Il principe di Galles va in vacanza 8867084771, 9788867084777

Berlino, anni '20: un giovanissimo Billy Wilder, dopo aver lasciato la carriera da avvocato, comincia a scrivere pe

132 21 4MB

Italian Pages 224 [191] Year 2016

Report DMCA / Copyright

DOWNLOAD PDF FILE

Table of contents :
Copertina
Trama
Biografia
Copyright
Frontespizio
EDIZIONE STRAORDINARIA! - REPORTAGE E ARTICOLI ISPIRATI ALLA VITA REALE
«Cameriere, un ballerino per favore!»
Ecco Cristoforo Colombo appena giunto nel vecchio mondo
L’arte dei piccoli trucchi
Naftalina
Meglio non essere obiettivi!
A 29 gradi
Il giorno del destino
Perfetto ottimista cercasi
Ristrutturazione
Perché i fiammiferi non hanno più lo stesso profumo?
La rosa di Gerico
Piccola lezione di economia
Il terrore di essere filmato
Dagli ottimisti viennesi
Rendez-vous berlinese
Volo notturno nel cielo di Berlino
Emergenza sete
Noi berlinesi siamo curiosi! - E vogliamo che diate una risposta a queste domande
Conflitto: il comitato della city, il governo e Berlino
Berlino in un pantano
La costruzione dei terrapieni per la tranvia: uno spreco
Noi della Filmstudio 1929
Come abbiamo girato il nostro film sperimentale
Consigli per gli acquisti
Come ho fatto a batter cassa con Zaharoff
GENTE DI DOMENICA - RITRATTI DI PERSONE PIÙ O MENO IMPORTANTI
Chaplin II e gli altri a ruota.
Un problema di somiglianze
Il Ministro a passeggio
Il Principe di Galles va in vacanza
Intervista con una strega - Il mestiere più attuale per le donne
Grock: l’uomo che fa ridere il mondo!
Dieci minuti con Šaljapin
Claude Anet a Berlino
Dalla più anziana berlinese
Felix Holländer. - In occasione del suo sessantesimo compleanno
Il decano della critica berlinese - La morte di Alfred Klaar
La signora del «B.Z.» e il Principe ereditario tedesco
Stroheim, l’uomo che vi piacerebbe odiare
Un artista del poker
«Pronto, parlo con il signor Menjou?»
Un anno fa moriva Klabund
UNO, DUE, TRE!
Critiche cinematografiche e teatrali: veloci, brevi, prosaiche
Postfazione all’edizione tedesca, di Klaus Siebenhaar
Edizione straordinaria: il reporter Billie Wilder
Nota biografica
La nota del traduttore
Fonti originali degli articoli
Indice
Recommend Papers

Il principe di Galles va in vacanza
 8867084771, 9788867084777

  • 0 0 0
  • Like this paper and download? You can publish your own PDF file online for free in a few minutes! Sign Up
File loading please wait...
Citation preview

Berlino, anni ’20: un giovanissimo Billy Wilder, dopo aver lasciato la carriera da avvocato, comincia a scrivere pezzi e reportage per un importante quotidiano berlinese. Sotto la lente della sua intelligenza brillante passano così critici teatrali e poeti, attori e politici, ma anche gli effimeri protagonisti della buona società dell’epoca e le persone comuni, nella vita di tutti i giorni e negli svaghi della domenica. Di ciascuno coglie con sguardo acuto e un sorriso divertito, debolezze e particolarità, e con questo materiale ricco di umanità e di toni, compone sapientemente scene e dialoghi pieni di humour. E poi ci sono le questioni cittadine e gli avvenimenti contemporanei, gli spettacoli teatrali e cinematografici della Berlino di quegli anni, che la sua penna ricrea con grande vivacità e stile personalissimo. Il mezzo può essere diverso, ma lo stile e la capacità di delineare vicende e personaggi sono proprio quelli dei grandi capolavori di Wilder, sceneggiatore e regista di film indimenticabili come Quando la moglie è in vacanza e A qualcuno piace caldo.

Billy Wilder, nome d’arte di Samuel Wilder (1906-2002), nacque in una piccola città della Galizia, all’epoca parte dell’Impero Austro-Ungarico. Per sfuggire alle persecuzioni antiebraiche emigrò negli Stati Uniti, dove si dedicò definitivamente alla carriera cinematografica, già intrapresa nel vecchio continente. Regista, sceneggiatore e produttore, è considerato uno degli artisti più prolifici ed eclettici nella storia del cinema statunitense ed è divenuto celebre come padre della commedia brillante americana. In circa cinquant’anni di carriera ha diretto oltre venticinque film (e scritto settantacinque sceneggiature), tra i quali ricordiamo Sabrina, Irma, la dolce, L’appartamento e Viale del tramonto, questi ultimi vincitori dell’Oscar per la migliore sceneggiatura originale.

Senza frontiere

In copertina la Grosser-Stern-Turm della Berlino degli anni ’30 © 2016 Edizioni Lindau s.r.l. corso Re Umberto 37 – 10128 Torino www.lindau.it | [email protected] www.facebook.com/Edizioni.Lindau - www.twitter.com/EdizioniLindau Prima edizione: aprile 2016 ISBN 978-88-6708-530-9

Billy Wilder

IL PRINCIPE DI GALLES VA IN VACANZA Traduzione e cura di Silvia Verdiani

IL PRINCIPE DI GALLES VA IN VACANZA Chi ero. Cosa sono diventato. Chi sono ora? Niente di che. Billy Wilder

EDIZIONE STRAORDINARIA! REPORTAGE E ARTICOLI ISPIRATI ALLA VITA REALE

«B.Z. am Mittag», 19 gennaio 1929

«Cameriere, un ballerino per favore!» Dalla vita di un ballerino a pagamento

1. Cerco impiego Per prima cosa lasciamoci guidare dalle parole di una lettera: Caro B.W., scriva le sue memorie di ballerino a pagamento. L’unica cosa della letteratura che al momento ancora ci interessa è la materia prima di cui è fatta: la vita, l’esistenza, la realtà. Il motto del «vitalismo» suona così: tutto ciò che ha vita non è che una similitudine. Suo Klabund

*** Insomma mai vergognarsi di ciò che si è fatto. E nemmeno tirare fuori scuse come: «Il lavoro è lavoro». Oppure «Il lavoro nobilita l’uomo». Ma parlare senza tanti giri di parole. Ho avuto la lettera di congedo dall’impiego di ballerino a pagamento, come desideravo, ora il documento è nel mio portafoglio: Lettera di referenze: Il signor Billy Wilder ha lavorato presso di noi dal 15 ottobre 1926 a oggi come ballerino di sala. Il signor Wilder in qualità di ballerino ha saputo adattarsi in modo eccellente alle richieste del pubblico più esigente. Si è rivelato molto affidabile nel suo ruolo, tutelando sempre gli interessi della casa. Il signor Wilder lascia di sua volontà l’incarico. La direzione dell’Hotel… Berlin W.

Dunque è scritto qui nero su bianco, sono stato per due mesi un ballerino, un ballerino di sala, in poche parole un ballerino a pagamento, uno che «ha saputo adattarsi in modo eccellente alle richieste del pubblico più esigente».

È accaduto per caso. È andata come segue: non me la passavo affatto bene…. Ho i pantaloni da stirare, il viso mal rasato, il collo della camicia sudicio, i polsini rovesciati. Ho la bocca amara, le gambe pesanti come il piombo, i crampi allo stomaco per la fame, i nervi a pezzi. Ogni volta che bussano alla porta vedo il viso inviperito della padrona di casa che strilla, agitando il mio conto fra le dita. La strada per me non è altro che un susseguirsi di negozi di specialità gastronomiche, ristoranti e pasticcerie, e le sigarette le divido perché durino di più. Non me la passo bene. Questa notte dormirò nella sala d’aspetto della stazione. Triste bilancio di un commercio di sigari: 11 Pfennig, nella giacca ne ho ancora 5, in tutto fanno 16. «Quattro per quattro!» Così si cammina più leggeri. Ma verso dove? *** Potsdamer Platz. Uno grida nel rumore del traffico, uno agita il bastone, un altro cerca di mettere sotto qualcuno con la carrozzina. «Buongiorno! Che coincidenza trovarla qui! Non si ricorda di me? No? Nel tabarin a Vienna. Ma sì, ma certo… Roberts». Vorrei sprofondare per la vergogna. «Venga a prendere un cognac con me, è mio ospite. Ha fame? Perfetto. Taxiiiiii… È libero? Al Kempinski!». Poi, al ristorante: «Ci porti del pesce con maionese e filetto all’inglese per due, al sangue, due insalate, una bottiglia di Liebfrauen del 1917. Ma prima due Hennessy grandi». *** Vi presento Roberts, il ballerino: ha i capelli neri come l’inchiostro e lucidi come l’asfalto bagnato, uno sguardo mediterraneo, il naso e le labbra sono quelli del defunto Rodolfo Valentino.

A mezzogiorno fa sempre un pasto caldo e fuma Importen, le monete gli tintinnano nelle tasche, paga l’affitto puntualmente e alla stiratrice non deve un centesimo, eh sì, la parola «difficoltà» non gli è mai nemmeno passata per la testa. Per vivere in questo modo, forse bisogna essere miliardari. Ma certo, lui fa il ballerino: Yvette e Roberts. Ha danzato a Londra e a Parigi, a Varsavia, a Vienna, a Nizza, a Karlsbad, a Bruxelles e a Roma, a San Sebastian, ovunque. L’hanno scritturato a Berlino per tutto l’inverno, mi racconta mentre mangiamo. Un albergo enorme, vicino alla Gedächtniskirche. Ogni sera: Yvette e Roberts danzano per voi. Tutti sono così gentili con lui. «E lei? Mi dica, lei che cosa fa?». Abbasso la testa, in modo che non veda il collo della mia camicia. Insomma… va così così. In quel momento non stavo facendo un bel niente, ero senza impiego già da tre settimane. Ma sarebbe presto saltato fuori qualcosa. Avrei anche un’idea, di idee ne avevo sempre. «La posso aiutare?». Roberts mi appoggia una mano sul braccio. Armeggio con la cravatta, distogliendo lo sguardo, mi metto a leggere l’etichetta della bottiglia di vino. «Lei ha un fisico ben proporzionato». Che cosa ho, io…? «Ha degli abiti, uno smoking?». Ma sì, ma sì, naturalmente, solo che al momento sono impegnati. «Senz’altro lei sa come ci si comporta in società, sa fare l’inchino e baciare la mano a una signora». Non ci capisco nulla. «Lei sa ballare, lo so. E allora le domando: non vuole approfittare di questo suo capitale?». Lo guardo con un’espressione da idiota.

«Dico, li vuole guadagnare dei soldi?». Sono quasi a bocca aperta. «Soldi, molti soldi». Non dico una parola. «Farà… il ballerino a pagamento da noi. Si presenti domani stesso». Poi chiede il conto, tira fuori dal portafoglio una banconota da cento marchi, mentre lo fa lascia che se ne vedano un’altra dozzina, e la porge al cameriere. … Sì, domani stesso mi presenterò. 2. Il primo giorno in hotel La mattina dopo Roberts mi fece pervenire duecento marchi: «Per una temporanea ma adeguata sistemazione». Ne lasciai 75 di acconto alla padrona di casa, andai al banco dei pegni, ritirai la mia valigia con la biancheria pulita dalla stiratrice lì di fronte, trascorsi un’ora dal parrucchiere e una davanti allo specchio, feci e rifeci il nodo alla cravatta, spazzolai e lisciai. Seduto in una poltrona della hall dell’albergo, mollemente e comodamente allungato, una gamba sull’altra, sto già fumando la decima sigaretta da dodici centesimi. L’hotel in cui dovrei «lavorare» è proprio questo. Il ragazzo alla porta girevole mi prende per un cliente e si alza il cappello. Ora la pelliccia di persiano di una signora con delle scarpe di coccodrillo affusolate mi sfiora il ginocchio, poi lei va verso l’ascensore, sorride al ragazzo, scompare. Un sottile profumo di Coty aleggia ancora nell’aria e mi stuzzica i nervi. Carico di valigie, un inserviente a ore incespica mentre procede verso la porta, un signore in raglan e con una gamba rigida scrive il suo nome nel registro degli ospiti, il portiere chinandosi porge il palmo della mano a una coppia piuttosto anziana e il cameriere del bar fa un gioco di equilibrismo con due manhattan e una limonata.

Dico a me stesso: sono proprio un pazzo. Notti insonni, scrupoli, dubbi? Quella porta girevole mi ha lanciato verso la felicità, ne sono sicuro. Fuori è inverno, i miei amici infreddoliti del Romanisches Café disputano di compassione e centesimi e, proprio come me fino a ieri, non sanno dove andare a dormire. Io invece sono un ballerino. Avrò tutto il gran mondo intorno a me… nella sala da ballo signore dalle lunghe gambe affusolate siedono ai tavolini, sorseggiando un caffè moka. Posata la tazzina, mi scruteranno attraverso le montature d’oro dei loro stilosi occhiali, le labbra carminio piegate in un sorriso dolce e insoddisfatto. I mariti e gli amici tirati a lucido mi lanceranno gelosi sguardi di fuoco. La luce bordeaux fluisce sulla pista da ballo, gli spagnoli sul podio tirano fuori dalla loro fisarmonica un tango argentino e cantano con un accento straniero. Ballerò con una signora dalla bellezza esotica… Bianche e incipriate, le sue braccia mi cingono la nuca. Dai suoi capelli si sprigiona il profumo di Narcisse noir… *** «Dormito bene?». Roberts. «Vestito stirato? Colletto pulito? Cravatta intonata? Un attimo!» Poi torna da me con un giovane che ha una faccia gialla come la cera vergine, gli occhi rossi e lacrimosi. Sembra uno che dorma poco. I capelli radi, nonostante non abbia più di trent’anni. Un’aria vissuta. Roberts: «Le presento il signor Isin, il direttore di ballo». Il signor Isin mi porge la sua mano burrosa, sembra priva di ossa. Allo stesso tempo balbetta qualcosa in tono spento e strascicato. È russo. Roberts: «Isin, spiegherà tutto lei al signore. Io devo andare in sala». Il signor Isin annuisce, si tira su i pantaloni sulle ginocchia e si siede accanto a me. «Dove ha ballato fino a oggi?».

«Da nessuna parte». «Ah, un dilettante. Capisco». Tira fuori dalla tasca della giacca un vecchio biglietto dell’autobus e un minuscolo mozzicone di matita, ne inumidisce la punta. «È necessario che la registri alla polizia. Deve pagare le tasse. E anche la cassa malattia. Come si chiama?». Così e così. «Nato a?». Così e così. «Giovane, molto giovane». Biglietto e matita spariscono di nuovo nella tasca del signor Isin. «Le dico solo l’essenziale: lei danza pomeriggio e sera. Dalle quattro e mezza alle sette, e dalle nove e mezza all’una. Al pomeriggio abito scuro, colletto rigido, la sera smoking. Mangia con i suoi colleghi. Come un ospite». Come un ospite… «Per quanto riguarda il cachet: cinque marchi al giorno, che fanno 150 al mese. Ma non dimentichi: oltre a questo ci sono…». Il signor Isin strizza l’occhio sinistro. «Le lezioni di ballo… o le mance». Il viso giallo del direttore di ballo mi osserva a lungo con benevolenza. «Da noi nessuno è mai morto di fame. Vedrà, si troverà benissimo». «Mi troverò benissimo». «I miei compiti?». «Hm, questo per la verità non posso spiegarglielo. Il nostro mestiere sta tutto nella pratica, solo nella pratica». «Il nostro mestiere…». «Può cominciare già oggi» mi aveva detto Roberts. «Si tolga il cappotto. Il resto glielo spiego in sala».

*** Il guardaroba «Questo è il nostro nuovo ballerino». La donna al banco mi guarda dritto negli occhi, con l’attenzione di un medico militare. Poi dice in dialetto ceco: «Lo metta sempre qua, quando c’è ressa invece lo metta là davanti, altrimenti siamo troppo allo stretto e non c’è più posto per i clienti. Capito?». «Certo, mia cara signora». In sala. Pieno zeppo. Fumo di sigarette. Profumo e brillantina. Signore in tiro fra i venti e i cinquant’anni. Teste calve. Mamme con figlie non ancora signorine. Giovincelli con cravatte sgargianti e ghette chiare. Famiglie al completo. L’orchestra jazz sul podio, piegata sugli strumenti, sussulta seguendo il ritmo della musica che produce. Fa eccezione il suonatore di banjo che annoiato guarda a bocca aperta le coppie che saltano, sbattono, sbuffano e rimbalzano. Un rumore fragoroso e opprimente. Gli occhi rossi del signor Isin mi guardano come per dirmi: vai! Sì sì, va bene, vado a ballare. Nell’angolo laggiù in fondo, ecco la signora in persiano e scarpette di coccodrillo. Ho deciso di invitare lei a ballare. Ma il signor Isin mi batte sulla spalla. «Lei balla con il tavolo 91. È qui, proprio davanti a lei». Tavolo 91: una signora anziana in abito verde bottiglia, col collo lungo e i capelli giallo uovo; e una bassa con un naso rossiccio all’insù di chi ha grandi aspirazioni. Sono in piedi davanti a loro, come l’asino di Buridano. La fronte imperlata di sudore, gioco tutte le mie carte, inerme e tremante. Poi spingo meccanicamente il busto in avanti verso quella col naso all’insù, protendo le labbra e dico sottovoce: «Permette, signora?».

Mi sorride con un’espressione seccata e ci pensa su. Devo avere un’aria da fesso in questa ridicola posizione, la testa paonazza piegata verso di lei. La più piccola si alza, appoggia il suo braccio rotondetto sulle mie spalle. Balliamo. Il sangue mi pulsa alle tempie, le gambe mi sembrano paralizzate per un colpo apoplettico. Mi si annebbia la vista. Finché uno non mi riporta in vita allungandomi un calcio sullo stinco. Un ballo infinito. La camicia mi si incolla al corpo. Stringo i denti. Non facciamo che girare. Le braccia sembrano due blocchi di piombo. Vorrei davvero mollare qui la mia ballerina, prendere il paltò al guardaroba e scappare via, lontano, da quelli che non hanno né un centesimo né un letto». Ma il viso del signor Isin sorride, giallo e lontano. Ballo solo con il tavolo 91. La signora col collo lungo mi ha domandato come mi chiamo, adesso che sanno che io faccio il ballerino qui vogliono venire più spesso. 3. I colleghi Una volta il signor Isin viene da me. «Li conosce già i suoi colleghi? No? Venga!». Nella sala rossa, quasi sulla porta, quattro giovani sono seduti intorno a un tavolo, concentrati a mangiare. «Un nuovo collega, il signor…». Il signor Isin si fruga nelle tasche alla ricerca del mio biglietto da visita, il mio nome gli sfugge. «Molto piacere, molto piacere, altrettanto, altrettanto». Ecco i quattro: uno si chiama Willy ed è viennese. Ha lavorato due anni in un circo, come artista, «giochi icariani». Ma con questo lavoro ci sono più chance, dice. Ha i denti guasti e i suoi capelli luccicano per la brillantina da poco prezzo. Forse faceva meglio a restare al circo? Il nome del secondo non l’ho capito bene, mi sembra che finisse in «sti», un berlinese. A dire il vero è il rappresentante

per una cartiera. Il fatto che ora balli per fare dei soldi è: a) un segno dei brutti tempi, b) un suo strano ghiribizzo. La mattina porta a spasso la sua valigetta di campioni, il pomeriggio balla. Solo il pomeriggio. La sera tirerà le somme. Quello vicino a me è Kurt, un giovane gentile, di buona famiglia, con una cravatta a righe verticali di buon gusto e il mal di stomaco. Per questo beve sempre solo tè. Occhiali di tartaruga. Molto simpatico. Anche lui è ingaggiato solo per il tè delle cinque, anche lui in realtà non è un ballerino. Un pianista piuttosto, ma senza scritture. E poi si dovrebbe sempre essere ben vestiti. Infine il quarto: il professeur de danse Miguel Ferrer. Spagnolo. Non è molto alto, ma ha dei bei lineamenti. Non parla una parola di tedesco, solo francese, fiammingo, italiano, portoghese, olandese e naturalmente spagnolo. Se vuole comunicare con gli altri porta le dita agli occhi, alle orecchie, le mette sul naso, le incrocia sulle labbra, gira i gomiti e indica in tutte le direzioni. È una specie di lingua dei segni tutta sua, dal momento che gli altri tre parlano solo tedesco, a parte il viennese, ma non padroneggia bene neanche quello. Un cameriere mi serve: caffè, torta di mele con la panna, gelato – come un ospite. E mi chiede se desidero ancora della panna. In quel momento Ferrer mi domanda: «Parlez-vous français?». «Mais oui». «Epatant. Je suis heureux de pouvoir causer avec vous». Raschio via dal piatto quel che resta della torta. Gli altri quattro sono già sulla pista da ballo. Willy è incollato a una signora grassa, lo spagnolo solleva annoiato le gambe, fuori tempo, tanto la sua partner non se ne accorge, con gli occhietti estasiati rivolti al soffitto. Io sono di nuovo al lavoro, tavolo 91. Fa un caldo insopportabile. Il mio colletto è molle come un budino e tutto bagnato di sudore, le braccia mi dolgono. Le due orchestre più in alto suonano senza sosta. Sulla pista – sette metri di lunghezza e cinque scarsi di larghezza – trenta coppie. Il rappresentante della cartiera osserva i miei

movimenti e storce la bocca di compassione: principiante. Roberts è seduto a un tavolo, proprio vicino alla pista e mi fa l’occhiolino: coraggio. E Ferrer, che si è appena preso una gomitata nella costole da uno, dice una parolaccia in spagnolo. Ore sette. La sala è già mezza vuota, il tavolo 91 è andato via. Ferrer e io siamo al guardaroba. Ed ecco riapparire Isin. «Ebbene?». «Perché?». Isin mi dà un colpetto sulla spalla. «Vedrà che imparerà». Poi dice: «Cerchi di essere qui alle nove e mezza. Il cameriere le farà vedere dove si pranza. Adieu». Tavolo 103 Nella mia catapecchia fa un freddo cane. Al mattino sarebbe il caso di accendere il riscaldamento, almeno un pochino. Non è affatto piacevole dedicarsi mezzo nudo a una minuziosa toilette per due ore, cercare di annodare il farfallino dello smoking con le dita blu per il gelo. Dalle sette alle nove e mezza faccio una «pausa». Solo apparentemente però, perché devo cambiare l’abito da passeggio, con cui ballo all’ora del tè, con lo smoking; e poi anche la camicia, le scarpe, le calze, la cravatta. No, domani mattina bisognerà senz’altro riscaldare un po’. Noi altri possiamo permettercelo, non è vero, signor Isin? Ore nove e mezza nella sala da ballo dell’hotel. Ci sono già degli ospiti. I tavoli migliori sono riservati per il pubblico del teatro. Signore in abito lungo di lamé, con le acconciature che sanno ancora di bruciato. Signori in abito da sera, che attraverso il monocolo controllano il prezzo dei vini sul menù. Uno dei musicisti dell’orchestra di tango suona un assolo al violino, dalla Butterfly. La signora rotondetta del tavolo nell’angolo si copre gli occhi con un movimento appassionato della mano.

*** Mi siedo in un angolo della sala. Intorno a me tre camerieri. Uno mi fa scivolare sotto al naso la lista completa delle vivande, un altro la carta dei vini, il terzo sistema un vaso di fiori sul tavolo. «Mi scusi, il signore aspetta qualcuno?». «Ma no, io veramente sarei il nuovo ballerino.« Quello con il viso rotondo e una macchia sbiadita di gulasch sul davanti della camicia lancia un’occhiata al suo collega, ridendo sotto i baffi. «Un ballerino? Non è qui che deve stare. Non ancora». E dice al ragazzo alla porta: «Accompagna il signor ballerino alla sua sala da pranzo». La mia sala da pranzo si raggiunge salendo una scala di legno, è stata allestita su una balconata chiusa al pubblico: due tavoli consunti e un paio di sedie. Il tavolo a destra è riservato ai maître, quello a sinistra è per tutti gli altri, e cioè: camerieri, groom dell’albergo, ragazzi dell’ascensore, portieri, chi apre le portiere dell’auto, le signorine del caffè e così via, e quindi anche per i ballerini. Ferrer lo spagnolo, e Willy, il viennese, sono già lì. E poi c’è anche un altro, lo chauffeur del nostro capo, il «comproprietario dell’albergo». Menù del personale: consommé, filetto di vitello lardellato, con verdure novelle e salsa al Madeira – quasi gelato –, una bottiglia di birra, senza contare i panini. Insomma, una meraviglia. Willy dà sempre tre groschen al ragazzo che ci serve, per comprare due gelati. «Bisogna proprio che prenda qualcosa, il charleston rende maledettamente magri, parola mia». Il signor Isin viene su solo per fare un’ispezione, i signori dirigenti infatti mangiano di sotto, in sala. Smoking splendido, a doppio petto, con ampi revers, camicia bianco latte, bottoni d’oro. Rasato, pettinato, profumato.

«Era buono il pranzo? Al lavoro, signori miei». Là sotto c’è già un gran movimento. Bella gente. Spumante. «Vada dall’altra parte della sala, al tavolo numero 103. Guardi: una signora, un signore e due ragazze giovani. Provi a fare lei il primo passo». Fare il primo passo significa – stando a quanto mi spiega Willy – invitare le signore a ballare. Mi soffio il naso e al primo foxtrot mi avvicino. Se il signore permette… Eh sì, il papà del tavolo 103 non ha davvero nulla in contrario che io balli con le sue figlie. Ballo prima con una e poi con l’altra. Entrambe hanno ancora braccia sottili e un sorriso timido. La più grande, avrà diciassette anni e mezzo, si stringe teneramente a me. Pare che ballasse volentieri anche a Neuchâtel, in Svizzera, dove era in collegio. Chissà se avrei voglia di tornare anche per un tango? Sì. Ma mentre balliamo il tango non dice più nemmeno una sillaba. Senza dubbio la mamma le ha tassativamente vietato di conversare con un ballerino a pagamento. *** Undici e mezza: Yvette e Roberts ballano, boston, charleston, paso doble. Durante il numero, il signor Isin è in piedi vicino a me. «La sera balli solo con i tavoli che le segnalo io. Oppure con le signore che la mandano a chiamare. Faccia molta attenzione». Willy mi racconta che aveva una vecchia cliente, una dottoressa. Ferrer sonnecchia apatico in un angolo del bar, fino a quando il signor Isin non lo dirige verso tre signore che hanno espresso il desiderio di fare un po’ di movimento. È molto meno gradevole che al pomeriggio. La camicia inamidata è una tortura. Le figlie del tavolo 103 poi non si stancano mai. Dopo mezzanotte la famiglia Tavolo Numero 103 prepara armi e bagagli per andar via. Il papà paga, la mamma si sistema lo zibellino sul décolleté e le figlie si incipriano le

guance accaldate per il ballo. La famiglia Tavolo Numero 103 si mette in marcia verso l’uscita. Il caso vuole che in quel momento io sia proprio lì vicino a loro. Le piccole fanno un cenno di saluto, la mamma fa finta di non vedermi, ma il papà viene dritto verso di me e mi porge la mano: «Arrivederla». Sento qualcosa sul palmo della mano, carta. Loro sono già al guardaroba. Metto la mano nella tasca dei pantaloni e corro via, rosso come un gambero appena sbollentato, mi chiudo nella toilette e con due dita tiro fuori quella cosa dalla tasca. Una banconota da cinque marchi. *** All’una riesco a tornare a casa. Stanco morto. Vorrei ancora appendere il mio smoking nell’armadio, ma mi si chiudono gli occhi. Quella notte sogno. Un uomo entra nella mia camera, si avvicina al letto. È magro e lungo e grigio, il suo cappotto logoro arriva fino a terra. Nella mano destra tiene un fascio di documenti, nella sinistra un alto cappello a tuba. I suoi piccoli, scialbi occhi da topo sono puntati su di me. Poi l’uomo posa il cilindro sul comodino da notte e tira fuori un foglio di carta ingiallita dal fascio di documenti. Le sue labbra sottili, bluastre, si aprono, e sottovoce, lentamente, vengono fuori le parole: «Sono qui per pignorarla!». «Pignorare me?» grido. Lo spilungone continua: «Lei deve alla sua padrona di casa l’affitto di maggio, giugno, luglio, agosto, settembre e ottobre». Salto giù dal letto: «No, è una bugia. Ho pagato, ho pagato tutto. La ricevuta è nel cassetto del tavolo». Lo spilungone non si muove, i suoi occhi da topo sono impassibili, solo le labbra bluastre si aprono: «Lei è un ballerino. Le pignorerò le ginocchia». Alzo i pugni contro di lui e urlo: «No!». E all’improvviso sento il sangue fermarsi nelle vene, il terrore mi assale e mi stringe alla gola: lo spilungone non sente, non ha le orecchie, solo pelle rosa, niente orecchie. Davanti a me la notte fonda: comincia a girarmi la testa e cado di nuovo sul letto privo di sensi. Ma l’uomo viene verso di me, allunga una mano rossa per il freddo verso le mie gambe, tira via le ginocchia dalla loro sede e le mette con precauzione nel cilindro. Poi lo prende dal comodino, si mette i documenti sotto il braccio e va verso la

porta. Cerco di seguirlo ma cado. «Il mio lavoro, il mio lavoooro!» farfuglio. Quello spilungone è in piedi nel vano della porta, si volta e sogghigna. Disgustoso. Mi rivedo nella sala da ballo. A ogni tavolo è seduto lo spilungone. Ballo con lui, a un ritmo vertiginoso. Gli occhi rossi del signor Isin fanno il girotondo intorno a noi. Le gambe mi si piegano in tutte le direzioni, Roberts mi schiaffeggia, uno lancia banconote da cinque marchi intorno a sé, una donna grida, e io cado, sento che sto scivolando giù verso il basso. 4. Il servizio quotidiano La mia giornata trascorre bene. Dormo fino al primo pomeriggio, più o meno fino alle tre. Appena scritturato mi sono subito comprato una sveglia, che funziona in modo impeccabile. La mia toilette adesso dura un’ora buona, ed è di una tale grottesca complessità, che quasi me ne vergogno con la padrona di casa. Sparsa per la camera c’è tutta una serie di nuovi acquisti, prodotti di bellezza ed elisir per la cura del corpo come si potrebbero immaginare solo sulla toeletta di una signora: flaconi di profumo, saponi francesi, creme per ravvivare l’incarnato, eau de Cologne bianca, eau de Cologne violetta, creme per il viso di ogni colore, ciprie di tutte le nuance, acqua di lavanda, brillantina, spazzola per le sopracciglia, smalto per le unghie, lacca per capelli, e così via. Il bagno è accompagnato da un massaggio. Le mie gambe nuotano nell’acqua profumata e io non posso non notare che la mia nuova occupazione fa bene ai muscoli. Alle mie brave gambe che mi danno da mangiare. Poi: quattro minuti per farmi la barba, quattro per pettinarmi, dieci per la biancheria, dieci per annodare la cravatta, otto per il vestito, cinque per un’ultima occhiata allo specchio. Alle quattro e un quarto devo essere fuori di casa, perché quelli dell’hotel ci tengono molto alla puntualità. Alle quattro e mezza si attacca a lavorare.

A parte questo mi sento già come a casa mia. Con i colleghi a dire il vero parlo poco, sto lì semplicemente come uno che lavora in ufficio. E dico solo: buongiorno, arrivederci, quanto guadagna?, hai una sigaretta? che giornataccia oggi… e così via. *** La prima fase dell’addestramento veramente è già alle mie spalle. Il signor Isin non mi indica più le signore con cui devo ballare, me le trovo da solo. «Rammenti: lei non è qui per il suo svago personale. Lei deve ballare. Anche con le signore che non le piacciono. Anzi, meno le piacciono e più seriamente e coscienziosamente deve prestare il suo servizio. Il primo comandamento di un ballerino è: non devono esserci signorine che se ne stanno lì a fare da tappezzeria a fiori. Li deve raccogliere lui, tutti quei fiori, è pagato per questo. Se ne rammenti». Guadagno onestamente il mio pane, onestamente e faticosamente, ballando molto e con coscienza. Privo di desideri e di gusti, senza pensieri, senza opinioni, senza cuore, senza cervello. Qui contano solo le mie gambe, che appartengono a questa routine e ne devono segnare il passo, seguendo il ritmo, instancabili, in un eterno un due, un due, un due. Ballo con donne giovani e vecchie; con le bassine e con quelle che sono due teste più alte di me; con le carine e con le meno attraenti; con le più snelle e con quelle che bevono tisane dimagranti; con le signore che mi fanno chiamare dal cameriere e poi si godono il tango estasiate, a occhi chiusi; con le mogli, con le mondane che portano un monocolo con la montatura nera e il cui cavaliere, non esperto di tango, mi obbliga a farlo; con le forestiere penosamente maldestre, per le quali una gita a Berlino senza il five-o’clock-tea non ha senso; con splendide straniere che trascorrono il tempo della loro permanenza a Berlino fra la camera, la hall e la sala da ballo dell’albergo; con signore che sono lì ogni giorno e che non si sa da dove vengano e dove andranno; con mille tipi diversi di donne.

*** Non è facile guadagnarsi il pane in questo modo. E non è un pane che una natura tenera e sentimentale possa riuscire a mangiare. Gli altri però possono viverci. In queste prime settimane non ho guadagnato male, gli inizi di solito sono sempre difficili, ma certo se solo si andasse avanti così… Senz’altro non morirò di fame. Guadagno in media venti marchi al giorno, poi c’è il cachet. Col tempo andrà senz’altro meglio, la routine fa la differenza. Willy e lo spagnolo guadagnano il doppio, loro sì che hanno esperienza, sono i migliori psicologi, afferrano subito tutto. *** Il tran tran quotidiano dell’hotel va avanti e con lui tutto questo caos del quale adesso faccio parte anch’io, ormai a pieno titolo come gli altri: lo spagnolo, Willy, il rappresentante della cartiera e Kurt. Nel mio taccuino le prenotazioni per le lezioni di danza si moltiplicano. Ieri ho lavorato dalle dieci alle dodici – con una famiglia a Grunewald* – e dalle due alle quattro – con due signore che abitano in hotel. Fanno quaranta marchi solo di lezioni. Il fatto negativo però è che non riesco più a dormire come si deve. In questi ultimi dieci giorni ho guadagnato quattrocento marchi. I tre quarti della somma li ho buttati in varie cose: ho acquistato un grammofono portatile, di cui ora ho bisogno per fare lezione; e oltre a questo quindici dischi. Whitemann**, Hylton, The Revelers, Jack Smith. Inoltre ho ordinato a un sarto di grido, in Kurfürstendamm***, un vestito all’ultima moda, blu scuro, leggermente operato, doppiopetto, sei bottoni, pantaloni ampi; tre cravatte; un paio di scarpe basse nere; quattro camicie da frac. *** Il sabato è la giornata peggiore per un ballerino. Nelle sale non c’è un posto libero neanche a pagarlo. Cinquanta coppie s’infilano sulla pista, si pestano i piedi, si fanno largo ansimando. Un’unica massa di carne, tremolante al ritmo della

musica come un aspic. È la giornata in cui il ballerino a pagamento perde qualche libbra di peso, ma di solito non guadagna un centesimo. Sono in piedi davanti al muro nella sala grande e scruto tutti i tavoli. In fondo sono sedute due signore, tutt’e due con la maschietta* e le orecchie rosse. Ballo con le due maschiette. Con la prima lentamente si dipana questa conversazione: «Mi spiace davvero che lei debba faticare tanto». «Ma no, è una gioia avere l’onore di ballare con lei, gentilissima signora». «Davvero?». «Ma certo!». «Ma lei trova che io balli bene?». «In modo eccellente». «Pensa che faccia una bella figura?». «Una figura assolutamente favolosa». L’eterno femminino… in fondo non sono che un ballerino a pagamento. *** È incredibile, quanto possano diventare cattive le persone. Un cameriere mi segnala: il tavolo 87 desidera un ballerino. Bene, ci vado. Ma non vado al tavolo numero 87, perché ho capito male il numero, vado al numero 86. Dove sono seduti un giovane uomo ben piantato e una signora con il naso a patata e un abito da sera arancione che le arriva fino alle caviglie. Faccio l’inchino d’obbligo davanti alla coppia e recito la formula di rito rivolto verso il signore: permette che io balli con la signora? All’istante l’uomo si fa paonazzo, con le cicatrici che spiccano con un tratteggio bianco. Grida così forte che tutta la

sala salta in piedi dalle sedie. «Non permetto un bel niente. Come le viene in mente una simile volgare villania, come si permette di importunare la signora? Leeei… che non è nessuno!». Non so davvero come dovrei rispondergli. Intorno al tavolo ci sono già dozzine di curiosi. Alla fine balbetto: «La prego di scusarmi… ma sa, io sono il ballerino della casa, mi hanno fatto chiamare…!». «Ah!» mi urla in faccia quell’uomo, schiumando e tremando di rabbia, «Che cosa sarebbe lei? È un pretesto che conosco anche troppo bene». Il signor Isin è già dietro di me. Si profonde in mille scuse. Il cliente ha sempre ragione. *** Ballo con una bella signora bruna con addosso un prezioso ermellino e, sotto, un abito da sera che sembra una scorza d’argento, una rosa rosa sul fianco. Mi ha chiamato al tavolo: nove portate, accompagnate da una bottiglia di Veuve Cliquot dry. Nei ritagli di tempo balliamo. Non dice una parola, deve senz’altro pensare: ho affittato queste due gambe perché ho voglia di ballare, ma il loro proprietario è un idiota. Solo una volta mi fa una domanda: «Pensa che verrà di moda il black bottom?». «No», rispondo io. Silenzio per altre due ore. Balliamo e basta. Oppure stiamo seduti uno di fronte all’altra in silenzio. Alle due dice: «Andiamo». Devo accompagnarla a casa, perché è da sola. Per colpa mia, credo. Il taxi è già pronto. Saliamo, lei dice all’autista: «Kantstraße…». Sono nervoso. Guardo fuori del finestrino le réclame luminose lavate dalla pioggia di novembre. Kantstraße. L’auto si ferma. Aiuto la signora a scendere dall’auto.

Il taxi se ne va. Lei apre la porta di casa. All’improvviso però si volta indietro verso di me, mi guarda negli occhi e mi domanda serissima: «Ma lei lo sa chi era Kant?». Chi era Kant. Bella domanda. Non voglio rovinarle il finale a sorpresa, per il quale ha pagato settantadue marchi escluso quello che ha speso per l’auto. Le rispondo: certo, gentilissima signora, un eroe nazionale svizzero. Storce la bocca, solleva la mano e mi accarezza la guancia, come a un povero bambino scemo. Poi entra in casa e si chiude la porta dietro. Mi tiro su il bavero del cappotto e mi incammino lungo la strada.

* Quartiere residenziale di Berlino. ** Musicista jazz, vedi anche la «Nota del traduttore». *** Già ai tempi di Wilder, una delle strade principali del centro di Berlino. * La parola tedesca Etonkopf riecheggia l’inglese Eton crop.

Ecco Cristoforo Colombo appena giunto nel vecchio mondo Genova, febbraio

NULLA DOMUS TITULO DIGNIOR HEIC PATERNIS IN AEDIBUS

CHRISTOPHERUS COLUMBUS PUERITIAM PRIMAMQUE JUVENTAM TRANSEGIT*

Questa è l’iscrizione incisa sulla lapide di marmo che sta sopra alle due finestre, dalle quali quattrocentottanta anni fa tondi tondi venivano stese ad asciugare le fasce di Cristoforo Colombo. Non so se Cristoforo Colombo avesse dei fratelli o se fosse figlio unico, ma in ogni caso sembra che la famiglia Colombo vivesse in grande intimità, perché la casa a cui appartengono le finestre e la lapide – a cento metri da Piazza di Ferrari Ponticello – questa casa è appena quattro metri di larghezza, sette di lunghezza e cinque di altezza; di pietra, grigio-nera, con il tetto piatto e i muri pieni di crepe. Le case a sinistra e a destra sono state tutte demolite, cosicché il parallelepipedo di pietra, il luogo storico in cui nacque lo scopritore dell’America, si erge ora isolato all’angolo di un piccolo giardino circondato da un’alta recinzione di ferro, dove l’erba cresce alta, nascondendo al suo interno scatolette e vetri di bottiglia, un paio di mele marce e un edificio molto strano: un colonnato romano restaurato in modo approssimativo, i cui resti sono stati rinvenuti nel terreno diciotto anni fa, durante i lavori alla Banca d’Italia, e da cui si può supporre che esso sia lì dai tempi della nascita di Cristo e che sia servito da roccaforte al giovane Colombo e ai suoi amici mentre giocavamo a guardie e ladri.

La lapide di marmo e le due finestre di cui parlavamo all’inizio, insieme alle due pesanti porte di ferro, che negli ultimi tempi qualcuno ha dipinto di verde scuro, sono l’unica decorazione di questa piccola casa, se escludiamo la ghirlanda, che corre sotto al piano del tetto e che è ormai così deteriorata, che solo un esperto potrebbe indicare con certezza il genere e la specie dei fiori. Le altre tre facciate della casa sono spoglie. Chi volesse curiosare trova le due porte di ferro chiuse. È ancora molto presto, piove a tratti e un vento forte frusta le poche foglie polverose che si arrampicano sulla casetta. Una ragazzina in ciabatte e con un bidone del latte attraversa la strada. «È sempre chiuso?». «Sì, signore*». «Chi le ha le chiavi?». «Perché, signore?». «Perché qui è nato Colombo». «E chi è Colombo?». La ragazzina non aspetta la risposta, e con accanto il bidone del latte che dondola, continua a camminare e sparisce in una strada laterale. Un autista di taxi genovese, che sembra portare continuamente avanti e indietro gli stranieri, mi fornisce informazioni migliori: «La casa di Colombo è aperta durante l’estate. Sono due camere arredate con i mobili originali antichi di Colombo». Nella casa di fronte, che non mi sembra molto più recente, c’è una locanda; al primo piano vi sono appesi dei costumi da Pierrot, uno giallo, uno nero, merce in esposizione di un noleggio di costumi; di fronte esercita un veterinario e c’è una scuola di musica che promette a chiunque paghi una rata mensile di 25 lire, con un anticipo di sei mesi, un mandolino nuovo di zecca gratis. Sghembe e cadenti ci saranno almeno una ventina di case addossate l’una all’altra, antiche, fuori uso, piene di squarci,

cortili interni, scale a chiocciola e corridoi ciechi, conducono tutte su a Porta Sant’Andrea, che era stata edificata già intorno all’anno 1000. I resti delle mura della città vi sono inglobati. Senz’altro proprio lì sotto, anche Cristoforo Colombo giocava a «biglie»*, piccole sfere di vetro colorato, un gioco che facevano già i ragazzini a Babilonia e che continueranno a fare in futuro anche nelle metropoli. *** Mentre sto prendendo il tè all’Hotel Miramare, un americano dalle guance paffute mi offre una Camel. Cominciamo a parlare e dopo una mezz’ora l’uomo mi dice quanto segue: «Una fortunata coincidenza mi ha portato qui a Genova da Sanremo, proprio una fortunata coincidenza, glielo garantisco. Non bisognerebbe mai svelare a nessuno i propri progetti di lavoro, ma mhmm, mhmm… ma io di lei mi fido. Stia a sentire: ho scoperto che qui c’è la casa natale di Cristoforo Colombo. È una scoperta che vale milioni di dollari, ah-ah-ah. Lo sa cosa farò? Fonderò un consorzio in America, in modo da acquisire questa casa, ah-ah, trasferirla per nave e ricostruirla tale e quale a New York, ah-ah. Per poi aprirla al pubblico di laggiù a mezzo dollaro per il biglietto d’entrata. Un Museo Colombo, ha capito? Poi compreremo dal comune di Genova anche le tre lettere scritte da Colombo, che stanno nel Palazzo Municipale. E da un signore di Filadelfia l’ancora del veliero che per primo ha toccato il Nuovo Mondo. Peccato, davvero un peccato, che l’uovo che Colombo era riuscito a far stare in piedi sia ormai da tempo andato a male». * «Nessuna casa è più degna di considerazione di questa in cui Cristoforo Colombo trascorse, tra le mura paterne, la prima gioventù». Nell’originale «Christopherus» al posto del corretto «Christophorus». * In italiano nel testo. * In italiano nel testo.

L’arte dei piccoli trucchi

Non voglio pretendere che al giorno d’oggi si insegni a mentire addirittura sui banchi di scuola, cioè che si insegni a emulare l’atteggiamento e la mimica facciale, i gesti e l’inflessione di chi sa efficacemente esprimere il contrario della verità con convincente forza di persuasione. Non mi aspetto certo che nell’ambito di un’innovativa riforma scolastica ben ponderata si arrivi a tanto, perché anche io faccio parte di una cerchia di persone che condivide idee piuttosto all’antica e apprezzo e onoro la cosiddetta verità. Ma riesco bene a immaginare che in due o tre decenni si arriverà ad attribuire all’uso della menzogna nella vita pratica persino il valore di uno strumento da cui non si può prescindere, che per questa stessa ragione è assolutamente irreprensibile e il cui corretto e appropriato uso deve essere appreso in modo sistematico e con metodo scientifico. La menzogna intesa come materia di studio obbligatoria, accessibile a tutti; una faccenda di diligente applicazione e zelo indefesso, e non più privilegio dei pochi che sono dotati di un particolare talento naturale per quest’arte. Sarebbe proprio questo il perfetto riscatto morale e sociale di un mezzo finora messo al bando per ragioni strettamente democratiche. Così facendo, per la pedagogia dei nuovi tempi sembrerebbe aprirsi una via che, per ragioni misteriose, finora non si è voluto intraprendere. Non vi è mai venuto in mente quale irresponsabile spreco di vita sia e quanto sia scolasticamente estraneo alle necessità del momento, il fatto che nelle scuole – e anche in quelle più evolute – ancora non sia contemplata come materia di studio, la disciplina che potrebbe essere denominata Scienze di vita pratica? Che uno che fin dalla più tenera infanzia abbia imparato la radice quadrata di 2, la legge di Mariotte-Gay-Lussac, la durata del pontificato di Gregorio Magno, ma solo dopo innumerevoli

esperimenti, solo una volta raggiunto il quarantesimo anno di vita e con le sue sole forze spirituali arrivi a capire a quali mezzi, metodi dialettici, criteri di giudizio e piccoli trucchi debba ricorrere per litigare con sua moglie? Giovane amico che stai compilando un’importante opera di sociologia, immagina, tu ti avvicini a un influente mecenate. Varchi la soglia del suo studio, sicuro del significato, dell’altezza delle tue aspirazioni, dell’eccellenza del tuo contributo. Ma, guarda un po’! La tua affettazione scivola in un meschino strisciante servilismo, la tua voce, rotta dal respiro affannoso, perde la giusta impostazione, la profondità di tono necessaria. I tuoi gesti sono poco incisivi e ancor meno convincenti. In poche parole, non sei assolutamente nelle condizioni di presentarti, di dare una forma credibile alle tue richieste, sei affascinato anzi posseduto dal movimento magnificamente ampio con il quale il tuo potente destino ti domina, al punto da infilarsi persino nel microfono e, mentre fai una pausa, ti perdi ad analizzare, nei tuoi pensieri, la natura di questa grandezza, invece di tenere a bada le tue stesse macchinazioni. Nervosismo? No, amico mio. Incompetenza! Ignoranza! Avresti dovuto imparare a farlo… Dove?… Questo è il punto… Non è forse profondamente umiliante, anzi persino inspiegabile, che nell’epoca degli studi scientifici sulla réclame, dei test professionali di psicologia sperimentale e di tutte le altre americaneggianti conquiste della scienza per gestire la vita senza complicazioni, ogni singolo individuo sia ancora costretto a elaborare da solo i piccoli trucchi necessari alla vita di tutti i giorni, a sprecare quarant’anni nel modo più scellerato, per imparare quello che una didattica organizzata sistematicamente potrebbe trasmettergli in uno solo: un paio di inflessioni, di frasi, di movimenti delle braccia e qualche drappeggio fisiognomico. Perché certo lui se ne sta lì, gonfio di esperienza di vita, come vengono pomposamente definite queste ridicole e al tempo stesso indispensabili futilità, con quella malvagità che non risparmia al novizio alcun ostacolo, nemmeno il minimo fallimento. Veramente, come nel Medioevo, questa barbosa confraternita di vita si lascia andare a oscure allusioni, profezie foriere di sventura e si dà delle arie, profondendosi in ammonimenti, invece di fondare ex novo allo stesso scopo una scuola fresca fresca dove insegnare

ai giovani in modo vivo e stimolante tutti questi imbrogli. Quanto tempo si risparmierebbe! Quanta energia vitale si guadagnerebbe! Con che facilità si giungerebbe alla sistematizzazione di questa nuova scienza, che ha a che fare con la fisiognomica, con la tipologia umana, con un po’ di teoria dei conflitti, con le lezioni di recitazione e gli esercizi di vocalizzi. «Oggi ci occuperemo dell’indignazione», dirà l’insegnante ai suoi allievi in un futuro non troppo lontano – vogliamo sperare. «Dell’indignazione e dei tre modi in cui può essere espressa, dopo che nelle ultime ore abbiamo imparato come si reagisca all’adulazione più ruffiana. Lederer, ripeta brevemente quanto ha appena imparato!»… E Lederer si farà avanti e, a soli diciassette anni, eseguirà con formidabile coerenza, senza alcuna difficoltà ed esitazione, quella combinazione di otto o dieci parole e relativi gesti che noi a quaranta formuliamo a stento, ogni volta da capo, balbettando… «Molto bene, Lederer! – dirà l’insegnante, – La voce dovrebbe essere solo un po’ più bassa. Il movimento delle mani verso il pavimento ancora più accentuato e il tutto dovrebbe durare qualche secondo di più». E si passerà ai tre modi per esprimere l’indignazione, alla tecnica del saluto, all’atteggiamento sprezzante, alle relazioni con le autorità, per poi concludere brillantemente nell’ultimo trimestre di corso con il difficilissimo ma importante capitolo dell’autopromozione.

Naftalina

Tutto è cominciato martedì. La padrona di casa, una cavallerizza del circo in congedo, con delle strane gambe a sciabola e una spilla d’argento in cui sono combinati con eleganza la testa e il ferro di un cavallo e una frusta, è entrata nella mia camera passandomi vicino senza una parola. Dico: senza una parola, perché non intendo considerare come un modo di rivolgermisi, il biascichio in francese che è rimasto impigliato in quel suo accenno di baffi brizzolati e di cui io sono riuscito a cogliere solo la parola «printemps». In un attimo aveva già aperto la doppia finestra. Avrei voluto protestare energicamente. Ma la corrente d’aria proveniente dal cortile ha sollevato dalla scrivania il conto non pagato di aprile, lasciandolo fluttuare per un momento fra la natura morta con pomodori e la lampada a stelo tutta impolverata, per poi cadere proprio accanto all’agenda, vicino allo zero della data. Oggi è appunto il 10 maggio. Dunque non ho detto nulla. Mi sono solo messo in bocca il dito indice, che era blu per il freddo, e poi ho infilato la lettera in una busta per Olive, ho messo la ricevuta del mese di aprile in mezzo al libro di Jack London, ho staccato il cappello dal gancio e me ne sono andato. Nell’anticamera c’era un forte odore di petrolio. Davanti a un’enorme valigia aperta, c’erano la padrona di casa, sua cugina e la cameriera. Con crescente entusiasmo stavano riempiendo la valigia di cataste di tappeti, vestiti vecchi e panni di velluto. La padrona di casa in persona dirigeva ogni singolo passaggio dell’operazione, con nella mano destra un sacchetto, dal quale tirava fuori la polvere bianca che spargeva su quella roba, come fosse zucchero a velo sui bomboloni. Mi feci più vicino e vidi che le signore stavano proprio trattando il mio cappotto. In quel momento mi venne in mente che quello zucchero a velo dall’odore penetrante rispondeva al nome di naftalina. Tutto questo per causa mia, pensai, e me ne andai al caffè.

Il mercoledì, alle undici e trenta, stanutii tre volte. Da Aschinger lasciai mezzo würstel nel piatto e corsi a casa a prendere il penultimo fazzoletto. Presi con me anche l’ombrello. In Wittembergplatz mi parve di sentire il picchiettare fitto della grandine sull’asfalto. E intanto il mio cappotto stava respirando naftalina, lontanissimo, nella valigia o sul pavimento. Giovedì. Hans mi ha portato un termometro. Trentanove e sei: non poi così tremendo. Faccio gargarismi con l’acqua di mare, intorno al collo mi hanno avvolto la calza di lana della cugina. La cameriera, da questa mattina a colazione, non fa altro che lavare fazzoletti. I miei occhi infuocati non vedono ormai altro che i tre santi Mamertus, Pankratius e Servatius, che fanno i giocolieri con le palline di naftalina intorno al mio letto. Dalle porte dell’anticamera penetra di nuovo un tremendo odore di petrolio. Credo che stiano disfacendo le valigie.

Meglio non essere obiettivi!

Per un ricercatore che si occupi di scienze del linguaggio ma mantenga un orientamento umano, la parolina «ma» si presenta sotto una luce interessante. Innanzitutto – e qui sarete senz’altro tutti d’accordo con me – la sua funzione è quella di introdurre per trastullo qualche difficoltà nel liscio svolgimento delle cose ed evocare la speranza, con le parole: «Vorrei davvero…», per poi dargli il colpo di grazia con del veleno candito. Infatti – e passerei con questo a un ambito più spirituale – la parola «ma» è il più riprovevole veicolo di una malsana obiettività, specialmente quando si tratta di giudicare le persone. Quante volte pure io ho risposto all’osservazione di un amico che di uno o di un altro diceva che in fondo non era che un affettato scribacchino: «Ma ha studiato filosofia con Georg Simmel», abbandonandomi così nelle braccia di un’obiettività, che complica inutilmente il mondo, rende la vita pesante, abbandona lo spirito ai dilemmi, sottrae ogni impulso all’azione, e che ha inoltre l’orribile effetto di metterci intorno sempre delle persone interessanti. Lo sapete bene, voi pochi veri maestri nell’arte di vivere, quanta voluttà ci sia nel dire chiaro e tondo in faccia a uno che è un asino o un cretino, senza sentirsi intimamente tenuto a chiamare in causa subito dopo la sua famosa abilità di pianista per smentire quanto si è appena detto; dire senza mezzi termini che uno è una linguaccia insopportabile, senza dover poi precisare che, in fondo, è un’anima timorosa e terribilmente insicura. Meglio non essere obiettivi! Mette il cuore in agitazione, rende vacillante e ambivalente il carattere, e inoltre, chi fa smodatamente ricorso all’obiettività, cade prima o poi in uno stato di profonda nevrosi, come se in lui l’emozione fosse stata repressa. Il popolo, il nostro benedetto popolo, l’obiettività non ce l’ha ed è sano come un pesce. Dispone di parole potenti di

incisivo valore metaforico, di esortazioni energiche per le persone poco gradite, di giudizi apodittici, che già per loro stessa natura non possono essere seguiti in alcun modo da un «ma». Alla definizione «stupido come l’asino di un mugnaio», anche la persona più obiettiva non potrebbe far seguire l’attenuante che chi è stato definito in questo modo abbia invece una spiccata sensibilità anche per le più piccole nuance di stile. Scaturendo direttamente dall’indole della persona, simili osservazioni sono inafferrabili come gli assiomi matematici, dipendono da concetti a priori, refrattari a ogni spiegazione, a ogni confutazione, sono come montagne di ghiaccio. Come un grazioso inchino, come la posizione della punta del piede verso l’esterno quando si incede con passo leggiadro, anche l’uso dell’obiettività, così nociva alla salute, deriva dal mondo della vita cortese, che attraverso i secoli ha rappresentato un modello per la società civile. L’obiettività era la virtù dei monarchi, era l’amorevole capacità di comprensione del sovrano di fronte alle debolezze e ai punti di forza dei suoi sottoposti, era l’inizio, la cellula originaria di una forma democratica di governo, che anche alla minoranza consentiva di esprimere una parola acuta, e che raggiunse poi il suo periodo aureo verso la fine del XIX secolo con la formula «da un lato… dall’altro…» e «ma è pur sempre…!». Sembra, ma naturalmente è solo un’illusione, che seguendo la tendenza del tempo, che alla cosiddetta democrazia oppone sempre con decisione il principio della dittatura, anche riguardo al punto dell’obiettività personale, stia intervenendo un cambiamento. Insomma che finalmente la si faccia finita con quel querulo tentennare nell’esprimere un giudizio sull’uno o sull’altro, che finalmente si attribuisca a cuor leggero, risolutamente ed energicamente, una validità assoluta alla dittatura del proprio giudizio personale, al metodo che fa ritorno alla natura, all’incontaminato popolo sano, dal quale ha origine ogni potere, e insomma sembra che finalmente si dia dell’idiota all’idiota, sentendosi a posto con la propria coscienza, anche se sa scrivere canzoncine satiriche in modo davvero adorabile. L’inesorabile dittatura del giudizio: di questo voglio fare propaganda. Non dovreste essere e non dovreste volervi più sentire intimamente obbligati a

riconoscere le innegabili qualità di un amico, il cui solo comparire in lontananza già vi fa venire la nausea. Pensate alla salute! Torniamo alle inconfutabili parolacce fresche di sorgente, di cui la nostra gente dispone in misura così abbondante. Fuori la parola che vi sta sulla punta della lingua! Meglio non essere obiettivi!

A 29 gradi

Il termometro segna 29 gradi. E non perché qualcuno tenga un fiammifero acceso sotto la colonnina di mercurio. Ma per ragioni del tutto naturali, perché siamo stati investiti da una certa pressione, alta o bassa, che era attesa da tempo. Ancora ieri si millantava che persino la peggiore arsura desertica, rispetto a questa instabilità freddo umida, sarebbe stata un piacere. Ora il piacere ce l’abbiamo. Ma non è poi una gran cosa. Acqua ghiacciata sulla testa, acqua ghiacciata nello stomaco. Un po’ di mal di testa e po’ di mal di stomaco. Dove ci si può rintanare in un pomeriggio non privo di interesse come questo? Un attacco di delirio tropicale. Abbiamo fatto trenta facciamo trentuno. Visto che ci siamo, andiamo al tè danzante delle cinque. Ed ecco – non si tratta di un miraggio ma di realtà berlinese – ecco che lì ce ne sono già degli altri, colpiti dal delirio tropicale. Un paio di dozzine in un colpo solo, uomini e donne. Siedono fumanti di sudore davanti alla loro limonata ghiacciata. Lasciano che l’estate minacci il peggio e fanno stoicamente il loro dovere. Il sassofono apre l’offensiva jazz. Tutti sono al loro posto. Black bottom. A 29 gradi. Non si può certo parlare di record di velocità, ma con un’energia sorprendente le coppie si muovono oscillando sul lungo ovale della pista. Applausi smorzati. Secondo giro. Di tanto in tanto una gamba si rifiuta di fare il lavoro a cui si era abituata in inverno. La più saggia oscilla cedendo un po’ sul posto. Al posto della stretta di mano della signora, oggi ci accontentiamo di un sorriso di commiato. Il fazzoletto di seta sulla fronte, un sorso dal sifone giallo del seltz e via con il prossimo ballo. Alla finestra l’afa è insopportabile. Dio solo sa come i ballerini facciano a sentirsi così bene. Forse non è poi così

assurdo esorcizzare questo caldo del diavolo con il black bottom. E ci si impegna anche. A occhi chiusi. «L’uomo al tamburo ha preso una nota sbagliata con lo strumento». Il vestitino di seta verde chiaro che ho invitato a ballare e che sussulta fantasticamente qui davanti me non degna di alcuna considerazione il mio udito raffinato. Non si svilisce il black bottom parlando, mi rimprovera con lo sguardo. Certo. Ma, provocato ancora una volta, non posso fare a meno di dar di nuovo prova della mia saggezza. «Qualsiasi dilettante sa battere le dita su un tamburo. Bisogna essere del mestiere. Io stesso…». E in quel momento un inaspettato fenomeno luminoso mi fa trasalire. Che umiliante errore. Non era il percussionista a steccare, ma il rimbombo del tuono che via via diventa sempre più forte – ecco un altro lampo – un temporale in piena regola. Anche il mio vestitino di seta inorridendo capisce, sussultando si fa più vicina, diventa addirittura umana. Il cielo nero-azzurro incombe dalle finestre. Inutile tentare di aggirare il problema tenendo le luci accese. I tuoni sono sempre più spaventosi, spettrali le saette dei lampi. L’orchestra fa a gara con i rumori della natura. Ma non può impedire che il black bottom degeneri in un disperato one-step. Accompagno il mio vestitino di seta sgualcito al suo posto. Il suo sguardo fissa silenzioso il maltempo. Per non disturbarla, salutandola ad alta voce, mi siedo sulla sedia vicino a lei. Per pochi lunghissimi minuti null’altro che tuoni e lampi. Appoggio sul tavolo il mio orologio da taschino, certo non molto adatto a essere messo in mostra, e osservo la lancetta dei secondi: «Il suono percorre 340 metri al secondo. Il temporale non deve essere lontano». D’un tratto il mio vestitino di seta cambia aspetto, il viso stravolto dalla paura, che tuttavia resta il viso dolce e tenero di una ragazzina. «Oltretutto, signorina cara, ci troviamo al primo piano e cioè nel sottotetto di questo edificio». Non guardarla, non farti commuovere, mi ordino. «Dal momento che questo edificio è stato costruito da poco, probabilmente non ha ancora un parafulmine». Basta questo. L’ultimo tuono è già superfluo. Con un ultimo grido salta in piedi, cerca di afferrarsi al mio braccio.

Le butto addosso il mio impermeabile, un’ancora di salvezza, e porto al sicuro Elli in un bistro al piano terra lì vicino. Ti prego, per favore, domani un altro temporale!

Il giorno del destino

Di traverso, sotto la data del giorno di oggi, nello spazio riservato alle annotazioni della mia agendina, c’è scritto: giorno del destino. Sottolineato due volte. Una parola inconsueta in un taccuino per gli appunti. Di solito sulla pagina non ci sono che nomi e numeri. Alla data di ieri sono annotate le scadenze di pagamento, per la domenica di Pentecoste treni e hotel. E lì, proprio in mezzo, questa patetica annotazione. Eppure senza dubbio questa nota l’ho scritta io, anche la doppia sottolineatura è opera mia. A poco a poco mi ritorna in mente. Sarà stato tre settimane fa. Dopo tanto tempo, finalmente una rilassante passeggiata pomeridiana per guardare le vetrine della Tauentzienstraße. All’improvviso, sulla Wittenbergplatz si sentono le grida miste a risa della folla ammassata. Al centro un giovane pallido fa dei gesti affannosi, autore o forse vittima dell’accaduto. Dalle labbra cianotiche spalancate nell’atto di emettere un urlo, senza quasi curarsi dei commenti ad alta voce che lo scherniscono, lancia la sua accusa contro «il tempo che è senza cuore». E poi sottovoce, percepibile solo da chi è vicino a lui, conclude: ma il 4 giugno sarà per tutti noi il giorno del destino. In che senso? Non può, non vuole dirlo. Ma, quale presentimento dell’orrore che ci aspetta, al solo nominare la data, il suo corpo è percorso da un tremito. Poi inizia la seconda parte della sua ingiuriosa invettiva. Indifferente, il poliziotto sull’angolo osserva quell’oratore sempre più infervorato. «Ha proprio le parole in tasca» spiega. Oggi dunque è il giorno del destino. Per noi tutti. Non prendo tragicamente una profezia di questo tipo, nemmeno quando è riferita a un giorno in particolare. Ma, adesso che mi torna in mente, sento l’obbligo di prestare un po’ di attenzione alla cosa. Non posso fare a meno di pensarci mentre apro la posta e leggo l’ultimo telegramma. Non c’è scritto proprio

niente di strano. Catastrofi naturali - cruente collisioni incidenti - voli transoceanici. Sono senz’altro ineluttabili per molti, ma certo non per tutti. Di eventi decisivi su scala mondiale non c’è alcuna traccia. Tuttavia mi assale un grosso dubbio su questo, sarebbe possibile già oggi fare il bilancio di questa giornata? Anche solo dire qualcosa sul significato o sulla irrilevanza di quanto è accaduto? Tutto può essere legato a una causa indecifrabile, all’orribile destino. Mi accorgo della mia sconsideratezza. A un tratto mi sembra che tutto possa avere importanza e peso. Che cosa accadrebbe se di colpo tutti, anche solo per un giorno, dessero importanza e peso a tutto? Allo svolgimento meccanico della loro vita familiare, al loro schema di lavoro. Al saluto che danno alla moglie al mattino, alla firma dei documenti. Il giorno del destino?

Perfetto ottimista cercasi

14 aprile. Oggi sul «New York Herald» ho letto questo annuncio: Cercasi Gentiluomo piccolo, grasso, calvo e con dei bei denti. 40 dollari alla settimana. Presentarsi domani fra le 8 e le 10. Gridgeman, Marmelade en gros, 293 Ninth Street.

15 aprile. Ero il primo. Mister Gridgeman ha esaminato la mia figura, ha controllato la pelata e i denti e poi mi ha detto: «Sorrida». Non avevo capito bene e allora lui ha ripetuto la sua richiesta. La situazione era così ridicola che non ho fatto molta fatica a fare un sorriso a trentadue denti. «Well, lei è ingaggiato». Mister Gridgeman mi ha dato un colpo sulla spalla con la sua mano d’acciaio. Siamo entrati nel suo ufficio privato. Mi ha fatto accomodare su una poltrona di pelle, proprio di fronte alla sua scrivania. «Il suo compito è starsene seduto ogni giorno dalle otto alle due su questa poltrona. Lei può leggere romanzi gialli, scrivere le sue memorie, fumare, per quel che mi riguarda può anche rammendare i calzini. Ma deve sorridere, deve sorridere sempre. Questo è l’importante. 40 dollari alla settimana. E inizia già domani. Goodbye». 16 aprile. Ho alle mie spalle una notte insonne. Questo Mister Gridgeman deve essere matto. O forse vuole presentarmi a tutti i suoi clienti: dimostrando così che la mia corpulenza sarebbe da attribuirsi esclusivamente al consumo abituale dell’ineguagliabile marmellata Gridgeman? Alle otto in punto sono sul posto. Mister Gridgeman è già lì. Mi accomodo sulla poltrona. Con una certa vergogna posso forse dire di andare al lavoro. Sorrido a Mister Gridgeman dall’altra parte della scrivania. Di tanto in tanto mi guardo intorno. Alle

pareti sono appese statistiche sul contenuto di proteine delle prugne californiane e una decina di perle di saggezza: le banane di Gridgeman sono grattacieli di bontà, nutrimento e cultura. E ancora: quale profumo è più sublime dell’aroma della nostra marmellata di ananas?… Dall’altra parte della porta a vetro vedo il viso simpatico, affilato di una dattilografa, ha i capelli neri e lisci, batte a macchina con un buon ritmo e non mi dispiace affatto… Continuo sempre a sorridere, per due, quattro, anche sei ore. 22 aprile. Questo è un posto di lavoro fantastico. Mi hanno pagato il cachet della prima settimana, 40 dollari. Considerato il lavoro ridicolo che mi tocca fare, credo proprio di essere il ragazzo meglio pagato al mondo… Mister Gridgeman non mi ha ancora detto nemmeno una parola del perché e del percome. La mia curiosità sta scemando. Ho cercato di pensare a tutte le ragioni possibili, ma non mi è venuta in mente quella giusta. Mister Gridgeman è davvero un povero folle e io non ho il coraggio di porgli una domanda che solo un malato di mente potrebbe fargli. Inoltre Mister Gridgeman è molto gentile con me. Mi fumo i suoi sigari e mi mangio i suoi chewing gum. Lui detta lettere d’affari alla sua simpatica dattilografa, si chiama Bessie, e poi con gentilezza mi fa un cenno col capo. Anche mentre fa le sue telefonate interurbane con Filadelfia, Baltimora e Denver e con le piantagioni in Alabama e Carolina del Sud, risponde al mio sorriso. Sì, quando vengono degli uomini d’affari, mi presenta come un suo amico. Fa delle offerte, parla del nuovo raccolto e dei magnifici esemplari dei suoi pompelmi, prende ordinazioni a vagoni della sua marmellata. Ma non distoglie mai nemmeno per un secondo lo sguardo dai miei occhi e dalle mie labbra, eternamente congelate in un sorriso. 4 maggio. Tutto va per il meglio. Da Jefferson-City ho ricevuto una brutta notizia, la fattoria dei miei suoceri è stata coinvolta nella catastrofe dell’alluvione del Mississippi. Ma questo non mi impedisce di continuare a sorridere. 7 maggio. Mister Gridgeman sembra molto contento di me. Sempre più spesso mi dà delle pacche sulla spalla con la sua mano d’acciaio, avrò già almeno una dozzina di lividi. Tutti i giorni a pranzo mi viene servito un gelato alla crema. Il

mio stipendio è salito a 50 dollari. Domenica vado con Bessie a una partita di pallacanestro. 17 maggio. Sono proprio a terra, Bessie si è improvvisamente innamorata di un produttore di biancheria del Bronx. Ma che cosa posso fare? Io devo sorridere. Forse si fa così: ho fatto l’abbonamento ad alcuni giornali umoristici, «Life», «Punch», il «New Yorker» e il «Judge». Ma questo metodo nel mio caso si è dimostrato fallimentare. Mi aiuta di più leggere l’inserto di politica dei quotidiani. 31 maggio. Gridgeman ha concluso un affare molto grosso. Ride forte, viene verso di me e mi dà una tale pacca sulla spalla che mi si piegano le ginocchia. «Ehi! Sei proprio un ragazzo formidabile. Grazie a te ho venduto tutto il mio stock di marmellata a quell’uomo, e scommetto che l’ottanta per cento aveva la muffa. 200.000 dollari. È stata un’ottima idea ingaggiarti. Ah, non sei ancora riuscito a capire perché ho bisogno di te? Sei il mio portafortuna. Devo avere vicino a me un ottimista, un ragazzo grasso, che ride sempre comunque vada la vita. Quando vedo te nulla può andarmi storto, nulla». 1° giugno. Oggi ho trovato la porta dell’ufficio chiusa e la serratura con i sigilli ufficiali. Sotto all’insegna della ditta c’era una piccola strisciolina di carta con sopra una scritta battuta a macchina: Chiuso per fallimento con ordinanza legale.

Ristrutturazione

I caffè hanno un po’ la stessa natura dei violini ben accordati. Risuonano, vibrano insieme a chi li suona e hanno un timbro particolare. Anno dopo anno, il vociare dei loro clienti abituali ne ha caricato le fibre e gli atomi in un modo speciale, e le travi, il rivestimento in legno e persino i mobili vibrano meravigliosamente all’unisono con il ritmo vitale di questi habitué. Sulle pareti annerite impregnate di fumo, la cattiveria e i pensieri velenosi di un decennio si sono depositati come una splendente lacca dorata, una nobile patina. Ogni suono echeggia, e anche la più impercettibile vibrazione, quella originata dal cervello più anonimo, si propaga a onde in modo misterioso senza incontrare ostacoli attraverso tutte le molecole di una cassa di risonanza dal suono sempre perfetto, sulla quale giorno dopo giorno i frequentatori abituali vengono tesi come se fossero corde, in modo che sia possibile ricavarne quella felice risonanza che viene loro negata dalla vita, dal lavoro o dalla famiglia. Il prodigio molecolare che qui si compie, il fenomeno di vivificazione metafisica di questi locali grazie al carisma dei frequentatori che li prediligono, è ancora in attesa di una sistematizzazione da parte della ricerca scientifica. A quale possessore di un violino Amati verrebbe mai in mente di rimuovere un bel giorno con la carta a vetro l’antichissima vernice di cui il suo strumento è impregnato, i cui atomi sono saturi del suono di innumerevoli concerti e di rivestire il violino di un bella tonalità bronzo dorato? Deplorevole barbarie, ormai sempre più spesso intenta in operazioni di questo genere nei nostri locali preferiti! Un bel giorno entri nei tuoi luoghi più amati, scopri che hanno rimosso gli arredi, e intravedi arrampicati su alte scale uomini con in testa beffardi cappelli di carta che raschiano via con strumenti affilati i preziosi distillati del tuo essere che si sono

depositati sulle pareti. Nella finissima polvere ammassata lungo il muro riconosci sgomento le più belle barzellette della tua vita e le relative fragorose risate, calpesti inavvertitamente le osservazioni calzanti che una volta hai fatto sul carattere degli amici con cui giocavi a scacchi, e a stento riesci ad accettare che la donna delle toilette, le cui altre funzioni sono state sospese a tempo indeterminato, pulisca via dal pavimento con lo straccio tutte quelle dolci parole, che tu con minime insignificanti variazioni sussurravi all’orecchio di Amalie nel 1916 e poi di Laura nel 1918. Il capo indagatore piegato da una parte, la mano alla catena dell’orologio da taschino, il proprietario del caffè è lì in piedi accanto a te, che sei profondamente toccato da quanto vedi, e dice: «Ecco! Dia un po’ un’occhiata!». Adesso diventerà tutt’altra cosa. Ci sono già pronte lì per terra due teste di elefante molto belle, con una fiaccola nella proboscide, luci ornamentali di gran gusto, una per ogni colonna. Nelle cornici stile rinascimento riccamente scolpite, ci sono già: una famiglia di pescatori, il massiccio del Dachstein sul Gosausee e una giovane Fellah in attesa della loro ornamentale destinazione. Rosso e oro. Broccato e canneté. La ballerina Kitty Starling… Un orso polare, che si trascina intorno a un blocco di ghiaccio inondato di luce… La colpa è delle donne, credetemi, delle donne e della loro drammatica carenza di senso della storia, che nella quotidianità domestica si manifesta in modo così fatalmente salutare sotto forma di amore dell’ordine e della pulizia; delle donne e del loro incantevole legame con il presente che non presta attenzione al fluire del tempo e agli eoni oppone coraggiosamente cosmesi, vestiario e battitura dei tappeti. Loro vogliono annullare il tempo. Quando mai verrebbe in mente a un uomo di far reimbiancare di fresco l’anticamera? Quando mai un imbianchino avrebbe immaginato che un pennello nelle sue mani abituate al lavoro fosse un parente prossimo di quel piumino per la cipria che si ribella alle piramidi di Giza? Quando mai d’altra parte una donna sarebbe riuscita a comprendere la posizione metafisica che impedisce all’uomo di regalare i suoi vecchi cappelli, tetto dei suoi pensieri, o di liberarsene da un giorno all’altro? Trasferendo

alla cieca il suo ideale al venerabile e tradizionalmente sacro locale pubblico, come sposa del proprietario ci tiene molto a far valere anche nel caffè il principio dell’amore per la casa; a pulire a fondo, riordinare, dipingere, in breve a cancellare ogni traccia del tempo e ad accogliere l’ospite in una casa confortevole e lucida come uno specchio. Ma chi ci torna più volentieri a casa, mi domando? Spinge fuori dalla porta il consorte riluttante. Si deve essere al passo con i tempi, fare lavori di ristrutturazione, cambiare immagine al locale, indorarlo, imbellettarlo col rossetto, far lucidare i suoi mobili e tingergli i capelli. Il nostro locale abituale, il luogo della più estrema mascolinità, sta ora per diventare un’espressione dell’assoluto femminino, che con un lavoro di instancabile ristrutturazione e rinnegando con un sorriso tutti gli anni trascorsi e ogni passato attribuisce al concetto di «passatempo» un significato particolare e così tipicamente femminile. Venerabile volto del nostro caffè preferito! Con l’oro e la porpora sono state cancellate le tracce del tempo dai tuoi tratti. Sgomento, il tuo cliente abituale è messo di fronte all’annientamento dei suoi anni, all’annullamento di ogni traccia anche solo accennata del suo essere. La proprietaria del caffè invece ha ora un nuovo caffè da indossare…

Perché i fiammiferi non hanno più lo stesso profumo?

Quella notte mi svegliai. La pioggia batteva contro i vetri. Sul muro si muoveva un sottile bagliore. Nella casa di fronte qualcuno aveva acceso la luce. In quel momento mi fu chiaro. Non era semplicemente una sensazione olfattiva, quella che si stava impossessando di me, era qualcosa di più, era quasi una sensazione dolorosa, che si spandeva in tutto il corpo, pervadendo ogni singola cellula e trasformandola in modo misterioso. Ma cosa era stato? Allora, era andata così: un fiammifero frusciando delicatamente sulla superficie di sfregamento aveva preso fuoco. E subito si era alzata in un silenzio spettrale la fiammata azzurra dello spirito. Il suo profumo si era amalgamato con l’ultimo alito del fiammifero morente. Ora, a essi si era mescolato, come un dolce presentimento, un profumo di cacao che si stava scaldando a poco a poco, ronzando. Quale soave sinfonia di aromi mi sfiora all’improvviso il volto, adulandomi? Quali erano le sue note?… Spirito… cacao… legno bruciato… perché i fiammiferi non hanno più lo stesso profumo? Già. Com’è possibile? Nemmeno su di voi, fiammiferi, lo sviluppo, il progresso, la catastrofe, sono passati senza lasciare un segno? È il fanatismo da innovazione o la necessità dei tempi a far sì che veniate prodotti con altri, freddi materiali? La vostra anima è andata perduta. Ne avete una nuova? Non riesco a sentirla. Sono troppo vecchio per riuscire ad afferrare il senso delle cose con le narici avide come facevo allora? Oh, benedetto aroma delle imbottiture di pelle arroventate dal sole di un landau! Il sole bruciava, la strada era coperta da una polvere finissima, impalpabile, e a questo si aggiungeva un odore di piante appassite, acerbo ed erbaceo che si levava

dal terreno. Il percorso della processione del Corpus Domini era passato proprio di lì. C’erano le corde della frusta. Si entrava nei piccoli negozi. E lì ce n’erano a dozzine appese alla porta, misteriosi vermi scuri e sottili, decorati con piccole nappe di lana colorata, erano nere e nuove, e il loro odore significava per me cavalli e stalla e dominio su entrambi. E poi, da uno degli innumerevoli cassetti che arrivavano fino al soffitto, aleggiava l’aroma diffuso di quell’unica, misteriosa spezia che non è dato vedere, sentire o chiamare per nome, a nessun mortale che appartenga alla cerchia dei clienti. Quanto era allettante per le anime ancora immature metter piede tre volte al giorno nel negozio, un segreto della corporazione che veniva svelato solo alle sue più grandi menti. Senz’altro sapevano come mantenere questo segreto. Quando domandavo loro, mi spiegavano con un’aria falsa che non sapevano di che cosa stessi parlando. Amati odori di «corde di frusta» e di «drogheria», dove siete andati a finire? E ancora, il primo giorno nella casa delle vacanze: l’odore dell’argilla da pipe umida di cui era verniciata la scala, che era di un bianco radioso, dalla cantina saliva un odore di muffa e sabbia umida. E a questo ammaliante dualismo si univa un misto di cera vergine e mele invernali che proveniva dalle camere. Oh, era una magia! La scuola di nuoto: era il profumo della palla di gomma nuova, caldo legno grigio, e carta alla quale era ancora attaccato un po’ di burro ammorbidito dal sole. Serra: era afa e terra umida, era silenzio. Anche il silenzio aveva il suo profumo. Persino l’aria profumava meravigliosamente in certe giornate d’inverno! Quale elemento del carbone sarà stato a darle quell’odore? In essa c’erano tre tipi di odori. Li chiamavo «canto senza parole» «sonate pathétique» e «forza d’animo». Al giorno d’oggi il carbone viene dalla Slesia, credo, e ha semplicemente odore di carbone. Il carbone della Slesia è neutro. Allora, forse, il carbone proveniva da Cardiff. Forse in Inghilterra ha ancora odore di «canto senza parole». La luce sul muro è svanita. Mi giro dall’altra parte… È andato tutto perso! Mi dico. Oggi si impiegano materiali nuovi. Durante la guerra molte sostanze si sono esaurite. Sono state sostituite con altre più a buon mercato. E ora si continua

così. Questo è il progresso. È andato perso un mondo che non ritornerà mai, mai più. Perché, dal punto di vista economico, il fatto che l’aria invernale odori di «sonate pathétique» non ha molta importanza. L’erba appassita la chiamano fieno. È foraggio per gli animali. E per la preparazione dei fiammiferi non è più consentito impiegare il fosforo. Forse prima o poi me ne andrò a Parigi e, nel deposito generale del più grande produttore di profumi, chiederò del leggiadro, dimenticato, vivificante Astris. Il vecchio commesso sfoglierà un catalogo: «Oh, mio caro signore – dirà, – non lo produciamo più da molto tempo. È un vecchio profumo. Non è più richiesto». E con il suono di queste parole si dissolverà per sempre l’immagine di quella amata figura, che raggiante, tenendo l’asciugamano alto sopra il capo, guadava un tratto di bassa marea per raggiungere l’isola. «Lei è triste, signore» dirà il commesso. «Noi profumieri abbiamo una professione molto triste. Uccidiamo il passato. I profumi passano e così i loro mondi… E noi ne facciamo altri nuovi». «Vede questo flacone» e mi mostrerà una bottiglietta di cristallo con un nebulizzatore scintillante, «la nostra nuova creazione, L’avenir… quale destino pensa che si nasconda in esso? Abbiamo qualcosa di divino noi, non è vero? No, forse non è poi così triste essere un creatore di profumi». E allora gli domanderò molto timidamente: «Lei lo conosce, l’odore delle scale di legno delle cantine? O forse quello di un fiammifero che si sta consumando? Della corda di cui sono fatte le fruste? Della scuola di nuoto? Mi dica, signore, perché sempre il futuro? Perché tutto ai giovani? Perché il presentimento? Perché non il ricordo? Parfums retrospectives! Escalier de la cave; Cordelette de fuet; Petit nageur; Allumette mourante… Lo chiedo a lei…». Mi osserva. Il suo bonario viso barbuto lentamente comincia a svanire e io mi addormento.

La rosa di Gerico

Questa meraviglia ha un’età per così dire «biblica». Già il profeta Geremia fa più volte cenno alla «Rosa di Gerico». In cerca di nuovi prodotti per il commercio con estero, l’export palestinese adesso ha portato fino a noi anche quest’attrazione. Chiunque ora può acquistare per due marchi questa misteriosa pianta nei migliori negozi di fiori. Grande più o meno come una pera, di un giallo sporco, le foglie piccole e secche raggomitolate, certo non è proprio semplice riuscire a vedere in questo muschio rinsecchito un «fiore». Ma come spesso accade, anche in questo caso l’apparenza inganna. L’acqua bollente genera una metamorfosi miracolosa su questa Cenerentola. Ciò che di solito è mortale, in questo caso risulta invece vivificante. Da una creatura botanica mostruosa, sboccia la rosa di Gerico. Mosso da un istinto di ricerca, decisi di sacrificare due marchi per entrare in possesso del vegetale. Nel pomeriggio poi, andai a trovare Steffie. Arrivai che stava preparando il caffè, proprio mentre stava per versare l’acqua bollente. «Ferma – le gridai, – guarda, adesso farò un miracolo». E in un attimo tirai fuori dalla tasca della giacca la rosa di Gerico ancora in incognito e la gettai nel recipiente del caffè. Steffie e io rimanemmo a lungo a osservare attenti. Più o meno un’ora. Poi lentamente accadde. Il verde sporco si tramutò in verde scuro, le piccole foglie secche e raggrinzite si allargarono. Niente male, ma per far passare un esperimento di fisica da terza media come questo per un «miracolo» occorreva però tutta l’autorità di un profeta. Il giorno dopo riportai la mia rosa al negozio di fiori. «Signorina», mi lamentai con la fioraia, «il suo prodigio non mi convince. Me lo cambi per favore». Dal momento che non era disponibile un altro prodigio, mi accontentai di un cactus. Un cactus può sempre essere utile. Il 30 c. m. per esempio è il

compleanno della zia Emma. Sette anni fa la omaggiai di una matita argentata che avevo trovato nella metropolitana. Da allora, per l’infelice data del suo compleanno, non mi ha mai più consentito di farle dei regali. Questa volta, con questa pianta coperta di spine, la renderò senz’altro felice. «Accidenti – mi dirà, – sei riuscito a trovare i soldi per un regalo al 30 del mese? Ma allora i miracoli accadono davvero!». E con questo la rosa di Gerico, almeno indirettamente, avrà ricevuto una conferma delle proprietà che le vengono attribuite.

Piccola lezione di economia

Trentacinque anni fa ricevetti in dono un distributore automatico di cioccolato per bambini. A quel tempo si chiedevano insistentemente i soldi ai parenti, per infilarli poi nel distributore automatico, si tirava… e davanti al compratore o al venditore ecco che c’era un pacchettino di cioccolata avvolta nella carta grigia che veniva offerta con festoso entusiasmo alla zia. Quando il distributore era vuoto lo si apriva con una chiavetta, e il denaro che conteneva veniva immediatamente riutilizzato per l’acquisto di una nuova fornitura, che all’ingrosso costava un po’ meno rispetto al prezzo della cioccolata del distributore. Con un giocattolo noi bambini venivamo così introdotti con lievità al compenso di intermediazione. Uno traeva dei profitti, doveva organizzare il magazzino, insomma era un imprenditore. Il «mondo degli affari», travestito da principe delle fiabe, guardava dalla fessura della porta nella camera dei bambini. Il talento commerciale veniva precocemente formato, una spiccata intraprendenza veniva ancora affinata, il senso per gli affari risvegliato e messo al servizio della ricchezza nazionale. Il distributore automatico di cioccolata non è che un esempio. Non si riesce a comprendere come mai i semi gettati allora, germoglino in me solo ora, appena un secondo prima che arrivasse a maturazione in me quel fecondo pensiero con il quale ora mi accingo a diventare ricco e potente. «Ognuno è l’intermediario di sé stesso», questo è il motto seguendo il quale ho intenzione di vivere in futuro e il cui senso e contenuto consegno ora all’opinione pubblica. Un esempio: mi faccio la barba da solo. Compro sapone, pennello, allume di rocca, acqua di colonia e borotalco. Faccio il filo al rasoio. Investo tempo, energie e soldi per farmi la barba con cura. Che vantaggio ne ho? Dove va a finire il rendimento da lavoro e da capitale dei miei sforzi quotidiani?

Mi è forse mai capitato, obnubilato com’ero, che fossi ricompensato adeguatamente di tutte le mie fatiche? Imperdonabile sperpero delle sostanze economiche! D’ora in avanti andrà in un altro modo. Pagherò me stesso. Farmi la barba da solo è più economico che se lo facesse il barbiere, voglio fargli concorrenza. E mi pago. Mi somministro alimenti che compro a buon prezzo e vendo a me stesso a prezzo più alto. E come sono felice di intascarmi l’utile che il ristoratore avrebbe su un paio di würstel. Ogni volta che mi concedo di soddisfare le esigenze della vita quotidiana come imprenditore aggiungo un 20 per cento di profitto d’intermediazione alle spese vive. Le gomme da masticare le prendo da un distributore automatico che è esposto nella mia anticamera e i cui profitti spettano a me. Le sigarette me le fornisco solo al prezzo dei camerieri. Quando chiudo il portone di casa, mi concedo una mancia. Non smetto mai di fare la corte al consumatore che è in me: per lui il meglio è appena buono abbastanza e bisogna mostrargli la massima disponibilità a venire incontro ai miei inflessibili principi di gestione commerciale. Nel mio appartamento sono esposti dei manifesti in cui vengono decantati con parole roboanti e colorite la qualità degli articoli da profumeria, i benefici effetti digestivi di vini e liquori noti da tempo immemorabile e la comprovata efficacia di medicinali fidati. Con grande avvedutezza, regolo domanda e offerta, innalzo incessantemente i consumi e, dopo aver ben ponderato la loro regolamentazione, faccio pubblicità efficaci. Su un podio riposa un libro mastro bello spesso su cui, con la scrupolosità di un pignolo commerciante trascrivo il dare e l’avere dei miei affari. Ogni giorno faccio il bilancio. So in ogni momento che cosa devo. Purtroppo mi manca un po’ di capitale sociale. Di recente ho chiesto a Schimmelpfeng* informazioni su me medesimo.

È bene che continui a farmi credito? Come uomo d’affari devo prendere le mie precauzioni. Temo di non essere un buon investimento. * Il riferimento è all’agenzia di recupero crediti Schimmelpfeng GmbH, fondata a Francoforte nel 1872 e acquisita nel 2001 dalla società Justitia GmbH.

Il terrore di essere filmato

Va avanti così ormai da mesi, due volte al giorno, all’ora di pranzo mentre vado al ristorante e poi di nuovo poco meno di un’ora dopo, al ritorno, sempre inevitabilmente nello stesso posto, mi si avvicina quell’uomo, mi aggredisce avvertendomi con un tono fra il festoso e il minaccioso: Lei è appena stato filmato. Le prime volte mi sono spaventato sul serio, pensavo che realmente qualche regista a caccia di tipi buffi mi avesse scelto come comparsa a mia insaputa. Adesso che so che queste idiozie non hanno nulla a che fare con il mondo della tivù, ma rappresentano solo l’affare commerciale del momento, la «fotografia in movimento», sono meno sensibile. Tuttavia il modo in cui è formulata quell’osservazione, quel passivo così offensivo «è stato filmato», mi disturba ogni volta che lo sento. Mi rode che, senza nemmeno chiedere il mio consenso, quella cassetta gialla avida di immagini possa continuamente catturare il mio viso, che normalmente mi guardo bene dal proteggere dall’obiettivo. Ma ancor più di questa violenza, in realtà mi irrita la cieca stupidità di questo uomo della manovella, questo insensato dilapidatore, che centinaia di volte ha fatto la fatica di iniziare il mio ritratto, cento volte ha mandato il suo distributore di volantini a cercarmi inutilmente e, senza mai accorgersi di quanto fossi contrario all’idea di farmi filmare, mi ha costretto a subire questa scocciatura ben due volte al giorno costringendomi a dargli una delusione. Ho cercato di dimostrarglielo in diversi modi, non levandomi il cappello dalla testa, guardando dall’altra parte della strada, gesticolando con le braccia e con le gambe, niente da fare, l’uomo della manovella vedeva ogni cosa solo come una nuova, interessante variante adatta ai suoi studi sul movimento. Da ultimo ho anche pensato di poter sfuggire al mio destino prendendo una via posta diagonalmente rispetto all’angolazione della cinepresa. Non avevo tenuto conto che queste cineprese moderne

naturalmente hanno anche il cavalletto orientabile e quindi gli bastava girare leggermente la macchina per cogliermi mentre scartavo da un lato. Dopo lunghe riflessioni, ora ho tentato un esperimento, che dovrebbe liberarmi per sempre dal terrore di essere filmato, o almeno lo spero. Ho lasciato che mi riprendesse, non controvoglia od opponendo resistenza com’era accaduto finora, no, ridendo, divertito, il portamento disteso, lo sguardo dritto in camera, perfetto per una fotografia, e poi, ringraziandolo, ho preso l’avviso della mia prima (apparizione) cinematografica. Ieri sono andato a ritirare la mia foto. Le gambe mi sembravano un po’ troppo storte, forse per un difetto della lente, ma, a parte questo, era una fotografia in movimento molto verosimile. Con l’inchiostro rosso ho scritto sotto all’immagine: «Questa persona non desidera più essere ripresa». E il mattino dopo l’ho data all’uomo della cinepresa. «Guardi – gli ho detto, – l’ideale sarebbe che lei attaccasse questa immagine direttamente sulla sua macchina. In questo modo lei risparmia ogni giorno un po’ di pellicola e io posso finalmente andarmene tranquillo al ristorante». Era troppo sorpreso dalla mia proposta per riuscire a trovare una risposta. Onestamente non credo che esaudirà il mio desiderio, ma il mio viso lo terrà bene a mente. Che qualcuno non ritiri la sua foto è per lui un’esperienza all’ordine del giorno, legata alla lentezza a metter mano al portafoglio. Ma che qualcuno arrivi persino a sacrificare un marco per non essere ripreso, in fin dei conti è una malcelata offesa al suo onore professionale. Una cosa del genere non si dimentica. Speriamo solo che adesso non arrivi a pensare di fare del… riscatto cinematografico il suo nuovo affare.

Dagli ottimisti viennesi

Loro sono gli ottimisti, di professione umoristi. Umoristi? No, non direi… Solo che l’umorismo per loro è un dovere.

Entrate signori, liquidazione di specialità viennesi, strudel di mele, canederli alle prugne, psicanalisi, panna montata, Danubio blu, torta Sacher, oilì-oilà! Adesso gli ottimisti viennesi si sono trasferiti sotto i tigli di Unter den Linden, con la marcia di Radetzky e l’imperialregia Burgmusik, e hanno piantato le tende nel Fledermaus laccato oro nuovo di zecca. Perché Vienna è in fallimento, perché ognuno ha la sua «Marie» a Vienna, e perché i berlinesi vanno tutti matti per il walzer, il Prater e il Grinzing. Per questo hanno fatto le valigie e sono partiti facendo rotta su Berlino. Ma non si sono dimenticati di portare con sé la loro città natale, in bottiglia, in pillole, soprattutto «a bisserl», un pochino. Tutto lavoro fatto in casa, tutto «made in Austria». Al pianoforte a coda, direttore artistico, autore, legato sentimentalmente a una stella, il superottimista: Ralph Benatzky. Indiscussa stella acclamata da tutti, sposata con il direttore artistico, autore e via di seguito, la superottimista: Josma Selim. Intorno a loro due ruota tutto l’ottimismo. Sono arrivati qui con delle nuove pièce, raffinate, vaporose, insolite. Benatzky è artistico fino al midollo, questo lo sapevamo già. Non insegue il pezzo popolare… Miniatura, Kärtnerstraße, Accordo… Anatol di Schnitzler.

Oltre a questo, è un ragazzo fortunato: lui ha la Selim e la sua scrittura non scade. Lei è la Yvette Guilbert viennese. Dotata di uno charme ammaliante, della voce sa molto bene cosa farne. I pezzi più belli sono Balzac-chanson, Strophen von Diogenes e Deutsche Sprache e quelle cose lì. Non è rivista, non è cabaret e nemmeno operetta. È un insieme delle tre cose, un miscuglio di scenette e trovate originali, carino, senz’altro raffinato. Ma nell’insieme sembra buttato giù in fretta e furia… svelti, svelti che la stagione comincia. Lì sta l’errore: troppa Vienna. È un azzardo saltare giù dal treno per andare a ovest. Gli ottimisti, quando piantano le loro tende nella city, devono fare i conti con il pubblico degli hotel di Unter den Linden. Non sarà forse troppo dolce per loro? Troppa Vienna. A tratti non si capisce nemmeno una parola. A che scopo vagare nell’«entern Grund» (il Wedding di Vienna), a che scopo far ricorso alle barzellette da atelier e al gergo? Ah, noi amiamo Vienna. Ma senza esagerare. Troppo dolce, troppo strudel di mele e troppa panna montata. Benatzky, che è onesto, vuole il meglio. I simpatici ottimisti con il loro cabaret non l’hanno abbattuto, l’Uccellino azzurro. Ma cerchiamo di non essere troppo rigorosi: anche noi siamo ottimisti!

Rendez-vous berlinese

Rendez-vous (francese, si pronuncia rangdewuh [ de vu], trovatevi lì): appuntamento, incontro, convegno in un posto, indica anche il posto stesso. Così recita il Meyers Konversationslexikon, sesta edizione, volume 16, da Plaketten a Rinteln. Adamo, per esempio, Eva la incontrava preferibilmente vicino a un certo albero. Per quel che riguarda Ramses, lui aspettava pazientemente sera dopo sera la sua favorita al terzo angolo della dodicesima piramide. Cesare invece aveva un appuntamento con Vercingetorice sotto un ponte sul Reno, mentre stava piovendo. Di come Casanova passasse di gran lunga il segno, tenuto conto delle ristrettezze di spazio, non è possibile fornire una descrizione: i suoi rendez-vous dovevano essere elencati in un volume in folio di marocchino che probabilmente aveva lo spessore dell’elenco telefonico di Berlino. Si distingue fra rendez-vous di natura professionale, amichevole, sentimentale e familiare, dal che oltretutto si evince facilmente che vi sono rendez-vous a cui si va volentieri e altri a cui non si va volentieri. Per la loro stessa natura, i rendez-vous sotto gli alberi di mele, le piramidi o sotto i ponti sul Reno sono decisamente fuori moda. Oggigiorno si preferisce optare a questo fine per un caffè, un ristorante. Ci si incontra all’aperto, nei luoghi più frequentati, sotto un monumento o un orologio, alla fermata del tram o davanti a teatri e cinema. A Berlino sono tre i luoghi preferiti: il Kranzler Eck, il Berolina sull’Alexanderplatz e l’orologio dello zoo. (Non ho la pretesa di essere esaustivo.)

Per quanto riguarda il Kranzler Eck, ricorda per la sua vivacità uno dei più classici punti di ritrovo del mondo, il Sirkecke di Vienna. È il luogo dove si dà appuntamento la società internazionale, il punto di ritrovo per eccellenza di quella mondanità che si sente a casa sua negli hotel di Unter den Linden. Madame indossa una pelliccia di cincillà e non deve attendere molto, il suo pinscher rivolge lo sguardo a monsieur e abbaia. I suoi baffi odorano di brillantina di Parigi, la piega dei pantaloni è calcolata al millimetro e il clacson dell’auto sembra un concerto per sassofono ben orchestrato. Certo, anche i berlinesi si incontrano lì, ma accade raramente, di solito quando devono andare insieme a teatro o vogliono fare una passeggiata nel museo serale: il centro di Berlino. L’Alexanderplatz è il luogo d’incontro delle ragazze giovani. Da tutte le strade, da tutti gli angoli un fiume di impiegate e commesse fluisce verso l’Alexanderplatz, si accalca alle fermate dell’autobus, agli ingressi della metropolitana. E aspetta. Imbronciata. Eppure deve arrivare. Aspettiamo ancora tre minuti e se non arriva… Non arriva. La signorina decide di contare ancora fino a cento. Conta fino a novecento. Di lui nessuna traccia. Il quarto d’ora accademico è scaduto da tempo. Lo strozzo, dice fra sé e sé. Ecco che arriva. E a braccetto se ne volano via.

Il più popolare luogo di ritrovo estivo è il Normaluhr (l’orologio normale) dello zoo. Una porta verso la natura. Assediata di domenica dalle famiglie. Con tutta la tribù. Con armi e bagagli. Turisti della domenica. Giovani virgulti. Boyscout. Gente di provincia con lo stemmino di riconoscimento nell’asola della giacca. La partner per una gita al Wannsee. O per il cinema sul Kurfürstendamm. O per il tè delle cinque. Per il luna park. O per lo zoo. Tutti a guardare l’orologio a bocca aperta. A volte va così veloce, a volte così lento. Poi ci sono anche i rendez-vous che non vengono rispettati. Come mi è venuto in mente, con questo freddo, di scegliere come luogo d’incontro proprio la panchina al

Tiergarten dove l’ho aspettata a lungo inutilmente. E non grandinava e nemmeno pioveva.

Volo notturno nel cielo di Berlino

Come si sta organizzando il traffico aereo notturno tedesco «Adesso sono proprio curiosa» diceva la mia vicina di sinistra, il naso schiacciato contro il vetro gelido dell’oblò della cabina dell’aereo, e guardava in basso, appena passato Schöneberg, «di vedere se mio marito è già a casa». Solo un quarto d’ora prima era ancora un mucchietto di paura, che batteva i denti intirizzita. Si era fatta animo e, cercando di imbrogliarci tutti davanti a quel trimotore rombante, si era messa il rossetto sulle labbra, che erano diventate di un rosso acceso come quello dei neon che delimitavano la pista di decollo del Templehofer Feld. Ora che stavamo volteggiando a 600 metri di altezza in piena notte sopra Berlino, noi nove passeggeri credevamo tutti alla sua calma, e persino alla sincerità e premura che lei dimostrava per il suo sposo a Schöneberg. Ma come ci sentivamo? Freddi fin nel profondo dell’animo. E lì, sotto di noi, che cosa c’era? Il mare di luci di Berlino. Come funzionavano i motori? Come meccanismi di precisione. Che cosa avevamo alle spalle? I dubbi di una generazione incredula. E davanti a noi, ormai vicinissimo, il bal paré (gran ballo) in un aereo gigantesco dotato di tavoli da biliardo. L’evoluzione procede rapidamente. Poiché al giorno d’oggi anche la notte è destinata al traffico aereo. Nel 1924, quando siamo venuti a sapere che la compagnia di linea americana aveva inaugurato un regolare servizio di volo, sia di giorno sia di notte, fra New York e San Francisco, abbiamo scosso la testa. Non erano ancora riusciti a

convincerci del tutto della sicurezza del volo diurno, che già i futuristi della tecnica pianificavano di non sprecare la notte, la notte terribilmente buia e piena di pericoli: volare indipendentemente dall’ora del giorno e della notte, non importa se la terra di sotto sia visibile o meno. Non è lo sport che induce a volare di notte, ma è invece la necessità di superare grandi distanze che obbliga a proporre il volo notturno fra i servizi del traffico aereo. Le stagioni, l’inverno, ma già l’autunno e la primavera rendono necessario volare anche dopo che siano calate le tenebre. Non vogliamo più sacrificare il giorno per viaggiare, il giorno è dedicato al lavoro. Per quanto riguarda il volo durante la notte, la Germania ha preceduto tutti gli altri Paesi europei: nel 1924 venne inaugurata la linea postale sulla tratta Berlino-WarnemündeStoccolma, seguirono Berlino-Copenaghen e BerlinoAmburgo. Nel 1926 si volava la tratta Berlino-Königsberg come scalo intermedio sulla linea Berlino-Mosca, il primo volo di notte anche con i passeggeri. Nel corso degli ultimi anni ci si è impegnati a potenziare gli aeroporti, le tratte e gli aerei in modo che fosse possibile anche il traffico notturno. Sono stati introdotti segnali luminosi, segnavento, e il tracciato delle piste di atterraggio è stato dotato di riflettori verdi e bianchi e rossi visibili a distanza. Già, non ci si è lasciati scoraggiare nemmeno dalla scarsa visibilità diurna, cercando di ovviare, fin dove era possibile, alle difficoltà con la costruzione di un percorso illuminato: ogni trenta chilometri è stato installato un riflettore orientabile molto potente. Fra l’uno e l’altro, ogni 5 chilometri, sono state installate lampade al neon ben visibili. Questi fari vengono messi in azione ogni notte, per segnalare le piste di atterraggio d’emergenza. E poi in fondo non occorre nemmeno pensarci, un sistema di segnali messo a punto scrupolosamente, l’uso del radiotelegrafo, di fari a terra e luci al magnesio collocate sulla superficie del mezzo garantiscono lo stesso grado di sicurezza del volo diurno. I piloti sono di regola molto esperti del volo, collaudati, essere chiamati a pilotare un volo notturno è considerato come un riconoscimento speciale.

Il direttore Milch faceva queste considerazioni proprio ieri mentre stavamo visitando il sistema di illuminazione notturna dell’aeroporto di Tempelhof e concludeva dicendo che il regolare svolgimento del traffico aereo su tutte le tratte, di giorno come di notte, è uno dei più importanti impegni del traffico aereo internazionale. A breve saremo in grado di raggiungere tutte le tratte aeree indipendentemente dalla luce del giorno e dalle condizioni meteorologiche, sarà un gioco da ragazzi. Sono già disponibili sin da ora le tratte Berlino-Hannover e Berlino-Königsberg. Berlino-Colonia, Berlino-Halle-Monaco e Berlino-Breslavia sono in preparazione, e già in primavera, con l’aiuto dei nuovi velivoli Junker, dovrebbero essere raggiungibili tutte le tratte tedesche anche dai voli notturni di Lufthansa. L’aereo vola come un enorme pipistrello sopra Berlino, si riconoscono distintamente le vie e le piazze della città, ci si stupisce di riuscire a cogliere con uno sguardo l’immensa distanza che c’è fra la Funkturm e il Rummelsburger Großkraftwerk. Pensavamo ancora di volare lungo il Kurfürstendamm, una leggera virata, e già l’aereo sta rollando sul prato del Tempelhof, solo qualche frazione di secondo prima eravamo accecati dalla luce di milioni di lampadine dal basso, adesso intorno a noi c’è solo la notte, l’aeroporto, che dall’alto sembrava un fiammifero, è cresciuto verso l’alto simile a un grattacielo.

Emergenza sete Cosa non si beve in questi giorni

A dire la verità, presa proprio alla lettera, la frase che dice che la fame è come l’amore, tiene in funzione il meccanismo, non è corretta. Si dovrebbero citare fattori più elementari. La sete per esempio è ancora più elementare, più potente, più indifferibile della fame. Ci sono persone che possono digiunare da quattordici giorni a sei settimane, ma senza bere si può restare al massimo per 48 ore. La fame prima brucia rabbiosamente e poi si trasforma in debolezza. L’impaziente attesa del suo appagamento scema col tempo. Si dice: superaffamato. La sete è un aprirsi sempre più nel profondo, nell’intimo del corpo in attesa. Non si anela ad altro che all’attimo in cui lo strabordare dell’anelata bevanda scorrerà copioso nell’aridità del corpo. Da giorni Berlino sogna di estinguere la sua sete. Direttamente: con acqua, soda, birra e ghiaccio. Indirettamente (considerando la sete della pelle): con bagni, montagne di neve, vento su una barca a vela. La sete tradisce i segreti più vitali del corpo: noi bruciamo. Il sole, che ci consente di vivere, aumenta d’intensità: la vita, in questa forma detta anche sudore, erompe. La liberiamo nell’atmosfera, dobbiamo dissolverci. Stando a quanto dice Joseph Löbl la dispersione di sudore, già a una temperatura media, è di tre-quattro litri al giorno. Alcuni degli altri dati che cita: una cavalcata nella pianura del Sud della California a 75 gradi produce una perdita di dieci litri di sudore, una partita di calcio di settanta minuti quattordici libbre, una maratona di tre ore otto libbre e mezza. Teoricamente, in questo momento i berlinesi potrebbero dimagrire parecchio e gratis! E invece bevono fino a non poterne più. Di birra ad alta gradazione alcolica però, non ne

bevono affatto. L’aumento di consumo è minimo, tutti sanno che la calura aumenta l’effetto di indebolimento dovuto alla birra. Basta ricordare il tentativo di scalare il Bilkegrat. Si salì da 1500 metri a 2446 per due volte nelle stesse condizioni. Di cui una dopo aver bevuto 35 cl di alcol. Risultato: un quinto in più di tempo = un settimo in più di dispendio di energie. La diffusione di questo dato fece scendere il consumo di birra in Germania: nel 1913 era di tre litri a settimana per le persone sopra i quindici anni, mentre già nel 1927 era sceso a due litri. In questi giorni i grandi ristoranti segnalano addirittura un calo dei consumi di birra, un pareggio nel consumo di bevande per l’aumento di richiesta di acqua minerale e limonata. Naturalmente, con il latte, al momento non si fanno dei grandi affari. In compenso al night club tutte le bevande a base di tè vanno a ruba come mai prima. Ad approfittare della calura sono soprattutto i piccoli esercizi ambulanti e i ristoranti delle stazioni. Si cerca di estinguere la sete ogni volta che se ne ha l’occasione, senza organizzarsi come invece si fa quando si va a mangiare. Un incremento delle vendite relativamente consistente lo segnalano le gelaterie e i gelatai ambulanti. Domenica i locali turistici hanno venduto fra le quattro e le cinque mila porzioni di gelato, i furgoni più piccoli, rifornendosi più volte nel corso della giornata, hanno venduto fino a cinque volte il fatturato normale. E tutte le carrozze ristorante quando rientrano in stazione dicono la stessa cosa: «Bevande esaurite».

Un giorno o l’altro però, accadrà ancora una volta quello che in questo momento ci sembra inimmaginabile: si andrà in

giro per le strade con i brividi, una brezza invernale farà oscillare un cartello dimenticato con scritto «caffè freddo» e solo a leggere la parola si ficcheranno le mani in tasca per il freddo.

Noi berlinesi siamo curiosi! E vogliamo che diate una risposta a queste domande

Che cosa ne sarà della mostra di architettura? Molti ne avranno ben presente la storia. Doveva diventare, come molte cose a Berlino, la più grande impresa internazionale nel suo genere. Non fu mai una questione di soldi. Senza esitare, le autorità di Berlino avevano messo a disposizione sovvenzioni per 50 milioni di marchi e più. L’ordine degli architetti sguazzava in un mare di giubilo e cifre e in un primo momento i singoli gruppi non facevano altro che litigare affinché tutti riuscissero ad approfittare di questa grande occasione. La disputa sembra essersi risolta pacificamente: sembra che sia stata accettata all’unanimità un’eccellente proposta per il progetto di base, quella del consigliere comunale per l’urbanistica Wagner und Poelzig, nonostante a Berlino sia ancora segretamente presente anche un altro gruppo dirigente segreto che si occupa di risolvere le questioni architettonico-artistiche. E adesso all’improvviso salta fuori la domanda: chi paga cosa? Nessuno vuole assumersi la responsabilità e nessuno vuole farlo. Ognuno si profonde in inchini con il suo vicino e nessuno riesce a capire quanto sia compromettente per Berlino il fatto di non aver risolto questa questione di fondo, prima di indurre alla ribellione tutti quanti con il suo progetto. Che cosa ne sarà della Potsdamer Platz? Riguardo alla necessità del suo riallestimento sono tutti d’accordo già da così tanto tempo che si può dire che sia cosa fatta. Anzi, siamo quasi certi che la cosa era conclusa ancor prima che venissero organizzate delle discussioni preliminari o presentati dei progetti, senza che noi berlinesi ne sapessimo nulla o che in sostanza ci fosse stato chiesto il nostro parere in

merito. Eppure noi siamo interessati eccome alla Potsdamer Platz, ha un tale significato per Berlino. Che cosa è venuto fuori da tutti quei progetti? Quali scadenze sono previste? Come verrà risolta la questione delle strade carrozzabili? Ci saranno palazzi a più piani o no? E chi è l’architetto a cui nel più assoluto silenzio è stato assegnato un compito così decisivo per l’immagine della città di Berlino? O forse non è ancora stato assegnato? Che cosa ne sarà della Bülowplatz? Adesso è anche troppo che il gigantesco blocco del teatro Volksbühne se ne sta qui come una cattedrale nel deserto. Il magistrato ha riconosciuto la necessità di procedere con una drastica riorganizzazione della piazza. Il progetto di Poelzig sembra sia considerato un riferimento fondamentale. Ha senza dubbio grandi pregi. Chissà se e quando verrà realizzato… o forse questa cattedrale nel deserto rimarrà in eterno così come è ora? E chissà se lo scultore Georg Kolbe riuscirà finalmente a sistemare il suo meraviglioso Beethoven davanti al teatro, regalando finalmente anche a Berlino un meritato monumento di alto livello artistico? O se invece di fronte al teatro troverà posto ancora una volta una di quelle ben note fontanelle che non hanno nulla a che fare con la piazza e il palazzo? Che cosa ne sarà del Palazzo delle esposizioni? Lo sfortunato progetto per la zona nei pressi del giardino zoologico sembra essere stato definitivamente bocciato. A quanto veniamo a sapere, durante l’assemblea generale, la direzione deve essersi sentita rivolgere dei duri rimproveri per la sua imprudenza, e quindi nelle ultime ore ha messo al corrente l’opinione pubblica che non c’è proprio più niente da fare. Anche del maneggio della Porta di Brandeburgo è meglio non parlarne. Sul progetto della Funkturm è calato il silenzio. Che ne sarà? Se ne farà qualcosa? O forse la struttura a vetri della Lehrter Bahnhof, la più inconcepibile di tutte le cose inconcepibili, rimarrà anche in

futuro la vetrina destinata ad accogliere cinquemila quadri e oggetti d’arte? Che cosa ne sarà del nuovo Berliner Museum? L’antica Berliner Haus nella Breite Straße, un edificio di proprietà della città a lungo trascurato, venne pensato inizialmente come una pinacoteca di Berlino, nella quale la città avrebbe voluto raccogliere il suo patrimonio artistico disperso in varie sedi. Quando il borgomastro Vöß, allora ancora all’oscuro del nostro terribile carattere, nel corso di una riunione straordinaria ci comunicò questo suo progetto, con sua grande meraviglia non ricevette in risposta altro che proteste. Il che sembrerebbe averlo scoraggiato. Ora ci viene comunicato ufficialmente che prossimamente in quella sede dovrebbe essere realizzato un nuovo museo degli arredi. Vorremmo sapere di che tipo di museo si tratta. Dipenderà dal Märkisches Museum? Ci sarà un nuovo direttore e chi sarà? Da dove dovrebbero provenire gli arredi che si intende esporre? E fra gli arredi in questione verranno veramente esposti i quadri che fanno parte delle collezioni statali, di cui un buon novanta per cento non è certo all’altezza di un museo? Che cosa ne sarà del nostro Altes Museum? Tutti i lettori ricorderanno senz’altro la famosa guerra del museo, consumata da un delirio di rabbia intestina non certo minore di quello della guerra di Troia. Analogamente a quanto avvenne allora a Elena, come ricorda lo splendido libro di Erbkine, anche in questo caso sembrano di nuovo aver avuto ragione coloro che, seguendo il proprio modo di vedere il mondo, hanno deciso diversamente da quanto si era cercato di stabilire. Le singole scadenze che erano state fissate allora sono state oggi in buona parte cancellate e sembra che neppure i compromessi siano serviti a molto. Non sembrerebbe fuori luogo mostrare una buona volta un certo qual interesse per le cose che ci riguardano tutti.

Conflitto: il comitato della city, il governo e Berlino Mandato a monte il viaggio di studio a Parigi e a Londra Il Primo Ministro e il Borgomastro vietano il coinvolgimento dei funzionari pubblici

Nel comitato della city regna in questi giorni un certo malumore, legato al rifiuto di coinvolgere i rappresentanti del governo e dell’amministrazione comunale in un viaggio di studio a Parigi e a Londra, per il quale erano già stati completati tutti i preparativi. Il comitato della city, di cui fanno parte molte personalità dell’industria e degli affari, oltre che le più importanti organizzazioni commerciali di Berlino, e nel quale la città è rappresentata anche dai membri dell’amministrazione comunale e dall’assemblea dei consiglieri comunali, aveva stabilito da tempo di inviare una commissione a Parigi e a Londra, con il compito di studiare i quartieri del centro di queste due metropoli, le loro istituzioni, la situazione del traffico e la struttura della vita commerciale per trarne eventualmente dei suggerimenti pratici per la modernizzazione della city di Berlino. Tutti i preparativi necessari per un viaggio del genere erano stati fatti tempestivamente. Si erano anche presi accordi con le autorità di Parigi e di Londra riguardo all’accoglienza della commissione. Si voleva dare una certa impronta di ufficialità all’evento, convocando sette rappresentanti del comitato della city, provenienti da ministeri interessati a questioni di questo genere, e dei rappresentanti dell’amministrazione comunale di Berlino. I membri del comitato della city, la cui dirigenza intrattiene i migliori rapporti con le autorità, avevano già preparato le valigie, quando, come un fulmine a ciel sereno, vennero colti di sorpresa da un comunicato dell’amministrazione comunale che informava che la città non

avrebbe inviato nessun rappresentante. Un’ordinanza comunale prevedeva che i viaggi dei membri dell’amministrazione e dei rappresentanti delle imprese della città avrebbero dovuto essere limitati ai casi indispensabili. D’altra parte la situazione del traffico e delle istituzioni delle city di Londra e di Parigi sarebbero state rese note da missioni precedenti, fatto questo che rendeva ingiustificabili ulteriori spese a questo fine. I rappresentanti dei ministeri prussiani, anche loro invitati, erano già pronti a partire, quando lo scorso martedì una disposizione del primo ministro prussiano Braun prendeva le distanze da un coinvolgimento in questo viaggio. A causa di queste decisioni, il comitato della city si trova ora in una posizione sgradevole. Mentre i rappresentanti delle autorità sono dell’opinione che il comitato avrebbe dovuto compiere i preparativi per il viaggio solo dopo aver ricevuto una conferma, i membri del comitato della city, sulla base di conversazioni private, si sono sentiti autorizzati a supporre che le autorità li avrebbero autorizzati. Dai discorsi è emerso il sospetto che fosse stato forse il borgomastro Boß ad aver convinto il Primo Ministro a non partecipare al viaggio. Il Borgomastro ci spiega però che si tratterebbe di una ipotesi del tutto campata per aria.

Berlino in un pantano Totale fallimento della pulizia stradale Troppo caro il lavoro notturno Trecento spazzaneve rimangono fermi in deposito

La nevicata iniziata ieri sera ha lasciato ancora una volta Berlino in un pantano. La neve sulle strade costituisce un pericolo per il traffico automobilistico, causa ingorghi stradali e schizza i pedoni fin sulle orecchie. Il servizio di pulizia stradale di Berlino è stato un fallimento completo. La ragione può dipendere solo dall’organizzazione. Prima della guerra, i mezzi per la pulizia e gli spazzaneve trainati da cavalli entravano in azione per le strade già dopo la mezzanotte. Procedevano con una certa lentezza, gli inservienti seduti sul sedile del cocchiere, ormai anziani, se la prendevano comoda, ma al mattino le strade erano pulite, Berlino era la città più pulita del mondo. Oggi i trecento spazzaneve adibiti alla pulizia delle strade trascorrono la notte al sicuro nelle rimesse del deposito. Qualsiasi siano le condizioni meteorologiche, non li si vede in funzione prima delle sei del mattino. Poi però Berlino è immersa nel fango. Il traffico moderno richiede, più che mai, una pulizia delle strade puntuale e adeguata, e tuttavia il lavoro di notte costa troppo caro, la tariffa è troppo alta. Il risultato è che la paga più alta non la ottiene nessuno. E visto che non possono essere assunti i lavoratori più anziani, che facilmente si presterebbero a fare qualche ora di lavoro notturno, queste ore infatti non possono essere pagate di meno e la mattina Berlino è immersa nel fango. Le lamentele arrivano da ogni zona della città. Il quartiere di Tempelhof-Est questa mattina è rimasto completamente tagliato fuori dal servizio tranviario. La linea 6 aveva temporaneamente sospeso il servizio e le vetture della linea 15 alla fine sono poi arrivate, ma una dopo l’altra, formando una

lunga fila. Negli altri quartieri periferici è accaduta la stessa cosa. Delle vetture a pieno carico sono rimaste bloccate sulla strada, intasando il traffico, e quindi lavoratori e impiegati sono arrivati tardi al lavoro. Tutto questo solo perché di notte aveva nevicato un paio d’ore. Al mattino, per riuscire a rendere percorribili almeno le strade principali della città, il servizio di pulizia delle strade era oberato di lavoro. Una situazione del genere è a dir poco ridicola per una città come Berlino.

La costruzione dei terrapieni per la tranvia: uno spreco Contro l’uniformazione delle strade

L’assemblea politica degli assessori democratici del comune e dei membri che rappresentano i quartieri, tenutasi ieri sera in municipio, ha fissato i nuovi stanziamenti finanziari per la città. Molti oratori hanno colto l’occasione per affrontare anche la questione dei terrapieni per il tram, strutture piuttosto alte e protette da inferriate e spalliere. All’unanimità costoro hanno espresso l’opinione che le sedi, che dovrebbero essere costruite appositamente per i binari, costituiscano un intralcio per il traffico normale e siano oltretutto superflue per il traffico tranviario. È stata poi definitivamente contestata la proposta di costruire dei terrapieni speciali per la tramvia nella FriedrichEbert e nella Potsdamer Straße. Sarebbe inaudito anche solo pensare di isolare i binari del tram dalla parte bassa della Potsdamer Straße giù verso Schöneberg fino a Steglitz. Si tratta in questo caso della proposta di un ufficio amministrativo comunale, la cui realizzazione verrebbe a costare parecchio denaro alla città. Altri oratori hanno sottolineato che al momento è già prevista una spesa di quasi tre milioni di marchi per la rimozione della passeggiata situata al centro della Yorckstraße e della Gneisenaustraße, dove i binari del tram di trovano ancora entrambi su un lato della passeggiata stessa. Se ci si accontentasse di spostare uno solo dei due binari sull’altro lato della strada, si potrebbe risparmiare fino a 1,5 milioni di marchi. La prevista uniformazione delle strade è un’idiozia. Il tesoriere comunale Lange, presente in quest’occasione, interpellato a questo riguardo non ha preso posizione sulla questione, ma ha spiegato che la distribuzione dei terrapieni

del tram potrebbe risultare molto costosa e andrebbe evitata nei casi in cui il manto stradale è ancora in buone condizioni. Possiamo solo rallegrarci che il rappresentate comunale democratico abbia sottolineato quanto sia insensato intralciare il traffico, transennando una parte delle strade a uso esclusivo del tram. C’è da sperare che anche altri partiti del consiglio comunale si oppongano.

Noi della Filmstudio 1929

Com’è noto, il dottor Moritz Seeler ha fondato uno studio cinematografico. All’inizio l’entusiasmo era dilagante. Poi dall’altra parte cominciarono a scuotere il capo. I signori della Friedrichstraße si sbellicavano dalle risate e, indicando il collo all’altezza della carotide, dicevano: «Se si trova un finanziatore per questa vostra cosa, siamo disposti a ingoiare un ombrello!». Ebbene noi siamo partiti, siamo fortunatamente riusciti a ottenere il denaro e sono ormai dieci giorni che stiamo girando questa nostra pazza cosa. Lavoriamo a ritmo febbrile. Abbiamo preso in prestito da un panettiere di Nikolassee* una carretta traballante e con questa spostiamo le nostre attrezzature sulla spiaggia. Rimaniamo anche quattordici ore di fila alla macchina da presa, senza battere ciglio. Noi stessi teniamo i parasole, stiamo tutto il giorno in ginocchio nel lago e, quando ci viene un colpo di calore, mettiamo la testa direttamente nell’acqua. Non credo che la spedizione sul Changtse o quella nel Pamir abbiano richiesto più forza di volontà e sacrifici. Dio mio, ci hanno messo a disposizione mezzi così primitivi. Mentre a pochi chilometri di distanza, nell’area di Neubabelsberg, forse proprio in questo momento si stanno costruendo delle strutture monumentali per le meravigliose bugie di Nina Petrowna*, noi con una somma di denaro assolutamente ridicola stiamo per mettere a fuoco con l’obiettivo un paio di verità che a noi sembrano importanti. *** Mentre stavamo cercando il nome, siamo stati a lungo indecisi fra «Estate 29» e «Giovani come tanti». Nel dilemma abbiamo optato per «È così e non altrimenti», perché questo titolo esprime bene quello che vogliamo dire: tutto è così diverso da come siamo abituati a vederlo nei film; molto meno complicato, molto meno concertato, c’è molto meno dramma e

molta meno carta! Il copione che ho abbozzato si basa su un reportage. Abbiamo seguito cinque giovani scelti a caso il sabato e la domenica sera, per vedere un po’ che cosa avrebbero fatto durante il «weekend». Ne è venuto fuori questo film. Una storia molto, molto semplice, in sordina eppure ricca di melodie, che tutti abbiamo avuto nelle orecchie giorno dopo giorno. Senza gag e senza battute a effetto. Anche a rischio di farci rimproverare per «non avere la più pallida idea delle regole di drammaturgia». I cinque personaggi di questo film sono come te e me. Che Dio ci fulmini se il nostro cameriere non è davvero quel bravo ragazzo che abita a Neukölln e si gioca a carte il dieci per cento di mance, non è un ex ufficiale zarista, tremendamente malandato perché così va il mondo, che di nome fa Smirnoff e che è per giunta anche colui che ha salvato la vita di Anastasia. Che Dio ci fulmini se non è vero che la nostra eroina batte a macchina e non possiede nessun divano rosa su cui, spia travestita quale lei è veramente, carpire ai signori generali i piani di fortificazione di Przemyśl. Oh certo, ci manca un intreccio forte, un conflitto convincente, e il diavolo sa quante altre cose ancora. Noi ce lo auguriamo di cuore. Abbiamo fatto chilometri e chilometri, evitando tutte le strade già percorse, in cerca di un sentiero stretto e poco battuto, tremendamente solitario: sull’indicazione c’era scritto «la vita». Rochus Gliese, collaboratore storico di Murnau, cura la regia. Moriz Seeler, eternamente in cerca di nuovi sperimentazioni, tiene insieme tutte i fili. Robert Siodmak e Edgar Ulmer, due nomi nuovi per Berlino, sono alla cinepresa con l’operatore Schüfftan. I ruoli dei personaggi del reportage li abbiamo assegnati a persone provenienti dallo stesso strato sociale e professionale. Già, uno di loro interpreta addirittura sé stesso. Interpreta? Bisognerebbe vederli questi cinque giovani, come si muovono, come guardano nell’obiettivo, come smoccolano e come ridono: non li cambieremmo di sicuro con un cast di stelle del cinema… Ancora quattro settimane. Senza uno studio e senza i mezzi dei grandi, ma con un’idea che, secondo noi, è di grande valore. Alla fine del film c’è una scena brevissima che probabilmente riesce a dire tutto nel modo più chiaro. I nostri

giovani dopo il sabato sera e la domenica si trovano del tutto casualmente e senza accorgersene davanti a un cinema di periferia. Dietro di loro un manifesto annuncia: «La magia del sabato sera». È questa la distanza che vogliamo suggerire. Fra il film del weekend che proiettano là dentro e la domenica che i nostri cinque giovani hanno vissuto realmente. Allora, incrociamo le dita. Per amore di una buona causa. * Lago situato nel quartiere residenziale di Berlino situato nel distretto di Zehlendorf, dove venne girato il film. * Neubabelsberg: quartiere residenziale Potsdam Babelsberg, situato sulle rive meridionali del Griebnitzsee ai confini con Berlino. Ai tempi ospitava la UFA/DEFA, ancora oggi è la sede degli studi cinematografici Studio Babelsberg. Con «le meravigliose bugie di Nina Petrowna», si fa riferimento al titolo di un film del 1929.

Come abbiamo girato il nostro film sperimentale

Billy Wilder ha scritto la sceneggiatura del film Menschen am Sonntag (Gente di domenica)* che verrà proiettato all’UfaTheater sul Kurfüstendamm. Qui di seguito egli indende spiegare di seguito come sia stato possibile realizzarlo – senza soldi, senza uno studio, senza «tecnici» e senza un’adeguata organizzazione. E anche come ha fatto, questo film, a diventare comunque un successo. Siamo qui seduti a darci i pizzicotti sulle gambe. Otto per sette fa 56. Copenhagen è la capitale della Danimarca. No, no, non stiamo dormendo. Dunque è proprio vero. Ci dicono che è un successo. Ci dicono che è addirittura un grande successo. E noi siamo molto felici. Abbiamo lavorato al nostro film nove mesi. Un periodo difficile ma bello. «Eppure deve essere possibile realizzarlo!». Un uomo basso di statura salta in piedi come un invasato e batte un colpo sulla lastra di marmo. I suoi occhiali e i bicchieri di limonata tremano. Moritz Seeler. Siamo in cinque. Un certo signor Eugen Schüffthan, inventore di un trucco cinematografico, che ancora oggi non riesco a capire, lo guarda quasi a bocca aperta: «Senza soldi?». «Senza soldi». Al terzo, Robert Siodmak, di Dresda (ha lavorato prima in un giornale, poi a teatro, poi nella distribuzione cinematografica) riesce difficile non scoppiare a ridere: «Senza uno studio?». «Senza uno studio».

«Così, al buio?» chiede Edgar Ulmer. 23 anni, rientrato da Hollywood da sei mesi. Ha lavorato come architetto con Murnau per Aurora. «Così, al buio!». Il quinto sono io, Billy Wilder: «Allora fondiamo una società?». «Certo, fondiamo una società! Al buio. Senza atelier. Senza soldi». Così fondiamo la Filmstudio. Al tavolino di un caffè. Nel giugno del 1929. Una cinepresa, ce l’abbiamo, ed è tutto ciò che ci serve. Che cosa vogliamo girare? Centinaia di idee, centinaia di proposte. Si passa subito a darcele di santa ragione. Sentiamo di essere sulla stessa lunghezza d’onda. E improvvisamente ecco che arriva l’idea giusta: non sarà altro che un semplice reportage. Un film su Berlino, sulla sua gente, sulla vita quotidiana che conosciamo così bene. All’inizio pensiamo a dei giovani attori. Ma le persone devono essere vere. Facciamo una ricerca. Seeler trova davanti a un bar del Kurfürstendamm uno chauffeur, Taxi IA 10 068, Erwin Splettstößer. È subito dei nostri. Invece la signorina Borchert capisce tutt’altra cosa. Vende dischi per il grammofono. Facciamo molta fatica a convincerla. La sua famiglia ci scambia per dei trafficanti di donne. In un modo o nell’altro si arriva al giorno delle prove, a Thielplatz. Arriva anche Christl Ehlers, lei ha già esperienza, ha già lavorato una volta come comparsa per Dupont e ci dà la sua parola d’onore che è perdue per un direttore della fotografia di Lapa Pick. Uno di Waltershausen ci cade fra le braccia, è proprio ciò di cui abbiamo bisogno. Nel frattempo cominciamo ad abbozzare la sceneggiatura. Sette fogli battuti a macchina. Troviamo il trucco: concentrare tutta Berlino in una domenica. Ma i soldi, i soldi! Non abbiamo il materiale. Dopo settimane riusciamo a scovare un finanziatore nella Friedrichstraße. Lo imbrogliamo con i numeri. Al 3 per cento crede nel nostro talento, al 97 per cento lo eccita la chance di

mettere le mani su un film a un prezzo incredibilmente conveniente. Presentiamo una stima dei costi insensatamente bassa. Gli raccontiamo di un walzer e di una guardia che se ne deve andare via subito. Ed ecco che abbiamo assestato un colpo da maestri, il contratto è firmato. I primi mille metri di materiale ci vengono subito forniti. Si parte. Eccome se si parte! Le cinque persone che abbiamo messo insieme si prendono le ferie. Gli diamo dieci marchi al giorno e, oltre a questo, rimborsiamo loro il salario. Mesi e mesi. Nell’acqua, in città. Ogni giorno ce n’è uno che si ritira, non ce la fa. Un paio di sberle e ritorna subito l’entusiasmo, quando guardiamo il girato in anteprima. Trascorriamo solo una giornata nello studio. Costretti dal tempo. Da settimane aspettiamo una bella giornata. Siamo depressi. Riusciremo mai a combinare qualcosa? Gli «attori» si fanno sempre più impazienti. Il finanziatore è impaziente, teme di aver perso i suoi quattrini. In qualche modo riusciremo ad arrivare alla fine. Ormai nessuno ci crede più. Nella Friedrichstraße sono venuti a saperlo e adesso ridono di noi. Ce ne stiamo seduti lì in silenzio a tagliare. Abbiamo girato diecimila metri di pellicola. Chissà dove diavolo siamo riusciti a trovare i soldi. L’11 dicembre il film è finito. Facciamo una proiezione in anteprima per i signori di una delle più grandi produzioni cinematografiche. Nessuno ci prende sul serio. Il direttore della distribuzione giura che dopo oltre trent’anni di lavoro è pronto a dimettersi, se il film verrà mai proiettato da qualche parte. Di un successo secondo lui non se ne parla proprio. Il «capo dell’ufficio stampa» non sente la «profondità psicologica». Con altre tre produzioni succede esattamente la stessa cosa. È saltato fuori un nuovo finanziatore. Forse vuole finanziarci la presentazione serale. Organizziamo un’anteprima del film alla UFA. Lo facciamo vedere ad Hanns Brodnitz, il direttore del settore teatrale. E lui lo prende. Per la

regolare programmazione serale del cinema U.T. sul Kurfürstendamm. Restiamo di stucco. La prima si avvicina. Alle nove, mentre ci inchiniamo di fronte al pubblico, non abbiamo idea di cosa accadrà. Ci prenderanno sul serio, ci rideranno dietro? In ogni caso, fra le nove e le nove e tredici, mentre il cuore ci batteva forte in gola, ci è venuto in mente il soggetto per un nuovo film. * archive.org/details/peopleOnSundaymenschenAmSonntag1930

Consigli per gli acquisti

Un mio vecchio conoscente, l’altro giorno, si è sparato. Era un commesso viaggiatore che vendeva libri. Il suo campionario lo portava in una piccola valigia di cartone, dove c’erano «dre sgombaddi» come lui stesso, affetto da raffreddore cronico, diceva sempre, col naso tappato, ai suoi clienti. Questi tre scomparti erano: a sinistra «dobanzi gialli», al centro «bolidiga» e a destra «glassigi». A eccezione di un volume rovinato di Altenberg, al quale mancavano le pagine dalla 8 alla 26 e del quale non era ancora riuscito a liberarsi, il suo campionario cambiava faccia ogni due settimane circa. Gli affari gli andavano bene. E adesso, improvvisamente mi dicono che si è sparato. Per essere precisi, che si è sparato per disperazione. Non posso crederci. Casualmente negli ultimi tempi ho bazzicato parecchio le librerie, perché mi interessava vedere in che modo la gente compra e vende libri, ma soprattutto se i libri si vendano davvero. Osservavo attentamente e facevo anche parecchie domande. Il commercio funziona. Certo, da Natale ha un po’ mollato. Ciò che conta, però, è che a Berlino, e posso anche generalizzare, in Germania, in questo momento i libri si vendono bene. Non si può che esserne più che soddisfatti. Che il mio conoscente si sia sparato non dipende dunque di certo dal fatto che nessuno spenda soldi per comprare libri. Di certo non è stata la fame a indurlo a tanto. Piuttosto… tutti quanti l’avevamo messo in guardia da Amélie e, in fondo, nessuno ci può rimproverare qualcosa. *** Un pomeriggio ero in una di quelle magnifiche librerie che si trovano nella parte occidentale di Berlino, dove aleggia un profumo più intenso che da Coty e Chanel, e dove la

stimolante disarmonia di colori delle copertine dei libri è piacevole da osservare quasi quanto lo sono le donne sapientemente truccate. Una signora è interessata alla letteratura americana. In Kansas vive suo fratello minore, un pastore, e vuole andare a trovarlo. Questa è la storia che il libraio deve ascoltare, deve prestare l’orecchio alle questioni più strettamente familiari prima di riuscire finalmente a liberarsi di una copia rilegata di Paradies Amerika di Egon Erwin Kisch. Una giovane coppia si decide a prendere un Liebe am laufende Band (Amore senza sosta) di Siegfried von Vegesack. Del venerando Ein Kampf um Rom (La guerra di Roma) di Felix Dahn vanno spolverati ben due tomi, un papà se li porta via, qui nelle vicinanze c’è senz’altro un ragazzino che domani compie dodici anni. Un uomo che di per sé non ha proprio nulla del docente universitario, nonostante questo si ostina sui nuovi propilei della storia mondiale* che profumano ancora di tipografia. Coinvolgo nel discorso un signore che fa il commesso. Che cosa va e che cosa no. Che cosa fa la muffa sullo scaffale e che cosa ti strappano dalle mani, neanche fosse pane appena sfornato. Come si danno consigli agli acquirenti, come gli si appioppa un secondo, un terzo libro. E così via. *** L’acquirente, specialmente quello accanito, oggi più che mai ha sviluppato un fiuto per i bei libri, dice il signore dietro al bancone. L’acquirente a poco a poco inizia a rivolgere il suo interesse per le case editrici, di lì trae le sue conclusioni sulla qualità del libro: ah-ah, S. Fischer, non può certo essere una porcheria! Si lascia convincere dalle recensioni dei giornali. Porta con sé le fascette con le frasi di famosi autori contemporanei, e ne fa tesoro, se non hanno un retrogusto troppo forte di réclame. La merce esposta in vetrina non passa più inosservata e non ha nulla in contrario che gli si spedisca a casa ogni mese un catalogo delle novità editoriali. Il prezzo del libro non è affatto determinante. In Francia vanno matti per le edizioni economiche. Stampate talvolta su carta così spessa e dura che si potrebbe quasi ammazzare qualcuno, colpendolo con una mezza pagina di quel genere.

Oppure direttamente sulla carta igienica. A loro non importa per nulla. Devono solo costare poco, anzi pochissimo. Un tedesco prende sul serio l’acquisto di un libro proprio come quello di una camicia. Deve durare, tutto dipende da questo. Non si sogna di abbandonarlo sul treno o buttarlo in un angolo come un giornale vecchio. Deve avere un «valore durevole». Come un mobile. Uno sfarzoso per giunta. In Germania si fanno più libri di buon gusto che non, per esempio, camicie. Basta confrontare la vetrina di una libreria con quella di un negozio di indumenti di lana. Le memorie di Trockij, Fouché di Stefan Zweig, Berlin Alexanderplatz di Alfred Döblin, sono questi i libri del momento. Sono stato lì a osservare una mezz’ora e di Trockij ne sono andate tre copie, una copia di Fouché, e di Berlin Alexanderplatz di Döblin addirittura quattro copie. La posta del pomeriggio, appena giunta, recapita altre due ordinazioni del libro di Döblin su Berlino: una da Monaco e una da Riga. Le memorie, le biografie vanno per la maggiore. Stresemann di R. Olden, Die Zukunft des Reiches (Il futuro dell’impero) di Hans von Seeckt, Segreto e potenza dei gesuiti di René FülöpMiller hanno una quotazione eccellente. Fra i romanzi subito dopo Döblin viene Fratello e sorella di Leonhard Frank. È molto richiesto anche O mon Goye! di Sarah Levy, a cui senz’altro contribuisce non poco anche il titolo audace. Fra le testimonianze di un’epoca, Des Kaiser Kulis (Lo schiavo del Kaiser) di Theodor Pilvier e Sperr Feuer um deutsh Land (Fuochi di sbarramento intorno alla Germania) di Werner Beumelburg hanno ottime possibilità di decollare. Dell’ultimo libro di London, La valle della luna, non ci si può certo lamentare, con Le grandi spie di Hans Rudolf Berndorff siamo vicini alle quarantamila copie vendute. I romanzi gialli attraversano una fase di leggera stagnazione. È ormai molto dubbio che un’esagerata produzione di massa possa avere successo. Da quando è stato pubblicato Le bestie ti guardano di Paul Eipper, invece, vanno alla grande i libri illustrati sugli animali.

Bengt Berg per esempio. E anche i bellissimi resoconti di viaggio. Wilhelm von Plüschow. Wilhelm Filchner. Questa in breve la situazione, così come appare da un pomeriggio trascorso in una libreria di Berlino. Per quanto riguarda l’eventualità di «appioppare» un libro a qualcuno, i signori qui dicono di non saperne nulla. Non cerchiamo di influenzare il cliente. Noi no. Lo consigliamo. Gli facciamo timidamente vedere dei libri che potrebbero interessargli. Lasciamo che li sfogli quanto vuole. Non manchiamo mai di segnalare, a un cliente che ha comprato un Remarque, anche Ludwig Renn, Ernst Gläser. Ma non glielo appioppiamo. Se il negozio gli sembra invitante si porta via senz’altro anche qualcos’altro, fosse anche solo un librino della casa editrice Reclam. I metodi di questi signori sono molto lodevoli, è chiaro. Diciamo così, in Texas ci saranno forse delle librerie nelle quali le cose non procedono in modo così pacifico. Non appena il cliente varca la soglia del negozio, le porte vengono chiuse dall’interno, ridendo il venditore si mette le chiavi nella tasca dei pantaloni e solo a questo punto comincia la vendita. Al pover’uomo che è entrato nel negozio per comprarsi la cartina dei mezzi pubblici ed è stato così incauto da lasciare a casa il revolver, a stento sarà concesso di tornare in strada vivo senza aver prima acquistato cinquanta libri, che non gli interessa granché e importa un fico secco. Immaginate se una cosa del genere accadesse qui da noi. Che non si facesse uscire nessuno da una libreria, se prima non si è preso un paio di Rudolph Stratz e l’opera omnia di Rudolf Herzog. E tante grazie. * Propyläen Weltgeschichte. Eine Universalgeschichte von den Anfängen bis zur Nachkriegszeit, opera in dieci volumi diretta da Walter Goetz, apparsa fra il 1929 e il 1933 presso la Propyläen-Verlag, verrà completata a più riprese fino al 1965.

Come ho fatto a batter cassa con Zaharoff

Veramente quella volta volevo andare a Helgoland, volevo andarmene in spiaggia e giocare con i molluschi. Invece sono finito a Monte Carlo, sono andato al casinò e ho giocato alla roulette. Ardevo dal desiderio di far saltare il banco a Monte Carlo con un mio sistema assolutamente sicuro, sicuro come la morte! Ora,… non ci sono riuscito per niente. Dieci giorni dopo, ero tremendamente a secco. E ancora peggio, una notte, mentre cercavo di andarmene a dormire nel mio letto all’Hôtel Savoy, camera 37, non mi permisero di entrare nemmeno nell’edificio. Sulla Costa Azzurra hanno uno sguardo ai raggi X assolutamente affidabile, che attraversa il portafogli dei giocatori d’azzardo sfortunati. Per il conto aspettano tre giorni, poi dicono un paio di eleganti frasi di circostanza al cliente e lo sbattono direttamente in strada. Quella notte me ne stavo lì assonnato e intirizzito, con solo dieci franchi nella tasca dei pantaloni dello smoking. Mi sedetti su una panchina della passeggiata lì sotto, e mi misi a contare le palme, una a una, erano 127, lo so con precisione. Poi andai a vomitare ancora tre volte nel mare Mediterraneo, il che in totale fa 130. E per concludere mi misi a pregare Dio ad alta voce di non far più sorgere il sole. Di notte il mio smoking poteva ancora avere un senso, ma di giorno, lo smoking…, proprio non andava. Disperato, corsi giù a Monaco alle cosiddette rocce dei suicidi, già molti che avevano giocato un sistema, gettandosi nel vuoto da queste rocce, avevano messo un punto alla loro vita distrutta. Mentre stavo andando lì, mi venne in mente che conoscevo un musicista jazz al Café de Paris. Pensai di andare da lui a batter cassa. Lui però, purtroppo non poteva darmi del denaro. Mi prestò invece la custodia vuota del suo violino, e questo mi fu

di grande aiuto. Il mio smoking adesso aveva improvvisamente di nuovo la sua ragion d’essere. Nei due giorni successivi andai girovagando fra Monte Carlo e Nizza come un virtuoso del violino senza scrittura, con una custodia vuota sotto il braccio e lo stomaco altrettanto vuoto. Mi trascinai così per due giorni. La camicia dello smoking la ripulivo con la gomma per cancellare. Le sottili suole delle mie scarpe di vernice cominciavano ad avere dei buchi. Non riuscivo a decidere cosa fare, lo stomaco vuoto mi impediva di pensare. C’era da mettersi a piangere. Me ne stavo lì alla stazione di Monte Carlo con la custodia del violino, aspettando senza alcuna ragione il diretto che arrivava da Marsiglia. Forse inconsciamente avrei voluto gettarmi sotto la locomotiva. Mi misi a sfogliare un libro tedesco, che era in vendita nel chiosco del giornalaio. Il libro si intitolava: Come diventare ricchi e potenti: improvvisamente intravidi al suo interno l’immagine di un vecchio signore, con la barba a punta, che indossava un cappotto grigio accollato e una specie di casco coloniale in testa. Sotto la foto c’era scritto: Sir Basil Zaharoff. Ciò che mi faceva tremare le ginocchia, era il dato incontrovertibile che io quell’uomo lo conoscevo di vista. Quell’uomo dunque, che io vedevo ogni giorno mentre facevo la mia marcia della fame, quell’uomo che io consideravo un mio compagno di sventure, era l’uomo più ricco d’Europa e l’azionista di maggioranza del casinò che stava lì sopra: insomma quell’uomo viveva in questo momento forse proprio dei ventimila franchi che io avevo erroneamente puntato sul pari anziché sul dispari. Quando il diretto proveniente da Marsiglia arrivò in stazione, avevo già preso la decisione di andare a batter cassa da lui. Dovevo assolutamente metterlo in croce per una cifra con almeno quattro zeri, se non volevo morire di fame come un cane, come promisi a me stesso. Sapevo bene che Sir Basil Zaharoff, ogni mattina fra le otto e mezza e le nove e mezza, andava a fare una passeggiata nei dintorni del casinò. Camminava un po’ instabile,

appoggiandosi a un bastone, e ogni dieci passi si sedeva su una panchina, per riprendere fiato. Quando, il mattino dopo, mi avvicinai furtivamente a lui, ero un fascio di nervi. La suola della mia scarpa destra ormai non c’era più, camminavo direttamente sul calzino. Le mie braccia erano così deboli che la custodia vuota del violino mi pareva un camion a pieno carico. Respiravo affannosamente, le labbra esangui mi tremavano. All’improvviso lo vidi, si dirigeva molto lentamente verso la panchina accanto a me lì fermo tutto tremante. Il suo cappotto grigio sventolava leggermente, il suo cappello grigio, che portava come un casco coloniale, era così calcato sulla testa che del suo viso faceva capolino solo la punta della barba grigia. Mio Dio, l’uomo più ricco d’Europa. Dovevo proprio appoggiarmi alla panchina, o rischiavo di cadere sulla custodia per l’eccitazione. Parola d’onore, eravamo seduti uno di fianco all’altro: Sir Basil Zaharoff, il miliardario, e io, un relitto senza un centesimo. Contai ancora fino a venticinque per farmi coraggio, poi eroicamente dissi: «Bonjour, Monsieur Zaharoff!». Dapprima mi lanciò un’occhiata strabica poco amichevole, poi però mi fece un cenno col capo. Per un minuto non sentii altro che il mio cuore battere sempre più forte. Poi d’un tratto Zaharoff batté col bastone sulla custodia del violino e iniziammo a conversare sui virtuosi del violino. Su Kreissler, Hubermann e Kubelik. Il mio cervello andava velocissimo, cercavo uno spunto per passare ad altro e non lo trovavo. Proprio non riuscivo a trovarlo, fino a quando Zaharoff con una certa soddisfazione sottolineò che era meraviglioso che io fossi appassionato di violino e non di roulette. Poi si alzò di nuovo per dirigersi verso la panchina successiva. Lo guardai in preda al panico, incapace di corrergli dietro, inginocchiarmi davanti a lui e dirgli: Monsieur, io sono alla fame! Quel pomeriggio, grazie alla custodia del violino, mi procurai un ingaggio come violinista jazz a Venezia. Quando venne fuori che non solo non avevo un violino, ma non sapevo

nemmeno leggere le note, mi era già venuto in soccorso un amico.

GENTE DI DOMENICA RITRATTI DI PERSONE PIÙ O MENO IMPORTANTI

Chaplin II e gli altri a ruota Un programma bellissimo! Colorato, effervescente e per di più nuovo!

Clown Ecco Will Cummin, uno spilungone che usa l’ombrello come accendino e fa passeggiare il cappello sul sigaro, uno che con dodici cilindri in testa lascia sbalordito un giocoliere e così fa la parodia di Rastelli; poi da un vasetto striminzito fa uscire ettolitri d’acqua e, mentre è impegnato in questa operazione, il suo viso assume la più dolce espressione di stupidità che si possa immaginare. E poi c’è anche la famiglia Andren, geni musicali, virtuosi del varietà di primo livello. Con un piccoletto dallo sguardo sempre malinconico, che sulla punta dei piedi suona Rêverie di Debussy sul violino. I tre orsi e Okito Si comincia con un orso bruno sui pattini a rotelle, poi ne entra un altro e poi il terzo sulla bici (la signorina Ottilie di Schöneberg, come lo chiama Joseph Brecker, il domatore). Con la grazia e la leggerezza di una fanciulla. Già, ma l’orchestra non fa in tempo a suonare le prime note di un selvaggio charleston che i tre dimenticano la loro squisita educazione. Tirano le catene come pazzi, naturalmente sempre seguendo il tempo e il ritmo sincopato, ma con un temperamento tale da fare completamente a pezzi i pantaloni di Mr Braker Adlatus. E poi c’è Okito: un illusionista che non fa il presentatore ed è già un bel vantaggio. E pensare che il cinese è bravissimo: come gli riesce il numero con le sfere d’oro e quello con le oche? Vale la pena vederlo anche solo per la dozzina buona di meravigliosi kimono che Okito indossa con una raffinatezza degna di una mannequin parigina. Numeri di danza

Questi, a dire il vero, sono proprio un po’ debolucci. La danza moderna ha messo in scena cose di gran lunga migliori di quelle che fanno Laczi e Änni. Chaplin II Due acrobati, dei bei ragazzi, e Charlie Rivel*, questa è la truppa. Rivel fa le imitazioni. Ma la sua è un’imitazione che viene dal profondo dell’animo ed è così intensa che ha una sua legittimità. (Una legittimità giuridica anche perché, come si dice giustamente, Chaplin il Grande è altrettanto poco l’originale: Billy Hurrydale, un sordido artista da avanspettacolo.) Rivel è un osservatore brillante, conosce il genio come le tasche dei suoi pantaloni lisi. Con discrezione ci dà una trasposizione tridimensionale di Chaplin – e ci riesce sorprendentemente bene. Rimane solo da fare il panegirico dei suoi partner che fanno una giravolta dopo l’altra. Cose improbabili Un tipo fa la radice quadrata di 33.000.262.176! Questo fenomeno si chiama Emanuel Steiner, uno che maneggia numeri di venti cifre come un gioco da ragazzi; come dice lui stesso, l’unica persona al mondo per la quale i miliardi non contano affatto. Oltre a questo, ha anche un’imbarazzante conoscenza di tutti i dati storici, possibili e impossibili; sa, per esempio, che Archimede è venuto al mondo un giovedì, quanto fa 766 alla quarta diviso per 77. (Un signore rubizzo seduto vicino a me continua a bofonchiare scettico: sono solo trucchetti, dovrebbe piuttosto calcolare i miei interessi passivi!) Un altro tizio ha dei polmoni da gasometro! Omicron è un uomo biondo, minuto, vestito di viola. Potrebbe fare la pubblicità di un aspirapolvere. Inspira così tanto gas, che con la stessa quantità alcuni potrebbero andarsene tranquillamente all’altro mondo. Con questo gas, mette in funzione lampade, accende ferri da stiro, cuoce un uovo al tegamino. Vedendolo, si resta con un po’ di amaro in bocca, ma non possiamo che ammirarlo, questo ragazzo, eccome!

Poi uno che passa per la cruna di un ago! Martin Sczeny, un messicano con una leggera inflessione ungherese e il torace di un orso, tutto un muscolo dalla testa ai piedi. Maestro nel liberarsi dalle catene. Matador dell’evasione. Venti persone del pubblico gli mettono una camicia di forza, lo stringono come un bambino nelle fasce. Un minuto dopo è libero. Cammina sulle mani e fa capriole, le articolazioni schioccano in modo sinistro. Alla fine si infila in un anello d’acciaio grande come un piatto fondo. Prende di nuovo la rincorsa – in platea le signore trattenevano il fiato agitate – è un attimo, la colonna vertebrale si flette, ancora e poi ancora, passato! Molta fatica, molto sudore. Bravo! * Clown noto per l’imitazione di Charlie Chaplin, il quale secondo la leggenda avrebbe espresso il dubbio se era lui a imitare Chaplin o Chaplin a imitare lui.

Un problema di somiglianze

A Erwin non serve a nulla che l’enciclopedia spieghi la sua particolarità e unicità, in quanto individuo, in forza delle sue caratteristiche. Al mondo reale questo non interessa. Non tenendo in alcuna considerazione la definizione scientifica, gli conferisce la discutibile autorizzazione a moltiplicarsi. Con la stessa indolenza del funzionario dell’ufficio passaporti che gli pone la domanda sui suoi «segni particolari», si limita a rispondere che non ne ha, ignorando tutte le particolarità specifiche del suo aspetto esteriore che degrada a cliché. Dal momento che, come il signor Klappke, è di mezza statura e bruno, lo prende per il signor Klappke. Dal momento che, come il signor Rednitz, porta occhiali di corno scuro, davanti agli occhi marroni, lo prende per il signor Rednitz. A Erwin non è consentito essere Erwin. Il destino lo ha destinato a essere la vittima delle scarse capacità di memorizzazione dei suoi simili poco fisionomisti. Per cosa non ha già dovuto farsi passare Erwin nel corso degli anni. I ruoli che è stato costretto ad accettare vanno da apprendista in un negozio di coloniali fino al comico in un film, da caso sociale a cugino disperso in Australia. All’inizio era categoricamente contrario all’idea di accettare una falsa identità. Si rifiutava di essere «riconosciuto», cercava di chiarire l’equivoco negando l’identificazione, con documenti e timbri alla mano. Non si era ancora reso conto di quale e quanta ostinazione fosse capace la gente, nel difendere i propri errori. Non immaginava nemmeno quale diffidenza avrebbe suscitato la sua protesta. Nessuno gli credeva quando affermava di non essere chi si pensava che fosse. Tutt’al più la gente pensava che non volesse esserlo, che avesse qualche motivo imbarazzante per mettere in dubbio la sua identità. Ben presto la pacifica natura di Erwin si stancò delle continue discussioni. Si rassegnò ad accettare con dignità il suo destino

di «assomigliare a qualcuno». Per un eccesso di arrendevolezza diventò suo malgrado un millantatore. Lasciò agli equivoci libero corso, sforzandosi di adattarsi fin dove era possibile alle figure che gli proponevano. Non appena si profilava il rischio di essere scoperto, prendeva bruscamente congedo. Fino a quattordici giorni, fa la situazione è andata avanti così, senza intoppi. Un bel giorno, in un locale da ballo, un mostro ossuto cercò di reclamare Erwin, sostenendo che era il suo promesso sposo fuggito via l’anno prima. Erwin s’intestardì. Aveva sperato che lo scambio di persone fosse vantaggioso per lui, ma non aveva nessuna voglia di trascorrere le sue serate al fianco di quello scheletro infiocchettato di nero. Le ragioni per cui lo sposo era fuggito, gli erano state ben chiare sin dalla prima occhiata. Come ai vecchi tempi, tornò a negare l’identificazione, documenti alla mano. Arrivò a fare una scenata nel bel mezzo del locale. La sposa ossuta protestò davanti a tutti che lui aveva tentato già una volta di ingannarla con dei documenti falsi. Allora però si faceva chiamare Egon. Se non avesse pagato subito gli alimenti arretrati, avrebbe chiamato la polizia. Minacciosa si diresse verso di lui. Gli altri convenuti presero le sue parti. Si giunse alle mani e anche peggio. Tornato a casa, Erwin in un primo momento, in preda a un accesso di disperazione, voleva tagliarsi le vene con il rasoio. Poi si rese conto che questo comportamento non era nel suo stile. Si abbandonò furioso alla rabbia fino al giorno dopo, perché ne aveva abbastanza di dover sopportare dell’altro, dopo questa disavventura di proporzioni già eccessive. Poi prese una decisione. Lui doveva avere un «segno particolare», a tutti i costi. Non poteva modificare la natura. Ma aveva il potere di accentuare la sua individualità. Rinunciò a ogni forma di vanità. Erwin oggi ha la testa rasata e i favoriti. Sul suo naso ondeggiano degli occhiali a pince-nez di metallo. Il colletto inamidato gli arriva fino al mento. Le gambe sono chiuse in stivaloni marroni con il risvolto. Uno scolorito cappellino da caccia adorna il suo capo. Quando cammina per strada la gente si dà di gomito, ridendo. «Un travestimento davvero

originale», dicono domandandosi chi cercherà mai di nascondersi dietro a quella mascherata. Il signor Klappke o il signor Rednitz?

Il Ministro a passeggio

Non c’è dubbio, è lui. Il collo corto, la netta linea orizzontale delle spalle squadrate, il passo volutamente leggero, sono inconfondibili. Theo ha più volte osservato con attenzione la silhouette delle spalle del Ministro, nelle esagerazioni caricaturali dei giornali satirici. Ma esita ancora ad accettare di aver incontrato proprio lui. Un ministro a piedi, in abito da passeggio? Un borghese che passa inosservato in mezzo ai cittadini, a passeggio sul corso. Pieno di disprezzo nei confronti di tutta la politica di partito, Theo ha comunque troppo rispetto per i funzionari per riuscire a immaginarsi un alto membro del governo senza il servizio d’ordine della polizia di rito. Il titolo di un giornale letto di sfuggita dissipa ogni suo dubbio. Ah ecco, una seduta parlamentare. Il Ministro ha appena tenuto il suo lungo discorso. È comprensibile che cerchi di rilassarsi, prendendo una boccata d’aria fresca dopo il dibattimento. Quella sera d’estate Theo si mette sulla scia del Ministro tenendosi a cinque passi di distanza. Nessuno si preoccupa particolarmente di quell’insolito flâneur e del suo pendent trasognato. Se fosse stato annunciato ufficialmente, si sarebbero subito ammassate lì frotte di curiosi. Ma oggi il Ministro non era atteso e certamente non una di quelle migliaia di persone riconoscerebbe l’uomo di Stato in un abito così insolito. «Il modo più sicuro per mantenere l’incognito» prende nota Theo per il suo libretto di aforismi «… è affidarsi alla poco sviluppata memoria fisiognomica dei nostri simili». Appunto per potersi riprendere, l’alta carica del Ministero degli Esteri, intenta con la mano sinistra a giocare con la martingala del cappotto, mentre il braccio destro oscilla giocondo, passeggia sotto gli occhi indagatori di Theo. Al suo fianco, concentrato in modo forzato a divertirsi, un simpatico giovane. Una vicinanza po’

troppo confidenziale, il suo abbigliamento è di un’eleganza troppo accentuata, per sembrare agli occhi di Theo un consigliere ministeriale; probabilmente è il suo segretario particolare. Di che cosa discuteranno così animatamente? Commenti piccanti su una seduta di gabinetto? Il piano di un nuovo orientamento diplomatico? L’irresistibile bisogno di saperlo fa dimenticare a Theo la distanza di sicurezza. Senza rendersene conto accelera il passo, quasi sfiora col braccio l’uomo che cammina davanti a lui. Le sue orecchie sono avide di segreti di Stato. «Sì, mio caro – sente dire al Ministro – alla fine è poi arrivata davvero, l’estate». Nient’altro, solo una lunga pausa. Deluso, Theo retrocede alla posizione iniziale. A dire il vero, si aspettava qualcosa di più. Per sentire delle verità così banali, non c’era bisogno di origliare il discorso di un ministro. Un politico di tale livello dovrebbe essere assolutamente consapevole dei suoi obblighi in ogni istante, ogni volta che apre bocca. Comunque, si consola, avrebbe potuto andare peggio. Almeno era una frase compiuta. Addirittura una constatazione. «L’estate è poi arrivata». Finora non era affatto sicuro. Adesso sarebbe diventato realtà. Era venuto a saperlo dalla migliore delle fonti. Da una fonte per così dire ufficiale. Riconciliato con sé stesso, Theo decide di perseverare. Non fa nulla se deve resistere ancora qualche minuto. I suoi pensieri girano intorno a quanto gli è accaduto. Inizia il processo di rielaborazione. Mette in scena il resoconto che farà al bar. Gli sguardi invidiosi intorno a lui… il Ministro mi ha riconosciuto subito e mi ha invitato a seguirlo. Apparentemente si è trattato solo di un convenzionale discorso di argomento meteorologico. Ma c’erano dei sottintesi. Meteorologia e politica. Il tempo sarà caldo e secco e quindi il conflitto anglo-russo… Un improvviso nubifragio distoglie Theo dalle sue fantasie. In tutta fretta cerca riparo per il suo leggero vestito chiaro in un androne, mentre il Ministro, appena smentito, si sottrae a ogni ulteriore indagine dandosi alla fuga.

Il Principe di Galles va in vacanza

Che tipo è il Principe di Galles? È un funny boy, uno in gamba. E come si trova con la vita di corte? Ne è arcistufo. Che noia Buckingham Palace! E il Castello di Windsor. E la sua Marlborough House. E la residenza estiva di Osborne sull’Isola di Wright. E Balmoral in Scozia. Ma allora come se la passa the world most popular young man, il giovane più famoso del mondo? È stufo da morire e profondamente infelice. Non vale per niente la pena correre in incognito nei Londoner Bars, al Kit-Kat Club, dove sono già sette settimane che suonano le stesse canzoni, Baby Face* e Charlie My Boy**, Charlie My Boy e Baby Face. Già, e i ragazzi di Sandringham nel Norfolk giocano così male a golf che fanno ridere i polli. Non resta che andare alle corse dei levrieri a White City: una bella cosa una volta, due volte, poi alle lunghe anche la lepre elettrica fa sbadigliare. Non resta che farsi un giretto con lo yacht reale, oh, bellissimo, se non fosse che uno viene disturbato ogni due minuti da chi tenta la traversata della Manica a nuoto e dal ronzio dei voli transoceanici. Non resta forse altro che una bella caduta da cavallo al cospetto dei rappresentanti della stampa e dei fotoreporter. Ma fa parte del vecchio repertorio, volare dal cavallo bianco era il numero del Prince, prediletto già nel 1926, 1925, 1924, 1923, 1922, …, ogni stagione ha la sua cadutina. Un mondo, che Dio abbia misericordia, così insulso, cosìììì insuuuulso.

Di nuovo un giro del mondo? Mhmm, mhmm. Il subcontinente indiano e l’Indocina li conosce come le tasche dei suoi pantaloni e la fondina del suo revolver. Quanto all’Egitto, i coccodrilli stanno già fischiettando il suo nome dalle piramidi. L’Australia? L’Australia gli dà sui nervi. Nuova Zelanda, Guyana, Giamaica, Ceylon, Isole Fiji, Hong Kong e Malta idem. Con divertimento s’intende: colonie. Ci furono giorni molto turbolenti, a Marlborough House, finché il Principe non ebbe un’illuminazione: per una volta il Canada non sarebbe stato poi così male. Canada! Dalle Rocky Mountains scende un’arietta gelida, e nelle praterie pascolano mustang e bufali. E ci sono fattorie ovunque, cacciatori di animali da pelliccia ehilà! Con un telegramma hanno ordinato per il Principe di Galles quanto segue: un ranch, un vero ranch canadese, uno di quelli dove abitano i giovani selvaggi di lì, realizzato con nodosi tronchi d’albero, rustico e resistente alle intemperie, lontano migliaia di chilometri dal Québec e da Montréal, in mezzo a boschi immensi e sconfinate praterie. Un simple ranch con sei bagni, due sale da biliardo, una da bridge, una da ballo, tre bar e così via. Tutto secondo le indicazioni del Principe in persona. Un piroscafo carico di valigie ha lasciato l’Inghilterra e nel frattempo ci si affrettava a sistemare il ranch. La bella villeggiatura di un principe. Programma della giornata: Ci si alza alle cinque e mezza. Una breve cavalcata con lo stomaco vuoto e il frack rosso non può guastare.

Dalle sette alle undici: prima colazione, all’inglese. Abbigliamento: pigiama o veste da camera di seta verde. Dalle undici alle due: colloquio con il corriere diplomatico («Dov’è finito il mio stipendio?» 40.000 sterline di salario e 60.000 sterline di rendita dal ducato della Cornovaglia). Dalle due alle quattro: pranzo leggero all’aperto, poi incontro con la stampa. Abbigliamento: pantaloni da cowboy, camicia lilla, cravatta lilla, fazzoletto lilla, fascia sul cappello lilla. Va di moda il principe lilla. Dalle quattro alle sei: incontro con la popolazione. Abbigliamento: spezzato con pantaloni a righe e giacca nera. Dalle sei alle otto: cena danzante. Due indigeni girano la manovella del grammofono. The Prince impartisce lezioni di black bottom. Partita di biliardo. Abbigliamento: smoking. Dalle otto alle dodici: bridge. Se il tempo è bello, ai piedi delle Rocky Mountains. Abbigliamento: frack. Per concludere, un ballo. Alcuni ritagli dai giornali inglesi: «Il nostro Principe vive fra i coloni in Canada». «Il nostro Principe spara a sette bufali». «Il nostro Principe riesce a scozzonare un ronzino selvaggio». «Il nostro Principe si perde in montagna». «Il nostro Principe impara a lanciare il lazo». … Di recente hanno svegliato il Principe verso le tre del mattino: aveva mica voglia di partecipare a una battuta di caccia? Che domande! Scappa via a cavallo in camicia da notte. Certamente! Hello Prince, you are a funny boy. Solo ora come un autentico cacciatore di animali da pelliccia. * www.youtube.com/watch?v=m0HNrKQhQVU ** www.youtube.com/watch?v=hBMUvrTlpQM

Intervista con una strega Il mestiere più attuale per le donne

Il biglietto da visita che avevo davanti agli occhi, stampato con cura e in caratteri raffinati, mi pareva quasi incomprensibile. «Magda C. è disponibile a eseguire azioni metafisiche». Azioni metafisiche? Che cos’erano? Si trattava per caso di sedute spiritiche? Pratiche parapsicologiche? Magda C. era forse una mediatrice dei metodi della scienza spiritica? Cosa faceva? Chi era e che aspetto aveva? In ogni caso si poteva aprire, senza alcun imbarazzo, la porticina segreta verso il regno del sovrannaturale, celata dietro la tappezzeria. A quanto pare Magda C. non era una pallida teosofa sull’orlo di un’imbarazzante estasi. Lo faceva capire chiaramente la finitura raffinata del biglietto da visita professionale. Esso palesava una chiara oggettività, educata ai metodi del più moderno soddisfacimento del fabbisogno. Le telefonai per invitarla a farmi visita. Vestita con straordinaria eleganza, una giovane signora dall’aspetto estremamente distinto appare sulla porta, si accomoda su una poltrona e inizia a raccontare: «Sono Magda C., il cognome non fa alcuna differenza. Naturalmente so già che lei, per il concetto di azioni metafisiche, probabilmente non riesce immaginarsi niente di preciso. La mia materia, il mio lavoro – se posso chiamarlo così – richiede di essere brevemente illustrato. Senza dubbio lei sa che l’epoca in cui viviamo ha un orientamento metafisico, anche se tutti non fanno altro che parlare di crasso materialismo e così via…». «Certo! Vuole però spiegarmi subito e senza tanti preamboli in che cosa consistono le sue azioni metafisiche? Che cosa fa, insomma?».

«Non desidero altro – dice con schiettezza. – Io assumo l’impegno di soddisfare certi desideri per conto dei circoli dell’alta società… Quando sono intensamente vagheggiati, i desideri interagiscono realmente con lo svolgimento delle cose. I desideri hanno una forza. Ma la maggior parte della gente è debole o troppo pigra per provare a desiderare da sola. A fronte di un’adeguata ricompensa, io metto a disposizione di queste persone la collaudatissima capacità di desiderare di cui dispongo. Assumo la gestione dei loro desideri nel mio programma, mi metto a desiderare con forza e fede al posto loro. Loro si sentono sollevati, la loro anima si è liberata del senso di oppressione, possono andare a teatro, ai concerti, ai balli con la rassicurante sensazione che le loro cose, i loro desideri sono affidati alle cure di una forza di cui possono fidarsi…». «Ma cosa desidera, gentile signorina? Può farmi qualche esempio?». «Nella maggior parte dei casi morte e rovina» dice lei sorridendo amichevole. «Perdita dei beni, mortificazioni e danni di minor conto. A uno auguro di incontrare un truffatore, facendo affari, a un altro un’innocua ma fastidiosa malattia della pelle. I desideri, in particolar modo quelli della mia clientela femminile, sono molto particolareggiati. La perdita di un gioiello, la caduta dei capelli, un rapido aumento di peso: sono questi per così dire la mia merce corrente. C’è gente che ha letto antichi libri di magia, che si è formata con Eliphas Lévi o Papus e che di conseguenza è legata a un rigido cerimoniale. Sono cose che non mi convincono, ma lascio che si divertano. Mi mettono in mano le fotografie dei loro nemici, mi incaricano di trafiggerli con un ago d’oro oppure di maledire piccole figure di cera che raffigurano simbolicamente i loro rivali. La cosa più importante rimane però la concentrazione, la volontà intensa, mirata a un fine preciso». «E ottiene dei risultati? Voglio dire, i suoi desideri, o meglio, i desideri dei suoi clienti vengono esauditi? Riesce a vivere del suo singolare lavoro?». Con un ampio gesto elegante della mano, dice: «Ma si guardi intorno! Non vede ovunque, per strada, gente che parla

da sola gesticolando? Queste persone, che cosa fanno? Desiderano. Ardentemente! Fervidamente! Augurano morte e rovina, dolore e tracollo, credono alla forza annientante del loro desiderio, vi attingono consolazione e coraggio per vivere. Non crede che sia un bisogno che reclama a gran voce di essere soddisfatto? Che questo possa costituire, per una persona scaltra, materia per farne un mestiere soddisfacente? E come stanno le cose con le cartomanti? Certo non diversamente. Nei tempi antichi ci si limitava a fare andare via il latte a una mucca con un sortilegio o a stregare i campi. La vita è diventata più caleidoscopica, le possibilità sono cresciute. C’è il commercio, l’industria, la finanza. Ma l’animo umano in fondo è rimasto lo stesso. Se vuole può definirmi una strega moderna…». Tirò fuori il portacipria e lo specchio e si mise un po’ di rosso sulle guance. «Forse lei non crederà a quanto le ho detto – continuò, – ma le assicuro che corrisponde alla verità in tutto e per tutto. Ho solo sfruttato a mio vantaggio i cosiddetti abissi dell’animo umano. All’inizio era solo uno scherzo, un capriccio. Una volta in società mi offrii per scherzo di fare le veci di un magnate dell’industria, troppo impegnato per desiderare che uno dei suoi nemici avesse un incidente d’auto. Due giorni dopo, il desiderio era stato esaudito. La cosa si venne a sapere. In segreto iniziarono a venirmi a trovare a casa degli illustri sconosciuti, tastavano il terreno facendo dei timidi accenni all’incidente. Ero stata loro raccomandata da qualcuno…, avrebbero voluto… si sarebbe potuto… influenze occulte… azioni metafisiche. Sapevo già abbastanza. Oggi vivo di questo». «E la sua coscienza?». «La cosa non è perseguibile penalmente. In tempi singolarmente illuminati come i nostri, la stregoneria non è più condannata, nonostante io sia dell’opinione che col passare del tempo si renderà necessario integrare di nuovo il codice penale con norme a questo riguardo. E che sia io a desiderare, o che a farlo siano i miei clienti, non modifica l’effetto. In fondo è tutta questione di fede…».

«Mi può mostrare la lista dei suoi clienti?». «No, naturalmente, per motivi di discrezione, non posso. Ma si stupirebbe vedendo quali personalità vi siano. Persone che hanno incarichi importanti nella vita pubblica. Funzionari di banca, che hanno bisogno dei miei poteri per risolvere transazioni complicate e difficili. Industriali che mi coinvolgono per un nuovo articolo dell’azienda. Ogni lunedì sono convocata dal direttore generale di un grande gruppo industriale, che stravede per i miei poteri sovrannaturali e vi fa ricorso ogni volta che deve concludere un affare. Lei è scettico, attonito, colpito. Ma fra due, tre settimane, ne sono sicura, anche lei sarà uno dei miei clienti. Non si opponga! Non ha senso. Verrà, lo so. Si sente che c’è qualcosa nell’aria, corrisponde troppo bene alle condizioni psichiche della gente del mondo d’oggi, alla situazione generale. La strega moderna è una figura indispensabile nei nostri tempi…». Questa giovane signora, bella, elegante, molto mondana, esiste davvero. Ho veramente parlato con lei, se ne è stata seduta qui, nel mio appartamento, chiacchierando con me amabilmente, come se si fosse trattato della cosa più naturale del mondo. E sono convinto che per ragioni storico-culturali valga la pena raccontare che, nell’anno 1927, una strega sia riuscita a farsi una posizione e sia stata capace di vivere del suo mestiere secondo crismi ben più che borghesi. Il suo abbigliamento proveniva senz’altro da un atelier all’ultimo grido.

Grock: l’uomo che fa ridere il mondo!*

Un uomo malinconico si recò da un medico famoso per sfogare il suo dolore. Il dottore gli diede questo consiglio: «Vada a vedere il clown Debureau, se nemmeno lui riuscirà a farla ridere, allora lei è proprio un caso senza speranza». L’uomo scosse la testa: «Non posso andare a vedere Debureau. Debureau sono io!» (un famoso aneddoto). I pantaloni grigi a quadretti, decisamente troppo ampi, avvolti intorno al collo come una sciarpa, talmente sudato che il trucco gli cola giù dalle tempie e dal naso, le sue ridicole scarpe sformate pesanti come palle da cannone, le spalle curve. Grock entra nel camerino in questo stato: un uomo anziano, triste. Fuori, migliaia di mani applaudono, le risate della gente si sentono fin qui, Grock è dovuto uscire sul palco dodici volte, e poi fiori, una montagna di fiori. Grock, l’uomo, si siede su una sedia in un angolo e respira a fatica. Gli asciugano il sudore dalla fronte. Non riesce più a tenere gli occhi aperti, tanto le luci della ribalta lo hanno abbagliato. Il fotografo che aspetta già da un’ora lo prega di mettersi in posa. Grock arcua le labbra dipinte di nero in una smorfia che arriva quasi a toccare i lobi delle orecchie, ghigna guardando l’obiettivo. Io credo che faccia un pisolino mentre lo fotografano. Ma non ha il coraggio di dire: sbrigatevi, avete riso abbastanza, voglio andare a dormire! Grock il clown, che fa ridere il mondo, vuole andare a letto, non ha più voglia di mettersi in posa, non vuole più sorridere, vuole dormire! Bienne è una piccola città della Svizzera tedesca. Fabbriche di orologi, orologiai, pittori di cifre sul quadrante, produttori di lancette. E un caffè, Al paradiso. Il proprietario, il signor Wettach, il figlio e la figlia. Il caffè va da cani, le

persone a Bienne sono così operose. Che cosa fa Karl, il figlio di dieci anni? Entra nel caffè di papà, fa giochi di destrezza con la torta di formaggio e le bottiglie di birra, suona l’armonica, racconta la barzelletta dell’ippopotamo e della macchina da cucire. Il caffè è pieno, una sera sì e l’altra pure. Poi anche la sorella diventa un’artista dilettante, cammina sulla corda, che è stata tirata dalla credenza al guardaroba. Wettach ha dei figli molto dotati. Ai due però vien voglia di calcare la pista, scappano, entrano in un circo con cui girano tutto il mondo. Ma con questo, Karl Wettach è ancora ben lungi dal diventare Grock. Prima solleva tonnellate di pesi, poi suona il clarinetto, poi appende il mestiere di artista a un chiodo e diventa insegnante di lingue. Poi torna al circo. Successi, solo successi. E improvvisamente ecco che è diventato Grock, il clown-tiranno, l’uomo che ha tutte le giornate occupate da qui ai prossimi tre anni – si calcoli quanto guadagna… Diciotto anni fa, Grock venne a Berlino. Arrivò al teatro Wintergarten dal circo Schumann. Il suo partner era Antonet. E dunque? Antonet & Grock fecero una pessima figura, infatti fra il palcoscenico e la pista del circo c’è una differenza abissale: Antonet & Grock si misero a lavorare sul numero, una settimana dopo insieme a Otto Reutter erano l’attrazione di Berlino. Si chiama Grock perché Brick, un clown musicista molto popolare, aveva perso il suo partner Brock, che era morto. Allora si mise alla ricerca di un nuovo partner e trovò Karl Wettach. Stipularono un contratto. Brick e Brock avevano però un così bel nome che Brick propose a Wettach di chiamarsi Brock. Wettach non voleva, mai si sarebbe fatto bello con le penne di qualcun altro. E allora scelse il nome Grock, che gli è rimasto ancora oggi. Con quali attrezzi di scena lavora Grock? Suona il piano, il sassofono, un violino in miniatura e la fisarmonica. Fa un po’ il ballerino, un po’ il giocoliere, un po’ il saltimbanco.

Tutto qui. Ci sono artisti che riescono a fare tutte queste cosette con molta umanità. Ma non ci sono altri artisti che riescano a farle con la stessa vis comica di Grock. Lui è un clown dell’anima, un clown metafisico per così dire. Non c’è nessuno capace di uguagliarlo, nessun artista. Solo uno: Chaplin. Chaplin e Grock, loro sì che sono fratelli di genio. Da qualche parte, nel profondo della loro umanità, le loro individualità si toccano. Di Mark Twain si dice che, mentre componeva i suoi racconti umoristici, disteso nel letto, piangesse continuamente. A Moritz Gottlieb Saphir le battute migliori venivano in mente, mentre stava passeggiando nel cimitero di Vienna. Chaplin legge i filosofi greci. E Grock, il clown, ha i capelli grigi e un viso coooosì triste. L’unica cosa che potrebbe divertire Grock è Grock. Grock lo farebbe ridere fino alle lacrime. * Per vederlo in azione vedi www.youtube.com/watch?v=SNm4JJDYipY

Dieci minuti con Šaljapin

Un gran rumore. Centinaia di fattorini. Ascensori che salgono e scendono. Tutta la direzione. Tutto il mondo del cinema. Stilografiche che grattano sui fogli. Macchine fotografiche che ingurgitano lastre su lastre. Una cinepresa a manovella puntata, che incombe come un cannone. La mano pesante di un disegnatore grasso, che trema. Tutto suda. Dio mio, Dio mio. Sono solo esseri umani: un manager che assomiglia a Šaljapin e un Šaljapin che sembra un campione di pesi massimi. Solo la testa. La sua nobile, elegante, bella testa. Assolutamente tranquilla. Come il Volga (l’ha detto una piccola signora rinsecchita e tuttavia giovane nella hall, teneva un volume di Turgenev amorevolmente, per dir così, stretto alla pelliccia di persiano, come primo argomento di conversazione). Fëdor invece, una calda giacca di lana sulla voce da basso più pagata del mondo, cravatta verde e coccarda rossa della Legion d’Onore sul risvolto della giacca, beve sherry e parla il francese prolisso tipico degli eterni principianti; i capelli biondi come la paglia; il sigaro di importazione che fuma è uno dei migliori, il petto ampio di Šaljapin lo inala a fondo, troppo a fondo, i seguaci del cantante cominciano già a guardarlo. Dal fuoco incrociato aperto incessantemente contro di lui, a cui, per altro, tiene testa con pazienza e navigata esperienza, emerge che: – Fëdor Šaljapin è venuto al mondo a Kazàn’, in Tatarstan;

– i suoi genitori, da semplici contadini quali erano, coltivavano la terra e avevano una petschka calda, una stufa calda, ed è seduto lì sopra che da giovane Fëdor sognava la Prospettiva Newskij e la Vergine iberica; – Šaljapin grazie alla Divina Provvidenza era diventato uno dei discepoli del coro di voci bianche, incarico che gli fruttava meno di un rublo al mese; – Fëdor era innamorato del palcoscenico già all’età di dodici anni, e alla difficile età di diciassette girava per la provincia russa con una ridicola operetta; – alla fine iniziò a educare seriamente la sua voce a Tbilisi in Caucaso, e in quell’occasione il suo insegnante di canto Ussatow non badò né alla fatica né alle spese per domare Šaljapin; – poi Fëdor venne ingaggiato senza esitazione dall’opera imperiale di San Pietroburgo e di Mosca, dove accadde tutto il resto. … «C’est ma vie», diceva Šaljapin, ogni due anni della sua evoluzione, che lui raccontava con tutta calma, mentre si versava un goccio di sherry; oggi di anni ne ha cinquantadue. Non immaginavo che potessero esistere tante domande. Come avrebbe dovuto chiamare suo figlio la zia di Šaljapin, se fosse dipeso da lui? Allora, l’arte è infinita? Non sarebbe forse il caso di raddrizzare una volta per tutte la Torre di Pisa, eh? E il suo cachet, di quanto era? E così via. Tra l’altro andava pazzo per Toscanini e Rachmaninov. Wagner invece non faceva per lui, niente affatto, non è vero… Si iniziò a parlare della Russia sovietica. Erano già cinque anni che Šaljapin non vi si recava. Quelli di destra a tutti i costi volevano vedere in questo gli indizi di una scarsa sintonia con il suo Paese. Quelli di sinistra prendevano come una dimostrazione di simpatia tutto ciò che Šaljapin diceva su Mosca. A me sembrava che Fëdor festeggiasse con grande fervore, anche se da lontano, l’anniversario dei suoi fratelli. Ma non dissi nulla.

Mi limitai a mangiare caviale, vero caviale di Astrakan. Scesi le scale fischiettando piano, per pietà, la canzone dei burlaki (battellieri del Volga), Ey Uehnem. Do swidanje, gospodin Fëdor!

Claude Anet a Berlino

Ieri all’Hotel Explanade ho conosciuto il signor Claude Anet e devo dire che non so davvero che cosa volete da lui, io lo trovo una persona molto onesta e perbene. Una volta che ebbi casualmente l’occasione di parlare con Anita Loos del suo Gli uomini preferiscono le bionde, ebbi l’impressione di veder comparire una ruga sulla simpatica fronte di Claude Anet, l’aveva presa male perché l’avevo menzionato d’un fiato insieme a Maurice Dekobra e ad altri scrittori di moda oggi. E ha senz’altro ragione perché lui la letteratura la pratica davvero, anzi, ne è gravemente affetto. Insomma, cerchiamo di non fraintenderci, Anet non è il letterato che intendiamo noi. Fra le altre cose abbiamo parlato anche del romanzo tedesco, ma Anet ci ha confidato, ah, con uno charme straordinario naturalmente, di conoscere solo un altro tedesco, oltre a Goethe: il dottor Otto Petzer, che ha visto correre allo Stade de Colombes; è stato semplicemente formidabile come il tedesco sia riuscito a seminare Séra Martin. Che effetto quanto mai piacevole produce l’entusiasmo di Anet per lo sport. Anche lui è stato per anni un campione di tennis in Francia! E infatti a Suzanne Lenglen, la regina dello sport in bianco, ha fatto un monumento eterno, due erano i temi che lo eccitavano allo stesso modo: lo sport e la donna. Anet, un francese di nobili origini nato sul lago di Ginevra, ha studiato a Parigi alla Sorbona, è diventato insegnante, anche se non ha mai esercitato. Scriveva. E quando un francese scrive, scrive d’amore nel cento per cento dei casi. Per un certo periodo si trattenne in Russia come corrispondente di «Le Petit Parisien» e nonostante la rivoluzione riuscì a trovare il tempo di innamorarsi perdutamente delle donne russe. Nacque così Ariane e con lei la celebrità di Anet. Continua a scrivere d’amore e di donne e, lo sa il cielo, se la materia non

gli manca. E le donne contraccambiano questo suo amore, le sue Notes sur l’amour sono sul comodino delle madame di Londra e di Praga, di Parigi e di Berlino. Lascio la conclusione a Claude Anet in persona: «Il seduttore sparisce dopo la conquista. Allora le donne maledicono il giorno in cui è nato. Ma non si rammaricano che… sia venuto, ma che se ne sia andato».

Dalla più anziana berlinese

La signora Auguste Richter, Berlin-Moabit, Birckenstraße 30, festeggia oggi il suo centesimo compleanno. A porgerle le loro felicitazioni sono venuti l’amministrazione comunale di Berlino, il capo della polizia Zörgiebel e molti altri personaggi ufficiali. La festeggiata è oggi motivo di grande eccitazione per il quartiere di Moabit: tutti parlano di lei, tutti le portano in camera dei fiori, dei regalini, che vengono dal cuore, lei sta sdraiata in un letto bianco come la neve, la sua bocca senza denti sorride, tutti gli sguardi che lancia dai suoi piccoli occhi cerchiati di rosso ma comunque sveglissimi individuano subito l’intruso e lo guardano come se volessero dire: sono felice che tu sia felice che io oggi festeggi il mio centesimo compleanno Nella camera della signora Richter hanno messo centinaia di cose, tazze di porcellana, vero caffè in grani, fazzoletti di pizzo, cioccolata, bonbon, messali con la copertina di avorio e una sciarpa di seta. E la porta della signora Elena Wendlers, figlia della centenaria, non ha più pace, tutti sono venuti a vedere il miracolo: la più anziana berlinese. A dire il vero la signora Auguste Richter è un’eccezione nella sua famiglia. Suo padre arrivò «solo» a 65 anni, sua madre «solo» a 84. Da tutta la vita abita a Moabit, dove è anche nata. Ha ancora una sorella a Berlino che ha esattamente 88 anni e chissà che non sia sulla buona strada per battere il record di Auguste. I nipotini fanno il girotondo intorno al letto della nonna centenaria, lei non fa che ridere, tira fuori da sotto le coperte le mani magre, gialle come la cera e coperte di rughe, ma ancora forti e batte il tempo. E sotto in cortile uno suona alla chitarra: Resta ancora un po’, chissà quando ci rivedremo! Non sarà mai più così bello…

Felix Holländer In occasione del suo sessantesimo compleanno

Questo giovane sessantenne è Felix Holländer, e domani toccherà a lui. Toccherà a lui festeggiare l’anniversario di uno di quella generazione che è stata inaugurata da Gerhart Hauptmann, Max Halbe, Otto Erich Hartleben. Holländer entrò a farne parte molto presto. Veniva dal giornalismo, dall’inquietudine della scrittura quotidiana che obbliga ad adeguarsi con la massima vigile precisione. Come Hauptmann, anche lui viene dalla Slesia. In uno dei suoi migliori romanzi ha rappresentato l’ambiente borghese e patriarcale della sua casa paterna. E in Traum und Tag (Il sogno e il giorno) la natura e le località dei Monti dei Giganti che lui osserva con uno sguardo innamorato della sua terra d’origine. Cominciò a scrivere romanzi di ambiente berlinese all’inizio degli anni ’90. Il crack di una banca di Unter den Linden divenne materia del suo Sturmwind im Westen (Vento di tempesta a ovest), un’immagine della società del tempo abbozzata con vivissima sensibilità per l’attualità, esso fu uno dei primi libri a fissare sulla carta i cambiamenti improvvisi di questo periodo di transizione, le sue crisi e le sue sensazioni. Poi Holländer scrisse Jesus und Judas, il romanzo del movimento socialista. E alla fine del decennio il suo grande romanzo di formazione Der Weg des Thomas Truck (La via di Thomas Truck) che sintetizza tutti quelli che erano i dubbi e gli obiettivi degli spiriti del tempo. Thomas Truck, mosso dal desiderio struggente di prendere su di sé tutti i dolori del mondo, un idealista che si lascia sedurre e ingannare dalla sensualità della moglie di un milionario del quartiere di Tiergarten, che in un’assemblea dell’esercito della salvezza conosce una ragazza del popolo e dopo il suicidio di questa poveretta riconquista la libertà, e che nella bohème delle «luci della notte» viene travolto da tutte le tendenze degli

sconvolgimenti politici e trova poi una compensazione in un Cristo tolstoiano, lui ha ancora oggi un posto nella storia del romanzo moderno dal 1900 all’epoca contemporanea. Holländer è rimasto uno dei narratori più letti, spesso ci inganna con la sicurezza con cui crea la fisionomia dei suoi personaggi, ancor più spesso con l’arte nervosa dell’eccitazione, come accade in Eid des Stefan Huller (Il giuramento di Stefan Huller), il romanzo dedicato agli artisti e in Tänzer (Ballerino), il romanzo meravigliosamente illuminato in cui descrive un impostore. Come drammaturgo è noto solo per una pièce teatrale, Ackermann, che ha realizzato con Lothar Schmidt e che è stata un successo a teatro grazie all’interpretazione di Emanuel Reicher. Da tempo immemorabile infatti, vi era in lui un segreto amore per il teatro. Decise di assecondarlo proprio mentre Reinhardt lavorava a Berlino, si presentò da lui come dramaturg* e regista e fu per molti anni il motore elettrico dell’azienda, con la sua incredibile vitalità e la sua tenacia che si rafforzavano col passare del tempo. Quando Reinhardt lasciò il Deutsche Theater, Holländer assunse la direzione al suo posto e la mantenne durante i difficili, confusi anni del dopoguerra, fino a quando il peggio fu passato e lui poté restituire il mandato nelle mani di Reinhardt. Adesso è di nuovo seduto in platea, fra i critici teatrali. E nel frattempo produce con slancio. Magari, nel frattempo, sta anche pensando di mettere sulla carta le sue memorie. Lui è sempre stato nella mischia. Potrebbe essere molto interessante, se manifestasse l’intenzione di raccontare qualche tratto del suo cammino. Perché non parlerebbe solo di questioni personali, ma di un’epoca molto inquieta per Berlino. * Autore dell’edizione critica del testo teatrale o del suo adattamento che lavora con gli attori durante le prove all’ermeneutica del testo e alla messa in scena. La figura del Dramaturg(in) è stata introdotta solo recentemente in Italia e non va confusa (come invece spesso avviene) con quella del drammaturgo né con quella di un consulente teatrale, si tratta di una figura professionale ben definita e molto particolare. Già a partire dal ’700, nei Paesi di lingua tedesca, il regista è affiancato da uno scrittore che lavora stabilmente nella compagnia o nel teatro e cura l’edizione del testo critico che verrà rappresentato, eventualmente provvede all’adattamento o alla creazione dei testi da integrare nella rappresentazione

scenica. Oltre a questo, lavora all’ermeneutica del testo con gli attori durante le prove, contestualizzando il lavoro. Vedi http://www.ubulibri.it/diario.htm [N.d.T.].

Il decano della critica berlinese La morte di Alfred Klaar

Alfred Klaar, il decano della critica teatrale berlinese, morto oggi, solo due giorni prima del suo settantanovesimo compleanno, era nato in terra praghese come Fritz Mauthner. Aveva insegnato alla Deutsche Technik di Praga, dove aveva ottenuto una cattedra. Era stato critico teatrale su «Bohemia». La vita intellettuale della città, nella quale di recente aveva tenuto un discorso all’aperto in lingua tedesca per l’anniversario della morte di Schiller, aveva trovato in lui il suo riferimento centrale. Nelle stanze della Società degli scrittori praghesi, Concordia, di cui organizzava le conferenze, ancora oggi è esposto il suo ritratto, che mostra un uomo con la barba scura, il tipo del pensatore mite. Come critico, Klaar aveva abbracciato l’estetica dell’idealismo. Secondo lui il dramma classico tedesco era riuscito a raggiungere altezze immortali; poteva scrivere interi trattati sulla Maria Stuarda, recensioni a puntate. Dal momento che era di casa nella sfera culturale austriaca, ben presto gli si aprì anche il mondo di Ludwig Anzengruber e passò da quella generazione alla successiva. La sua dote migliore fu senz’altro la tolleranza, con la quale riusciva ad adeguarsi anche a tendenze che avrebbero dovuto essergli estranee. Negli ultimi anni della sua vita il rimprovero era sempre solo benevolmente sussurrato. In decenni di vita professionale aveva visto molto, prima a Praga, al teatro diretto da Angelo Neumann, dove aveva raccolto intorno a sé come ospiti le celebrità dei teatri del Nord della Germania e dell’Austria e per alcuni era diventato un punto di riferimento determinante sulla via del successo. Disponeva di parametri di confronto di ampio spettro, alla sua dote di saper come caratterizzare i personaggi individualmente, si aggiunse l’esperienza del patriarcato. Una volta trasferitosi nella

capitale del Reich tedesco con l’attrice tedesca Paula Eberty, collega di Else Lehmann, scrisse sul «Berliner Neuesten Nachrichten», poi sul giornale di Theodor Fontane e Paul Schlenther, la «Vossische Zeitung». Si dedicò instancabilmente al suo lavoro fino al giorno in cui cominciò a essere più fragile, alle prime teatrali lo si vedeva con la giacca nera abbottonata in modo approssimativo, un simpatico vecchietto con degli occhi blu seri. L’associazione dei critici teatrali berlinesi ancora recentemente l’ha nominato presidente onorario. Uno dei libri di Alfred Klaar esprime in pieno la sua personalità. Si intitola Wir und die Humanität (Noi e l’umanità). E umano lo era davvero questo critico teatrale, interprete di Spinoza fin nel profondo dell’animo. Uno dei suoi ultimi scritti è uno studio sulla Marchesa di O. di Kleist. Fu un oratore dotato di un entusiasmo spontaneo e di una memoria sorprendente. Chi ha avuto occasione di sentirlo parlare di Uriel Acosta per più di un’ora, senza ricorrere minimamente agli appunti, conosce l’onestà dei suoi principi etici e la sicura padronanza formale della sua lingua, e lo amerà di un amore reverenziale.

La signora del «B.Z.» e il Principe ereditario tedesco

Alle due in punto la Schappel entra nel ristorante La piccionaia, nella Behrenstraße, appoggia le casse in un angolo, si mette comodamente a sedere al tavolo in fondo alla sala, si sistema il cappello, in modo che le lettere maiuscole «B» e «Z» siano ora in diagonale sulla fronte, poi la signora Schappel con la mano destra tira fuori molte monete dalla tasca del cappotto, preme il grande pollice sinistro sulla narice sinistra, coperta da una rete di venuzze rosse simili ai fiumi di una cartina geografica, e contemporaneamente, dopo aver inspirato, soffia dall’altra narice: regola così la funzionalità della sua respirazione – poi solleva un po’ la testa e grida verso il buffet di fronte: «Erna, ‘n caffè!». Ormai è così da 25 anni. Per quattro volte al giorno, Erna serve il caffè alla signora Luise Schappel, il che calcolando quattro per venticinque, e quindi cento per 365, fa in tutto 36.500 caffè, senza contare naturalmente che bisogna considerare gli anni bisestili e sottrarre le domeniche e i giorni di festa. In quei giorni infatti la signora Schappel non vende il «B.Z.», se ne sta a letto nella Brunnenstraße fino alle tre, a ventilare le sue corde vocali e solo di tanto in tanto prende il volo qualche parola: la signora Schappel si disputa con il marito il record di vendite dei giornali illustrati. «Lui adesso fa il venditore di giornali ambulante. Ha dovuto cambiare lavoro, una volta era un attore comico molto caustico, proprio così. Si chiama come Streesemann». Gustav? «Nooo, Justaff. Ma è ancora un novellino. Io sono nel commercio già da 25 anni, ho cominciato nel 1904, proprio così. Fino al 1904 vendevo fiori su Unter den Linden. Ma, per favore, chi è che compra ancora fiori al giorno d’oggi? Lei conosce il negozio del parrucchiere di corte Gilbert, all’angolo fra la Exerzierstraße e la Kanonierstraße, io sto sempre lì, sa,

con la grandine e con la pioggia, con il caldo e con il gelo. Quanti gradi ci sono oggi? Solo 8 sotto zero. Da non crederci. Nel 1917 ce n’erano 21, a quei tempi congelava persino il fazzoletto davanti alla bocca, nel 1910 per il caldo sono quasi rincretinita e caduta a terra, e in autunno non siamo certo stati all’asciutto. Una vera merda, lo dico solo perché si faccia un’idea». La signora Schappel preme di nuovo il pollice sulla narice sinistra e ne fuoriesce una specie di strano rimbombo simile al suono di un sassofono rotto. Dopo aver preso una bella sorsata di caffè, con la punta dell’indice che fa capolino dal guanto nero strappato, e con il quale non contrasta affatto nel colore, inizia a riordinare quella montagna di monete, i cinque pfennig con i cinque pfennig, i dieci con i dieci, i marchi con i marchi. Ogni volta che si trova in mano una moneta da tre marchi, scuote gravemente la testa dicendo: «Una volta mi hanno dato un tallero!» – e tutto il locale sa già cosa l’aspetta. È la storia del Principe ereditario e del tallero. In breve, era aprile o maggio del 1914, della guerra ancora nemmeno l’ombra, ecco che lui arriva sulla sua macchina, dallo Stato Maggiore nella Leipzigerstraße, scendendo giù per la Behrenstraße, verso il castello. Seduto vicino a lui il suo aiutante di campo, Mühlenberg, Mühlenteich, Mühlendorf o qualcosa del genere. La signora Schappel vide la macchina avvicinarsi, riconobbe il Principe ereditario e si mise a salutare sventolando i giornali come fece Robinson con la sua camicia da notte vedendo per la prima volta una nave che passava vicino all’isola dove si trovava. Accadde ancora di meglio, il Principe ereditario si fermò, proprio davanti alla signora Luise Schappel, a quel punto l’aiutante porse un tallero al Principe ereditario e il Principe ereditario a sua volta lo porse alla signora Schappel, la signora Schappel gli diede un «B.Z.», ma in quel mentre si sentì male per la paura, lì in piedi tremante, e balbettava: «Grazie molte, Sua Altezza Principe Ereditario!», il Principe ereditario fece un amichevole cenno di saluto e la vettura scomparve di nuovo. E la cosa andò avanti così giorno dopo giorno. La signora Schappel aveva ricevuto indicazioni dall’aiutante che andava a farsi la barba da Gilbert: non doveva rivolgersi al Principe ereditario dicendo «Sua Altezza

Principe Ereditario», ma semplicemente «Maestà Imperiale», e avrebbe dovuto cercare di essere «veramente grossolana». Beh, ora Luisina avrebbe voluto davvero essere grossolana, ma non appena lui arrivò, la signora Schappel diventò rossa fino alla punta dei capelli e disse ancora una volta «Sua Altezza Principe Ereditario». Già, quelli erano bei tempi per la signora Schappel, sapeva bene che lui il giornale «lo comprava solo per spasso» e che «non leggeva certo mai niente», certo era per lei che ogni giorno passava in macchina dalla Behrenstraße, al tallero la signora Schappel ci teneva molto meno. E invece no, non passava di lì solo per la signora Schappel, ben presto anche lei venne a saperlo, lì di fronte, nella casa al n. 58, dove c’è la Compagnia di assicurazione sulla vita Friedrich Wilhelm, tutti i giorni le centraliniste se ne stavano lì alle finestre, e lo aspettavano molto eccitate e ansiose di attirare la sua attenzione. La signora Schappel poteva ben immaginare il motivo per cui lui comprava un giornale da lei: fermandosi a prendere il giornale, si trovava proprio vis-à-vis di quelle finestre, da cui cinquanta ragazze rosse in viso come gamberi si affacciavano come uva matura, e a quei tempi la signora Schappel aveva già quarant’anni. Le si seccò la bocca per la gelosia.

Insomma, poi venne la guerra, e basta. La signora Schappel oggi sta prendendo il suo terzo caffè, secondo lei i giornali in Bolivia e in Paraguay in questo momento venderebbero bene, racconta dei suoi giorni migliori, del naufragio del Titanic, delle prime settimane di guerra, di Fritz Haarmann e di Lindbergh, di Krantz e Zeppelin. E intanto il naso della signora Schappel cola e batte il tempo, goccia dopo goccia, proprio fra le monete da cinque e da dieci pfennig che ha sistemato ben in ordine sul piano del tavolo.

Stroheim, l’uomo che vi piacerebbe odiare

Si chiama «Von», e oggi a Hollywood chi sia «Von» lo sanno anche i bambini. Erich von Stroheim era troppo complicato. Hanno levato dal suo nome il «Von» e adesso lo chiamano preferibilmente solo così… come se, per così dire, volessero usare queste tre nobili lettere per fare sfoggio di nobiltà in questo luna park di parvenu. Per di più pronunciano questo «Von» come «one»… uno. E se uno, appena arrivato a Hollywood, chiede: ma perché chiamate Stroheim «one»? si sente rispondere: perché ogni compagnia di produzione può girare con lui soltanto un film, dopodiché va in bolletta. È proprio questo il bello di Stroheim: da quindici anni con lui si va in bolletta, e da quindici anni si insiste lo stesso a investire milioni su di lui; non si dice nulla quando lui traffica per anni intorno a un film che poi molla lì improvvisamente per noia; si sta a guardare pazientemente senza muovere un dito, mentre lavora per sei settimane sempre alla stessa scena d’amore, lunghezza, detto fra di noi, dodici metri; paga in dollari pesanti le star, gli extra e i lavori in studio, tutti ciondolano in giro senza fare nulla per un mese intero, solo perché «Von» non è ancora dell’umore giusto. Nonostante questo, a Stroheim ci teniamo – come ci teniamo ai cactus o ai levrieri. Per rispetto delle sue capacità così singolari, crediamo addirittura ai suoi sbalzi d’umore. Non lo lasciamo andar via, forse anche per vergogna di tutta la monotonia che abbiamo intorno. E così abbiamo Chaplin e «Von», abbiamo due geni che hanno un sacco di lune e di fisse… favoloso, no? Proprio come in Europa. *** In America Stroheim arrivò già prima della guerra. Il perché non lo dice. Prima era un ufficiale austriaco in servizio effettivo. Una volta giunto a New York, dovette cambiare in

parte le sue abitudini: il suo debutto professionale americano avvenne come venditore di carta moschicida a Newark. Qualche mese più tardi, teneva in equilibrio sul vassoio piatti di gulasch nel Little Hungarian Restaurant della famosa Huston Street. Poi si mise a posare le traversine delle rotaie ferroviarie. Tirò avanti così, come manovale, puntando verso ovest. Infine diventò battelliere sul lago Tahoe nella California del Nord. E poco più a sud, a una dozzina scarsa di chilometri, stava spuntando Hollywood: si girava moneta contante con la cinepresa. Si fa in fretta a raccontare la sua ascesa verso il successo. Una produzione cinematografica arriva sul lago Tahoe. Stroheim lavora con loro, guadagna denaro in modo estremamente semplice, e la cosa con la macchina da presa gli piace, si unisce a quella gente e con loro raggiunge Hollywood. David Wark Griffith proprio in quel periodo sta girando il film Old Heidelberg. Il viso di Stroheim è perfetto, fa la comparsa come membro di un’associazione studentesca. In studio una volta si litiga: Griffith non è contento delle medaglie. Stroheim si fa avanti e disegna le vere medaglie di Heidelberg con cognizione di causa, e così viene immediatamente promosso a consulente tecnico con un cachet che è tre volte quello di prima. Poi Griffith lo usa una volta anche come attore in Cuori del mondo. Stroheim fa la parte di un ufficiale tedesco. Per la prima volta fa la parte di un tipo spietato, la sua interpretazione parla molto chiaramente, più di mille parole, contro la guerra e il militarismo. L’America crea uno slogan per l’ufficiale di Stroheim: The Man You Loved to Hate – l’uomo che vi piacerebbe odiare. In Germania viene bollato come disertore, traditore, guerrafondaio. *** Stroheim è lì davanti a Carl Laemmle, il padreterno della Universal: mi faccia fare un film, ho bisogno di cinquemila dollari. Un americano gli avrebbe riso in faccia, dicendogli: lei è una comparsa affetta da manie di grandezza! Laemmle è tedesco. Questo austriaco che sta lì davanti a lui a parlare dei suoi progetti, entusiasta di sé stesso – Laemmle sente che fa scintille. Gli dà il denaro, i cinquemila dollari. E a questi poi ne aggiunge ancora trentamila, tanto costa il primo film di

Stroheim, Mariti ciechi. Stroheim monta il film e lo porta a Laemmle. Sul piccolo schermo cerca di farsi strada qualcosa di nuovo, di originale. Tutte le convenzioni sono messe a soqquadro. Tutto viene affrontato in modo diverso. Laemmle scuote la testa: caro Stroheim, lei è cinque anni avanti rispetto a noi! E gli dà ancora dei soldi. Stroheim fa il Grimaldello del diavolo, poi fa Femmine folli. Soggetto, regia, attore protagonista: Stroheim. Sempre nel ruolo di un ufficiale, austriaco, russo. Sempre The Man You Loved to Hate. Il suo Femmine folli è costato un milione. Viene presentato in una versione ridotta a Berlino. La gente ride. Stroheim è ancora considerato un guerrafondaio e per di più un pazzo completo. Stroheim inizia a girare oltreatlantico Donne viennesi, ricostruisce interamente il Prater di Vienna. La nostalgia del Paese natale lo consuma. E allora lo ricostruisce almeno nelle scene, per consolarsi… ma non finisce il film. Laemmle se ne va alla Metro-Goldwyn-Mayer. Stroheim gira Rapacità. Rapacità viene proiettato per un solo giorno all’Ufa-Palast dello zoo. Un film così scandaloso non si era mai visto a Berlino. C’è da rimanerne sbalorditi: è cinque anni avanti rispetto a noi. Senza aver alcun contatto con i russi, gira un film russo ancor prima che lo facciano loro. Ha già una chiara percezione del taglio della pellicola e del montaggio. Gira per associazioni di idee. E ci rivela per la prima volta che cosa siano un matrimonio e un funerale nella realtà. Di fronte a noi ci sono dei tipi alla Julius Sterheim, no, anzi, alla Georg Grosz con i loro pensieri brutali scritti in fronte. Stroheim li esorcizza! Li inchioda sullo schermo! La vedova allegra fu per Stroheim il primo grande successo. Un successo anche di cassetta, l’unico. Il suo penultimo film, Sinfonia nuziale, costò milioni. Che sfortuna, si fa venire «Von», si fa un contratto, lui giura davanti a tutti gli dei che non spenderà più di 500 mila dollari, che non ci vorranno più di tre mesi a girare il film. E nel momento in cui ha di nuovo il megafono in mano, in cui di nuovo siede sulla sedia da regista, si è scordato di tutto. Non riesce a fare a meno di concentrarsi sui dettagli. Come racconta Erich Pommer, sei settimane per girare la scena di un bacio… i fiori di tiglio che

devono cadere sui due che si baciano, cadono e cadono ma non va mai bene. I produttori brontolano ma continuano a tirare fuori sempre più soldi. Spesso «Von» paga le riprese in più di tasca sua, come un ricco dilettante! Si girano migliaia di metri di pellicola, vengono costruiti interi tratti di strada e poi di nuovo abbattuti. Persino Chaplin, lo sperimentatore eternamente alla ricerca, il critico Chaplin è la determinatezza fatta a persona se si paragona a Stroheim. «Von» mette a soqquadro lo studio. A quel punto si convoca un altro regista affinché concluda il lavoro a rotta di collo. L’importante è chiudere in fretta. Eppure lavorare con lui è possibile. L’ultimo film La regina Kelly con Gloria Swanson, fu girato in sole dieci settimane! Furono abbastanza furbi da stilare il contratto nel modo seguente: Stroheim riceverà centomila dollari per il soggetto e la regia a patto che il film sia pronto in dieci settimane. Altrimenti continuerà a girare a sue spese. E così andò: il film era pronto un giorno prima della scadenza. La Swanson interpreta la parte della maîtresse di un bordello, il film deve essere magnifico. (A dire il vero vi furono dei contrasti anche a cose fatte: Stroheim si rifiutò di registrare in un secondo tempo le scene con l’audio, perché non gli piacevano i film sonori. Si giunse a una causa con la Swanson. Edmund Goulding, quello di Anna Karenina, realizzò poi le scene in sonoro.) *** Stroheim è un uomo povero. Cecil DeMille, Griffith, Ernst Lubitsch non sanno più cosa farne dei soldi. Murnau si è comprato uno yacht e ha intenzione di trascorrervi un anno intero in navigazione fra il Giappone e la California. Stroheim vive con la famiglia in una casa molto semplice e guida un’auto a quattro cilindri. Il vero idiota di Hollywood. Chi ritorna da Hollywood racconta che Stroheim vuole tornare a casa, ma gli manca il coraggio: come verrebbe accolto in Germania?

Un artista del poker

Si dovrebbe fondare una società per azioni, una società che abbia lo scopo di dare a quest’uomo straordinario la chance di andare almeno una volta a Palm Beach a giocare a poker con Ford, Rockefeller, Vanderbilt: la S.p.A. alla fine della serata si troverebbe a possedere la Detroit Automobile Company e il più grande patrimonio del mondo. Allora, alla vostra obiezione che in questo modo la società finanzierebbe un baro, devo rispondere che quell’uomo – il genio del poker – non farebbe opposizione nemmeno se venti detective osservassero il «game» al rallentatore. Non si riuscirebbe a dimostrare proprio nulla, nemmeno se avesse sempre un poker d’assi o un colore. Lo sguardo del sospettoso osservatore non riuscirebbe a seguire il ritmo con cui bara voltando le carte. E lui le volta meglio e più velocemente di chiunque altro al mondo. Per quanto i suoi settant’anni – li ha compiuti a marzo – gli facciano un po’ tremare le dita. Si chiama Fritz Herrmann, Herrmann con due «r» e due «n». Ed è il proprietario di un negozio di Delikatessen nella zona Nord di Berlino. I magri bambini di Wedding* restano incollati con il naso lentigginoso alla vetrina del suo negozio, con i suoi bonbon al lampone che luccicano irraggiungibili come una fata morgana. In vendita ci sono il detersivo per il bucato, l’aceto e i cetrioli alla senape; in un angolo si vede una piramide di dadi da brodo in scatoline di cartone un po’ impolverate. Il negozio lo gestisce la signora Herrmann. A lui non interessa, tutt’al più ha una grande passione per la cantina sottostante, con la sua brillante selezione delle marche di vino più rare, che Herrmann colleziona come se fossero francobolli, messa insieme grazie ai profitti realizzati con la magia. Le più importanti case di Berlino soddisfano qui le loro necessità, perché dallo zio Herrmann si trovano le marche più stravaganti, e ciò di cui va particolarmente fiero sono i vini

austriaci, come Vöslauer e Gumpoldskirchner, delle annate di cui sono rimaste ormai ben poche bottiglie. Anche il Monte Castello non è male, un rosso, «un vino di confine, – dice lo zio Herrmann, – non ha il sapore secco del bordeaux ma nemmeno quello amabile del vino spagnolo». Siamo seduti in una stanzetta nel retro del negozio che dà sul cortile; ogni volta che qualcuno entra per comprare qualcosa il campanello suona, ma questo accade raramente. (È bene che già a questo punto chi scrive allontani nel modo più categorico qualsiasi forma di compassione nei confronti del proprietario del negozio: Herrmann è un uomo straricco, che si venda o meno il detersivo per il bucato, lui se ne infischia, il negozio lo tiene solo per divertimento.) Sono le undici del mattino. Giochiamo a poker. Cos’altro di meglio si potrebbe fare a quest’ora? Ho aperto una nuova mano e mischio meticolosamente le carte. Nel retro del negozio c’è un po’ di odore di muffa, ma il Monte Castello è straordinario. Do le carte mischiate al mio partner, le tiene fra le dita per un secondo e poi me le ridà: «Tagli!». Io taglio, una carta a lui, una a me, cinque carte a testa. Lui non guarda nemmeno le carte, si versa di nuovo del vino rosso e aggiunge di sfuggita: «Apro!». Le mie carte io le tengo chiuse, poi le apro con raffinata lentezza, come un ventaglio. Vedo già un paio di re, un altro re, almeno un tris direi che c’è, non c’è male. Cambio due carte, un quarto re! E in più un nove di quadri. Ho proprio delle carte eccellenti, quattro re. Possono batterle solo un poker d’assi o una scala reale, cioè cinque carte dello stesso colore in ordine di successione. «Quante carte vuole?», chiedo a Herrmann che è intento a bere e non ha ancora guardato le sue. «Nemmeno una!». Oh, cielo! Che cosa avrà mai? La mano servita? Colore? Una scala? Non è comunque abbastanza. Che abbia una scala reale? Non riesco a credere che abbia avuto tanta fortuna. Per ingannarlo prendo una carta, la osservo con interesse, quasi come se potesse arrivarmi un quinto re. Mi dispiace davvero che non si stia giocando a soldi, perché alzerei– rilancerei – fino a farlo diventare verde dalla rabbia. Però, visto che non giochiamo del grano, ridendo scopro le mie carte. Lui non ha ancora guardato le sue. Dà un’occhiata ai miei quattro re e dice tranquillo: «Troppo poco!». Lentamente mette giù le sue: quattro assi. È bastato

che tenesse per mezzo secondo le carte mischiate fra le dita per barare alla grande. I grandi giocatori di poker di Berlino, quelli che Herrmann non lo conoscono ancora, è bene che stiano all’erta: con lui si rischia di perdere anche le mutande. Per fortuna Herrmann non gioca a carte. Ci si diverte solamente. Nell’anno scolastico 1874, nel liceo di Görlitz, non vi era studente meno dotato di Fritz Herrmann. La pagella non l’aveva nemmeno portata a casa, era scappato con lei oltre il confine verso l’Austria, inseguendo un piccolo circo itinerante dove era stato accolto come pittore di insegne. Nonostante non fosse particolarmente portato, il giovane apprese la ginnastica acrobatica al suolo e aerea. A sedici anni arriva a Vienna e diventa apprendista di Kratky-Baschik. Chi conosce il Prater di Vienna sa che ancora oggi lì c’è un baraccone da fiera che porta il nome di Kratky-Baschik. Herrmann imparò molto dal suo maestro, prendeva trenta kreuzer a spettacolo, o meglio, questo era quanto gli prometteva, perché poi a conti fatti ne rimanevano solo cinque. Il maestro Baschik era malato ai polmoni e un bel giorno dovette smettere. Herrmann lo sostituì. Era sempre stato un buon oratore e, osservandolo lavorare come illusionista, era diventato addirittura più abile del grasso Baschik. Gli ufficiali e le servette applaudivano molto, il successo aumentò, il gran pubblico non si fece aspettare, e un bel giorno anche il signor Rosenbaum ingaggiò Herrmann per lo spettacolo Venezia a Vienna che allora era stato appena messo in scena, a 50 fiorini a serata. C’era della bella gente seduta in sala, una sera sì e l’altra pure: Herrmann si fece un buon nome. Lo invitarono persino all’Hotel Sacher, dove alcuni signori richiedevano uno spettacolo privato. Herrmann si recò al Sacher, nella tasca sinistra teneva già da mesi tre passerotti, li aveva raccolti da terra affamati nella Hauptallee del Prater, e poi li aveva ammaestrati a volare fuori quando sentivano il suo fischio e poi a ritornarvi. Gli sembravano persone per bene. Uno indicò un vassoio nel quale vi erano tre sorbi arrosto e disse: «Se riesci a riportarli in vita ti regalo il mio orologio d’oro!». Herrmann prese in mano un sorbo e lo sostituì abilmente con un passerotto, che volò via. Poi riportò in vita anche gli altri due uccelli. Herrmann ebbe l’orologio e, poiché aveva saputo intrattenere così

piacevolmente i signori, ebbe anche mille fiorini. Come venne poi a sapere dal cameriere, l’uomo dell’orologio era re Milan di Serbia, gli altri signori erano il Barone Rothschild, il Barone Springer, Francesco Ferdinando d’Asburgo d’Este. Una volta che fu riuscito a entrare in contatto con l’alta società, non se ne fece allontanare facilmente. Per quarant’anni andò avanti e indietro per il mondo, frequentando sempre la gente migliore e i migliori intrattenimenti. Restò sette anni a Costantinopoli, alla corte del sultano. Per conto dell’armatore Albert Ballin andò in America in nave una dozzina di volte, per scovare un baro che a poker sottraeva ai passeggeri americani tutto il loro denaro, senza farsi cogliere con le mani nel sacco. Persino a Herrmann, ci vollero dodici viaggi per riuscirci: l’uomo era un ufficiale austriaco e, mentre giocava, teneva sempre davanti a sé una tabacchiera d’oro. La tabatière era satinata da un lato e lucidata a specchio dall’altro. Quando l’ufficiale distribuiva le carte teneva il mazzo sopra al lato a specchio, riuscendo così a vedere le carte degli altri: quando si accorgeva che il jolly non era ancora uscito, ne tirava fuori uno dalla manica. Herrmann mise fine ai maneggi di questo simpatico signore. Lui oggi, a settant’anni, è senza dubbio il più grande prestigiatore al mondo. Rifiuta tutte le proposte di lavoro che provengono dai varietà. Si esibisce, ma soltanto nei circoli privati, dove i padroni di casa possono offrirgli mille marchi per due o tre ore di lavoro. In questo momento, per esempio, sta facendo le valigie per andare a lavorare al casinò di Monte Carlo, dove farà due serate per le quali i biglietti sono già esauriti da tempo. I furfanti di Monte Carlo si consumeranno gli occhi senza riuscire a capire nemmeno uno dei suoi trucchi e tantomeno a emularlo. Poi Herrmann sarà ospite ancora una volta del Deutschen Klub di Parigi. E qualche giorno più tardi sarà l’attrazione a casa di un magnate delle banche, e lascerà i suoi ospiti così sbalorditi che non riusciranno più a dormire per due settimane. Il console francese non riuscirà a vincere nemmeno una delle cento partite di écarté, il console americano perderà con in mano un poker. Alle signore della casa, il fascinoso Herrmann farà vedere come si cambia un asso di fiori con un fante di cuori, poi, senza neppure toccare le carte, indovinerà quella che hanno pensato. E tutto questo lo farà con un’eleganza che non è comune in un prestigiatore,

d’altra parte Herrmann è molto più di questo. È un fenomeno, proprio come lo è anche Schermann.

* Quartiere operaio situato a Nord di Berlino.

«Pronto, parlo con il signor Menjou?» Parla un tedesco magnifico: sua madre è di Lipsia

W.R. Wilkerson beve Coca-Cola. La Coca-Cola che sa di pneumatici bruciati. Ma che dicono sia molto rinfrescante. W.R. Wilkerson è innamorato della Coca-Cola. Ne sta bevendo il quarto bicchiere. Se uno è innamorato della CocaCola, puoi giocarti tranquillamente anche le mutande che quell’invasato è un americano. Se poi ne trangugia quattro bicchieri di fila, allora è senz’altro un americano stanco. W.R. Wilkerson è un americano ed è anche stanco. Hollywood e New York sono scritti in corsivo sul suo biglietto da visita. È arrivato qui con il transatlantico Bremen, la febbre di stabilire un record non lo faceva più dormire. W.R. Wilkerson infatti è venuto a Berlino per entrare in affari. A Hollywood pubblica una rivista di cinema e vuole chiamare Adolphe Menjou. Lo ha seguito fino qui in Europa dove vuole girare dei film con lui. Menjou ha litigato con la Paramount. Centomila dollari per un film, questa è la cifra a cui pensano di arrivare. Adolphe invece non ci pensa nemmeno a farsi andare bene un prezzo così ridicolo. No, piuttosto preferisce andare a pescare. Lui vuole 150 mila dollari. La Paramount non vuole accettare. Si rompe il contratto. All’improvviso Adolphe viene preso dall’insaziabile voglia di Europa, anzi no, di lavorare in Europa. Il tempo di mettere i suoi vestiti di fama mondiale in diciotto bauli ed è già a Parigi. Intanto Wilkerson saggia il terreno berlinese. Vogliono iniziare appena possibile. W.R. Wilkerson beve un’altra Coca-Cola. Orribile, ma come fa a bere ancora dei pneumatici bruciati… Guarda l’orologio, «Il conto. Purtroppo devo tornare in ufficio. Attendo una chiamata dall’Hôtel Majestic di Parigi. Vuole fare

la conoscenza di Menjou per telefono? Venga con me. Mentre andiamo le racconto tutto». Mentre andiamo mi racconta tutto. Una mattina d’estate del 1919, un uomo che indossa un vestito grigio chiaro cammina in Hollywood Boulevard con una cartella sotto il braccio. Sono molti quel giorno a camminare in Hollywood Boulevard, in un vestito grigio chiaro, con una cartella sotto il braccio. Ma nessuno porta la cartella come il nostro uomo, nessuno cammina con tanta eleganza e portamento quanto lui. Non fa colpo solo su di noi. Una macchina si ferma proprio davanti a lui. «Pardon, il mio nome è Fairbanks, Douglas Fairbanks…». L’uomo con la cartella si leva con molta eleganza il cappello. «Molto lieto. Adolphe Menjou». Un quarto d’ora dopo, sono seduti uno di fronte all’altro in uno studio. «Vorrei che lei lavorasse per me». Menjou si arrotola la punta del baffo sinistro. «Mi spiace, ma sono molto felice del posto che ho come rappresentante della società cinematografica C.C. Enterprise. Guadagno 125 dollari a settimana, oltre a questo ho una provvigione, una buona tredicesima… a dire il vero sono il miglior salesman dell’azienda. Chi mi garantisce, signor Fairbanks, che riuscirò a vendere i suoi film altrettanto bene delle nostre fesserie?»… «Ma lei non deve vendere i miei film. Deve recitarci insieme a me!». Adesso Menjou si arrotola la punta dell’altro baffo. Firma il contratto e pensa fra sé e sé: è una follia. «Lei è francese, senz’altro viene dalla buona nobiltà…?». Menjou si rallegra di aver già firmato il contratto. «Nobile? Mio padre è francese, mia madre tedesca, di Lipsia. Io sono americano. Sono nato nel 1882. Ho fatto il cameriere nel ristorante di mio padre a Pittsburgh. Poi sono entrato alla Cornell University di Ithaca. Durante la guerra sono stato sul fronte in Francia. Poi ho fatto il rappresentante cinematografico. Fino a dieci minuti fa, ero ancora salesman della C.C. Enterprise. Adesso sono l’attore Adolphe Menjou. Mio fratello morirà dal ridere. E, mi dica, quale dovrebbe essere il mio primo ruolo?». «Uno dei tre moschettieri!».

Uno dei tre moschettieri attira l’attenzione di Chaplin. Lo manda a chiamare e dirige lui ed Edna Pourviance in La donna di Parigi*. Da quel momento il fratello di Menjou ha senz’altro smesso di ridere. Adolphe sale a precipizio la scala del successo, facendo anche sei gradini alla volta. In Matrimonio in quattro di Lubitsch è nella sua forma migliore. Poi fa il maggiordomo della granduchessa, il gentiluomo di Parigi. Passa per essere l’uomo più elegante del mondo insieme al Principe di Galles, come colui che possiede duecento vestiti e mille cravatte. I suoi baffi, che fino a quel momento nei film erano il segno di riconoscimento della canaglia, diventano una moda che contagia milioni di uomini in America e in Europa. Egli fa parte di quella dozzina di persone che possono permettersi di indossare frak e cilindro. Che sanno come offrire un bouquet di fiori a una signora senza sembrare ridicoli. Di certo centomila dollari a film era un prezzo ridicolo per simili qualità. Per rinnovare il contratto, Menjou ne volle 150 mila ma la Paramount si rifiutò di firmare. Senza rendersi conto che stava lasciando andare l’ultimo cavaliere, l’unico. Uno che aveva il portamento ma anche la voce. Il che fece del suo film sonoro Fashions in love, tratto da un libro di Hermann Bahr, Das Konzert, un grandissimo successo. Paramount non aveva voluto dargli 150 mila dollari. Menjou è a Parigi. I telegrammi arrivano a raffica. Si spingono fino a 125 mila. Menjou non accetta. Decide di fare due film sonori in Europa con W.R. Wilkerson. Ed eccolo alle prese con due sceneggiature insieme all’autore Ernst Bajda, forse chiamerà il raffinato Harrie d’Abbadie d’Arrast per la regia. Però non ha ancora deciso dove girare. A Londra, a Parigi o a Berlino. «Berlino sarebbe senza dubbio la scelta migliore!» dice W.R. Wilkerson. In quel momento chiama il centralino: Parigi. *** W.R. Wilkerson ha appoggiato i piedi sulla scrivania e sta parlando con Adolphe Menjou, che in quel momento è a Parigi, all’Hôtel Majestic. Stando a ciò che dell’americano miagolato di Wilkerson riesco a 1) svelare, 2) capire: sembra che già sul Bremen abbia avuto un abboccamento con alcuni

signori dell’industria cinematografica tedesca; che consideri Berlino particolarmente adatta per girare un film; che oggi incontri Laemmle a Karlsbad per acquistare una storia di proprietà della Universal, proprio per Menjou; che voglia cominciare al più tardi in ottobre con la produzione. Poi W.R. Wilkerson mi passa il ricevitore. Non so, ma in quel momento, a mille chilometri di distanza da Menjou, mi inchino profondamente davanti a lui, mentre con la mano sinistra aggiusto la misera cravatta che mi punge il collo… Menjou parla il tedesco molto chiaramente, molto bene. Proprio così, ed è anche molto felice di venire a Berlino. Poi ride, quando gli dico che Lipsia, oltre alla fiera, è riuscita a darci anche qualcos’altro. No, prima deve ancora andare a Biarritz per finire i soggetti. Lavorare a Berlino? Le possibilità sono sessanta su cento. Tutto si svolge con grande gentilezza e cortesia. Alla fine W.R. Wilkerson ruggisce ancora nel ricevitore un allegro «Goodbye!». Che dannata invenzione! Uno è seduto in un ufficio di Berlino, con uno stupido ricevitore in mano e vede chiaramente l’appartamento al Majestic: Adolphe è lì in piedi davanti all’apparecchio in un pigiama di seta tessuto in Siam, stava appunto per cambiarsi l’abito per la quarta volta. Un servitore giapponese unge con un olio sacro le punte dei suoi baffi. Vicino a lui c’è Miss Kathryn Carver, sua moglie, che non sa quale dei duecento vestiti scegliere. Sotto, nella hall dell’albergo, sei ragazze attendono da ore, per consegnare ad Adolphe cravatte di lana, fatte a mano per lui. Nello studio il liftboy, che oggi ha la giornata libera, sta firmando per lui centinaia di foto: Adolphe Menjou, Adolphe Menjou, Adolphe Menjou… * www.youtube.com/watch?v=HVyX1NleaVY

Un anno fa moriva Klabund Il poeta e il ballerino a pagamento

L’inverno del ’26, quelli sì che erano tempi felici: allora io facevo il ballerino a pagamento in un grande albergo di Berlino. Il cameriere n. 4, al quale ero legato da una profonda amicizia, mi aveva avvertito di fare attenzione al tavolo che si trovava vicino al banjo, bastava che, passandoci vicino, gettasse un’occhiata acida in una direzione e io capivo subito: lì non sarei riuscito a tirare su nemmeno un solo pfennig. Oddio, di mance poi, non se ne parlava nemmeno. Accanto a una signora molto attraente era seduto un giovincello sottile, che guardava triste e silenzioso la pista e poi le luci in alto che adesso erano diventate di un rosso pallido. Rosso pallido vuole dire tango, e si balla davvero molto meglio e più dolcemente, se c’è questo tipo di luce. Già, il fatto che si ballasse davvero molto meglio e più dolcemente, in quel momento, non mi venne proprio in mente. Il problema era il peso, se si dovevano trascinare 200 chili oppure soltanto 180. Gli spagnoli iniziarono a tirare fuori dalle loro armoniche una melodia d’amore. Avrei voluto farmi da parte e lasciare che le mie gambe, che mi assicuravano il necessario per vivere, prendessero un po’ fiato, dopo che la signora Cavaliere del Lavoro le aveva già duramente messo alla prova con il foxtrot. Ma il direttore delle danze, un russo, con il quale non correva buon sangue, se ne accorse: il tran tran serale non poteva fermarsi nemmeno un attimo. E allora andai verso quel tavolo, a sinistra del banjo, mi inchinai davanti al giovincello triste e iniziai a ricamare un tango con la sua dama. I ballerini a pagamento, dal momento che mentre ballano si annoiano tremendamente, di solito pensano sempre a portasigarette d’oro o al nuovo disegno di una cravatta. Questa dama ballava bene e con passo leggero. Ogni volta che ballando passavamo

vicino al suo giovincello, lo osservavo. Assomigliava proprio a Zinnemann. Zinnemann era il primo della classe, dal quale noi regolarmente copiavamo i compiti di matematica. Tremendamente pallido e magro, con i capelli tagliati corti come un carcerato. Il povero Zinnemann, del quale noi pensavamo che prima o poi avrebbe trovato il moto perpetuo, era malato ai polmoni. È ormai da tempo sottoterra. Sulla sedia accanto al giovane vidi un cappello e un paio di libri. Ah, un cappello, a un tè delle cinque, era certo più adatto dei libri… un libro in questo locale da ballo, di certo non se n’è mai più visto uno. Ritornarono spesso. Io ballavo con la signora e quel giovane ci osservava con uno sguardo nostalgico. Una volta, mentre ero in piedi nella hall, si diresse verso di me. Temevo già che volesse offrirmi una mancia, e dannazione, da lui non l’avrei proprio presa volentieri. «Mi scusi… – mi disse molto timidamente, – volevo domandarle… fare il ballerino a pagamento… deve essere molto interessante… voglio dire, davvero interessante…». «Macché». Dietro alle lenti degli occhiali, nuotavano occhi febbricitanti: «Ma sì, ma sì invece… ma, mi scusi se glielo domando… ma come si fa a diventarlo…?». Strano, ai ballerini a pagamento si domanda sempre: come si fa a diventarlo… Alle signore con le quali ballavo, o a quelle che prendevano lezioni di charleston da me per sette marchi e cinquanta, raccontavo sempre molte favole, dicevo di «aver visto giorni migliori» e parlavo di «un dissidio familiare, del fatto che ero stato diseredato, di una fuga» e dicevo «che a dire il vero volevo diventare un costruttore di aerei», e… «chi vivrà, vedrà!». Ma a questo ragazzino pallido, che assomigliava tanto al mio compagno di scuola Zinnemann, non sarei mai riuscito a raccontare delle bugie: uno che cosa dovrebbe fare, se le cose gli vanno male? se i colletti e i polsini si possono rivoltare solo una volta? se d’inverno non si

può passare la notte su una panchina del parco del Tiergarten? se si è costretti a chiedere al solo venditore di vino che ci fa credito tre bottiglie di Malaga, solo per poi svuotare il vino nel Landwehrkanal e rivendere i vuoti – i panini costano cari. Allora, cosa si deve fare? Lui trovò tutto questo tremendamente interessante. «Dovrebbe proprio cercare di metterlo sulla carta. Così come me l’ha raccontato. Io poi posso piazzarlo a un giornale!». Già, scrivere… avevo già fatto una volta una cosa del genere, ci avrei provato ancora. «Venga da me, io l’aiuterò!». Mi disse il suo indirizzo, era una strada nei pressi del Knie*. «Di chi devo chiedere?». «Di Klabund». *** Al Grunewald nei giorni seguenti si attese inutilmente l’arrivo del maestro di ballo. Il direttore di sala russo ebbe un travaso di bile. Non lavoravo più per loro. A casa mi misi a scrivere per tre notti di seguito tutto ciò che le mie gambe avevano vissuto. Poi portai tutto a Klabund. Viveva insieme alla signora con la quale avevo ballato il tango, sua moglie Carola Neher. A me quelle memorie sembravano davvero poca cosa. Ma leggendole Klabund si divertì, passò un’ora seduto, a correggerle. Cosa ne volesse fare, riuscivo a immaginarlo. Mentre leggeva, Klabund mi raccontava che una volta aveva fatto qualcosa di simile: aveva lavorato come pianista in un negozio di liquori. *** Il «B.Z.» pubblicò le memorie di un ballerino a pagamento. Prima però Klabund scrisse per me qualche riga di introduzione. Ci incontrammo in un caffè, dove mi consegnò le poche righe di presentazione che avrei dovuto inviare insieme al mio articolo. Parole molto belle: bisogna raccontare la vita così com’è, è questa la strada giusta.

Mentre eravamo seduti lì, in quella grigia mattina d’inverno, lui sembrava smagrito, ancora più pallido. Teneva il fazzoletto davanti alla bocca emaciata e tossiva. «Non è nulla…», diceva, e non era davvero nulla. Solo un minuscolo puntino rosso. Poi è morto. * Letteralmente «ginocchio», oggi Ernst-Reuter-Platz.

UNO, DUE, TRE!

Critiche cinematografiche e teatrali: veloci, brevi, prosaiche

Ehenkonflikte (Conflitti di coppia) al cinema Primus-Palast La signora viene sorpresa dal marito nel suo boudoir insieme a uno sconosciuto. Lei finge di essere stata aggredita, lui finge di essere il ladro. Ma quando la polizia arriva per portarlo via, è lei la prima a svelare l’imbroglio. Lei parte per Nizza, lo sconosciuto parte per Nizza, il marito parte per Nizza e tutt’e tre prendono alloggio nello stesso albergo. E qui che prende l’avvio un ridicolo gioco fatto di conflitti superficiali, su cui si innesta anche il furto di un trattato internazionale segreto, fino a che lo sconosciuto, il ladro del documento, riconcilia i due coniugi. La sceneggiatura (Erich Herzog) e la regia (Alfons Berthier) sono di una grossolanità incredibile. Il secondo tempo è accompagnato da un crescendo di risate e di fischi del pubblico e quando, verso la fine, appare la didascalia: «Furono ore terribili», l’adesione del pubblico è travolgente. Peccato per Lotte Lorring, Werner Pitschau e Victor Colani, che si sono prestati a questo «bluff», come lo definisce il suo stesso autore. Prima di questo è stato proiettato un film americano non meno debole: Menschen der Nacht (Uomini della notte). Eichberg gira Quando Eichberg gira c’è sempre da divertirsi e appunto per questo negli ultimi giorni il grande studio della Neubabelsberg risuona di musiche allegre, scelte per mettere dell’umore giusto il Principe di Pappenheim (tratto dalla famosa operetta). La parte del venditore di vestiti Egon Fürst e quella di Fürst Egon le fa Curt Bois, quella della Prinzessin Antoinette Mona Maris, una nuova interprete appena scoperta

da Von Eichberg. Oltre a loro, ci sono anche Dina Gralla e Werner Fütterer. La fotografia è di Heinrich Gärtner. Fuori dagli studi G.W. Pabst, il regista di Il giglio nelle tenebre, sta aspettando che piova. Ore e ore sotto il sole cocente. Ma lui riesce a convincere persino il cielo. Un temporale con tuoni e fulmini. Un divertimento riccamente bagnato, ma la scena è «fedele al vero». Adesso Pabst insieme con i protagonisti del film, Brigitte Helm, Edith Jéhanne, Uno Henning e Fritz Rasp, è partito per Parigi dove si girano gli esterni. Da un’altra parte degli studi di posa il dottor Fritz Wendhausen è impegnato con le ultime riprese del film Der Kampf des Donald Westhoff (La lotta di Donald Westhoff), tratto dal romanzo pubblicato sul «Berliner Illustrirte Zeitung». Una scena è ambientata nella birreria di Papà Spieß. Con il caratteristico colpo d’occhio sulla strada. Così naturale che ci sembra quasi di conoscere il posto in cui abitano Elizza la Porta, Imre Ráday, Nikolai Malikoff e Hermann Vallentin. Der Bettler vom Kölner Dom (Il mendicante del duomo di Colonia) al cinema Emelka-Palast Un film giallo brioso, con un ritmo serrato che riesce a intrattenere molto bene il pubblico perché è divertente. Il copione, scritto dal dottor Alfieri, segue un modello ben sperimentato, mettendo di fronte a una banda di ladri che, cambiando molti travestimenti, vogliono rubare un gioiello a una giovane lady, un famoso criminalista. Riesce a intricare e districare abilmente la situazione, conferendo all’intreccio nel suo insieme anche una sottile, a tratti accesa, sfumatura umoristica, che risolve felicemente i momenti di suspense. Il regista Rolf Randolf fa in modo che le scene si succedano molto velocemente, ottenendo un risultato di grande effetto. Anche gli attori sono molto bravi. Harry Lamberts-Paulsen fa una parte che è davvero tutta da ridere, magnificamente truccato da «ragazzo in gamba», dà mostra delle sue doti atletiche scatenandosi contro una cassetta di acciaio. Henry Stuart recita il ruolo del detective con

scarsissimo entusiasmo, per la banda di ladri Hanni Weisse, Fritz Kampers, Carl de Vogt e Robert Scholz sono proprio i tipi giusti. Molto belle le scene di G.A. Knauer e la fotografia di Willy Hameister. Pat und Patachon am Nordseestrand (Pat e Patachon sulle spiagge del mare del Nord)* al cinema Emelka-Palast È sempre una gioia ritrovare le vecchie conoscenze dopo tanto tempo. Anche i due divertenti imbecilli buontemponi, il lungo e magro Pat e il corto e grasso Patachon, li si rivede sempre volentieri. Erano reduci da una spiaggia del Mare del Nord, dove ne hanno viste di tutti i colori. Ciò che raccontano ricorda le storie inventate del Barone di Münchhausen. Si sono cimentati a fare i pescatori, ma non hanno potuto fare a meno di sperimentare in prima persona che da uno squalo si può anche essere pescati. Si sono costruiti da soli una capanna che il vento durante la notte ha spazzato via, mentre loro venivano costretti a fare un bagno di sabbia involontario (la scena era ispirata a La febbre dell’oro di Chaplin). Naturalmente erano degli eroi. Patachon, il più alto, non ha paura nemmeno degli spiriti. Conquistano il cuore della bella del paese con un charleston buffissimo, liberano un giovane dalle grinfie del suo rivale e fanno in modo che riesca a sposare la sua innamorata. Sono farse, donchisciottate, ingenue, stupide, ma messe in scena con assoluta padronanza e quindi divertenti. Lau Lauritzen ha fatto delle belle riprese all’aria aperta, e durante la scena del salvataggio dei naufraghi ha caricato anche un po’ di suspense. È stata una bella serata. Funkzauber (Magia della radio), al cinema Phoebus-Palast Agli entusiasti della radio – e sono così tanti! – questo film offre diverse cose: li porta a fare un giro negli studi di trasmissione delle radio di Berlino, fa loro conoscere gli annunciatori delle grandi emittenti, in particolare il tanto ammirato annunciatore berlinese Alfred Braun, e consente di

farsi un’immagine istruttiva delle aziende di radiotrasmissione che offrono loro ore di animatissimo intrattenimento a magica distanza. Non con aride immagini, ma calandosi in una piacevole azione drammatica, ideata da Jane Beß e dal dottor Nino Ottavi e con la briosa, anche se un po’ prolissa, messa in scena di Richard Oswald. L’appassionato radioascoltatore viene visto con molto senso dell’umorismo, intento a organizzarsi, ovunque si trovi, per ascoltare abusivamente la radio. Nel bosco mentre, comodamente seduto, si mangia il suo panino imbottito, nella sala d’aspetto della polizia, dove è stato portato per vagabondaggio, nella sua capanna, mentre il suo sogno di ereditare milioni svanisce. Werner Krauß ha dato a questa figura un placido sense of humour, di infallibile efficacia. Questo clown della radio con il suo cappellino sulle ventitré, gli occhi eternamente ridenti, è un personaggio succulento. Questa performance di Krauß vale quanto quella che ha dato con il suo piccolo grandioso impiegato con addosso i «pantaloni». Vicino a lui, gli altri interpreti passano in secondo piano: Xenia Desni, che di nuovo deve interpretare il ruolo di una ragazzina; Fern Andra, che ancora una volta si è felici di incontrare e che magari si sarebbe felice di vedere anche più spesso in ruoli che le offrano maggiori possibilità di esprimersi; Leo Peukert nel ruolo di un arrabbiato e saccente nemico della radio; Anton Pointner nel ruolo di un disinvolto farfallone; Fritz Kampers come poliziotto e Gerd Briese come languido amante. Il pubblico ha applaudito calorosamente. Gelo nello studio di posa. Un bagno a 7 gradi sotto zero Com’è difficile a volte la vita degli attori cinematografici! Se ne può trovare un esempio recente nello studio di Staaken, dove il regista francese Jacques Feyder sta girando per la Defu il fim Teresa Raquin. Nello studio, accanto a una mescita di vini di campagna mezza fatiscente, è stato costruito un enorme bacino, un «lago», nel quale l’infedele Teresa insieme al suo amante affoga il marito cagionevole di salute. In estate una

scena del genere sarebbe stata senz’altro ritemprante per gli attori. Che non perdano la loro imperturbabilità a 7 gradi sotto zero battendo i denti del freddo e siano disposti a girare lo stesso la scena e oltretutto con fervore, è davvero sorprendente. Gina Manès, Wolfgang Zilzer e H.A. Schlettow compongono questo coraggioso trio. La Defu gira contemporaneamente anche il film Ehre deine Mutter (Sua madre). Regia di Paul Ludwig Stein. Il ruolo di protagonista lo interpreta l’attrice americana Mary Carr. E poi Frau Sorge con la regia di Robert Land, sempre con Mary Carr. Con loro sono impegnati anche William Dieterle e Grete Mosheim. Pat e Patachon al cinema Beba-Palast «… In cammino verso la forza e la bellezza», così suona il titolo per esteso. E si sarebbero potute aggiungere ancora due belle mogliettine. Perché questi due schlemihlen (sciocchi), che già tante volte hanno perso il loro cuore dietro alle snelle gambe di qualche creatura, ma hanno sempre dovuto restare a guardare, rassegnati, mentre altri erano preferiti a loro, questa volta riescono realmente a soppiantare due graziosi anche se imbecilli giovincelli. Il lungo magro e il corto grasso sono capaci di fare troppe cose. Si prestano a fare le statue greco-romane per due simpatiche fanciulle, che salassano un loro zio di campagna con la scusa di studiare pittura e scultura in città, quando lo zio decide di andare a trovarle. Poi si fingono una simpatica coppia di insegnanti della scuola di danza e ginnastica che preparano le ragazze nella casa di campagna dello zio. L’amore non potrà mai ripagare tutto questo. L’intreccio è molto divertente. C’è una gran quantità di situazioni ingarbugliate per uscire dalle quali Pat e Patachon trovano sempre delle soluzioni spiritose. Lau Lauritzen, regista della casa di produzione che dirige entrambi, ha messo in scena il tutto con molto humour e temperamento e quindi la serata è stata davvero molto piacevole ed è stata accompagnata da molti applausi da parte del pubblico.

Der Geliebte seiner Frau (L’amante di sua moglie) al cinema Marmorhaus Il sottotitolo «Una scappatella nel talamo nuziale» promette una grossolana farsa cinematografica. Invece gli autori Zoreff e Bernfeld hanno annacquato molto il vino. Si sono tenuti ben a distanza dalle peggiori volgarità, questo va riconosciuto a loro merito, ed è vero, ma per questa semplice commedia senza complicazioni non sono riusciti a trovare quella sottile allegra leggerezza che avrebbe reso un soggetto, già anche troppo sfruttato, degno di essere visto ancora una volta. La storia della giovane borghese e del conte decaduto, che dovrebbero sposarsi, in modo che lui possa far fronte ai suoi debiti e lei possa arrivare alla tanto desiderata corona del conte, e che invece si innamorano l’uno dell’altra, prima del matrimonio, senza conoscersi, non è nuova. In compenso però qui ci si dilunga molto nel racconto. Motivazioni e situazioni che si sono già viste spesso altrove, realizzate in modo molto più piacevole e intrigante. Alla regia di Max Neufeld mancano il ritmo e le sfumature più sottili. Dina Gralla nel ruolo di protagonista appare meno convincente e più insicura del solito. Anche il suo partner Alphons Fryland restituisce un personaggio sbiadito. Claire Lotto si sforza di impersonare un temperamento che le è totalmente estraneo. Richard Waldemar invece riesce davvero a mettere in piedi un divertente vecchio donnaiolo. Dagli studi di posa Là fuori a St. Pauli, in un angolo malfamato di Amburgo, c’è il locale All’ancoraggio sicuro. La gente di mare che bazzica là dentro non è davvero della miglior razza. Due bruttissimi ceffi sono il «Corto» (Wolfgang Zilzer) e il «Dottore» (Fritz Rasp), a cui la ragazza più bella di St. Pauli (Jenny Hugo) porta la vittima da spennare. La chiamano la «Carmen di St. Pauli», una definizione che ha dato il nome anche al film che Erich Waschnek sta girando nella Neubabelsberg, insieme all’operatore Friedel Ben-Grund e

all’architetto Alfred Junge. Nella ragnatela di questa diabolica ragazza cade anche un bravo e onesto marinaio (Willy Fritsch), che era capitato nel locale per la prima volta. Dentro di sé, uno è felice di incontrarli solo in un St. Pauli fittizio, anche se molto simile al vero. In tutt’altro ambiente, sereno, luminoso e anche divertente, ci porta invece il film Karneval der Liebe, al quale sta lavorando Augusto Genina. Una notte a Yoshiwara al cinema Schauburg Alfred Abel non è certo da invidiare. Deve lasciare un orribile furfante bianco in mezzo a delle scioccherelle gialle. Se non si fosse tirato fuori dalla faccenda con tanta noblesse, la fuga di Hans Brennert e Hasso Protzel-Price nel paese delle geishe sarebbe stata ancora più deludente. Girare in «terra straniera» ha messo il regista Emmerich Hanus di fronte a compiti ancora più difficili di quanto non sarebbe stato in grado di superare dopo questa prova. La sua sceneggiatura non sembra particolarmente attenta all’economia e descrive con grande dovizia di particolari. Per la parte della graziosa Hanako, alla quale l’amore per un ufficiale della marina e la passione della canaglia Sajino saranno fatali, è stata scritturata Barbara Dju, che sembra predestinata per questo ruolo più che altro per il suo aspetto. Karl Beckersachs è un simpatico ufficiale. Wera Engels era molto bella. Rapacità al cinema Kamera Il piccolo teatro d’essai sotto i tigli di Unter den Linden, che ha riportato agli onori del pubblico diversi vecchi film è ora anche il patrocinatore di questo film di Stroheim, la cui proiezione venne interrotta durante la prima a Berlino. Dell’indignazione di allora, a causa della rappresentazione crudemente naturalistica delle bassezze umane, non è rimasta alcuna traccia.

Tuttavia è con una sensazione di avvilimento che si continua a seguire una tale descrizione del genere umano, che con coerenza mostra sullo schermo il rovescio dei più normali destini. E lo fa anche in modo soggettivo e con simboli che non significano nulla. In qualche punto la rivoltante descrizione spirituale di una donna, la cui brama di denaro risveglia gli istinti più bassi, riesce però a coinvolgere, anche grazie all’incisività dell’interpretazione. Questo film non è rilassante, ma è comunque un piacere, anche se di natura diversa dal solito. Wochenend-Liebchen (L’amante del fine settimana) al cinema Schauburg Che cosa abbia a che fare un titolo come questo con la trasformazione di uno scapolo impenitente e misogino in un marito onesto, è difficile indovinarlo. In questi tempi difficili serve senz’altro da specchietto per le allodole. Che poi – detto fra di noi – ci si ritrovi coinvolti in tutt’altra cosa uno lo rimpiangerebbe di certo se non fosse che la cosa è piacevole e divertente. Marie Prevost tira fuori in questo film tutto il suo charme e il suo effervescente temperamento, Franklin Pangborn il suo asciutto umorismo e Harrison Ford le sue grandi capacità d’attore, nell’intrattenere con gradevole leggerezza. The Valley of the Giants (La valle dei giganti) al cinema Schauburg Che meraviglia, questi giganteschi, millenari alberi di paubrasil, vicino ai cui tronchi possenti gli uomini sembrano dei lillipuziani, che meraviglia questi paesaggi di foreste vergini, dove uomini temprati dal clima attendono alla loro densa giornata di lavoro. Creano uno sfondo grandioso per una storia – purtroppo – troppo americana di due feroci concorrenti dell’industria del legno. Noi queste leggi non scritte per le quali è il pugno a decidere, non le conosciamo. Ma ci sono delle scene, come

quella della corsa nella valle, che riescono a coinvolgere lo spettatore e talvolta lo humour riesce a interrompere gradevolmente il pessimo effetto delle continue risse. Piacevoli gli interpreti, Milton Sills e Doris Kenyon, aiutano il regista Charles Brabin nella rappresentazione di un ambiente a noi estraneo, ma in ogni caso molto interessante.

Nozze sotto il terrore Nel castello di Tronville sono accampati i giacobini, gente dura e oscura. Distesi a gruppi su un po’ di fieno. Qua e là, piramidi di fucili a cui sono appesi dei paioli. A poco a poco il fuoco si spegne. Alcuni soldati sono già svegli e si divertono a fare il bagno nella fontana del castello. Ed ecco che il gruppo si mette in agitazione. Tre cavalieri irrompono dal portale del castello. Il loro comandante consegna all’ufficiale un messaggio importante. Ripartono al galoppo mentre nel cortile risuonano gli ordini, secchi e decisi – la giornata inizierà con un processo sanguinario. Il processo a un traditore. Una scena molto pittoresca, tratta dal film (Nozze sotto il terrore) della casa di produzione Terra-Film che proprio in

questi giorni viene girato negli esterni e negli studi di posa di Terra. Il soggetto è di Norbert Falk e Robert Liebmann, la regia di A.W. Sandberg. Nei ruoli principali Fritiz Kortner, Gösta Ekman, Diomira Jacobini, Karina Bell, Walter Rilla. Der Polizeiflieger von Kalifornien (L’aereo della polizia della California) al cinema Primus-Palast Marina, forze di terra, aeronautica militare e adesso anche la polizia, tutto ciò che ha a che fare con le forze dell’ordine pubbliche e le rappresenta nei film americani viene sempre propagandato. Se questo film non avesse altra pretesa che quella di essere un film giallo, riuscirebbe a produrre abbastanza suspense da avvincerci. Ma invece viene messa insieme una storia lacrimevole, di un poliziotto ormai anziano che nella sua confusione rovina molte cose, e non lascia che le emozioni evocate, alla fine, sortiscano il loro pieno effetto. La regia di Emory Johnson si perde nelle vicende secondarie, che si dipanano in modo prolisso, e alla fine non fanno altro che togliere al film la forza di rendere con lo slancio necessario la lotta della polizia contro una banda di ladri di gioielli, sostenuta dal vecchio poliziotto e da suo figlio, che è un pilota della polizia. Dal punto di vista tecnico il film è deludente. Anche l’inseguimento del capo della banda con l’aereo tradisce un lavoro in studio fatto in modo troppo improvvisato. Lo scontro finale a casa del gioielliere nonostante l’esplosione, l’incendio e una grande fornitura di fuochi d’artificio, non riesce a produrre quel climax ascendente che può disturbare alcuni ma che di solito è tipico dei film d’azione americani. Anche la prestazione degli attori è dello stesso livello. Anche i suoni vengono ripresi Le riprese in studio Immaginate di essere invitati a casa di qualcuno, arrivate puntuali ma trovate la porta chiusa. È quanto mi è accaduto recentemente, durante una visita agli studi di posa. Un

cameriere è in piedi davanti alla porta, ma non solo non la apre al visitatore, ma la serra bene e la presidia, impedendogli di entrare. Perché… dentro stanno girando un film sonoro. Ora l’abbiamo capito anche noi: suoni, parole e rumori possono essere prodotti sulla scena, ma solo nella misura in cui fanno parte dell’azione. Il rumore dei passi di un ospite che si avvicina non erano certo previsti nella scena che si stava girando in quel momento. E quindi si resta fuori, fino a quando non fanno una pausa. Poi si può andare a vedere come Max Mack, a suo tempo il primo a fare un film d’autore in Germania – mentre… con una pantomima, cioè muovendo la testa, le mani e a volte anche i piedi ma di certo senza aprire bocca, dirige i suoi attori senza articolare un solo suono –, gira il primo film sonoro tedesco con il procedimento Tri-Ergon. Girare per la verità non è l’espressione giusta, dal momento che la macchina da presa, che adesso è quattro volte più grande di quella precedente, non ha nessuna manovella. Quando si è fatta la messa a fuoco e tutto è pronto per iniziare le riprese, il cameraman la mette in azione tramite un contatto elettrico, e la macchina fotografa automaticamente l’immagine e il suono sul nastro di celluloide, su due bande parallele – per il secondo convertendo le onde sonore in vibrazioni luminose in modo elettrico – in modo che entrambi, immagine e suono, vadano di pari passo. Il volume del suono viene controllato e regolato attraverso l’amplificatore, un dispositivo non meno complicato, che è legato da un collegamento elettrico alla macchina da presa. Qui troneggia Joseph Massolle, l’inventore del procedimento Tri-Ergon, che controlla la produzione del suono, la quale richiede un attento bilanciamento dei rapporti sonori. A questo fine si stabilisce anche di coprire di più o di meno l’ambiente dove si gira, il suono risuona infatti diversamente in un padiglione di grandi dimensioni rispetto a una camera. Sparsi un po’ dappertutto, nei punti in cui gli attori stanno recitando, si sistemano dei microfoni non visibili, in modo che coprano bene il percorso previsto. Gli interpreti ora non devono fare attenzione solo alla gestualità ma anche al testo e

al modo in cui lo recitano, per cui le loro difficoltà non sono poche, e questo rende necessario effettuare delle prove molto accurate. L’azione di questo film sonoro, che sarà lungo 500 metri, è stata elaborata proprio da Max Mack e offre molte possibilità di valorizzazione dei dialoghi e dei rumori. Si entra in contatto con il mondo che sta dietro alle quinte. Una donna (Georgia Lind) che contro il volere di suo marito (Kurt Vespermann) vuole fare un film, deve recitare in una scena ma si dimostra piuttosto impacciata, ha numerosi incontri con il regista (Paul Graetz) e con il fonico finché si rende conto di non essere adatta. I dialoghi, i rumori della costruzione delle scene e la musica del film potranno essere una pietra di paragone di quanto la fragile materia acustica possa essere controllata solo al momento della riproduzione. La grande diffusione del procedimento Tri-Ergon sembrerebbe in ogni caso autorizzarci a sperare che si sia compiuto un notevole passo avanti sulla strada del sonoro. Cinquanta volte l’Opera da tre soldi Al Theater am Schiffbauerdamm è già stata rappresentata per ben cinquanta volte l’Opera da tre soldi. La pièce deve la sua inossidabile capacità di attrarre gli spettatori alla combinazione di battute rudi e accuse sociali. Il merito in tutto questo va in buona parte alla musica di Kurt Weill. Adesso il re dei mendicanti è Hans Herrmann Schaufuß e sua figlia Polly è Charlotte Ander. Rosa Valetti fa in modo magistrale la parte della «femmina che pare scelta appositamente per fare la ruffiana e la zingara», mentre Harald Paulsen è un simpatico assassino, rapinatore e imbroglione. Kate Kühl raccoglie sempre un applauso speciale per il suo discorso brillantemente arguto. Allo sceriffo di Londra che si mette d’accordo con l’imbroglione Mackie per fare fraternamente a metà, Kurt Gerron conferisce una tenerezza tragicomica. Alla cinquantesima rappresentazione applausi scroscianti come la sera della prima.

Springtime in Palestina* Cinquant’anni fa era solo un deserto desolato e una palude mefitica, oggi è diventata una città di 45 mila abitanti, con strade ampie e belle, graziose ville con giardino, scuole, ospedali, fabbriche, il futuro luogo di villeggiatura dell’Oriente: Tel Aviv. Fa molta impressione anche Haifa, il porto della Palestina che attualmente si sta sviluppando su diverse aree di grandi dimensioni. Le immagini a colori delle numerose colonie ci sfilano davanti, grandi piantagioni di arance, che forniscono già oggi una produzione di due milioni di casse, il principale prodotto da esportazione, campi e boschi. Strappato al suolo sabbioso e roccioso con un lavoro duro e difficile. Si vedono ragazze che provengono da famiglie della borghesia, dagli uffici e dalle scuole europee, mentre costruiscono strade, uomini occupati a coltivare la terra e nei lavori agricoli per loro inusuali. Interessanti anche le immagini dell’entroterra palestinese, di Gerusalemme, del Mar Morto, del Lago di Tiberiade, delle rapide del Giordano che dovrebbero presto essere utilizzate per produrre energia elettrica. Questo film è un documento culturale unico, un inno alla volontà e al lavoro. Josef Bal-Eser lo ha realizzato con molta abilità. Applausi entusiastici. I primi film sonori di animazione di silhouette Chi non conosce la piccola casa di produzione PischewerFilme? Divertenti filmini d’animazione che costituiscono la parte forte del programma che precede le proiezioni in molte sale cinematografiche. Negli ultimi tempi la Pischewer ha compiuto ancora un passo avanti e noi, i suoi esperimenti con la cinepresa, li seguiamo davvero con molto interesse. Si tratta dell’abbinamento dei cortometraggi pubblicitari con i film sonori secondo il procedimento Tri-Ergon. La forma che Pischewer ha scelto è molto divertente. Lui ha capito come fare i film di silhouette guardando Lottee

Reininger e nel giro di sette mesi, con 70 mila riprese singole, ha realizzato un filmetto di 250 metri, liberamente ispirato ad Andersen: L’usignolo cinese. Il contenuto corrisponde a una pubblicità per la Tri-Ergon-Film. Certo, nonostante il notevole progresso tecnico, ci sono ancora alcune difficoltà di trasmissione. Così la resa del testo che accompagna l’azione è ancora affidata alla voce metallica di uno speaker, perché non è stato possibile sincronizzare il dialogo con le immagini in movimento. Comunque sia, questo e altri esperimenti simili dimostrano che in questo campo rimane ancora molta strada da fare. Il film Fräulein Fähnrich, che è attualmente in programmazione al Primus-Palast, dovrebbe essere una farsa di marinai. I tre autori non si sono fatti problemi a firmare con il proprio nome le più banali idiozie su circostanze insulse e su insulsaggini prive di circostanze. Con tutta la buona volontà: meglio non parlare di loro e di ciò che hanno combinato. Mary Parker, Fritz Schultz e l’infinita schiera di episodisti, che hanno dovuto fare così i carini e gli stupidini, potevano anche irritarsi. E il pubblico che ha dovuto guardare il film insieme a noi, anche.

Was eine Frau im Frühling träumt (Che cosa sogna una donna in primavera) al cinema Bavaria-Lichtspiele Che cosa sogna una piccola dattilografa, perché anche questa volta si tratta di questo, a primavera? Naturalmente un improvviso colpo di fortuna milionario, dei bei vestiti, Nizza, un’avventura galante, una famosa star del cinema, questa è la somma di tutto ciò che una come lei sogna. Se non fosse che è indispensabile fare ancora qualche doloroso taglio, si avrebbe davvero una bella pièce – pensavano Hans Vietzke e Curt Blachnitzky. Ma ciò che a loro è rimasto in mente della

famosa canzone di Walter Kollo sugli eventi e sulle atmosfere, è poco originale e non è raccontato in modo abbastanza fluido da destare interesse. La regia di Curt Blachnitzky ha poco ritmo. Al lavoro manca un po’ di sole, manca appunto la primavera. Colette Brettel è molto carina, il suo personaggio però risente della mancanza di temperamento della regia, come del resto anche Ernst Rückert, che nel film fa la parte di un cinefilo. L’unica nota divertente è legata all’interpretazione di Kurt Vespermann e Julius Falkenstein. «Teatro dei giovani?» Chissà se anche i giovani, allievi della Scuola di Teatro del Deutsches Theater, hanno partecipato alla scelta della pièce che ieri è stata rappresentata al teatro di prova del Kammerspiele? Speriamo di no! La pièce Young Woodley di John van Druten flirta con la gioventù, con lo splendore delle sensazioni e la stolida purezza del meraviglioso modo di pensare dei giovani, ma nel profondo è inacidita dalla supponenza e dalla saccente disinvoltura. E pensare che è fatto abilmente, con un dialogo ben oliato e alcune battute che sono il risultato di un lavoro di grande precisione. Si tratta dell’antica, sempre attuale vicenda di come un giovane carino, che per sua natura non sembra proprio destinato a vivere un’esperienza tragica, non appena entrato nel cosiddetto mondo degli adulti per un pelo non inciampi rischiando la vita. E questo sarebbe il giovane Woodley…! L’oro, una commedia sarebbe stata sempre più simpatica di questa fulminea conversione dall’entusiasmo alla rassegnazione borghese. Hans-Joachim Moebis nel ruolo del protagonista, Franziska Benthoi, nel ruolo del suo idolo, e Gustav Specht, un giovane comico agli esordi, sono sulla buona strada per diventare davvero degli attori, sempre che rimangano nelle mani giuste. Una passeggiata negli studi di posa. Si girano film muti

Sprengbagger (Escavatore esplosivo) al cinema TerraGlashaus Sprengbagger 1010 è il titolo che il dottor Achaz-Duisberg ha dato al suo nuovo film, girato da lui in persona – il suo primo esperimento. Accanto al regista ci sono Hans von Wolzogen, come direttore della produzione, e Von Schwertführer, come cameraman. Lo spianamento della terra a causa del diffondersi delle industrie costituisce la base del soggetto. Nell’intreccio originale, che dovrebbe garantire al film le necessarie prospettive commerciali, è prevista la partecipazione di attori molto amati dal pubblico, prima fra tutti la bellissima Viola Garden, e Ilse Stobrawa oltre a Heinrich George e Kowal-Samborsky. Il volo notturno di Marlene Dietrich Sulla pista di Staaken c’è un aereo grande, grigio, massiccio – illuminato dal cono di luce violetta del proiettore. Sulla superficie alare e sulla carlinga si legge D 1231. Non è un comune aeroplano dunque… è un apparecchio che ha stabilito un record, è riuscito a rimanere in volo per 65 ore. Che cosa ci fa qui sulla pista di Staaken…? Risponde agli ordini dettati dalla sceneggiatura cinematografica, lavora nel film della Max Glaß Produktion, che sta girando La nave degli uomini perduti* ed è fermo proprio al punto in cui Marlene Dietrich sta per partire con il volo notturno che la porterà via dalla sala da ballo per lanciarla nella solitudine dell’oceano: la ripresa notturna mostra il decollo, la scena provata più volte alla fine viene girata. Bravo, fedele e senza fare capricci, recita anche l’aeroplano… probabilmente sa che, una volta battuto un record, un vincitore deve farsi filmare; insomma si presta in modo onorevole ed educato. Il nuovo film di Henny Porten Due mesi fa un caso singolare di desiderio di maternità ha indotto una donna a rapire un bambino di altri. Henny Porten aveva letto un articolo nella cronaca del «B.Z.» e quella vicenda non le dava pace, da allora ha continuato a lavorare al soggetto; Raff e Urgiß hanno scritto la sceneggiatura per il

film (Mutterliebe), e adesso stanno girando per la regia di Georg Jacoby. Le scene che abbiamo visto a Staaken sono molto toccanti: semplici, calorose, lacrime, vere lacrime, alla donna tremano le labbra mentre fa questa sua esperienza di vita, le sue mani tremanti tentano di afferrare il bambino, che è interpretato nel film da una bimba molto dotata, la piccola Inge. I suoi genitori recitano rispettivamente la parte di Elisabeth Pinajeff e di Ernst Stahl-Nachbaur. Dieterle gira di nuovo Wilhelm Dieterle, che da molto tempo sembrava ormai scomparso dalle scene e dallo schermo, è di nuovo al lavoro con un nuovo film. Interpreta il protagonista di un copione scritto da sua moglie, Charlotte Hagenbruch, in Frühlingsrauschen (Delirio di primavera) con Lien Deyers, Vivian Gibsos e Elsa Wagner che cura anche la regia. Film sperimentali Primo studio di posa tedesco, la Filmstudio 1929 è stata fondata sotto la direzione di Moritz Seeler, Robert Siodmak, Edgar Ulmer. La Filmstudio 1929 produrrà film sperimentali, realizzati su basi cooperative, in modo del tutto indipendente rispetto alle attuali condizioni dell’industria cinematografica. Lo studio ha esordito con il film Estate 29. Il film è stato interamente realizzato con attori non professionisti. Il nuovo programma della UFA per il 1929-30 La nuova produzione della UFA comprende venti grandi film che per la maggior parte sono stati prodotti come film sonori. Per tutti i film sonori prodotti dalla UFA, si presenta ora la necessità di girare anche la versione muta, del tutto indipendente dalla prima: per questi film si gireranno cioè molte centinaia di metri di pellicola che non saranno poi utilizzati nella versione sonora, ma che dovranno comunque essere girati per fornire, alle sale cinematografiche non ancora in grado di proiettare il sonoro, un’eccellente versione muta del film. D’altro lato, la proiezione dei film muti nei teatri già attrezzati per la riproduzione del sonoro, verrà accompagnata

da un intrattenimento, ideato per i film sonori con musica, rumori ed effetti sonori. La donna più ricca del mondo Questa Avventura di viaggio nei due emisferi francese è completamente fallita. Uno non riesce nemmeno ad apprezzare gli incantevoli paesaggi egizi e i loro antichi monumenti, perché la fotografia è di scarsissima qualità. Per quel che riguarda il contenuto, è un concentrato di kitsch; per quel che riguarda la regia (M. Vandal e Ch. Delac), lo ha allevato a lungo con amore, per quel che riguarda Lee Parry – o povero addolorato! – meglio stendere un pietoso velo di silenzio. Das verschwundene Testament (Il testamento scomparso) al cinema Kammerlichtspiele Quando il detective Carlo Aldini segue un caso, preso tra due fronti, i vagabondi davanti, e alle sue calcagna la polizia, che naturalmente pensa che sia lui il delinquente, c’è sempre molta suspense, emozioni forti. Inseguimenti, aggressioni di sorpresa, fughe, caccia aperta – avventure selvagge a cui lui tiene testa con favoloso slancio e strabiliante destrezza acrobatica. Un tipo tutto d’un pezzo! Rolf Randolph, che ha scritto il soggetto (insieme al dottor Emanuel Alfieri) ed è il regista, ha dovuto limitarsi a dare la parola d’ordine ad Aldini e a metterlo nella posizione giusta. E c’è riuscito alla perfezione. La cosa ha un certo brio. Con lo spiritoso personaggio dell’aiutante poi, anche l’umorismo è garantito, è interpretato con strabiliante vis comica da Siegfried Arno. Molto piacevole anche Daisy d’Ora. Hans Junkermann, Jack Mylong-Münz e J.W. Speerger completano questo ensemble di attori entusiasti. Gli applausi sono stati calorosi. Fliegende Teufel (Il diavolo volante) all’Ufa-Pavillon Anche se queste storie del Far West, fatte di fattori canaglia, vicini di casa rapaci e rudi briganti di strada, sono

ancora costruite in modo grossolano; anche se quello che accade è pensato ancora in modo così naif, happy end incluso, questi film della prateria sono una bomba. Quando vengono girati con tanta maestria ed entusiasmo, come è riuscito a fare in questo caso Arthur Russon, hanno una forza disarmante e trascinante. Soprattutto se per il ruolo da protagonista è disponibile un diavolo d’uomo come Hoot Gibson, non è facile trovarne un altro in gamba come lui. In più il suo sense of humour è vincente. Ruth Elder, la pilota che ha sorvolato l’oceano, non se l’è cavata male nel film. L’applauso è stato caloroso. Männer ohne Beruf (Gente senza lavoro) all’Ufa Palast allo zoo Harry Piel all’inseguimento dei trafficanti di donne! Un uomo dalle mille risorse, che tira colpi bassi ai tipi peggiori, li insegue per le stradine tortuose e li bracca nei nascondigli di Marsiglia, è un vero piacere. Robert Liebmann riesce a farci da guida con esemplare maestria nel labirinto dei sentieri contorti di una detective story intrigante, avvincente e ricca di contrattempi esilaranti. E Harry, che è una persona molto concreta, sa bene come si mettono in scena cose simili. Con brio e spirito, avvincendo e divertendo gli spettatori. Come interprete, Piel è amabile come non mai. Accanto a lui c’è Dary Holm, che sembra un tipo molto particolare e per tutti gli altri attori, fra i quali spicca l’allegro Albert Paulig e la dotata Edith Meinhard, che riesce nel modo migliore a stargli dietro, il successo è stato grandioso e sentito. Laubenkolonie (Zona ortiva) al cinema del Primus-Palast Un film sonoro-farsa. Un film sonoro divertente. Di ambiente berlinese, che non sempre tiene perfettamente, ma che è osservato con spirito e girato in modo divertente. Franz Rauch e Max Obal, che hanno condotto una regia che è al tempo stesso vigorosa e veloce, in questo film si sono guardati

intorno con gli occhi ben aperti e sono riusciti a fermare con la cinepresa qualche bell’intermezzo. Una storia d’amore, carina, non sentimentale, e la poco sana scorribanda di una vecchia vedova verso il suo secondo matrimonio con un cantante di canzonette, tengono insieme un susseguirsi di scene che tendono facilmente alla dispersività.

Il pubblico ha dimostrato di avere molta comprensione nei confronti del simpatico Klamauk e si è divertito in modo notevolissimo, quando anche gli interpreti recitavano senza fare i capricci. Fritz Kampers interpretava di nuovo un giovane semplice, rozzo e robusto; Camilla Spira, che vediamo sempre troppo poco nei film, è una ragazzina carina e simpatica; Herrmann Picha e Erika Gläßner erano la coppia di coniugi mal riuscita, Julius Falkenstein e Hermann Schaufuß hanno portato un po’ di umorismo, di propria iniziativa, anche quando nella scena non c’era. Susanne macht Odnung (Susanne fa un po’ d’ordine) al cinema Atrium Una farsa, con un po’ di canto, un po’ di danza e molto humour. Tirando le somme: visi soddisfatti, grandi applausi, un successo che accogliamo con grandissima soddisfazione, visto che ci troviamo di fronte a due «novellini», che con questa prima hanno fatto davvero una bellissima figura che tornerà loro senz’altro di grande vantaggio. L’autore e regista Eugen Thiele e il suo co-autore Wolfgang Wilhelm hanno dimostrato scarsa originalità nel dirigere l’azione, ma l’hanno

poi animata con una comicità della situazione che porta una ventata di freschezza molto azzeccata. Thiele ha anche dovuto accontentarsi di ridurre il ritmo piuttosto veloce con il quale si girano di solito simili ingenuità, che mirano puramente all’intrattenimento, e gli interpreti l’hanno seguito di buon grado. In testa Szöke Szakall, avvocato con mille difficoltà, che quel giorno era proprio in vena. Padri contro voglia come lui – Truus van Aalten è allegramente alla ricerca – Kurt Lilien e Martin Kettner sono molto spiritosi, mentre il vero padre, Albert Paulig, si tiene discretamente in disparte, e Max Ehrlich con grande calma tira i fili di una piccola commedia degli intrighi. Con Franz Lederer, l’amante è in buone mani. * youtube.com/watch?v=hACJm7f0Ekc * www.youtube.com/watch?v=dBDuUKm8SyU * www.youtube.com/watch?v=PXz6fx5c97I.

Postfazione all’edizione tedesca Edizione straordinaria: il reporter Billie Wilder

Richard Wiener (Wien) Richard Wiener Billie Wilder Julian. Billie. -der. -r.-r. -r. Acronimi e pseudonimi del reporter Billie Wilder

È l’America ad aver inventato la figura del reporter. Alla soglia del XX secolo, era lui il primo a fare veramente ricerca sul campo nelle grandi città, etnologo sezionatore ed «esploratore urbano» (Rolf Lindner) a un tempo. A differenza del flâneur, il «city editor» – come lui stesso ancora si definiva a quel tempo – era estraneo a ogni pathos elitario di distanza, con notoria curiosità egli agiva come un segugio mosso dall’interesse nella giungla delle città. Che fosse undercover (sotto copertura) o sotto i riflettori del pubblico, che si trovasse alla fiera delle vanità, nel labirinto delle passioni e delle tragedie, nei luoghi sacri del divertimento o nella frenesia della vita quotidiana, il reporter era instancabilmente alla ricerca delle sue grandi e piccole stories. Era cacciatore, collezionista, detective, cronista, analista, scopritore, accusatore, difensore – dal mattino a mezzanotte. L’immagine del «reporter velocissimo» (Egon Erwin Kisch) illustra il culmine di un tipo di giornalismo che trae vantaggio dal cosmopolitismo, dal costante flusso di notizie ed eventi della veloce, vivace e sfaccettata vita della metropoli. Il nuovo tipo di reporter che da New York e Chicago arriva a Berlino, la metropoli dei giornali, nella sua espressione

creativa è perfetto nel gioco delle parti, gli oggetti e i soggetti della sua avidità pubblicistica non solo li conosce alla perfezione, ma vive con essi nel loro ambiente. Rappresenta un pubblico di lettori abbonato alle news, stories e sensations, presenta personaggi e storie sulla scena dell’affaccendamento metropolitano, svela segreti, abissi e aspetti interiori, documenta ed è testimone delle novità. La città per lui è contemporaneamente fonte inesauribile di materiale e stabile superficie di proiezione e di sperimentazione. A questa categoria apparteneva anche Billie Wilder. Che avesse iniziato scrivendo un po’ di tutto, come un reporter in senso classico, si rivelò a posteriori davvero una fortunata coincidenza. Perché prima che Billie Wilder fosse costretto ad andare in America nel 1933 e diventasse Billy Wilder aveva già da tempo imparato buona parte di questo mestiere tutto americano – nella più americana di tutte metropoli europee: Berlino. I suoi anni di apprendistato nella patria viennese, e in particolare le esercitazioni nell’arte dell’intervista, certo erano una buona base di partenza, ma solo nella «Spree-Chicago» (Mark Twain), a partire dal 1926, i talenti del giovane reporter furono finalmente in grado di esprimersi appieno. Nello sconfinato campo di osservazione della metropoli pulsante degli anni ’20, educò sensi, percezione e fantasia associativa: lo sguardo preciso per i dettagli di tutti i giorni, il fiuto per le situazioni e lo svolgimento dell’azione, la sensibilità per i modi di interagire delle persone, l’arte di scrivere dialoghi a effetto carpita con l’ascolto; la fredda abilità di inventariare caratteri, fisionomie, eventi, scene; il sobrio interesse per le costellazioni interpersonali, la sensibilità specifica per il ritmo, la dinamica autonoma e la drammaturgia della follia quotidiana. Senza teoria e ideologia, ogni «city editor», e quindi anche Billie Wilder, è obbligato a seguire imparzialmente la sua visione del mondo e la sua fantasia, a partire dalla realtà che ha sottomano. Wilder e i giornalisti più significativi di quegli anni a lui contemporanei intendevano il realismo come processo interpretativo. Ed è in questo modo che con i reportage di taglio sociale, con i ritratti di persone più o meno importanti, riescono a restituirci alla perfezione lo Zeitgeist, lo spirito del

tempo, spesso con un’illuminante qualità letteraria. Nessuno dei reportage, degli articoli di terza pagina e delle brevi critiche di Billie Wilder, pubblicati all’interno di questo libro, ha la pretesa di avere un valore eterno: si tratta qui di lavori destinati al consumo veloce in quel posto di trasbordo pubblicistico che era la Repubblica di Weimar. Eppure la realtà e la verità si rispecchiano meglio nei loro scorci di vita vissuta, mondanità e microcosmi, che non in tante analisi sociologiche o descrizioni letterarie della società. Lo sguardo del reporter dietro le quinte dei Roaring Twenties offre una visione della mentalità e dello stato d’animo sociale dell’epoca. Il capolavoro giornalistico di Billie Wilder è «Cameriere, un ballerino per favore! Dalla vita di un ballerino a pagamento» del 1927. Questo reportage autobiografico non contiene solo quelli che dalla critica cinematografica di oggi sono stati interpretati retrospettivamente come i primi indizi del conio stilistico del futuro autore di sceneggiature per il cinema e regista di Hollywood Billy Wilder, e cioè la narrazione in primo piano freddamente oggettiva e il ductus lapidario. La sottile sensibilità per quei piccoli dettagli che «parlano da soli», la perfetta drammaturgia delle scene e l’abile capacità di costruire il soggetto nell’insieme tradiscono la tecnica professionale. Ciò che viene presentato qui non è l’arte nella sua accezione letteraria, la serie di articoli documenta in una serie di episodi, senza essere pretenziosa, la ripetitiva banalità della vita notturna delle metropoli. L’aspetto esotico si svela quasi en passant come una flebile apparenza, il visibile non è manifesto. Il grottesco e le battute maligne vengono somministrate nel divertimento routinizzato come componenti principali: «Non è facile guadagnarsi il pane in questo modo» sospira l’ esausto io narrante. Questo vale sia per il ballerino a pagamento che per il reporter Billie Wilder. In fin dei conti, dietro alla maschera dell’(auto)ironico cronista, si nasconde la malinconia della solitudine e l’angoscia del perdente. Chi prenda così alla lettera la realtà è più di un osservatore oggettivo allo stato puro. Chi prova tanta gioia a giocare con le parole e con la lingua finisce per non essere altro che un maestro del doppio senso. E chi vede tanta realtà rimane nel

profondo del suo cuore un moralista: «Tutto può essere legato a una causa indecifrabile, all’orribile destino» sentenzia lapidario già nell’articolo «Il giorno del destino». Le vere tragedie le scrive la vita e di conseguenza il reporter Billie Wilder indaga instancabilmente la vita quotidiana degli anni ’20. Perché: «Non c’è nulla al mondo di più sensazionale che il tempo nel quale viviamo!» (Egon Erwin Kisch). Alle persone che incontra sulla sua strada egli dedica dei ritratti dotati di grande intuito. Billie Wilder riesce nell’intento di fare delle acute istantanee di eroi che in realtà tali non sono – come accadrà più tardi anche nei suoi film. A quanto riferisce, era appena ventenne e già disponeva di tutti i requisiti necessari per essere un disegnatore investigativo di tipi umani: «Ero sfrontato, carico di veemenza giovanile, avevo un talento per l’esagerazione ed ero convinto che avrei imparato velocemente a fare domande imbarazzanti senza alcun ritegno», questo detta Billy Wilder al suo biografo Hellmuth Karasek. Una fermezza che era quasi petulanza, l’instancabile invadenza del reporter professionista non era che una delle bassezze necessarie per guadagnarsi da vivere, indispensabili alla sopravvivenza. Ma non era tutto. Un narratore, dotato di grande fantasia e capacità creativa, Billie Wilder non lo fu solo come regista, sin da subito emerse nell’esercito della sua corporazione. La sua scrittura inconfondibile nasceva dalla percezione sicura dei tratti essenziali delle singole persone. Lo dimostra con la venditrice di «B.Z.», come con la descrizione del grande clown Grock o nei necrologi di colleghi e amici, come Alfred Klaar e Klabund. Con precisione microscopica ed empatica partecipazione riesce a far emergere la fisionomia di chi viene ritratto, concede di dare una veloce occhiata alla sua interiorità – come quando si sofferma per un momento sul volto della più anziana berlinese: «I suoi piccoli occhi cerchiati di rosso ma comunque sveglissimi individuano subito l’intruso e lo guardano come se volessero dire: sono felice che tu sia felice che io oggi festeggi il mio centesimo compleanno». Con non poca civetteria, Billy Wilder non fa che sottolineare che il glamour e soprattutto i soldi sono stati l’impulso della sua attività giornalistica. Questo è vero per

quanto riguarda i primi anni a Vienna e soprattutto per il periodo a Berlino, dove il giovane reporter Billie Wilder era giunto al seguito del maestro del jazz Paul Whiteman. In nessun’altra occasione vengono documentati con maggiore chiarezza il ritmo e il valore intrinseco della sua prosa giornalistica, come nella dozzina di brevi cronache che descrivono un’industria cinematografica molto attiva, orientata a modificare velocemente il suo modo di lavorare. Billie Wilder era solerte, come se fosse stato in una catena di montaggio, scriveva articoli su film che, ormai da tempo dimenticati, appartenevano allora alla cultura di massa del tempo. Il modo di vedere educa, e così lui di tanto in tanto segnala anche qualche «bella serata». In poche righe il critico cinematografico Wilder riesce a esprimere i suoi giudizi con asciutto umorismo e oggettività puntuale («Wera Engels era molto bella»), sempre ben lungi dall’essere arroganti di fronte al sensazionalismo e alla volgarità. «Anche se queste storie del Far West, fatte di fattori canaglia, vicini di casa rapaci e rudi briganti di strada, sono ancora costruite in modo grossolano; anche se quello che accade è pensato ancora in modo così naif, happy end incluso, questi film della prateria sono una bomba», annota Wilder nel 1929, vicario di tutte le gioie filmiche della volgarità. A Berlino, Billie Wilder faceva il reporter per la casa editrice Ullstein. A parte l’infelice intermezzo come redattore notturno (da aprile a dicembre del 1927), presso la rinomata «Berliner Börsen Courier», scrisse per la stampa scandalistica, primi fra tutti «B.Z.» e «Tempo». Veniva chiamato da quelle testate a fare il reporter in occasioni di vario genere, solo il «Börsen Courier», e «Der Querschnitt» (la rassegna), la rivista che meglio identificava lo spirito del tempo dell’epoca, gli avevano offerto la piattaforma pubblicistica adatta ai classici articoli di cultura degli anni ’20. Scrivendo reportage e articoli, aveva imparato come regolarsi con la lingua e con le parole, aveva messo alla prova e poi perfezionato le sue capacità di narratore. Questo tornò utile all’autore di soggetti cinematografici ormai famoso a Berlino (fra gli altri «Gente di domenica», «La terribile armata»), e non abbandonò mai più il regista: «Le parole hanno per l’allora giornalista Wilder una qualità particolare, quasi materica. Sono l’unico veicolo con il

quale i suoi eroi riescono a sfuggire alle grandi ristrettezze e alle strutture fossilizzate in cui vivono. Sono proprio le parole a conferire ai suoi film la leggerezza, l’eleganza, la tipica affilatura, perché le parole volano più veloci, volteggiano e planano più eleganti di qualsiasi macchina da presa. Le parole sono catalizzatori dell’immagine» (Claudius Seidl). Il presente volume è una selezione emblematica incentrata sui tre punti focali della sua attività giornalistica che si colloca negli anni che vanno dal 1927 al 1930. Dopo il 1930, sarà poi l’attività di sceneggiatore a passare in primo piano per Billie Wilder. I reportage, gli articoli di cultura e le critiche sono ordinati cronologicamente all’interno dei capitoli del libro, grafia della fonetica e punteggiatura rispecchiano l’originale. Il curatore ringrazia Billie Wilder per la sua fiducia ad autorizzare la pubblicazione della raccolta e ringrazia anche l’amico Willy Egger che ha curato con impegno la mediazione e la corrispondenza diplomatica fra Berlino e Beverly Hills. Cordula Jaenicke con il suo impegno instancabile ha reso accessibili e leggibili i fondi pubblicistici tratti dai diversi archivi giornalistici, a questo dobbiamo la nostra gratitudine e un particolare riconoscimento. Berlino, ottobre 1996 Klaus Siebenhaar

Nota biografica

Billy (il vero nome era Samuel) Wilder era nato il 22 giugno 1906 da genitori ebrei a Sucha nella Galizia, allora parte dell’Impero Austro-Ungarico (oggi in Polonia). La famiglia della madre era proprietaria di hôtel e il padre possedeva una catena di ristoranti nelle stazioni. La madre era un’entusiasta dell’America, da ragazza aveva vissuto per qualche tempo a New York, a questo vanno attribuiti i soprannomi Billie e Willy dei due fratelli Wilder. Nel 1914 la famiglia si trasferisce a Vienna, dove Billie frequenta il Realgymnasium e nel settembre del 1924 inizia a studiare giurisprudenza all’università. Dopo tre mesi, interrompe gli studi e inizia a guadagnarsi da vivere come giornalista e reporter scrivendo interviste e articoli di sport e cronaca nera per i giornali «Die Stunde» e «Die Bühne». Nel 1926 Wilder incontra il leader di un gruppo jazz, Paul Whiteman, e lo segue a Berlino. Qui Wilder collabora come freelance a molti giornali e riviste, fra cui il «Berliner BörsenCourier», «B.Z. am Mittag», «Tempo» e «Der Querschnitt». Contemporaneamente lavora come ghostwriter di film muti e scrive sceneggiature cinematografiche. Il film muto Der Teufelsreporter del 1929 cita per la prima volta Billy Wilder come autore del copione. Nello stesso anno scrive per Robert Siodmak la sceneggiatura del film che diventerà un poi un grande successo, Gente di domenica*. Continua a scrivere sceneggiature fino al 1933, in seguito all’incendio del Reichstag lascia in quell’anno la Germania e, passando per Parigi, emigra negli Stati Uniti, dove lavora per molti anni insieme allo scrittore Charles Brackett, soprattutto per Ernst Lubitsch. Collabora alla stesura di sceneggiature famose come L’ottava moglie di Barbablù (1938), Ninotchka (1939) e molte altre. Nel 1942 Wilder passa per la prima volta dalla sceneggiatura alla regia con il film Frutto proibito.

Nel 1945 Wilder, che dal 1936 si faceva chiamare «Billy» Wilder, torna per un breve periodo in Germania come colonnello per dirigere il dipartimento cinematografico del Psychological Warfare Division of the U.S. Army in Germany. In quel periodo Wilder, che ad Auschwitz aveva perso la madre, il patrigno e la nonna, è impegnato con il montaggio del suo film sui campi di concentramento Die Todesmühlen (Death Mills**). Dopo il suo rientro negli USA – dal 1939 è cittadino americano – gira quasi tre dozzine di film, di cui romantiche storie d’amore (Sabrina, 1954), leggendari film gialli (Testimone d’accusa, 1958) e studi di carattere (La vita privata di Sherlock Holmes, 1970), commedie a effetto (Uno, due, tre!, 1961; Irma la dolce, 1963), pungenti critiche sociali (L’asso nella manica, 1951) e ritratti di ambiente (Viale del tramonto, 1950). Billy Wilder è morto il 27 marzo 2002 a Los Angeles, a 95 anni. Riposa al Westwood Village Memorial Park Cemetery di Westwood, Los Angeles, vicino a Jack Lemmon, Walter Matthau e Marilyn Monroe. Sei Oscar e ventidue nomine all’Oscar contraddistinguono il percorso artistico di uno dei più significativi registi del XX secolo. * www.youtube.com/watch?v=2D9W2zfZPps ** www.youtube.com/watch?v=vdba86U2g68

La nota del traduttore

La vita, l’esistenza, la realtà. La vita di Billie Wilder prima che si dedicasse al mondo del cinema fu movimentata quanto la successiva carriera cinematografica. Il giovane Wilder che si guadagna da vivere come reporter nella Berlino della fine degli anni ’20 fa del giornalismo una dimensione di vita totalizzante, mirabilmente descritta nella postfazione di Klaus Siebenhaar. Non stupisce dunque che il suo libro citi in apertura il viatico del poeta Klabund: Caro B.W., scriva le sue memorie di ballerino a pagamento. L’unica cosa della letteratura che al momento ancora ci interessa è la materia prima di cui è fatta: la vita, l’esistenza, la realtà. Il motto del «vitalismo» suona così: tutto ciò che ha vita non è che una similitudine. Suo Klabund

La vita dunque. E della sua vita, in particolare un paio di anni difficili, quelli che vanno dal 1927 al 1930, parla questa raccolta di articoli di Billy Wilder. Reporter agli esordi poco più che ventenne (era nato nel 1906), in quegli anni è intento a vivere. Dopo la maturità Wilder lavora per qualche anno a Vienna come reporter per i giornali «Die Stunde» e «Die Bühne». Nel ’26 è appena giunto a Berlino al seguito di un famoso jazzista, e quella che descrive nelle pagine iniziali del libro è la sua esperienza di vita vissuta. Lo ricorderà anche in un’intervista con Cameron Crowe del 1998: La grande occasione mi venne offerta da Paul Whiteman che mi portò con sé a Berlino perché scrivessi un articolo sul suo concerto. Prima avevo lavorato solo a Vienna. Berlino fu la mia prima trasferta da giornalista. E una volta lì decisi di rimanerci.*

La sua prima camera ammobiliata è nella Parisierstraße, erano i tempi del suo amore per Olive Victoria, una ballerina di rivista il cui spettacolo girava tutta l’Europa, la Olive di «Naftalina». Come ricorda Wilder, in quegli anni

Ero un cronista molto pigro, perché mi innamoravo di tre o quattro ragazze alla volta e spesso non mi presentavo in redazione. Venni licenziato, riassunto e in fine cambiai giornale. Fu allora che comincia a scrivere sceneggiature come «negro»; fu un periodo durissimo e trascorsi diverse notti nella sala d’aspetto di una stazione. I miei vestiti li avevo lasciati all’affittacamere, la quale aveva già dato via la stanza che per un po’ avevo diviso con un amico. Pagavo circa venticinque dollari al mese, senza servizio di lavanderia né altro. Pensai di mollare tutto. Il mio nome non figurava sulle sceneggiature che, a quei tempi, erano di venticinque pagine senza dialogo. Cercavo di tenermi su, di non cadere in depressione. Poi per fortuna mi ripresero al giornale e affittai una stanza tutta per me. Oggi non potrei vivere nemmeno una settimana in quelle condizioni!*

Dal ’27 si trasferisce nel quartiere di Schöneberg, subaffitta una piccola camera nella Viktoria-Luise-Platz al numero 11 dove ancora oggi si trova una lapide che si potrebbe definire in pieno «stile wilderiano», al di sotto di una analoga dedicata a Busoni: I lapide: Qui ha abitato fino alla morte Ferruccio Busoni, musicista, pensatore, maestro 1866-1924. La società Dante Alighieri comitato di Berlino in occasione del 100° compleanno dell’artista II lapide: Qui ha abitato dal 1927 al 1928 anche Billy Wilder regista 22/06/1906-27/03/2002

«Cameriere, un ballerino per favore! Dalla vita di un ballerino a pagamento», il racconto che apre la raccolta, riproduce uno scorcio di vita vissuta nella Berlino degli anni ’20. Nell’intervista con Cameron Crowe Wilder si domanda: «Avrei fatto lo gigolò anche se non fossi stato un giornalista interessato a scrivere una serie di articoli sull’argomento? Oggi non saprei, ma allora era l’ultima novità»**. Ed è proprio in questo ruolo, sotto copertura, per così dire, che incontra Klabund. Il giovane poeta, poco noto al pubblico italiano, rimane affascinato dalla sua scelta di fare il ballerino a pagamento e lo incita a raccontare la sua esperienza di vita, iniziando proprio da quei tè danzanti che si svolgevano nei grandi alberghi di Berlino e che porteranno alla stesura del racconto iniziale del libro e alla sua pubblicazione nel 1927 sul «B.Z. am Mittag». Episodi della sua gioventù che ricorda con lucidità nell’intervista. Le signore venivano coi mariti, sa? E inoltre erano quasi tutte anziane e corpulente. Io non ero il ballerino migliore del locale, però ero quello più spiritoso. Il pomeriggio indossavo l’abito scuro e la sera lo smoking. C’erano cocktail danzanti fra le cinque e le sette e alle otto e mezzo cominciavano le danze serali. Un giorno mi ero lamentato delle mie scarpe scalcagnate. Il

mattino seguente il portiere mi consegna un pacco: una signora mi aveva mandato dodici paia di scarpe del marito. (sorride) Purtroppo mi stavano un po’ grandi.*

Ma non a caso sono proprio le parole di Klabund che aprono e chiudono questa raccolta di articoli. Alfred Henschke alias Klabund, lo pseudonimo è una contrazione di Klabautermann, coboldo che infesta le navi, e Vagabund, vagabondo. Poeta, scrittore e traduttore – in particolare dell’antica commedia cinese Der Kreidekreis da cui Brecht anni dopo trasse Il cerchio di gesso del Caucaso. Nel 1914 entrò a far parte della redazione della rivista «Die Schaubühne» (che nel 1918 diverrà «Die Weltbühne»). Klabund scrisse quello che Ladislao Mittner definì «il romanzo espressionista per definizione, per lo meno per quanto riguarda la tecnica strutturale: Moreau. Il romanzo di un soldato»** e, forse non è un caso che le sue scelte stilistiche segnalino una chiara affinità con lo stile di Wilder di questi anni, uno stile fatto di paragrafi brevissimi, che a loro volta spesso contengono una sola frase caratterizzata da ellissi del verbo e a volte persino del soggetto. Nel reportage autobiografico «Cameriere, un ballerino per favore!» sono già presenti «i primi indizi del conio stilistico del futuro autore di sceneggiature e soggetti per il cinema e regista di Hollywood Billy Wilder, e cioè la narrazione freddamente oggettiva in primo piano e il ductus lapidario» (Siebenhaar). Il giovanissimo panorama intellettuale di questi anni si concentra intorno ad alcune riviste, di queste il fulcro è senz’altro «Die Weltbühne», nata con il nome «Die Schaubühne» (il palcoscenico) – una rivista di teatro anche se aperta in senso più ampio alle tematiche culturali –, nel 1918 prende il nome di «Die Weltbühne»* (il palcoscenico del mondo), con un simbolico intento di apertura dall’orizzonte del teatro alle più ampie prospettive della cultura, dell’arte, della politica e dell’economia. Diretta prima da Siegfried Jacobsohn e poi da Kurt Tucholsky e Carl von Ossietzky, essa raccoglie interventi dei letterati del tempo del calibro di Brecht, Kästner, Mehring, Zweig, Glaeser, Feuchtwanger, Kisch e naturalmente lo stesso Klabund. La rivista ebbe il suo

momento di maggiore fulgore proprio nel 1928, quando si rivelò l’incapacità della «grande coalizione» di quegli anni di far valere con decisione le ragioni della sinistra. Negli anni fra il 1926 e il ’33 fu proprio su «Die Weltbühne» che scriveva Carl von Ossietzky, l’autore simbolo europeo della difesa della pace, della libertà e dei diritti degli uomini. Verso la metà degli anni ’20, Wilder arriva a Berlino. La città, subito dopo il burrascoso periodo della Repubblica di Weimar e poco prima di inabissarsi per il crack bancario dell’ottobre 1929, sta attraversando un periodo di relativa tranquillità e registra un’incredibile fioritura della stampa; più di quattromila testate in Germania di cui più di sessanta solo a Berlino (la maggior parte di proprietà della casa editrice Ullstein)*. Nella «Spree-Chicago», come la definì Mark Twain, oltre a quelle appena ricordate, moltissime erano le testate di rilievo: «Vossische Zeitung», «Berliner Tageblatt», «Börsen-Courier», «B.Z. am Mittag». Fra i tanti collaboratori c’è anche Billie Wilder, o «Richard Wiener» o anche «Julian», o semplicemente «-der», «r.-r.» o «r.» come amava firmarsi. «A slender young man who wore his hat slanted, buried his hands in his pockets, and played the American long before we had even discovered America»**. «Cronista del quotidiano, un po’ dandy e un po’ disperato, un po’ filosofo un po’ Filou»***, imbroglione, come lo definisce Armin Huttenlocher in una recensione apparsa subito dopo la pubblicazione dell’edizione tedesca del libro nel 1997, Billy Wilder fu negli anni ’20 il genio del Feuilleton. Questa parola in tedesco è un prestito dal francese e ha un significato molto diverso da quello che le viene attribuito in italiano, non indica infatti il romanzo d’appendice, ma diverse forme letterarie brevi da terza pagina, che vanno dal reportage socioculturale, alla critica artistica e culturale, alle riflessioni argute, ed è rimasto nella lingua d’oggi a indicare il supplemento culturale di molti giornali e riviste*. Anche se non esplicitamente, Wilder dedica il suo racconto all’amico scomparso in giovanissima età che lo ha incoraggiato a scrivere rimanendo legato alla vita, all’esistenza, alla realtà. A sua volta Kurt Siebenhaar ha scelto

di seguire la volontà dell’autore nella selezione degli articoli che compongono il volume. Il bellissimo racconto iniziale del libro è abilmente costruito come contenitore di diversi interventi pubblicati in questi anni incredibili, in cui la vita culturale della città si delinea in tutta la sua ricchezza mentre sullo sfondo si profila in modo sempre più tangibile il dramma della crisi economica del ’29. Quella che emerge è la figura di un autore dotato di grande talento letterario che presto, come tante altre persone non grate al regime, tanti altri intellettuali tedeschi, sarà costretta dall’avvento del nazismo a trasferirsi in America e lì, si mostrerà maestro nell’arte di trasferire il suo talento da una lingua all’altra, senza soluzione di continuità, con gli incredibili esiti creativi che da sempre accompagnano l’esperienza di noi spettatori che con i film da lui diretti o sceneggiati siamo cresciuti – in molti sensi. La sensibilità specifica per il ritmo e la drammaturgia della follia quotidiana, sempre presenti nei suoi scritti, diventa cifra stilistica personale nell’articolo dedicato al Principe di Galles che dà il titolo alla raccolta. Il Principe di Galles in questione è Edoardo che salirà poi al trono nel 1936 con il nome di Edoardo VIII. Personaggio noto alle cronache mondane ancora ai giorni nostri, ai tempi proverbiale forse per la sua avvenenza e senz’altro per la sua eleganza e determinazione a condurre una vita poco conforme agli schemi del suo rango, come le star del cinema era costantemente sotto le luci dei riflettori. Il suo stile fece epoca. Negli anni in cui Billy Wilder scrive, il Prince era impegnato in numerose trasferte in ogni angolo dell’impero britannico e in particolare – come ci racconta Wilder – nel ’19 a Pekisko in Canada, dove aveva acquisito un ranch che divenne poi noto come Prince of Wales Ranch, «un ranch, un vero ranch canadese, uno di quelli dove abitano i giovani selvaggi di lì, realizzato con nodosi tronchi d’albero, rustico e resistente alle intemperie», e in Australia nel ’20, dove anticipando di qualche anno le sue attitudini politiche successive, in una lettera a un’amica scrisse degli aborigeni australiani: «They are the most revolting form of living creatures I’ve ever seen!! They are the lowest known form of human beings and are the nearest thing to monkeys»*. O come sintetizza più

elegantemente Wilder: «L’Australia? L’Australia gli dà sui nervi. Nuova Zelanda, Guyana, Giamaica, Ceylon, Isole Fiji, Hong Kong e Malta idem. Con divertimento si intende: colonie». Il Principe resterà sempre sotto l’obiettivo dei giornali scandalistici, sarà al centro di molti scandali, a partire dalla sua contestata relazione con Wallis Simpson che lo porterà ad abdicare a favore del fratello Alberto per proseguire con la sua amicizia con il Führer. Le strategie linguistiche a effetto, in buona parte già presenti in questi scritti giovanili in tedesco, ritornano nei testi delle sceneggiature dei suoi film. Così come ritorna la costruzione ellittica del suo discorso comico, la creatività linguistica che arriva a comporre liberamente le parole non arrestandosi mai, nemmeno davanti a nomi propri, pur di esasperare l’effetto di un’iperbole, «la legge di Mariotte-GayLussac», e a contraddire i più evidenti criteri di coerenza: «un signore in raglan e con una gamba rigida», «il viso del signor Isin sorride, giallo e lontano», «Kurt, un giovane gentile, di buona famiglia, con una cravatta a righe verticali di buon gusto e il mal di stomaco». I giochi di parole: nei versi che aprono il volume, nebbich, scritto dopo il punto, è sia sostantivo che avverbio, il suo significato è ambiguo, si muove fra i due valori semantici di «un uomo da poco» e «ma sì, non importa» e li integra in una dimensione quasi dada. Il ricorso alle sinestesie semantiche, «l’odore dell’argilla da pipe umida di cui era verniciata la scala, che era di un bianco radioso, dalla cantina saliva un odore e di muffa e sabbia umida. E a questo ammaliante dualismo si univa un misto di cera vergine e mele invernali che proveniva dalle camere». Spesso esse vengono rese in tedesco con la creazione di una parola composta per assonanza con un’altra, come avviene nel caso di sonnendurchglüten, arroventato dal sole, creata per assonanza con sonnendurchfluten, inondato dal sole, in «Oh, benedetto aroma delle imbottiture di pelle arroventate dal sole di un landau!», o come nel caso della pettinatura alla maschietta resa nel testo dalla parola tedesca Etonkopf che riecheggia l’inglese eton crop o del cactus definito Stachelpflanze, pianta coperta di spine, sul modello di Stachelschwein, porcospino. In alcuni casi gli odori appaiono nel testo attraverso la citazione dei profumi dell’epoca, di

quelli realmente esistiti come Narcisse noir, Coty, Astris, ma anche di immaginarie evocazioni olfattive legate alla memoria personale del passato: «Parfums retrospectives! Escalier de la cave; Cordelette de fuet; Petit nageur; Allumette mourante», in un’oscillazione continua fra francese e tedesco, tipica dei tempi. * Cameron Crowe, Conversazioni con Billy Wilder, Adelphi, Milano 2002 (1999), pp. 225. * Ivi, pp. 226. ** Ivi, pp. 29. * Ivi, pp. 28-29. ** Moreau. Roman eines Soldaten, op. cit. in Ladislao Mittner, Storia della letteratura tedesca, Einaudi, Torino 1926, p. 1287. * Cfr. anche E. Collotti, «Belfagor», 1965, pp. 148-87. * Gerd Gemünden, A Foreign Affair. Billy Wilder American Films, Berghahn, New York 2008, p. 10. ** Ivi, p. 11. *** Armin Huttenlocher, Der Prinz von Wales geht auf Uraub. Berliner Reportagen, Feuilletons und Kritiken der zwanziger Jahre, Deutschlandfunk 10.12.1997, http://www.deutschlandfunk.de/der-prinz-von-wales-geht-aufuraub.700.de.html?dram:article_id=81408 * «They consist of an eclectic mix of film and theater reviews, interviews with famous and would-be famous people, and short glosses on the life of the metropolis, but his tasks also included covering the crime beat concocting crossword puzzle» Gemünden, A Foreign Affair cit., p. 12. * Rupert Godfrey, Letters from a Prince: Edward to Mrs Freda Dudley Ward 19181921, Little, Brown & Co, New York 1998.

Fonti originali degli articoli

I. Edizione straordinaria. Reportage e articoli ispirati alla vita vera Herr Ober, bitte einen Tänzer!, Aus dem Leben eines Eintänzers, Ich suche Stellung, Der erste Tag im Hotel, Die Kollegen, Der tägliche Dienst, «B.Z. am Mittag» del 19, 20, 22 e 24 gennaio 1927. Hier kam Christoph Columbus zur Alten Welt, «Berliner Börsen Courier» (BBC), 3 aprile 1927 Die Kunst der kleinen Kniffe, «BBC», 1° maggio 1927. Naphthalin, «BBC», 13 maggio 1927. Nur keine Objektivität!, «BBC», 20 maggio 1927. Bei 29 Grad, «BBC», 1° giugno 1927. Schicksalstag, «BBC», 4 giugno 1927. Perfekter Optimist gesucht, «BBC», 3 luglio 1927. Renovierung, «BBC», 13 luglio 1927. Warum riechen Streichhölzer nicht mehr so?, «BBC», 10 agosto 1927. Die Rose von Jericho, «BBC», 19 agosto 1927. Kleine Wirtschaftslehre, «BBC», 21 agosto 1927. Filmterror, «BBC», 1° settembre 1927. Bei den Wiener Optimisten, «BBC», 8 novembre 1927. Berliner Rendezvous, «BBC», 13 novembre 1927. Nächtliche Spazierfahrt über Berlin. Wie man den deutschen Nachtflugverkehr organisiert, «BBC», 6 dicembre 1927. Durst-Konjunktur. Was in diesen Tagen getrunken wird, «B.Z.», 18. luglio 1928. Wir Berliner sind neugierig! Und wollen diese Fragen beantwortet haben, «B.Z.», 18 agosto 1928. Konflikt: City-Ausschuß, Regierung und Berlin. Studienreise nach Paris und London vereitelt. Ministerpräsident und Oberbürgermeister verbieten Beteiligung von Beamten, «B.Z. am Mittag vom Donnerstag», 18 ottobre 1928. Berlin im Matsch. Vollkommenes Versagen der Straßenreinigung - Die Nachtarbeit ist zu teuer - 300 Schneepflüge im Schuppen, «B.Z. am Mittag vom Donnerstag», 13 dicembre 1928. Besondere Straßenbahndämme - eine Verschwendung. Gegen die Uniformierung der Straßen, «B.Z», 13 marzo 1929. Wir vom Filmstudio 1929, «Tempo», 23 luglio 1929. Wie wir unseren Studio-Film drehten, «Der Montag Morgen», 10 febbraio 1930. Bücher an den Mann bringen, «Der Querschnitt», n. 2, marzo 1930. Wie ich Zaharoff anpumpte, «Der Querschnitt», n. 3, marzo 1933.

II. Gente di domenica. Ritratti di persone più o meno importanti Chaplin II. und die Andern in der Scala, «BBC», 10 maggio 1927. Der Mann, der ähnlich sieht, «BBC», 14 giugno 1927. Minister zu Fuß, «BBC», 7 luglio 1927. Der Prinz von Wales geht auf Urlaub, «BBC», 31 agosto 1927. Interview mit einer Hexe. Der jüngste Frauenberuf, «BBC», 23 ottobre 1927. Bei Grock - dem Mann, der die Welt lachen macht!, «BBC», 2 novembre 1927. Zehn Minuten mit Schaljapin, «BBC», 12 novembre 1927. Claude Anet in Berlin, «BBC», 25 novembre 1927. Bei der ältesten Berlinerin, «BBC», 9 dicembre 1927. Felix Holländer. Zu seinem 60. Geburtstag, «B.Z. am Mittag», 31 ottobre 1927. Der Senior der Berliner Kritik. Zum Tode Alfred Klaars, «B.Z. am Mittag», 5 novembre 1927. Die B.Z.-Frau und der deutsche Kronprinz, «Der Querschnitt», n. 2, febbraio 1929. Stroheim, der Mann, den man gern haßt, «Der Querschnitt», n. 4, aprile 1929. Über einen Pokerkünstler, «Der Querschnitt», n. 6, giugno 1929. «Hallo, Herr Menjou?» Er spricht ein reizendes Deutsch - Seine Mutter stammt aus Leipzig, «Tempo», 5 agosto 1929. Vor einem Jahr starb Klabund. Der Dichter und der Eintänzer, «Tempo», 12 agosto 1929. III. Uno, due, tre! Critiche cinematografiche e teatrali Ehekonflikte. Im Primus-Palast, «B.Z. am Mittag», 3 giugno 1927. Eichberg dreht, «B.Z. am Mittag», 7 giugno 1927. Der Bettler vom Kölner Dom. Im Emelka-Palast, «B.Z. am Mittag», 30 agosto 1927. Pat und Patachon am Nordseestrand. Im Emelka-Palast, «B.Z. am Mittag», 9 settembre 1927 Funkzauber. Im Phoebus-Palast, «B.Z. am Mittag», 4 ottobre 1927. Frost im Atelier. Ein Bad bei 7 Grad Kälte, «B.Z. am Mittag», 29 novembre 1927. Pat und Patachon. Im Beba-Palast, «B.Z. am Mittag», 9 marzo 1928. Der Geliebte seiner Frau. Im Marmorhaus, «B.Z. am Mittag», 30 marzo 1928. Aus den Ateliers, «B.Z. am Mittag», 8 maggio 1928. Eine Nacht in Yoshiwara. In der Schauburg, «B.Z. am Mittag», 6 luglio 1928. Gier nach Geld. In der Kamera, «B.Z. am Mittag», 10 luglio 1928. Wochenend-Liebchen. In der Schauburg, «B.Z.», 17 luglio 1928. Kampf im Tal der Riesen. In der Schauburg, «B.Z.», 27 luglio 1928. Revolutionshochzeit!, «B.Z.», 31 luglio 1928. Der Polizeiflieger von Kalifornien. Im Primus-Palast, «B.Z.», 3 agosto 1928.

Töne werden gekurbelt. Die Aufnahmen im Atelier, «B.Z.», 21 agosto 1928. Fünfzigmal «Dreigroschen-Oper», «B.Z. am Mittag», 22. ottobre 1928. Frühling in Palastina, «B.Z. am Mittag», 11 dicembre 1928. Erster Silhouetten-Tonfilm, «B.Z.», 5 marzo 1929. Was eine Frau im Frühling träumt. In den Bavaria-Lichtspielen, «B.Z.», 2 aprile 1929. «Bühne der Jugend?», «B.Z.», 18 maggio 1929. Spaziergang durch die Ateliers. Man dreht stumme Filme, «B.Z.», 21 giugno 1929. Das verschwundene Testament. In den Kammerlichtspielen, «B.Z.», 9 luglio 1929. Der «Fliegende Teufel». Im Ufa-Pavillon, «B.Z.», 13 agosto 1929. Männer ohne Beruf. Im Ufa-Palast am Zoo, «B.Z.», 14 agosto 1929. Laubenkolonie. Im Primus-Palast, «B.Z.», 25 ottobre 1930. Susanne macht Ordnung. Im Atrium, «B.Z.», 21 novembre 1930.

Indice

EDIZIONE STRAORDINARIA! REPORTAGE E ARTICOLI ISPIRATI ALLA VITA REALE «Cameriere, un ballerino per favore!» Ecco Cristoforo Colombo appena giunto nel vecchio mondo L’arte dei piccoli trucchi Naftalina Meglio non essere obiettivi! A 29 gradi Il giorno del destino Perfetto ottimista cercasi Ristrutturazione Perché i fiammiferi non hanno più lo stesso profumo? La rosa di Gerico Piccola lezione di economia Il terrore di essere filmato Dagli ottimisti viennesi Rendez-vous berlinese Volo notturno nel cielo di Berlino Emergenza sete Noi berlinesi siamo curiosi! E vogliamo che diate una risposta a queste domande Conflitto: il comitato della city, il governo e Berlino Berlino in un pantano La costruzione dei terrapieni per la tranvia: uno spreco

Noi della Filmstudio 1929 Come abbiamo girato il nostro film sperimentale Consigli per gli acquisti Come ho fatto a batter cassa con Zaharoff GENTE DI DOMENICA RITRATTI DI PERSONE PIÙ O MENO IMPORTANTI Chaplin II e gli altri a ruota. Un problema di somiglianze Il Ministro a passeggio Il Principe di Galles va in vacanza Intervista con una strega Il mestiere più attuale per le donne Grock: l’uomo che fa ridere il mondo! Dieci minuti con Šaljapin Claude Anet a Berlino Dalla più anziana berlinese Felix Holländer. In occasione del suo sessantesimo compleanno Il decano della critica berlinese La morte di Alfred Klaar La signora del «B.Z.» e il Principe ereditario tedesco Stroheim, l’uomo che vi piacerebbe odiare Un artista del poker «Pronto, parlo con il signor Menjou?» Un anno fa moriva Klabund UNO, DUE, TRE! Critiche cinematografiche e teatrali: veloci, brevi, prosaiche Postfazione all’edizione tedesca, di Klaus Siebenhaar Edizione straordinaria: il reporter Billie Wilder

Nota biografica La nota del traduttore Fonti originali degli articoli