Il problema dell'esposizione speculativa nel pensiero di Hegel [Zeugma. Lineamenti di filosofia italiana ed.] 9788855290876, 9788855290883

Le relazioni tra pensiero e linguaggio, eternità e tempo, rappresentazione e concetto sono le questioni teoretiche di fo

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Il problema dell'esposizione speculativa nel pensiero di Hegel [Zeugma. Lineamenti di filosofia italiana ed.]
 9788855290876, 9788855290883

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Gaetano Rametta

Il problema dell’esposizione speculativa nel pensiero di Hegel Nuova edizione

Zeugma

Collana diretta da:

Massimo Adinolfi e Massimo Donà

Comitato scientifico: Andrea Bellantone, Donatella Di Cesare, Ernesto Forcellino, Luca Illetterati, Enrica Lisciani-Petrini, Carmelo Meazza, Gaetano Rametta, Valerio Rocco Lozano, Rocco Ronchi, Marco Sgarbi, Davide Tarizzo, Vincenzo Vitiello.

Zeugma | Lineamenti di Filosofia italiana 12 - Classici

Gaetano Rametta

Il problema dell’esposizione speculativa nel pensiero di Hegel Nuova edizione

Pubblicazioni del Centro di ricerca di Metafisica e Filosofia delle Arti dell’Università Vita-Salute San Raffaele di Milano DIAPOREIN

Prima edizione: Il concetto del tempo. Eternità e «Darstellung» speculativa nel pensiero di Hegel, Franco Angeli, Milano 1989. Nuova edizione © 2020, INSCHIBBOLETH EDIZIONI, Roma. Proprietà letteraria riservata di Inschibboleth società cooperativa sociale, via G. Macchi, 94 - 00133 - Roma www.inschibbolethedizioni.com e-mail: [email protected] Zeugma ISSN: 2421-1729 n. 12 - novembre 2020 ISBN – Edizione cartacea: 978-88-5529-087-6 ISBN – Ebook: 978-88-5529-088-3 Copertina e Grafica: Ufficio grafico Inschibboleth Immagine di copertina: La cavalleria rossa, Kasimir Malevič, 1928.

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Sigle e abbreviazioni

Sigle e abbreviazioni Si fornisce qui di seguito l’elenco delle sigle impiegate nella citazione delle opere di Hegel e delle relative traduzioni. Diff.  = Differenz des Fichteschen und Schellingschen Systems der Philosophie, in G.W.F. Hegel, Jenaer Kritische Schriften, neu hrsg. v. H. Brockard und H. Buchner, Bd. 1, Meiner, Hamburg 1979, pp. 1-116; tr. it., Differenza fra il sistema filosofico di Fichte e quello di Schelling, in Id., Primi scritti critici, a cura di R. Bodei, Mursia, Milano 1971, pp. 3-120. J.S.I 

= G.W.F. Hegel, Gesammelte Werke, Bd. 6, Jenaer Systementwürfe I, hrsg. v. K. Düsing und H. Kimmerle, Meiner, Hamburg 1975.

J.S.II  = G.W.F. Hegel, Gesammelte Werke, Bd. 7, Jenaer Systementwürfe II, hrsg. v. R.-P. Horstmann und J.H. Trede, Meiner, Hamburg 1971; tr. it. (parziale), Logica e metafisica di Jena (1804-05), a cura di F. Chiereghin, Verifiche, Trento 1982. J.S.III  = G.W.F. Hegel, Gesammelte Werke, Bd. 8, Jenaer Systementwürfe III, unter Mitarb. v. J.H. Trede, hrsg. v. R.-P. Horstmann, Meiner, Hamburg 1976.

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C.  = G.W.F. Hegel, Filosofia dello spirito jenese, a cura di G. Cantillo, Laterza, Roma-Bari 1984. Phän.  = Phänomenologie des Geistes, hrsg. v. J. Hoffmeister, Meiner, Hamburg 19526; tr. it. di E. De Negri, Fenomenologia dello spirito, 2 voll., La Nuova Italia, Firenze 1976. V.   = Vorrede, in Phän., pp. 9-59; tr. it. cit., pp. 1-61. W.d.L. = Wissenschaft der Logik, I-II, hrsg. v. G. Lasson, Meiner, Hamburg 19752; tr. it. di A. Moni, riv. da C. Cesa, Scienza della logica, 2 voll., Laterza, Roma-Bari 19814. Enz.  = Enzyklopädie der philosophischen Wissenschaften, I-III, in G.W.F. Hegel, Werke, hrsg. v. E. Moldenhauer und K.M. Michel, Suhrkamp, Frankfurt a.M. 1970, Bdd. 8-10; tr. it. di B. Croce, Enciclopedia delle scienze filosofiche, intr. di C. Cesa, Laterza, RomaBari 19805. Enc.  = Enciclopedia delle scienze filosofiche in compendio, vol. I, La scienza della logica (comprensiva delle aggiunte), a cura di V. Verra, Utet, Torino 1981; la sigla Anm. sta per “nota”, quella Z. per “aggiunta”. Per ragioni di uniformità stilistica e terminologica, le traduzioni citate sono state talvolta leggermente modificate.

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Premessa alla nuova edizione

Il libro che presentiamo al lettore costituisce la nuova edizione del volume, uscito nell’ormai lontano 1989, intitolato Il concetto del tempo. Eternità e «Darstellung» speculativa nel pensiero di Hegel (Franco Angeli, Milano 1989). Dopo tanti anni, è stato per me un piacere inaspettato ricevere la proposta, da parte della casa editrice Inschibboleth e del suo direttore, l’amico dott. Giuseppe Pintus, di ripubblicarlo apportando le eventuali modifiche che ritenessi necessarie. Ho quindi pensato, prima di tutto, di riformulare il titolo, centrandolo su quello che è il concetto-chiave attorno al quale ruotano tutte le indagini del testo. Il libro ha così cambiato nome, mantenendo riconoscibile la relazione di sostanziale identità con la sua prima edizione, e diventando Il problema dell’esposizione speculativa nel pensiero di Hegel. Nel ripensare al titolo, ho dunque modificato anche la resa del termine hegeliano Darstellung, che nella prima edizione avevo scelto di rendere col neologismo «rap/presentazione». Ritengo ancora valide le motivazioni teo­ retiche che mi avevano spinto a questa scelta, meno il fatto di esprimerle attraverso espedienti di tipo terminologico e tipografico. Spero anche che la scelta del termine «esposizione» contribuisca a rendere più leggibile un libro che resta indubbiamente complesso. Ciò mi ha spinto a procedere a modifi-

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cazioni di tipo stilistico e all’esplicitazione di alcuni passaggi argomentativi, con l’intento di rendere più chiaro e meno inficiato da tecnicismi l’impianto interpretativo della prima edizione, che resta intatto. Le modifiche di cui sopra mi hanno portato a espungere l’Introduzione e la Prefazione, che il compianto Remo Bodei aveva accettato generosamente di scrivere per presentare questa mia prima monografia. Si è rinunciato invece ad azzardare qualsiasi tipo di aggiornamento agli apparati e alle note, aggiungendo soltanto un indice dei nomi alla fine del volume. A me non resta che lasciare il volume a questa sua seconda navigazione, in un anno difficile per molti motivi, ma che resta pur sempre contrassegnato, nell’ottica della nostra ricerca, dal rappresentare il 250° anniversario della nascita del grande pensatore di Stoccarda. Gaetano Rametta

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Capitolo I

L’esposizione speculativa

1. Pensiero e linguaggio nei primi frammenti jenesi di filosofia dello spirito (1803-04) In questi due primi paragrafi, le relazioni fra pensiero e linguaggio verranno indagate alla luce degli scritti jenesi di filosofia dello spirito, e in particolare dei testi redatti da Hegel negli anni 1803-04 e 1805-06. Pensiero e linguaggio appaiono sin da ora come momenti fondamentali nell’organizzazione delle attività teoretiche della coscienza e dello spirito. Tuttavia, anche se l’analisi mostrerà le dislocazioni cui la filosofia dello spirito è sottoposta nell’impostazione dei rapporti fra pensiero e linguaggio, le relazioni che in tal modo s’intendono mettere in luce sono altre, e riguardano la connessione sussistente fra l’assetto di quei rapporti nella filosofia dello spirito, e la teorizzazione del sapere filosofico come Darstellung speculativa. L’indagine di quei testi assume così una valenza in pari tempo introduttiva e costitutiva rispetto all’ermeneutica del concetto di esposizione filosofica, per come si formula nella Vorrede alla Fenomenologia dello spirito, e la cui teorizzazione si rivela in stretta connessione con gli slittamenti che investono, fra il 1803-04 e il 1805-06, la concezione dei rapporti fra pensiero e linguaggio in sede di filosofia dello spirito.

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Già nei frammenti del 1803-04, la meta cui è orientata la struttura teoretica della coscienza è costituita dal concetto intellettuale1. In esso viene a compiersi quel toglimento del singolo contenuto sensibile, in cui dapprima è immersa la coscienza, e che ne designa l’avvenuto assorbimento nella soggettività. Nell’ambito di questo processo, la funzione che spetta al linguaggio è quella di predisporre (come nome) e di attuare (come linguaggio in senso stretto) la trasformazione della sensazione in concetto universale. Da un lato, il nome attua una prima negazione della sensazione perché la trasforma in idealità linguistica, riprodotta e per così dire ricreata a partire dalla vocalità della coscienza. Dall’altro, però, l’approfondimento delle potenzialità astrattive, per come si realizza nel concetto, si trova situato propriamente sul terreno del linguaggio. Ora, poiché il chiarimento del ruolo esercitato dal linguaggio esige di determinarne la posizione in rapporto ad altre funzioni teoretiche, quali segno, memoria e intelletto, risulta necessario esaminare, sia pure schematicamente, lo sviluppo mediante il quale la sensazione s’incorpora nello spirito, il telos cui mira nel suo divenire-coscienza. In effetti, già l’animale, che è il primo fra gli esseri naturali a possedere la capacità di sentire, scinde se stesso dal contenuto della singola sensazione, costituendosi così in universale ri-

1.  Per lo sviluppo complessivo del pensiero di Hegel a Jena, cfr. H. Kimmerle, Das Problem der Abgeschlossenheit des Denkens. Hegels «System der Philosophie» in den Jahren 1800-1804, Bouvier, Bonn 1970, 19822; G. Gérard, Critique et Dialectique. L’itinéraire de Hegel à Iéna (1801-1805), Presses de l’Université Saint-Louis, Bruxelles 1982; H.S. Harris, Hegel’s Development, vol. II, Night Thoughts (Jena 1801-1806), Clarendon Press, Oxford 1983. Sullo sviluppo raggiunto dalla filosofia dello spirito, in riferimento alla sezione che ci riguarda, cfr. le note seguenti. Sul concetto della coscienza teoretica nei frammenti ora in questione, cfr. J.S.I, pp. 280-281 (C., pp. 18-19).

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spetto a quest’ultima, che resta singolare. Più precisamente, l’animale è universale in quanto è la sede di un avvicendamento ininterrotto di sensazioni che si svolge nel tempo: l’animale è il tempo dell’idealizzazione dei contenuti presenti nello scorrere successivo e continuo delle sensazioni2. Tuttavia, tale idealizzazione resta incompiuta, perché il contenuto di volta in volta determinato, immerso nel fluido della vita interiore, si temporalizza senza permanere se stesso, ma diventando altro; esso cioè non contiene in se stesso la sua negazione, ma scompare totalmente nel lasciar posto al successivo3. La situazione si può chiarire dicendo che ci troviamo di fronte a un processo di «cattiva infinità». Il fatto che la sensazione non comprenda il suo altro all’interno di sé comporta infatti l’avvicendamento ininterrottamente lineare delle singole sensazioni, senza ritorno in sé e perciò senza costituzione di identità. L’animale scorre ciecamente di contenuto in contenuto, di singolarità in singolarità, ma non ripiega nel circolo del Sé il movimento, che allora rimane una semplice successione4. Esso è universale, perché è il tempo nel quale scorrono, una dopo l’altra, le singole sensazioni; ma l’universale non perviene alla dimensione del per-sé, e si mostra soltanto «nella forma della necessità»5. Perché tale universale divenga per-sé, occorre che l’avvicendamento lineare delle singole sensazioni si ripieghi in sé, cioè

2.  «L’animale sente; l’essere-stimolato è a lui una singolarità; esso si differenzia immediatamente da questo singolo; questo singolo diventa immediatamente un universale ideale» (J.S.I, pp. 206-207); «l’animale è il tempo in cui le sue stesse sensazioni trascorrono come singole» (J.S.I, p. 261). 3.  «La sensazione dileguava nell’essere dell’esser-altro della sua singolarità, diventa un’altra sensazione» (J.S.I, p. 263). 4.  Questo ci sembra voglia dire Hegel, quando a proposito dell’animale afferma che «non diviene signore del tempo» (J.S.I, p. 242, osservazione a margine). 5.  J.S.I, p. 261.

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che la sensazione comprenda in sé ciò che le è opposto, non scompaia in un altro, ma piuttosto «in lei stessa»6. In altri termini, è la sensazione medesima che deve diventare universale, e proprio a questo mira il suo «divenire coscienza»7. Ora, in relazione a questo telos emerge tutta la crucialità del linguaggio per la configurazione della coscienza, in quanto appunto Hegel gli assegna il compito di predisporre e attuare la trasformazione in «opposto in sé» del singolo contenuto sentito. Ma la funzione che il linguaggio si trova a svolgere in rapporto alla produzione del concetto universale dell’intelletto è anche ciò che lo rende irriducibile a una sua comprensione in termini di segno. E la questione è tanto più delicata, in quanto nell’impostazione delle relazioni fra segno e linguaggio non è in gioco soltanto la definizione di una delle scansioni fondamentali che articolano il divenire-coscienza della sensazione, ma uno dei plessi nevralgici di questa sezione di filosofia dello spirito in tutte le sue diverse stesure. Le differenze, anche profonde, che separano su questo punto la trattazione svolta in J.S.I da quelle condotte in seguito da Hegel, sono basate sulla concezione del segno espressa in questi abbozzi, e sulla conseguente dislocazione subita in rapporto al segno dal nome e più complessivamente dal linguaggio8. An-

6.  Ciò è quanto intende Hegel con la locuzione fondamentale per cui la sensazione deve diventare un «opposto in sé» (sulla quale cfr. la nota seguente). 7.  «L’idealità del sentire o il suo divenire coscienza mira immediatamente a far sì che nella coscienza la sensazione diventi un opposto in sé che abbia il suo essere-altro in esso stesso, e perciò il sentito e il senziente [diventino] in esso stesso un che di universale» (J.S.I, p. 283; C., pp. 20-21). 8.  Tali slittamenti, ci sembra, sono fin qui sfuggiti alla letteratura critica sull’argomento, che tende piuttosto ad appiattire gli uni sugli altri i testi del 1803-04 e del 1805-06. Così, rispetto alle relazioni fra segno e linguaggio, non soltanto si manca di registrare la peculiarità che contraddistingue quei primi frammenti in rapporto alle successive stesure (e già agli scritti del

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che la produzione segnica, infatti, viene in questo testo assimilata a un processo di «cattiva infinità», tipico delle filosofie che non sanno tradurre in effettuale presenza il dovere della realizzazione. Come nel rapporto di dovere l’oggetto viene assimilato alla coscienza solo parzialmente, perché risorge di continuo sotto forma di nuovo ostacolo, così nella relazione di segno il significato, introdotto dal soggetto quale funzione dell’oggetto, permane a questo totalmente estraneo, lo lascia inalterato nella sua realtà e non vi si imprime quindi compiutamente. Per questa mancata impressione del significato nell’oggetto, alla cosa resta, immutata, la sua natura, e la coscienza si trova «impotente a togliere compiutamente l’opposizione del soggetto e dell’oggetto»9. Da un lato, la produzione semiotica induce una lacerazione nel tessuto compatto dell’esperienza, in quanto, grazie alla sua potenza astrattiva, la coscienza isola un oggetto, lo separa dal contesto in cui è inserito nel corso delle sue apparizioni reali, e lo dispone così a soddisfare la funzione di supporto per la trasmissione di significati10. Dall’altro, però, tale processo si svolge solo «idealmente, così che esso [l’oggetto; N.d.A.] in realtà sussiste ancora nella sua connessione»11. 1805-06) della filosofia dello spirito (di cui analizzeremo solo le versioni più significative per la nostra ricerca, e cioè, oltre ai testi di Jena, l’Enciclopedia del 1830); ma soprattutto, non si possono individuare le scansioni problematiche e i mutamenti interni che volta a volta mutano la configurazione di quella che nell’Enciclopedia si consoliderà come la sezione teoretica della Psicologia (concernente cioè lo spirito come «intelligenza»). 9.  J.S.I, p. 286 (C., p. 23). Così, l’oggetto «resta ciò che è, ha ancora il suo essere per sé ed il suo essere-altro è posto soltanto come un dover-esserealtro» (ibidem). 10.  «Un oggetto intuito, come un che di strappato alla sua connessione, viene posto come riferito ad un altro» (ibidem). 11.  J.S.I, p. 286 (C., pp. 23-24). Benché non siano riferite specificamente a questo testo, cfr. al riguardo le osservazioni di K. Löwith, Hegel und die Sprache, in Id., Vorträge und Abhandlungen. Zur Kritik der christlichen Überlieferung, Kohlhammer, Stuttgart 1966, p. 107, e J. Derrida, Le puits et

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Ciò comporta che esso sia «contingente rispetto a ciò di cui è segno»12: il rapporto tra segno e significato risulta arbitrario non solo in quanto non scaturisce dal rispecchiamento di relazioni ontologiche, ma perché le modalità con le quali si attua l’invenzione di cui è prodotto non consentono l’unificazione fra il significato spirituale e l’oggetto segnico materiale. E questa arbitrarietà include a sua volta la dipendenza del significato dal soggetto: «il significato del segno è solo in relazione con il soggetto: dipende dal suo arbitrio e solo per mezzo del soggetto è comprensibile ciò che questi intende con il segno»13. Tuttavia, quest’ultima proposizione contiene già, perlomeno implicitamente, la necessità del linguaggio per la struttura della coscienza. In effetti, se a proposito del segno Hegel impiega la notazione di stumme Bezeichnung14, egli con ciò non solo mette in rilievo la silenziosità che accompagna tutte le fasi dell’invenzione semiotica, ma sottolinea in pari tempo il suo carattere «ideale», e la funzione di presupposto che nei suoi confronti inevitabilmente svolge il linguaggio. Già nel doversi rivolgere al soggetto per chiedergli la spiegazione di cosa intenda impiegando un determinato segno è contenuto il fatto che il significato debba venire linguisticamente enunciato: se infatti la coscienza, a questo punto, indicasse silenziosamente un altro segno, ci troveremmo implicati in una catena potenzialmente infinita di rimandi, che in ultima analisi non consen-

la pyramide. Introduction à la sémiologie de Hegel, in Hegel et la pensée moderne. Séminaire sur Hegel dirigé par Jean Hyppolite au Collège de France (1967-1968), sous la dir. de J. D’Hondt, Puf, Paris 1970, pp. 27-83, in part. p. 41 (poi in Id., Marges de la philosophie, Minuit, Paris 1972, pp. 79-127). 12.  J.S.I, p. 287 (C., p. 24). 13.  Ibidem. Sull’arbitrarietà del segno, cfr. le considerazioni di S. Costantino, Hegel. La dialettica come linguaggio. Il problema dell’individuo nella Fenomenologia dello spirito, Mursia, Milano 1980, pp. 20 ss. 14.  Ibidem.

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tirebbe nemmeno la determinazione come segno di un oggetto qualsiasi. Il rapporto semiotico, per potersi instaurare, mostra così di presupporre già l’esistenza di un linguaggio15. E facendo leva sulla mancata risoluzione della soggettività nell’oggetto, dovuta al mutismo in cui l’attività semiotica si trova avvolta, la transizione dal segno al linguaggio non soltanto attua lo scavalcamento della silenziosità di cui la relazione segnica restava prigioniera, ma la evidenzia come la sua mancanza in fondo decisiva. Inoltre, collocando il baricentro dell’esposizione entro il rapporto fra soggetto e oggetto, accentua ulteriormente l’eccedenza del linguaggio e della sua cellula fondamentale – il nome – nei confronti del puro e semplice segno. Abbiamo visto come nella stumme Bezeichnung la coscienza costituisse uno dei lati di un’opposizione inconciliata, poiché non venendo il significato compiutamente espresso dal segno, quest’ultimo restava immutato nella sua natura di cosa. Ora, il primo passo che essa compie per risolvere questa contraddizione consiste nel trasferire su di un materiale evanescente la sua attività espressiva di significati: solo un substrato oggettivo la cui apparizione coincida col suo immediato dissolversi consente infatti di «superare» ciò che nell’invenzione semiotica ancora resisteva a essere padroneggiato da parte del soggetto16. Tale è il requisito soddisfatto dal suono, che esiste solo nell’attimo in cui scompare ed è un «nicht mehr seiendes, indem es

15.  Su questo punto, cfr. Th. Bodammer, Hegels Deutung der Sprache. Interpretationen zu Hegels Äusserungen über die Sprache, Meiner, Hamburg 1969, p. 41: «C’è bisogno di un accordo precedente su ciò che il segno deve in generale significare… la produzione di segni presuppone già sempre accordo e con ciò comunicazione teoretica, linguaggio». 16.  «Il segno come un che di reale (deve) altrettanto immediatamente dileguare» (J.S.I, p. 287; C., p. 24). Cfr. inoltre, su questo, J. Derrida: «Il contenuto dell’intuizione sensibile (il significante) deve cancellarsi, svanire di fronte al significato, all’idealità significata» (Le puits et la pyramide, cit., p. 54).

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ist»17. Il linguaggio, adottandolo come il «medium» materiale per la trasmissione dei significati, consente alla coscienza di soddisfare la prima esigenza cui si trovava posta di fronte in rapporto al superamento dell’opposizione che rimaneva, nel segno, irrisolta: la Sprache è presente solo nel suo svanire, non si fissa, ma dilegua immediatamente nell’attimo stesso in cui è avvertita18. Così, poiché il suono ricalca la medesima struttura formale del tempo, il linguaggio che vi si esprime e vi si pronuncia assume il tempo come dimensione specifica del suo prodursi. Ciò comporta il fatto che la coscienza si temporalizza nel momento stesso in cui si esprime linguisticamente. Poiché il linguaggio è definito come «il concetto esistente della coscienza»19 e la coscienza può esistere secondo il suo concetto solo in quanto coscienza linguistica, il tempo emerge come struttura necessaria e irriducibilmente privilegiata, nei confronti dello spazio, per la costituzione delle esperienze della coscienza20. Il complesso di tali determinazioni non può non avere ripercussioni sulla concezione del linguaggio così adombrata. L’ac-

17.  J.S.I, p. 283 (C., p. 21). 18.  J.S.I, p. 288 (C., p. 25). 19.  Ibidem. In tal senso, assolutamente calzanti per la posizione di Hegel risultano le parole di Th. Litt, quando a proposito del linguaggio scrive che «l’individuo si trova certo di avere di fronte a lui qualcosa che gli è destinato, che gli appartiene in proprio», benché non sia «ciò che in lui si trova di migliore» (Hegel. Versuch einer kritischen Erneuerung, Quelle & Meyer, Heidelberg 1953; tr. fr., Hegel. Essai d’un renouvellement critique, Denoël, Paris 1973, p. 92). 20.  Sul rapporto tempo-linguaggio in Hegel, cfr. A. Kojève, Introduction à la lecture de Hegel, Gallimard, Paris 1947; tr. it. (parziale), Lezioni sull’eternità, il tempo e il concetto, in J. Hyppolite et al., Interpretazioni hegeliane, a cura di R. Salvadori, La Nuova Italia, Firenze 1980, pp. 169-281, a p. 203: «Il tempo esiste solo nella misura in cui c’è Storia, cioè esistenza umana, ossia esistenza discorsiva».

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centuazione della sonorità del linguaggio pone in risalto il momento della comunicazione orale concreta, la parola parlata che «ha l’esistenza universalmente comunicante»21. La portata di questa osservazione non può certo ridursi alla semplice constatazione dell’acusticità del linguaggio; piuttosto, quest’ultima viene considerata in funzione della comprensione reciproca fra i parlanti, come la sua condizione imprescindibile22. Tale posizione apre la strada a una comprensione del linguaggio come complesso delle sue pratiche, come pronuncia effettiva delle parole da parte di soggetti parlanti che dialogano reciprocamente nei contesti e nelle svariate circostanze della loro esistenza concreta23. 21.  J.S.I, p. 288 (C., p. 25: «immediatamente cessa di essere proprio mentre è»). 22.  Al riguardo, è da sottolineare come già in questi frammenti il momento intersoggettivo, nella forma concretamente determinata del popolo, emerga come fattore condizionante per l’esistenza del linguaggio: «Il linguaggio è solo in quanto linguaggio di un popolo» (J.S.I, p. 318; C., p. 55). Ciò consente, assieme ai lati già evidenziati della sonorità e temporalità del linguaggio, di pervenire alla seguente, pregnante definizione: «Il linguaggio è universale, un che di riconosciuto in sé, di riecheggiarne allo stesso modo nella coscienza di tutti; ogni coscienza parlante diviene in esso immediatamente un’altra coscienza» (ibidem). Sul tema del riconoscimento nella concezione hegeliana del linguaggio a Jena, sempre suggestive risultano le riflessioni svolte da J. Habermas, Arbeit und Interaktion. Bemerkungen zu Hegels Jenenser «Philosophie des Geistes», in Id., Technik und Wissenschaft als «Ideologie», Suhrkamp, Frankfurt a.M. 1968, pp. 9-47; tr. it. di M.G. Meriggi, Lavoro e interazione. Osservazioni sulla filosofia dello spirito jenese di Hegel, in J. Habermas, Lavoro e interazione, Feltrinelli, Milano 1975, pp. 22-47. 23.  È a J. Simon che risale l’interpretazione secondo cui, nell’Enciclopedia, Hegel perverrebbe a intendere il linguaggio come «die zusammenhängende Gesamtheit des faktischen Sprechens» (Das Problem der Sprache bei Hegel, Kohlhammer, Stuttgart 1966, p. 169: «la totalità interconnessa del parlare fattuale», con particolare riferimento al § 459). Ciò comporta che «Hegel, quando parla del linguaggio, pensa sempre a una determinata situazione linguistica» (Id., Die Kategorien im «gewöhnlichen» und im «spekulativen» Satz. Bemerkungen zu Hegels Wissenschaftsbegriff, in «Wiener-Jahrbuch

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Tuttavia, poiché la linea principale dell’esposizione è fornita dalle configurazioni di volta in volta assunte dal rapporto fra soggetto e oggetto, il testo non approfondisce questi spunti nella direzione sopraindicata, e focalizza invece l’attenzione sul nome in quanto cellula fondamentale del linguaggio. A questo proposito, in sede ermeneutica è stato affermato che «il privilegio irriducibile del nome è la chiave di volta della filosofia del linguaggio hegeliana»24. Ora, tali formulazioni possono rivelarsi fuorvianti se estese alla totalità della concezione del linguaggio in Hegel, e appaiono riduttive anche semplicemente in rapporto alla trattazione che al linguaggio viene riservata nell’ambito della filosofia dello spirito. Tuttavia, esse hanno il merito di richiamare l’attenzione sulla profonda necessità sistematica cui la produzione dei nomi viene a rispondere. Il nome consente di recuperare alla presa della spiritualità coscienziale la cosalità resistente, nel rapporto di segno, al processo di significazione innescato dal soggetto, salvaguardando in pari tempo quest’ultimo dalla ricaduta nell’irrealtà dell’immaginazione25. Come esteriorità in se stessa interiore o «ideale», esso si dispone senza residuo alla ricezione dei significati spirituali, garantendone simultaneamente quello statuto di oggettiva esternità, cui essi invano aspiravano nel segno. In base a queste coordinate, il testo intende il nome non solo come il prodotto coscienziale in cui il rapporto di segno perviene al suo compimento, ma in pari tempo – secondo l’acce-

für Philosophie», III, 1970, pp. 9-37: p. 29). Anche D.J. Cook, Language in the Philosophy of Hegel, Mouton, The Hague-Paris 1973, osserva che «l’importanza di valutare il linguaggio nel suo proprio contesto storico e sociale è rafforzata dalla preferenza di Hegel per la parola parlata» (p. 180). Ma in realtà, proprio tale «preferenza» si troverà messa in dubbio, o perlomeno fortemente problematizzata, sin dagli scritti jenesi del 1805-06. 24.  J. Derrida, Le puits et la pyramide, cit., pp. 65-66. 25.  Sull’immaginazione. cfr. J.S.I, pp. 284-285 (C., pp. 21-22).

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zione più «classica» dell’Aufheben dialettico – come ciò che porta quel rapporto al suo dissolvimento, alla sua risoluzione. Mentre «il segno era precedentemente in quanto segno un nome che era per sé ancora qualcosa d’altro che un nome, cioè una cosa»26, nel nome l’oggetto è ridotto alla sola funzione di supporto espressivo del senso, senza nessuna ulteriore consistenza. L’evanescenza della parola sonora, in cui il substrato cosale che permaneva nell’oggetto segnico viene immediatamente cancellato, è la condizione che consente l’instaurarsi di un predominio «assoluto» da parte dei significati, impressi compiutamente nel materiale atmosferico del nome come suo istantaneo dileguarsi. Ciò che solamente permane, dopo la scomparsa del suono, è il significato, mentre viceversa la volatilizzazione del nome realizza l’assoggettamento della materia alla signoria dello spirito27. Così, all’evanescenza del nome Hegel coniuga l’emancipazione del significato dalla dipendenza che lo vincolava, nel segno, alla coscienza. L’assegnazione del senso all’oggetto veniva decisa, nella stumme Bezeichnung, dall’arbitrio del soggetto. Ma 26.  J.S.I, p. 288 (C., p. 25). 27.  Sulla connessione fra evanescenza del suono, permanenza del significato e comprensione linguistica, cfr. J. Simon, Das Problem der Sprache bei Hegel, cit., pp. 44 e 125; e K. Löwith, op. cit., p. 107: «Il suono come tale si estingue, quando viene compreso come suono linguistico». A tale proposito, F. Schmidt, Hegels Philosophie der Sprache, in «Deutsche Zeitschrift für Philosophie», IX, 1961, pp. 1479-1486, parla di «essenziale “doppia natura” sensibilmente insensibile» del linguaggio, e mette in relazione con questo lato l’impossibilità per esso di assurgere, nel sistema di Hegel, «al rango dell’assoluta autocoscienza» (p. 1486). Viceversa, D.J. Cook, pone in rilievo l’omogeneità di tale «doppia natura» della parola parlata con la nozione hegeliana dello spirito: «l’attività del linguaggio parlato serve come paradigma per la trascendentesi attività dello spirito» (op. cit., p. 126). Ma la preferenza accordata al momento «orale» del linguaggio non consente di cogliere, in sede ermeneutica, la funzione costruttiva in senso epistemico che il linguaggio viene ad assumere in Hegel.

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ciò accadeva perché il significato non riusciva a imprimersi nel materiale, e richiedeva perciò l’ausilio dell’esplicazione soggettiva per venire alla luce. Nel momento in cui l’elemento fisico naturale prescelto dalla coscienza sia il suono, invece, il significato marchia senza residuo di sé il lato oggettivo, perché quest’ultimo si dissolve in se stesso. Per emergere, quindi, non ha più bisogno del soggetto, bensì è presente immediatamente nella parola. Nel nome, il significato perviene alla sua propria autonomia28. Ma è rispetto all’oggetto intuitivo designato che il testo determina la funzione del nome in rapporto al telos del divenire-­ coscienza della sensazione. Abbiamo già anticipato che essa consiste nel predisporre la trasformazione della singola sensazione in universale, nel preparare insomma la transizione al concetto dell’intelletto. Ora, anche da questo lato si misura l’eccedenza che separa il nome dal segno. Quest’ultimo, infatti, si mostrava inadatto a svolgere tale funzione, perché «l’oggetto designato aveva il suo segno fuori di sé; non era posto come un che di tolto»29. Nel rapporto semiotico, non soltanto l’attività soggettiva della significazione lasciava inalterato il suo supporto materiale, ma dall’operazione non veniva investita nemmeno la cosa indicata; anch’essa continuava a sussistere, sia in sé che in relazione al contesto della situazione circostante. Al contrario, il nome annulla l’autonomia dell’em28.  Nel segno «il significato deve essere per sé; opposto a ciò, che significa [l’oggetto usato come segno; N.d.A.], ed a ciò, per il quale esso ha il significato [e cioè il soggetto; N.d.A.]»; «il nome invece è in sé, durevole, senza la cosa e il soggetto» (J.S.I, risp. p. 287 e p. 288; C., p. 24 e p. 25). Sull’unità di significato e significante raggiunta nel nome, cfr. J. Hyppolite, La première philosophie de l’esprit de Hegel, in Id., Figures de la pensée philosophique, 2 voll., Puf, Paris 1971, vol. I, pp. 309-331, a p. 323, dov’è ben rilevato come su questa base il nome venga, da un lato, distinto efficacemente dal segno semplice, e dall’altro cessi di venire inteso come arbitrario. 29.  J.S.I, p. 288 (C., p. 25).

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piricamente concreto, ne cancella la molteplicità qualitativa, e trasformandolo finalmente in proprietà dello spirito lo innalza a «opposto in sé», per cui Hegel può affermare che «nel nome si realizza il porre-idealmente l’intuizione empirica»30. Ciò che in quest’ultima appariva alla stregua di un contenuto meramente sentito, nel nome diventa un esistente che dilegua in se stesso; l’oggetto non proietta più l’altro al di fuori di sé, bensì, comprendendo la negatività al proprio interno, diventa l’opposto di se stesso. Ma nonostante l’affermazione di Hegel sopra riportata, sarebbe errato considerare compiuto nel nome il processo del divenire-­coscienza della sensazione. In effetti, è solo nel concetto intellettuale che la trasformazione della sensazione in «opposto in sé», già iniziata col semplice nome, si realizza esaustivamente. Da un lato, recando la sensazione a linguaggio, il nome la trasforma in un «opposto in sé»; dall’altro, però, proprio in quanto è la negazione di un singolo contenuto sentito, esso è vincolato all’espressione di un significato altrettanto particolare, singolarizzato. Anche il nome deve quindi attuare in se stesso la trasformazione nell’opposto, togliere la determinatezza che ancora gli impedisce di recare all’espressione un contenuto universale, completando in tal modo realmente il divenire-coscienza della sensazione. Hegel ha in mente una relazione come quella di diverse specie al loro genere. Da questo punto di vista, il significato particolare del singolo nome implica che esso debba riferirsi anche ad altri nomi, esprimenti significati correlati al suo, ma in pari tempo anche diversi e opposti. In questo movimento di auto-riferimento ad altro e di auto-negazione, il nome «supera» la sua determinatezza, si trasforma in «opposto in sé» e diventa concetto universale dell’intelletto. In quest’ultimo è finalmente raggiunto

30.  J.S.I, p. 290 (C., p. 27).

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il telos cui il divenire-coscienza della sensazione incessantemente tendeva. Per illustrare il processo così compiuto, Hegel impiega un esempio tratto da quella che, con suggestione wittgensteiniana, potremmo chiamare una «grammatica» dei colori31. Nel nome di un singolo colore (ad es., «blu»), il contenuto percettivo è certamente trasformato in un «opposto in sé»: e tuttavia – dice Hegel – «esso è pur sempre questa determinatezza», «il nome stesso è ancora una idealità singola»32; viceversa, solo nel concetto universale di «colore» «il blu sentito cessa immediatamente d’essere questo blu» e diventa «l’opposto di se stesso, i restanti colori a lui opposti… che esso divenga immediatamente colore, questo eleva la sensazione oltre se stessa; essa è passata a coscienza»33. Ora, una delle caratteristiche originali del testo jenese del 1803-04, rispetto alle stesure successive, sta nella funzione svolta dal linguaggio nel processo di trasformazione del nome in concetto. Il superamento della singolarità del nome, infatti, non viene presentato solo come un movimento logicamente necessitato dalla determinatezza del suo significato, bensì è concretamente specificato in rapporto al linguaggio compreso come linguaggio. È vero, la definizione che in un primo tempo viene fornita del linguaggio è piuttosto insoddisfacente, in quanto esso vi appare solo come «una molteplicità di nomi»34. Tuttavia, il punto da sottolineare è che questa determinazione viene intesa da Hegel come puramente astratta, come una 31.  «Grammar of colour concepts»: espressione impiegata, sia pure in un contesto diverso, da D. Lamb, Language and perception in Hegel and Wittgenstein, Avebury, Aldershot 1979, p. 64. 32.  J.S.I, risp. p. 289 e p. 290 (C., p. 26 e p. 27). 33.  J.S.I, p. 262; ma cfr. anche p. 293 (C., p. 29). In sede ermeneutica, cfr. M. Clark, Logic and System. A Study of the Transition from “Vorstellung” to Thought in the Philosophy of Hegel, Nijhoff, The Hague 1971, p. 65. 34.  J.S.I, p. 289 (C., p. 26).

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prima approssimazione verso la comprensione concreta del linguaggio. Considerato come tale, il singolo nome dovrebbe esistere in modo autonomo, separato da ogni altro nome. E tuttavia, esso si trova già da sempre compreso nel linguaggio, in quella che Hegel chiama Einheit des Elementes35. Proprio la sua strutturazione unitaria, quindi, conduce a interpretare il linguaggio non più nel senso di una mera «molteplicità di nomi», ma in quello ben più concreto della loro reciproca messa in relazione: «il linguaggio è la relazione dei nomi, o di nuovo l’idealità della loro stessa molteplicità»36. Il momento della dispersività del linguaggio, indicato nella nozione dell’irrelata molteplicità dei nomi, viene ripreso in se stesso e il linguaggio non appare più come una semplice raccolta di parole, che potrebbero esistere anche indipendentemente le une dalle altre. Questo modo di considerarlo si rivela un’astrazione, che prescinde dal rapporto in cui i nomi si trovano già da sempre gli uni con gli altri. Così, l’asserzione hegeliana secondo la quale «il nome esiste come linguaggio»37 non indica soltanto il fatto che esso «esiste» solo in quanto viene sonoramente pronunciato e acusticamente avvertito, ma che nei discorsi dei parlanti esso compare sempre come un elemento posto in relazione con altri38.

35.  Ibidem. 36.  Ibidem. 37.  J.S.I, p. 288 (C., p. 25). 38.  «In quanto il linguaggio si articola nella molteplicità dei nomi, ma viceversa i nomi hanno la loro esistenza… nel linguaggio, tra nome e linguaggio sussiste un rapporto di mediazione reciproca. Il nome per Hegel non è… semplicemente un elemento originario, dal quale il linguaggio si costruisca unilateralmente e additivamente; esso piuttosto presuppone già sempre il linguaggio» (Th. Bodammer, op. cit., p. 64). Su questo punto, cfr. anche A. Canilli, Il linguaggio nella filosofia del primo Hegel, «Studi italiani di linguistica teorica e applicata», n. 1-2, 1973, pp. 125-189.

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Ora, la determinazione del linguaggio come relazione dei nomi non consente soltanto di pervenire a una sua comprensione concreta. Essa coinvolge anche il processo di genesi dell’intelletto, e la funzione che al suo interno viene svolta dal linguaggio. Se infatti è solo nel linguaggio che i nomi si trovano relati gli uni agli altri, sembra che solo nel linguaggio delle concrete interazioni comunicative essi possano superare il loro carattere di determinatezza ed elevarsi al rango di concetto universale dell’intelletto. D’altro canto, se è vero che il concetto intellettuale si trova già contenuto nel linguaggio, è anche vero che qui esso vi si presenta in maniera relativamente indifferenziata, confuso con gli altri nomi dotati di generalità inferiore. Per questo, in rapporto alla formazione del concetto intellettuale, il testo fa intervenire una nuova funzione spirituale, e cioè la memoria. Quest’ultima opera quella connessione selettiva di parole che si rende necessaria per separare i concetti presenti a livello linguistico dai semplici nomi e per raggiungere quella che potremmo chiamare un’astrazione determinata39. Si tratta quindi di valutare più precisamente il rapporto tra memoria e linguaggio. Ora, proprio alla soglia del passaggio verso il concetto intellettuale, alle due «potenze» viene ascritta un’omo­logia funzionale estremamente significativa: come il linguaggio comprende in sé la capacità di raccogliersi dall’irrelata molteplicità dei nomi, così anche la memoria viene designata nel testo come «unità negativa», capacità cioè di concentrazione e riunificazione del molteplice40. Tale omologia, inoltre, appare strutturalmente connessa al concetto di coscienza presente nel testo. Poiché la coscienza viene intesa da Hegel 39.  In virtù della memoria il singolo nome (il «blu» dell’esempio hegeliano) «viene posto come questo essere-in-relazione, in sé un universale, secondo la determinatezza del suo contenuto un altro da ciò che è: esso è colore, e concetto dell’intelletto, concetto determinato» (J.S.I, p. 290; C., p. 26). 40. Cfr. J.S.I, pp. 289-290 (C., p. 26).

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come il «medio» per la risoluzione e l’unificazione dialettica delle opposizioni, anche la contrapposizione fra memoria e linguaggio può essere ascritta a una modalità di comprensione finita, che considerando l’una situata sul versante della soggettività, disloca l’altro su quello opposto dell’oggettività. Viceversa, essendo la coscienza il «medio» dell’unificazione dialettica di momenti contrapposti, memoria e linguaggio si trovano in essa compenetrati entro un’unità articolata, e tale compenetrazione si riflette nell’omologia funzionale delle determinazioni loro assegnate41. Così, tale impostazione dei rapporti fra memoria e linguaggio impedisce di limitare la funzione di quest’ultimo a quella di mera predisposizione per la formazione del concetto intellettuale e d’interpretarlo come il semplice «oggetto» di un esercizio rammemorante il cui esito, seppure in esso prefigurato, farebbe capo comunque a un soggetto diverso. Lo svolgimento successivo del pensiero di Hegel imboccherà effettivamente questa direzione, e la memoria diventerà funzione esclusiva dell’io, dispositivo finalizzato al consolidamento e alla fissazione da parte sua dei rapporti linguistici. Al contrario, nel testo in questione è il linguaggio ad assumere la funzione di soggetto

41.  «Per il punto di vista della coscienza che bada solo all’opposizione della coscienza, appaiono ancora questi due (lati) della coscienza, ai due lati dell’opposizione; la memoria appare dal lato di ciò che è cosciente; il linguaggio dall’altro lato» (J.S.I, pp. 277-278; C., p. 16). Sulla coscienza come «medio», oltre a loc. cit. e s., cfr. J.S.I, pp. 290-294 (C., pp. 27-30). Particolarmente illuminante, in proposito, J. Taminiaux, Le langage selon les écrits d’Iena, in «Tijdschrift voor Filosofie», XXXI, n. 2, 1969, pp. 363-377, a p. 373: «Bisogna dire nello stesso tempo che il colore è appartenente alla natura come determinazione particolare, e che è solamente nel rapporto al suo essere-soppresso, il nome, e il linguaggio non è né dal lato del soggetto come facoltà, né dal lato dell’oggetto come determinazione cosale, ma è l’unità e il medio dei due, il movimento nel quale questa opposizione è soppressa, ciascuno dei suoi momenti passando nell’altro».

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del processo di intellettualizzazione: è «il linguaggio, che eleva sé all’intelletto», che «diventa l’intelletto»42, e precisamente in quanto «si riprende dalla molteplicità assoluta»43. L’intelletto, quindi, sorge in questo testo mediante il movimento di autoriflessione del linguaggio, che non si limita a predisporre la trasformazione della sensazione in concetto, ma la attua anche. A sua volta, la collocazione in questo ruolo del linguaggio comporta una dislocazione del concetto di memoria nei suoi confronti, anche rispetto alle successive filosofie dello spirito. Per essere funzione della coscienza, cioè, la memoria deve determinarsi altrettanto come funzione del linguaggio. Se l’intelletto sorge mediante l’auto-riflessione del linguaggio, e la memoria costituisce un momento essenziale di questo movimento, essa deve appartenere al linguaggio come soggetto effettivo del processo di astrazione, e solo in tal modo può determinare la sua funzionalità per la coscienza. Ciò è rispondente e in qualche misura necessitato dalla nozione di coscienza come medio unificatore di lati altrimenti opposti. Inoltre, permette d’intendere le relazioni fra memoria e linguaggio nel senso della circolarità dialettica, l’unica in grado di soddisfare i requisiti posti da quel concetto di coscienza a un intendimento filosofico adeguato. E dunque, come alla memoria è ascritta la funzione di stabilizzare il rapporto fra parole e significati, così viceversa essa verrebbe a scaturire dal linguaggio, come effetto delle sue pratiche e del suo esercizio. Purtroppo, il testo non approfondisce questo plesso di problemi, e non consente di chiarire come il linguaggio possa sedimentarsi in memoria. L’approfondimento di tale questione avrebbe richiesto di focalizzare l’attenzione sull’aspetto disciplinare del linguaggio, sul suo coagularsi in norme e divieti che 42.  J.S.I, risp. p. 294 e p. 289 (C., p. 31 e p. 26). 43.  J.S.I, p. 289 (C., p. 26).

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producono memoria esercitando i soggetti ad attitudini mentali e comportamentali ripetitive e standardizzate. Tale aspetto, per quanto compaia in Hegel già nella filosofia dello spirito del 1805-06, è stato posto al centro della discussione in termini esaurienti solo dalla filosofia del linguaggio del secolo scorso44. E del resto, quando la tematizzazione del momento coercitivo legato alla memoria e connesso con il linguaggio sarà intrapresa da Hegel, essa avverrà nei modi di un’inversione in pari tempo specifica e sintomatica. La memoria, cioè, verrà interpretata come funzione di disciplinamento linguistico; ma poiché al linguaggio verrà tolto lo statuto di soggetto del processo di intellettualizzazione, essa si situerà totalmente dal lato dell’io, e il disciplinamento non sarà inteso come un portato del linguaggio, ma verrà imposto a quest’ultimo dall’io. L’intento di queste osservazioni, comunque, non è quello di criticare la concezione hegeliana del linguaggio; si tratta piuttosto di porre le basi per individuare le scansioni e gli slittamenti che fra il 1803-04 e il 1805-06 interverranno a trasformare profondamente l’assetto di questa sezione della filosofia dello spirito. Mutando l’equilibrio interno fra linguaggio, memoria e intelletto, già nel 1805-06 esse condurranno a una definizione dei rapporti fra pensiero e linguaggio strutturalmente connessa e condizionante rispetto alla concezione della Darstellung speculativa, per come essa verrà a teorizzarsi

44.  Intendiamo riferirci, in particolare, alla nozione di addestramento linguistico in Wittgenstein (su cui cfr., a titolo puramente esemplificativo, Philo­ sophical Investigations, Basil Blackwell, Oxford 1953; tr. it., Ricerche filosofiche, a cura di M. Trinchero, Einaudi, Torino 1974, § 5, p. 11). Alcuni spunti in rapporto a Hegel presenta D. Lamb, op. cit., pp. 38-42. Altrettanto importante sarebbe il raffronto con le osservazioni di Nietzsche sul rapporto tra disciplinamento linguistico, formazione della memoria ed esercizio della crudeltà.

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nella Vorrede alla Fenomenologia dello spirito. Ma appunto per questo, ci sembra fondamentale insistere, all’altezza della filosofia dello spirito jenese del 1803-04, sulla linguisticità dell’intelletto nel senso specifico della sua pronuncia concreta. Il divenire-coscienza della sensazione non si esaurisce nel semplice nome; tuttavia, poiché si attua nel linguaggio e come linguaggio, poiché soltanto l’auto-riflessione dei singoli nomi nella loro idealità costituita dalla Sprache conduce la coscienza al concetto universale, è solo mediante questa generalizzazione nel linguaggio, e non oltre il linguaggio, che essa è in grado di sciogliere i legami con l’esistenza sensitiva, in cui lo spirito è ancora «animale». L’intelletto perciò designa l’autoriflessione del linguaggio, che non si attua mediante il suo superamento, ma come selezione di concetti che, trovandosi comunque nel linguaggio, permangono nomi. Anch’essi dunque «esistono come linguaggio». In sede ermeneutica, è stato affermato che «a questo livello la coscienza supera il linguaggio o, almeno, il linguaggio in quanto è un’espressione esteriore»45. Ma se ciò è valido già in rapporto alla stesura del 1805-06, manca di cogliere la peculiarità forse più dirompente, dal punto di vista concettuale, del testo del 1803-04: per esso, infatti, il linguaggio non è soltanto «la relazione dei nomi», ma «esprime appunto questa relazione»46, cosicché «il concetto, come tutto, cade anch’esso nel linguaggio ed è un concetto assolutamente comunicabile»47. Solo l’atto dell’esplicita enunciazione del concetto mostra come effettualmente raggiunto il livello dell’intelletto; quest’ultimo, quindi, non recide affatto il radicamento della coscienza nell’«esistenza universalmente comunicante» 45.  G. Planty-Bonjour, Introduction, in G.W.F. Hegel, La Première philosophie de l’esprit (Iéna, 1803-1804), Puf, Paris 1969, p. 30. 46.  J.S.I, p. 289 (C., p. 26). 47.  J.S.I, p. 294 (C., p. 31).

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del linguaggio, ma designa l’esser-­divenuta concetto della parola «esteriormente» risonante.

2. Pensiero e linguaggio nella filosofia dello spirito jenese del 1805-06 Le relazioni fra linguaggio e intelletto risultano invece impostate in maniera profondamente diversa nel testo di filosofia dello spirito del 1805-06. Questo mutamento nella concezione hegeliana produce uno slittamento complessivo, che coinvolge sia l’interpretazione del linguaggio, sia le connessioni intra-­sistemiche che lo mettevano in rapporto col segno e la memoria. Per quanto riguarda il primo punto, questo scritto ci presenta una nozione di segno che pone decisamente in secondo piano le riserve formulate nei suoi confronti da Hegel nel 1803-04. Adesso, al segno non spetta più la determinazione del «dover essere» che gli veniva assegnata in precedenza; piuttosto, in esso l’io perviene a realizzare un’appropriazione radicale dei contenuti intuitivi, perché questi ultimi non contano più come presenze sussistenti, cose reali, ma solo in quanto fungono da supporti per il significato spirituale48. E tuttavia, benché in esso il segno non venga più interpretato alla stregua di un «dover essere», tale testo riprende, sia pure in forma contratta, le critiche che alla stumme Bezeichnung Hegel muoveva in J.S.I, e che anche qui vengono impiegate in funzione della transizione al linguaggio: nel segno, infatti, «l’io è oggetto esso stesso come interno della cosa, questa interiorità della cosa è ancora separata dal suo essere»49. Secondo la terminologia precedente, abbiamo il mancato superamento 48.  Cfr. J.S.III, pp. 188-189 (C., pp. 72-73). 49.  J.S.III, p. 189 (C., p. 73).

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del soggetto nell’oggetto, con la conseguente necessità, per lo spirito, di produrre il linguaggio: «l’interiorità dev’essere rovesciata, essere esteriormente: ritorno all’essere. Questo è il linguaggio»50. La transizione al linguaggio si svolge così secondo modalità analoghe a quanto accadeva in J.S.I, anche se ciò avviene a prezzo di una concezione teoreticamente ambigua del segno. Da un lato, poiché il segno non è più assimilato a un rapporto di «dover essere», sembra che in esso il toglimento dell’oggetto sia compiutamente realizzato; dall’altro, però, Hegel mantiene le riserve che aveva espresso nei suoi confronti negli abbozzi del 1803-04. In virtù di questa ambiguità, la transizione al linguaggio non presenta quei problemi di connessione intra-sistemica, che vedremo invece porsi nella versione enciclopedica della psicologia. Benché ciò situi questo scritto in una posizione intermedia fra i testi del 1803-04 e l’Enciclopedia, esso si trova in realtà sbilanciato dal lato della seconda, in quanto dei primi conserva le critiche al segno, ma le subordina a un’interpretazione che si esprimerà appunto senza oscillazioni nella sezione teoretica della matura psicologia, per cui essendo nell’invenzione semiotica realizzata compiutamente l’appropriazione dell’oggetto concreto da parte dello spirito, essa potrà venir definita come «qualcosa di grande»51. Tuttavia, il mutamento più significativo, non soltanto per i cambiamenti che provoca negli equilibri interni alla filosofia dello spirito, ma per le conseguenze che produce in rapporto alla formazione/costituzione dell’assetto epistemico complessivo del pensiero hegeliano, riguarda la concezione del linguaggio e le modalità impresse all’articolazione e all’approfondimento del concetto di memoria. Negli abbozzi del 1805-06, cioè, il linguaggio non si articola più nei momenti polarmente opposti

50.  Ibidem. 51.  Enz., III, § 457, Z., p. 269.

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della molteplicità dei nomi e della loro messa in relazione, e in tal modo cessa di funzionare da soggetto del processo di formazione dell’intelletto. Ciò comporta che la funzione di operare e stabilizzare le connessioni fra i nomi spetta ora esclusivamente all’attività di memorizzazione condotta sul linguaggio dall’io. Il testo definisce infatti il sorgere della memoria come la riflessione dello spirito in sé dal suo denominare52, rapporta la sua genesi al momento in cui l’io non crea più, ma osserva e rende oggetto di fronte a sé i nomi come prodotti fissati. La pronuncia si arresta e le parole vengono conservate silenziosamente all’interno della coscienza. Il processo della memorizzazione si svolge così nell’interiorità silenziosa dell’io, rappresenta il lavoro di coercizione e disciplinamento cui egli stesso si piega per consolidare il linguaggio, per stringere e sostenere le relazioni dei nomi e fra nomi e significati53. Solo una volta portato a termine questo lavoro, solo una volta che la pluralità dei nomi sia stata trasformata in un sistema di rapporti consolidati e saldi come un destino54, soltanto allora l’io sarà pervenuto all’universalità dell’intelletto. Ma appunto, il fatto che il linguaggio non funga più da soggetto dell’auto-riflessione in intelletto, il fatto che il soggetto esclusivo del processo che conduce alla formazione di quest’ultimo sia l’io, fa sì che tutto il movimento resti incluso nella silenziosità che avvolge l’attività della memorizzazione, e che l’intelletto stesso permanga entro la sfera di questa interiorità che non parla. In J.S.I, l’intelletto si manteneva sonoramente linguistico, perché al linguaggio spettava il ruolo di promuovere la 52.  «Lo spirito va in sé da questo essere del nome, ovvero il suo denominare gli è oggetto come un regno, come una pluralità di nomi» (J.S.III, p. 191; C., p. 76). Sull’attività della memoria, cfr. J.S.III, pp. 191-196 (C., pp. 76-81). 53.  «La memoria è perciò il primo lavoro dello spirito ridestato come spirito» (J.S.III, p. 193; C., p. 78). 54. Cfr. infra, nota 59.

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relazione dei nomi e il divenire stesso del concetto; in J.S.III, al contrario, la perdita di quella funzione da parte del linguaggio e la sua assunzione da parte dell’io comporta l’impossibilità, per lo spirito, di tornare dal processo di memorizzazione alla pronuncia concreta del concetto. A partire da questo testo, dunque, la filosofia dello spirito comincia a orientarsi verso un pensiero inteso come attività silenziosa. Certo, un’impostazione simile della filosofia dello spirito pare condurre a una subordinazione del linguaggio da parte del pensiero, a una riduzione del significato che assume per lo spirito il momento dell’interazione comunicativa concreta, della pronuncia di una parola risonante esteriormente e intersoggettivamente avvertibile. Ma non sono osservazioni di questo tipo che possono condurre alla valutazione adeguata del significato che il nuovo assetto della filosofia dello spirito riveste per la costruzione del dispositivo teorico hegeliano. Invece, è proprio da questo lato che tali modificazioni, lungi dal comportare una riduzione o una «perdita», manifestano la loro piena funzionalità, il «progresso» che esse rappresentano in rapporto all’assunzione da parte del pensiero di uno statuto epistemico. Solo svincolando il pensiero dal momento della sua concreta pronuncia, solo riservandolo entro il perimetro silenzioso dell’interiorità spirituale diventa possibile intendere la questione della Darstellung nella sua crucialità filosofica, anzi solo in tal modo se ne rende possibile, in Hegel, la stessa teorizzazione55. Tanto 55.  Ricordiamo come Hegel rimproveri Hamann per aver affidato al linguaggio la risoluzione delle antinomie della ragione. Cfr. in proposito G.W.F. Hegel, Hamanns Schriften, in Id., Samtliche Werke, Bd. 11, Berliner Schriften, hrsg. v. J. Hoffmeister, Meiner, Hamburg 1956, pp. 221-294. Per un confronto fra le concezioni di Hegel e quelle di Hamann, rimandiamo allo studio di S. Dunning, The Tongues of Men. Hegel and Hamann on Religious Language and History, Scholars Press, Missoula 1979; un resoconto sintetico ma esauriente delle critiche del primo al secondo si trova in Th. Bodammer, op. cit., pp. 183-185.

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più che le modalità concrete secondo cui si svolge il processo di memorizzazione non mostrano soltanto che lo spirito in esse procede restando in silenzio, né che in questo silenzio si trova avvolto anche l’intelletto; poiché l’attività della memoria si esercita sul linguaggio, e produce l’interiorizzazione e il rafforzamento dei rapporti linguistici, esse mostrano anche come lo «spazio» silenzioso dell’interiorità soggettiva sia interamente attraversato dal linguaggio, solcato dalle parole56; come quindi la silenziosità dell’intelletto non conduca alla cancellazione del linguaggio, ma equivalga piuttosto all’instaurazione di un silenzio che si mantiene linguisticamente articolato57. Del resto, la teoria dell’esposizione speculativa sviluppata nella Vorrede alla Fenomenologia è coerente con l’assetto delle relazioni fra pensiero e linguaggio presente in J.S.III anche da un altro punto di vista. Infatti, con la memorizzazione del linguaggio, l’io è costretto ad abbandonare la libertà di cui godeva nel momento della «denominazione»58, dell’invenzione dei nomi. L’io può disciplinare il linguaggio e istituirlo in ordine permanente solo disciplinando se stesso. Così facendo, da un lato, si sottomette a un ordine che gli s’impone come necessa-

56.  «L’io… non solo deve in generale intuire i nomi, ma deve intuirli nel suo spazio in quanto ordine stabile…» (J.S.III, p. 192; C., p. 77). 57.  Scrive in proposito J. Derbolav: «Il linguaggio dunque, per via del suo “superamento” nella memoria, si può liberare della sua figura corporea, e come movimento del pensiero esistere per sé… Ma certo, tale movimento resta ancora linguisticamente vincolato: il pensiero ha bisogno della parola, per determinarsi e conferirsi… durata» (Hegel und die Sprache. Ein Beitrag zur Standortbestimmung der Sprachphilosophie im Systemdenken des Deutschen Idealismus, in Sprache – Schlüssel zur Welt. Festschrift für Leo Weisberger, hrsg. v. H. Gipper, Schwann, Düsseldorf 1959, pp. 55-86: p. 63). La parola cui fa riferimento Derbolav, però, non sarà più quella oralmente pronunciata, bensì quella fissata nelle forme della scrittura filosofica. 58.  Il linguaggio compare in questo testo come «Nahmengebende[n] Kraft» (J.S.III, p. 189; C., p. 73).

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rio; dall’altro, però, tale ordine resta arbitrario e contingente, proprio in quanto esso è stato liberamente instaurato da lui. In tal modo, l’io – dice Hegel – «si trasforma nella necessità – ma la necessità vuota, proprio come quando diciamo: destino [e] non sappiamo quale sia la sua legge, il suo contenuto, che cosa esso voglia»59. Ciò significa che il rafforzamento dei legami linguistici, l’interiorizzazione e la messa in rapporto dei nomi, il movimento con cui l’io si eleva all’intelletto si attuano in pari tempo come il processo della sua reificazione interiore: «Io sono ordine, porre in relazione, agire; ma l’ordine è arbitrario – l’io si è perciò trasformato nella cosa [Ding]»60. Ora, ciò per Hegel significa che l’io, attraverso la memorizzazione del linguaggio e la reificazione da essa introdotta a livello spirituale, diviene a sua volta, dialetticamente, interno alla «cosa». Ma rendendosi immanente all’oggetto, facendosi esso stesso oggetto, l’io non si limita semplicemente a togliere la differenza che prima lo separava da questo. Il movimento che conduce il soggetto a farsi «cosa», che culmina con l’interiorizzazione del soggetto nella «cosa», non livella la differenza, non ne provoca l’appiattimento; piuttosto, esso disloca il luogo in cui la differenza giunge a effettuazione. E cioè, se la differenza si collocava prima fra l’io e l’oggetto, essa diventa ora interna a quest’ultimo, producendo un mutamento complessivo nei modi di attuazione e nello statuto logico-­semantico della nozione di oggettività. Non soltanto, infatti, per la presenza in essa dell’io, la «cosa» ospita entro di sé quella necessità cui l’io medesimo si era piegato; ma soprattutto, l’immanenza del Sé dell’io nella «cosa» trasforma quest’ultima in auto-­movimento e soggettività, la istituisce come processualità diveniente: «Cosa, intelletto, necessità – cosa in quanto univer-

59.  J.S.III, p. 192, osservazione a margine (C., p. 77). 60.  J.S.III, p. 196 (C., p. 81).

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salità semplice, necessità in quanto auto-movimento. La cosa ha in essa la necessità, giacché ha in essa il Sé dell’io. Distinzione nella cosa è distinzione nel Sé – cioè relazione negativa in se stessa»61. Nella terminologia già in voga in questo testo, e che nella Vorrede alla Fenomenologia troverà largo impiego, ciò equivale a dire che il disciplinamento linguistico attivato dall’io toglie all’oggetto l’inerzia e l’immobilità, in cui se fosse mero Ding resterebbe compreso, e ne promuove la costituzione in Sache, sostanza che in pari tempo si attua come processualità diveniente62. Proprio le modalità rigorosamente linguistiche cui la realizzazione dei processi in questione (reificazione dell’io e simultanea soggettivazione dell’oggetto) è vincolata ne fanno emergere la connessione funzionale in rapporto alla teoria dell’esposizione filosofica. Da un lato, infatti, la cosa diventa «relazione negativa in se stessa» e «necessità in quanto auto-movimento» solo perché ospita al suo interno il Sé dell’io; dall’altro, però, la reificazione dell’io coincide con la memorizzazione dei nomi

61.  Ibidem. 62.  Nelle pagine di J.S.III qui prese in considerazione, il termine Sache compare in due contesti estremamente significativi. Nel primo, una nota a margine definisce la memoria come «ripetizione del medesimo», specificando le modalità del suo funzionamento nel soggetto come «ripetere qualcosa già nota, dove non c’è più alcun interesse per la cosa [Sache]» (J.S.III, p. 194; C., p. 79); nel secondo, e più indicativo, un’altra osservazione a margine, insolitamente estesa, schizza il movimento che conduce dalla memorizzazione del linguaggio all’intelletto: «L’io intuisce la categoria, l’io conosce concettualmente [begreifft], ciò che esso comprende è la cosa stessa [die Sache selbst]»; e a evitare interpretazioni soggettivistiche, Hegel prosegue: «ma non perché esso comprende o è la forma della egoità, bensì perché comprende la cosa [die Sache]…» (J.S.III, p. 195; C., p. 80). Sul senso complessivo della Sache selbst, cfr. R. Bodei, Scomposizioni. Forme dell’individuo moderno, Einaudi, Torino 1987, pp. 221 ss., e la letteratura ivi citata. Per la funzione e l’impiego del termine/concetto nella Vorrede, cfr. infra, nota 74.

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e del linguaggio. E quindi, la «cosa» può ospitare il Sé dell’io soltanto in quanto ne ospita in pari tempo, e silenziosamente, le parole e il linguaggio, tramite l’interiorizzazione e il consolidamento dei quali lo stesso io si faceva oggetto. Così, la «cosa» si trasforma in auto-movimento e negatività solo perché al suo interno contiene il linguaggio, solo perché si discopre essa stessa come linguaggio. Un linguaggio che, certamente, non è più quello sonoramente vibrante della pronuncia concreta, che è passato attraverso il filtro della memorizzazione con cui il soggetto lo aveva disciplinato e in pari tempo fatto ammutolire. Ma è proprio questo linguaggio, consolidato e trattenuto entro lo «spazio» silenzioso dell’interiorità spirituale, che consente d’intendere nel suo statuto di necessità il fatto che in Hegel la filosofia si teorizzi «come» Darstellung. Da una parte, infatti, l’internità del linguaggio nella «cosa» impone a un pensiero che voglia cogliere la Sache selbst di articolare discorsivamente le sue conoscenze, di enunciare esplicitamente e di strutturare in forma linguistica il contenuto del suo sapere. Dall’altra, la configurazione del linguaggio nella forma dell’esposizione filosofica può presentarsi fin dal principio con una valenza soggetto-oggettiva. L’articolazione speculativo-linguistica del sapere non eleva a connessione sistematica categorie prive di statuto conoscitivo; al contrario, in essa la capacità di strutturazione scientifica del pensiero può emergere in tutta la sua potenza, perché la Darstellung è l’organizzazione in dispositivo epistemico del linguaggio, che la filosofia dello spirito ha dimostrato immanente alla «cosa» sin dal momento in cui questa ospitava al suo interno il Sé dell’io. La conversione della soggettività nella «cosa», che si compie con la memorizzazione dei nomi, conduce a determinare in senso linguistico sia la costituzione della «Sache selbst», sia la realizzazione del sapere; quest’ultimo trova nell’esposizione la sua forma di attuazione in pari tempo necessaria e possibile, in quanto l’esposizione viene intesa da Hegel come la configura-

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zione logico-linguistica in cui il linguaggio della «cosa stessa» si eleva a scientificità63. Certo, l’esposizione speculativa della «cosa stessa» non può equivalere semplicemente alla riproduzione e all’impiego dei moduli più elementari del linguaggio ordinario. In effetti, l’incorporazione del Sé nell’oggettività, che si attua per il tramite della memorizzazione dei nomi, coincide simultaneamente col raggiungimento, da parte dell’io, del concetto universale dell’intelletto. Le categorie di «cosa» e di «necessità», come abbiamo visto, si situano propriamente a questo livello. Ma ciò comporta la determinazione, da parte del Verstand, di una situazione profondamente contraddittoria: da un lato, infatti, l’internità del Sé nella «cosa» rende immanente a quest’ultima la differenza, costituisce il Ding in «relazione negativa in se stessa» e «auto-movimento»; dall’altro, però, il processo di questa trasformazione avviene sotto il segno dell’intelletto, nel senso che quest’ultimo ne rappresenta l’esito finale. E l’intelletto, per Hegel, designa la funzione spirituale che produce concetti determinati, che stabilisce e immobilizza le differenze, che mira insomma a rendere permanenti rapporti di distinzione e di separazione. Ciò permette di comprendere perché la formulazione di una teoria della Darstellung, quale sarà presentata da Hegel nella Vorrede alla Fenomeno63.  Poiché «per Hegel il linguaggio» sarebbe «a tutti i livelli essenzialmente “segno”» (K. Löwith, op. cit., p. 111), ma quest’ultimo presuppone e si «fonda» sulla reciproca estraneità fra spirito e cose, uomini e mondo, l’autore si chiede come nel linguaggio umano possa presentarsi «il concetto della cosa [Sache]» (ivi, pp. 112-113); in quanto la lingua è un complesso di segni, infatti, lo iato fra soggetto e oggetto dovrebbe apparire insuperabile. Löwith ritiene quindi che Hegel possa risolvere tale problema «solo in base a una retrostante antropo-teologia cristiana» (ivi, p. 113). In realtà, come abbiamo visto, la questione risulta mal posta, perché proprio con la memorizzazione del linguaggio l’io si rende «interno» alla cosa, così come quest’ultima si mostra linguisticamente articolata.

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logia dello spirito, non potrà limitarsi ad asserire la necessità dell’enun­ciazione linguistica della «cosa stessa» da parte del sapere, ma dovrà fornire la specificazione concreta delle modalità con cui salvaguardare la Sache selbst nel suo carattere di negatività e auto-movimento. La matrice intellettuale della linguisticità della «cosa stessa» tende infatti a immobilizzare in rapporti determinati di finitezza la sua dinamica processualità. Da qui il duplice statuto, logico e linguistico, della Darstellung. Dal punto di vista logico, quest’ultima «supera» (secondo l’accezione hegeliana dell’Aufheben) la propensione dell’intelletto alla reificazione del movimento nel triplice senso che la conserva in forma di determinazione delle categorie, la annulla in quanto ne dimostra l’immanente contraddittorietà, la eleva in quanto dalla messa in relazione delle categorie fa scaturire il movimento della risoluzione e conciliazione speculativa delle contraddizioni. Dal punto di vista linguistico, quindi, la Darstellung dovrà adottare un modulo enunciativo adeguato all’esposizione del movimento logico su indicato, che sia in grado di «superare» la tendenza all’immobilizzazione reificante contenuta nella matrice intellettuale della linguisticità della «cosa stessa». Poiché il pensiero hegeliano trova tale matrice impressa nella struttura proposizionale del linguaggio, esso dovrà individuare le modalità di un superamento «speculativo» della proposizione, e cercare d’incorporarle nel movimento complessivo dell’esposizione. Sono tali modalità che la Vorrede alla Fenomenologia presenta nella forma di una teoria della proposizione speculativa, cui viene demandato il compito di dimostrare il processo della risoluzione immanente della proposizione, e di aprire la via a un concetto di Darstellung non più vincolato alla contrazione delle relazioni intercategoriali in singoli giudizi d’inerenza fra un soggetto e un predicato. Certo, la non-coincidenza fra la linguisticità della «cosa stessa» e la sua enunciazione speculativa, che nella Vorrede assumerà formulazione compiuta, ma che solo questi testi di filosofia

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dello spirito consentono d’inquadrare nella sua strutturale necessità, proietta fin d’ora sulla Darstellung un’ombra di problematicità radicale, con la quale Hegel tenterà di confrontarsi sino alla Prefazione del 1831 alla Logica, e che non cesserà di gravare sulle condizioni che governano l’assunzione, da parte del pensiero dialettico, di uno statuto epistemico. Ma appunto, da parte nostra doveva trattarsi, e si tratta tuttora, di articolare quelle condizioni in tutta l’ampiezza della loro complessità, e in primo luogo di esplicitare non solo la fecondità, ma la stessa indispensabilità dell’interrogazione rivolta agli scritti jenesi di filosofia dello spirito come introduzione all’ermeneutica della Darstellung. Da questo lato, il nuovo assetto che nel testo del 1805-06 viene a contraddistinguere le relazioni fra l’io e il linguaggio presenta un ulteriore momento di omogeneità funzionale rispetto alla teoria dell’esposizione sviluppata da Hegel nella Vorrede. Come abbiamo accennato, la Darstellung deve corrispondere al procedimento linguistico dell’Aufhebung di quell’irrigidimento, che il linguaggio della «cosa stessa» tenderebbe a far assumere a quest’ultima in virtù della sua struttura proposizionale. La teoria della proposizione speculativa svolge appunto la funzione di presentare nella loro generalità formale le modalità necessarie secondo le quali si attua il movimento della risoluzione immanente della proposizione. Tale teoria deve consentire al dispositivo linguistico dell’esposizione di svincolarsi dalla morsa dell’enunciazione «immediata», nella forma di singoli giudizi d’inerenza, delle relazioni intercategoriali, e in questo senso di sprigionare le energie speculative che il linguaggio della «cosa stessa» contiene al suo interno, ma che vi si trovano in pari tempo mortificate per la struttura proposizionale in esso impressa dalla sua matrice intellettuale. Ora, lo scarto che in tal modo viene a prodursi fra il linguaggio della Sache selbst e la sua enunciazione speculativa pare richiedere un apporto imprescindibile in senso costruttivo da

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parte del soggetto filosofante; più precisamente, costruttivo in rapporto all’istituzione del dispositivo epistemico, ovvero alle modalità della sua realizzazione linguistica. Ma fino a quando la filosofia dello spirito presenta il linguaggio in veste di soggetto del movimento di formazione dell’intelletto, come accadeva nei testi del 1803-04, diventa quanto mai problematico attribuire ai parlanti la capacità di esercitarne, per così dire, un governo riflesso e metodicamente orientato, in sede filosofica, ad aggirarne le distorsioni in rapporto alla Darstellung della «cosa stessa». Al contrario, il momento saldamente acquisito dell’iniziativa dell’io, la riduzione del linguaggio a oggetto del disciplinamento e della memorizzazione attivati nei suoi confronti dallo spirito – in altri termini, la perdita da parte del linguaggio dello statuto di soggettività – svincolano l’io da un’obbedienza inconscia e potenzialmente totalizzante nei suoi confronti. L’io è così posto in grado di operare, in veste di soggetto filosofante, la valorizzazione delle potenzialità speculative del linguaggio, e di funzionalizzarle alla realizzazione dell’esposizione filosofica64. E tuttavia, anche l’iniziativa autonoma che l’io assume verso il linguaggio entra a far parte, come momento imprescindibile ma comunque parziale, di una più ampia e più complessa configurazione di pensiero. In effetti, abbiamo visto come la memorizzazione dei nomi, conducendo il Sé dell’io nella «cosa», trasformi quest’ultima in «relazione negativa in se stessa» e «auto-movimento»; ma abbiamo visto, anche, come tale auto-movimento, proprio in quanto ospitava al suo interno il Sé dell’io, fosse costituito linguisticamente, si determinasse come linguisticità. Ciò ripropone dunque con forza la questione concernente la soggettività del linguaggio, o in ogni caso 64.  Sulla connessione fra queste pagine di filosofia dello spirito e il problema della Darstellung speculativa, cfr. R. Bodei, Sistema ed epoca in Hegel, il Mulino, Bologna 1975, pp. 251 ss.

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il problema del linguaggio in rapporto all’esposizione speculativa, «scientifica» della verità. Tale problema è opportuno tenere presente sin da ora, non soltanto per la rilevanza specifica che ha assunto nelle interpretazioni hegeliane degli ultimi decenni, ma perché proprio la riflessione sullo statuto e il significato della logica speculativa ha condotto Hegel a tematizzarlo esplicitamente nel suo ultimo, decisivo testo di Prefazione alla Logica. Del resto, all’orizzonte degli scritti jenesi analizzati si profila anche un’altra questione, che dovrebbe emergere con urgenza proprio in virtù dell’orientamento della filosofia dello spirito verso un pensiero che si mantiene silenzioso, verso un linguaggio che si è mostrato immanente alla «cosa stessa», ma che per conseguire tale immanenza ha dovuto subire la memorizzazione da parte del soggetto e in essa ammutolire. La muta linguisticità della «cosa stessa» esige infatti d’essere esposta, al problema della sua esposizione la Vorrede consacra alcuni fra i suoi capoversi più significativi. Eppure, proprio a quella modalità del linguaggio che ne articola le parole restando in silenzio, e all’altezza della cui pratica soltanto la filosofia può teorizzarsi in forma di Darstellung – alla scrittura, vogliamo dire – Hegel non ha riconosciuto la dignità di problema per il pensiero, né vi ha intravisto lo spazio di esercitazione per un’interrogazione filosofica non certo aggiuntiva, quanto piuttosto inscritta in quelle stesse coordinate che orientano il pensiero dialettico alla sua realizzazione effettuale. Ma per determinare con più precisione il luogo teoretico che alle questioni emerse per ultime spetta in rapporto a Hegel, si rende necessario, da parte nostra, affrontare anzitutto la teo­ ria della Darstellung speculativa, per come essa è formulata nella Vorrede alla Fenomenologia dello spirito.

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3. La proposizione speculativa: prospettive ermeneutiche La linguisticità dell’Assoluto hegeliano è stata posta da tempo al centro dell’attenzione critica, e fatta oggetto di studi analitici proprio in rapporto alla teoria della proposizione speculativa. Da un lato, è stato sottolineato come l’effettualità del vero si realizzi in Hegel attraverso la sua esposizione nel linguaggio65; dall’altro, le modalità entro le quali tale esposizione si snoda sono state intese alla luce della dottrina della proposizione speculativa66. Tuttavia, sia per quanto riguarda il livello linguistico all’altezza del quale si dispone in Hegel l’assunzione, da parte del pensiero, di uno statuto epistemico, sia per quanto riguarda la collocazione della teoria della proposizione speculativa in rapporto alla problematica complessiva della Darstellung, sia infine per quanto riguarda il tipo di linguisticità che nella proposizione speculativa perviene a esporsi, sono emerse alcune linee d’interpretazione alle quali spetta il merito indiscutibile di avere sollevato problemi cruciali, di avere anzi individuato nella questione della Darstellung uno dei nodi decisivi per la comprensione del pensiero di Hegel, ma che presentano esiti 65.  Ci riferiamo anzitutto al saggio di W. Marx, Absolute Reflexion und Sprache, Klostermann, Frankfurt a.M. 1967, in part. p. 21; ma al riguardo, cfr. anche L.B. Puntel, Darstellung, Methode und Struktur. Untersuchungen zur Einheit der systematischen Philosophie G.W.F. Hegels, Bouvier, Bonn 1973, pp. 328-329; P. Kemper, Dialektik und Darstellung. Eine Untersuchung zur spekulativen Methode in Hegels «Wissenschaft der Logik», Fischer, Frankfurt a.M. 1980, in part. pp. 23, 223-225; e da ultimo J. Werner, Darstellung als Kritik. Hegels Frage nach dem Anfang der Wissenschaft, Bouvier, Bonn 1986. 66.  «Hegel non ha lasciato nessun dubbio sul fatto che il modello della proposizione speculativa descrive la forma di esposizione valida per la grande Logica» (R. Bubner, Zur Struktur dialektischer Logik, in «Hegel-Jahrbuch», 1974, pp. 137-143: p. 142). Ma su questa connessione, cfr. l’ampio studio di G. Wohlfart, Der Spekulative Satz. Bemerkungen zum Begriff der Spekulation bei Hegel, de Gruyter, Berlin-New York 1981; e ancora J. Werner, op. cit., in part. pp. 178-187.

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ermeneutici tali da suscitare più di qualche perplessità. Il rapporto fra l’Assoluto hegeliano e il linguaggio della Darstellung in cui esso appunto perviene a esporsi, è stato ricondotto a un modello di matrice neo-platonica67, oppure scoperto come la declinazione specificamente speculativa di un rapporto di dominanza del pensiero sulla sua esposizione, dominanza che culminerebbe infine in un’intuizione totalmente a-linguistica dell’Assoluto stesso68. A loro volta, prospettive ermeneutiche diversamente orientate hanno individuato nella proposizione speculativa la modalità propriamente hegeliana di comprensione del linguaggio, il momento in cui il linguaggio si disvelerebbe come la matrice originaria del pensiero e in cui perverrebbe, in forma compiutamente rischiarata, alla consapevolezza speculativa di sé o, che è lo stesso, alla comprensione della sua propria natura speculativa. Così, la proposizione speculativa ha assunto lo statuto di proposizione sonoramente pronunciata, acusticamente avvertibile e avvertita – lo statuto, insomma, di espressione ed esposizione di ciò che in ogni frase 67.  Cfr. W. Marx, op. cit., p. 31: «In questa comprensione del linguaggio, come di uno splendore che rende trasparente, viene a espressione l’essenza della metafisica tradizionale del Nous e della luce. Il Nous “che domina su tutto”, pensato in base alla metafora della luce, produce una totale trasparenza, un’assoluta intelligibilità, per la quale non esiste alcuna sfera di essenziale estraneità, enigmaticità, di mistero». 68.  Cfr. in proposito P. Kemper, op. cit., pp. 225-232 (sulla «dominanza del pensiero nei confronti del linguaggio»), pp. 242 ss. (dove sulla base di un brano tratto dalla Differenzschrift del 1801 sul concetto di intuizione trascendentale [cfr. Diff., p. 40; tr. it. cit., pp. 41-42], l’autore coglie l’esito della filosofia hegeliana nel «ritrarsi-in-sé del pensiero dall’effettualità linguistica della sua esposta formazione proposizionale nella continuità di un’auto-­eguaglianza di pensare e pensieri»). Sul tema in questione, cfr. anche K. Harlander, Absolute Subjektivität und kategoriale Anschauung. Eine Untersuchung der Systemstruktur bei Hegel, Hain, Meisenheim a.Gl. 1968, e il contributo, precedente, di J. Simon, Reine und sprachliche Anschauung (Kant und Hegel), in Das Problem der Sprache, VIII. Deutscher Kongress für Philosophie, hrsg. v. H.-G. Gadamer, Fink, München 1967, pp. 159-167.

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del linguaggio, di ciò che in ogni fase dell’interazione discorsiva giunge a compimento e si compie in veste di comunicazione concreta. Nella proposizione speculativa è stata quindi contratta non soltanto la questione della Darstellung, bensì è stata intravista la sua stessa attuazione e realizzazione69. 69.  L’interpretazione di cui si tratta risale anzitutto a B. Liebrucks, di cui cfr. Sprache und Bewusstsein, Bd. 5, Die zweite Revolution der Denkungsart. Hegel: Phänomenologie des Geistes, Akademische Verlagsgesellschaft, Frankfurt a.M. 1970, pp. 14-20 e 386-389. Nella proposizione speculativa, «l’uomo si comprende come essenza linguistica» (ivi, pp. 18-19), in quanto «la conoscenza» qui in questione «non è relativa al giudizio, bensì all’uomo parlante» (ivi, p. 19): «È l’atto linguistico che significa il pensare umano» (ivi, p. 18). Così, nella misura in cui nella proposizione speculativa «la differenza fra soggetto e predicato… viene dialetticamente superata», essa «con ciò porta alla luce la verità della proposizione linguistica»: «Come nella proposizione del linguaggio le singole parole col loro senso si smorzano, affinché sia prodotto un unico senso, così la proposizione speculativa è già la proposizione della proposizione» (ivi, p. 19). Ma è «soltanto nel pronunciare» che «il soggetto dilegua nel cosiddetto predicato», «perciò nel parlare la proposizione speculativa appare più chiaramente che nella scrittura… Il movimento del pensiero viene quindi solo “pronunciato”» (ivi, p. 388). In tal modo, «in Hegel il pensiero dialettico trapassa già in quello linguistico» (ibidem), in lui trova conferma il fatto «che la filosofia non esiste come scrittura, ma nel dialogo» (ivi, p. 389). Allo stesso modo J. Simon, che nel suo Das Problem der Sprache bei Hegel, cit., tenta di mostrare come «il linguaggio, in quanto “fondamento della finitezza”, nella sua struttura costituisca in pari tempo l’esposizione dell’“assoluto” della filosofia hegeliana» (p. 11), estende la sua prospettiva ermeneutica all’interpretazione della proposizione speculativa, tramite la quale Hegel distruggerebbe «lo specchio della speculazione tradizionale», ponendo «al suo posto l’uso linguistico effettuale» (Die Kategorien im «gewöhnlichen» und im «spekulativen» Satz, cit., p. 25). Così, il «movimento dialettico della proposizione» sarebbe in Hegel «“lo speculativo effettuale”, perché corrisponde… alla proposizione in quanto elemento effettuale della connessione, situazionalmente vincolata, del parlare effettuale» (ibidem). Sempre in riferimento alla Vorrede, G. Wohlfart tenta di approfondire le linee di questa interpretazione, in quanto a suo avviso «il soggetto del sapere», nella proposizione speculativa, «è per così dire il soggetto che si rivolge a sé come predicato, e che risponde a se stesso. L’espe­rienza compiuta attraverso un ribaltamento della coscienza del Sé che si separa da se stesso,

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Merito essenziale di tutti questi approcci ermeneutici è stato quello di aver dimostrato il carattere costitutivo e non meramente aggiuntivo o di supporto che la questione della Darstellung riveste nell’economia complessiva del pensiero hegeliano. E tuttavia, gli esiti cui hanno dato luogo si rivelano solo in parte adeguati alla complessità dei problemi che quella questione pone sul tappeto, quando addirittura non contraddicano i presupposti in base ai quali essa viene affrontata da Hegel, e dai quali quindi deve partire anche la ricognizione ermeneutica. Ad esempio, imputare a Hegel un esito intuizionistico in rapporto alla conoscenza dell’Assoluto pare contraddire la funzione strutturale e il carattere costitutivo che l’esposizio-

dell’io = io non è un vacuo riflesso, bensì l’esperienza dell’io che è noi e del noi che è io, l’esperienza che l’io compie in quanto si enuncia, cioè in quanto si comunica…» (Der Spekulative Satz, cit., p. 190). Da qui conseguirebbe che «la proposizione speculativa non è una proposizione. Non è una proposizione che in quanto rigidamente scritta si comprende, bensì una proposizione che in quanto pronunciata è avvertita…» (ivi, p. 233), in quanto appunto in Hegel «il linguaggio è l’effettualità del concetto. Detto altrimenti: parlare è l’effettualità della ragione» (Denken der Sprache. Sprache und Kunst bei Vico, Hamann, Humboldt und Hegel, Alber, Freiburg i.Br. 1984, p. 215). Perciò, da un lato, viene riconosciuto come nessuna singola proposizione possa esaurire l’esposizione dell’Assoluto, ma tale eccedenza viene posta in relazione con la natura dinamicamente aperta del linguaggio; dall’altro, poiché nella proposizione speculativa si esprime comunque il «concetto speculativo di ciò che già sempre accade – benché inconsapevolmente – nella proposizione ordinaria», in essa «il metodo speculativo» dovrebbe pervenire ad adeguata esposizione «come metodo tanto progressivo quanto anche regressivo» dell’identificazione reciproca fra le «parti proposizionali» (Der Augenblick. Zeit und ästhetische Erfahrung bei Kant, Hegel, Nietzsche und Heidegger mit einem Exkurs zu Proust, Alber, Freiburg i.Br.-München 1982, p. 92). Ciò non solo conduce Wohlfart a interpretare in senso intuizionistico la nozione hegeliana di idea assoluta (su cui cfr. il suo Die absolute Idee als begreifendes Anschauen. Bemerkungen zu Hegels Begriff der spekulativen Idee, in «Perspektiven der Philosophie», VII, 1981, pp. 317-338), ma determina conseguenze anche sul terreno dell’ermeneutica dei concetti di eternità e tempo (cfr. infra, cap. III, nota 124, pp. 200-201).

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ne riveste per il suo pensiero, e dal riconoscimento dei quali le ricerche in questione pure prendono le mosse. Da qui il rischio di confinare la Darstellung in una posizione di supporto o, come abbiamo detto, meramente aggiuntiva in rapporto al nucleo di questa filosofia, e di contraddire non soltanto i presupposti della sua teorizzazione in Hegel, ma quelli stessi del proprio impianto interpretativo70. E tuttavia, riconoscere il nesso di implicazione dialettica fra l’effettualità dell’Assoluto e l’enunciazione di tale effettualità nel linguaggio della Darstellung non può nemmeno equivalere all’impiego, in chiave di comprensione ermeneutica, di modelli classici del pensiero metafisico, come quelli d’impronta platonica o neo-­platonica71. Certo, anche questa osservazione non può assumere, al momento, che il carattere di semplice anticipazione; ma come tale ci siamo ugualmente permessi di esprimerla, affidando al corso concreto della ricerca l’onere di dimostrarla. Con più chiarezza, invece, possiamo esplicitare i limiti che a nostro avviso inficiano l’interpretazione della proposizione speculativa come proposizione entro la quale si farebbe luce l’essenza speculativa del linguaggio, e che perciò andrebbe ricondotta al terreno della concreta pratica linguistica, quello della comunicazione orale e “vivente”. Da un lato, la proposizione speculativa viene assunta nella sua «natura» di proposizione specificamente filosofica; dall’altro, però, tale filosoficità è ricondotta al fatto che in essa giungerebbe all’espressione

70.  Ci riferiamo in particolare alle già menzionate conclusioni cui perviene una ricerca analiticamente articolata ed esauriente come quella di P. Kemper: «La linguisticità non appare più a questo pensiero come l’effettualità dei propri pensieri, ma come accessorio esteriore, che nel fallimento dell’adeguata trasposizione del contenuto di pensiero speculativo sul piano della Darstellung teoretica, viene di nuovo superato [überholt] dal pensiero e in pari tempo introdotto nell’auto-sufficiente regno dei pensieri» (op. cit., pp. 242-243). 71. Cfr. supra, nota 67.

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il carattere speculativo del linguaggio, e che quindi essa stessa non sarebbe, propriamente, altro se non linguaggio72. Ora, ciò conduce a una duplice conseguenza: la prima, di tipo più strettamente ermeneutico-filologico, è che in quanto nella proposizione speculativa s’intravede l’emersione del linguaggio stesso nella sua speculativa originarietà, la realizzazione concreta della «Darstellung» dev’essere forzosamente intesa come già attuata in siffatta proposizione; la seconda, di carattere più propriamente teoretico, è che nella misura in cui la proposizione speculativa viene ricondotta alla sua matrice genericamente linguistica, nella misura in cui la sua filosoficità viene ricondotta al fatto che in essa si esprime la natura del linguaggio, il suo statuto differenziale nei confronti di quest’ultimo va perduto, e quindi va perduta anche la sua specificità filosofica. Quest’ultima, infatti, in Hegel si trova inscindibilmente connessa all’assunzione, da parte del pensiero, di una configurazione epistemica. Ma ciò è proprio quanto orientava la filosofia dello spirito all’oltrepassamento del linguaggio parlato, così come condurrà la Vorrede a teorizzare il superamento di ogni e qualsiasi proposizione determinata nella totalità complessiva della Darstellung. Per porsi all’altezza della valenza epistemica della proposizione speculativa, e per inquadrarla adeguatamente entro la problematica complessiva della Darstellung, diventa quindi necessario interpretarla come proposizione espressa in forma di scrittura. Non soltanto questa ci sembra l’unica ipotesi consistente in rapporto alla configurazione del plesso pensiero/linguaggio per come si esprime nel testo jenese del 1805-06. Essa ci sembra anche l’unica prospettiva in grado di chiarire il fatto che il pensiero, in Hegel,

72.  Come noto, sull’interpretazione come linguaggio della proposizione speculativa si centra l’interpretazione hegeliana di H.-G. Gadamer, Hegels Dialektik, Mohr, Tübingen 1970, 19802; tr. it., La dialettica di Hegel, a cura di R. Dottori, Marietti, Torino 1973.

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acquisisce il suo statuto epistemico solo in quanto assume la forma dell’esposizione, così come può assumere tale forma solo in quanto accetti e abbia la potenza di sedimentarsi e prodursi in veste di scrittura.

4. Pensiero concettuale e pensiero rappresentativo: la distruzione della forma proposizionale Nei capoversi della Vorrede riguardanti la teoria della proposizione e dell’esposizione speculative73 si tratta, per Hegel, di differenziare la «scientificità» della filosofia, basata sull’automovimento della «cosa stessa»74 e sull’«immersione» in essa 73.  Si tratta, in senso stretto, dei capoversi 61-66, presupposto immediato dei quali sono i tre precedenti, 58-60 (cfr. V., pp. 48-54; tr. it. cit., pp. 48-55). 74.  Sulla nozione di scientificità, cfr. V., p. 12: «Indem die wahre Gestalt der Wahrheit in diese Wissenschaftlichkeit gesetzt wird…» (tr. it. cit., p. 5), e l’affermazione che «das Vortreffliche der Philosophie unserer Zeit seinen Wert selbst in die Wissenschaftlichkeit setzt» (V., pp. 57-58; tr. it. cit., p. 59); sul suo rapporto col concetto di auto-movimento, cfr. V., p. 57 (tr. it. cit., p. 59): «lo pongo dunque nell’auto-movimento del concetto ciò mediante cui la scienza esiste»; per espressioni quali «um der Natur der Sache willen», «die Sache selbst» (in rapporto al contenuto di una scienza), «die kalt fortschreitende Notwendigkeit der Sache», cfr. V., p. 9 (le prime due) e p. 13 (tr. it. cit., p. 1 e p. 6) – ma l’elenco potrebbe continuare. Più produttivo risulta mettere in luce i contesti di senso in cui appare il termine/concetto. Un paio di esempi sono sufficienti al nostro scopo: nel primo, Hegel si volge contro l’abitudine di occuparsi principalmente dei «fini» e dei «risultati» di un’opera filosofica: «statt mit der Sache sich zu vergessen, ist solches Tun immer über sie hinaus: statt in ihr zu verweilen und sich in ihr zu vergessen, greift solches Wissen immer nach einem Andern und bleibt vielmehr bei sich selbst, als dass es bei der Sache ist und sich ihr hingibt» (V., p. 11; tr. it. cit., pp. 3-4, corsivi miei); nel secondo, è in gioco la differenza fra «inizio della cultura» e dispiegamento scientifico del sapere: «Dieser Anfang der Bildung wird aber zunächst dem Ernste des erfüllten Lebens Platz machen, der in die Erfahrung der Sache hineinführt; und wenn auch dies

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dell’io pensante, dall’«atteggiamento raziocinante» e dalle sue strategie di costruzione del sapere75. Esso presenta infatti due lati che lo rendono «opposto» al «pensare concettivo» (begreifendes Denken)76. Il primo riguarda la sua attitudine «negativa» nei confronti del contenuto considerato; il secondo riguarda invece le modalità in cui si esprime il suo «conoscere positivo»77. Il primo lato consiste nella mancanza, di cui l’«atteggiamento

noch hinzukommt, dass der Ernst des Begriffs in ihre Tiefe steigt, so wird eine solche Kenntnis und Beurteilung in der Konversation ihre schickliche Stelle behalten» (V., p. 12; tr. it. cit., p. 4, corsivi miei). Come noto, la «cosa stessa» riceve la sua determinazione fenomenologica nel capitolo sul «regno animale dello spirito» (cfr. Phän., pp. 285-301; tr. it. cit., pp. 328-348). Ma più decisivo ancora, per intendere il concetto nel contesto della Vorrede, ci sembra il riferimento agli sviluppi della filosofia dello spirito jenese del 1805-06. In tal senso, l’impiego da parte nostra di termini come «auto-movimento» e «cosa stessa» è inteso non solo come immanenza ermeneutica al testo della Vorrede, né solo come implicito rimando alla definizione fenomenologica della Sache selbst, bensì è volto soprattutto a evidenziare il rapporto di stretta implicazione sussistente fra Vorrede e filosofia dello spirito jenese del 1805-06. Per l’impiego della nozione di Sache selbst in quest’ultimo testo, cfr. supra, nota 62. Sulla Sache come «oggetto» della logica speculativa, infine, cfr. infra, le conclusioni della nostra ricerca, in riferimento alla Prefazione del 1831 alla Scienza della logica. 75.  Al Räsonnieren (V., capov. 58), o räsonnierendes Verhalten (V., capov. 59), contraddistinto dal fatto di essere «überhaupt nicht in der Sache, sondern immer darüber hinaus» (ibidem), e che quindi «in unwirklichen Gedanken hin und her räsonniert» (capov. 58), la filosofia richiede, «statt das willkürlich bewegende Prinzip des Inhalts zu sein, diese Freiheit in ihn zu versenken» (ibidem). Per il fatto di tenersi sempre al di fuori dei contenuti, esso viene chiamato anche formales Denken, e distinto in tal modo da un materielles Denken, definito a sua volta come «Gewohnheit, an Vorstellungen fortzulaufen» (ibidem). L’opposizione di cui si tratta viene però relativizzata nel corso del testo. Anzi, quest’ultimo perverrà a dimostrare la profonda complicità che vincola questi due modi di pensare l’uno all’altro. 76.  Cfr. V., capov. 59, p. 48 (tr. it. cit., p. 49). 77.  L’analisi del primo lato occupa il seguito del capov. 59; quella del secondo il successivo capov. 60 (pp. 49-51; tr. it. cit., pp. 49-51).

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raziocinante» fa prova, del concetto di negazione determinata e immanente al contenuto in questione: esso infatti «lo sa confutare e annientare», ma poiché ignora che il «negativo», in quanto «appartiene al contenuto stesso», è «esso stesso il positivo», non riesce a procedere «oltre sé verso un nuovo contenuto», e si riduce alla «riflessione nel vuoto io», alla «fatuità del suo sapere»78. Ma l’aspetto che coinvolge direttamente la dottrina della proposizione speculativa è il secondo, concernente le modalità «positive» con cui il Räsonnieren tenta di attuare il suo sapere. Da questo secondo lato, in quanto cioè il Räsonnieren si trovi a operare con dei contenuti di conoscenza e tenti di pervenire alla loro determinazione, emerge la connessione che lo lega al «pensare rappresentativo» (vorstellendes Denken), cosicché la critica immanente del primo si svolgerà d’ora in poi, simultaneamente, come movimento di Aufhebung del vorstellendes Denken da parte del begreifendes Denken79. Ora, come nella sua attitudine «negativa» il comportamento raziocinante si manteneva all’esterno del contenuto, così anche nel suo procedere «positivo» il soggetto attivo nel Räsonnieren, il «Sé» pensante, conserva un rapporto di esternità nei confronti della «cosa», e invece d’immergersi nel contenuto ad essa proprio, quel «Sé» la trasforma in supporto statico di determinazioni che appaiono, nei suoi confronti, come accidentali e contingenti. Il «Sé» diventa così, con le parole di Hegel, «un soggetto rappresentato, a cui il contenuto si riferisce come accidente e predicato. Questo soggetto costituisce la base alla quale il contenuto viene legato e sulla quale il movimento scorre su e giù»80. Al contrario, nel pensiero concettuale il «Sé» perde il suo statuto rappresentativo, cessa di fungere 78.  Cfr. V., p. 49 (tr. it. cit., p. 50). 79.  Per la locuzione «Das vorstellende Denken», cfr. V., capov. 60, p. 50 (tr. it. cit., p. 50). 80.  Cfr. V., capov. 60, p. 49 (tr. it. cit., p. 50).

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da «base» immobile a cui rapportare, in un movimento che si svolge al di fuori della «cosa», determinazioni prive di necessità speculativa. E cessando di esistere come rappresentazione (Vorstellung), nel «pensare concettivo» il «Sé» si trasforma finalmente nel concetto (Begriff), la «cosa» che s’intende e si realizza in quanto «relazione negativa» e «auto-movimento». In quanto concetto, allora, il «Sé» non è più il «soggetto quieto che, immoto, sostiene gli accidenti», bensì «il Sé che, proprio dell’oggetto, si presenta [sich darstellt; N.d.A.] come il divenire di quest’ultimo»81. Ciò comporta, però, una profonda inversione nella maniera d’intendere, da parte del pensiero rappresentativo, la relazione da esso instaurata con i contenuti pensati. Infatti, la trasformazione del «Sé» staticamente rappresentato nel «concetto auto­-moventesi che riprende in sé le proprie determinazioni»82 conduce al venir meno della connessione puramente accidentale fra quel soggetto e i suoi predicati. Poiché tali determinazioni risultano dall’auto-movimento del concetto come suoi prodotti immanenti, quel «Sé» non vi possiede più degli attributi contingenti ed esteriori, ma il contenuto a lui proprio, che non può più essere «scavalcato». Così, quelle determinazioni non possono più venire intese alla stregua di semplici «accidenti o predicati»; piuttosto, esse si scoprono come «la sostanza, l’essenza e il concetto di ciò intorno a cui verte il discorso»83. Il «pensare rappresentativo» incorre in tal modo in quello che Hegel chiama un «contraccolpo» (Gegenstoss), in quanto, abituato a pensare il «Sé» come la salda «base» su cui arbitrariamente far «scorrere su e giù» il movimento di attribuzione e 81.  Ibidem. 82.  Ibidem. 83.  V., p. 50 (tr. it. cit., p. 50).

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avvicendamento dei predicati, trova ora che il «Sé», divenuto «concetto auto-moventesi», «è passato a predicato e che, con ciò, è superato; e poiché ciò che sembra sia il predicato è divenuto una massa intera e indipendente, il pensiero non può più errare liberamente qua e là, bensì è trattenuto da questo peso»84. Ma il superamento del pensiero rappresentativo da parte del pensiero concettuale non si concentra esclusivamente, per quanto riguarda l’attività «positiva» del Räsonnieren, sul lato per cui il «Sé», in questo sapere, viene presentato in veste di «soggetto rappresentato». L’atteggiamento raziocinante, infatti, opera anche sul versante opposto, ma complementare rispetto al precedente; da questo secondo lato, esso «pone a fondamento» quel «soggetto» come «Sé oggettivo e fisso»85. Anche da tale punto di vista, il Räsonnieren non coglie la «cosa» nel suo carattere di «relazione negativa» e «auto-movimento», la immobilizza in forma di oggettività rappresentata, e la priva quindi della capacità di produrre autonomamente, in base cioè alla sua propria processualità diveniente, le determinazioni che ne costituiscono il contenuto. Quest’ultimo, poiché non scaturisce come risultato dall’auto-movimento del «Sé» come concetto, può venir posto in rapporto con esso solo da un movimento attivato dall’«io che sa», il quale a sua volta, invece d’immergersi nella «cosa», se ne mantiene all’esterno, ergendosi in «vincolo dei predicati» nonché in «soggetto che li sostiene»86. Tuttavia, anche da questo secondo lato l’«atteggiamento raziocinante» va incontro a quel «contraccolpo» speculativo che già prima aveva frenato il vorstellendes Denken nel suo corso. 84.  Ibidem (tr. it. cit., p. 51). 85.  Ibidem. 86.  Ibidem.

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Infatti, finché il soggetto è immobilizzato in quanto «Sé oggettivo e fisso», inteso come mera rappresentazione, all’atteggiamento raziocinante resta aperta la strada dell’attribuzione a quel soggetto di determinazioni «liberamente» scelte, assunte in veste di «predicati» che non risultano dall’auto-movimento del soggetto, ma vengono stabiliti in base a motivi dall’«io che sa». Tuttavia, per il Räsonnieren la situazione cambia profondamente se in quel primo soggetto s’intravede non più il «Sé oggettivo e fisso» cui esso viene ridotto da questo atteggiamento, bensì l’«auto-moventesi concetto». In tal caso, la dipendenza di «ciò che nella proposizione ha la forma di predicato» dai ragionamenti dell’«io che sa» viene del tutto meno, in quanto tale «predicato» risulta prodotto dall’auto-movimento di quel primo soggetto (quello della eventuale «proposizione»), che impone al «secondo» soggetto (l’«io che sa») il riconoscimento delle determinazioni emerse dalla processualità della cosa stessa (il «primo» soggetto). Così, mentre credeva di poter passare «liberamente» da un predicato all’altro, l’«io che sa» si trova bloccato sulla nozione determinata in cui s’è trasferito quel primo soggetto, ch’egli credeva d’essersi lasciato alle spalle87. Ora, l’esposizione fin qui svolta del «superamento», da parte del «pensare concettivo», di Räsonnieren e vorstellendes Denken, già nel semplice impiego di termini come «soggetto» e «predicato» rivela che l’intreccio fra quei due modi di pensare si basa sul presupposto che la forma proposizionale sia in grado di esprimere adeguatamente la «natura»88 del contenuto assoluto. La struttura proposizionale della lingua, dalla quale provengono categorie come quelle di «soggetto» e «predicato», e di cui essi si servono per enunciare il loro sapere in forma di singoli giudizi, rafforza ed estende la loro reciproca 87. Cfr. ibidem. 88.  Per l’impiego assai sintomatico di questo termine in riferimento al contenuto filosofico, cfr. V., capov. 58, p. 48 («seine eigene Natur»; tr. it. cit., p. 49).

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complicità. La loro Aufhebung esige quindi da parte del «pensare concettivo» di criticare e distruggere la forma espositiva di cui essi si servono per enunciare il loro sapere, e che si trova predisposta nella struttura grammaticale del linguaggio. Ma in tal modo, la questione di come pervenire all’esposizione adeguata del contenuto speculativo diventa costitutiva per lo stesso begreifendes Denken: solo attraverso la sua compiuta Darstellung quest’ultimo potrà realizzare il superamento di «pensare rappresentativo» e Räsonnieren, che nella forma proposizionale trovano il modulo favorevole alla riproduzione e all’espansione di sé. Ora, l’inadeguatezza di tale forma in rapporto all’enunciazione del contenuto assoluto dipende, per la Vorrede, dall’unilateralità della determinazione che esprime. In proposizioni come «Dio è l’essere» oppure «l’effettuale è l’universale», scelte come esempi da Hegel89, soggetto e predicato vengono enunciati come termini distinti, separati e separabili; la proposizione ne presenta solo la differenza o non-identità, tralasciando la determinazione, altrettanto essenziale, dell’identità90. Ma 89.  Cfr. V., capov. 62, p. 51 (tr. it. cit., p. 52). 90.  Sulla «natura del giudizio o proposizione in generale (natura che implica in sé la differenza di soggetto e predicato)», cfr. V., capov. 61, p. 51 (tr. it. cit., p. 51). Tuttavia, mentre la Vorrede imputa al giudizio di esprimere solo la differenza, quando la Logica tratta la questione, esso è per così dire messo sotto accusa perché enuncerebbe solo l’identità. Hegel qui scrive infatti che «la proposizione, nella forma di un giudizio, non è adatta a esprimere le verità speculative… Il giudizio è una relazione identica fra soggetto e predicato… Ma se il contenuto è speculativo, anche il non-identico del soggetto e del predicato è un momento essenziale; questo però nel giudizio non è espresso» (W.d.L., I, p. 76; tr. it. cit., p. 80). R. Heede, Die Dialektik des spekulativen Satzes, in «Hegel-Jahrbuch», 1974, pp. 280-293, ha parlato al riguardo di «ambivalenza di ciò che, nel giudizio inteso in senso speculativo, costituisce il “dialettico” in senso stretto» (p. 287), e ha mostrato come tale «ambivalenza» sia da porre in rapporto alla concezione che la Logica presenta del giudizio. Altrettanto opportuno risulterebbe confrontare queste

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proprio da qui deriva l’omogeneità di questa forma espositiva col «pensare rappresentativo»; in essa, infatti, poiché viene espressa la differenza tra soggetto e predicato, quest’ultimo vi appare come accidentale per il soggetto. Così, l’«io che sa» trova modo di «tornare in se stesso» dal contenuto pensato, e di fungere da «elemento operante nel muovere il predicato»91. Viceversa, il «ritorno in se stesso» che la forma della proposizione favorisce e promuove subisce un «contraccolpo» da parte della proposizione «filosofica» o «speculativa»92, in quanto il soggetto di quest’ultima non è più il «soggetto rappresentato» del vorstellendes Denken, bensì il «concetto auto-moventesi», che producendo i suoi predicati si mantiene o «passa» in pari tempo in essi. Poiché ora «il pensare trova il soggetto immediatamente anche nel predicato»93, non può più «tornare in se stesso» e «muovere il predicato», bensì piuttosto in quest’ultimo «si trova ancora immerso nel contenuto»94. Il «contenuto» della proposizione speculativa, il «concetto automoventesi», viene così a «distruggere» la «forma» della proposizione. Se, come abbiamo visto, la «natura» di quest’ultima «implica in sé la differenza tra soggetto e predicato», il «concetto auto-moventesi» ripristina l’identità col predicato che nella «forma» proposizionale va perduta, e quella forma «viene distrutta»95. E tuttavia, l’identità di soggetto e predicato così risultante nella proposizione filosofica «non deve annientare

pagine della Vorrede con la trattazione del giudizio contenuta nella Logica jenese del 1804-05 (cfr. J.S.II, pp. 80-93; tr. it. cit., pp. 78-91, e il commento relativo di F. Chiereghin, pp. 357-371). 91.  Cfr. V., capov. 60, p. 50 (tr. it. cit., p. 51). 92.  Cfr. V., capov. 61, p. 51 (tr. it. cit., pp. 51-52). 93.  V., capov. 62, p. 51 (tr. it. cit., p. 52). 94.  «Statt dass es im Prädikate in sich gegangen die freie Stellung des Räsonnierens erhielte, ist es in den Inhalt noch vertieft» (ibidem). 95.  Cfr. V., capov. 61, p. 51 (tr. it. cit., p. 51).

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la loro differenza»96; piuttosto, fra identità e differenza, fra il «contenuto» proposizionale e la sua «forma», deve scaturire un rapporto di compenetrazione dialettica, che Hegel determina, con l’impiego di una metafora, come «armonia»97, e che in realtà prelude alla necessità, come vedremo subito, di fornire l’esposizione esplicita di quell’elemento speculativo, che nella proposizione è presente ancora in forma implicita e quindi solo in veste di «esigenza» o «freno interiore»98. Ma prima di evidenziare il passaggio dalla proposizione speculativa all’esposizione del movimento in essa racchiuso, è opportuno soffermare l’attenzione sul risultato fin qui raggiunto dall’argomentazione in rapporto al vorstellendes Denken. Da un lato, solo la teoria della proposizione speculativa consente di misurare nella loro rilevanza teoretica, e di comprendere nella loro articolazione concettuale, gli altri luoghi della Vorrede nei quali Hegel prende in esame il tema della Vorstellung; dall’altro, questi ultimi permettono di valutare in tutta la sua portata dirompente nei confronti del «pensare rappresentativo», e più globalmente di quello teologico-metafisico, il compito di cui il begreifendes Denken si fa carico, dal momento in cui intenda la sua realizzazione in termini di Darstellung99. Il nostro punto di partenza può essere costituito dal già menzionato esempio di proposizione: «Dio è l’essere». Per Hegel, infatti, l’impiego in veste di soggetto dei giudizi filosofici del nome «Dio» non è frutto di una scelta arbitraria, né va quindi considerato casuale. Al contrario, con l’uso di quel termine 96.  Ibidem (tr. it. cit., p. 52). 97.  Ibidem. 98.  Cfr. le espressioni «ist die Forderung vorhanden» (V., capov. 62, p. 51; tr. it. cit., p. 52), e «innerliche Hemmung» (V., capov. 65, p. 53; tr. it. cit., p. 54, corsivo mio). 99.  In particolare, coinvolgono il problema qui in questione i capoversi 23, 30-31, 40 (V., risp. pp. 22-23, 28-29, 34-35; tr. it. cit., pp. 17-18, 24-25, 40).

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perviene a espressione un’esigenza profonda, che solamente il pensiero speculativo è in grado di soddisfare, e cioè «il bisogno di rappresentarsi l’assoluto come soggetto»100. Ora, la teoria della proposizione speculativa non ci consente soltanto di determinare le modalità attraverso le quali il pensiero concettuale procede all’assolvimento di quel compito, ma evidenzia anche come tali modalità conducano al toglimento del precedente modo di pensare, in quanto implicano lo svuotamento di senso e l’esclusione dal piano della Darstellung del termine cui esso faceva costante riferimento, e cioè «Dio». Infatti, poiché il sapere filosofico è sapere dell’auto-­movimento di quel «Sé» che il pensiero rappresentativo presenta come «soggetto rappresentato», esso rifiuta l’assunzione di qualsiasi presupposto antecedente all’auto-svolgimento del concetto. Nel momento in cui tale «soggetto rappresentato» venga espresso dal termine «Dio», come accadeva nella tradizione del pensiero metafisico, ciò significa che la filosofia impone di neutralizzare il contenuto rappresentativo in esso presupposto. Ma una volta che quella parola ne venga privata, essa si trova a esistere esclusivamente alla superficie del linguaggio dell’esposizione filosofica, di cui entra a far parte, ma in cui non figura se non come «un suono privo di senso, un mero nome»101. Tale soggetto, una volta neutralizzata la massa delle rappresentazioni in esso incorporate prima della sua assunzione entro il decorso dell’esposizione, e che costituendone il contenuto lo riempivano di significato, appare nelle vesti di una «parola vuota», e può tornare a ricevere contenuto e significato solo da ciò che di esso enuncia il predicato102. 100.  Cfr. V., capov. 23, p. 22 (tr. it. cit., p. 17). 101.  Ibidem. 102.  «In una simile proposizione si comincia con la parola: Dio», ma «solo il predicato dice ciò che Dio è, e ne è il riempimento e il significato; il vuoto inizio diventa sapere effettuale solo in questa fine» (ibidem). Da con-

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Al contrario, nel pensiero rappresentativo il soggetto proposizionale designa un complesso di rappresentazioni, include cioè una serie di determinazioni presupposte che non sono dimostrate nel sapere, ma che quest’ultimo ritiene valide perché comprese nelle opinioni correnti sull’argomento. Così esse, invece di scaturire dall’auto-svolgimento del concetto, che in quanto le «riprende in sé» ne annulla il significato di «predicati» e conduce a dissoluzione, in tale movimento, la «forma» proposizionale – tali determinazioni, dicevamo, vengono attribuite al soggetto della proposizione in base a motivi escogitati dall’«io che sa», in quanto soggetto supposto sapere, che si appoggia su quanto, dell’argomento, sarebbe già «noto»103. Ma proprio in tal modo, il «bisogno» che nell’impiego del nome di «Dio» giunge a espressione non viene soddisfatto: alla funzione grammaticale del soggetto non corrisponde il suo significato logico-­speculativo. Anzi, proprio il fatto che esso venga assunto a «punto fermo» di un movimento di attribuzione di predicati, che non può trovare in esso la propria origine, esclude la possibilità, da parte del soggetto grammaticale che

frontare, in proposito, Enz., I, in part. §§ 31, pp. 97-98, e § 85, pp. 181-182 (tr. it. cit., risp. pp. 43-44 e pp. 100-101; Enc., pp. 178-179 e 257-258), anche se da considerare, in realtà, sarebbe perlomeno il gruppo di paragrafi 28-32, con relativi osservazioni e Zusätze, i quali rendono quanto mai evidente la connessione fra «pensare rappresentativo», esposizione proposizionale e tradizione di pensiero teologico-metafisica (essi fanno parte della sezione dell’Enciclopedia che tratta della «prima posizione del pensiero rispetto all’oggettività», la quale porta il titolo Metaphysik – titolo non presente nell’edizione crociana da me utilizzata); e W.d.L., I, pp. 57 ss., in part. p. 63: «Was somit über das Sein ausgesprochen oder enthalten sein soll in den reicheren Formen des Vorstellens von Absolutem oder Gott, dies ist im Anfange nur leeres Wort und nur Sein» (tr. it. cit., pp. 58 ss., in part. p. 65, corsivo mio). 103.  Cfr. V., capov. 31, pp. 28-29 (tr. it. cit., p. 25), ma anche i luoghi dell’Enciclopedia (in part. i §§ 30-31) e della Logica menzionati alla nota precedente.

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si esprime nel nome «Dio», di manifestarsi e attuarsi propriamente come tale104. Viceversa, il «pensare concettivo» può considerare la «forma» proposizionale come «qualcosa di superfluo», perché quest’ultima presuppone la significanza di ambedue i termini («soggetto» e «predicato») che in lei vengono posti in relazione, e dei quali appunto esprime la differenza. Ma svuotando il soggetto grammaticale di ogni ulteriore significanza, il begreifendes Denken non soltanto rende «superfluo» l’impiego, da parte dell’esposizione, della «forma» proposizionale; essa rende «superfluo» anche l’impiego entro la Darstellung del nome «Dio», di quel soggetto, cioè, cui non soltanto faceva ricorso il «bisogno di rappresentarsi l’assoluto» in questo senso, ma che qualificava la filosofia come sapere teologico-metafisico105.

104.  Cfr. V., capov. 23, p. 23: «Dato il modo in cui quel movimento è costituito, esso non può appartenere al soggetto; d’altronde, presupposto quel punto, il movimento non può essere costituito diversamente: può essere soltanto esteriore» (tr. it. cit., p. 18); e ancora V., capov. 66, p. 54: «Quand’anche di quel soggetto vengano predicate delle verità speculative, il loro contenuto è pur sempre privo di concetto immanente, perché è dato solo come concetto statico» (tr. it. cit., p. 55). Nella Vorrede, quindi, così come in seguito, non si tratta soltanto della «superficialità» dell’impiego a soggetto proposizionale del nome «Dio» (su cui cfr. subito infra), ma della necessità della sua esclusione dal linguaggio dell’esposizione filosofica, se quest’ultima vuol essere davvero «esposizione speculativa». 105.  Cfr. Enz., I, § 85: «Weil der Gedanke… nur im Prädikate enthalten ist, so ist die Form eines Satzes, wie jenes Subjekt, etwas völlig Überflüssiges» (pp. 181-182; tr. it. cit., p. 101). Ma nell’Anmerkung del § 31, al quale lo stesso Hegel rimanda, egli aveva già precisato che «nel pensiero logico… non solo è superfluo fare di queste determinazioni predicati di proposizioni il cui soggetto sia Dio o, più vagamente, l’assoluto, ma questo procedere avrebbe anche lo svantaggio di far pensare a una misura diversa dalla natura stessa del pensiero» (Enz., I, pp. 97-98; tr. it. cit., p. 44). La Vorrede esprime la medesima concezione quando asserisce che per la filosofia «la proposizione, presa nella sua immediatezza, è una forma soltanto vuota», poiché

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Il soggetto «Dio» viene congedato dall’esposizione speculativa col medesimo movimento con cui viene da essa congedata la forma proposizionale. «Soggetto» del begreifendes Denken diventano quindi le categorie, svincolate dalla forma del giudizio, in cui fungevano da meri «predicati», così come dal soggetto «Dio», nel quale avrebbero dovuto trovare la loro «salda base»106. L’argomentazione condotta da Hegel nei confronti del vorstellendes Denken dimostra in tal modo come la connessione sussistente fra le forme grammaticali del linguaggio (in particolare, la «forma» proposizionale) e l’organizzazione in senso teologico-metafisico del sapere filosofico non sia né accidentale né casuale, bensì si collochi al livello della struttura logi-

in lei «non si dà contenuto alcuno comportantesi come quel soggetto che starebbe a fondamento e al quale il suo significato converrebbe come un predicato» (V., capov. 66, p. 53; tr. it. cit., p. 55). I. Soll, nel suo Sätze gegen Sätze: ein Aspekt der Hegelschen Dialektik, in «Hegel-Jahrbuch», 1974, pp. 39-45, contesta la posizione di Hegel, in quanto «per mostrare che questi soggetti grammaticali e le loro proposizioni sono superflui, Hegel dovrebbe non solo dimostrare che queste parole sono molto vaghe, ma anche che sono del tutto prive di senso. A tal fine, Hegel le determina come nomi propri e si decide per la posizione che i nomi, in opposizione ai concetti universali, sono privi di significato. Ma tali parole sembrano avere un certo contenuto descrittivo. Se nonostante ciò le si annovera fra i nomi, la semplice plausibilità della tesi che i nomi siano privi di significato diventa meno convincente» (pp. 4243). Tuttavia, l’argomentazione hegeliana non ha di mira il funzionamento empirico del linguaggio, ma va compresa in rapporto al begreifendes Denken e al dispositivo dell’esposizione teoretica. Poiché il discorso filosofico impone la neutralizzazione di qualsiasi contenuto che non sia pensiero e concetto, parole come «Dio» e «assoluto» vengono dissociate dal contenuto rappresentativo in esse presupposto, e ricondotte così al livello di «suoni senza senso» e «meri nomi». 106.  Cfr. V., capov. 66, p. 54: «L’esposizione, fedele alla comprensione [Einsicht] della natura dello speculativo, deve mantenere la forma dialettica, e non far posto a nulla che non venga concepito e non sia il concetto» (tr. it. cit., p. 55).

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ca di questo intero «modo di pensare»107. Ma non solo questo: se davvero per il begreifendes Denken il soggetto di un giudizio ha senso solo nella misura in cui glielo trasmette il predicato, ciò significa che per esso un pensiero è «effettuale» solo nella misura in cui pervenga a esplicitazione nel linguaggio, e che quindi la stessa «Aufhebung» del «pensare rappresentativo» e della tradizione teologico-metafisica potrà dirsi concretamente attuata solo in quanto consegua la sua esposizione linguistica.

5. Il concetto di esposizione speculativa È Werner Marx ad aver dimostrato per primo, nel già menzionato saggio Absolute Reflexion und Sprache, come per Hegel l’effettualità dell’assoluto non verrebbe incorporata nel linguaggio dell’esposizione, se l’argomento della Vorrede si arrestasse all’interpretazione speculativa della proposizione in cui sfocia la critica del sapere raziocinante e del «pensare rappresentativo». La proposizione infatti può indicare la necessità del movimento che conduce alla sua distruzione, ma non è in grado di esporlo. Abbiamo già visto come nella proposizione filosofica la «for­ ma» del giudizio andasse distrutta perché il soggetto (l’«auto­ moventesi concetto») ripristinava l’identità col suo predicato. Abbiamo anche visto come tale movimento costituisse, per il 107.  L’espressione è impiegata da Hegel nel capov. 40 della Vorrede, a proposito di ciò che egli definisce «Der Dogmatismus der Denkungsart», il quale «non è altro che l’opinione, secondo la quale il vero consiste in una proposizione che è un risultato fisso, o che viene saputa immediatamente» (V., p. 34; tr. it. cit., p. 3), e la cui connessione con la tradizione del pensiero metafisico viene esplicitata in Enz., I, § 32 e relativo Zusatz (tr. it. cit., p. 44; Enc., pp. 179-180).

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vorstellendes Denken, un «contraccolpo», in quanto il soggetto supposto sapere non poteva, nel predicato, «tornare in se stesso», ma si trovava ad avere ancora a che fare con il soggetto della proposizione, «immerso nel contenuto»108. Tuttavia, il punto essenziale, in rapporto alla proposizione, è che quest’ultima, anche nella sua determinazione di proposizione filosofica o speculativa, non è in grado di enunciare quel movimento. Questo resta, rispetto al pensiero rappresentativo, un «freno interiore», che tale pensiero si vede posto di fronte come mera «esigenza», ma nella proposizione non giunge ancora a esplicita enunciazione. In tal modo, la proposizione speculativa mostra di non «considerare» il pur «valido diritto» posseduto, nei confronti del sapere filosofico, dal pensare «non speculativo»109. Quest’ultimo, infatti, non può non trovarsi sconcertato di fronte al fatto che nella proposizione speculativa un unico e medesimo termine debba venire considerato come «concetto» nei confronti del soggetto, quando invece nella proposizione «ordinaria» viene inteso come suo mero «predicato o accidente»110. Ma in tale incertezza non è in gioco semplicemente il rapporto fra pensare speculativo e non speculativo; in gioco è il rapporto fra lo stesso «begreifendes Denken» e la sua effettuale realizzazione nel linguaggio. In tal senso, il «diritto» del «pensare rappresentativo» nei suoi confronti interferisce direttamente con la raggiunta o mancata attuazione nel linguaggio del concetto stesso. Non si tratta quindi soltanto di una pretesa esteriore, ma tale da involgere lo stesso pensiero concettuale, la capacità o meno, da parte sua, di attuarsi in veste epistemica, di realizzare una filosofia che sia «scienza» e «sa108.  «In den Inhalt… vertieft» (V., capov. 62, p. 51; tr. it. cit., p. 52) 109.  Cfr. V., capov. 65, p. 52 (tr. it. cit., p. 54). 110.  Cfr. V., capoversi 63-64, p. 52 (tr. it. cit., p. 53).

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pere assoluto». Perciò, Hegel asserisce la necessità di «esporre quel ritornare in sé del concetto», in quanto «questo movimento è… il movimento dialettico della proposizione stessa», e «solo esso è l’elemento effettualmente speculativo»111. Ma proprio tale «elemento» non perviene ancora a «effettualità» nella proposizione, all’«effettualmente speculativo» quest’ultima non dona ancora effettualità, poiché il «movimento dialettico» vi è contenuto solo implicitamente, come qualcosa di ancora non esistente112. Così, se non vuol essere privato della sua realizzazione, e cadere in un’insostenibile contraddizione col suo medesimo concetto, per quel «movimento» diventa necessario articolarsi linguisticamente, configurarsi nella forma dell’esposizione. Lo snodo argomentativo cui la Vorrede, a questo punto, ci pone di fronte è certamente decisivo, in quanto determina nel suo statuto di necessità il rapporto fra speculazione e Darstellung, e di tale necessità ci consente d’intendere il senso. Se quest’ultimo esclude che fra «pensare concettivo» ed esposizione possa sussistere una relazione di esternità, in cui la Darstellung costituisca un accessorio più o meno arbitrario e svolga, di fronte allo speculativo, la funzione di semplice «accidente o predicato», non si tratta nemmeno del fatto che lo speculativo «debba» istituirsi come esposizione, nel senso che questa sarebbe per lui una costrizione o, peggio, il segno di una tensione-verso che ripristini una sorta di differimento all’infinito della sua realizzazione. Il rapporto fra speculazione e Darstellung designa piuttosto il nesso della coimplicazione logica e dell’inscindibile compresenza dei due momenti: se il «movimento dialettico» è l’«elemento effettualmente speculativo», allora «solo l’enunciazione del movi-

111.  V., capov. 65, p. 53 (tr. it. cit., p. 54). 112.  Cfr. ibidem: «nichtdaseiende Rückkehr».

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mento medesimo è esposizione speculativa [spekulative Darstellung]»113. Nel concetto di «esposizione speculativa», in tal modo rigorosamente determinato dal testo, Hegel intende compiuta la riunificazione della «dialettica» con la «dimostrazione», e ripristinato così «il concetto del dimostrare filosofico», in cui il «movimento dialettico» si afferma come «ritmo auto-producentesi che si spinge oltre e ritorna in se stesso» e diventa «enunciata interiorità»114. All’eventuale obiezione di chi imputasse a tale «ritmo» di rinviare a un processo all’infinito, in quanto «anche il movimento dialettico avrebbe a sue parti o elementi delle proposizioni», cosicché potrebbe «sembrare che la segnalata difficoltà non faccia che ritornare, e sia una difficoltà della cosa stessa», egli risponde che ciò è quanto accade alla «dimostrazione usuale, in cui i fondamenti di cui si avvale abbisognano a loro volta di fondazione, e così via all’infinito»115. Tale procedimento dimostrativo, proprio del «conoscere matematico», e che a torto è stato assunto come modello dell’esposizione filosofica116, non riesce in realtà a esporre il dinamismo concet-

113.  Ibidem. [N.d.A. 2020: De Negri aveva scelto incomprensibilmente di tradurre l’espressione spekulative Darstellung con «rappresentazione speculativa», rischiando di provocare una gravissima confusione concettuale e di rendere irriconoscibile al lettore italiano uno fra i concetti-chiave della Vorrede. La nuova traduzione a cura di G. Garelli, La fenomenologia dello spirito, Einaudi, Torino 2008, ripristina una lettura più corretta, scegliendo l’espressione «presentazione speculativa» (p. 47)]. 114.  Ibidem: «… diese Seite der ausgesprochenen Innerlichkeit…». 115.  V., capov. 66, p. 53 (tr. it. cit., p. 54). 116.  A titolo puramente esemplificativo, cfr. in proposito le critiche hegeliane a Spinoza, in W.d.L., II, pp. 164 ss. (tr. it. cit., pp. 604 ss.), riprese poi specificamente in rapporto alla dimostrazione geometrica, dove Hegel deplora che nonostante l’infelice generalizzazione «a tutte le possibili specie di conoscenze» del metodo geometrico, compiuta da Wolff, questo «abuso» non sia valso a «spiantare la fede nell’attitudine ed essenzialità di que-

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tuale intrinseco all’oggetto, perché lo esprime in «proposizioni morte, fissate» – contrae cioè in singole proposizioni e nella loro «forma» principi e risultati del suo «conoscere», quando appunto proprio questa «forma» non è in grado di realizzare l’esposizione del contenuto speculativo. Quella difficoltà «appartiene quindi alla conoscenza esteriore», mentre da parte sua il movimento dialettico, avendo a suo elemento il concetto puro, possiede un contenuto che «è già in tutto e per tutto soggetto» e trasforma la proposizione, come abbiamo visto, in una «forma soltanto vuota»117. In tal modo, non soltanto il vorstellendes Denken trova riconosciuto il suo giusto diritto, poiché non viene più rimandato all’«intuizione interiore»118 di un movimento che la proposizione racchiude, ma che da essa non viene enunciato; bensì lo stesso begreifendes Denken, affrontando il problema della sua Darstellung nel linguaggio, perviene a esporre, simultaneamente, le coordinate della sua soluzione. Più precisamente, se per Hegel la compiuta realizzazione della verità non è fornita dalla semplice interpretazione speculativa della proposizione, ma dall’esposizione linguistica di quella stessa interpretazione, egli perviene anche a determinare quali requisiti una proposizione debba soddisfare per dar luogo all’auto-­riflessione in cui consiste la Darstellung. Per quest’ultima, cioè, si tratta di rendere operative a livello di teoria e di scrittura le risultanze emerse dalla critica del vorstellendes Denken esposta nella Vorrede, e di espungere così dalla formulazione delle

sto metodo al fine di ottenere un rigore scientifico nella filosofia», cosicché «l’esempio di Spinoza nell’esposizione della sua filosofia è stato riguardato ancora per molto tempo come un modello» (W.d.L., II, pp. 474-475; tr. it. cit., p. 926). 117.  V., capov. 66, p. 53 (tr. it. cit., p. 55). Sull’espressione «fixierte, tote Sätze», cfr. V., capov. 45, p. 37 (tr. it. cit., p. 35). 118.  «Innre[s] Anschauen» (V., capov. 65, p. 53; tr. it. cit., p. 54).

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sue proposizioni termini come «Dio» o «assoluto». La posizione del soggetto, che nei giudizi della tradizione di pensiero teologico-­metafisica veniva assunta dal nome di «Dio», viene ora occupata anch’essa dalle categorie logiche. Poiché queste ultime svolgono, nella proposizione filosofica, sia la funzione di soggetto sia quella di predicato, esse svelano in pari tempo che la proposizione è una «forma soltanto vuota», realizzando in termini di esposizione nel linguaggio l’asserzione hegeliana, secondo cui il contenuto della filosofia «è già in tutto e per tutto soggetto»119. La portata teoretica dell’impiego di categorie non più soltanto in veste di predicati, ma anche di soggetti, consiste dunque nel fatto che tale impiego dischiude nella sua necessità il movimento dialettico dell’esposizione a livello stesso di semplice proposizione. L’introduzione in essa di termini-concetto imprime nella sua struttura la necessità del suo dissolvimento, cosicché l’esigenza di esporre tale movimento nel linguaggio viene essa stessa incorporata nel linguaggio. Ciò permette di determinare che cosa intenda Hegel quando definisce la proposizione «speculativa» come proposizione «filosofica», di evidenziare, cioè, come lo spekulativer Satz designi un tipo di giudizi rigorosamente determinato, circoscriva l’ambito della sua validità a quello dell’esposizione filosofica, e non sia quindi possibile interpretare come «proposizione speculativa» ogni proposizione del linguaggio120, né vi si possa 119.  Di qui la necessità che la Darstellung conservi la «forma dialettica» e non introduca nulla «che non venga concepito e non sia il concetto» (cfr. supra, nota 106). Sulla funzione di «soggetto proposizionale» svolta, nella proposizione speculativa, dalle categorie, cfr. in part. R. Heede, op. cit., pp. 291 e 295. 120.  In questo senso si esprime invece anche J.P. Surber, Hegel’s Speculative Sentence, in «Hegel-Studien», Bd. 10, 1975, pp. 211-230: «benché certi “contenuti” possano essere di per sé dialetticamente più complessi di altri, ci

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intravedere il puro e semplice emergere del linguaggio nella sua «essenza» speculativa. Piuttosto, che la proposizione speculativa non estenda il suo spettro semantico oltre il perimetro che definisce in Hegel il «circolo di circoli» della teoria non solo è quanto la Vorrede afferma esplicitamente, ma anche il presupposto all’altezza del quale bisogna porsi per comprendere il suo decorso argomentativo. Da un lato, perché il «soggetto» della proposizione possa istituirsi in «identità» col suo «predicato» dev’essere afferrato come «concetto auto-moventesi», così come soltanto in base a questo «presupposto» quel predicato ne può enunciare – per quanto inadeguatamente – l’essenza, e non limitarsi invece a esprimerne una determinazione «accidentale». Ciò renderebbe impossibile, infatti, quella «ripresa in sé» del soggetto «nelle sue determinazioni», in cui consiste il «movimento dialettico» di risoluzione della «forma» proposizionale. Dall’altro, il termine che funge da soggetto di un giudizio può venire inteso come «vuoto» nome solo dal punto di vista del pensiero concettuale, solo una volta che il sapere filosofico abbia disposto la sua realizzazione linguistica alla soglia della sua esposizione epistemica. Il carattere teoretico dello spekulativer Satz induce a escludere una relazione di tipo meramente accidentale fra

deve essere una fondamentale struttura dialettica implicata dalla forma ordinaria della loro espressione, in virtù della quale i “contenuti” possono essere interpretati come relati dialetticamente l’uno all’altro a prescindere dalla loro complessità interna. È questa struttura della forma soggetto-predicato che Hegel cerca di articolare nella sua discussione sulla “proposizione speculativa”» (p. 218). Pressoché opposta è la posizione di H. Röttges, Der Begriff der Methode in der Philosophie Hegels, Hain, Meisenheim a.Gl. 1976, p. 70: «Ciò che distingue la proposizione speculativa dal giudizio ordinario non è dunque soltanto la forma, bensì anche il contenuto filosofico» (ma da consultare, in proposito, è tutto il cap. V: Die methodologische Bedeutung der Darstellungs-problematik: Spekulativer Satz und absoluter Unterschied, pp. 63-89).

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i suoi termini, quale indubbiamente si esprime in proposizioni pressoché innumerevoli del nostro linguaggio, che non per questo cessano di avere senso. L’unico discorso in grado di realizzare il concetto dialettico-speculativo del giudizio, che intende quest’ultimo come scissione e ricomposizione di totalità, rimane quello che si scrive nella chiave dell’esposizione filosofica, la quale, presentando a membri delle sue proposizioni categorie logiche in qualità di concetti, ne esprime il «movimento» di auto-svolgimento e di risoluzione nell’opposto.

6. Io filosofico e lingua dell’esposizione: l’irruzione della problematica temporale La determinazione in senso rigorosamente teoretico della proposizione speculativa permette a Hegel di definire i requisiti formali cui deve attenersi la Darstellung filosofica. Il punto decisivo sta nel fatto che egli contesta la possibilità di assumere a-criticamente la struttura proposizionale del linguaggio, per contrarre «nella forma di un giudizio» le relazioni logicocategoriali. La dottrina della proposizione speculativa mostra come la sintassi del linguaggio sia ben lungi dal garantire, per così dire, automaticamente o immediatamente la realizzazione della Darstellung, colloca la sua teorizzazione entro una costellazione concettuale, in cui la verità, per salvaguardare la sua «natura» speculativa e dialettica, non si può affidare ingenuamente alle articolazioni elementari del linguaggio. Così, nella contraddizione fra la necessità per il «concetto» di enunciarsi discorsivamente e le strutture grammaticali – e cioè in Hegel: intellettuali121 – della lingua si produce lo scarto fra i

121.  Sul linguaggio «als Werk des Verstandes», cfr. W.d.L., I, p. 104 (tr. it. cit., p. 113); e per la specificazione dell’opera» dell’intelletto in rapporto alla

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margini del quale si distende la creatività in senso linguistico dell’io filosofico. Certo, impiegare questo termine può condurre a fraintendimenti di vario genere, come se ad esempio per Hegel si trattasse dell’approntamento artificiale di terminologie o di modelli per la risoluzione ad hoc dei problemi essenziali. E anche ammettendo preliminarmente l’opportunità di quell’impiego, sembrerebbe comunque altrettanto difficile ricomporlo senza fratture col contraccolpo speculativo in cui il soggetto, proprio quando credeva di poter tornare in sé, si trova invece immerso nel contenuto. Ma se il soggetto «altro» – quello delle proposizioni filosofiche – non sta fermo da un lato, mentre viceversa all’«io che sa» rimarrebbe la prerogativa di «decidere» in base a motivi i suoi predicati, ciò non comporta da parte di quest’ultimo l’assunzione di un atteggiamento meramente passivo nei confronti della verità. Non soltanto perché nella «cosa» è immanente il «Sé» dell’io, perché – come abbiamo già visto a livello di filosofia dello spirito – proprio la trasformazione del «Sé» nella «cosa» istituisce quest’ultima in «relazione negativa in se stessa» e «auto-movimento»; ma più precisamente, in rapporto alla Darstellung, perché proprio l’assunzione su di sé della «fatica del concetto» impone simultaneamente all’io di sostenere l’onere, ormai tutt’altro che supplementare, della «fatica del linguaggio»122, gli impedisce cioè di «acquietarsi» nella struttura elementare che il linguaggio pone a disposizione, attraverso la forma proposizionale, per l’articolazione dei significati. Così, se il rifiuto d’immobilizzare il contenuto speculativo entro un rapporto d’inerenza fra un soggetto e un predicato, d’impiegare per la Darstellung delle relazioni logico-­categoriali forma, e cioè alla grammatica della lingua, cfr. Enz., III, § 459 Anm., p. 271 (tr. it. cit., p. 449). 122.  Davvero «la “fatica del concetto” resta legata alla “fatica della parola”» (J. Derbolav, op. cit., p. 64).

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la proposizione nella «forma di un giudizio», costituisce in Hegel il vero e proprio “calvario” della lingua, esso in pari tempo richiama ed esige l’apporto attivo, nel senso della creatività linguistica ed epistemica, del soggetto filosofante. Ora, se la forma proposizionale, nel senso logicamente definito della relazione d’inerenza fra un soggetto e un predicato, non è in grado di esprimere il contenuto speculativo nella sua «effettualità», in quanto cioè «movimento dialettico», verso quale indirizzo si orienta la creatività linguistica dell’io filosofico? Se l’auto-costituzione in soggettività della sostanza distrugge la forma del giudizio, può egli mirare alla costruzione di un linguaggio a-proposizionale? Nel momento in cui Hegel assume il linguaggio come «il mezzo di designazione adeguato alla ragione»123, la sua risposta consisterebbe forse nell’indicare come inappropriata la domanda stessa, se è vero che «soprattutto nelle materie filosofiche ci vuole una cultura per saper fare le domande» e «ottenere una risposta diversa da quella che la domanda non è valida»124. In effetti, nella misura in cui impiega il linguaggio ordinario, il pensatore non può sfuggire – almeno in via di principio – alle regole della sintassi e dell’articolazione proposizionali. Viceversa, però, non può nemmeno limitarsi a forgiare una concatenazione di proposizioni «in forma di giudizio», esprimenti determinazioni reciprocamente opposte e disposte l’una «accanto» all’altra. In tal modo non verrebbero enunciati proprio l’auto-movimento dei concetti e il dinamismo della loro risoluzione nell’opposto, mentre l’«effettualità» dello speculativo si teorizza in Hegel come esposizione del suo auto-movimento125.

123.  Cfr. W.d.L., II, p. 259 (tr. it. cit., p. 700). 124.  W.d.L., I, p. 143 (tr. it. cit., p. 157). 125.  Cfr. W.d.L., I, p. 76: «Ma così sorge un altro difetto, il difetto cioè che queste proposizioni non sono fra loro collegate, e perciò presentano il con-

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Ora, una via d’uscita dall’impasse cui la problematica della Darstellung pare condurre quando si tratta della sua effettiva realizzazione, ci viene offerta nell’indicazione, da noi già menzionata, con cui Hegel invita la trattazione filosofica ad attenersi alla Darstellung del concetto. Che tale osservazione sembri suggerire l’adozione di un accorgimento tecnico, e si presenti quasi nella veste di una raccomandazione estrinseca126, non deve infatti ingannare sulla sua reale portata epistemica. Con essa, Hegel determina a livello teoretico le coordinate di rea­ lizzabilità dell’esposizione speculativa, in quanto, da un lato, l’impiego a soggetto e predicato delle proposizioni «filosofiche» di termini categoriali incorpora nel linguaggio, entro la stessa forma proposizionale, la necessità, per ogni singolo «giudizio», di «togliersi» nel movimento complessivo dell’esposizione127; dall’altro, in quanto ogni singola proposizione evidenzia in se stessa la necessità della sua Aufhebung dialettica, essa si svela come «vuota forma», cessa di fungere da modello prefissato dell’esposizione, e dall’articolazione logico-sintattica della Darstellung lascia emergere l’auto-movimento del concetto come origine e contemporaneo «oggetto» di quest’ultima. Al contrario, nel momento in cui da soggetti proposizionali fungessero termini come «Dio» o «assoluto», la necessità della tenuto soltanto nell’antinomia, mentre d’altra parte il contenuto loro si riferisce a uno stesso, e le determinazioni, che si trovano espresse nelle due proposizioni, debbono assolutamente essere unite, unione che si può allora designare solo come una inquietudine d’incompatibili, o come un movimento» (tr. it. cit., pp. 80-81). 126.  Tale impressione può essere favorita, in particolare, dalla lettura della versione italiana, che per questo ho preferito non seguire (cfr. supra, nota 106). 127.  «La proposizione speculativa si dimostra così come la forma auto-­ toglientesi di esposizione del pensiero concettuale, e che con ciò rende possibile l’immanente auto-movimento del contenuto» (H. Röttges, op. cit., p. 80).

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loro auto-costituzione in identità con il predicato rimarrebbe un semplice presupposto, non verrebbe essa stessa incorporata, sia pure ancora come semplice esigenza, nel linguaggio. Non nel senso che la Fenomenologia dello spirito non abbia dimostrato la concettualità e quindi la soggettività della sostanza, ma nel senso che tale risultato costituirebbe un presupposto per ogni singola proposizione. La pulsione all’auto-­movimento non verrebbe incorporata nella struttura dei giudizi espressi, ma si troverebbe, appunto in quanto presupposto, sotto la soglia del linguaggio, al di qua dell’esposizione. Non si tratta quindi solo del fatto che proposizioni del tipo «Dio è – essere; Dio è – nulla; Dio è – divenire», ecc., siano «qualcosa di superfluo», in quanto il contenuto concettuale viene espresso solo dal predicato; né del fatto che il loro impiego sia fuorviarne perché introduce un sostrato rappresentativo presupposto; e nemmeno della necessità che la Darstellung filosofica adotti moduli espositivi adeguati alla «cosa» da esporre, come se la «cosa» stesse da una parte e l’esposizione dall’altra. Ciò che è in gioco è la nozione della «cosa» stessa, la capacità, da parte dello speculativo, di attuarsi nell’«effettualità» del linguaggio. Certo, anche l’impiego di termini categoriali in funzione di soggetto e predicato, che dovrebbe incorporare in ogni singola proposizione la necessità del suo dissolvimento, sembra in real­ tà rimandare a un presupposto teorico di altro tipo, che supporterebbe l’attuazione dello svolgimento logico-­categoriale senza poter essere posto come risultato del suo sviluppo. Perché i giudizi in questione possano, per così dire, ostendere nella loro struttura medesima la pulsione all’Aufhebung dialettica, sembrerebbe cioè necessario presupporre una teoria filosofica sul concetto di «concetto», rappresentata appunto nel pensiero di Hegel dalla «concezione» dei Begriffe come auto-­ movimenti. E tuttavia, considerare la posizione hegeliana in questione come una «teoria» sui concetti risulterebbe improprio. L’auto-movimento dei concetti non emerge infatti in He-

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gel come il portato di una speculazione che si eserciti «su» di essi dopo averli assunti a oggetto di una riflessione estrinseca. Piuttosto, quell’auto-movimento appare imposto al soggetto dalla «natura» stessa delle determinazioni logiche, rappresenta il nucleo della sua esperienza del pensiero. Non è quindi che i concetti siano auto-movimenti perché la sostanza è soggetto, ma viceversa quest’ultima è intesa in termini di soggettività perché è concetto, e i concetti sono auto-movimenti nei quali è simultaneamente «attivo» il «Sé» del soggetto pensante. La necessità della risoluzione del giudizio speculativo non rimanda quindi a nessuno dei due ipotetici presupposti precedenti, ma è incorporata nel linguaggio dell’esposizione. Que­ st’ultima, evidenziando la struttura proposizionale come «vuota forma», abbandona il modello espositivo basato su giudizi d’ine­ renza, e si dispiega come articolazione logico-­linguistica che comprende in sé sia il momento dell’asserzione definitoria, sia quello dell’esposizione del suo dissolvimento nella sequenza articolata dei periodi, in cui il «movimento dialettico» si dimostra infine come l’«elemento effettualmente speculativo», e la necessità del quale è incorporata in ogni singola proposizione «filosofica». Il linguaggio dell’esposizione diventa così il terreno su cui la «ragione» continuamente si confronta con l’«intelletto» (che imprime il proprio marchio sulla grammatica della lingua), ne dissolve le rigidità in pari tempo «conservandole» come «superate» nella «totalità» sistemica della Darstellung. Le potenzialità di organizzazione logica, che il linguaggio contiene nelle sue strutture grammaticali e sintattiche, vengono funzionalizzate dalla Darstellung, con un’«astuzia» forse suprema128, alla «manifestazione» dello «speculativo» come «elemento» ef128.  La metafora dell’«astuzia» (List) è impiegata nella Vorrede a proposito del rapporto fra l’attività del sapere e l’auto-movimento del contenuto. Ma cfr. infra, la nota seguente.

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fettualmente produttivo in direzione epistemica. Inadeguata all’esposizione dello speculativo è quindi la proposizione «nella forma di un giudizio», non il linguaggio in quanto complesso potenziale di strutturazione logica; al contrario, l’«immane potenza del negativo», esercitata in Hegel dall’intelletto, una volta assunta entro l’articolazione logico-linguistica del dispositivo espositivo, si trova soggiogata e funzionalizzata, come sua scaturigine sempre ritornante e sempre «superata», al «ritmo» espansivo della «Darstellung» e del suo «movimento dialettico». Di quest’ultimo emergono quindi come suoi «membri» non più singole proposizioni, ma i «concetti» stessi: e in tal senso va intesa l’asserzione di Hegel, per cui il «contenuto» dello svolgimento espositivo sarebbe «già in tutto e per tutto soggetto». Così, la Vorrede tenta di accordare l’immersione nel contenuto dell’«io che sa» con un dispositivo epistemico, che prevedendo un dosaggio accorto della lingua e l’impiego esclusivo di ciò che pertiene al concetto, invita simultaneamente il soggetto a farsi da parte per sprofondarlo in quella «cosa», la quale al tempo stesso dovrebbe custodirlo129. E certo, su questo punto vengono tratte le conseguenze dell’impostazione che la filosofia dello spirito del 1805-06 aveva presentato dei rapporti fra l’io e il linguaggio. Come abbiamo visto, in essa l’io stabilizza il linguaggio esercitando una funzione disciplinante nei suoi confronti, cosicché,

129.  «In quanto il sapere vede tornare il contenuto nella sua propria interiorità, la sua attività è… tanto immersa nel contenuto, poiché ne è il Sé immanente, quanto in pari tempo tornata in sé, poiché è la pura auto-eguaglianza nell’esser-altro; così la sua attività è l’astuzia, che pur sembrando sottrarsi all’attività, osserva come la determinatezza e la sua vita concreta, proprio mentre s’illude di perseguire la sua auto-conservazione ed il suo particolare interesse, sia l’inverso, un operare che dissolve se stesso e si trasforma in momento dell’intero» (V., p. 46; tr. it. cit., pp. 45-46, corsivi miei).

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da un lato, in quanto la disciplina subita dal linguaggio indica nell’io il soggetto dell’attività di consolidamento, la stabilizzazione della lingua appare funzionalmente subordinata al disciplinamento che l’io esercita su se stesso. Dall’altro, però, se è vero che il disciplinamento del linguaggio è la via attraverso la quale l’io perviene a disciplinare se stesso, è anche vero che tale «attività» si mostra tutt’altro che determinabile univocamente: essa infatti si converte, per l’io, in una condizione coer­citivamente imposta di passività, e di una passività che tanto più difficilmente appare superabile, in quanto è originata entro lo spirito dallo spirito stesso130. Ma proprio nel momento in cui il processo della memorizzazione conduce alla reificazione dell’io e alla sua trasformazione in «cosa», prende le mosse un movimento opposto rispetto al precedente, che nella «cosa» trova custodito il «Sé» dell’io, e che anzi nell’immanenza ad essa di quest’ultimo individua la sua costituzione in «auto-­movimento» e «relazione negativa in se stessa». Allo stesso modo, che la Sache della Vorrede sia dotata di «auto-­ movimento» non vuol dire che immergendosi in essa l’io smarrisca il suo «Sé», ma piuttosto che il «Sé» dell’io diventa tutt’uno col «Sé» della «cosa», così come, sempre secondo le linee prefigurate nella filosofia dello spirito, la compenetrazione di quei “due” Sé implica un momento di passività da parte dell’«io che sa», passività che nella Vorrede si esprime con la figura del «contraccolpo» speculativo, tramite il quale il soggetto si trova ancora a che fare, nel «predicato», con la Sache selbst. Tuttavia, l’innesto a questa altezza problematica della teoria della Darstellung perviene, nella Vorrede, a complicare notevolmente il quadro cui si arrestava la filosofia dello spirito 130.  La memoria è «immediato togliere se stesso, un togliere che è rivolto su di sé» (J.S.III, p. 193, osservazione a margine; tr. it. cit., p. 78); oppure, allo stesso modo: «se il nome viene considerato come l’oggetto su cui l’io è attivo, allora l’io toglie se stesso» (J.S.III, p. 194; tr. it. cit., p. 79).

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del 1805-06. La passività da cui è investito il Sé dell’io quando nella proposizione filosofica subisce il «contraccolpo» che gl’impedisce di tornare, nel predicato, in se stesso, pare infatti scontrarsi con la funzione creativa in senso linguistico ed epistemico, che pure – come abbiamo visto – la «fatica del concetto» inevitabilmente gli attribuisce, e che è presupposta dall’invito stesso di Hegel di attenersi scrupolosamente alla Darstellung del concetto. All’«abbandono» nella cosa non può infatti semplicemente corrispondere, da parte del soggetto, un apporto attivo nel senso della creatività sistemica ed espositiva; se lo «speculativo» è «effettuale» solo in quanto giunge a manifestazione nel linguaggio, la passività cui il soggetto si trova posto di fronte deve investire in pieno la sua funzione costruttivamente epistemica, deve coinvolgere il rapporto che lo vincola all’esposizione. In effetti, nella misura in cui l’esposizione incorpora il movimento dialettico come elemento effettivamente speculativo, e il suo contenuto è «già in tutto e per tutto soggetto», l’io supposto sapere pare trovarsi spiazzato a vantaggio dell’autonomia del movimento categoriale, mentre la pratica della scrittura, che istituisce l’esposizione, viene a coincidere col gesto di una sottrazione radicale, operata dall’io su se stesso, e per il tramite della quale le categorie emergono come i «soggetti» veri e propri dello svolgimento logico-­linguistico. Così, non bisogna attendere la Prefazione del 1831 alla seconda edizione del primo libro della Logica perché il problema della determinazione come soggettività dell’io pensante si profili in Hegel nella sua decisiva complessità. Il nodo, che in quel luogo emergerà con limpidezza forse mai raggiunta131, è infatti quello stesso racchiuso nell’immanenza cui s’invita il soggetto in rapporto al contenuto che egli pensa – e meglio 131.  Anche per questo, le conclusioni del nostro studio si svolgeranno in forma di riflessione analitica sugli snodi per noi cruciali di quel testo.

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sarebbe dire: che il contenuto pensato impone al soggetto nel «contraccolpo» speculativo che liquida la proposizione. Inoltre, in tutta la portata del suo significato va assunto il fatto che in ambedue i testi le riflessioni hegeliane convergano, al riguardo, sul «fuoco» del linguaggio. Certo quest’ultimo è interrogato da prospettive differenti: mentre la Vorrede pone la questione del linguaggio solo in rapporto alla determinazione delle modalità di attuazione della Darstellung, nel testo del 1831 esso verrà chiamato in causa nella veste di ricettacolo e veicolo «inconscio» delle categorie che la Logica espone nel movimento dialettico dello svolgimento speculativo. Ma proprio la diversità dei rispettivi punti di vista indica l’essenziale co-appartenenza di queste due prefazioni alla medesima cornice problematica, le contrassegna come espressioni paradigmatiche di una medesima questione, che involge lo statuto della soggettività dell’io pensante, e che a sua volta si definisce in Hegel solo sdoppiandosi in quei due testi e all’interno di ciascuno di essi. Nella Vorrede, tale sdoppiamento ha luogo rispetto alla lingua dell’esposizione, messa in atto dal soggetto del sapere per far sì che soltanto l’auto-movimento della «cosa» pervenga in essa a enunciazione, e in rapporto al «contraccolpo» speculativo col quale ogni proposizione filosofica impone al soggetto pensante di restare immerso nell’andamento del contenuto, che appunto è «già in tutto e per tutto soggetto»; nella Prefazione del 1831, esso si produce in rapporto al linguaggio come reticolo «inconscio» del nostro pensare e operare, e quindi in relazione alle Denkbestimmungen in quanto nuclei dell’esperienza stessa del Denken e orizzonte insuperabile «oltre» il quale «noi» non ci possiamo porre. In ambedue i casi, il pensiero dialettico pare potersi istituire in dispositivo epistemico solo legando in complicità indissolubile attività e passività, soggettività dell’io pensante e/o sua sottrazione di fronte all’«auto-movimento» della «cosa» e alla sua esposizione.

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Da un lato, la torsione tutta teoretica che la Vorrede fa subire alla questione del linguaggio, nella misura in cui la inquadra entro il contesto problematico segnato dall’esposizione, consente di valutare la critica della forma proposizionale come il risvolto negativo di quella pratica di scrittura, che tenterà nella Logica di mantenersi all’altezza del «movimento dialettico». Dall’altro, però, tale scrittura si trova posta di fronte al compito di forzare costantemente la forma proposizionale senza mai poterla né volerla completamente espungere da se stessa. In proposito, abbiamo visto come per Hegel si tratti di rendere funzionali all’esposizione della «cosa» le strutture intellettuali che presiedono all’organizzazione sintattica e grammaticale del linguaggio, di funzionalizzare le distorsioni immobilizzanti, da cui il «movimento dialettico» si trova di continuo arrestato nel momento in cui si esprime nel linguaggio, all’attuazione nel linguaggio stesso di quel «movimento» in quanto «elemento effettualmente speculativo»132. Qui, per inciso, si situa la rilevanza filosofica della questione dello stile in Hegel133. Ma il

132.  Il problema della distorsione in rapporto al plesso Assoluto/linguaggio è uno dei temi di fondo con cui si confronta J. Simon, Das Problem der Sprache bei Hegel, cit., che complicano il quadro della sua interpretazione rispetto a quello schematizzato supra, pp. 47-52 e nota 69. Nella Vorrede, esso si esprime nei capoversi 63-64, a proposito delle difficoltà che le trattazioni filosofiche presentano per il pensare «non speculativo», e derivanti dal fatto che «la proposizione filosofica, appunto perché proposizione, risveglia l’opinione della comune relazione tra soggetto e predicato, e del comune comportamento del sapere», i quali però «vengono distrutti dal contenuto filosofico della proposizione», per cui «l’opinione si accorge che si intendeva altro da quello ch’essa medesima intendesse», ed è costretta quindi «a ritornare sulla proposizione e ad intenderla, ora, diversamente» (V., capov. 63, p. 52; tr. it. cit., p. 53). Da qui, come abbiamo visto, la necessità, per il begreifendes Denken, di esporre nel linguaggio quel movimento, che nella proposizione speculativa è ancora qualcosa di «non esistente». 133.  Su questo punto, due citazioni fra tutte: la prima è da R. Bodei, Sistema ed epoca in Hegel, cit., p. 259: «il pensiero si manifesta attraverso il linguag-

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punto che per noi si tratta di sottolineare è un altro, e cioè che la riduzione della distorsione intellettuale a momento negativo subito aufgehoben entro la totalità del processo di attuazione espositiva dell’Assoluto pare necessariamente richiamare in causa il «Sé» dell’io, che si sottrae all’esposizione per lasciar emergere come suo «soggetto» l’auto-movimento categoriale, ma che simultaneamente deve esercitarsi come attività del Denken per dinamizzare ciò che nel linguaggio e nella scrittura resterebbe altrimenti irrigidito e distorto134. Alla sottraziogio, ma lo deve piegare e asservire, dimodoché ogni nuova filosofia, pur non utilizzando una speciale terminologia, forza la grammatica, la “forma” di una lingua, fino a farne sprigionare tutte le possibilità nascoste»; la seconda da S. Tagliagambe, La mediazione linguistica. Il rapporto pensiero-linguaggio da Leibniz a Hegel, Feltrinelli, Milano 1980, p. 292, dove si sottolinea «il carattere dinamico dell’interazione tra lingua e pensiero, il lavoro immenso che quest’ultimo compie sulla prima al fine di forzarne i limiti e le frontiere». Sul problema dello «stile» in/di Hegel, cfr. M. Züfle, Prosa der Welt. Die Sprache Hegels, Johannes, Einsiedeln 1968 (in part., sulla Vorrede, il cap. IV: Vorrede zur Phänomenologie des Geistes: Hegel als Prosaist, pp. 303-368). 134.  Il problema qui coinvolto riguarda il rapporto fra movimento dialettico, esposizione linguistica e riflessione, anch’essa linguisticamente esposta, esercitata dal pensiero sulla sua propria Darstellung. Il nodo affrontato, in sede ermeneutica, concerne la possibilità o meno di risolvere la riflessione in esposizione, e involge infine la possibilità stessa di potere adeguatamente esporre l’Assoluto medesimo. Bubner è pervenuto in tal senso a determinare le modalità di auto-costituzione del sapere dialettico nella forma del sapere di ciò che si è detto (ciò soprattutto in base alla recensione hegeliana degli scritti di Solger, dal titolo Solgers nachgelassene Schriften und Briefwechsel [1828], ora in G.W.F. Hegel, Berliner Schriften, cit., pp. 155-220): «il modo in cui questo movimento si svolge è la risoluzione di contraddizioni attraverso la riflessione su ciò che effettivamente si dice o si è detto e ciò che si voleva dire. Le contraddizioni si pongono per il fatto che si apre una discrepanza fra l’asserzione e l’intenzione» (R. Bubner, op. cit., p. 140). Egli contesta però che un’esposizione esaustiva dell’Assoluto possa mai darsi: «la continuità e la sequenza di determinazioni sorgenti l’una dall’altra risulta dalla circostanza che ne va sempre della stessa cosa, senza che mai tutto sia detto. Alla verità dell’assoluto appartiene di non poter mai essere completamente afferrata» (ivi, p. 139). La concordanza di questa interpretazione

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ne del soggetto dal piano dell’esposizione corrisponde quindi l’eccedenza incorporata, nei confronti di quest’ultima, dall’attività del Denken, di cui il «Sé» dell’io parrebbe depositario, ma che in pari tempo Hegel definisce come auto-movimento della «cosa stessa». Luogo della ri-attivazione costante dello «speculativo» enunciato nell’esposizione, «attività» il cui «soggetto» appare sino a questo punto indecidibile, e che coincide con l’abbandono alla «cosa» del «Sé» dell’io, quell’eccedenza non interviene sulla Darstellung dall’esterno, ma scaturisce dalle modalità della

con le posizioni sostenute dall’ermeneutica risulta in tal modo evidente. Da parte sua, P. Kemper considera fallito il tentativo hegeliano d’incorporare la riflessione nel movimento dell’esposizione: «L’esposizione, la forma linguisticamente manifestata della proposizione, non può produrre in base a se stessa la necessità di essere esposizione speculativa… L’esposizione… viene perciò trasformata in esposizione speculativa solo attraverso il pensiero speculativo di questa esposizione» (op. cit., pp. 227-228). Egli perviene così alla constatazione di quella che nel testo chiamiamo l’«eccedenza» dell’attività del Denken rispetto al dispositivo della sua esposizione scritta, però comprende tale eccedenza in base all’«impossibilità di una esplicita esposizione del movimento nella “proposizione speculativa” attraverso questa proposizione» (ivi, p. 243). Ma non c’è alcuna necessità di esporre il «movimento dialettico» incluso entro la proposizione filosofica mediante tale proposizione medesima. Il pensiero che intende l’identità fra soggetto e predicato si reca infatti anch’esso a effettualità nel linguaggio, solo che quest’ultimo si configura come totalità della «Darstellung», come totalità delle sue proposizioni e dei suoi periodi. La «riflessione su ciò che effettivamente si è detto» si espone anch’essa nella Darstellung. Quest’ultima comprende così non soltanto la totalità dell’esposizione, bensì, con un movimento certamente paradossale per il pensiero non-dialettico, l’auto-riflessione su di sé di questa stessa esposizione, la quale perciò è totalità non soltanto in quanto sistema delle determinazioni concettuali, ma perché comprende linguisticamente ed espone in sé anche la totalità della riflessione possibile «su» tali determinazioni; e precisamente nella misura in cui la espone nella forma della svolgentesi auto-riflessione di queste determinazioni stesse. Sull’incorporazione della riflessione nell’esposizione cfr., da un diverso punto di vista, J. Werner, op. cit., il § 12: Reflexion und Darstellung, pp. 195-207.

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sua stessa attuazione linguistica, e in quanto è inscritta al suo interno, rivela la sua funzionalità in rapporto all’instaurazione della filosofia come «scienza». Tuttavia, se essa emerge come risultato dall’impossibilità, per la Darstellung, di realizzare un dispositivo auto-sufficiente, il problema è complicato dal fatto che la Darstellung è totalità sistemica in quanto comprende in sé il momento dell’esposizione del concetto, ma anche, inscindibilmente connesso con questo, quello dell’auto-­riflessione del concetto stesso, anch’essa esposta nel linguaggio della filosofia. La Darstellung si svolge attraverso l’esercizio di una costante auto-riflessione sulla sua propria conformazione linguistica, riflessione quindi che è al contempo esposta e inclusa nel circuito di quella Darstellung, che in un primo tempo pareva eccedere. L’interrogazione rivolta a tale eccedenza non fa, in questo modo, che radicalizzarsi. Essa infatti non può più essere formulata nei termini del rapporto reciproco fra esposizione e riflessione, bensì, nell’eventualità che continui a sussistere, soltanto come eccedenza dell’attività del «Denken» in rapporto alla totalità della riflessione esercitata dalla «Darstellung» su se stessa, ovvero alla totalità dell’auto-riflessione del concetto – di una riflessione, cioè, comunque già linguisticamente esposta e incorporata nel dispositivo epistemico. La concatenazione immanente ai nessi concettuali conduce così in primo luogo a porre in questione le scansioni metodiche attraverso le quali il concetto svolge la sua esposizione in forma di auto-riflessione linguistica, per scoprire che la definizione del metodo è inscindibile, in Hegel, dalle modalità di un processo di sussunzione speculativa del tempo, che in quelle scansioni e in quello svolgimento dovrebbe pervenire a realizzarsi. L’«effettualità» del movimento dialettico, le articolazioni metodiche attraverso le quali può svilupparsi, nel circuito dell’esposizione, in senso simultaneamente espansivo e intensivo, sono inseparabili dalle modalità di un’Aufhebung (qui più che mai

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da intendersi nel duplice e inscindibile significato della conservazione e del toglimento) del tempo nell’eternità speculativa, che proprio l’esposizione del «movimento dialettico», e cioè la Darstellung speculativa, dovrebbe attuare e incorporare, inscrivere nel «ritmo auto-producentesi che si spinge oltre e ritorna in se stesso», con cui Hegel designa l’auto-svolgimento del concetto nella forma della sua esposizione135.

135.  Cfr. V., capov. 65, p. 53 (tr. it. cit., p. 65); e soprattutto V., capov. 18, p. 20: «Il vero è il divenire di se stesso, il circolo che presuppone e ha all’inizio la propria fine come proprio fine, e che solo mediante l’attuazione e la propria fine è effettuale» (tr. it. cit., p. 14). Che la pregnanza di tali passi emerga compiutamente solo alla luce del problema costituito dall’Aufhebung del tempo da parte del concetto, lo confermano i brani altrettanto noti dei precedenti, che trattano la questione all’altezza del «sapere assoluto», sezione con la quale si conclude la Fenomenologia dello spirito, e di cui vogliamo citare forse il più emblematico: «Il tempo è il concetto medesimo che è là e si presenta alla coscienza come intuizione vuota; perciò lo spirito appare necessariamente nel tempo, ed appare nel tempo fin tanto che non coglie il suo concetto puro, vale a dire finché non elimina [tilgt] il tempo… Il tempo appare quindi come destino e necessità dello spirito che non è perfetto [vollendet] in se medesimo…» (Phän., p. 558; tr. it. cit., II, p. 298). Una lettura stimolante del brano in questione ha fornito P.-J. Labarrière, La sursomption du temps et le vrai sens de l’histoire conçue. Comment gérer cet héritage hégélien?, in «Revue de Métaphysique et de Morale», LXXXIV, n. 1, 1979, pp. 92-100, poi in G. Jarczyk - P.-J. Labarrière, Hegeliana, Puf, Paris 1986, pp. 149-157. Per un’interpretazione in chiave non-metafisica della sezione sul «sapere assoluto», e quindi anche del rapporto fra sistema filosofico e tempo della storia, cfr. da ultimo R. Bodei, Scomposizioni, cit., pp. 201 ss. Sul problema della circolarità, e dell’adeguatezza o meno di questa «figura» in rapporto alla comprensione del pensiero hegeliano, cfr. D. Souche-­Dagues, Le cercle hégélien, Puf, Paris 1986. Per la genesi della metafora circolare a Jena, cfr. H. Kimmerle, op. cit., p. 73 (sulla sua prefigurazione negli abbozzi sistematici del 1803-04, in cui per la prima volta s’incontrerebbe «il pensiero di un circolo delle determinazioni logiche»), e il paragrafo Das Erkennen als «in sich zurückgehender Kreis» (ivi, pp. 88-93), in cui l’autore commenta il frammento hegeliano ora riportato, col titolo editoriale Zwei Anmerkungen zum System, in J.S.II, pp. 343-347, la cui datazione, benché non determinabile con precisione, andrebbe compresa fra il 1803-04 e il 1804-05.

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Così, l’impossibilità di cui quest’ultima si farebbe carico, nel caso non potesse esaurire al proprio interno la totalità della riflessione immanente ai propri procedimenti categoriali, dovrebbe imprimersi anche sulla dialettica temporale, che dispiegandosi nella scrittura della Logica, raggiungerebbe il suo compimento – instaurando l’eternità del concetto – solo nell’attimo del suo crollo. Tale problematica può rendersi comprensibile solo sullo sfondo di una trattazione speculativa del tempo già autonomamente sviluppata, che nell’esposizione si tratterebbe appunto di rendere compiutamente «effettuale». La conseguenza di tale implicazione è che la Darstellung, benché in certo modo “presenti” i suoi contenuti, rinunzia sin dal principio alla pretesa di ostenderli entro un presente che voglia stabilirsi nell’immediatezza semplice di uno stato. In Hegel, quindi, il problema diventa quello di riuscire ad arrestare la «caduta» al di qua di sé del presente come dimensione tramite l’instaurazione di un’eternità che dinamicamente si realizzi come totalità del tempo. Ponendo la questione della Darstellung, e al contempo determinando in termini di circolarità le coordinate della sua soluzione, il testo della Vorrede evidenzia il raccordo, ma meglio sarebbe dire l’incorporazione, nello svolgimento espositivo, delle scansioni che articolano la concezione dialettica della temporalità – che definiscono il percorso della sua conservazione/annullamento entro la nozione, centrata tutta sul suo baricentro teoretico, dell’eternità speculativa. Tale nozione si tratta ora, per noi, di affrontare.

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Capitolo II

L’esposizione speculativa come eternità realizzata

1. Temporalità e movimento dell’esposizione La risoluzione speculativa della proposizione, attuata in accordo all’esigenza di attenersi alla Darstellung del concetto, innesca nel linguaggio l’esposizione della verità. Poiché l’impiego in funzione di soggetto e predicato di termini categoriali incorpora nella struttura stessa del giudizio la necessità del suo dissolvimento, quest’ultimo è praticato dalla scrittura filosofica senza rimandare ad alcun presupposto, in quanto la concezione delle categorie come auto-movimenti non viene considerata da Hegel una teoria sui concetti, ma per così dire imposta al soggetto pensante dalla natura stessa delle determinazioni logiche1. 1.  Cfr. supra, pp. 54-57. Per ulteriori accertamenti testuali, cfr. V., p. 31 e p. 47 (tr. it. cit., p. 27 e p. 47); W.d.L., I, pp. 14-15 (tr. it. cit., pp. 14-15). N. Hartmann scrive su questo punto che il movimento categoriale per Hegel è «assolutamente “reale” nel pensiero, non è una costruzione od un’interpretazione, bensì un fatto» (Die Philosophie des deutschen Idealismus, de Gruyter, Berlin-New York 19743; tr. it., La filosofia dell’Idealismo tedesco, a cura di V. Verra, Mursia, Milano 1972, p. 386). Tale posizione è complementare in Hegel alla funzione creativa in senso linguistico da lui attribuita all’attività filosofica, così com’è emerso dalla trattazione del con-

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Tuttavia, una volta conseguita la risoluzione del giudizio, l’impiego di categorie a soggetto e predicato non supporta la pretesa di esaurire nel cerchio di un’immanenza meramente presentativa le determinazioni del contenuto assoluto. Che l’attribuzione a Hegel di una simile pretesa avvenga nella forma dell’imputazione al metodo dialettico di reintrodurre una forzosa ricomposizione della contraddizione e del molteplice sotto il principio dell’identità ripristinata, o piuttosto invece come attestato che convaliderebbe la superiorità del suo idealismo rispetto alle filosofie dell’idealismo soggettivo o dell’esi­stenzialismo novecentesco2, essa rischia comunque di semplificare la sua posizione, che si tratta invece di articolare in tutta la complessità che le appartiene. Ma per venire a capo di questa esigenza diventa necessario approfondire un aspetto metodologico fondamentale, inscindibile dal piano espositivo alla cui soglia questo pensiero pone la sua realizzazione, e concernente l’andamento specifico del movimento logico. cetto di esposizione speculativa. Se infatti le categorie si espongono come auto-movimenti nel linguaggio perché è ciò che esse sono «in verità», viceversa questa loro «verità» è determinabile in tal senso solo in quanto emerge dalla loro esposizione teoretica nel linguaggio. Il rapporto fra pensiero e linguaggio non può essere inteso alla stregua di un dominio strumentale esercitato dal primo sul secondo, quanto piuttosto come l’inestricabile compenetrazione dialettica di entrambi. Si tratta quindi di determinare la funzionalità specifica che questa compenetrazione riveste nella costruzione del dispositivo epistemico, e se essa non sveli una problematicità che rischia di comprometterne la realizzazione proprio quando quest’ultima pare potersi attuare senza residuo. 2.  Per la prima di queste due prospettive ermeneutiche, cfr. Th.W. Adorno, Negative Dialektik, Suhrkamp, Frankfurt a.M. 1966; tr. it. di C.A. Donolo, Dialettica negativa, Einaudi, Torino 19802, pp. 142-144; e ancora Id., Drei Studien zu Hegel, Suhrkamp, Frankfurt a.M. 1963; tr. it., Tre studi su Hegel, a cura di R. Bodei, il Mulino, Bologna 1971, pp. 39-43. Per la seconda, cfr. invece B. Lakebrink, Der dialektische Begriff von Grund und Existenz, in Id., Studien zur Metaphysik Hegels, Rombach, Freiburg i.Br. 1969, pp. 15-20.

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Intendiamo riferirci alla compenetrazione dialettica, che attraversa e scandisce il ritmo dell’esposizione speculativa, di sviluppo in avanti verso la meta (orientamento teleologico del movimento del concetto) e ritorno all’indietro verso il fondamento (logos come processo di auto-fondazione). Ogni categoria che nel decorso dell’esposizione appare successivamente, cioè, andrebbe intesa propriamente come fondamento rispetto a quella che la Darstellung filosofica ha appena finito di esporre, entrando così a far parte di una catena enunciativa imperniata sull’inversione e la confluenza reciproca delle direzioni temporali, e che diventa impossibile cogliere in termini cronologici3.

3.  «Bisogna riconoscere che è questa una considerazione essenziale… la considerazione cioè che l’andare innanzi è un tornare addietro al fondamento, all’originario ed al vero… L’essenziale per la scienza non è tanto che il cominciamento sia un punto immediato, quanto che l’intera scienza è in se stessa una circolazione, in cui il Primo diventa anche l’Ultimo, e l’Ultimo anche il Primo» (W.d.L., I, pp. 55-56; tr. it. cit., pp. 56-57). E ancora, nel capitolo sull’Idea assoluta: «ogni passo del progresso nel determinare ulteriormente, mentre si allontana dal cominciamento indeterminato, è anche un riavvicinamento ad esso, e perciò quello che dapprima può sembrar diverso, il regressivo fondare il cominciamento, e il progressivo determinarlo ulteriormente, cadon l’uno nell’altro e sono lo stesso. Il metodo… così si attorce in un cerchio… In virtù dell’accennata natura del metodo la scienza si presenta come un circolo attorto in sé, nel cui cominciamento, il fondamento semplice, la mediazione ritorce la fine. Con ciò questo circolo è un circolo di circoli; poiché ogni singolo membro, essendo animato dal metodo, è il ripiegamento in sé che, in quanto ritorna nel cominciamento, è insieme il cominciamento di un nuovo membro» (W.d.L., II, pp. 503-504; tr. it. cit., pp. 954-955). Cfr. al riguardo U. Guzzoni, Werden zu sich. Eine Untersuchung zu Hegels “Wissenschaft der Logik”, Alber, Freiburg i.Br.-München 1965, 19823, che sulla base di questi brani ha orientato la sua interpretazione della Logica, e che intendendo «con “carattere di movimento” la monodirezionalità del movimento, il suo univoco ordinamento di prima e dopo, l’irreversibilità della sua successione», vi evidenzia uno «scorrimento in senso contrario, che in un certo senso supera il “carattere di movimento” di questo movimento» in quanto Zugleich di Gründen (avanzamento) e Begründen

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Tali modalità di articolazione sono presentate da Hegel come metodicamente cruciali, e per quanto egli non abbia mai concepito il suo metodo nei termini di una grammatica speculativa universale ed estrinseca, ma lo abbia sempre determinato sulla base dello sviluppo immanente ai singoli campi concettuali4, pure in tal caso si tratta di un momento strutturale del movimento dialettico, e che perciò riguarda i procedimenti categoriali di tutte le sfere logiche. Misurandoci ad esempio col cominciamento della Logica, c’imbattiamo nell’appunto enigmatico secondo cui «la verità non è né l’essere né il nulla, bensì che l’essere – non passa, – bensì è passato, nel nulla, e il nulla nell’essere»5. Perché la sostituzione del passato al presente? Perché un’osservazione simile appare quasi subito, all’inizio della logica dell’essenza, quando leggiamo che il linguaggio nel verbo essere «ha conservato l’essenza (Wesen) nel tempo passato (gewesen)… perché l’essenza è

(ritorno), ciò che tuttavia non equivale a togliere il movimento dall’Assoluto: «Piuttosto il modo in cui l’assoluto auto-movimento è possibile è proprio questo esser-superato» (pp. 104-105). Sui passi in questione ha posto l’attenzione, in rapporto all’atemporalità del procedimento speculativo, L. Lugarini, Tempo e concetto nella comprensione hegeliana della storia, in Hegel fra Logica ed Etica, Edizioni dell’Ateneo, Roma 1982, pp. 7-38, che in particolare rileva come «caratterizzato dal reciprocarsi di cominciamento e fine (il fondamento) secondo il doppio rapporto della identità e della non-identità, lo sviluppo speculativo per così dire scavalca l’ordine seriale; valica, specificamente, la serialità della Zeitfolge, e perciò si dimostra atemporale» (p. 37). Per un’interpretazione complessiva della Logica volta a «distruggerne» l’impianto teorico in rapporto alla «struttura della temporalità», cfr. l’indagine ricca di spunti, benché non sempre convincente nelle sue tesi di fondo, di R. Ohashi, Zeitlichkeitsanalyse der Hegelschen Logik. Zur Idee einer Phänomenologie des Ortes, Alber, Freiburg i.Br.-München 1984. 4.  Al riguardo, L.B. Puntel osserva che il pensiero di Hegel «eine radikale Einheit von Sache, Methode und Darstellung impliziert» (op. cit., p. 32; ma cfr. anche p. 211 e p. 250). 5.  W.d.L., I, p. 67 (tr. it. cit., p. 71).

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l’essere passato, ma intemporalmente (zeitlos) passato»6? Anzi, quest’ultimo testo non può non suscitare un’interrogazione ulteriore, concernente il senso da attribuire al termine zeitlos, tanto più che questa parola, lungi dal limitare la portata del suo significato al contesto specifico in cui fa ricorso, estende il suo spettro di validità sino a includervi tutto l’ambito della logica e del sistema stesso. Forse, la via più opportuna per avvicinarsi a comprendere la processualità di un movimento, che pure si mantiene atemporale e così esige d’essere inteso, consiste nel verificare puntualmente l’impossibilità d’interpretare secondo parametri cronologici le scansioni attraverso cui la filosofia istituisce le sue procedure epistemiche. Consideriamo meglio le relazioni fra essere, nulla e divenire7. Dal punto di vista cronologico, le due prime categorie compaiono indubbiamente prima della terza. Eppure, una volta che abbia avuto luogo la loro risoluzione nel concetto di divenire, secondo l’avvertimento hegeliano quest’ultimo dovrebbe svelarsi come in realtà fondante rispetto ad esse. E poiché il concetto di fondamento rimanda alla dimensione dell’antecedenza nei confronti di ciò che è fondato (impiego del verbo al passato), la categoria che nel decorso dell’esposizione emerge dopo andrebbe in realtà concepita prima delle categorie che pure sembravano anticiparla. La sequenza espositiva si trova quindi a realizzare un ordine lineare solo prima facie; le relazioni intercategoriali instaurano un sistema di rapporti che a una considerazione di tipo cronologico appare senz’altro paradossale. Essere e nulla, infatti, dovrebbero occupare il «luogo» del presente; ma poiché rimandano a un futuro – il divenire – che non solo è già implicito nel loro contenuto logico, ma ne costituisce anche la ne6.  W.d.L., II, p. 3 (tr. it. cit., p. 433). 7.  Cfr. W.d.L., I, pp. 66-67 (tr. it. cit., pp. 70-71).

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gazione, vedono svanire immediatamente la loro consistenza di semplici-presenze. D’altro lato, quel futuro si toglie a sua volta come tale dal momento in cui esprime il contenuto soltanto implicito agli stadi precedenti, per portarlo a compiuta presenza. Il movimento dell’esposizione sembra così dipanarsi con la continuità costante di un presente, la cui pienezza verrebbe scalfita solo «idealmente» sia dal non-più che dal non-ancora. Eppure, il presente che si ripristina dalla dissoluzione delle categorie precedenti non è più lo stesso di prima. Non soltanto perché il divenire, dal momento in cui perviene alla presenza che lo sviluppo dell’esposizione pare garantirgli, non esiste già più come il futuro che era, si toglie come futuro per ricadere in passato. Esso è passato anche in un altro senso. Il divenire era infatti già contenuto nelle categorie che parevano precederlo: essere e nulla non facevano che portare a esplicitazione quanto custodivano soltanto in sé. Il movimento si determina come sviluppo del fondamento, di ciò che faceva già da nucleo originario di quelle prime categorie. E proprio in quanto fondamento il divenire è passato rispetto a essere e nulla: era il loro gewesen, ciò da cui provenivano e propriamente quindi la loro origine. Così, sovrapponendo il modello cronologico alla lettura dei processi speculativi, scorgiamo sin da ora come la dimensione del presente sia ben lontana dal contenere entro di sé la complessità del movimento dell’esposizione, e come tale modello, in rapporto alle articolazioni del logos, fornisca un apporto ermeneutico esclusivamente negativo. Dapprima sembra che il passato costituisca la verità di presente e futuro, in quanto emerge come negazione della negazione dal loro reciproco superamento. La traduzione formale in termini temporali del movimento categoriale risulterebbe: presente (essere e nulla) – futuro (direzione dello sviluppo) – passato (divenire). Ma se approfondiamo l’esame delle determinazioni temporali predicabili di quest’ultimo, vediamo che il divenire si lascia in-

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terpretare anche come presente e futuro. Esso cioè raccoglie indissolubilmente in sé la totalità delle dimensioni temporali. Costituendo la soglia attualmente raggiunta dal movimento dell’esposizione, il divenire pare disporsi entro lo spazio di una presenza che si dispiega senza residuo. Ma coniugandosi al passato non solo in quanto negazione del futuro che era e come nucleo originario di essere e nulla, bensì anche in rapporto alla categoria che nel ritmo dell’esposizione emerge come successiva (il Dasein), il divenire si ribalta nuovamente in futuro, visto che per il rovesciamento delle direzioni cronologiche il fondamento da cui il divenire proviene è propriamente l’esserci8. In quanto è incluso nel reticolo dell’esposizione, il divenire annulla e assorbe in sé le singole dimensioni temporali, scardinando la concezione del tempo propria della rappresentazione (nel senso della Vorstellung) e ordinata in base alla successione, cronologicamente lineare e irreversibile, di passato-presente-futuro9. Poiché tali dimensioni cessano di designare ambiti differenziati e sussistenti, il concetto mostra di distruggere il tempo in quanto somma di dimensioni. Ora possiamo forse intendere il senso di quella parola, zeitlos. Sin dal cominciamento della sua esposizione, il movimento speculativo elude ogni sua traducibilità nel linguaggio della cronologia: la trascrizione in termini di temporalità dei processi intercategoriali conduce quella lingua alla sua auto-soppressione. Ma certo tale risultato è solo l’inizio di una catena d’altre interrogazioni, che rilanciano la concezione hegeliana in tutta la problematicità dei suoi paradossi. «La verità non è né l’essere né il nulla, bensì che l’essere – non passa – bensì è passato, nel

8.  Cfr. W.d.L., I, pp. 93-97 (tr. it. cit., pp. 99-105). 9.  Sul tempo della Vorstellung e il suo rapporto col movimento della Darstellung, cfr. infra, cap. III, § 4.

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nulla…»10: enigma di un’intemporalità che tuttavia si scrive al tempo del passato, dislocando il corso dell’esposizione entro l’alveo di un già-da-sempre-stato che sarà forse da interrogare non tanto o non solo come residua traccia di platonismo, ma piuttosto nei termini di un’assenza che «già da sempre» ha spiazzato il circuito di riproduzione della semplice-presenza. L’asserzione hegeliana secondo cui quest’ultima continuerebbe a sprofondare nel suo fondamento non va più certo intesa al modo della tradizione metafisica, come ritorno a ciò che starebbe «sotto» i fenomeni, né al modo di uno zu-grunde-­gehen che designerebbe l’inghiottimento nell’Abgrund mistico dei contenuti finiti11. Essa segna piuttosto la messa in gioco del passato come nozione cruciale, e forse privilegiata, per l’attuazione del dispositivo espositivo e la realizzazione dell’eternità del logos. Da un lato, le modalità di svolgimento dell’esposizione conducono al doppio annullamento del presente e del futuro in direzione del passato; dall’altro, quest’ultimo si costituisce in totalità degli ambiti temporali, si toglie come dimensione singola e ritorce in sé la divaricazione dei momenti. Sviluppando un movimento atemporale, l’esposizione si distende in un processo che si sottrae alla presa della cronologia nell’attimo stesso in cui vi si espone. E proprio le modalità di questo suo sottrarsi spingono la ricerca a interrogare la concezione speculativa della temporalità. Intanto: esiste una tale concezione? Attraverso quali scansioni si articola? Sfocia anch’essa in una distruzione della temporalità che continuamente la riproduce per annullarla? Quali 10.  Loc. cit., cfr. supra, nota 5. 11.  In tal senso, cfr. B. Lakebrink, Der dialektische Begriff, cit., in part. pp. 44-45, 46, 48-49, 54-57; e R. Bodei, Sistema ed epoca in Hegel, cit., pp. 240-244 (in polemica con la tradizione interpretativa della scuola di Della Volpe).

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passaggi verrebbero a precipitare nell’intemporalità così instaurata? In che senso questa coinciderebbe con l’eternità? E infine: l’annullamento delle dimensioni temporali in un’eternità che le preserva e le distrugge potrebbe in qualche modo intersecare la temporalità rovesciata del movimento espositivo? Lo svolgimento sincronico, e quindi tutto specifico, che solo la Darstellung può istituire, realizzerebbe forse la concezione di cui si sta trattando? Tali domande ci conducono nuovamente a indagare gli scritti jenesi di Hegel; ma non perché nell’opera più tarda le questioni che riguardano la temporalità cessino di venir prese in considerazione. Nella Filosofia della natura dell’Enciclopedia, in particolare, si trovano indicazioni essenziali per la comprensione dell’eternità nella sua accezione speculativa, e per definire in che senso ad essa spetti una funzione costitutiva in rapporto alle modalità di movimento della logica e più globalmente del sistema. In questo testo, il tempo scaturisce dal superamento dello spazio conseguente all’esplicitazione e al ri-pensamento di quella negatività che nello spazio stesso era compresa solamente «in sé»12. Mentre lo spazio, immobilizzando le differenze, non presenta il fluire delle sue determinazioni l’una nell’altra13, il tempo oggettiva la negatività del concetto nel momento astratto 12.  «Lo spazio, come in sé concetto [als an sich Begriff], ha in generale in esso le differenze di questo» (Enz., II, § 255, p. 44; tr. it. cit., p. 230). Per un commento di questi paragrafi dell’Enciclopedia, e dell’interpretazione heideggeriana di cui sono stati fatti oggetto, cfr. J. Derrida, Ousia et grammè. Note sur une note de Sein und Zeit, in Aa. Vv., L’endurance de la pensée. Pour saluer Jean Beaufret, Plon, Paris 1968, pp. 219-259, poi in J. Derrida, Marges, cit., pp. 31-78. 13.  Le differenze si presentano nello spazio «immediatamente nella sua indifferenza come le tre dimensioni meramente diverse e del tutto indeterminate» (Enz., II, § 255, p. 41; tr. it. cit., p. 230); e ancora: «Lo spazio è l’immediata quantità esistente, in cui tutto permane e sussiste, persino il li-

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della sua pura mobilità, senza consentire al movimento di stabilizzare fasi separate e ben distinte. Perciò qui il tempo viene designato come negatività esistente «per sé»14. Ma l’Enciclopedia presenta alcuni luoghi che descrivono chiaramente anche la contrazione, nell’unità dell’ora eterno, delle dimensioni che per la rappresentazione sussistono in separatezza reciproca: Solo il presente è, il prima e dopo non è; ma il presente concreto è il risultato del passato, ed è gravido del futuro. Il vero presente perciò è l’eternità.15

Il movimento di costituzione dell’eternità attraverso la contrazione in totalità delle dimensioni del tempo è qui certo a mala pena accennato, così come la determinazione dell’eternità in quanto «vero presente» appare espressa in forma meramente assertoria. Ma assumendo provvisoriamente come non problematica la definizione di questa eternità come presente, possiamo già intravedere come il raccoglimento del passato e del futuro nell’unità articolata dell’ora porti a condensazione in quest’ultimo un contenuto concreto. Ciò lo solleva dall’eguaglianza amorfa e livellata con tutti gli altri ora, che lo dovrebbero precedere e seguire nell’indifferenza di una successione. L’istante dell’eternità s’instaura attraverso una saturazione del tempo, che non realizza soltanto il suo riempimento qualitativo, ma lo costituisce in totalità delle dimensioni. Che in ciò consista l’eternità permette forse di capire che cosa intenda Hegel quando la determina come concetto del tempo: mite ha il modo di un sussistere; questo è il difetto dello spazio» (Enz., II, § 257, Z., p. 48). 14.  Cfr. Enz., II, § 257, p. 48: la negatività appare «come indifferente verso la giustapposizione immobile. Così posta per sé, essa è il tempo» (tr. it. cit., p. 233). 15.  Enz., II, § 259, Z., p. 55 (richiamo a Leibniz).

99 L’intemporalità assoluta è distinta dalla durata; essa è l’eternità, che è senza il tempo naturale. Ma il tempo stesso è eterno nel suo concetto; giacché esso, non un tempo qualsiasi, né ora, bensì il tempo come tempo è il suo concetto, questo stesso però, come ogni concetto in generale, [è] l’eterno e perciò anche presente assoluto. L’eternità non sarà, né era; bensì è.16

Si tratta di un brano assolutamente indispensabile per la corretta comprensione della concezione del tempo in Hegel, perché mostra come ogni ermeneutica che voglia misurarsi con essa debba porre al centro dei suoi sforzi la nozione dell’eternità («tempo come tempo»); e come tale nozione, esprimendo il tempo in quanto compreso «nel suo concetto», «senza il tempo naturale», imponga di dislocare radicalmente il piano della discussione da una cornice di filosofia della natura a quello della concettualità e dell’articolazione logico-sistemiche – a quello insomma dell’esposizione teoretica. E tuttavia, la concezione appena esposta dell’eternità presupporrebbe l’esplicitazione della dialettica concreta intercorrente fra passato, presente e futuro, la determinazione di quel concetto come risultato del movimento immanente agli ambiti temporali. Ma poiché nell’Enciclopedia la dimostrazione concreta di come il tempo si raccolga in totalità dalla frammentazione nelle dimensioni astratte non viene presentata, l’eternità si trova a dipendere in sostanza dalla nozione formale di concetto in generale; in quanto è concetto, non può far altro che designare l’articolazione in totalità di quelle singole dimensioni. L’unica concretizzazione che l’Enciclopedia offre al riguardo consiste nella specificazione dell’ambito temporale cui tale concettualità si riferisce, mentre al contrario in questa dovrebbe sfociare la dialettica delle dimensioni finite17. 16.  Enz., II, § 258, Z., p. 50; cfr. infra, cap. III, nota 95. 17.  Cfr. Enz., II, § 259, con relative osservazione e aggiunta, pp. 51-52 (tr. it. cit., pp. 235-257). L. Lugarini scrive al riguardo: «Ma qui la loro dialettica

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Da qui l’indispensabilità, per l’indagine, di studiare gli scritti jenesi di filosofia della natura, in cui l’ermeneutica speculativa della temporalità emerge in tutta la ricchezza delle sue articolazioni. Il concetto di tempo è qui sviluppato nella dialettica delle sue dimensioni, esposto nel movimento di dissoluzione e compenetrazione in ciò che Hegel definisce l’ora dell’eternità. E vogliamo sottolineare la simultanea elaborazione delle nozioni speculative di tempo e filosofia dello spirito, che sin dalla Fenomenologia consentirà a Hegel di esporre in maniera compiuta le relazioni fra concetto e tempo18, per innestarle all’altezza di una filosofia che si teorizza come esposizione. Solo alla luce di questa connessione si possono valorizzare in tutto il loro spessore quei testi jenesi di filosofia della natura, che adesso ci accingiamo a commentare.

rimane sottaciuta: in luogo di soffermarsi sull’interno movimento della totalità temporale esposto nei testi del 1804-05 e 1805-06, Hegel lo dà quasi per scontato e passa a trarne implicazioni di carattere generale» (op. cit., pp. 1617). In effetti, il § 259 presenta le dimensioni del tempo come «date», senza sviluppare la trama dialettica delle loro reciproche relazioni. Nell’aggiunta, queste ultime vengono determinate attraverso il concetto di divenire (non si dimentichi che nel § 258 Hegel definisce il tempo «das angeschaute Werden»), inteso da un lato come passaggio dall’essere (presente) al non-essere (di quello stesso presente, il quale così sprofonda nel passato), dall’altro nel senso opposto, come passaggio dal non-essere (futuro) all’essere (presente). Il presente si pone così come unità negativa, che si esclude da sé e si continua nell’ora successivo. Dall’ora così inteso, Hegel distingue quindi il «verace presente», «risultato del passato e gravido del futuro», in cui consiste l’eternità. In maniera analoga, la trattazione del tempo risulta svolta nei due manoscritti, risalenti al semestre invernale 1821-22, presentati e pubblicati da W. Bonsiepen, Hegels Raum-Zeit-Lehre. Dargestellt anhand zweier Vorlesungs-Nachschriften, in «Hegel-Studien», 1985, pp. 9-78, in part. pp. 52-54 e 70-73. 18.  Cfr. supra, cap. I, pp. 85-86 e nota 135.

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2. La dialettica concreta delle dimensioni temporali Gli scritti ai quali facciamo riferimento risalgono agli anni 1804-05 e 1805-06. Benché la dialettica delle dimensioni temporali vi segua sostanzialmente il medesimo svolgimento, essi si differenziano rispetto alla collocazione sistematica di tempo e spazio. L’ordine di successione esposto nell’Enciclopedia, e che compare sin dai testi del 1805-06, risulta infatti invertito in quelli del 1804-05. L’antecedenza del tempo rispetto allo spazio consente a questi ultimi di sviscerare in tutta la complessità dei suoi rapporti la circolarità dialettica che presiede al trapassare reciproco dell’uno nell’altro, in quanto così come precede lo spazio, il tempo anche ne risulta come realizzazione della negatività compressa in quello. L’indagine del movimento che attraversa e scuote dall’interno gli ambiti temporali acquisisce in tal modo una complicazione e una ricchezza, che verranno parzialmente meno già sin dai testi immediatamente successivi19. Tuttavia, sarà proprio su questi ultimi che la nostra ricerca focalizzerà l’attenzione, e ciò per un motivo essenziale. Il confronto fra le due diverse stesure testimonia infatti di un fondamentale slittamento nella concezione di Hegel, poiché nelle pagine del 1804-05 il termine/concetto dell’eternità non è presente20, mentre viceversa, nel testo successivo, emerge come il culmine della dialettica del tempo. Nel 1804-05, la trama di relazioni dialettiche, che scandisce il superamento reciproco degli ambiti temporali, precipita nuovamente nell’ora del-

19. Cfr. J.S.II, pp. 193-205. 20.  Ciò avviene, nonostante Hegel fosse già pervenuto a definire in senso speculativo la nozione dell’eternità, come risulta dalla Differenzschrift del 1801. Cfr. più oltre, nota 57.

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la presenzialità21; ma questo ora, per quanto indubbiamente imprima una battuta d’arresto alla dinamica temporale – per quanto in esso il tempo si raccolga nella totalità delle sue dimensioni –, non viene determinato come eternità. Esso segna invece il trapasso della temporalità nello spazio, perché la pausa in cui si spegne l’avvicendamento delle dimensioni comporta una distensione, un’immobilizzazione del tempo, dalla quale appunto sorge lo spazio22. Il tempo riemergente da quest’ultimo vi resterà comunque indissolubilmente connesso, e darà luogo a una categoria che appartiene eminentemente alla filosofia naturale – quella di durata23. Al contrario, il quadro della filosofia della natura si spezza se il decorso in direzione della categoria di durata si trova, per così dire, interrotto, ecceduto per un attimo dal raccoglimento del tempo non più nell’ora/totalità che lo riconverte in spazio – ma se in quell’ora s’intravede l’emergere di un’istanza, che oltrepassa radicalmente la cornice entro cui la Naturphilosophie si sviluppa, poiché realizza l’ora dell’eternità. 21.  Cfr. J.S.II, p. 197: «il tempo reale è passato solo di contro a presente e futuro; ma questo terzo è la riflessione del tempo in sé, ovvero esso è di fatto presente». 22.  Cfr. J.S.II, p. 197: «questo tempo reale è l’inquietudine del concetto assoluto paralizzata, il tempo che nella sua totalità si è trasformato nell’assolutamente altro, è trapassato dalla determinatezza dell’infinito… nell’opposto, la determinatezza dell’auto-eguaglianza, e così, in quanto l’indifferenza eguale a se stessa, i cui momenti sono contrapposti nella forma di questa, esso è spazio». 23.  Cfr. J.S.II, pp. 207-208; ma più chiaramente in proposito J.S.III, pp. 1415. D. Wandschneider, Raum, Zeit, Relativität. Grundbestimmungen der Physik in der Perspektive der Hegelschen Naturphilosophie, Klostermann, Frankfurt a.M. 1982, precisa al riguardo: «Questa relazione di spazio e tempo trova espressione autonoma nel concetto della durata… si può parlare sensatamente di cambiamento solo nella misura in cui lo stato precedente resti nondimeno in qualche forma conservato nel suo superamento, coesista col nuovo stato, duri…» (p. 87).

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Particolarmente indicativo dello sviluppo assunto in tale direzione dal pensiero hegeliano è il foglio che conclude il manoscritto del 1805-06. Nel momento in cui si tratta di comprendere entro la concettualità filosofica il movimento degli stadi trascorsi, Hegel parla di un «altro dal tempo – non un altro tempo, bensì l’eternità, il pensiero del tempo»24. Una determinazione in tal senso dell’eternità è testimoniata, come abbiamo visto, fin nella Filosofia della natura dell’Enciclopedia, ma già il testo del 1805-06 impone di comprendere come fra piano del pensiero e piano dell’eternità vi sia ben altro che mera sovrapposizione o accostamento. Ambedue si trovano coinvolti in un movimento di auto-costituzione reciproca, le cui modalità di compenetrazione e svolgimento si lasciano concretizzare solo attraverso il ritmo che scandisce l’esposizione logica e sistemica. Che l’eternità sia pensiero o più precisamente concetto – che quest’ultimo produca se stesso solo in quanto giunge a esposizione nel linguaggio della filosofia, nella pratica della sua scrittura – tutto ciò mette in luce l’instaurarsi di una coincidentia, che esige di essere pensata nel suo statuto di necessità. L’esplorazione di tali rapporti richiede anzitutto di considerare la definizione concettuale del presente: poiché in quest’ultimo precipita il movimento di risoluzione dello spazio, esso precede, dal punto di vista della derivazione sistematica, sia il passato che il futuro, e dà così inizio alla dialettica delle dimensioni temporali. Come farà poi nell’Enciclopedia25, Hegel individua per lo spazio la necessità di diventare tempo nel concetto di punto, che 24.  J.S.III, p. 287 (C., p. 174). Sull’importanza di questo passo ha attirato l’attenzione P.-J. Labarrière, La sursomption du temps, cit., p. 93. 25.  «Così lo spazio superato è dapprima il punto e, per sé sviluppato, il tempo» (Enz., II, § 459 Anm., p. 52; tr. it. cit., p. 235).

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nella sua concezione dello spazio riveste uno statuto particolare e in qualche modo privilegiato26, non solo in quanto il punto si pone simultaneamente all’inizio e alla fine del movimento dialettico dello spazio, ma più profondamente in quanto di tale movimento costituisce l’origine negativa, la molla che sempre di nuovo lo innesca e che in pari tempo evidenzia di non poter essere trattenuta al suo interno, conducendo così lo spazio a togliersi nel tempo. In quanto si riferisce allo spazio, il punto vi è in certo modo compreso; ma poiché in lui si concentra tutta la negatività propria del concetto, esso anche lo eccede radicalmente: lo spazio neutralizza il movimento del Begriff, mostrando quindi di non poter contenere in sé il punto che lo incorpora. Il punto viene così a designare una nozione paradossale, che simultaneamente è dentro e fuori l’orizzonte entro il quale dovrebbe situarsi27. Il tempo scaturisce da tale oscillazione insopprimibile, in cui l’immota distensione dello spazio giunge alla negazione di sé, per contrarsi in entità atomica, indivisibile e repulsiva: infatti, il punto può realizzare la negatività che reca in sé solo nella misura in cui la esponga in un movimento di attiva esclusione dell’altro, che al tempo stesso lo affermi in indivisa eguaglianza con se stesso28. E il presente si definisce in Hegel proprio nei termini di tale auto-eguaglianza: «Quest’uno è, esso è immediato; giacché la sua auto-eguaglianza è proprio l’immedia26.  Cfr. al riguardo W. Bonsiepen, op. cit., p. 18. 27.  «Del punto va detto, che esso è sia nello spazio, sia non lo è. Esso vi è, è la dimensione non come negativo, bensì determinata come negativo dello spazio. In pari tempo, in quanto esso è il semplice negativo di quello in generale, ovvero è il concetto e il negativo come essenziale, il punto non è in esso» (J.S.III, p. 7). 28.  «L’uno dello spazio, in quanto uno, appartiene propriamente al tempo: per lo spazio esso è solo il suo aldilà. Al tempo, invece, esso è immanente: giacché uno è questo auto-rapportarsi-a-se-stesso, essere-uguale-a-se-stesso, l’assolutamente escludente, cioè: negante altro» (J.S.III, p. 11).

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tezza; esso è il presente. Questo ora esclude assolutamente da sé ogni altro, esso è assolutamente semplice»29. Tuttavia, che la temporalità s’innesti a partire dal presente non significa ancora che a tale dimensione spetti uno statuto privilegiato rispetto alle altre. A tale riguardo si potrebbe parlare di primati ontologici, che le dimensioni temporali dovrebbero reciprocamente disputarsi30. Ma anche un discorso di questo tipo non andrebbe basato su un ordine di precedenza attinente al piano della derivazione sistemica – piano che nel suo assetto monodirezionale vedremo messo in crisi proprio dallo svolgersi concreto della dialettica del tempo, la quale per giunta involgerà nel suo andamento distruttivo la definizione stessa del presente. «L’ora è; questa è la determinatezza immediata del tempo, ovvero la sua prima dimensione»31. Tale equazione fra i momenti dell’essere e del presente, posta in particolare rilievo grazie a un accorgimento grafico, sembra collocare il pensiero hegeliano entro lo spazio di ciò che è stato nominato metafisica della semplice-presenza. Eppure, nella nozione di punto è già implicito che questa dimensione, in cui il punto esiste come ora attuale, debba venire inesorabilmente scavalcata. Poiché l’ora s’istituisce in auto-eguaglianza sulla base della repulsività che esercita contro ciò che gli è altro, il suo rapporto a se stesso è simultaneamente un respingersi da sé e un porsi come non-essente32. Già come dimensione, quindi, il presente è ben lungi dal possedere quella consistenza, che in certi passi Hegel parrebbe 29.  J.S.III, p. 11. 30.  Cfr. più avanti, l’interpretazione di Heidegger. 31.  J.S.III, p. 12. 32.  «Questo ora esclude assolutamente da sé ogni altro. È assolutamente semplice. Ma questa semplicità, e il suo essere, è altrettanto l’immediatamente negativo della sua immediatezza, il suo togliere di se stesso: il limite che cessa di essere limite, ed è un altro» (J.S.III, pp. 11-12).

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attribuirgli. Il fatto che l’immediatezza che lo dovrebbe contraddistinguere non si realizzi che in forma di relazione con sé, introduce uno sdoppiamento che incrina quella pienezza in cui pure dovrebbe consistere il suo statuto ontologico. La questione è tanto più decisiva, in quanto il presente – benché in tutt’altra accezione – riemergerà alla conclusione della dialettica temporale come suo compimento nell’eternità. Andrà quindi ben registrata questa frattura, da cui è attraversato l’ora dell’immediata presenza e che segna, per il suo tramite, l’ontologia come la scrittura – che «forando» la dimensione del presente, ne dilapida per così dire in movimento dialettico tutto il patrimonio d’evidenza. Il contenuto concettuale del presente cronologico appare tale da spiazzare costantemente il presente da sé, da indurre uno sfasamento destinato a investire tutta la sfera del tempo. A partire da quella prima perdita di pienezza, gli ambiti temporali dovrebbero articolare un movimento di ricostituzione e ricompattamento, la cui realizzazione verrebbe a porsi entro una nozione dell’eternità che la configura ancora una volta come presenza, non più transeunte ma paradossalmente atemporale: processo di ripristinazione vera e propria, che sarebbe allora senz’altro ontologico – visto che l’ora è, visto che come ora si ridetermina la totalità delle dimensioni del tempo. Il rafforzamento del dispositivo ontologico costituirebbe lo sbocco di questa ermeneutica speculativa del tempo, la quale forse così giustificherebbe anche quelle interpretazioni che intendono il pensiero hegeliano nei modi di un’ultra-metafisica33. Ma se la riflessività della dimensione-presente convoglia que­ st’ultima in un circuito di risoluzione che perpetuamente la fa

33.  Al riguardo valga per tutte l’opera di I. Iljin, Die Philosophie Hegels als kontemplative Gotteslehre, Francke, Bern 1946.

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mancare a se stessa per proiettarla in una sorta di fuga senza fine – infinità che sarebbe tanto più «cattiva», in quanto proprio sul piano della temporalità sfuggirebbe a ogni possibilità di prodursi in termini di realizzazione –, il contenuto di quella stessa riflessività spiazza e disloca tale dimensione ancor più senza rimedio. Perché se l’ora s’instaura come auto-­ eguaglianza soltanto in forma di reattività di contro a ciò che è altro, la sua eguaglianza con sé non soltanto deve includere, ma non può che consistere nella diseguaglianza con sé. L’ora non sussiste se non nel movimento della repulsività, esiste come repulsività: ma ciò vuol dire, in effetti, che non sussiste, che sfugge alla fissazione/immobilizzazione ontologica – oltrepassamento dell’essere, attivato da quella semplice-presenza con cui era stato dapprima omologato. Ma più che di oltrepassamento, sarebbe rispondente al vortice di questa dialettica parlare di fessurazione, che scavando il presente dall’interno, lo introduce nella spirale del suo mortale superamento. Il presente si trova così radicalmente de-­ costituito, l’assenza si svela nucleo inesistente dell’ora immediato. Sin da queste pagine, Hegel compromette la possibilità dell’ontologia, o perlomeno di un’ontologia che pretenda basarsi sulla semplice-presenza, e che proprio così mostrerebbe d’istituirsi su di un vuoto, di determinarsi come cava proprio nell’attimo in cui cercasse di stabilire nell’ora il suo punto di massima precipitazione, per lì potersi finalmente presentare con la compatta densità della sostanza. E certo anche la dialettica, invece di convertirsi in assorbimento del negati­vo/potenziamento del positivo, sembra dar luogo – nell’ora – a un procedimento interminabile d’erosione: lo Jetzt nel quale la negatività si riflette su di sé per escludersi da se stessa espone la dialettica al rischio di non potersi più identificare, nemmeno in quanto soggettività – di non poter poggiare o sostanziarsi d’altro se non del vuoto di cui testimonia l’ora immediato.

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In Hegel, il moto centripeto di scivolamento da sé che trascina il presente alla sua rovina si orienta verso e sfocia nel futuro34. La determinazione in tal senso di questa dimensione va intesa nel suo carattere di necessità. Non si tratta infatti dell’artificiosa ritrascrizione in chiave concettuale della visione in fondo ordinaria del tempo, secondo la quale dopo il presente «c’è» appunto il futuro; ma non si tratta nemmeno di un contrasto con la concezione «empirica» del tempo da intendersi in maniera puramente oppositiva. Piuttosto, si tratta di svelare ciò che al nucleo delle scissioni e delle separazioni consolidate del senso comune emerge per l’indagine pensante come loro verità, di evidenziare come lo stadio raggiunto dallo sviluppo dei momenti temporali determini come «futuro» la «seconda» dimensione, e faccia quindi di quest’ultimo lo sbocco dell’auto-­ dissoluzione cui va incontro l’ora puntuale e immediato. Hegel ne parla come di qualcosa di meramente rappresentato (ein Vorgestelltes): il futuro è inteso come una dimensione proiettata sull’effettualità oggettiva dall’immaginazione umana, alla quale quindi non spetta alcuna connotazione di realtà35. Per esso non è previsto statuto ontologico, o meglio tale statuto vi è declinato al modo privativo del non-ancora risultante, come negazione, da quell’essere che si dovrebbe invece dispiegare al tempo del presente. Il futuro è così chiamato a svolgere una duplice funzione, simultaneamente sacrificata e sacrificale. Compresso fra la pienezza ontologica dell’ora e la precipitazione della dialettica temporale nel passato, il presente si proietta verso di esso per 34.  «Se noi tratteniamo il non-essere del suo essere contro di essa [la prima dimensione, cioè l’ora; N.d.A.], che è posta come essente, cosicché questo non-essere la tolga, noi poniamo il futuro; si tratta di un altro, che è il negare di questo ora: la seconda dimensione» (J.S.III, p. 12). 35.  «Ma questo essere che gli è attribuito cade al di fuori di essa, è un rappresentato» (J.S.III, p. 12).

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estinguervisi; ma proprio a partire da qui la temporalità si ricompatta, mediante il suo raccoglimento nel passato, nella più compiuta presenzialità dell’ora eterno. Lo schiacciamento di cui è gravato non esclude perciò dal futuro l’onere di «sostenere» il passaggio forse determinante di questa intera dialettica: il divenire cioè del passato, col riaccorpamento in esso della totalità delle dimensioni36. Sin dal momento in cui s’affaccia all’immaginazione, il futuro possiede la tendenza a uscire dalla sfera della rappresentazione e della non-esistenza, cui verrebbe destinato dalla sua immobilizzazione in dimensione astratta. Il futuro è immaginato come qualcosa, e in ciò Hegel intravede la tensione che lo spinge a riconvertirsi nell’ora della presenza reale37. Ancora una volta, per la comprensione speculativa non si tratta di ricalcare le modalità rappresentative d’interpretazione del tempo, del fatto cioè che sia considerato addirittura ovvio che quanto l’immaginazione proietta nel futuro diventa prima o poi presente, magari attuandosi in vesti diverse da come la rappresentazione umana si aspettava. Piuttosto, già qui è all’opera un movimento di sviluppo dei concetti, che svolge sul piano espositivo ciò che si trova allo stadio implicitamente compreso entro la categoria di volta in volta in questione, e che nel corso della riflessione mostra di costituire il suo nucleo essenziale. Quella tendenza a essere risulta per l’indagine hegeliana 36.  L’interpretazione hegeliana del futuro può apparire, nella nostra lettura, eccessivamente ristretta. Tuttavia, non dobbiamo dimenticare che la nostra analisi, qui come nel seguito della ricerca, è concentrata sui testi di filosofia della natura, e mira a determinare il senso dell’eccedenza, rispetto al «tempo naturale», dell’eternità speculativa. Il significato del futuro emergerebbe, da un’ottica di filosofia della storia e di storia della filosofia, con una rilevanza senz’altro più accentuata. 37.  «Il futuro sarà, noi ce lo rappresentiamo come qualcosa, gli trasferiamo l’essere del presente, non lo rappresentiamo come qualcosa di meramente negativo» (J.S.III, p. 12).

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come ciò in cui consiste l’essenza del futuro38: riassorbimento della categoria di possibilità in quella, che non tanto la esclude quanto piuttosto la comprende, dell’effettualità, attraverso un percorso che nella Logica perverrà a esplicitazione teorica39, e che per la dialettica temporale si esprime in questa collocazione intermedia che «incastra» il futuro fra due presenti. Il futuro abbandona la dimensione del non-ancora, che definiva il suo statuto in termini di assenza, e scopre entro di sé il presente da cui non solo proviene, ma che da esso riemerge come portato di un movimento di realizzazione, che forzando il passaggio da un’effettualità soltanto immaginata a una real­ tà davvero in atto, vuol riacquisire quell’essere di cui come futuro inevitabilmente mancava: e la dimensione dell’essere è appunto quella del presente40. Presente-futuro-presente: questa è la sequenza che la dialettica del tempo ha sin qui percorso. Il passaggio ulteriore è situato proprio a quest’altezza, e consiste nella determinazione

38.  «Proprio come il positivo, l’ora è questo, di togliere immediatamente il suo essere, altrettanto il negativo è questo, di negare immediatamente il suo non-essere e di essere; esso stesso è ora» (J.S.III, p. 12). 39.  Cfr. W.d.L., II, p. 175 (sulla possibilità formale): «L’accidentale è dunque necessario, perché il reale è determinato come possibile… come anche perché questa sua possibilità, la relazione del fondamento, è assolutamente tolta e posta come essere. Il necessario è, e questo che è, è appunto il necessario… Così la realtà, nel suo distinto, la possibilità, è identica con se stessa» (tr. it. cit., pp. 615-616); cfr. inoltre W.d.L., II, pp. 178-179 (sulla possibilità reale): «quello che è realmente possibile non può più essere altrimenti: poste queste condizioni e circostanze, non ne può seguir altro. La possibilità reale e la necessità differiscono dunque solo apparentemente. Quest’ultima è un’identità la quale, non che divenire, è già presupposta e sta a fondamento» (tr. it. cit., p. 619). 40.  «Il futuro è perciò immediatamente nel presente; giacché esso è il momento del negativo in esso stesso. L’ora è altrettanto essere, che dilegua, come il non-essere è immediatamente rovesciato nel suo proprio opposto, nell’essere» (J.S.III, p. 12).

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come passato di quel «secondo» presente41. La derivazione sistemica non consente, in effetti, d’intendere quest’ultimo negli stessi termini che definivano il contenuto concettuale del primo: l’ora risultante dalla riconversione in presenza del futuro non può conservare le determinazioni che gli spettavano all’inizio della dialettica temporale, quando sorgeva come primo momento dall’auto-annullamento dello spazio. Il «secondo» ora, che traduce in essere il futuro soltanto rappresentato, toglie simultaneamente la negazione dell’ora «immediato», che il futuro aveva privato del suo statuto ontologico. Perciò, l’ora così divenuto non può equivalere alla ricostituzione dell’ora semplicemente presente di cui si trattava all’inizio: esso reca in sé un carattere di mediazione che il primo non aveva. O perlomeno, non negli stessi termini. Il presente «immediato» s’è rivelato infatti tutt’altro che privo di mediazione. Se costituisce il punto di precipitazione di un processo (quello di superamento dello spazio) che in esso sembra pervenire al riassorbimento di tutte le contraddizioni in un’immediatezza semplice, quest’ultima s’instaura solo in quanto relazione di fronte ad altro e rapporto negativo con se stessa. Nell’ora del presente, è proprio la potenza incomprimibile della mediazione che introduce lo sdoppiamento e la frattura attraverso cui quell’immediatezza solo apparente ben presto precipita. Non è quindi in base a una semplice contrapposizione tra immediatezza e mediazione che la differenza tra «primo» e «secondo» ora si può risolvere. Essa concerne, piuttosto, la specificità della mediazione in questione. Quest’ultima infatti si produce tutta entro la sfera del 41.  «Questo non-essere, togliendosi immediatamente, è sì esso stesso essente e ora, ma il suo concetto è un altro rispetto a quello dell’ora propriamente immediato; esso è l’ora che ha tolto l’ora che negava [negierende] l’immediato. In quanto opposta alle altre dimensioni, questa è il passato» (J.S.III, p. 12).

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tempo, esprime una sorta di raccoglimento della temporalità in se stessa, che non rimanda più a un livello precedente esterno all’ambito temporale (come accadeva invece per l’ora «immediato», che risultava da un movimento la cui molla era costituita dalle contraddizioni dello spazio e dalla loro condensazione nel punto). Solo così la determinazione che indubbiamente spetta a questo «secondo» ora, di costituire la negazione di una negazione, e di contenere perciò una ricchezza e una complessità concettuali che il «primo» ora non possedeva, si distingue dall’applicazione standardizzata ai contenuti più diversi di una regola metodologica indifferente ad essi, e acquisisce la sua specificazione immanente in riferimento al singolo ambito concettuale. Ma proprio in quanto rappresenta la concentrazione e l’approfondimento interni della temporalità, il «secondo» ora si determina «immediatamente» come passato. Esso infatti, da un lato, incorpora la negazione del futuro, e in questo senso trasforma in passato il futuro stesso; ma dall’altro, in quanto è ora, esso è anche inevitabilmente negativo nei confronti di se stesso, toglie se stesso. Tuttavia, la sua sparizione non può procedere in direzione del futuro, perché appunto il futuro è appena stato superato; il «secondo» ora scompare nel passato proprio perché è divenuto presente «dopo» il futuro, e avendo esaurita «immediatamente» la sua istantanea esistenza di ora che è, non potendo più proiettarsi verso una rinnovata effettualità, deve necessariamente ricadere in ciò che non è più. Certo, la maniera più semplice per esporre il pensiero di Hegel riguardo la genesi del passato consisterebbe nel prescindere dal destino cui va soggetto il secondo ora, e nel focalizzare l’attenzione esclusivamente sul futuro. Infatti, nel momento in cui quest’ultimo ridiventa presente, esso costituisce necessariamente un passato rispetto al futuro che era – non è più futuro, era futuro, e si converte così inevitabilmente in passa-

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to. La via seguita dal testo, però, è quella più complicata, ma senz’altro anche più concettualmente concreta, che fa perno sul secondo ora e sul suo divenire-passato. Dal presente la dialettica temporale prende inizio, e in base alla ricaduta in presente del futuro comprende il passato nella sua necessità speculativa, scoprendo in esso il raccoglimento del tempo nella totalità delle sue dimensioni. Così, l’interpretazione hegeliana pare svolgersi sul terreno ontologico dell’ora che è, sembra orientare sul presente tutti i passaggi che ne scandiscono l’andamento dialettico. E tuttavia, simultaneamente, proprio l’orientamento di questo pensiero sul presente accentua la precarietà di tale dimensione, la svela nella sua parzialità di momento separato e astratto, continuamente ripreso e scavalcato dal movimento temporale. Instabilità e precipitazione in assenza del presente, che manca «da sempre» all’immediatezza che pure dovrebbe stabilizzarne il tasso di consistenza, il livello d’essere; instabilità che questa dialettica mostra per giunta divisa e raddoppiata, scissa come la dimensione di cui significa la sparizione e la sottrazione dal piano dell’essere. All’inizio era il «primo» ora a volatilizzarsi nel futuro; e adesso il «secondo» ora, in cui pure il futuro veniva a ricadere, non assurge all’altezza di una negazione della negazione se non in quanto si declini al passato, «sia» passato – formulazione paradossale, che si distrugge nell’attimo stesso in cui si scrive, un po’ come il presente in quel «sia» fa capolino per subito dopo dileguare. In quanto è assunto nella sua immediatezza come «primo», ogni ora presente è destinato a scomparire verso un futuro, il quale a sua volta ridiventando presente dà luogo a un altro attimo e ora, e così via. L’interpretazione hegeliana scorge il ripiegamento in totalità di questa successione senza fine nel passato, in quanto arresta lo sguardo sul «secondo» ora, che è già stato futuro, che non potrà più ridiventarlo, e che perciò sprofonda nell’ineffettualità di ciò che non è più. La necessità

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del passato è quindi dimostrata sulle ceneri del presente, del «primo» così come e soprattutto del «secondo». Il passato emerge in tal modo con una specificità che rende per la prima volta inadeguato l’impiego, nei suoi confronti, della categoria di «dimensione». Il passato infatti, in quanto conclude la dialettica degli ambiti temporali, non può venire inteso come semplicemente «uno» fra questi: in esso culmina lo sviluppo concettuale della temporalità, in esso si concentrano complessità e ricchezza del movimento di risoluzione delle dimensioni. È quanto fa presente Hegel, quando esprime la radicale eccedenza del passato rispetto agli altri momenti del tempo, quando ne evidenzia la specificità paradossale di dimensione che simultaneamente oltrepassa ogni sua delimitazione in questo senso: il passato è il tempo compiuto, in parte come passato cioè come dimensione, esso è il puro risultato, oppure la verità del tempo; – in parte però esso è il tempo come totalità.42

Ciò vuol dire che la compiuta riflessione del tempo in se stesso si attua nel passato, che in quest’ultimo s’instaura il raccoglimento in totalità delle sue dimensioni, cosicché presente, futuro e passato stesso non designano più ambiti reciprocamente separati, bensì i momenti interrelati e transeunti attraverso i quali il tempo si afferma come unità dialetticamente articolata. L’ovvietà della concezione rappresentativa si rovescia così nel suo opposto, svelandosi anzi inaccettabile dal punto di vista speculativo: per quest’ultimo il tempo, nel passato, non si disperde più nella fuga successiva degli istanti, cessa di frammentarsi nella sconnessa triplicità delle dimensioni. Dal punto di vista sistematico, la determinazione come passato dell’ora ripristinato dal superamento del futuro svolge una funzione complessa. In tal modo, Hegel non soltanto può 42.  J.S.III, p. 13.

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dimostrare come il passato venga a scaturire in quanto prodotto immanente dallo sviluppo dialettico, ma anche come si attui la concrezione del tempo nella totalità dei suoi momenti. Viceversa, la costituzione della totalità temporale in eternità, così come la realizzazione di quest’ultima in un presente simultaneamente dinamico e intramontabile, benché imperniate ambedue sul movimento interno della Vergangenheit, rappresentano delle scansioni ulteriori, che si riveleranno ben più problematiche di quanto la derivazione sistemica non lasci intendere a prima vista. Da un lato, la conclusione della dialettica del tempo nella dimensione del passato, che perciò è definita in Hegel come la sua «verità», sembra culminare in uno spiazzamento radicale dell’ontologia. Come abbiamo visto, la presenza che è non sostiene il ritmo del movimento concettuale che la distrugge; o meglio, essa in se stessa non designa altro se non questo sfuggire all’immediatezza che dovrebbe fissarla una volta per tutte. Cedimento ontologico dell’ora, sia esso «primo» o «secondo», ma tanto più importante se si tratta di quest’ultimo, se lo svolgimento del tempo collassa nel passato assieme a tutte le sue dimensioni, se la totalità stessa del tempo si declina al modo di un’antecedenza, ormai non più cronologica, che la situa perpetuamente «al di qua dell’essere». Il linguaggio dell’ontologia mostra ancora una volta di non essere adeguato alla descrizione di questa dialettica, proprio in quanto quest’ultima oscilla fra una concezione del presente che lo equipara all’essere, e uno svolgimento immanente che sancisce di continuo l’impossibilità, per l’ora, di protrarsi oltre su questo piano. Concepire il passato come «la verità del tempo» significa inclinare la fase terminale di quel movimento verso un’attuazione già stata «da sempre» e perciò «già sempre» im-possibile, sottrarre il tempo a ogni suo intendimento in termini di realizzazione, a ogni sua subordinazione nei confronti dell’ora presente. Per questo, parlare di primati

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«ontologici» fra le dimensioni del tempo risulta fuorviante. La dialettica delle dimensioni si conclude infatti al di qua dell’ontologia, al di qua del presente. Dall’altro lato, però, il passato eccede in Hegel il suo statuto di dimensione, esso è anche inscindibilmente «totalità del tempo». E per lui non era certo pensabile una totalità che si definisse in base alla sua irrealizzazione; un concetto, questo, contraddittorio in modo incompatibile con la sua dialettica, che pure sulla contraddizione fa leva per sviluppare il suo movimento. Tanto più che, trattenuta nel passato come dimensione, la totalità si rivelerebbe altrettanto parziale e «finita» quanto i momenti che in essa dovrebbero superare la loro limitatezza di astrazioni. L’irrealizzazione, di cui il pensiero così dovrebbe custodire l’esperienza, si convertirebbe addirittura nell’irrealizzabilità più radicale, visto che non sarebbe più pensabile nemmeno come potenzialità che un giorno, forse, potrebbe anche attuarsi, ma solo nei termini di una ritrazione e di uno «scadimento», che inficerebbero la totalità proprio nell’atto del suo dispiegarsi. Perciò, con un movimento che si tratterà di seguire più da vicino, Hegel fa leva sull’eccedenza del passato rispetto alla sua determinatezza di dimensione43 per ripristinare la scena del presente. Il ricompattamento in totalità del tempo coincide allora con la realizzazione dell’eternità speculativa, intesa come il raccoglimento delle dimensioni temporali in un presente simultaneamente mobile e intramontabile, perché non più soggetto al toglimento che coinvolgeva l’ora immediato. Proprio il concetto di totalità indicherebbe un ripiegamento, un attorcimento del tempo in grado per così dire di recuperarlo dalla frammentarietà delle dimensioni, dalla fuga senza fine del presente ver43.  Cfr. loc. cit. supra, nota precedente.

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so il futuro, dalla ricaduta senza fine del futuro nel «secondo» ora di un presente, che sorge anch’esso solo provvisoriamente, per costituirsi in «negazione della negazione» e «compimento» del tempo solo perché si toglie, scompare dalla superficie dell’essere, sprofonda in quel già-stato che lo declina al tempo del passato. Passato che anch’esso si annulla come dimensione44, visto che in lui viene a culminare il movimento del tempo, producendo un raccoglimento e una concentrazione, che equivalgono in Hegel alla realizzazione dell’eternità. Il tempo si riaccorpa in un presente che non soggiace più a superamento alcuno perché non è la «prima» dimensione, bensì risulta dal toglimento di tutte le dimensioni, e non può quindi venire oltrepassato.

3. Il concetto speculativo dell’eternità In questa eternità come presenza, l’ontologia sembra infine ripristinarsi al di là delle crisi che ne incrinavano l’attuazione in pressoché tutti i passaggi della dialettica del tempo. Certo, la possibilità e il senso di una tale ripristinazione andranno ulteriormente pensati, da parte nostra, in rapporto alla provenienza dell’eternità dal passato; ma se anche questo movimento dovesse presentare difficoltà forse insormontabili per la dialettica, importante adesso è aver raggiunto il luogo all’altezza del quale deve situarsi ogni prospettiva ermeneutica che non voglia semplificare forzosamente la posizione hegeliana, per intravedere come sia proprio questa instaurazione dell’eternità come presenza a spezzare il quadro della filosofia della natura, e a imporre una comprensione di questo pensiero che dislochi

44. Cfr. J.S.III, p. 13: «Il passato è esso stesso solo dimensione, negare in lui immediatamente tolto, ovvero esso è ora».

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radicalmente il problema del tempo rispetto alla cornice sistematica in cui pure viene racchiuso. La ripristinazione del presente al culmine della dialettica comporta indubbiamente più di una questione. Ma è tutt’altro che indifferente se s’intende il presente come «dimensione», o se invece nell’eternità Hegel non concepisca un «presente» di tutt’altra natura. La questione va posta, in quanto in Sein und Zeit Heidegger ha inteso la concezione hegeliana come la trasposizione filosofica più radicale della comprensione ordinaria del tempo45. Prendendo spunto da formulazioni come la seguente: «il tempo è la negazione della negazione, la negazione che si rapporta a sé»46, egli riduce l’interpretazione hegeliana a questa determinazione, nella quale «la successione degli ora è formalizzata all’estremo e livellata in modo insuperabile»47. Hegel farebbe propria la concezione ordinaria, secondo cui il tempo è una sequenza indefinita di istanti «livellati»; ogni istante cioè verrebbe eguagliato a ogni altro, perché ciascuno è inteso come la negazione della negazione incorporata nell’ora precedente – il quale a sua volta aveva negato l’ora a lui precedente, e così via. Heidegger interpreta in questo senso anche il passo degli Zusätze all’Enciclopedia, dove si afferma che «solo il presente è, il prima e dopo non è»48. Egli cioè assolutizza il presente in questione, in un’accezione da Hegel espressamente indicata 45.  Cfr. M. Heidegger, Sein und Zeit, Niemeyer, Tübingen 1927; tr. it. di P. Chiodi, Essere e tempo, Longanesi, Milano 19763, pp. 511-518: «il concetto di tempo proposto da Hegel costituisce la più radicale… elaborazione concettuale della comprensione ordinaria del tempo» (p. 511); e ancora: «Hegel… porta la sperimentazione e l’interpretazione ordinaria del tempo alla formulazione più radicale» (p. 514). 46.  Enz., II, § 257, Z., p. 48. 47.  M. Heidegger, Essere e tempo, cit., p. 515. 48.  Loc. cit. supra, nota 15.

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come finita49, e secondo la quale ordinariamente si contrappone il presente, che viene assunto come esistente, al passato e al futuro, che non esistono più o non esistono ancora. Heidegger perciò imputa a Hegel di privilegiare il presente come dimensione, riconducendo anche da questo lato il pensiero dialettico alla visione ordinaria, che lo impronterebbe indelebilmente di sé50. Hegel diventa il capitolo più emblematico di una metafisica, che per ridurre l’essere all’ente deve privilegiare «onticamente» il tempo del presente51. In base alle premesse così poste, Heidegger può asserire che il tempo resta, in Hegel, «del tutto coperto quanto alla sua origine»52. Se le obiezioni di Heidegger cogliessero effettivamente la posizione hegeliana nelle sue articolazioni fondamentali, il tentativo di rileggere questo pensiero come solcato da lacerazioni e fratture, la nozione ermeneutica di esposizione che abbiamo tentato di formulare a proposito del concetto della Darstellung speculativa, infine la problematicità che intacca la dialettica del tempo in pressoché ogni suo passaggio, e che incrina radical-

49.  «Il presente finito è l’ora fissato come essente, distinto dal negativo, dagli astratti momenti del passato e del futuro, come l’unità concreta, perciò come l’affermativo; però quell’essere è esso stesso astratto, dileguante in nulla…» (Enz., II, § 259 Anm., p. 52; tr. it. cit., p. 235). 50.  «Il primato conferito all’“ora” livellato spiega perché anche la determinazione hegeliana del tempo non si discosti dalla linea della comprensione volgare del tempo e quindi anche dal concetto tradizionale del tempo» (M. Heidegger, Essere e tempo, cit., p. 536, nota 30). Su questa nota heideggeriana cfr. il saggio di J. Derrida, Ousia et grammè, cit. 51.  In questo senso Heidegger intende il confronto, da lui instaurato, fra Aristotele e Hegel: «Il riferimento a una connessione diretta fra il concetto del tempo in Hegel e l’analisi aristotelica del tempo non intende imputare a Hegel una “dipendenza”, ma semplicemente richiamare l’attenzione sulla portata ontologica fondamentale di questa filiazione rispetto alla logica hegeliana» (M. Heidegger, Essere e tempo, cit., p. 537, nota 30). 52.  Cfr. ivi, p. 514 e p. 517.

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mente il privilegio che in questa dialettica dovrebbe spettare alla dimensione del presente – tale tentativo, dicevamo, scaturirebbe da un fraintendimento essenziale, che già per questo lo voterebbe al fallimento. Ma quelle obiezioni, a una lettura più attenta anche del solo testo dell’Enciclopedia, mostrano di dipendere da una semplificazione eccessiva della concezione speculativa. In effetti, non pare sostenibile affermare che Hegel trascuri di considerare il tempo nella sua «originarietà». La struttura originaria della temporalità è costituita per lui dalla nozione dell’eternità come totalità delle dimensioni del tempo. L’eternità le toglie dall’astrazione della separatezza reciproca, e s’identifica così col «tempo come tempo», o tempo compreso nella sua verità. Non trattando dell’accezione speculativa dell’eternità, Heidegger trascura proprio la nozione in cui culmina la comprensione hegeliana della temporalità. Benché dunque l’intendimento heideggeriano dell’originarietà del tempo determini una concezione profondamente diversa da quella che si afferma nel concetto hegeliano dell’eternità, ciò non significa che Hegel debba seguire l’interpretazione ordinaria del tempo come successione di ora «livellati»53. 53.  Cfr. su questo punto le opere di J. van der Meulen, Heidegger und Hegel oder Widerstreit und Widerspruch, Hain, Meisenheim a.Gl. 1953, e Hegel. Die gebrochene Mitte, Meiner, Hamburg 1958. In quest’ultimo libro, a p. 89, egli parla dell’eternità come della «radice del tempo» la quale a sua volta, licenziandosi come tempo, dona a quest’ultimo la sua origine. In questo senso, interpreta l’idea assoluta come ursprüngliche Zeitlichkeit, che estraniandosi da sé dà luogo al tempo naturale. Così, già nel libro del ’53 veniva dimostrato come «quest’ultimo non possa venire scambiato con il tempo concepito. Il tempo nella maniera in cui si mostra come spazio-tempo al primo livello della natura è trattato nella filosofia della natura… Concetto del tempo significa al contrario il tempo originario, così come esso si radica nel concetto in quanto logos. Questo tempo è ora l’Idea in quanto verità dell’essere stesso» (J. van der Meulen, Heidegger und Hegel, cit., p. 89). Certo in tal modo sfugge come sia la dialettica che il tempo svolge a livello

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Proprio perché il presente che si afferma nell’eternità emerge come risultato immanente dallo svolgimento dialettico del concetto di tempo, l’ora che conclude il movimento di risoluzione delle dimensioni non può essere inteso alla stregua di una di queste, né venir più contrapposto da un lato al passato e dall’altro al futuro. Hegel lo concepisce infatti come quell’attimo infinito, che contraendo in sé passato e futuro li riconverte in presenzialità superando il concetto stesso di «dimensione». Ciò comporta che anche il presente, inteso come «dimensione», venga alla fine annullato. Ma è proprio la sua lettura della categoria di «negazione della negazione» che impedisce a Heidegger di valutare in tutta la sua complessità la trattazione hegeliana del tempo, e in particolare la funzione sistemica che in essa viene ad assumere la concezione dell’eternità. Di quella nozione metodologica egli sembra fornire una versione unilaterale e a-dialettica, e quindi non rispondente al suo contenuto speculativo. Heidegger stesso di filosofia della natura che mostra la necessità del suo raccoglimento nel concetto, e così anche l’eternità può equivalere al «tempo originario» solo in quanto simultaneamente distrugga ogni forma di tempo. Tuttavia, tale interpretazione consente a van der Meulen di evidenziare il fraintendimento cui soggiace la critica hegeliana di Heidegger: «L’ora-qui viene per così dire fissato solo nel luogo, cosicché il tempo-luogo [Ortszeit], che nella sua attuazione è il movimento, è omologo al tempo-ora volgare nel senso di Heidegger» (ivi, p. 121), mentre del tutto errato sarebbe imputare a Hegel di orientare la sua interpretazione in base al tempo «livellato» perché egli, al pari di Heidegger, lo «deriva» da una temporalità originaria che per lui è l’Idea (ibidem). Sull’interpretazione heideggeriana della concezione del tempo in Hegel, cfr. anche i più recenti contributi di J.-L. Vieillard-Baron, Le temps. Platon. Hegel. Heidegger, Vrin, Paris 1978; J.P. Surber, Heidegger’s Critique of Hegel’s Notion of Time, in «Philosophy and Phenomenological Research», XXXIX, 1978-1979, pp. 358-377; V. Vitiello, Heidegger, Hegel e il problema del tempo, in Id., Dialettica ed ermeneutica: Hegel e Heidegger, Guida, Napoli 1979, pp. 15-43; D. Souche-Dagues, Une exégèse heideggerienne: le temps chez Hegel d’après le § 82 de «Sein und Zeit», in «Revue de Métaphysique et de Morale», LXXXIV, n. 1, 1979, pp. 101-120.

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interpreta la «negazione della negazione» come l’astrazione categoriale che consentirebbe a Hegel di raffigurare il successivo e incessante trascorrere degli ora, senza considerare che la valenza dialettica di quel concetto è realizzata entro l’ambito temporale dal ripiegamento, nella struttura unitaria dell’istante «eterno», della sequenza indifferente degli ora di volta in volta presenti. Perciò, quando Hegel designa il tempo come «negazione della negazione» non intende rilevare solo il processo di toglimento del singolo istante, ma sottolineare, in accordo col contenuto speculativo di quella determinazione, la contrazione in positività realizzata e qualitativamente caratterizzata di ciò che per la visione «ordinaria» costituisce soltanto un’ininterrotta fuga in avanti. L’interrogazione ermeneutica deve porsi all’altezza di questa saturazione qualitativa e irriducibilmente concreta, in cui la dialettica del tempo giunge al suo culmine e il significato del presente non è più quello di una semplice dimensione. L’evanescente successione degli ora è risospinta circolarmente in sé, così come ricomposta è la frammentazione del concetto nei momenti astratti di passato, presente e futuro. Anche in questa sua conclusione, quindi, la dialettica del tempo non può essere compresa entro una metafisica basata sul primato della semplice-presenza. Come abbiamo visto, il presente dell’eternità è tutt’altro che «semplice», poiché in esso giunge a condensazione tutto il complesso di stratificazioni e di rapporti attraverso cui si svolgeva il movimento del tempo. L’ora dell’eternità s’istituisce in quanto comprende in sé l’articolazione sistemica che lo produce, la sua «immediatezza» è data soltanto nella forma della mediazione di sé e del suo opposto, il processo da cui scaturisce. Del resto, che l’eternità s’instauri solo in quanto Jetzt categorialmente strutturato è implicito nella nozione stessa di totalità, che non solo Hegel gli attribuisce, ma in cui il tempo

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medesimo dovrebbe raccogliersi per cristallizzarsi in una presenzialità non più sfuggente, eppure dinamica. D’altro canto, se la dialettica del tempo si snoda attraverso questi momenti, la determinazione dell’eternità come presente, indubitabilmente asserita da Hegel, assume una valenza piuttosto problematica. Come può scaturire un’eternità declinata al presente quando l’intero decorso dialettico precipita in una dimensione che è passata? Certo, come nel concetto di dimensione è implicito che anche il passato debba togliersi, se inteso come tale (benché non più per dare corso all’avvicendamento dei momenti del tempo, quanto piuttosto per condensarne la totalità negli ora che istituiscono la cristallizzazione diveniente dell’eterno); così quello di totalità comporta, viceversa, che quest’ultima non possa essere intesa alla stregua di una semplice dimensione: e abbiamo visto come ciò accadesse proprio in rapporto al passato. Ma il fatto che quest’ultimo sia simultaneamente totalità, che alla fine tale determinazione prenda il sopravvento e annulli tutte le dimensioni, non dimostra ancora come tale annullamento possa ripristinare il presente, come un passato che simultaneamente è totalità del tempo possa «togliersi» nell’ora dell’eternità. Esso infatti sembra potersi negare come dimensione solo per riaffermarsi in veste di totalità temporale, non ulteriormente suscettibile di «superarsi» in un ora che, in quanto «unità» delle dimensioni, dovrebbe essere qualificato come «eterno». Sull’«unità» dei momenti del tempo il passato non cesserebbe di far gravare il suo peso, appunto in quanto totalità del tempo simultaneamente declinata nell’astrattezza di una dimensione, e di una dimensione che in quanto totalità temporale risulterebbe «da sempre» sottratta all’effettualità del «verace presente» dell’eterno. Tali questioni ci occuperanno nel seguito della ricerca, ma comunque vadano decise, la loro stessa complessità dovrebbe aver chiarito perché interpretare la dialettica hegeliana della

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temporalità sotto il segno del primato della semplice-presenza non renda giustizia, né porti a comprendere questa concezione speculativa. Del resto, una posizione del genere può sostenersi solo disconoscendo che, fra le dimensioni, non è comunque il presente a detenere il «primato», bensì il passato: che quindi proprio quella dialettica che culmina nel toglimento delle dimensioni attua il passaggio nell’eternità solo in quanto si coniuga primariamente al passato, al di qua del presente e di un ora che vengono continuamente scavalcati e infranti. D’altro lato, proprio questa circostanza non rende agevole seguire il testo hegeliano quando si tratta di determinare la totalità delle dimensioni che si concentra nel passato come eternità, né tantomeno comprendere come il superamento dei momenti temporali conduca a una loro integrazione che ripristina la scena del presente. Abbiamo visto come il primato del passato rispetto a presente e futuro coincida con il toglimento del passato stesso in quanto dimensione. L’auto-annullamento di quest’ultimo54 dovrebbe comprendere le tre dimensioni in un’unità articolata, che Hegel ridetermina come ora: e per l’indivisibilità dell’ora tutti e tre sono un unico e medesimo ora… L’ora è soltanto l’unità di queste dimensioni.55

Il testo perviene in tal modo al concetto di eternità come risultato della dialettica concreta della temporalità, a differenza che nell’Enciclopedia, dove non venendo chiarita quest’ultima, anche il concetto dell’eternità non risultava rigorosamente fondato. E certamente, che il movimento delle dimensioni 54.  «Ma per la sua immediatezza, tanto di essere negativo nei confronti dell’ora negativo [negierend], quanto di trasformare il futuro nel passato, oppure in relazione a se stesso, di togliersi in quanto negativo [negierend], è esso stesso ora» (J.S.III, pp. 12-13). Sul significato dell’«immediatezza» nel reciproco scavalcamento delle dimensioni, cfr. infra, cap. III, pp. 192 e 195-198. 55.  J.S.III, p. 13.

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conduca infine al superamento del tempo nell’Ewigkeit speculativa spiazza di necessità ogni considerazione che si muova nell’ambito di una concezione «dimensionale», indica il fraintendimento cui il pensiero hegeliano deve andare soggetto quando l’eternità, nell’accezione dialettica che le è propria, non venga tematizzata e posta al centro dell’indagine. Nel momento in cui vengano assolutizzati primati ontologici o categoriali fra i momenti del tempo, ci si espone al rischio di ridurre questa ermeneutica speculativa a una prospettiva meramente «finita». I rapporti di priorità che indubbiamente vigono entro le dimensioni assumono una valenza solo relativa dal punto di vista dell’eternità realizzata: Il presente non è né più né meno che il futuro e passato. Ciò che è assolutamente presente o eterno, è il tempo stesso, come l’unità di presente, futuro e passato.56

L’ambivalenza del pensiero dialettico sta tutta qui. Da un lato, le dimensioni entrano a far parte di un processo che culmina nel passato e nel toglimento di tutti i momenti entro una totalità che pare costituirsi al di qua dell’ora e dell’essere. Dall’altro, questa totalità dovrebbe riconvertirsi in una presenza tanto più compatta e consistente, in quanto non più soggetta a toglimento. Ed è senz’altro necessario, dal punto di vista concettuale, che la presenza risultante dal ripiegamento delle dimensioni del tempo entro una totalità strutturata non sia più sottoposta al superamento che trascinava continuamente alla sua rovina l’ora «immediato» del «primo» presente. L’ora in cui si realizza una tale totalità non ripercorre il movimento di toglimento delle dimensioni da cui scaturisce, poiché le imbriglia e le contiene tutte in sé. Esso attraversa ogni dimensione, perché è il prodotto e l’attuazione della loro compenetrazione 56.  Ibidem.

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reciproca: attraversamento che dunque, mentre si produce al modo di una rinnovata espansione, coincide simultaneamente con la concentrazione massima del tempo, con la distruzione della sua suddivisione e distensione nella triplicità di quelle scisse dimensioni. Ciò che risulta meno dimostrabile è il rovesciamento in presente e in ora della totalità, che pure in Hegel si «realizza» al tempo del passato. Intendere quest’ultimo come risultante dall’essere-trascorso di quel «secondo» ora, nel quale abbiamo visto il futuro riconvertirsi in esistenza e presenzialità, per basare quindi sull’«indivisibilità» dello Jetzt medesimo verso cui la Vergangenheit si toglie la determinazione della totalità temporale come eterna presenza, non risulta facilmente accordabile con ciò che risulta dallo svolgimento concettuale del tempo stesso. Non è soltanto quel «secondo» ora, infatti, che sprofonda immediatamente nella sfera del già-stato, ricadendo al di qua del livello dell’effettualità e della presenza: a sua volta, il passato così divenuto, se da un lato si toglie, come dimensione, nello Jetzt dell’eterno attuale di volta in volta, dall’altro però non cessa di rappresentare la verità cui tutti gli ora della presenza, e la totalità medesima del tempo, vengono a soggiacere. Ciò rende problematico parlare in termini intratemporali di un «superamento» del passato, in quanto esso condurrebbe al superamento dell’intera sfera del tempo, e di conseguenza dell’eternità stessa, che instaura la contrazione in «unità» dei suoi momenti57. 57.  La tensione concettuale di cui qui si tratta è testimoniata anche da taluni slittamenti terminologici, che riguardano l’impiego delle determinazioni di «totalità» e di «unità» in relazione al passato e all’eternità. Nella Differenzschrift, dove mostra di possedere già una ben chiara nozione dell’eternità, Hegel si serve di quest’ultima per specificare il significato dell’«intuizione trascendentale» in rapporto alla critica del «progresso infinito», in cui a suo avviso restava prigioniera la filosofia di Fichte. Il punto è sinteticamente questo: non può darsi Aufhebung del finito e attuazione del «vero» infinito senza

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Certo, la dialetticità che il passato incorpora si mostra decisiva per la comprensione delle modalità di sviluppo del moviin pari tempo procedere all’Aufhebung del tempo inteso come successione lineare d’istanti. Hegel si chiede «cosa significherebbe pensare senza intuizione», e si risponde: «In absoluten Endlichkeiten sich endlos zerstreuen» (Diff., p. 31; tr. it. cit., p. 32). Ora, poiché in ciò consiste l’opera dell’intelletto; poiché d’altro canto la radice del Verstand sta nella medesima Vernunft, ecco che il Verstand si protende alla conciliazione delle opposizioni, alla ripristinazione dell’identità, all’unificazione nel/con l’infinito. Proprio in quanto assolutizza il finito, però, esso assolutizza (cioè reifica, fissa, oppone) lo stesso infinito, innescando il meccanismo perverso di un «progresso infinito», che nel tentativo di togliersi riproduce costantemente se stesso. Da tale impostazione filosofica scaturiscono il tempo e l’incapacità di superarlo nel concetto. Hegel definisce il «progresso infinito» come «una mistura di empirico e di razionale; l’empirico è l’intuizione del tempo, il razionale è il togliere ogni tempo, l’infinitizzazione di esso» (Diff., p. 32; tr. it. cit., p. 33, corsivo mio). Il «progresso infinito» non riesce quindi a infinitizzare compiutamente il tempo (si potrebbe dire: a infinitizzare propriamente l’infinito stesso), «poiché il tempo deve sussistere in esso come finito, come momenti limitati» (ibidem). Viceversa, l’instaurazione dell’infinito va di pari passo con l’annullamento dell’interminabile «progresso», col «superamento» del tempo come «finito» e la realizzazione dell’eternità: quest’ultima è beides zugleich, identità di limitato e illimitato, intuizione della compenetrazione simultanea di attimo presente e della sua esteriorità. L’intelletto è costretto a semplicemente «postulare» l’intuizione della compenetrazione degli opposti, a sintetizzarli contraddittoriamente, quindi ancora in maniera negativamente antinomica; ma già nell’atto di quella «postulazione», deve presupporre il tempo come anch’esso costituito dalla compenetrazione di finito e (impropriamente detto) infinito. Ciò consente di svelare il contenuto dell’antinomia nella sua «verità», di ripiegare in presenzialità intuitiva l’infinito altrimenti reificato e ipostatizzato in «al di là» dall’intelletto: «In quanto l’antinomia postula l’intuizione determinata del tempo, il tempo deve essere i due momenti insieme, il momento limitato del presente e l’illimitatezza del suo esser-posto-fuori-di-sé, e quindi deve essere eternità» (ibidem, corsivo mio). Sulla base delle analisi fin qui compiute, possiamo intendere la direzione verso cui Hegel si era già mosso in queste pagine: il «sussistere» del tempo «come momenti limitati» mostra che egli intende il tempo «come finito» in quanto viene scomposto in dimensioni astratte, «limitate» l’una dall’altra e reciprocamente esterne; l’iterazione dell’avverbio zugleich sottolinea come, di contro alla concezione «empirica» del tempo come «progresso» e avvicen-

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mento speculativo e ad esse funzionale: l’auto-negazione del passato come «dimensione» costituisce la molla che conduce alla costante ripristinazione dell’ora dell’eternità (in termini logici: alla progressiva esposizione delle categorie), così come quest’ultimo si trova sempre di nuovo inghiottito nel passato (in termini logici, si tratta dello svelamento del carattere di fondamento delle categorie emerse successivamente nel decorso dell’esposizione). Ma in quella dialetticità è contenuta anche tutta la carica di problematicità, che investendo la dialettica del tempo e il suo raccoglimento nell’istantaneità dello Jetzt eterno, si ripercuote sulle modalità di costituzione del dispositivo epistemico. Concentrando in sé la totalità del tempo, infatti, il passato trascende in Hegel il limite della sua definizione meramente cronologico-temporale, venendo a istituire una nozione di antecedenza che irriducibilmente ecce-

damento lineare di ora omogenei, il tempo stesso si riveli eterno in quanto nei suoi istanti è già accaduto, e sempre di nuovo accade, il ripiegamento/toglimento delle dimensioni nell’identità reciproca. Ora, la categoria di totalità è impiegata da Hegel per designare appunto il compimento dell’Aufhebung di cui si tratta: «Se il tempo deve essere totalità, in quanto infinito, il tempo stesso è tolto… Il vero togliere il tempo è un presente senza tempo o eternità, nel quale scompare lo sforzo e il persistere dell’assoluta opposizione» (Diff., p. 56; tr. it. cit., p. 56). Al contrario, nel testo del 1805-06, il termine di «totalità» designa il precipitare delle dimensioni temporali nel passato, mentre all’eternità spetta la determinazione dell’«unità» di presente, futuro e passato. È evidente, tuttavia, che la difficoltà celata nell’auto-superamento del passato verso lo Jetzt dell’eternità non si lascia risolvere in questo modo. Esso pure, infatti, per istituirsi come «unità» delle dimensioni, non può che essere concepito come loro «totalità»; ciò che appunto riproduce il problema di partenza. In ultima analisi, la questione riguarda la capacità, da parte dell’Ewigkeit speculativa, di sottrarsi una volta per tutte al «tempo naturale» e allo sprofondamento cui quest’ultimo soggiace, raccogliendosi nella totalità del passato e auto-superandosi per immobilizzarsi nuovamente in spazio. La domanda verte quindi sulla spazializzazione dell’eterno; ma per poterla porre in tutta la sua ampiezza, la ricerca dovrà percorrere un ulteriore tratto di cammino (cfr. infra, cap. III, §§ 5 e 6).

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de la rappresentazione dimensionale del tempo. Ciò significa che in esso il tempo nella sua totalità viene trascinato in una zona già-da-sempre sottratta all’ambito della realizzazione e dell’effettualità, già-da-sempre «scaduta» al di qua dell’essere e del presente. Poiché il passato mostra così di essere «intemporalmente» passato, esso riflette tale continuo sfuggire del tempo al di qua del compimento conseguito sulle scansioni metodologiche fondamentali che governano l’esposizione logico-sistemica58. L’eternità in cui sfocia la dialettica del tempo è quindi tutt’altro che compatta, tutt’altro che «semplicemente presente». In lei s’istituisce una presenza che sfugge continuamente a se stessa proprio in quanto è complessa e risulta da un processo di progressiva distruzione delle dimensioni che termina il suo sviluppo nel passato. L’articolazione incorporata nell’ora eterno è segnata dal passato in cui il movimento di risoluzione delle di58.  La nostra ricerca si muove, su questo punto, entro l’orizzonte problematico determinato da R. Bodei, nel saggio Die “Metaphysik der Zeit” in Hegels Geschichte der Philosophie, in Hegels Logik der Philosophie. Religion und Philosophie in der Theorie des absoluten Geistes, hrsg. v. D. Henrich u. R.-P. Horstmann, Klett-Cotta, Stuttgart 1984, pp. 79-98. Bodei mostra come la filosofia, in Hegel, «supera il tempo in quanto modo dell’esteriorità e lo trasforma in methodos, nel decorso della verità, nella Darstellung del suo divenire e del suo auto-costituirsi» (ivi, p. 91), come «i tempi dello sviluppo del pensiero sono trasformati in stadi dello sviluppo stesso della filosofia che viene per ultima», cosicché «il tempo cronologico costituito dalle serie di filosofie diventa un circolo interno, il tempo graduato dell’attraversamento sistemico» (ivi, p. 87). Egli valuta invece diversamente il ruolo del passato, in quanto quest’ultimo cesserebbe «di costituire una minaccia non appena viene incorporato nel sistema in una forma depotenziata, come stadi concettuali interni al sistema stesso, come tempo sistemico, svolgimento interno, e non in quanto esteriorità del tempo cronologico e di opinioni indifferenti e contrastanti» (ivi, p. 84). Quest’ultima osservazione mostra che probabilmente l’interpretazione del passato assume scansioni differenti in rapporto alla specificità degli orientamenti analitici, a seconda cioè che si assuma come sfondo dell’indagine il «tempo naturale» oppure quello della storia della filosofia.

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mensioni viene a culminare, e che lo decentra continuamente da se stesso. Perciò Hegel non può fare a meno di registrare, forse suo malgrado, lo sfasamento che interviene a incrinare la coincidenza fra la dialettica delle dimensioni e del loro superamento (processo che sfocia nel passato), e la contrazione nell’ora dell’eternità di quel medesimo movimento (ripristinazione del presente, anche se non più come dimensione). Da tale sfasatura che compromette la possibilità di risolvere ogni contraddizione entro la categoria dell’eternità – dal fatto che persino l’ora dell’Ewigkeit speculativa viene a mancare a se stesso, trascinato per così dire in un vortice che lo risucchia nel passato, e sempre di nuovo lo disloca dal piano della presenza che pure in esso dovrebbe compiutamente realizzarsi – da tutto ciò risorge il movimento, riemerge il flusso di una temporalità, che benché non abbia più nulla a che fare con la cronologia della rappresentazione o della visione «ordinaria», pure ripristina la processualità di uno svolgersi diveniente entro il concetto stesso dell’eternità. Per generare se stessa, quest’ultima deve continuamente riprodurre la dialettica delle dimensioni, da cui proviene. La realizzazione del tempo nell’eternità origina sempre di nuovo il movimento che la produce, così come quest’ultimo perviene in essa a un arresto, che ricostituisce simultaneamente il momento del suo inizio. Ecco perché in Hegel l’eternità non si contrappone al tempo, bensì designa appunto il «tempo come tempo»: scavalcamento che è anche conservazione, distruzione/superamento che si produce in forma di realizzazione e compimento59. Mai come in questo caso la nozione di

59.  Cfr. su questo punto l’opera di H. Marcuse, Hegels Ontologie und die Grundlegung einer Theorie der Geschichtlichkeit, Klostermann, Frankfurt a.M. 1932; tr. it. di E. Arnaud, L’ontologia di Hegel e la fondazione di una teoria della storicità, pres. di M. Dal Pra, La Nuova Italia, Firenze 1969, pp. 183-184: «L’intemporalità del movimento dell’idea non ha quin-

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Aufhebung rivela la complessità concettuale contenuta entro la duplicità dei significati che ne contrassegna la determinazione speculativa; mai come in questo caso, però, i due momenti dell’Aufhebung si espongono alla frattura della loro non-­ coincidenza: essi sono intrecciati e reciprocamente implicati, eppure ugualmente sfasati, non-identici e non-conciliati. Ciò pone la realizzazione come eternità del tempo sempre simultaneamente al di sotto della soglia oltre la quale soltanto si potrebbe presentare come tale, l’attuazione resta sempre anche al di qua della sua effettuazione dispiegata, e mai del tutto in grado di assorbire l’incidenza del passato, nel quale anche il presente dell’eternità resta impigliato, situandosi così all’inizio di un movimento che nuovamente procede, attraverso il futuro, verso il passato stesso.

3.1. Excursus sull’interpretazione di Koyré e di Kojève L’interpretazione della dialettica temporale qui sostenuta non si accorda, evidentemente, con quella che hanno fornito studiosi come Koyré e Kojève. In effetti, benché rappresenti in un certo senso un classico, la loro lettura non sembra corrispondere alla determinazione speculativa dei concetti di eternità e tempo, poiché non consente di coglierne la dislocazione in rapporto alla concezione della logica. Prima di approfondire il punto in questione, può risultare quindi opportuno, da parte di affatto il carattere di un’extra- o sovra-temporalità. Ciò risulta perfettamente chiaro dall’esposizione del tempo nella filosofia della natura, in cui Hegel distingue appunto la specifica temporalità dell’idea dalla temporalità della natura. Hegel determina qui la “temporalità” dell’idea come “eternità”… l’eternità è certamente “senza il tempo naturale”… e in questo senso “assoluta intemporalità”; questo però non è un annullamento del tempo, bensì la suprema realizzazione del tempo». La «suprema realizzazione del tempo» equivale in Hegel alla distruzione del tempo naturale negli attimi concettuali dell’eternità.

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nostra, prendere posizione anche rispetto a questa interpretazione, la quale s’impernia non più – come in Heidegger – sul primato che fra le dimensioni spetterebbe a quella del presente, bensì sulla posizione privilegiata che verrebbe invece ad assumere il futuro. Nel suo saggio del 1934 Hegel a Jena, Koyré scrive: Il tempo non ci giunge “dal passato”, ma dal futuro. La durata non si protrae dal passato al presente. Il tempo si costituisce estendendosi – o, meglio, esteriorizzandosi – a partire dall’“ora”, ma non, ancora una volta, protraendosi, durando. È, al contrario, dal futuro che giunge a sé nell’ora. La “dimensione” prevalente del tempo è il futuro, che, in qualche modo, è anteriore al passato. Quest’insistenza sul futuro e il primato ad esso conferito sul passato, costituiscono, a nostro avviso, la maggiore originalità di Hegel.60

La posizione di Koyré viene ripresa da Kojève, secondo il quale l’articolo sopra citato del primo mostra bene che il Tempo preso in considerazione da Hegel è quello che, per noi, è il Tempo storico (e non biologico o cosmico). Questo Tempo, infatti, è caratterizzato dal primato dell’avvenire… Nel Tempo di cui parla Hegel… il movimento ha origine nell’Avvenire e va verso il Presente passando per il Passato: Avvenire → Passato → Presente (→ Avvenire).61

Da un lato, il limite di queste posizioni emerge nel fatto che la trasposizione sul terreno della realtà storico-effettuale della dialettica temporale impedisce di afferrare la compenetrazione fra concetto speculativo dell’eternità, processo del suo divenire e modalità di svolgimento dei procedimenti logico60.  Cfr. A. Koyré, Hegel à Iena (1934), ora in Id., Études d’histoire de la pensée philosophique, Gallimard, Paris 19712, pp. 147-189; tr. it., Hegel a Jena, in J. Hyppolite et al., Interpretazioni hegeliane, cit., pp. 133-167, in part. p. 157. 61.  Cfr. A. Kojève, Lezioni sull’eternità, il tempo e il concetto, cit., p. 204.

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categoriali – più semplicemente, essa non permette di giustificare e comprendere l’asserzione hegeliana, ripetuta più volte, secondo la quale l’eternità sarebbe il concetto del tempo. Dall’altro, quella trasposizione può aver luogo solo presupponendo il primato del futuro rispetto al passato nella concezione di Hegel, mentre finché si permane all’interno di una considerazione dimensionale e perciò finita delle relazioni intra-­ temporali, il momento «privilegiato» non è affatto il futuro bensì il passato62, in quanto è il passato a costituirne la verità. Tale primato va senz’altro inteso dialetticamente: infatti, esso coincide col toglimento del passato stesso come dimensione, da cui dovrebbe scaturire l’ora dell’eternità. A tale proposito, Koyré scrive: L’istante del presente – ogni istante del presente –, l’ora proteso verso il futuro e inglobante il passato, è già istante d’eternità. Ogni nunc è un nunc aeternitatis, poiché l’eternità è il tempo stesso… la natura dialettica dell’istante garantisce il contatto e la compenetrazione fra il Tempo e l’Eternità.63

La determinazione dell’eternità come istante è stata ripresa da altri importanti interpreti hegeliani64. Tuttavia, l’esposizio62.  Cfr. in proposito O.D. Brauer, Dialektik der Zeit. Untersuchungen zu Hegels Metaphysik der Weltgeschichte, Frommann-Holzboog, Stuttgart-Bad Cannstatt 1982, p. 138: «Ciò che nella concezione hegeliana del tempo è veramente rivoluzionario sta nel ruolo che viene ascritto al passato… Il passato è la “verità” del tempo e simultaneamente la negazione del tempo in quanto tale… il risultato della dialettica del tempo, e in pari tempo il toglimento temporale del tempo». Sulla critica dell’interpretazione di A. Kojève, cfr. infra, nota 66. 63.  A. Koyré, Hegel a Jena, cit., p. 166. 64.  H. Niel, nell’opera De la médiation dans la philosophie de Hegel, Aubier, Paris 1945, riprende a questo proposito l’interpretazione di Koyré, quando afferma: «L’eternità alla quale Hegel aspira è immanente al tempo, è l’eternità dell’istante. Hegel intende realizzare qui in basso la riconciliazione con l’assoluto che il credente riporta nell’aldilà e che concepisce sotto forma di

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ne di Koyré non permette di cogliere la problematicità che grava su questo ritorno del presente. Se infatti non è il futuro,

visione beatifica» (p. 224, nota). Egli sottolinea quindi la valenza propriamente speculativa che la concezione dell’istante assume in Hegel: «L’istante è la rivelazione di quella presenza assoluta degli esseri che contiene allo stesso tempo il passato e il futuro. Mediante la contemplazione filosofica, lo spirito si apre all’immanenza dell’eternità nel tempo e del tempo nell’eternità» (ivi, p. 249). Niel conclude però tale brano con un’osservazione che ci lascia perplessi: «Bisogna nondimeno riconoscere che essendo data la preminenza accordata all’idea, lo spirito non è temporalità, ma potenza stessa del tempo; ciò dona al tempo hegeliano un carattere essenzialmente lineare» (ibidem). In effetti, la preminenza dell’idea non comporta semplicemente la distruzione del tempo, ma l’idea stessa, e l’esposizione logico-sistematica in generale, è proprio quel «tempo come tempo» che alcuni interpreti (cfr. supra, nota 53) hanno inteso come «temporalità originaria». Inoltre, il tempo è considerato alla stregua di una progressione lineare d’istanti dalla concezione «finita», mentre proprio «la preminenza dell’idea», che sorge del resto dalla dialettica delle dimensioni del tempo, ripiega nella concretezza dell’attimo quanto sarebbe altrimenti una semplice successione di ora. Pur collocandosi entro un contesto fenomenologico, taluni fraintendimenti può suscitare anche la trattazione di B. Liebrucks nel già citato vol. V di Sprache und Bewusstsein. A proposito del movimento che conduce la «certezza sensibile» a opinare il singolo ora, ma a enunciare invece un «Universale», Liebrucks così si esprime: «Se questo ora è universale in senso ultra-­temporale, allora non devono essere vere per lui le determinazioni che valgono all’interno del mondo della temporalità. Non è dunque più possibile dire che l’ora non sarebbe nello stesso attimo in pari tempo notte e non-notte. Giacché l’ora è sempre… ora, esso non è mai limitato a un attimo. Se dunque è universale, fa parte delle condizioni dell’universalità che esso possa essere tanto notte come non-notte, perché l’universale è extra-temporale… L’ora universale non è in questo attimo. In questo attimo c’è piuttosto questo ora determinato. L’ora universale non è in nessun tempo» (op. cit., pp. 20-21). Al contrario, se in Hegel non si può parlare di «extra-temporalità» per l’ora «eterno», tantomeno ciò diventa possibile per l’ora «universale», che in una delle due Nachschriften pubblicate da Bonsiepen viene definito come «Allgemeine[s] in der Zeit» (W. Bonsiepen, op. cit., p. 53), e la cui stessa determinazione concettuale risulta incompatibile con una sua qualificazione in senso «ultra-­temporale». Cfr., in questo senso, la sua riconduzione da parte di Hegel alla nozione di durata (ivi, p. 53 e p. 72; Enz., II, § 258, Z., p. 50). Per

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ma il passato che costituisce la «verità» del tempo, perde ogni scontatezza la riaffermazione, nell’eternità, di un presente sia pure non più connotato in senso dimensionale e cronologico. Tale riaffermazione dovrebbe ripristinare il rapporto ontologico, che la dialettica delle dimensioni faceva continuamente mancare a se stesso. Altrettanto discutibile appare la formalizzazione dell’eternità che, secondo il testo in questione, sembra contrassegnare la concezione dialettica. Per Hegel, cioè, sarebbe eterno «ogni» attimo, indipendentemente dal contenuto che in esso si viene a realizzare. Sulla scorta di tale equazione, Koyré procede a identificare eternità ed «eterno movimento dello spirito», ciò che alla fine permette di «spiegare… il fallimento del tentativo hegeliano. Se, infatti, il tempo è dialettico e si costruisce a partire dal futuro, esso – checché ne dica Hegel – è eternamente incompiuto»65. La radice di tali considerazioni va individuata, ci sembra, nella trasposizione all’ambito della realtà storica di procedimenti dialettici che rivestono invece valenza teoretica, logico-categoriale. Essi possono venire adeguatamente interpretati solo se intesi dal punto di vista della logica filosofica. Ma per questo è necessario riconoscere che tra le dimensioni temporali la verità e il «primato» spettano a quella del passato; che la dialettica di tali dimensioni non segue una progressione del tipo AvvenirePassato-Presente, come sostiene Kojève, ma di tipo PresenteAvvenire-Passato66; che infine tale considerazione «dimensio-

l’interpretazione offertane da Wandschneider, cfr. infine cap. III, nota 116 della presente ricerca. 65.  A. Koyré, Hegel a Jena, cit., p. 166. 66.  Così anche O.D. Brauer, op. cit., in polemica esplicita con Kojève: «L’ordine che Kojève fornisce nella sua interpretazione: futuro, passato, presente, in Hegel non si trova. L’errore di questa interpretazione dipende dalla prio-

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nale» del tempo designa comunque, per Hegel, una modalità della comprensione «finita». Poiché fra le dimensioni non avviene un superamento di tipo lineare ma circolare, la dialettica di presente, futuro e passato ripiega i suoi momenti nell’unicità e presenzialità dell’istante eterno. Tuttavia, solo l’esercizio del pensiero e la sua realizzazione sul piano della Darstellung speculativa sono in grado d’incorporare, entro il movimento dialettico dell’esposizione filosofica, l’auto-­cancellazione delle dimensioni e la loro reciproca compenetrazione nell’istante, concettualmente determinato, dell’eternità67. Se dunque Hegel asserisce la compiutezza del tempo solo in rapporto alla filosofia, perché soltanto le modalità di attuazione dello svolgimento concettuale possono esprimere l’auto-­costituzione dell’eternità nell’attimo riempito del prerità ascritta al futuro»; al contrario, «presente, futuro e passato, questo è per Hegel l’ordine logico dei momenti del tempo» (p. 138, nota). 67.  Forse solo in tal modo si può sfuggire a un altro dei possibili fraintendimenti cui può andare soggetta la determinazione dell’eternità come ora. L’istantaneità di quest’ultimo, infatti, non può andare intesa in senso meramente puntuale, poiché ciò significherebbe ricadere al di sotto della concezione dialettica, ripristinare l’interpretazione «finita» del tempo come ininterrotta successione d’istanti «livellati». D’altro lato, solo il dispositivo logico della Darstellung filosofica, con la reciproca confluenza e «distruzione» delle direzioni temporali che la contraddistingue, è in grado di realizzare lo Jetzt come «attimo immenso» – indefinitamente espanso e scaturente dal «futuro», così come già-da-sempre-stato e custodito nel «passato» – «das Ewige und darum auch absolute Gegenwart». Di altro avviso risulta invece O.D. Brauer, op. cit., p. 159: «Il concetto hegeliano di tempo pensa… un tempo riempito, in cui l’eterno stesso perviene a effettualità, la storia del mondo come attuazione della libertà. Solo di questo tempo cosmico-storico si può dire, che in esso “il presente concreto… è risultato del passato, e… gravido del futuro”». In tal modo, il «primato» del passato viene interpretato alla luce della sua funzione produttiva in rapporto alla filosofia della storia: «Il passato è l’essere-opera del mondo presente, oppure, in altri termini, il presente, in quanto “opera” del lavoro cosmico-storico, è l’“esserci” del passato» (ibidem).

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sente – se per lui è soltanto l’ora concettuale a essere eterno, ciò renderebbe impossibile impiegare contro di lui l’obiezione dell’«incompiutezza» del tempo. Al contrario, poiché l’eternità verrebbe a svolgere una funzione teoretico-­categoriale, l’istanza di verità e assolutezza espressamente rivendicate come proprie dal sapere filosofico non soltanto si concilierebbe, ma renderebbe per la prima volta davvero pensabile l’apertura al nuovo e l’incompiutezza come tratti distintivi di ciò che in epoca moderna viene inteso come «storia»68. 68.  Per un primo orientamento sulla questione, cfr. B. Lakebrink, Hegels Metaphysik der Zeit, in Id., Studien zur Metaphysik Hegels, cit., pp. 135148, in part. pp. 145-148; R.K. Maurer, Hegel und das Ende der Geschichte. Interpretationen zur «Phänomenologie des Geistes», Kohlhammer, Stuttgart 1965 (poi Alber, Freiburg i.Br.-München 19802), il quale, in particolare, a proposito dell’interpretazione di Kojève, sostiene: «Poiché per Kojève il tempo è e resta il concetto, egli intende il superamento del tempo come un superamento temporale: come il tempo finale in cui la storia, col soddisfacimento definitivo di tutti gli uomini, si sarebbe arrestata» (p. 80); O.D. Brauer, op. cit., p. 192; F. Chiereghin, Hegels Konzeption der Wahrheit als Ganzes, in Hegels Logik der Philosophie, cit., pp. 213-223, in part. p. 215 e p. 221); e infine il recente D. Souche-Dagues, Le cercle hégélien, cit., cap. IV: Le temps, pp. 151-172. Al contrario, N. Rotenstreich, Legislation and Exposition. Critical Analysis of Differences Between the Philosophy of Kant and Hegel, Bouvier, Bonn 1984, ritiene che in quanto la «storia è uno dei domini della speculazione… i fattori della storia sono fattori della fine della storia» (p. 75). Della rilevanza che la questione della «fine della storia» aveva assunto in Germania all’inizio degli anni ’30 del secolo scorso, reca testimonianza il testo di U. Kayser, Das Problem der Zeit in der Geschichtsphilosophie Hegels, Diss., Berlin 1930, che si conclude con una Nachbemerkung orientata in prospettiva cristologica, intitolata appunto Das Ende der Geschichte. Da consultare al riguardo anche le dissertazioni, risalenti ai primi anni ’50, di N. Altwicker, Der Begriff der Zeit im philosophischen System Hegels, Frankfurt a.M. 1951, e di H. Kobligk, Denken und Zeit. Beiträge zu einer Interpretation des Hegelschen Zeitbegriffes, Kiel 1952. Sulla determinazione in senso begriffsgeschichtlich del concetto di storia, imprescindibili risultano gli studi di R. Koselleck, Vergangene Zukunft. Zur Semantik geschichtlicher Zeiten, Suhrkamp, Frankfurt a.M. 1979; tr. it. di A. Marietti Solmi, Futuro passato. Per una semantica dei tempi storici, Marietti, Genova 1986.

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D’altro canto, non bisogna dimenticare che categorie come «presenzialità», «compiutezza» e «realizzazione» restano estremamente problematiche fin dentro il perimetro della filosofia, anche quando questa si affermi, come in Hegel, nell’assolutezza del sapere speculativo. Infatti, come la dialettica temporale istituisce un’eternità che sfugge a se stessa verso l’ineffettualità del passato, così anche il movimento concettuale non può mai pervenire alla presentazione senza residui e senza opacità di se stesso. Un paradosso, forse non dominabile dalla dialettica, si celerebbe allora entro la duplice, per una volta davvero simmetrica determinazione hegeliana, secondo la quale l’eternità è concetto così come unicamente il concetto e l’idea esprimono l’autoriflessiva eternità del vero – paradosso che si tratta intanto di determinare nei suoi effetti specificamente produttivi rispetto alle modalità dell’articolazione logico-sistemica.

4. L’eternità come ora concettuale: «Ewigkeit» speculativa e ritmo dell’esposizione L’esposizione filosofica si è già dimostrata eccedente rispetto a ogni tentativo di sua traduzione nel linguaggio della cronologia. Se «l’andare innanzi è un tornare addietro al fondamento, all’originario ed al vero», se «ogni passo del progresso nel determinare ulteriormente, mentre si allontana dal cominciamento indeterminato, è anche un riavvicinamento ad esso… e perciò quello che da prima può sembrare diverso, il regressivo fondare il cominciamento, e il progressivo determinarlo ulteriormente, cadono l’un nell’altro e sono lo stesso»69, la verità che in essa giunge a effettuazione può a buon diritto essere chiamata intemporale. 69.  Loc. cit. supra, nota 3.

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Ma in questo modo, l’intemporalità cessa di designare il concetto come attributo generico e privo di determinatezza teoretica. L’intemporalità o l’eternità di cui Hegel parla in riferimento alla verità non significano più l’appellativo fin troppo consueto con cui la superbia dei pensatori ammanterebbe di sé le loro dottrine. Esse assurgono invece a indicazione metodologica fondamentale e pregnante, in quanto nel loro contenuto speculativo sono racchiuse le modalità di organizzazione e di svolgimento attraverso le quali si viene a istituire l’esposizione filosofica. Il concetto è eterno, perché soltanto il ritmo che scandisce l’attuazione dei procedimenti categoriali può incorporare in sé la dialettica della cancellazione delle dimensioni, del divenire e realizzarsi dell’eternità. In quanto è il prodotto di un movimento speculativo, ogni concetto contrae nel suo contenuto il decorso categoriale rispetto a cui era futuro, e del quale forma in pari tempo il passato. Ogni concetto costituisce uno Jetzt concettualmente determinato (presente) che si protende verso ciò che da lui scaturisce (futuro) per mostrare che l’ora in cui tale futuro precipita in categoria logica non è identico al primo «immediato» da cui l’esposizione iniziava, ma svela invece quanto già da sempre ne stava a fondamento (passato). Così, Hegel può determinare il modello generale dello svolgimento dialettico come simultaneamente percorso-verso e ritorno all’origine: la categoria che nel corso dell’esposizione viene dopo dev’essere concepita prima, come l’autentica provenienza di quella che nella Darstellung l’anticipava. E ciò è simultaneamente necessario e possibile dal momento in cui la categoria, che nel corso dell’esposizione appare successivamente, si dimostra immanente, allo stadio implicito, nel concetto rispetto al quale funge da fondamento – se ri-pensando il contenuto di questo concetto è inevitabile concepire anche quell’altra categoria. Tale «fatica del concetto», che sviluppa il suo movimento come ri-pensamento ed esplicitazione di quan-

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to era già contenuto entro la nozione di volta in volta compresa, spiega il frequente impiego da parte di Hegel dei modi del passato per indicare la transizione a ciò che invece, nella scansione dell’esposizione linguistica, emerge solo in seguito70. 70.  G.R.G. Mure, nel suo libro A Study of Hegel’s Logic, Clarendon Press, Oxford 1950, pone giustamente in relazione l’impiego del tempo «passato» all’intemporalità del movimento concettuale. A proposito della transizione reciproca fra l’essere e il nulla, all’inizio della Logica, egli scrive che «la sostituzione del tempo presente col perfetto vuole significare che l’oscillazione reciproca non è temporale» (ivi, p. 35). Tuttavia, poiché egli non tematizza il concetto hegeliano d’«intemporalità» o eternità, non riesce a chiarire la motivazione filosofica di tale privilegiamento del passato, rischiando perciò di ridurre quell’uso ad accorgimento puramente linguistico. Così, quando si tratta di chiarire il senso dell’eternità attribuita da Hegel al concetto, Mure la intende come se fosse in gioco l’intrascendibilità della Logica nella successione degli ora, senza cogliere nell’eternità la determinazione delle modalità di articolazione della Darstellung speculativa: «Si può dubitare se Hegel credesse o no la sua Logica eterna, ma non si può dubitare che il nucleo di hegelismo che abbiamo cercato di costruire non giustifica questo punto di vista» (ivi, p. 328). Al contrario, la logica va concepita come scienza dell’apertura al nuovo e consapevole della sua propria storicità, proprio per le modalità di destituzione del tempo che la sua eternità realizza. Sulla funzione peculiare del passato in Hegel, cfr. anche H. Marcuse, L’ontologia di Hegel, cit., p. 135: «Nella categoria dell’essere posto l’essere-stato (Gewesenheit) in quanto essenza (Wesen) della realtà trova ancora una volta la sua compiuta espressione. Il reale raggiunge la sua realtà in base al suo essere-stato, è reale sempre soltanto in virtù di ciò che è stato e derivando da ciò che è stato, mediante il superamento del suo presupposto. Qui ha il suo fondamento l’enigmatica affermazione fatta da Hegel nella Filosofia della natura: “La verità del tempo è che non il futuro, bensì il passato è la meta”». La posizione di Marcuse, che nel passo in questione mostra di essere in qualche modo antesignana rispetto a quella di Brauer, intende la funzione del passato alla luce della determinazione del reale come storicità. Tuttavia, il significato del passato non si esaurisce su questo piano, bensì coinvolge, come stiamo cercando di mostrare, il movimento linguistico e concettuale dell’esposizione, il quale è sempre anche uno svolgimento «all’indietro», e quindi non solo espansione, ma intensificazione attuata come raggiungimento del fondamento. Come abbiamo visto, quest’ultimo è da un lato ciò da cui il movimento che lo precede in realtà proviene, e perciò ne

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E. Bloch ha intravisto l’impronta del platonismo in questo avanzamento dialettico, che si svolge piuttosto come ritrovamento di quanto intemporalmente è già stato, e al riguardo parla della «profondità di un’anamnesi platonica del divenuto», cui non soltanto Hegel non avrebbe saputo sottrarsi, ma che nel suo «circolo di circoli» risulterebbe «persino più rafforzata… quando egli descrive come tale il procedere dialettico, con un’ultima spirale di serpe»71. In realtà, l’identità di sviluppo espansivo e ritorno verso l’origine attua un movimento di pensiero radicalmente incompatibile con la nozione platonica dell’anamnesi, perché trasforma un metodo tradizionalmente imputato al reperimento di contenuti ontologici in determinazione delle modalità di svolgimento dell’esposizione linguistica: il ritorno all’indietro che in ogni avanzamento fa scorgere l’approssimazione del fondamento tematizza l’antinomia fondamentale che la linguisticità del filosofare speculativo comporta, e consente

costituisce il passato; dall’altro, però, poiché nel corso dell’esposizione esso appare solo successivamente, poiché quindi s’istituisce in fondamento solo attraverso lo svolgimento logico-linguistico che lo pone come tale, esso è un passato che funge in pari tempo da meta, verso cui il dispositivo della Darstellung è orientato e che già da sempre ha raggiunto, così come la concrezione del fondamento nello Jetzt dell’eternità realizzata attualizza il passato come Gewesenheit autentica. 71.  Cfr. E. Bloch, Subjekt-Objekt. Erläuterungen zu Hegel, in Id., Gesamtausgabe, Bd. 8, Suhrkamp, Frankfurt a.M. 1962; tr. it. di R. Bodei, SoggettoOggetto. Commento a Hegel, il Mulino, Bologna 1975, risp. p. 500 e p. 503. In termini critici nei confronti dell’interpretazione blochiana si esprime J.-L. Vieillard-Baron, Hegel, philosophe de la réminiscence?, in «International Studies in Philosophy», VIII, 1976, pp. 145-166, in part. pp. 160-161, anche se da un punto di vista parzialmente diverso dal nostro. Per un’ampia panoramica sulla questione, cfr. anche V. Verra, Storia e memoria in Hegel, in F. Tessitore (a cura di), Incidenza di Hegel, Morano, Napoli 1970, pp. 339364. Sull’interpretazione hegeliana di Platone, anche in rapporto a quanto segue infra nel testo, cfr. G. Duso, L’interpretazione hegeliana della contraddizione nel “Parmenide”, “Sofista” e “Filebo”, in «Il Pensiero», XII, n. 2, 1967, pp. 206-220, e Id., Hegel interprete di Platone, Cedam, Padova 1969.

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a Hegel di funzionalizzare la contraddizione alla costruzione del sistema: da impedimento che potrebbe bloccarne ogni ulteriore sviluppo, essa diventa la categoria mediante la quale la filosofia prende coscienza delle modalità costitutive della sua propria esposizione. Il movimento concettuale è dunque, ad esempio, essere (presente): questa categoria si nega in un futuro che compare all’orizzonte dell’esposizione come sbocco e risoluzione delle contraddizioni presenti. La concretizzazione ulteriore, però, il «nuovo» concetto (ancora dunque attimo e ora) non è più l’ora «immediato» del cominciamento, così come è la negazione di quell’indeterminato e non «enunciato» futuro: esso è il passato di quel concetto, poiché ne costituisce lo strato profondo, l’autentica provenienza. Di qui l’effetto illusionistico dell’esposizione, di qui la determinazione hegeliana delle modalità che ne scandiscono il ritmo di realizzazione linguistica; di qui, infine, la costituzione dialettica dell’eternità che essa incarna. La Darstellung si dipana intemporalmente, resta in tal senso eterna, ma è di volta in volta un’eternità nuova. La necessità nella produzione di questo nuovo è già implicita nell’uso linguistico: ciò che infatti è presente era futuro, e nel tramonto della dimensione che prima lo designava si determina come passato non relativamente ad altro, ma per così dire in se stesso. Esso risulta superato dall’istante di volta in volta attuale, che per esso rappresentava ancora un futuro e il quale a sua volta, costituendo il passato di ciò che l’anticipava, cela in sé il germe dell’auto-trascendimento negli ulteriori Jetzt dell’eternità. Per comprendere la Darstellung speculativa bisogna dunque «pensare» la dialetticità del passato: esso designa il momento che nell’esposizione è successivo, ma poiché questo è appunto un passato, ciò che semplicemente era, esso è simultaneamente un tolto, che rimanda verso il nuovo ora del presente attuale, il quale a sua volta contrae nel suo

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contenuto la medesima dialettica di presente-futuro-passato, costituendosi a eternità semovente. Così, l’eternità dell’esposizione comporta la distruzione delle dimensioni temporali, ed è la totalità degli ora concettuali che risultano da questo svolgimento72. L’eternità integra il movimento di risoluzione delle dimensioni col simultaneo precipitare di tale processo nella presenzialità dell’istante. La Darstellung si dipana intemporalmente nel senso che incorpora la dissoluzione delle dimensioni; ma in pari tempo espone la contrazione della loro dialettica nel concetto singolo, di volta in volta determinato, e che istituisce l’ora dell’eternità. La temporalità della Darstellung sfocia nella cancellazione di se stessa73,

72.  In questo senso, rischia di rivelarsi riduttiva la tesi di van der Meulen, che così riassume i risultati delle sue ricerche rispetto a tempo, eternità e logica: «In Hegel… la pura sintesi o la negazione della negazione rappresenta a ogni stadio del logos il concetto del tempo, il tempo originario come l’origine del tempo che appare, il quale tempo originario, seguendo Heidegger, abbiamo chiamato temporalità. A dire il vero, abbiamo visto che esso è propriamente, in tutti gli stadi inferiori, soltanto il tempo superato, non ancora la temporalità stessa… Solo nella negatività più profonda, che si raccoglie in sé, dell’idea assoluta noi vedemmo costituirsi, nell’unificazione di negazione e negazione della negazione, il vero concetto come la vera radice del tempo» (J. van der Meulen, Hegel, cit., p. 233). Al contrario, ciò che van der Meulen chiama temporalità originaria, «la temporalità come la radice del tempo in generale» (ivi, p. 213) non deve attendere, per costituirsi, di pervenire al livello «ultimo» dell’idea assoluta, bensì è già presente nell’attimo stesso del cominciamento logico-espositivo, per procedere di riempimento in riempimento sino allo Jetzt della conclusione, la quale però, dialetticamente, ripristina e costituisce anche l’inizio vero e proprio. 73.  Cfr. quanto sulla verità hegeliana scrive Adorno: «Ma come tale, trapassante, tanto poco meramente “posta” quanto poco meramente “svelata”, essa è incompatibile con ciò di cui fa questione l’ontologia. La verità hegeliana non è più nel tempo, come era la nominalistica, né al di sopra del tempo alla maniera ontologica: il tempo diventa per Hegel un momento della stessa verità. La verità come processo è un “trascorrere di tutti i momenti”, in contrasto con “la proposizione priva di contraddizione”; e come tale ha un nucleo

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e implica l’impossibilità, per un linguaggio imperniato sugli ordinari rapporti di tempo, di descrivere correttamente i procedimenti espositivo-categoriali della filosofia come scienza. L’innervazione reciproca dell’eternità e della logica riflette sull’antinomicità costitutiva dello svolgimento dialettico la paradossalità dell’Ewigkeit speculativa, così come il ritmo a-diacronico dell’esposizione realizza l’auto-destituzione del tempo nell’eternità del concetto. Perché il compimento del tempo scaturisce all’apice della sua distruzione: «tempo come tempo», che si disattiva in quanto tale, ma proprio in questo suo annullamento dovrebbe trovare la forma che, custodendolo, lo preserva. Se la connessione fra eternità, movimento concettuale e sua esposizione nel linguaggio emerge ormai come plesso nevralgico nel pensiero di Hegel, è alla luce di questa complessa integrazione che la nostra indagine deve infine tentare d’interrogarne l’insopprimibile problematicità.

temporale» (Th.W. Adorno, Tre studi su Hegel, cit., pp. 72-73). Senz’altro qui viene colta con precisione la distanza che separa la dialettica hegeliana dall’ontologia. E tuttavia, il tentativo di Hegel appare ancora più radicale, se assieme alla permanenza del tempo in quanto «nucleo» della verità si sottolinea il fatto che quest’ultima s’instaura come movimento della sua destituzione, e che proprio in quanto espone un tale movimento essa, da un lato, «compie» il tempo nell’attimo stesso in cui lo distrugge, dall’altro preserva e rafforza l’irriducibile eccedenza che la distanzia dall’ontologia.

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Capitolo III

La scrittura e l’apertura dell’esposizione

1. La chiusura del sistema come modo della sua apertura Abbiamo visto che la concezione della temporalità non permette a Hegel di chiudere in circolo la sua dialettica. Il fatto che l’eternità venga risucchiata verso il passato, che il presente infinito articoli paradossalmente, nell’istantaneità del suo prodursi, il raccoglimento delle dimensioni entro un’identità differenziata, per ricadere però immediatamente al di qua di sé e della soglia che esprime, scardina la compattezza del logos, che del resto Hegel in prima persona concepiva come frammentato nell’articolazione delle sue differenze. Ma appunto: la dialettica del tempo giunge a interrompere questa articolazione del diverso, fa girare a vuoto il corso della sistematizzazione, incrina la verità e la presenza – proprio in quanto quest’ultima è irriducibile a quella, «immediata», del semplicemente-­ presente, proprio in quanto in essa si dovrebbe realizzare, pervenendo al suo compimento, l’eternità speculativa. Ma non è solo per questo che il pensiero hegeliano non si lascia ricondurre entro l’alveo di una pura e semplice concezione ontologica. In effetti, è tutto il discorso su eternità e tempo che muta in Hegel il suo statuto semantico, che si dispone in uno spazio logico radicalmente differenziato rispetto a quel-

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lo caratterizzante un approccio di tipo «metafisico»1. L’attuazione dell’eternità speculativa viene infatti a disporsi entro le scansioni attraverso le quali si svolge e si articola la Darstellung filosofica. E proprio in quanto l’eternità si trova inscritta entro il circuito dell’esposizione, essa cessa di designare uno stato sussistente, cessa d’indicare l’immutabilità e l’immobilità di un’articolazione fra «essenze»2. Non si potrà quindi certo imputare a Hegel l’ipostatizzazione ontologico-metafisica di categorie del nostro linguaggio e del nostro pensiero, né soprattutto di confinare ancora una volta le riflessioni sul tempo entro il perimetro dell’entificazione e della semplice-presenza. È stato anzi più volte messo in rilievo come il pensiero hegeliano, le modalità di auto-costituzione del suo logos, siano per certi versi omogenei a un’attitudine filosofica che oggi chiameremmo «analitica», in quanto si svolgono attraverso una vera e propria analisi critica del linguaggio comune, delle sue implicite assunzioni e del suo patrimonio categoriale3. 1.  È all’interno di questo orizzonte concettuale che va intesa l’asserzione hegeliana, secondo cui «il concetto dell’eternità non deve essere compreso negativamente, come l’astrazione dal tempo, in questo modo, che l’eternità possa esistere fuori dal tempo; e neppure nel senso, come se l’eternità venisse dopo il tempo: così dell’eternità si farebbe un futuro, cioè un momento del tempo» (Enz., II, § 258 Anm., p. 50; tr. it. cit., p. 235). Benché condotti secondo un’ottica talora non coincidente con la nostra, sui rapporti fra Hegel, idealismo e tradizione onto-teologica fondamentali restano gli studi di W. Beierwaltes, Platonismus und Idealismus, Klostermann, Frankfurt a.M. 1972; tr. it. di E. Marmiroli, Platonismo e idealismo, il Mulino, Bologna 1987; e Differenz, Negation, Identität. Die reflexive Bewegung der Hegelschen Dialektik, in Id., Identität und Differenz, Klostermann, Frankfurt a.M. 1980, pp. 241-268. 2.  Cfr. al riguardo supra, cap. II, nota 73. 3.  Ad aprire questa prospettiva ermeneutica è stato J.N. Findlay, Hegel. A Re-examination, Allen & Unwin-The Macmillan Company, London-New York 1958; tr. it., Hegel oggi. Un riesame del sistema hegeliano in rapporto alle idee e al linguaggio del nostro tempo, a cura di L. Calabi, Isedi, Milano 1972, in part. pp. 57, 61, 73-76, 155-156, 247, 381-390, il quale però è por-

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Ma proprio per la raffinatezza epistemica del suo impianto teo­ rico, il pensiero hegeliano evidenzia la crisi cui va soggetta la costruzione del modello dialettico-speculativo – non perché rimandi o soggiaccia a condizionamenti impliciti e non esplicati, comunque ad esso esterni (siano essi interpretati da un punto di vista economico-sociale, storico-epocale o linguistico), bensì proprio nel gesto teoretico della sua istituzione filosofica, della sua realizzazione scritturale. La ricaduta al di qua di sé della dialettica del tempo, il ricompattarsi delle dimensioni entro l’articolata unità dell’ora eterno e speculativo, il quale però si trova perpetuamente a essere declinato al passato, per innescare il vortice di un movimento auto-riproducentesi del pensiero – tutto ciò è racchiuso nella determinazione dell’andamento logico come processo di avanzamento e complessificazione, che in pari tempo designa il ritorno, il vero e proprio regresso all’indietro verso il fondamento e l’origine, da cui il movimento proviene. Origine che simultaneamente si trova smembrata nel molteplice categoriale, situata in ogni luogo del «tutto» sistematico, ma raggiungibile in fondo solo attraverso quella che è stata chiamata la «spirale di serpe» del sistema4. E tuttavia, abbiamo visto come questa metafora si possa rivelare per taluni aspetti fuorviante. Perché la dialettica del tempo mostra come il pensiero in Hegel spezzi il ciclo inarrestabile del ripercorrimento del medesimo percorso, interrompa il circuito della ripetizione e della riproduzione senza fine di sé. tato ad accentuare l’accordo fra pensiero speculativo e linguaggio ordinario; in termini più problematici e maggiormente aderenti al pensiero di Hegel si esprime, al riguardo, D.J. Cook, op. cit., in part. pp. 134-140 e 168-172. 4.  Si tratta della metafora blochiana da noi discussa supra, p. 141. Ancora una volta, forse nessuno meglio di Adorno ha descritto l’opposta, contraddittoria esigenza cui si trova posto di fronte il pensiero speculativo: «Niente si lascia comprendere isolatamente, tutto è solo nell’intero; con la penosa difficoltà che l’intero ha di nuovo la sua vita unicamente in quella dei suoi singoli momenti» (Th.W. Adorno, Tre studi su Hegel, cit., p. 137).

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Da un lato, tale interruzione è il luogo da cui prende origine, entro il quale ogni volta sprofonda, per di là nuovamente scaturire, ogni singola fase del processo dialettico. Il cosiddetto metodo, ammesso che sia lecito parlarne prescindendo dalla specificità dei contenuti concreti di volta in volta giunti a svolgimento, è aperto, letteralmente sfondato, in ogni attimo del movimento che ne scandisce ed espone l’auto-costituzione diveniente. Dire se ciò avvenga grazie o malgrado Hegel, in fondo, significa porre la questione in termini fuorvianti rispetto alle movenze concettuali incorporate, e certo da questo versante necessitate, nei plessi problematici di cui si sta trattando. La dialettica speculativa della temporalità mostra comunque che l’apertura del metodo dialettico va di pari passo col suo interrompersi e fessurarsi, con l’irrealizzazione che riemerge, in forma di passato, al nucleo del presente dell’infinità realizzata. Passato, ancora una volta, non determinato storicamente, ma nel senso, così di frequente sottolineato da Hegel, di un’anteriorità logico-teoretica, da non disporsi sul piano della rappresentazione cronologica, ma perciò tanto più incommensurabile al presente dell’infinita compiutezza. Qui forse il pensiero speculativo si scontra col suo limite più profondo – «limite» nel senso proprio di traccia che circoscrive un confine, l’oltrepassamento del quale rimanda in pari tempo, ineludibilmente, al di qua della soglia in esso incorporata. Perché se la dialettica, come abbiamo visto, presuppone il superamento di un passato al tempo stesso atemporale e insuperabile, se in questo passato ripetutamente precipita, al di qua della realizzazione e dell’essere, il logos hegeliano – allora quest’ultimo si attua solo in quanto è di continuo irrealizzato, si ricompatta nel presente dell’eternità solo nella misura in cui tale presente si dislochi al di qua di sé, sotto la soglia oltre la quale sarebbe possibile propriamente parlarne. La dinamica del processo viene così a trovarsi irrimediabilmente sfasata rispetto alla quiete in cui il risultato dovrebbe alla fine condur-

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la – presente in cui la totalità si realizza soltanto al prezzo di precipitare nuovamente nel passato. D’altro lato, l’apertura del metodo si lascia intravedere anche sul piano della costruzione sistemica complessiva. Quest’ultima, ben lungi dall’esigere il ripercorrimento indefinitamente ripetuto di se stessa5, mostra cioè, come incorporazione del duplice e in pari tempo unico movimento di avanzamento verso la meta e di retrocessione verso il fondamento – mostra, dicevamo, di essere aperta e “cava” nel suo stesso centro. Sono le modalità di articolazione dialettica del «sistema» che ne impongono l’apertura al «novum». Quella che in Bloch viene registrata come «spirale di serpe», quella che in Kojève si enuncia come infinita ripetizione e fine della storia, tutto ciò annuncia in realtà uno sfondamento che è di già accaduto, e che si «compie» nell’attimo medesimo della realizzazione dispiegata. Quanto si tratta di sottolineare, in altri termini, è che l’apertura del sistema in Hegel è funzione del suo assetto di chiusura6. 5.  L’interpretazione della «Scienza» hegeliana come «ciclo che si ripete eternamente», in quanto «il contenuto del Libro è pienamente rivelato solo alla fine del Libro. Ma, dato che il contenuto è il Libro medesimo, la risposta finale alla domanda riguardante il contenuto non può essere altro che l’insieme del Libro. Perciò, giunti alla fine, occorre rileggere (o ripensare) il Libro; e questo ciclo si ripete eternamente», risale a A. Kojève, Lezioni sull’eternità, il tempo e il concetto, cit., p. 231 (e nota relativa). 6.  Anche se con diverse articolazioni analitiche, è questa la prospettiva ermeneutica che si è fatta strada fra la critica più avvertita, in particolare riguardo alla nozione hegeliana di «spirito assoluto». Per una panoramica complessiva, cfr. i contributi raccolti nel già menzionato volume Hegels Logik der Philosophie, e specificamente, assieme ai già citati saggi di R. Bodei e di F. Chiereghin, P.-J. Labarrière, L’esprit absolu n’est pas l’absolu de l’esprit. De l’ontologique au logique, ivi, pp. 35-41 (rist. in G. Jarczyk - P.-J. Labarrière, Hegeliana, cit., pp. 294-302). A una comprensione del concetto di spirito assoluto che ne faccia intendere la funzione di apertura in rapporto al dispositivo di pensiero hegeliano è volto lo studio di Th.F. Geraets, Hegel. Lo spirito assoluto come apertura del sistema, Bibliopolis, Napoli 1985,

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Poiché il sistema è un circolo di circoli – perciò esso, in pari misura, è ripetizione che non può ripetersi mai più, e la blochiana «spirale di serpe» si trova inghiottita dal vuoto attorno a cui le sue spire si avvolgono. La realizzazione del sistema designa in pari tempo la sua sottrazione e il suo mancare a se stesso, e attraverso questa sottrazione (ripiegamento intemporale nel passato) è lasciato-accadere il nuovo.

2. «Darstellung» e «Vorstellung» Così, l’eternità speculativa, il «tempo come tempo», esprime il suo radicamento nella storia. In quanto è tempo chiuso, strutturato cioè sulla base dell’articolazione concettuale, sussunto entro il movimento della logica dialettica, essa è anche tempo che riesplode al nucleo del metodo. Meglio ancora sarebbe forse dire tempo di un’implosione, che fa gravare al di qua del suo proprio baricentro tutto il movimento dei concetti, per innestarne il «torpido» dipanarsi sul terreno accidentato della storia7. E questa riemergenza della storia si configura in He-

in part. pp. 65-72 e 92-94 (lo stesso autore aveva curato il volume L’esprit absolu. Actes du Colloque International sur le sens de l’Esprit Absolu chez Hegel tenu à l’Université d’Ottawa du 6 au 8 nov. 1981, Éditions de l’Université d’Ottawa, Ottawa 1984). Un contributo importante in proposito recano inoltre G. Jarczyk, Système et liberté dans la logique de Hegel, Aubier-­Montaigne, Paris 1980, e la Conclusion del volume di D. Souche-­ Dagues, Le cercle hégélien, cit., pp. 173-179. Sul versante opposto si colloca invece l’opera, comunque indispensabile in rapporto al periodo jenese di Hegel, di H. Kimmerle, Das Problem der Abgeschlossenheit des Denkens, già da noi menzionata in precedenza. 7.  Cfr. Phän., p. 563 (tr. it. cit., II, p. 304); qui la storia è intesa come «farsi dello spirito… che si attua nel sapere e media se stesso» attraverso un «torpido movimento», il cui ritmo rallentato è dovuto al fatto che «il Sé ha da penetrare e da digerire tutta questa ricchezza della sua sostanza».

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gel come asse portante del dispositivo epistemico, è assunta cioè nella sua funzione produttiva in rapporto allo svolgimento e alla concretizzazione progressiva dell’esposizione speculativa. Ecco perché il rapporto fra concetto e storia, fra l’eternità che dispiega e raccoglie l’articolazione espansiva del logos, e il tempo verso cui si trova trascinata dalla sua precipitazione nel passato si dispongono in questa filosofia nei termini della sua relazione col linguaggio8. Nel primo capitolo, abbiamo esaminato la posizione del linguaggio negli abbozzi jenesi di filosofia dello spirito, la teorizzazione della Darstellung come luogo di realizzazione del sapere, la dottrina della proposizione speculativa come modalità di attuazione metodica e pratico-linguistica della Darstellung stessa. Abbiamo cercato di mostrare come, in questo complesso di punti di vista e di analisi, la riflessione hegeliana sul linguaggio raccolga le determinazioni filosoficamente cruciali per l’instaurazione del dispositivo epistemico. Adesso, si tratta di evidenziare come la definizione in termini speculativi dell’eternità, l’impossibilità per essa di trattenersi entro la sfera del presente eterno e mai ontologicamente compatto, l’esseretrascinata indietro, al di qua della realizzazione e dell’essere, nella totalità intemporale del passato – come tali momenti, in quanto inscritti e incorporati nel movimento dell’esposizione, conducano quest’ultima di nuovo e necessariamente a porre la questione del linguaggio, a interrogare se stessa dal punto di vista del linguaggio. Perché nel problema così enunciato non si esprime semplicemente uno dei tanti ambiti in cui l’«onnilaterale» pensiero di Hegel viene a declinarsi, ma può rintracciarsi forse l’esito ultimo in cui precipitano la dialettica 8.  Come abbiamo visto, sono stati soprattutto B. Liebrucks, J. Simon e G. Wohlfart che hanno tentato d’interpretare il pensiero hegeliano alla luce del suo rapporto col linguaggio, e addirittura come una sorta di «filosofia del linguaggio».

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del tempo e la sua implosione. Si tratta certo di un esito che era già inscritto nella necessità, per il logos, di estrinsecarsi nel linguaggio dell’esposizione speculativa, di realizzarsi come esposizione; e tuttavia, solo alla luce della conclusione, sempre differita e sempre mancata, della dialettica del tempo, lo si può cogliere nel suo spessore filosofico e problematico. Porre l’interrogazione sul linguaggio a quest’altezza vuol dire porre in gioco quella concernente la storicità del logos9, storicità già da sempre comunque incorporata nel decorso dell’esposizione, e che si tratta per Hegel di funzionalizzare al piano operativo della realizzazione scritturale e della dimostrazione teoretica. Così, la sussunzione impossibile del tempo nell’eter­ nità si traduce nella necessità, per il logos, di assorbire nel dispositivo che lo enuncia quel linguaggio «altro» e meramente rappresentativo, che costituisce il «medium» espressivo attraverso cui solamente può attuarsi la Darstellung instaurata dal primo. È dal momento in cui l’eternità non sia teoreticamente concepibile senza che il tempo riemerga al suo interno, con modalità che ne impediscono la coincidenza delle dimensioni entro lo Jetzt della totalità compiuta, dal momento in cui tale sfasante non-coincidenza si riveli irriducibile alla sua funzionalizzazione dialettica – è da questo istante che per il pensiero sorge l’enigma della storia, del tempo non più inteso nella formalità delle sue astratte dimensioni, ma saturo dei contenuti concreti (e non nel senso del concetto hegeliano) stratificati nel corso del divenire materiale della storia. E per la Darstellung, questa temporalità materiale si raccoglie «innanzitutto» nel linguaggio, nella trama inconscia di rappre-

9.  La connessione tra storicità dell’assoluto hegeliano e suo radicamento nel linguaggio è stata vista chiaramente già da H. Niel, op. cit., p. 99, nota. Cfr. più di recente J. Reiter, Die geschichtliche Gegenwart der Sprache, in «Hegel-Jahrbuch», 1970, pp. 142-151: «La libertà verso e nel linguaggio si radica nella storicità della verità stessa» (p. 146).

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sentazioni e comprensioni implicite, di cui già per Hegel esso è intessuto «prima» del suo innalzamento ad autoconsapevolezza categoriale10. Ora, se la scommessa hegeliana consisteva, per quanto riguarda il livello «formale» dell’eternità speculativa, nell’introdurre al suo interno il tempo stesso, nel concepirla addirittura tramite l’equazione – che sarebbe risultata impossibile – del «tempo come tempo», il rapporto fra esposizione e linguaggio sembrerebbe potersi impostare secondo coordinate analoghe a quelle che già articolavano le relazioni fra eternità e tempo, e che, sia pure in termini estremamente problematici, erano riuscite a fornirne una concettualizzazione pregnante. Infatti, il linguaggio della «vita» o, più correttamente, della rappresentazione è il medesimo linguaggio parlato dal concetto, quest’ultimo non vuole né può attuare il dispositivo della sua Darstellung se non in quanto esso esponga, nella verità loro propria, i contenuti racchiusi in quel linguaggio puramente rappresentativo11. E tuttavia, la dialettica che s’innesca fra i due momenti assume movenze particolari e specifiche, che non consentono di assimilarla a quella, con cui per molti versi è indissolubilmente intrecciata, concernente eternità e tempo. Anche determinazioni come quelle di posto e presupposto o di identità e

10.  «Le forme del pensiero sono anzitutto esposte e consegnate nel linguaggio umano… In tutto ciò che diventa per lui [uomo; N.d.A.] un interno, in generale una rappresentazione, in tutto ciò che l’uomo fa suo, si è insinuato il linguaggio; e quello di cui l’uomo fa linguaggio e ch’egli estrinseca nel linguaggio, contiene, in una forma più inviluppata e meno pura, oppure all’incontro elaborata, una categoria» (W.d.L., I, pp. 9-10, tr. it. cit., p. 10). 11.  Cfr. su questo punto ancora M. Clark, op. cit., p. 75, e soprattutto L.B. Puntel, op. cit., p. 55: «Hegel pone alla filosofia l’imprescindibile esigenza di elevare all’esplicitazione della critica e dell’osservazione filosofica le categorie implicite nel nostro parlare e pensare».

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differenza, tratte dalla logica della riflessione e già impiegate, in sede ermeneutica, per affrontare il problema dei rapporti fra pensiero e linguaggio in Hegel, non si rivelano in proposito del tutto adeguate12. In effetti, se quella dialettica fosse riconducibile a un puro e semplice rapporto riflessivo, Hegel potrebbe fondare – nel senso della Logica13 – i suoi procedimenti espositivi attraverso la funzionalizzazione dell’antinomia in questione agli esiti produttivi, sul piano della scrittura, che essa sarebbe in grado, e addirittura necessitata a indurre. L’esposizione scaturirebbe dall’energia accumulata nel rapporto di tensione sussistente fra svolgimento del concetto e lingua della rappresentazione, come attuazione di un movimento già realizzato nel momento in cui lo si progettasse, ed entro il quale verrebbe nuovamente a conciliarsi la contraddizione fra l’auto-movimento del concetto e la “fatica del linguaggio”14, recata in sé da quella imposta dal primo, e che spingeva il pensatore-­Hegel a costruire metodicamente l’apparato epistemico dell’esposizione. Ora, se forse già per le categorie della riflessione la ricomposizione in senso speculativo della loro dialettica andrebbe revocata in dubbio15, che la relazione di identità e differenza non possa includere, qualunque sia il suo reale esito logico, il rapporto fra quei due momenti si mostra nel fatto che parlare del concetto nel senso di una “rappresentazione come rappresentazione”, come di una identità della rappresentazione con la sua differenza, risulterebbe molto problematico. 12.  Cfr. invece in questo senso M. Clark, op. cit., pp. 85 ss. 13.  Sulla nozione dialettica di fondamento, cfr. supra, p. 96 e nota 11. 14.  Su questa espressione, cfr. supra, cap. I, nota 122. 15.  Per una prima approssimazione, cfr. le osservazioni che su identità e differenza svolge, in riferimento a Hegel, J. Derrida, Positions, Minuit, Paris 1972; tr. it., Posizioni, a cura di G. Sertoli, Bertani, Verona 1975, in part. pp. 75 78-79, 107-108.

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Già l’espressione hegeliana che equiparava il «tempo come tempo» all’eternità speculativa mostrava di contenere un’equa­ zione possibile solo in apparenza: l’eguaglianza del «tempo come tempo» risultava infatti come portato di una sfasatura non ulteriormente appianabile o sussumibile entro l’articolazione dialettico-riflessiva dell’identità e della differenza. E su questo meno, come su di un’eccedenza scaturita per difetto, veniva a infrangersi la potenza del movimento ricompositivo messo in atto dal concetto. Nonostante ciò, per Hegel restava possibile impiegare una formulazione quale «tempo come tempo» per designare l’eternità speculativa. E abbiamo anche visto come ciò equivalesse per lui all’istituzione di un dispositivo epistemico in grado di padroneggiare antinomie irresolubili dal punto di vista della metafisica classica16. La dislocazione del discorso su eternità e tempo al livello metodologico e «grammaticale» delle modalità di esposizione sistematica ne orientava lo spettro semantico in senso funzionale all’instaurazione del «sapere assoluto». Da un lato, quel discorso veniva a coincidere con una ristrutturazione categoriale volta alla determinazione delle modalità fondamentali di articolazione dell’impianto teorico; sottratto alla giurisdizione dell’ontologia, esso investiva e produceva la ridefinizione logica delle procedure interne all’esposizione filosofica. Dall’altro, però, ciò riproduceva, all’interno della nuova cornice, modelli e contenuti concettuali mutuati dalla storia dell’ontologia, sia pure operandone una complessiva trasformazione di senso e statuto logico. In tal modo, l’espressione «tempo come tempo» incorporava, come risultato del movimento intrinseco alle dimensioni temporali, il telos cui quella dialettica incessantemente tendeva, riproducendo però soltan-

16.  Cfr. supra, cap. II, pp. 141-144; ma soprattutto, più in generale, F. Chiereghin, Hegel e la metafisica classica, Cedam, Padova 1966.

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to la contraddittorietà non-dialettica in cui la sua stessa realizzazione precipitava. «Tempo come tempo» stava comunque a indicare un raggiungimento prima facie possibile, e anzi già da sempre ripetuto e attuato: quello del presente atemporale e della sua dialettica pienezza, ambedue contratti nella concreta immanenza degli istanti eterni e perciò anche indefinitamente espansi, tanto più compiuti rispetto a quelli della precedente ontologia in quanto dialetticamente risultanti da un movimento di sviluppo delle differenze. Viceversa, parlare del concetto in termini di “rappresentazione come rappresentazione” non significherebbe altro se non il semplice raddoppiamento della rappresentazione stessa, raddoppiamento che però è già implicito nella parola che la designa. Vorstellung indica infatti in Hegel, che non solo in tal caso vuol pensare in accordo con la verità del linguaggio17, un porre-di-fronte i singoli contenuti entro l’interiorità dello spirito, stabilizzandoli nella loro separatezza reciproca18. Nel caso 17.  A titolo esemplificativo, oltre al brano sull’essere e l’essenza cui abbiamo già fatto riferimento, senza però esplicitarne il carattere, che formalmente assume in Hegel, di osservazione linguistica («La lingua tedesca ha conservato l’essenza [Wesen] nel tempo passato [gewesen] del verbo essere [Sein]; perché l’essenza è l’essere che è passato, ma intemporalmente passato»; W.d.L., II, p. 3; tr. it. cit., p. 433), vogliamo menzionare il celebre passo sul verbo Aufheben, il quale «ha nella lingua il doppio senso, per cui vale tanto conservare, ritenere quanto nello stesso tempo far cessare, metter fine… dovrebbe a questo proposito cagionare sorpresa che una lingua sia venuta a servirsi di una sola e medesima parola per due determinazioni opposte. Il pensiero speculativo si rallegra, quando trova in una lingua parole che hanno in se stesse un significato speculativo» (W.d.L., I, p. 94; tr. it. cit., pp. 100-101). Su questa tutt’altro che occasionale attitudine del pensiero hegeliano, cfr. I. Fetscher, Hegels Lehre vom Menschen, Frommann-­ Holzboog, Stuttgart-­Bad Cannstatt 1970, p. 257, e D.J. Cook, op. cit., p. 137. Estremamente adeguata risulta in proposito la nozione di «illustrazione», così come è stata definita da G.R.G. Mure, op. cit., p. 29. 18.  «La peculiarità della rappresentazione… va in generale riposta nel fatto che in essa tale contenuto si trova altrettanto isolato… tali determinazioni,

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della religione, inoltre, il concetto toglie alla rappresentazione il rivestimento fantastico e immaginario con cui essa ricopre i suoi astratti momenti, corrispondenti ognuno a una funzione metodica ben determinata nell’articolazione del contenuto speculativo, presentandone in pari tempo il rovesciamento nell’opposto19. Così, il concetto dovrebbe emergere dalla distruzione della rappresentazione come suo nucleo veritativo immanente, svuotare dall’interno le sue movenze figurate e solo empiricamente concrete, per esporre l’intelaiatura logico-­ categoriale cui andrebbero ricondotte come al loro nocciolo razionale20. Per questo diventa impossibile determinare il rapporto fra rappresentazione e concetto nei termini del semplice raddoppiamento della prima. Vorstellung esprime già la duplicazione di un contenuto, anzi è essa stessa a produrla e immobilizzarla. in sé spirituali, si trovano altrettanto isolate nell’ampio terreno dell’universalità interna, astratta del rappresentare in generale. In questo isolamento, esse sono semplici; diritto, dovere, Dio. Ora, la rappresentazione o si arresta al fatto che il diritto è diritto, Dio è Dio, oppure, a un livello più colto, essa aggiunge determinazioni, ad es. che Dio è creatore del mondo, onnisciente, onnipotente, ecc.; qui vengono parimenti allineate parecchie determinazioni semplici e isolate, le quali, nonostante il legame che viene loro assegnato nel soggetto, restano l’una fuori dell’altra. La rappresentazione coincide qui con l’intelletto…» (Enz., I, § 20 Anm., p. 73; tr. it. cit., pp. 34-35). 19.  Cfr. in proposito il capitolo sulla «religione disvelata» in Phän., pp. 521548 (tr. it. cit., pp. 253-285), in part. pp. 532-536 (tr. it. cit., pp. 265-271), e quello ad esso corrispondente in Enz., III, §§ 564-571, pp. 372-378 (tr. it. cit., pp. 545-550). Per un commento critico quanto mai puntuale dei paragrafi in questione, cfr. M. Theunissen, Hegels Lehre vom absoluten Geist als theologisch-politischer Traktat, de Gruyter, Berlin 1970, pp. 216-297, e A. Peperzak, Selbsterkenntnis des Absoluten. Grundlinien der Hegelschen Philosophie des Geistes, Frommann-Holzboog, Stuttgart-Bad Cannstatt 1987, pp. 95 ss. 20.  Cfr. su questo punto ancora Enz., I, § 20 Anm., pp. 73-74: «si può dire, in generale, che la filosofia non faccia altro che trasformare le rappresentazioni in pensieri – ma certo, inoltre, il semplice pensiero nel concetto» (tr. it. cit., p. 35).

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Così non basta ripeterne il nome per intravederne lo sprofondamento nel concetto, perché raddoppiare significa appunto rappresentare, e in questa ripetizione la rappresentazione non si troverebbe anche tolta, ma solo conservata e potenziata. Per «superare» l’indefinita ripetizione della Vorstellung, il suo incessante porsi-davanti-a-se-stessa, è necessario spezzarne il ciclo di riproduzione, che differirebbe all’infinito la sua Aufhebung nel concetto. Ma se fra concetto e rappresentazione viene meno quell’equivalenza, che già la formula del «tempo come tempo» vedeva crollare in se stessa e solo in tal modo incarnare, nel suo zugrunde-­gehen, la realizzazione dell’eternità speculativa, tanto più problematica dovrà apparire l’esigenza del concetto, che nel linguaggio della sua Darstellung solamente può trovare il piano della sua attuazione. Infatti, proprio la lingua è in Hegel il prodotto più alto cui la capacità rappresentativa dello spirito perviene21; d’altro canto, poiché la lingua del concetto è la medesima di quella della rappresentazione, lo spazio della Sprache sembra sin da ora risultare intrascendibile, cosicché il superamento da parte del Begriff della Vorstellung non potrà disporsi che nell’orizzonte circoscritto da quest’ultima. Ora, benché in Hegel le modalità di produzione dell’Aufhebung non corrispondano mai a un processo di semplice oltrepassamento o di «scavalcamento» del momento aufgehoben, tuttavia, in questo caso possiamo intravedere con particolare acutezza la problematicità del superamento di cui si tratta, dato che la Vorstellung non è soggetta, come il tempo, ad annullarsi tramite raddoppiamento, ma dal raddoppiamento trae la forma della sua attuazione. Così, per noi è giunto il momento d’interrogare il testo in cui con maggior compiutez21. Cfr. infra, il paragrafo che segue.

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za Hegel ha tentato di esporre il processo di Aufhebung della rappresentazione da parte del pensiero: e cioè, la Psicologia enciclopedica del 1830.

3. Pensiero e rappresentazione nell’Enciclopedia Il cammino che nell’Enciclopedia conduce dalla rappresentazione al pensiero è tanto più complesso, in quanto la Vorstellung vi si articola a sua volta in tre momenti, ciascuno dei quali presenta una specifica unità sistematica22. Lo spirito teo­ retico, o, come dice Hegel in queste pagine, l’«intelligenza», perviene alla capacità di formare rappresentazioni «in quanto interiorizza l’intuizione per la prima volta», e in tal modo «pone il contenuto del sentimento nella sua propria interiorità, nel suo proprio spazio e nel suo proprio tempo. Così esso è immagine»23. Una volta custodita la molteplicità delle imma22.  Sulla Psicologia hegeliana cfr., per una panoramica generale, H. Drüe, Psychologie aus dem Begriff. Hegels Persönlichkeitstheorie, de Gruyter, Berlin 1976, e il Beiheft 19 di «Hegel-Studien», hrsg. v. D. Henrich, Bonn 1979. Da consultare, per la valorizzazione della psicologia hegeliana nel contesto dei tentativi, allora in corso, di definire per le «scienze dello spirito» un paradigma di scientificità svincolato da quello delle scienze naturali, J. Dürck, Die Psychologie Hegels, Diss., Bern 1927. In diretto rapporto con le problematiche qui in questione sono invece gli studi di E. Roth, Das Zeichen. Eine Untersuchung zu Hegels Philosophie des “subjektiven theoretischen Geistes”, Diss., Basel 1972, e di H. Güssbacher, Hegels Psychologie der Intelligenz, Königshausen & Neumann, Würzburg 1988. Attenti in particolare agli aspetti antropologici dello «spirito soggettivo» hegeliano sono I. Fetscher, Hegels Lehre vom Menschen, cit., e G. Gamm, Der Wahnsinn in der Vernunft. Historische und erkenntniskritische Studien zur Dimension des Anders-Seins in der Philosophie Hegels, Bouvier, Bonn 1981. Sempre fondamentale, infine, J. Hyppolite, Logique et existence. Essai sur la logique de Hegel, Puf, Paris 1952, in part. la prima parte: Langage et logique, pp. 3-66. 23.  Enz., III, § 452, p. 258 (tr. it. cit., p. 441).

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gini nel «pozzo notturno» dell’interiorità spirituale24, l’intelligenza può attingere i suoi contenuti direttamente da questa riserva, senza dover ricorrere all’intuizione effettiva dell’oggetto: «L’intelligenza è così la forza di estrinsecare ciò che possiede, senza aver più bisogno dell’intuizione esterna per l’esistenza in lei del suo possesso»25. Ora, Hegel chiama Vorstellung esattamente il prodotto di questa capacità: «Questa sintesi dell’immagine interna con l’esserci interiorizzato è la rappresentazione propriamente detta, in quanto l’interno ha ora anche in lui la determinazione di poter essere posto di fronte all’intelligenza, di possedervi un esserci»26. Con la formazione della Vorstellung «propriamente detta» culmina il «primo» momento della rappresentazione, quello in cui essa è ancora ricordo interiorizzante (Erinnerung). Condotto a termine il processo dell’assorbimento spirituale dei contenuti intuitivi, l’intelligenza può sviluppare la sua attività su basi esclusivamente interiori, diventando immaginazione (Einbildungskraft), «il sorgere delle immagini dall’interiorità propria dell’io»27. Ma è in rapporto alla Vorstellung «propriamente detta» che il movimento di ricostruzione speculativa delle attività dell’intelligenza s’imbatte per la prima volta nella caratteristica determinante questa intera sfera dello spirito, data da un lato dal carattere sintetico, nel senso della giustapposizione, dei prodotti rappresentativi, e dall’altro dall’indirizzo teleologico che orienta l’impianto epistemico alla volta del concetto: «poiché il rappresentare inizia dall’intuizione e dal suo trovato materiale, questa attività è ancora affetta da tale differenza, e le sue 24.  Cfr. Enz., III, § 453 Anm., p. 260 (tr. it. cit., p. 442). 25.  Enz., III, § 454, p. 261 (tr. it. cit., p. 443). 26.  Ibidem. 27.  Enz., III, § 455, p. 262 (ibidem).

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concrete produzioni in questa sono ancora sintesi, che solo nel pensare giungono alla concreta immanenza del concetto»28. Con ciò ritroviamo la determinazione della Vorstellung nel suo produrre giustapposizioni raddoppianti, nella sua qualità d’istituire sintesi a-dialettiche fra contenuti che non danno luogo ad alcuna nuova e articolata unità. La rappresentazione è gravata da una differenza che non è più semplice diversità, ma tantomeno è quella da cui scaturisce il movimento della ricomposizione speculativa. Le sue creazioni non costituiscono Einheiten, termine del resto anch’esso inadeguato a designare l’identità del concetto, ma come suona il testo Synthesen; la differenza di cui è gravata non è lo Unterschied che innesca l’opposizione dialettica, ma Differenz, i lati della quale non sono certo più molteplicemente dispersi (Verschiedenheit), ma nemmeno già articolati nella nuova unità della «concreta immanenza» reciproca. E poiché quest’ultima è prodotta solo dal concetto, poiché solo il Begriff si svolge in forma di processualità auto-diveniente, anche la temporalità della Vorstellung dovrà risultare profondamente diversa rispetto a quella che il concetto imprime nel pensare. Abbiamo visto come la Vorstellung disponga i contenuti prima semplicemente intuiti nel tempo proprio dell’intelligenza, dell’interiorità spirituale. Ma nel suo caso non può trattarsi che di un tempo altro rispetto a quello scaturente dal movimento della concettualità. Il tempo della rappresentazione è tempo della dispersione e della molteplicità, tempo che procede per giustapposizioni successive e arbitrarie. In uno Zusatz, Hegel menziona «den subjektiven Charakter, welchen dieselbe [die Zeit; N.d.A.] in der Vorstellung erhält»29. Di

28.  Enz., III, § 451, p. 257 (tr. it. cit., p. 441). 29.  Enz., III, § 452, Z., p. 259 («il carattere soggettivo, che il tempo riceve nella rappresentazione»).

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questa «astratta» soggettività della Vorstellung egli mette ripetutamente in rilievo il significato positivo, ciò che in essa costituisce un avanzamento nel processo d’interiorizzazione dei contenuti e di approssimazione all’attività del Denken. Tuttavia, l’incompiutezza di fondo che permane ai suoi prodotti in quanto sono mere «sintesi» pone costantemente in luce una carenza, che solo nel pensiero e nella sua specifica temporalità può pervenire ad annullarsi. Ciò vale quindi anche per l’immaginazione, che se da un lato risulta da un approfondimento del processo di interiorizzazione dei contenuti da parte dello spirito, dall’altro può sfociare nel «gioco di un rappresentare privo di pensiero, in cui la determinazione dell’intelligenza è ancora universalità formale in generale, mentre il contenuto è quello delle immagini»30. Nel momento in cui l’attività dell’intelligenza pare trovare, con l’Einbildungskraft, la possibilità di attuarsi in piena libertà – nel momento in cui il suo potere sui contenuti pare potersi spingere sino all’arbitrio, lo spirito si scopre gravato da un materiale che, per quanto interiorizzato, non è stato prodotto da lui stesso, e che imprime ai contenuti di cui pure l’intelligenza dispone il marchio dell’esteriorità e della passività: «Alla rappresentazione resta ancora attaccato l’essere, il trovarsi-­ determinata dell’intelligenza»31; «Spesso sono soltanto lo spazio e il tempo a disporre in fila le immagini»32. Ed è proprio il fatto che il suo agire sia condizionato dall’insuperabile immediatezza dei materiali a spingere lo spirito nuovamente all’esterno di sé. Certo non più verso l’oggettività pre-data dei contenuti intuitivi, ma verso un’esteriorità prodotta dall’intelligenza: movimento di estroflessione, attra30.  Enz., III, § 455 Anm., p. 263 (tr. it. cit., p. 444). 31.  Ibidem. 32.  Enz., III, § 455, Z., p. 265.

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verso cui Hegel tenta di proiettare all’esterno dello spirito il materiale molteplice dell’empiria interiorizzata, di scuotere così dall’intelligenza la passività sulla quale soltanto poteva operare finché rimaneva immaginazione, trasformando l’essere interiorizzato ma immediato in essere esteriorizzato ma prodotto. È alla fantasia che Hegel imputa questa funzione. In quanto segue all’immaginazione riproduttiva e associativa, certo, ad essa «manca ancora il momento dell’essente»33, è ancora soltanto «immaginazione simbolica, allegorica o poetante»34. E tuttavia «in essa l’intelligenza non è più soltanto forma universale, bensì la sua interiorità è soggettività concreta, in sé determinata»35, «libero legare e sussumere di questa [delle immagini; N.d.A.] riserva sotto il contenuto che le è proprio»36. Per l’intelligenza si tratta quindi di dare a questa «unità del contenuto interno e del materiale»37 il momento ancora mancante dell’esistenza esterna, «di determinare come essente ciò che in lei si è compiuto sino all’auto-intuizione concreta, cioè di rendere se stessa essere e cosa»38. L’intelligenza è divenuta fantasia produttrice di segni. Ma cos’è il segno? La risposta hegeliana, al riguardo, non è stata sempre la stessa. Come abbiamo visto, negli abbozzi jenesi di filosofia dello spirito risalenti agli anni 1803-04, Hegel assimila la produzione dei segni al processo di cattiva infinità che contraddistingue le filosofie incapaci di tradurre in effettivo compimento il dovere della realizzazione. Egli parla in proposito di una 33.  Enz., III, § 457, p. 267 (tr. it. cit., p. 446). 34.  Enz., III, § 456, p. 266 (ibidem). 35.  Enz., III, p. 265 (tr. it. cit., p. 445). 36.  Enz., III, p. 266 (tr. it. cit., p. 446). 37.  Enz., III, § 457, p. 267 (ibidem). 38.  Enz., III, p. 268 (ibidem).

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coscienza «impotente a togliere completamente l’opposizione del soggetto e dell’oggetto»39, e a questa relazione riconduce anche l’invenzione dei segni: infatti, come nel rapporto di dovere l’oggetto viene incorporato alla coscienza solo in parte, perché risorge di continuo sotto forma di nuovo ostacolo, così nel segno il significato, che si dovrebbe imprimere sull’oggetto dell’intuizione per ricondurlo all’idealità dello spirito, lo lascia in realtà sussistere inalterato nell’esteriorità dello spazio e del tempo: l’oggetto «resta ciò che è, ha ancora il suo essere per sé e il suo essere-altro è posto soltanto come un dover-essere-altro»40. Ma la concezione hegeliana del segno si presenta in termini sensibilmente diversi già negli abbozzi del 1805-06. Qui infatti il segno, con terminologia che si conserverà immutata fin nell’ultima stesura dell’Enciclopedia, sancisce l’instabilità di ogni «sintesi» che si sia venuta a instaurare fra l’io e l’oggetto. Già in questo testo, «sintesi» vuol dire giustapposizione estrinseca, dove i membri che entrano in rapporto non cambiano in nulla la loro «natura», che permane immutata e indifferente alla loro messa in relazione; mentre lo spirito si presenta dotato di tale potenza, che ogni oggetto posto a contatto dell’io ne viene immediatamente asservito41. Proprio perché le cose, in quanto esistono come realtà empiricamente presenti, non contano più nulla – proprio perché sono ridotte a fungere da semplice supporto del significato spirituale, il segno testimonia della signoria dello spirito sull’oggettività della natura42. Sparisce quindi la sua definizione in termini di dover-essere, anche se non scompaiono le osservazioni relative al fatto che la

39.  Cfr. J.S.I, p. 286 (C., p. 23), e supra, cap. I, pp. 16-19. 40.  Ibidem. Cfr. supra, cap. I, nota 9. 41.  Cfr. J.S.III, pp. 185-186 (C., pp. 69-70). 42.  Cfr. J.S.III, p. 188 (C., pp. 72-73).

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struttura degli oggetti viene, dall’invenzione segnica, lasciata intatta: «L’io è qui oggetto esso stesso come interno della cosa, questa interiorità della cosa è ancora separata dal suo essere»43. Ma queste riserve, nei confronti del segno, mal si conciliano con la prospettiva ormai assunta dalla filosofia dello spirito, che nello Zeichen mira a intravedere l’appropriazione senza remore della natura da parte del soggetto. Così, l’Enciclopedia può far leva sull’assoluta estraneità dei contenuti intuitivi rispetto al significato da essi rappresentato, per evidenziare come proprio in ciò si esprima la mirabile potenza dell’intelligenza: «Il segno va definito come qualcosa di grande. Quando l’intelligenza ha contrassegnato qualcosa, essa ha finito di occuparsi del contenuto dell’intuizione, e al materiale sensibile ha dato come anima un significato ad esso estraneo»44; «l’intelligenza… impiega l’intuizione come sua»45, in quanto quest’ultima non vale più «come qualcosa di positivo in se stessa, bensì come rappresentante di qualcosa d’altro»46. Nel segno, quindi, l’intelligenza perviene nuovamente all’essere, «l’immagine prodotta dalla fantasia» non è più «intuibile solo soggettivamente», bensì raggiunge l’«intuibilità vera e propria»47. Hegel sottolinea come la fantasia costituisca un punto di svolta nell’articolazione della Vorstellung. I suoi prodotti non sono più solo «sintesi» di lati opposti; al contrario, «la fantasia è il punto medio, in cui l’universale e l’essere, il proprio e l’essere-­ trovato, l’interno e l’esterno sono perfettamente fusi in uno»48. 43.  J.S.III, p. 189 (C., p. 73); sulla concezione del segno in J.S.III, cfr. anche supra, cap. I, pp. 33-34. 44.  Enz., III, § 457, Z., p. 269. 45.  Enz., III, § 458 Anm., p. 270 (tr. it. cit., p. 448). 46.  Enz., III, § 458, p. 270 (tr. it. cit., p. 447). 47.  Enz., III. § 457 Anm., p. 268 (ibidem). 48.  Ibidem (tr. it. cit., pp. 446-447).

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Ma allora, in che senso può il segno ancora far parte della Vorstellung? La rappresentazione era infatti caratterizzata proprio in base al fatto che i suoi prodotti erano giustapposizioni estrinseche, la rappresentazione «propriamente detta» si evidenziava come il portato di un’attività paradossalmente tutta interiore, eppure anche solo ed esclusivamente sintetica. Tanto più problematica dovrà apparire la determinazione della creazione fantastica come compiutamente unitaria, in quanto nello Zeichen l’intelligenza giunge alla proiezione nell’oggettività dei contenuti spirituali, e l’opposizione fra momento ideale e momento materiale sembra pervenire al suo culmine. In realtà, le questioni poste dalla trattazione enciclopedica della fantasia e del segno incidono direttamente sul complessivo assetto sistematico di questo capitolo di filosofia dello spirito, e alla luce di esso vanno inquadrate. Non dimentichiamo infatti che il telos dell’«intelligenza» è costituito dall’Aufhebung della rappresentazione nel Denken, che solo nel pensiero le differenze giungono ad articolarsi secondo la «concreta immanenza del concetto»49. Che cosa manca quindi all’unità compiuta dello Zeichen, perché già in esso non possa pervenire ad acquietarsi il movimento dell’intelligenza? Si tratta ancora della materialità dell’oggetto. Ma essa è già negata in quanto funge da segno; l’intelligenza non deve lottare contro un’oggettività che le resista ancora esternamente, quanto piuttosto disporre di un materiale che nella stessa fisicità del suo prodursi evidenzi il valore negativo ormai assunto, per lo spirito, dai contenuti dell’intuizione empirica. La filosofia della natura lo aveva già trovato nel suono (Klang), che essa designa come «il passare della spazialità materiale in temporalità materiale», come «forma interiore» che esiste «nel 49. Cfr. supra, nota 28.

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materiale in quanto sua idealità» e «negazione»50. Per l’intelligenza però non si tratta più di «trovare» semplicemente, ma di produrre il suono a partire dalla sua propria interiorità, conservando alle sue creazioni l’oggettività esterna del segno, ma potenziando ulteriormente la sua attività in rapporto all’intui­ zione. Lo spirito non recepisce più passivamente il materiale offerto da quest’ultima, ma lo produce esso stesso come mezzo per la sua estrinsecazione; e come mezzo per giunta immediatamente negativo, insussistente, «un esserci nel tempo – un dileguare dell’esserci nel momento in cui è»51. Il suono perciò si articola per diventare «la riempita estrinsecazione dell’interiorità che si manifesta» (Ton)52, e mentre garantisce ai significati l’assunzione di uno statuto di esternità, si sottopone senza residui alla loro comunicazione. Così sorge il linguaggio, in cui l’intuizione che immediatamente dilegua viene a suggellare l’assoggettamento della materia alla signoria dei significati. L’Enciclopedia non presenta la transizione al segno linguistico nella forma della cesura dialettica, ma come ulteriore approfondimento dell’attività semiotica da parte dello spirito. La parola cioè non eccede l’ambito del segno, non si dispone nei suoi confronti in posizione contraddittoria; ne costituisce, piuttosto, una declinazione intensificata, «la figura più vera dell’intuizione che è un segno»53. Anche in tal caso, come già per il segno, si registra un notevole mutamento di prospettiva rispetto agli abbozzi di filosofia dello spirito del 1803-04 – mutamento, la cui ragione immediata è da intravedere nel ruolo diverso di volta in volta svolto

50.  Cfr. Enz., II, § 300, p. 171 (tr. it. cit., p. 284; «nel materiale» traduce l’espressione tedesca «am Materiellen»). 51.  Enz., III, § 459, p. 271 (tr. it. cit., p. 449). 52.  Ibidem. 53.  Ibidem.

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dallo Zeichen, ma che più globalmente e più profondamente chiama in causa l’assetto dell’intera costruzione. Per quanto riguarda i testi del 1803-04, come abbiamo visto, il nome esistente «come linguaggio» assurgeva a momento risolutivo di contraddizioni, che permanevano nel segno ancora inconciliate, poiché quest’ultimo «era ancora per sé qualcosa d’altro che un nome, cioè una cosa»54. Nell’Enciclopedia, al contrario, il nome non può presentarsi in questa forma, perché già il segno risulta qui un prodotto compiutamente unitario. Intendere quest’ultimo come giustapposizione «sintetica» di «interno e esterno» oppure, addirittura, come irresolubile opposizione fra i due lati e «dover-essere», costringerebbe Hegel a modificare, più in generale, il concetto di fantasia in quanto attività che concilia per prima, entro la Vorstellung, l’intelligenza e il materiale delle sue creazioni. Lo Zeichen costituisce l’esteriorizzazione delle formazioni fantastiche: solo la permanenza della contraddizione al loro interno avrebbe potuto motivarne la tematizzazione nel segno. Ora, l’insieme di questi slittamenti sembra spingere la filosofia dello spirito a ridimensionare il ruolo del linguaggio entro la compagine dell’«intelligenza», mentre è proprio attraverso il consolidamento dei rapporti linguistici e l’interiorizzazione dei nomi che si realizza l’Aufhebung della Vorstellung nel Denken. La rappresentazione si «supera» nel pensiero in quanto il pensiero assorbe le parole nell’interiorità dello spirito. Nonostante il nome venga quindi considerato come una forma intensificata di segno, nonostante non svolga più una funzione ricompositiva, e quindi anche risolutiva, di contraddizioni che rimarrebbero nel segno ancora inconciliate – nonostante insomma resti inglobato entro la sfera del semplice Zeichen, proprio sul nome fa perno la transizione hegeliana 54.  Cfr. supra, cap. I, nota 26, ma più in generale, in riferimento agli scritti di cui si tratta, cfr. pp. 22-30.

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dalla rappresentazione al concetto. Ed è a questo riguardo che le questioni concernenti la posizione del linguaggio rispetto al segno s’incrociano con quelle attinenti la tenuta dell’assetto complessivo di questa sezione della Psicologia. Ora, poiché l’orientamento dell’«intelligenza» è volto a conseguire la soglia del pensiero, a superare nella «concreta immanenza del concetto» le giustapposizioni cui deve limitarsi a pervenire la Vorstellung, ecco che in primo piano emergono non solo i rapporti fra segno e nome, ma anche quelli che connettono quest’ultimo all’attività del Denken. Solo tenendo conto di questa trama di relazioni e di complicazioni è possibile valutare in tutta la sua portata l’impresa che Hegel, nella scarna prosa di queste pagine dell’Enciclopedia, si accinge a compiere: quella della derivazione logico-sistemica del Denken tramite Aufhebung della rappresentazione e del suo linguaggio. O meglio: della rappresentazione in quanto linguaggio. Perché il linguaggio «dona alle sensazioni, intui­zioni, rappresentazioni un secondo esserci, più alto rispetto al loro immediato, in generale un’esistenza che vale nel regno della rappresentazione»55; e a proposito del nome, egli ribadisce che «il nome così è la cosa, per come essa è presente ed ha validità nel regno della rappresentazione»56. Tuttavia, la derivazione sistemica del linguaggio non sembra in grado di supportare l’assunzione da parte sua di funzioni così decisive per l’intelligenza. Se il nome è soltanto una modalità intensificata di segno, l’asserzione secondo la quale i contenuti della Vorstellung troverebbero in esso, e non in qualsiasi altro Zeichen, un’esistenza adeguata al loro statuto rappresentativo, non risulta giustificata dall’esposizione. E non si tratta certo di problemi meramente stilistici, a meno che con tale denomi55.  Enz., III, § 459, p. 271 (tr. it. cit., p. 449). 56.  Enz., III, § 462, p. 278 (tr. it. cit., p. 455).

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nazione non s’intenda l’emergere sintomatico, sul piano della scrittura, di tensioni problematiche che si dispongono, più propriamente, all’altezza delle connessioni logico-sistemiche, della globale concezione filosofica. In effetti, dall’inclusione del segno linguistico nel segno tout court risulta condizionato tutto il processo di Aufhebung della rappresentazione, così come la fondazione dell’appartenenza reciproca necessaria di pensiero e linguaggio. Se è vero infatti che l’esserci di quest’ultimo «ist unseren Gedanken absolut notwendig»57, alle parole dovrebbe spettare uno statuto irriducibile alla nozione di segno, anche entro l’ottica parziale con cui l’Enciclopedia dichiara di voler trattare il linguaggio nell’ambito in questione58. Il fatto che ciò non avvenga è senz’altro legato alla «riuscita» della transizione al Denken – anzi, solo in tal modo Hegel può giustificare l’ulteriorità del pensiero nei confronti del linguaggio e quindi dell’intera sfera della Vorstellung. Tuttavia tale strategia condiziona lo svolgimento dell’esposizione, imprimendo al decorso argomentativo un andamento fortemente oscillatorio, che in taluni ma decisivi passaggi pare comprometterne il valore probante. Si ripresenterebbe allora quella medesima non-coincidenza di processo e risultato che impediva già alla dialettica del tempo di ricomporsi in totalità nell’ora dell’eternità speculativa59. Il movimento di sviluppo attraverso cui l’«intelligenza» dovrebbe pervenire al Denken come attività differenziata otterrebbe di giungere al suo telos solo sacrificando la trasparenza logica dei suoi passaggi, scindendo l’esito in cui pure dovrebbe sfo-

57.  Enz., III, § 462, Z., p. 280. 58.  Cioè «solo secondo la peculiare determinatezza di prodotto dell’intelligenza per manifestare le sue rappresentazioni in un elemento esteriore» (Enz., III, § 459 Anm., p. 271, tr. it. cit., p. 449). 59. Cfr. supra, cap. II, pp. 129-131.

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ciare dalla processualità del dispositivo epistemico, che viceversa sarebbe il solo a poterlo sottrarre, una volta per tutte, alla minaccia della contingenza rappresentativa. In altri termini, l’esposizione filosofica mostrerebbe di non poter salvare dalla presa della Vorstellung il movimento della differenziazione che incessantemente approssima l’attività del Denken e coincide con la Darstellung stessa; ma d’altro lato, il tributo di contingenza versato da quest’ultima alla rappresentazione costituirebbe l’unica modalità di salvaguardia del Denken come attività differenziata. La frattura che separa il risultato dal procedimento che lo viene a produrre si rivelerebbe come ciò attraverso cui la trascendenza del pensiero si custodisce e si «riserva», ma in pari tempo come ciò che la minaccia di un riassorbimento senza resto nell’immanenza contingente della rappresentazione. Come «passaggio all’attività del pensiero» viene indicata in Hegel la memoria60. Essa costituisce la terza e ultima fase della Vorstellung, e si ripartisce a sua volta in tre momenti. Come «behaltende[s] Gedächtnis» rende universale e permanente il legame tra nome, o segno in genere, e significato61; svolta questa funzione, associa reciprocamente nomi diversi in base al loro significato, ripercorrendo serie di eventi spirituali (sensazioni, rappresentazioni, pensieri) senza che questi debbano nuovamente essere esperiti in quanto tali, e diventa così «memoria riproduttiva»62; infine, quando l’«intelligenza» non tematizza più nemmeno il significato dei nomi, ed esso scompare dal suo orizzonte intenzionale, l’attività della memorizzazione perviene alla sua terza e ultima fase, «che viene detta meccanica»63.

60. Cfr. Enz., III, § 464, p. 282 (tr. it. cit., p. 459). 61.  Cfr. Enz., III, § 461, p. 278 (tr. it. cit., p. 455). 62.  Enz., III, §. 462, p. 278 (ibidem). 63.  Enz., III, §. 463, p. 283 (tr. it. cit., p. 458).

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È negli scritti jenesi del 1805-06 che la memoria inizia a svolgere quell’attività di «passaggio dal rappresentare al pensare», come pure viene detto nell’Enciclopedia64, che nei frammenti di filosofia dello spirito del 1803-04 veniva perlomeno ancora a condividere con il linguaggio. In quei testi, essa designa già la riflessione dello spirito in sé dal suo denominare65, il momento in cui la pronuncia delle parole si arresta, e i nomi vengono trattenuti, silenziosamente, nell’interiorità della coscienza. L’io perviene così ad abbandonare l’arbitrio di cui godeva nell’invenzione linguistica, e si volge a consolidare le relazioni fra i nomi, e fra nomi e significati. Il linguaggio dimette la funzione di soggetto dell’auto-riflessione in intelletto, che abbiamo visto essergli propria nei frammenti del 1803-04, e tale attività viene svolta in esclusiva dall’io, che disciplinando la sua invenzione disciplina allo stesso modo se stesso. Ma poiché la memoria diventa prerogativa dell’io, ed è d’altra parte l’unica molla che inneschi il processo di transizione al pensiero, quest’ultimo resta compreso entro la sfera di un’interiorità che non parla, e per lo spirito tornare alla pronuncia concreta dei nomi diventa impossibile. L’intelletto, che negli abbozzi del 1803-04 veniva riassorbito, «come tutto», nel linguaggio66, rimane attraversato senza residuo dalle parole, ma queste ultime esistono solamente in quanto interiorizzate dall’io e in esso custodite. Il concetto perde la dimensione «universalmente comunicante» della sua concreta pronuncia67, riconvertendosi a contenuto interno. Tuttavia, la diversa impostazione dei rapporti fra memoria, pensiero e linguaggio permette a Hegel di differenziare in

64.  Cfr. Enz., III, § 459 Anm., p. 277 (tr. it. cit., p. 455). 65. Cfr. supra, cap. I, nota 52, ma più in generale, sulle concezioni jenesi di Hegel e i loro slittamenti al riguardo, cfr. pp. 28-31. 66. Cfr. J.S.I, p. 294 (C., p. 31). 67. Cfr. J.S.I, p. 288 (C., p. 25).

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maniera più rigorosa concetto e nome, intelletto e linguaggio, così come di articolare ulteriormente la nozione del Gedächtnis medesimo. Inoltre, abbiamo già notato come proprio una scansione del tipo presentato nel testo del 1805-06 consentisse di pervenire alla definizione di una teoria della Darstellung. Non è privo di un ben preciso significato teoretico, quindi, se l’Enciclopedia scandisce le tappe dell’Aufhebung della rappresentazione nel pensiero secondo modalità già fissate nel manoscritto jenese del 1805-06. Il plesso che stringe assieme filosofia dello spirito ed esposizione speculativa, e attorno al quale il pensiero di Hegel giungeva, negli anni di Jena, a stabilizzarsi entro un proprio dispositivo epistemico, attesta la chiusura in circolo del suo filosofare anche dal punto di vista della ricostruzione cronologica. Ma così come i circoli della teoria mostravano di non potersi ricongiungere col punto che dava loro inizio – così come la sfasatura che ne provocava la non-coincidenza non si lasciava ricomporre nemmeno dalle cerchie che atemporalmente dovevano seguirla, anche questa «chiusura» della psicologia speculativa, che segna il precipitato ultimo delle stesure e rielaborazioni successive con le quali Hegel ha tentato di venire a capo di questo capitolo di filosofia dello spirito, mostra di descrivere un circolo attraversato da tensioni e aporie non circoscrivibili né dominabili dall’esposizione dialettica, e di poter giungere, quindi, solo problematicamente alla sua forma68. Nell’Enciclopedia, il processo di Aufhebung della rappresentazione nel Denken coinvolge l’appartenenza reciproca di pensiero e linguaggio, la determinazione del senso in cui quest’ul-

68.  Per sottolineare la novità e l’originalità del tentativo hegeliano di costruzione di una psicologia «speculativa», non sempre gli interpreti tendono a rilevare le difficoltà che intervengono a questo proposito.

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timo viene «superato» e simultaneamente «conservato», se è vero che «è nei nomi che noi pensiamo»69. È il nome, infatti, a essere la cosa, «in quanto essa è presente nel regno della rappresentazione»70. Da un lato si tratta, per la Psicologia, di fondare sistematicamente la co-appartenenza di Denken e Sprache; dall’altro, di articolare concettualmente l’Aufhebung della seconda da parte del primo. In ambedue i casi, il dispositivo sistemico impone di differenziare il nome dal segno, il segno linguistico dal segno tout court. Ma proprio a questo riguardo, l’inclusione del nome nel segno comporta difficoltà insormontabili nel procedimento della differenziazione logica che dovrebbe condurre a isolare il primo dal secondo, a giustificarne così sistematicamente la connessione esclusiva con il pensiero e lo statuto tutto particolare che esso riveste nell’ambito stesso della Vorstellung. In rapporto a tali difficoltà, è sintomatica l’asserzione di Hegel, secondo la quale la memoria «ha in generale a che fare solamente con segni»71. Persino nel testo del 1805-06, la memoria non «aveva a che fare» semplicemente con segni, ma più propriamente con segni linguistici, tant’è vero che alcuni interpreti parlano a suo riguardo di «verbal memory»72. Tale determinazione in effetti è corretta, ma solo per le filosofie dello spirito jenesi. Nell’Enciclopedia, parallelamente ai mutamenti che involgono la concezione del segno e portano quest’ultimo a incorporare funzioni dapprima riservate al solo nome, anche il Gedächtnis amplia l’arco della sua attività, e «il significato proprio, che la memoria ha nello spirito»73, non si determina più in con69.  Cfr. Enz., III, § 462 Anm., p. 278 (tr. it. cit., p. 456). 70.  Loc. cit. supra, nota 56. 71.  Enz., III, § 458 Anm., p. 271 (tr. it. cit., p. 448). 72.  Così G.R.G. Mure, op. cit., p. 9 (ma da vedere al riguardo è l’intero primo capitolo, Language and Hegel’s Logic, pp. 1-27). 73.  Cfr. Enz., III, § 463 Anm., p. 281 (tr. it. cit., p. 458).

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nessione specifica col linguaggio, ma più globalmente con la sfera dei segni. Le ambiguità terminologiche e sistematiche di cui tale generalizzazione è all’origine gravano intanto sulla transizione dalla fantasia alla memoria. Hegel riconduce la genesi – in senso logico-sistemico – di quest’ultima alla necessità di consolidare il rapporto fra nome e significato, che costituisce dapprima «una produzione singola e passeggera»74; secondo un movimento già delineato negli scritti jenesi, l’«intelligenza» procede al consolidamento della loro relazione, trasformandone la connessione da momentanea e contingente in una «universale, cioè permanente»75. Ma poiché la memoria «ha a che fare in generale con segni», l’attività di disciplinamento così indotta pare volgersi indiscriminatamente a nomi come a segni. In tal modo, quando si tratta di presentare il passaggio al Gedächtnis, Hegel può menzionare esclusivamente i nomi76, per poi tornare a parlare indifferentemente di Name o di Zeichen come oggetti di attività del behaltendes Gedächtnis77.

74.  Enz., III, § 460, p. 277 (tr. it. cit., p. 455). 75.  Enz., III, § 461, p. 278 (ibidem). 76.  Cfr. Enz., III, § 460, p. 277: «Il nome, come collegamento dell’intuizione prodotta dall’intelligenza e del suo significato, è dapprima una singola produzione passeggera, e il collegamento della rappresentazione in quanto interna con l’intuizione in quanto esterna è esso stesso esteriore. L’interiorizzazione di questa esteriorità è la memoria» (tr. it. cit., p. 455; abbiamo preferito esplicitare il senso filosofico della parola Erinnerung, che Croce traduce giustamente con «ricordo»). 77.  Cfr. Enz., III, § 461, pp. 277-278: «Facendo suo quel collegamento che è il segno, essa eleva… il singolo collegamento a collegamento universale, cioè permanente, in cui nome e significato per lei sono oggettivamente legati, e trasforma l’intuizione che il nome è dapprima in una rappresentazione, cosicché il contenuto, il significato e il segno, identificati, sono una rappresentazione, e il rappresentare è concreto nella sua interiorità, il contenuto è come il suo esserci; la memoria che conserva il nome» (tr. it. cit., p. 455).

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È vero, però, che la questione non si può risolvere così facilmente. Resta indiscutibile, infatti, che il processo della memorizzazione si concentra progressivamente sul segno linguistico. Così, al termine del paragrafo che lo riguarda, lo stesso behaltendes Gedächtnis viene determinato esclusivamente in rapporto al nome78; così, l’aggiunta ad esso relativa si riferisce specificamente al linguaggio79; così, infine, gli ulteriori momenti della memoria riproduttiva e meccanica «hanno a che fare» solamente con nomi80. La necessità di selezionare il nome come materiale privilegiato dell’attività di memorizzazione non risulta poi indicata a sufficienza nella determinazione della parola come «la figura più vera dell’intuizione che è un segno»81? E se il linguaggio viene considerato, nell’Enciclopedia, «solo secondo la determinatezza peculiare di prodotto dell’intelligenza per manifestare le sue rappresentazioni in un elemento esteriore»82 – e cioè, in altri termini, come complesso di segni – non verrebbe a cadere anche l’ambiguità terminologica che abbiamo imputato a Hegel, consistente nell’impiego indifferenziato di «nome» e di «segno»? Questi dubbi ci spingono a radicalizzare l’interrogazione ermeneutica, e a chiedere se pur restando entro i limiti che la Psicologia si assegna nella considerazione del linguaggio, la fi-

78. Cfr. supra, la nota che precede. 79.  In essa, il senso di questo primo momento della memoria si evidenzia nel fatto che «noi tratteniamo il significato dei nomi, in presenza dei segni linguistici diventiamo capaci di ricordarci delle rappresentazioni con essi oggettivamente collegate» (Enz., III, § 461, Z., p. 278). 80.  Cfr. Enz., III, § 462 (memoria riproduttiva), § 463 (memoria meccanica), § 464 (passaggio all’attività del pensiero), pp. 278-283 (tr. it. cit., pp. 455-459). 81.  Loc. cit. supra, nota 53. 82.  Loc. cit. supra, nota 58. In realtà, nemmeno l’Enciclopedia si limita a considerare il linguaggio in questi termini. Cfr. l’interpretazione di J. Simon menzionata supra, cap. I, nota 23.

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losofia dello spirito non avrebbe dovuto determinare il nome secondo modalità differenti, e più adeguate alla funzione che esso viene a svolgere nell’economia dell’«intelligenza». Ora, noi sappiamo che lo stesso Hegel aveva dato, nei frammenti del 1803-04, una risposta in senso affermativo a tale domanda, e che ciò veniva a dipendere dall’eccedenza della parola come «segno» rispetto all’ambito degli altri segni. È soltanto per essi che «il significato deve essere per sé», deve permanere nell’opposizione rispetto all’oggetto significante e al soggetto, «per il quale esso ha il significato»; «il nome è invece in sé, durevole, senza la cosa e il soggetto»83. E questa autonomia derivava al nome dal fatto che in esso il significato s’imprime senza resto e giungono così a dissolversi le contraddizioni ancora inconciliate nel segno. Di qui il carattere tutto particolare del nome come «segno»: in esso è infatti il segno stesso a essere «superato» – conservato soltanto in quanto in pari tempo tolto. Viceversa, l’inclusione del nome nel segno, che approfondendo l’indirizzo testimoniato già nei testi del 1805-06, viene sancita definitivamente dall’Enciclopedia, da un lato è all’origine della determinazione del Gedächtnis come attività che «ha in generale a che fare solamente con segni»84, dall’altro provoca le ambiguità terminologiche e le difficoltà sistematiche sopra menzionate. Il processo di Aufhebung della rappresentazione nel Denken procede quindi nella direzione del suo telos solo forzando l’oltrepassamento del segno verso il nome, perché è appunto «nei nomi che noi pensiamo»85, non in semplici segni. Ma la Psicologia hegeliana si trova, giunta a questo punto, a dover soddisfare due esigenze reciprocamente incompatibili. Da un lato, 83.  Loc. cit. supra, cap. I, nota 28. 84.  Loc. cit. supra, nota 71. 85.  Loc. cit. supra, nota 69.

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cioè, è costretta a imperniare sul nome la transizione al pensiero, in quanto solo la materia fonica si presta a essere interiorizzata completamente dallo spirito; dall’altro, però, il nome va ricondotto alla sfera dei segni, considerato come mero Zeichen per poter riservare al Denken il toglimento delle antinomie presenti ai livelli «anteriori». In tal modo, il «superamento» della rappresentazione sarebbe compiuto, e il pensiero costituito in attività differenziata rispetto a tutto l’ambito della Vorstellung. Ma poiché la separatezza del pensiero nei confronti della rappresentazione viene a dipendere da una differenziazione solo relativa del nome dal segno, essa si scontra col processo di costituzione del pensiero come attività distinta dalla Vorstellung: la riuscita del movimento logico-espositivo esigerebbe infatti proprio la differenziazione concettuale del nome dal segno, perché solo essa permette la fondazione sistemica dell’appartenenza reciproca di pensiero e linguaggio. La necessità della transizione al Denken viene intravista da Hegel nella sinteticità che continua a gravare sulla relazione fra nomi e significati, e che contraddistingue in particolare l’attività della memoria riproduttiva: «Nella misura in cui la connessione dei nomi si trova nel significato, il suo collegamento con l’essere come nome è ancora una sintesi»86. Ma il carattere «sintetico» dei prodotti dell’intelligenza non veniva già tolto, entro l’ambito della rappresentazione, dalla fantasia? Non si trovava già il segno a essere «qualcosa di grande», in quanto lo spirito vi cancellava i contenuti empirici dell’intuizione, la quale veniva dall’intelligenza «usata come sua»? E se addirittura il segno emergeva dal superamento della giustapposizione che contraddistingueva la rappresentazione «propriamente detta», com’è possibile che essa compaia entro la sua «figura

86.  Enz., III, § 463, p. 281 (tr. it. cit., p. 457).

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più vera»? In che modo può la memoria distinguere nome e significato, per poi eventualmente ricongiungerli in un prodotto che rischierebbe davvero, però, di non essere altro che una giustapposizione «sintetica»? Lo sdoppiamento di nome e significato designa un’operazione compiuta dalla memoria al solo scopo di ricomporre una differenza da essa artificiosamente provocata? In effetti, la transizione al pensiero è attuata quando quella sinteticità viene tolta, riassorbita nell’interiorità dell’intelligenza attraverso la memorizzazione meccanica. Qui lo spirito non intenziona più il significato dei termini, ma focalizza e trattiene indefinite serie di nomi solo in quanto nomi87. L’intelligenza raggiunge la massima esteriorità possibile nella sua stessa interiorità, e dalla massima tensione dell’opposizione scaturisce la conciliazione fra i due lati: in quanto è soltanto connessione seriale di nomi, ecco che non può più darsi alcun tipo di sintesi, mentre d’altra parte i significati non hanno altro luogo in cui esistere se non quello, totalmente solcato da serie di termini, dell’«intelligenza». Proprio «in quanto memoria meccanica», lo spirito risulta «in uno quella esteriore obbiettività stessa e il significato», si pone come «l’esistenza di questa identità», trapassando così «nell’attività del pensiero, che non ha più alcun significato – dalla cui obbiettività, cioè, il momento soggettivo non è più diverso, così come questa interiorità è in lei stessa essente»88. Dal punto prospettico finalmente raggiunto del telos cui l’intelligenza è pervenuta, in cui il processo di Aufhebung della rappresentazione precipita nel suo risultato e l’intelligenza si 87.  L’intelligenza «si pone come l’essere, lo spazio universale dei nomi come tali, cioè di parole senza senso. L’io, che è questo essere astratto, in quanto soggettività è in pari tempo la potenza dei diversi nomi, il legame vuoto, che rafforza in sé serie di quelli e le mantiene in ordine saldo» (ibidem). 88.  Enz., III, § 464, p. 282 (tr. it. cit., pp. 458-459).

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realizza infine come attività pensante – da qui soltanto diventa possibile cogliere la portata che le contraddizioni, le ambiguità, gli slittamenti che abbiamo visto rendere tale decorso così accidentato rivestono in relazione al complessivo assetto sistemico. Perché di quest’ultimo esse non costituiscono solo gli effetti, ma anche l’insieme dei presupposti che ne governano l’attuazione nel momento medesimo in cui ne scoprono la fragilità interna. E anzitutto, alla luce della definizione del Denken come compenetrazione e identità di nome e significato, emerge con evidenza la funzionalità specifica, e da questo lato senz’altro efficace, dell’assimilazione del nome al segno. Se già il nome come prodotto di attività linguistiche risultasse in grado di risolvere e «conciliare» le antinomie contenute nelle creazioni «sintetiche» dell’intelligenza, tale funzione non potrebbe essere dislocata verso un livello qualitativamente differenziato dal linguaggio e quindi più globalmente dalla Vorstellung. Il pensiero si troverebbe irriducibilmente immerso nella rappresentazione e nei suoi contenuti, chiuso dentro il suo tempo e le sue forme operative. Per scongiurare un esito del genere, Hegel si trova costretto a valorizzare in rapporto al nome le riserve critiche formulate a Jena riguardo al segno. L’imputazione di non costituire altro se non una «sintesi» viene così a gravare sul segno linguistico, quando pareva vi si fosse sottratto perfino il semplice Zeichen: «L’essente, in quanto nome, ha bisogno – per essere la cosa, la vera obbiettività – di un altro, del significato dell’intelligenza rappresentativa»89. L’esteriorità che permane fra i lati messi in rapporto conferma il carattere rappresentativo del linguaggio, è omogeneo con la sua inclusione nell’ambito della Vorstellung e la rafforza. 89.  Ibidem.

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La possibilità della scomposizione operata dalla memoria è interna alla costituzione «originariamente» sintetica del nome, anche se la sua compenetrazione col significato svela la sua instabilità solo di fronte alla potenza del Gedächtnis. Il nome, così come del resto il segno in generale e i prodotti della fantasia, sono soltanto la prima unificazione raggiunta dall’intelligenza coi suoi materiali: unificazione quindi ancora immediata, che solo in seguito al suo dissolvimento da parte della memoria perviene alla compiuta mediazione fra i due lati. E in quanto «esiste» nella forma di una tale mediazione, l’intelligenza si realizza come attività pensante, ripristina un’immediatezza e un’unificazione risultanti dal processo della scomposizione e ricomposizione dialettiche. L’immediatezza del pensiero si trova così a essere intrinsecamente mediata, è per così dire una seconda immediatezza: ma proprio perciò, un’immediatezza irriducibile a quella prima della fantasia, del segno e del linguaggio. Non a caso questi ultimi rientrano per Hegel nella sfera della rappresentazione, nonostante in essi «l’universale e l’essere, il proprio e l’esseretrovato, l’interno e l’esterno siano perfettamente fusi in uno»90. L’unità che essi incorporano è ancora soggetta alla sinteticità che pure superano per la prima volta, suscettibile quindi di subire la scomposizione cui va incontro a opera della memoria. Da parte sua, l’attività di quest’ultima svela in cosa consista il «significato» di cui la riveste la filosofia dello spirito: l’interiorizzazione dei legami linguistici, culminante con la massima estraneità reciproca fra nomi e significati e con la loro compenetrazione nel pensiero, deve infatti prima porre «per sé» la sinteticità «in sé» presente nel prodotto semiotico, e quindi anche nel nome ad esso assimilato: solo in tal modo l’esteriorità può risultare infine compiutamente mediata nel Denken.

90.  Loc. cit. supra, nota 48.

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Quest’ultimo viene così a designare un’attività fortemente differenziata rispetto all’ambito della Vorstellung, sottratto alla sfera delle giustapposizioni e delle sintesi nella quale anche il linguaggio era compreso. Ma per salvaguardare il pensiero dalla ricaduta nella rappresentazione, la Psicologia deve rinunciare alla comprensione sistemica della sua implicazione con il linguaggio, perché ciò sarebbe stato possibile solo isolando quest’ultimo dal complesso dei segni. E differenziare il segno linguistico dagli altri segni avrebbe comportato lo scavalcamento della sua determinazione come collegamento esteriore della rappresentazione con l’intuizione91: ciò che sarebbe stato valido per il segno, in altri termini, non avrebbe più avuto incidenza per il linguaggio e i nomi. In tal modo, però, sarebbe venuta meno la funzione differenziale incorporata nella definizione del Denken come identità finalmente posta di «obbiettività esteriore e significato»: ciò avrebbe infatti già designato le parole e la lingua, e ripiegato il pensiero entro il perimetro della rappresentazione. Così il telos si distanzia dal processo che pure dovrebbe produrlo, e la frattura che si apre fra i due non risulta mediabile in senso dialettico. L’isolamento del linguaggio dai segni è l’unica modalità di «fondazione» adeguata della reciproca appartenenza di parola e pensiero; la sua assimilazione ai segni l’unica modalità per differenziare il pensiero dalla Vorstellung. Dallo scontro di tali opposte tendenze, ambedue necessarie e ambedue esclusive, si origina il processo dell’Aufhebung, in pari tempo riuscita e mancata, della rappresentazione nel Denken.

91.  Cfr. supra, nota 76, dov’è riportato il brano cui stiamo facendo riferimento.

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4. Tempo della «Vorstellung» e tempo della «Darstellung» La condensazione del tempo negli ora dell’eternità speculativa, che la dialettica delle dimensioni temporali produce come suo portato ultimo, ricade tuttavia nell’astrattezza di una totalità che si realizza nella dimensione del passato. Di qui l’apo­ria del passato che ci sembra contrassegnare la soluzione hegeliana: se il passato è inteso come totalità, allora non può più superarsi, e l’eternità si disloca al di qua del presente concepito come il «terzo» ora che dovrebbe riunire e conservare al proprio interno presente, futuro e passato; se invece il passato è inteso come dimensione, allora può certamente superarsi verso un nuovo presente (il «terzo» ora di cui abbiamo appena detto), ma questo nuovo presente non potrà più essere totalità (perché quest’ultima è costituita dal passato), e potrà affermarsi solo come dimensione (ricaduta dell’eternità speculativa sul piano del tempo naturale e della cronologia). In altri termini, il passato riesce a togliersi dalla finitezza che gli preclude l’accesso al piano della totalità soltanto a prezzo di non-coincidere col presente dell’eternità, che pure per suo tramite dovrebbe scaturire. Ma declinandosi al passato, la totalità non soltanto si vede sottratta e privata del momento della presenzialità, ma costretta ad assumere lo statuto, paradossale e per essa senz’altro inaccettabile, di totalità che s’istituisce come tale solo in quanto resta, simultaneamente, astratta – chiusa entro la finitezza di una dimensione singola, e per giunta di quella che ne designa la ricaduta al di qua dell’effettualità e del compimento. A sua volta, la coniugazione al passato della totalità temporale ripristina l’indipendenza e la relativa permanenza, al di fuori l’una dall’altra, delle altre due dimensioni del tempo, presente e futuro. L’insuperabilità della finitezza del tempo verrebbe così a coincidere con l’insuperabilità della rappresentazione da parte del pensiero e del concetto.

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In effetti, come nei testi jenesi da noi analizzati nel secondo capitolo, passato e futuro acquisivano la loro relativa permanenza e sussistenza grazie alla rappresentazione del soggetto92, così la medesima affermazione si trova ripetuta nell’Enciclopedia. Il tempo della natura è quello dell’«ora fissato come essente»93, nella natura il tempo «non perviene alla differenza sussistente di quelle dimensioni»94. Radicalmente differenziata dall’ininterrotta successione degli ora finiti del tempo naturale, abbiamo quindi visto prodursi la concrezione del tempo nell’eternità dell’ora in cui le dimensioni si contraggono a istituire la totalità del presente intemporale – «absolute Zeitlosigkeit… die Ewigkeit, die ohne die natürliche Zeit ist»95. E tuttavia, eternità e tempo naturale si dispongono entrambi sul piano della presenzialità, incarnandone certo declinazioni irriducibili l’una all’altra, ma in cui comunque passato e futuro non acquisiscono alcuna autonoma sussistenza. Così, è solo nella Vorstellung del soggetto che quelle due dimensioni riescono a differenziarsi in maniera stabile dal presente: «esse sono necessarie soltanto nella rappresentazione soggettiva, nel ricordo, e nel timore o nella speranza»96. La rappresentazione estende di conseguenza anche al tempo le cadenze specifiche del suo modo d’intendere e di manifestare i concetti. Essa perviene a cogliere determinazioni spirituali e a circoscriverne l’ambito relativo, giungendo da questo lato a sottrarre al flusso temporale dell’esperienza interiore i 92.  Così come l’essere del futuro era un essere solamente rappresentato, siamo «noi» a trattenere il passato «fuori dalle altre dimensioni» (J.S.III, p. 12). 93.  Enz., II, § 259 Anm., p. 52 (tr. it. cit., p. 235). 94.  Ibidem. 95.  Loc. cit. supra, cap. II, nota 16: «intemporalità assoluta… l’eternità, che è senza il tempo naturale». 96.  Loc. cit. supra, nota 93.

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contenuti di volta in volta in questione. Benché infatti quelle determinazioni «appaiano temporalmente l’una dopo l’altra, il loro contenuto tuttavia non viene rappresentato come affetto dal tempo, in esso passeggero e mutevole»97. Alla successione degli stati psicologici e all’inevitabile flusso della vita interiore, la Vorstellung contrappone l’inalterabilità dei contenuti da essa afferrati; a sua volta, però, tale inalterabilità viene raggiunta a prezzo del loro reciproco isolamento: «tali determinazioni… restano per così dire isolate nel vasto territorio dell’universalità interna, astratta del rappresentare in generale»98. Perciò Hegel asserisce al riguardo l’omogeneità dei procedimenti della Vorstellung con quelli dell’intelletto (Verstand), distinguendoli solo per il fatto che quest’ultimo «sotto le determinazioni isolate della rappresentazione pone relazioni di necessità, mentre la rappresentazione le lascia l’una accanto all’altra nel suo spazio indeterminato, collegate solo dal mero anche»99. Ora, per quanto concerne il tempo, è la rappresentazione che mantiene isolate le singole dimensioni l’una dall’altra, che fornisce la sussistenza a passato e futuro; è quindi la rappresentazione del tempo che si tratta di «superare» nel suo concetto. Così, la dialettica temporale e il suo culminare nell’eternità speculativa intersecano il problema dei rapporti fra rappresentazione e concetto, del superamento della rappresentazione nel concetto. Ciò risulta, del resto, pienamente conforme alla concezione di Hegel, se è vero che «si può dire, in generale, che la filosofia non faccia altro che trasformare le rappresentazioni in pensieri – ma certo, inoltre, il semplice pensiero nel concetto»100. La rilevanza specifica delle relazioni fra eternità

97.  Enz., I, § 20 Anm., p. 73 (tr. it. cit., p. 34). 98.  Ibidem. 99.  Ibidem (tr. it. cit., pp. 34-35). 100.  Loc. cit. supra, nota 20.

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e tempo, da un lato, e rappresentazione e pensiero, dall’altro, è racchiusa nel fatto che non oltrepassare la soglia della rappresentazione del tempo significherebbe non oltrepassare, non «superare» in nessun senso il tempo stesso; che non «superare» il tempo nell’eternità speculativa, non istituire il tempo in totalità significherebbe schiacciare il pensiero sulla rappresentazione del tempo – e cioè: sul tempo della rappresentazione e sulla rappresentazione tout court101. Tale movimento ci si è presentato in duplice forma: più precisamente, come l’annullamento del tempo naturale nell’eternità speculativa esponeva costantemente quest’ultima al rischio della ricaduta nel primo, così un esito analogo abbiamo visto emergere dal processo di Aufhebung della rappresentazione nel Denken, scandito all’interno della Psicologia. Qui, la derivazione sistemica svolta come Darstellung speculativa delle attività dell’«intelligenza» si disponeva da un lato, mentre di contro e di fronte ad essa, eccedente in senso non dialettico, permaneva fissato «accanto» all’auto-superamento della Vorstellung il Denken medesimo. Il processo sfociava all’interno della rappresentazione; ma soltanto questo ripiegamento consentiva di sottrarre il pensiero alla sua presa. Certo, qui emerge un nuovo rovesciamento, un movimento innescato dalla dialettica ma che contro quest’ultima in pari tempo si volge, infrangendola. L’interruzione del procedimento epistemico di esposizione prima della soglia di ciò che ne dovrebbe costituire il risultato, infatti, come sua conseguenza produce l’irrigidimento del pensiero oltre il perimetro della Vorstellung, il suo stabilizzarsi accanto al complesso delle attività rappresentative. Il pensiero finisce quindi con l’assumere, 101.  Cfr. su questo punto M. Theunissen, op. cit., pp. 295 ss., commento al § 571 dell’Enciclopedia (che conclude la sezione sulla geoffenbarte Religion), il quale approfondisce i rapporti fra concetto e rappresentazione, da un lato, ed eternità e tempo, dall’altro.

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suo malgrado, uno statuto rappresentativo – per differenziarsi dalla rappresentazione sembra non poter essere altro che rappresentazione, così come il tentativo di eccederla istituisce il dispositivo che ve lo include. Il pensiero perviene insomma a se stesso soltanto in quanto a sua volta vor-gestellt, posto di fronte e dinanzi alla rappresentazione che pure dovrebbe avere «superato», e che invece in tal modo lo ricomprende in sé come una rappresentazione sui generis. E ciò accade proprio in virtù della Darstellung filosofica, che ne dovrebbe determinare il concetto – che lo dovrebbe «porre» come concetto. Eppure, come ha mostrato l’analisi della Vorrede, Hegel è giunto a definire una nozione del pensiero svincolata dalla rappresentazione. Ma il contesto che consentiva di pervenire a tale determinazione102 è estremamente sintomatico in relazione alle difficoltà incontrate in proposito dalla Psicologia. Quest’ultima, infatti, pare trovarsi di fronte a un compito contraddittorio con l’essenza stessa del pensiero: il pensiero andrebbe cioè definito come concetto psicologico; ma secondo la concezione hegeliana, risulta impossibile determinare il pensiero al di là e al di fuori del movimento della sua concretizzazione e del suo svolgimento. Un’impresa del genere non potrebbe giungere che a enunciazioni puramente formali, a definizioni intellettualistiche e astratte, perché dovrebbe scindere l’attività del pensiero dai suoi contenuti, la forma del Denken dalle specificazioni categoriali nelle quali esso di volta in volta precipita e si realizza. Allora, che il pensiero nella Psicologia non pervenga compiutamente a svincolarsi dallo statuto di rappresentazione non dice ancora nulla sulle modalità della sua concreta ed «effettuale» attuazione, sulla cadenza non-rappresentativa che ne contraddistingue l’esercizio, sul senso in cui la Vorstellung vi si trovi compresa, ma solo in quanto aufgehoben. 102.  Quello relativo, appunto, alla definizione del concetto di esposizione speculativa (cfr. supra, il cap. I).

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Ben più intricata dunque è la questione che involge il Denken quando si esercita come tale, quando non si «definisce» attività, ma direttamente si sperimenta e si attua. È da qui che la nostra ricerca deve nuovamente partire, perché le interrogazioni suscitate dalle discrepanze emerse nella Psicologia investono il pensiero dal versante del suo svolgimento «in atto» e della sua precipitazione nelle singole determinazioni concettuali, a loro volta comprese nel «movimento dialettico», effettivamente esposto, della risoluzione e ricomposizione speculative.

5. Spazializzazione dell’eternità e problema della scrittura Abbiamo visto come l’esposizione speculativa incorpori le modalità di destituzione del tempo attraverso cui si scandisce la dialettica delle dimensioni e del loro superamento. Ma l’esposizione è esposizione scritta, realizzata tra le pagine di un libro. Non si tratta più, per il pensiero, d’impiegare la parola che si comunica oralmente nell’interazione fra parlanti, ma della parola immobilizzata nello spazio della scrittura. Parrebbe quindi necessario, per questo pensiero, approfondire la portata filosofica della spazializzazione del linguaggio, visto che è sullo spazio della pagina che la Darstellung si sviluppa e si attua. Ma nell’Enciclopedia la scrittura non sembra assurgere alla dignità di problema. Anzi, essa vi si presenta in posizione nettamente subordinata rispetto al linguaggio fonico, poiché immobilizza nello spazio la parola pronunciata oralmente, e come tale «dileguante» nel tempo103. La scrittura torna cioè a quella dimensione di solidificata esteriorità, della quale la transizione al linguaggio come produzione di segni evanescenti costituiva 103.  Parola che, come ricordiamo, Hegel definiva «un esserci nel tempo, un dileguare dell’esserci mentre è» (Enz., III, § 459, p. 271; tr. it. cit., p. 449).

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appunto il superamento. Hegel le attribuisce quindi il significato di «attività esteriormente pratica»104, di ausilio che viene impiegato in funzione di «sostituto» della comunicazione orale e vivente: «Accanto al linguaggio fonico, in quanto originario, può essere menzionata anche la scrittura…»105. Eppure, nonostante tale subordinazione, il decorso del testo si muove nella direzione di una progressiva accentuazione della sua rilevanza per il pensiero. Le osservazioni hegeliane paiono all’inizio limitarsi a svolgere una comparazione, dall’andamento quasi descrittivo, fra scrittura alfabetica e scrittura geroglifica. Il criterio di valutazione della rispettiva significanza resta costituito dal loro rapporto nei confronti del linguaggio parlato, e da questo lato risulta per Hegel la «superiorità» della scrittura alfabetica rispetto a quella geroglifica. Infatti, mentre i segni elementari di cui si compone la prima – le lettere – rappresentano i suoni dalla cui articolata connessione sorgono le parole, le quali quindi sono formate da «segni di segni» – giacché i suoni «sono già essi stessi segni»106 – la seconda intende significare le componenti costitutive delle singole rappresentazioni107. Gli svantaggi di tale impostazione sono diversi, e vanno dalla difficoltà di pronunciare correttamente i singoli termini all’incompatibilità con uno sviluppo spirituale accelerato, dall’esclusività che caratterizza la diffusione della cultura all’ambiguità e alla confusione che sorgono dalle molteplici possibilità di scomporre una medesima rappresentazione. Ma la carenza più grave, dal punto di vista filosofico, è un’altra, e consiste nell’incapacità, da parte della scrittura geroglifica, di soddisfare quello che Hegel chiama il «bisogno fondamentale

104.  Enz., III, § 459 Anm., p. 273 (tr. it. cit., p. 450). 105.  Enz., III, pp. 272-273 (ibidem). 106.  Enz., III, p. 273 (tr. it. cit., p. 451). 107.  Enz., III, p. 275 (tr. it. cit., p. 453).

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del linguaggio in genere», e cioè il nome108. Quest’ultimo cancella, nella sua semplicità, il contenuto empirico dell’immagine, guadagnando inoltre in precisione e determinatezza: così è nei nomi che le cose acquistano cittadinanza «nel regno della rappresentazione»109. A quest’altezza, le osservazioni hegeliane sulla scrittura subiscono una torsione che le disloca, dal piano empirico-descrittivo della comparazione fra due apparati segnici, a quello più propriamente teoretico della co-implicazione di pensiero e scrittura alfabetica. Non si tratta più di valutare la rispettiva incidenza storica dei due tipi di scrittura, ma di precisare in che senso la semplificazione cui perviene il tipo alfabetico nei nomi si trovi in un rapporto di omologia strutturale con le modalità operative dell’«intelligenza» rappresentativa e pensante: Non solo l’intelligenza rappresentativa indugia nella semplicità delle rappresentazioni e le raccoglie di nuovo insieme dai momenti più astratti, nei quali sono state analizzate; ma anche il pensiero riassume il contenuto concreto dall’analisi, in cui esso è diventato un collegamento di molte determinazioni, nella forma di un pensiero semplice. Per entrambi, c’è bisogno di avere anche tali segni semplici riguardo al significato, che, essendo composti di più lettere o sillabe e anche divisi in esse, pure non rappresentano un’unione di più rappresentazioni.110

Certo, anche in questo caso, il termine di paragone è costituito dal linguaggio dei suoni: la prerogativa della scrittura alfabetica è appunto quella di conservare «il vantaggio della lingua fonica; vale a dire, in questa come in quella, le rappresentazioni hanno nomi, propriamente detti…»111. Tuttavia, il punto

108.  Ibidem. 109.  Loc. cit. supra, nota 56. 110.  Enz., III, § 359 Anm., pp. 275-276 (tr. it. cit., p. 453). 111.  Enz., III, p. 275 (tr. it. cit., p. 452).

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importante è che fra nomi e pensieri si stringa un vincolo non più solamente convenzionale, e che le proprietà per così dire formali della convenzione prodotta corrispondano secondo modalità strutturali, e che eccedono quelle della convenzione, alle operazioni che scandiscono in Hegel il funzionamento dell’intelligenza. Basta questo per dire che il pensiero, in quanto «ha bisogno» di nomi, «ha bisogno» anche della scrittura? L’interrogazione non è mai posta, da Hegel, in questi termini. Ma se la scrittura non viene messa in questione come tale, ciò non toglie che la sua definizione in quanto «attività esteriormente pratica» non sia in grado di rendere giustizia alla funzione e al «significato» che essa riveste per la costruzione del dispositivo hegeliano e la precipitazione «effettuale» dell’attività del Denken112. Anche da questo lato, il rapporto di condizionalità esterna fra scrittura alfabetica e pratica del pensiero si converte nell’assunzione interna, da parte di quest’ultimo, del presupposto che ne consente l’esercizio e il dispiegamento. La scrittura alfabetica non si limita, infatti, a fornire alla filosofia il materiale semiotico indispensabile alla sua Darstellung. Il punto è che l’esposizione non sarebbe in grado di realizzarsi né tantomeno di teorizzarsi se non sulla base dell’ostensione, programmaticamente perseguita, del fondamento su cui poggia e che in pari tempo distende nell’attuazione del dispositivo epistemico. La scomposizione alfabetica della lingua ri-­presenta continuamente, nel processo espositivo, il presupposto storico-­ contingente da cui soltanto esso poteva scaturire. La temporalità esteriore che contrassegna il giungere-­a-se-stesso del 112.  In proposito, abbiamo già notato come le interpretazioni «orali» della proposizione speculativa, e delle problematiche legate più in generale al tema dell’esposizione filosofica (pensiamo in particolare a Liebrucks e a Wohlfart), non siano in grado di portare tali questioni a chiarificazione ermeneutica e concettuale.

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pensiero ancora immerso nell’empiria, quest’ultimo se la ritrova incorporata nell’attimo del compimento, visto che anch’esso esige la scrittura, o meglio: come scrittura s’istituisce e «av­ viene»113. Certo i passaggi di cui si tratta non sono facili a riconoscersi: dalla parola risonante nel tempo e in esso immediatamente dileguante, attraverso la sua conservazione nell’interiorità di un’«intelligenza» che più non parla, al congelamento della sua vitalità nello spazio esteriorizzato della scrittura, il «superamento» dell’intera sfera vocale è doppiato da un altro, forse più sconcertante toglimento: quello che fa nuovamente irrigidire il tempo nello spazio. Così come quest’ultimo veniva a togliersi, per la Naturphilosophie, nel tempo, «altrettanto il tempo, giacché i suoi momenti opposti, tenuti assieme in uno, si tolgono immediatamente, è l’immediato precipitare nell’indifferenza, nell’esteriorità indifferenziata, ovvero nello spazio»114. Dal «superamento» reciproco dello spazio nel tempo, e del tempo nello spazio, sorgono i concetti di durata, luogo e movimento115. Ma non è sul piano della filosofia della natura che questo duplice movimento esaurisce la sua portata. Al contrario, esso investe questioni che eccedono irriducibilmente l’ambito della Naturphilosophie, e che riguardano l’assetto logico-sistemico

113.  Sul nesso scrittura-storicità come carattere strutturale della dialettica di Hegel, cfr. J. Derrida, Le puits et la pyramide, cit., p. 78. In rapporto agli scritti giovanili, cfr. R. Theis, L’écriture et son autre. Du rapport entre la philosophie et la théologie dans les écrits de jeunesse de Hegel, in «Freiburger Zeitschrift für Philosophie und Theologie», Bd. 28, 1981, pp. 177-205. 114.  Enz., II, par. 260, p. 55 (tr. it. cit., p. 238). 115.  Sui concetti di luogo e movimento, cfr. Enz., II, §§ 260 e 261, con relativi Zusätze, pp. 55-60 (tr. it. cit., pp. 238-240); sulla nozione di durata, oltre a supra, cap. II, p. 102 e nota 23, cfr. ancora Enz., II, § 264 e aggiunta relativa, pp. 64-66 (tr. it. cit., pp. 243-244).

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complessivo del pensiero hegeliano116. Come il raccoglimento del tempo nella totalità istantanea delle dimensioni infrangeva 116.  Del limite filosofico cui necessariamente deve restare vincolata una ricerca sul tempo in Hegel che non voglia oltrepassare l’ambito della Naturphilosophie si mostra consapevole D. Wandschneider. Nel paragrafo Die Zeitmodi und der Vorrang der Gegenwart (op. cit., pp. 100-104), egli intende il primato del presente non nel senso del semplice Jetzt, ma in quanto Makrojetzt, o ora universale (cfr. in proposito W. Bonsiepen, op. cit., p. 53 e p. 72; Enz., II, § 258, Z., p. 50; e inoltre, sull’interpretazione di B. Liebrucks, cfr. supra, cap. II, nota 59), in relazione al quale scrive: «In virtù del suo carattere integrativo, il macro-ora collega micro-stati passati e futuri in un presente, nell’orizzonte del quale solamente degli accadimenti possono in generale apparire come passati o futuri… Ciò che è presente esiste, dura, e dura in quanto esso è in sé molteplicità di ciò che è passato e futuro, il quale è racchiuso nell’unità di un macro-stato e mantenuto in latente presenza. Il presente è con ciò privilegiato», anche se appunto solamente «in questo senso, cioè come macro-ora» (D. Wandschneider, op. cit., pp. 103-104). Egli distingue quindi «due» presenti: il presente come semplice dimensione o «modo»; il presente come orizzonte comprensivo e unitario delle dimensioni. Solo quest’ultimo renderebbe possibile una «definierte Feststellbarkeit» del tempo, la quale a sua volta istituirebbe lo «sfondo» indispensabile per un concetto di tempo scientificamente definito» (ivi, p. 111). E tuttavia, qui il tempo appare simultaneamente compreso in senso spaziale… inteso come molteplicità quasi spaziale», cosicché «diventano visibili anche i limiti del concetto di tempo definito» (ibidem). In quanto è «ein Sichaufhebendes», l’ora «appunto come tale non è più jetzt-stellbar, e l’interpretazione dell’evento indica così verso un concetto di tempo, che lascia dietro di sé l’esigenza della definitezza, e in questo senso può solamente ancora essere pensato. Lo sviluppo del concetto di tempo definito conduce così infine a un concetto di tempo, che solleva la questione del rapporto fra tempo e concetto, una prospettiva, che diventa essenziale proprio nell’orizzonte del pensiero hegeliano» (ibidem). Ma su questo punto l’interpretazione di Wandschneider diverge da quella qui sostenuta. Egli, infatti, sulla scorta di alcune asserzioni hegeliane contenute nell’Enciclopedia, ritiene il compito «di rendere il tempo davvero pensabile secondo il suo concetto» circoscritto dalla nozione di divenire (ivi, p. 105); al contrario, secondo noi l’attuazione di questa «pensabilità» in Hegel è quanto conduce a concepire la «Zeit als Zeit» come eternità, come cristallizzazione e arresto, anche, di quel divenire che se fosse incessante sancirebbe la definitiva finitezza del tempo. Ma porre la nozione di eternità al centro dell’ermeneutica della trattazione

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la cornice della filosofia della natura, e nell’eternità speculativa veniva a indicare le modalità di auto-costituzione dell’esposizione filosofica, così lo «sprofondamento» del tempo nell’esteriorità indifferenziata e irrigidita dello spazio minaccia anche l’ora dell’eternità e del dispiegamento concettuale. Certo, la connessione di cui si tratta non va intesa in maniera meccanica. I momenti del tempo «tenuti assieme in uno» e che perciò «si tolgono immediatamente» indicano un temhegeliana del tempo significa oltrepassare l’intero orizzonte della Naturphilosophie. Ciò conduce a problematizzare anche l’analisi che degli Zeitmodi fornisce Wandschneider, a chiederci se sia possibile, sulla base della concezione speculativa del tempo, ipotizzare un primato del presente, in qualsiasi forma quest’ultimo venga inteso, o se ciò non sia fin da principio vanificato dal fatto che non soltanto, fra le dimensioni, il passato costituisce la verità del tempo, ma che nel passato tutta questa sfera precipita come totalità: in tal caso, l’eccedenza della comprensione speculativa del tempo rispetto alla definizione di quest’ultimo fornita dalla scienza, anche relativistica, risulterebbe ulteriormente rafforzata. Il problema dei rapporti fra verità, eternità e tempo è affrontato nel saggio di D. Wandschneider - V. Hösle, Die Entäusserung der Idee zur Natur und ihre zeitliche Entfaltung als Geist bei Hegel, in «Hegel-Studien», Bd. 18, 1983, pp. 173-199. Sulla Logica hegeliana, gli autori scrivono: «Questa logica è un’opera dello spirito, e ciò significa appunto: un esporre [Auseinanderlegen; N.d.A.] successivo di ciò che in sé è al di fuori del tempo, ma che ha bisogno del tempo per realizzare le sue determinazioni… Soltanto in sé l’idea logica è divina, sovratemporale. La sua realizzazione appartiene necessariamente al tempo» (ivi, p. 198). Così, la concezione hegeliana viene affiancata a quella platonica del tempo come immagine in movimento dell’eternità (cfr. ivi, p. 197, nota 37, dov’è riportato il passo del Timeo, 37d 5). Ma poiché il pensiero in Hegel attua il suo svolgimento come unificazione dialetticamente producentesi di in sé e per sé, ciò a nostro avviso comporta che l’eternità, nella sua nozione speculativa, non può comunque trovarsi, nemmeno «in sé», oltre la sua realizzazione nell’esposizione filosofica, ma che piuttosto «esiste» soltanto entro le scansioni in cui il dispositivo della Darstellung si articola, incorporata e «già da sempre» intrecciata al movimento che l’istituisce e la realizza. Per un ulteriore approfondimento dei problemi in questione, cfr. infine D. Wandschneider, Die Absolutheit des Logischen und das Sein der Natur, in «Zeitschrift für philosophische Forschung», III, 1985, pp. 331-351.

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po non ancora pervenuto al suo concetto, e sembrano quindi svincolare l’eternità, «che è senza il tempo naturale»117, dalla necessità di ricadere nello spazio. Tale necessità resta per il momento riservata al tempo della rappresentazione e della cronologia, che per un movimento interno al suo contenuto logico si trova «costretto» a collassare nell’immoto Aussereinander dello spazio. Ancora una volta, uno sguardo ai testi jenesi può consentire di articolare ulteriormente il senso di tale passaggio. Ciò non soltanto perché in essi le modalità della transizione vengono scandite più puntualmente, ma perché vi entra in gioco direttamente la dimensione del passato. Abbiamo visto come in quest’ultimo il tempo si raccogliesse nella totalità delle sue dimensioni, come di conseguenza la finitezza dell’astrazione e la permanenza al di qua della soglia del reale si ri-­producessero proprio nell’attimo della realizzazione conseguita. Ora, la declinazione al passato della totalità non comporta soltanto l’indefinito differimento della sua attuazione dispiegata, non indica solo il mancare a se stesso, da parte del tempo, proprio nell’ora in cui dovrebbe pervenire al suo concetto, ma sta a significare l’eclissarsi, al di qua di sé, di tutta la sfera della Zeit. Che il passato sia la totalità del tempo vuol dire infatti che la totalità del tempo è – da sempre – trascorsa e «passata», sottratta a se stessa e ricondotta quindi alla sua intemporale provenienza, al fondamento dal cui superamento scaturiva – e cioè allo spazio: Il tempo tramonta nel passato come nella sua stessa totalità, ovvero questa dimensione ne è l’enunciato toglimento. Che ciò sia la sua verità, sta nell’immediatezza dell’auto-­toglimento dei momenti, cioè del loro non-sussistere. Ma il tempo è solo questo differenziare; in quanto le sue differenze non sono, esso non esiste; e in questa immediatezza dell’auto-­toglimento es117.  Enz., II, § 258, Z., p. 50.

196 se non sono. Il tempo è la pura mediazione, che però sprofonda nell’immediatezza. Come lo spazio il tempo, così quest’ultimo ha come suo risultato lo spazio.118

Nell’ora dell’eternità, le dimensioni sopprimono la loro determinatezza, si compenetrano l’una nell’altra e cessano di esistere come separate; ma con l’annullamento delle dimensioni giunge ad annullarsi il tempo stesso, che consisteva appunto nell’ininterrotto avvicendamento dei suoi momenti. Allo scavalcamento reciproco delle dimensioni fa quindi seguito la configurazione nella forma del concetto del movimento della differenza, al divenire dileguante dei momenti temporali il raccoglimento non più transeunte nella complessità dell’attimo eterno. E infatti, l’eternità esprime il toglimento mediato della finitezza temporale; in essa, le dimensioni vengono soppresse in quanto astrattamente separate l’una dall’altra, ma nell’istantanea concretezza che designa la totalità dell’ora eterno, irriducibilmente contratto eppure articolato, restano anche conservate. È in virtù di tale movimento che l’eternità da un lato annulla la «naturalità» del tempo, e dall’altro scavalca l’orizzonte della Naturphilosophie, eccedendolo in direzione dell’auto-­svolgimento del concetto. Viceversa, alla risoluzione speculativa del tempo, così impostata, Hegel contrappone il suo dissolvimento puramente «immediato» e rappresentativo-­naturale. Ed è di questo che si tratta nel testo jenese sopra citato. L’avvicendamento reciproco delle dimensioni non giunge a contrarsi nell’intramontabile «adesso» della totalità temporale, ma procede indefinitamente al toglimento dei singoli momenti, senza che la successione puramente lineare delle dimensioni si ripieghi nello Jetzt della loro compenetrazione articolata. A livello rappresentativo-naturale, una dimensione viene rilevata dall’altra, all’ora del presente segue l’ora successivo e altrettanto evane118.  J.S.III, p. 14.

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scente, e così via: moto rettilineo e interminabile, che sfocia nell’incessante ripetizione di un toglimento e di una ripristinazione egualmente a-dialettici. In tal senso, le dimensioni si tolgono vicendevolmente l’una con l’altra, si ripresentano e tornano a scomparire, senza mai poter chiudere la linearità del processo nel circolo della totalità, in cui l’eternità sarebbe realizzata e quel movimento finalmente sublimato in forma. Lasciando semplicemente il loro «posto» ad altro, esse soggiacciono a un ininterrotto dileguarsi, che non si acquieta in alcun risultato, e in cui esse si trovano «immediatamente» sostituite dal momento seguente, senza venirne simultaneamente conservate. Così, al loro toglimento «immediato» e unilaterale corrisponde il toglimento, altrettanto unilaterale e «immediato», del tempo medesimo, che di esse consiste, e che solo nella forma della loro articolazione si produce. L’annullamento del tempo non infrange quindi, in tal caso, il quadro della filosofia della natura; il tempo non si raccoglie nello Jetzt dell’eternità, non si media con sé in quanto processo di toglimento/conservazione dei singoli momenti. Al contrario, resta imbrigliato nella sua naturalità e finitezza, attua un superamento di sé che non conduce a spezzare il decorso della Naturphilosophie, bensì resta inevitabilmente incluso e funzionale a quest’ultimo. È da questo lato, allora, che il tempo ri-diventa spazio, e che lo spazio si ripresenta come suo risultato, così come da lui risultava il tempo. «Due» toglimenti paiono quindi aver luogo: quello del tempo nell’eternità, e quello del tempo nello spazio. Il primo conduce al di fuori della Naturphilosophie, si disloca all’altezza dell’articolazione logico-sistemica, dello svolgimento espositivo e concettuale; il secondo ripiega il tempo nella filosofia della natura, lo riconduce allo spazio e consente quindi la prosecuzione della Naturphilosophie, che nell’unità conseguita di

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spazio e tempo trova il terreno su cui far procedere il suo ulteriore sviluppo. L’eternità sembra così sottrarsi all’immobilizzazione nello spazio, cui va soggetto il tempo rappresentativo-naturale. E ciò è del resto profondamente coerente con l’impostazione hegeliana del problema. Ricondurre l’eternità allo spazio, infatti, significherebbe comprometterne l’eccedenza nei confronti di tutta la sfera della natura, precipitarla nuovamente dal piano del concetto a quello del divenire naturale, meramente accidentale e incapace di mantenere le distinzioni teoretiche119. In questo senso, nell’Enciclopedia Hegel non si limita ad affermare che l’eternità è «senza il tempo naturale», ma con formulazione forse ancor più pregnante dal punto di vista concettuale, precisa che essa è anche «diversa dalla durata»120. E la durata, come abbiamo visto, è il primo concetto risultante dall’unità di tempo e spazio, dal movimento del superamento e della confluenza reciproca l’uno nell’altro. Che l’eternità sia senza durata significa allora che nell’eternità si concentra una «unità» istantanea, nella quale il moto incessante dell’avvicendamento e del toglimento «immediato» delle dimensioni si arresta, senza ricadere nell’immobilità propria dell’indifferenziato Aussereinander dello spazio. In quanto è «senza il tempo naturale» e «diversa dalla durata», l’eternità costituisce il «tempo come tempo»; esprimendone l’intensificazione massima, ne istituisce il toglimento e simultaneamente il compimento, il «superamento» nel quale il tempo si trova realizzato e giunto al suo «concetto». Se a 119.  Sull’«impotenza della natura» consistente nel «mantenere le determinazioni del concetto solo astrattamente, ed abbandonare l’esecuzione del particolare alla determinabilità esterna», cfr. Enz., II, § 250, p. 34 (tr. it. cit., p. 224), e più globalmente sul concetto di natura i §§ 247-251, pp. 24-37 (tr. it. cit., pp. 221-226). 120.  Cfr. Enz., II, § 258, Z., p. 50.

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Jena il tempo è definito «pura mediazione, che però sprofonda nell’immediatezza»121, l’eternità s’instaura come mediazione che sfugge al destino di quella caduta, perché comprende l’immediatezza già in sé come suo momento: quello dell’istantanea concentrazione delle disperse dimensioni nella totalità dell’ora eterno. Quest’ultimo dovrebbe dunque sottrarsi alla precipitazione nello spazio anche da questo lato, in quanto cioè è mediazione che il tempo attua con se stesso nell’attimo della coagulazione entro lo Jetzt del compimento, in quanto è il portato di un movimento che media l’immediatezza dei suoi momenti nel circolo mediante cui s’instaura la totalità. Essendo «tempo come tempo», del resto, la quiete di cui l’eternità si fa portatrice è tutt’altro che incompatibile con la nozione di movimento; al contrario, la sua processualità designa le modalità atemporali di un divenire che sfugge, secondo le scansioni analizzate in precedenza122, alla successione temporale, ma che non cessa per questo d’istituire un effettivo processo di sviluppo. Così, nulla pare opporsi allo spazio quanto l’eternità hegeliana – mediazione d’immediatezza e mediazione tanto quanto lo spazio è immediatezza bruta e astratta; intensificazione e concentrazione nella concretezza dell’ora di momenti che lo spazio mantiene giustapposti l’uno fuori dell’altro, in indifferenza insuperabile; quiete e arresto, la cui compiutezza però non significa affatto immobilità, bensì le specifiche modalità di svolgimento dell’esposizione filosofica: sottratta al flusso cronologico del tempo finito e «naturale», ma non per questo (anzi, per Hegel, è esattamente il contrario) sviluppo meno effettivamente diveniente; istanza insomma nemmeno opposta, quanto piuttosto irriducibilmente «altra» rispetto all’inerte esteriorità dello spazio. 121. Cfr. supra, nota 118. 122. Cfr. supra, cap. II, in part. §§ 3 e 4.

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E certo, se la scrittura mortifica la vibratilità del linguaggio, distendendo il suono sul piano immobile dello spazio pagina, se in essa il «tremolare» della parola nel tempo viene congelato su di un frammento d’estensione e indifferente Aussereinander, essa non sembra in grado di catturare l’eternità, né tantomeno di convogliarla entro le scansioni di un’esposizione e di un libro. Come il tempo si toglie «immediatamente» nello spazio, ma in senso speculativo nell’Ewigkeit atemporale del concetto, così la parola può esaurire la sua momentanea esistenza fra le pagine di un libro, precipitare fra gli inerti caratteri di una scrittura, ma anche, in un senso più omogeneo al dettato hegeliano, restare custodita nell’interiorità dell’intelligenza pensante, permeata del significato di cui già all’esterno faceva mostra, e che la riserva ora, tutta interiorizzata, nella silenziosità dello spirito: La parola, in quanto risonante, svanisce nel tempo; questo così si dimostra in quella come negatività astratta, cioè solo distruttiva. La verace, concreta negatività del segno linguistico, invece, è l’intelligenza, perché tramite questa la parola viene mutata da un che di esterno in un che d’interno, e in questa forma trasformata viene conservata. Così le parole diventano un esserci animato dal pensiero.123

Sfuggendo allo spazio, l’eternità pare quindi doversi necessariamente sottrarre anche alla pratica della scrittura filosofica, chiudersi nell’attività di un pensare che, per quanto linguisticamente strutturato, si riserva nell’interiorità silenziosa dello spirito124.

123.  Enz., III, § 462, Z., pp. 279-280. 124.  Al contrario, secondo G. Wohlfart, Über Zeit und Ewigkeit in der Philosophie Hegels, in «Wiener Jahrbuch für Philosophie», XIII, 1980, pp. 141165, l’eternità si attua in Hegel attraverso il movimento incorporato nella proposizione speculativa: «Il superamento del tempo, comunemente rappresentato come linea, viene pensato solo nella proposizione filosofica, in cui

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Tuttavia, proprio il testo jenese sopra citato125 mostra come i rapporti fra eternità e spazio vadano concepiti in maniera ben più articolata e complessa, e fa emergere, nuovamente, il ruolo cruciale che per l’istituzione del tempo in eternità viene a essere svolto dal passato. Se infatti la totalità del tempo si declina in questa dimensione, o l’ora dell’eternità (il «terzo» ora) rischia di non potersi mai instaurare, oppure il passato risorge di continuo a vanificare il «passaggio» dal tempo «naturale» al «tempo come tempo», insinuando irrevocabilmente,

il movimento del concetto non procede come di solito mono-linearmente dal soggetto al predicato, bensì è un movimento tanto progressivo quanto anche regressivo, in cui il soggetto dal predicato speculativo viene per così dire rigettato su se stesso come da uno specchio» (p. 154). Tuttavia, come più tardi nel suo libro, anche qui Wohlfart intende per «soggetto» l’io filosofico, e non il contenuto della Sache selbst. Egli da un lato dice, giustamente, che «il senso filosofico della proposizione speculativa è il movimento della rappresentazione religiosa dell’attimo divino» (ivi, p. 155); dall’altro, però, «il concetto» sarebbe «null’altro che io, ovvero la pura autocoscienza» (ibidem). Tale riduzione del concetto all’io è necessaria dal momento in cui s’intenda la proposizione speculativa come proposizione oralmente pronunciata. Ciò per un verso comporta la contrazione della problematica concernente l’attuazione della Darstellung filosofica entro le coordinate fissate dalla proposizione speculativa: «Il tempo vero, concepito è… il metodo speculativo, che nella proposizione speculativa si espone come il metodo, tanto progressivo quanto anche regressivo, della traduzione delle parti proposizionali» (ivi, p. 157); mentre abbiamo visto come la semplice proposizione speculativa non sia in grado di esporre e di enunciare il movimento in essa ancora solamente pensato. In Wohlfart, tale posizione ermeneutica conduce coerentemente a una comprensione in senso intuizionistico del «contraccolpo» speculativo. Dall’altro, della proposizione speculativa si perde la specificità tutta filosofica, ed essa (secondo la linea interpretativa inaugurata da B. Liebrucks) viene ricondotta al livello di semplice linguaggio: «Nella riflessione filosofica si tratta del ripensamento e della ricostruzione concettuale di questo movimento, che dapprima si svolge inconsapevolmente, e che ogni proposizione del linguaggio possiede in sé in quanto è avvertita, e cioè assunta con ragione» (ivi, p. 158). 125. Cfr. supra, pp. 195-196.

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nell’istante dell’eternità, il movimento della ricaduta al di qua del «verace presente», che si dovrebbe realizzare nel concetto. Ma non occorre ripetere qui la dimostrazione di come la finitezza delle dimensioni riemerga al centro dell’eternità, che pure si istituisce. Il momento che dobbiamo sottolineare, in questo contesto, è dato dal fatto che se il raccoglimento della temporalità nel suo concetto resta gravato da un residuo insuperabile di finitezza. Se l’eternità, in quanto «concetto del tempo», risprofonda a sua volta in un passato, il quale è sì totalità, ma declinata pur sempre al modo di una dimensione singola e finita; se tale dimensione inghiotte la totalità del tempo nel passato e come passato, come qualcosa di «atemporalmente» trascorso e scivolato al di qua della soglia della realtà e del presente – allora anche l’eternità si trova investita dal movimento di precipitazione e di congelamento, che trascina tutta la sfera del tempo nell’esteriore immobilità dello spazio. L’eternità, in questo caso, verrebbe a svolgere una funzione non tanto ambigua, quanto profondamente sdoppiata, e in un senso che pare scontrarsi con le modalità della ricomposizione dialettica. Da un lato, non è possibile negare, come abbiamo visto, che in essa Hegel giunga a pensare un’istanza eccedente, e per così dire trasgressiva, rispetto all’orizzonte tracciato nella Naturphilosophie. Dall’altro, tuttavia, proprio per pensare un’eternità «senza il tempo naturale» e «diversa dalla durata», egli si trova costretto a innescare un movimento che ripristina la finitezza delle dimensioni e del tempo medesimo, o più precisamente: che instaura la totalità del tempo e l’eternità solo simultaneamente declinandole nei termini di una dimensione singola – quella del passato, che sancisce la scomparsa del tempo dalla superficie della realizzazione e della presenza, e lo riconduce allo spazio. Tale sdoppiamento impone di pensare la compresenza, all’interno del medesimo plesso problematico, di due concezioni contraddittorie in maniera forse irrecuperabile a ogni «conciliazione» speculativa, ma che per

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la loro stessa incompatibilità esigono di essere concepite come egualmente necessarie. Ripercorriamo schematicamente i passaggi che articolano questo movimento dialettico, scandendolo secondo modalità che tanto più ci costringono a pensarlo, quanto più si avvicinano al limite dell’im-pensabilità più radicale. Da una parte, abbiamo seguito le peripezie del tempo rappresentativo-naturale, il ciclico avvicendamento delle dimensioni che si sostituivano «immediatamente» l’una all’altra e toglievano quindi, altrettanto immediatamente, il tempo stesso. L’immediatezza di tale toglimento era poi quanto riconduceva il tempo allo spazio. Dall’altra, abbiamo visto come l’eternità venisse designata da Hegel come «pensiero del tempo» e «unità» delle dimensioni; come vi s’istituisse un presente irriducibile a quello dell’ora «naturale» e finito (il «terzo» ora); come infine l’eternità, esprimendo il tempo compreso nel suo concetto – il concetto del tempo – si sottraesse alle vicende della Naturphilosophie, ne eccedesse i limiti e ne infrangesse i confini, per dislocarsi all’altezza delle modalità logico-sistemiche che scandiscono il ritmo di costituzione dell’esposizione filosofica. Ma proprio da questo versante, quando il «tempo naturale», la «durata» e insomma l’intero ambito della Naturphilosophie parevano lasciati alle spalle, abbiamo visto emergere un punto d’intersezione e in pari tempo di sfasatura, fra la prospettiva rappresentativo-naturale e quella speculativo-concettuale. Nel corto-circuito così prodotto dal loro impatto, l’eternità emergeva come ancora gravata dal tempo della rappresentazione e della natura; la totalità delle dimensioni, che in essa doveva realizzarsi e si realizzava come presente atemporale, risultava in pari tempo contratta e vincolata a una singola dimensione; l’articolata presenzialità dell’ora eterno veniva infine altrettanto atemporalmente risucchiata al tempo di un passato, che la riconduceva al di qua di sé, sotto la soglia della realizzazione e dell’essere. Abbiamo visto così come l’eternità sfuggisse alla

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precipitazione nello spazio cui restava soggetto il tempo, ma come anche, simultaneamente, proprio nell’attimo in cui vi si sottraeva, fosse coinvolta nel movimento che congelava la «mediazione pura» del tempo entro la rigida e morta immobilità dello spazio, venisse trascinata entro la medesima, immediata esteriorità, in cui già il «tempo naturale» risultava pietrificarsi. Se in qualche modo è possibile circoscrivere il luogo entro il quale pensare in Hegel il problema della scrittura, è per noi indubbio che esso si situi all’altezza della complessa rete di rapporti che stringe in unico vincolo eternità, tempo e spazio. Certo, Hegel non ha mai pensato questo luogo in quanto tale, e nella misura in cui esso è sfuggito alla riflessione problematizzante del «concetto», alla presa di quest’ultimo doveva in certo modo necessariamente sfuggire anche il problema della scrittura. O meglio: la scrittura non poteva istituirsi in problema perché questo pensiero veniva a essere inscritto proprio all’interno delle coordinate che orientano sulla scrittura l’interrogazione ermeneutica. Volgere la ricerca in questa direzione, significa allora elevare alla dignità di problema per il pensiero ciò che in Hegel non emerge mai come tale, ma verso il quale le linee portanti della sua riflessione convergono, indicandolo come snodo essenziale per chi voglia afferrare le modalità che conducono questa filosofia alla sua configurazione epistemica. Di quest’ultima, la scrittura costituisce un momento imprescindibile, in quanto vi giungono a condensazione da un lato la linguisticità del pensiero, e dall’altro la spazializzazione cui anche l’eternità va soggetta. È proprio la ricaduta dell’eternità nell’esteriore immobilità dello spazio, la distensione dell’ora della totalità temporale entro l’immoto Aussereinander, che consente di approfondire da un nuovo e più radicale punto di vista il significato assunto dalla scrittura entro le maglie di questo pensiero. Infatti, se già le osservazioni che su quest’ultima venivano condotte nell’Enciclopedia tendevano a superare il rapporto di mera convenzionalità istituito in un primo tempo

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fra la scrittura alfabetica e le modalità operative dell’intelligenza «rappresentativa e pensante», la spazializzazione dell’eternità esclude sin da principio la possibilità d’interpretare in termini di pura strumentalità il nesso che vincola la verità alla scrittura della sua esposizione. Certo, non è solo in quanto pratica di scrittura che la filosofia s’istituisce in apparato epistemico. Ma il legame che stringe pensiero e scrittura non va inteso neppure come una connessione, che dal punto di vista filosofico resterebbe comunque estrinseca e strumentale, fra contenuti di pensiero e mezzo di cui quest’ultimo si serve per la loro espressione. Piuttosto, come la scrittura alfabetica incorporava la dimensione della storia nell’atto stesso con cui la verità si strutturava in esposizione, pervenendo in tal modo a «realizzare» se stessa, così ora, dal lato della spazializzazione dell’eterno, essa è la cifra di una finitezza che nell’eternità non si lascia assorbire senza residuo, e deposita infine le sue tracce nei caratteri mediante cui si articola lo spazio della Darstellung. Che l’eternità s’incorpori, si produca e si attui solo entro le cornici dell’esposizione, che essa possa aver luogo esclusivamente su di uno spazio solcato dai segni della scrittura, designa in effetti il portato di un movimento specifico, dato dal riemergere, all’interno dell’eternità stessa, della finitezza del tempo, che promuovendone il raggiungimento pure ne differisce la coagulazione entro l’«unità» dell’ora eterno. Perché l’eternità precipita nello spazio appunto in quanto in essa il tempo non può esistere puramente «come tempo», perché per affermarsi «senza tempo naturale» e in maniera «diversa dalla durata» in lei giungono continuamente a riprodursi sia l’uno che l’altra. E ambedue, tempo e spazio, si ripristinano nel momento in cui vengono superati, nell’ora insomma della totalità delle dimensioni, proprio perché tale totalità, in cui l’eternità consiste, si è trovata già coniugata al tempo del passato, entro una dimensione singola e finita, ma soprattutto di una dimensione che,

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per definizione «trascorsa» e ricaduta sotto la soglia dell’effettualità e del presente, sembra rendere impossibile la «ripresa» del tempo nell’eternità del «terzo» ora. L’ora dell’eternità si ridistende in spazio perché si coniuga alla dimensione del passato. La spazializzazione dell’eternità emerge come portato specifico dalla sua finitezza, così come quest’ultima scaturisce dal movimento per cui la totalità delle dimensioni s’instaura solo restringendosi nella Vergangenheit. Sul passato non cessano quindi di accumularsi significati, relativi non solo allo spazio in cui l’eternità si distende, ma anche e soprattutto alla scrittura mediante cui esso si articola. Di quest’ultima, il passato designa la paradossale anteriorità nei confronti del pensiero – paradossale perché quello che sembrava un semplice strumento dell’«intelligenza» mostra al contrario di costituire l’imprescindibile presupposto del pensiero e della sua esposizione. Questi trovano il loro radicamento nell’invenzione semiotica che ha condotto a scomporre alfabeticamente i suoni della lingua, vengono riannodati – nel passato – al condizionamento storico sempre di nuovo assunto, incorporato, ri-presentato mano a mano che la Darstellung procede al dispiegamento del suo proprio dispositivo epistemico. Il passato indica così lo sprofondamento nella scrittura dell’eternità medesima – un’eternità che si scopre irrealizzata nel movimento stesso con cui non cessa di realizzarsi, che per rea­ lizzarsi è di necessità votata a ir-realizzarsi, a mancare a se stessa e a riattivare nuovamente il ciclo della saturazione dello spazio e del vuoto, che nel suo stesso centro si dischiudono. Da tali aperture, la scrittura scaturisce sempre di nuovo come articolazione e pratica di finitezza, come l’esposizione di un’eternità che costantemente manca a se stessa perché costantemente inghiottita dal passato e ri-distesa sull’immoto Aussereinander dello spazio. Al «circolo di circoli» descritto dal sistema, i conti tornano, per così dire, solo nella misura in cui ne avanza un resto, che sfasa di continuo la coincidenza di que-

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sto pensiero con se stesso, e che proprio così, per l’eccedenza che dall’interno scuote e vanifica la dialettica, la mette in moto. Ma come parlare di movimento restando presi dentro le maglie della scrittura? Come affrontare e intendere, a questo nuovo livello di complicazione, la finitezza che si espone nel processo di spazializzazione dell’eternità? E infine: come definire, nel suo statuto specificamente dialettico, il rapporto sussistente fra l’attività del Denken e la scrittura? L’esposizione, in cui quest’ultimo perviene a compimento, lo immobilizza simultaneamente nell’esteriorità di uno spazio, che è quello stesso in cui l’eternità precipitava giungendo in pari tempo a realizzarsi. In altri termini, il pensiero si spazializza nell’esposizione scritturale così come in essa si spazializzava l’eternità. Spazializzazione dell’eternità e spazializzazione del Denken costituiscono le fasi, simultanee, di un movimento di pensiero che attraverso queste tenta di ripristinarsi nell’identità con sé: basti ricordare la definizione jenese dell’eternità come Gedanke der Zeit. L’eternità e il pensiero trovano entrambi attuazione nell’esposizione filosofica, ambedue precipitano nello spazio circoscritto dalla Darstellung; in quanto linguisticamente articolati, ambedue istituiscono il processo della loro realizzazione sul piano della scrittura. Ma allora: come concepire quest’ultima in termini di processualità diveniente? Come esporre, sulle pagine di un libro, il movimento come movimento? Tanto più che, nel momento in cui Hegel precisa la necessità della continua rielaborazione della Darstellung126, risulta impossibile ipotizzare un movimento di produzione della scrittura ininterrottamente fluente, tale da coincidere istantaneamente con l’intentio significatrice di chi scrive, sino quasi a rendersene indistinguibile. La distinzione fra lato del produrre e lato del prodotto è resa vana proprio dalla specificità della produzione scritturale, 126. Cfr. W.d.L., I, pp. 21-22 (tr. it. cit., p. 22).

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dal fatto che in essa l’attività s’interrompe e si arresta nel momento stesso in cui si svolge. Non soltanto gli spazi che scandiscono la sequenza dei termini, separandoli gli uni dagli altri ed evidenziandoli sul vuoto di uno sfondo esteso, impongono la frammentazione e l’interruzione come modalità dello scrivere, che se da un lato procede costantemente alla ripresa e ripetizione di sé, dall’altro è di nuovo costretto a sospendersi e ad arrestarsi. Il punto è che il divenire della scrittura si dà come immediatamente interrotto e pietrificato: il non-esserpiù-in-grado di scaturire è la soglia contro la quale il moto della scrittura continuamente s’infrange, mentre questo non-poterpiù riprendersi dal riflusso delle parole nell’immobilità dello spazio è ciò che forse impedisce d’intendere la scrittura alla stregua di attività pura e semplice – ciò che nel suo esercizio indicherebbe piuttosto la pratica, senz’altro paradossale, di una passività inestirpabile, che nel tramite di una strutturazione da essa stessa resa possibile, se ne scoprirebbe all’origine come già da sempre inarticolata e inarticolabile127.

6. «Denken» e «Darstellung»: l’apertura dell’esposizione Ma se nella scrittura l’esperienza della produzione del senso fa irruzione assieme alla contemporanea perdita del Sé, se in essa l’esercitazione della morte e dell’espropriazione del soggetto si attua in veste del loro costante differimento, quella

127.  Il pensatore contemporaneo che più ha approfondito, dal versante filosofico, le problematiche legate alla scrittura, è Jacques Derrida, sul quale ora cfr. J. Habermas, Il sopravanzamento della filosofia temporalizzata dell’ori­ ginario: la critica di Derrida al fonocentrismo, cap. VII del suo Der philosophische Diskurs der Moderne. Zwölf Vorlesungen, Suhrkamp, Frankfurt a.M. 1985; tr. it. di Em. e El. Agazzi, Il discorso filosofico della modernità. Dodici lezioni, Laterza, Roma-Bari 1987, pp. 164-188.

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d’istituirsi come pratica di finitezza non risulta per essa una determinazione superabile. E in un’accezione che assume in Hegel rilievo specifico, se è vero che per lui lo sprofondamento dell’eternità e del Denken nell’esteriorità della scrittura non può ricevere l’ultima parola. Non tanto perché la scrittura, così come il segno in generale, svela la sua peculiare valenza semiotica solo in quanto riserva un significato in essa riposto dall’«intelligenza» spirituale, perché insomma quella valenza s’innesca solo in rapporto alla comprensione instaurata, nei suoi confronti, dal soggetto che quelle parole dice o scrive, legge o ascolta. Bisogna andare oltre la riconduzione di questo rapporto all’unificazione dialettica di soggetto e oggetto, per intendere la posta in gioco a tale livello nella sua rilevanza specificamente teoretica. Ciò richiede la messa in luce della funzione epistemica che lo sprofondamento dell’eternità e del Denken nello spazio espositivo della scrittura riveste nella strategia di costituzione del dispositivo scientifico hegeliano – funzione che s’intreccia con l’impossibilità, per questo pensiero, di acquietarsi nella sua «Darstellung». Non si tratta più solamente della relazione fra segno e significato, parola e scrittura; la questione verte piuttosto sul plesso nevralgico che stringe assieme spazializzazione di eternità e tempo, pensiero e linguaggio, da un lato, e riconversione in tempo di ciò che nella scrittura della Darstellung si trova spazializzato e irrigidito, dall’altro. Le interrogazioni su finito e infinito, soggetto e oggetto, attività e passività, processo e risultato, si possono dunque forse contrarre nel quesito: come ri-temporalizzare la «Darstellung»? In che senso può e deve essere possibile la temporalizzazione di questo spazio concettuale e linguistico? È all’attività del Denken che spetta di temporalizzare nuovamente la sua realizzazione nell’esposizione, di riattivare e in certo modo rivitalizzare la sua morta spoglia scritturale. Se nella Darstellung deponeva le forme del suo compimento, il

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Denken non cessa però di ripristinarsi come processo diveniente, decorso di produzione e svolgimento delle sue proprie determinazioni, che dal momento in cui si trovi già consolidato nella figura dell’esposizione, non può instaurarsi se non al modo della riconversione in tempo di quest’ultima. Ma per scongiurare la cattiva infinità di un’oscillazione interminabile fra risoluzione dello spazio dell’esposizione in tempo e ricaduta inevitabile del tempo nello spazio, la temporalizzazione della Darstellung da parte del pensiero deve istituirsi secondo modalità non-naturali – il tempo che riemerge non dev’essere quello naturale, vincolato alla successione delle sue dimensioni finite e alle operazioni astrattive della Vorstellung, bensì il «tempo come tempo» dell’eternità speculativa, immobilizzato nella finitudine spaziale dell’esposizione, e re-innescato infine dall’attualità del pensiero pensante se stesso, nella Darstellung peraltro già compiutamente realizzato. Così, da un lato, l’attività del Denken che si esercita sulla Darstellung porta alla ripristinazione dell’eternità; ma, dall’altro, nell’esposizione l’eternità è già presente e già in atto. Anzi, propriamente, solo l’esposizione fa irrompere l’eternità nel tempo della storia. In tal modo, il pensiero hegeliano assume un andamento del tutto conforme alla «cosa», e in pari tempo quasi insostenibile. Perché l’eternità non intende affatto sganciarsi dalla finitudine della scrittura; al contrario, essa designa la strutturazione in dispositivo epistemico della scrittura medesima, le articolazioni che consentono a quest’ultima di dispiegarsi come totalità espositiva. E tuttavia, disponendosi entro lo spazio circoscritto dalla Darstellung, l’eternità deve suo malgrado accettare di realizzarsi solo in quanto torni continuamente a venir meno a se stessa. Questa sorta di «scacco perpetuo» cui l’eternità va soggetta è poi doppiato dall’altro, che vincola l’attività del Denken a ripercorrere la sua figura irrigidita nell’esposizione scritturale. Così, dentro il processo della ri-temporalizzazione, il mortuum della

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scrittura sembra emergere come il vero e proprio «assoluto», l’irredimibile cui si avvolge il Denken perché proprio in esso si decide della sua potenza, perché proprio in esso si articola il dispositivo epistemico della categorizzazione e strutturazione, in pari tempo conoscitiva e ontologica, del reale. Il «Denken» è anch’esso inevitabilmente spazializzato, così come l’eternità da lui continuamente posta in atto: l’eternità si realizza nella misura in cui si espone e, per esporsi, si scrive; l’attività del «Denken» è anch’essa compiuta soltanto in quanto è linguisticamente esposta e, per esporsi, si spazializza. L’eternità si ridistende in spazio; il Denken si pietrifica in scrittura; ambedue cadono e s’intersecano entro il perimetro della Darstellung. Per quanto solcati da aporie e paradossi, si tratta comunque di rapporti funzionalmente efficaci per l’attuazione di ciò che in Hegel viene a chiamarsi «sistema scientifico» della filosofia128. Nell’intervallo aperto fra pensiero ed esposizione, fra la spazializzazione dell’eternità e la sua costante riattivazione, non va scorto soltanto ciò che continuamente risorge a inceppare il movimento della dialettica. In quell’intervallo, infatti, quest’ultima dispiega l’esser-divenuto della sua attuazione, assieme alla ripetizione attualizzante che nuovamente la risolve in divenire in atto. E in questa stretta implicazione, l’interrogazione su finito e infinito, risultato e processo, tenta di pervenire in Hegel al suo concettuale acquietamento. Ma in cosa consiste, precisamente, questa «tenuta» reciproca di Denken e Darstellung? In che senso da/in questa implicazione scaturisce la realizzazione della verità, da Hegel tutt’altro che arbitrariamente asserita? Verrebbe in tal modo il Denken a «superare» lo statuto rappresentativo che nell’Enciclopedia pareva ancora imprigionarlo? Potrebbe forse la sua attuazio-

128.  Sul «sistema scientifico» come «vera figura nella quale la verità esiste», cfr. V., p. 12 (tr. it. cit., p. 4), e supra, cap. I, nota 74.

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ne come sistema superare la figura che esso stesso si assegnava entro il sistema? Sarebbe fuorviante voler assegnare a queste domande una risposta univoca. Più essenziale è forse comprendere in base a quale costellazione concettuale esse sorgano, e in che senso esse stesse contribuiscano a determinarla. E allora: da un lato, la realizzazione del «Denken» come «Darstellung» attua il superamento della «Vorstellung», quel superamento che il segmento sistematico della Psicologia non era riuscito a operare. A sua volta, tale proposizione include più significati. Innanzitutto, nell’esposizione il «Denken» supera se stesso come «Vorstellung», oltrepassa la figura che esso stesso si dava nel tentativo di derivarsi come momento interno alla totalità della Darstellung. In secondo luogo: superando se stesso come Vorstellung, il Denken supera simultaneamente il tempo di quest’ultima; ma superamento della Vorstellung, di sé «come» Vorstellung, e del tempo della Vorstellung si opera solo nella misura in cui del Denken si dia Darstellung: è nella forma dell’esposizione che il pensiero si realizza in quanto tale, è nell’esposizione che quel triplice superamento è incorporato e attuato. Così, nella «Darstellung» è inscritto il compimento dell’eternità, il toglimento del «tempo naturale» e l’attuazione, col dissolvimento del modello cronologico rappresentativo, del «tempo come tempo», «senza il tempo naturale». Per questo il Denken è vincolato al ripercorrimento della sua Darstellung: solo in quest’ultima esso trova inscritte delle modalità di sviluppo che «superano» il tempo naturale e della rappresentazione; solo il ripercorrimento della «Darstellung» consente al tempo del pensiero di svincolarsi dal tempo della rappresentazione – nel duplice senso del tempo in cui essa è immersa («come ricordo e come speranza o timore»)129, e più propriamente in 129.  Loc. cit. supra, nota 96.

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quello della sua comprensione del tempo come sommatoria di dimensioni finite. La ri-temporalizzazione della Darstellung coincide con la riattivazione dell’eternità in essa congelata; e viceversa, solo nella forma di tale riattivazione il Denken può esplicarsi come attività temporalizzatrice secondo modalità non-naturali – modalità che comportano anzi il «superamento» del tempo naturale nell’eternità realizzata dell’esposizione. In tal senso, la Darstellung include le scansioni metodiche secondo le quali il pensiero attua la sua temporalizzazione. Ripercorrendo l’esposizione, il Denken la temporalizza secondo modalità non-naturali – secondo il «tempo come tempo» cristallizzato in essa, e sempre di nuovo convertito in divenirein-atto nel pensiero che, scorrendola, nuovamente la pensa. Dal lato opposto a quello della realizzazione, tuttavia, il vincolo che trattiene l’attività del pensiero nel ripercorrimento della sua esposizione è il legame che ancora lo stringe alla sua finitudine, che condiziona perpetuamente la sua attuazione come potenza formatrice in senso epistemico alla spazializzazione, su cui esso si dispiega e a cui in pari tempo soggiace – cui già una volta è soggiaciuto e cui va sempre di nuovo soggetto nell’atto stesso in cui ripristina e ri-attiva l’eternità ivi congelata. La spazializzazione, che emergeva come risultato dal passato come totalità del tempo, appare qui nella veste di una passività forse altrettanto inestirpabile, che grava al nucleo dell’attività del Denken, e che la Darstellung ha articolato in forma di scrittura. Se quindi l’eternità è incorporata nell’esposizione perché quest’ultima al suo interno «toglie» il tempo naturale, se quindi in essa l’eternità è davvero «senza il tempo naturale» – ciò è anche quanto vincola il Denken alla Darstellung e alla spazializzazione articolata della sua scrittura, proprio per poter riattivare e costantemente ripristinare, secondo modalità non-naturali di temporalizzazione, la Ewigkeit speculativa. Quest’ultima è perennemente in atto nell’attività

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del Denken solo nella misura in cui quest’ultimo ne ripercorra la figura irrigidita entro lo spazio logico e linguistico della scrittura filosofica. Così, nuovamente, possiamo comprendere nella loro importanza fondamentale gli slittamenti che a Jena caratterizzavano i diversi abbozzi della filosofia dello spirito, e in particolare la necessità, per il pensiero, di svincolarsi dalla pronuncia del linguaggio, di oltrepassare il momento espressivo in senso «psicologico» della lingua, di sorgere dalle ceneri della parola temporalmente risonante, concretamente esistente nell’esteriorità evanescente di un suono, di una voce. Solo il silenzio del linguaggio consente di stringere il vincolo che lega in unica e indissolubile complicità pensiero e scrittura. Ciò permette di scorgere con chiarezza la necessità, per una realizzazione in senso epistemico del Denken, di «superare» a livello di filosofia dello spirito il momento sonoro del linguaggio, senza perciò dover ricadere in una concezione per cui l’assoluto sarebbe ineffabile o indicibile, secondo la quale «das Unaussprechliche sei gerade das Vortrefflichste»130. Solo questo silenzio può stringere assieme pensiero e scrittura, conservando in pari tempo l’articolazione linguistica che consente al primo di dispiegarsi nella potenza di un dispositivo epistemico, in virtù del quale «la filosofia si avvicini alla forma della scienza – alla meta raggiunta la quale sia in grado di deporre il nome di amore del sapere per essere vero sapere»131.

130.  Enz., III, § 462, Z., p. 280. 131.  V., p. 12 (tr. it. cit., p. 4). Non ponendo il problema della scrittura, Y. Gauthier, L’arc et le cercle. L’essence du langage chez Hegel et Hölderlin, Desclée de Brouwer, Bruxelles-Paris-Montreal 1969, intende il fatto che «lo Spirito Assoluto non parla, ma si contempla nella certezza assoluta di se stesso» (p. 26) nel senso di una mancanza totale di linguaggio («l’autocoscienza assoluta o il sapere assoluto resta muto, non ha linguaggio», ivi, p. 178), pur avvedendosi dell’obiezione per cui «la Logica è questo linguaggio» (ibidem).

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Eppure, in Hegel, anche il silenzio si trova a essere sdoppiato, duplicato: da una parte, il silenzio tutto interiore in cui si svolge il Denken come attività spirituale; dall’altra, la scrittura dell’esposizione, che articola nell’esteriorità dello spazio la linguisticità in cui il pensiero già da sempre si muove. Nell’intervallo fra questi «due» silenzi, l’uno tutto interiore, l’altro tutto esteriore, la scientificità della filosofia dovrebbe scaturire come sintesi e riunificazione dialettica dei primi due: «terzo» silenzio, quello della congiunzione sempre riprodotta di Denken e Darstellung, pensiero e esposizione. Così la scienza, pur rimanendo silenziosa, nella misura in cui si espone si comunica, sebbene in una forma che, restando scritta, richiede l’esercizio di un pensiero in grado di «vivificarla», di riconvertirla e riconvertirsi in processualità diveniente. E in quanto tale pensiero è custodito nell’interiorità dell’«intelligenza», il suo rapporto con la scrittura può assumere la figura dell’opposizione fra l’esoterico e l’essoterico, il manifesto e il nascosto: «Das Esoterische ist das Spekulative, das geschrieben und gedruckt ist und doch ein Verborgenes bleibt

Lo statuto del linguaggio nei confronti dello spirito assoluto è interrogato da M. Damnjanovic, Kann die Sprache im System Hegels die Position des Absoluten einnehmen?, in «Hegel-Jahrbuch», 1971, pp. 197-203, e poi da S. Deguchi, Der absolule Geist als Sprache, in Hegels Logik der Philosophie, cit., pp. 242-261, il quale afferma in particolare che «der absolute Begriff… sich im spekulativen Satz als Objektivität zeigt, d. h. als Idee west oder anwesend ist» (p. 258), mentre viceversa abbiamo visto che proprio nella proposizione speculativa, e più in generale nella forma del giudizio, il concetto e il suo movimento restano non enunciati, contratti come sono nel semplice e del tutto inadeguato rapporto di predicazione instaurato dalla copula. Oltre ai riferimenti bibliografici menzionati supra, cap. I, cfr. in proposito quanto scriveva già J. van der Meulen, Heidegger und Hegel, cit., p. 46: «il vero e proprio contenuto logico del giudizio è la relazione dei tre momenti concettuali: l’individuale, il particolare e l’universale, una relazione, l’unità della quale la copula esprime in maniera inespressa».

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für die, die nicht das Interesse haben, sich anzustrengen. Ein Geheimnis ist es nicht, und doch verborgen»132. Uno dei risultati essenziali della costituzione in scienza della filosofia consiste nella mediazione risolutrice cui anche quest’ultima opposizione, infine, va incontro. Ma certo, essa mostra anche come la mediazione del pensiero con la sua esposizione corra sempre il pericolo di mancare a se stessa e di fallire, e non soltanto perché non ci sarebbe, dal lato dei soggetti, un interesse verso la «fatica del concetto». Piuttosto, il venir meno della realizzazione a se stessa è inscritto, come sua costitutiva possibilità, entro le condizioni che a livello di struttura teoretica ne sanciscono, in pari tempo, l’effettuale attuazione. Così, se l’innalzamento della filosofia a «sistema scientifico» del sapere è vincolato al superamento del linguaggio dei suoni, se è la scrittura dell’esposizione che istituisce il pensiero in processo attraverso cui si dispiega la verità stessa, essa è anche ciò che trattiene il Denken nella forma, così esposta, della sua finitudine. Il silenzio della Darstellung configura l’«altro» silenzio, quello del pensiero, sulla superficie spazializzata in cui non solo esso si attua come capacità costruttiva in senso epistemico, ma sulla quale pure lascia impresse le tracce della sua finitezza. E il «terzo» silenzio, attraverso cui la filosofia dovrebbe snodarsi come «scienza» e riunificazione speculativa di pensiero e esposizione, si svela come prodotto di un’oscillazione il cui luogo è disposto nel vuoto della sfasatura e della costitutivamente possibile non-coincidenza fra quei due. In questo senso, l’apertura del sistema in Hegel si conferma una volta di più come funzione del suo assetto di chiusura.

132.  Cfr. G.W.F. Hegel, Leçons sur Platon. Texte inédit 1825-1826, éd., tr. et notes par J.-L. Vieillard-Baron, Aubier, Paris 1976, p. 100: «L’esoterico è lo speculativo, che è scritto e stampato e tuttavia resta nascosto per coloro che non hanno interesse ad applicarsi. Non è un mistero, eppure è nascosto».

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Perché certo, ripercorrere indefinitamente la Darstellung vuol dire in pari tempo indefinitamente ri-pensare la sua precipitazione nel passato, significa porsi continuamente di fronte e interiorizzare il suo già-esser-divenuta – l’essere trascorsa e declinata al modo del passato che già gravava sull’eternità. Ripensare indefinitamente la «Darstellung» equivale allora alla costante riassunzione, da parte del pensiero, dell’impossibilità di continuare a pensarla, alla ripetizione dell’incessante sottrarsi alla presa della «Darstellung» di ciò che pure in essa dovrebbe senza residuo presentarsi. Per questo, al pensiero non è concesso di acquietarsi, infine, né nella Darstellung né nel suo «infinito» ripercorrimento – perché come l’esposizione nel suo complesso, così ogni singola Aufhebung in essa incorporata reca in sé la cifra di un’eccedenza che, nell’esposizione rimasta impensata, pure attraverso questa pone al pensiero l’imprescindibile esigenza di pensarla – pensarla come il novum che dall’interno irrompe nella dialettica. Ma dove cercare, in Hegel, la consapevolezza di tale radicale apertura del pensiero, espressa non tanto in forma di enunciazioni singole, quanto piuttosto come definizione teorica dell’intero assetto epistemico? E di un’apertura, per giunta, che al pensiero è resa possibile proprio e solamente dalla configurazione «chiusa» della sua «Darstellung»?

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Osservazioni conclusive

La trattazione della nozione hegeliana di eternità, e la messa in luce della sua implicazione con la problematica dell’esposizione, ha mostrato come le dispute sulla validità universale ed «eterna» nel senso ordinario che Hegel avrebbe attribuito o meno alla sua Logica cessino di avere senso. Quest’ultima cioè non è «eterna» perché la forma in cui espone la verità costituisca l’ultima e definitiva attuazione della filosofia, perché quindi essa pretenda di avere arrestato la filosofia «per sempre», cioè per tutto il trascorrere degli ora storici ad essa seguenti. Al contrario, essa è «eterna» perché nei suoi procedimenti espositivi e categoriali incorpora il toglimento delle dimensioni temporali, e la loro concentrazione nell’istantaneità del concetto di volta in volta determinato. Tale istantaneità, paradossalmente diveniente, costituisce l’eternità in quanto raccoglie in sé simultaneamente presente, futuro e passato. Da un lato, il dispositivo epistemico hegeliano pare viziato in tal modo da un’evidente tautologicità: dire che la Logica è eterna perché espone l’auto-costituzione del tempo in eternità, infatti, pare implicare la circolarità di un concetto di eternità definito in maniera tale da corrispondere alle modalità dello svolgimento logico-dialettico, così come, viceversa, esso riceve la sua funzionalità solo in base al fatto che i procedimenti della

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Darstellung assumono un andamento che li fa coincidere con la precostituita nozione dell’eternità speculativa. Dall’altro, però, tale apparente tautologicità della connessione fra eternità e Logica consente di concepire il radicamento della filosofia nella storia senza cadere perciò nelle braccia del relativismo, e rinunziare all’«assolutezza», in senso teoreticamente definito, della verità. Il fatto che l’eternità svolga una funzione per così dire “grammaticale” o metodica in senso speculativo, di designazione intrasistemica delle modalità di sviluppo epistemico, rafforza l’autonomia del sistema stesso e delle procedure in esso immanenti di derivazione logica, senza per questo precludere, ma imponendo anzi a livello stesso di struttura concettuale, l’apertura della filosofia sulla storia. Infatti, se la realizzazione del pensiero comporta necessariamente, in Hegel, il suo pervenire a esposizione, noi abbiamo visto come quest’ultima non possa istituire un dispositivo autosufficiente, non possa esaurire al suo interno la «scientificità» della filosofia. Al contrario, le modalità stesse che ne scandiscono l’attuazione recano in sé inscritta l’esigenza di continuamente riattivare la processualità del pensiero, esprimono quindi non solo il precipitato teoretico entro cui esso si esplicita come potenza epistemica, ma in pari tempo anche l’irriducibile eccedenza che lo viene a determinare nei confronti della sua medesima Darstellung – sanciscono l’impossibilità di «contenerlo» entro le maglie dell’esposizione, che pure lo enuncia. E ciò da un duplice punto di vista: innanzitutto in rapporto alla forma proposizionale, che la Darstellung funzionalizza all’espo­sizione del «movimento dialettico» nella misura in cui ne «supera» la contrazione «in forma di un giudizio», ma che per attuare tale funzionalizzazione richiede l’intervento del «Sé» pensante, l’esercizio del Denken quale attività di dinamizzazione e messa in movimento di ciò che nel linguaggio e nella scrittura viene a trovarsi inevitabilmente irrigidito e di-

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storto, espresso in determinazioni di volta in volta unilaterali e «astratte»; in secondo luogo, rispetto alla dialettica della distruzione/conservazione del tempo entro l’eternità speculativa, che l’esposizione incorpora al suo interno come «già» realizzata, ma che si trova in essa altrettanto immobilizzata e irrigidita, spazializzata entro le forme immote della scrittura. Al pensiero spetta qui il compito, imprescindibile, di re-­innescare il movimento della temporalizzazione e del suo dinamico toglimento, di ripristinare nel suo «divenire» il processo di Aufhebung delle dimensioni, che benché venga esposto nelle articolazioni logico-discorsive della Darstellung, simultaneamente viene bloccato nei caratteri statici di una scrittura, che s’imprime sulla superficie esterna di uno spazio bianco. In tal senso, abbiamo evidenziato come la Vorrede lasci, per così dire, in sospeso la determinazione come soggettività del pensiero, o meglio la orienti verso due direzioni incompatibilmente opposte, e solo difficilmente mediabili dalla dialettica. Da un lato, il pensiero pare trovare nell’«io che sa» l’imprescindibile «soggetto» dell’attività del pensiero. Anzi, su questo punto la Vorrede approfondisce le relazioni fra «Sé» dell’io e «trasformazione» della «cosa» in «auto-movimento» e «relazione negativa» secondo le linee tracciate per la prima volta nel manoscritto jenese di filosofia dello spirito del 1805-06. La Sache selbst si presenta infatti come processualità auto-­ diveniente in quanto ad essa è immanente il «Sé» dell’io, il suo dinamismo coincide con l’esercizio da parte del soggetto del begreifendes Denken: solo per l’immersione dell’«io che sa» nella «cosa» il «contenuto» speculativo mostra di essere «in tutto e per tutto soggetto», e la «sostanza» si scopre simultaneamente come soggettività. D’altro lato, però, proprio l’affermazione come movimento di auto-determinazione dei propri «predicati» del «contenuto» speculativo, che la «forma» proposizionale impiegata dal «pensare rappresentativo» recava a «soggetto» dei suoi giudizi

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come «soggetto rappresentato» e «Sé oggettivo e fisso», innesca un processo di risoluzione di quella «forma», che in pari tempo si dirige contro l’«io che sa», e che quest’ultimo subisce come un vero e proprio «contraccolpo» speculativo. In un tale «contraccolpo», all’«io che sa» viene impedito di ritornare, nel passaggio dal soggetto proposizionale al predicato, in se stesso, di ergersi quindi a elemento di selezione e di scelta dei predicati categoriali; al contrario, l’«io che sa» viene qui costretto a restare immerso nel «Sé» della «cosa», ad abbandonarsi all’«auto-movimento» della Sache selbst. La Vorrede esprime in tal modo l’Aufhebung del pensiero rappresentativo da parte del pensiero concettuale, coniugando tale superamento alla critica distruttiva della forma proposizionale, e alla determinazione delle modalità linguistiche adeguate all’enunciazione del «movimento dialettico». Il «contraccolpo» viene quindi subito, propriamente, dal vorstellendes Denken, ma ciò non risolve il problema dello statuto o meno della soggettività del «Sé» che su se stesso assume la «fatica del concetto», esercitandosi così come pensiero concettuale. Tale questione riveste un’importanza tutta particolare, poiché riguarda la determinazione stessa del concetto come soggettività, il significato da attribuire a quella che certo Hegel tenta di concepire come un’identità fra «Sé» dell’io e «Sé» della cosa, fra movimento (soggettivo) del «pensare» e auto-movimento dei Begriffe come «essenzialità spirituali»1, ma che appunto in quanto identità mostra di essere solcata da una differenza che mina «da sempre» l’immediatezza del suo rapporto con se stessa, tradendovi forse, nonostante ogni conciliazione speculativa, l’impossibilità di procedere al suo superamento. La centralità della questione emerge anche da un altro punto di vista, più vicino all’andamento che il nostro studio ha tentato 1.  «Geistige Wesenheiten» (loc. cit. supra, cap. II, nota 1).

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di seguire in rapporto a Hegel. Si tratta del fatto che nella stessa misura in cui viene evidenziata la necessità, per il pensiero concettuale, di pervenire a esposizione, nel momento in cui l’effettualità del movimento dialettico viene teorizzata come sua realizzazione nel linguaggio dell’esposizione filosofica, il begreifendes Denken si mostra eccedente rispetto a tale sua configurazione espositiva, e cioè rispetto al suo stesso assetto epistemico; e tuttavia, tale sua eccedenza si trova «già» inscritta nell’esposizione in cui esso è giunto a realizzarsi, si mostra essa stessa funzionale alla costituzione in «scientificità» della filosofia, appunto perché vincolata all’organizzazione concettuale effettiva e concreta della Darstellung. Quest’ultima emerge quindi come il momento della mediazione nei rapporti fra pensiero e linguaggio, in quanto è il nodo attorno a cui il pensiero cerca di funzionalizzare la storicità dei suoi contenuti all’assolutezza della loro configurazione epistemica. Da un lato, le modalità con cui l’esposizione compie il superamento del tempo nell’eternità pongono la questione della storicità dei contenuti di pensiero, e in quanto tale superamento avviene sul piano logico-linguistico della Darstellung, portano a individuare nel linguaggio il luogo della determinatezza storica di quei contenuti; dall’altro, dalla sottrazione che nel «passato» intemporale dell’eternità trascina la Darstellung «al di qua» di se stessa, scaturisce sempre di nuovo il pensiero nella sua attualità, che ripercorrendo il circuito dell’esposizione, compie e ripete l’esperienza di non poterlo percorrere mai più. Affrontando per l’ultima volta le questioni concernenti lo statuto di soggettività e/o meno del «Sé» pensante in rapporto all’autonomia del movimento categoriale, tematizzando le relazioni fra Denken e Sprache, innestando infine sui plessi problematici così definiti la determinazione del concetto speculativo di «scienza della logica» e del suo «significato per lo spirito», la Prefazione del 1831 alla seconda edizione della Lo-

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gica2 non rappresenta soltanto, dal punto di vista cronologico, l’esito terminale della parabola di pensiero hegeliana, quanto piuttosto il testo in cui le questioni che ne hanno tracciato il percorso raggiungono la formulazione teoreticamente più limpida e radicale. Ciò impone alla nostra ricerca di svolgere le sue conclusioni in rapporto ai luoghi di questo testo in cui vengono affrontati i problemi sopra menzionati, e senza l’ana­ lisi dei quali essa resterebbe necessariamente incompleta. In tal modo, inoltre, potremo valorizzare un altro dei tratti distintivi di questa Prefazione, il fatto cioè che in essa l’intreccio fra pensiero e linguaggio non è soltanto assunto a «oggetto» della riflessione filosofica, ma interviene, per così dire, dall’interno a scandirne i passaggi argomentativi. Tale caratteristica emerge con particolare chiarezza proprio in rapporto alla prima delle questioni da noi indicate, quella concernente la soggettività del Denken. Qui il linguaggio è impiegato da Hegel per evidenziare la maniera corretta d’intendere le relazioni fra soggettività pensante e determinazioni di pensiero, assunto in veste di «testimone» a favore della tesi che si tratta di dimostrare, ed entra così con la funzione di elemento strutturante nella strategia della costruzione argomentativa. In tal modo, esso vede per così dire raddoppiata la rilevanza che il testo gli assegna fin dall’inizio, in quanto Hegel identifica nel linguaggio ciò in cui «le forme del pensiero sono innanzitutto esposte e consegnate». E poiché il linguaggio «si è insinuato in tutto ciò che l’uomo fa suo», così come a sua volta «ciò che l’uomo trasforma in linguaggio e in lui esprime contiene… una categoria», risulta che alla pervasività del linguaggio corrisponda la pervasività di concetti e relazioni logiche, cosicché «l’elemento logico» (das Logische) si rivela «come la natura vera e propria» dell’uomo; oppure, se si vuole «contrapporre la natura, in quanto elemento fisico, allo spirituale», l’elemento logico 2.  Di cui, come noto, uscì solamente il primo libro, sulla dottrina dell’essere.

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andrà definito addirittura come Übernatürliches, intendendo con ciò che esso «si insinua» – con e attraverso il linguaggio – «in ogni comportamento naturale dell’uomo, nel suo sentire, intuire, appetire, in ogni suo impulso e bisogno», e che solo tale elemento trasforma tutto questo «in qualcosa di umano»3. Ma proprio in quanto il «logico» s’infiltra in tutti i campi dell’agire e del rappresentare umani, le categorie con cui l’uomo opera «nella vita» costituiscono un apparato teorico il cui funzionamento resta inavvertito e non riflesso. L’intelaiatura di pensiero contenuta nel linguaggio forma una «logica naturale», il cui «impiego» avviene in maniera «inconscia», alla stregua di un «operare istintivo» che agendo nell’uomo secondo modalità inconsapevoli, gli assicura soltanto un’«effettualità singolarizzata ed incerta»4. Un «più elevato compito logico» consiste allora nel portare «alla coscienza dello spirito» queste categorie, «che sono efficaci solo istintivamente come impulsi», e nell’«elevare» in tal modo lo spirito «alla libertà e alla verità in esse»5. Tuttavia, per attuare tale «elevazione» dello spirito è necessario mutare il punto di vista che corrisponde all’«impiego» delle categorie «nella vita». Qui «si tratta» infatti del loro «uso», per cui «dall’onore di venire considerate per sé» le categorie «vengono abbassate a servire…». Ora, il problema che emerge è se sia lecito assumere in sede di «riflessione scientifica» una concezione omogenea all’«uso» delle categorie «nella vita», cioè una concezione che ad esse «assegni nello spirito» una funzione meramente strumentale, il significato di «servire come mezzi» al padroneggiamento della realtà da parte dell’uomo6.

3.  Cfr. W.d.L., I, p. 10 (tr. it. cit., p. 10). 4.  Cfr. W.d.L., I, p. 16 (tr. it. cit., p. 17). 5.  Ibidem. 6.  Cfr. W.d.L., I, pp. 13-14 (tr. it. cit., pp. 13-14).

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Per Hegel tale punto di vista è insostenibile, ma per comprendere la strategia argomentativa su cui fa leva per confutarlo, è necessario tenere presente il ruolo che al suo interno viene svolto dal linguaggio. Intendere le categorie come dei «mezzi», prosegue Hegel, vuol dire trasformarle «in qualcosa di subordinato alle altre determinazioni spirituali», giacché «dei nostri impulsi, sensazioni, interessi non diciamo certo che ci servono, ma questi valgono come potenze e forze indipendenti», in cui ci sentiamo «impacciati» e da cui «riteniamo di essere dominati», piuttosto di essere quelli che ne «detengono il possesso»7. L’argomentazione filosofica deve tener conto e sviluppare questa indicazione del linguaggio, perché in essa è contenuta implicitamente tutta la contraddittorietà di una concezione strumentale delle categorie in quanto «forme di pensiero». Tali determinazioni, infatti, «si stendono attraverso tutte le nostre rappresentazioni», e se queste ultime, come testimonia il linguaggio, «siano esse meramente teoretiche o contengano un materiale che appartiene alla sensazione» e «all’impulso», ci tengono in loro possesso e non viceversa, tanto più questo rapporto di padroneggiamento e di «dominio» varrà per la Denkformen, che «si stendono attraverso» di esse e che solamente le trasformano «in qualcosa di umano»8. Ora, il punto che ci sembra fondamentale sottolineare è che il risultato conseguito sino a questo punto dalla «riflessione scientifica» forma il presupposto in base al quale Hegel procede alla considerazione dell’attività del Denken non più semplicemente come «agire istintuale» e operare «inconscio», non più soltanto perché il complesso delle sue determinazioni costituisce quella «natura logica, che anima lo spirito»9 e che è «deposta innanzitutto» nel linguaggio – ma nel suo stesso 7.  Cfr. W.d.L., I, p. 14 (tr. it. cit., p. 14). 8.  Ibidem (e cfr. supra, nota 3). 9.  W.d.L., I, p. 16 (tr. it. cit., p. 16).

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carattere di esperienza per il soggetto pensante. È in quanto esercita metodicamente e riflessivamente il suo pensiero che il «Sé» dell’io perviene all’esperienza dell’invalicabilità, dell’inoltrepassabilità delle «Denkformen», alla sperimentazione del fatto che l’attività che in lui si svolge non è l’attività del «Sé» come «soggetto», ma delle «Denkformen», che nel «pensare» del «soggetto» sviluppano se stesse e il loro auto-movimento. In questo senso, la «libertà» che il «Sé» esperisce in forma di pensiero coincide col predominio in lui delle Denkformen. Se infatti in «sensazioni» e «impulsi» l’uomo si percepisce come limitato e «impacciato», ciò avviene perché la sua «natura logica», il suo «elemento» propriamente «spirituale» lo elegge in sede di sviluppo ed espansione dell’universale, perché la natura «che in lui agisce e lo spinge» è costituita da questo universale medesimo10. Così «noi», che «in una sensazione, scopo, interesse ci sentiamo limitati, prigionieri», possiamo ritrovare la nostra «libertà» mediante la consapevole assunzione di quell’universale, che «nella vita» agisce in noi solo «istintivamente», solo in quanto «natura» efficace ma «inconscia»: viceversa, quando «il contenuto di ciò che dà l’impulso viene separato dall’unità immediata col soggetto», ed è «condotto ad oggettività di fronte ad esso» – allora «comincia la libertà dello spirito». Tale «libertà» coincide quindi con la pratica metodica di determinazione e svolgimento delle «forme di pensiero»11. Ma in quanto queste ultime sono assunte nel loro carattere di universali, in quanto «il luogo» verso cui «noi» ci «ritiriamo» per districarci da quei singoli «scopi» e «interessi» che c’impacciano e c’imbrigliano è «questo luogo della certezza di se

10. Cfr. W.d.L., I, p. 14 e p. 16 (tr. it. cit., p. 14 e p. 16). 11.  Cfr. W.d.L., I, p. 16 (tr. it. cit., pp. 16-17). Sulla Logica di Hegel e l’idea di libertà, cfr. G. Jarczyk, Système et liberté, cit., e il precedente volume di B. Lakebrink, Die Europäische Idee der Freiheit, Bd. I, Hegels Logik und die Tradition der Selbstbestimmung, Alber, Freiburg i.Br. 1968.

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stessi, dell’astrazione pura, del pensare», «noi» sperimentiamo l’impossibilità, l’assurdità e in pari tempo la gratuità del volerci elevare «al di sopra» di esse, del volerle considerare come qualcosa che «ci serve» e che noi «possediamo». Per far ciò, infatti, dovremmo essere più universali dell’universale stesso, che in loro si esprime e si realizza; e appunto questo è impossibile: «che cosa resta a noi di fronte ad esse? come potremmo noi, io in quanto più universale pormi al di sopra di esse, che sono appunto l’universale come tale?»12. Il tentativo in questione, del resto, non si scontra soltanto contro un’assurdità logica, ma si rivela anche, come abbiamo detto, del tutto gratuito: se nelle categorie «noi» ci vediamo confermati nella «certezza di se stessi» appunto perché in esse troviamo realizzata senza impacci la nostra «natura» di soggetti spirituali e universali, sarebbe privo di scopo aspirare a porsi «al di sopra» di esse per conquistare una libertà, che appunto in esse e solamente in esse raggiungiamo. Così, proprio nel fatto che «non noi, bensì piuttosto esse ci possiedono», dobbiamo scor12.  W.d.L., I, p. 14 (tr. it. cit., p. 14). In riferimento all’argomentazione hegeliana e alla critica in essa condotta contro l’opinione secondo cui noi «avremmo» pensieri, Th. Litt scrive: «Se noi consideriamo il rapporto della forma logica e del soggetto sotto questa prospettiva, non avremo alcuna difficoltà a correggere le formulazioni criticate affermando, contro di esse, che non siamo noi a “possedere” le forme (come degli strumenti che sarebbero al nostro servizio), ma che sono le forme che ci “possiedono”» (op. cit., pp. 324-325). A suo avviso, però, Hegel attaccherebbe «le costruzioni del linguaggio comune, che esprimono effettivamente in maniera precisa le concezioni che bisogna correggere» (ivi, p. 324). Questo giudizio appare unilaterale se considerato rispetto al ruolo che il linguaggio ordinario svolge nel contesto: è proprio esso infatti a segnalare come vadano correttamente intese le relazioni fra il pensiero e «noi». Ciò che il linguaggio non può fare è fornire il criterio per la lettura e la valutazione dei contenuti che presenta, visto che in relazione al medesimo oggetto offre riscontri contraddittori e molteplici, fra i quali solo il «concetto» è in grado di determinare quelli omogenei alla verità filosofica, e quelli che invece recano e rafforzano pregiudizi contrari alla «natura della cosa».

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gere, invece dell’impedimento e dell’insuperabile ostacolo alla realizzazione della nostra «libertà», ciò che massimamente la potenzia e la attua. L’argomentazione contro la tesi strumentale, tuttavia, non si conclude a questo punto. Essa invece accoglie un’altra indicazione del linguaggio, concernente stavolta il nesso fra Denkformen e oggettività. Tale approfondimento della «riflessione scientifica» conduce al rafforzamento della non strumentalità e/o non dominabilità delle categorie da parte del soggetto che le pensa, raccorda l’autonomia del loro movimento di sviluppo all’esperienza in fieri nel soggetto dell’atto del «pensare», e in quanto infine coinvolge il rapporto fra pensiero e cose, concetto e oggetto, conduce alla ridefinizione complessiva in senso speculativo del significato e dello statuto della «scienza della logica». In effetti, fra i poli dell’opposizione sopra delineata, il linguaggio pare testimoniare l’esistenza di una relazione di compenetrazione e identità, in quanto attribuisce ai concetti (i quali a loro volta, come precisa Hegel con una indicazione fondamentale, sono «soltanto per il pensare») la funzione di esprimere ciò che costituisce l’oggetto nella sua «natura» o verità: «quando noi vogliamo parlare delle cose [Dingen], la natura od essenza loro la chiamiamo il loro concetto, e questo è solo per il pensare [nur für das Denken]»13. In base a tale identità, per come viene espressa dal linguaggio, considerare i concetti come degli strumenti o dei mezzi significherebbe considerare un mezzo la «natura» stessa delle cose, la loro «essenza». Ma anche questa opinione non trova riscontro a livello linguistico: «Ora, dei concetti delle cose non diremo certamente che li dominiamo, o che le determinazioni di pensiero, di cui essi sono il complesso, ci servano».

13.  W.d.L., I, p. 14 (tr. it. cit., p. 14).

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«Noi», sembra voler dire Hegel, riconosciamo alla «natura» degli oggetti un’autonomia e un’indipendenza nei nostri confronti; ma appunto questo atteggiamento di apparente inerzia e di passività viene a sfociare, come il linguaggio stesso irriflessivamente enuncia, nell’abbandono della posizione ingenuamente pre-categoriale nei confronti dell’oggettività, svela come invece in ogni tentativo di rappresentazione oggettiva della realtà emerga, quale struttura ordinante del mondo, il complesso delle determinazioni di pensiero. Così, la valenza soggetto-oggettiva delle categorie, illustrata dal linguaggio, mostra anche dal lato del rapporto del «pensare» con le «cose» quanto sia insostenibile una concezione strumentale delle categorie, la pretesa di considerare queste ultime come «in nostro possesso». Poiché le determinazioni di pensiero costituiscono l’«essenza» delle «cose», conoscere queste ultime nella loro «natura» non può equivalere ad altro se non all’immersione, da parte del soggetto, nel movimento delle Denkbestimmungen, alla neutralizzazione e all’esclusione di tutto ciò che appartiene alla «nostra» contingente particolarità, di tutto ciò con cui l’«arbitrio» dell’individuo sarebbe portato a scompaginare e a turbare la rigorosa immanenza nell’auto-svolgimento della Sache selbst, l’abbandono al contenuto delle determinazioni di pensiero: «al contrario – dice Hegel – il nostro pensiero deve limitarsi secondo esse [muss sich unser Denken nach ihnen beschränken], e il nostro arbitrio o libertà non deve [soll] volerle dirigere a suo piacimento [nach sich]»14. È da segnalare come il contrasto fra i punti di vista in questione non venga configurato, dal testo, in accordo alle consuete 14.  Ibidem (tr. it. cit., p. 15). Sul punto qui in questione, cfr. il commento di H.-G. Gadamer, che però piega in senso ermeneutico il rapporto fra concetto e linguaggio: «Anche il concetto [come le parole; N.d.A.] non è uno strumento del nostro pensare, bensì è il nostro pensare che deve seguirlo e che trova nella logica naturale del nostro linguaggio la sua prefigurazione» (op. cit., p. 119).

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modalità dell’Aufhebung dialettica, non conduca cioè al «superamento» delle due opposte posizioni in una «sintesi» che le «conservi» entrambe e così integri, potenziandolo, il contenuto di razionalità interno a ciascuna. L’argomentazione culmina invece nell’esclusione di una tesi a vantaggio della tesi opposta, nell’inversione dei ruoli attribuiti dalla concezione che si tratta di confutare al soggetto da un lato, e alle determinazioni di pensiero dall’altro. L’opposizione è un’opposizione esclusiva, che non si tratta di «conciliare», ma di decidere, rovesciando i rapporti di dominanza fra il «Sé» dell’io e l’«universale come tale», le categorie logiche (è con l’avverbio im Gegenteil che, non a caso, inizia il periodo sopra riportato). Altrettanto indicativo è l’impiego alternato, per l’unica voce italiana «dovere», dei due verbi modali müssen e sollen: in rapporto all’attitudine conoscitiva del soggetto, del «Sé» pensante, appare cioè come un’esigenza, un «dovere» nel senso della prescrizione che, se rispettata, conduce l’io all’assunzione di una condotta adeguata, il «comando» che impone all’individuo di escludere il suo arbitrio dall’auto-movimento della Sache selbst, di non voler «dominare» le Denkbestimmungen, ma viceversa di lasciarsi condurre e «dominare» da parte di queste ultime, di abbandonarsi al processo del loro autonomo, immanente svolgimento. Tuttavia, dal momento in cui tale esigenza venga soddisfatta – e lo è ogni volta, per Hegel, che il soggetto propriamente pensa, sperimentando e attivando in sé la Tätigkeit des Gedankens15 –, non si tratta più, nel rapporto fra «Sé» pensante e determinazioni scaturenti dal «suo» pensare, di una relazione che dipenda dal soddisfacimento di determinati requisiti o prescrizioni: nel momento in cui pensa, il soggetto è «oggettivamente» costretto (muss), al di là di ogni possibilità di scelta o di ogni configurazione altrimenti strutturata del rapporto, a «limitarsi» secondo l’andamento 15.  Loc. cit. supra, cap. III, nota 88.

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dei procedimenti categoriali, secondo il ritmo di sviluppo dell’«universale» dialettico. Non è affatto contraddittoria, in Hegel, questa prevalenza di un «universale» che pure scaturisce dall’attività del Denken soggettivo; e non soltanto perché quest’ultimo – con conseguenze che fra non molto andremo ad approfondire – «produca» Denkbestimmungen solo nel senso in cui ri-pensa o, come dice Hegel, fornisce la «ricostruzione»16 di contenuti concettuali che il linguaggio presenta allo stato «inconscio» e disperso, che quindi sono «già» stati storicamente prodotti, e che si tratta, pensando, di ri-percorrere secondo nessi logicamente strutturati, di ri-costruire nella trama di relazioni dialettiche che costituiscono il movimento della loro genesi speculativa, né naturale né temporale, ma appunto logica. Il punto da sottolineare, per il momento, è un altro, e cioè che lo scaturire stesso dell’atto della produzione di quelle categorie nel soggetto, l’attivazione del «pensare» in quanto attività spirituale, sono ciò che impedisce al «Sé» di porsi «al di sopra» di quello che pure, in simultaneità paradossale, Hegel definisce «il suo più proprio atto»: «in quanto il pensare soggettivo è il nostro atto più proprio, più interiore… noi non possiamo esserne fuori, non possiamo stare al di sopra di esso»17. Il pensare è un’attività inoltrepassabile proprio perché è la nostra attività «più propria» (eigenste) e «più interiore» (innerlichste); rivela di non lasciarsi ricondurre ad alcun centro che, collocato altrove rispetto ad essa, dovrebbe però situarsi all’interno dell’io, proprio perché essa stessa istituisce un’internità senza residuo. Tuttavia, poiché in tal modo il «Sé» dell’io pensante viene risolto nel suo atto, l’attività che più di ogni altra lo custodisce pare scoprirsi, simultaneamente, come quella in cui 16. «Rekonstruktion»: cfr. W.d.L., I, p. 19 (tr. it. cit., p. 19). 17.  W.d.L., I, pp. 14-15 (tr. it. cit., p. 15).

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il soggetto viene massimamente consegnato a ciò che, in quanto sarebbe «il più interiore», appare anche come il più esterno, lontano e altro: l’«universale» delle Denkbestimmungen. Così, mentre nel pensare si sperimenta come attività, anzi come «l’attività più propria, più interiore», l’io sperimenta se stesso come inoltrepassabile passività: il consegnarci a un atto che è al di fuori del nostro «potere», al di fuori del nostro «possesso», sarebbe in pari tempo quello che più propriamente ci appartiene. È in base a tale movimento che quest’atto (Tun) emerge come ciò che non è ulteriormente «fondabile», né riconducibile a una logica della derivazione e dell’auto-produzione, come pur sempre resta e si definisce quella dialettica. Proprio in quanto Tun, scaturigine del suo movimento e di sé come attività, proprio in quanto origine di ogni comprensione e di ogni «trasparenza» (Durchsichtigkeit), il Denken pare delimitare, nel suo carattere di processualità diveniente, una zona opaca dell’esperienza, l’in-trasparenza non ulteriormente rischiarabile del suo sorgere, del suo cominciamento sempre originario e sempre, in pari tempo, ritornante, che proprio nel gesto aurorale del suo istituirsi sembra sfuggire a ogni categorizzazione logica. Nemmeno le procedure circolari di un logos auto-fondativo come quello hegeliano riescono ad assorbire, nella loro circolarità, l’emergere incomprimibile dell’atto, a catturare quel fare (Tun) nella pulsione che gli dà origine, per così dire, fotografandolo nell’attimo, nell’ora infinitesimale da cui sorge. In Hegel, l’eccedenza dell’atto del pensare nei confronti di ogni sua possibile fondazione, sia pure circolarmente dialettica, ha assunto anche la figura, empiricamente depotenziata ma egualmente significativa, della decisione, da parte del singolo, di iniziare a «filosofare»18. Certo questa espressione va determinata

18.  Affrontando il problema qui in questione in rapporto al «cominciamento [Anfang] che la filosofia deve fare», nel § 17 dell’Enciclopedia Hegel tenta

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nel suo senso: in effetti, la decisione di pensare non assume in Hegel valenze «decisionistiche», né semplicemente si presenta nelle vesti di una non-razionalizzabile origine della ragione (e, in ogni caso, della ragione soggettiva, poiché la Wirklichkeit è già strutturalmente organizzata secondo Vernunft). Al contrario, tale decisione ha la sua radice nel fatto che il soggetto, di prevenire il fraintendimento racchiuso nell’opinione che la filosofia debba «iniziare, come le altre scienze, con una presupposizione soggettiva», facendo leva sulla circolarità che governa i procedimenti del sapere speculativo. Da un lato, ciò che egli chiama «der freie Akt des Denkens» ha la prerogativa «di porsi nella posizione in cui essere per se stesso e in cui darsi e prodursi il suo proprio oggetto»; dall’altro, tale «atto» supera l’immediatezza del suo sorgere giungendo a «trasformarsi, entro la scienza, in risultato, e precisamente nel suo risultato ultimo, in cui essa raggiunge nuovamente il suo inizio e ritorna in sé. In questo modo la filosofia si mostra come un circolo ritornante in sé [als ein in sich zurückgehender Kreis], che non possiede alcun cominciamento nel senso delle altre scienze». La circolarità del sapere filosofico dovrebbe quindi smorzare l’eccedenza di quell’atto, comprendere la «libertà» del suo sorgere nel senso peculiare e autentico della speculazione, in quanto cioè quell’atto si scoprirebbe epistemicamente necessitato, prodotto come risultato dal suo medesimo movimento. Sempre nel testo di questo paragrafo, poi, Hegel distingue il cominciamento della «scienza» dal cominciamento del pensare nel soggetto. In rapporto al cominciamento in questo «secondo» senso, egli non può che registrare l’inderivabilità epistemica di quel «libero atto del pensare», che tanto più si mostra dislocato rispetto all’esposizione filosofica, quanto più quest’ultima, procedendo circolarmente, rafforza le procedure intra-sistemiche di derivazione logica. D’altro canto, Hegel può in tal modo relativizzare l’aporia del cominciamento, collocandola sul versante della particolarità soggettiva, e salvaguardando così la circolarità e l’immanenza della scienza «come tale»: «il cominciamento ha una relazione solo col soggetto, come quello che si vuol decidere a filosofare [als welches sich entschliessen will zu philosophieren], e non invece con la scienza come tale». In tale decisione, benché essa non sia da intendere in senso puramente «decisionista» (cfr. infra, nel testo), non ci sembra infondato leggere l’effetto, per così dire depotenziato a livello empirico, di quella medesima eccedenza che contraddistingue il Denken nella Prefazione del 1831, e che proprio attraverso la relativizzazione operata nei suoi confronti da Hegel evidenzia le difficoltà cui va incontro il tentativo di funzionalizzarla e riassorbirla entro i circuiti della logica dialettica.

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pensando, realizza la sua «libertà», che nel «pensare» trova «il luogo della certezza di se stesso» e, da un punto di vista più comprensivo, si può raccordare al tasso di razionalità e di complessità oggettive presenti nella struttura dell’«epoca»19, si pone all’altezza della «storia del mondo» sino al limite del presente, in quanto punto più avanzato dell’intero fronte di sviluppo. E tuttavia, tali motivazioni scontano la loro insufficienza con l’esternità che mantengono rispetto all’esperienza che in qualche modo dovrebbero giustificare, poiché presuppongono che vi sia prima una decisione, alla quale quindi conseguirebbe l’atto ad essa conforme. Viceversa, questa decisione appare indissociabile dall’atto nel quale si realizza, con esso coincide e in esso si risolve. Quest’ultimo perciò conserva, in quanto movimento sempre risorgente di un «pensare» che sin dallo scritto sulla Differenza Hegel ha concepito in chiave a-soggettiva20, tutta la sua eccedenza rispetto a ogni sua possibile circoscrizione logica, a ogni sua compiuta perimetrazione in termini di esposizione speculativa. L’esperienza del «pensare», nel suo carattere di attività diveniente, sempre di nuovo iniziale, mostra di non potersi esaurire nella sistematizzazione cui pure, nella Darstellung, dà luogo. D’altro canto, queste ultime riflessioni non devono farci dimenticare la complessità e la portata delle soluzioni che il pensiero dialettico, in Hegel, effettivamente raggiunge, a vantaggio esclusivo delle prospettive problematiche in esso ancora aperte. Nel caso specifico, non devono farci dimenticare come sia la Darstellung speculativa che reca inscritta in sé, nelle modalità della sua attuazione, la necessità, per il pensiero, di scaturire nuovamente – come quindi sia dal «ritmo» stesso dell’esposizione che l’attività del Denken si ripristina come eccedente 19.  Sulla nozione di «epoca», cfr. R. Bodei, Scomposizioni, cit., pp. 190 ss. 20.  Cfr. Diff., pp. 94-96 (tr. it. cit., pp. 93-95).

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rispetto alla configurazione sistematica, che pure dovrebbe racchiuderla. In tal senso, il «circolo di circoli» che nell’esposizione instaura l’eternità s’istituisce, per così dire, come il doppio di se stesso, in quanto ciò che esso configura in termini di chiusura è anche ciò che si riproduce in termini di apertura. Da tale apertura, l’attività del Denken si ripristina secondo modalità funzionali all’attuazione come «scientificità» della filosofia, ma che d’altro canto sanciscono la simultaneità, rispetto a questo compimento, del suo zu-grunde-gehen, come un’«identità di identità e di non-identità», che sopravanza il dispositivo dialettico nel mentre lo realizza, aprendolo così al novum. Ecco perché, di pari passo con la sua eccedenza nei confronti dell’esposizione, il «pensare» deve scontare in Hegel la sua contemporanea inclusione in essa; come anzi in questa, che noi chiamiamo inclusione, esso pervenga a realizzare il suo potenziale epistemico, si rechi a effettualità come potenza di ordinamento conoscitivo e ontologico. E sulla base della costituzione intrinsecamente epistemica del Denken, questa Prefazione giunge a ridefinire, in senso antiformalistico e dialetticospeculativo, il concetto stesso di «scienza della logica». Hegel cioè intende l’atto del pensare come indissociabile dai contenuti in esso di volta in volta scaturenti; e in quanto appunto sono i contenuti del pensare, le sue specificazioni o risultati, vengono da lui chiamati «determinazioni di pensiero» (Denkbestimmungen). L’atto del pensare è così in pari tempo agire determinato, indissolubile compenetrazione di contenuto e forma, attività di produzione e suoi prodotti. Di conseguenza, poiché le Denkbestimmungen, la cui totalità forma il concetto, sono «oggetto, prodotto e contenuto del pensare e la cosa [Sache] in sé e per sé essente, il logos, la ragione di ciò che è, la verità di ciò che porta il nome delle cose [Dinge]»21, ecco che

21.  W.d.L., I, p. 19 (tr. it. cit., p. 19).

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nel «pensare» il «Sé» s’immerge, simultaneamente, nel contenuto stesso della verità, in ciò che Hegel nomina «das wahrhaft Bleibende und Substantielle»22. Ora, in quanto la Scienza della logica costituisce la Darstellung di questo stesso «sostanziale» nel suo carattere di «soggettività» e di «auto-movimento», è evidente che tale «scienza» non potrà più essere considerata come un sapere meramente «formale», riguardante le operazioni di un pensiero sprovvisto di «contenuto» e di oggettività; al contrario, in essa il contenuto sarà concepito ed enunciato nella sua massima verità, cosicché «oggetto» della «considerazione logica» diventano non tanto le «cose» nella loro empiricità contingente (Dinge), «sondern die Sache, der Begriff der Dinge» – ciò che ne costituisce la «natura» e l’«essenza»23. In tal modo, Hegel perviene alla ridefinizione epistemica, di contro alla tradizione da un lato formale e dall’altro trascendentale, del concetto di «scienza della logica». Ma altrettanto significativo è che tale ri-definizione faccia perno sulla determinazione del «pensare» come fare (Tun), come del fare «più interiore» e «più proprio» del soggetto. All’inoltrepassabilità dell’«atto» del pensare, alla passività corrispondente al movimento del «Denken», si coniuga l’immersione e l’abbandonarsi, da parte dell’io, al «veramente permanente e sostanziale», al contenuto inteso e realizzato nella sua verità, perché tale contenuto, che è il «Begriff», è «soltanto per il pensare», «ist nur Gegenstand, Produkt und Inhalt des Denkens»24. Così, con un gesto emerso più volte come specifico di questo pensiero, l’eccedenza che contraddistingue il Denken rispetto alla sua configurazione in Darstellung si trova in pari tempo 22.  Cfr. W.d.L., I, p. 15 (tr. it. cit., pp. 15-16). 23.  Cfr. W.d.L., I, p. 18 (tr. it. cit., p. 18). 24.  Si riprendono qui alcuni passaggi di cui supra, alle note 13, 21 e 22.

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riassorbita entro l’esposizione. Poiché l’esperienza del pensare è strutturata in senso intrinsecamente epistemico, poiché fra il Denken come attività e le Denkbestimmungen come suoi prodotti esiste un rapporto di compenetrazione inestricabile, ciò fa sì che il pensare, nell’attimo del suo cominciamento, sia in pari tempo Essere, inizio di sé in quanto movimento di produzione delle Denkbestimmungen, e simultaneamente prima e più immediata di queste. Tale omogeneità fra Denken e Darstellung conduce all’attuazione, alla realizzazione del potenziale conoscitivo racchiuso in quell’attività, ormai non più soltanto interiore, ma concretamente effettuale nella forma, nel dispositivo circolare dell’esposizione speculativa. Ma a quest’ultima non spetta solamente di condurre a realtà effettiva ciò che appunto è l’«effettuale» medesimo, il «movimento dialettico» delle categorie. Piuttosto, nella misura in cui lo esponga appunto come «movimento», essa tenta di custodire al suo interno l’esperienza del Denken nel suo carattere processualmente dinamico, di coniugare questa fedeltà al «pensare» come attività diveniente con la valenza epistemica che gli è propria: di qui, la costruzione di un dispositivo filosofico in pari tempo chiuso e dinamico, appunto il «circolo di circoli» ripercorrente se stesso dell’esposizione sistemica. Dal lato del soggetto, ciò significa che l’attivazione del Denken, se da una parte lo conduce all’immersione nella Sache selbst, viene a coincidere dall’altra col compiersi di un atto «altro» solo in apparenza, ma in realtà simultaneo e coincidente col primo: quello in cui l’io si abbandona all’articolazione logico-­linguistica del libro entro il quale si enuncia, nonostante e attraverso le riserve hegeliane25, l’esposizione in forma di «movimento dialettico» dell’«elemento effettualmente speculativo».

25. Cfr. supra, cap. III, nota 126, le già menzionate considerazioni finali del testo in questione.

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Le antinomie, le soluzioni, la complessità di relazioni che i diversi attori di questa trama di pensiero (eternità e tempo, rappresentazione ed esposizione, ripetizione e apertura al nuovo) intrecciano fra loro ci hanno accompagnato per tutto il corso della ricerca. Ma alla luce di questa Prefazione, che sintomaticamente si chiude con alcune osservazioni riservate al tema della Darstellung, esse paiono subire una dislocazione che va ulteriormente a complicarle, in quanto coinvolge l’asse attorno al quale mostravano di ruotare: tale asse sembra cioè adesso, prepotentemente, assumere figura di linguaggio. E per noi, la questione del modo in cui l’inclusione delle categorie nel linguaggio, asserita da Hegel, possa accordarsi col processo autoriflessivo della loro articolazione entro i procedimenti di una «scienza della logica», si è già mostrata imprescindibile. Essa esigerebbe l’apertura di un ulteriore fronte di ricerca, che tematizzasse analiticamente da tale punto di vista il sistema hegeliano. Ma per le conclusioni del nostro lavoro, appare sufficiente evidenziare le coordinate teoriche all’altezza delle quali dovrebbe collocarsi, in base alle risultanze fin qui emerse, un’interrogazione di quel tipo filosoficamente produttiva. In effetti, in rapporto al linguaggio l’impresa hegeliana sembra accentuare i suoi tratti aporetici: da un lato, quest’ultimo dovrebbe essere «oggetto» della «ricostruzione» logica sopra ricordata; dall’altro, nel momento in cui anche la Darstellung sia linguaggio, non sembra possibile immaginare come in tale frammento di linguaggio possa essere contenuta la totalità dei contenuti logici contenuti nella molteplicità delle lingue del mondo26.

26.  «Non si può dire che la logica naturale, insita nella grammatica di ogni lingua, si esaurisca nella funzione di essere una figura preliminare della logica filosofica. Piuttosto proprio nella diversità della costituzione umana del linguaggio è inciso un margine altamente differenziato di anticipazioni logiche, che si articolano nei più diversi schemi dell’accesso linguistico nel mondo.

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I termini della questione si possono esprimere, in misura forse più approfondita, nella maniera seguente: l’esposizione attua la ricostruzione dei contenuti logici del linguaggio perché li articola in totalità; e in quanto esposizione speculativa, noi abbiamo visto che la filosofia riesce in Hegel a «superare» la rappresentazione «togliendo» il tempo che in essa si esprime. Tuttavia, nel momento in cui la filosofia s’interroghi dal punto di vista dei suoi contenuti di pensiero, essa si trova a scontare una non compiuta coincidenza della questione del linguaggio e/o della Vorstellung, rispetto alla questione posta dall’Aufhebung del tempo nell’eternità. Certo, tale Aufhebung viene conseguita attraverso l’auto-organizzazione epistemica delle forme di pensiero che compaiono nel linguaggio, e poiché quest’ultimo viene così condotto nel pensiero alla coscienza di se stesso, è attraverso questa operazione che il «sistema» manifesta in Hegel tutta l’efficacia della sua potenza; però, in quanto questo movimento coincide con un processo di presa di coscienza che il pensiero innesca nei confronti del linguaggio per il tramite del linguaggio, esso permane all’interno della sfera che in lui dovrebbe «superarsi»: è l’attuazione di un’Aufhebung che ancora una volta rischia di ricadere al di qua della soglia che pure in essa il pensiero attinge, quella appunto della realizzazione della filosofia come esposizione scientifica. Da un lato, la questione del linguaggio pare così scandirsi, in Hegel, secondo modalità omogenee a quelle che investivano il plesso eternità/tempo: come l’Aufhebung del tempo nell’eternità si dimostrava sempre di nuovo compiuta e impossibile, così, nella Darstellung, il dispositivo linguistico che il pensiero pone in atto ricade, nel momento stesso in cui «suL’«istinto logico» non può esaurire perciò quello che già è prefigurato nella diversità delle lingue, tanto da potersi elevare, come logica, al suo concetto» (H.-G. Gadamer, op. cit., pp. 117-118).

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pera» la Vorstellung, nel momento stesso in cui espone l’auto-­ organizzazione concettuale dei contenuti logici del linguaggio, all’interno di questo medesimo linguaggio e del suo orizzonte rappresentativo. Dall’altro, però, essa si rivela inclusiva rispetto alla dialettica di eternità e tempo. A livello concettuale, la questione del linguaggio viene innescata, come abbiamo visto, dalle fratture che intervengono a differire e sfasare l’auto-­ superamento del tempo nell’eternità. La sua funzione inclusiva deriva dal fatto che l’Aufhebung del tempo nell’eternità si compie a livello logico-linguistico, e che sia il Denken sia la Darstellung rimandano all’orizzonte, per essi costitutivo, del linguaggio. Ora, qui non si tratta semplicemente del fatto che in quanto la filosofia non è se non «il proprio tempo appreso nel pensiero», in tale rapporto d’inclusione essa addirittura si affermerebbe nella sua accezione hegeliana. Infatti, l’inclusione del pensiero e della sua attuazione in forma di Darstellung nel linguaggio non è semplicemente omogenea all’inclusione della filosofia nel proprio «tempo». Piuttosto, nel linguaggio il «pensare» è messo in gioco nel suo stesso carattere di attività: ed è da questo lato che le asserzioni hegeliane, secondo le quali è con le parole – con la lingua e nella lingua, appunto – che «noi» pensiamo, emergono nel loro statuto specificamente filosofico, al di là di ogni loro possibile intendimento in chiave psicologistico-­antropologica, di ogni loro possibile riduzione all’orizzonte delle cosiddette «scienze umane». Porre la questione del linguaggio significa insomma porre la questione dell’autonomia teoretica del pensare, nella misura in cui quest’ultimo, volgendo l’interrogazione su se stesso, scorge nel linguaggio ciò che «già da sempre» ne articola l’attività – nella misura in cui, cioè, il linguaggio viene assunto a sua volta nella sua radicale immanenza allo svolgersi del Denken. Così, certamente, non poter portare a compiuta trasparenza il linguaggio vorrebbe dire, allo stesso tempo, non poter condur-

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re a compiuta trasparenza il pensare medesimo. E in effetti, se i contenuti del pensiero «sono esposti e consegnati innanzitutto nel linguaggio», poiché si producono e si determinano, nella loro costitutiva storicità, nel linguaggio e come linguaggio – se d’altro canto in quest’ultimo «agiscono istintivamente», come «logica naturale» e «inconscia», alla «scienza della logica» sembra che sia possibile non tanto operare il loro rischiaramento, la loro presa-di-coscienza, bensì piuttosto, proprio in quanto essa attua una tale presa-di-coscienza, soltanto riprodurre, a livello più alto, l’istintualità e l’inconsapevolezza di cui l’esperienza stessa del «pensare» si mostra intessuta. La «scienza della logica» costituirebbe allora la riproduzione differita dell’intrasparenza che contrassegna il «logico» nella vita, nell’uso del linguaggio, la riflessione di questa intrasparenza su se stessa – il raddoppiamento, epistemicamente configurato, dell’opacità originaria. Il rischiaramento prodotto dalla dialettica apparirebbe quindi come un rischiaramento dalle modalità accecanti poiché avviene nell’orizzonte del linguaggio, poiché si trova già sempre compreso entro la densità materiale, rappresentativa di contenuti logici che il linguaggio «istintivamente» presenta27. In tal modo, per i contenuti in cui si articola il «pensare» sembra poter designare il «ritorno», da parte dell’io, nel «luogo della certezza di se stesso», solo nella misura in cui designi il luogo della certezza che di se stesso ha il linguaggio, di una certezza, 27.  Cfr. in proposito come Habermas stilizzi e faccia proprie le critiche portate a una modernità basata sul «principio dell’autocoscienza e della soggettività». Principio entro il quale lo stesso Hegel rimarrebbe compreso: «Il soggetto, dal momento che nel conoscere come nell’agire, verso l’esterno come verso l’interno, deve sempre riferirsi ad oggetti, si rende al contempo impenetrabile e dipendente anche in quegli atti che dovrebbero garantire la conoscenza di sé e l’autonomia. Questo limite inserito nella struttura dell’autorelazione resta inconscio nel processo del divenir cosciente» (J. Habermas, Il discorso filosofico della modernità, cit., p. 57).

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quindi, che appartenendo al linguaggio resta operante «istintivamente», luogo di un’autocoscienza ancora opaca. E tuttavia, l’aporia qui in questione riceve il suo statuto propriamente filosofico, la sua pregnanza in rapporto al pensiero hegeliano, proprio perché, nell’opacità che il linguaggio custodisce al nucleo dell’attività del Denken, è lo statuto irriducibilmente eccedente di quest’ultimo rispetto a ogni sua razionalizzazione, sia pure dialettica, rispetto a ogni sua con-figurazione in episteme ed esposizione, che una volta di più emerge e si fa «luce». È per l’intrascendibilità che contrassegna il Denken in rapporto al «Sé» dell’io pensante che esso non appare ulteriormente suscettibile di «fondazione» da parte di quest’ultimo; è per la costitutiva eccedenza che lo contraddistingue in rapporto alla sua stessa esposizione che esso non appare in grado di comprendersi, esaustivamente, neppure nel dispositivo circolare che quella pone in atto, né tantomeno di riassorbire, nelle procedure auto-riflessive della dialettica speculativa, il «cominciamento» da cui sempre di nuovo scaturisce e con cui, in pari tempo, segna l’inizio della sua Darstellung. Qui sta l’origine della «storicità» del «Denken», qui sta l’origine, teoreticamente intesa, della sua apertura e del suo radicamento nel linguaggio. L’opacità da cui resta avvolto quest’ultimo è la declinazione di un’opacità ancor più radicale, quella da cui resta avvolto il pensiero nell’insuperabile storicità che ne qualifica lo scaturire, sempre di nuovo risorgente, dall’orizzonte circoscritto dell’esposizione. In questo libro, abbiamo tentato di comprendere come l’Aufhebung del tempo nell’eternità, benché debba scontare la sua inclusione entro un orizzonte rappresentativo pre-istituito dal linguaggio, possa pervenire alla sua forma problematica nel­ l’Ewigkeit intrasistemica della filosofia. Come essa, nel suo simultaneo pervenire a compimento e «sprofondare», sancisce l’apertura del sistema hegeliano sulla contingente temporalità della storia, così essa testimonia anche come tale apertura non

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coincida e non possa coincidere con l’impotenza di un pensare che si arresti alla constatazione di una storicità disarticolata e senza concetto. Al contrario, nella «esposizione speculativa» il begreifendes Denken si manifesta come potenza efficace in rapporto alla «ricostruzione» dell’ordinamento logico-­ontologico del mondo, anche se a prezzo di contraddizioni che sembrano eccedere le possibilità della Versöhnung dialettica, segnando l’apertura verso il futuro del dispositivo epistemico così instaurato. Forse, proprio questa apertura reca per noi la testimonianza, ricca d’insegnamenti, di un pensiero che non cessa d’isti­tuire forme ed esposizioni, che non rinunzia a individuare, nella «croce» della storia, la «rosa» di una verità che dall’interno la eccede, così come sopravanza l’interminabile catena d’interrogazioni e d’interpretazioni cui dà origine – disposto e votato a scontare questo più d’intemporalità col crollo cui va incontro, ma mediante il quale soltanto viene lasciato tempo al futuro.

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Indice dei nomi

Adorno, Th.W.:  90 n., 143 n., 144 n., 147 n. Agazzi, El.:  208 n. Agazzi, Em.:  208 n. Altwicker, N.:  137 n. Aristotele:  119 n. Arnaud, E.:  130 n. Beierwaltes, W.:  146 n. Bloch, E.:  141 e n., 149. Bodammer, Th.: 19 n., 27 n., 36 n. Bodei, R.:  9, 12, 39 n., 44 n., 82 n., 86 n., 90 n., 96 n., 129 n., 141 n., 149 n., 235 n. Bonsiepen, W.:  100 n., 104 n., 134 n., 193 n. Brockard, H.:  9. Brauer, O.D.:  133 n., 135-137 n., 140 n. Bubner, R.:  46 n., 83 n. Buchner, H.:  9. Calabi, L.:  146 n.

Canilli, A.:  27 n. Cantillo, G.:  10. Cesa, C.:  10. Chiereghin, F.:  9, 59 n., 137 n., 149 n., 155 n. Chiodi, P.:  118 n. Clark, M.:  26 n., 153 n., 154 n. Cook, D.J.:  22 n., 23 n., 147 n., 156 n. Costantino, S.:  18 n. Croce, B.:  10, 175 n. Dal Pra, M.:  130 n. Damnjanovic, M.:  215 n. De Negri, E.:  10, 68 n. Deguchi, S.:  215 n. Della Volpe, G.:  96 n. Derbolav, J.:  37 n., 73 n. Derrida, J.:  17 n., 19 n., 22 n., 97  n., 119 n., 154 n., 192 n., 208 n. D’Hondt, J.:  18 n. Donolo, C.A.:  90 n. Dottori, R.:  51 n.

246 Drüe, H.:  159 n. Dunning, S.:  36 n. Dürck, J.:  159 n. Düsing, K.:  9. Duso, G.:  141 n. Fetscher, I.:  156 n., 159 n. Fichte, J.G.:  126 n. Findlay, J.N.:  146 n. Gadamer, H.-G.:  47 n., 51 n., 230 n., 240 n. Garelli, G.:  68 n. Gauthier, Y.:  214 n. Geraets, T.F.:  149 n. Gérard, G.:  14 n. Gipper, H.:  37 n. Güssbacher, H.:  159 n. Guzzoni, U.:  91 n. Habermas, J.:  21 n., 208 n., 242 n. Hamann, J.G.:  36 n. Harlander, K.:  47 n. Harris, H.S.:  14 n. Hartmann, N.:  89 n. Heede, R.:  58 n., 70 n. Heidegger, M.:  105 n., 118-121 e n., 132, 143 n. Henrich, D.:  129 n., 159 n. Hoffmeister, J.:  10, 36 n. Horstmann, R.-P.:  9, 129 n. Hösle, V.:  194 n. Hyppolite, J.:  20 n., 24 n., 132 n. 159 n. Iljin, I.:  106 n.

Jarczyk, G.:  86 n., 149 n., 150 n., 227 n. Kayser, U.:  137 n. Kemper, P.:  46 n., 47 n., 50 n., 84 n. Kimmerle, H.:  9, 14 n., 86 n., 150 n. Kobligk, H.:  137 n. Kojève, A.:  20 n., 131, 132 e n., 133 n., 135 e n., 137 n., 149 e n. Koselleck, R.:  137 n. Koyré, A.:  131, 132 e n., 133 e n., 134, 135 e n. Labarrière, P.-J.:  86 n., 103 n., 149 n. Lakebrink, B.:  90 n., 96 n., 137 n., 227 n. Lamb, D.:  26 n., 31 n. Lasson, G.:  10. Leibniz, G.W.:  98 n. Liebrucks, B.: 48 n., 134 n., 151 n., 191 n., 193 n., 201 n. Litt, Th.:  20 n., 228 n. Löwith, K.:  17 n., 23 n., 41 n. Lugarini, L.:  92 n., 99 n. Marcuse, H.:  130 n., 140 n. Marietti Solmi, A.:  137 n. Marmiroli, E.:  146 n. Marx, W.:  46 n., 47 n., 65. Maurer, R.K.:  137 n. Meriggi, M.G.:  21. Michel, K.M.:  10. Moldenhauer, E.:  10.

247 Moni, A.:  10. Mure, G.R.G.:  140 n., 156 n., 174 n. Niel, H.:  133 n., 134 n., 152 n. Nietzsche, F.:  31 n. Ohashi, R.:  92 n. Peperzak, A.:  157 n. Pintus, G.:  11. Planty-Bonjour, G.:  32 n. Platone:  141 n. Puntel, L.B.:  46 n., 92 n., 153 n. Reiter, J.:  152 n. Rotenstreich, N.:  137 n. Roth, E.:  159 n. Röttges, H.:  71 n., 75 n. Salvadori, R.:  20 n. Schmidt, F.:  23 n. Sertoli, G.:  154 n. Simon, J.:  21 n., 23 n., 47 n., 48 n., 82 n., 151 n., 176 n. Solger, K.:  83 n. Soll, I.:  64 n. Souche-Dagues, D.:  86 n., 121 n., 137 n., 150 n. Spinoza, B.:  68 n. Surber, J.P.:  70 n., 121 n. Tagliagambe, S.:  83 n. Taminiaux, J.:  29 n. Tessitore, F.:  141 n. Theis, R.:  192 n. Theunissen, M.:  157 n., 186 n.

Trede, J.H.:  9. Trinchero, M.:  31 n. van der Meulen, J.:  120 n., 121 n., 143 n., 215 n. Verra, V.:  10, 89 n., 141 n. Vieillard-Baron, J.-L.: 121 n., 141 n., 216 n. Vitiello, V.:  121 n. Wandschneider, D.:  102 n., 135 n., 193 n., 194 n. Werner, J.:  46 n., 84 n. Wittgenstein, L.:  31 n. Wohlfart, G.:  46 n., 48 n., 49 n., 151 n., 191 n., 200 n., 201 n. Wolff, C.:  68 n. Züfle, M.:  83 n.

Indice

Sigle e abbreviazioni Premessa alla nuova edizione

p. 9 p. 11

Capitolo I L’esposizione speculativa 1.  Pensiero e linguaggio nei primi frammenti jenesi di filosofia dello spirito (1803-04) 2.  Pensiero e linguaggio nella filosofia dello spirito jenese del 1805-06 3.  La proposizione speculativa: prospettive ermeneutiche 4.  Pensiero concettuale e pensiero rappresentativo: la distruzione della forma proposizionale 5.  Il concetto di esposizione speculativa 6.  Io filosofico e lingua dell’esposizione: l’irruzione della problematica temporale

p. 13 p. 33 p. 46 p. 52 p. 65 p. 72

Capitolo II L’esposizione speculativa come eternità realizzata 1.  Temporalità e movimento dell’esposizione 2.  La dialettica concreta delle dimensioni temporali

p. 89 p. 101

3.  Il concetto speculativo dell’eternità 3.1. Excursus sull’interpretazione di Koyré e di Kojève 4.  L’eternità come ora concettuale: «Ewigkeit» speculativa e ritmo dell’esposizione

p. 117 p. 131 p. 138

Capitolo III La scrittura e l’apertura dell’esposizione 1.  La chiusura del sistema come modo della sua apertura 2.  «Darstellung» e «Vorstellung» 3.  Pensiero e rappresentazione nell’Enciclopedia 4.  Tempo della «Vorstellung» e tempo della «Darstellung» 5.  Spazializzazione dell’eternità e problema della scrittura 6.  «Denken» e «Darstellung»: l’apertura dell’esposizione

p. 145 p. 150 p. 159 p. 183 p. 188 p. 208

Osservazioni conclusive

p. 219

Indice dei nomi

p. 245

Zeugma

Lineamenti di Filosofia italiana | Classici Diretta da: Massimo ADINOLFI e Massimo DONÀ

1. Pasquale Galluppi, Memoria sul sistema di Fichte. 2. Carlo Invernizzi, Lucentizie. L’enigma del tempo. 3. Massimo Adinolfi - Massimo Donà (a cura di), Trovarsi accanto. Per gli ottant’anni di Vincenzo Vitiello. 4. Luca Basile (a cura di), Croce e la revisione del marxismo. Antologia di testi critici. 5. Nicola Magliulo, Segni del presente. Prospettive di filosofia italiana contemporanea. 6. Vincenzo Vitiello, Hegel in Italia. Itinerari. I - Dalla storia alla logica. II - Tra Logica e Fenomenologia. 7. Massimo Donà, Un pensiero sublime. Saggi su Giovanni Gentile. 8. Mario Capanna - Massimo Donà - Luigi Vero Tarca (a cura di), Cháris. Omaggio degli allievi a Emanuele Severino. 9. Vincenzo Vitiello, L’Ora e l’attimo. Confronti vichiani. 10. Antonio Rosmini, Dell’amicizia. Alcuni inediti giovanili.

11. Massimo Donà, Apologia dell’immediato. Percorsi evoliani. 12. Gaetano Rametta, Il problema dell’esposizione speculativa nel pensiero di Hegel.

Zeugma | Lineamenti di filosofia italiana 12 - Classici

Collana diretta da: Massimo Adinolfi e Massimo Donà

Le relazioni tra pensiero e linguaggio, eternità e tempo, rappresentazione e concetto sono le questioni teoretiche di fondo affrontate da Hegel. Il presente volume cerca di interpretarle alla luce di una problematica centrale: quella dell’esposizione speculativa. Le tappe di sviluppo del pensiero hegeliano vengono ricostruite attraverso la minuziosa analisi dei testi, dagli scritti di Jena alla Vorrede della Fenomenologia, dalla Psicologia del 1830 alla seconda Prefazione della Logica. Alla radice del sistema vengono evidenziate tensioni e aporie, che se da un lato si mostrano funzionali all’instaurazione del dispositivo dialettico, dall’altro sembrano comprometterne la coerenza, aprendolo in direzione del pensiero contemporaneo.

Comitato scientifico:

Andrea Bellantone, Donatella Di Cesare, Ernesto Forcellino, Luca Illetterati, Enrica Lisciani Petrini, Carmelo Meazza, Gaetano Rametta, Valerio Rocco, Rocco Ronchi, Marco Sgarbi, Davide Tarizzo, Vincenzo Vitiello.

Gaetano Rametta insegna Storia della filosofia al Dipartimento FISPPA dell’Università di Padova. È autore di un’ampia bibliografia su Fichte, Hegel, Bradley e la ricezione dell’Idealismo Tedesco nel pensiero contemporaneo. Di recente ha pubblicato la monografia Deleuze interprete di Hume (Milano 2020).

ISBN ebook 9788855290883

€ 11,00