunge oloelementi termolabili e presumibilmente tossici, o quelle fialette alle nanomacchine che profumano le feci in modo così innaturale. Ai miei tempi si cagava bene, mentre di questo passo la società andrà a rotoli. Dal 3200 è tutto. W la merda.

JACOPO DE LUCA

IL MANUALE DELLE TATTICHE DI CACCA A COMANDO «Dove finisce la cacca dopo che tiri lo scarico?» chiedeva non ironicamente Oprah Winfrey, nota conduttrice televisiva statunitense, durante una delle sue innumerevoli apparizioni sul piccolo schermo. In materia di feci non esistono domande sciocche, ma solo risposte avvolpacchiate per evitare l’imbarazzo di affrontare l’argomento. «Mai abbassare la guardia! Il nemico potrebbe essere sempre dietro l’angolo e tu potresti essere nudo in mezzo alla foresta della Tasmania. Come ti difenderesti in un caso del genere?» Queste le parole rilasciate al nostro magazine da P. McTurd, 1 sergente dell’esercito degli Stati Uniti d’America 2 in congedo, per commentare la pubblicazione della sua prossima opera magna. Dopo aver servito il suo Paese con onore a colpi di strategie di guerra non convenzionali, si è ritirato a vita privata in una piccola casa in Connecticut e ha redatto un testo che presto troveremo sugli scaffali delle più prestigiose librerie e, a suo dire, anche nel Gabinetto degli Stati Uniti d’America: il Manuale Integrale delle Tattiche Irregolari su Cacca a Comando (M.I.T.I.CA.CO.). 3 «Nulla è scontato quando parliamo di escrementi» continua McTurd. «Sono fetide armi di distruzione di massa, putridi scudi protettivi, maleodoranti esche che garantiscono la fuga. In compenso, sono eccezionali per prevenire i punti neri. Insomma, conoscere come sfruttare al meglio i propri prodotti di scarto potrebbe salvare più di una vita.» Siamo andati a trovare il sergente nel suo monolocale a Stamford. Le mani dell’uomo sono strette in un pugno e tremano mentre rivela ciò che ha dovuto passare per poter scrivere un manuale del genere. Per correttezza abbiamo riportato la conversazione integrale con lui, ma abbiamo censurato i dati sensibili, in quanto ancora secretati dal governo degli USA. «Eravamo in Tasmania il XX del XXXX» ci racconta. «Il governo australiano si era appellato al patto ANZUS siglato dal presidente Truman nel 1951 per costringerci ad aiutarli a reprimere una violenta rivolta operata dai diavoli della TasXXXXX [non per nulla li chiamano così, NdR]. Era il XXX giorno di marcia forzata e il caldo torrido aveva dimezzato la nostra compagnia. Ci appostammo a XXXX aspettando i rinforzi, e soprattutto delle casse di munizioni. In soli X giorni avevamo utilizzato quasi tutto il nostro arsenale, e il bilancio fino a quel momento era sfavorevole: gli animali non avevano riportato morti o feriti mentre noi subimmo pesanti perdite, principalmente per colpa del XXXXX amico.» L’ex militare si alza in piedi e zoppica fino alla finestra per prendere alcuni appunti scritti su quelli che a noi sembrano piccoli pezzi di carta igienica attentamente impilati e rilegati. «Io purtroppo fui colpito di striscio da un XXXXXXX vagante. Maledetti musi pelosi» continua. «Perciò il mio passo era rallentato. Una notte non mi accorsi di essere rimasto troppo indietro e mi svegliai da solo nel bel mezzo della foresta. Ero nudo e circondato da quei maledetti marsupial… nemici [l’uomo ha palesemente detto marsupiali, ma potrebbe essere stato semplicemente un lapsus, NdR].» Gli occhi di McTurd indugiano nel vuoto per alcuni secondi, come se davanti a lui si fossero palesate immagini terribili che preferisce non commentare. «Non voglio parlare di quel che mi fecero [infatti, NdR]. Dirò solo che da loro appresi molto su quelle che successivamente chiamai tattiche di Mobilità Esplorazione Resistenza Decentralizzazione e Attacco a sorpresa (M.E.R.D.A.). Il giorno dopo mi svegliai sudato nella mia brandina. Ero con gli altri del mio reggimento. Fu solo un sogno? Ne dubito. Mi rivestirono e mi riportarono al mio accampamento dopo avermi insegnato tutto quello che sapevano? Probabilmente sì. Decisi che una volta andato in pensione avrei scritto un piccolo manuale inserendo tutte le tattiche M.E.R.D.A. nel M.I.T.I.CA.CO., ed eccomi qui.» A detta del sergente, ogni singolo stratagemma è frutto di un attento studio dei comportamenti difensivi e offensivi degli animali. «Abbiamo sempre avuto vicino a noi gli strateghi militari per eccellenza e non ce ne siamo mai accorti: gli animali» dice pomposamente sfogliando le “pagine” di appunti. «In millenni di storia evolutiva hanno escogitato innumerevoli modi per poter affrontare i propri avversari utilizzando l’arma più potente di tutte: la cacca.» A questo punto l’uomo rimane in silenzio e guarda l’orizzonte con maestosa solennità. Noi ci defiliamo da quella casa, dal suo odore acre e familiare e dall’imbarazzo di non avere più domande per un personaggio così illustre. Qui di seguito riportiamo un piccolo estratto del M.I.T.I.CA.CO., un elenco delle principali tattiche militari M.E.R.D.A. con particolare attenzione nel riferire le specie animali, le fonti originali citate e soprattutto i commenti di McTurd, che dà una sua opinione dopo aver provato sul campo ogni singola tecnica bellica.

Scudo fecale sotto sequestro Tutto quello che ci circonda può essere usato come arma: questa è la filosofia di base che ho captato tra le fila nemiche, e che ho fatto mia. I maestri di questo raffinato schema militare sono i coleotteri della sottofamiglia Criocerinae, come il Lema trilinea, un brillante scarabeo arancione e giallo con strisce nere che gli corrono lungo il dorso.

A guardarlo bene sembra inoffensivo, ma l’insetto ha sviluppato un sistema di difesa talmente raffinato da farmi sentire inadeguato a diversi livelli. Infatti, i suoi colori sgargianti hanno lo scopo di segnalare ai predatori la tossicità dell’animale, un fenomeno detto “aposematismo”. Dio, quanto invidio quelle linee. Quindi lui si arrampica lentamente su una pianta della famiglia delle Solanaceae, il suo cibo preferito, e rimane lì, indifferente e anche un po’ strafottente, a sgranocchiare le sue amate foglie. Sono proprio loro ad aiutarlo a stare al sicuro, quelle maledette foglie che si gusta come un piatto di hot dog con la senape alla partita dei Connecticut Huskies.

Fra le erbe che mastica con più gioia c’è in particolare la belladonna (Atropa belladonna), un vegetale il cui nome, “Atropo”, viene direttamente da un mito degli antichi greci. Atropo era infatti il nome di una delle tre Moire che secondo la leggenda tessevano e tagliavano il filo della vita di ogni essere umano. Insomma, un modo delicato per dire che se mangi le sue bacche decedi in modo inglorioso. L’epiteto specifico “belladonna”, invece, fa riferimento a una pratica che risale al Rinascimento: per dare risalto e lucentezza agli occhi, le dame usavano un collirio basato su questa pianta grazie alla sua capacità di dilatare la pupilla, un effetto detto “midriasi” dovuto all’atropina, una sostanza che agisce direttamente sul sistema nervoso parasimpatico. L’atropina è un alcaloide potenzialmente letale, il che riscrive il vecchio detto in: “Se bello vuoi apparire, un poco devi morire”.

Al nostro coleottero, però, non sembra fregare nulla di miti greci e dame rinascimentali. Lui si è adattato usando quelle tossine a proprio vantaggio: le sequestra e le conserva in modo sicuro nel suo corpo come deterrente contro i predatori.

Dunque, proprio mentre il predatore si dà per vinto, nota su una foglia poco più in basso un gruppo di larvette succulente. Non hanno colori sgargianti e pensa: “Almeno queste saranno buone da mangiare, no?”. Se il nostro caro predatore sapesse qualcosa di tattiche paramilitari, saprebbe di dover desistere. I Lema trilinea non sono per niente prede facili, per via del loro potente scudo fecale. Esatto: le larve si coprono della loro cacca, anch’essa intrisa degli stessi alcaloidi nocivi che hanno ottenuto dalle piante che mangiano. Questi animaletti possiedono un ano che si apre dorsalmente, e ciò permette loro di farsi cadere addosso a pioggia, pezzo per pezzo, le proprie feci. Sembra una vera e propria armatura, che indossano fieri come i Cavalieri dello Zodiaco. Molte larve della medesima sottofamiglia sono state anche osservate rigurgitare parzialmente il cibo con lo stesso scopo di deterrente tattico. Già che ci siamo, abbiamo fatto merda, facciamo merduno. Dunque, in una magnifica rivisitazione naturale di Jeeg Robot, la larva si lancia i suoi stessi componenti per diventare la versione migliore di sé. Non importa da quale orifizio; piano piano si costruisce un’impenetrabile difesa, proteggendosi dai predatori e dalle opinioni altrui. Perché non bisogna mai smettere di credere nei propri sogni. Apparentemente il mio organismo non riesce a tollerare le tossine della belladonna, ma i miei occhi non sono mai stati così brillanti. Allora ho provato lo scudo fecale sotto sequestro mangiando burritos vecchi di due settimane, con il solo effetto di repellere la mia fidanzata. Per tutta la vita. La tattica va perfezionata. Serg. McTurd ristorante Ole Mole, Stamford, 12/07/XXXX

La For-Tazza impenetrabile Barricarsi all’interno della propria dimora per sfuggire a un’invasione è un grande classico, messo in scena in diverse ricostruzioni storiche e documentari di guerra, come Mamma, ho perso l’aereo o Mamma, ho riperso l’aereo: mi sono smarrito a New York. Nonostante una tendenza a perseverare nell’errore e l’accurata rappresentazione della capacità bellica di un bambino di 8 anni, ho sempre trovato la rappresentazione un tantinello sopra le righe, fino a quando non ho conosciuto le api asiatiche (Apis cerana). Niente biglie e macchinine sul tappeto, latte di vernice lanciate dalle scale o maniglie arroventate: questi insetti utilizzano dei pellet di feci di altri animali per proteggere i loro nidi dagli attacchi di Vespa soror, un gigantesco calabrone diffuso in tutto il Sudest asiatico.

Vespa soror si fa grandi scorpacciate di api asiatiche, motivo per cui le loro alte sfere della gerarchia militare hanno dovuto prendere drastici provvedimenti. Gli attacchi di questi calabroni, infatti, possono consistere in assalti di decine di individui pesantemente corazzati, con un conseguente massacro di migliaia di api. Come se non bastasse, dopo aver devastato l’alveare questi animali si dedicano al rapimento delle larve per poter nutrire i propri piccoli. In una continua corsa evolutiva a chi sviluppa le armi migliori, le api non sono rimaste certo a guardare. Diverse specie hanno meccanismi acustici che sembrano veri e propri sibili utilizzati per spaventare gli invasori e dare l’allarme a tutte le compagne, mentre altre hanno imparato ad accerchiare le vespe per soffocarle, come nel caso di Apis cerana japonica, una sottospecie della nostra ape orientale originaria del Giappone. Quando un loro alveare viene invaso, infatti, decine o addirittura centinaia di api circondano il nemico e fanno vibrare i muscoli che muovono le ali, innalzando la temperatura dell’aria circostante fino a 47 °C. Un ambiente letale per qualsiasi calabrone, ma non per le api, che possiedono un limite di sopportazione termica appena superiore, che arriva fino a 48-50 °C. Che succede al calabrone? Gli viene una sincope, come uno di quei fantomatici anziani che d’estate dovrebbe bere tanta acqua e rimanere a casa durante le ore più calde della giornata, come dicono al telegiornale? Anch’io pensavo fosse così, ma i diavoli della TasXXXXX mi hanno svelato la verità. I calabroni respirano attraverso dei fori chiamati spiracoli e si aiutano con i muscoli addominali per inspirare ed espirare. Questi movimenti gli permettono solo di coprire e scoprire gli spiracoli grazie alle placche del loro esoscheletro, una limitazione sfruttata alla perfezione dai loro avversari. Durante il mio lungo periodo di prigionia, i marsupiali mi hanno spiegato che la palla di centinaia di api che si forma sopra il calabrone rende più complessa l’apertura degli spiracoli, soffocando il nemico lentamente. Crudele ed efficace, anche se non elegante quanto la tattica che sto per raccontarvi. Torniamo alle api asiatiche e alla loro nemica, Vespa soror.

Le api sono solitamente attente alla loro igiene, ma hanno capito che, quando ci si deve difendere, l’orgoglio personale e l’opinione dei genitori passano in secondo piano: in guerra ogni cosa è concessa. Uno studio del 2020 ha documentato che le api, dopo aver subito un primo attacco, coprono le entrate del proprio alveare con le feci, preferendo solitamente gli escrementi di bufalo. Ottimo gusto amiche mie, anche io lo trovo un elemento decorativo niente male. L’utilizzo degli escrementi, però, non c’entra nulla con l’estetica: di fronte a un alveare rivestito di sterco, spesso Vespa soror desiste dall’attaccare. Ogni volta che un nemico si affaccia nell’alveare, le api prontamente spalmano un intonaco di cacca per coprire le tracce del suo passaggio. Questo comportamento è diffuso principalmente in Vietnam, tuttavia sono state osservate api con lo stesso sistema di difesa anche in Cina, Thailandia, Bhutan e Nepal. Il motivo per cui lo sterco respinga Vespa soror è ancora sconosciuto, ma l’opinione più diffusa fra i ricercatori è che funga come una sorta di camuffamento olfattivo. Spesso i calabroni, infatti, utilizzano segnali chimici per contrassegnare il nido che intendono attaccare. Per cui, ricoprendo il nido con la cacca sabotano la comunicazione fra gli individui, rendendo più complesso per i nemici organizzare un assalto alla loro fortezza. Potevano adoperare fiori e acqua di colonia, ma condivido che lo sterco sia più pratico. Secondo diversi studiosi, questo è un chiaro esempio di come anche gli insetti siano in grado di utilizzare strumenti, poiché non solo raccolgono un materiale estraneo al loro dall’ambiente, ma lo manipolano per le proprie esigenze. Trentatreesimo giorno sotto copertura. Ho finito le patatine e ben presto dovrò concludere il mio esperimento per recuperare questo fondamentale alimento paramilitare. Negli ultimi giorni le persone mi hanno evitato. Sono praticamente invisibile, il rivestimento di letame ha tenuto alla perfezione: operazione riuscita. Serg. McTurd Stamford Park, Stamford, 16/08/XXXX

Artiglieria a spruzzo La crudezza della guerra raccontata da Mulan, film d’animazione del 1998, il documentario bellico più famoso degli ultimi decenni, è ciò che mi ha ispirato a diventare l’uomo che sono oggi, e ammetto con estremo orgoglio e commozione che molte delle tattiche militari che ho messo in atto recentemente sono tratte liberamente da questa meravigliosa opera. Il film, però, parla di fini strategie, menti acute che si scontrano e piccoli draghi parlanti, componenti di una lotta che non sono sempre facili da reperire. In questi casi la forza bruta è ciò di cui abbiamo bisogno per fronteggiare le avversità, proprio come dimostra l’upupa (Upupa epops).

Questo uccello dai colori brillanti è una meraviglia per gli occhi. Il suo volo elegante e il becco sottile lo rendono un ballerino dei cieli, ma attenzione a giudicare un libro dalla copertina. Sotto quelle penne si nasconde la scintillante canna di un fucile pronto a sparare una sostanza bruna e maleodorante a chiunque si azzardi ad avvicinarsi.

L’animale, infatti, non è proprio fra i più pacati abitanti della Terra e spesso tradisce il suo aspetto aggraziato con un comportamento brutale. Il becco curvo, così sinuoso e affascinante, è usato per ricercare insetti nel terreno, ma anche per la lotta all’arma bianca durante le violente dispute territoriali fra maschi, con sanguinosi combattimenti che a volte lasciano i contendenti orbi o mutilati. Come dicevo prima, però, l’upupa non esige rispetto solo a colpi di becco: ha un’artiglieria segreta che spruzza addosso ai suoi nemici fin dai primi giorni di vita. L’upupa è un altro animale che ha compreso come la dignità personale sia sopravvalutata. Durante la stagione riproduttiva, la ghiandola dell’uropigio della femmina, che si trova sotto le spesse penne della coda, si gonfia drasticamente. Secondo il mio medico, il gonfiore è solo l’avvisaglia che qualcosa di grosso sta per accadere. Dalla ghiandola, la femmina espelle abbondanti quantità di un materiale liquido scuro e denso dall’odore nauseabondo, simile a quello della carne in decomposizione o di certe verdure bollite. A rendere così disgustoso questo prodotto è un composto presente al suo interno chiamato dimetildisolfuro, una molecola solitamente liberata nella cottura di alcuni alimenti come il cavolo. Usando il becco, l’upupa riveste le proprie piume e penne di questa sostanza putrida che cola e permea perfino le sue uova, creando un perfetto nido della ripugnanza. Tuttavia, quello che in un primo momento può sembrare solo il classico condimento che si trova nei contenitori di plastica di qualsiasi venditore di hot dog in giro per Brooklyn, in realtà è un perfetto deterrente per gli attacchi dei suoi predatori che, schifati, preferiscono non avvicinarsi. Inoltre, i biologi dell’Università di Granada nel 2006 hanno scoperto che la sostanza, oltre a lubrificare e a rendere impermeabili penne e piume, contiene colonie del batterio Enterococcus faecalis, predatore naturale di un altro batterio, il Bacillus licheniformis. Questo organismo è distruttivo per gli uccelli, poiché secerne enzimi che digeriscono la cheratina, la proteina che rappresenta il 90% della composizione di una piuma. Lo stesso team di ricercatori si è reso conto che la protezione disgustosa delle femmine di upupa è talmente efficace che perfino la struttura microscopica delle uova si è adattata ad assorbire più liquido maleodorante possibile. Sulla superficie di queste, infatti, sono presenti molteplici piccole scanalature, utili per catturare la sostanza carica di “batteri buoni”. Secondo gli studiosi, questi batteri agiscono come una sorta di scudo melmoso che protegge le uova, impedendo la formazione delle colonie di “batteri cattivi”. Una volta schiuse le uova, però, la lotta alla sopravvivenza è tutt’altro che finita, anzi. Ecco perché i pulli imparano fin da subito a maneggiare un potente strumento d’artiglieria per scacciare gli avversari da una distanza considerevole: la propria cloaca. Questo orifizio, da cui molti uccelli espellono i propri prodotti di scarto, funge al contempo anche da sbocco per il sistema riproduttore. All in one insomma, come diciamo dalle mie parti. I piccoli non hanno bisogno di nessun tipo di addestramento: a soli sei giorni dalla schiusa, quando si sentono minacciati girano il posteriore, alzano la coda e affrontano i loro nemici spruzzando feci, in una fontana di ribrezzo che metterebbe in fuga anche il più affamato dei predatori. Quarto giorno di esercitazione. Non riesco a dirigere il getto a mio piacimento. Più che artiglieria a lunga gittata, i miei colpi sembrano ordigni calati lentamente dall’alto da un cacciabombardiere appesantito. Avevo pensato di usare il compressore di mio cognato per modificare la pressione di uscita, ma non posso avvicinarmi a meno di trenta metri da casa sua dall’ultima volta che mi ha prestato il tagliaerba. Serg. McTurd cima della Park Tower, Stamford 19/09/XXXX

Campo minato fetido Melanocorypha yeltoniensis: in Spagna la chiamano calandria negra, traducibile in italiano come calandra nera, mentre i popoli anglofoni utilizzano il nome black lark, ovvero allodola nera. Scoprire l’esistenza di questo uccello ha avuto su di me lo stesso effetto di quando da giovane venni a sapere delle versioni “dark” dei Pokémon, gioco di carte che, inutile dirlo, è stato parte fondamentale di tutti gli anni di addestramento militare al Greenwich Training Camp for Spoiled Child. 4 Dunque, ora parliamo del “lato oscuro” dell’allodola, un uccello i cui maschi adulti in primavera sono quasi del tutto neri, con la sola eccezione di una leggera screziatura bianca sul dorso. Un animale che nidifica a terra, nascondendosi nell’erba alta della steppa russa e kazaka, migrando occasionalmente in inverno verso il mar Nero, il mar Caspio, la Moldavia e l’Ucraina meridionale. Fino a ora abbiamo visto all’opera diversi ingegneri della cacca, e M. yeltoniensis si unisce a pieno titolo alla formazione. La scoperta della tattica difensiva di questo animale è avvenuta quasi per caso, una serendipità delle feci se vogliamo. Diversi anni fa, l’ecologo tedesco Johannes Kamp si trovava nella steppa del Kazakistan per studiare i comportamenti riproduttivi dell’allodola nera. Mentre cercava i nidi degli uccelli nell’erba alta si rese conto che fra i principali materiali da costruzione utilizzati da loro c’era proprio

lo sterco del bestiame da allevamento. Ecco dunque che trovare gli individui da osservare diventò più semplice: tutto ciò che doveva fare era posizionarsi nei pressi degli allevamenti e focalizzarsi su capannelli di merda. Proprio al loro interno, come piccole sorprese Kinder cariche di disgusto, era molto probabile trovare i nidi di M. yeltoniensis. L’ecologo scoprì che le femmine della specie trasportano questi escrementi nel becco, e in diversi giorni li dispongono intorno al nido, formando delle piccole ciambelline di ribrezzo. Insomma, compongono un vero e proprio campo minato di ripugnanza. Lo scienziato, però, tiene a specificare che le strutture che formano sono talmente ordinate da sembrare pavimenti decorati, quasi come il lavoro di un interior designer eccentrico che ha studiato architettura all’Università di Gubbio, città italiana dove mi sarebbe piaciuto andare in Erasmus. La nostra cara allodola nera non è certo il primo animale a ornare il proprio nido con oggetti disgustosi. Per esempio, nel 2013 un gruppo di biologi messicani ha scoperto che alcune specie di fringuelli e passeri inseriscono mozziconi di sigarette nei loro nidi per allontanare i parassiti. Quello che fanno le allodole, però, ha qualcosa di un po’ più peculiare: trovare lo sterco, trasportarlo e disporlo in piccoli anelli è faticoso ed espone gli animali ai predatori, motivo per cui il vantaggio che ne traggono deve essere talmente importante da valere tutto questo sbattimento. Ecco dunque che un team di ricercatori tornò in Kazakistan, questa volta per verificare le ipotesi di Kamp osservando estensivamente le allodole nere e quelli che, a tutti gli effetti, possiamo chiamare “nidi di merda”. La loro ipotesi iniziale era che lo sterco potesse scoraggiare i predatori dall’attaccare, mimetizzando il nido o nascondendo l’odore degli uccelli, ipotesi che però fu smentita. Monitorando i tassi di sopravvivenza dei pulli, infatti, gli studiosi scoprirono che il loro “campo minato di sterco” non aveva alcun effetto sui predatori. Gli studiosi, allora, ebbero un’idea geniale: vuoi vedere che il peggior pericolo per questi uccelli non sono i predatori, ma i grandi capi di bestiame con cui condividono l’habitat? Facendo il nido a terra, in effetti, la possibilità di essere calpestati è molto alta, motivo per cui il team messicano decise di mettere in atto un esperimento senza dubbio creativo. Raccolsero un po’ di terra da un fiume nelle vicinanze, crearono dei “biscottoni” di argilla e li piazzarono sul cofano delle loro auto per seccarli al sole. Una volta calpestati, i biscottoni di argilla secca si sarebbero rotti, aiutando i ricercatori a distinguere più facilmente quelli distrutti dagli erbivori. Quindi sostituirono i veri nidi con queste opere scultoree degne di una classe di quinta elementare, osservando cosa sarebbe successo con il passaggio di una mandria. Così facendo scoprirono che il bestiame stava attento a non calpestare gli escrementi, probabilmente perché abituato a non pascolare nelle vicinanze dei propri prodotti di scarto. Inoltre, le allodole nere sembravano adattare la dimensione della difesa intorno al proprio nido in base all’occorrenza: maggiore era il pericolo di essere calpestate e più grande era il campo minato. Infine, gli studiosi hanno scoperto persino che lo sterco, oltre a mettere in sicurezza il nido, lo rende più accogliente. Esattamente ciò che ho detto io quando mi sono iscritto a ingegneria edile. Peccato abbiano rifiutato la mia candidatura. Nei nidi di M. yeltoniensis, infatti, il letame aiuta a regolare la temperatura, favorendo un migliore isolamento e mantenendo i nidi più caldi di notte e più freschi di giorno. Gli uccelli cercano anche ambienti con una quantità ottimale di escrementi: non troppi, ma neanche troppo pochi. Fino a oggi pensavo fosse meglio abbondare, ma ancora una volta gli animali mi hanno smentito. Ho cambiato il materiale per la coibentazione della casa. Negli ultimi mesi ho risparmiato moltissimo tenendo spenti condizionatori e riscaldamenti. Nello stesso momento, però, tutti i servizi di delivery hanno smesso di funzionare. Che strano. Serg. McTurd Luigi’s Restaurant, Stamford, 02/02/XXXX

Mitragliatrici maleodoranti di gruppo Cosa c’è di più efficace di un’arma da fuoco? Dieci armi da fuoco! Guarda caso, questo è anche quello che ha detto mio padre quando mamma ha partorito l’ultimo dei miei fratelli. Storie familiari a parte, quello a cui mi riferisco è l’uso collettivo che gli uccelli possono fare di quelle che amo chiamare “bocche di fuoco cloacali”. Un ottimo esempio lo offre la cesena (Turdus pilaris), un uccello passeriforme che si riproduce in diversi Paesi dell’Europa settentrionale, estendendosi verso est fino al Nordovest della Cina. In inverno, invece, scende fino all’Europa del Sud o al Nord Africa. La femmina solitamente costruisce un nido a forma di coppa in prossimità di altri della stessa specie, e gli adulti difendono il nido in modo aggressivo e spesso gregario. In pratica, le cesene formano uno di quei gruppi di genitori iperprotettivi che farebbero di tutto pur di difendere i loro pargoli dai professori cattivi che mettono loro un’insufficienza perché non sanno cosa sia una barbabietola da zucchero.

E quando dico farebbero di tutto, intendo veramente DI TUTTO. Un altro motto delle cesene, infatti, è “la miglior difesa è l’attacco”. Nel momento in cui un uccello predatore, per esempio un corvo, si avvicina al nido, le cesene si alzano in volo per colpire i nemici con una raffica delle più potenti armi che madre natura ha da offrire: le feci. Nei combattimenti aerei questi uccelli mostrano tutta la loro profonda conoscenza in materia di strategie belliche. Una smitragliata di escrementi viene gettata addosso all’invasore a mezz’aria, con effetti devastanti. Gli uccelli colpiti, infatti, vengono intrisi di questi prodotti di scarto appiccicosi che gli incollano le penne e le piume, impedendogli di volare. I più fortunati si feriscono gravemente, cadendo a peso morto, mentre per gli altri c’è la morte. Le cesene: gli unici uccelli ad aver trovato il modo di uccidere e beffarsi dell’avversario in un sol colpo. C’è da dire che quest’arma di distruzione apparentemente infallibile ha un piccolo difetto: funziona al meglio solo contro gli uccelli. Attaccare con i propri escrementi altri animali – come l’ermellino, che a volte può predare le sue uova – significa cospargere i dintorni del proprio nido con prodotti dall’odore pungente, attirando così inavvertitamente l’attenzione di altri predatori dall’olfatto sottile.

A tal proposito è curioso uno studio del 2004 che spiega come la smitragliata fecale sia in realtà una tattica bellica da utilizzare con cura e attenta premeditazione. Gli studiosi, infatti, hanno posizionato vicino al nido di alcune cesene due modellini che rappresentavano una cornacchia e un ermellino, osservando che fino a dieci metri di distanza a essere attaccata era principalmente la cornacchia finta. Manco a dirlo, il povero pupazzo veniva tempestato da una fitta gragnuola di colpi putridi, mentre l’ermellino veniva lasciato stare. Quando i due modelli venivano montati a circa un metro dal nido, però, le cesene non si risparmiavano: indipendentemente da chi fosse il predatore, l’uccello lo bersagliava con molteplici scariche di escrementi. Dunque, è proprio il caso di dire che questa sia l’arma più potente a loro disposizione, e soprattutto che non hanno paura di usarla. Altri aneddoti riferiscono che le cesene sono solite prendere di mira con i loro getti fetidi anche alcune sagome disegnate sui vetri delle case, quelle posizionate per evitare che gli uccelli, inavvertitamente, possano sbatterci contro. Una silhouette di uccello disegnata su un vetro, quindi, può facilmente diventare il tiro al bersaglio preferito di questi animali, un ottimo modo per far capire pure agli esseri umani chi comanda.

Sono dieci giorni che faccio volantinaggio per il mio quartiere cercando qualcuno che voglia provare con me questa tattica bellica. Purtroppo ancora nessuno ha risposto alla domanda che ho scritto: “Vuoi provare a fare una mitragliatrice di cacca collettiva per l’esercito degli Stati Uniti d’America?”. Forse dovrei togliere l’ultima parte. Negli ultimi tempi la gente ha paura delle istituzioni. Serg. McTurd Chiesa degli ultimi santi dei giorni dispari, Stamford, 04/05/XXXX

Occultamento caco-fotico L’agente dell’M11 Ben Daimio, nel capolavoro cinematografico del 2019 Hellboy, consacrato come miglior dramma religioso degli ultimi tempi, subito dopo La passione di Cristo e Il Signore degli Anelli: il ritorno del re, diceva che il suo corpo è un tempio. Ben avrebbe anche ragione a trattare il proprio corpo con sacralità, se non fosse che il fisico è soltanto un’altra arma da utilizzare per difendersi o attaccare il nemico, e il regno animale ce ne dà un esempio. Sono sempre invidioso mentre osservo come millenni di evoluzione hanno plasmato le forme e le fisiologie di numerosi organismi per renderli il più possibile simili alla cacca. Ciò avviene perché spesso i predatori attaccano le prede più vistose e riconoscibili, perciò vengono selezionati gli individui dall’aspetto più discreto. E cosa c’è di più sobrio e poco evidente di una piccola cagatina che cola da una foglia? Prendiamo per esempio Theloderma asperum, una raganella della famiglia Rhacophoridae conosciuta in inglese come bird poop frog, letteralmente rana cacca di uccello. Per ammirarla bisogna cercarla nel Sudest asiatico, come India, Birmania, Tibet, Thailandia e molti altri Paesi. I suoi predatori naturali sono i serpenti e soprattutto gli uccelli, animali dall’ottima vista in grado di individuarla nel fitto della foresta dove si nasconde. La T. asperum dunque ricorre al criptismo, una forma di mimetismo in cui, grazie a dei particolari colori e comportamenti, l’animale riesce a confondersi con l’ambiente circostante. Questo anfibio poteva mimetizzarsi assumendo le sembianze di un pezzetto di foglia, della corteccia di un albero o della lettiera di foglie secche sul terreno, ma no. I suoi colori ricordano le deiezioni degli uccelli che colano da un ramo, con la parte davanti più chiara che sfuma in colori più scuri, per poi diventare completamente bianca sul posteriore. Come dicevo prima, però, mimetizzarsi non è solo questione di colore, ma anche di comportamento. Se vuoi sembrare una cacca devi pure comportarti da cacca. Ecco allora che la simpatica raganella posiziona le zampe sotto al corpo e si accovaccia, completamente immobile. Possiede perfino quella leggera opacità

tipica del guano di uccello, insomma, ce la mette davvero tutta e per questo ha la mia più totale ammirazione. Di animali che si “travestono” da escrementi, però, ce ne sono veramente tantissimi. Il macaone asiatico (Papilio xuthus), per esempio, è una meravigliosa farfalla della famiglia dei Papilionidi che si trova in molte parti dell’Asia e dell’Oceania. Gli adulti possiedono bellissime livree con strisce bianche e nere che li fanno somigliare a piccole zebre pelose e con le ali. Descritta in questo modo probabilmente non vi dirà molto, ma la forma larvale di questa farfalla è ciò che ha ispirato la creazione del Pokémon Caterpie. Avete presente? Si tratta di un bruchino verde che se minacciato può tirare fuori il suo osmeterio rubicondo, un’appendice situata sulla testa di molte larve di Papilionidi utilizzata per spaventare i predatori, soprattutto perché una volta rimosso emette un forte odore che repelle alcuni insetti e aracnidi. Lo so, detto così potrebbe sembrare altro, ma fidatevi: se avessi voluto parlarvi di un pene lo avrei fatto senza troppi giri di parole. Non sono molto bravo a illustrare animali che molti potrebbero definire di bell’aspetto, perché ciò che io trovo esteticamente appagante è tutt’altro. Il bozzolo di questo lepidottero, per esempio, è un piacere per gli occhi. Lo stadio larvale dura dalle tre alle cinque settimane, dopodiché si impupa in un bozzolo piuttosto curioso per circa due settimane. I colori di questa forma virano dal marrone scuro al marrone chiaro, le uniche due sfumature di marrone che approvo. Anche nel suo caso, a questo colore si alternano macchie bianche e nel complesso, lì poggiato su una foglia indisturbato, sembra a tutti gli effetti una cagatina di uccello. Potrei continuare per giorni a descrivere animali a forma di cacca, ma quelli che possiedono un adattamento simile sono veramente troppi. Concluderei con una menzione speciale senza dubbio meritata di un altro lepidottero: Macrocilix maia, una falena che abita il Sudest asiatico e che ha portato il concetto di criptismo all’estremo. Innanzitutto, il suo odore pungente fa subito immaginare che nei paraggi qualche animale abbia lasciato un piccolo “ricordino”, però il vero capolavoro è il disegno che si trova sulle sue ali. Quando è poggiata dispiega le ali, mostrando una livrea color crema, ma non solo: in maniera simmetrica sono evidenti due macchie scure di colore giallastro rivolte verso il centro del corpo. Il componimento non lascia nulla all’immaginazione: su quelle ali sono rappresentate a tutti gli effetti due mosche intente a banchettare su una cacca di uccello, vedere per credere.

Era tutto perfetto. I colori erano giusti e sono perfino rimasto immobile per tutto il tempo, per non tradire la mia presenza. Purtroppo è venuto a piovere e le maestre della scuola elementare davanti a casa mi hanno scoperto. Con forti rovesci, il body painting non è una buona tattica mimetica. Serg. McTurd Stamford Elementary School, Stamford, 07/09/XXXX

Defecazione fumogena Maggio 1945. Mentre in patria le nostre famiglie sono strette in una preghiera continua, io e alcuni miei compagni irrompiamo in un edificio che pullula di nazisti. L’adrenalina annulla il dolore, il sangue pulsa nelle tempie al ritmo del mio cuore. Eliminiamo gli ultimi nemici e dopo ore di sudore e fatica riusciamo a innalzare la bandiera sovietica sul tetto della sede del Parlamento tedesco. Così ho finito il videogioco “Call of Duty” in modalità “veterano”, la più difficile per intenderci, un’impresa non da tutti. Mentre spegnevo la PlayStation per andare a cena con mia mamma pensavo a come sarebbe stato più semplice se avessi avuto a mia disposizione delle tattiche paramilitari nuove per affrontare i miei nemici, e finalmente oggi posso coronare quel sogno di un giovane me quarantenne. Fra le abilità di guerra che più mi sarebbe piaciuto avere c’è sicuramente quella utilizzata dai cogia, cetacei piuttosto rari da vedere poiché passano la maggior parte del loro tempo a caccia di calamari nelle acque profonde. Si trovano più o meno nelle zone temperate e tropicali di tutto il mondo e gli anglofoni li chiamano comunemente dwarf sperm whale, ovvero capodogli nani. Empatizzo molto con i cogia perché sono certo che in adolescenza avranno subito innumerevoli atti di bullismo dagli altri cetacei per via delle loro dimensioni ridotte. Con soli 3 metri di lunghezza massima, il cogia può solo pulire le scarpe ai 18 metri di un capodoglio (Physeter macrocephalus). In pratica, se metti sei cogia uno dietro l’altro ottieni un capodoglio intero, oppure una discutibile rivisitazione del film The Human Centipede. In un ambiente così ostile, pieno di bulli e predatori, i cogia hanno trovato una soluzione niente male per difendersi: creare una nuvola di fumo e scappare via. La loro versione di questa granata fumogena, però, è un po’ diversa da quella che conosciamo noi. Per confondere i predatori, questi “cugini” dei grandi capodogli evacuano in acqua, ottenendo un effetto disgustante e stordente allo stesso tempo, per il quale ho coniato una nuova parola: “disgurdente”. La tattica è tanto semplice quanto deplorevole: una volta minacciato, per esempio da un gruppo di orche che hanno deciso di farsi una scorpacciata di capodogli tascabili, il cogia emette un fluido bruno-rossastro dall’ano che va a formare una nuvola scura nell’acqua di circa cento metri quadrati. Il fluido è immagazzinato all’interno di un rigonfiamento simile a una sacca dell’intestino, che può contenere fino a circa 12 litri di questa sostanza nauseabonda. In alcuni paper, la sua consistenza è stata perfino paragonata a quella della Nutella, un parallelismo che trovo tanto disgustoso quanto intrigante. Insomma, immaginate una grossa seppia di circa duecento chili che vi spruzza una nuvola marrone dal didietro per confondervi. Ecco, il cogia è più o meno questo, a parte il fatto che è un cetaceo e che il liquido espulso non è proprio inchiostro. A tutti quelli che si stessero chiedendo cosa sia di preciso, devo dire una cosa: bravi, il M.I.T.I.CA.CO. sta iniziando ad avere gli effetti sperati. Nonostante venga espulso dall’ano e abbia un colore che ricorda molto quello delle feci, il liquido repellente non sembra essere solo di origine fecale, ma contiene anche grandi quantità di carbonio, e ciò lo rende una sostanza unica fra tutti i mammiferi. Una nuova miscela, quindi, che potremmo chiamare cacca+ o super-pupù. Il nome è solo provvisorio, forse dovrei smettere di cercare letture interessanti nella biblioteca dell’asilo per ispirarmi. https://www.instagram.com/reel/CedmIAugzvN/ Riuscire a sviluppare un’ottima tattica di difesa in acqua è importante, per questo sto sperimentando una mia personalissima miscela per raggiungere una consistenza ottimale dei miei prodotti di scarto. Non voglio rivelare troppo, dirò soltanto che bisogna utilizzare uno yogurt invecchiato almeno dodici mesi. Serg. McTurd River Welland, sotto lo Stamford Bridge, Stamford, 19/12/XXXX

Arma letame Sapevate che la zanzara è l’animale più pericoloso al mondo, capace di trasmettere malattie come la malaria, la dengue e la febbre del Nilo? Secondo l’Organizzazione mondiale della sanità, nel 2022 ha causato la morte di circa un milione di persone. Al che mi sono chiesto: qual è il secondo animale più pericoloso al mondo? Avrei dovuto arrivarci da solo: è l’essere umano, ovviamente. Mi perdo sempre con le domande più semplici. Ecco perché vorrei dedicare questa ultima sezione del M.I.T.I.CA.CO. a noi e ai modi più

innovativi che abbiamo trovato per uccidere altri esseri umani con le feci. In fin dei conti la creatività umana è talmente potente da riuscire a trasformare qualsiasi cosa in un’arma letale, o per meglio dire, in questo caso, un’arma letame. Secondo il libro Greek Fire, Poison Arrows & Scorpion Bombs: Biological and Chemical Warfare in the Ancient World di Adrienne Mayor, gli uomini impiegano da sempre la cacca per farsi la guerra. I primi utilizzi documentati ci arrivano direttamente da Strabone, un geografo e storico dell’antica Grecia che raccontava come un modo perfetto per abbattere il nemico fosse intingere le frecce in diverse sostanze nocive, come sangue, veleno di vipera o feci. Una soluzione semplice ma efficace per far crescere una bella infezioncina nel giro di poco tempo. Nella Cina del XII secolo, invece, si inizia a essere un po’ più fantasiosi. In Siege Weapons of the Far East (1) AD 612-1300, Stephen Turnbull descrive un’arma che chiama “trabucco a bomba di escrementi”: un tipo di esplosivo riempito di polvere da sparo, feci umane e veleno, che veniva acceso con un attizzatoio caldo prima di essere scagliato contro il nemico. La nostra creatività, però, non ha limiti. Wade Davis, un antropologo e ricercatore etnografico di Vancouver, ha raccontato più volte la storia di un anziano inuit che ha trasformato le sue feci in un coltello, per un assassinio senza precedenti. Secondo il racconto dell’antropologo, negli anni Cinquanta il governo canadese costrinse gli inuit a trasferirsi in alcuni campi in un’area a nord dell’Artico. Una famiglia in particolare si rifiutò di collaborare. Al membro più anziano della famiglia fu tolto qualsiasi oggetto pericoloso potesse utilizzare per opporre resistenza; per questo motivo l’uomo trovò saggio adoperare un’arma, per così dire, fatta in casa. Si abbassò i pantaloni nel freddo dell’Artico e si defecò in mano per modellare con gli escrementi che si stavano ghiacciando un coltello rudimentale. Con l’arma improvvisata l’uomo uccise uno dei cani che gli facevano da guardia, per poi scappare nella notte. Una specie di MacGyver della stazione Termini. Una storia elettrizzante che purtroppo un recente studio ha smentito. Nel 2019 un gruppo di antropologi della Kent State University ha congelato le feci di alcuni ricercatori modellando dei coltelli in casa e provando a tagliare diverse superfici… Potete rileggere la precedente frase tutte le volte che volete, vi assicuro che l’avete letta davvero. Se avevate rispetto per chi fa ricerca, sappiate che a volte fa cose del genere per provare aneddoti da bar su cui nessuno si era particolarmente interrogato. Ma va bene così. Coltelli di merda, per “il progresso scientifico”. L’esperimento comunque portò i nostri ricercatori a una conclusione certa: un coltello fatto di feci congelate non taglia assolutamente nulla; tuttavia, non per questo ci sentiamo di non consigliarne l’esperienza. Non è forse cagarsi in mano, scolpire la propria merda e pugnalare degli oggetti esso stesso il gusto della scoperta? Purtroppo resta un’arma inutile. Nel caso voleste provare vi invitiamo a guardare al lato artistico più che a quello bellico, in quanto confermiamo che la storia raccontata da Davis è falsa. Qualcuno di voi potrebbe stare urlando «Grazie al cazzo», ma non avrebbe alcun rispetto per il lavoro della scienza. Certo, forse neanche io mi sarei spinto a tanto per provare a smentire una leggenda urbana, però io non sono uno scienziato, quindi mi limito a tacere nella mia ignoranza.

Grazie all’avvento della moderna tecnologia possiamo godere dell’invenzione di quello che io, con estremo onore e orgoglio, chiamo “cannone di feci”. Nel 2009 Aleksandr Georgievich Semenov, un inventore russo piuttosto prolifico, presentò un brevetto intitolato “Metodo di Rimozione dei Rifiuti Biologici da un Compartimento Abitativo Isolato”. Il nome del progetto, però, tradisce il suo reale potenziale. Secondo il genio russo, un soldato che ha un’immediata urgenza di andare al bagno, invece di uscire dal carro armato ed esporsi al fuoco nemico, può defecare in uno speciale bossolo che ha abbastanza spazio per contenere la popò e la carica esplosiva. Una volta creata la “nuova munizione”, quindi, al soldato non resta altro che caricarla nel cannone e spararla via. I progetti per la creazione di questa meraviglia sono facilmente consultabili online, se si conosce il cirillico.

Il dramma di un coltello fatto di feci ghiacciate non è tanto la sua inefficacia in combattimento, quanto la creazione. Il freezer non è comodo per sedersi. Serg. McTurd pronto soccorso dell’Hospital of Central Connecticut, 19/12/XXXX

Fonti video https://www.dailymotion.com/video/xizru https://www.youtube.com/watch?v=zpbwJR9_D6c

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1. Attenzione, il seguente personaggio potrebbe non esistere. 2. Attenzione, il seguente Paese potrebbe non esistere. 3. Per consultare il testo scrivere a Mario Giordano, sottoscala di via Luigi Sputo 38, 00190 Milano. 4. Attenzione, il seguente campo potrebbe non esistere.

PAPUCY

IL SIMPOSIO FECALE Siamo nel 1977, marzo, con una legge il Parlamento italiano abroga le festività dell’Epifania, di San Giuseppe (per la gioia dei padri), dell’Ascensione, il Corpus Domini, i Santi Pietro e Paolo, e sposta la Festa della Repubblica del 2 giugno e la festa dell’Unità nazionale del 4 novembre alle prime domeniche di giugno e di novembre. Già di per sé, chiaramente, un anno di merda. Ma il 1977 vede anche la pubblicazione della canzone Ma che bontà, un bel successo per Mina, nella quale quest’ultima si chiede a più riprese cosa sia la misteriosa pietanza che assaggia, con quel suo gusto così saporito, tirando a indovinare i piatti più disparati, accorgendosi solo alla fine di come l’interesse delle sue papille gustative fosse catalizzato da della “cacca”. Come si potrebbe mai diffidare di una che si fa chiamare come un ordigno bellico? Non si può. Nel film Salò o le 120 giornate di Sodoma, del fu Pasolini, vengono rapiti ragazze e ragazzi per poi essere costretti a restare chiusi in una magione per 120 giorni di follia totale e pratiche sessuali deviate estreme, come si confà a ogni buon lavoratore stagionale. Il buon Pasolini, nella sua monumentale pellicola, tratteggia tre gironi, uno di questi è definito il “Girone della Merda”, non proprio un girone dantesco. Ma chi siamo noi per contraddire le grandi menti del XX secolo? In questo segmento il film narra di come i giovani rapiti siano costretti a deiettare in un apposito contenitore brevettato per i propri escrementi, così, come una rimpatriata delle medie, per poi cibarsene mentre vengono serviti durante un pranzo nuziale di un finto matrimonio, giusto per sottolineare che lo sposalizio fa schifo. Ora, lungi da chiunque rompere i coglioni a Pasolini, perché Pasolini è Pasolini, ma ’sta roba fa talmente schifo che come cazzo si fa a pensarla? Perché, in fondo in fondo, tutti subiamo il fascino delle parafilie, e in pochi possono dire di essersene scansata più di qualcuna. Dalle più leggere, tipo la podofilia (da non confondere con la più celebre pedofilia), ovvero l’amore smisurato per i piedi altrui, in alcune versioni con annusate annesse, alla coprofilia, cioè l’amore incondizionato verso gli escrementi e la totale repulsione per la carta igienica. 2 Girls 1 Cup. No, se sei nato dopo il 1990, non googlarlo. Fallo per il tuo amor proprio. Non serve tanta fatica, ti metto il QR code qui così lo trovi subito. https://www.youtube.com/watch?v=kZSmbObUzZA Cosa spinge un essere umano a ritenere che un tarzanello sia dotato di altissima e tribolante carica erotica non è dato, attualmente, saperlo, ma tant’è. La parte relativamente simpatica della coprofilia è, però, la coprolagnia, ovvero l’eccitazione che spesso si abbina al piacere massimo dell’orgasmo raggiungibile quando si è coperti e spalmati di feci. Shpalman® ne sarebbe fiero. Un depuratore ne sarebbe fierissimo. L’espressione “Sono nella merda fino al collo” assume contorni che mai si erano raggiunti prima, così da guardare con occhi diversi chi la pronuncia, schermati da guanti e scopone del cesso. Io personalmente non ho mai tratto godimento dalle feci, se non in un unico caso isolato: quando, seduto sulla tazza del cesso, intento a espellere debolezza, con immane sforzo il tronchetto dell’infelicità di considerevoli dimensioni spunta fuori, si lancia modello bungee senza elastici e, cadendo nel WC, solleva quella giusta quantità d’acqua che ti lambisce le terga. Ecco, quella credo sia la stessa soddisfazione che prova un maratoneta che taglia per primo il traguardo dopo una colossale fatica, fatta di accelerazioni, spinte e urlo finale con esplosione di fiato trattenuto per tutto il rettilineo che lo separava dalla vittoria. Che poi, chi cazzo ha

mai corso una maratona? Tu che leggi hai corso una maratona? Ah sì? Bravo, ti do una pacca sulla spalla, io e tutti gli altri ti odiamo. Se ci si soffermasse a pensare per qualche minuto, ci si renderebbe conto che la merda alimenta il ciclo vitale di molte cose. Quando sentite la parola “biologico” a cosa pensate? Ma naturalmente a frutta e verdura coltivate in maniera etica, evitando come la peste l’utilizzo di concimi chimici. E quindi come si producono le leccornie che quotidianamente degustiamo sulle italiche tavole? Cioè, non proprio sulle tavole, sulle italiche scrivanie ormai, che qui o sei disoccupato o lavori il doppio per guadagnare la metà. Ma vabbè, lasciamo stare, che le lagrime stanno bagnando il foglio. Come fanno a crescere quella bella insalata verde e quei pomodori così rossi che paiono bombe a mano per tori? Semplice, si usano i concimi biologici. E il migliore in assoluto è il letame di vacca. Che bellezza. Utilizziamo gli escrementi per poter mangiare, come i coprofagi, ma a differenza loro non ne traiamo un eccitamento sessuale. O meglio, il cibo potrebbe essere pure afrodisiaco, ma la merda resta merda. A proposito di ciò, mi vengono sempre in mente, in questo caso, le acque reflue. Per ottenere una soluzione di acque reflue basta espletare le naturali funzioni fisiologiche e tirare lo scarico. Abbiamo un prodotto. Farà di sicuro piacere sapere che queste acque vengono, di norma, trattate all’interno dei depuratori che, tramite una serie di processi bla bla, rendono quest’acqua potabile eliminando (stiamo semplificando) tutti i materiali di scarto, gli oli, i batteri, i cotton fioc e i minestroni andati a male conservati in frigo per una settimana perché “Mi faceva specie buttarlo”. Alla fine di questo lungo e lento processo, uno dei prodotti di scarto, i fanghi biologici (vi ricordate cosa vuol dire biologico, no?), viene disidratato. A seguito del processo di disidratazione il materiale risultante viene destinato in parte a essere termovalorizzato (come i sogni delle ultime due generazioni) e in parte, indoviniamo un po’, ma ccerto, utilizzato in agricoltura. Dal produttore al consumatore e dal consumatore al produttore in questo grande cerchio che potrebbe essere un centipede umano che collega il nostro sfintere alla bocca di qualcun altro. Questo è il modo corretto per tornare all’autarchia, la merda che produciamo ce la mangiamo! In tutti i sensi che si possono pensare. Senza contare che da circa un ventennio (ah, quando c’era lvi) i fanghi vengono anche impiegati per la produzione di mattoni. Pertanto, quando si dice che «Quella casa fa schifo, è una casa di merda» si potrebbe avere pure ragione. Ma lo sterco non è solo foriero di buone sensazioni e di potenti erezioni/squirting incontrollati. Nel Medioevo era sovente uso e costume lanciarselo addosso. Non in senso metaforico per infamare qualcuno, ma proprio letteralmente tirarselo in faccia. L’apice di tale pratica potrebbe essere rappresentato dalla famosa, ma sempre poco citata, Battaglia della Merda, combattuta nel 1334 a Bologna. Antefatti: papa Bonifacio VIII si fa prendere a schiaffi ad Anagni e torna a Roma, dove muore dopo un mese. Sale in rampa di lancio Benedetto XI che pensa “Ehi, non sarà mica la sede a Roma a portare sfiga?” e decide saggiamente di spostarsi a Perugia. Taac, fossa con tuffo a pesce dopo un anno. Sfonda il soglio Clemente V, di prepotenza, e pensa: “Sarà l’Italia a portare sfiga?”. Allora tutti in Francia, a Poitiers, che non c’avranno il bidet ma l’aria è pulita e non ci sono maratoneti. Dopo quattro anni si sposta ad Avignone e dopo altri quattro va a incontrare il suo datore di lavoro che lo manda alla seconda edizione di “The Apprentice USA”. E, last but not least, sale in cattedra pope Giovanni XXII che da Avignone inda house nomina suo legato il simpaticissimo cardinale Bertrando del Poggetto per far sì che il nostro assoggettasse nuovamente l’Italia nelle fameliche mani pontificie e che, col soprannome di “angelo della pace”, ossimoro, muovesse guerra alle italiche sponde puntando subito a conquistare Bologna. Nel 1327, tra un’Ave Maria e un’omelia incentrata sul perché occorra proprio dar fuoco ai filosofi, grazie ai santini di Padre Pio distribuiti fra le truppe e la mortadella avariata, riesce a far capitolare Bologna. Simpatico davvero il sior Bertrando del Poggetto, muove guerra a chiunque gli si pari davanti perché il suo unico

scopo è combattere, conquistare e assoggettare, talmente simpatico da far incazzare sia i Guelfi sia i Ghibellini, che a una certa diedero al suo culo la forma dei loro stivali. Bullizzato pure dai bolognesi, che aveva fatto incarognire alzando le tasse come se fossimo in Italia nel 2023 dopo uno spot in cui si sottolineava che le accise sulla benzina andavano eliminate perché sono un balzello ulteriore per il contribuente, viene dagli stessi indicato con i diti medi e, nel 1334, accade la magia, si chiudono i cuori e si aprono i culi. La Battaglia della Merda ha inizio. Il nostro si rifugia nel Castello di Porta Galliera, fatto appena costruire perché l’appartamento in centro non aveva l’aria condizionata, e per quindici giorni viene bersagliato dai trabucchi ricolmi di feci. I trabucchi, per chi non lo sapesse, sono tipo catapulte, divenuti tristemente noti qualche anno più tardi per l’assedio di Caffa, nel 1346, dove i mongoli che assediavano la colonia genovese lanciarono, con queste armi, i cadaveri dei loro commilitoni morti per la peste bubbonica, appestando i genovesi all’interno che, una volta terminato l’assedio per sfinimento, veicolarono la malattia in tutta Europa. ’Sto casino sfociò nella famosa peste nera, che accoppò circa metà della popolazione europea dell’epoca. Dicevamo… Una città a modo la Bologna del tempo, con un forte senso civico, e perciò il castello fu conquistato senza armi tradizionali. Se in quel periodo si aveva la diarrea era perfetto. Un lanciarazzi. Il caro Bertrando fu accompagnato a sputi e insulti sino in Francia, dove venne mandato affanculo da papa Giovanni XXII. È chiaro che Bertrando morì per l’impossibilità di lavarsi a causa dell’assenza del bidet. 1 Siccome i bolognesi gli volevano bene, rasero al suolo l’intero Castello di Porta Galliera e si salvò solo la pala d’altare della cappella del palazzo. Giusto una pala si poteva salvare. Chiaramente non è stata esattamente accertata la veridicità della storia, non c’era internet all’epoca, ma l’epicità resta. Oltre alla nascita della figura retorica nota come “figura di merda”. Ma si può anche abbandonare, però, il concetto metafisico legato agli escrementi. Spesso lo sterco può essere indice di qualcosa di legato alla sfera emotiva e psicologica. Alla domanda “Come va?”, se tutto va male, spesso si risponde “Di merda”. Ma perché? Perché “Va di merda” e non “Va di dito contro lo spigolo”? Ci ho pensato intensamente, neanche a dirlo dov’ero seduto, e ho concluso che non sia tanto il fatto che, di per sé, la merda faccia schifo, quanto che l’utilizzo di tale parola sia legato al ciclo naturale che il nutrimento espleta per trasformarsi in merda. Dalla bocca allo sfintere. Provo ad argomentare: quello che è il risultato finale della digestione e che, in media, una volta ogni due giorni riempie la tazza del cesso può essere assimilato alle fasi della vita di un essere umano nato tra il 1980 e stamattina: La fanciullezza: inizialmente abbiamo un cibo gustoso, bello alla vista, tenero, con un buon profumo. Una volta imboccato avviene la prima fase della digestione, con la masticazione e la disintegrazione dell’innocenza, e la relativa percezione del gusto che scompare, come l’innocenza, una volta ingoiato il boccone. L’adolescenza: sei nell’esofago, non capisci un cazzo, non sai perché stai lì e chi ti ci ha messo, sei solo un grumo senza senso che prova a darsi un senso, ma non riesci ad autodeterminarti perché oggettivamente non si capisce veramente un cazzo, e scivoli sempre più in basso. Post laurea: nello stomaco, ti guardi indietro e tutto ciò che eri non lo sei più, le fasi precedenti che credevi uno schifo le rimpiangi, i succhi gastrici e la prospettiva di un lavoro da dodici ore al giorno sei giorni su sette stanno erodendo tutto il tuo nutrimento, non

rimane niente se non dolore e quel senso di vuoto e sgomento tipico di chi sta per essere espulso, dovunque si trovi. 35 anni: sei nella tazza del cesso che galleggi assieme alle bollette e alle cartelle dell’Agenzia delle Entrate. Tutto bellissimo. Ma c’è un lato positivo: se si ha una passione per le immersioni o se non si hanno alternative sappiate che in Australia c’è un’azienda che ha come core business i lavori sott’acqua, e uno di questi è la totale immersione in condotte fognarie per la sistemazione di pompe in avaria. Si viene completamente coperti da uno scafandro impermeabile e interamente immersi nella merda, ma ehi, la paga è più che buona. Così, finalmente, potrò dire di essere nella merda e di essere felice.

1. Non è vero.

EVA MUNTER

CHIMICACCA

Una domanda che qualcuno di voi potrebbe essersi posto è: se mangiassimo solo cibi incolori, inodori e trasparenti, di che colore sarebbe la nostra cacca? E che odore avrebbe? Se non vi siete mai fatti queste domande, tranquilli, siete persone normali. Per chi invece si fosse interrogato sul magico mondo della merda senza trovare risposte, continui a leggere. Che c’è un sacco di chimica di mezzo, ma prometto che ve la renderò facile… diciamo digeribile.

Intanto, cosa sono le feci dal punto di vista chimico? Per lo più acqua, fino al 75%. Il restante 25% è composto da batteri, sostanze di scarto varie, fibre non digerite, grasso, materia inorganica (calcio e fosfati), muco. Il colore dipende per lo più dai prodotti di degradazione dei globuli rossi, processo che coinvolge il pigmento eme, che compone la proteina emoglobina. I globuli rossi vanno in giro per il nostro corpo per circa 120 giorni, poi vengono rimossi dalla circolazione dalle cellule fagocitarie presenti nella milza e nel fegato. Il ferro viene recuperato e l’eme viene convertito in bilirubina grazie a una serie di processi enzimatici.

Quando l’emoglobina viene degradata, e il ferro recuperato, otteniamo una molecola di colore verde, la biliverdina. Si tratta della stessa molecola che fa apparire verdastri i nostri lividi quando iniziano a guarire: è l’emoglobina che viene scomposta.

Non è finita: la biliverdina viene degradata ulteriormente grazie a un enzima, la biliverdina reduttasi, che la trasforma in bilirubina, di colore giallo-rossastro.

La bilirubina si degrada in stercobilina che, come si intuisce dal nome, dà il caratteristico colore alle feci. Una parte di stercobilina viene riassorbita e trasportata nel fegato attraverso il sangue. Qui la molecola subisce la trasformazione in urobilinogeno e quindi in urobilina, molecola di colore giallo che dà il tipico colore alle urine. Insomma, quando si dice una molecola versatile…

Ecco dunque la risposta alla prima domanda, quella sul colore: anche mangiando solo cibi incolori, la merda sarebbe comunque sempre marrone, almeno in una persona mediamente in salute. Proprio il colore ci dà, anzi, informazioni su quanto stiamo bene, e una sua variazione anomala e non legata a quello che abbiamo mangiato potrebbe essere segno che qualcosa non va. E per quanto riguarda l’odore? Qui dobbiamo scomodare altre molecole, che non c’entrano nulla con l’emoglobina. Si tratta di due sostanze, scatolo e indolo, che derivano dall’amminoacido essenziale triptofano.

Quindi se non mangiassimo niente che contiene triptofano, come cioccolato, banane o patate? Be’, avremmo un problema: il triptofano va a influire sui nostri livelli di serotonina (il cosiddetto “ormone del buonumore”) o di melatonina, che regola il nostro ciclo sonno-veglia. In più, partecipa alla sintesi delle proteine, quindi si può dire che per funzionare bene ci tocca sopportare questi cattivi odori.

Una cosa interessante che riguarda lo scatolo è che il suo odore, che per noi è repulsivo, attira diversi insetti, tra cui le cosiddette “api delle orchidee” maschio (Euglossini), che lo utilizzano per sintetizzare feromoni. Attira anche le zanzare, soprattutto quando sono pronte a sfornare altre adorabili bastardelle. I composti aromatici ed eterociclici svolgono un ruolo importante nell’ecologia delle zanzare adulte, in particolare le molecole che caratterizzano l’odore della nostra cacca sono rilevate grazie a dei recettori strettamente sintonizzati, definiti recettori “indolo-dipendenti”.

Ad alte concentrazioni lo scatolo ha l’odore che tutti noi conosciamo, ed è un componente importante anche dell’odore dell’alito cattivo (si può dire legittimamente “alito di merda”), mentre a basse concentrazioni ha un odore languidamente floreale, e infatti è una molecola presente in diversi fiori, come i fiori d’arancio o di gelsomino. È utilizzato anche in profumeria come fissativo, oltre che come composto aromatico. Un fissativo è una sostanza che permette di prolungare e migliorare la durata delle fragranze, riducendo il tasso di evaporazione delle molecole più volatili o favorendo il loro ancoraggio alla pelle. Ironico come una molecola dall’odore fecale ci aiuti a fissare meglio un profumo gradevole sulla nostra pelle. L’indolo, come lo scatolo, è un composto eterociclico aromatico contenente un anello benzenico a sei membri, fuso con un anello pirrolico contenente azoto a cinque membri.

In realtà, nella sua forma più pura l’indolo ha un odore che non richiama immediatamente gli escrementi: è più simile a qualcosa di muffoso e umido, ma, al contempo, ha una punta penetrante di pulito. Una sorta di strana combinazione, che sembra cambiare mentre la annusiamo, e va dallo stantio all’alito caldo, alla naftalina, tutto insieme. Anche l’indolo si trova in alcuni fiori, soprattutto quelli “bianchi”, come gelsomino, tuberosa, neroli, gardenia o fiori d’arancio. Nelle fragranze, gli oli naturali che contengono indolo sono spesso usati per dare un tocco intrigante e seducente a un profumo.

Il gelsomino, in particolare il Jasminum grandiflorum, è la pianta che contiene una delle più alte concentrazioni di indolo, anche fino al 10%. Annusando il suo olio essenziale in purezza, ci si sente un po’ spiazzati: da un lato si riconosce la piacevolezza del gelsomino, dall’altro si avverte una nota di umido e stantio in sottofondo, che fa quasi dubitare della propria percezione. Al nostro cervello succede qualcosa di strano: alcune parti, come la corteccia orbitofrontale mediale, che percepiscono la piacevolezza degli odori, possono rispondere ancora più fortemente al gelsomino quando contiene indolo rispetto a quando contiene solo componenti individualmente considerati piacevoli.

È come se questa molecola facesse assumere una connotazione “interessante” all’odore. Insomma, ci schifano i cani che si annusano il culo, ma ci intriga segretamente l’odore di feci, se molto diluito. Perché ci piace? L’indolo non è prodotto solo dai batteri nell’intestino, ma anche da quelli che si trovano sulla pelle e in particolar modo nella zona inguinale, soprattutto quando quell’area diventa calda e sudata. Insomma, avete capito. Questo odore ci ricorda l’odore della persona amata sotto le lenzuola, quindi non ci stupisce che si trovi in moltissimi profumi considerati sensuali. Evitate solo di dirlo quando regalate una bottiglia con un profumo contenente indolo. Riferimenti bibliografici Bohbot, J., Pitts, R.J., Kwon, H.W. et al., Molecular characterization of the Aedes aegypti odorant receptor gene family, in “Insect Molecular Biology”, ottobre 2007, 16(5), pp. 525-537. Grabenhorst, F., Rolls, E.T., Margot, C. et al., How pleasant and unpleasant stimuli combine in different brain regions: Odor mixtures, in “Journal of Neuroscience”, 5 dicembre 2007, 27(49), pp. 13.532-13.540. Grabenhorst, F., Rolls, E.T., Margot, C., A hedonically complex odor mixture produces an attentional capture effect in the brain, in “NeuroImage”, 15 marzo 2011, 55(2), pp. 832-843. Rose, C., Parker, A., Jefferson, B. et al., The characterization of feces and urine: A review of the literature to inform advanced treatment technology, in “Critical Reviews in Environmental Science and Technology”, 2 settembre 2015, 45(17), pp. 1827-1879. Ruel, D.M., Yakir, E., Bohbot, J.D., Supersensitive odorant receptor underscores pleiotropic roles of indoles in mosquito ecology, in “Frontiers in Cellular Neuroscience”, 24 gennaio 2019, 12, p. 533. Schiestl, F.P., Roubik, D.W., Odor compound detection in male euglossine bees, in “Journal of Chemical Ecology”, gennaio 2003, 29(1), pp. 253-257.

MARTINA CATUZZI

QUELLO CHE LE DONNE NON ESPLETANO Da un sondaggio (fatto da me), le riviste scientifiche sono scritte e lette in maggioranza da uomini. Allora voglio approfittare di questo canale per rivolgermi a voi maschi e fare un po’ di chiarezza sul controverso tema della defecazione femminile, dato che c’è molta confusione, ovvero: nell’immaginario comune degli uomini, le donne non cagano. Non avete la certezza che sia così, ma vi sentite molto a disagio a ipotizzare il contrario. Per cui, partiamo dal principio. La società occidentale, lo sappiamo, si fonda sul maschio alfa, che va orgoglioso delle sue scagazzate, non vede l’ora di annunciare quando gli scappano e sorride sornione uscendo dal bagno consigliando a gran voce di NON ENTRARE. E sulla donna, che usa il bagno solo per controllarsi il trucco, cambiare l’assorbente e fare quel centinaio di pipì al giorno dovute all’abuso di tisane drenanti. Ultimamente, però, grazie al femminismo e ai libri di scienze sull’apparato gastrointestinale in edizione unisex, vi sta venendo il dubbio che tutto questo sia solo un’effimera illusione, e che in fondo tutti i sessi scarichino i pesi della vita dentro al gabinetto in formato cilindrico. Ecco, io sono qui per dirvi che potete stare tranquilli, che potete rilassarvi, perché oggi saprete da me che avete ragione voi. È vero. Noi femmine NON FACCIAMO LA CACCA. Ed è così nonostante la società cerchi di farvi credere il contrario, per esempio con tutti quegli spot degli yogurt che promettono di migliorare la regolarità intestinale delle donne. Loro potrebbero farvi venire il dubbio, in effetti, ma non preoccupatevi. Quelle pubblicità, se ci fate caso, sono sempre fatte da donne e si rivolgono alle donne, ma usano linguaggi in codice. Quando dicono che il tal yogurt “Aiuta la regolarità intestinale”, noi femmine sappiamo che in realtà significa “Aiuta l’abbattimento del patriarcato”. E vi spiego pure perché. Alla fine cosa sono i fermenti lattici vivi degli yogurt? Dei minuscoli viscidi maschi bianchi etero. Mangiandoli ne causiamo la morte, dando così manforte al femminismo. Noi donne, se proprio volete saperlo, non abbiamo neanche l’intestino. E la prova è che riusciamo a indossare quelle magliette a vita alta con la panza di fuori anche in inverno, senza accusare attacchi di dissenteria come voi maschi. I più curiosi, a questo punto, si staranno domandando cosa abbiamo al posto dell’intestino. Come qualcuno probabilmente già immagina, l’essere umano femmina al posto dell’intestino ha 7 metri circa di collanine fatte di preziosissime perle Akoya originali, coltivate in una baia marina a sud del Giappone. Quando sentite le gestanti dire quelle frasi melense tipo: «Il mio gioiello più grande è dentro di me», il vostro retaggio patriarcale vi fa pensare subito al feto che gli avete spruzzato in grembo. Mi spiace deludervi, ma si riferiscono proprio al collier di cui parlavamo prima. Lo dicono quando sono incinte perché sperano che il futuro nascituro, che si aggira nelle zone limitrofe, senta questa frase e stia attento a non rovinarglielo. Sfatiamo anche il mito del bagno in due. Ci vedete sempre andare in bagno accompagnate dall’amica. Voi pensate sia per farci tenere chiusa la porta, o

per farci reggere la borsetta. In realtà, quella che voi credete sia un’amica è una beatboxer professionista (non usciamo mai senza) che simula la classica sinfonia della defecazione così da rendere la nostra messa in scena a prova di smascheramento, qualora ci fosse qualche spia nei paraggi. Ora, tra di voi, statisticamente, ci sarà sicuramente più di un intellettuale dal palato fino che avrà visto il celeberrimo film d’autore 2 Girls 1 Cup. Romanticissima storia che narra la relazione travagliata di due donne che vorrebbero amarsi ma le loro rispettive famiglie non sono d’accordo, e così optano per un’alternativa su cui nessun parente si è pronunciato, ovvero: evacuano in una coppa da macedonia per poi dedicarsi alla coprofagia di coppia. La domanda sorge spontanea: “Come hanno fatto?”. Perché questa, ovviamente, sarebbe una pratica normalissima, e ribadisco NORMALISSIMA, se non vi avessi appena detto che noi donne non caghiamo. Però ve l’ho detto, non caghiamo, e quindi ora vi devo svelare pure come hanno fatto. Per realizzare la pellicola cult 2 Girls 1 Cup si sono ispirati al teatro elisabettiano, quello in cui le donne non potevano recitare e i ruoli femminili venivano interpretati da attori maschi camuffati da femmine. Allo stesso modo hanno preso due uomini, muniti naturalmente di intestino, e gli hanno fatto indossare parrucche femminili. I più attenti sapranno che nel film le attrici (gli attori), oltre ai capelli da donna, hanno anche i seni e le vulve. Be’, quello è dovuto alla bravura degli attori e a un utilizzo fedelissimo del metodo Stanislavskij. Come so tutto questo? Perché sono un’attrice e ho fatto anch’io un provino per quel film, sperando utilizzassero donne vere e cacca finta. Invece poi mi hanno spiegato che volevano fare il contrario. Valli a capire questi registi sperimentali. Ma allora, viste le difficoltà di portare avanti questa pantomima, perché non facciamo tutte coming out e ammettiamo la realtà che tanto si è capito ormai essere soltanto un segreto di Pulcinella? Be’, perché avremmo contro tutta l’industria della carta igienica profumata alla camomilla, degli yogurt ai fermenti lattici vivi, del carbone vegetale e dello sbiancamento anale… Insomma, è l’ennesimo complotto delle multinazionali. Credo di avervi detto tutto riguardo a questa spinosa questione, che crea da anni imbarazzi e malintesi tra uomini e donne. Ora mi raccomando, non ci siano più dubbi: NOI DONNE QUELLA COSA SCHIFOSA LÌ NON LA FACCIAMO.

LUCA PERRI

COME SI FA NELLO SPAZIO (E ALTRE DIFFICOLTÀ COSMICHE)

Fare l’astronauta è uno sporco lavoro. Non nel senso che però qualcuno dovrà pur farlo, mi riferisco proprio all’igiene. Ma anche in generale, la situazione non è proprio agevole. Tralasciamo il rischio di beccarsi piogge di micrometeoriti, che bene bene comunque non fanno. Uscire dalla protezione del campo magnetico terrestre espone a una quantità di radiazioni notevolmente maggiore rispetto al rimanere sulla superficie del nostro pianeta, il che a lungo andare non è un toccasana. Tuttavia, è soprattutto il vivere la propria vita in assenza di peso, in particolare nei primi giorni, a essere un vero e proprio incubo. Corpo e cervello, infatti, devono adattarsi a condizioni che fino a quel momento, nel migliore dei casi, sono state solo simulate e per poco tempo. Agli albori dell’esplorazione spaziale ci si rese conto fin da subito che la nausea avrebbe potuto turbare la spedizione degli astronauti. Peccato. Ma niente di grave; all’epoca i viaggi erano brevissimi (alcuni di un quarto d’ora) e le navette talmente piccole che gli astronauti non avevano modo di muoversi. Quindi ti tenevi il vomitino e basta. Poi le navicelle si fecero più grandi e le missioni più lunghe. E a quel punto iniziarono i disastri. In breve si scoprirono malesseri capaci di colpire circa metà dei viaggiatori spaziali, indipendentemente da quanto questi fossero in forma o addestrati. L’insieme di queste problematiche fu chiamato “mal di spazio”, o – in termini tecnici – SAS: sindrome da adattamento allo spazio. Ma quali sintomi di questa sindrome dovreste affrontare in un viaggio nello spazio? Per cominciare, il vostro orecchio – in particolare la zona chiamata “labirinto vestibolare” – smetterebbe di cogliere la distinzione fra sopra e sotto. Quindi, niente senso dell’equilibrio, almeno per un po’. All’inizio addirittura non riuscireste a percepire correttamente nemmeno la posizione di gambe e braccia. Che già io ho una coordinazione tale che potrei benissimo recitare come comparsa in una puntata di “The Walking Dead”, pensate a cosa potrei fare non capendo dove stanno i piedi. Non parliamo poi di stomaco e intestino: pare che – escluso il libro di Bruno Vespa sugli allunaggi, con le foto taroccate al computer in copertina – poche cose siano meno piacevoli delle interiora che galleggiano nell’addome. Inoltre, poiché la digestione è aiutata dal fatto che il cibo tende ad andare verso il basso, in assenza di peso diventa molto più complicato. Con tante o piccole (dipende) conseguenze. Per esempio, non si possono fare puzzette in giro per la Stazione spaziale internazionale (ISS). Intanto perché si chiama “buona educazione”, e nella vita è importante, e poi perché non potete aprire la finestra. Inoltre, se pur è vero, come ha dichiarato l’ex astronauta della NASA Michael Massimino (famoso anche per le sue apparizioni nella serie tv “The Big Bang Theory”), che un peto particolarmente forte può

fungere da sistema di propulsione, il ricircolo d’aria forzato della stazione ha dei limiti. E i fluidi, in assenza di peso, non si disperdono, ma creano una bolla attorno alla sorgente. Quindi vi spostereste, però lo fareste immergendovi in una bolla di metano. Divertente la prima volta, meno la seconda. Alla terza soffochereste. Per fortuna sulla Stazione spaziale internazionale c’è una ventilazione forzata, soprattutto in alcune zone specifiche. Gli astronauti che soffrono di meteorismo, o che semplicemente devono fare una puzzetta, possono assentarsi un secondo e andare a… mandare il proprio messaggio. Non a caso, la frase in codice è “Vado a spedire una mail!”. Pensate però ai problemi che hanno avuto durante le missioni sulla stazione spaziale Skylab, quando il gas presente nell’acqua potabile stipata in contenitori pressurizzati portò gli abitanti della stazione a emettere fino a cinquecento peti al giorno. E all’epoca, negli anni Settanta, nemmeno esistevano le mail! A ogni modo, la conseguenza di queste fluttuazioni addominali è una nausea simile al mal di mare: dolori alla testa, incapacità di concentrarsi, nausea, vomito e problemi intestinali. Fortunatamente, in genere tutto scompare nel giro di poche ore o di pochi giorni, perché il cervello – e non lo stomaco – si adatta, prendendo una decisione drastica, ovvero accettando solo i segnali che arrivano dagli occhi: se una cosa è vicino ai piedi, sta giù; se è vicino alla testa, sta su. Certo, tornando a terra il vostro cervello dovrà nuovamente abituarsi a prendere per validi tutti i sensi, non solo la vista, e a vivere in un luogo in cui, se lasci andare un oggetto, dannazione, questo cade e non rimane a fluttuare. Non per tutte le persone, però, il mal di spazio dura poco tempo. E, ovviamente, il grado di malessere non è uguale per tutti. Per capire il livello di mal di spazio da cui si viene colpiti, gli astronauti usano la scala Garn. Non è uno strumento scientifico ufficiale, è più una valutazione qualitativa… comunque molto utile.

La scala è chiamata così in onore di Jake Garn, senatore statunitense… e astronauta! Sia chiaro, non è l’unico a essere stato sia astronauta sia senatore. All’estero capita spesso che si valorizzino le eccellenze nazionali. Anche John Glenn, primo statunitense a fare un viaggio attorno alla Terra, lo è stato. Prima però ha fatto l’astronauta e poi il senatore (e poi di nuovo l’astronauta, a dirla tutta). Garn, invece, ha fatto il percorso in senso contrario. Da politico, nei primi anni Ottanta si è ritrovato a capo della sottocommissione per gli stanziamenti. Quella che decide a chi dare i soldi dei cittadini, in pratica. E, tra i vari enti, doveva stabilire se sovvenzionare anche la NASA. Ma non chiese di parlare con diversi esperti, così da capire se la NASA sprecasse o no il denaro pubblico. Lui non voleva presentazioni e diapositive. Voleva vedere con i propri occhi: chiese dunque di volare sullo Space Shuttle. In fondo, Jake era stato pilota e colonnello della Marina statunitense, con un numero di ore di volo maggiore di quello di moltissimi astronauti. E questo anche perché, in passato, mentre già decideva a chi dare i soldi, gli era stato concesso di volare su un prototipo del bombardiere stealth B2-Spirit (che magari avete visto in qualche film). Ma aveva anche guidato un nuovo tipo di carro armato dell’esercito. Certo, qualche malalingua potrebbe insinuare che Jack sfruttasse la sua posizione per farsi un giro su qualunque mezzo divertente trovasse a tiro. Però, essendo quello che decideva se far fallire o no il vostro ente di ricerca, si tendeva ad assecondare le sue richieste. Cosa che fecero anche alla NASA. Nel 1985 Garn venne dunque assegnato alla missione STS-51-D dello Shuttle Discovery. Questa lo portò a effettuare 108 orbite attorno alla Terra, percorrendo 4 milioni di chilometri. Un entusiasmante viaggio di 167 ore, trascorse a ritinteggiare lo Shuttle coi succhi gastrici e a cercare di non vomitare anche l’intestino. A oggi, Garn è riconosciuto come l’assoluto campione dei campioni nella disciplina “nausea spaziale”. Gli è stato dedicato anche un centro di addestramento degli astronauti, a Houston. Della serie, “vedete di non fare come lui”. E gli hanno intitolato, appunto, anche la scala di classificazione del mal di spazio, il cui valore massimo – a quanto pare irraggiungibile – è 1 Garn. Se ho capito bene, la bimba dell’Esorcista che vomitava vellutata di piselli a spruzzo è arrivata a mezzo Garn.

Superata la nausea iniziale, però, non è che siete a posto. I problemi, infatti, si susseguono con entusiasmo. Due terzi del nostro peso (a spanne) sono dovuti all’acqua. Sulla Terra, questa tende a scendere verso il basso, quindi verso i nostri piedi. Nello spazio, però, l’acqua e i liquidi non hanno una direzione preferita in cui andare. Tempo un giorno e le gambe si “svuotano” di circa un litro di acqua. La faccia, al contrario, si gonfia come un palloncino. Se ci fate caso, nei filmati girati nello spazio gli astronauti sembrano ben più paffutelli rispetto a quando sono sulla Terra. Non sono ingrassati, anche perché il cibo non è proprio una roba goduriosa. Hanno semplicemente la faccia gonfia. Lo chiamano “effetto Charlie Brown”, come il personaggio dalla testa tonda dei fumetti Peanuts. Il rigonfiamento colpisce però anche i seni nasali, facendo sì che vi sembri di avere un forte raffreddore e di non riuscire a respirare bene, oltre ad avere olfatto e gusto smorzati (come quando ci si tappa il naso per mandare giù una medicina amara). 11 ottobre 1968. Apollo 7 è stata la prima missione del Programma Apollo con un equipaggio a bordo. Fu anche la prima missione statunitense con tre astronauti: Walter Schirra, Donn Eisele e Walter Cunningham, i quali dovevano testare navetta e manovre chiave, in vista delle successive missioni lunari. L’obiettivo era dunque importante, ecco perché alla NASA decisero di affidare il comando al veterano Walter “Wally”

Schirra, un ex pilota da combattimento di origini svizzero-sarde selezionato con il primo gruppo storico di astronauti. Schirra aveva già volato con i due programmi precedenti, Mercury e Gemini, e fu anche il primo a volare con la Apollo. Quale modo migliore per concludere la propria carriera da astronauta? Ecco perché dichiarò subito che sarebbe stato il suo ultimo volo. Gli ultimi undici, gloriosi, giorni di spazio. Schirra, però, non appariva proprio contentissimo, per usare un eufemismo: i sedili della navetta erano di un tipo vecchio, inadatto e pericoloso nel caso di un atterraggio sulla terraferma invece che nell’oceano. Quella, inoltre, era la prima missione a prevedere una diretta televisiva, trasmettendo sulla Terra immagini dallo spazio. Bello eh, ma una rottura per un equipaggio che doveva svolgere numerosi e delicati compiti. In realtà, il lancio e i primi esperimenti si svolsero perfettamente, tanto che fu deciso di aggiungere qualche test in più. Ma una quindicina di ore dopo il lancio, ecco il primo intoppo: Schirra e i colleghi iniziarono a manifestare i sintomi di un bruttissimo raffreddore. Non riuscivano a respirare bene. Wally cominciò a essere scontroso; qualunque cosa lo infastidiva. «Il cibo fa schifo!» E qui è difficile dargli torto: è tutta roba sottovuoto e disidratata. O, peggio ancora, ridotta a una specie di impasto infilato in tubetti del dentifricio, da spremersi direttamente in gola. Francamente, alle volte è un bene che nello spazio si sentano poco i sapori. «La navetta è piccola!» In effetti la Apollo è, sì, molto più grande della Mercury e della Gemini, ma se ci state in tre per undici giorni risulta comunque claustrofobica. «I sacchetti della cacca puzzano!» Questo, a dire la verità, mi coglie di sorpresa! Non avrebbe dovuto sorprendere lui, però. Le lamentele non erano infondate; semplicemente, erano legate a condizioni già note prima di partire. Ma si sa che nel momento in cui si sta male si diventa intrattabili. La cosa peggiore, però, è quando il tuo malumore contagia i tuoi compagni di viaggio. L’equipaggio di Apollo 7 incominciò dunque a essere poco gentile con Houston, tra una soffiata di naso e l’altra. A un tratto, mentre stavano portando avanti una serie delicatissima di test combattendo col moccio al naso, dal Centro di Controllo comunicarono loro che era arrivato il momento di un bel collegamento televisivo con la Terra. Schirra, con brio ed eleganza, risponde come avrebbe fatto una qualunque principessa Disney. A Houston la presero bene, e costrinsero con velate minacce i tre a fare la diretta. Fu una trasmissione colma di entusiasmo, al termine della quale il trio tornò agli esperimenti (e ai moccichi). Il peggio, però, non era ancora giunto. Arrivò, quando ancora mancava un po’ al rientro sulla Terra, attraverso la comunicazione di Schirra: «Il rientro lo facciamo senza caschi». I caschi che avevano fornito loro, infatti, avevano una forma simile alle bocce dei pesci rossi, senza una visiera alzabile. Voleva dire non potersi soffiare il naso. L’equipaggio, oltre al fastidio, temeva che un accumulo di muco – unito alla pressione della tuta – avrebbe potuto provocare una rottura dei timpani. A terra, inspiegabilmente, prediligevano di gran lunga la rottura di sei timpani, piuttosto che una perdita di pressione e ossigeno e la morte di tutto l’equipaggio. Punti di vista. «Penso che dovresti comprendere chiaramente che non abbiamo assolutamente alcuna esperienza di atterraggio senza il casco.» «E non abbiamo esperienza di atterraggio con questo casco.» Nel successivo sfoggio di arte della diplomazia seguirono frasi che non riporteremo, in quanto troppo delicate ed eteree perché si scelga di appesantirle su un ruvido foglio di carta. Ma alla fine, a Houston, avevano ben poco da fare: non potevano legarli fisicamente e mettergli il casco a forza. E a Schirra importava anche molto poco di inimicarsi la NASA e delle minacce: in fin dei conti, era il suo ultimo volo. Per fortuna il rientro sulla Terra fu praticamente perfetto. La missione venne descritta ai media come “riuscita al 101%”. Stranamente, però, né Donn Eisele né Walter Cunningham saranno mai selezionati per una seconda missione. Questi problemi che abbiamo visto, in ogni caso, sono temporanei; fastidiosi ma superabili. Altri, invece, lo sono meno. Il sangue, per esempio, alla lunga perde plasma e globuli rossi, trasportando una minore quantità di nutrienti e ossigeno. Il tessuto cardiaco si riduce e il cuore, non dovendo più contrastare la gravità, rallenta il proprio battito; inoltre, diventa più sferico. E di solito cambiare forma agli organi interni non è una buona idea. La colonna vertebrale si stiracchia: si diventa fino a cinque centimetri più alti. Che è ottimo se si vuole sfondare nel basket o nella pulizia degli infissi, ma è anche un tantino doloroso: oltre alla colonna vertebrale, a stiracchiarsi ci sono anche i nervi spinali.

Le ossa e i muscoli perdono ogni mese l’1% della massa. Il calcio (l’elemento chimico, non lo sport) non finisce più nelle ossa: se tutto va bene lo espellete con la pipì, altrimenti vincete dei calcoli renali. E i simpatici sassetti provocano quello che viene descritto come uno dei dolori più forti conosciuti dalla specie umana. La notizia buona è che, una volta tornati a casa, la perdita di tessuto osseo si ferma immediatamente. La cattiva è che ancora non abbiamo capito se la parte persa venga recuperata o no. Per tentare di contrastare e arginare tutti questi problemi, nello spazio si è costretti a fare un’intensa attività fisica per diverse ore al giorno, correndo su speciali tapis roulant o pedalando su apposite cyclette. Tutti attrezzi a cui bisogna legarsi, altrimenti al primo passo o pedalata si volerebbe via. È anche vero che si è abituati a stare al guinzaglio, dato che si dorme legati ai letti. Però, facendo così tanta attività fisica si suda, e non poco. E i vestiti sono usa e getta, per cui non potete certo cambiarvi di continuo. Vi è concesso un nuovo outfit ogni tre giorni. Dunque nello spazio si puzza. Ma tanto l’olfatto non funziona bene! Così come la vista, dato che i maggiori fluidi nella vostra testa comprimono i bulbi oculari e i nervi ottici, facendovi vedere peggio. Come se non bastasse, radiazioni e microgravità danneggiano e fanno invecchiare gli occhi precocemente. Se state pensando: “Ma chi me lo fa fare!”, sappiate che non siamo ancora arrivati alle questioni legate a coloro con cui dovete convivere. Non mi riferisco alle persone. Quelle dovete sopportarle per forza, e magari vi stanno anche simpatiche. All’inizio. Non parlo nemmeno degli animali che eventualmente vi siete portati. Ciò di cui dovete preoccuparvi di più sono le centinaia di specie di batteri e funghi che vivono sulle stazioni spaziali. E che alle volte provocano infezioni, congiuntiviti e difficoltà respiratorie, visto che i viaggi spaziali compromettono il sistema immunitario. Oltre ai compagni di viaggio microscopici, però, non bisogna sottovalutare quelli macroscopici. Vi svelo un segreto: nello spazio manca lo spazio. La navetta o la stazione spaziale possono essere grandi, e in assenza di peso si può lavorare anche sul soffitto. Ma alla fine il volume da condividere non è così ampio. E dopo giorni, settimane o addirittura mesi di convivenza forzata con le stesse persone, alla fine la cosa vi peserà. E diventerete collezionisti di rancore.

Quanto rancore? Per darvi un’idea, vi narrerò di Sergey Savitsky. Non è un cosmonauta, ma un ricercatore russo che lavorava in Antartide. Le missioni in Antartide, per molti versi, sono simili a quelle nello spazio. Siete in un luogo avverso alla vita umana, rinchiusi in spazi limitati, incontrate sempre le stesse persone, non potete uscire a farvi una passeggiata per smaltire il nervoso. Ecco, nel 2018 il 55enne Sergey Savitsky condivideva il proprio spazio vitale con Oleg Beloguzov, 52 anni. Nella solitudine e nel gelo, una volta esaurite le mansioni giornaliere, come ci si può distrarre e dilettare? Con dei libri gialli, per esempio. Sergey li adora. Oleg, invece, adora gli scherzi. Tipo rivelare a Sergey il finale del libro giallo che quest’ultimo stava leggendo. Divertente, almeno fino a quando Sergey non si è alzato, è andato in cucina, ha preso un coltello e ha pugnalato al petto il collega. Scherzone! Ora, lungi da me difendere gli spoiler, però, ecco, di solito se ve ne fanno uno non accoltellate qualcuno. Spero. Oleg, comunque, si è salvato, dopo un trasporto di emergenza in Cile e un’operazione al cuore. Non abbiamo notizie su come si sia evoluta la sua passione per gli scherzi. Capite però che, quantomeno nello spazio, sarebbe il caso di evitare questo genere di scaramucce.

Ed ecco perché, a fine giornata, gli astronauti devono scusarsi per qualunque cosa possa aver infastidito gli altri. Pure se una persona è stata dieci secondi di troppo in bagno. Altrimenti il rischio è che si passi alle mani. O, semplicemente, che si contagino i colleghi con il proprio malumore, come nel caso dell’Apollo 7. Il fattore psicologico, insomma, è importantissimo. Gli psicologi negli anni hanno condotto diversi studi sul fatto che gli astronauti alla lunga si sentano non solo arrabbiati, ma anche continuamente affaticati o assonnati, o possano iniziare a credere di avere malattie o dolori che magari hanno solo sognato. È vero, inizialmente provano anche un senso di meraviglia nei confronti dell’universo che porta a una sensazione di pace e di comunione con la natura. Un po’ figli dei fiori, insomma. Peccato che questi sentimenti positivi col tempo scompaiano, e ci si ritrova a diventare come quei gatti a cui hanno fatto un grattino, con la pulsione di prendere a bastonate sulle gengive i compagni di viaggio e di pianificare vendetta verso chi vi parla dalla Terra. Soprattutto verso chi vi parla dalla Terra. Perché vi sta ordinando di fare cose rischiose, scomode, faticose o addirittura impraticabili. E lo fa da una comoda poltrona. Episodi come quello dell’Apollo 7 – ma non solo – hanno obbligato nei decenni le agenzie spaziali a programmare meglio le missioni umane, tenendo conto delle condizioni psicologiche dei partecipanti. I viaggi di lunga durata, in particolare, non possono essere gestiti allo stesso modo di quelli brevi: se essere strapazzati giorno e notte con mille mansioni può andar bene nel breve periodo, non è in alcun modo tollerabile per mesi. Oggi, sulla ISS, alcuni compiti speciali sono programmati per essere svolti esattamente in un certo momento, ma per molti altri si lascia agli astronauti una certa autonomia decisionale. All’equipaggio viene poi concesso del tempo libero in cui rilassarsi e prendersi una pausa dalla routine di bordo. Insomma, tutto è bene quel che finisce bene.

Tranne per gli astronauti che creano problemi o protestano durante le missioni, i quali solitamente non vengono più assegnati a nessun’altra missione spaziale. Perché alla NASA non se la legano affatto al dito. C’è però una cosuccia che per ora abbiamo ignorato. L’elefante nella stanza. In particolar modo, i bisognini dell’elefante. Ogni mattina sulla Stazione spaziale internazionale, quando sorge il Sole, un astronauta si sveglia. Sa che dovrà correre al bagno, o ci entrerà prima un cosmonauta. Ogni mattina sulla Stazione spaziale internazionale, quando sorge il Sole, un cosmonauta si sveglia. Sa che dovrà correre al bagno, o sarà fregato da un astronauta. Ogni mattina sulla Stazione spaziale internazionale, non importa che tu sia astronauta o cosmonauta: l’importante è che incominci a correre. In realtà, non ogni volta che sorge il Sole: la ISS compie più di quindici orbite al giorno, dunque in ventiquattro ore gli astronauti vedono quindici albe e quindici tramonti. Ma in milioni di anni di evoluzione il nostro corpo si è abituato a vedere un’alba e un tramonto in ventiquattro ore, mica quindici! Quindici ti sfasano tutto il ritmo biologico! E già uno è psicologicamente in bilico… Cosa si fa, quindi? Si stabiliscono degli orari, basati sostanzialmente sull’ora solare di Greenwich (ovvero di Londra). Ci si alza alle 6.00. Colazione alle 6.45. Non 6.50 o 7.00, alle 6.45 esatte. Alle 13.05 il pranzo, e guai a presentarvi cinque minuti prima! Alle 19.30 cena, e tutti a dormire alle 21.30. Insomma, gli orari sono molto precisi, e ci sono mediamente sei persone a bordo. Perciò fate in modo di non finire agli ultimi posti nella fila per i due bagni. Perché al bagno, comunque, a una certa ci dovrete andare. E come si va al bagno nello spazio? Una volta Charles Duke, uno dei dodici uomini ad aver messo piede sulla Luna, ha dato una risposta a questa domanda. «Con molta attenzione.» E con molto addestramento, aggiungerei. Partiamo con la pipì. Quando la fate sulla Terra, lei cade verso il basso. Se avete preso bene la mira (mi riferisco soprattutto ai maschietti), finisce nel water. In microgravità (o in assenza di peso, che è la stessa cosa) non lo fa. Svolazza. Ma non libera e felice. Inizialmente aderisce alla prima superficie che incontra: voi. Quindi, dapprima vi regalate un ciambellone di urina attorno alla vita; poi, quando questo si rompe… E il problema non è igienico, tanto abbiamo detto che già puzzate da far schifo. Il problema è che la pipì è sostanzialmente acqua, e se questa finisce sui pannelli elettrici bene non fa. E la popò? Svolazza anche quella, ma prima anche lei fa una cosa curiosa: si arriccia e crea una spirale, come quelle lingue di carta con fischietto che si vedono ai compleanni dei bambini. Ovviamente, però, il tutto dipende anche dalle condizioni di densità e viscosità. Comunque, non è una questione semplice. Per cui, com’è stata risolta? Be’, all’inizio non è stata proprio risolta: i primi voli spaziali con equipaggio erano talmente brevi che il problema non si veniva a creare. Almeno in teoria. 5 maggio 1961. L’americano Alan Shepard era nella capsula della missione Mercury-Redstone 3, soprannominata Freedom 7. Stava per diventare il primo uomo statunitense ad andare nello spazio. Problema numero uno: contando tutti i tentativi di decollo dei razzi Redstone, al momento della sua partenza le statistiche parlavano di circa il 58% di lanci falliti. Attenzione, non erano esplosi tutti. Non subito, per lo meno. Per esempio, alcuni erano finiti fuori traiettoria ed erano stati fatti saltare in aria per sicurezza. Altri si erano accartocciati ricadendo dopo una parabola nel cielo. Altri avevano funzionato per metà. Certo, se il razzo che deve portarvi nello spazio parte con una direzione casuale è comunque spiacevole, ma almeno non esplodete. All’inizio. Detto ciò, io su un razzo del genere non ci avrei messo piede nemmeno se mi avessero promesso in cambio una fornitura a vita di bignè. Ma il 31 gennaio, poco più di tre mesi prima, lo scimpanzé Ham era andato e tornato senza problemi. Un mese e mezzo prima e un mese e mezzo dopo Ham, altri due lanci con le Mercury vuote erano andati bene. «Quando mai ci ricapiterà di azzeccare tre lanci di fila? È il momento giusto per partire! Chiamate Shepard!» Non si poteva aspettare troppo oltre, infatti: il sovietico Gagarin non solo era già andato nello spazio, ma aveva addirittura fatto un giro intorno alla Terra. Gli americani non avevano idea di come farlo, ma dovevano per lo meno mostrare al mondo di poter fare un viaggetto oltre l’atmosfera.

Per fortuna, Shepard non pensava minimamente alle esplosioni del razzo. Per fortuna, Shepard era pazzo. Talmente pazzo che la sua preoccupazione era di sbagliare qualche operazione durante il volo. Volo in cui doveva fare molto poco, visto che la missione era quasi del tutto automatica e la durata prevista era di quindici minuti. Le sue parole al momento della partenza entreranno nella storia: «Per favore, caro Dio, fa’ che io non mandi tutto a piramidi». In realtà, la parola esatta esatta non fu proprio “piramidi”, bensì un qualcosa che si narra sia anche più antico. Ma questi sono dettagli. Ciò che conta è che la frase verrà ricordata per sempre come la Preghiera di Shepard. Shepard, però, non dovette affrontare un suo errore. Anche perché, per fare errori, prima sarebbe dovuto partire. Il pilota era entrato nella capsula alle 5.15 del mattino, un paio d’ore prima della partenza, prevista alle 7.20. Aveva fatto uno spuntino leggero: caffè, succo d’arancia, pane tostato, uova e bistecca. Questa colazione dei campioni diventerà una tradizione fra gli astronauti statunitensi, perché poche persone sono scaramantiche quanto chi deve andare nello spazio. Legato nella navicella e nervoso per la partenza, Alan iniziò a sentire uno stimolo. «Ragazzi, mi scappa la pipì.» «Batteremo tutto sulla nostra macchina da scrivere invisibile.» D’altra parte il volo sarebbe stato breve, Alan aveva fatto la pipì prima di uscire di casa come tutti i bravi bimbi che vanno a scuola, quindi poteva anche tenersela. Ore 7.05. Alan si fa forza: “Dai, Alan, resisti! Fra quindici minuti parti, poi quindici minuti di volo e fra mezz’ora puoi fare pipì!”. Però no. Il lancio viene rimandato: ci sono un po’ di nuvole e le foto della partenza del razzo fatte da terra sarebbero venute male. «Ragazzi… mi scappa davvero.» «Lo abbiamo già segnato sulla lista delle cose di cui non ci importa nulla. Al primo posto.» Le nuvole si erano diradate, ma un pezzo della capsula andava fissato meglio, perché rischiava di staccarsi. «Ragazzi… mi sentite?» «No.» Va specificato che quella dei tecnici non era cattiveria: per farlo andare in bagno era necessario riposizionare la tenda per ricreare fuori dalla capsula un ambiente pulito e controllato, poi bisognava aprire il portellone imbullonato della Mercury, slegarlo, togliergli parte della tuta… Shepard doveva tenersela, c’era poco da questionare. Tanto il volo sarebbe durato poco. Ormai il pezzo era stato fissato, e il conto alla rovescia poteva ripartir… ops. Un computer al Centro di Controllo di volo si era impallato e bisognava riavviarlo. «Ragazzi, basta. Ho deciso che me la faccio addosso!» Panico in sala di controllo. Come detto in precedenza, della questione igienica non importava nulla a nessuno. Ma l’acqua dell’urina sui circuiti elettrici dei sensori biomedici attaccati al corpo dell’astronauta… non bene. E se poi parte della pipì fosse uscita dalla tuta per finire sui pannelli elettrici della navetta, provocando un corto circuito? In un’atmosfera satura di ossigeno puro, peraltro. «Dai, Alan, non scherzare. Distraiti contando le nuvole nel cielo!» Ma Shepard non ne volle sapere nulla. Obbligò i tecnici a spegnere gli elettrodi e se la fece addosso. Era però sdraiato a pancia in su, quindi il liquido riempì la tuta, bagnandogli tutta la schiena fino alle spalle. Al Centro di Controllo, il pallore dei tecnici di volo appariva irreversibile: le possibilità che l’urina non fuoriuscisse dalla tuta ormai erano quasi azzerate. Shepard, nella sua follia, disse loro che almeno ora stava al calduccio. Fortunatamente l’ossigeno che girava nella tuta asciugò tutto, il conto alla rovescia ripartì, e alle 9.34 la Freedom 7 e l’incosciente furono spediti oltre l’atmosfera. Alan Shepard tornò salvo sulla Terra e pure nello spazio, allunando con la missione Apollo 14. Durante la sua passeggiata sulla superficie del nostro satellite finì per… giocare a golf. Spedì due palline da qualche parte fra i crateri. Non fu però questo il suo contributo principale alla conoscenza. Non fu nemmeno l’essere stato il primo statunitense nello spazio. La sua importanza fu quella di insegnare alla NASA e al mondo che gli astronauti hanno bisogno di uno strumento fondamentale: il pannolone.

È con questo compagno, chiamato ufficialmente “indumento di massima assorbenza”, che gli astronauti delle missioni Mercury affrontarono i loro viaggi. Rimanendo però nello spazio un giorno al massimo. Le missioni Gemini, invece, videro coppie di astronauti impegnati in orbita per diversi giorni, addirittura fino a due settimane. Non poterono quindi fare affidamento solo sui pannoloni. Servivano altre soluzioni, dunque fu avviato un programma di ricerca per risolvere la questione. Ma i primi risultati non furono ottimi.

L’immagine è stata realizzata al solo scopo di illustrare il prodotto (in quel momento gli astronauti non indossavano il casco).

Anche perché, simulare la microgravità senza andare nello spazio non è affatto semplice: l’unico metodo che è stato trovato è la Vomit Comet, la Cometa di Vomito. È il simpatico soprannome dato dagli astronauti ad alcuni aerei che volano verso l’alto per una trentina di secondi… dopo di che spengono i motori. A quel punto, il velivolo continua a salire per un po’, per poi cominciare a precipitare. Per 20-30 secondi i passeggeri all’interno fluttuano in caduta libera. Infine, giusto per non schiantarsi, i motori vengono riaccesi e si ricomincia da capo. Il tutto per qualche decina di volte. Avete presente la sensazione di vuoto d’aria durante un volo, o di caduta sulle montagne russe? Ecco, proprio quella, ma per 30 secondi. Su di un aereo che precipita. Per trenta o quaranta volte. Ora capite il perché del soprannome degli aerei. E immaginate anche di dover testare delle nuove procedure per fare i bisognini, negli stessi 30 secondi. Per questi test venne selezionato un gruppo di intrepidi volontari, che dovette esibirsi davanti alle cineprese per documentare il tutto. A prescindere però dalla progettazione di nuove soluzioni e dalle difficoltà nel testarle, il problema vero era un altro: i razzi degli americani non riuscivano a spedire troppo carico nello spazio. Quindi bisognava risparmiare peso il più possibile. Su qualunque cosa. Addio dunque a sistemi complicati per i bisognini: per le missioni Gemini, ma anche per le successive Apollo, si decise di raccogliere l’urina in un sacchetto collegato a un tubicino. La pipì veniva poi espulsa nello spazio, creando una nube scintillante che Schirra chiamò romanticamente “Costellazione di Orinone”. Ma le feci? In un altro sacchetto, ovviamente. Però questo aveva un’imboccatura adesiva da applicare a… insomma al… tipo figurine. Una volta finito, poi, bisognava gettare nel sacchetto un liquido per uccidere i germi ed evitare che il contenuto fermentasse. Perché i bisognini solidi bisognava tenerseli per tutto il viaggio e riportarli a casa, così da analizzarli e monitorare l’evoluzione della salute degli astronauti

durante le missioni. L’operazione non era proprio comoda e pratica, in assenza di peso e col proprio compagno (o i propri compagni) accanto, a guardare.

La procedura andava svolta in fretta, richiudendo il sacchetto prima che il contenuto potesse fuoriuscire. Ma non tutte le ciambelle venivano col buco. 23 maggio 1969. John Young, Gene Cernan e Tom Stafford stavano affrontando la missione Apollo 10. Era la prova generale dell’allunaggio. Al sesto giorno, da Houston, percepiscono uno strano discorso a bordo. Stafford: «Oh! Chi l’ha fatta?». Young: «Chi ha fatto cosa?». Cernan: «Che cosa?». Stafford: «Chi l’ha fatta?». (Risate) Cernan: «Quella da dove arriva?». Stafford: «Svelti, datemi un fazzoletto: c’è una cacca che fluttua nell’aria». Ma, quando si parla di Apollo 10, inevitabilmente ogni persona pensa poi ad Apollo 11. Perché l’allunaggio, nonostante qualcuno ogni tanto lo metta in dubbio senza mezzo valido motivo, è stato una delle più grandi conquiste dell’umanità. È ricordato come un’impresa trionfale, in cui tutto è andato come doveva andare. Addirittura, secondo i giornalisti dell’epoca, gli astronauti avrebbero definito la missione “una passeggiata”. Diciamo che se la vostra idea di passeggiata è la stessa di Frodo e Sam che devono andare a gettare un anello in un vulcano, allora ok. Altrimenti forse no. Lasciamo stare il fatto che il computer di bordo del LEM, il modulo per l’allunaggio, era meno potente di un’attuale calcolatrice scientifica e quindi si è impallato un paio di volte nella discesa. Lasciamo stare l’errore nello scegliere una zona di atterraggio piena di enormi massi che avrebbero potuto distruggere le zampe del modulo, impedendo la ripartenza dal suolo lunare. Lasciamo stare che, per cambiare zona di atterraggio, stessero per finire il carburante e schiantarsi. In ogni caso, ciò che conta è che alle 20.17 e 40 secondi (UTC, Tempo Coordinato Universale, in pratica l’ora di Greenwich), 1 finalmente, le zampe del LEM affondano leggermente nella regolite lunare. Nel

serbatoio è rimasto carburante per un’altra ventina di secondi di volo. Forse il doppio. Comunque molto meno di quanto fosse sicuro averne. «Houston, qui Base della Tranquillità. L’Aquila è atterrata.» A Terra tutti si abbandonano all’entusiasmo. Neil Armstrong un po’ meno. Il comandante della missione sapeva sempre come alimentare la fantasia e l’entusiasmo del pubblico. Prima della partenza, ai giornalisti che gli chiedevano come si sentisse per l’avventura, aveva risposto: «Non è un’avventura. Quello che stiamo per fare è un problema tecnico da risolvere nel modo migliore». Non stupiamoci dunque se le sue prime parole dalla Luna furono: «Ok, diamoci da fare». Di cose da fare, in effetti, ce n’erano. Secondo il programma, Neil Armstrong e Buzz Aldrin dovevano compiere tutta una serie di lunghi controlli, dormire quattro ore e solo alla fine cominciare a prepararsi per la scampagnata fuori dal LEM. Ma quando siete i primi uomini a posarvi su una superficie che non è quella terrestre, di solito avete voglia di fare tutto tranne che dormire. La NASA aveva fornito loro dei tranquillanti, tuttavia Neil e Buzz non pensarono nemmeno per un attimo di usarli. Accelerarono le procedure di controllo, concludendole in meno di due ore. Armstrong comunicò quindi la decisione di proseguire con la preparazione della prima passeggiata lunare della storia, invece di riposare. «Approssimativamente fra tre ore» fu la previsione di Neil sull’orario di uscita. Sulla Terra la NASA chiamò il dottor Berry, il medico che controllava le condizioni degli astronauti tramite i sensori attaccati al loro corpo. Il dottore non fu contento della loro decisione di non dormire, tuttavia non aveva molta scelta. I due testoni non stavano morendo, anzi, tutto sommato stavano bene: potevano quindi scendere. Ma dovettero comunque attendere, e non poco. Le tute spaziali erano grosse e pesavano più di novanta chili. Sulla Luna tutto pesa sei volte meno rispetto alla Terra e diventa più leggero, certo, però le cose grosse e ingombranti rimangono comunque grosse e ingombranti. Tipo lo zaino agganciato alla tuta spaziale, che conteneva tutto ciò che serviva agli astronauti per sopravvivere (ossigeno compreso). Inoltre, i geniali ingegneri della NASA avevano riprogettato lo sportello del LEM, facendolo più piccolo rispetto al disegno iniziale, ma si erano dimenticati di rimpicciolire lo zainone. L’entrata e l’uscita degli astronauti dalla navicella erano quindi una vera faticaccia. Anche perché, durante la missione Apollo 11, il portellone si era incastrato e non si apriva. Non si poteva nemmeno forzarlo troppo, dato che, se qualcosa del meccanismo si fosse rotto, poi non si sarebbe più potuto chiudere il portellone. Alla fine ci volle mezz’ora solo per sbloccarlo. Sei ore e mezzo dopo che il LEM aveva toccato il suolo, Armstrong scese finalmente la scala più famosa della storia dell’umanità. Alla NASA avevano pensato a lungo su chi dovesse scendere per primo. Aldrin era sicuro che spettasse a lui: aveva più ore di volo e non era il comandante, e nelle missioni Gemini il comandante non lasciava mai la navetta. Aveva quindi spinto affinché l’ordine di uscita venisse deciso molto tempo prima della missione. Peccato per lui che la NASA avesse scelto Neil. E fu dunque a quest’ultimo che spettò di pronunciare la prima storica frase di un uomo intento a mettere un piede sul nostro satellite. «Questo è un piccolo passo per un uomo, ma un grande balzo per l’umanità.» Neil disse di aver inventato al momento quella frase. Mentì, ma non è questo il punto. Il fatto è che, per l’emozione, Neil si dimenticò di pronunciare l’articolo “un” davanti a “uomo”. I 600 milioni di persone collegate in giro per il mondo sentirono quindi la frase «Questo è un piccolo passo per uomo, ma un grande balzo per l’umanità». You had one job, Neil. One job. Diciannove minuti dopo, scese anche Aldrin. Aveva visto Neil farlo con estrema facilità, quindi era tranquillo. Neil, però, aveva fatto una cosa interessante: un salto di prova. Le zampe del LEM, infatti, erano progettate per accartocciarsi al momento dell’allunaggio, ammortizzando l’impatto. In teoria, i motori andavano spenti quando si era a un metro e mezzo d’altezza, dopo di che bisognava lasciarsi cadere. Ma, nonostante il carburante stesse per finire, Armstrong si era dimenticato di spegnerli, atterrando troppo delicatamente e non accartocciando le zampe. Risultato? La scaletta era più corta delle zampe, e bisognava fare un salto per scendere sul piede del LEM. E un altro per risalire sul piolo della scaletta. Niente di drammatico, per carità: Armstrong lo aveva appena fatto, e Buzz lo aveva osservato. Decise di provarci anche lui: piegò le gambe, si diede una spinta e… mancò il piolo, sbattendo sulla scala con le ginocchia e gli stinchi, e ricadendo sulla zampa del LEM. Il tutto in diretta video, con il mondo intero collegato. Non la prese bene, Buzz. Era nervoso, aveva appena fatto una figuraccia. Decise dunque di prendersi qualche secondo e di rilassarsi… facendo la pipì. Fu il primo uomo nella storia a fare la pipì sulla Luna. Almeno questo primato Neil non poté toglierglielo!

Ma quando si fa la pipì sulla Luna, la si fa in un tubicino collegato a una sacca messa nella tuta, all’altezza delle gambe. E Aldrin quella sacca l’aveva appena rotta cadendo sulla scala. La pipì, quindi, finì tutta nella sua scarpa sinistra. Buzz se ne accorse, ma non poté dirlo alla radio. Non voleva fare un’altra figuraccia. Si tenne il piede umidiccio per una ventina di ore, senza dirlo a nessuno. Sciack. Sciack. “Dannato Neil Armstrong! Lui, i suoi allunaggi morbidi e il suo essere il primo!” Per fortuna, almeno la vista era mozzafiato. «Magnifica desolazione.» Fu tutto ciò che l’umido Buzz riuscì a pronunciare, mentre camminava sul suolo lunare. Neil e Buzz trascorsero 2 ore e 31 minuti all’esterno del LEM. Neil scattò foto della superficie lunare, comprese alcune panoramiche a 360 gradi. Non era però un gran fotografo: il primo scatto ritrae le zampe del LEM e un sacco di spazzatura appena buttato fuori dal modulo lunare. Insomma, la prima foto mai scattata sulla superficie di un altro corpo celeste ritrae la pattumiera con cui lo avevamo appena inquinato.

Credo non ci sia esempio migliore per descrivere quello che è il rapporto della specie umana con gli ambienti con cui entra in contatto. In compenso, Armstrong scattò moltissime belle foto ad Aldrin: praticamente tutte quelle che potete trovare sulla missione Apollo 11. Perché Buzz, a Neil, ne scattò pochissime. E tutte storte, tagliandogli i piedi o la testa, o ritraendolo di spalle. Ne venne bene solo una. C’è chi oggi sostiene che Buzz si sia voluto vendicare del suo “secondo posto”, con quelle fotografie malriuscite. Ma noi non siamo così malpensanti. Buzz non l’avrebbe mai fatto. VERO, BUZZ??! Mentre gli statunitensi con il Programma Apollo percorrevano il tragitto verso la conquista della Luna (fatta per amore della scienza e nel nome dell’intera umanità, ovviamente, e non per far vedere chi aveva il razzo con la gittata più lunga), i cosmonauti russi delle missioni Sojuz erano più fortunati. Almeno per quanto riguardava l’espletare le funzioni corporee. La navetta sovietica aveva infatti due spazi separabili, e si poteva godere di un minimo di privacy: in uno stavano i colleghi, nell’altro chi doveva meditare sulla caducità delle cose terrene. C’era addirittura la “toilette”: un imbuto collegato a un vasino tramite un tubo aspirante. Extralusso. Poi, negli anni Sessanta-Settanta, arrivarono le prime stazioni spaziali: le sovietiche Salyut e la statunitense Skylab. E negli anni Ottanta anche lo Shuttle statunitense. Stazioni o navette abbastanza grandi da ospitare un bagno. Ma, soprattutto, gli ingegneri tutt’a un tratto si resero conto che anche le donne potevano fare i propri bisogni nello spazio. Vi sembrerà assurdo, eppure uno dei motivi per cui prima degli anni Ottanta non

sono state inviate donne nello spazio (a parte due eccezioni sovietiche) fu proprio che gli scienziati pensarono che non fosse fattibile far fare loro i bisogni in assenza di peso. «Allunare sì, signora mia, ma far fare pipì a una donna…» Invece, tu guarda, bastava avere un imbuto un po’ diverso. Perché in effetti un imbuto, in un modo o nell’altro, serve. Sullo Shuttle, per esempio, misero un gabinetto. Una minuscola cabina in cui l’astronauta entrava e bloccava i piedi in due staffe simili a quelle per salire a cavallo, così da rimanere fermo e fare pipì dentro un imbuto aspirante. Era sostanzialmente un aspirapolvere dentro cui fare la pipì. In realtà, ci si poteva anche “sedere” su un sedile con una piccola apertura collegata a un aspiratore. Potrebbe sembrare più comodo, ma non è facile sedersi in assenza di peso. Perché non si rimane attaccati alla tavoletta, ma ci si sposta a ogni minima spinta. Non a caso, l’uso di questo gabinetto spaziale richiedeva un apposito addestramento sulla Terra e un positional trainer: un simulatore nel quale l’astronauta imparava ad allineare con precisione il proprio corpo al buco aspirante, aiutandosi con una telecamera che inquadrava dall’interno del water.

Bello. E per nulla inquietante! Comunque, una volta dominata la tecnica, si passava poi al functional trainer. Era la stessa cosa, ma bisognava utilizzare davvero il bagno, gestendo anche l’aspirazione. «Ma sai che, quasi quasi, era meglio il sacchetto?!» Anche perché i problemi con questo nuovo sistema non mancavano. Per esempio i rifiuti liquidi che si ghiacciavano all’esterno dello Shuttle, intasando il bagno. Durante il primo volo in assoluto dello Shuttle (missione STS-1 dello Shuttle Columbia), nell’aprile 1981, l’aspirazione

dei liquidi funzionò perfettamente. Quella dei solidi invece si intasò, costringendo gli astronauti a riutilizzare il sistema Apollo. Si scoprì inoltre che le feci, nel vuoto, generavano polveri che – in caso di aspirazione non perfetta – potevano vagare per la cabina. Cosa che capitò puntualmente, nella STS-1. Legge di Murphy… Il fatto è che avere polvere di cacca che può finire negli occhi, nel naso e nella gola è poco piacevole. Ma non era comunque il pericolo maggiore. Nel novembre 1989 sullo Shuttle Discovery c’erano cinque astronauti: il comandante Frederick Gregory e il pilota John Blaha al loro secondo volo; gli specialisti di missione Manley “Sonny” Carter e Kathryn Thornton al loro primo volo; lo specialista di missione Story Musgrave al suo terzo volo. La loro era una missione segreta, ordinata dal dipartimento della Difesa statunitense. Probabilmente trasportavano un satellite spia da mettere in orbita sopra l’oceano Indiano, magari per tenere d’occhio le comunicazioni fra Unione Sovietica e Cina. Al Centro di Controllo di Houston, in Texas, Robert Kelso aveva appena iniziato il suo primo turno come direttore di volo. È l’ultimo arrivato, quindi gli è stato assegnato l’orario più scomodo: quello notturno (che veniva chiamato amichevolmente “cimitero”). Quel turno, oltre che il più noioso, è però anche il più tranquillo. Gli astronauti dormivano, e bisognava solo controllare che tutto filasse liscio. Come non detto. Tempo nemmeno cinque minuti dall’inizio del turno, e già qualcosa non stava filando liscio. Una serie di luci rosse illuminavano i pannelli della sala di controllo. A bordo del Discovery era scattato l’allarme principale: lo Shuttle stava perdendo gas nello spazio, e il sistema di emergenza si era attivato e stava pompando grandi quantità di aria dai serbatoi per contrastare la fuoriuscita. Immediatamente, alla NASA cominciarono a cercare una soluzione per l’atterraggio di emergenza dello Shuttle, ma quest’ultimo si trovava piuttosto lontano dalla solita pista negli Stati Uniti. Bisognava cercare un sito di atterraggio in Africa. Come se non fosse bastato, lo Shuttle comunicava a terra agganciandosi di volta in volta a un satellite. Ma nel giro di due minuti uscì dal raggio di azione del satellite che stava sfruttando e smise di inviare segnali. Quando il segnale tornò, tutto pareva normale. Per pochi minuti sembrò proprio che tutto andasse bene. Poi scoppiò di nuovo il caos, con l’allarme che ricominciò a suonare, per poi ritornare silenzioso. Kelso era talmente sotto stress che al cimitero rischiava di andarci per davvero… Ma cosa stava succedendo??? Successe che uno degli astronauti nella notte aveva usato il bagno, e una delle valvole del WC, che separava la cabina dello Shuttle dal vuoto spaziale, non si era chiusa bene al momento dello scarico. In pratica l’astronauta, senza saperlo, aveva esposto il suo posteriore allo spazio. In realtà se n’era accorto, una volta rialzatosi, ed era riuscito a chiudere la valvola. Solo che poi aveva deciso di riprovare a tirare lo sciacquone, per controllare. E in questo modo fece ripartire l’allarme. Leggenda vuole che, una volta uscito dal bagno, abbia trovato tutti i suoi compagni ad aspettarlo con gli occhi sgranati. In teoria, con un guasto simile, le regole prevedevano l’annullamento della missione. Ma poi chi sarebbe andato a dire al dipartimento della Difesa che il loro satellite spia avrebbe dovuto aspettare mesi perché il bagno era rotto? Di certo non lo vollero fare Kelso e il suo team, che decisero semplicemente di vietare agli astronauti l’utilizzo del WC per il resto del viaggio. Ma, dopo tutto questo discorso… oggi come vanno in bagno gli astronauti? Intanto va detto che per le operazioni come decollo, atterraggio e le passeggiate spaziali, tutti usano ancora il pannolone. Per quanto riguarda le stazioni spaziali, poi, dobbiamo dividere il discorso fra gli astronauti cinesi (detti taikonauti) e il resto del mondo. I taikonauti, sulle loro stazioni spaziali Tiangong (Palazzo Celeste), usano ancora degli apparati semplici, come ai tempi delle Apollo. Sulla ISS ci sono invece due gabinetti. Lusso vero. Entrambi usano l’aspirapipì, che raccoglie i liquidi e li filtra. Per poi svuotare il serbatoio, riciclare i liquidi e renderli acqua potabile. «Si trasforma il caffè di ieri nel caffè di domani» amano dire. E io me le immagino ora le vostre facce: “Bleah, che schifo! Mio Dio!”. È inutile che facciate gli schizzinosi: spedire roba nello spazio è costosissimo; se va bene, una decina di migliaia di dollari al chilo. E un litro di acqua pesa un chilo, quindi un bicchiere d’acqua potabile nello spazio – se inviato tutte le volte dalla Terra – costerebbe migliaia di dollari. E ogni astronauta, in media, beve quasi tre litri d’acqua al giorno. Bisogna per forza riciclare il più possibile. Ecco perché il 93% dell’acqua utilizzata sulla ISS proviene dal processo di riciclo. In fondo, anche sulla Terra si ricicla l’acqua. Siamo il “pianeta blu” perché abbiamo tanta acqua liquida in superficie, ma mica ne creiamo di nuova ogni giorno. È sempre quella, da miliardi di anni. Esiste il cosiddetto “ciclo dell’acqua”: l’acqua espulsa dagli esseri viventi finisce nei fiumi, da questi passa ai mari, poi evapora e va a formare le nubi; infine precipita come pioggia o neve. Che finisce nei ghiacciai o

sottoterra, per essere utilizzata dalle piante o confluire in sorgenti e fiumi. E via così, ricominciando di volta in volta il viaggio. Quello che vi sto dicendo, se non fosse chiaro, è che tutte le gocce d’acqua presenti sul pianeta Terra (comprese quelle che state bevendo dalla vostra bottiglietta d’acqua) sono state, più volte nella loro storia, gocce di pipì. TUTTE. Dai, smettetela di urlare e calmatevi! Perché ora dobbiamo parlare di “quella grossa”. Il bagno della Stazione spaziale internazionale possiede un aspiracacca che infila il tutto in un bidone metallico. Qui si lascia che il freddo spazio congeli i rifiuti solidi ogni volta che vengono aspirati nel contenitore. Però, in questo modo i nuovi rifiuti sbattono sui vecchi, che urtano le pareti del bidone facendo un rumore particolare. Molto particolare. Il fenomeno è stato chiamato poeticamente “fecal popcornig”. E buon appetito! Ma una volta che il bidone – che può contenere dieci chili di rifiuti solidi – è pieno, che si fa? Si sostituisce con uno nuovo e si tiene da parte il vecchio, all’inizio. Tuttavia ogni astronauta, in sei mesi di missione, produce 8 chili di popò. Vi sembrano tanti? Pesate la vostra per i prossimi sei mesi, e poi fatemi sapere. Il fatto è che ci sono mediamente sei persone a bordo. 6 × 8 = 48, quindi ogni sei mesi c’è da smaltire circa mezza tonnellata di cacca in pratiche confezioni da dieci chili. Come? Non sappiamo riciclarla coltivandoci le patate come il protagonista del film The Martian, purtroppo. In effetti non riusciamo a riciclarla in alcun modo (il che, dopo le notizie che vi ho dato sulla pipì, sarà per voi una notizia tranquillizzante). Non si possono nemmeno accantonare i bidoncini da un lato della stazione. È vero che è la cosa più grande che abbiamo mai costruito nello spazio, ma tempo qualche mese e gli astronauti verrebbero letteralmente sommersi dai problemi. Si sfruttano quindi le navette automatizzate che ogni tanto sono inviate sulla ISS per portare agli abitanti cibo, carburante, ossigeno, strumentazione, vestiti nuovi e altre provviste, tra cui comunque un po’ d’acqua “nuova”. Gli astronauti attendono che la navetta attracchi, la svuotano dell’intero contenuto e la riempiono con tutti gli scarti che non gli servono: vestiti usa e getta da buttare, scatoloni vuoti, cibo avariato, bidoncini… Poi la sganciano dalla ISS e la fanno semplicemente cadere sulla Terra. Tecnicamente si dice “rientrare in atmosfera”. Ma quando la navetta attraversa l’atmosfera si vaporizza e produce luce. Tanta luce. Le stelle cadenti della notte di San Lorenzo, sulle quali esprimiamo i desideri… PAURA, EH?! Non c’è bisogno che vi agitiate: quelle sono prodotte dalla polvere della cometa Swift-Tuttle, che sbatte sull’atmosfera e vaporizza, producendo una luce visibile da noi, che stiamo cento chilometri più in basso. Polvere di cometa, però, quindi roba delle dimensioni di un granello di sabbia. E se un granello di sabbia produce una luce visibile a cento chilometri di distanza, quanta ne farà mai una navetta con i pannelli solari piena di pratici barattoloni da dieci chili? «Guarda, amore, ha solcato tutto il cielo! Esprimi un desiderio!» Ecco, voi esprimetelo quel desiderio. Se poi non si avvera, però, ora sapete il perché.

1. Questa approssimazione farà probabilmente sì che nel mondo muoia un metrologo (ovvero una persona che studia le misure e le loro applicazioni), ma non siamo qui a preservare la loro salute.

FEDERICA CACCIOLA

DESIDERI DI MERDA Non so se sia capitato anche a voi ma io soffro, almeno dall’età di 6 anni, di “ansia da prestazione di desiderio”. Detta così sembra una cosa con risvolti porno, e invece non lo è, cioè almeno non in questo caso. Semplicemente, quando sei bambino tutti iniziano, in diverse occasioni, a farti capire quanto sia importante esprimere un desiderio: spegni la candelina, esprimi un desiderio, perdi i dentini, esprimi un desiderio, trovi un quadrifoglio, esprimi un desiderio, e così via. Ma in assoluto l’evento socialmente più pressante sull’espressione di un desiderio è universalmente riconosciuto nella vista di una stella cadente. Questo – neppure troppo raro – fenomeno astronomico è ritenuto collettivamente un momento socialmente fondamentale durante il quale devi chiudere gli occhi e chiedere, non si sa a chi, la realizzazione di qualcosa. Insomma, sembra che l’umanità voglia dirti: “Chiedi e ti sarà dato”. Peccato che poi passi i successivi anni di vita a renderti conto, giorno dopo giorno, che non è così. O meglio che la frase più corretta dovrebbe essere: “Chiedi e ti sarà dato un calcio in culo”. Ma per capirlo ci metti un po’. Caratteristica principale di questa pressione è il fatto che davanti alle stelle cadenti devi chiedere qualcosa di VERAMENTE IMPORTANTE. Ora, siccome ce lo inculcano quando siamo piccoli, si pone la questione che un bambino di 6 anni ha tutta una sua personale idea su ciò che per lui è importante e di solito, almeno negli anni Novanta, al primo posto di questa classifica c’erano le figurine dei Pokémon che ti mancavano (c’è da dire che se si fosse mai realizzato il mio desiderio di avere la figurina di Pikachu Holo Illustrator oggi sarei ricca e non starei qui a scrivere quest’articolo in una rivista che ha come tematica del mese la cacca…). Fatto sta che il mio primo desiderio espresso davanti a una stella cadente è stato avere Barbie Magia delle Feste. Avrei venduto mia madre per avere Barbie Magia delle Feste. Una bambola di plastica ricoperta di tulle sintetico superinfiammabile, immersa in una pioggia di lustrini, un incrocio tra “Drag Race” e “Il boss delle cerimonie”, insomma uno degli oggetti più terrificanti mai creati nella storia dell’umanità, che io desideravo più di ogni altra cosa. Quel primo desiderio, espresso con tutta la purezza del mio cuore di infante, non si realizzò mai. E non tanto perché il dio dei desideri è uno stronzo, quanto perché mia madre ha sempre odiato le Barbie almeno quanto odia il pistacchio (e mia madre è allergica al pistacchio!), ed è la fondatrice del club “Barbie strumento del patriarcato”, quindi capirete che i miei desideri partivano già in salita. Ma una volta realizzato, dopo un paio d’anni, che nonostante esprimessi sempre questo desiderio davanti a ogni stella cadente non succedeva nulla, decisi di cambiare. E così iniziò il periodo in cui, appena vedevo la scia luminosa dell’astro cadente, chiudevo gli occhi e dicevo in silenzio: “Desidero Emiglio il robottino”. Si trattava di una specie di robot, lanciatissimo in tutte le pubblicità pomeridiane di Italia 1, che doveva fare da maggiordomo in casa. Ovviamente Emiglio non faceva niente di tutto ciò, semplicemente aveva un vassoio in mano e con un telecomando potevi farlo muovere per la stanza. Però suscitava nei bambini che lo avevano l’illusione di essere figli della regina Elisabetta, serviti in tutto e per tutto, e quindi desideravo anch’io far parte della nobiltà privilegiata. Ovviamente anche questo desiderio non si avverò mai. Perché mia madre era anche la fondatrice del club “Basta col capitalismo dei giocattoli”.

A questo punto ero diventata più grande e capii che forse dovevo cambiare obiettivo, non chiedere cose materiali ma cose più eteree. Tipo l’amore. E così iniziai a desiderare, per anni, che il mio compagno di scuola Marco si innamorasse di me. E questo desiderio, finalmente, si realizzò. Peccato che poi Marco mi tradì, due mesi dopo, con Chiara, la ragazzina della classe accanto. Così avevo capito che i desideri erano pericolosi non solo se non si avveravano – per ovvi motivi di delusione – ma anche se si avveravano, anche in questo caso per ovvi motivi di delusione. Allora, giunta all’età adulta, ho capito che i desideri sono qualcosa di prezioso, che va espresso con tutto il proprio cuore e il proprio spirito, e ho iniziato a chiedere ciò che ognuno dovrebbe chiedere per se stesso, davanti a una notte stellata: “Di essere felice”. Da allora sono anni che chiedo alle stelle cadenti, insistentemente, sempre e solo questo, la felicità. Finché, qualche giorno fa, Barbascura X non mi inoltra un articolo di Luca Perri dove – tra le altre cose – dice che gran parte delle stelle cadenti che vediamo in cielo non sono meteoriti o pezzi di stelle, ma semplicemente scarti fisiologici degli astronauti, che entrando a contatto con l’atmosfera bruciano e lasciano questa scia luminosa nel cielo. Noi pensiamo siano stelle, invece è merda. E ho pensato a quante volte ho guardato in alto, mi sono commossa, ho chiuso gli occhi esprimendo un desiderio profondo pensando di chiedere qualcosa al cielo e agli astri, e invece mi stavo rivolgendo a degli escrementi in putrefazione che bruciano male. Dopo un primo momento di profonda delusione ho realizzato che, tutto sommato, questo pensiero mi solleva. Alla fine non è colpa mia se non ho mai avuto Barbie Magia delle Feste, Emiglio il robottino, la fedeltà di Marco e la Felicità assoluta. È che erano dei desideri di merda, nel senso letterale del termine. Da ora in poi chiederò l’unica cosa che ha davvero senso chiedere e che le stelle cadenti mi possono dare: la regolarità intestinale, per sempre. Certo, anche questo è un desiderio di merda, ma almeno ne vale la pena.

CLAUDIA PENZAVECCHIA

IL SISTEMA GASTROINTESTINALE: COME TUTTO QUELLO CHE MANGI SI TRASFORMA IN MERDA Se ci pensi, si tratta di moderna alchimia, solo che, invece di trasformare l’oro in piombo, trasformi il fegato d’oca di Bottura in merda. Ma lo stesso destino incontrano anche la pizza al taglio gommosa che ti è avanzata ieri sera e hai pucciato stamattina nel caffè bruciato, la lasagna di tua madre, la pasta col tonno che ti salverà il pranzo e quel biscotto dietetico che ti ostini a mangiare nonostante faccia palesemente schifo… In questo, sei senz’altro democratico: tutto si trasformerà nella stessa merda. C’è poco da prenderla sottogamba, però. Per produrre questa roba, l’organismo mette insieme un apparato fantastico e sofisticato, il digerente, coordinato da un sistema nervoso tutto suo, cosicché ogni giorno possiamo riempirci e svuotarci continuamente nel modo più efficiente e meno antisociale possibile (a meno che non siate delle bestie di Satana). Sì, reputo l’apparato digerente un sistema sofisticato ed elegante, alla faccia di chi lo vede come il tubo che usano gli operai per smaltire i calcinacci del palazzo che stanno costruendo. Che poi, intendiamoci, un tubo in effetti c’è davvero: è lungo svariati metri e ha due estremità che si aprono all’esterno, che sono la bocca e l’ano. Voi non siete altro che il cappotto che riveste il tubo. Spero che questo serva a ridimensionare l’ego di qualcuno. L’intero apparato è poi decorato da denti, ghiandole, lingua, acqua, enzimi, tamponi, ampio parcheggio interno, portineria… il tutto per assolvere a una serie di funzioni che noi diamo per scontate: ingestione, elaborazione meccanica, digestione, secrezione, assorbimento, escrezione, compattazione, defecazione. Onestamente, un annuncio immobiliare del genere mi spingerebbe subito a fare un’offerta. Se questa presentazione sommaria vi ha incuriositi, preparatevi a partire per un viaggio all’interno di secrezioni, fluidi, movimenti propulsivi, rimescolamenti, sfinteri e, ovviamente, merda, con questa breve e non esaustiva lezione di fisiologia applicata. Perché digeriamo? La maggior parte dei nutrienti presenti nel cibo è costituita da macromolecole (carboidrati, proteine, lipidi), quindi molecolone belle compatte, che devono essere ridotte, ovvero spezzettate, per via enzimatica (in termini tecnici: idrolizzate) in molecole più piccole, dato che, così come sono, sono troppo grandi per poter essere trasportate nel flusso sanguigno. Facciamo una “rapida” panoramica di quello che succede. Insomma, che tu stia mangiando una pizza intera piegandola in quattro come un pellicano, o un minuscolo mirtillo, qualunque cosa va sminuzzata e idrolizzata nelle sue parti più piccole. Iniziamo dalla bocca. Il processo della digestione prende avvio dalla masticazione, grazie alla riduzione meccanica del cibo in particelle più piccole. Questo sempre che non siate dei serpenti che ingoiano il cibo intero, ritrovandovi immancabilmente a fissare il piatto vuoto mentre tutti gli altri stanno ancora stendendo il tovagliolo sulle gambe. Tale riduzione meccanica fa sì che il cibo passi attraverso il canale alimentare e sia più facilmente attaccabile dagli enzimi digestivi. Perché è sempre più semplice macinare qualcosa di già spezzettato che non un pezzo intero di rognone, ovviamente. Il cibo triturato in bocca viene mischiato con una secrezione detta saliva (che altro non è che un filtrato del sangue), la quale esce dalle guance al bisogno ed è sempre presente sotto la lingua. Lo so, detta così fa schifo, però è in questo modo che funziona. Stacce. Ma come le processiamo le macromolecole? E quali sono? Carboidrati I carboidrati possono essere assorbiti solo come minuscole unità di zuccheri (monosaccaridi). Per questo motivo le lunghe catene di carboidrati vengono tagliuzzate da enzimi specifici, le amilasi, presenti nella saliva e nel succo pancreatico. In effetti sì, iniziate a digerire già dalla bocca. Ascoltate vostra madre quando dice di masticare bene. Per capirci, immaginate i carboidrati come una collanina di perle più o meno lunga. Le singole perle sono proprio i monosaccaridi (per esempio glucosio e fruttosio), e sono l’unica parte che potete davvero assorbire. Quindi questi enzimi hanno il compito di tagliare il filo tra le perle. Ovviamente, nella bocca lo

fanno solo in piccola parte. Il processo prosegue poi nell’intestino, con l’enzima amilasi pancreatica, per essere completato da altri enzimi presenti sull’orletto a spazzola. Segnatevi questo termine pomposo, perché lo ritroveremo dopo. Proteine La digestione delle proteine, invece, avviene nello stomaco e nell’intestino, e richiede due tipi di enzimi: endopeptidasi ed esopeptidasi. Una volta idrolizzate le proteine, gli amminoacidi (i mattoncini di cui sono costituite) vengono trasportati attivamente nelle cellule epiteliali intestinali, immessi nel sangue e quindi distribuiti a tutte le cellule. Ci tengo a dire che la digestione delle proteine è un processo abbastanza impegnativo per l’organismo, e vengono prodotte molte più scorie rispetto ai carboidrati. Così, giusto per farvelo sapere. Lipidi Passando ai lipidi, quelli che otteniamo con la dieta sono prevalentemente trigliceridi (90%), fosfolipidi e colesterolo. Mentre carboidrati e proteine sono solubili in acqua, i lipidi non lo sono, e quindi l’assorbimento avviene in modo diverso. Purtroppo per noi, diverso non vuol dire più semplice. Anche per i lipidi la digestione inizia in bocca, con l’enzima lipasi linguale presente nella saliva, per poi continuare il suo lavoro nello stomaco. La lipasi linguale, infatti, rimane attiva nell’ambiente acido (quello dello stomaco, per l’appunto), dove verrà aiutata nel processo di digestione anche dalla sorella: la lipasi gastrica. La maggior parte della digestione, comunque, avviene nell’intestino tenue, dove il chimo (ovvero la poltiglia di cibo che è arrivata fin qui) si mescola con ulteriori lipasi prodotte dal pancreas. Dato che abbiamo detto che i lipidi sono idrofobici, non si mescolano diligentemente con il resto del contenuto gastrico (che è per lo più acquoso), ma si aggregano in grosse gocciolone che galleggiano sul chimo. Un po’ come quando mischiate l’olio con l’acqua, per intenderci. Appena i grassi lasciano lo stomaco, si uniscono in grossi globuli praticamente indigeribili, dato che gli enzimi lipasi che dovrebbero romperli sono invece solubili in acqua (come tutti gli enzimi digestivi). Quindi questi enzimi hanno le mani legate; possono agire solo sulle molecole vicine alla superficie del globulo. In pratica, la maggioranza dei lipidi si trova in un fortino inespugnabile e non può essere raggiunta dagli enzimi. Ma ci facciamo forse fermare da ciò? Giammai! Per risolvere questo increscioso problema ed espugnare il fortino di grassi interviene la bile, ovvero una secrezione viscosa e filante di colore verde-giallo rilasciata dal fegato. La descrivo così perché fa effettivamente schifo, e ci tenevo che la visualizzaste per quello che è. Neppure lei in realtà digerisce i lipidi, ma riesce a emulsionarli, ovvero rompe i globuli di grasso in goccioline più piccole e maneggevoli, così da facilitare l’intervento di rottura degli enzimi lipasi. Non è difficile capire in che modo questo facilita il processo: formando goccioline più piccole aumenta l’area della superficie totale delle goccioline esposte all’acqua in cui si trovano gli enzimi, i quali possono quindi lavorare sui grassi. Quando il grasso è bello emulsionato nel duodeno, viene mescolato con un ulteriore enzima lipasi prodotto dal pancreas, che rompe i legami dei lipidi (legami che uniscono gli acidi grassi al glicerolo). Così, finalmente (!), si riescono a ottenere delle piccole molecole che possono essere assorbite. Alcune di queste molecole vengono assimilate rapidamente dalle cellule epiteliali, ovvero le cellule con cui vengono a diretto contatto e che rivestono l’interno dell’intestino tenue. Altre, invece, restano nel chimo, e si aggregano insieme a sali biliari, 1 colesterolo e altre sostanze formando piccole particelle di grasso dette micelle. Quando il chimo arriva al colon, le goccioline di grasso ormai sono scomparse. I sali biliari verranno poi riciclati dal fegato e secreti di nuovo nella bile (circolazione enteroepatica). Perché riciclare è importante. Vi sentite confusi? E dire che ho semplificato all’osso. Tranquilli, può andare peggio. Infatti, per complicare ulteriormente il processo di digestione dei lipidi, quando questi, ormai spezzettati nelle piccole componenti assorbibili (acidi grassi e monogliceridi), entrano nelle cellule epiteliali dell’intestino tenue, incontrano degli enzimi che li riassemblano in trigliceridi (ovvero i lipidi completi di partenza che avevamo appena spezzettato). “E che cazzo” starete pensando, giustamente. Sembra opera di un ingegnere folle che si complica la vita perché sì. Giuro però che ha un senso, altrimenti non lo faremmo. Immaginatevi che questi trigliceridi, i lipidi che abbiamo dovuto spezzettare, sono molecole grandi e non solubili in acqua. È un bel problema lavorarci, considerando che tutto il processo avviene… in acqua! Questo è il migliore stratagemma che l’evoluzione ci ha regalato, quindi stacce; direi che ci va pure bene. Quindi, ricapitolando: tu assumi delle molecole di grasso abbastanza grosse, le spezzetti in molecoline in modo da poterle assorbire nelle cellule epiteliali dell’intestino, poi le rimonti e le aggreghi in mallopponi chiamati chilomicroni (che sono delle lipoproteine), delle molecolone molto grandi, molto più grandi di quelle di partenza. Questo processo vi sembrerà piuttosto soddisfacente se siete dei montatori IKEA.

I chilomicroni, a differenza di carboidrati e amminoacidi (che, ricordiamo, sono piccoli e solubili in acqua), non possono entrare direttamente nella circolazione sanguigna, e quindi devono fare un giro più lungo, passando prima nella circolazione linfatica. Insomma, una fatica assurda digerire la frittura di paranza. Io mi darei una pacca sulla spalla ogni volta che completo la sua digestione, onestamente. Bravo, apparato digerente, vecchia canaglia: anche stavolta sei riuscito a fare ’sta tarantella. Adesso sappiamo come si scompongono le macromolecole nei rispettivi mattoncini assorbibili che tanto piacciono alle nostre cellule. Immagino che non dormivate la notte senza queste informazioni. E pensare che non abbiamo ancora parlato del vero argomento dell’articolo. Usciremo vivi da questa magica favola? Non lo so, ma questo e altro per arrivare al soddisfacente epilogo della produzione di cacca.

_apparato digerente

Avevamo detto che nella bocca il cibo viene mescolato con la saliva, formando così una bella pallotta umidiccia detta bolo, il quale viene spinto dalla lingua nella faringe e poi nell’esofago. Questo passaggio è regolato da un affare che si chiama sfintere esofageo superiore, che funge un po’ da cancello. Si tratta di un anello di muscolatura che circonda l’esofago all’estremità superiore. Ma non è l’unico, perché alla fine dell’esofago si trova un secondo cancello, chiamato sfintere esofageo inferiore (che fantasia!), che regola il passaggio del cibo nello stomaco. Ve li nomino perché troveremo un sacco di sfinteri in questo percorso, ed è meglio farci il callo da subito. Al nostro corpo piacciono i cancelli, e forse anche a me, considerando che senza di essi sarebbe un casino.

Entrambi gli sfinteri di solito sono chiusi, e si aprono solo per far passare il cibo. Tuttavia alcuni di noi possono avere esperienze non particolarmente felici con un occasionale malfunzionamento dello sfintere inferiore. Avete presente il reflusso gastrico? Ecco. Quando quello sfintere è chiuso impedisce al contenuto acido dello stomaco di risalire. Alle volte però possiamo avere un rigurgito di materiale gastrico nell’esofago (magari per via di uno sfintere indebolito) con la purtroppo familiare sensazione di bruciore nel torace (pirosi) dovuta all’irritazione causata. Questo materiale infatti è acidissimo, e all’esofago non è che piaccia particolarmente ricevere ondate di acidi ed enzimi. Un’altra cosa che può accadere, anche questa molto spiacevole, è che, al contrario, lo sfintere non si apra proprio. Il bolo, in questo caso, non ce la fa a passare attraverso lo sfintere esofageo inferiore, e quindi a entrare nello stomaco. Ciò accade perché le onde peristaltiche, ovvero il movimento propulsivo della muscolatura dell’esofago che spinge in avanti il bolo, sono lente e deboli. 2 Il bolo, quindi, si accumula come macchine sul grande raccordo anulare all’ora di punta, e non è proprio un’esperienza che ti fa amare la vita.

L’esofago si immette poi nello stomaco, ma non dritto per dritto, come uno penserebbe. Tra i due esiste una piccola deviazione, come una curvetta, una trovata geniale per evitare che la pressione esercitata dall’addome, che schiaccia lo stomaco dal basso, sia così forte da provocarci il vomito ogni volta che mangiamo o che ridiamo, il che non sarebbe particolarmente conveniente. O forse sarebbe molto divertente, se lo facessimo tutti in continuazione. Non lo so, ci devo pensare. A ogni modo so che ora state tutti pensando alla famosa puntata dei “Griffin”. A proposito della posizione che lo stomaco occupa nel corpo, può darsi che ad alcuni di voi sia capitato di provare sintomi come palpitazioni, vertigini, attacchi di panico, difficoltà respiratoria a causa della presenza di aria nello stomaco, la quale magari è stata confusa addirittura con un infarto. Cosa può regalarci una scoreggia inespressa? Questo succede perché stomaco, cuore, polmoni e diaframma sono tutti vicini come membri di un’allegra famiglia felice. Finché le cose vanno bene, ottimo! Ma appena uno si innervosisce, ecco che come un domino fa sclerare tutti gli altri. Lo stomaco, disteso dalla presenza dell’aria, può provocare un sollevamento del diaframma, che a sua volta spinge il cuore verso l’alto, innescando risposte spiacevoli da parte dei nervi viscerali. Da qui la sensazione di dolore al petto scambiata erroneamente per un problema cardiaco. Tornando allo stomaco, si tratta di un sacco o una borsetta a forma di J, un po’ sbilenco, posizionato sotto il diaframma. Sarete felici di sapere che provare a ruttare o fare puzzette potrebbe alleviare il sintomo di presagio di morte. Si trova molto più in alto di quello che tanti immaginano, ed è per questo che la maggior parte delle volte in cui vi lamentate di avere mal di stomaco in realtà avete “mal d’intestino”. Ma non siamo pignoli da queste parti. Si divide in tre importanti regioni anatomiche: una cupola in alto detta fondo (questa cosa mi ha sempre confusa parecchio); una parte centrale detta corpo; una regione in basso

detta antro, più stretta e meno voluminosa, le cui contrazioni spingono il chimo nell’intestino tenue (svuotamento gastrico) attraverso il piloro (uno stretto canale: segnatelo per “La Settimana Enigmistica”).

Lo stomaco ha diversi compiti: immagazzinare il cibo deglutito, digerire le molecole grazie alla rottura di legami chimici e far passare il bolo nella stanza successiva (l’intestino tenue). A questo punto possiamo proseguire il nostro viaggio nell’umidiccio mondo delle secrezioni e dei fluidi: le pareti dello stomaco, infatti, contengono ghiandole che secernono succo gastrico. A proposito, in generale la produzione di acidi, secrezioni ed enzimi, non solo nello stomaco, viene regolata dal sistema nervoso centrale e da ormoni che agiscono localmente. Quello che risulta più affascinante, a parer mio, è che anche solo la vista o il pensiero del cibo costituiscono uno stimolo: gusto, olfatto, vista, pensiero, masticazione, deglutizione attivano tutti il sistema nervoso che, in questo caso, induce la produzione gastrica di acido cloridrico. Insomma, quando avete l’acquolina in bocca ce l’avete anche nello stomaco. La muscolatura della parete dello stomaco (costituita da tre strati) fa un po’ la parte del massaggiatore violento: con le sue contrazioni sballonzola il bolo da una parte all’altra per ore e frammenta il cibo in parti ancora più piccole, mescolandolo al succo gastrico e formando infine il famoso chimo. PS: sappiate che pure la fame genera questi movimenti nel corpo dello stomaco, quindi anche senza che abbiate mangiato! Vengono prodotti inoltre muco, ormoni e altra roba magica… e tutto ciò avviene in questo particolare ambiente, che è l’unico di tutto l’apparato digerente a pH acido. E non poco, dato che ha un’incredibile acidità di pH 2! Praticamente potete sturarci i lavandini. Devo preoccuparmi di sciogliermi da sola? Per fortuna no. Anche alla parete dello stomaco tutta questa acidità piace fino a un certo punto (cioè pochissimo), e si protegge con uno strato di muco e bicarbonato detto barriera mucosa gastrica. Ma come mai abbiamo una simile acidità nel nostro stomaco? Come avrete intuito, l’ambiente acido ha la sua utilità nel degradare della roba masticata. Niente avviene per caso. Inoltre attiva un enzima, la pepsina, che ha il compito di denaturare le proteine contenute nel cibo e di uccidere i batteri. I carboidrati semplici lasciano abbastanza in fretta lo stomaco, diversamente da grassi e proteine, che ci impiegano qualche ora. Il chimo esce poi dallo stomaco a getti (che bella immagine! Ci tenevo proprio a

regalarvela) perché questo passaggio è regolato dall’ennesimo sfintere, che si apre e chiude in relazione alle contrazioni cicliche dello stomaco.

Nel caso in cui un acido, come l’acido acetilsalicilico – l’aspirina, per intenderci –, penetri la barriera mucosa gastrica (lo strato che tappezza internamente la cavità dell’organo), provocando una lesione abbastanza profonda da coinvolgere la Muscularis mucosae (uno degli strati di cellule dello stomaco), si manifesta un’ulcera allo stomaco. Anche le ulcere duodenali (ovvero dell’intestino) sono frequenti, anzi, si presentano con una frequenza maggiore di quelle dello stomaco. Entrambi i tipi sono chiamati “ulcera peptica” e sono caratterizzati da dolore sordo o bruciante nella parte alta dell’addome; un fastidio cronico, ritmico e periodico, che si allevia mangiando o prendendo un antiacido. Se l’ulcera è profonda, acido e pepsina possono distruggere la parete dei vasi sanguigni, causando sanguinamento fino a emorragia. In casi estremi, questa lesione può bucare la parete dello stomaco o dell’intestino tenue, permettendo al loro contenuto di disperdersi nella cavità addominale (la cosiddetta ulcera perforante). Si tratta di una condizione grave, dato che, come potete intuire, la presenza di materiale batterico che scorrazza libero e felice conduce pressoché sempre all’infiammazione del peritoneo (il rivestimento della cavità addominale), spesso con esito fatale. Insomma, non buono. Sebbene le ulcere siano comunemente associate allo stress, possono presentarsi a causa di altri fattori di rischio: l’uso cronico di aspirina o altri antinfiammatori non steroidei (in quanto sopprimono la secrezione di muco e bicarbonato, che di norma proteggono la parete del tratto gastrointestinale), il consumo frequente di alcol o il passaggio di straforo della bile dal duodeno allo stomaco, dove non dovrebbe stare. Molte ulcere possono derivare poi dall’infezione da Helicobacter pylori, una specie batterica che riesce a svilupparsi nell’ambiente acido dello stomaco ed è presente in buona parte della popolazione in modo asintomatico. Tuttavia, è stata riscontrata nel 90% delle persone con ulcera duodenale e nel 70% di quelle con ulcera gastrica. Come funziona? H. pylori causa l’ulcera impoverendo i meccanismi difensivi della mucosa gastrica e scatenando una risposta immunitaria esagerata che distrugge il tessuto, rendendolo più vulnerabile all’attacco di acido e pepsina. E qui sì che vi autodigerite.

Grazie alla presenza di zone molto sottili ed elastiche, e ad altre in cui si trovano pieghe longitudinali (rughe) che si distendono a seconda del volume di cibo ingerito, lo stomaco si può allargare di venti volte: la sua capienza passa da circa 50 ml, quando è vuoto, a 1000 ml dopo il cenone di Natale (o dopo un normalissimo pranzo da una delle mie zie). Il famoso spazio per il dolce esiste anche quando si è stracolmi: basta espandere ancora e ancora, e vedrete che lo spazio si trova. Da dietista mi sento di sconsigliarlo, ma so che non mi ascolterete davanti alla pastiera di nonna. Tuttavia, stati di ansia, stress e paura possono compromettere questo allargamento, portandoci ad avvertire un senso di sazietà precoce o immotivata, fino alla nausea. Il chimo viene poi accolto dall’intestino tenue, un tubo morbidamente avvolto su se stesso lungo circa seisette metri, come un vellutato serpentone rosa. Qui avviene la digestione di tutti i nutrienti contenuti nel cibo e l’assorbimento della maggior parte di loro, compresi acqua, vitamine e minerali. L’intestino è composto da tre strati di muscolatura liscia, che si muove seguendo le indicazioni del sistema nervoso dell’intestino stesso. Questo moto è costituito da due diversi movimenti: uno è la famosa peristalsi di cui abbiamo parlato prima, ovvero l’impulso propulsivo che spinge la pappetta in avanti come una ola, e il secondo è quello di segmentazione, ovvero quello che agita la pappetta senza spostarla in avanti. La peristalsi avviene grazie a contrazioni muscolari che spingono il materiale in avanti, lungo il canale digerente, in modo molto molto lento (0,5-2 cm/sec, tenendo quindi in ostaggio il cibo per 3-5 ore). Le onde peristaltiche sono controllate da riflessi nervosi, che iniziano già quando il cibo entra nello stomaco. I movimenti di segmentazione, invece, si preoccupano di agitare, frammentare e rimescolare il contenuto senza spingerlo in avanti, ma con il compito di metterlo in contatto con le secrezioni intestinali. L’intestino tenue si divide in tre regioni: duodeno (una specie di “tubo di rimescolamento”), digiuno (dove avviene gran parte della digestione chimica e dell’assorbimento dei nutrienti) e ileo, che si estende fino al colon. Nel duodeno il chimo viene mescolato generosamente con due fluidi per terminare la digestione. Il primo è una secrezione acquosa proveniente dal pancreas, ricca di enzimi digestivi e bicarbonato (che neutralizza l’acidità che il chimo si è portato dietro dallo stomaco). Il secondo è la bile prodotta dal fegato, un altro fluido che contiene bicarbonato e acidi biliari, i quali favoriscono la digestione dei lipidi (ne abbiamo già parlato, non ditemi che lo avete dimenticato). La capacità di assimilazione dei nutrienti dell’intestino tenue è dovuta alla sua particolare configurazione. Innanzitutto, la mucosa è estremamente ripiegata su se stessa in pieghe e villi, costituiti da strutture fondamentali per l’assorbimento, che aumentano così la sua estensione di dieci volte rispetto a quanto sarebbe se fosse un semplice tubo liscio e levigato come la pelle di un bambino. Inoltre, quest’organo dispone anche di un orletto a spazzola sulla superficie della mucosa, che incrementa la sua area di un fattore 20. Questo orletto è composto da microvilli, che potete immaginare come una specie di “peletti”

posti sulla superficie apicale delle cellule epiteliali (ne abbiamo tra 3000 e 6000 per cellula), e sulla punta di questi microvilli troviamo enzimi digestivi e molecole che servono ad acquisire i nutrienti. Tutto ciò rende la superficie assorbente ENORME. Se la immaginaste appiattita nella sua interezza, sarebbe lunga chilometri! Serve davvero un’area così grande per metabolizzare quei tre taralli che volevi sgranocchiarti a merenda? Ebbene sì, perché quelli che ci sembrano tre piccoli tarallini devono essere sminuzzati in miliardi di microscopiche molecole da assimilare e filtrare tramite l’epitelio della mucosa, e attraverso minuscoli cunicoli devono arrivare strisciando fino all’altro lato delle cellule, dove si possono finalmente diffondere nei capillari. I materiali acquisiti dall’intestino, infatti, vengono poi trasportati al fegato attraverso la circolazione sanguigna. Qui vengono elaborati alcuni nutrienti e setacciate sostanze ritenute nocive. Dopodiché il sangue, ricco di nutrienti, dal fegato passa al cuore, che lo pompa a tutte le cellule del corpo, dove si produce l’energia, acqua e calore necessari a tenerci in vita. Perché è bello essere in vita. Quindi è bello mangiare.

Abbiamo visto che la maggior parte dei nutrienti provenienti dalla dieta devono essere scissi da enzimi nell’apparato digerente, prima di poter essere immagazzinati. Per esempio i disaccaridi (ovvero molecole costituite da due unità di monosaccaridi), come il saccarosio (zucchero da tavola) o il lattosio (zucchero del latte), devono venire divisi in monosaccaridi prima di poter essere assorbiti dall’intestino tenue. Gli enzimi che svolgono questo compito si trovano sulle cellule dell’epitelio intestinale, in posizione strategica per entrare in contatto con i nutrienti che raggiungono l’intestino. I monosaccaridi assimilati vengono poi trasportati in circolo. Il lattosio presente nel latte viene quindi scisso in glucosio e galattosio dall’enzima chiamato lattasi, e solo una volta divisi possono essere assorbiti. Di solito il processo di scissione enzimatica e assorbimento è efficiente, e il lattosio viene rimosso dal lume efficacemente. Ma nelle persone con intolleranza al lattosio questo non accade: in alcuni casi, le cellule smettono di produrre l’enzima lattasi dopo una certa età, di conseguenza si hanno problemi a digerire il lattosio, che quindi non viene assorbito. Quando il lattosio rimane intero nel lume intestinale funge da nutriente per i batteri residenti. Viene così stimolata la crescita batterica e la conseguente produzione di gas e prodotti di scarto. Queste sostanze causano infiammazione dell’epitelio intestinale, provocando meteorismo, crampi e diarrea, dovuta anche al richiamo di acqua e alla stimolazione della peristalsi, generata dalla permanenza della molecola intera di lattosio. Insomma, tutto ciò che serve per far riuscire una festa. L’intolleranza al lattosio è una condizione su base genetica, ed è il motivo più frequente di malassorbimento selettivo. È particolarmente diffusa in alcune popolazioni, soprattutto africane e asiatiche. Nella maggior parte dei casi compare dopo i 6 anni, quando si riduce l’assunzione del latte, ma è stato stimato che questa patologia colpisca il 50% degli adulti in tutto il mondo. Nonostante non esista una terapia efficace per curarla, ormai si trovano prodotti commerciali privi di lattosio o in cui il lattosio è stato già scisso, o ancora pillole che contengono enzimi capaci di scindere il lattosio. E noi ringraziamo la scienza per queste soluzioni, perché privarsi per sempre di una Zizzona di Battipaglia sarebbe un dolore inaccettabile per chiunque.

Ma non tutto ciò che mangiamo viene assorbito! Parti di mais, gomme da masticare ingoiate per sbaglio (con tanti cari saluti al trauma infantile del “ti crescerà un albero di gomme dallo stomaco!”), batteri sopravvissuti, muco, cellule sfaldate, fibre – insomma, piccoli resti e frammenti di cibo – vengono spinti ulteriormente in avanti a distanza di ore dall’ultimo pasto grazie a un processo detto “complesso motorio migrante”. Si tratta di un’onda potente, che parte dallo stomaco e arriva all’ileo, con velocità di progressione di 6-12 cm/min e che pulisce l’intestino da resti sgraditi e inutilizzabili. L’intestino è molto più pulito di quanto pensiate! Forse è molto più pulito il tuo interno del tuo esterno, ci avevi pensato? A volte si può sentire un “rumore” che viene scambiato per fame ma no, si tratta di pulizie. Però il complesso motorio migrante si ferma quando viene ingerito nuovamente cibo, per questo spiluccare senza sosta non permette che gli spazzini facciano bene il proprio lavoro.

Tra intestino tenue e colon troviamo il solito sfintere che regola il passaggio del materiale da una stanza all’altra. Al di sotto di questa giunzione c’è un canale a fondo cieco (chiamato “il cieco”, appunto) a cui è attaccata una struttura detta appendice vermiforme: un palloncino sgonfio che viene assimilato a un organo linfoide (un po’ come le tonsille). Questa appendice ogni tanto decide di occludersi e infiammarsi, dando luogo alla condizione nota come appendicite. Se la suddetta condizione persiste, può rompersi, facendo riversare il contenuto del lume (ovvero quel che rimane della nostra pappetta di cibo) nella cavità addominale, rottura che può portare alla peritonite (infiammazione del peritoneo) che, se non trattata, risulta fatale. Bello. Ora potreste chiedervi: a cosa serve il colon, se il cibo è già stato assimilato? In realtà il colon ha un suo ruolo preciso e importante: assorbe acqua e sali minerali dal chimo riducendone il volume, e forma e raccoglie periodicamente le feci, che vengono disidratate, fino alla loro espulsione. Perché sì, a questo punto quel che rimane è ufficialmente lei: la cacca. Il colon è diviso anatomicamente in quattro regioni principali: colon ascendente, colon trasverso, colon discendente e colon sigmoideo, che ha una forma a S e confluisce nel retto. In pratica, il colon è un ferro di cavallo che incornicia l’intestino tenue. O una parrucca sopra quel bel serpentone dell’intestino tenue, se preferite. I primi tre segmenti sono specializzati soprattutto nell’assorbimento di acqua e ioni dal chimo, mentre il colon sigmoideo funziona come deposito per il materiale rimasto nel lume. Cieco, colon e retto costituiscono l’intestino crasso (guardate che queste definizioni sono oro per “La Settimana Enigmistica”; io ve le butto qui solo per questo). Anche nel colon sono sempre presenti moti di peristalsi e mescolatori, caratterizzati da progressione lenta e contrazione molto forte, in modo da garantire la massima efficienza nel riassorbimento dei liquidi. In particolare, nell’ultima parte del colon abbiamo specifici movimenti di massa che avvengono 1-3 volte al giorno, i quali forzano in avanti il materiale fecale per accumularlo nel colon sigmoideo e indurre il riflesso della defecazione. Il retto rimane vuoto finché questi movimenti di massa e le contrazioni spingono le feci al suo interno dal colon sigmoideo. Ma non è ancora arrivato il momento di sbarazzarsi delle nostre deiezioni! Le feci, infatti, non lasciano l’intestino immediatamente, grazie al cielo. La distensione della parete rettale stimola la defecazione, che tuttavia è controllata da due sfinteri. Sì, perché anche qua ce ne sono due. La fine come l’inizio, insomma. Vi avevo detto che ne avremmo incontrati a iosa. Abbiamo lo sfintere anale interno (involontario), e quello esterno (volontario). L’apertura di entrambi, normalmente chiusi, consente alle feci di essere eliminate dall’organismo, realizzando il classico “plop” di soddisfazione. Invece lo sblocco di uno solo può farci scappare una puzzetta, realizzando il classico “prop” di altrettanta soddisfazione. Di solito i due sfinteri collaborano per evitarci disastri antisociali, ma a volte lo sfintere interno agisce in maniera anarchica, rilassandosi quando non dovrebbe e rovinando il matrimonio di tua cugina. Scusa, Isa. Quindi lo stimolo della defecazione porta al rilascio dello sfintere anale interno, consentendo il passaggio delle feci lungo il canale anale. La presenza di cacca nel canale anale invia un segnale al cervello, che ci

permette di scegliere se aprire volontariamente lo sfintere anale esterno (e andare di corpo) o tenerlo temporaneamente chiuso. Se decidiamo di ritardare l’evacuazione, occorrono alcuni secondi perché le contrazioni riflesse cessino e le pareti rettali si rilassino. Il successivo movimento di massa innescherà un altro riflesso di defecazione e un altro ancora, finché finalmente non ci libereremo. Quando lo sfintere esterno si sente bello tranquillo, sotto il controllo della tua volontà (si spera) si apre e scarica le feci all’esterno. La maggior parte delle persone accumula abbastanza contenuto fecale da andare in bagno da una a tre-quattro volte al giorno, ma, contrariamente a quanto si pensa, anche un’evacuazione di tre volte a settimana può essere ritenuta sana. Oltre a trattenere le feci finché non sono pronte per essere eliminate dall’organismo, il colon fa anche altro: stringe un sodalizio con il microbiota intestinale (ovvero l’insieme dei micro-organismi che abitano il nostro colon) che qui produce tutta una serie di molecole, come acidi grassi a catena corta e diverse vitamine. Finalmente arriviamo alla merda, costituita per tre quarti di acqua (se composta in maniera ottimale) e per un quarto di componenti solide, come batteri, fibre vegetali non digeribili e rimasugli di farmaci, pigmenti o colesterolo. Il colore dipende un po’ da quello che mangiamo, un po’ da eventuali patologie, da problemi dei batteri intestinali, da eventuale perdita di sangue. Per quanto riguarda consistenza e forma, esiste una famosa scala, la scala di Bristol, che in linea di massima ci dà un’idea della salute delle nostre feci e della lentezza del transito intestinale. Perché sì, la velocità in questo caso è importante: se l’intestino si muove lentamente riesce ad assorbire maggiori quantità di acqua e le feci risulteranno più solide (fino al famigerato effetto a “lama di coltello”). In caso contrario saranno più acquose e sciolte, perché non c’è stato il tempo di assorbire abbastanza acqua. Quindi W la motilità intestinale!

Se si va in bagno meno di tre volte a settimana, o se le feci sono spesso dure e a pallini (un po’ come quelle di una capra), o ancora se si fa fatica a scaricarsi e non ci si sente completamente svuotati, parliamo di stitichezza. La stitichezza può essere dovuta a tanti fattori: conformazione dell’intestino, malattie, stress, viaggi, assunzione di farmaci o integratori… La stitichezza da viaggio, in particolare, è qualcosa che le persone sperimentano di frequente: le abitudini alimentari che cambiano, la poca acqua da bere a disposizione, la pochissima voglia di usare bagni pubblici (ricordiamo che c’è una buona parte di responsabilità del sistema nervoso nella digestione e nella defecazione), il jet lag… tutto concorre a ritardare fino all’estremo il magico, soddisfacente momento dell’evacuazione. Altre persone, però, ne soffrono in maniera cronica anche a casa loro, per svariati motivi: alimentazione povera di fibre, vita sedentaria, scarsa assunzione di acqua o anche perché si trattengono regolarmente a causa di situazioni personali (troppo tempo passato fuori casa e in luoghi in cui non ci si fida a usare il bagno). A proposito di fibre, si tratta di sostanze indigeribili che, a seconda della loro tipologia, hanno diversi ruoli nella defecazione, per esempio ammorbidire le feci o aumentarne il volume. In ogni caso, bisogna bere in abbondanza durante l’arco della giornata. Troppa fibra e poca acqua, infatti, potrebbero portare la stitichezza a peggiorare. Termina qui il nostro magico viaggio nella digestione e nella defecazione. Ci sono delle imperdonabili mancanze in questa avventura che abbiamo condiviso, come il fegato e il pancreas, ma credetemi: non ne saremmo usciti vivi se avessimo incluso tutti.

Spero però che tanto sia bastato ad affascinarvi (e magari a portarvi ad approfondire ancora) circa questo fantastico apparato ricco di movimenti, rumori, secrezioni, fluidi, pappette, restringimenti, allargamenti, trasporti, intoppi… La digestione e la defecazione sono atti che riteniamo scontati, semplici, a volte ci danno pure un po’ fastidio con i loro tempi sbagliati, i borborigmi (altro parolone per i cruciverba), i crampetti, i bruciori, i ruttini. Tuttavia, credo che conoscere il lavorone che viene compiuto ogni sacrosanta volta che mangiamo qualcosa possa aiutarci a essere molto più gentili con il nostro organismo, a rispettarne i tempi e a darci una bella pacca sulla spalla (o sulla pancia) tutte le volte che possiamo dire sulla tazza del cesso: «Missione compiuta!».

Un motivo per cui si può avere un apparato digerente meno efficiente (e quindi soffrire di costipazione, ma anche di ulcera, esofagite ecc.) è l’età avanzata. Gli anziani, infatti, mostrano delle modificazioni a carico dell’apparato digerente, come una riduzione del tasso di divisione delle cellule staminali epiteliali, con diminuzione della riparazione dei tessuti, per cui l’epitelio digerente diventa più suscettibile ad abrasioni e all’attacco di acidi o enzimi, con maggiore rischio di ulcera peptica. La muscolatura liscia perde di tono, con abbassamento della motilità e delle onde peristaltiche: ne derivano costipazione, rischio di infiammazione dei diverticoli nonché maggiore sforzo nell’eliminazione delle feci, con conseguente sfiancamento delle pareti dei vasi sanguigni ed emorroidi. Si indebolisce lo sfintere dello stomaco, e ciò provoca un incremento di esofagiti da reflusso ed episodi di pirosi; inoltre i problemi a denti e gengive rendono meno efficace la masticazione. Senza contare che la diminuzione di olfatto e gusto può portare a un’alimentazione squilibrata, con problemi a carico dell’apparato digerente e dell’intero organismo, mentre l’accumulo di sostanze tossiche, come alcol o metalli pesanti, trasportate al fegato può provocare malattie epatiche, e così via.

Riferimenti bibliografici Enders, G., L’intestino felice, Marsilio, Venezia 2020. Martini, F.H., Timmons, M.J., Tallitsch, R.B., Anatomia umana, EdiSES, Napoli 2016. Stanfield, C., Fisiologia, EdiSES, Napoli 2012.

1. Una componente della bile che facilita l’emulsione dei grassi. 2. Questo disturbo è chiamato acalasia.

EDOARDO CONFUORTO

COME NON CAGARE IN UN BARATTOLO Tutti empatizziamo con chi deve fare delle analisi, perché se qualcuno sta male e non empatizzi, o sei uno psicopatico o sei un ex fidanzato. Ho scoperto, però, che c’è un test per cui nessuno empatizza mai: l’esame delle feci (che è il modo scientifico di chiamare il “dover cagare in un barattolo”). Quando racconto agli altri che ho fatto l’esame delle feci tutti hanno la stessa reazione: mi guardano come se avessero scoperto in quel momento che si caga. Come se lo avessi deciso io. Tra l’altro, se ci pensi, i medici sono le uniche persone al mondo che possono chiederti di cagare in un barattolo. «Ciao Edoardo, adesso voglio che tu vada a casa e che caghi in questo barattolo per me. Lo farai, Edoardo? Lo farai per me? Ma aspetta, non è finita qui; poi voglio che questo barattolo di merda me lo riporti, hai capito? Me lo devi riportare, perché io la tua merda me la voglio guardare, Edoardo. Me la voglio guardare al microscopio al 1000x. Fallo per me.» E la cosa assurda è che sei tu a pagare questo pervertito, quando dovrebbe essere lui ad allungare un bel centone a te. Cagare in un barattolo è un’attività che sembra banale, invece non lo è per niente. Non so se ti è mai capitato di notarlo, ma nel corpo gli occhi sono esattamente nel punto opposto rispetto al buco del culo. E non importa quanto tu possa sforzarti: qualunque posizione proverai ad assumere, non riuscirai mai a prendere bene la mira, dovessi anche tagliarti via una delle gambe. Quindi, ecco a voi la guida Confuorto su come cagare in un barattolo. Facciamo un piccolo passo indietro e chiediamoci: come funziona il nostro cervello? Posto dinanzi a un problema ci sono due possibili modi per ricercare una soluzione: attraverso l’esperienza (ma non avendo io mai cagato in un barattolo non posso averne) oppure tramite una costruzione sequenziale di prove ed errori, fino a identificare la soluzione ottimale. Ho optato per questa via: prove ed errori. Il primo tentativo che si fa, istintivamente, è quello di appoggiare il barattolo per terra e sedercisi sopra, che come immagine è piuttosto bella, perché richiama l’ambientazione da circo dell’Ottocento: «Solo due soldi, signori, solo due soldi per ammirare l’uomo in grado di cagare in un barattolo. Dietro questa tenda vi attende lo spettacolo più incredibile della vostra vita». In realtà si prende la mira con una precisione degna di Pacciani, ma tuttavia limitandosi a una possibilità di errore non inferiore al 50%. Se va bene va bene, altrimenti ti giri per controllare l’esito, metti un piede sulla tua merda e in un attimo sei sdraiato per terra a guardare il soffitto del bagno e a rammaricarti dell’accaduto. Prove ed errori! E quindi ti ritrovi a pensare: “Perché devo essere schiavo della distanza tra il punto A (il barattolo) e il punto B (il mio buco del culo)? Se io unisco i due punti riduco il rischio di errore”. Genio! Siamo riusciti ad andare sulla Luna grazie a questo tipo di pensiero. Così ti attacchi il barattolo al buco del culo. Possibilità di errore ridotte al minimo. Tuttavia, se tutto non è perfettamente allineato – se il tuo culo non è la Stazione spaziale internazionale e il barattolo non è il modulo progettato per ottimizzare l’aggancio – rischi di ottenere una

sfogliatella, un crudo di Parma, che se come me hai il polpaccio peloso da scimmia ti si incolla addosso. Altrimenti, ti giri per controllare e ti ritrovi sdraiato come al punto precedente. Il metodo migliore è posizionare uno specchio per terra: ci metti il barattolo proprio in mezzo, ti cali sopra e potrai godere di una perfetta vista tridimensionale del tuo buco del culo. È una cosa che non succede tutti i giorni. E mentre sei lì che lo guardi (perché lo guardi, per tutto il tempo) sembra che ti mandi i bacini.

E l’unica cosa che riesci a pensare è: “Ma quanto amore sprecato, quanti bacini persi nei miei boxer in tutti questi anni. E io che ancora ci provo con le tipe!”. Che poi, in realtà, di merda ne serve davvero poca. Questo lo so perché quando ti danno i fogli con le indicazioni sul come fare l’esame c’è un sacco di roba, però una cosa in particolare è scritta in grande, nel mezzo e in rosso: NON SERVE RIEMPIRE IL BARATTOLO. È impossibile che tu non la veda. E io subito mi sono chiesto: “Chissà come mai”. Chissà cosa li ha spinti a dover specificare così platealmente questo dettaglio. Qual è stata la successione di fatti per cui si sono visti costretti a scrivere questa cosa in modo tale che tu non possa non vederla? Per quanto tempo la gente è arrivata in clinica con secchi di merda dicendo: «È per l’esame!». I medici prendevano una palettina di merda (quella che effettivamente serviva), poi aprivano la porta sul retro e scaricavano il resto del secchio con gli altri, collezionandoli. Un giorno quella porta non si riusciva più ad aprire, e hanno iniziato ad affittare trilocali per riempirli di merda. Chissà qual è stato il giorno in cui uno è andato dal capo dicendogli: «Abbiamo un problema: non si esce più dal retro e stiamo usando tutto il fatturato in trilocali». Vorrei dedicare un pensiero a questi eroi che ogni giorno si sacrificano per darci il risultato delle analisi delle feci: se pensate che il vostro lavoro sia una merda, per loro la merda è lavoro. Comunque, alla fine ci sono riuscito. Ho tra le mani il mio barattolino. Adesso devo solo portarlo al laboratorio, il che vuol dire letteralmente uscire di casa con in tasca un vasetto di merda isolata dal resto del mondo da un millimetro scarso di plastica. Una cosa che ti pone in una condizione umana mai provata prima. E quindi, come ci vai a consegnare la tua merda? Puoi usare l’auto, che è un mezzo sicuro e discreto. La metti sul sedile del passeggero allacciandole la cintura come fossero le due Moretti da 66 che porti all’amico che ti ha invitato a cena. Un’ottima occasione per il selfie #ultimoviaggioinsieme. Oppure puoi prendere i mezzi pubblici. Se ti fossi mai chiesto quale senso di onnipotenza provi un kamikaze imbottito di esplosivo prima di farsi

esplodere in mezzo alla folla, prova questo. Guarderai gli altri intorno a te e penserai: “Se io neanche aprissi, se solo svitassi leggermente, potrei trasformare questa placida folla in una bolgia pronta ad accoltellarsi all’urlo di CHI HA CAGATO IN TRAM?!”. Io alla clinica ci sono andato in moto. Il mezzo sicuro per eccellenza, se togli il rischiare di essere investito, o l’evitare pedoni che attraversano senza guardare, o il cadere su un tombino messo male, su foglie bagnate, su della terra persa da qualche camion, o sulle strisce pedonali rese scivolose dalla pioggia… Insomma, cosa può accadere? E infatti cado. Non mi faccio praticamente nulla, ma resto lì sdraiato qualche secondo a riprendere fiato, al contrario di quelli che hanno la droga addosso, che riconosci subito perché si rialzano, salutano tutti sorridendo e ripartono via veloce. Tra l’altro cado a Milano, in circonvallazione, alle 8 del mattino, e nessuno si ferma perché per loro sono già morto. È solo la grande madre circonvallazione che anche stamattina ha effettuato la sua selezione naturale. Evidentemente lì vicino doveva esserci un cantiere, in cui tutti i vecchi che erano lì a guardare gli operai vengono allertati tramite il loro sesto senso: “È caduto uno in motorino a pochi metri da qui, c’è qualcosa da guardare”. Accorrono in massa e in pochi secondi mi trovo circondato. Da quel momento diventa una specie di film di zombie. Sono sdraiato per terra in loro balia. Uno arriva e cerca di togliermi il casco dicendo: «Così respira». Un altro lo ferma: «No, che gli si apre la testa. Chiamate un’ambulanza». Ne arriva un altro, che fa: «Povero, non toccatelo che è anche caduto su una merda!». Arriva l’ambulanza. Scende il soccorritore superconvinto, umano e comprensivo, uno di quelli che sarebbe voluto andare in Africa a curare i bambini col pancione ma gli è andata male e sta in circonvallazione alle 8 del mattino a raccogliere me. Mi dice: «Ciao, stai tranquillo, adesso ti mettiamo sulla barella e andiamo subito in pronto soccorso». Io gli rispondo: «No no, sto bene, fidati, lasciami qui». Però lui continua: «Sei in stato di shock, rifiuti le cure, è normale». Io insisto: «Non capisci. Sali sull’ambulanza e vattene finché sei in tempo». Ma nel frattempo lui mi apre il giubbotto. «Dobbiamo avvisare qualcuno per venire a prenderti, dove hai il cellulare?» E così dicendo si mette a tastare sotto con una mano. Mentre mi tasta io replico: «Guarda, davvero sto bene. Hai sentito i vecchi? Sono anche caduto su una merda. Dai, mollami», quando all’improvviso si sente un rumore come quello di uno che ha appena pestato una merda. Lui mi guarda, e attraverso i suoi occhi posso vedere che sta pensando: “Ma allora è caduto davvero su una merda…”, e poi, subito dopo: “Ma allora, se è caduto su una merda, perché la merda è dentro al giubbotto?”. Io gli rispondo solo: «È troppo tardi, adesso fai parte di questa storia». Subito dopo mi mettono sulla barella, mi caricano in ambulanza e mi portano al pronto soccorso. La scena è esattamente come quella di un film, con la barella usata come ariete per aprire le porte e i paramedici dell’ambulanza che corrono nel corridoio verso quelli del pronto soccorso urlando il mio stato clinico: «Maschio, bianco, trent’anni, incidente in moto, probabile lacerazione gastro-pareto-frontale… Raga, a ’sto qua gli esce la merda dal petto, bisogna operare subito!». Istintivamente i barellieri iniziano a guardarmi in modo diverso, e spingono la barella con la punta delle dita. Io sono lì sdraiato che vedo solo soffitto e luci al neon scorrere, e penso all’inevitabile countdown che mi separa dal momento in cui il chirurgo dirà «Ma questo sta benissimo, è solo uno che va in giro con un barattolo di merda», con conseguente disintegrazione della mia dignità sociale, quando…

Poco prima della porta della rianimazione scopro che se fai un incidente in moto e finisci in pronto soccorso arriva automaticamente la polizia a chiederti com’è andata, perché potresti essere stato investito da uno che poi è scappato. E io non lo sapevo. Due poliziotti fermano la barella e mi dicono: «Ciao Edoardo, possiamo farti due domande?», ma io, allenato da decenni di tossicodipendenza e posti di blocco, automaticamente gli rispondo: «Era solo per uso personale, capo, solo per uso personale».

BARBASCURA X

LA MIA COLLEZIONE DI CACCHE Vi piace viaggiare? Vi piace la natura? Vi piace la sfida? Be’, allora non potrete non apprezzare la merda. Non dovreste mai trascurare le deiezioni, quantomeno per un motivo naturalistico, talmente banale nella sua immediatezza che dovrebbe essere preso con la giusta scioltezza: seguire le tracce e identificare la specie colpevole del misfatto. Se aveste amici naturalisti (o amici in generale) sapreste che poche cose fanno brillare gli occhi di questa strana categoria umana di disadattati come trovare uno stronzone, talvolta fumante, talvolta secco e pestato da altri, ma comunque sempre carico di storie e misteri pronti a essere svelati. Tuttavia, solo gli individui più illuminati vedranno in esso la sfida, la verità, la magia. E non parlo di quelli che si fanno le lampade ad agosto. Sarai tu uno di loro? Quante cose ci possono raccontare le cacche sulla dieta, sugli spostamenti o sul desiderio d’ammor. Questi misfatti di ostentazione, per esempio, vengono adoperati dagli scienziati per stimare la genetica e il numero di individui che abitano una determinata area, ma anche molto altro! Diversi studi utilizzano gli isotopi stabili misurati nelle feci per investigare diversi comportamenti, come la ricerca del cibo o le condizioni climatiche in ambienti moderni, antichi e persino paleontologici. Le feci sono un substrato ideale per la ricerca sugli isotopi stabili per vari motivi: sono facilmente individuabili e identificabili, possono essere raccolte in modo non invasivo (non è richiesto il contatto con l’animale, né che venga fatta firmare alcuna liberatoria) e registrano dati dietetici a breve termine. C’è poi da dire che la misurazione degli isotopi non è sempre precisa, quindi a volte ci si perde qualche informazione. Ho donato le mie a un amico ricercatore, e stando ai suoi risultati ieri ho mangiato una zebra e al momento risulto in menopausa. E lo so cosa vi state chiedendo: “Barbascura, come si raccoglie la cacca?”. È un dubbio comune. In generale, non con la bocca, ma è bene chiederle queste cose. Chiaramente, come vuole la scienza, bisogna standardizzare e rendere riproducibile a scopo di ricerca anche questa pratica fondamentale, altrimenti facciamo un casino e buttiamo i dati. T’immagini leggerti due studi diversi con risultati divergenti per il solo fatto che in uno hanno raccolto le feci con le mani e in un altro col frullatore? Bisogna mettersi d’accordo, le cose si fanno bene o non si fanno. Per cui, non troppo sorprendentemente, ci sono degli studi che spiegano proprio questo: come raccogliere la merda nel modo più scientifico e riproducibile possibile. Per dire, ne ho trovato uno che spiega come costruire una scatola di plastica da piazzare sotto un uccello, così da raccogliere fino a 1 kg di cacca per volta. Purtroppo ho scoperto a mie spese che funziona solo con la cacca di un uccello vero. Informazioni poco chiare, ho fatto un casino.

Tutto questo per dire che anche io ci tengo alla merda. Non la raccolgo, ma la immortalo. E, in effetti, questo è il vero motivo per cui siamo qui: per ammirarla in tutto il suo splendore e le sue varietà, come installazioni museali di cui apprezzare forma, concept e colori. Ognuno la fa secondo il proprio stile, un po’ come le pennellate di correnti pittoriche diverse, e riconoscere l’artista diventa materia da critico. Prendetela come una sfida, talmente divertente che rimpiango di non averci fatto un gioco in scatola. Tra i bambini avrebbe spaccato. Me li immagino, tutti lì intenti a preparare il tabellone di Indovina Chicaga. «Ha i pezzettoni?» «Sì.» «Ha residui di pelo?» «No.» «È grossa quanto il mio braccio e piena di materiale fibroso?» «Sì.» «È la tua?» «BRAVO! E ora mangiamo, che la mamma ha cucinato le polpette.» Ci tengo a far presente che gli animali non conoscono questo gioco, quindi alle volte potrebbero cagare in modo diverso da quanto ivi raffigurato. Glielo farò presente. Ci tengo anche a ricordare che, nonostante raccogliere la merda possa avere un insano fascino, le feci possono veicolare malattie, parassiti, male intenzioni e maleducazione, perciò vi sconsiglio di maneggiarla, a meno che non siate i compagni di giochi dei cani (il quel caso pigliatela dal marciapiede, mortacci vostra). Nel caso in cui Herman mi stia leggendo, tranquillo compare, continua a deliziarci e a toccare tutta quella che vuoi. Chi è Herman? Ci arriveremo tra poco. Io, con grande orgoglio, nel corso dei miei viaggi mi sono imbattuto in alcune cacche MAGNIFICHE. Lo confesso: non avevo mai pensato che effettivamente un giorno avrei pubblicato un libro a riguardo, arrivando addirittura a raccontare di questa strana collezione fotografica. Ma la vita è piena di sorprese, giusto? Proprio per questo dovrei chiedervi scusa. Non avendo mai pensato di doverle pubblicare, molte di queste foto non sono state scattate con la giusta passione, altre le ho prese da spezzoni di video che avevo girato, qualcun’altra l’ho richiesta alla mia amica Sabrina Colombo, ranger e conservatrice di una riserva in Sudafrica (le mie foto facevano troppo cagare anche per questa rivista). Quindi godetevi questa carrellata di merda, e provate a giocare a Indovina Chicaga. Sono sicuro che vi sarà utile.

Non è vero. Gorilla Mi trovavo in Uganda, dove mi ero recato per un viaggio naturalistico con un obiettivo ben preciso: addentrarmi nella foresta impenetrabile di Bwindi e osservare da vicino un gruppo di gorilla di montagna. Se me lo avessero permesso, mi sarei addirittura unito a loro come commercialista. Sono sicuro che sia una figura che manca nella loro società. I gorilla di montagna sono una specie a rischio di estinzione, e pertanto viene oculatamente protetta. In quella foresta se ne trovano una decina di gruppi, di cui 5 “abituati” alla presenza umana, in quanto studiati e monitorati. Dico “abituati” perché più che altro ci tollerano.

Per motivi di conservazione, è concesso non più di una volta al giorno a un piccolo gruppo di non più di 10 persone di entrare nella foresta e incontrare i gorilla per non più di un’ora. Lo scopo è, come sempre, non disturbarli e permettergli di proseguire con le loro vite nel modo più gorillesco possibile. Tra l’altro, i permessi costano un occhio della testa: 800 euro a testa, se non erro. Ve l’ho detto che avrebbero bisogno di un commercialista.

E così siamo entrati nella foresta impenetrabile, dove impenetrabile non è un modo di dire. Immaginate un muro inconcepibile di alberi e piante che non lasciano intravedere nulla all’orizzonte, con un terreno che non toccherai mai, perché è un unico groviglio di radici, alberi caduti, piante e cadaveri dei gruppi precedenti. I tuoi più cari amici sono il machete e l’Imodium (siamo pur sempre in Uganda, e galeotto fu il mercato locale). E così, dopo qualche ora a camminare tutti ingobbiti, a passare per anfratti naturali ma illegali, a cadere, a strapparci i vestiti tra i rami, a slogarci caviglie, costole e polmoni e a sperare una morte rapida e indolore, ci imbattiamo in un enorme buco tra la vegetazione fittissima. Immaginate un tunnel di rami, con uno scivolo che accompagna il pendio della montagna. E la guida che urla: «Entriamoci!». Lì ho avuto bisogno che qualcuno mi prendesse a schiaffi. Il buco era uno di quelli creati dai gorilla quando scivolano tra la vegetazione col loro solito modo cafone. Entrandoci, mi sono reso conto di essere minuscolo rispetto a loro, e che avrebbero potuto usarmi come spazzolino. E lì, proprio mentre scivolavo in questa follia scimmiesca, mi sono imbattuto in lei: la merda. Una treccia enorme, grossa quanto il mio avambraccio (mano compresa), di un colore insolitamente giallo – un Pantone che andrebbe bene per le pareti di un hotel brutto degli anni Sessanta –, piena zeppa di materiale fibroso, sintomo che la bestia non mastica bene come mamma insegna. C’è della maleducazione nella foresta. Lì ho urlato di eccitazione, attirando i sospetti degli autoctoni, che evidentemente non erano abituati a vedere qualcuno così felice nel rinvenire un simile reperto. Pivelli. Prima di proseguire, tenete a mente che io i gorilla li avrei anche incontrati, ed è stata una delle esperienze più assurde e belle della mia vita, ma qui, su ’sta rivista, parliamo di merda, quindi ’sticazzi dei gorilla. GUARDATE QUELLO STRONZONE! Guardatelo, che bello! Assomiglia a quelli umani, ma enorme. Un colosso, un’opera magna, un pezzo di storia naturale avvolto come un corno di unicorno. Alcuni di voi potrebbero dire: “Wow, sembra proprio quella che ho fatto questa mattina dopo il cappuccino”, e in effetti non avrebbero torto. Il nostro tratto intestinale non è troppo dissimile da quello di un gorilla, anche se è chiaro che ci sono delle differenze, prima fra tutte il fatto che il loro cibo rimane più a lungo nel tratto intestinale (probabilmente per assimilare più nutrienti e liquidi). I gorilla sono per lo più vegetariani: si nutrono di steli, germogli di bambù e diversi tipi di frutti, integrando il tutto con cortecce e invertebrati. Molti studi mostrano come l’alimentazione del gorilla sia sempre eclettica, includendo fino a 230 elementi e 180 specie animali e vegetali. Studi come questi sono fondamentali non solo per scoprire cosa mangia l’animale, che fa sempre piacere (metti che un giorno viene a cena), ma anche per capire l’ambiente più adatto a ospitarlo: quanti alberi da frutto ci sono? Qual è la copertura vegetale? Come siamo messi a succulenti artropodi? Questi della foresta impenetrabile stanno in pett’a crist’, infatti cagano palesemente meglio di me. Trecciosa, avvolgente, dal colore brillante. Voto: 8

Lemure Cambiamo primate e Paese, e voliamo in Madagascar. Uno dei viaggi più difficili della mia vita, considerando che già il Paese è ridotto male; trovare due metri di strada che non sembra essere stata bombardata è un’impresa. Per di più, mi sono imbattuto in tempeste, uragani, mezzi che si sfasciano, gente del mio gruppo che crede d’aver preso la peste bubbonica (cosa appoggiata dal reparto malattie esotiche dell’ospedale di Milano per almeno 3 giorni), e soprattutto lemuri che ti cagano addosso. Se ti lamenti di un piccione che si libera sulla tua auto, prova a ricevere la spremuta anale di una scimmia dalle dimensioni di un bimbo di 5 anni che mangia solo frutta. Però è un viaggio che DOVEVO fare. Tenete presente che quest’isola ospita il 5% delle specie di animali e vegetali del mondo. Insomma, se vuoi vedere ’sta roba devi venire qua per forza. Per lo meno, se sei interessato a vederla allo stato brado; se vuoi vedere lemuri in gabbia, sono certo che ci sia qualche famiglia a Ostia che li ha in giardino. Accanto alla tigre.

Secondo il WWF, il 98% dei mammiferi, il 91% dei rettili e l’80% delle piante sono endemici dell’isola, quindi stacce. Purtroppo ai malgasci (non è un insulto, è così che si chiama la popolazione locale) di tutta questa bella natura sai quanto gli frega? Un cazzo. Circa il 90% dell’energia prodotta deriva dal carbone. E come lo producono il carbone? Dagli alberi, che tagliano e bruciano. Di conseguenza ti ritrovi quasi tutto il Madagascar disboscato, con grande gioia dei camaleonti, che continuano a bestemmiare come veneti.

Pertanto dovrete giustificare il mio essermi sentito lusingato, un prescelto, quando un lemure variegato m’ha quasi cagato addosso. E che cacca. Una specie di guacamole raffermo di colore giallo intenso e pieno zeppo di pezzettoni succosi. Anche i lemuri hanno una dieta simile ai gorilla, con una grande presenza di frutta e altri vegetali. E per l’ambiente fanno indubbiamente la loro parte: mentre spargono il loro frullato intestinale in giro per il bosco, disperdono i semi di molte piante. Contrastano il disboscamento, loro, e lo fanno nel modo più volgare possibile. Certo, non era necessario che lo facessero sopra la mia testa, ma apprezziamo. Cremosa, candita, arlecchinica. Voto: 9

Leone

Una cacca MOSTRUOSA. Senza alcuna paura né spirito estetico, il leone mostra animo disonesto anche con le sue deiezioni. Mi trovavo a fare volontariato naturalistico in Sudafrica, nella Riserva di Abelana, con il progetto Limpopo Eco Operations (LEO Africa). Una settimana a monitorare la fauna selvatica, fare antibracconaggio e svegliarmi alle 5 di mattina sudato come una lumaca, seguendo i ranger nelle loro azioni quotidiane. Il mio viaggio ideale. Tra le tante cose, abbiamo anche sedato un leopardo e un elefante per radiocollararli, in modo da monitorarli e assicurarci che non finissero preda di trappole o, peggio, di qualche e-mail di phishing. Eppure, circondato da cotanta selvaggitudine, a un certo punto sono impazzito quando ho trovato lì, proprio nel mezzo di un sentiero spianato, quest’opera maestosa. Sono rimasto a lungo a guardarla in tutta la sua complessità. Non ci sono molti pezzi di osso, e il colore è di un marrone scuro tendente al nero. Vale un po’ per tutti i gattini: un colore scuro (come in questo caso) indica che sono state assunte ampie quantità di sangue. La pelle invece, quando viene digerita, rende le cacche di forme irregolari e spugnose per via del pelo. C’è un altro aspetto caratteristico che la rende facilmente identificabile come cacca di carnivoro: la forma. In genere tendono ad assomigliare a cilindri affusolati, con un’estremità arrotondata e l’altra con una lunga punta a mo’ di ciuffo. Ovviamente, come sempre, dipende dalla specie e dal pasto consumato. In questo caso, per esempio, era così piena di peli che è uscita a forma di peluche. Essendo molto unta, scura e piena di sangue, si tratta di una cacca fresca. Da bravi esibizionisti l’avevano lasciata in mezzo al sentiero, in un punto in cui tutti, e dico tutti, la potessero ammirare. Alla fine, è pur sempre un ottimo modo per marcare il territorio e comunicare con gli altri esemplari. «Voglio verificare quanto sono morbide» ho detto a Sabrina, la ranger che stavo seguendo in quei giorni. Ho quindi preso un sasso e l’ho lanciato nel mezzo dell’opera. Il sasso ha impattato un grosso pezzo di stronzo, rivelando una compattezza notevole. Soddisfatto, ho ammirato la scena per circa 2 secondi. A quel punto la morte ha appestato l’aria e ha costretto il gruppo alla fuga. Un odore terrificante di malessere s’è levato in cielo tipo invisibile fungo atomico del male. Un odore che non avevo mai sentito in vita mia, ma che mi ha fatto provare le sensazioni che ha vissuto l’anello mentre cadeva nel monte Fato. Purtroppo avevo scordato che una caratteristica della ponzata dei carnivori è la puzza disgustosa e offensiva. Come sempre, però, la cacca può regalarci grandi storie. Leoni e grossi carnivori che abitano ecosistemi con risorse ambientali distribuite in modo eterogeneo e sottoposti a forti variazioni stagionali devono un po’ adattarsi a quel che passa in convento, e cambiare spesso dieta. Sono strategie alimentari opportunistiche, indispensabili se si vuol sopravvivere. In questa riserva se la passano abbastanza bene, perché di antilopi ce n’è come se piovesse. E sospetto che quel peluche fosse proprio una di loro.

Orribili, nauseabonde, offensive. Voto: 6,5 Ippopotamo

Lo vedete anche voi? Lo vedete lo smile? No? Non avete per niente fantasia, lasciatevelo dire. Questa è una cacca che sorride. Ecco perché Happy Hippo. Ricordate quando vi ho detto che alcune foto le ho richieste a Sabrina dato che le mie facevano cagare? Siamo giunti al punto. Di ippopotami ne ho incontrati molti durante i miei viaggi in Africa, sempre oculatamente da lontano. Sono scemo, ma c’è un limite. In Uganda, però, m’ha dormito sotto la capanna. Quando m’è iniziata a vibrare alle 3 di mattina, ho creduto che fosse un infarto. L’infarto è arrivato quando ho sentito dall’altra capanna urlare: «Hai un ippopotamo sotto casa». Era sotto il letto. Non mi lamenterò mai più dei rumori in albergo. Pur senza conoscerne il responsabile, vedendo il contenuto fibroso è palese che siamo dinanzi alle deiezioni di un grosso mammifero erbivoro. È sicuramente opera di un esemplare maschio, e lo potete capire dal modo in cui è stata sparpagliata.

Quando cagano, gli ippopotami maschi ruotano la coda a mo’ di elicottero per spargere le feci il più in giro possibile, così da marcare il territorio. Immaginate di far passare una barretta di Mars sciolta attraverso le pale di un ventilatore. Ecco, uguale.

Piede per reference.

La seconda foto è di una femmina, infatti è più compatta, e si vede anche la forma della chiappa. La cacca era stata schiacciata (non da me né da Sabrina), forse durante uno spostamento. Si saranno mossi da un punto con acqua a un altro. A quanto abbiamo visto, stimando la loro direzione, potrebbero aver marciato per circa 3 km. Nulla di incredibile; alla fine, di notte gli ippopotami possono percorrere anche 40 km. Che, se ci pensi, sei vegetariano, mangi relativamente poco e ti muovi pure un sacco, ma sei comunque grasso. Ci credo poi che sei incazzato. Energica, confusa, esaltata. Voto: 5

Steenbok

Il raficero campestre… ma chi l’ha mai chiamato così?! Se doveste parlare di questa piccola antilope in Africa chiamatela semplicemente steenbok, e ci capiamo. Come potete vedere, produce palline armoniose d’ammor, che tende a sotterrare o a confondere con il terreno. Un comportamento bizzarro, ti dirai, considerando che qui tutti cercano di mostrare la propria merda a quanta più gente possibile. Be’, mica tanto. Se sei un leone o un ippopotamo attrai degli sguardi di distinto timore reverenziale, ed è normale comunicare: «Qui è casa mia». È un modo gentile per dire: «Se ti avvicini t’ammazzo, vedi tu che fare». Invece, per una piccola antilope che viene tendenzialmente predata anche da un geranio, ci sta voler nascondere le proprie tracce. È un sanissimo meccanismo antipredatorio. Tuttavia, non va sempre così. Alla fine, come avrete capito, è bello sopravvivere. Ma sai cosa c’è di più bello? Scopare. E con la merda non solo si cucca, ma ci si manda anche bellissime letterine d’ammore. Quando una coppia di steenbok si forma, pur vivendo nello stesso territorio, i coniugi preferiscono vivere separati. Mantengono l’indipendenza, loro. È un ottimo accordo prematrimoniale, specie se vuoi essere pronto alla fuga. Se si muovessero insieme dovrebbero anche scappare insieme, e dalle mie parti è già un casino con il navigatore. Se fuggite insieme ti tocca sperare che sia predato il tuo partner al posto tuo.

Onesto, ma non esattamente carino. Che fai? Gli fai lo sgambetto? Quindi preferiscono vivere separatamente, rimanendo però in contatto tra loro con dei bei messaggi odorosi, per lo più prodotti da depositi di sterco. «Ciao tesoro, come stai?» «Bene. E tu? Hai mangiato?» «Sì. Che, non lo senti?» «Mi ritengo soddisfatto.» Piccola, strategica, delicata. Una cacca d’ammor. Voto: 6 Iena Che schifo, guarda. Una cacca che sembra partorita dall’inferno. Anche se probabilmente qui non potrete vederlo, la cacca in questione è bianca, e sembra coperta di fine cenere. In genere, se fresca tende ad avere un colore più verde, ma quando si secca vira in questa specie di incenso. Buona parte del colore è dovuta alle ossa, che le iene sminuzzano con facilità. E pensare che quando mangio il pollo è panico se non ho il filo interdentale a portata di mano. Come dei bignè spolverati di cocco, hanno un certo fascino. Il cambio di colorazione, poi, pazzissimo. Voto: 7–

Istrice Se vivi in Sudafrica in mezzo a leoni e leopardi e non c’hai almeno una corazza di aculei non sei nessuno. Gli erbivori di medie dimensioni tendono a non cagare in “pellet”, ma preferiscono piccoli stronzetti nodosi, che raramente hanno un diametro superiore ai 5 cm (più o meno una pallina da tennis, per intenderci). Questo vale tanto per le zebre quanto per i facoceri, e ovviamente anche per gli istrici. Ho scoperto che in Italia esiste questa strana leggenda secondo cui gli istrici lancerebbero i loro aculei tipo colpo di mitra se infastiditi. Non voglio rovinarvi l’illusione, quindi fingerò che questa stronzata sia vera. La cacca di istrice qui trovata contiene distintamente materiale fibroso di origine vegetale. In effetti, sembra che abbia cagato un’intera sedia di vimini, e il solo pensiero mi causa irritazione nella zona rettale. La dieta dell’istrice, infatti, è composta per lo più da frutta, radici, bulbi e cortecce. A volte, però, per carenza di calcio, può comportarsi da spazzino, e rosicchiare ossa di cadaveri. Anche qui, nulla di assurdo. Pure giraffe, pecore, vacche, cervi e altri simpatici amici all’apparenza innocenti sono stati visti masticare ossa e ammazzare piccoli animaletti e uccellini. Ve l’ho detto che la natura fa schifo? Brutta. Dal design incomprensibile. Malcacata. Voto: 4

Leopardo Cioè, ma che cacca è? Sembra la mia nei giorni migliori. Diciamo che se non mi avessero detto che era di leopardo, avrei dato la colpa a un passante. Per essere lunga è lunga, di colore nero (sempre per via del sangue), ma forse qui sono più distinguibili le due estremità, una affusolata e l’altra a punta. Ordinaria. Affettiva. Di quelle a cui aspiri. La cagherei. Voto: 6,5

Elefante Quello in Namibia è stato forse il viaggio più bello della mia vita. Non per la Namibia in sé, ma per tutta l’esperienza. Due settimane nel deserto, la prima da volontario a costruire una piattaforma anti-elefante per evitare il conflitto uomo-natura e proteggere una fattoria locale, la seconda a seguire i ranger dell’Elephant-Human Relations Aid (EHRA) e a monitorare elefanti. Il tutto in un Paese con una crisi idrica e una siccità tali da non permettere di usare acqua nemmeno per lavarsi un’ascella. Credo di essermi fatto solo due docce, con uno di quegli aggeggi da campeggio che sembrano cateteri, ma avevamo stimato non più di 10 secondi di acqua a testa. Per non esagerare. Con 10 secondi l’acqua non ti arriva nemmeno all’uccello. Ora lo posso confessare a tutti i miei compagni di allora: io sotto la doccia non ci sono stato 10 secondi, ma 30. Sono una persona spregevole. Nonostante questo disagio, immaginate: in mezzo al deserto del Damaraland a dormire sotto quell’incredibile cielo stellato in totale assenza di inquinamento luminoso. Dovevo indossare la mascherina che m’ero fregato in aereo per evitare che la Via Lattea mi svegliasse, con tutto quel bagliore. Non scherzo. La prima notte pareva che avessi un lampione puntato in faccia, e dopo essermi svegliato sconvolto e confuso, come quando mia madre mi spalancava la serranda di mattina, mi sono reso conto che quella luce era la Luna. E io non avevo l’interruttore.

Lì ho pensato che forse non avevo mai davvero visto la Luna prima di quel momento. E poi che bellezza, essere volontari e cucinare sul fuoco, o dover cagare con la pala nel deserto. Ma parlando di merda, in questo viaggio ne abbiamo incontrata a palate, per l’appunto. Alla fine, seguire i ranger nel loro lavoro significa anche scovare gli animali, quindi imparare a riconoscerne le tracce. La freschezza di una traccia è un dato importantissimo, almeno quanto la freschezza di una cacca. Con gli elefanti parliamo di feci di grossi erbivori. Possono avere anche un diametro di più di 25 cm, e contengono svariato materiale vegetale, sia ridotto in pezzetti fini, sia in tronchi interi. Tali residui sono semplici da identificare, essendo difficilmente digeribili. Herman ci teneva a mostrarci questa cosa. Herman, per intenderci, era il ranger che ci faceva strada, un uomo così cazzuto che avrebbe potuto dare un bacio a Chuck Norris per sottometterlo. In quanto local, e soprattutto in quanto uomo di esperienza, Herman raccoglieva merda di elefante da terra con nonchalance. La maneggiava, la annusava, la percepiva. Assistere a questo rituale era magico, anche perché quelle mani da lì a poco avrebbero toccato del cibo e, come ci tengo a ricordare, l’acqua nel deserto non c’è, figurati il sapone. Come un apostolo, dopo aver spezzato il panetto di merda raccolto dal terreno, ha iniziato a tirare fuori dal suo interno rami interi, tipo asparagi dalla busta. Ai miei occhi era un santo. Voleva mostrarci la consistenza delle feci, ma credo che abbia semplicemente reso palese i problemi di digestione di questi pachidermi.

Herman era disinvolto quando si parlava di merda, e ne tastava l’interno come fa un proctologo curioso. Nella foto alla pagina precedente lo potete vedere nel bel mezzo di una dimostrazione. Quella merda era fresca, umidiccia, unta, dal colore giallo fluo e sfumature verdi brillanti. L’autore dell’opera non doveva essere molto lontano: risaliva al massimo a un paio di giorni prima.

Al contrario, la merda qui sopra era secca, pagliosa, color sabbia e dal retrogusto poco deciso. Un tetrogusto. Potrebbe essere stata vecchia di due mesi. Inizialmente, vedendola lì abbandonata sul terreno, abbiamo giustamente commentato con un sano: «Bella merda». Ma ancora una volta Herman ci sorprese. «Raccogliamola.» «Herman, ti voglio bene, ma preferirei evitare.» «Prendila tutta.» «Herman, ti prego.» «Prendila. Guarda che bontà.» «Herman, abbi pietà della mia anima.» «Questa è perfetta per il fuoco.» «Herman, siamo in mezzo al deserto namibiano. Se guardi male quell’albero piglia fuoco da solo.» «Ma questa piglia fuoco meglio.» Niente da fare, Herman ci teneva proprio a farne un torcione. Tira fuori un accendino e inizia a santificarci d’incenso come un parroco pazzo. Devo dire, comunque, che effettivamente prende bene. Il piccolo inconveniente imprevisto è che puzza di culo e stalla. Non l’avrei mai detto. Ed è per questo che, su ordine di Herman, abbiamo passato i successivi 20 minuti raccogliendo merda secca di elefante per il fuoco della sera. Poi, appena partiti, ho finto di farmela cadere dal veicolo, con grande rammarico da parte di nessuno. Va bene tutto, ma passare la notte attorno a un fuoco di merda anche no, Herman. In compenso, a quanto pare queste palle di felicità quando vengono bruciate funzionano sorprendentemente bene come antizanzara. Provare per credere. Per spezzare una lancia a favore della zanzara, manco io m’avvicinerei, ma non vale per tutti. Con la loro poderosa merda, gli elefanti possono sfamare un sacco di animali. Questo è vero per ogni merda, in realtà, ma nella palla prodotta dagli elefanti ci sono semi indigesti di cui si abbuffano uccelli, antilopi, babbuini e piccoli animali. C’è così tanta erba maldigerita che molti erbivori possono nutrirsene, e infatti è usatissima dai locali per sfamare gli animali da fattoria. A quanto pare, oltre che come fertilizzante e materiale da costruzione (perché sì, che non te la fai una casa di merda?), viene impiegata anche per realizzare distillati, i cui aromi variano a seconda dell’alimento di cui l’elefante si è cibato. Ci sono anche aziende che la stanno adoperando per produrre carta igienica. Insomma, una merda di cui non si butta via niente. La trovo una cosa molto romantica, in un certo senso fa il giro completo.

Fibrosa, versatile, soddisfacente. Voto: 7 Elefante di merda Parlando di elefanti, prima dell’elefante nella stanza c’è l’elefante di merda. Che la Namibia avesse un rapporto inusuale con la merda era abbastanza evidente, però c’è un limite a tutto. Lungo il mio viaggio nel Damaraland ho visto tante cose strane, tuttavia niente batte questo meraviglioso esemplare di elefante di merda. Qui in posa disagiata, probabilmente durante il tentativo di predazione di una bottiglia di plastica. La domanda è stata immediata: “Ma un elefante di merda cosa caga?”. Ho scoperto da lì a poco che quest’opera era stata creata da qualcuno usando merda di asino, allargando ancora di più gli orizzonti della mia confusione. L’artista, comunque, ce l’aveva messa tutta, dato che oltre ad aver rispettato perfettamente le proporzioni della bestia ha usato in maniera magistrale la paglia per riprodurre persino la peluria del pachiderma. Non uno scarto, ma arte. Il modo migliore per portare avanti il concetto del “W la merda”. Avrei comprato l’opera, ma in valigia non ci stava. Voto: 10+

Cacca aurea

Una spirale perfetta, una sezione aurea anale. Il più bel sasso che uno sfintere abbia prodotto. Lo so, a prima vista parrebbe appartenere a una creatura mistica, ma in realtà si tratta solo di una merda di vacca. A essere precisi, di una piccola vacca. “Ma come, Barbascù, le vacche cagano così?” Che sciocchino questo commentino. Suvvia, le tue feci sono sempre le stesse? Non cambiano mai, indipendentemente dal fatto che ti sei scofanato 4 kg di lumache o una teglia di asparagi crudi? Guarda che sei in grado di produrre feci di una variabilità incredibile. Se ti ci impegni fai un Pantone che è un fluo spettacolo. Le nostre vacche domestiche sono abituate a mangiare un certo tipo di cibo. Qui in Namibia ne mangiano altro, più wild, ed è giusto che si sbizzarriscano cercando di dar libero sfogo creativo alla loro ponzata. Osservando le tracce, in questo caso si trattava di una vacca giovane e dall’andatura lenta. Fuori le feci erano dure come carruba, invece dentro erano ancora umidelle. In base a ciò, si può concludere che era passata da lì la sera prima. Come facciamo a sapere che dentro erano umidelle? Ma ovviamente grazie a Herman, che non perde occasione per spezzare un po’ di sana merda raccolta da terra. Grazie Herman, sussurratore di torte, massaggiatore fecale, sommelier di scioltezza. A ogni modo, che vuoi di più? Una cacca amanuense, compatta, fantastica, arrotolata come il parrucco della principessa Leila, pregna di passione e di talento artistico. Voto: 8

Giraffa Che bella. E dire che l’avrei scambiata per ghiaia. La foto che vedete l’ho scattata distrattamente. Che la prima volta che incontri una giraffa è un’emozione incontenibile, ma dopo due giorni di giraffe inizi a trattarle come piccioni. Con sufficienza. L’avvistamento passa dall’entusiasmo iniziale al totale disinteresse nei giorni successivi. Infine si tramuta in rabbia, perché tu stai cercando altre bestie, ma continuano a uscirti giraffe. “Hai rotto il cazzo, manco con gli zubat.” Però la loro merda è affascinante, nel suo concept.

Le giraffe rientrano nella categoria dei “produttori di pellet”. È un modo simpatico per dire che scagazzano biglie e sassi come se piovesse. E considerando a che altezza si trova il loro buco del culo, piove a catinelle. Ogni singolo deposito di feci può contenere da un minimo di 10 a un massimo di 200 palline. Purtroppo non ho seguito le mie stesse raccomandazioni, e travolto da un insaziabile spirito naturalistico ne ho presa una in mano. Guardate che bella, pare una ghianda rugosa. Riesco quasi a cogliere il bacino dell’ano che l’ha prodotta. Le forme possono variare molto, ma in generale non dovreste faticare a riconoscerla.

All’occhio inesperto apparirebbero come noci, ghiaia, o palline di cioccolato ai cereali. Invece no, è merda. Dura, solida, nocciolata. Biglie non più grandi di una falange umana. In generale, poco soddisfacente. Voto: 4

Renna delle Svalbard

Questa già di per sé è una bestia insulsa, la sua merda poi… La renna delle Svalbard è una renna nana, candida e scema, che vive sulle isole Svalbard, nel circolo polare artico, dove fa un freddo in culo ed è pieno di orsi polari. Ero lì, in motoslitta in mezzo al nulla, con la tormenta che ti menava in faccia e una temperatura illegale di –38 gradi. E chi ti vedo sbucare? Queste sagome inquietanti che sembrano anziani che si sono persi in un cantiere troppo grande. Poi guardi meglio e no, sono loro. Delle renne talmente sceme che i locali hanno fatto addirittura una legge per evitare che le si cacci.

«Non più di una all’anno per famiglia. Non sarebbe carino abusarne. È come sparare a un bambino» mi ha spiegato un tizio. Mi chiedo a quanti bambini abbia sparato. Il punto è che queste renne rincoglionite non si muovono nemmeno se ti presenti da loro con una motosega accesa tra i denti, un trapano in una mano e un turbinator 3000 montato come strap-on. Niente. Restano là. Ti guardano. E non fanno niente. Hanno fatto tutte le scelte sbagliate per sopravvivere, considerando che se ne vanno in giro con quel clima senza nemmeno un cappotto. Ma evidentemente hanno ragione loro, dato che comunque sono sopravvissute. Forse hanno capito che per campare avevano bisogno di rabbonire gli esseri umani. Agli esseri umani piacciono gli animali rincoglioniti e tenerelli, quindi hanno fatto all-in. C’è da dire che con gli orsi polari hanno un’altra attitudine. Si muovono in gruppo, e se vedono qualsiasi palla bianca grassoccia e sospetta si allontanano, pigramente. Più l’orso si avvicina, più si allontanano. Non serve nemmeno correre. A quel punto diventa una specie di gioco dell’oca, ma più brutto. Ah, e cagano come se non ci fosse un domani. Il cibo devono andarselo a recuperare scavando sotto la neve, però evidentemente ne trovano in abbondanza, o non sfornerebbero tutto ’sto pallettone di roba. L’ex città sovietica di Pyramiden è asfaltata di feci di renne delle Svalbard, il che è un casino, dato che essendo sostanzialmente una città semiabbandonata, con soli 6 residenti fissi e tutti gli altri minatori, dove lo trovi un netturbino? Tra l’altro, triste primato, il mio gruppo di amici scemi con cui mi sono recato in questo viaggio scomodo è stato l’ultimo a visitare l’avamposto, a marzo 2022. In quel periodo stava scoppiando la guerra in Ucraina, quindi quell’area da lì a poco venne chiusa al pubblico. La tensione era palpabile, anche perché appartiene alla Russia, ma la maggior parte dei minatori sono (indovina indovinello) ucraini. Detto questo, mi sono sempre chiesto che senso ha chiudere un posto in culo al mondo coperto di merda di renna in cui devi essere più rincoglionito di una di ’ste malabestie per andarci. Scusate, mi sono distratto ancora. Parlavamo di feci? Piccole, tante e congelate. Odore assente per via delle temperature, relativamente facili da raccogliere. Ci puoi giocare a biglie prima di suicidarti. Inutili come chi le ha prodotte. Voto: 1 Zibetto Non so se avete presente il kopi luwak. È un caffè che dicono essere buonissimo, tanto che una tazzina può costare anche 10 euro. E ci sta che sia così caro, considerando che è uscito dal culo di uno zibetto delle palme. In effetti, a differenza di come molti pensano, non è un caffè fatto “con la merda”, bensì con chicchi di bacche parzialmente digerite e sottoposte a fermentazione nel tratto gastrointestinale dell’animale, recuperate dalla loro merda. La speranza è che lavino i chicchi, prima di preparare la bevanda. Ok, non prendiamoci in giro: è un caffè di merda. Ma attorno a questa storia si nasconde un serio problema naturalistico, dato che nelle fabbriche dove tale varietà di caffè viene prodotta gli zibetti sono dei detenuti ammassati in gabbie e nutriti forzatamente con chicchi di caffè. Solo che loro non dovrebbero mangiare unicamente caffè. Cioè, in una dieta equilibrata ne mangiano anche, ma poco, e comunque non soltanto quello! Io adoro i frollini, per dire, ma se mi fai mangiare solo frollini m’ammazzi e cago l’anima.

Lo zibetto delle palme è un animale onnivoro, che si nutre principalmente di frutta. Contribuisce quindi a mantenere gli ecosistemi delle foreste tropicali attraverso la dispersione dei semi. Mangia chiku, mango, rambutan e caffè, ma anche piccoli mammiferi e insetti. Diversi test hanno rivelato che i chicchi di caffè dello zibetto sono più duri fuori e fragili dentro, indicando che i succhi digestivi penetrano in essi e ne modificano le proprietà. Questa capacità è stata la loro rovina. Non sapevano che noi esseri umani amiamo ’sta merda. Quando mi sono trovato al Cuc Phuong National Park, in Vietnam, dove ho fatto volontariato naturalistico in un santuario per piccoli carnivori, mi sono ritrovato a portare loro il cibo. Sì, lo so, tecnicamente non è un “piccolo carnivoro”, ma ce l’avevano là, che volete da me? La maggior parte degli esemplari che si trovavano nel santuario era stata salvata da bracconieri, i quali li avevano destinati proprio al mercato del caffè. Ora, vi confesso che per loro fortuna questi esemplari erano curatissimi e avevano una dieta decente. Quindi non cagavano quella specie di pannocchia che esce loro dal culo quando vengono forzatamente nutriti a caffè.

In accordo con il curatore della rivista (che sono io, ops!) ho deciso di barare e vi piazzo qui una foto non scattata con le mie manine, bensì di repertorio. Giusto perché non vorrei privarvi di una simile immagine. Un torrone, nodoso, iracondo. Una cacca bellissima ma immorale. Voto: 1

Volpe

Lasciamo l’esotico alle nostre spalle e torniamo in Italia. Chi ama il trekking sicuramente avrà trovato sui sentieri una specie di biscottone scuro di visciole, dal colore tendente al violaceo e pieno zeppo di nocciole. Ecco, spero di non avervi convinto ad assaggiarlo, dato che, in effetti, quella è merda di volpe. Ed è bellissima. È molto facile da trovare, proprio perché le megalomani esibizioniste defecano proprio nel bel mezzo dei viali, possibilmente su di un ripiano rialzato, come un grosso sasso, un tronco o un rigonfiamento del terreno, in modo che funga un po’ da piedistallo a questa loro opera magna. Il motivo, come avrete intuito, è sempre lo stesso: dichiarare “Qui ci so’ passato io. Questa è casa mia, è il mio territorio”. Non è diverso da quel ladro d’appartamento che prima di darsi alla fuga si concedeva una sana ponzata a casa del derubato, che a quel punto veniva ingiustamente umiliato due volte. Le feci di volpe sono lunghe tra i 5 e gli 8 cm. Dipende da cosa hanno mangiato, ma generalmente hanno la forma di rollè di salsiccia alla brace, di cui un’estremità è arrotondata e l’altra è appuntita. Indovinate da quale lato è uscita. Se s’è ingollata roditori, le feci saranno completamente diverse e somiglieranno più al ciuffo di peli del tuo gatto dopo una spazzolata. In caso di ingestione di uccellini, ci sarà un bel malloppo di piume. Con insetti, invece, esce bella liscia. Il colore scuro è per via della carne, ovviamente. Tuttavia, poiché sono ghiotte di frutta, possono avere colori che non mi dispiacerebbe indossare, nonché aggiunte più sfiziose. In questo caso sembravano contenere noccioli di ciliegia. Bella per lei, aveva mangiato meglio di me. Rimane il nostro diritto di scambiarla per torrone. Come sempre, per capire a quando risale, si può osservare il colore, che tende a ingrigirsi col tempo, oltre ovviamente alla presenza di altre tracce sulla merda, che indicano il trascorrere inevitabile delle ore e la caducità della vita. Allegre, sfarzose, esibizioniste. Tutto quello che sogniamo da una merda. Voto: 10

Lepre

Be’, che dire, somigliano ai Coco Pops. Ma saranno buoni come cereali al cioccolato? Forse potrebbero dircelo proprio le lepri. Infatti, esattamente come i conigli, le lepri sono coprofaghe, cioè si ingollano le loro stesse palline di erba macinata uscita dal culo. Ma perché? Non c’era altro da inzuppare nel latte la mattina? È stato dimostrato che il passaggio ripetuto del cibo attraverso il tratto digestivo compensa il piccolo volume del loro intestino cieco, e prolunga il periodo di digestione delle stesse porzioni di cibo. Questo significa massimizzare l’assimilazione di nutrienti, strizzando ogni singolo elemento nutritivo da quel che si mangia. Prima palline di erba macinata, poi crocchette, ma sempre merda è. Non vi preoccupate, non sono loro a essere degenerati; molti altri animali lo fanno. Per esempio i giovani elefanti, quelle schifezze di panda e koala, e anche gli ippopotami mangiano le feci della madre per ottenere i batteri necessari alla digestione della vegetazione. “Mmmm, buona la merda, mamma.” Timida, insulsa, un brufolo sul terreno. Voto: 3

Lupo

Be’, che vi devo dire. Siamo in Italia, fatemela mostrare un po’ di cacca di lupo. Una cacca orribile, sia chiaro. Priva di grazia e fantasia, una specie di rimasuglio di peluche passato sotto il trattore. Non hanno per niente stile i lupi nel Belpaese. Quella che ho trovato nelle foreste casentinesi con il mio amico Andrea Boscherini aveva un bel colore marroncino, evidentemente segno che il lupo in questione aveva mangiato un daino. O almeno, questo mi ha detto lui. Mi fido. Io un daino lo mangerei, ma non intero, quindi non ho metri di paragone. In questa traccia sono presenti tantissime ossa (nella foto sarebbero quei pezzetti floccosi bianchi che sembrano una spolverata di mandorle). E, ovviamente, tanti tanti peli. In generale una cacca poco soddisfacente, senza intenzione, di chi non ci ha nemmeno provato ad applicarsi. Scolorita, poco compatta, troppo setolosa. Non avrei voglia di cagarla. Voto: 3 Temu Forse andrò fuori tema, ma non potevo concludere questo meraviglioso compendio senza citare la cacca di Temu (inteso come Temüjin, ma, come vedrete, del conquistatore non ha nemmeno la cagata). Per chi non sapesse chi è Temu, è il mio gatto. O meglio, il primo dei miei attuali gatti. Ne ho tre, perché evidentemente avevo qualche lacuna da sanare. Ne discuterò col mio terapeuta. Era il 2019. Finito il mio dottorato, dopo anni passati a girare per lavoro nei laboratori di mezza Europa, decido di tornare in patria. Capiamoci, non definitivamente. Non avevo un vero e proprio luogo in cui tornare e, sentendomi apolide, per una serie di ragioni volevo provare a vivere per qualche mese a Roma. Spoiler: alla fine ho comprato casa. Non ho idea di come facciano gli adulti a prendere le decisioni. Io mi sento sempre come un bambino in un negozio di caramelle con un centone in mano. Comunque, cercando una casa in affitto scopro che una mia amica, postdoc in matematica e carriera accademica avviata, è impazzita e ha deciso di andare a “lavorare con i cavalli in Brasile”. Evidentemente anche lei non sapeva come facessero gli adulti a prendere delle decisioni.

A me andava di culo, perché aveva una mansarda pazzesca in supercentro, a pochi metri da piazza Navona. Una di quelle sistemazioni che costerebbe troppo per chiunque non sia il papa o il presidente della Repubblica. Ho scoperto in seguito di aver attirato l’odio di tutti coloro che da anni provavano invano a scheggiare il mercato immobiliare romano, molti dei quali finivano sotto i ponti. In genere non sono una di quelle persone baciate dalla fortuna, ma in questo caso, porco cane, mi aveva pomiciato duro. Il prezzo dell’affitto era anche molto più basso del previsto, addirittura più basso dell’appartamento ad Amsterdam che avevo appena lasciato e che dividevo con due colleghe. Ci doveva essere l’inculata da qualche parte. E in effetti c’era. Era Temu. Temu era l’effettivo proprietario dell’appartamento. Un gatto di 8 anni e 9 kg tondi di peso, tronfio di potere, che era cresciuto in quell’appartamento e che quindi la mia amica non voleva traumatizzare. «Vi prendete la casa, ma mi tenete il gatto fino al mio ritorno» ha detto a me e a Claudia, la ragazza con cui stavo. Un ereditiere, in pratica. E così ci trasferimmo. C’era questa bestia grossa quanto un vitello che dormiva pigramente nelle posizioni più impensabili e ci giudicava. Un gatto, insomma. La raccomandazione più importante che ci è stata rivolta fu: «Non chiudetegli mai la finestra, non lo sopporta. Ama vagare per i tetti, quindi non vi preoccupate se sparisce». Insomma, dovevamo stare con le finestre aperte in inverno perché ’sto stronzo voleva giocare a Spiderman. Nella mia testa ammetto di aver pensato: “Se dovesse scivolare dai tetti, come cazzo glielo spiego alla proprietaria che non si tratta di omicidio volontario?”. Temu era un gatto assurdo. Ho sempre avuto gatti, ma eloquenti come questo mai. Ti parlava, ti mostrava quale pacco di crocchette voleva mangiare quel giorno, ti spostava sul divano in modo che potesse creare il giaciglio migliore col tuo corpo, quando salivi le scale iniziava a miagolare dietro la porta d’ingresso (probabilmente voleva dirci: “Mettetevi le pattine”), ti bestemmiava se gli chiudevi le porte (mai osare chiudere le porte della SUA casa) e amava moltissimo i film dove la gente moriva male. È un grasso imbecille. Lo amo. La nostra convivenza doveva fermarsi a un anno. Tuttavia, non so se vi ricordate di quell’increscioso incidente provocato dai Poteri Forty nel 2020: il lockdown. Tutti bloccati in casa. Noi a Roma, la proprietaria in Brasile. Credo che a Temu tutto sommato sia andata di lusso la nuova situazione surreale di stampo post apocalittico: i suoi due schiavi erano bloccati in casa tutto il giorno a riverirlo, aveva un terrazzo sempre accessibile e i tetti da esplorare. Ma a quel punto succede qualcosa, e tutto cambia. Alla fauna dei tetti, composta da svariati gabbiani imbruttiti, piccioni e agenti del fisco, si aggiunge un piccolo gatto nero. La sua sagoma ci è apparsa una notte in controluce, luna sullo sfondo e occhi tipo fari. “Cazzo, è Batman” ho pensato. Invece era un cazzillo minuscolo, e a quanto pare a Temu andava a genio. Ricordavo che i gatti fossero territoriali, ma Temu ’sta ciola. Si avvicinava al nuovo arrivato, fingendosi disinvolto. A volte gli si metteva accanto, e insieme guardavano l’immensità del cazzo che gliene fotteva. Abbiamo chiamato la creatura delle tenebre Tegola. Andava tutto bene. Passa qualche mese, e di Tegola non c’è più traccia. Sarà stato il gatto di qualche vicino, qualcuno che aveva l’ingiustificabile pretesa di chiudere le finestre in inverno, causandone la detenzione. La paranoia di Claudia sfociò nel complottismo: «Sono sicura che qualcuno ci osservi. Annusa Temu! È profumatissimo. Secondo me qualcuno lo ha preso mentre era sui tetti e gli ha fatto un bagno». E poi, un giorno, iniziò l’incubo. Ogni mattina, proprio lì, sul secondo dei due scalini che collegavano la cucina al salone, si ergeva una cacca fresca. Cosa stava succedendo? Perché Temu mi faceva questo? E per Bob, quanto cagava. È uno stronzo da competizione. Solo ora mi rendo conto che la sua merda e quella di un leopardo sono identiche. Era forse un dispetto? Malauguratamente la montagnetta delle crocchette s’era ridotta al punto che riusciva a intravedere il fondo della ciotola, e s’era indignato? No, non poteva trattarsi di questo. O forse era la porta? Sì, in effetti quegli scalini si trovavano davanti a una porta che durante i primi giorni di convivenza chiudevo per non lasciarlo entrare in camera da letto. Non che mi disturbasse l’esser guardato mentre mi accingevo alla mia performance olimpica, tutt’al più sarebbe stata un’interessante aggiunta all’intimità di coppia. Era più per il fatto che pesava 9 kg. E che, a quanto pare, mi amava particolarmente, se non come essere umano quantomeno come cuscino. Con 9 kg di gatto che ti si addormentano sulla pancia sogni di essere schiacciato da una piramide. Non ci respiri con ’sto cinghiale

addosso. E poi, Temu fa le fusa. Lo so, tutti i gatti le fanno, ma lui pare un trattore. Il letto vibra che manco l’ippopotamo.

La festa di compleanno per i 9 anni di Temu fatta nella mansarda del misfatto. La torta ci fu gentilmente regalata da una sua fan. Questa è la mia vita, a quanto pare.

Non ero abituato. Ora lo sono, però all’inizio sembrava impossibile conciliare queste dinamiche con il sonno. Quando gli chiudevo la porta, lui, puntuale: cagatina sullo scalino. Una cagatina di monito, che significava: “Prova a chiudere di nuovo la porta, figlio di puttana”. E ora rieccola lì, nello stesso punto. Doveva trattarsi della stessa cosa? Ma non gliel’avevo mai più chiusa quella porta proprio per evitare ripercussioni. Aveva tutta la casa accessibile, gli avrei messo pure le rampe da lì a poco. No. Doveva trattarsi di altro. Un giorno, nel cuore della notte, lo sento grattare sul gradino. Non ci sto! Sono incazzato, e gli corro incontro per farlo desistere. Lo colgo sul fatto, era già in posizione, ma alla mia vista deve aver risucchiato lo stronzetto prima di correre via. Da allora non ha più commesso il fattaccio. Finalmente, un paio di giorni dopo, la verità è giunta a farmi visita. Ero al computer a lavorare. Sento il classico rumore famelico di mangiata di crocchette provenire dalla cucina. Mi giro per prendere un appunto… e Temu era lì, accanto a me, che mi guardava. Ma allora, chi diavolo stava mangiando le crocchette? Mi alzo e vado in cucina. Una macchia nera, grossa quanto un facocero, corre via di scatto. La inseguo in terrazza, e vedo questo mastodontico gatto nero

saltare sui tetti e sparire. «Tegola, porca puttana, che cazzo ti danno da mangiare?!» La notte successiva si sfiora il ridicolo. Stavo dormendo, e Temu arriva ai piedi del letto, frignante come un infante a cui hanno rubato il gelato. «Che c’è? Che succede?» Glielo chiedo, al gatto, perché sono uno dei cretini che coi gatti ci parla (senza vocina imbecille, capiamoci; ho una dignità talvolta). Lui continua a mugugnare. Piagnucola, indicando insistentemente nella direzione della cucina. Faccio silenzio, e lo sento. Qualcuno sta mangiando le crocchette. Tu quoque, Tegola, ladro infame. Corro verso la cucina, ma sento una rocambolesca fuga, e del criminale non c’è traccia. Mi volto verso Temu, il mio proprietario di casa. Lo guardo con pena e rammarico. Che schifo di scena. 9 kg di gatto, e piagnucola. Non sa difendere i propri averi. Che vergogna. Il giorno dopo è riapparsa. Lì, nuovamente, una caccona fumante mi guardava dal secondo scalino. E a quel punto un sospetto mi ha colto. Forse quella merda non era per me, ma per quel nemico pubblico di Tegola. Forse quella cacca serviva a dire: “Oh, eddai, è casa mia”. Forse quella cacca era il suo modo per lasciare un bigliettino di contestazione all’invasore, una missiva fecale. Forse era una denuncia di violazione di domicilio. Forse era un golem di merda a guardia del suo impero. Era pur sempre il proprietario di casa, in fondo. Dopo due anni di convivenza indotta dal Covid, un programma per RAI 3 in cui lo avevo reso mio coconduttore (quanta fama mai compresa aveva accumulato) e innumerevoli cagate sul gradino, ho comprato casa a Roma. Gliel’ho presa proprio come piaceva a lui, con una grande terrazza, tante piante in cui cagare e nemmeno una porta chiusa. Gli ho proposto di venire a vivere con me, di diventare mio coinquilino e smezzarci il mutuo. Ha accettato, ma non ho ancora visto un centesimo. La sua precedente coinquilina non ha obiettato. Sapeva che non si poteva dividere quello che la cacca aveva unito.

DARIO VERGASSOLA

A PROPOSITO DI STERCO… Quando ho chiesto a Dario di mandarmi una sua foto da allegare al pezzo mi ha inviato questa, dicendomi: «Questa del giorno del mio matrimonio credo sia perfetta». Ci ha tenuto però a sottolineare che l’autore della foto è Luca Fregoso, fotografo spezzino cugino di sua moglie, che purtroppo non c’è più. — Barbascura X

Devo dire che l’argomento non mi ispira molto, anzi, spero di inspirare il meno possibile dagli effluvi scaturiti dall’argomento. Sono figlio unico di famiglia molto povera, cioè il peggiore schizzinoso che si possa incontrare. Ho sempre usato il mio coltello e la mia forchetta, non bevo dalla bottiglia di nessuno, neanche dai bicchieri, e quando qualche ragazza, a tradimento, anche se era una che mi piaceva, dava una leccata al mio gelato, facevo finta che mi cadesse e lo buttavo a terra. Ho smesso da piccolo di andare a giocare a calcio, perché la promiscuità dei bagni e delle docce era troppo invadente. Non ho mai sopportato le puzzette e neanche i film in cui facevano da sottofondo, ma alle elementari avevo un amico, tal Luigi, che aveva un dono. Riusciva a pestare una merda anche a trecento metri di distanza, senza mai accorgersene, come se avesse un radar che gli indicasse l’obiettivo. Se ce n’era una per strada, in bella vista o nascosta in mezzo all’erba, la cacca non aveva scampo. Gigi il Pestamerde l’avrebbe scovata senza rendersene conto e l’avrebbe spiaccicata sotto le sue scarpe, fossero state da ginnastica oppure con la suola a carrarmato. Le suore ormai lo sapevano, e ad aspettare Gigi il Pestamerde c’erano sempre un paio di ciabatte dietro il portone d’ingresso. Non so se era la cacca che lo attirava o lei fosse attratta da lui, ma non ho mai più trovato uno così preciso a localizzarla a sua insaputa. Tra le categorie di persone che vorrei far sparire dalla faccia della Terra ci sono quelle che arrivano in barca e mettono la musica a palla così da obbligare tutti ad ascoltarla, quasi sempre una musica di merda, e quelle che vanno a fare le escursioni in montagna. A prima vista sembrerebbero ecologisti, però quelli che hanno i cani – quindi pensi che lo siano ancor di più, niente di meglio di un giro sui sentieri col tuo cagnolino preferito – fanno una cosa che mi manda ai matti. Il cane fa la cacca e l’idiota, il padrone, non la lascia per terra, che magari col tempo e la pioggia si decompone. No, lui la mette in un sacchetto di plastica, e poi attacca il sacchetto a un cespuglio, così rimane lì appesa per anni. Credo che il povero cane si meriti un padrone meno idiota, ma in questo caso la merda del cane è l’elemento fondamentale per scoprire degli stronzi. Quando vado in un bagno che non è quello di casa mia, butto dell’alcol sul water e poi gli do fuoco, sperando in questo modo di sterilizzarlo almeno in parte. Poi faccio fuori mezzo rotolo di carta igienica per imbottire la tazza e farla diventare come un salvagente. Cerco di non toccare nulla e prego Martinus Beijerinck, che per primo ha scoperto i virus filtrando foglie di tabacco infette, dando avvio alla virologia. Sono stato in un programma televisivo girato in India dove una prova consisteva nello sbattere della merda di vacca contro un muro, perché in quel Paese la usavano come coibente per le facciate. Credo di essere morto, e quando sono rinato e tornato a casa ho messo una ghirlanda di fiori intorno al mio bidet, innalzandolo a mio nuovo dio. Prima pensavo di essere

fedele solo alla dea Amuchina, ma dopo quell’esperienza sono diventato un convinto politeista. Ho incontrato dopo anni il mio compagno Gigi il Pestamerde a bordo di una macchina molto lussuosa. Mi ha raccontato che, a forza di levarsi la cacca dalle scarpe, era diventato un esperto: si era comprato una specie di autobotte, e armato di spingarda aveva iniziato a sturare i cessi della città. È diventato ricchissimo. Ora pure le vecchie suore delle elementari lo rispettano, e sono contente quando lui fa delle offerte per i poveri, anche se, quando chiudono la porta della scuola, smettono di sorridere, e unendo le mani sospirano che i soldi sono lo sterco del diavolo…

LORENZA POLISTENA

SONO FATTE COSÌ: ESPLORANDO LE FECI DEGLI ANIMALI DOMESTICI Ci sono molte cose che i neogenitori ricordano con tenerezza dei primi mesi di vita del loro bambino, ma tra le diverse “prime volte” c’è una cremosa costante: la cacca. Tanta, tantissima cacca. Se vi disgusta cambiare pannolini, tra poco scoprirete quanto siete fortunati, e non per la quantità di cacca in cui vi siete imbattuti (che porti fortuna deve averlo detto qualcuno che non l’ha mai pestata), bensì per ciò che tocca fare ai genitori di altre specie animali. Una caratteristica che accomuna i nostri neonati a un cagnolino o a un gattino è che la loro sopravvivenza è legata alla presenza di un adulto. I cuccioli di cani e gatti, infatti, fanno parte delle cosiddette specie altriciali, cioè animali che nella prima fase di sviluppo dipendono interamente dalle cure parentali. Questi cuccioli nascono ciechi, sordi e non riescono a camminare, a differenza dei cuccioli precoci che sono in grado di alzarsi in piedi fin da subito (ed è bene che lo siano) per seguire la mamma. Essere nati pronti, per loro, non è solo un modo di dire. Un’altra espressione usata per identificare i piccoli di specie altriciali è “prole inetta”, aggettivo che rende bene ciò che questi cuccioli fanno da soli: praticamente nulla, se non cercare calore e cibo. In effetti, trovare la mammella è proprio un gioco da cuccioli, e grazie al riflesso di suzione il latte viene conquistato letteralmente a occhi chiusi. Ma c’è un piccolo problema: tutto questo liquido da qualche parte dovrà uscire. Ed è qui che arriva il bello (si fa per dire). L’incapacità dei cuccioli di cani e gatti di svolgere varie attività include anche l’urinare e il defecare. Non riescono a farlo da soli. Per questo motivo, il ruolo della mamma nei primi giorni di vita è fondamentale anche per fargli espellere urine e feci. Le gatte e le cagne non si adoperano con un semplice massaggio al pancino, ma leccano ciascun cucciolo nella regione perianale, già nei minuti successivi al parto. La lingua funge da calda salviettina umidificata che stimola lo sfintere anale e uretrale, evocando il riflesso anogenitale. In questo modo, finalmente, i cuccioli possono svuotare retto e vescica. Però non è finita qui. Perché, come una salviettina che si rispetti, la mamma porta via tutto. Consolatevi, mamme e papà umani: per lo meno voi la cacca dei vostri bimbi non dovete mangiarla! È importante che il luogo dove sono presenti i piccoli rimanga sempre pulito, dal momento che cani e gatti appena nati non sono in grado di muoversi e rimangono per diversi giorni nello stesso posto. Inoltre, far sparire rapidamente le feci e le urine rende i cuccioli meno rintracciabili da parte di eventuali pericoli. La stimolazione da parte delle mamme è essenziale nelle prime due-tre settimane di vita, dopodiché i cuccioli iniziano a eliminare da soli; una volta superato il primo mese, infatti, il riflesso anogenitale scompare. Finché non si sposteranno per evacuare lontano, però, la madre continuerà a ingerire le deiezioni. È uno sporco lavoro, ma qualcuno deve pur farlo!

Questa forma di coprofagia (ovvero l’ingestione di feci) rientra nel normale repertorio dei comportamenti materni, ma non è l’unico caso. Se ci sono persone che nel latte preferiscono i biscotti e altre che amano i cereali, i piccoli di koala nel latte della mamma ci inzuppano morbide feci verdi al gusto eucalipto. Questo comportamento del famoso marsupiale australiano è ben noto, mentre meno conosciuta è la presenza di coprofagia delle feci materne anche in alcune specie di animali domestici, tra cui gli insospettabili cavalli che, come i koala, mangiano le deiezioni della mamma. Da tempo si sta indagando sul modo in cui le madri influenzino il comportamento alimentare dei propri cuccioli. Si sa che i nutrienti acquisiti già in utero o attraverso il latte materno sono importanti, ma in alcuni casi bisogna arrivare a sporcarsi… il muso. I puledri, infatti, tendono a preferire le feci della madre alle proprie o a quelle di un altro cavallo adulto. D’altronde, di cacca ce n’è una sola! È un’attività che rientra nei comportamenti di esplorazione alimentare, e potrebbe essere utile per acquisire informazioni sulle caratteristiche gustative e olfattive delle piante consumate dalla mamma. Questa funzione della coprofagia infantile nei cavalli sembra essere confermata dal fatto che il periodo di assunzione delle feci materne (fino a circa sei settimane di età) corrisponde cronologicamente a una riduzione dell’avvicinamento a piante potenzialmente tossiche. Inoltre, sebbene anche i cavalli siano erbivori, a differenza di vacche, pecore e capre non possiedono i prestomaci, speciali organi dell’apparato digerente in cui ha luogo la fermentazione microbica necessaria per la digestione. Negli equidi (inclusi i cavalli) questo processo avviene nell’intestino, in particolare nell’intestino cieco: una grossa sacca che può contenere fino a trenta litri di materiale. I microrganismi intestinali della madre, presenti nelle sue feci, potrebbero aiutare il cucciolo a popolare il proprio intestino cieco dei microrganismi essenziali per il lungo e complesso processo digestivo.

C’è un altro erbivoro che del suo intestino si fida ciecamente: il coniglio. Questo animale estrae dall’intestino cieco un materiale “magico”, chiamato ciecotrofo. Si tratta di palline morbide e scure raggruppate tra loro, come piccoli acini di uva neri ricoperti di muco. Detto così sembrerebbe invitante, se non fosse per il riferimento vischioso. Indovinate cosa ci farà il coniglio? Esatto. Lo mangia. Il ciecotrofo è talmente prezioso che lo preleva dall’ano. Insomma, direttamente dalla fonte. Questo comportamento è noto come ciecotrofia e permette al coniglio di assumere nuovamente nutrienti essenziali, tra cui vitamine e acidi grassi, importanti per un adeguato apporto nutrizionale e per il benessere dell’animale. Da piccoli ci hanno sempre detto: «Non toccare, è cacca!», ma se fossimo stati dei conigli ci avrebbero rivolto un invito diverso: «Dai su, mangia, prima che si freddi!».

A differenza di altre specie animali, noi abbiamo una forte repulsione per le feci. Quest’ultima diventa evidente guardando l’espressione di disgusto sul volto di una persona nel momento in cui realizza che il suo cane non si è limitato ad annusare il ricordo lasciato da un altro cane, ma ci ha fatto una scorpacciata. Si tratta di un esempio di allocoprofagia (l’ingestione di feci di un altro individuo); quando invece un animale mangia le proprie deiezioni si parla di autocoprofagia. Ci sono tanti modi per chiamare le feci, e uno di questi è “fatte”. In questo caso: fatte e mangiate. Ingerire le feci di un altro cane o di un altro animale potrebbe sembrare un paradosso, anche alla luce di ciò che abbiamo visto prima: dalle feci si tende a stare lontani. Infatti, la mamma le ingerisce per mantenere pulito il luogo in cui stanno i cuccioli. Perciò è strano vedere, alcune settimane dopo, gli stessi cuccioli mangiare le proprie feci o quelle di un altro cane. Se l’animale, però, si trova in una condizione di restrizione spaziale e ha frequente accesso alle deiezioni, anche da adulto, è più probabile che arrivi a ingerirle per rimuoverle dall’ambiente in cui vive, o che manifesti la coprofagia come comportamento causato da una situazione stressante. La probabilità di ingestione può aumentare anche quando il cane associa alle feci una conseguenza spiacevole, come una punizione. In questo caso, potrebbe ingerirle per eliminare prontamente il corpo del reato. Inoltre, anche la presenza di cani coabitanti che mangiano feci sembra essere un fattore che influenza la comparsa di questo comportamento. Un’altra delle ipotesi proposte è che, in modo simile a quanto accade in altre specie, la re-ingestione delle proprie feci o l’ingestione di feci altrui possa sopperire a delle carenze nutrizionali o contribuire a popolare la flora intestinale. In uno studio condotto nel 1981 è stato evidenziato che inducendo in un gruppo di Beagle, attraverso un’alimentazione specifica, un deficit di tiamina (la vitamina B1), gli animali iniziarono a manifestare questo comportamento. A dirla tutta, era davvero il minore dei problemi, considerando la serie di disfunzioni organiche e neurologiche che ne conseguirono per questi cani. In aggiunta a tutto ciò, è stata proposta un’altra ipotesi particolare. Cercando di evidenziare caratteristiche comuni a una popolazione di cani coprofagi, in una pubblicazione del 2018 è emerso che i cani tendevano a ingerire feci fresche, di non più di due giorni. Appena sfornate. Una possibile spiegazione è che la rimozione di questo tipo di deiezioni potrebbe contrastare la diffusione dei parassiti. Le uova di alcuni parassiti dei cani, infatti, trascorrono un lungo soggiorno nelle feci aspettando un nuovo ospite, e durante l’attesa diventano infette. Un processo che può richiedere diverse settimane. Quindi, ingerire le feci evacuate da poco, oltre a mantenere pulito il luogo in cui si vive, limiterebbe l’infestazione da parassiti;

un’attività importante in un gruppo sociale. Lo direi a quei coinquilini che non lavano nemmeno un bicchiere.

Il dibattito scientifico sulle molteplici e possibili cause della coprofagia nei cani continua. Ma prima di andare avanti, c’è un ultimo aspetto da considerare. Ultimo non certo per importanza, e probabilmente nemmeno per frequenza nella popolazione canina. La scelta di mangiare le feci sembra essere legata anche al gusto. Quindi sì, spesso piacciono e basta. Nel menu rientrano anche deiezioni gourmet, particolarmente apprezzate, come quelle di gatti, cavalli o di animali selvatici. La dieta di questi animali sembra che le renda dannatamente attraenti e buone, provare per credere. Sui gusti non si discute, giusto?

Anche se il vostro cane non ha mai gradito un buon piatto caldo di feci oppure se le ha mangiate solo quando era piccolo, non è ancora arrivato il momento di tirare un sospiro di sollievo. Sporche sorprese potrebbero attendervi dietro l’angolo. Tra queste, una sale di diritto sul podio delle schifezze: rotolarsi nelle feci. Un comportamento che nasce da un’esigenza etologica, o probabilmente da più di una. Quando un cane intercetta un bel bottino fecale di una volpe, di un cavallo o di una vacca, mette in atto una specifica sequenza di comportamenti. Dopo averlo annusato abbassa la parte anteriore del corpo e inizia a strofinare entrambi i lati della regione del collo e del muso, per poi chiudere in bellezza con una vigorosa rotolata di schiena, più e più volte. Il risultato è un profumo leggermente diverso dall’acqua di colonia, uno di quelli che ti fa rimpiangere di non avere il naso tappato. Per capire le motivazioni alla base di questa profumata attività, sono state proposte alcune spiegazioni, partendo anche da osservazioni condotte su specie di canidi selvatici. Strofinarsi sulle feci (ma anche su carcasse, liquami vari o residui organici con fragranze simili) potrebbe aiutare a mascherare il proprio odore durante la predazione. Un’altra ipotesi, che non esclude necessariamente la precedente, è che il pelo così impregnato funga da strumento di comunicazione olfattiva con altri membri del gruppo sociale, per esempio al fine di segnalare la presenza di prede nei dintorni. O ancora, ricoprirsi di escrementi potrebbe essere un modo per rendersi più appariscenti. Una strategia per farsi notare. Di sicuro lo noterà la tappezzeria dell’auto al rientro da una gita nel bosco. Nei cani, quindi, rotolarsi su un bell’ammasso fecale è un comportamento che ha resistito al processo di domesticazione e persiste tutt’oggi, nonostante le facce schifate dei proprietari. L’idea che abbiamo noi di riempirci di profumo è decisamente diversa da quella che hanno i nostri cani. Una propensione per lo schifo che dobbiamo comprendere e accettare. A un certo punto della storia della ricerca scientifica, qualcuno si è chiesto: ma perché i cani quando devono defecare ruotano su se stessi? Farsi le domande giuste è il primo passo della scoperta, in fondo. La ricerca è stata pubblicata, e nel 2014 è stata insignita del premio IgNobel per la biologia. Questo premio annuale celebra le ricerche più assurde e apparentemente inutili che, tuttavia, hanno un potenziale impatto scientifico e sociale. Per esempio, per questo studio sono stati raccolti dati per ben due anni. Due anni di cani che fanno la cacca sotto l’occhio di scienziati curiosi. È emerso che il 95% dei cani reclutati per la ricerca prima di defecare allineava l’asse del proprio corpo a quello del campo magnetico terrestre, lungo la direzione nord-sud. Non si sa bene il perché di questa scelta, ma il fatto che un cane possa percepire il campo magnetico terrestre può essere funzionale non solo per il suo orientamento, ma anche per il nostro. Questa loro capacità potrebbe risultare determinante durante le operazioni di soccorso in seguito a incidenti o disastri ambientali (come un terremoto), situazioni in cui mancano altri punti di riferimento.

E non è tutto. Dopo aver defecato (ma anche dopo aver urinato), i cani manifestano un altro comportamento curioso: raspano il terreno con le zampe. Certe volte si impegnano in raspate vigorose, si accaniscono e accompagnano il movimento con qualche vocalizzazione. Non lo fanno per nasconderle, anzi! In questo modo le deiezioni vengono messe in mostra. Grattare la terra vicino a dove il cane ha appena defecato aggiunge un’informazione visiva (il movimento delle zampe e i segni lasciati sul terreno) e chimica. Infatti, come in altre specie di carnivori, a livello delle zampe sono presenti delle ghiandole. Uno studio pubblicato nel 2020 ha indagato la risposta di un gruppo di cani in presenza di un tampone di cotone precedentemente strofinato sulle zampe (nello spazio interdigitale e sui cuscinetti) di un altro cane. Per la ricerca sono stati coinvolti maschi non castrati e femmine non sterilizzate, e sono emerse alcune interessanti risposte, tra cui il fatto che i maschi tendevano ad annusare per più tempo la secrezione prelevata dagli arti di un altro cane maschio. L’investimento che i cani dedicano a quest’attività, così come il loro interesse per il comportamento degli altri, può sottolineare l’importanza che questi segnali chimici svolgono nel modulare le interazioni sociali. Tuttavia, resta ancora da indagare la misura in cui questi ultimi vengono usati per discriminare il sesso o per ottenere altre informazioni sul mittente. Al contrario di ciò che osserviamo nei cani, i gatti coprono le proprie feci. Se pensiamo a un gatto in una lettiera, lo immaginiamo mentre scava accuratamente prima di urinare o defecare. Dopo aver finito, eccolo che si cimenta in una meticolosa copertura di ciò che ha deposto. Però non tutti i gatti coprono le feci, e alcuni non lo fanno sempre. Perché? Qualcuno potrebbe obiettare che sono gatti, e quindi fanno quello che vogliono. Il che non fa una piega, ma c’è dell’altro. Per parlarne dobbiamo partire da dove il gatto elimina. All’esterno o all’interno della casa? Dove si trova la lettiera? Per esempio, se la lettiera è posizionata in una stanza in cui il gatto trascorre gran parte del suo tempo, è meno probabile che lasci le sue feci esposte. Perché lì c’è lui, insieme alle sue risorse. Se invece evacua in zone esterne all’abitazione o ci sono conflitti con altri gatti, le feci potrebbero essere lasciate scoperte. Un modo puzzolente ma efficace per gestire i conflitti, senza dubbio meno costoso del nostro. Nei gatti, infatti, le feci non seppellite definiscono i confini territoriali, e non solo. Se per esempio c’è un gatto invasore che si avvicina alla vostra casa, ecco che le feci del gatto che vive con voi si

materializzano sotto le ciabatte. Un’eliminazione fuori dalla lettiera che, in un caso del genere, non è legata a problemi organici (per esempio all’apparato digerente) bensì a uno scopo ben preciso: comunicare. In questi casi emerge quanto sia vantaggioso farlo attraverso le feci, per mantenersi a distanza e far rimanere il proprio messaggio per lungo tempo. Talvolta i gatti sono motivati a coprire le feci ma falliscono miseramente, arrivando a grattare le unghie sulla lettiera o per terra, di fianco alla lettiera stessa. Una copertura imprecisa o inefficace che può essere associata a diversi fattori. Analizzando la frequenza di ben 39 diversi comportamenti manifestati da alcuni gatti durante l’evacuazione, è emerso che nel gruppo di animali in cui non c’era una lettiera di dimensioni adeguate o una quantità di substrato sufficiente, dopo aver defecato o urinato i gatti tendevano a muovere le zampe in modo ripetuto attorno alle superfici della lettiera, come se volessero coprire gli escrementi. Proprio uno di questi elementi potrebbe essere il motivo del bizzarro movimento del vostro gatto mentre tenta di coprire le sue feci mancando il bersaglio, fino a rischiare di svegliarvi facendo rumore nel cuore della notte. E lo farà, statene certi.

Oltre alla presenza di un abbondante strato di sabbia in lettiera, visto che la copertura delle feci è legata a una questione di odore, bisogna considerare il suo profumo. Sì, perché il marketing della carta igienica profumata ha coinvolto anche le lettiere per gatti. Con un piccolo inconveniente: l’essenza usata potrebbe risultare sgradevole al naso del felino, influenzandone l’utilizzo. Non siamo l’unica specie che quando va in bagno ha le sue esigenze per rendere l’esperienza più gradevole, e quelle di un gatto non corrispondono affatto alle nostre.

Dunque, per cercare di capire quale funzione comunicativa possano avere le feci, bisogna osservare anche dove vengono posizionate. Perché noi la facciamo sempre in un posto (si spera), ma per gli altri animali la location è importante e, in alcuni casi, può confermare o ribaltare il risultato… dell’interazione. Lo sanno bene i cavalli, che creano pile di sterco, per la gioia degli insetti coprofagi. Questo tipo di marcatura è più frequente a partire dalla pubertà, e viene manifestata soprattutto dai maschi. La contromarcatura (cioè marcare sopra le feci di un altro individuo), in questa specie, consiste nel far cadere accuratamente i propri escrementi sopra il mucchio. Una versione equina del Tetris. Ogni cavallo si avvicina alle feci di un altro individuo e le annusa. Poi, ecco che solleva la testa e fa una tipica smorfia: il Flehmen. Si tratta del particolare arricciamento e sollevamento del labbro superiore che facilita il transito dei feromoni (sostanze usate per la comunicazione chimica) a livello dell’organo vomeronasale, una struttura olfattiva specializzata nel rilevamento di queste sostanze. Questa mimica facciale è il segnale

che in quel mucchio fecale c’è qualcosa di interessante. Dopodiché, il cavallo gira intorno alla pila e si posiziona per defecarci sopra. Questo è un comportamento ritualizzato, associato alla comunicazione dello status sociale e alla competizione tra individui dello stesso sesso.

La competizione in un branco di cavalli, però, potrebbe non essere l’unica spiegazione. Una ricerca pubblicata nel 2013, e condotta su quattro diverse specie di equidi (asino selvatico africano, zebra delle pianure, zebra di Grévy e zebra di montagna), ha evidenziato che le femmine, soprattutto in assenza di un maschio, depositavano le feci sopra quelle di un’altra femmina. Per queste specie, che vivono in gruppi sociali, la contromarcatura potrebbe comunicare anche l’appartenenza a uno stesso branco. A conferma di ciò, le femmine tendevano a depositare le proprie feci su quelle delle compagne con cui interagivano più frequentemente. Un po’ come quando a scuola si andava in bagno con l’amica del cuore. Anche nei cavalli è stato indagato il comportamento di contromarcare le feci di altre femmine. A differenza di quanto si pensava inizialmente, i maschi non manifestavano tale rituale di defecazione solo sulle feci delle femmine in calore, ma anche su quelle delle femmine prepuberi (che non avevano ancora raggiunto la pubertà), su quelle delle femmine non in calore (nelle cavalle il calore è stagionale) e su quelle dei puledri. Anche in questo caso è stato ipotizzato che il comportamento contribuisca al mantenimento della coesione sociale. L’accumulo di feci in un determinato luogo è comune in altre specie animali, che usano delle vere e proprie latrine: punti in cui membri di uno stesso gruppo marcano con varie secrezioni corporee, tra cui le feci. Questi sono luoghi strategici, dove ognuno legge (o meglio annusa) i messaggi lasciati da altri individui e lascia il proprio. Una sorta di bagno pubblico, ma senza numeri di telefono. Chi posiziona le feci più in alto fa in modo che la propria notifica venga letta per prima. Un messaggio chimico lasciato in punti sopraelevati ha anche un altro vantaggio: si sente e si vede meglio. Ve ne sarete accorti guardando la precisione di alcuni cani mentre fanno acrobazie per evacuare le feci sopra un muretto o sul tronco di un albero. Infatti, alcune ricerche hanno evidenziato che in altre specie di canidi, tra cui i lupi, vi è una preferenza per la deposizione delle feci su piante alte e con maggiore diametro o su substrati cospicui, che attirano l’attenzione. Quando non ci sono le feci a fare da tramite nella comunicazione, i cani vanno dritti al lato B, ispezionando l’orifizio da cui fuoriescono. In sostanza, si annusano la regione anale (insieme a quella genitale). Infatti, lateralmente all’ano, su entrambi i lati sono presenti i sacchi anali, ghiandole che secernono un liquido dall’odore pungente (o nauseabondo, che dir si voglia). Una penetrante puzza di pesce marcio. Le ghiandole si svuotano durante la defecazione, e questa secrezione contribuisce a definire l’odore delle feci. Avete presente quando i cani da seduti iniziano a strofinare il loro didietro con una certa foga? Magari lo avete visto fare proprio sul tappeto di casa, e per diverse volte in sequenza. Questo comportamento è noto come scooting, che significa “sfrecciare”, in questo caso a zampe sollevate. In quel momento questi sacchi anali stanno causando fastidio e prurito, e uno dei motivi potrebbe essere proprio il loro mancato svuotamento durante la defecazione. Il secreto di tali ghiandole svolge un ruolo nella comunicazione chimica, ed essendo presente in diversi animali le sostanze che lo caratterizzano sono differenti a seconda della specie. Nei carnivori questa secrezione è responsabile del celebre e maleodorante spruzzo della moffetta, usato a scopo difensivo. Anche gli opossum spremono per bene le loro ghiandole anali quando si fingono morti per sfuggire a una minaccia. Infatti, durante questa performance, l’odore ripugnante del secreto ghiandolare diventa l’effetto speciale che fa passare l’appetito al predatore. I composti volatili dei sacchi anali vengono utilizzati per la marcatura territoriale anche dalle iene (il cosiddetto “burro di iena”) e dai lupi.

Sebbene si sia sempre pensato che questo secreto potesse svolgere un ruolo anche nella comunicazione tra cani, a oggi poche ricerche lo hanno indagato nel dettaglio. In un recente studio sono stati estratti e analizzati i composti volatili delle secrezioni di queste ghiandole, prelevando il liquido da cani di entrambi i sessi. Ne è risultato che nel liquido ghiandolare dei maschi sono presenti composti in proporzioni differenti rispetto a quello delle femmine. Questo non solo ha evidenziato una differenza legata al sesso, ma anche la presenza di composti non isolati in altre specie animali. Una firma chimica che potrebbe essere utilizzata per capire che sono feci di cane quelle che si hanno davanti. Lo so, è una domanda che molti di noi non si sono mai posti quando ne hanno pestata una in città. Sapevamo che era di un cane, o quanto meno abbiamo pensato che lo fosse. Alla fine, non abbiamo chissà quale variabilità fecale tra le strade delle nostre metropoli. Ma chi era quel cane? Un maschio adulto, una femmina in calore o un cucciolo? Questa indagine è preclusa al nostro olfatto. Peccato! Il naso degli umani, oltre a non essere molto d’aiuto negli studi etologici, è destinato a sentire solo la puzza e a perdersi tutta la magia.

Dire a qualcuno di averlo riconosciuto dall’odore non è una frase carina con cui iniziare una conversazione. Noi i nostri odori li mascheriamo (o quanto meno ci proviamo). Lo facciamo usando saponi e spruzzandoci addosso profumi vari. Altre specie animali, invece, li emanano con fierezza e li annusano con interesse. I gatti in questo non fanno eccezione. Anche loro hanno dei sacchi anali che svuotano durante la defecazione. Alcuni composti volatili presenti nel secreto delle ghiandole anali

potrebbero indicare quanto tempo è trascorso dall’emissione delle feci. È un modo per segnalare ai gatti nelle vicinanze la propria presenza, e tenerli a distanza. Inoltre, questa secrezione ghiandolare e le feci stesse potrebbero consentire il riconoscimento dell’individuo. Una cacca d’identità. Infatti, studi condotti su diverse specie hanno evidenziato una possibile capacità di discriminazione tra feci di amici e nemici, parenti e non. Un metodo per valutare se un soggetto distingue ciò che è suo da ciò che è estraneo consiste nel cronometrare il tempo impiegato per annusare quello stimolo. Le feci di un animale mai incontrato prima, di solito, vengono investigate per più tempo rispetto alle proprie o a quelle di un soggetto conosciuto. Secondo quanto emerso da uno studio del 2012, i gatti possono discriminare, proprio attraverso l’indagine delle feci, altri gatti conosciuti. Quando si dice “riconoscere un amico nel momento del bisogno!”. Anche nei cavalli, studiando la capacità di identificare i membri del proprio branco, è emersa una particolare attenzione rivolta alle feci dei soggetti con cui precedentemente c’erano state diverse aggressioni. Una capacità che può fare la differenza per non essere coinvolti in ulteriori battibecchi. A proposito di feci che fanno la differenza, anche la valutazione del rischio di essere predati può essere fatta annusando le feci. Odori diversi possono segnare il confine tra la vita e la morte. Per esempio, le arvicole di Brandt (roditori della famiglia dei cricetidi) reagiscono in modo diverso in base alla freschezza delle feci di gatto in cui si imbattono. Più sono fresche, più la risposta ormonale (aumento di corticosterone per mobilitare energia per la fuga) e comportamentale (ovvero darsela a gambe) è intensa. Ma come nei migliori film d’azione, non sempre tutto va secondo i piani. Il cattivo di questa storia è Toxoplasma gondii, un parassita e noto manipolatore che alloggia proprio nelle feci di gatto e che è in grado di influenzare il comportamento degli animali che diventano suoi sfortunati ospiti. Toxoplasma è come il professore o la professoressa di educazione fisica del liceo: ti fa fare cose che non vorresti mai fare, tipo correre… in questo caso, nella bocca del tuo predatore. Il caso più noto è quello dei roditori (come topi e ratti), che si possono infettare proprio attraverso le deiezioni dei gatti. Il parassita provoca in loro la perdita di avversione verso questi animali e arrivano addirittura a esserne attratti. Questa particolare attrazione è stata definita come “fatale”; il perché lo avrete già intuito. In genere, dopo aver annusato l’urina di un predatore, per esempio quella di un gatto, ratti e topi manifestano un comportamento antipredatorio innato: scappano via. Invece, dopo essere stati infettati da questo protozoo la loro risposta cambia drasticamente. Si tratta di una vera e propria inversione di motivazione: dall’evitamento del predatore passano al volersi avvicinare a lui. Un po’ come quando si scrive all’ex. A questo punto il gioco è fatto. Ma perché il parassita induce questo comportamento nella preda? Semplice: vuole cambiare ospite. O meglio, Toxoplasma vuole un viaggio omaggio in prima classe verso il predatore, così da chiudere il cerchio. Infatti, quando la preda infetta verrà ingerita dal predatore, Toxoplasma giungerà nell’ospite definitivo e potrà completare il suo ciclo biologico, per poi lasciare le oocisti nelle feci e aspettare che qualche altro ospite intermedio (come un roditore) le ingerisca. Come detto, il caso del topo e del gatto non è l’unico. Toxoplasma gondii raggiunge anche altri ospiti intermedi e definitivi. Non si fa mancare nulla, e di certo non manca a nessuno. Attraverso una raccolta di dati sierologici e comportamentali, un nuovo studio ha evidenziato come anche i lupi infettati (ospiti intermedi del parassita) erano più audaci degli altri e avevano maggiori probabilità di addentrarsi nei territori di un ospite definitivo: il puma. In questo ciclo di Toxoplasma, i lupi condividono il ruolo anche con le iene. Da alcune indagini condotte su questi animali, è emerso che i cuccioli infetti di iena maculata erano spavaldi e si avvicinavano di più ai loro predatori, come i leoni, altri bei gattoni amati dal parassita. Non è difficile immaginare come mai questi cuccioli subissero un maggiore tasso di predazione.

Non sono pienamente chiare le modalità con cui Toxoplasma arrivi a muovere i fili del comportamento dei suoi ospiti, ma una delle ipotesi è che riesca ad agire sui circuiti della dopamina. Quest’ultima è un neurotrasmettitore coinvolto nella regolazione dei comportamenti associati alla ricerca della novità. Si pensa che Toxoplasma, mediante l’incremento dei livelli di dopamina, manipoli l’ospite portandolo a manifestare comportamenti per nulla vantaggiosi, il tutto per completare il suo ciclo biologico. Il che non sorprende, visto che stiamo parlando di un parassita. C’è da dire che anche noi ci abbiamo messo del nostro a renderlo un parassita di successo, fornendogli costante accesso a gatti, roditori e altri mammiferi domestici in qualità di ospiti intermedi, tra i quali ci siamo anche noi.

Sebbene il ribrezzo per le feci sia diffuso nella nostra specie, iniziare a prelevarle, analizzarle e osservare animali mentre defecano è stato un punto di svolta in diversi ambiti dell’etologia. Infatti, ciò ha consentito di esplorare il contributo delle feci nella regolazione del comportamento animale e di ipotizzare nuove particolari funzioni di questo rifiuto metabolico. Una cosa è certa: non guarderete più nello stesso modo i vostri cani e gatti mentre fanno la cacca!

E forse non guarderete con gli stessi occhi nemmeno le feci. Anche quando vi sembreranno fetide e immobili, ora sapete quanto sono utili: possono essere un inebriante e ricercato profumo, un pasto prelibato o una chat archiviata. Insomma, dal letame non nascono solamente i fiori, ma anche interessanti chiacchierate e qualche puzza dall’importanza vitale. E noi che tiriamo lo sciacquone, ingrati!

DANIELE FABBRI

IL DONO DELLA CACCA Prima di andare avanti con questa digressione fecale, ho una domanda molto importante: nel momento in cui state leggendo queste parole, proprio ora… avete fatto la cacca? Spero per voi che siate a posto con la defecatio, perché questo è un libro divertente, e avere l’intestino tappato tappa anche le vostre risate! Poiché, se una pancia è impegnata a dover trattenere la cacca, sarà meno disposta a lasciarsi andare al sobbalzo della risata: una persona che trattiene la cacca da ore, o magari giorni, vive ogni esperienza della vita con un substrato di angoscia e frustrazione dovuto alle scorte di merda che si accumulano nell’organismo, e questo gli rende più difficile rilassarsi e lasciarsi andare alle risate libere. Bisogna espletare i propri bisogni per divertirsi in modo adeguato. “Cacare per ridere!” Se chiamassimo un partito così, prenderemmo l’80% in due settimane. Non ci voterebbero solo gli stitici e i laziali, che non hanno senso dell’umorismo. Se posso darvi un consiglio, fate la cacca mentre leggete questo libro. La goduria è garantita, parlo per esperienza personale. Una volta la pausa cacca era il mio momento preferito per leggere, mi concedevo delle lente, placide, calmissime sedute di lettura ed evacuazione simultanee, tanto entrava nella mia mente quanto usciva dal mio corpo, una così perfetta armonia tra natura e cultura che Van Gogh poteva accompagnare solo. Poi qualcosa nel mio metabolismo è cambiato, le mie cacche sono diventate frettolose e superficiali, durano pochissimo e non lasciano nessuna soddisfazione. La mia cacca è diventata TikTok. Ribadisco: vi consiglio di cacare prima di leggere. Se volete vi aspetto. Dai, posate pure il libro e andate a cacare. Io sto qua. Non mi muovo. Bentornati. Fatta tutta? Ottimo. Vi faccio una domanda: quanto è bello, preciso e azzeccato il termine “prole inetta”? Lo so che è un termine scientifico per indicare i cuccioli di specie altriciali (ho letto davvero il pezzo di Lorenza, che vi credete?), però non è anche la definizione perfetta per descrivere con eleganza quanto goffi e rincoglioniti siano i bambini? “Prole inetta.” Che poesia. Tra l’altro questo spiega perché gli umani socializzino così tanto bene coi cani e coi gatti: perché abbiamo in comune i figli deficienti! Possiamo condividere le nostre esperienze genitoriali con loro! «Eh, mio figlio si lecca i testicoli in pubblico e fa la pipì sul divano. E il suo?» «… miao!» Comunque, ’sto fatto che le gatte lecchino il sederino ai loro cuccioli per farli cacare e poi gliela mangino per pulirli è incredibile, regà. Davvero, questo spiega perfettamente l’arroganza dei gatti! Se uno nel primo mese di vita cresce pensando “Mia mamma mi lecca il buco del culo e mangia la mia cacca” non avrà mai problemi di autostima! Come sarebbe che ti piace mangiare la cacca degli altri?! Per te la cacca è cibo, stupido cane?! Ah, certo, “allocoprofagia”, come no! Certamente un nome migliore rispetto a quello che uso io, ovvero “NONOCHEFAIAAAHBLEAHCHESCHIFOTACCITUA!”. Io davvero sono shockato: tu porti il cane fuori pensando che debba fare i bisogni, e invece lui sta tipo andando a funghi, capito?!

E se non la trova si butta direttamente a cercarla nell’ano degli altri cani, come se io andassi al bar alle 11, non trovassi i saccottini al cioccolato, e chiedessi al pasticciere se può girarsi un attimo! Che poi la vera domanda è: se ti mangi la cacca… dopo cosa cachi? Cacca alla seconda? “Caccacca”? Senza contare che questo fatto che ci si rotolano pure, nella cacca altrui, a me non me la raccontano giusta. Lo fanno per mascherare il proprio odore dai predatori, ma chi ci crede! Quelli lo fanno per ingolosire le femmine, che a loro volta fanno le degustazioni di merda altrui! È una roba sessuale, dai, come quando noi vogliamo provare nuove esperienze e ci spargiamo il corpo nudo di sushi. Se non l’avete mai provato, fatelo. Il sashimi non sarà mai più lo stesso. Non voglio pronunciarmi sulla cosa dei conigli, io ce l’ho avuto un coniglio domestico una volta, e devo dire che non fa nemmeno tutta questa impressione, perché le palline di ciecotrofo non sembrano proprio cacca, sembrano più M&M’s prima della colorazione. Sapete che cosa fa schifo dei conigli? Che mangiano anche la forfora. Davvero. Lo so perché ce l’avevo. Il coniglio. E la forfora. Però tranquilli, ho fatto diversi trattamenti alla cute e adesso non ce l’ho più. Infatti il coniglio è scappato via. Comunque, anche se non guarderò mai più un cane con gli stessi occhi, in generale non mi stupisce affatto che in natura la cacca sia un mezzo naturale per comunicare. Lo ha dimostrato anche Amber Heard ai danni di Johnny Depp. E poi voglio dire, se “cacca = comunicazione”, guardate i social network. E ho detto tutto. E noi umani? Be’, in psicologia si dice che per i bambini la cacca, in realtà, è un dono che fanno alla mamma. Dato che, da neonati, osserviamo che la mamma è tanto contenta quando le consegniamo la nostra cacca, ed è preoccupata quando la consegna è in ritardo, o non arriva proprio, noi “prole inetta” interpretiamo che il nostro pacchettino fumante espresso sia un dono graditissimo dalla nostra genitrice, e lo facciamo noi col nostro corpo, quindi ci sentiamo proprio degli esserini speciali per lei! Certo, a volte bisogna sforzarsi, ma cosa non farebbe il nostro sfintere per il sorriso di una madre! Voi direte, come faccio io a sapere questa cosa? Me l’ha detto una mia amica a una cena. E non perché fosse una psicologa, ma perché quel giorno era il compleanno della madre. … Avete ragione, faccio cene strane. Ma mai come quelle dei cani. Bleah.

RUGGERO ROLLINI

INQUINAMENTO DA NUTRIENTI

Tutte le estati le acque del lago si coloravano di rosso. Finché, un anno, non lo fecero più. Non è facile accettare la scomparsa di un fenomeno così caratteristico, specialmente se sei una gettonata meta turistica del Trentino. Tantissime persone in visita alla Val di Non raggiungevano le sponde del lago di Tovel per vederlo arrossire e scattare una foto ricordo. Nel frattempo, si godevano i meravigliosi paesaggi di quello che oggi chiamiamo Parco Naturale Adamello Brenta, facevano una scorpacciata di canederli e si immergevano nell’affascinante, rispettosa e verace cultura nonesa. L’arrossamento delle acque era talmente sentito dalla popolazione locale da essere entrato a far parte del folklore. La leggenda vuole che il colore rosso fosse un ricordo del sangue versato in una feroce battaglia combattuta tra gli abitanti di Ragoli e quelli di Tuenno, in cui morì anche la principessa di Ragoli, Tresenga. Del resto, siamo in Italia: nemmeno i bacini lacustri sono esentati dal prendere parte alle rivalità campanilistiche. Sta di fatto che nel 1964, nell’estate in cui a Roma, in piazza San Giovanni in Laterano, si tengono i funerali di Palmiro Togliatti, il lago di Tovel si colora di rosso per l’ultima volta. Coincidenze? Sì. Negli anni successivi si cerca di capire quale possa essere stata la causa della cessazione di questo fenomeno. Il 13 marzo 1968 sul quotidiano “Il Giorno” Gino Nicolao scrive un articolo dal titolo Hanno avvelenato il lago Rosso in cui denuncia come nella zona di Tovel si stesse “… costruendo caoticamente e purtroppo si scaricano nel pittoresco lago alpestre un’infinità di rifiuti che ne inquinano le acque compromettendo la vita delle alghe legate a un delicatissimo equilibrio fisico e chimico”. Le alghe? Sì, perché negli anni Sessanta si sapeva già benissimo che l’arrossamento del lago aveva poco a che fare con le sanguinarie battaglie locali. Si sapeva da più di vent’anni che era un’alga a far arrossare il lago. Tanto che nello stesso articolo si legge: “La singolare colorazione vermiglia del lago (a quota 1178), incastonato in una magnifica conca smeraldina dominata dalle torri e dai campanili di roccia delle Dolomiti di Brenta, è dovuta, come è noto, al ‘glenodio sanguigno’, una minutissima alga lunga pochi centesimi di millimetro”. Insomma, lo sapevano tutti. Almeno da quando, alla fine degli anni Trenta, il

Museo tridentino di scienze naturali aveva incaricato il più illustre idrobiologo italiano, Edgardo Baldi (direttore dell’Istituto italiano di idrobiologia di Pallanza), di indagare sull’origine dell’arrossamento. Il professor Baldi, in una serie di campagne condotte dal 1937 al 1941, aveva studiato il lago e aveva identificato chiaramente il responsabile dell’arrossamento: quel glenodio sanguigno di cui parlava l’articolo. Il Glenodinium sanguineum è un’alga unicellulare che, secondo Baldi, si presentava in diverse forme. A seconda delle condizioni poteva passare da una all’altra, e una di queste aveva il caratteristico colore rosso. Chiaramente, negli anni Sessanta è successo qualcosa che ha gravemente compromesso la vita di quest’alga. Sono state proposte tantissime ipotesi: dall’inquinamento al cambiamento climatico globale o locale, dall’uso di detersivi a quello di pesticidi, dalle case di villeggiatura sulle rive del lago alla cattiva gestione delle malghe… C’è da dire che ogni tanto il lago di Tovel ha ridato dei flebili barlumi di arrossamento, ma sono ormai quarant’anni che di rosso non c’è nemmeno l’ombra. Gli anni passano, le teorie si susseguono, ma il vero motivo per cui il lago ha smesso di arrossarsi resta ancora un mistero. Almeno fino al 2001, quando ha preso il via un imponente progetto finanziato dalla Provincia autonoma di Trento intitolato “Studio sul mancato arrossamento del Lago di Tovel” (per gli amici “SALTO”). Tanti ricercatori e ricercatrici con background scientifici differenti hanno unito le forze per fornire un’interpretazione oggettiva dei fattori responsabili del mancato arrossamento delle acque. L’approccio è stato incredibilmente interdisciplinare, andando dall’antropizzazione del paesaggio alla paleolimnologia, dalla geologia all’idrodinamica e alla meteorologia del lago e del suo bacino. Tutto questo per rispondere alla domanda: perché Glenodinium sanguineum non faceva più arrossare il lago? Una prima buona motivazione, per esempio, è che Glenodinium sanguineum non esiste. O meglio, quelle che il buon vecchio prof. Baldi aveva identificato come diverse forme della stessa specie di alga erano proprio specie diverse. Tra queste hanno identificato quella che causava davvero l’arrossamento e l’hanno chiamata Tovellia sanguinea. Si tratta di una minuscola alga unicellulare (un dinoflagellato per i più precisini) che fa parte del fitoplancton del lago di Tovel, e che in determinate condizioni ambientali può “fiorire”. Attenzione: non vuol dire che fa un fiore, ma che inizia a proliferare, accrescendo sempre di più la propria popolazione. Quando Tovellia sanguinea fioriva, conferiva il suo caratteristico colore rosso al lago. Questo è già un tassello importante, ma non basta per spiegare la scomparsa dell’arrossamento. Ora che sappiamo che la responsabile è Tovellia sanguinea dobbiamo capire perché ha smesso di fiorire.

Sappiamo che nel 1964 è avvenuto l’ultimo vero e proprio arrossamento, ma quando si è verificato il primo? Il lago di Tovel si arrossava tutte le estati da sempre, o c’è stato un momento in cui ha iniziato a colorarsi di rosso? Storicamente, la prima menzione di questo curioso fenomeno risale a un libro del 1875 dell’esploratore inglese Douglas William Freshfield dal titolo Italian Alps. Freshfield racconta di un suo viaggio del 1864 nelle zone del lago di Tovel, e cita espressamente il suo arrossamento. Eppure, diversi autori prima di lui hanno parlato del lago senza mai menzionare questo importante particolare. Si può quindi immaginare che attorno alla metà dell’Ottocento sia successo qualcosa che abbia creato le condizioni giuste perché Tovellia sanguinea potesse fiorire. Guarda caso, è stata trovata della documentazione che attesta che nel 1845 dalla malga Flavona, situata a monte del lago, si chiedeva il permesso di deviare un ruscello per pulire la stalla e scaricare i reflui nel torrente Tresenga. Il lago di Tovel ha iniziato così ad arricchirsi di nutrienti, grazie al flusso di escrementi degli animali alpeggiati. Per le alghe si tratta di una prelibatezza: un bel pasto a base di azoto e fosforo è l’ideale per crescere sane e forti. Così, nelle estati calde e siccitose Tovellia sanguinea fioriva, e il suo colore vermiglio tingeva il lago.

Verso la metà degli anni Sessanta sono cambiate due cose nella gestione delle malghe: il tipo di animali alpeggiati (c’era un numero inferiore di vacche da latte e uno maggiore di bestie giovani) e la gestione degli animali stessi (che venivano fatti rientrare molto meno nella stalla). Per questo motivo, le stalle dovevano essere pulite con minor frequenza e si è ridotto il flusso dei reflui verso valle e verso il lago. Rosso di sera, bel tempo si spera. Rosso d’estate, escrementi a palate. ma si potrebbe e dovrebbe fare di meglio. Volendo essere un po’ meno drastici, la storia dell’arrossamento del lago di Tovel racconta come esseri microscopici, nelle giuste condizioni e con il giusto nutrimento, possano influenzare notevolmente l’ecosistema lacustre. Non sempre però il risultato è un meraviglioso e caratteristico arrossamento delle acque. A volte le fioriture algali possono creare dei grossi danni ecosistemici. Mangiarsi un bel quadretto di cioccolato ogni tanto può far bene (alla salute e soprattutto all’umore), ma sappiamo tutti che scofanarci una tavoletta al giorno non è affatto consigliabile. Come succede per noi umani, anche per le alghe il troppo stroppia. Un po’ di buon nutrimento va bene, ma troppo buon nutrimento non va affatto bene. Infatti, esiste un tipo di inquinamento, che prende il nome di “inquinamento da nutrienti”, dovuto proprio all’eccessiva immissione di sostanze nutritive nell’ambiente. Se ne parla spesso anche in termini di “eutrofizzazione”, che deriva dal greco eutrophia (eu = buono e trophè = nutrimento). La parola sembra indicare una cosa positiva, invece in realtà non lo è. L’eccessivo apporto

di azoto e fosforo può causare forti fioriture algali e la crescita incontrollata delle popolazioni di alghe si ripercuote su tutto l’ecosistema acquatico, compromettendone i delicati equilibri. L’eutrofizzazione, infatti, può portare a una riduzione dell’ossigeno sciolto in acqua. Ma com’è possibile? Le alghe fanno la fotosintesi: dovrebbero produrre ossigeno, non rimuoverlo. È vero, le alghe sulla superficie dell’acqua fanno la fotosintesi, e a livello locale la concentrazione di ossigeno può anche aumentare. Allo stesso tempo, però, impediscono alla luce di penetrare in profondità, riducendo la fotosintesi di alcune piante acquatiche. Inoltre, di notte le alghe non fanno la fotosintesi e consumano ossigeno. Una volta morte, poi, devono essere decomposte e la loro decomposizione consuma ossigeno. Nel complesso, quindi, l’eutrofizzazione può causare localmente e temporaneamente un aumento dei livelli di ossigeno disciolto, ma sul lungo periodo porta a un impoverimento dell’ossigeno lungo tutta la colonna d’acqua. Queste zone ipossiche (con poco ossigeno) e anossiche (prive di ossigeno) che si vengono a creare non permettono la vita di molti organismi acquatici, danneggiando enormemente tutto l’ambiente. Riassuntone: il troppo nutrimento porta a fioriture algali incontrollate, che a loro volta causano la deossigenazione delle acque, e questo non va bene. Ora non ci resta che capire da dove arrivino questi nutrienti in eccesso. Ci sono tante fonti diverse, alcune puntiformi e più facili da eliminare, mentre altre diffuse e più difficili da controllare. Per esempio, l’azoto può provenire dall’aria, sotto forma di NO x, che indica la somma di monossido di azoto (NO) e diossido di azoto (NO 2). Questi inquinanti atmosferici si formano ogni volta che bruciamo qualcosa in presenza di azoto e ossigeno. Guarda caso, l’aria che respiriamo è composta principalmente di azoto e ossigeno. Quindi ogni volta che bruciamo qualcosa in presenza di aria stiamo generando NO x. In Europa la fonte principale di questi inquinanti sono le automobili a combustione interna. Un’altra fonte di nutrienti è l’acquacoltura, cioè l’allevamento di organismi acquatici, come pesci, molluschi e crostacei. Il motivo è semplice, ci sono molti animali, molto ben nutriti, in uno spazio piuttosto limitato: i reflui sono ricchissimi di azoto e fosforo. Nel nostro continente, però, l’inquinamento da nutrienti è dovuto soprattutto all’agricoltura. L’applicazione di fertilizzanti minerali e letame sui suoli, così come l’allevamento e i suoi reflui, sono tra i principali artefici. Infatti, solo il 60% dell’azoto usato nei terreni agricoli europei viene effettivamente usato dalle piante. Il resto è rilasciato in acqua, tipicamente come nitrato NO 3 –, o in aria, come NO x o NH 3. C’è da dire che negli anni la situazione è molto migliorata, specialmente con un uso più responsabile e mirato dei fertilizzanti, e, dopo un picco negli anni Ottanta, gli input di nutrienti dall’agricoltura sono calati.

Una ricerca pubblicata a febbraio del 2023 sulla rivista “Science of the Total Environment” ha quantificato gli input di nutrienti nelle acque europee dal 1990 al 2018, confermando questo fenomeno, nonostante un’inversione di tendenza nel 2008-2010. Purtroppo, però, in molti casi si è ancora al di sopra di una soglia ecologicamente accettabile. I maggiori surplus si trovano in zone ricche di bestiame, come la Germania nord-occidentale, il Belgio, il Lussemburgo, la Bretagna e, indovinate un po’, la Pianura padana in Italia. Non temete, ci sono altre buone notizie. Dal 2005 anche le emissioni di NO x e NH 3 sono calate gradualmente. Il miglioramento negli impianti di depurazione e la messa al bando in Europa dei fosfati dai detergenti del 2013 hanno ulteriormente ridotto il problema. Dal 2016 al 2019 il 36% delle stazioni di monitoraggio dell’Unione europea mostrava eutrofizzazione, e un ulteriore 19% aveva livelli di nitrati che potenzialmente potevano portare all’eutrofizzazione. L’inquinamento da nutrienti colpisce il 26% delle acque superficiali e il 17% delle acque sotterranee. Nel 2019 è stato pubblicato un report dall’Agenzia europea dell’ambiente che ha valutato lo stato di eutrofizzazione di 2.400.000 km 2 di mari europei, concentrandosi soprattutto sul mar Baltico, il mare del Nord e il mare Celtico. Di questi, 563.000 km 2 sono stati identificati come aree problematiche. Parliamo del 23% della superficie marina analizzata.

Diciamo così: la tendenza è positiva, ma si potrebbe e dovrebbe fare di meglio. Quando parliamo di inquinamento, raramente la prima cosa che ci salta in testa è il letame di una stalla che fa sopraccrescere le alghe di un lago, ma anche quello è inquinamento. C’è ancora molto da fare per affrontare seriamente l’inquinamento da nutrienti. Le leggi che provano a ridurre l’inquinamento atmosferico da ammoniaca e ossidi di azoto aiuteranno molto. Così come l’imposizione di rigidi standard per l’acquacoltura e l’agricoltura. Quest’ultima dovrà essere sempre più “di precisione”, utilizzando la giusta quantità di fertilizzanti, nel giusto modo e nel giusto tempo per ridurre al minimo il surplus di azoto e fosforo. Gli equilibri che regolano il nostro mondo sono spesso delicati e non facili da identificare. A volte servono decenni per scoprirli, riconoscerli e interpretarli. Oggi uso troppo fertilizzante per le mie piante e domani, in mezzo all’oceano, c’è una zona senza ossigeno. Oggi un pastore lava la stalla del suo alpeggio e domani c’è un escursionista in Val di Non che si riposa sulle sponde del lago, ammirandone le acque rosse.

Riferimenti bibliografici Borghi, B., Borsato, A., Cantonati, M. et al. (a cura di), Studio sul mancato arrossamento del Lago di Tovel, in “Studi Trentini di Scienze Naturali - Acta Biologica”, 2004, 81, Supplemento 2. European Environment Agency, Nutrient Enrichment and Eutrophication in Europe’s Seas. Moving Towards a Healthy Marine Environment, 2019, 14. —, Cross-Cutting Story 4. Nutrients, 2022. Manuel, J., Nutrient pollution. A persistent threat to waterways, in “Environmental Health Perspectives”, 2014, 122(11). National Ocean Service, What is nutrient pollution?, https://oceanservice.noaa.gov/facts/nutpollution.html. Nicolao, G., Hanno avvelenato il lago rosso, in “Il Giorno”, 13 marzo 1968. Vigiak, O., Udías, A., Grizzetti, B. et al., Recent regional changes in nutrient fluxes of European surface waters, in “Science of The Total Environment”, 2023, 858(3).

DANIELE TINTI

MAL D’AFRICA (O DI QUELLA VOLTA IN CUI ANDARE IN BAGNO MI HA APERTO GLI OCCHI SULL’OCCIDENTE) Sono cresciuto a L’Aquila, ridente capoluogo abruzzese dove ho vissuto da quando avevo 2 anni fino alla maggiore età. Nell’aprile 2009 L’Aquila è stata colpita da un terremoto che l’ha praticamente distrutta. Sulla tragedia che si è abbattuta sulla città si è detto e scritto tantissimo, e non credo di essere la persona giusta per aggiungere riflessioni profonde. Non voglio neanche intristire nessuno ritirando fuori un momento così brutto, ma mi preme delineare la situazione in cui mi trovavo in quel periodo. La notte del 5 aprile sono andato a dormire da studente dell’ultimo anno di liceo, con un messaggio inviato a un paio di compagni di classe che recitava: “Domani non entriamo, c’è il compito su Seneca. Temporeggiamo fino a Pasqua e poi si vedrà”. Il 6 aprile mi sono svegliato che ero una persona diversa. Non ero più uno studente; nella mia scuola, effettivamente, non ci sarei mai più entrato, ero un terremotato. Non avevo più una casa, una città, le mie abitudini, le mie relazioni quotidiane con gli amici. Ero disperso nella mia nuova vita. Il problema di un trauma come il terremoto è che questa condizione è uguale, se non peggiore, per tutte le persone intorno a te. Non ci sono genitori, docenti, amici o parenti sani a cui potersi rivolgere per cercare stabilità; sono tutti confusi, dispersi, disperati e traballanti. Nei mesi successivi al trauma si muovono i primi passi in questa nuova vita. Eravamo persone diverse e non lo sapevamo. Le decisioni che si prendono in un periodo come questo sono figlie della condizione di confusione, incertezza e instabilità. È in questo stato che decisi di andare a fare volontariato in Ghana. La motivazione resta ancora oggi motivo di dibattito interiore. Il liceo era finito, tutti i miei coetanei cominciavano l’università e io non sapevo cosa fare. Un pomeriggio feci una ricerca approfondita su internet digitando “volontariato Africa”. Trovai una piccola agenzia che si occupava di questo; il criterio con cui la scelsi fu che dicevano di dare il 100% dei soldi ricevuti alle persone che mi avrebbero accolto nel paese ospitante, che sarebbe stato il Ghana, di cui non sapevo assolutamente nulla. Ho informato i miei genitori a cose fatte e sono partito a fare white saviorism. A mia discolpa, nel 2009 il termine ancora non esisteva, o comunque non era arrivato fino a me. Vi riporto la definizione presa da Eduxo: “L’espressione ‘white savior’ (dall’inglese: ‘salvatore bianco’) si riferisce a una persona bianca che fornisce aiuto a persone BIPOC (Black, Indigenous and People of Colour), spesso senza neanche domandarsi se questo aiuto sia necessario o indispensabile, nel contesto di aiuti umanitari o missionari”. Pur non conoscendo il termine, mi è stato immediatamente chiaro, una volta arrivato, che non avevo nessuna competenza per aiutare il villaggio. Mi prendo la libertà di usare il termine villaggio perché rende al meglio la condizione del posto in cui sono stato ospitato. Le case erano in muratura, senza infissi e con i tetti in lamiera. L’energia elettrica c’era, ma saltava varie volte al giorno. Non c’era un sistema fognario, non c’era acqua corrente e l’acqua del pozzo non era potabile.

Scegliendo a caso mi ero trovato un villaggio africano in piena regola, come quelli che si fanno vedere nelle foto lungo le vie trafficate delle città occidentali per convincere le persone a donare soldi, ma invece di aiutarli mi sarei fatto accudire da loro. Nella confusione della prima settimana mi hanno messo a insegnare nella scuola elementare del villaggio, dove hanno letteralmente istituito l’ora di educazione fisica solo per farmi fare qualcosa e giustificare la mia presenza lì. Io, in tutto questo, nei primi giorni mi sentivo utile. Andavo in giro ebbro della mia nobiltà, della mia bontà infinita che insegnava a questi bambini ghanesi la lezione di cui più avevano bisogno: come tenersi in forma. La diarrea è cominciata dopo circa otto giorni. Mi ero illuso di avere un apparato digerente abbastanza forte da poter resistere allo shock di quel cambio di dieta così radicale, mi sbagliavo. Nella vita siamo tutti stati male di stomaco. Abbiamo tutti mangiato la cosa sbagliata. Le 48 ore successive sono sempre brutte avventure, costellate di momenti di panico, rabbia e rassegnazione. Non è la stessa cosa. Quando si va a vivere per un po’ di mesi in un paese così gastronomicamente distante dal proprio, l’organismo si deve abituare a digerire cose completamente nuove e, a volte, poco gradite. Il tipo di stimolo che si percepisce quando si comincia a stare male, una fitta all’addome, si accompagna a una sorta di timer immaginario. Dalle primissime avvisaglie dell’imminente catastrofe parte un countdown di due minuti. Centoventi implacabili secondi, terminati i quali il corpo espelle senza esitazione tutto quello che non è strettamente necessario alla sopravvivenza. In questi centoventi secondi sarà meglio che tu abbia trovato un bagno. E qui è necessario parlare brevemente di un’altra questione. In un posto senza rete fognaria né acqua corrente, i bagni non ci sono. Gli abitanti del posto hanno i loro sistemi collaudati ma, sapendo quanto noi volontari possiamo essere fragili e schizzinosi, viene messa a nostra disposizione una toilette al centro del villaggio. Immaginate uno spazio poco più grande di una cabina telefonica fatta in legno, con al centro un buco. Il buco cade dritto in una fossa profonda un po’ di metri, e questo è quanto. Sopra al buco è appoggiata, credo più per presa in giro che altro, una tavoletta che definirei radioattiva. A guardia del bagno diversi ragni delle dimensioni della mano di un bambino di 8 anni, ragni devo dire innocui e praticamente immobili. Nella vita ci si abitua a tutto, anche a usare questo bagno. Nella settimana in cui sono stato male ho imparato a tracciarci intorno un diametro immaginario, oltre il quale non mi sarei potuto avventurare e il cui raggio fosse percorribile in meno dei fatidici due minuti. Pensavo di aver trovato il mio equilibrio, poi lo stimolo è arrivato nella notte. Non è bello svegliarsi da un sonno profondo, nel buio totale, con un timer in testa che ti incalza 120… 119… 118…, e una fitta allo stomaco che ti costringe a muoverti piegato in due. Ancor meno bello è doversi vestire in fretta e furia, prendere una torcia e avventurarsi di notte in un villaggio senza illuminazione, cercando di scacciare l’immagine della persona che ti ospita quando ti ha detto: «Don’t worry, the big scorpions only go out at night». In queste condizioni sono arrivato alla cabina telefonica, l’ho aperta frettolosamente facendo sobbalzare i ragni che riposavano e mi sono accucciato sopra l’ormai familiare buco. Con le ginocchia piegate che tremavano per lo sforzo e i sudori freddi, ho imparato una cosa nuova. Durante la notte dalla fossa biologica escono gli scarafaggi. Delle cucarachas lunghe circa sette centimetri si sono arrampicate fuori dal buco dentro cui stavo evacuando e hanno cominciato a passeggiarmi sui piedi e sulle gambe.

Ed è stato solo in quel momento, col corpo che vibrava, con le lacrime agli occhi e con gli scarafaggi sporchi che mi perlustravano, lontano da casa o da quel che ne restava, che ho pensato per la prima volta: “Ma io cosa cazzo ci faccio qui?”.

ALESSANDRO MUSTAZZOLU

SESSO DI GRUPPO, DEFECAZIONI TARDIGRADE E ALTERNATIVE A TINDER

Quella che sto per raccontarvi è la storia di due grandi animali, entrambi adulti, entrambi umani, e di un piccolo, piccolissimo tardigrado. Come dite? Non sapete cosa sia un tardigrado? Tranquilli, sono qui apposta, ve lo presento io, anche se probabilmente ne avrete incontrati un’infinità nella vostra esistenza. Purtroppo all’occhio umano non è permesso di ammirare il microscopico, e quindi avete fatto quello che non siete mai riusciti a fare con il vostro o la vostra ex: li avete ignorati. I tardigradi sono micrometazoi (significa che sono piccoli animali formati da più cellule; l’ho scritto solo per darmi un tono, non serviva minimamente farlo), grandi 250-500 micrometri, e molto vicini agli artropodi per le loro caratteristiche biologiche. Si stimano più di un migliaio di specie, distribuite in ogni ecosistema acquatico, permanente o temporaneo. Questo significa che è possibile trovare tardigradi praticamente ovunque, dagli ambienti marini e d’acqua dolce a quelli terrestri, dove possono colonizzare muschi, licheni, suolo e foglie. E fin qui la descrizione appare simile a quella di tantissimi animali, se non fosse che loro nascondono un segreto: sono quasi invulnerabili.

I tardigradi furono chiamati così da Lazzaro Spallanzani, il biologo che li scoprì, e che probabilmente fu colpito dalla loro camminata lenta, e non solo da quella, come vedremo più tardi. Sono soprannominati anche water bears, ovvero orsetti d’acqua, e il perché è facilmente intuibile. Insomma, guardateli! Hanno otto zampette piene di artigli, un musetto simpaticissimo che sembra un imbuto e un corpo pieno di rotoli come l’omino Marshmallow. Ma non prendeteli sottogamba: sono terribili predatori. Per il micromondo, loro sono l’equivalente di una tigre che cavalca un orso polare armato di bazooka.

La loro skill per sfuggire alle amarezze della vita appare subito chiara non appena le condizioni ambientali diventano sfavorevoli. I tardigradi sono infatti in grado di entrare in una fase di “animazione sospesa” chiamata criptobiosi, in cui il loro metabolismo è messo in pausa. In questo modo il loro stato vitale risulta temporaneamente rallentato, e viene ripristinato solo al ritorno di condizioni favorevoli. Facciamo un esempio pratico di una situazione classica che sta sulle palle ai tardigradi: l’assenza d’acqua. Dovete sapere che i tardigradi terrestri sono attivi solo quando sono coperti da un sottile film d’acqua; quindi, che succede quando questa non è più disponibile? Ecco, in tali casi rallentano il proprio metabolismo, andando in criptobiosi. Qualcuno è addirittura riuscito a disidratarli e a riprenderli mentre lo faceva, e li ha lasciati così fin quando non li ha bagnati nuovamente con una gocciolina d’acqua. A quel punto è stato sufficiente aspettare un poco prima di vederli riacquistare una forma pasciuta e ricominciare a muoversi.

La criptobiosi può essere classificata in diverse strategie: anidrobiosi, criobiosi, anossibiosi e osmobiosi, a seconda che la causa del “disagio” sia stata il disseccamento, il raffreddamento, la mancanza di ossigeno o i livelli estremamente elevati di soluti nell’ambiente circostante. Inoltre, i tardigradi sono in grado di resistere a diverse condizioni chimico-fisiche estreme, come temperature inimmaginabili (da –272 °C fino a oltre 100 °C), altissima pressione (7,5 GPA), vuoto, esposizioni a sostanze tossiche e persino livelli massimi di radiazioni gamma, raggi X, radiazioni ionizzanti e ultraviolette. Insomma, una resistenza che sfida la nostra comprensione della fisiologia cellulare compatibile con la vita.

Durante la criptobiosi il corpo dei tardigradi cambia, si essicca, diventa tipo un sasso, un golem con pettorali di adamantio. Questo stato viene definito “tun”, e il loro metabolismo arriva a rallentare fino allo 0,01% del normale. Insomma, quando non gli vanno bene le cose, ’ste bestie fanno come me ogni volta che vengo costretto a sedermi a tavola con gente che mi sta palesemente sulle palle: si chiudono in se stessi, fissano il vuoto e si risvegliano solo quando il peggio è passato. E pensate che possono sopravvivere nello stato tun per anni, addirittura decenni, finché le condizioni ambientali non migliorano. Per esempio, sono stati risvegliati tardigradi ritrovati nel ghiaccio dopo oltre trent’anni. La prima cosa che hanno detto sembra sia stata: «C’è ancora il Festival di Sanremo?». Inoltre, dato che alcuni ricercatori sono molto curiosi (o non hanno un cazzo da fare), hanno effettuato studi in cui i tardigradi sono stati testati in condizioni al limite del sadismo: messi nel vuoto per otto giorni; tenuti nell’elio per tre giorni; esposti per diverse ore a una temperatura di –272 °C; lanciati nudi nello spazio; caricati in un’arma da fuoco e sparati contro un muro; bolliti vivi. Nella maggior parte dei casi, a eccezione di giustificabili bestemmie, sono sopravvissuti senza problemi. Come avrete capito, la comunità scientifica si è molto spesa a studiarli, conducendo esperimenti difficili e dispendiosi che hanno portato a risultati talvolta epici, assurdi, ma comunque utili per l’umanità. Pensate a quale importanza possa avere analizzare e comprendere le proteine e i meccanismi che proteggono le loro cellule da simili livelli di stress. Per esempio, recentemente dei ricercatori hanno notato che una specie di tardigrado era in grado di resistere all’esposizione prolungata ai raggi ultravioletti (UV), e se ne sono accorti perché, andando in pausa pranzo, al loro ritorno hanno trovato le provette che emettevano strani

bagliori blu. Hanno quindi pensato di provare a isolare e passare ad altre specie la molecola in grado di conferire protezione dai raggi UV, e indovinate? Ci sono riusciti (se pur per poco). Pensate che figata se un giorno potessimo godere anche noi di una protezione del genere. Tutti in spiaggia con crema tardigrada! Certo, dopo aver spento la luce per consumare con il tipo o la tipa appena rimorchiati in discoteca potreste ritrovarvi abbracciati a una specie di lampione. Ma tutto non si può avere, raga, accontentiamoci. Quindi, nonostante le tante cose che già si conoscono dei tardigradi, ogni volta che vengono studiati nei laboratori, questi paffuti e terrificanti cosetti lasciano i ricercatori nelle stesse condizioni in cui sono rimasti diversi di noi quando, sotto le docce degli spogliatoi, si sono confrontati con le doti altrui risultandone in difetto: sbigottiti. Se i tardigradi di norma si fanno i cazzi loro, predando, mangiando, scopando e cagando, alcuni esemplari di esseri umani (che probabilmente fanno poco di almeno due di queste cose) amano invece osservare questi piccoli orsetti d’acqua mentre, indovinate un po’, predano, mangiano, scopano e cagano. Potremmo dire che per alcuni è un vero e proprio passatempo, e tra questi mi ci metto anch’io.

Spiare il micromondo. Ma perché lo facciamo? Be’, vi risponderei: «Ci avete mai provato?». Ci sono cose che ci risultano invisibili a occhio nudo. Un microscopio può essere la porta per un intero nuovo universo.

Sapete quanto è grande un micrometro? Equivale a un milionesimo di un metro o, se preferite, a 0,001 millimetri. Quindi un tardigrado, per esempio, che ne misura dai 250 ai 500, può essere osservato esclusivamente tramite l’ausilio di un microscopio. Immaginate che proprio nel momento in cui voi state leggendo queste righe ci sono parecchie persone nel mondo che stanno osservando qualche microrganismo con questo strumento. Hanno pochissimi amici, forse, ma si dilettano comunque. Alcuni di loro lo fanno spronati dal nobile scopo della ricerca, mentre altri, come il sottoscritto, per il semplice gusto di farsi i microcazzi dei microabitanti del micromondo. Scusate, ho divagato ancora, e se continuo così ’sta benedetta storia non riesco a raccontarvela.

Il nostro racconto ha origine negli occhi di James Weiss, una specie di celebrità per tutti gli amanti del micromondo. Questo ragazzo è un appassionato di microscopia, e ogni giorno trascorre molte ore a esaminare campioni provenienti da stagni, laghi, fiumi e mari, immortalando le proprie osservazioni in fantastici video che pubblica sui propri canali social. La cura per i dettagli delle sue riprese, la risoluzione e il modo in cui riesce a esaltare ogni suo microincontro, talvolta solleticando le emozioni con una scelta oculata delle musiche, hanno un non so che di cinematografico. È come ammirare un Van Gogh ripreso da Nolan. In una di quelle sere in cui il telefono non squilla e le uniche notifiche sono quelle della chat del matrimonio di tuo cugino a cui non andrai perché ti sta sul cazzo, James, stanco del nostro banale macromondo, decide di dedicarsi all’esplorazione di quell’universo invisibile, ben più interessante, in cui trova conforto. Il soggetto delle sue osservazioni: una femmina di tardigrado, che nella sua affascinante bruttezza aveva deciso di regalargli nuove emozioni. James è lì, chino sul suo microscopio, mentre la mano sinistra muove la manopola della messa a fuoco cercando di delineare il più possibile i lineamenti di quella tardigrada che porta con sé uova non fecondate, quando a un certo punto un altro esemplare le si avvicina con fare molesto. È un maschio. In maniera piuttosto brutale cerca di possederla. A questo punto la serata di James prende una piega inaspettata. Da bravo guardone controlla che la videocamera stia registrando. Non può che ringraziare il cielo per questo fortunato avvenimento. Avete idea di quanto difficile sia assistere a un simile corteggiamento? Quando gli dei della microscopia decidono che è il tuo momento, tu non puoi che goderti quella scena e brillare della sua luce riflessa. Però il confine tra l’incredibile e l’“Oh mio Dio” non è mai stato ben delineato. James osserva la femmina alle prese con questo maschio e intanto vede avvicinarsene un secondo. In breve, quella che pareva una coppia tardigrada convenzionale diventa un amore ben più audace e interessante. Per trenta minuti James ha registrato un threesome tra tardigradi. E non so davvero cosa dire, se non che provo una malsana invidia nei suoi confronti.

L’invidia del microscopista fortunato, s’intende. Ma non eravamo qua per parlare di merda? “Tutto questo che c’azzecca?” vi starete chiedendo. Be’, mentre James era lì a farsi selfie dietro lo schermo della videocamera, puntata sull’oculare del microscopio che riprendeva ’sto microbordello, succede l’imprevedibile, una di quelle cose che rendono indimenticabile un momento che già di per sé aveva tutte le carte in regola per far avere polluzioni notturne al peggiore dei ricercatori sull’argomento. Infatti, mentre tutto nella tripletta sembrava aver raggiunto il perfetto equilibrio, la femmina di tardigrado inizia a defecare. Non giudicate e non fate i moralisti; al massimo prendete spunto dal micromondo, che a mentalità aperta ci caga in testa. Lasciatevi andare. Magari non troppo. Il fatto è che le feci in natura hanno un sacco di scopi, e uno di questi è la funzione di richiamo. Molto più pratico di un match su Tinder, se ci pensate. Una femmina ponza e tu sei attratto da quell’odore. Il messaggio è chiaro, niente fraintendimenti. Potrebbe essere la volta buona che smettiamo di usare il cellulare per ’ste cose e ci mettiamo a defecare sulle pareti. Evidentemente la tardigrada era insaziabile: non contenta dell’attenzione dei due maschietti, ne voleva ancora. Oppure era solo un momento per coronare la serata? La famosa ciliegina marrone sulla torta? Mo’ vai a capire il perché di ’sta cosa. Tuttora i ricercatori ne sanno molto poco della riproduzione di questi piccoli animali. Al momento, l’ipotesi più probabile dal punto di vista scientifico è che quella tardigrada volesse divertirsi. Ancora di più! Non abbiamo al momento dati a sufficienza per suffragare tale ipotesi, ma sono sicuro che James prima o poi ce li fornirà. Il fatto è che le feci in natura hanno un sacco di scopi, e uno di questi è la funzione di richiamo. Nonostante le loro dimensioni ridotte, i tardigradi riescono a produrre feci pari a un terzo delle proprie dimensioni. E sapete perché sappiamo questo? Forse grazie ad accurati esperimenti scientifici? No, non direi. Ovviamente il merito è di un’altra microguardona che, esattamente come James, si diletta a spiare i nostri amici. Stiamo parlando di Tessa Montague dell’Università di Harvard, che ha goduto di una fama inaspettata grazie a un video in cui ha ripreso col suo microscopio una grande massa scura al centro di un tardigrado. Alla fine, gli orsetti d’acqua appaiono trasparenti alle nostre lenti, quindi è ben possibile studiarne tanto gli organi interni quanto… le masse scure. Infatti, inizialmente Tessa ha pensato quello che avremmo pensato tutti, ovvero che quella struttura nera fosse un grosso organo, un apparato anatomico deputato a qualche scopo indispensabile. E invece no. Dopo aver subito per qualche secondo delle contrazioni abbastanza eloquenti, la massa scura ha iniziato a muoversi all’interno del tardigrado verso la porta d’uscita. Immaginatevi ora la faccia di Tessa mentre questo succedeva, e immaginatevi il suo stupore nell’esatto istante in cui ha realizzato che l’intera massa era stata espulsa. Solo a quel punto la nostra microscopista ha intuito che si trattasse di uno stronzone.

Dal nostro punto di vista era micromerda, ma considerando da dove era uscita era un obelisco. Il video è stato catturato utilizzando la microscopia a contrasto di fase, quindi è fondamentalmente in bianco e nero, altrimenti avremmo visto il reale colore della cacca tardigrada, che è di un verde brillante per via della loro dieta a base di licheni. Questa nostra passione al limite della fissazione verso il micromondo farà ridere molti di voi, ma l’universo della microscopia e la sua storia hanno stimolato per secoli il progresso scientifico, da ben prima che se ne intuisse il potenziale. D’altronde, l’inventore del microscopio, Anton van Leeuwenhoek, non era certo un professore universitario o uno stimato ricercatore, bensì un commerciante di stoffe.

Sesso e merda a parte, i tardigradi sono sempre stati al centro di conversazioni interessanti. Per esempio, iconico è l’episodio del 1776 in cui Voltaire ricevette, immagino con non poco stupore, una lettera da nientepopodimeno che Lazzaro Spallanzani, in cui gli scriveva: “Ora io chieggo a Lei, come va in questo caso la faccenda dell’anima? Morendo essi, cosa accade alla loro anima? Per tutto il tempo che questi animali restan morti, dove va, o dove si trova ella? Crederem noi che a ogni morte, ella sen parta da quei corpi e che a ogni risurrezione ella torni ad informarli? E se resta negli animali, anche quando son morti, cosa fa quivi essa allora, qual è il suo agire, qual è il suo vivere?”. Insomma, Spallanzani aveva notato la criptobiosi dei tardigradi, credendo però che quel rinsecchimento e la relativa mancanza di movimento significasse che erano morti. Il problema è che quelli morti non erano. Infatti, li aveva visti risvegliarsi e camminare come quell’altro Lazzaro, non meno famoso. E quindi si chiedeva: come la mettiamo con il concetto di anima? Dove va la loro anima quando muoiono? E come ritorna nel momento della risurrezione? D’altronde, Lazzaro Spallanzani era un uomo di Chiesa, bisogna capirlo. Ma ancora più eclatante è che dal nulla aveva deciso di rompere i maroni a Voltaire sull’argomento, il quale rispose educatamente alla lettera con un: “’A fraté, e lo chiedi a me? Sei tu er prete!”. Alla fine, probabilmente era così che Lazzaro Spallanzani svoltava le serate a cena con gli amici: facendosi seghe mentali su dove andasse a finire provvisoriamente l’anima di questi esserini fino alla loro resurrezione. Pensa se si fosse fatto una canna. Magari immaginava una specie di parcheggio per le anime dei tardigradi, o forse un cloud.

Insomma, ’sti esserini hanno fatto e faranno parlare sempre di sé, a prescindere che si riproducano o che defechino. Figurati se lo fanno contemporaneamente. Una cosa è sicura: sono passati secoli dalla loro scoperta, ma continuano ad affascinarci come il primo giorno. Un po’ come il vero amore. Forse è per questo che si rimane ancora a bocca aperta ogni volta che si riesce a osservarne uno. Loro, d’altro canto, pare che conoscano bene il fascino che sono in grado di emanare oltre l’oculare, regalandoci ogni volta gioie immense pur facendo cose semplicissime, gesti umili e concreti: risorgere, copulare in maniera estrema e cagare come dei tori. Riferimenti bibliografici Arakawa, K., Examples of extreme survival: Tardigrade genomics and molecular anhydrobiology, in “Annual Review of Animal Biosciences”, 2022, 10, pp. 17-37. Boothby, T.C., Tapia, H., Brozena, A.H. et al., Tardigrades use intrinsically disordered proteins to survive desiccation, in “Molecular Cell”, 2017, 65(6), pp. 975-984. Mazzarello, P., L’intrigo Spallanzani, Bollati Boringhieri, Torino 2021. Møbjerg, N., Neves, R.C., New insights into survival strategies of tardigrades, in “Comparative Biochemistry and Physiology Part A: Molecular & Integrative Physiology”, 2021, 254. Nelson, D.R., Current status of the tardigrada: Evolution and ecology, in “Integrative and Comparative Biology”, 2002, 42(3), pp. 652-659. Poprawa, I., Janelt, K., Reproduction, gonad structure, and oogenesis in tardigrades, in “Results and Problems in Cell Differentiation”, 2019, 68, pp. 495513. Suma, H.R., Prakash, S., Eswarappa, S.M., Naturally occurring fluorescence protects the eutardigrade Paramacrobiotus sp. from ultraviolet radiation, in “Biology Letters”, 2020, 16(10), pp. 1-6. Traspas, A., Burchell, M.J., Tardigrade survival limits in high-speed impacts. Implications for panspermia and collection of samples from plumes emitted by ice worlds, in “Astrobiology”, 2021, 21(7), pp. 845-852. Weiss, J., The Hidden Beauty of the Microscopic World: What the Tiniest Forms of Life can Tells us about Existence and our Place in the Universe, Watkins Publishing, Londra 2021.

VELIA LALLI

PORTA FORTUNA! L’altro giorno stavo facendo la messa in piega da sola, dato che il mio parrucchiere riceve solo su appuntamento, e solo se l’appuntamento è preso con largo anticipo. Il che è piuttosto indisponente, considerando che perfino il papa riceve ogni mercoledì. La cosa più difficile di questa operazione tricologica è domare la “vertigine” che ho sulla nuca. Sono letteralmente ossessionata da quella vertigine, a causa di un altro parrucchiere… Quello che mi pettinava agli studi Rai, quando mi dilettavo a fare qualche trasmissione televisiva. Un giorno, mostrando grande sensibilità, mi disse in napoletano: «T’agg’ sistemare ’sta vertigine che tieni ecc arret’, che in tv con le luci sembri pelata!». Così. Davanti a tutti. Immaginate il mio imbarazzo! Per fortuna, però, ero alla presenza di un professionista, che non faceva mistero delle sue abilità, tanto da affermare: «T’agg’ trovato la soluzione», mentre pucciava un pennellone in un fard molto scuro e poi mi picchiettava la nuca. «Tu devi stare tranquilla, questo funziona! Lo facevo a Pippo Baudo!» Da questa esperienza discende il pesante carico emotivo che ha, per me, una pratica neutra come la messa in piega. Insomma, quando mi pettino uso uno specchio a mano per monitorare la situazione posteriore, con un gioco di riflessi in cui vedo nello specchio piccolo il riflesso della mia nuca, riflessa a sua volta nello specchio grande. Un incastro di prospettive che manco in un quadro di Escher. L’altro giorno, improvvisamente, lo specchio che avevo in mano mi è scivolato, è caduto e si è rotto. E mi sembra di sentirvi, tutti in coro, in un latrato di dolore: «Sono sette anni di sfortuna». Dunque. In primo luogo, sono galileiana. Ovvero NON credo nella scienza (la scienza non è una fede), ma nella mia vita, quando possibile, procedo con il metodo scientifico: evidenze sperimentali, logica, dati, statistica. In secondo luogo, supponendo per assurdo che rompere lo specchio porti sfiga, posso affermare con una certa sicumera che gli effetti di tale sciagura siano annullati da un’altra circostanza. Ovvero che ho pestato la merda talmente tante volte in vita mia che siamo andati pari. A meno che il ripetersi costante e incessante del fenomeno (il pestaggio della merda) non sia da attribuirsi allo specchio che sfasciai sette anni fa. Ma la dimostrazione di una tale tesi, capite bene, porterebbe via del tempo prezioso. Purtroppo, proprio la mancanza di tempo mi ha impedito, nel corso degli anni, di portare a compimento un lavoro importante a cui avevo dato principio: la stesura di un trattatello intitolato Mille e uno modi di pestare la merda. Opera che avrebbe sicuramente brillato nel vasto panorama di opere letterarie autoprodotte, nonostante già di suo, il suddetto panorama, di merda ne annoveri a secchiate. Ero determinata a scriverne alcune pagine in un giorno felice, un soleggiato giorno di ottobre, il giorno in cui avevo ritirato la mia nuova macchinetta. La mia piccola, simpatica utilitaria. Dopo anni di scooter, finalmente avrei messo al riparo le articolazioni dalle intemperie, finalmente il casco non avrebbe più inciso potentemente sulla vertigine, finalmente avevo il mio posto nel mondo degli adulti. Ovvero, bloccata nel traffico. Con la voce squillante dei bambini eccitati, quasi cinguettando, chiamai i miei genitori: «L’ho ritirata, vengo a farvela vedere!». E così feci. Parcheggiai a un centinaio di metri dal portone del nido genitoriale, loro

mi vennero incontro festosi, grati che non avrei più avuto scuse per non accompagnarli alle visite mediche. Festeggiammo. Poi, dal momento che quel giorno non erano previste analisi del sangue, misi in moto il piccolo gioiellino e mi diressi verso casa. E fu solo dopo pochi metri che venni travolta da un intenso sentore sulfureo. Quell’odore acre che si avverte nelle zone termali o, a quanto dicono, durante gli esorcismi. Utilizzando la ferrea logica del ragionamento deduttivo, valutai gli elementi a mia disposizione a sostegno delle due ipotesi: 1. al centro di Roma non si annoverano acque sulfuree e 2. il diavolo veste Prada. E io indossavo una tuta da 15 euro. Mentre il mio cervello correva in cerca di altre spiegazioni, operando una rimozione inconscia della più evidente, la coda dell’occhio intercettò quello che non avrei mai voluto vedere. Merda. Tanta merda. Merda sulle scarpe, merda sul tappetino, merda sui pedali. Incastrata per bene negli interstizi della gomma, come la sabbia bagnata nelle formine dei bambini al mare, come la cioccolata negli stampi per torte. Acceleratore e freno ridotti a cupcake decorati con la merda. Guardai il contachilometri. Segnava 7. Coincidenze? Non credo. Sì, sono galileiana. O forse dovrei dire ero. Diciamo che lo sono stata fino a quel momento, quando un quesito assillante si è impossessato della mia parte razionale, compromettendola per sempre… Perché? Perché proprio a me, che sono stitica? Perché l’universo mi fornisce tutta la merda che io non fornisco a lui? Einstein, Lagrange, venite in mio ausilio, ve ne prego! È a causa del principio di conservazione della massa che pesto così tanta merda? Esiste una quantità definita di merda nell’universo? Posso interpretare questi eventi non come opera della sfiga ma come rispondenti alle leggi della termodinamica? Aiutatemi, perché sto per passare al lato oscuro della forza: la scaramanzia! Sento che sto imboccando la strada del revisionismo storico della mia vita. Comincio a rileggere i miei successi, le mie sconfitte, le mie aspirazioni future sulla base di quelli che iniziano a sembrarmi fatti, dati statistici solidi a supporto di quella che, pur somigliando a una sindrome dell’impostore, si configura piuttosto come una “sindrome del pestatore (di merda)”. Episodi apparentemente scollegati si incastrano, e rivelano che non può essere fortuito che discussi la tesi di laurea con i capelli sporchi della secchiata di merda bianca che un gabbiano mi scaricò in testa poco prima di entrare nell’aula magna. Che non ho proseguito la carriera di cantante perché la moquette del jazz club puzza ancora della merda di cavallo che mi aveva inglobato tipo sabbie mobili, prima di recarmi emozionata a quella che fu la mia ultima jam session. Che il mio primo bacio ha avuto il sapore della sciolta di un pitbull. Che gli amici a cui ho fatto da testimone di nozze con il tacco 12 e il plateau infangato si sono lasciati. Perché quello non era fango, ERA MERDA! Fisici tutti, venite in mio soccorso! Ricercatori, sono qui a chiedervi di continuare a indagare, perché so che qualcuno prima o poi verrà a capo di questa teoria. Magari vincerà il Nobel… Per conto mio, mi impegnerò ad assumere con continuità fermenti lattici, fibre, lassativi, nella speranza che lo scambio di merda tra me e l’universo raggiunga finalmente un punto di equilibrio stabile.

SILVIA KUNA BALLERO

CACCA SU MARTE

Nel suo discorso di introduzione al programma per candidati astronauti della NASA, Mark Watney racconta di essere riuscito a sopravvivere su Marte coltivando patate in terreno “corretto” con le proprie deiezioni e con quelle lasciate indietro dal resto dell’equipaggio. Con questa scena si conclude Sopravvissuto - The Martian, film di Ridley Scott del 2015 interpretato da Matt Damon; sì, è scortese spoilerare i finali dei film – peraltro ci avevano comunque già pensato i distributori italiani direttamente con il titolo – ma se lo facciamo è per parlare di alcune questioni cruciali relative, appunto, al come sopravvivere su Marte. Infatti, con il programma Artemis, che ha l’obiettivo di stabilire una base umana sulla Luna, si riaprono le danze anche per le missioni umane interplanetarie, e in particolare si sentono già in giro affermazioni perentorie secondo cui entro la fine del secolo un uomo metterà piede sul pianeta rosso. L’uomo di Marte, il romanzo del 2011 scritto da Andy Weir da cui è tratto il film, si porta un po’ avanti e colloca la storia già alla terza missione marziana, nel corso della quale uno degli astronauti, il botanico

Watney, viene accidentalmente lasciato su Marte dal resto dell’equipaggio e, per tirare a campare fino a un improbabile salvataggio, deve dar fondo al suo ingegno usando e riadattando tutto ciò che ha a disposizione, inclusi i suoi rifiuti organici e quelli lasciati dai suoi compagni di missione. E allora, dato che di cacca si parla, partiamo da lì: è davvero possibile usarla per far crescere le patate su Marte? L’idea di aggiungere escrementi umani a un terreno per fertilizzarlo non è troppo sbagliata, al massimo un po’ temeraria.

La regolite marziana (ossia l’insieme di detriti e polveri che ricopre la roccia di Marte) è di origine perlopiù basaltica, come il terreno alle pendici dei vulcani a scudo che si trovano, per esempio, alle Hawaii, ed è carente di tutte quelle sostanze, come i composti azotati, che derivano dall’azione dei microrganismi decompositori e che fanno di un semplice terreno un suolo vero e proprio. Gli escrementi sono effettivamente in grado di integrare molte di quelle sostanze; il problema è che se non sono pretrattati in modo adeguato, per esempio con un compostaggio di diversi anni, c’è il rischio di contrarre infezioni gastrointestinali potenzialmente fatali, come quella da Escherichia coli. Un rischio che vale la pena di correre se l’alternativa è morire di fame, certo, ma non ripeterei l’esperimento col mio basilico. C’è poi un altro problema: quello degli ossicloruri marziani (in particolare clorati e perclorati), composti chimici contenenti cloro e ossigeno che sono molto reattivi e potenzialmente tossici e cancerogeni per diversi organismi viventi. Gli ossicloruri sono presenti anche sulla Terra, ma su Marte sono molto più diffusi, ammontando circa allo 0,5-1% in peso della regolite; il loro meccanismo di formazione non è chiaro, ma potrebbero essere sintetizzati dall’azione dei raggi cosmici sui granuli di polvere marziana, oppure dalle scariche elettrostatiche generate nel corso delle lunghe tempeste marziane di polvere. La missione Phoenix Mars Lander li ha individuati nei pressi del Polo Nord marziano nel 2008, ma è soltanto nel 2013 che il rover Curiosity ha dimostrato la loro presenza anche in zone vicine all’equatore di Marte. Perciò possiamo perdonare Andy Weir che, probabilmente, nel 2011 non era a conoscenza della pervasività di questi composti molesti.

Allargando il discorso, una cosa che abbiamo ben presente nella prospettiva marziana è che idealmente non si dovrebbe buttare via nulla: non solo la cacca, ma nemmeno i rifiuti in generale. Gli stessi ossicloruri, per dire, possono essere separati dalla regolite con processi di lavaggio relativamente semplici e riutilizzati come combustibile per razzi, oppure decomposti da ceppi batterici specifici che li degradano in cloro e ossigeno molecolare; l’ossigeno, su Marte, ci torna abbastanza comodo per respirare, mentre il cloro, opportunamente maneggiato, è riciclabile in una pletora di applicazioni tra cui pulizia, disinfezione e preservazione alimentare. Oppure, se si parla di coltivazioni marziane, esperimenti condotti in terreno marziano “simulato” (cioè riprodotto con un opportuno miscuglio di terreni basaltici trovati sulla Terra) hanno mostrato che l’aggiunta di alcune comuni sostanze di scarto, come i fondi di caffè o il cartone pressato sminuzzato, favorisce la crescita non solo delle patate, ma anche di altre verdure come scalogno, spinaci e carote. La progettazione di sistemi ecologici completamente o quasi completamente chiusi, in cui lo scarto rientri in circolo come sostanza utile, insieme alle strategie per utilizzare risorse reperite in loco, è fondamentale perché una missione interplanetaria abbia successo e non si concluda con la morte dell’equipaggio per fame, per sete o per soffocamento. La durata di una missione marziana con gli attuali sistemi di trasporto può andare da poco meno di due anni a più di tre, e, in assenza di sviluppi eccezionalmente rapidi nelle tecnologie spaziali per la propulsione nucleare, il tragitto per Marte dura dai sei ai sette mesi, il che rende non sostenibile l’invio di rifornimenti periodici come si fa con la Stazione spaziale internazionale e come si potrebbe fare con la Luna (che si trova più o meno sempre a tre giorni di viaggio). L’aria, l’acqua, gli scarti del cibo ma anche i materiali tessili, edili, elettronici e via discorrendo, tutto va riusato e riciclato il più possibile, riducendo al massimo il volume dei rifiuti secondo la regola delle 3R: Riduci, Riusa, Ricicla.

Fino a questo momento, non siamo riusciti a produrre sistemi ecologici perfettamente chiusi utilizzabili dagli umani. La Stazione spaziale internazionale si serve di un sistema chiamato CELSS (Controlled Ecological Life-Support System, sistema di supporto vitale ecologico controllato) che ricicla il 98% dell’acqua proveniente dall’urina, dal sudore e perfino dagli asciugamani usati e dall’aria espirata dagli astronauti, ed estrae ossigeno dall’anidride carbonica tramite una cella elettrolitica, arrivando così a recuperare il 40% dell’ossigeno consumato e utilizzando altri sistemi di filtri e catalizzatori per purificarla dai contaminanti; l’equipaggio deve però ricevere comunque rifornimenti periodici per rimanere in vita, e non ci sono per ora metodi collaudati di riciclaggio degli scarti alimentari per nutrire altri organismi in una rete alimentare chiusa o semichiusa. Un’astronave interplanetaria o un modulo abitativo su Marte dovranno essere in grado di fare molto meglio di così.

Sulla Terra abbiamo fatto alcuni notevoli esperimenti di utilizzo di sistemi biorigenerativi con la partecipazione umana. I primi tre avvennero tra il 1972 e il 1984 in una struttura sotterranea chiamata BIOS-3, costruita nei pressi dell’Istituto di Biofisica di Krasnojarsk, in Siberia, che oltre ai moduli abitativi per tre persone ospitava anche tre aree per la crescita di vegetali di superficie complessiva pari a 63 m 2. Nel corso dei test di permanenza umana, che durarono dai quattro ai sei mesi, fu soprattutto valutata l’efficacia dell’impiego di alghe del genere Chlorella rispetto ad altri tipi di vegetali per l’alimentazione e il riciclo dell’aria tramite fotosintesi. Altri due esperimenti avvennero negli anni Novanta a Oracle, in Arizona, in un centro di ricerca molto più grande chiamato Biosphere-2, che oltre all’habitat e ai laboratori per gli occupanti umani ospitava un insieme di differenti biomi (foresta tropicale, barriera corallina oceanica, acquitrini, savana, deserto nebbioso, in aggiunta a due biomi artificiali) e un’area coltivabile, per una superficie complessiva di circa 12.700 m 2. Il primo test di chiusura di Biosphere-2 durò due anni precisi, dal settembre 1991 al settembre 1993, ed evidenziò un problema imprevisto con il materiale cementizio che sequestrava ossigeno e anidride carbonica, rendendo necessaria l’iniezione di ossigeno dall’esterno; il

secondo durò sei mesi, nel 1994, e, oltre a non riferire problemi con l’ossigeno, ottenne la totale autosufficienza alimentare. In entrambi i casi, fu osservata una moria di animali e piante come effetto dell’assestamento evolutivo nell’interazione tra i vari biomi, un fenomeno che era stato previsto in fase di progettazione; meno gestibili furono la diffusione incontrollata di specie introdotte per errore e, soprattutto, le dinamiche umane, che da una parte causarono gravi tensioni tra gli occupanti, dall’altra una lotta per il potere amministrativo che condusse all’interruzione prematura del secondo esperimento. Nondimeno, gli esperimenti fornirono informazioni preziose sull’autoregolazione di ecosistemi complessi interagenti tra di loro, sulla resa agricola e sull’effetto del regime alimentare in un sistema chiuso.

Dal canto suo, l’Agenzia spaziale europea ha deciso di non starsene con le mani in mano, e negli anni Ottanta, con il supporto del Consiglio europeo per l’Innovazione, ha dato il via al progetto MELiSSA (Micro-Ecological Life Support System Alternative, sistema alternativo di supporto vitale microecologico), progettato specificamente per le missioni spaziali, che attualmente include, a vario titolo, una cinquantina di enti di ricerca e contractor europei tra cui, in Italia, l’Università Federico II di Napoli e la società trentina EnginSoft, che si occupa di simulazioni software. Lo stabilimento pilota, che opera a Barcellona dal 2009, è diviso in quattro compartimenti che analizzano ciascuno una differente funzione biologica legata al riciclo; abbiamo quindi un compartimento per la decomposizione dei rifiuti, uno per la nitrificazione (cioè la sintesi di composti azotati) mediante batteri, un fotobioreattore per la generazione di ossigeno tramite microalghe del genere Arthrospira e un compartimento con piante superiori per il consumo alimentare. Gli esperimenti finora condotti con i batteri “nitrificanti” e le microalghe hanno permesso di sostenere una colonia di ratti fino a sei mesi, estraendo l’azoto dalle loro urine per nutrire le alghe e riciclando l’anidride carbonica espirata per produrre ossigeno; l’obiettivo futuro è collegarli per creare un unico sistema chiuso che possa fornire non solo microalghe per piccoli mammiferi, ma cereali e verdure (lattuga, barbabietola, grano) per mammiferi un po’ più grandi, testando poi il sistema nello spazio per valutare l’effetto delle radiazioni cosmiche e della microgravità. Finora, la fondazione MELiSSA ha prodotto soprattutto conoscenza, con centinaia di brevetti, articoli di ricerca accademica ed esperimenti satellite sulla purificazione dell’acqua e sulla sicurezza alimentare. Altri progetti si sono concentrati sulla trasformazione dei prodotti di scarto in materiali utili allo scopo di ridurre sia la necessità dei rifornimenti, sia il volume dei rifiuti. Per esempio, in vista delle future missioni lunari Artemis, dal 2011 al 2014 è stato condotto un progetto spin-off chiamato Logistics Reduction and Repurposing (riduzione e riadattamento della logistica), che ha lo scopo di migliorare le performance dei lanci tramite una serie di strategie che permetterebbero, tra le altre cose, di ridurre il volume degli imballaggi fino al 50%: dalla sintesi di materiali meno soggetti al logorio e meno vulnerabili alla contaminazione all’ottimizzazione logistica nel configurare e disporre il carico, dalla creazione di strumenti multiuso alla gestione dei rifiuti. Per questi ultimi sono state perseguite due strade principali.

La prima procedura consiste nello scaldare e compattare meccanicamente i rifiuti e gli oggetti usati, estraendone l’acqua, per trasformarli in piastrelle per il rivestimento degli ambienti, che possono fornire una protezione aggiuntiva dalle radiazioni spaziali; a partire dal prototipo, si stima che questo processo permetta di recuperare circa 10 m 3 di volume abitabile (che sembrano pochi, ma in un’astronave non lo sono) e un volume d’acqua che va dagli 0,230 agli 0,72 litri a seconda dei materiali di partenza, producendo allo stesso tempo circa 800 chili di piastrelle in grado di schermare la radiazione nell’arco di una missione della durata di un anno. La seconda procedura, chiamata Trash-to-Gas, utilizza processi termochimici per decomporre i rifiuti, organici e non, negli idrocarburi più semplici che li costituiscono, ricombinandoli poi per ottenere vapore acqueo, ossigeno, metano e altri gas riutilizzabili come combustibile o propellente, per il supporto vitale o da espellere semplicemente nello spazio. Il processo Trash-to-Gas può produrre fino a 1500 chili di metano in un anno di missione, anche se, al momento, ha ancora qualche problema da risolvere (nella fattispecie, produce un residuo sotto forma di cenere che è molto difficile da smaltire in bassa gravità).

Infine, un contributo importante alla progettazione di sistemi di supporto vitale rigenerativo viene dalla citizen science. Lo Space Technology Mission Directorate della NASA ha istituito un programma che si occupa di coordinare tutte le iniziative che coinvolgono i cittadini, e di questo programma fa parte il NASA Tournament Lab, incaricato di indire competizioni pubbliche per la proposta di tecnologie e brevetti da usare nelle missioni spaziali. Per esempio, dal 18 gennaio al 15 febbraio 2022 la piattaforma di crowdsourcing HeroX ha ospitato “Waste-to-Base Materials Challenge”, una sfida per la quale la NASA ha messo in palio un montepremi di 24.000 dollari da distribuire a chi avanzasse le migliori idee per riciclare i rifiuti nello spazio trasformandoli in qualcosa di utile, come del propellente o del materiale laterizio da impiegare con la stampa 3D. La sfida è stata raccolta da oltre cento squadre, e sono state ricevute proposte per il riciclo di spazzatura generica, imballaggi in schiuma, anidride carbonica e – naturalmente – materia fecale. Per quest’ultima categoria sono stati premiati sette gruppi che hanno proposto le soluzioni più disparate; purtroppo i dettagli di questi progetti non sono pubblicamente noti, ma possiamo intuire qualcosa dalla

loro descrizione. Per esempio, Chen e Yang, due studenti dell’Università privata taiwanese di Feng Chia, hanno proposto un sistema di “distillazione a secco” per ottenere un processo simile al cracking di idrocarburi, col quale i composti complessi all’interno dei rifiuti umani sono “spezzati” in molecole organiche più semplici da riorganizzare in fibre di carbonio o grafene; Olivier, ingegnere presso una società marsigliese di valorizzazione energetica dei rifiuti, ha ottenuto un premio per un processo di idrolisi alcalina che, con l’aggiunta di basi forti in ambiente acquoso ad alte temperature e pressioni, smonta la materia organica nei suoi componenti chimici basilari; mentre il canadese Hylton ha riproposto il grande classico dei funghi coprofili, dove per “funghi” si deve considerare il regno dei miceti, che oltre ai funghi di bosco comprende anche muffe, lieviti e altri micromiceti. I funghi commestibili che si nutrono di cacca hanno tipicamente bisogno di escrementi di erbivori – mucche, cavalli, bufali eccetera –, mentre sugli escrementi di carnivori e onnivori crescono soprattutto muffe e altri micromiceti. Questi ultimi possono comunque fungere (ehm…) da elemento intermedio, per esempio come nutrimento delle piante, facendo ben attenzione a evitare microrganismi patogeni che possono rappresentare un pericolo per l’uomo. Se poi si considera il potenziale delle biotecnologie, e soprattutto delle modifiche genetiche, il ruolo dei funghi nei sistemi di riciclo degli scarti umani può solo ampliarsi. E, oltre a questo, non va comunque sottostimata la capacità di molte specie di funghi di bosco commestibili di nutrirsi dei resti in putrefazione delle piante, fornendo un apporto proteico complementare alla dieta di un esploratore spaziale. A questo punto, immagino che a qualcuno di voi sia venuto in mente che tutte queste soluzioni non sono interessanti solo come strumento per gli esploratori dello spazio. Ossia, se parliamo di un insediamento su Marte, appare evidente a tutti come l’economia circolare sia l’unica alternativa percorribile, mentre fino a pochi decenni fa abbiamo perlopiù dato per scontato che il nostro pianeta abbia la capacità di sostenerci a tempo indeterminato, e ancora oggi abbiamo difficoltà ad abbandonare questa idea. Però, da una parte c’è un numero preoccupante di insediamenti minacciati dalla desertificazione e dall’esaurimento delle risorse, e dall’altra, secondo i calcoli del Global Footprint Network, 1 ci siamo resi conto che per supportare il nostro attuale stile di vita un pianeta non basta, ce ne vogliono uno e tre quarti. Magari prima di autoeleggerci cittadini dello spazio dovremo dimostrare di essere in grado di cavarcela nello spazio che già abbiamo; e dato che la questione ambientale si sta facendo piuttosto urgente, magari non dovremmo aspettare di trovarci senza alternative per prendere ispirazione dalla ricerca spaziale, e cominciare ad applicare le 3R anche da noi.

1. Il Global Footprint Network è un’organizzazione internazionale benefica che promuove la sostenibilità attraverso l’Impronta ecologica, uno strumento che misura di quante risorse naturali disponiamo, quante ne usiamo e chi usa cosa.

ALESSANDRO GORI

LA MERENDA COMPLETA DEL DOTTOR KEVORKIAN Ricordo Gisella Calzature come una bella donna sulla cinquantina, maestra elementare, che si palesò nel mio ambulatorio un pomeriggio novembrino di pioggia, con un vestito pied de poule e la permanente fresca di lacca. «Lei è la mia ultima speranza, dottor Kevorkian» mi disse con la voce rotta. Me la presi subito a cuore nel momento in cui mi raccontò la sua vita, non esattamente fortunata. Questo per vari motivi che, per un debito a Ippocrate, non starò a sviscerare né in questa né in altre sedi, ma soprattutto perché Gisella aveva sempre partorito figli di bassa qualità, che venivano spesso a mancare poco dopo la nascita per le più disparate mutazioni genetiche. Il primogenito fu Luigi, il raro caso di un bambino nato senza ossa, praticamente una pozzanghera umana di parti molli bravo solo a piangere. Basti pensare che la sua prima parola non fu “mamma”, come per tutti i bambini, ma – stando a quanto riportava Gisella – “uccidimi”. La madre, anche a costo di viziarlo già da piccolo, lo accontentò. Venne poi la volta di Graziana, che Gisella partorì in piena peritonite. Una bimba dal volto sfigurato dagli acidi gastrici della madre, che però era considerata bellissima perché presentava una massa tumorale a forma di bambina bellissima: Melody. Gisella la dette in adozione a una ditta che non poteva avere figli: la Simmenthal. Trent’anni dopo ne riconobbe un occhio in una latta di Pressatella e scoppiò in lacrime. Il terzo figlio fu invece Carlo, un bambino con un mal di gola fortissimo. Poi ci fu un parto gemellare: Elia ed Enea, due gemelli siamesi l’uno davanti all’altro, uniti in una sola testa fatta di due nuche. Erano litigiosissimi, passavano tutto il giorno a spintonarsi per vedere chi riusciva a buttare l’altro a terra. Non comunicavano, ma se origliavi vicino alle tempie li sentivi litigare internamente per motivi insondabili e privatissimi, addirittura sul tema delle trivelle. Il sesto figlio, Folco, era un ragazzone alto un metro e novantaquattro, pur essendo senza gambe. Il settimo fu Maelström, un bimbo che piangeva ininterrottamente dalla nascita. Solo a trent’anni suonati rivelò il motivo del suo dolore: la morte di Bernie Lomax in Weekend con il morto. Ma vattene a fanculo! Venne il momento del piccolo Beniamino. Per una volta pareva perfettamente sano, ma una biopsia fatta quasi per caso rivelò che aveva il DNA di una spigola. Praticamente era una spigola ipermutata, tanto da sembrare a tutti gli effetti un essere umano. Scappò presto di casa, si buttò nel mondo della musica e divenne famoso col nome d’arte di Benji del duo Benji & Fede. Il nono figlio fu Sheridan, un neonato con un difetto tollerabile: un piede marcio. Ma fu solo nell’adolescenza, quando gli venne amputata una gamba perché andata in cancrena, che si scoprì la sua malformazione: il cervello era dislocato nella gamba. Infatti, dopo l’amputazione fu la sola gamba a sopravvivere e se ne andò bella bella ad abitare a Cattolica, dove oggi è uno stimato dermatologo. Anche il decimo figlio sembrava un bambino di foggia regolamentare. La madre gli fece fare per scrupolo tutti gli esami possibili, e non risultò nulla di anomalo. Unico problema: quel bimbo ingrassava giorno dopo giorno in maniera lenta ma costante. Si chiamava Fegatellius, e fin da piccolo era così grosso che, a confronto, una cosa molto grossa appariva poco grossa. Le provava di tutte per dimagrire, era arrivato addirittura a comprarsi una cyclette, ma non riusciva a perdere un solo etto. Si pensi che Fegatellius a 9 anni pesava ormai più di 280 chili.

Fu allora che Gisella si rivolse a me. Mi conosceva come nutrizionista famoso per le merendine da banco frigo della linea “La merenda completa del dottor Kevorkian”. Quelle scatoline con disegnato sopra Braccio di Ferro che per un euro ti offrono 17 grammi di Grana Padano, i minigrissini, 125 millilitri di succo alla pesca, una piccola elica di plastica per fare i cretini. Quindi, in un geniale dormiveglia, acchittai per il piccolo una disciplina alimentare innovativa, che chiamai “Dieta dei Polifosfati Organici”. Il primo giorno della dieta, a stomaco vuoto, Fegatellius avrebbe dovuto consumare “La merenda completa del dottor Kevorkian”. Il secondo giorno, dopo averla evacuata, si sarebbe saziato cibandosi degli escrementi derivanti da quella merenda. Quindi, il terzo giorno, avrebbe mangiato gli escrementi derivanti dagli escrementi del secondo giorno, a loro volta derivanti da quella merenda del primo giorno. E via di seguito. Avevo infatti realizzato che, ingurgitando le calorie di un solo pasto, il primo, il piccolo si sarebbe sfamato per l’eternità senza assimilare nuove calorie, perché quel pasto evacuato sarebbe stato privo delle stesse e però l’avrebbe saziato. L’unica criticità nasceva dal non aver calcolato che, a ogni evacuazione, parte degli escrementi si perdeva perché rimaneva attaccata alla ceramica della tazza, quindi il pasto era ogni volta più frugale, meno completo, e Fegatellius sempre meno sazio. Praticamente era una dieta a matrioska. Prontamente la corressi prescrivendogli di recuperare quella parte che sarebbe altrimenti andata perduta, facendo scarpetta con del pane integrale dell’Antica Forneria Kevorkian. Solo che, proprio a causa del pane ingurgitato ogni volta, la quantità di escrementi prodotti si è di colpo invertita ed è diventata progressivamente più copiosa e il suo pasto sempre più esagerato. Praticamente una dieta a matrioska invertita. Scarpetta dopo scarpetta, Fegatellius ha preso a evacuare una quantità sempre maggiore di escrementi, che poi venivano scarpettati e la volta dopo erano ancora di più. La cosa è sfuggita di mano un po’ a tutti tanto che, a due mesi dall’inizio della dieta, Fegatellius evacuava ogni giorno centinaia di chili di escrementi, quindi se li rimangiava e indefesso ancora scarpettava. La madre mi interpellò preoccupata e, col senno di poi, mi dispiace ricordare che le risposi con un laconico SMS: “Chiedo venia, sarei a Montecarlo”. Del resto ero davvero a Montecarlo, cosa dovevo fare?! Fino a che, un bel giorno, Fegatellius è scoppiato. Mi consola solo sapere che grazie al suo lascito in escrementi è riuscito a sfamare l’intero Darfur, che golosamente si è sbafato tutto, abituato a cose molto peggiori come il caucciù, la verza e gli sciampi dimenticati lì dai missionari.

MARCO MARTINELLI

TUTTOCACCA: DEIEZIONI DI PIANTE E ANIMALISSIMI È intorno a noi, lo respiriamo costantemente, è motivo di vita ed è il primo nemico della longevità: l’ossigeno (O 2), l’elemento grazie al quale la maggioranza degli esseri viventi brucia zuccheri, grassi e proteine. Se ci pensate bene questa molecola non è altro che lo scarto del metabolismo delle piante, la loro cacca. Ma parlando di cacca in generale, le piante hanno un rapporto complicato con essa: ne fanno abbondantemente, e questo ci permette di vivere, ma amano anche quella di altri esseri viventi, che usano per crescere o germinare. Talvolta, invece, finiscono semplicemente per diventare cacca di qualcuno. Insomma, piante e feci sono intrinsecamente legate in un guazzabuglio incredibile, nonostante non abbiano nemmeno un sistema digerente. Le piante, infatti, non hanno un intestino, ma hanno degli orifizi, dei piccoli forellini graziosi e utili in grado di aprirsi e chiudersi grazie a un sistema di pressione che si attiva su segnali ormonali (pressione osmotica), e che fanno passare acqua e gas allo scopo di alimentare le reazioni più importanti del metabolismo cellulare: la fotosintesi e la respirazione. Questi piccoli fori sono chiamati stomi e si trovano nelle cripte stomatiche dell’epidermide delle foglie. Quasi nascosti, con pudore. Del resto il nostro stesso orifizio non è in bella mostra, quindi perché mai una pianta dovrebbe ostentare con tanta leggerezza i suoi?

Anche per le piante gli orifizi sono fondamentali. Ne hanno tantissimi sopra e, più frequentemente, sotto le foglie, con numeri che variano dai 10 ai 1000 per mm 2. Devono stare chiusi per non far disidratare i tessuti, ma allo stesso tempo devono assorbire gas senza lasciar entrare batteri, funghi o virus patogeni. Per questo la maggioranza della superficie fogliare è cutinizzata, ossia ricoperta da strati di cera che non consentono il passaggio di gas, acqua e microbi, per cui gli stomi rappresentano l’unica porta tra l’esterno e l’interno.

Il termine stoma deriva dal greco e significa bocca. Un’immagine al microscopio elettronico a scansione è sufficiente per chiarire e fantasticare su altre tipologie di somiglianze.

Al di sotto di esso si trova una camera sottostomatica, che mette in comunicazione i gas con le cellule del parenchima fogliare, dove avvengono reazioni come fotosintesi e respirazione. Le piante fanno un lavoraccio, stanno ore sotto il sole cercando di non bruciarsi e disidratarsi per usare tutta quella superenergia luminosa e scindere delle molecole di acqua, romperle e sfruttare gli elettroni liberati per trasformare l’anidride carbonica in composti organici come gli zuccheri. Le piante utilizzano quindi un tipo di fotosintesi che è detta ossigenica, ovvero generano ossigeno come sostanza di scarto: CO 2 + 2H 2O + luce → CH 2O + O 2 + H 2O Ma c’è chi la fotosintesi la sa fare anche diversamente. Un esempio è la fotosintesi anossigenica, tipica di batteri estremofili, in cui non si usa l’acqua come donatore di elettroni bensì l’acido solfidrico, H 2S: CO 2 + H 2S → CH 2O + S 2 + H 2O La scagazza, stavolta, è composta da zolfo gassoso. Ma questo è un caso particolare, alle piante queste cose strane non piacciono.

Nelle cellule vegetali la grande reazione chimica della fotosintesi si compie nel cloroplasto, un organulo in esse contenuto e deputato a questa funzione. Il processo si svolge in due distinti momenti e regioni del cloroplasto.

La prima fase è quella luminosa, che avviene su un sistema interno di membrane del cloroplasto, dette tilacoidi. Sulle membrane sono posizionati due fotosistemi; immaginatevi due antenne televisive formate da speciali molecole, le clorofille. I fotosistemi hanno il ruolo essenziale di trasformare l’energia luminosa in energia chimica, e questo avviene perché la luce viene convogliata su queste antenne ed eccita gli elettroni. Quando si parla di eccitazione di elettroni non intendiamo elettroni arrapati che si dirigono casualmente alla ricerca di qualcosa con cui accoppiarsi, ma il fatto che i fotoni, colpendo gli elettroni, trasferiscono loro energia al punto che l’elettrone stesso può lasciare definitivamente la molecola di partenza. Infatti la clorofilla perde ben 2 elettroni, che saranno rimpiazzati dalla fotolisi dell’acqua. Nel fotosistema II, mentre la luce fa partire gli elettroni eccitati, l’acqua viene rotta, scomposta in ossigeno e idrogeno, e gli elettroni liberati possono ripristinare il vuoto creatosi. Tutta questa “eccitazione” viene anche convertita in un gradiente chimico tra interno ed esterno delle membrane che consente la formazione di adenosina trifosfato (ATP), la famosa molecola utilizzata come “energia per le cellule” (ricordate la lezione di biologia del liceo?), e di coenzimi, ovvero speciali molecole che trattengono elettroni e possono rilasciarli al momento del bisogno. Saranno proprio loro a essere necessari nella seconda fase della fotosintesi, la fase buia, e contribuiranno a convertire l’anidride carbonica in carboidrati. Ricordo che la fase buia non si chiama così perché ha luogo di notte! È buia solo perché si tratta di una serie di reazioni che non necessitano direttamente della luce per realizzarsi (anche se sono regolate metabolicamente dalla luce) e avvengono nello stroma del cloroplasto. Le reazioni della fase buia prendono forma grazie al ciclo di Calvin, tredici piccole reazioni amate moltissimo da tutti gli studenti di biochimica vegetale a cui vengono fatte imparare a memoria.

Il primo step della reazione è mediato dalla proteina più abbondante della terra, la RuBisCO, ossia la ribulosio-bisfosfato carbossilasi/ossigenasi, uno dei tre enzimi esclusivi del ciclo di Calvin. Questa catalizza due tipi di reazioni: la carbossilazione e l’ossigenazione.

Nelle piante dette C 3 (ossia le piante che nel ciclo di Calvin partono da una molecola formata da 3 atomi di carbonio), la carbossilazione consiste nel fissare una molecola di CO 2 formando 2 molecole di 3-fosfoglicerato. L’ossigenazione, invece, è una reazione collaterale che avviene perché la RuBisCO ha affinità chimica anche per l’ossigeno.

Insomma, grazie alla fotosintesi che avviene nei cloroplasti, avvengono le reazioni che creano i carboidrati che mangiamo, e che sono intimamente legate alla produzione dell’ossigeno che respiriamo. Ossigeno che per le piante è uno scarto, ma anche una risorsa, perché anche le cellule vegetali devono ossidare zuccheri e grassi per poter sopravvivere. Ma per fare tutte queste reazioni, produrre proteine ed enzimi come la RuBisCO, le cellule vegetali hanno bisogno di macro e micronutrienti. L’azoto, per esempio, è necessario per fare il DNA, i fosfati e l’ATP, e viene ottenuto da composti chimici che le nostre alleate scagazzatrici di ossigeno trovano nel terreno. I fosfati, i nitrati e i metalli vengono invece apportati al terreno da alcune rocce, dai residui vegetali e dalle feci animali. Queste ultime rientrano nella categoria dei fertilizzanti organici. Il loro impiego in agricoltura risale al Neolitico, circa 12.000 anni fa, quando residui vegetali e animali, humus e residui zootecnici o fanghi umani venivano applicati al suolo al fine di migliorare la produttività delle piante. All’epoca non si sapeva bene perché, ma qualcuno si accorse di questo gioco, e così si tramandò di generazione in generazione. La svolta tecnologica per l’umanità fu però a metà del Novecento, quando l’industria chimica permise la realizzazione dei primi fertilizzanti grazie alla sintesi dell’ammoniaca. L’aumento di produttività delle colture ha avuto come conseguenza immediata l’intensificazione degli allevamenti su larga e piccola scala, e con questi la produzione di molto più letame. Sebbene il boom della chimica abbia oscurato l’uso delle concimazioni organiche, col tempo si è compreso che l’integrazione di questa tipologia di fertilizzazione poteva costituire un vantaggio da più punti di vista non solo per i residui zootecnici ma anche per i fanghi umani. Una recente pubblicazione dell’University of Eastern Finland ha dimostrato, per esempio, quanto la lattuga sia ghiottissima di feci umane. Che sia in serra o in campo, la fertilizzazione con fanghi umani mescolati a differenti tipologie di fertilizzanti chimici dà risultati migliori rispetto ai compost commerciali o ai soli fertilizzanti NPK (N = azoto, P = fosforo, K = potassio). Ma la cosa più interessante è che la cacca cambia il terreno dal punto di vista fisico-chimico: cambia la biodisponibilità di alcuni nutrienti, ostacola l’assorbimento di alcuni metalli pesanti, modifica la porosità del terreno e favorisce la ritenzione idrica. Per comprendere le tante proprietà della cacca dobbiamo approfondirne brevemente la chimica. Iniziamo col porci una domanda: qual è la chimica della merda? Come per la maggioranza dei quesiti scientifici, la risposta è: dipende. Dipende dall’organismo che andiamo a considerare, perché ogni essere vivente ha la propria dieta e le proprie abitudini. Nel caso dell’uomo le feci sono principalmente composte da acqua, proteine, grassi e cibo in generale non digerito, polisaccaridi e batteri. In termini di elementi chimici in percentuale troviamo un 74% di ossigeno, 10% di idrogeno, 5% di carbonio, 0,7% di azoto e bassissime percentuali di fosforo, metalli e altri elementi. Le feci hanno un pH che si aggira intorno a 6.6, ossia sono debolmente acide. È la dieta che influenza la composizione delle deiezioni, la loro forma e il loro odore. Proprio perché è la dieta a determinare la tipologia di cacca, sappiate che non tutte le cacche sono uguali, non tutte puzzano, e alcune sono straordinariamente dolci e ricercate. Come la cacca degli afidi, una superfamiglia di insetti che si nutrono del contenuto dei vasi floematici delle piante, e quindi si pappano tanta linfa. Comunemente definita melassa, la cacca di afide è composta principalmente da acqua, proteine, minerali, vitamine e soprattutto glucosio, fruttosio, maltosio, saccarosio, raffinosio. La melassa, per intenderci, la trovate sopra i vetri delle vostre auto quando lasciate la macchina parcheggiata per un pomeriggio sotto gli alberi. Sappiate però che il suo ruolo va oltre il semplice atto di provocar fastidio ai guidatori. Le formiche, per esempio, sono ghiotte di melassa, e per questo hanno instaurato un rapporto di simbiosi con gli afidi: in cambio di questo prezioso nutriente difendono gli afidi da funghi e altri predatori, e arrivano persino a favorirne la diffusione spostandoli su altri alberi o germogli intonsi. Così favoriscono la crescita della popolazione, e quindi della propria riserva di melassa. Un’alleanza basata su dolcissime feci.

Non tutti gli insetti cacano dolcetti, ma alcune cacche si rivelano utili a noi. Le larve di Hermetia illucens (anche nota come black soldier fly), per esempio, sono in grado di produrre feci dal colore grigio/marrone, granulari, prive di odore ma ricche di sostanze organiche (come composti di azoto, fosforo e potassio). Unite alle deiezioni suine possono sostituire comuni fertilizzanti organici, e sempre più studi dimostrano che il loro utilizzo può incrementare le rese di colture come il pomodoro o il riso. Considerando che la popolazione cresce, che le farine di insetti andranno sempre più a sostituire le altre farine animali, che nella nostra dieta potrebbero essere aggiunti anche questi esseri viventi, sapere che le loro feci sono utili all’agricoltura è un motivo in più per sfruttarne le potenzialità. Le piante usano la cacca in particolare per crescere, ma non solo quella, ci sono composti interessanti che si trovano in maniera abbondante anche nelle urine: i fosfati. Le nostre cacca e pipì si arricchiscono di fosfati, per esempio quando beviamo Coca-Cola, assumiamo latte, uova e cioccolata. Uno studio di popolazione condotto in Svezia ha dimostrato che l’88% dell’azoto e il 67% del fosforo prodotti dall’essere umano arrivano proprio dall’urina, per cui non limitiamoci a fare un encomio alla merda! Anche l’urina è importante, non la trascurate. Di base, infatti, le piante non sono schizzinose, assorbono tutto (anche farmaci, pesticidi, idrocarburi e metalli pesanti, motivo per cui se state assumendo antibiotici o antinfiammatori vi sconsiglio di andare a pisciare sulle piante di pomodoro di vostro nonno). Tuttavia, tra i composti che assorbono troviamo proprio i fosfati, una delle componenti più importanti della vita cellulare. Considerate che il DNA, l’RNA ma anche l’ATP e i coenzimi delle catene respiratorie e fotosintetiche come la nicotinammide adenina dinucleotide fosfato (NADPH), la nicotinammide adenina dinucleotide (NADH) e la flavina adenina dinucleotide (FAD) hanno nella loro struttura un gruppo fosfato. Inoltre, secondo molti studi le riserve di rocce ortofosfatiche, dalle quali l’umanità realizza i fertilizzanti agricoli, si stanno esaurendo. È pertanto fondamentale riuscire a creare nuove tecniche per recuperare questi composti da urina e feci. Ma questo processo non è per nulla semplice. Pensate che al momento, su scala globale, uno dei principali problemi per recuperare gli elementi chimici dalle feci è proprio doverle raccoglierle. In Asia il 72% della popolazione non ha accesso a bagni con reti fognarie, così come il 27% nell’Africa subsahariana e il 44% nell’Asia meridionale, che pratica l’open air defecation. Questo comporta uno spreco di potenziali fertilizzanti, ma anche un rischio sanitario molto elevato per contaminazioni batteriche. Ma se il recupero delle feci è importante per il benessere delle piante, avete mai pensato all’impatto che le piante hanno sulle vostre feci? Come sapete, moltissimi esseri viventi, me compreso, si nutrono di piante, e per questo le ritroviamo nelle feci. Lo studio delle feci umane era già in auge nell’antichità, per esempio in Cina e in Egitto, dove il colore e l’odore erano uno dei pochi indici a disposizione per capire lo stato di salute della persona. Anche adesso l’esame delle feci può aiutarci a fare prevenzione; piccole variazioni nella loro composizione possono essere un allarme o un segnale di variazioni metaboliche, come la presenza di sangue occulto che può essere un indice di lesioni tumorali a carico del colon o dello stomaco. Altra cosa importantissima da considerare è la biodiversità delle specie batteriche che popolano il nostro microbiota (l’insieme di batteri intestinali). Questi batteri, in combinazione con certi alimenti, contribuiscono allo sviluppo di composti solforati (le loffe in questo caso sono letali), mentre fibre della verdura e della frutta sono prebiotiche e consentono una crescita microbica migliore nonché un transito più regolare. Insomma, amici stitici, a volte la materia

vegetale potrebbe risolvere i vostri problemi e far felice la vostra flora batterica. E se non basta? Basta chiedere a un altro vegetale. La cassia, la cascara, il succo di aloe, il rabarbaro, la senna e la frangola contengono tutte una classe di molecole dette glucosidi antrachinonici, una classe di composti dall’azione irritante sulla mucosa intestinale e per questo utilizzabili come lassativi. Facendo il “solletico” all’intestino lo stimolano a espellere ciò che contiene. Prendete appunti. Dal 2021 non è più possibile assumere molte di queste piante in integratori o alimenti (per esempio, succo di aloe), perché il loro utilizzo è associato a una maggiore probabilità di tumore al colon. Dimostrazione evidente del fatto che irritare qualcosa o qualcuno non è mai bene. Anche l’assunzione abbondante di caffè (45-500 mL al giorno) è in grado di modificare il nostro transito intestinale, i livelli di ossidazione lipidica e il microbiota, che si arricchisce in particolare di batteri come Bacteroides, Prevotella e Porphyromonas. Il tabacco, invece, è uno stimolante per i nostri neuroni intestinali. Lungi da me consigliare una sigaretta per movimentare i periodi più stitici, ma la nicotina contenuta nel tabacco è parasimpatico-mimetica, ossia mima l’azione del sistema parasimpatico, la parte del sistema nervoso involontario, detto sistema nervoso vegetativo, che si occupa del rest & digest, riposare e digerire. Per questo con caffè e sigaretta… (potete finire voi la frase). Riassumendo, le piante si nutrono di cacca, producono una cacca fondamentale per la nostra vita e cambiano il nostro modo di fare la cacca. Quanta cacca… Dato che ci siamo, avrei un’ultima nota romantica (di cacca). Viscum album L., il vischio di Natale, è una pianta sempre verde che cresce attaccata agli alberi di specie molto differenti tra loro, dall’abete bianco al pero o melo, fino al tiglio o l’acacia. Il portafortuna sotto il quale tutte e tutti ci siamo dati o ci daremo un bacio è in realtà un parassita. Molte piante lo tollerano, altre (come il pesco) seccano sotto la famelica pianta dei desideri. Ci si potrebbe chiedere come faccia il vischio ad arrivare sulla cima degli alberi. La risposta non ci porta fuori strada: perché viene “cagato”. Viene espulso dallo sfintere di tordi, merli e altri uccelli che si cibano della bacca. I semi vengono attivati durante il transito intestinale e, quando sono espulsi, germinano sul tronco dell’albero inserendo le loro radici nel floema della pianta, nutrendosi così dei prodotti della fotosintesi dell’ospite. Tutto questo per ricordarvi che anche il vostro bacio natalizio arriva dalla merda e in qualche modo, con diversi gradi di separazione, le siamo tutti intrinsecamente legati.

ELEAZARO ROSSI

VENITE, ADOREMUS Mi piace pensare che non è di sindrome dell’intestino irritabile che soffro da oltre quattro lustri. Mi piace pensare, piuttosto, di essere un albero da frutto. Un albero da frutto e allo stesso tempo un contadino impaziente, che evidentemente non ha completato gli studi all’Istituto Agrario Di Sangro Minuziano Alberti di San Severo, il miglior istituto agrario del nostro Paese, se stiamo a sentire l’opinione dell’Unione Italiana Lotta alla Distrofia Muscolare, al momento l’unico ente accreditato per la valutazione degli istituti agrari in Italia. Dicevo, un contadino che non ha completato gli studi presso l’Istituto Agrario Di Sangro Minuziano Alberti di San Severo perché sua madre era una puttana. Mi piace pensare di essere un albero da frutto e contemporaneamente un contadino impaziente e pasticcione che si ostina a raccogliere le pere – le pere sono le mie feci – a febbraio, quando sono ancora delle perine verdi e piccole e dure, con la differenza che le mie feci, a febbraio, marzo, aprile e in qualsiasi altro mese dell’anno, sono marrone biscotto, copiose e liquidissime, e non hanno nessun bisogno di essere colte, si colgono da sole con l’entusiasmo burrascoso e violento di un’adolescente che ha appena scoperto i ditalini. La stagione giusta per cogliere le mie pere capita un solo giorno all’anno, a sorpresa, e quindi, a dirla tutta, non è colpa né del contadino né del suo titolo di studio mancato, e nemmeno della sua mamma puttana. Quel giorno dell’anno le mie pere diventano di colpo dure come il marmo, lunghissime, con una superficie asciutta e rugosa come la corteccia di una quercia dei Pirenei e con una densità tale da creare una propria forza di gravità e attrarre a sé piccoli mondi invisibili e galassie microscopiche. Ah, pere straordinarie le mie pere mature! Ottime per preparare una crostata di pere, eccellenti per distillare una gradevole grappa alle pere e, volendo spingersi su preparazioni più ardite, straordinarie per comporre una meringa di pere o una conserva di pere a pezzettoni. Nessuno comprende quanto sia bello cagare bene più di un individuo che caga molto male trecentosessantaquattro giorni all’anno: di colpo la morte, la malattia, la psoriasi, il disturbo affettivo stagionale e addirittura la precoce dipartita di un’amabile, illuminata, garbata, visionaria, divina scrittrice femminista di cui non faccio il nome, sono sciocchezze di ordine secondario. Ogni muscolo e ogni tendine si concentrano nell’ammirazione del parto. Venite con me, lasciate che vi mostri l’iconografico allestimento. Eccolo, è arrivato, è lo stronzo duro. Il buco del culo, una vergine pubescente in soggezione e ancora incredula della fortuna che l’ha travolta, lo posa delicatamente nella ceramica pallida mangiatoia, piano piano, come se non volesse disfarsi mai del celeste putto. La natica sinistra, l’asinello, e quella destra, il bue, inizialmente si fanno da parte, dopodiché si riavvicinano elastiche, per donargli il loro calore. Un disorientato papà perineo lo accarezza per la prima e l’ultima volta. I re scrotali – e qui si rende necessario un inciso: secondo la tradizione bizantina, solo i primi due sono “re scrotali”, il terzo no, il terzo è la minchia – lo guardano adoranti mentre, adagiato su un morbido letto di ovatta, emette i primi santi vagiti.

Un sacro timore e una potente gioia scuotono il petto e trafiggono il cuore dei beati astanti. È nato! È nato! Lo guardo ancora una volta. Vai tra i flutti, piccolo re mediorientale, nuota nel mondo, porta pace e fratellanza, diffondi la lieta novella.

WILLY GUASTI

A CACCA DI FOSSILI: L’INCREDIBILE MONDO DEI COPROLITI

La ricostruzione delle forme di vita del passato è un macello. Certo, abbiamo un sacco di fossili eccezionali, e tecnologie all’avanguardia per studiarli: è grazie a loro che siamo riusciti a scoprire come cambiavano aspetto i dinosauri durante la crescita, e in qualche caso di che colore fossero, tuttavia sono tante – troppe – le domande che rimarranno senza risposta. Non solo per quanto riguarda l’aspetto degli animali estinti, ma anche il loro comportamento; lo abbiamo visto nello scorso numero, quando vi ho parlato di come i dinosauri (forse) si riproducevano e se avevano o meno il fallo; insomma, una sciccheria. Ma il problema, anche in questo numero, resta: quando un animale fossilizza, i tessuti molli se ne vanno, e rimangono solo le parti dure e mineralizzate, come gusci, ossa e denti, le quali subiranno una serie di trasformazioni che le renderanno dei fossili veri e propri. Ecco perché tutto quello che c’è in più rispetto a essi è grasso che cola! Per esempio, grazie alle impronte lasciate sul sedimento – un tempo molle e fangoso, oggi roccia dura – su cui questi animali hanno messo le zampe, possiamo ricostruire il modo in cui si muovevano. In qualche caso è arrivato sino a noi il piumaggio, come si può vedere in molti resti pazzeschi di dinosauri provenienti dalla Cina. In casi ancora più eccezionali potremmo ritrovare degli organi interni, come è successo per Ciro (il nome serio è Scipionyx samniticus), il piccolo dinosauro rinvenuto in provincia di Benevento.

Nel 1998 i paleontologi Cristiano Dal Sasso e Marco Signore pubblicano la descrizione di un piccolo dinosauro carnivoro perfettamente conservato, morto a meno di tre settimane dalla schiusa. Lo battezzeranno Scipionyx samniticus, anche se è più noto a livello popolare col suo nickname, ovvero Ciro. Il fossile, che viene da Pietraroja, in provincia di Benevento, è in condizioni eccezionali, tant’è che abbiamo a disposizione diversi dei suoi tessuti molli, compreso l’intero intestino, grazie al quale abbiamo scoperto cosa si mangiò (pesci e lucertole) e addirittura in quale ordine. Non a caso si guadagnò la copertina di “Nature”, la prestigiosa rivista scientifica su cui era stata pubblicata la sua descrizione.

Oppure, potremmo anche imbatterci in una merda fossile. Eh sì, esistono: tecnicamente si chiamano coproliti – unione delle parole greche kópros, che significa “sterco”, e lithos, ovvero “pietra” – e non avete idea di quanto la paleontologia deve a questi preziosi, insostituibili scrigni di informazioni. Se vi sembro su di giri, sappiate che ci sono persone che sono – o sono state – assai più su di giri di me, quando si parla di coproliti. Una di loro ha lasciato decisamente il segno nella storia della paleontologia e della scienza in generale, e sono davvero fiero di portare quasi il suo stesso nome: si tratta del reverendo William Buckland, un brillante geologo inglese del periodo vittoriano che occupava la cattedra di Geologia all’Università di Oxford. Oggi può sembrare strano che un uomo di Chiesa sia anche un accanito indagatore del passato geologico della Terra, ma in quel periodo non era affatto fuori luogo: capitava spesso, infatti, che fossero gli uomini dediti alla carriera ecclesiastica ad avere più tempo da dedicare allo studio, e maggior disponibilità di testi da consultare.

Ritratto di William Buckland a 49 anni (1833).

Buckland tentò (invano) di conciliare le scoperte sul passato del nostro pianeta con i contenuti delle Sacre Scritture, e in particolar modo con il racconto del Diluvio universale. Infatti, se a noi può sembrare strano, non lo era per le persone del tempo, le quali avevano fondamentalmente un’educazione cristiana e di certo non mettevano in dubbio la Creazione come la si legge nella Bibbia. Quindi, anche per chi si occupava di scienza – e soprattutto di scienze praticamente neonate, come la paleontologia e la geologia – era normale interpretare le nuove scoperte sotto una luce religiosa. A quell’epoca, per esempio, non si era per nulla concordi sul fatto che gli animali si modificassero nel tempo: anche tra i più illustri naturalisti c’era chi riteneva una fesseria credere che le specie fossero cambiate d’aspetto dopo la Creazione e anche chi era convinto di ciò non aveva affatto le idee chiare sul come o sul perché lo facessero. Lo stesso concetto di estinzione per come lo intendiamo oggi, a livello naturale, poneva diversi problemi, anche filosofici. Insomma, quale Dio benevolo ed eternamente saggio vorrebbe cancellare con una catastrofe il frutto del suo operato? Sarebbe stato come ammettere che il Creatore fosse malvagio… o peggio, maldestro. Persino Darwin, nel momento in cui le sue osservazioni divennero di dominio pubblico, affrontò una certa opposizione anche da diversi scienziati, e la sua stessa fede affrontò una grande crisi quando, riflettendo sull’esistenza di alcune vespe parassitoidi che pungono i bruchi e li lasciano alla mercé delle loro voraci larve, si interrogò sulla benevolenza di Dio.

Alcuni coproliti illustrati in un corposo studio di Buckland del 1829.

Buckland non era uno che passava inosservato. Era un gentiluomo benestante ed estroso, che ai propri ospiti era solito offrire pietanze… singolari. I suoi ricevimenti erano movimentati da toast di topo, o da piatti a base di ricci o coccodrilli. Teneva le candele infilate nelle vertebre di ittiosauro e tra i suoi animali “domestici” c’erano un orso, uno sciacallo e anche dei porcellini d’India. Una volta fece l’errore di tenere liberi per casa nello stesso momento sia loro sia lo sciacallo. Personalità strabordante a parte, fu lui il primo a descrivere in termini scientifici un dinosauro, che chiamò Megalosaurus, nel 1824. Ancora la parola “dinosauro” non esisteva (avremmo dovuto aspettare il 1842), ma l’impatto che il grande rettile carnivoro ebbe al tempo, non solo tra gli addetti ai lavori ma anche nell’opinione pubblica, fu pazzesco, tant’è che Charles Dickens (l’autore del Canto di Natale e di Oliver Twist) citerà il bestione nel suo romanzo Casa desolata. Oltre al megalosauro, tra gli argomenti più cari a Buckland c’erano proprio loro: i famigerati coproliti. Anzi, per dirla tutta, fu proprio lui a chiamarli così per primo. Quando venne scoperta la grotta di Kirkdale, nello Yorkshire, Buckland si recò subito lì, ed entrando a quattro zampe nella grotta con una torcia si trovò davanti centinaia di ossa. Era il 1822; Buckland ipotizzò che la caverna fosse ciò che restava di una tana di iene, che avevano rosicchiato le ossa di molte loro prede. Però, assieme a ossa di vari animali, c’erano anche curiose strutture rotonde di natura calcarea.

Billy era una iena maculata (Crocuta crocuta), proprio come questa.

Una delle cose che aiutarono Buckland a rendersi conto di ciò che aveva davanti fu il fatto che questi presunti escrementi sembravano effettivamente contenere la sostanza chiamata album graecum, che significa “bianco greco”. Un nome pomposo, con cui di fatto ci si riferiva allo sterco di cani o di iene, diventato bianco e inodore dopo l’esposizione al sole e la dieta ricca di ossa di altri animali, e che veniva adoperato nella produzione della pelle usata in abbigliamento, e persino (fin dai tempi dei romani) come rimedio medicamentoso per vari disturbi. Disse anche che la persona che si occupava degli animali del serraglio di Exeter Change si accorse che quelle curiose pallette ricordavano le feci della iena maculata (Crocuta crocuta), che ben più di altri animali sotto la sua custodia amava sgranocchiarsi le ossa.

In questa incisione umoristica del 1822 Buckland, come un viaggiatore nel tempo, si fa nuovi amici (nel suo caso, le iene delle caverne vissute in passato nella grotta di Kirkdale).

Quest’informazione la ottenne dall’amico William Hyde Wollaston, fisico e chimico inglese scopritore del palladio e del rodio, che come Buckland fu membro della Royal Society e della Geological Society. Wollaston analizzò chimicamente anche questi resti, trovando una composizione tutto sommato simile a quella che ci si aspetterebbe da un escremento ricco di ossa. Parte del merito della scoperta fu di Billy, era questo il nome della iena. Gli fornirono delle ossa da rosicchiare, e constatarono che sullo stesso tipo di ossa erano impressi i medesimi segni di denti presenti su quelle della caverna.

Gasatissimo per la scoperta, Buckland scrisse al reverendo Harcourt, suo amico e fondatore della British Association for the Advancement of Science, che “Billy si è comportato a meraviglia con gli ossi di manzo”. Ovviamente, alcune ossa non vennero solo rosicchiate: Billy le sbriciolò, le ingoiò e poi le espulse dalla parte opposta, producendo dei resti che erano similissimi in forma e taglia ai supposti escrementi di iena delle caverne. Quello che Buckland non sapeva è che le feci di iena sono particolarmente robuste – e quindi resistenti ai processi che le trasformano in fossili – proprio grazie alla loro ricchezza di fosfati provenienti dalle ossa, tant’è che possono conservarsi senza distruggersi anche trasportate dall’acqua. Billy doveva venire convertito in un esemplare anatomico (si legga: ucciso e conservato come scheletro), ma siccome, a quanto pare, era un gran simpaticone, Edward Cross, il proprietario del serraglio, convinse Buckland ad accettare il cranio di un’altra iena e a risparmiarlo. Billy visse per più di venticinque anni e morì di vecchiaia nel 1846, guadagnandosi il suo posto nell’olimpo della scienza. 1

La scoperta non fu una curiosità di poca importanza: con il suo approccio estremamente avanguardistico allo studio di questi resti fossilizzati il nostro eroe fu in grado, per la prima volta nella storia della scienza, di ricostruire un ecosistema scomparso trattando il giacimento di vecchie ossa come una capsula del tempo. In questo modo riuscì a stabilire come e dove queste iene estinte erano vissute, e cosa avevano combinato prima di finire stecchite. E sebbene oggi non sia difficile trovare scene evocative e ricostruzioni delle forme di vita del passato, a quell’epoca non era affatto così! Buckland, grazie anche alla cacca fossile, pose una pietra miliare nella storia della geologia e della scienza tutta.

Dobbiamo però citare un altro personaggio quando si parla di questa faccenda, ovvero Mary Anning, una delle paleontologhe più famose e importanti della storia. Mary, di umili origini, era solita andare in cerca di fossili sulle spiagge di Lyme Regis, il suo paese natale nella contea del Dorset, per poi rivenderli a turisti e curiosi. Era così brava e competente che divenne poi un punto di riferimento per l’acquisizione di nuovi reperti da parte delle istituzioni scientifiche: a lei si deve la scoperta del primo scheletro di ittiosauro e del primo scheletro di plesiosauro noti alla scienza – si tratta di rettili marini vissuti durante il Mesozoico, l’età in cui spadroneggiavano sulle terre emerse i dinosauri non aviani – nonché dei primi resti di pterosauro – i rettili volanti cugini dei dinosauri – mai rinvenuti in Inghilterra. Fin dal 1824 si rese conto che su quelle spiagge si trovavano, assieme alle ossa, dei ciottoli grigio scuro a forma di patata, con delle spirali particolari impresse sulla superficie. All’inizio l’ipotesi degli esperti fu che si trattasse di bezoar. Con questo nome esotico si intendevano le concrezioni che si formano nell’apparato digerente di alcuni animali (principalmente ruminanti, ma non solo), e che in passato venivano ritenute (a torto, ovvio) un rimedio contro ogni veleno. In un primo momento, Buckland pensò che i solchi sulla superficie di questi bezoar fossero la testimonianza del moto ondoso quando non si erano ancora induriti; parlando con il collega Gideon Mantell (altro grande geologo vittoriano) giunsero alla conclusione che questi strani oggetti si ritrovavano per l’appunto in maggior frequenza dove c’erano fossili di animali. Però, dopo i suoi studi sugli escrementi fossili delle iene, Buckland ebbe l’ardire di ipotizzare che fossero cacche pure quelle. Certo, cacche di animali ben diversi dalle iene, ma anche loro sicuramente si liberavano delle sostanze di rifiuto in modo simile. Mary Anning, d’altronde, era dello stesso avviso: notò infatti che questi insoliti resti si trovavano principalmente all’interno di quella che un tempo era la cavità addominale degli antichi rettili marini. I segni a spirale adesso avevano un senso: erano l’impressione lasciata dall’intestino sulle feci nel corso del loro passaggio prima di essere espulse. A confermare l’ipotesi, Buckland riporta che dentro tali resti si trovava anche ciò che rimaneva del pasto di questi animali giurassici, e che aveva attraversato in parte il loro corpo senza venire digerito del tutto. Al loro interno, infatti, non era affatto raro imbattersi in scaglie, denti e ossa provenienti da pesci che erano

stati ingoiati da questi rettili antidiluviani. In alcuni erano presenti persino vertebre e denti di ittiosauri più piccoli, cannibalizzati dai loro simili: per Buckland, i coproliti erano anche la testimonianza di combattimenti selvaggi e infiniti nei mari preistorici.

Un coprolite di ittiosauro, proveniente dal Giurassico inglese.

Mary Anning addirittura mise in luce il rinvenimento di due coproliti vicini allo scheletro di un ittiosauro, come se fossero stati cacciati fuori durante una battaglia mortale (presumibilmente, quella che lo ridusse a carcassa prima, e a fossile poi). A quel tempo era norma comune spettacolarizzare la preistoria e parlarne in termini anche morali, identificando le creature del passato non come normali animali, ma come mostri assetati di sangue in perenne lotta tra di loro. In effetti, questo mi fa venire in mente la produzione contemporanea, a livello di cultura pop, legata ai dinosauri, e mi rendo conto che da allora non è che abbiamo fatto tanti passi avanti. Comunque, questi coproliti non erano tutti uguali: Buckland spiega che alcuni non avevano forma definita, come se fossero stati espulsi allo stato semiliquido. Insomma, a quanto pare anche agli ittiosauri veniva la sciolta. Wollaston analizzò ancora una volta questi campioni: il responso fu che erano effettivamente ricchi di fosfato di calcio, grazie alla presenza delle ossa delle prede di questi antichi rettili, espulse con le feci dopo la digestione. Nella lettera scritta al nostro eroe per confermare i suoi sospetti, fece anche cortesemente notare che, sebbene “la materia fosse senz’altro istruttiva e – entro certi limiti – interessante, sarebbe bene che io e Lei non avessimo la fama di esaminare troppo di frequente e troppo nel dettaglio materiale fecale”. Il buon costume inglese di metà Ottocento remava contro lo sviluppo della nobile scienza della coprologia, ma ciò non riuscì a fermare Buckland, che mise su la prima collezione di coproliti nota grazie al suo lavoro sul campo, a esemplari materiali acquisiti da Mary Anning e altri commercianti di fossili e a cessioni avute dai numerosi colleghi geologi con cui era in contatto. La raccolta è ancora oggi custodita al Museo di storia naturale dell’Università di Oxford, e continua a essere studiata. E non crediate che l’attenzione per i coproliti interessasse solo la sua sfera professionale. Al museo di Lyme Regis è custodito un elegante tavolo che Buckland si fece fare apposta, e che era stato realizzato a partire da coproliti tagliati in sezione (che però, a quanto pare, non provenivano dalla zona di Lyme Regis,

bensì dai dintorni di Edimburgo). Suo figlio Francis ricordava come questo tavolo finisse spesso per essere ammirato dalle più disparate personalità ospiti di suo padre, che rimanevano a fissarlo senza avere la minima idea di cosa avessero davanti agli occhi. E raccontava anche di aver visto in più di un’occasione orecchini confezionati con sezioni lucidate di coproliti, dove le scaglie e le ossa dei pesci che furono un tempo il pasto di antichi rettili erano ancora visibili, se si aveva l’occhio allenato a individuarli, ma le eleganti signore che li portavano appesi ai lobi delle orecchie non immaginavano nemmeno lontanamente di cosa fossero fatti i loro ornamenti. La passione di Buckland per i coproliti divenne proverbiale, a tal punto che fu protagonista di alcune caricature, e Philip Bury Duncan la mise in poesia: Approach, approach, ingenuous youth, And learn this fundamental truth The noble science of Geology is bottomed firmly on Coprology. … Avvicinati, avvicinati, ingenua gioventù, e impara questa fondamentale verità la nobile scienza della Geologia si fonda saldamente sulla Coprologia. … Nel XIX secolo i coproliti hanno avuto anche altri utilizzi. In quel periodo la popolazione inglese conobbe una certa crescita: lo sviluppo delle fabbriche necessitava di nuova forza lavoro, e molte aree vennero urbanizzate. L’agricoltura cambiò: da mezzo di sussistenza delle singole famiglie divenne un’attività capace di produrre un surplus di risorse, sufficiente a coprire anche i bisogni dei (tanti) nuovi lavoratori inglesi. Parecchie zone furono convertite in terreni coltivati, e ci si avvalse di nuovi strumenti per renderli più produttivi… perciò la produzione di fertilizzanti divenne fondamentale. Ed è qui che entrano in scena i nostri antichi e non più odorosi amici: probabilmente qualcuno si accorse che dove erano presenti questi singolari patatozzi i campi crescevano più rigogliosi.

Il primo utilizzo deliberato di tali fossili risale al 1717, quando un certo Edmund Edwards li sparse sui campi vicino Levington, nel Suffolk, una contea dell’Inghilterra orientale, ben prima che Buckland iniziasse a svelare i misteri legati a questi strani noduli. Ovviamente, c’erano diversi modi di utilizzarli; per esempio qualche mugnaio scoprì che macinandoli erano più efficaci. Infine, si capì quale fosse il metodo migliore: prendere questi oggetti, tritarli e dissolverli in acido solforico. Una volta fatto questo, si ottiene una polvere residua, chiamata superfosfato, che poteva essere diluita in acqua e spruzzata sul terreno, oppure applicata direttamente nel punto di interesse. Il fosforo è infatti fondamentale per la crescita delle piante, e molti fertilizzanti sono proprio a base di questo elemento.

Dai coproliti viene prodotto il primo fertilizzante artificiale della storia, e presto nasce l’esigenza di standardizzare il processo, nonché di avere a disposizione un bel quantitativo di materia prima: è a questo punto che nascono le fabbriche dedicate e che viene a crearsi la filiera per lo sfruttamento dei coproliti come fertilizzanti. All’inizio i coproliti venivano estratti da lavoratori locali per arrotondare e avere un utile parallelo alla loro attività di coltivazione dei campi, ma col tempo e con la crescita di questa industria comparvero squadre di minatori esperte che affiancavano gli autoctoni, spostandosi di zona in zona e seguendo i lavori man mano che si spostavano. E a ragion veduta: attorno al business dei coproliti fertilizzanti giravano parecchi quattrini! A metà del XIX secolo a Levington c’era chi vendeva la licenza per poterli estrarre dal proprio terreno a cifre che si aggiravano attorno alle 20 sterline, il che vuol dire più o meno il valore della propria casa. Molte persone della zona erano impiegate in questo settore, ed è possibile che ce ne fossero parecchie di più di quello che sappiamo, dal momento che in molti, durante i censimenti fatti nel Suffolk, indicavano la loro posizione semplicemente con “lavoratore”, senza specificare l’occupazione.

In questa zona ci sono giacimenti, risalenti sia al periodo Cretacico che al Giurassico, nei quali è possibile rinvenire parti scheletriche di rettili estinti, nonché gusci fossilizzati di vari organismi marini, oltre – ovviamente – ai coproliti (anche se forse a quel tempo a livello commerciale non si faceva differenza, per quanto riguarda questo tipo di utilizzo, tra veri coproliti e semplici noduli di fosfato). Quando, durante l’estrazione, si trovavano dei buoni fossili, venivano messi da parte per essere venduti a collezionisti e studiosi, e tra gli acquirenti di alcuni esemplari provenienti da questa zona ci fu anche Charles Darwin. La filiera non si fermava qui: una volta estratti, i coproliti dovevano essere trasformati in fertilizzante, e ciò accadeva lontano dagli scavi. Gli impianti di lavorazione si trovavano a volte a più di venti chilometri dal sito di estrazione, e bisognava trasportarli con un carro fino al punto

più vicino in cui fosse possibile imbarcarli. Le più grosse aziende avevano addirittura delle flotte dedicate, con navi pesanti una cinquantina di tonnellate, adatte a viaggiare su tratte locali nelle acque basse dei fiumi: la Packards, una delle maggiori, aveva battezzato alcune delle sue barche coi nomi evocativi di Fossil, Nautilus o Ammonite, in riferimento ai fossili associati ai coproliti e scoperti assieme a essi. L’industria dei coproliti fertilizzanti nacque circa a metà dell’Ottocento e si spense all’inizio del Novecento, probabilmente in seguito all’importazione di materie prime più economiche dall’Oriente e dall’America. Il suo impatto è ancora oggi visibile: sono rimaste nel territorio molte depressioni e fosse che non sono naturali, ma dovute all’attività di estrazione mineraria. A quanto pare, però, nonostante smuovesse cifre notevoli, l’impatto economico sulla popolazione dell’area fu trascurabile, dal momento che la nascita di questa industria non fece sì che venissero costruite più case o migliorate le infrastrutture: il grosso del gruzzolo finiva in tasca a chi aveva il terreno coi fossili, a chi li spediva e a chi produceva più fertilizzante. Tuttavia, altre fonti riportano che comunque il gran numero di lavoratori in queste zone portò introiti a locandieri e birrai, e alcuni dei più agiati proprietari di campi ricchi di coproliti usarono i loro soldi per rinnovare chiese e scuole. Certo, non era tutto oro quel che luccicava: l’ingresso di così tante persone in cerca di cacche fossili in piccole società rurali generò anche un’ondata di episodi di ubriachezza molesta, furti, risse e addirittura stupri, tant’è che ci fu l’urgenza (anche da parte dell’Università di Cambridge) di mandare alcuni gruppi a evangelizzare i minatori.

Quella dei coproliti fertilizzanti è stata un’industria notevole, sebbene praticamente sconosciuta ai più. In anni più recenti, la febbrile passione per i coproliti si è impossessata anche di George Frandsen, che è stato definito dal “Miami Herald” come “il re delle feci fossili”, e che nel 2014 ha fondato un museo per raccogliere la sua collezione, che ha chiamato Poozeum. Chapeau. Il Poozeum non è un vero e proprio museo aperto ai visitatori, ma fornisce molte risorse a chi è interessato alla materia, e George è lieto di contribuire anche alla ricerca, prestando alcuni suoi campioni ad altri musei per analisi o mostre temporanee. E detiene ben due Guinness dei primati: in primo luogo è la più grande collezione di coproliti del mondo, dato che ne ha più di 7000; in secondo luogo, un suo ospite detiene l’altro record, e si tratta di Barnum. Barnum è il nickname con cui è noto il più grosso coprolite mai deposto da un animale carnivoro. E che animale carnivoro: Barnum è una cacca fossilizzata di Tyrannosaurus rex, un gargantuesco ricordino lungo 67,5 centimetri e dal peso di quasi 10 chilogrammi. Come anche i fossili di tirannosauro, viene dalla Formazione Hell Creek, che conta affioramenti rocciosi compresi tra Montana, Wyoming e Dakota (sia del Nord che del Sud). Queste rocce, che risalgono alla fine del Cretacico, poco prima della grande estinzione di massa, sono vecchie almeno 66 milioni di anni. Da qui provengono i resti scheletrici di animali iconici, come il triceratopo (che non ha bisogno di presentazioni, spero), l’anchilosauro corazzato e con la coda a mazza, il pachicefalosauro con la sua testa spessa e dura e ovviamente anche il tirannosauro.

Barnum, il coprolite di tirannosauro da record proprietà del Poozeum.

Il coprolite di tirannosauro del Royal Saskatchewan Museum, che per un periodo è stato il più grosso noto al mondo.

George aveva un sogno (intendo un altro, oltre all’acquisire la più grande collezione di coproliti del mondo), ovvero quello di avere il più grosso. Per più di vent’anni ha girato in lungo e in largo alla ricerca di questo rugoso Santo Graal, in modo da battere il record del Royal Saskatchewan Museum, un museo canadese in possesso di un coprolite di ben 44 centimetri – sempre di tirannosauro – che era stato eletto “il più grande escremento fossilizzato di un carnivoro” dal Guinness dei primati nel 2017. Ma nel 2020 stava per cambiare tutto: nel Dakota del Sud, vicino a Buffalo, viene scoperto un coprolite di larghezza simile a questo (siamo intorno ai 16 centimetri) ma considerevolmente più lungo. George riesce ad acquisirlo, e quando entra a far parte della collezione del suo museo ecco che arriva anche il nuovo titolo del Guinness dei primati. Che fosse di tirannosauro non c’è dubbio: nessun carnivoro ritrovato a Hell Creek aveva dimensioni tali da produrre un escremento simile. Ed è anche per questo che è stato chiamato Barnum! Il nome onora Barnum Brown, un famoso raccoglitore di fossili, secondo qualcuno il più grande di tutti i tempi, tant’è che era noto col soprannome di Mr. Bones (ovvero “Signor Ossa”). Brown collaborava con il Museo di Storia Naturale di New York, e fu colui che scoprì i resti di tirannosauro che furono usati per battezzare questa specie e consegnarle imperitura fama. Scomparve nel 1963; chissà che cosa penserebbe oggi dell’avere intitolata in suo onore la più grossa cacata di dinosauro carnivoro del mondo.

Grazie ai coproliti, tra l’altro, sappiamo come funzionava (almeno in parte) la digestione di alcuni dinosauri: uno studio del 1998 ha riscontrato che il coprolite di tirannosauro del Saskatchewan Museum è costituito tra il 30% e il 50% di ossa frammentate. Il che significa che i tirannosauri polverizzavano (e se vi sembra esagerata la scelta del termine, sappiate che è la parola utilizzata nella pubblicazione) le ossa grazie alla loro notevole potenza di morso, e poi ingerivano i frammenti. Questo fatto, morso spaccaossa a parte, non deve stupire: i rettili moderni (uccelli compresi) non masticano, e quelli che tra loro si cibano di carne sono soliti ingoiare grossi bocconi che contengono anche le ossa delle prede, specie se piccole. D’altra parte, ciò rivela anche che le ossa, sebbene ingoiate, non sostavano molto nel loro sistema digerente, altrimenti le avremmo trovate completamente dissolte. Oltretutto, dalla struttura delle ossa si è osservato che la preda era un dinosauro erbivoro (anche se non è chiaro quale tipo di preciso, vista la natura frammentaria delle ossa), e che era giovane quando fu sgranocchiato. Non deve stupire nemmeno questo: è normale che i predatori mangino più di frequente esemplari giovani, piccoli e inesperti, invece di esemplari forti, maturi e battaglieri. I dinosauri, poi, erano soliti deporre molte uova in una volta, perciò le popolazioni delle tipiche prede dei tirannosauridi erano in larga parte costituite proprio da esemplari giovani.

Dato che quello a cui ci riferiamo è un resto alquanto eccezionale, per essere sicuri di simili conclusioni e avere un quadro generale più chiaro dovremmo disporre di ben più esemplari di questo tipo; ma si tratta comunque di una testimonianza preziosa, che non avremmo avuto alcun modo di scoprire se questa grossa cacata non si fosse fossilizzata arrivando fino a noi. A quanto pare, parte del merito della conservazione di alcuni coproliti è dovuta ai batteri che ci stavano dentro: grazie a loro è iniziata la mineralizzazione, che ha “irrobustito” quelli di alcuni dinosauri erbivori ritrovati in Montana. Nel 2019 sono stati analizzati cinque coproliti con la tecnica della microtomografia (per intenderci, una sorta di TAC), in modo da scoprirne il contenuto. Ricostruire la dieta di un animale estinto, infatti, è difficile, a meno che non si trovi anche il contenuto di quello che fu il suo sistema digerente, ma i coproliti ci vengono in aiuto. Durante gli esami furono ritrovate all’interno di questi campioni elitre di coleotteri (il primo paio di ali, che in questi insetti è molto duro e forma una sorta di protezione per il secondo paio di ali, usato attivamente per volare) e frammenti di esoscheletro di altri artropodi non identificati (gli artropodi sono il gruppo di animali di cui fanno parte anche gli insetti). Il fatto che ce ne siano così tanti suggerisce che fossero piuttosto graditi all’autore dell’opera; tenuto conto di questo, siccome i resti vengono dalla Polonia e risalgono al Triassico superiore (circa 220 milioni di anni fa), uno dei migliori candidati è Silesaurus, un antico rettile molto affine ai dinosauri (forse era un dinosauro per davvero, ma non lo sappiamo con assoluta certezza). La conclusione degli autori è che questo animale preistorico cercasse attivamente insetti sul terreno, catturandoli con le sue fauci fini e forse dotate di un piccolo becco sulla punta della mandibola. Ma le informazioni che si possono ottenere dai coproliti non riguardano solo la dieta di un animale estinto (che comunque non è mica poco). Nello sterco degli animali di oggi non è raro trovare anche eventuali… intrusi. Parassiti, insomma. Le cui uova sono in grado di attraversare indenni l’apparato digerente dell’ospite, diffondendosi nell’ambiente per infettare altri organismi. Lo ha confermato uno studio del 2013 pubblicato su “PLoS One”, che ha analizzato un coprolite di uno squalo proveniente dal Sud del Brasile e risalente al Paleozoico. Nel fossile ci sono piccole strutture ovali raggruppate in segmenti, che a un’analisi più approfondita si sono rivelate essere nientemeno che uova fossilizzate. Di cosa? Di cestodi! Che, per capirsi, sono il gruppo di animali di cui fanno parte anche le tenie, i famosi “vermi solitari”, ospiti decisamente non graditi dell’intestino di molti animali, esseri umani compresi. Il fatto che la maggior parte delle uova siano integre testimonia che non si erano ancora schiuse quando l’escremento si è depositato e ha intrapreso tutti i processi che l’hanno poi trasformato in fossile, perciò qualcosa deve aver arrestato lo sviluppo delle larve al loro interno. Siccome il resto è vecchio di circa 270 milioni di anni, si tratta della più antica testimonianza nota della presenza di parassiti in un vertebrato. E ci dice inoltre che a quel tempo le tenie c’erano già. Parlando di campioni assai più recenti, si sono trovate tracce di parassiti anche in coproliti di camelidi (probabilmente di guanaco, il cui nome scientifico è Lama guanicoe) risalenti a circa 10.000 anni fa e provenienti dall’Argentina. In quel caso si trattava di vermi del gruppo dei nematodi, che a quanto pare sono almeno 10.000 anni che infestano questi animali. Parliamoci chiaro, quelli che ho citato sono solo alcuni esempi: la ricerca sui coproliti è più viva e varia che mai. E nel caso ve lo stiate chiedendo, la risposta è sì: abbiamo anche coproliti umani. Per convenzione, si considera fossile tutto ciò che ha almeno 10.000 anni; se un reperto ne ha meno, automaticamente è di competenza dell’archeologia, e non della paleontologia. In questo caso le deiezioni sono materia di Indiana Jones (che ricordiamo essere un archeologo, NON un paleontologo) e si chiamano paleofeci. Queste ultime si trovano in diversi scavi archeologici: grazie a esse possiamo investigare la dieta dei nostri trisavoli, quali parassiti avevano, ed eventualmente estrarre pure il loro DNA. Talvolta (anche in

Bibliografia scientifica) si usa “coproliti” anche per indicare tali resti, ma sappiate che in questo caso non si può parlare di fossili, tecnicamente. Sia come sia, a volte questi reperti preziosi sono l’unico modo per avere una testimonianza diretta e attendibile di cosa mangiavano alcune civiltà scomparse.

Lo studio archeologico della cacca è una scienza assai nuova, e dobbiamo la sua nascita e il suo sviluppo a Eric Ottleben Callen, considerato il fondatore e sviluppatore di questa disciplina. Botanico di formazione, finì per diventare il punto di riferimento mondiale per quanto riguarda l’analisi delle antiche feci umane, e fu lui a pubblicare la prima grande ricerca in merito, nel 1967. Secondo lui, un modo per provare che uno strano oggetto era un escremento molto vecchio era l’odore: se sapeva di fosfato di sodio allora probabilmente lo era. Inoltre, in qualche caso da un’annusatina esperta si poteva comprendere addirittura qualcosa sul contenuto: affermava che dal tanfo riusciva a capire se un individuo vissuto in Messico più di 2000 anni fa aveva bevuto o meno birra d’agave. Illustri colleghe e colleghi, però, si sono accorti che l’odore è molto variabile e non è un buon indicatore dell’origine umana della deiezione, men che meno della presenza o assenza di un determinato cibo. Non volevo rovinarvi il sogno, chiaramente; se volete provare a confermare le impressioni di Callen lungi da me distogliervi dal provarci. Mentre chiudo quest’articolo, guardo a sinistra. In una cornice c’è una stampa originale presa da Geology and Mineralogy Considered with Reference to Natural Theology di Buckland, che ha vegliato su di me per tutto il tempo.

“L’ho lasciata lì perché speravo che in futuro si trasformasse in coprolite” non regge, perciò portatevi i sacchettini dietro.

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1. A onor del vero, la iena che Buckland menziona potrebbe non essere davvero Billy, anche se lui la chiama così, bensì un’altra iena. Ma di questo direi che non ci importa al momento.

BARBASCURA X

TRE RICERCHE DI MERDA Avete presente cos’è il premio IgNobel? Si tratta di un riconoscimento satirico sponsorizzato dalla rivista “Annals of Improbable Research” (Annali di Ricerca Improbabile) assegnato ogni anno ai dieci autori e autrici delle ricerche più “strane, divertenti, e perfino assurde” pubblicate quell’anno. I vincitori vengono presentati nel corso di una cerimonia di gala che si tiene ad Harvard, e in cui spesso vengono coinvolti premi Nobel nelle vesti di premiatori. Purtroppo per i vincitori, a differenza dei Nobel non è previsto alcun riconoscimento in denaro. Unico premio: la gloria eterna. Si tratta di lavori indubbiamente improbabili, che “prima fanno ridere e poi danno da pensare”. O almeno, questo dicono loro. Perché se da un lato ci sono ricerche dall’immediato splendore, come il premio IgNobel del 2004 per la salute pubblica, che ha investigato la validità scientifica della “regola dei 5 secondi” tanto millantata da mia madre (spoiler: non funziona, ma questo non fermerà la nostra fame), dall’altro ce ne sono altre del calibro di quella vincitrice per la biologia del 2014, che ha dimostrato che i cani, quando cagano, preferiscono allineare l’asse del proprio corpo a quello del campo magnetico terrestre (direzione nordsud). Tu dirai: bella ricerca di merda. E qui casca l’asino! Perché ora che lo sai, se mai ti dovessi trovare disperso in mezzo al nulla e senza nessun punto di riferimento, non avresti niente da temere! Ti sarebbe sufficiente adocchiare un cane che è in procinto di compiere l’atto di defecare, e il gioco è fatto. Quella ricerca, infatti, dice che forse, preferibilmente, tendenzialmente, con una probabilità abbastanza elevata, quel cane sta cagando allineato all’asse magnetico terrestre. Se Bear Grylls non mi ha mentito, questa è un’informazione molto molto utile se hai una mappa. Se non hai una mappa non ti serve a un cazzo. Sei morto. È pur vero che, anche se avessi una mappa, non è detto che il cane abbia cagato allineandosi all’asse magnetico terrestre in quel preciso momento. Perché in fondo la ricerca parla di un qualcosa che tendenzialmente il cane fa. “Tendenzialmente.” E poi chi lo sa, magari quel cane è rotto. Per dire, un carlino mi sa di un cane che potrebbe essere rotto. Intendo, più rotto di quanto non ci appaia palese che sia. Magari lui caga in posizioni randomiche, sempre diverse, e forse nemmeno lo sa, ed è convinto invece di essere allineato con l’asse magnetico. Considerando che non sa manco respirare, immagino che questo sarebbe l’ultimo dei suoi problemi. Come aumentare allora le tue probabilità di sopravvivenza in caso ti vedessi costretto a adottare questa tecnica di orientamento? Dovresti chiedere al cane di cagare ancora, diciamo almeno dieci volte, in modo da ampliare il campione di dati a disposizione e avere un’approssimazione statistica delle direzioni di cagata. Se questo stratagemma non è in grado di darti risposte certe, quantomeno sarà in grado di farti vedere con chiarezza che il carlino ha cagato sempre a cazzo di sé. Certo, in un atto di ingiustificato ottimismo potresti anche fidarti della prima deiezione, e andare a testa bassa da quella parte. Te la giochi a sorte, e se finisci in un burrone pazienza, sei stato tradito dalla malabestia.

Non dimentichiamoci poi di un altro scenario: nello studio si parla del fatto che i cani “preferiscano” cagare in quella direzione di allineamento all’asse magnetico terrestre. “Preferiscano” significa che questo è associato al desiderio o alla tendenza dello specifico esemplare. Che ne sai che quel cane, proprio quello che hai adocchiato, non ami invece altre posizioni? Magari è un cane anarchico, un idealista, e ha deciso di puntare sempre e solo verso sud-est. Magari a nord ha subito un trauma, o forse è solo un cane malizioso che ama il caos e si diverte a indurti in fallo. Forse era proprio quel cane la causa dell’evento catastrofico che ti ha portato lì, quel giorno, al suo cospetto, cosicché potessi vederlo cagare. … Tutto questo per dire che, come vedi, è una ricerca utilissima. Anche a questo serve la merda, come bussola della salvezza. Una bussola rotta che ogni tanto punta nel verso giusto. Un orologio, in pratica. Certo, c’è anche da dire che lo studio è stato molto criticato e che secondo molti non funziona, e quindi che effettivamente la ricerca non serva a un cazzo. Pensa che durante la premiazione di cotanto sforzo scientifico a un premio Nobel è stato detto: «Ora premierai questo ricercatore che ha scoperto come cagano i cani». E lui, che ha dedicato la sua vita alla scienza: muto. Col premio in mano, ma muto. Perché in fondo lo sa di essere inferiore, di non poter competere. I premi IgNobel sono assegnati a persone illuminate, che hanno risolto la vita. Grandi indagini, come quella di chi ha ottenuto l’IgNobel per la fisica del 2017, che si è chiesto: “Può un gatto essere sia solido che liquido?”. Ma ancor più utile (sebbene situazionale) è l’IgNobel per le scienze nutritive del 2018, che ha dimostrato che la dieta basata sul cannibalismo comporta un apporto calorico inferiore a quello di qualsiasi altro tipo di dieta. Insomma, meglio della chetogenica. Quando l’ho letto mi sono rammaricato. “E vabbè, immagino sia troppo tardi per tornare sui miei passi. Scusami Franco, credevo fossi un alimento completo. In compenso eri buonissimo.” Ci sono anche grandi ovvietà tra gli studi premiati. Il premio per la psicologia del 2013 è stato assegnato a uno studio dal titolo: La bellezza è negli occhi di chi possiede una birra. Le persone che pensano di essere ubriache credono anche di essere attraenti. Grazie per l’ovvietà e per aver mortificato il mio sabato sera. E poi ci sono studi di cui non si parla mai abbastanza. Il premio per la medicina del 2021 è stato assegnato alla ricerca che ha dimostrato che gli orgasmi sono utili nel migliorare la respirazione almeno quanto i farmaci decongestionanti.

Ecco quello che Big Pharma non voleva farci sapere. Avete il naso chiuso? Venite! Non in farmacia, ma venite. Rendiamo il mondo un posto pieno di aromi e facce rilassate. Ma noi siamo qui per parlare di cacca, e la cacca di cane per noi non è abbastanza esotica. Ho quindi ivi raccolto tre ricerche di merda che sono valse il premio IgNobel in questa linea temporale, guadagnandosi, a differenza di molte altre ricerche, un posto d’onore in questa rivista fecale. La cacca a cubetti di Ciro il vombato Le cacche sono tante, milioni di milioni ma i wombat so’ zozzoni. La fanno di qualità! Ci sono domande che ci siamo portati dietro per millenni. Domande come: “Dove stiamo andando?”, “Cosa stiamo facendo?”, “Sarà legale?”, oppure: “Perché i wombat fanno la cacca cubica?”. Uno studio del 2019 che vinse un premio IgNobel per la fisica ha provato a dare una risposta almeno all’ultima domanda, rispondendo però implicitamente anche alle prime due: i wombat fanno la cacca a cubetti per via della forma del loro ano. Peccato che la risposta fosse sbagliata, sebbene continui a rispondere alle prime due domande. Una nuova ricerca ha mostrato che, in realtà, ’sti cosi cagano a cubetti per via della muscolatura del loro intestino, che evidentemente è stata programmata dallo stesso team che disegnò le zizze della prima Lara Croft. Per arrivare a questo risultato illuminante gli scienziati hanno dissezionato due wombat morti per cause naturali, e dopo hanno creato un modello matematico bidimensionale per vedere come venissero pressate le feci nell’intestino. Non per nulla l’articolo è stato pubblicato sulla rivista “Soft Matter”. Un lavoraccio immane per capire come ’sto coso caghi. Ecco una ricerca di cui essere fieri. “This study is really good” ha detto il biofisico Sunghwan Jung. E se lo dice lui… I wombat sono marsupiali australiani, e in quanto australiani, se non sono velenosi sono quantomeno strani. Con il loro peso medio di 35 kg riescono a espellere attorno a cento tortoni a sei facce al giorno. Ma perché questa forma, a metà tra un dado per brodo e un tocco di fumo? Si è speculato che potrebbe essere utile per impilare la cacca anche sulle rocce. Dato che la usano per comunicare, in questo modo non rotolerebbe via. Ecco come si spendono i gettoni evoluzione. Con giudizio. Secondo il dottor Scott Carver, ecologo della fauna selvatica dell’Università della Tasmania nonché autore dello studio, questa ricerca potrebbe fornirci uno strumento per produrre cubi all’interno di tubi morbidi. Insomma, potrebbe trovare applicazione in un sacco di campi, dalla produzione industriale all’esplorazione spaziale. Ma questo lo dice lui. Deve pur giustificare tutto il tempo che ha perso dietro questa ricerca di merda, no?

Super Liquidator pinguino I pinguini sparano cannonate di diarrella, fiammate belliche di una prepotenza immane. Ma come fanno? No, perché io non ci riuscirei nemmeno volendo. C’ho provato, ma le emorroidi erano dietro l’angolo. Alcuni scienziati, ovviamente, hanno deciso di indagare. Si sono fatti queste domande e hanno trovato addirittura delle risposte, grazie alle quali nel 2005 si sono aggiudicati un premio IgNobel per la dinamica dei fluidi. Cioè, hanno davvero studiato questa cagata? Letteralmente. E hanno pure vinto. Boh. Idoli. Hanno fatto i loro calcoletti teorici, considerando l’altezza del pinguino, l’anatomia anale, la viscosità e la propulsione dello spruzzo, giungendo alla conclusione che quella non è una cagata, ma una fucilata a pressione! Tipo un Super Liquidator della morte. Ma perché hanno speso i loro gettoni evoluzione così? Il fatto è che, quando covano, i pinguini non è che possono andare in bagno, lasciando le uova lì al freddo. E non possono manco cagare sull’uovo. Che poi sarebbe come cagare in faccia a tuo figlio, non è carino. Per di più, l’uovo è poroso, non si fa! Allora sparano questi getti di diarrella fuori dal nido, senza necessità di muoversi. Getti a pressione, che possono arrivare anche a 40 cm di distanza. Pazzesco se ci pensi. Qualcuno ha provato a far notare ai ricercatori che questa ricerca faceva schifo e non aveva senso. Però, giustamente, loro hanno risposto: «Guarda che studiare come i fluidi attraversano i piccoli orifizi è qualcosa di incredibilmente importante!». Vabbè, facciamo che mi fido, eh? Viva la scienza.

Lo stercorario sotto la volta celeste Nella cultura popolare sono noti come ruzzolamerda. Un termine più che didascalico. In effetti, il loro nome sarebbe scarabei stercorari, e da piccolo mi sono a lungo interrogato sul perché di questa denominazione. Era possibile che avessero coniato una nuova unità di misura della velocità in loro onore? Invece di chilometri orari o miglia nautiche, questi coleotteri viaggerebbero a un tot di sterchi all’ora. Purtroppo ero fuori strada, e la risposta era più noiosa di quanto sperassi. L’appellativo viene dal latino sterco, che si declina stercus, stercoris, da cui stercorario. Insomma, non è l’unità di misura a essere fecale, ma proprio l’animale. Peccato, ero già sul punto di calcolare quanti sterchi orari facesse la mia auto per litro. Avere nel tuo nome “merda” dev’essere un attestato di cazzimma sociale, tanto che vuoi che ti dicano peggio di quello che ti dici da solo ogni mattina quando ti guardi allo specchio? «Oggi spaccherai culi, Merda. Sì, oggi conquisto il mondo. Io sono Merda e ve la farò vedere!» Nomen omen, i coleotteri stercorari sono insetti la cui vita dipende interamente dalle feci: le mangiano quando hanno fame, e ci depongono all’interno le uova. In effetti, i piccoli nascono già nella merda fino al collo, il che li porterà ad avere una visione più ottimistica del futuro. Molte specie, come quelle appartenenti alle tribù dei Gymnopleurini o degli Scarabaeini e molte altre, formano le classiche palline di merda, che fanno ruzzolare spingendole con le zampette. Si portano dietro quella che è la culla per i propri infanti, e all’occorrenza anche uno snack. Altre, invece, le palle di merda le seppelliscono nel terreno, all’interno di tunnel che scavano appositamente, come fanno quelli della tribù degli Onthophagini. Da veri pirati romantici, loro non sperperano, ma accumulano ricchezza sotto la

grande X del tesoro. E poi, non si sa mai, metti il caso che scoppi un’apocalisse di stercorari zombie. Avere delle riserve di merda sempre pronte è fondamentale. Le ho pure io, pensa te. Altre specie ancora, come alcune del genere Oniticellus, ci vivono dentro, rielaborando in salsa animale la fiaba di Hänsel e Gretel nella casetta di marzapane. Che sogno dev’essere, vivere in una casa che puoi anche mangiare? Farai prima a ritrovarti un senzatetto o a morire male di iperglicemia? Lo stercorario più assurdo, però, è probabilmente lo Scarabaeus satyrus, un animale che solo per il nome era destinato a finire su questa rivista. Secondo uno studio, che ha vinto il premio IgNobel per la biologia e l’astronomia del 2013, questo coleottero africano fa rotolare la sua pallina pazza orientandosi con il sole e la luna, navigando così sul mondo. Magellano a questo gli fa una pippa. Come un bucaniere orgoglioso del proprio vascellazzo di merda, spinge la sua boccia muovendosi lungo percorsi rettilinei. E qui c’è un problema: a quanto pare riesce a orientarsi anche nelle notti serene senza luna. Un dubbio incombe: come fa? I ricercatori hanno ipotizzato che possa utilizzare il cielo stellato come bussola, una capacità che negli insetti è unica nel suo genere. Capirlo è stato semplice: osservando gli scarabei di notte hanno notato che con un cielo nuvoloso questi amichetti belli si perdono, se invece li piazzi in un planetario ti sanno persino navigare la Grand Line fino allo One Piece, che nel caso del suddetto coleottero sarà un grande cumulo di merda a forma di Villa Arcore. Durante uno di questi esperimenti in planetario, i coleotteri si sono dimostrati in grado di orientarsi molto bene anche solo con la Via Lattea. Alla fine, vista da quaggiù non è altro che una superstrada nel cielo, però senza autovelox e pubblicità. Quindi non sono solo navigatori esperti, ma anche inguaribili romantici. Come poeti antichi, accumulano e modellano lo scarto altrui in nuova vita e speranza, trasformando questa fine in un inizio per i loro piccoli, subito educati ad apprezzare anche le cose più disprezzabili. Trasformano la merda in storie di delicatezza e gentilezza, e la spingono impavidi sotto la volta stellata, aspirando all’immensità, prendendo parte al disegno casuale dettato da fluttuazioni cosmiche lontane che però parlano, guidano, rassicurano, e così non dimenticano mai che anche la cosa più terrena può incarnare il divino, essendo fatta, in fondo, di nient’altro che di stelle. Che belli gli insetti della cacca. Riferimenti bibliografici Bègue, L., Bushman, B.J., Zerhouni, O. et al., “Beauty is in the eye of the beer holder”: People who think they are drunk also think they are attractive, in “British Journal of Psychology”, 2013, 104(2), pp. 225-234. Bulut, O.C., Oladokun, D., Lippert, B.M. et al., Can sex improve nasal function? An exploration of the link between sex and nasal function, in “Ear, Nose & Throat Journal”, 2023, 102(1), pp. 40-45. Cole, J., Assessing the calorific significance of episodes of human cannibalism in the palaeolithic, in “Scientific Reports”, 2017, 7. Dacke, M., Baird, E., Bryne, M. et al., Dung beetles use the Milky Way for orientation, in “Current Biology”, 2013, 23(4), pp. 298-300. Fardin, M-A., On the rheology of cats, in “Rheology Bulletin”, 2014, 83(2), pp. 16-17. Griffiths, H.M., Louzada, J., Bardgett, R.D. et al., Assessing the importance of intraspecific variability in dung beetle functional traits, in “PloS One”, 2016, 11(3). Meyer-Rochow, V.B., Gál, J., Pressures produced when penguins pooh. Calculations on avian defaecation, in “Polar Biology”, 2003, 27(1), pp. 56-58. Vlastimil, H., Nováková, P., Pascal Malkemper, E. et al., Dogs are sensitive to small variations of the Earth’s magnetic field, in “Frontiers in Zoology”, 2013, 10(1), pp. 1-12. Yang, P.J., Lee, A.B., Chan, M. et al., Intestines of non-uniform stiffness mold the corners of wombat feces, in “Soft Matter”, 2021, 17(3), pp. 475-488.