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Italian Pages 160 [136] Year 2010
I CLASSICI DELLA PSICOLOGIA
René A. Spitz
Il primo anno di vita del bambino Genesi delle prime relazioni oggettuali Prefazione di Anna Freud
Traduzione di Giuseppe Galli e Anna Arfelli-Galli Titolo originale dell’opera: La première année de la vie de l’enfant © René A. Spitz, 1958 È vietata la riproduzione dell’opera o di parti di essa con qualsiasi mezzo, se non espressamente autorizzata dall’editore. L’editore si dichiara disponibile per gli aventi diritto con cui non sia stato possibile comunicare. www.giunti.it © 1962, 2009 Giunti Editore S.p.A. Via Bolognese 165, 50139 Firenze – Italia Via Dante 4, 20121 Milano – Italia ISBN 9788809753914 Edizione digitale realizzata da Simplicissimus Book Farm srl Prima edizione digitale 2010
Indice generale
Presentazione Biografia dell’autore Pubblicazioni dell’autore Prefazione di Anna Freud IL PRIMO ANNO DI VITA DEL BAMBINO Premessa Cap. I – Introduzione teorica 1. I fattori congeniti 2. L’aspetto complesso del fattore ambiente Cap. II – Il metodo 1. I test 2. L’analisi dei film Cap. III – L’oggetto della libido 1. Lo stadio preoggettuale 2. Lo stadio dell’oggetto precursore 3. L’oggetto precursore nella percezione 4. L’aspetto affettivo nella relazione madre-bambino 5. Il valore teorico della formazione dell’oggetto precursore Cap. IV – La plasticità della psiche infantile 1. L’impotenza del neonato 2. Il primo anno, periodo di trasformazione 3. Il primo “organizzatore” e le conseguenze della sua comparsa
4. L’assenza dell’Io Cap. V – Le forze formative nel rapporto madre-bambino 1. La comunicazione nella coppia madre-bambino 2. Il ruolo della percezione 3. Gli affetti, la percezione, la comunicazione Cap VI – Gli stati affettivi spiacevoli (L’angoscia degli 8 mesi) 1. L’evoluzione degli stati affettivi negativi nel primo anno 2. Il secondo organizzatore 3. Variazioni culturali Cap. VII – Il ruolo e lo sviluppo delle pulsioni Cap. VIII – La formazione del secondo organizzatore e le sue conseguenze per lo sviluppo infantile Cap. IX – L’origine e l’inizio della comunicazione semantica Cap. X – Deformazioni e deviazioni delle relazioni oggettuali Cap. XI – Disturbi psicotossici 1. Rifiuto primario 2. Rifiuto primario passivo 3. Preoccupazione primaria ansiosamente esagerata 4. Ostilità materna mascherata da stati ansiosi 5. Oscillazioni rapide della madre tra tenerezza e ostilità aggressiva 6. Oscillazioni di umore cicliche ad onde lunghe della madre 7. Ostilità materna coscientemente compensata Cap. XII – Disturbi da carenza affettiva 1. Carenza affettiva parziale 2. Carenza totale Cap. XIII – I nostri risultati e la loro integrazione nella dottrina psicoanalitica
Cap. XIV – Conclusioni Bibliografia
Presentazione
Le ricerche condotte da René A. Spitz, sintetizzate in questo suo libro ormai classico (La première année de la vie de l’enfant, 1958), si basarono su una originale integrazione tra la psicoanalisi infantile del primo Novecento e alcuni nuovi orientamenti avviati negli anni ’40, in particolare la psicobiologia e l’etologia. Per spiegare lo sviluppo psichico nei primi dodici mesi di vita, Spitz mise in evidenza, da una parte, l’importanza della progressiva maturazione neurobiologica del bambino e, dall’altra, la necessaria relazione psicodinamica tra il bambino stesso e la madre. Tale relazione non venne concepita solo come un insieme di processi interni alla psiche del bambino, al livello fantasmatico, come proponeva la scuola inglese di Melanie Klein, ma come una effettiva transazione tra due organismi viventi dotati di un corpo oltre che di una mente. In questa prospettiva era evidente l’influenza della etologia (Spitz fu tra i primi psicoanalisti a fare riferimento ai risultati in questo campo), ma anche della “psicologia dell’Io” (rappresentata da H. Hartmann, E. Kris, R. M. Loewenstein) che si stava diffondendo nell’ambito della psicoanalisi nordamericana. L’osservazione diretta del comportamento interattivo madre-bambino, documentata da Spitz con accurate registrazioni cinematografiche, permise di studiare lo sviluppo psichico sia in condizioni normali che in quelle patologiche caratterizzate dalla assenza della madre o da cure parentali inadeguate (come nei casi di abbandono e istituzionalizzazione). Spitz distinse tre stadi fondamentali dello sviluppo psichico (stadio preoggettuale, 0-3 mesi; stadio dell’oggetto precursore, 3-8 mesi; stadio della relazione con l’oggetto libidico, 8-15 mesi), ciascuno marcato da un passaggio critico in cui compare un nuovo sistema di ristrutturazione della vita mentale e comportamentale, un sistema o schemaguida denominato “organizzatore” (gli organizzatori si manifestano sul piano comportamentale attraverso i cosiddetti “indicatori”: risposta del
sorriso al terzo mese di fronte al volto umano; reazione di angoscia di fronte al volto di un estraneo, 18 mesi; comparsa del no nel corso del secondo anno di vita). Questa evoluzione delle organizzazioni mentalicomportamentali avviene normalmente se la relazione madre-bambino è soddisfacente sul piano affettivo, mentre condizioni negative e frustanti per il bambino come una relazione disturbata da problemi psicologici della madre, assenza della madre nei casi di ospedalizzazione o istituzionalizzazione del bambino, producono gravi alterazioni della sua vita mentale con manifestazioni comportamentali che Spitz ha descritto introducendo concetti tuttora rilevanti per la ricerca e gli interventi terapeutici in psicopatologia evolutiva. Per questa edizione, si è provveduto a rivedere la terminologia psicoanalitica tenendo conto della traduzione italiana delle Opere di Sigmund Freud (Bollati Boringhieri, Torino) e di altri classici della psicoanalisi.
Biografia dell’autore René Arpád Spitz nacque a Vienna il 29 gennaio 1887 da un’agiata famiglia ebrea di origine ungherese. Si laureò in medicina a Budapest nel 1910, divenendo medico militare durante la I guerra mondiale. L’interesse per la psicoanalisi maturò nello stretto rapporto che Spitz ebbe con Sándor Ferenczi. Dopo l’analisi didattica con Sigmund Freud (1910-11), Spitz esercitò la professione di analista prima a Vienna e poi a Berlino. Nel 1932 si trasferì a Parigi e nel 1939 emigrò negli Stati Uniti. Tra il 1940 e il 1943 lavorò come psichiatra e psicoanalista al Mount Sinai Hospital di New York e successivamente all’Università del Colorado a Denver. Morì il 14 settembre 1974.
Pubblicazioni dell’autore* No and yes. On the genesis of human communication, International Universities Press, New York, 1957 (tr. it. Il no e il sì. Saggio sulla genesi della comunicazione, Armando, Roma, 1970).
La première année de la vie de l’enfant, pref. di A. Freud, Presses Universitaires de France, Paris, 1958 (tr. it. Il primo anno di vita del bambino. Genesi delle prime relazioni oggettuali, pref. di A. Freud, Giunti Barbèra. Firenze, 1962; rist. riv. 2009). A genetic field theory of Ego formation, International Universities Press, New York, 1959 (tr. it., Teoria di un campo genetico della formazione dell’ego, La Nuova Italia, Firenze, 1976). (con W. G. Cobliner) The first year of life. A psychoanalytic study of normal and deviant development of object relations, International Universities Press, New York, 1965 (tr. it. Il primo anno di vita del bambino. Studio psicoanalitico sullo sviluppo delle relazioni oggettuali, Armando, Roma, 1972). Dialogues from infancy. Selected papers, International Universities Press, New York, 1983 (tr. it. Dialoghi dall’infanzia. Raccolta di scritti, Armando, Roma, 2000).
* Sono indicate solo le opere più importanti.
Prefazione di Anna Freud
Questa descrizione dettagliata dei rapporti affettivi fra le madri ed i loro lattanti è destinata ad un pubblico più ampio di quello a cui sono abitualmente rivolte le opere psicoanalitiche. Il linguaggio usato dall’autore, corredato da illustrazioni dimostrative, è lineare e molto semplice, in modo da essere comprensibile per le madri e per quanti si occupano di bambini, anche se non hanno cognizioni psicologiche preliminari. D’altro lato, la tecnica di osservazione impiegata, le documentazioni cinematografiche e i test sono di tale esattezza, da poter essere presi in considerazione anche da psicologi accademici. Infine, le premesse e le conclusioni teoriche sono così strettamente psicoanalitiche, da richiamare sicuramente l’attenzione di tutti gli analisti i quali, sia che si dedichino all’adulto, sia che si dedichino al bambino, sottolineano la necessità di una indagine sperimentale in questa età che è ancora la più oscura della storia dell’uomo. Nella sua opera, il dr. Spitz affronta un gran numero di problemi che sono oggetto di controversia fra gli psicoanalisti stessi; in nessun caso esita a prendere posizione: ad esempio nel primo anno di vita egli si serve dell’osservazione diretta e dei metodi della psicologia sperimentale, in contrapposizione ad altri psicoanalisti i quali preferiscono ricostruire il processo evolutivo partendo dall’analisi di stadi successivi. Infatti le sue osservazioni precedenti sull’ospitalismo e la depressione anaclitica, gli avevano permesso di stabilire il valore dell’osservazione diretta, nonostante le obiezioni di numerosi psicoanalisti. Descrivendo la personalità del lattante nel periodo che precede lo sviluppo del linguaggio, Spitz si oppone a tutti quegli analisti i quali pretendono di trovare nel lattante, subito dopo la nascita, una vita mentale
complessa, in cui hanno un ruolo fantasmi, conflitti fra pulsioni opposte, sentimenti di colpa, tendenze riparatrici. Egli, in accordo con molti altri autori, sostiene la tesi secondo la quale esiste uno stadio iniziale indifferenziato, partendo dal quale si assiste ad uno sviluppo lento e continuo di funzioni, di pulsioni distinte, di strutturazioni successive, cioè dei processi psicologici che emergono gradualmente da stati fisiologici preliminari, che ne costituiscono il substrato. Il tema fondamentale di quest’opera, la formazione di relazioni oggettuali precoci, sviluppa appunto questa teoria di una strutturazione lenta che da stadi primitivi porta a forme più complesse. Qui Spitz rigetta nuovamente il concetto di una relazione oggettuale con la madre esistente fin dalla nascita, concezione sostenuta ancora da numerose scuole psicoanalitiche. Finalmente, passando in rassegna le difficoltà delle relazioni iniziali fra madre e bambino e le conseguenze dannose che ne possono derivare, Spitz sviluppa concezioni nuove, descrivendo con precisione i disturbi psicotossici* del lattante, legati a disturbi emotivi specifici della madre. È un’ipotesi acuta ed interessante, che può essere meglio convalidata se si potrà definire la personalità complessa delle madri non solo con l’osservazione del loro comportamento, ma anche con l’indagine psicoanalitica. Spesso i lavori sullo sviluppo infantile ad opera di autori psicoanalisti sono stati criticati per parzialità e mancanza di rigore scientifico; in generale sono rivolti più allo sviluppo patologico che a quello normale. L’opera del dr. Spitz non si presta a queste critiche, conforta anzi la speranza di quanti desiderano consacrarsi allo studio accurato di questi problemi. ANNA FREUD
* Disturbi psichici di origine relazionale e affettiva (ndr).
Il primo anno di vita del bambino
Premessa
Lo studio che segue è tratto da una conferenza fatta al Congresso degli Psicoanalisti di lingua Latina a Roma, il 22 settembre 1953. Le illustrazioni ivi incluse sono tratte dai film proiettati durante tale conferenza. Naturalmente le illustrazioni non possono costituire una dimostrazione così efficace come il film, tuttavia mi sono sforzato di colmare questa lacuna con spiegazioni dettagliate. Inoltre ho aggiunto alcuni capitoli, derivati dalla medesima conferenza; erano necessari qui, per presentare in maniera sistematica una parte del mio pensiero e delle mie ricerche. Questo lavoro è uno studio psicoanalitico; applica i concetti freudiani e utilizza le idee esposte da Freud nella seconda parte della sua opera Tre saggi sulla teoria sessuale. Qui si trovano i germi della maggior parte delle osservazioni da me fatte nel corso di lunghe ricerche su centinaia di lattanti. L’uomo di genio concepisce teorie, che i suoi discepoli per più generazioni si sforzano di elaborare e di confermare. È per me una profonda soddisfazione pensare che, applicando il metodo di osservazione diretta, ho potuto partecipare all’opera ispirata dal mio maestro Sigmund Freud. RENÉ A. SPITZ
CAPITOLO PRIMO Introduzione teorica1
Con l’avvento della psicologia dell’Io, l’oggetto libidico ha formato il centro di interesse delle indagini psicoanalitiche. Nel 1905 Freud aveva introdotto già il concetto di scelta dell’oggetto, nella sua opera Tre saggi sulla teoria sessuale (16)2. È questo l’unico punto della sua opera in cui egli si occupa dettagliatamente delle “relazioni reciproche” fra madre e bambino, fra oggetto e soggetto. Successivamente non si interesserà più di questo tema; tutte le volte in cui si occuperà dell’oggetto libidico, lo farà dal punto di vista del soggetto. Parlerà di possesso dell’oggetto, di scelta e di scoperta dell’oggetto, mai di relazione oggettuale. Nelle pagine che seguono, tratteremo proprio delle relazioni reciproche fra madre e bambino. Basandoci sui dati della osservazione diretta e sui risultati dei nostri esperimenti sui lattanti, esporremo le nostre concezioni circa l’inizio, gli stadi, lo sviluppo, gli aspetti dinamici e le anomalie delle relazioni oggettuali. Il mantenimento della vita e l’organizzazione dei meccanismi che la rendono possibile occupano la maggior parte del primo anno di vita del bambino. Freud ha sottolineato l’incapacità del lattante a mantenersi in vita con i propri mezzi. Ciò gli è possibile solo grazie alla protezione e alla cure che famiglia e ambiente gli prodigano. Nella misura in cui il lattante, nel corso del primo anno, sviluppa i suoi mezzi personali, si rende progressivamente indipendente dal suo ambiente. Questo sviluppo deve necessariamente attuarsi sia nell’ambito fisico, sia in quello psichico. In quest’opera ci interesseremo di quest’ultimo aspetto; il progresso e lo sviluppo del settore psicologico si basano essenzialmente sull’attuazione di relazioni oggettuali, di relazioni sociali. Per organizzare le mie ricerche e per trarre le conclusioni, mi sono servito di alcuni fondamenti teorici psicoanalitici. Sottolineo espressamente
che ho evitato ogni ipotesi sulla presenza di processi intrapsichici, attivi nel lattante fin dalla nascita. Secondo il concetto di Freud, confermato unanimemente dall’osservazione e dall’esperienza di quanti hanno studiato i neonati, il pensiero alla nascita non esiste. Altrettanto vale per l’immaginazione, le sensazioni, la percezione, la volontà. Alla nascita il lattante è in uno stato indifferenziato. Tutte le sue funzioni, compresi gli istinti, si differenziano in seguito, in base ad un processo di maturazione3 e di sviluppo4. Pertanto io non ammetto la presenza di un Io alla nascita. Ecco perché non è possibile applicare certe concezioni psicoanalitiche fin dalla prima infanzia. Non è possibile parlare di complesso di Edipo, di Super-io; lo stesso vale per il simbolismo e per ogni interpretazione simbolica. Infatti i simboli sono legati all’acquisizione del linguaggio nel primo anno di vita la parola non esiste ed egualmente inesistenti sono i meccanismi di difesa, almeno nella forma descritta nella letteratura. Durante il primo anno ci è possibile ritrovare solo i precursori di questi meccanismi, in forma più fisiologica che psicologica. Sono per così dire, dei prototipi fisiologici, sui quali lo psichismo erigerà in seguito un edificio ben differente (18, →). I principi e gli elementi teorici che possiamo applicare al primo anno di vita sono i seguenti: 1) i due principi fondamentali, stabiliti da Freud, per le funzioni psichiche: a) il principio di piacere; b) il principio di realtà (29); 2) la suddivisione, in senso descrittivo, dello psichismo in conscio ed inconscio; 3) il punto di vista, topico, vale a dire la divisione dello psichismo in sistemi: Inconscio, Preconscio, Conscio (ICS, PCS, CS); 4) il punto di vista delle istanze o concetto strutturale, vale a dire la divisione dello psichismo in Es, Io, Super-io. Ripetiamo che il concetto di Super-io non è applicabile alla prima infanzia; 5) il punto di vista metapsicologico, distinto in aspetto topico, dinamico ed economico; 6) il punto di vista dinamico comprende la divisione dell’energia psichica in libido ed aggressione. Comprende inoltre il concetto di investimento di energia psichica (cathexis); 7) il concetto di stadi della libido;
8) il concetto di zone erogene; 9) l’ipotesi di Freud sul ruolo delle serie complementari nella etiología delle nevrosi (16). Credo che questo concetto si possa applicare non solo alle nevrosi, ma a tutti i fenomeni psichici umani. Ogni fenomeno psicologico è basato sull’interazione reciproca di fattori congeniti e fattori ambientali; 10) il punto di vista genetico, il quale stabilisce che tutti i fenomeni psichici sono soggetti alle leggi della casualità e che la successione delle cause deve essere seguita fin dall’origine. Questo principio fondamentale delle nostre ricerche ci fa risalire alla nascita e ci impone di analizzare la natura dei fattori congeniti.
1. I FATTORI CONGENITI Ciascuno di noi è nato con una sua propria individualità. È nato munito di ciò che io chiamo il suo “corredo congenito”, suddivisibile in tre parti: 1) il corredo ereditario, determinato dai geni e dai cromosomi; 2) gli influssi intrauterini, durante il periodo della gestazione; 3) gli influssi legati al parto. Per chiarire ciò che intendo con queste tre componenti, ricordo che il patrimonio ereditario comprende elementi evidenti, come il fatto che ciascuno di noi è nato con due gambe, una bocca e due occhi, ed elementi meno evidenti, come ad esempio le leggi della maturazione. Queste ultime comprendono non solo lo sviluppo progressivo degli organi e delle funzioni, ma anche il susseguirsi immutabile delle fasi attraverso cui passeranno. Ciò è valido per la fisiologia e per la psicologia, poiché se è vero che la dentizione di latte precede quella permanente, non è meno vero che lo stadio orale precede quello anale e questo precede quello fallico. Come esempio di influssi intrauterini, si è scoperto abbastanza recentemente che la rosolia contratta dalla madre durante la gravidanza può avere influssi distruttivi sull’apparato visivo del feto. Infine, fra gli influssi che si estrinsecano durante il parto, sono assai noti i traumatismi a cui può soggiacere il bambino nel periodo espulsivo. Inoltre sono state eseguite recentemente numerose esperienze, specie ad opera di Windle (75), sugli effetti dell’anossia cerebrale durante il parto e sulle conseguenze che ne derivano.
2. L’ASPETTO COMPLESSO DEL FATTORE AMBIENTE
Abbiamo preso come oggetto del nostro studio la genesi delle prime relazioni oggettuali, cioè delle relazioni fra la madre e il bambino. Si può affermare che si tratta di indagare delle relazioni sociali: siamo però di fronte ad una relazione sociale di natura del tutto diversa da quelle prese abitualmente in esame dalla psicologia sociale. È sorprendente il fatto che i sociologi non abbiano ancora constatato come sia possibile esaminare, nel rapporto madre-bambino, lo sviluppo delle relazioni sociali allo statu nascendi. La particolarità di questo rapporto consiste nel fatto di svilupparsi sotto i nostri occhi, da uno stadio in cui non esiste ancora come rapporto, ad uno stadio in cui la relazione sociale è completamente presente. Esiste qui una transizione fra fisiologico e psicologico: infatti durante lo stadio fisiologico, intrauterino, possiamo osservare un parassitismo completo del bambino; nel corso del primo anno il bambino passa attraverso uno stadio di simbiosi con la madre, infine si sviluppa la relazione gerarchica. Un altro aspetto singolare del rapporto madre-bambino è dato dalla differenza fondamentale fra la struttura psichica della madre e quella del bambino. Si può affermare che non esiste in nessun’altra parte della sociologia una divergenza così grande fra due esseri tanto strettamente legati fra loro, a meno che non si faccia una comparazione con le relazioni fra l’uomo e gli animali domestici. Solamente il sociologo Georg Simmel ha richiamato l’attenzione sulla possibilità di indagare dal punto di vista sociologico il gruppo madre-bambino, gruppo che ha chiamato “Diade”, sottolineando la possibilità di trovare qui i germi dell’ulteriore sviluppo di tutte le relazioni sociali. Come vedremo in seguito, Freud, indipendentemente da Simmel (59), ha richiamato l’attenzione su questo campo di ricerca già nel 1895, precedendo l’autore suddetto di più di dieci anni. Nel nostro studio sulle relazioni oggettuali e sulla loro formazione nella prima infanzia, faremo una separazione netta fra metodo psichiatrico usato per l’adulto e quello usato per il bambino. La ragione di questo sta nelle differenze strutturali e ambientali fra adulto e bambino. Evidentemente il bambino non ha la stessa struttura della personalità materna, e nello stesso tempo il suo ambiente differisce da quello dell’adulto. Iniziamo considerando la personalità: la personalità dell’adulto è strutturata in un’organizzazione nettamente circoscritta, che presenta delle attitudini individuali, sotto forma di iniziative personali, in interazione circolare con l’ambiente. Invece nel neonato, quand’anche fosse evidente un’individualità, non esiste un’organizzazione della personalità comparabile
a quella dell’adulto; non si sviluppano iniziative personali; l’interazione con l’ambiente è di natura puramente fisiologica. Parleremo più avanti e dettagliatamente dell’organizzazione infantile. La seconda differenza fra madre e bambino risiede nell’ambiente. Per l’adulto l’ambiente è composto da un gran numero di fattori differenti, da gruppi, da individui, da oggetti inanimati. Questi fattori multipli, come costellazioni dinamiche di importanza variabile, formano campi di forze mobili che influenzano la personalità organizzata dell’adulto, interagendo con questa. Per il neonato l’ambiente è costituito per così dire da un unico individuo: la madre o il suo sostituto. Inoltre quest’unico individuo non è percepito dal bambino come separato da lui, ma fa parte semplicemente di un insieme di bisogni di nutrizione e di soddisfazione. In contrasto con l’adulto, ne deriva che il lattante, allevato in maniera normale, passa il primo anno di vita in un “sistema chiuso”. Per questa ragione, l’investigazione psichiatrica del bambino deve esaminare la struttura di questo “sistema chiuso”. Si tratta di un sistema semplice, costituito di due soli componenti: la madre e il bambino; dovremo esaminare quindi le relazioni in seno a questa “diade”. Voglio sottolineare già qui – e lo esporrò più dettagliatamente in seguito – che l’universo del bambino è formato da tutta la situazione reale, cioè dal rapporto reciproco dei diversi membri della famiglia considerati nel loro ruolo, o da quelli dell’istituzione in cui il bambino è allevato; parallelamente, la madre o il suo sostituto, cioè la persona che soddisferà i bisogni del bambino, sarà l’intermediaria delle forze derivanti dall’ambiente. Per questo, nelle pagine seguenti, considereremo il rapporto mutuo e scambievole fra la personalità della madre da un lato e la personalità del bambino dall’altro.
1. Desidero ringraziare il Dott.Serge Lebovici(Parigi) e M. W. Godfrey Cobliner, M. A.(NewYork) per il loro aiuto nella formulazione di certi concetti e nel l’ingrato compito della revisione stilistica e della stesura della bibliografia. 2. Le cifre fra parentesi rimandano alla Bibliografia a pp.143-148. 3. Maturazione: svolgimento di processi stabiliti filogeneticamente nella specie,nello sviluppo embriologico o informa di Anlage [disposizioni]. 4. Sviluppo: questo concetto, sostituito spesso col termine equivoco di accrescimento esprimel’emergere di forme dinamiche e di modi di comportamento, risultanti dall’interazione fra organismo da una parte,e ambiente interno ed esternodall’altra.
CAPITOLO SECONDO Il metodo
Descriviamo ora il metodo utilizzato nelle nostre osservazioni e i soggetti ai quali è stato applicato. Durante il periodo preverbale, il metodo psicoanalitico vero e proprio non può essere applicato. Ci siamo quindi serviti dell’osservazione immediata (diretta) e dei metodi della psicologia sperimentale; abbiamo applicato il criterio della validità, cioè abbiamo usato dei test e dei metodi di osservazione precedentemente standardizzati su di un numero sufficiente di bambini. Abbiamo applicato anche il criterio della fedeltà; le nostre ricerche sono state eseguite alternativamente da un osservatore maschile e da un osservatore femminile. Abbiamo applicato il cosiddetto metodo longitudinale, abbiamo cioè seguito i nostri soggetti per un periodo relativamente protratto, fino anche ai due anni, eseguendo numerose esperienze e ripetendo i test mensilmente. Questo ci ha permesso di associare al metodo longitudinale quello trasversale. Avendo osservato un numero di bambini sufficientemente elevato, abbiamo potuto trarre conclusioni statisticamente significative. Abbiamo rinunciato al metodo clinico, che viene applicato a soggetti selezionati, e l’abbiamo sostituito con un metodo sperimentale, applicabile ad un gran numero di individui, usando, senza selezione alcuna, l’intera popolazione di un determinato ambiente per le nostre osservazioni ed i nostri esperimenti. Questo ci ha permesso di mantenere invariato il maggior numero di fattori, in un ambiente costante, introducendo una sola variabile, che diviene poi il soggetto stesso dell’esperimento. La costanza dell’ambiente ci garantisce la maggiore uniformità possibile delle condizioni in cui ogni soggetto viene a trovarsi. Per poter eseguire delle comparazioni fra le condizioni fondamentali dei diversi ambienti, abbiamo scelto situazioni ambientali completamente differenti tra loro, sia dal punto di vista culturale, sia dal punto di vista
razziale, sia per le condizioni economiche e sociali dei genitori e per altri fattori che riporteremo in seguito. Ciascuno dei lattanti da noi seguiti fu osservato quattro ore per settimana. I protocolli successivi di queste osservazioni furono incorporati nella storia clinica di ciascun soggetto.
1. I TEST Per ottenere una base di comparazione quantitativa ed oggettiva, abbiamo applicato mensilmente il Baby-test di Bühler e Hetzer (Hetzer e Wolf, Première année) (37). Abbiamo preferito questo test a quello di Gesell e a quello di Cattell, sia perché ci ha permesso una determinazione mensile, sia perché è stato standardizzato secondo criteri scientifici. Volendo evitare l’influsso dovuto alla differenza del sesso dell’esaminatore, abbiamo fatto eseguire i test alternativamente da un soggetto maschile e femminile, principio già applicato nelle osservazioni settimanali. I test ci hanno permesso di esaminare quantitativamente sei settori della personalità, e precisamente: 1. sviluppo e dominio della percezione; 2. sviluppo e dominio del soma; 3. sviluppo e dominio dei rapporti interpersonali; 4. sviluppo e dominio della memoria e dell’imitazione; 5. sviluppo e dominio della manipolazione di oggetti; 6. sviluppo intellettivo. La valutazione quantitativa di questi test dà una serie di quozienti di sviluppo, che permettono di stabilire un “profilo” di sviluppo, in un determinato periodo, in altre parole un quadro clinico trasversale.
2. L’ANALISI DEI FILM Per conservare una prova oggettiva delle nostre osservazioni visive e per potere eseguire uno studio esatto e ripetuto dello stesso fenomeno, abbiamo fatto delle riprese cinematografiche. Ci siamo serviti del metodo da me introdotto nel 1933, che ho chiamato “analisi del film”. Consiste nella ripresa cinematografica a 24 fotogrammi al secondo, con la possibilità non solo di ripetere l’osservazione a volontà, ogni qualvolta che sia necessario, ma anche di rallentare la proiezione fino a 8 fotogrammi al sec. Si tratta di un “rallentamento” di ben tre volte, che riguarda sia il ritmo dei movimenti,
sia l’espressione fisionomica. Ogni bambino è stato ripreso cinematograficamente la prima volta che è venuto alla nostra osservazione, cioè nel periodo più prossimo alla nascita, a volte persino nel periodo espulsivo. In seguito abbiamo ripreso tutte quelle manifestazioni che si scostavano dalla media degli altri bambini esaminati. Infine abbiamo filmato gli esperimenti fatti su questi bambini.
Alla storia clinica e al film sono stati aggiunti i protocolli delle interviste con i genitori e col personale che si cura dei bambini. Abbiamo applicato il test di Rorschach e quello di Szondi alle madri di un certo numero dei bambini da noi esaminati. Per quanto si riferisce al numero dei bambini osservati e ai vari raggruppamenti secondo i diversi ambienti, rimandiamo alla tabella della fig. 1.
CAPITOLO TERZO L’oggetto della libido
Chiarito il metodo da noi usato, possiamo esporre ora i dati del nostro problema, che consiste nel presentare lo sviluppo dei primi rapporti oggettuali, detti anche libidici; questo ci impone di definire i nostri termini. Il concetto di rapporto oggettuale presuppone un oggetto ed un soggetto. Nel nostro caso il soggetto è il neonato, che, come abbiamo detto precedentemente, viene al mondo in uno stato di non-differenziazione e non dispone di funzioni psichiche. Per lui quindi non esistono relazioni oggettuali né oggetti. Questi due elementi si svilupperanno progressivamente durante il primo anno, verso la fine del quale si stabilirà definitivo l’oggetto libidico. In questo processo evolutivo è possibile distinguere tre stadi, che ho definito: 1. lo stadio preoggettuale; 2. lo stadio dell’oggetto precursore; 3. lo stadio dell’oggetto propriamente detto. Prima di descrivere questi stadi, vogliamo definire l’oggetto libidico, così come Freud lo definisce nel suo articolo Pulsioni e loro destini (25): «Oggetto della pulsione è ciò in relazione a cui, o mediante cui, la pulsione può raggiungere la sua meta. È l’elemento più variabile delle pulsioni, non è originariamente collegato ad essa, ma le è assegnato soltanto in forza della sua proprietà di rendere possibile il soddisfacimento. Non è necessariamente un oggetto estraneo, ma può essere altresì una parte del corpo del soggetto. Può venir mutato infinite volte durante le vicissitudini che la pulsione subisce nel corso della sua esistenza. A questo spostamento della pulsione spettano funzioni importantissime. Può accadere che lo stesso oggetto serva al soddisfacimento di più pulsioni».
Secondo questa definizione l’oggetto libidico può cambiare nel corso della vita – anzi cambierà necessariamente e con frequenza. Questi mutamenti dipenderanno dalla struttura delle pulsioni parziali, dalla maturazione progressiva e dalla differenziazione delle pulsioni, dai rapporti fra le forze pulsionali parziali e da numerosi altri fattori che non sono ancora stati esaminati dettagliatamente. Poiché l’oggetto libidico può modificarsi (a volte anche rapidamente), esso si diversifica nettamente da ciò che la psicologia accademica designa comunemente “cose”. Le “cose” restano identiche a se stesse nello spazio e nel tempo e sono definite da coordinate spazio-temporali. L’oggetto libidico invece non può essere definito con coordinate spaziotemporali, ad eccezione del periodo, lungo o breve, in cui il soggetto non lo trasforma. Com’è dunque possibile descriverlo e caratterizzarlo? L’oggetto libidico si descrive con la sua storia e la sua genesi; non rimane mai identico a se stesso. Le coordinate dalle quali è circoscritto sono le strutture pulsionali, che lo investono.
1. LO STADIO PREOGGETTUALE Lo stadio preoggettuale coincide più o meno con la fase del narcisismo primario. Ho definito la situazione dominante in questo stadio col termine di non-differenziazione, termine ripreso recentemente da Hartmann (33, 35), e che vuole designare l’organizzazione primitiva del neonato. Questi è incapace di distinguere un oggetto dall’altro, il suo proprio corpo dall’ambiente. Ne risulta che in questo periodo il lattante non è in grado di differenziarsi dal suo ambiente, anzi percepisce il seno materno come una parte del suo corpo. Le nostre esperienze e quelle di altri autori dimostrano che il mondo esterno è escluso dalla percezione del neonato grazie ad una soglia di percezione molto elevata. Questa soglia elevata protegge il bambino dalle stimolazioni dell’ambiente nelle prime settimane, anzi nei primi mesi. Si può affermare che in questo periodo per il neonato non esiste un mondo esterno. A questo stadio, ogni percezione è legata alla funzione dei sistemi interocettivi; le reazioni presentate dal bambino si attuano in funzione della percezione dei bisogni che gli vengono comunicati da questi sistemi. Gli stimoli provenienti dall’esterno sono percepiti solo quando superano la
soglia di percezione e fanno irruzione nello stato di quiete del neonato, il quale reagisce con dispiacere. Reazioni di dispiacere si possono osservare fin dalla nascita. Non desideriamo associarci a coloro che parlano di reazioni di dispiacere “in utero”, né a quanti vogliono interpretare il cosiddetto “grido della nascita” come un’espressione di disperazione allorché il neonato percepisce il mondo per la prima volta. Credo ci sia poco di vero nel trauma della nascita, come fattore d’angoscia, concetto di cui si è abusato molto. Freud parla espressamente del trauma della nascita, come prototipo fisiologico (18, →) del fenomeno psicologico dell’angoscia, che apparirà molto più avanti. Direi che alla nascita vi sono certi fenomeni, di cui ci siamo già occupati, che necessitano di ulteriori indagini, per poter chiarire il loro ruolo nello sviluppo del bambino1. Nell’individuo normale, il trauma della nascita è uno stato estremamente transitorio, che dura il più delle volte solo qualche secondo. Si tratta di uno stato di eccitamento, che pare presenti una sfumatura spiacevole. Direi di più: nelle prime ore e nei primi giorni di vita la tonalità affettiva spiacevole è l’unica che è dato osservare; il suo contrario non è la tonalità piacevole, ma lo stato di quiete. Si tratta di funzioni prettamente fisiologiche. Le funzioni psichiche si svilupperanno in seguito; credo non sia privo di interesse il fatto che questo funzionamento si svolga secondo un sistema binario, cioè secondo il principio del “terzo escluso” (di contraddizione), uno dei tre enunciati dell’assioma fondamentale a cui il pensiero deve uniformarsi per essere valido (42, pag. 216). Viene a questo punto da chiedersi se l’origine fisiologica dello sviluppo ulteriore del pensiero umano non determini anche la forma in cui si svilupperanno le leggi logiche. D’altra parte l’attività del neonato, dove l’eccitamento contrasta con la quiete, corrisponde al principio freudiano del Nirvana (20), che consiste nella tendenza a ridurre le tensioni. Ricordiamo ancora che in questo periodo il bambino non distingue alcun oggetto – e per oggetto intendo non solo l’oggetto libidico – ma ogni “cosa” che lo attornia. Nella migliore delle ipotesi, le reazioni del neonato hanno il carattere di riflessi condizionati o per lo meno sono analoghe a quelle che siamo soliti definire riflessi condizionati. Evidentemente è necessario che trascorrano diversi giorni prima che si instauri una specificità delle reazioni, siano pure di tipo primitivo, come i riflessi condizionati; infatti è necessario
un certo tempo perché abbia luogo un condizionamento. Il bambino risponde a dei segnali verso l’ottavo giorno. All’inizio questi segnali originano delle sensibilità profonde: per essere esatti sono sensazioni inerenti all’equilibrio. Ad esempio quando si prende un bambino dalla sua culla, verso l’ottavo giorno, e lo si pone nella posizione in cui è solito ricevere il latte, cioè orizzontalmente, il bambino volgerà la testa verso la persona che lo ha messo in tale posizione, sia che si tratti di un uomo o di una donna (fig. 2). Se lo stesso bambino viene invece sollevato verticalmente dalla sua culla, non volgerà la testa verso la persona in questione2. Le reazioni a questi segnali divengono sempre più specifiche nel corso delle otto settimane che seguono. Lo sviluppo della percezione di questi segnali, nel corso dei primi sei mesi, è stato esaminato dettagliatamente da Ripin e Hetzer (38) e da Frankl e Rubinov nei loro studi sulla percezione dell’oggetto nelle situazioni di “nutrizione” (12). Fin dall’inizio del secondo mese di vita, il lattante riconosce il segnale di nutrizione solo quando ha fame. Vale a dire che non riconosce il latte in se stesso, né il biberon, né il seno. Per così dire egli riconosce il capezzolo quando lo riceve in bocca, poiché in generale comincia a succhiare solo allora. Anche questa percezione elementare è soggetta ad alcune variazioni, perché se il lattante è occupato altrimenti, ad esempio se sta piangendo perché è stato deluso nelle sue aspettative, non reagisce al capezzolo introdotto nella sua bocca (fig. 3).
Fig. 2 – Reazione del neonato messo in posizione orizzontale.
Ma verso la fine del secondo mese, la persona umana assume un ruolo del tutto singolare fra le “cose” che attorniano il lattante. È in questo momento infatti che il lattante percepisce visivamente la persona che si avvicina. Se all’ora della poppata un adulto si avvicina al bambino che piange di fame, lo si vedrà quietarsi, aprire la bocca e muovere le labbra. Questa risposta è riservata alla percezione del nutrimento. Infatti si produce solo quando il lattante attende il nutrimento, cioè quando ha fame. In altri termini, a quest’epoca risponde ad uno stimolo esterno solo in funzione di una percezione interocettiva, in funzione della percezione di una pulsione non soddisfatta. Due o tre settimane più tardi si osserverà un progresso; quando percepisce un viso umano, il bambino lo segue in tutti i suoi movimenti, con concentrazione. A quest’epoca il bambino segue in tale maniera solo questo oggetto (fig. 4).
Fig. 3 – Il lattante che piange per la fame non percepisce il capezzolo introdotto nella sua bocca.
Gesell ritiene che questo fenomeno sia dovuto al fatto che il viso umano si presenta al bambino in innumerevoli situazioni in cui egli viene alleviato da un bisogno, da un dispiacere oppure gli viene arrecata una soddisfazione (32, →). Nelle nostre osservazioni abbiamo constatato che il bambino allattato al seno fissa invariabilmente il viso della madre per tutta la poppata, senza distogliere mai lo sguardo, finché si addormenta al seno. Questo fenomeno non è né così costante, né così evidente quando il bambino viene allattato al poppatoio (fig. 5).
Naturalmente l’allattamento non è la sola funzione, durante la quale il bambino può fissare il suo sguardo sul viso della madre. Generalmente, pur senza rendersene conto, non si fa niente al bambino (sollevarlo, lavarlo, cambiargli i panni, ecc.) senza presentargli contemporaneamente il viso di fronte, fissandolo con gli occhi, muovendo la testa e per lo più parlando al lattante. Durante i primi mesi di vita, il viso è lo stimolo visivo che più frequentemente viene offerto al bambino. Questo stimolo sarà il primo a costituire un segnale nella memoria del bambino, nel corso delle prime sei settimane, e il bambino seguirà con gli occhi ogni movimento di questo segnale.
Fig. 4 – Il bambino di due mesi segue con gli occhi il viso dell’adulto.
Fig. 5 – Durante l’allattamento il bambino non distoglie gli occhi dal viso della madre.
2. LO STADIO DELL’OGGETTO PRECURSORE
L’interesse esclusivo che il lattante manifesta nel secondo mese per il viso umano, preferito ad ogni altro oggetto che lo circonda, si cristallizzerà al terzo mese in una reazione di forma particolare e specifica. La maturazione corporea e lo sviluppo psichico sono progrediti sufficientemente per permettere al lattante di attivare i suoi mezzi fisici al servizio delle sue esperienze, in forma di risposte psichiche. Risponderà così prontamente col sorriso al viso dell’adulto, al quale aveva già assegnato in precedenza un interesse speciale, un posto privilegiato nella globalità del suo ambiente. Si tratta, per così dire, della prima manifestazione attiva diretta ed intenzionale, il primo debole segno del passaggio dalla passività completa ad un comportamento attivo, che va progressivamente aumentando.
Fig. 6 – Reazione al viso sorridente.
Il lattante reagisce col sorriso al viso umano a condizione che l’adulto gli presenti il viso di fronte, in modo che gli occhi siano ben visibili; inoltre il viso deve essere in movimento. Poco importa che il movimento sia costituito da un sorriso, da un accennare della testa o altro ancora. In questo periodo nessun altro oggetto, il nutrimento incluso, provoca questa risposta. Se a quest’epoca si presenta il poppatoio pieno di latte al lattante allevato artificialmente, si noterà spesso un cambiamento nel suo comportamento. I bambini in un periodo più avanzato del loro sviluppo smettono di agitarsi; a volte fanno con la bocca dei movimenti di suzione, altre volte tentano di portare le braccia al poppatoio. Non si osserva mai il sorriso. Bambini meno sviluppati non modificheranno minimamente il loro comportamento,
tuttavia alla stessa epoca questi bambini rispondono con un sorriso al sorriso dell’adulto (fig. 7). Ho descritto questa reazione in una monografia, pubblicata sotto il titolo The Smiling Response (La risposta del sorriso) (64). In questa ricerca ho esaminato 147 bambini dalla nascita fino ad un anno. Sono giunto alla conclusione che non è giustificato affermare che la percezione del volto umano e la risposta del sorriso a questo, al terzo mese, siano una vera relazione oggettuale. Questo perché ho potuto stabilire che ciò che il bambino percepisce non è un partner, né una persona, né un oggetto ma solamente un segnale. È vero che questo segnale è costituito dal viso umano, ma le mie esperienze dimostrano che il segnale non è costituito dalla totalità del viso, si tratta piuttosto di una Gestalt privilegiata. Questa Gestalt privilegiata è costituita dall’insieme: fronte, occhi e naso, il tutto in movimento. In effetti questa risposta non è limitata ad “un” individuo, ad esempio la madre. A quest’epoca gli individui ai quali il bambino risponde col sorriso sono intercambiabili. Non solo la madre, ma chiunque altro può provocare il sorriso, se sono rispettate le condizioni prescritte per la realizzazione della Gestalt privilegiata. Per queste ragioni chiamo questa configurazione Gestalt-segnale.
Fig. 7 – Reazione al viso di profilo.
È possibile fare un’esperienza assai semplice per convincersi che si tratta di una Gestalt segnale, che fa parte del viso umano. Si stabilisce un rapporto col lattante presentandogli il viso sorridente e con movimenti della testa dall’alto al basso, cosa che provoca nel bambino la risposta del sorriso. Se a
questo punto si volge lentamente il viso di profilo, continuando a sorridere e a muovere il capo immediatamente il bambino cessa di sorridere. Assume in generale un’espressione di estraneità; i bambini più sviluppati qualche volta cercano il secondo occhio nella regione auricolare; i bambini più sensibili sembrano subire uno choc. Di fronte a questa reazione ci si rende conto pienamente che il viso umano di profilo non è riconosciuto dal bambino, vale a dire che questi non riconosce veramente il suo partner, ma solo la Gestalt fronte-occhi-naso. Se questa Gestalt viene modificata, il cosiddetto oggetto non è più riconosciuto, perde cioè la sua qualità oggettuale (figg. 7, 8 e 9).
Fig. 8 – Reazione alla maschera “di faccia”.
Per queste ragioni abbiamo chiamato questa Gestalt oggetto precursore. Infatti il bambino non riconosce nella Gestalt-segnale le qualità essenziali dell’oggetto (cioè quelle qualità grazie alle quali l’oggetto soddisfa i bisogni e protegge); si tratta invece di attributi non sostanziali. È proprio questo che distingue l’oggetto libidico dalle “cose”: l’oggetto libidico è caratterizzato da qualità essenziali, ancorate alla sua genesi. Queste qualità restano immutabili attraverso tutte le vicissitudini, che trasformano gli attributi esteriori dell’oggetto libidico. Al contrario le “cose” sono caratterizzate dai loro attributi, e tutte le variazioni di questi attributi ostacoleranno il riconoscimento della “cosa”. La Gestalt-segnale costituisce quindi un attributo che compete più alle “cose” che all’oggetto libidico, quindi un attributo effimero. Tuttavia, il fatto che questo segnale è stato elaborato grazie alla genesi delle relazioni oggettuali, gli conferisce una
qualità che trascende la “cosa” assicurandogli un posto nella genealogia dell’oggetto libidico, che si sviluppa.
Fig. 9 – Reazione alla maschera “di profilo”.
Si può eseguire questa esperienza in modo più marcato, presentando al bambino una maschera di cartone. Ho eseguito una serie di film in cui si dimostra che in quest’epoca il bambino sorride sia alla maschera, sia al viso umano, e che cessa di sorridere di nuovo quando si mostra la maschera di profilo. Si tratta quindi di un segnale. Ma questo segnale appartiene e deriva dal viso della madre; è legato alla nutrizione, al senso di sicurezza; più tardi si svilupperà e costituirà un vero oggetto, la madre nella sua totalità. Per questo ho chiamato questa risposta, limitata ad una parte del viso umano, una relazione pre-oggettuale ed oggetto precursore il segnale che viene riconosciuto.
3. L’OGGETTO PRECURSORE NELLA PERCEZIONE Da quanto abbiamo esposto risulta un dato fondamentale: nel primo anno la madre, partner umano, è l’intermediaria di ogni percezione, di ogni azione, di ogni conoscenza. L’abbiamo dimostrato per quanto concerne la percezione visiva; infatti quando il bambino segue con gli occhi ogni movimento della madre, quando arriva ad isolare, con l’aiuto del viso materno, una Gestalt-segnale, è grazie alla madre che riesce a separare dalle
cose caotiche e senza significato che lo circondano un elemento che diventerà sempre più significativo. Non intendo affermare che l’apparato percettivo non è ancora sviluppato fisicamente. Forse lo è, ma certamente non lo è dal punto di vista psicologico e il bambino non se ne serve ancora. Il processo attraverso cui si isola la Gestalt-segnale fra le cose senza significato è un esempio di questo apprendimento, della transizione dallo stato in cui il bambino percepisce solo affettivamente allo stato in cui percepisce in modo discriminativo. I nostri film dimostrano in modo lampante come il seno della madre, le sue mani, le sue dita offrano al bambino tutti gli stimoli tattili per l’apprendimento della prensione e dell’orientamento tattile; come il suo corpo e i suoi movimenti offrano al bambino le esperienze necessarie per l’equilibrio; non è necessario aggiungere che la sua voce offrirà al bambino gli stimoli uditivi necessari alla formazione del linguaggio. Aggiungiamo fra parentesi che la formazione del linguaggio e la sua comparsa alla fine del primo anno costituiscono un fenomeno complesso. Esso comprende da una parte la scarica energetica, dall’altra la percezione. Il linguaggio è un fenomeno importante che segna il passaggio del bambino da una passività, nella quale la scarica energetica serve a regolare gli stati di tensione secondo il principio del piacere, alla comparsa dell’attività, in cui la scarica di energia può diventare essa stessa motivo di piacere. Con questo progresso l’attività diventa uno dei fattori di sviluppo, nella forma rudimentale dell’attività ludica. La vocalizzazione del bambino, che inizialmente serve come scarica pulsionale, si trasforma a poco a poco in gioco e il bambino ripete i suoni che ha prodotto. Ora il bambino gode della scarica motoria quando riproduce i suoni che ha percepito. È un’esperienza nuova; ripetendo, il bambino fa eco a se stesso. È la prima imitazione acustica. Qualche mese più tardi il bambino assumerà lo stesso comportamento per i suoni che udrà dalla madre. Si può osservare qui in dettaglio la transizione dallo stato narcisistico, durante il quale il bambino prende se stesso per oggetto, allo stadio oggettuale. Infatti quando il bambino fa eco ai suoni e alle parole emesse dalla madre, ha sostituito all’oggetto autistico della propria persona, la persona della madre, oggetto del mondo esterno. Questa successione costituisce la base anche degli altri aspetti delle relazioni oggettuali nascenti. Infatti la ripetizione dei suoni emessi dal bambino e, più tardi, di
quelli emessi dalla madre, si trasformerà impercettibilmente in una serie di segnali semantici.
4. L’ASPETTO AFFETTIVO NELLA RELAZIONE MADRE-BAMBINO Raramente ci si rende conto della grande importanza della madre nei processi di apprendimento e di presa di coscienza del bambino. Ancor più raramente ci si rende conto dell’importanza primordiale che in questo processo hanno i sentimenti della madre, cioè quello che noi chiamiamo atteggiamento affettivo. La tenerezza della madre le permette di offrire al bambino una ricca gamma di esperienze vitali; il suo atteggiamento affettivo determina la qualità delle esperienze stesse. Ognuno di noi percepisce affettivamente e reagisce alle manifestazioni affettive. Questo vale ancor più per il bambino, il quale percepisce affettivamente in modo assai più pronunciato dell’adulto. Nei primi tre mesi le esperienze del bambino sono esclusivamente di ordine affettivo; il sensorio, la capacità di discriminazione, l’apparato percettivo non sono ancora sviluppati dal punto di vista psicologico e forse neppure dal punto di vista fisico. Quindi è l’atteggiamento affettivo della madre che serve da orientamento per il lattante. Naturalmente le differenze individuali fra le madri sono infinite. La gamma dei sentimenti, delle risposte e dei comportamenti affettivi è assai varia in ogni madre. A sua volta questa gamma di cui ogni madre dispone sarà influenzata dalle attitudini e dalla personalità del bambino in un processo circolare. Il bambino è nato col suo patrimonio congenito individuale e questo esercita influssi diversi sui sentimenti della madre. A seconda della personalità di questa, le differenze saranno assai varie a seconda che il bambino sia precoce o tardivo, facile o difficile, gentile o capriccioso. Possiamo anticipare qui un esempio di una di queste relazioni: la cronologia che abbiamo descritto è approssimativa e grossolana. Abbiamo detto che il bambino risponde al sorriso nel terzo mese, ma questo non è esatto. Si tratta infatti di un valore medio. Le risposte del sorriso registrate nei nostri film cominciano già al 26° giorno, in un bambino particolarmente precoce. D’altra parte si può avere con facilità un ritardo. A volte il bambino può rispondere col sorriso solo a 6 mesi. Si può immaginare facilmente quale importanza abbiano queste variazioni per le reazioni della
madre. Inoltre ci si deve rendere conto che il sorriso è solo una delle manifestazioni, ed anche una di media entità, fra le numerose relazioni che si stabiliscono fra madre e figlio. Si può obiettare che la madre non è l’unico essere umano che attornia il bambino, che esistono anche il padre, i fratelli, le sorelle i quali logicamente hanno la loro importanza. Inoltre anche l’ambiente culturale ha il suo valore, anche nel primo anno. Questo è un dato innegabile; tuttavia nella nostra civiltà occidentale tutti questi influssi raggiungono il bambino tramite la madre o il suo sostituto. Per questo motivo ho polarizzato il mio interesse sul problema dei rapporti madre-bambino. Questo rapporto è il fattore variabile nella vita del bambino, durante i primi tre mesi. In effetti questo fattore, particolare dal punto di vista psicologico, è quello che meglio si presta all’influsso dell’azione profilattica e terapeutica nella prima infanzia, e merita quindi non solo la nostra attenzione, ma anche uno studio assiduo. Nel rapporto madre-bambino, la madre rappresenta il fattore ambientale o, se si preferisce, si può dire che la madre rappresenta l’ambiente. Contrapposto a questo fattore sta il corredo congenito del bambino, che a questo punto è costituito soprattutto dal problema della maturazione e dell’Anlage [disposizione]. Non è possibile trascurare l’importanza dello sviluppo nervoso nei primi mesi, anzi nei primi anni di vita. Questo sviluppo rende possibile azioni e comportamenti, che in caso contrario non sarebbero assolutamente possibili. Ci sono funzioni che hanno una maturazione fisiologica, indipendente solo fino ad un certo punto dall’azione ambientale. Esistono nel processo evolutivo certe serie e progressioni che sono congenite. È inutile dilungarsi su questo problema. I due fattori interagenti sono quindi la madre, con la sua individualità già formata, ed il bambino con un’individualità in via di formazione. I due elementi madre e bambino non vivono in vacuum, ma in un ambiente economico-sociale, nel quale i membri della famiglia sono i fattori determinanti primari, mentre il gruppo, la cultura, la nazione, l’epoca storica e la tradizione sono fattori a più ampio raggio. Esamineremo più avanti i due fattori che, secondo l’espressione di Margaret Mahler (47) costituiscono la simbiosi madre-bambino.
5. IL VALORE TEORICO DELLA FORMAZIONE DELL’OGGETTO PRECURSORE
Ricapitoliamo brevemente il significato e le conseguenze dello sviluppo del primo precursore dell’oggetto, così come l’ho descritto. Si possono distinguere i seguenti aspetti: 1. Questa tappa segna il momento in cui il bambino si distoglie da quello che ho chiamato la recezione interiore dell’esperienza, per giungere alla percezione esteriore degli stimoli provenienti dall’ambiente. 2. Questo stadio dello sviluppo presuppone l’esistenza di tracce mnestiche coscienti nello psichismo del bambino. 3. Nello stesso tempo ciò presuppone una divisione tra conscio e preconscio, pur essendo entrambi i termini separati dall’inconscio. 4. L’instaurarsi di tracce mnestiche e la divisione fra conscio, preconscio ed inconscio rende possibile l’inizio del pensiero3. 5. Con l’inizio del pensiero emerge anche la funzione del principio di realtà, che è una funzione di aggiramento. 6. Se definiamo l’Io come un organo di regolamentazione centrale, tutto questo significa che al terzo mese compare un Io rudimentale. È questa organizzazione centrale che permette al bambino di coordinare le sue azioni intenzionali, che permetteranno da una parte la difesa, dall’altra il dominio. Nello stesso tempo possiamo qualificare questa parte dell’Io con i termini di Hartmann (33), come la sfera dell’Io libera da conflitti. (Nella teoria psicoanalitica l’Io viene considerato un ente dello psichismo con un’organizzazione distinta che consiste in una varietà di sistemi e apparati). 7. Con ciò, la soglia elevata a difesa degli stimoli non è più necessaria. Le energie derivate dagli stimoli che arrivano sono subito frazionate. Esse vengono ripartite fra i vari sistemi di tracce mnestiche, messe in riserva o scaricate sotto forma di azioni e non più sotto forma di eccitamento diffuso. 8. La capacità di azioni dirette porta il bambino allo sviluppo progressivo e rapido dei diversi sistemi dell’Io; inizialmente nel settore dell’Io fisico, più tardi in altri settori. L’azione stessa diventa non solo la canalizzazione delle energie libidiche e aggressive, ma lo strumento di sviluppo della psiche. Non si può negare che la funzione dell’attività, dell’azione, non è stata sufficientemente presa in considerazione nel problema dello sviluppo nel primo anno di età. Noi parliamo spesso di aggressione: tuttavia dobbiamo con questo intendere che la componente aggressiva che si manifesta nell’azione crea delle costellazioni attive, le quali stabiliscono sistemi diversi nell’Io.
9. Se si considerano questi fenomeni nel loro insieme dal punto di vista del comportamento, è evidente che questo rappresenta implicitamente la transizione del neonato dalla passività all’attività intenzionale. 10. Questo fenomeno rappresenta l’inizio delle relazioni sociali nella persona umana, e formerà il presupposto e il prototipo di tutte le ulteriori relazioni sociali. Abbiamo così enumerato dieci aspetti di un fenomeno globale, che può essere considerato come il punto di transizione dallo stadio narcisistico a quello della libido oggettuale. Ora prendiamo come nostro punto di partenza la convergenza di questi dieci aspetti del fenomeno globale cercando di svilupparne alcuni nelle pagine seguenti. Vogliamo ricordare nuovamente che la struttura psichica è ancora rudimentale e che l’Io esiste solo come germe.
1. Vedi il nostro articolo «The Primal Cavity» (1956), Psycho-analytic Study of the Child, vol. X, 1955, 215-240. 2. Secondo le osservazioni di Margaret Mead (49, →) sui Balinesi, i bambini balinesi vengono allattati in posizione verticale. È da attendersi che le reazioni dei bambini balinesi siano l’opposto di quelle dei bambini occidentali. 3. Freud ha definito il pensiero, nel suo articolo Precisazioni sui due principi dell’accadere psichico (29), nel modo seguente: il pensiero è un’azione di prova che ha luogo mediante l’investimento di tracce mnestiche da parte di quanta minimali di energia e mediante la rimozione di questo investimento lungo queste tracce stesse. Nel Caso clinico dell’uomo dei topi (24, →) si trova una definizione antece dente: «Il pensiero normalmente si realizza con minori spostamenti d’energia, se pure probabilmente a un livello più elevato di investimento, di quelli occorrenti per azioni destinate alla scarica e al mutamento del mondo esterno».
CAPITOLO QUARTO La plasticità della psiche infantile
Nei tre mesi successivi lo sviluppo del bambino consiste nell’esplorazione dei campi fino ad ora conquistati. Questa esplorazione ha luogo per mezzo di scambi costanti tra il bambino e l’oggetto libidico. Tuttavia questi scambi ora acquistano un carattere nuovo. Il bambino progredisce dalla passività dei primi tre mesi all’attività, all’azione. Tramite questi scambi d’azione il bambino stabilisce i limiti delle proprie capacità e allarga sempre di più questi confini, entro i quali traduce in azioni la spinta delle sue pulsioni aggressive e libidiche. Occorre ricordare che si tratta molto probabilmente del periodo più plastico dello sviluppo umano; e per molte ragioni è necessario che questo periodo sia di tal fatta. Tratterò fondamentalmente di tre motivi: l’impotenza del lattante; la mutevolezza e perciò la vulnerabilità degli stadi evolutivi nei primi due anni; infine la mancanza di una organizzazione dell’Io solida e stabile.
1. L’IMPOTENZA DEL NEONATO Il motivo principale per cui in questo periodo è necessaria una tale plasticità è stato enunciato in modo inequivocabile da Freud in uno dei suoi primi lavori, Progetto di una psicologia1. Si tratta di un manoscritto pubblicato postumo, ma datato 1895. Parlando dei processi di cessazione della tensione che diventano necessari in risposta agli stimoli provenienti dall’interno, Freud afferma che il lattante non è in grado inizialmente di provocare l’azione specifica dell’ambiente, necessaria alla cessazione della tensione. L’azione dell’ambiente è provocata da fenomeni non specifici di cessazione diffusa della tensione, quali sgambettare, gridare e piangere ecc., tipici del lattante. La frase seguente,
tratta dal manoscritto di Freud, chiarisce tutto un settore del pensiero psicoanalitico: “Diese Abfuhrbahn gewinnt so die hoechst wichtige Sekundaerfunktion der Verstaendigung und die anfaengliche Hilflosigkeit des Menschen ist die Urquelle aller moralischen Motive”. Questa frase si traduce malamente; concetti come Hilflosigkeit [impotenza] sono pressoché intraducibili [nell’edizione italiana delle Opere di Freud, la traduzione è la seguente, ndr]: «Tale via di scarico acquista pertanto la funzione secondaria estremamente importante dell’intendersi, e l’impotenza iniziale degli esseri umani è la fonte originaria di tutte le motivazoni morali». L’editore Ernst Kris segnala come Freud situi la relazione oggettuale nel punto di transizione fra principio di piacere e principio di realtà. Vent’anni più tardi, in Pulsioni e loro destini (25), Freud ritornò a questa formulazione definitivamente. Le nostre esperienze e le nostre osservazioni sui lattanti ci hanno fornito prove convincenti circa la veridicità di queste conclusioni.
2. IL PRIMO ANNO, PERIODO DI TRASFORMAZIONE Il secondo fattore che fa di questo periodo, comprendente il primo e il secondo anno, il periodo più plastico, è quello che ho già definito come stato di transizione dello sviluppo del lattante. Infatti in quest’epoca il bambino si trova in un processo di transizioni continue, di trasformazioni rapide, violente, spesso tempestose. Nel primo anno di vita si può definire propriamente il bambino come un essere in statu nascendi. Sono noti in chimica questi fenomeni transizionali. In analogia ai processi chimici suddetti si può affermare che la portata delle esperienze vissute in questo periodo è assai superiore a quella che le stesse esperienze possono avere in periodi ulteriori, quando l’organizzazione della personalità è più solida e stabile. Questo non significa che nel primo anno di vita il lattante sia un essere estremamente delicato. Non tutti gli stimoli infatti, né tutte le esperienze agiscono su di lui in maniera esagerata. Si tratta soprattutto di qualcosa che è difficilmente comprensibile per l’adulto: e cioè che l’intero sistema dei valori dell’esperienza non ha alcun significato nel primo anno. Avvenimenti che all’adulto possono sembrare catastrofici sono appena percepiti. Se per quindici minuti l’adulto viene privato dell’ossigeno, questo costituisce una
catastrofe, spesso mortale; per il lattante invece ciò costituisce un’esperienza normale durante il parto. Tuttavia è un errore concludere che il bambino è protetto da ogni pericolo, che non prova alcun dolore solo perché non può dirci ciò che patisce. Questa opinione ha portato in passato, e porta ancora oggi, ad atti di una crudeltà inconcepibile. Mi è stato riferito recentemente che in alcuni ospedali ci sono dei chirurghi i quali hanno l’abitudine di eseguire la mastoidectomia senza anestesia su lattanti indifesi, i quali avranno così un trauma indelebile. Se avvenimenti che sembrano catastrofici all’adulto sono appena percepiti dal lattante, tuttavia è vero anche l’inverso. Modificazioni dell’ambiente che possono apparire insignificanti all’adulto, possono influenzare profondamente il bambino di un anno, provocando anche conseguenze inattese ed incalcolabili. Basta ricordare le scene avvincenti del film di Robertson A Two-Years-Old goes to Hospital (Un bambino di due anni entra in Ospedale) (55). Nel corso dei nostri studi abbiamo pubblicato una serie di osservazioni su traumi di natura simile a quelli presentati da Robertson, sia mediante articoli sia con film. Si tratta di traumi affettivi, che non costituiscono un pericolo per l’adulto, ma che per il lattante debole ed indifeso rappresentano un danno mortale, specie se si trova in uno stadio di transizione importante. Ho sottolineato in precedenza che il lattante si trova in uno stadio di continua transizione o, per meglio dire, che i primi anni di vita devono essere considerati un periodo di evoluzione.
3. IL PRIMO “ORGANIZZATORE” E LE CONSEGUENZE DELLA SUA COMPARSA In questo periodo evolutivo ci sono delle epoche specifiche, durante le quali ha luogo un cambiamento di direzione, una riorganizzazione completa della struttura psichica, un nuovo sviluppo. Si tratta di periodi particolarmente vulnerabili, nei quali un trauma ha conseguenze specifiche e gravi. L’importanza di tali stadi evolutivi nel primo anno di vita mi ha ispirato il termine “organizzatori”, in analogia ai fenomeni embriologici. Infatti in embriologia si chiamano “organizzatori” quelle strutture che si sviluppano ad un certo punto in cui convergono diverse linee di sviluppo. Prima della formazione di questi organizzatori, un tessuto trapiantato in un altro posto si
svilupperà nella stessa maniera dei tessuti che lo circondano, cioè non diversificherà da questi. Ma lo stesso tessuto, trapiantato dopo la comparsa degli organizzatori, si svilupperà esattamente come si sarebbe sviluppato nel posto primitivo. Già venticinque anni fa ho elaborato questo concetto per quanto riguarda la psiche del lattante. Ho seguito successivamente per numerosi anni molti bambini e, poiché tutto contribuiva ad avvalorare la mia opinione, sono riuscito a precisarlo e ad ampliarlo. Da allora l’esistenza di periodi critici nello sviluppo del lattante è stata confermata, oltre che dalle mie ricerche, da quelle di Scott (1950) sugli animali. Dalle mie osservazioni risulta che in questi periodi critici avviene una integrazione delle correnti evolutive operanti nei differenti settori della personalità, fra loro e coi processi di maturazione. Questa integrazione porta alla formazione di una struttura psichica nuova, di complessità più elevata. Evidentemente questa integrazione rappresenta un processo delicato e vulnerabile; il risultato dell’integrazione completa costituisce quello che definisco “organizzatore”. Abbiamo descritto uno di questi organizzatori nel capitolo precedente: la risposta sociale del sorriso alla fine del terzo mese di vita costituisce un indizio dell’avvenuta integrazione. Sottolineiamo che il sorriso sociale in sé rappresenta solo il sintomo visibile della convergenza di diverse correnti di sviluppo nella psiche, correnti che da questo punto in avanti sono legate ed organizzate fra loro. Ricordiamo alcune di queste correnti, in riferimento al sorriso sociale: il bambino si distoglie dalla sensazione interiore volgendosi alla percezione esterna; si instaurano preconscio ed inconscio, differenziati l’uno dall’altro. Si stabilisce il primo Io rudimentale; il principio di realtà comincia ad essere applicato dal bambino. Tutto questo segna una nuova era nell’ambiente del bambino, e a partire da questo momento comincia un nuovo modo di essere, fondamentalmente diverso dal precedente. Riscontreremo un fenomeno simile nella seconda metà del primo anno; e di questo parleremo nei capitoli seguenti. L’importanza capitale dei punti organizzatori nello sviluppo del bambino consiste nel fatto che se questi riesce a consolidarli può sviluppare i suoi sistemi personali in modo normale. In caso contrario rimane nel sistema diffuso, indifferenziato che precede la formazione degli organizzatori; si produrranno così necessariamente delle deviazioni e dei difetti evolutivi. Questa possibilità di
deviazioni è una caratteristica assai pronunciata della psiche infantile, e contribuisce notevolmente alla sua plasticità.
4. L’ASSENZA DELL’IO La terza causa della plasticità della personalità del bambino nel primo anno di vita è l’assenza di una struttura psichica stabile e differenziata. La dottrina psicoanalitica ci insegna che l’organizzazione psichica che serve per gli scambi col mondo esterno è l’Io. È l’Io infatti che si avvale dei suoi numerosi sistemi per le funzioni di dominio e di difesa: vale a dire per scaricare le tensioni inutili e nocive, per difendersi dagli stimoli che l’Io desidera evitare, per incorporare quelli che l’Io considera utili, per l’adattamento o l’annullamento degli stimoli e per infinite altre forme di scambio col mondo esterno. Tuttavia il neonato non possiede alcun Io; può difendersi dagli stimoli solo in virtù della barriera protettiva costituita dalla elevata soglia di percezione. Quando gli stimoli sono sufficientemente violenti possono frantumare questa barriera e modificare la personalità del bambino. Più tardi, quando la soglia percettiva comincia ad abbassarsi, gli stimoli che arrivano modificheranno la personalità rudimentale del bambino al punto da costringerla ad organizzarsi, a creare una struttura, formando un Io, con lo scopo specifico di dirigere il trattamento degli stimoli provenienti sia dall’interno che dall’esterno. Però, l’Io non nasce già costituito in tutta la sua pienezza. Lo sviluppo della sua efficienza, delle sue riserve, della sua resistenza si attua in maniera lenta e progressiva per mesi ed anni. Questo sviluppo si attuerà in relazione al modo con cui gli stimoli ricevuti e le esperienze che urtano la personalità ancora plastica del bambino, verranno utilizzate per modificare la personalità stessa. Sono modificazioni che solo ora cominciano ad esserci in qualche modo familiari. Le immagini evocate potranno far credere che il bambino nel primo anno di vita è esposto ad una serie brutale di modificazioni violente della sua personalità. Non c’è niente di vero in tutto questo; la realtà è diametralmente opposta. Tuttavia non è facile esporre come la personalità del bambino si formi, si modelli, si modifichi, senza superare i limiti di questo saggio e senza entrare in minuziosi dettagli di psicologia sperimentale, e mettere questi in rapporto con i concetti psicoanalitici.
1. Sigmund Freud, «Aus denAnfängen der Psychoanalyse», Imago PublishingCo., Ltd., London, 1950, pag. 402 (tr. it. Progetto di una psicologia, in Opere, Boringhieri, Torino, 1968, p. 223)
CAPITOLO QUINTO Le forze formative nel rapporto madre-bambino
Nelle pagine precedenti abbiamo cercato di affrontare, sotto diversi punti di vista, il nostro soggetto, cioè il lattante, che rappresenta, per così dire, la materia plastica. Ci siamo resi conto che i diversi aspetti non possono essere separati gli uni dagli altri. Non solo sono interdipendenti, ma formano un’unità globale. Mettendoli in luce uno dopo l’altro non facciamo altro che esaminare quest’unità da punti di vista differenti: dal punto di vista dell’efficienza, quando parliamo di debolezza; dal punto di vista della maturazione, quando parliamo di transizione progressiva; dal punto di vista strutturale, quando parliamo di Io. L’unità lattante comprende ancora molto di più; in primo luogo le disposizioni congenite, regolate da processi dinamici, ai quali abbiamo accennato considerando l’aspetto affettivo. Da questi processi l’unità “lattante” trae vita ed iniziativa. Questa totalità attiva, vivente, reagente e in evoluzione, forma l’oggetto delle forze formative che provengono dall’ambiente (più semplicemente dalla madre). Nelle pagine seguenti vogliamo prendere in considerazione il gioco di queste forze formative con l’unità “lattante”, con particolare riferimento alle risposte e alle azioni provocate dalla madre. Non occorre rilevare che non si tratta di una “provocazione” nel senso comune del termine. La sola presenza, l’esistenza della madre è uno stimolo per il bambino. Le sue azioni più insignificanti, anche se hanno un oggetto diverso dal lattante stesso, agiscono da stimolo. Nel rapporto oggettuale le azioni della madre, che provocano reazioni nel bambino, sono quelle più grossolane e più manifeste. Parleremo più avanti delle azioni più fini. Affermiamo per il momento che lo sviluppo dei diversi settori della personalità del bambino è reso possibile dalle soddisfazioni che egli sperimenta nel tradurre in azioni le sue pulsioni. Azioni che gli riescono e
gli procurano piacere le ripete ed impara a dominarle. Le azioni che portano invariabilmente ad insuccesso vengono abbandonate. Questo tipo di apprendimento è analogo al trial and error (prova ed errore), e la madre provocherà quelle azioni che le fanno piacere. Dirigerà quindi il bambino secondo le sue preferenze. Se il suo atteggiamento è materno e amorevole tutte le attività del bambino le saranno gradite. Essa faciliterà numerose e diverse azioni del bambino con proprie azioni da una parte, coi suoi atteggiamenti dall’altra, siano essi consci o inconsci. Io affermerei che gli atteggiamenti inconsci della madre sono quelli che facilitano maggiormente le azioni del bambino; si tratta dei suoi desideri, dei suoi timori, delle sue risposte inconsce, dei suoi blocchi affettivi. Ho raccolto una decina di esempi nel film intitolato Shaping the Personality (La formazione della personalità) (71). Si tratta di esempi grossolani, ma ben convincenti. Sono necessariamente casi estremi, perché altrimenti non si presterebbero alla documentazione cinematografica. Tuttavia danno la sensazione degli elementi intangibili contenuti nel rapporto madre-bambino e del modo in cui questi influssi plasmano e dirigono la personalità del bambino. Vogliamo ora esplorare questi elementi non immediatamente comprensibili e le loro forme. Per semplificare la nostra terminologia, designerò questo processo col termine “modellamento”. Secondo la mia opinione non si tratta di un processo unilaterale, ma di una serie di interazioni in un contesto sociale. Questo contesto è costituito dalla coppia madre-bambino, da una “massa a due” come l’ha chiamata Freud (19), da una “diade” come preferisco chiamarla io, adottando il termine coniato dal filosofo e sociologo tedesco Georg Simmel (59). La molteplicità dei termini che si è cercato di applicare a questa coppia dimostra che si tratta di un rapporto del tutto particolare, fino a un certo punto isolato dall’ambiente, e intessuto di legami particolarmente potenti. Si tratta di legami affettivi, e se si è definito l’amore un egoismo a due ciò è cento volte vero per la coppia madre-bambino. Tuttavia, ciò che si svolge all’interno di questa coppia rimane pressoché misterioso. Si comprende bene come l’intuito materno, completato dall’intelligenza e dall’esperienza dell’adulto, giunga a conoscere i bisogni del bambino, anche quando questi sono oscuri. Ricordo ciò che Freud ha descritto col termine “sonno della balia” (17, pag. 527): le madri il cui
sonno non è disturbato dai rumori della strada, ma che si svegliano al minimo rumore prodotto dal bambino. Ma come descrivere, come spiegare il modo con cui il bambino percepisce gli atteggiamenti, i desideri consci ed inconsci della madre? Infatti perché sia possibile un processo di modellamento, affinché il bambino possa conformarsi ai desideri della madre è necessario che li percepisca. Deve dunque esistere un tipo di comunicazione fra madre e bambino, come era già stato indicato da Freud nel 1895, nel passo che ho precedentemente citato (30).
1. LA COMUNICAZIONE NELLA COPPIA MADRE-BAMBINO Il problema della comunicazione1 fra il lattante e la madre nello stadio preverbale ha un’importanza notevolissima. È importante sia sul piano teorico, sia sul piano terapeutico e profilattico. Nel passato ci si è occupati assai poco di questo problema, da un punto di vista scientifico. Gli psicologi e gli psicoanalisti che se ne sono occupati hanno formulato spesso delle ipotesi assurde, parlando ora di telepatia ora di percezione extrasensoriale (7, 51, 52, 53). Non sono competente in materia di percezione extrasensoriale; mi limito ai dati sperimentali e affermo come Newton: Hypotheses non fingo (non invento ipotesi). Ho esaminato quindi il problema della comunicazione fra madre e bambino da un punto di vista strettamente sperimentale. Mi rendo conto che queste osservazioni dovranno moltiplicarsi in futuro; ritengo possibile la necessità di organizzare le prossime ricerche in materia entro gli schemi elaborati dalla teoria della comunicazione e dell’informazione. Negli ultimi tempi, questo tema ha interessato molti studiosi appartenenti per la massima parte alla scuola di cibernetica. Si tratta di matematici e di fisici; ma recentemente anche neurologi e psichiatri si sono interessati a questo problema. Evidentemente l’instaurarsi di rapporti oggettuali rientra nello stesso ambito dell’instaurarsi di un sistema di comunicazioni fra madre e bambino. Per ora, per poter cogliere i mezzi di comunicazione fra madre e bambino nel loro stadio iniziale, abbiamo esaminato fenomeni analoghi offertici dalle specie più primitive. Gli animali dispongono di mezzi di comunicazione che variano col variare della specie. Karl von Frisch (31) ha dimostrato che le
api comunicano fra loro per mezzo della “danza”. Gli studiosi del comportamento, quali Konrad Lorenz (46) e Niko Tinbergen (72) hanno dimostrato che i pesci, gli uccelli e certi mammiferi comunicano per mezzo di determinati comportamenti. Questi comportamenti sono costituiti da atteggiamenti posturali, da configurazioni aventi la caratteristica di una Gestalt, e da vocalizzazioni. Questi comportamenti non sono manifestati dal soggetto al fine di comunicare qualcosa ad un altro individuo. Si tratta di azioni espressive, come li ha chiamati Karl Bühler (9). Essi esprimono ciò che ho definito, in mancanza di un termine migliore, stati d’animo, attitudini affettive corrispondenti all’esperienza immediata del soggetto. È una risposta – non direzionata – ad uno stimolo percepito dal soggetto. Se un secondo soggetto reagisce a questi comportamenti come se si trattasse di una comunicazione a lui diretta, ciò è dovuto al fatto che questi reagisce a sua volta ad una percezione stimolante. Questo stimolo evoca in lui un comportamento che può essere la contropartita, la copia o il completamento dello stimolo percepito. Nello sviluppo del linguaggio umano, questo tipo di comunicazione primitiva rappresenta la parte filogenetica che ognuno di noi possiede alla nascita sotto forma di Anlage. Su questa parte filogenetica si innesterà lo sviluppo ontogenetico, puramente umano, che consiste nella comunicazione direzionata e trasmessa con l’aiuto dei segni semantici e di segnali. Il suo massimo sviluppo si realizzerà nella funzione simbolica. Il sistema di comunicazione fra madre e bambino che si instaura nei primi tre mesi di vita, prima dello sviluppo del rapporto oggettuale, è basato su questi Anlage filogenetiche, ora descritte. Discutendo delle forme filogenetiche di comunicazione abbiamo sottolineato che esse hanno carattere espressivo, cioè derivano da stati affettivi e non sono direzionate. Inoltre si servono di un “linguaggio del corpo” (27, 41, →). Iniziamo considerando l’aspetto espressivo, affettivo e non direzionato di questo sistema di comunicazione. Se ammettiamo delle forze che modellano la personalità plastica del bambino, a questo sistema di comunicazione spetterà il compito di trasmetterle. Queste comunicazioni avranno luogo in seno alla diade da noi descritta, e stabiliranno nella diade stessa un processo circolare di risonanza. Si comprende bene che questo tipo di comunicazione è assai differente dalla comunicazione che si instaura fra adulti. Nei capitoli seguenti esamineremo come possa attuarsi. Tuttavia
vogliamo definire ora gli elementi principali che permettono la trasmissione di una comunicazione. Questi elementi sono: il segno, il segnale, il simbolo. Il segno è una percezione associata empiricamente all’esperienza di un oggetto o di una situazione, suscettibile a sostituirsi all’esperienza dell’oggetto o della situazione stessa. Il segnale è una percezione associata artificialmente ad un oggetto o ad una situazione. Il simbolo è un segno che ha il compito di rappresentare un oggetto, un atto, una situazione, una nozione, e di sostituirli all’occasione. Nella teoria della comunicazione questo termine è riservato alle operazioni mentali che fanno uso delle funzioni astratte, quindi non avremo occasione di servircene nelle pagine seguenti. La particolare comunicazione che ha luogo fra la madre e il bambino, si contraddistingue dalle comunicazioni fra adulti, siano due o più persone, per la disparità dei due membri. Mentre le comunicazioni emesse dal bambino non sono che segni, quelle emesse dall’adulto sono segnali, e vengono percepite dal bambino in quanto segnali. Possiamo semplificare la nostra definizione dei due termini precisando: il segno è il termine generale, mentre il segnale è l’uso specifico di un segno; esso rappresenta un’associazione utile, sia accidentale sia artificiale, fra un segno ed un avvenimento.
2. IL RUOLO DELLA PERCEZIONE Parlando di un sistema di comunicazioni, è necessario porre come ipotesi iniziale che queste comunicazioni siano percepite. Tuttavia abbiamo affermato precedentemente che la percezione, nel vero significato del termine, manca inizialmente al bambino e viene acquistata progressivamente nel corso del primo anno di vita, a partire dal terzo mese. Particolarmente nei primi sei mesi, e anche più avanti, il sistema percettivo, il sensorio, è in uno stato di transizione graduale da quella che ho chiamato con Wallon recezione cenestesica (62, 73). Il sistema percettivo si differenzia più tardi in una percezione diacritica che si sovrappone alla recezione cenestesica. La recezione cenestesica, nella quale il sensorio ha una parte minima, si realizza al livello delle sensibilità profonde, in maniera globale. Le risposte provocate da questa recezione sono anch’esse risposte globali, come le risposte viscerali. Per questo ho
introdotto il termine somato-psiche per lo psichismo infantile in questo periodo arcaico. Questo tipo di percezione recettiva e le modalità di reazione, corrisponderanno dunque ad una serie di segnali e di stimoli completamente diversi da quelli a cui siamo abituati nel caso dell’adulto. Se si considerano questi segni dal punto di vista della comunicazione, si può dire che non si tratta di una comunicazione verbale, direzionata, ma di una comunicazione espressiva; in altri termini questa comunicazione ha luogo allo stesso livello delle comunicazioni animali. Si pongono ora tre problemi: 1) In quale modo e perché il bambino è in grado di ricevere questi segnali quando non è ancora in grado di ricevere i segnali diacritici? 2) In quale categoria del comportamento umano si trovano questi segnali? 3) Perché l’adulto li ignora? La risposta al primo quesito non è certamente facile. Il livello più elementare di comunicazione acquisito con l’apprendimento, è il riflesso condizionato, per il quale un segno o un segnale evoca una risposta del sistema vegetativo; ed è dimostrato sperimentalmente che il primo riflesso condizionato si stabilisce nel bambino in risposta ad uno stimolo delle sensibilità profonde, cioè cinestesiche: si tratta di uno stimolo proveniente dalle variazioni dell’equilibrio. D’altra parte il fatto stesso che la percezione, il sensorio, non funzionino ancora, rafforza il valore della recezione cenestesica, poiché i segnali cenestesici sono gli unici percepiti. La recezione cenestesica si realizza nel milieu interno. Se questa non funziona alla nascita, il bambino non è capace di vita. Possiamo quindi supporre che le funzioni cenestesiche siano già in avanzato sviluppo fin dalla nascita. Circa il secondo quesito, la risposta è più facile, e lo stesso vale per il terzo. I segni e i segnali che il bambino riceve nei primi mesi di vita appartengono alle categorie seguenti: equilibrio, tensione (muscolare e non), postura, temperatura, vibrazione, contatto, ritmo, tempo, durata, scala tonale, nuance dei toni, suono, e probabilmente molti altri di cui l’adulto si rende appena conto. Tutto questo ci porta al terzo quesito, perché se si considera la lista delle categorie elencate si nota che queste categorie sono state eliminate in misura notevole sia nelle percezioni dell’adulto, sia nelle sue
comunicazioni. Abbiamo sostituito queste categorie percettive del nostro sistema di comunicazione con dei segnali, che appartengono alla categoria semantica o alla categoria diacritica. I compositori, i musicisti, i ballerini, gli equilibristi, gli aviatori e molti altri specialisti sono gli unici ai quali è rimasta la facoltà di servirsi di una o di diverse di queste sensibilità perdute dall’adulto; si tratta in tutti i casi di persone che si differenziano dal tipo occidentale medio. L’uomo medio occidentale (naturalmente anche la donna), non è cosciente in generale dei fenomeni che si realizzano in questo settore del suo corpo; ha distolto la sua attenzione anche dalla percezione di tali fenomeni che si attuano negli altri individui. La percezione e l’uso di tali facoltà sono frequentemente inibite. È quindi estremamente difficile renderci conto del mondo di un essere il cui sistema percettivo è costituito interamente da categorie che ci sono diventate estranee. Tuttavia questo fenomeno può servirci a spiegare molti doni apparentemente soprannaturali, come le divinazioni mistiche dei popoli primitivi, i quali hanno conservato anche nell’età adulta molte di queste sensibilità, oppure vi possono regredire a volontà; e lo stesso succede agli ipnotizzatori, a certi alienati mentali, a certi mistici, ecc. Per il lattante i segnali del clima affettivo materno diventano un tipo di comunicazione al quale il bambino risponde in maniera totale. Queste risposte globali sono percepite dalla madre alla stessa maniera. Ho fatto in precedenza allusione alla sensibilità quasi magica della madre verso il proprio neonato. Non mi pare assurdo che durante la gravidanza e nel periodo successivo la madre ritrovi una capacità di percezione di natura cenestesica, di cui generalmente non dispone. Stupisce che gli psicologi sperimentali non si siano ancora occupati delle differenze che devono esistere fra la percezione cenestesica di una donna che alleva il suo bambino e quella di una che non sia mai stata gravida. Sono convinto che la donna che allatta al seno il suo piccolo, percepisce inconsciamente dei segnali che a noi sfuggono, e soprattutto che reagisce in modo immediato, senza l’intervento di considerazioni coscienti2.
3. GLI AFFETTI, LA PERCEZIONE, LA COMUNICAZIONE Per il lattante i segnali del tono affettivo della madre divengono evidentemente un tipo di comunicazione, alla quale il bambino reagisce con
risposte globali. Questo scambio fra madre e figlio si attua costantemente senza che la madre o l’ambiente se ne avvedano. Questo sistema di comunicazione fra madre e bambino esercita una pressione costante, che modellerà la psiche infantile. Evidentemente è un sistema di comunicazione che, nella maggior parte dei casi, anzi quasi sempre, non apporta stimoli spiacevoli per il lattante. Abbiamo parlato in precedenza di “pressione costante”, ma ci manca un termine per definire in modo più adeguato questo delicato processo. Si tratta di un modellamento impercettibile e intangibile. Alla pressione si unisce all’occorrenza un atteggiamento di ritirata per selezionare fra le funzioni, che stanno affiorando grazie al processo di maturazione, quelle da inibire e quelle da favorire. Anche l’osservatore più abile può rilevare solo le forme più grossolane, così come mi sono sforzato di fare nel mio film Shaping the Personality (71). Vediamo solo la superficie, al di sotto della quale hanno luogo i movimenti affettivi che dirigono lo sviluppo in una direzione o in un’altra, formando la personalità e il carattere del lattante. Non insisterò mai a sufficienza sul fatto che in questo processo evolutivo, come del resto nei fenomeni patologici responsabili della comparsa di nevrosi, si hanno solo eccezionalmente fenomeni traumatici isolati, mentre si tratta sempre di effetti cumulativi di esperienze, stimoli, risposte ripetute all’infinito. Ho parlato frequentemente di questo fenomeno definendolo clima affettivo, riservando al modo in cui si realizza il termine di principio dell’accumulo. Non vogliamo addentrarci a questo punto nella discussione sulla funzione dei fattori affettivi nella sensazione, percezione, pensiero ed azione. La psicologia universitaria evita queste questioni, come anche l’intero problema dell’affettività, parlando di “motivazioni”. La teoria psicoanalitica ha affermato fin dall’inizio che ogni funzione psichica, si tratti di sensazione, di percezione, di pensiero o di azioni, presuppone un investimento libidico, vale a dire un processo affettivo. Il sistema di comunicazione tra la madre e il figlio consiste in scambi affettivi reciproci, in un processo affettivo che si instaura fin dalla nascita. Questi processi e questi scambi affettivi reciproci si distinguono da quelli che siamo abituati a vedere nei nostri ammalati, per il fatto che non sono ancora contaminati da altri fattori, provenienti dalla percezione diacritica e dalla elaborazione secondaria del pensiero. Inoltre gli scambi affettivi fra madre e bambino hanno il vantaggio di rendere accessibile all’osservazione diretta i loro effetti; sono processi affettivi osservabili per così dire in vitro.
Ciò che attira la nostra attenzione è il fatto che i processi affettivi, le interazioni affettive, le percezioni affettive, precedono ogni altra funzione, che si svilupperà più tardi sulla base creata da questi scambi. Secondo le nostre osservazioni, gli stati affettivi conservano questo predominio fino al termine del primo anno di vita. Non osiamo affermare in base alle nostre esperienze che questo predominio si conservi anche oltre, per quanto ciò ci sembri probabile. Gli psicoanalisti non saranno quindi sorpresi nell’apprendere che le relazioni affettive fra la madre e il bambino aprono la via ad ogni altra forma di sviluppo, nel primo anno di vita. La formazione dei precursori dei rapporti oggettuali permette il comparire dei rapporti con le “cose”. Dopo aver riconosciuto il viso umano, occorreranno due mesi perché il bambino riconosca il biberon, questa “cosa” che gli viene presentata più volte al giorno, che manipola giornalmente per lunghi periodi, che associa alla nutrizione. Come per ogni data di comparsa o periodo di durata di un fenomeno, parliamo di valori medi che possono oscillare entro limiti ampi. Assume un’importanza tutta particolare il fatto che fra tutte le relazioni che il lattante stabilisce, la prima è una relazione con un partner umano. Ogni ulteriore progresso sociale si baserà su questo fatto. Inizia così il processo evolutivo che trasformerà il bambino in essere umano, in essere sociale, in zoon politikon. Nella mia opera The Smiling Response (64), ho dimostrato che tutto ciò è reso possibile dalla liberazione delle mani, in seguito alla positura verticale dell’uomo. Questa idea era già stata espressa da Freud in Il disagio della civiltà (22). È l’inizio, specifico per l’uomo, delle relazioni sociali; qui ha inizio lo sviluppo dell’espressione mimica e del suo uso semantico, che porterà in fine allo sviluppo della parola e del linguaggio. Nel linguaggio, i segni semantici sostituiscono la Gestalt-segnale e sostengono le funzioni astratte dell’Io. D’altra parte questo sviluppo determina l’impoverimento progressivo dei segni posturali, per quanto riguarda la loro funzione di comunicazione. L’uomo percepisce appena la postura; l’analista è costretto a esercitarsi per riuscire a osservare e a comprendere sia pure nel modo più grossolano, i segni derivati dagli atteggiamenti posturali dei suoi pazienti, per tradurli in segnali semantici (28, pag. 536). Ma la funzione dello sviluppo affettivo come precursore dello sviluppo percettivo e di altre prestazioni, non si limita al riconoscimento della
Gestalt-segnale del viso materno e a stati affettivi piacevoli. Lo stato affettivo spiacevole sostiene un ruolo egualmente importante. Per questo abbiamo voluto esplorarlo dettagliatamente; come per gli stati affettivi piacevoli, abbiamo potuto dimostrare sperimentalmente che lo sviluppo degli stati affettivi spiacevoli condizionati da un rapporto sociale, precede la percezione di dispiacere condizionato dalle “cose” di almeno due mesi nel primo anno di vita.
1. Che cos’è la comunicazione? Ogni manovra diretta o non, a mezzo della quale una o più persone influenzano la percezione, i sentimenti, le emozioni, il pensiero o le azioni di una o più persone, in modo intenzionale o non. 2. Per una discussione dettagliata di molti fenomeni e di numerose ipotesi che esaminerò nelle pagine seguenti, vedi: R.A. Spitz, «The primalCavity», The Psychoanalytic Study of the Child, 1955, 215-224, e R. A. Spitz, No and Yes. On the Beginnings of Human Communication, International Univ. Press, 1957 (tr. it. Il no e il sì. Saggio sulla genesi della comunicazione, Armando, Roma, 1970).
CAPITOLO SESTO Gli stati affettivi spiacevoli (L’angoscia degli 8 mesi)
Gli stati affettivi piacevoli e le loro manifestazioni si sviluppano nel corso dei primi tre mesi e sono dimostrati dal fenomeno della risposta del sorriso; uno sviluppo parallelo hanno le manifestazioni di dispiacere. Queste diventano sempre più specifiche nel corso dei primi tre mesi; dopo il terzo mese il bambino manifesta il proprio dispiacere quando il partner umano l’abbandona. Ma come a quest’epoca il bambino non sorride a nessun oggetto, ad eccezione del viso umano, similmente nello stesso periodo non manifesta alcun dispiacere quando viene privato di un giocattolo. Solo quando il suo partner umano lo abbandona, allora il bambino comincia a piangere. A 6 mesi la specificità delle risposte di piacere e di dispiacere diviene più marcata e si estende ad un numero maggiore di stimoli. Se ora si allontana un giocattolo, il bambino esprimerà il suo disappunto. Da queste osservazioni risulta che nello sviluppo della percezione gli stati affettivi di dispiacere hanno una parte esattamente comparabile a quella degli stati affettivi di piacere. Queste due categorie di stati affettivi sono necessarie allo sviluppo normale della percezione, del pensiero e dell’azione. Nel corso dello sviluppo successivo la loro funzione si collegherà in modo indissolubile coi diversi processi psichici. Tuttavia, tenere lontano il bambino dagli stati affettivi spiacevoli, durante il primo anno, è altrettanto nocivo come privarlo degli stati affettivi piacevoli. Entrambi cooperano alla formazione della psiche. L’assenza di uno dei due porta inevitabilmente ad uno squilibrio. Questo dimostra l’errore di quegli educatori che raccomandano l’assoluta remissività col bambino. L’importanza delle frustrazioni ai fini dello sviluppo non può essere
sottovalutata, perché è imposta dalla natura stessa. Essa comincia alla nascita, con l’enorme frustrazione dell’asfissia, che impone il viraggio dalla circolazione fetale alla respirazione polmonare; è seguita dalle frustrazioni ripetute e continue della fame e della sete, che costringono il lattante all’attività e, progressivamente, allo sviluppo della percezione; infine c’è il divezzamento che lo costringe a distaccarsi dalla madre; e così di seguito.
Fig. 10 – L’angoscia degli 8 mesi.
Fra il sesto e l’ottavo mese si attua una trasformazione carica di conseguenze. A quest’età la capacità di discriminazione diacritica è ben progredita. Il bambino non reagisce più sorridendo ad ogni individuo che gli offre le condizioni per la risposta del sorriso. Al contrario, il bambino distingue fra amico ed estraneo. Se una persona estranea si avvicina al bambino in modo attivo, si avrà un comportamento assai caratteristico: questo può andare da un semplice, “timido” abbassare gli occhi, fino ad evocare grida e pianto, attraverso tutta una gamma intermedia che, come dimostrano le nostre osservazioni, corrisponde al modo con cui il bambino ha attuato i suoi rapporti oggettuali. Può nascondersi sotto le coperte, gettarsi sul suo letto e nascondere la testa sotto le lenzuola, alzare il vestito davanti alla sua persona, oppure nascondere gli occhi con le mani; questi comportamenti si possono ben osservare nei miei film (Anxiety) (70), dove si può vedere come i bambini rifiutino il contatto, si isolino, abbiano paura. Chiamo questo fenomeno l’angoscia degli 8 mesi, e ritengo che esso rappresenti la prima manifestazione dell’angoscia propriamente detta (68) (fig. 10).
1. L’EVOLUZIONE DEGLI STATI AFFETTIVI NEGATIVI NEL PRIMO ANNO Cosa intendiamo per “angoscia propriamente detta”? Nel primo anno di età distinguo tre stadi nello sviluppo dell’angoscia. Secondo Freud, il prototipo dell’angoscia è la situazione della nascita, il trauma della nascita. Freud descrive esplicitamente questo prototipo in termini fisiologici. Ho osservato e registrato con l’aiuto di film queste manifestazioni alla nascita stessa, seguendole durante le prime due settimane di vita del neonato. Considero queste prime settimane, che si estendono probabilmente fino alla quinta e sesta, come il primo stadio dello sviluppo dell’angoscia; tuttavia non ritengo si tratti di angoscia vera, anzi tutt’altro. Sono le manifestazioni di dispiacere più arcaiche, che ritengo appartengano ancora a stati fisiologici, vale a dire sono reazioni a stati fisiologici di tensione, e sono caratteristiche per il modo diffuso in cui si manifesta il dispiacere del neonato durante il periodo della non-differenziazione. Poco a poco, questo stato di tensione si organizza durante le prime otto settimane. Intendo dire che lo stato di tensione spiacevole comincia a perdere il suo carattere diffuso; esso si manifesta in situazioni spiacevoli sempre più specifiche, diventa riconoscibile non solo dalla madre, ma anche da un osservatore esercitato. Vale a dire si trasforma da manifestazione espressiva di dispiacere in una specie di codice, in una comunicazione. Chi attornia il bambino comincia a comprendere la natura di queste manifestazioni, e cioè se il bambino ha fame, se soffre di dolori addominali o se semplicemente manifesta il desiderio che ci si occupi di lui. La comprensione dell’ambiente per le manifestazioni espressive del bambino aumenta progressivamente. Le risposte dell’ambiente diventano quindi più adeguate ai bisogni manifestati dal bambino. In base alla frequenza delle risposte soddisfacenti che riesce a provocare nell’ambiente, il bambino potrà stabilire un rapporto fra le manifestazioni dei propri bisogni e le risposte conseguenti. Nella psiche infantile si stabilisce di conseguenza, durante il terzo mese, un codice di segnali diretti verso l’ambiente. Invece di rispondere a segnali provenienti dall’interno o dall’esterno con risposte del tipo dei riflessi condizionati, il bambino è già in grado di emettere a volontà dei segnali, di fronte ai quali le risposte dell’ambiente saranno più o meno adeguate. Ciò significa che in questo momento il bambino riesce ad ottenere un effetto con la propria azione: indurre chi lo circonda a sbarazzarlo di qualcosa che lo infastidisce e in seguito offrirgli
qualcosa che egli desidera. È la transizione dallo stadio delle manifestazioni espressive alle manifestazioni di appello (9), primo passo importante nello sviluppo della comunicazione che condurrà ai segnali semantici. Nel corso di queste esperienze, ve ne sono alcune sufficientemente spiacevoli per far piangere il bambino. Nel secondo trimestre di vita presenta una reazione che ho chiamato la reazione di paura. È il secondo stadio dello sviluppo verso l’angoscia vera e propria. Mentre il primo (lo stato di tensione fisiologica) si manifesta in risposta a percezioni di squilibrio interno, la reazione di paura si indirizza ad un oggetto dell’ambiente fisico, persona o cosa, con la quale il bambino ha avuto esperienze spiacevoli; quando quest’oggetto viene nuovamente percepito, il bambino avrà una reazione di fuga. È la fuga davanti ad un pericolo reale, è l’inizio di ciò che Freud ha descritto col termine di angoscia reale. Ma il fenomeno che ho descritto sopra, osservabile tra il sesto e l’ottavo mese, è completamente differente. Con questa reazione di fronte alla persona estranea, coi movimenti diretti ad evitarla, e con la fuga, il bambino non reagisce ad una persona con la quale ha avuto in precedenza un’esperienza spiacevole. I bambini da noi osservati non avevano avuto mai esperienze spiacevoli con persone estranee. Perché quindi manifestano paura, o almeno apprensione? È essenziale per questa esperienza che la madre sia assente. Nei casi in cui la reazione è meno pronunciata, la sua presenza tende ad annullarla. In assenza della madre invece questa reazione si presenta con tutta la sua intensità; essa è in contrasto completo col sorriso beato che chiunque provoca con la sua presenza nel bambino di tre mesi. Ho avanzato l’ipotesi che il bambino reagisca col dispiacere all’assenza della madre. È ciò che abbiamo già osservato discutendo lo sviluppo della reazione di dispiacere, quando il partner adulto lascia il bambino in età dai 3 ai 6 mesi. Ora, fra i 6 e gli 8 mesi, non si tratta più di una persona qualunque, ma è la madre che lo lascia. All’avvicinarsi di un estraneo, il bambino viene deluso nel suo desiderio di rivedere la madre; l’angoscia che manifesta non sarà quindi una reazione al ricordo di una passata esperienza sgradevole con un estraneo, ma una percezione intrapsichica della nonidentità dell’estraneo con l’immagine mnestica della madre assente. Si tratta quindi di una reazione ad una percezione intrapsichica, alla riattivazione di una tensione di desiderio. Per ciò chiamo questa reazione la prima
manifestazione di angoscia propriamente detta, e denomino il fenomeno nel suo complesso l’angoscia degli 8 mesi1. La risposta del sorriso dei 3 mesi, dimostra che il bambino ha riconosciuto un partner umano e ha superato una nuova tappa dello sviluppo psichico; lo stesso vale per l’angoscia degli 8 mesi. Per quanto si riferisce al sorriso, la Gestalt-segnale del viso viene confrontata con le tracce mnestiche del partner umano e accettata perché ne è l’omologo. Nel caso dell’angoscia degli 8 mesi, la percezione del viso dell’estraneo in quanto viso, viene confrontata con le tracce mestiche del viso della madre. Viene riscontrato diverso da questo e rifiutato. L’entrata in funzione di queste tracce mnestiche dimostra che il bambino si è costituito un vero rapporto oggettuale e che la madre è diventata il suo oggetto libidico. Nello stesso tempo riscontriamo nel bambino l’acquisizione di una nuova funzione dell’Io: la funzione giudicante. Questa sostituirà le forme più primitive dei meccanismi di difesa con una prestazione intellettiva. Con questo progresso il bambino ha raggiunto una seconda tappa del suo sviluppo che gli apre nuovi e più ampi orizzonti.
2. IL SECONDO ORGANIZZATORE Inserendo queste considerazioni nel quadro concettuale sopra sviluppato, risulta chiaro che quanto abbiamo esposto rappresenta l’emergere del secondo organizzatore. In altri termini, verso l’ottavo mese abbiamo un nuovo periodo critico nel senso di Scott (1950). Incomincia un nuovo stadio nello sviluppo infantile, nel corso del quale la personalità e il comportamento del bambino subiscono una trasformazione radicale. Riprenderemo in seguito l’esame dettagliato delle trasformazioni che hanno luogo in seguito alla comparsa del secondo organizzatore. Progressivamente, gli stimoli che provocano dispiacere si fanno sempre più specifici. Gli stadi successivi di questo sviluppo evolvono parallelamente alle fasi di sviluppo dell’Io. A queste due linee parallele dello sviluppo se ne aggiunge una terza, l’evoluzione progressiva del rapporto oggettuale, cioè la costituzione dell’oggetto libidico propriamente detto. Questa sua divisione nelle tre linee evolutive, è puramente teorica e legata alle necessità dell’esposizione; in realtà esse rappresentano i diversi aspetti di un insieme interagente, aspetti strettamente legati fra loro sia nel tempo sia nelle manifestazioni.
Riassumiamo il susseguirsi delle tappe percorse: il riconoscimento del viso umano come segnale, annuncia la formazione e la costituzione di un precursore dell’oggetto e rappresenta la prima fase nello sviluppo del rapporto oggettuale. Il fenomeno dell’angoscia agli 8 mesi, che si manifesta 3 o 4 mesi più tardi, dimostra che il bambino è riuscito ad assegnare al volto materno un posto unico fra tutti gli altri volti umani. Infatti il bambino preferisce il viso della madre e rifiuta tutti gli altri, diversi da questo. Secondo la mia opinione, questo è il criterio per la costituzione di un “oggetto” in senso vero e proprio. Senza dubbio, per i comportamentisti il fenomeno dell’angoscia a 8 mesi significa solo che si è costituita una “cosa” nel campo ottico. Ma se superiamo le limitazioni che il metodo comportamentista si è imposto e ci sforziamo di comprendere il significato del comportamento del bambino, dimostrato dall’angoscia degli 8 mesi, comprenderemo il ruolo decisivo sostenuto dallo stato affettivo; riscontreremo così che l’oggetto si è costituito non solo nel campo ottico, ma soprattutto potremo affermare con tranquillità che siè costituito anche in campo affettivo. L’“oggetto” esiste solo a condizione che non sia confuso con altri fenomeni. Una volta che l’oggetto si è costituito, il bambino non può più confonderlo con nessun’altra cosa, e può stabilire con questo delle relazioni intime, che conferiscono all’oggetto qualità uniche e caratteristiche. L’angoscia degli 8 mesi è la prova che il bambino rifiuta tutto ad eccezione dell’oggetto unico; in altri termini, il bambino ha trovato il partner col quale stabilire rapporti oggettuali nel senso vero e proprio del termine. Queste considerazioni ci permettono di capire in che cosa consiste il secondo organizzatore. Dal lato fisico si può notare che: 1) La mielinizzazione delle vie nervose è sufficientemente progredita per rendere possibile il funzionamento direzionato degli apparati sensoriali. 2) Essa permette inoltre la coordinazione degli effettori, mettendo i gruppi muscolari al servizio di azioni successive; 3) Essa rende possibili gli aggiustamenti posturali e dell’equilibrio, punti di partenza necessari per queste azioni. Nell’apparato psichico è stato immagazzinato un numero crescente di tracce mnestiche, base indispensabile di operazioni astratte sempre più complesse. Queste operazioni permettono al lattante di compiere serie di azioni progressive, aventi una forma sempre più varia. Si è così realizzata
una delle condizioni per la formazione dei sistemi dell’Io; durante questa fase tali sistemi si formano soprattutto nella sfera non conflittuale dell’Io. Infine, a livello dell’organizzazione psichica, la maturazione e lo sviluppo del patrimonio congenito ha posto gli effettori al servizio di azioni successive direzionate. Queste azioni successive permettono al bambino di scaricare in maniera intenzionale le tensioni affettive. Queste scariche direzionate riducono il livello della tensione psichica, permettendo un’organizzazione migliore nella soddisfazione dei bisogni. Inoltre questa riorganizzazione del funzionamento psichico permette al soggetto di realizzare investimenti piacevoli. L’organizzazione dell’Io si arricchisce di motivi sempre più vari, si struttura e viene delimitata dall’Es da un lato, dal mondo esterno dall’altro. L’arricchimento dell’Io si attua in virtù di un numero sempre crescente di sistemi, che si sviluppano in seguito a scambi attivi, investiti di una tonalità affettiva. Questi scambi attivi si realizzano fra il bambino e il suo ambiente, particolarmente fra bambino e l’oggetto che si sta costituendo. In seguito a tali scambi attivi, si stabiliscono le delimitazioni fra il “Sé” (the Self) e l’ambiente, fra Io ed Es, e fra i sistemi individuali dell’Io. Nella costituzione dell’Io, nella sua strutturazione e nella formazione delle sue delimitazioni, sostengono un ruolo decisivo la differenziazione dell’aggressione dalla libido e il destino di queste due pulsioni nel corso del primo anno. Ritorneremo più avanti sul problema della differenziazione delle pulsioni, sulla loro fusione e separazione. Affermiamo per il momento che esiste un rapporto intimo fra il destino delle pulsioni da una parte e la fase di formazione dell’oggetto dall’altra. Questa interazione si attua unitamente allo sviluppo progressivo della coordinazione somatica, della percezione, dell’appercezione e degli scambi attivi e intenzionali. Il punto culminante di questo sviluppo rappresenta ciò che definiamo secondo organizzatore. Aggiungiamo che con questa enumerazione non abbiamo esaurito in alcun modo la molteplicità dei fattori di cui è costituito il secondo organizzatore. Abbiamo parlato di sistemi dell’Io, ma non delle sue funzioni. Fra queste hanno un posto preminente i meccanismi di difesa, inizialmente deputati più all’adattamento che alla difesa vera e propria. Costituitosi l’oggetto, si può constatare che alcuni di questi meccanismi di difesa funzionano allo stesso modo che nell’adulto. Infine, nel corso della nostra esposizione, esamineremo l’importanza del secondo organizzatore per le deviazioni patologiche.
Come per tutti gli altri fenomeni di cui abbiamo parlato, l’età esatta in cui si osserva l’angoscia degli otto mesi è assai variabile. Si può affermare che questo fenomeno è più variabile degli altri. Ciò è la conseguenza della sua natura stessa, poiché il fenomeno è la risultante di una relazione stabilitasi fra due individui e dipenderà dalla capacità di tali individui a stabilire questi rapporti, dalla loro personalità particolare e da numerose altre circostanze accidentali e culturali.
3. VARIAZIONI CULTURALI Le nostre osservazioni furono fatte in maggioranza nella società culturale occidentale, su soggetti bianchi, neri e indiani d’America. Per tradizione, in questa società esistono dei rapporti stretti fra il lattante e una sola madre. Nel corso della discussione sulle condizioni patologiche vedremo quali grandi differenze possano esistere in questa relazione e come tali modificazioni influiscano sulla natura dei rapporti oggettuali e sulla formazione dell’oggetto. Una tradizione culturale, nella quale il rapporto fra madre e figlio sia regolato in modo diverso dal nostro, apporterà delle modificazioni importanti all’epoca di comparsa della relazione oggettuale e alla natura del rapporto stesso. Dagli studi degli antropologi si possono trarre degli indizi interessanti. Margaret Mead, ad esempio, ha descritto numerose società culturali, con tradizioni assai diverse dalle nostre circa l’allevamento dei bambini. Ne cito solo due: presso i Balinesi (49), il padre sostituisce la madre molto precocemente; fra i Samoani (48), la molteplicità delle figure materne ci sembra tale da determinare una diffusione dei rapporti oggettuali. Anna Freud ha descritto questo fenomeno nelle sue osservazioni su piccoli bambini, allevati da infermiere che si sostituiscono continuamente. Questi bambini non si attaccano ad “una” figura materna, poiché questa manca, ma tendono a formare ciò che potrebbe essere definita una “gang” (15). Non può essere sottovalutata l’importanza di queste osservazioni per la nostra civiltà. Studi pazienti ed esatti sulle conseguenze dovute alla diversa strutturazione degli elementi costituenti la coppia madre-bambino nelle diverse civiltà, ci forniranno un materiale prezioso. Avremo così dati più precisi per prevenire le deformazioni del carattere, della personalità, della psiche, e anche indicazioni per le condizioni più favorevoli di allevamento
dei bambini. Gli stadi evolutivi del rapporto oggettuale, così come li ho descritti, sono solo un abbozzo grossolano che ci fornisce qualche punto di riferimento per i processi evolutivi del primo anno di vita. Si tratta di una esposizione i cui dettagli restano ancora sconosciuti e che richiede ancora numerosi studi, sia individuali, sia comparativi.
1. In un articolo apparso quando questo lavoro era già in corso di stampa, L. Szekely espone molte ipotesi ingegnose, che si riallacciano alla biologia. In base a queste ipotesi egli reinterpreta le osservazioni da me pubblicate sulla risposta del sorriso (64) e sull’angoscia degli 8 mesi (68), giungendo a conclusioni diametralmente opposte alle mie. Basandosi su osservazioni fatte sul comportamento degli animali da Lorenz, Tinbergen ed altri, Szekely cataloga la configurazione “occhi-fronte” fra “gli stimoli scatenanti”. Questa configurazione sarebbe il residuo filogenetico dello schema “nemico” nel mondo degli animali. Il lattante, durante i primi mesi, afferma Szekely, reagisce con angoscia al viso materno. Questa angoscia è ispirata dallo schema “nemico” (occhifronte ), e il sorriso dei tre mesi sarà quindi il primo dominio di questa paura arcaica. Il lattante compie questo superamento trasformando la zona “occhi-fronte” in oggetto parziale grazie all’investimento libidico di questa zona. L’angoscia degli otto mesi, quindi, sarebbe la manifestazione visibile della regressione di questo oggetto parziale allo stato innato di stimolo arcaico, scatenante angoscia. Questa è l’essenza della conclusione di Szekely; egli sottolinea a più riprese che prove sperimentali a sostegno di queste ipotesi sono fino ad ora inesistenti. La somiglianza fra lo stimolo scatenante, acquisito dagli animali tramite la Prägung (imprinting) descritto da Lorenz (46), e il ruolo sostenuto dalla configurazione “occhi-fronte” nel lattante, aveva attirato la mia attenzione fin dall’inizio dei miei studi. Ho indagato dettagliatamente se lo stimolo provocante la risposta del sorriso fosse innato oppure acquisito come la Prägung grazie ad una sola momentanea percezione dell’animale neonato. Ho concluso che non è vera né l’una né l’altra ipotesi. Lo stimolo per la reazione del sorriso si costituisce con un processo simile a quello di apprendimento a cui si aggiungono alcune caratteristiche tipicamente umane (54). Quanto all’altra ipotesi di Szekely, che il bambino reagisca con angoscia durante i primi mesi di vita, si tratta di un fenomeno che non ho mai potuto riscontrare nelle centinaia di bambini ai quali abbiamo presentato questo stimolo una volta alla settimana, dalla nascita ai tre mesi di età. Anche la numerosa letteratura al riguardo non offre alcun esempio. Data la mancanza di osservazioni dimostrative, mi pare pericoloso trarre da leggi valide per il comportamento animale, conclusioni senz’altro valide anche per l’uomo. La metodologia scientifica moderna non ammette (79) delle trasposizioni di leggi valide per livelli di organizzazione a complessità inferiore, a livelli di organizzazione a complessità superiore. Fino a quando non saranno portate prove conclusive, la tesi di Szekely deve essere considerata solo una speculazione interessante.
CAPITOLO SETTIMO Il ruolo e lo sviluppo delle pulsioni
Fino ad ora abbiamo parlato soprattutto dello sviluppo dei rapporti oggettuali dal punto di vista fenomenologico, considerando anche gli aspetti strutturali e topici. Vogliamo ora porci dal punto di vista dinamico e tentare di inquadrare il ruolo delle pulsioni sessuali. È evidente che sia le pulsioni sessuali, sia le pulsioni di aggressione, partecipano alla formazione dei rapporti oggettuali. Alla nascita, e nel periodo narcisistico che segue, le pulsioni non si sono ancora differenziate l’una dall’altra. Questa differenziazione si attua progressivamente; ma uno studio dettagliato dell’argomento supererebbe però i limiti di questo lavoro; d’altra parte ho esposto dettagliatamente questo problema nel mio articolo Aggression (69). Espongo quindi solo schematicamente le mie opinioni al riguardo. Le due pulsioni si separano l’una dall’altra grazie agli scambi che si attuano fra madre e lattante nei primi tre mesi di vita. Questa differenziazione si realizza in seguito ad una serie di esperienze, collegate fra loro; si tratta di esperienze particolari, che avvengono nei settori specifici ora dell’una ora dell’altra pulsione. Questa è la situazione all’età di 3 mesi, quando si è costituito l’oggetto precursore. A questo stadio segue un periodo di transizione, di otto settimane circa, durante il quale si attua uno sviluppo graduale. È la transizione dallo stadio preoggettuale allo stadio della vera relazione oggettuale. Durante il periodo narcisistico, come pure in questa fase di transizione, queste pulsioni si sviluppano in rapporto all’appagamento dei bisogni orali del bambino; è la situazione descritta da Freud, quando parlava dello sviluppo anaclitico (16). La persona che soddisfa i bisogni orali del bambino è la madre: verso di essa si dirigeranno le pulsioni di aggressione e le pulsioni sessuali. Abbiamo già notato che a quest’epoca le
esperienze che si riferiscono ai settori specifici di queste due pulsioni, sono separate e distinte fra di loro. Seguendo Hartmann, Kris e Loewenstein (36, →) parliamo di due oggetti, l’oggetto cattivo, verso il quale si dirige l’aggressività, e l’oggetto buono, verso il quale si dirige la pulsione sessuale. Secondo Abraham (1) si può definire questa epoca lo stadio preambivalente. L’inizio di questo stadio di transizione è sottolineato dalla nascita di un Io rudimentale, che è l’apparato centrale, con funzione di guida e di coordinazione. La funzione dell’Io in questa fase di transizione, sarà la fusione e la coordinazione progressiva delle esperienze isolate con le percezioni corrispondenti dell’ambiente. La presenza di un Io, anche rudimentale, permette alle pulsioni di scaricarsi in maniera intenzionale. Con queste azioni dirette, con questo funzionamento, le pulsioni possono differenziarsi maggiormente fra loro, e, sempre in base a questo funzionamento, si può distinguere la pulsione di aggressione diretta verso l’oggetto cattivo e la pulsione sessuale diretta verso l’oggetto buono. Verso i 6 mesi si attua una fusione. Nel frattempo infatti l’Io ha assunto un ruolo sempre crescente. La sua funzione integratrice si allaccia all’esperienza ripetutamente fatta della figura materna, effettuando la sintesi dei due oggetti, il buono e il cattivo, nella persona della madre, unica dal punto di vista percettivo. Con questa sintesi le due pulsioni vengono ad essere dirette verso un solo oggetto percettivo. La fusione delle due pulsioni si realizza grazie alla collaborazione della percezione, dell’azione e della funzione integratrice dell’Io. È a questo punto che si forma l’oggetto libidico propriamente detto. In questo modo io concepisco la cooperazione della pulsione di aggressione e della pulsione sessuale nella formazione del rapporto oggettuale. Se accettiamo questo particolare ruolo delle due pulsioni nella formazione dell’oggetto, ci rendiamo immediatamente conto che sia inibire sia favorire l’una o l’altra delle due pulsioni, porta ad una deformazione del rapporto oggettuale. Poiché è la madre che inibisce o favorisce, sarà il comportamento materno che determinerà il tipo di rapporto oggettuale. Ella può esagerare il ruolo dell’“oggetto buono” o dell’“oggetto cattivo”. Senza parlare degli innumerevoli atteggiamenti possibili nelle diverse madri, voglio però attirare l’attenzione sull’aspetto culturale di questo processo. Esporrò due esempi semplicissimi, sui quali torneremo più avanti.
Negli Stati Uniti, durante il periodo che seguì immediatamente la prima guerra mondiale, e fino al 1935 circa, fu accentuato il ruolo dell’“oggetto cattivo” sotto l’influsso dello psicologo Watson e del comportamentismo. In quest’epoca si nutrivano i lattanti secondo orari rigidi, con quantità prescritte, senza curarsi se il bambino era soddisfatto o no. Contemporaneamente si consigliava alle madri di non viziare il bambino e di astenersi dal fare carezze. Il contrario si verificò nel periodo dal 1935 al 1950, grazie all’introduzione del sistema detto negli Stati Uniti selfdemand schedule (orario a piacere), che consiste nel dare il poppatoio o il seno quando il bambino lo chiede, vale a dire quando manifesta dispiacere. Inevitabilmente questo metodo ha portato in alcuni casi ad una superalimentazione di grado notevole. Nello stesso tempo si può vedere come nel processo progressivo di fusione delle due pulsioni, la compensazione offerta dall’“oggetto buono” alle malefatte dell’“oggetto cattivo” possa servire a rafforzare una funzione estremamente importante: la tolleranza alle frustrazioni, che sta alla base del principio di realtà. Infatti il principio di realtà è una funzione di aggiramento, che impone la rinuncia all’appagamento della pulsione per raggiungere una soddisfazione più adeguata. Nello stesso tempo, la capacità di sopportare questa rinuncia alla soddisfazione immediata della pulsione, permette la realizzazione del pensiero. A sua volta, questo permetterà alla pulsione di scaricarsi in un’azione direzionata. Questo rende possibile scaricare l’aggressività in maniera diretta, con efficacia, acquisendo così il dominio sugli oggetti dell’ambiente. In questo esempio si vede come i rapporti oggettuali diretti verso la madre, formino il presupposto dei rapporti con le cose. Contemporaneamente, tutto questo mette in luce quanto sia importante per il lattante riuscire a fondere e a scaricare sul partner, rappresentato dalla madre, le pulsioni di aggressione e quelle sessuali. Questa è una delle ragioni per cui consideriamo la formazione dell’oggetto libidico all’ottavo mese come il secondo organizzatore per tutto il successivo sviluppo del bambino. Ripeto che tutto quanto ho descritto rappresenta solo differenti aspetti di un fenomeno in realtà unico. Non si tratta di un sincronismo di elementi separati, né di un parallelismo di linee evolutive agenti nei settori diversi. Si tratta piuttosto di un fenomeno globale. Ci siamo trovati di fronte ad un fenomeno simile discutendo i differenti aspetti della formazione
dell’oggetto precursore, contrassegnato dal sorriso reciproco. La maggior parte degli aspetti che abbiamo distinto all’età di tre mesi si è nel frattempo rafforzata. La recezione interiore è diventata meno importante, la percezione esterna si è sviluppata e si sono accumulate in numero crescente tracce mnestiche coscienti. La capacità di tollerare le frustrazioni ha rinforzato il principio di realtà e l’organizzazione del pensiero. L’Io rudimentale dei 3 mesi si è sviluppato in una serie di sistemi, grazie al suo funzionamento nelle azioni più disparate, tra le altre, sopratutto quelle reciproche con la madre. Implicitamente, le relazioni sociali iniziatesi con il sorriso, sono divenute più numerose, più complesse e più contraddittorie. Tutto questo è accompagnato da un rapido sviluppo percettivo e motorio al servizio di azioni direzionate, alle quali fanno seguito esperienze fra loro distinte, di piacere e di dispiacere con la madre. L’interazione di tutte queste correnti porterà alla fusione delle pulsioni sessuali e di aggressione, in forma di rapporti oggettuali con la madre; il sintomo visibile di ciò sarà l’angoscia degli 8 mesi.
CAPITOLO OTTAVO La formazione del secondo organizzatore e le sue conseguenze per lo sviluppo infantile
L’importanza di questa tappa è dimostrata dal rapido sviluppo del comportamento infantile nei settori più vari, dopo la formazione del secondo organizzatore. Nelle settimane successive si manifestano molte nuove facoltà: si stabiliscono relazioni sociali nuove, più complesse delle precedenti. Inizia la comprensione del gesto sociale come mezzo di comunicazione reciproca. Ciò è particolarmente evidente nella comprensione delle proibizioni e degli ordini. Si sviluppa l’orientamento spaziale e la comprensione di uno spazio che supera i limiti della culla, ancor prima dello sviluppo della deambulazione. Inizia la comprensione di relazioni fra “oggetti”. La preferenza per un particolare giocattolo evidenzia una differenziazione fra le “cose”. Diventa evidente una maggiore discriminazione fra i differenti alimenti. Sfumature sempre più delicate arricchiscono le attitudini affettive, come ad esempio la gelosia, la collera, la rabbia, l’invidia, l’atteggiamento possessivo, manifestazioni che diventano evidenti tutte verso la fine del primo anno.
Fig. 11 – L’osservatore alza l’indice in segno di interdizione e dice: “No, no” al bambino che sta cercando di impossessarsi della matita.
Diamo alcuni esempi di queste nuove facoltà che abbiamo enumerato. La comprensione sociale si evidenzia nella capacità di partecipare a giochi sociali. Il bambino è capace di rigettare indietro una palla che gli era stata lanciata. Se gli si dice buongiorno, tendendogli la mano, egli tenderà la sua. Se durante una attività qualsiasi gli si dice “No, no!” in modo energico, scuotendo la testa e facendo un segno di diniego con il dito, il bambino si arresta e può a volte assumere un’espressione costernata (figg. 11 e 12).
Fig. 12 – Reazione del bambino alla proibizione.
Fig. 13 – Il bambino non riesce ad impossessarsi dell’oggetto che gli viene offerto fuori dalle sbarre del lettino.
Fig. 14 – Dopo l’ottavo mese viene conquistato lo spazio esterno al lettino.
Prima degli 8 mesi lo spazio del bambino è delimitato dalla ringhiera del suo letto. È in grado di impossessarsi di un oggetto posto dentro al letto. Ma se gli si presenta lo stesso oggetto al di fuori del letto, non è capace di afferrarlo. Due o tre settimane dopo gli 8 mesi, il bambino ne è improvvisamente capace (figg. 13 e 14). La differenziazione fra le cose si manifesta circa due mesi dopo che il bambino è riuscito a distinguere la madre dall’ambiente. A quest’epoca potrà scegliere un giocattolo preferito fra una serie di oggetti diversi. In precedenza egli afferrava sempre l’oggetto che si trovava più vicino alla sua mano. Per quanto si riferisce ai rapporti fra gli oggetti, è a quest’epoca che il bambino riesce a comprendere che può impadronirsi di un campanello
desiderato, appeso mediante un cordone al suo letto, tirando per il cordone stesso. È il primo debutto della comprensione dell’essenza di uno strumento. Lo sviluppo di sfumature negli atteggiamenti affettivi, come la gelosia, la collera, la rabbia, l’invidia, ecc., ha la sua contropartita nello sviluppo di rapporti oggettuali più complessi dei rapporti arcaici descritti nelle pagine precedenti. L’inizio di certi meccanismi di difesa si evidenzia nel corso del primo anno. Accenno solo a questi fenomeni, perché sono assai complessi. Dopo la comparsa del secondo organizzatore, comincia a delinearsi un meccanismo di difesa: l’identificazione. Ne riscontriamo le prime tracce sotto forma di imitazione rudimentale già al terzo e quarto mese. A quest’epoca alcuni bambini (il 10% circa) cercano di imitare alcune espressioni fisionomiche, presentate loro dall’adulto. Questa imitazione è assai grossolana: come la percezione è globale, è percezione di una Gestalt, così l’imitazione è globale. Vale a dire che se si fa davanti al bambino un movimento in cui la bocca venga allargata, egli si sforzerà di allargare la sua; tuttavia non lo farà in forma di sorriso, ma facendo dei movimenti vaghi con le labbra. Se si atteggia la bocca a fischiare, anche il bambino che imita può atteggiare similmente la bocca, oppure tirare fuori la lingua per formare una punta (40). Un’imitazione vera e propria diventa evidente molto più tardi, fra l’ottavo e il decimo mese, cioè dopo il secondo organizzatore del primo anno. Ho numerosi film, nei quali si possono osservare fenomeni del genere. I giochi sociali, di cui abbiamo parlato in precedenza, ne sono un esempio. È un comportamento che Berta Bornstein ha chiamato identificazione tramite i gesti. Si comprende facilmente come l’attitudine materna, gli influssi delle qualità affettive che essa apporta al bambino, siano importanti per lo sviluppo dell’imitazione e, ancor più, dell’identificazione. Come per l’azione, questo influsso faciliterà o renderà difficili gli sforzi del bambino per divenire come la madre e agire come lei e nello stesso tempo per rendersi indipendente. Infatti l’imitazione delle azioni della madre, mette il bambino in grado di procurarsi tutto ciò che la madre ha dovuto procurargli.
CAPITOLO NONO L’origine e l’inizio della comunicazione semantica
Nell’introduzione alla sua opera L’Io e l’Es, Freud ha sottolineato che se la psicoanalisi non si è ancora occupata di certi problemi psicologici, ciò deriva dal fatto che essa, proseguendo nel suo cammino già tracciato, non è stata ancora condotta a tali questioni. Quest’osservazione si applica fra l’altro al problema dei rapporti oggettuali; abbiamo già segnalato nell’introduzione che Freud stesso se ne era interessato scarsamente. Nella letteratura psicoanalitica attuale non solo il concetto di oggetto, ma anche i problemi inerenti alla formazione e alla deformazione dei rapporti oggettuali giocano un ruolo considerevole. L’oggetto libidico è stato definito molto bene, grazie al ruolo che assume nell’economia psichica dell’individuo. Per contro, non possediamo definizioni di ciò che costituisce il rapporto oggettuale, e anche la sua descrizione fenomenologica è fra le più esigue. Questo è il motivo per cui scuole non freudiane, come quella di Sullivan, hanno riservato un ruolo centrale nei loro sistemi al problema del rapporto oggettuale. Sottolineiamo tuttavia che la differenza fra i sistemi concettuali di queste scuole e il nostro punto di vista, è assai profonda. Mentre le scuole non ortodosse si limitano a descrivere il fenomeno come tale, applicando un concetto esistenzialista, noi, in psicoanalisi, ci serviremo di un punto di vista rigorosamente genetico. È lo studio esatto e continuo dei processi risultanti dall’interazione reciproca fra aspetti genetici e dinamici che contraddistingue il metodo psicoanalitico da ogni altra psicologia. Le grandi linee tratteggiate da Freud hanno portato i nostri lavori ad un punto tale, per cui oggi questi sono solidamente ancorati in campo scientifico. I nostri progressi attuali hanno luogo grazie all’indagine minuziosa degli elementi che costituiscono l’edificio eretto da Freud.
Nell’attuale lavoro abbiamo esaminato dettagliatamente le prime relazioni oggettuali, giungendo, nei capitoli precedenti, circa al termine dello stadio preverbale. Abbiamo rilevato che durante le ultime tappe che conducono alla formazione del secondo organizzatore, si è sviluppata fra madre e figlio una comunicazione reciproca direzionata, attiva e intenzionale. Tuttavia il bambino non si serve né di segni semantici, né di parole. Nel corso delle fasi successive, questa comunicazione direzionata e reciproca si trasforma progressivamente in comunicazione verbale. Si tratta di un momento decisivo per l’evoluzione dell’individuo e della specie. Fatto tale passo, l’aspetto dei rapporti oggettuali si modifica profondamente, poiché d’ora in poi essi si attueranno sempre di più con l’aiuto della parola. Questa sostituirà via via le forme arcaiche di comunicazione fra madre e figlio, di cui ho parlato precedentemente; il linguaggio diverrà a poco a poco lo strumento esclusivo per le comunicazioni in seno ai rapporti oggettuali. Esponendo le conseguenze derivanti dalla formazione del secondo organizzatore, abbiamo dato larga parte alla trasformazione che si attua in seno alle relazioni oggettuali, alle facoltà nuove che compaiono nel bambino, quali la comprensione dei gesti, le sfumature negli atteggiamenti affettivi, la possibilità di partecipare a un’attività ludica sociale. In questo stadio, fra i progressi più importanti del bambino, riscontriamo la comprensione delle proibizioni e degli ordini, e la comparsa dei meccanismi di identificazione. Facciamo rilevare che nel periodo che precede il secondo organizzatore, il bambino percepisce i messaggi della madre soprattutto per via tattile. Ma già dalla nostra esposizione sulle trasformazioni che si attuano in virtù del secondo organizzatore, si può notare che il bambino riesce a comprendere a distanza alcuni messaggi della madre. Alla fine del primo anno, le relazioni oggettuali subiscono una trasformazione radicale, poiché il bambino, avendo imparato a camminare, diventa indipendente. Questo progresso nella maturazione, presenta dei pericoli per il bambino e pone dei nuovi problemi a chi lo circonda. Fino a che il bambino era prigioniero fra le sbarre del suo letto, si trovava al sicuro. Come si è liberato da tale prigionia, egli non esita a soddisfare la sua curiosità e il suo bisogno di attività, gettandosi a corpo morto in ogni situazione, anche la più dannosa. Ma, grazie alla locomozione, il bambino pone dello spazio fra sé e
la madre, per cui gli interventi materni si effettueranno sempre di più tramite gesti e parole. Per conseguenza, il carattere degli scambi fra la madre e il bambino, subisce una profonda trasformazione. Fino ad ora la madre appagava immediatamente i desideri del bambino, oppure non li soddisfaceva. Ora invece essa è costretta ad impedire le iniziative del bambino, proprio nell’epoca in cui la sua attività è in continuo aumento. In effetti il secondo organizzatore segna il più importante punto di transizione dalla passività all’attività (vedi Freud, Female Sexuality, 1931). Comincia inevitabilmente il periodo degli ordini e delle proibizioni. Allo stadio delle proibizioni e degli ordini, si modificano radicalmente non solo gli scambi fra la madre e il figlio e le relazioni oggettuali, ma la forma stessa di comunicazione si diversifica forzatamente dal modo con cui la madre comunicava col bambino durante il periodo precedente. Nel periodo preverbale le comunicazioni provenienti dalla madre erano necessariamente limitate all’azione, tanto più che il bambino era ancora impotente; era incapace di camminare, di nutrirsi, ecc. Era la madre che eseguiva queste azioni per il bambino, comunicandogli tramite esse le proprie intenzioni. Non vogliamo con questo affermare che nello stadio preverbale l’udito non gioca alcun ruolo nelle relazioni oggettuali, anzi al contrario. Tutte le madri parlano al loro bambino; nella maggior parte dei casi è un monologo della madre: spesso però il bambino risponde con vocalizzi. Questo tipo di conversazione, durante la quale la madre vezzeggia il bambino, indirizzandogli frasi incoerenti, con parole inventate, alle quali il bambino risponde con lallazioni, si svolge nell’irreale, nella sfera immaginativa delle relazioni affettive. Queste conversazioni hanno relativamente poco a che fare con le manifestazioni dei desideri fisici del bambino, non lo inibiscono né lo obbligano a nulla. Si tratta, per così dire, di un piacevole gioco reciproco. Una volta appresa la deambulazione, le parole della madre mutano di carattere. Dai vezzeggiamenti essa passa alle proibizioni, agli ordini, ai rimproveri, alle invettive. A questo stadio la parola che usa più frequentemente è “no, no!”. Inoltre accompagna le sue parole con movimenti del capo, impedendo al bambino di fare ciò che vorrebbe. All’inizio la madre accompagna necessariamente i gesti e le parole di
proibizione con un intervento diretto, fino a che il bambino non comincia a comprendere la sola interdizione verbale. Il bambino riesce a comprendere le proibizioni della madre e l’oggetto a cui i suoi ordini si riferiscono, in virtù di un processo di identificazione, di cui parleremo dettagliatamente in seguito. Ricordiamo solamente che l’espressione evidente di tale identificazione è il fatto che il bambino imita il movimento di diniego che la madre compie con la testa. Per il bambino, questo movimento della testa diviene il simbolo, il segno in cui si concretizza l’azione frustrante della madre; una volta appreso, questo gesto verrà conservato anche da adulto. Gli sforzi educativi per inibire questo gesto saranno inutili. Il gesto di diniego è diventato un automatismo ostinato che anche l’adulto meglio educato riesce con difficoltà ad abbandonare. Questo non ci sorprende, poiché questo gesto è acquisito nel periodo più arcaico del pensiero cosciente, cioè all’inizio del periodo verbale. Provocheremo senza dubbio le obiezioni dei nostri lettori, affermando che i gesti di diniego e la parola “no” sono i primi simboli semantici formati dal bambino; sono infatti simboli semantici e parole nel senso dell’adulto. Si tratta di un fenomeno che inizialmente differisce non solo dai monologhi lallatori, ma anche dalle prime parole “globali” che lo precedono, come “mama”, “dada”, ecc. Le parole globali rappresentano simultaneamente tutto quello che il bambino desidera, dalla mamma al biberon. Il segno di diniego e la parola “no”, al contrario, rappresentano un concetto:quello della negazione, del rifiuto nel senso stretto del termine. Sono segni “algoritmici” (Lalande, Vocabulaire de la philosophie, Paris, 1932, vol. 1, →). Nello stesso tempo questi segni rappresentano il primo concetto astratto che si cristallizza nella vita mentale del bambino. Come arriva il bambino a formare questo concetto? Si potrebbe pensare che il bambino imiti la madre; o, come affermava Babinski per l’isterismo, che si tratti di pitiatismo; ma se si considera il fenomeno più da vicino, si nota subito che non si tratta di un fenomeno di pura imitazione. È vero che il bambino imita i gesti della madre, in quanto gesti. Tuttavia egli sceglie le circostanze in cui applicarli, e più tardi accadrà la stessa cosa per la parola “no”. Si serve di questo gesto soprattutto per rifiutare qualcosa, una richiesta, un’offerta, ecc. Ci rendiamo conto che la nostra descrizione è superficiale, e che dietro a questo rifiuto si nasconde un conflitto fra ciò che il bambino desidera e ciò che teme. Ciò che egli
teme può essere riassunto in ultima analisi nella privazione dell’amore, nella perdita dell’oggetto. Progressivamente il bambino si servirà inoltre del “no” (parola o gesto), quando non riconosce l’oggetto o la cosa che ha davanti. Abbiamo segnalato che in questo stadio si instaura il conflitto fra iniziativa del bambino e apprensione materna, ed è proprio quando rifiuta di adattarsi al desiderio della madre che il bambino sembra imitare il suo gesto di diniego. Si può quindi supporre che questo gesto si fissi nella memoria del bambino grazie alle ripetute esperienze di interdizione imposte dalla madre. Questa teoria del learning non soddisfa però gli psicoanalisti. Gli esperimenti della scuola gestaltista permettono una spiegazione più approfondita del fenomeno. Zeigarnik (1927) ha potuto dimostrare con esperimenti assai semplici e chiari che l’individuo ricorda i compiti incompiuti e dimentica quelli condotti a termine. Applicando le conclusioni di Zeigarnik alle situazioni nelle quali la madre proibisce o rifiuta qualcosa al bambino, possiamo notare che il “no” della madre, impedendo al bambino di concludere il compito che si era prefisso, contribuisce in tal modo a fissare nella mente del bambino il ricordo dell’esperienza non condotta a termine. Inoltre il metodo psicoanalitico ci ha fornito dei dati che precisano, in modo più completo della spiegazione gestaltista, lo svolgersi del processo dinamico. Uno studio più profondo delle circostanze che conducono al gesto di diniego del bambino, rivela che si tratta di un processo complesso che merita di essere esaminato dal punto di vista metapsicologico e strutturale. In primo luogo, ogni “no” della madre rappresenta una frustrazione affettiva per il bambino; sia che si tratti di impedirgli una attività o che gli si impedisca di impossessarsi di un oggetto che desidera, o che esista una discordanza nel modo di stabilire i suoi rapporti oggettuali, si tratta sempre di frustrazioni alle pulsioni dell’Es. Le tracce mnestiche della proibizione, quelle del gesto e delle parole con cui essa si esprime, saranno investite di una carica affettiva particolare, che comprende il rifiuto, la sconfitta, la frustrazione. Questo stato affettivo assicura la permanenza delle tracce mnestiche del gesto e della parola “no”. D’altra parte, per la sua stessa natura, la proibizione, interrompendo un’iniziativa del bambino, lo fa deviare dall’attività alla passività. Nell’età in cui il bambino comincia a comprendere l’interdizione imposta dalla
madre, egli sta abbandonando lo stadio narcisistico passivo per entrare nello stadio attivo delle relazioni oggettuali, e non tollera senza opporre resistenza, che lo si forzi ad un ritorno alla passività (Anna Freud, 1952). La forza motrice dei suoi sforzi, per vincere la resistenza che gli si oppone, non è limitata all’energia biologica. Esiste anche un fattore psicodinamico, poiché le cariche affettive spiacevoli che accompagnano la frustrazione evocano una spinta aggressiva da parte dell’Es. Nell’Io la traccia mnestica della proibizione si associa a questa carica aggressiva. A questo punto il bambino è nella situazione conflittuale determinata dal desiderio di attività e dall’imposizione a ritornare nella passività, con il dispiacere e l’aggressività che ne deriva; il bambino, per uscire dal conflitto, si serve del meccanismo di difesa costituito dall’identificazione, il più importante a quest’età. Questo meccanismo è applicato tuttavia in forma molto speciale. È la forma descritta da Anna Freud (1936) col termine di “identificazione con l’aggressore”. Anna Freud ha messo in evidenza questo meccanismo in bambini di età scolare, i quali si servono di questo processo nei loro conflitti fra Io e oggetto. Senza dubbio il Super-io, o almeno i suoi precursori, hanno un ruolo importante nei casi descritti dall’autrice. Per il bambino di 15 mesi non si può parlare in alcun modo di Super-io. Inoltre, per il fenomeno che stiamo considerando, si tratta più di un’identificazione con la persona frustrante che con l’aggressore. Tuttavia fra persona frustrante ed aggressore esiste solo una differenza di grado. Riassumendo, il meccanismo attraverso cui viene acquisito il gesto semantico del “no”, è il seguente: l’oggetto libidico infligge una frustrazione al bambino, provocando il suo dispiacere. Il gesto di diniego e il “no” pronunciato dall’oggetto libidico sono incorporati nell’Io del bambino sotto forma di tracce mnestiche. La carica affettiva spiacevole, separata da questa rappresentazione, provoca nell’Es una carica aggressiva che verrà associata alla traccia mnestica, nell’Io. Quando il bambino si identifica con l’oggetto libidico, questa identificazione con l’aggressore, secondo la terminologia di Anna Freud, sarà seguita da un attacco diretto contro il mondo esterno. Nel bambino di 15 mesi questo attacco prende la forma del “no” (gesto e poi parola), di cui il bambino stesso si è appropriato. La carica aggressiva, di cui il “no” è investito nel corso di numerose esperienze spiacevoli, lo rende idoneo ad esprimere l’aggressione. Questa è la ragione per cui il bambino mette il
“no” al servizio dei meccanismi di identificazione con l’aggressore. Egli rivolge il “no” proprio contro l’oggetto libidico, dal quale ha acquisito il gesto di diniego. Una volta fatto questo passo, comincia il periodo dell’ostinazione, assai diffuso nel secondo anno. L’aver raggiunto il dominio del gesto e della parola “no”, rappresenta un progresso di portata straordinaria per lo sviluppo mentale ed affettivo del bambino, e presuppone l’acquisizione della facoltà di ragionamento e della negazione. Freud ha trattato magistralmente questo problema in alcune pagine del suo articolo La negazione (1925). Ci limitiamo a considerare qui solo alcuni aspetti fra i più essenziali di questa questione, rimandando il lettore per un esame completo alla nostra monografia Il no e il sì (1957). Sottolineiamo subito che il processo di identificazione con l’aggressore è un processo selettivo. Noi distinguiamo tre elementi nel comportamento della madre che proibisce qualche cosa al bambino: in primo luogo il gesto (o la parola), in secondo luogo il suo pensiero cosciente; infine lo stato affettivo che accompagna gesti e pensieri. Si può dire senza alcuna riserva che il bambino incorpora il gesto. Si può affermare con eguale certezza che il bambino non può comprendere quali sono le ragioni che inducono la madre a proibirgli qualcosa. Il bambino non incorporerà quindi il pensiero della madre. Per quanto riguarda lo “stato affettivo”, la sua comprensione è ancora allo stato globale. Si può dire approssimativamente che il bambino distingue negli altri solo due stati affettivi, che ho definito “favorevole verso di me” e “contro di me”. Poiché a questa fase il bambino non dispone ancora di pensiero razionale, non sa se la madre impone una proibizione perché essa teme che il bambino si faccia male oppure perché questi ha fatto qualcosa di proibito. Il bambino comprende solo che: “Tu non sei a mio ‘favore’, quindi sei ‘contro’ di me”. Identificandosi con l’aggressore mediante il gesto di diniego, il bambino si appropria solo del gesto associato allo stato affettivo “ostile”. Questo costituisce pertanto un notevole progresso. Infatti in precedenza l’espressione affettiva del bambino nei rapporti oggettuali era limitata al contatto immediato, all’azione. Con la conquista del gesto di diniego incomincia la comunicazione a distanza, e l’azione è rimpiazzata dalle parole. La lotta o la fuga cessano di essere l’unica alternativa nel rapporto umano, e incomincia la discussione. Questo è il più importante momento nello sviluppo dell’individuo e della specie. Qui comincia l’umanizzazione della specie, lo zoon politikon, la
società, la comprensione semantica; o, più esattamente, comincia lo scambio reciproco di comunicazioni intenzionali e dirette, con l’ausilio di simboli semantici. Per tutto questo ritengo che l’acquisizione del gesto di diniego e della parola “no” sia il sintomo visibile della comparsa del terzo organizzatore. Il “no” è la manifestazione semantica della negazione, del giudizio; nello stesso tempo è la prima astrazione, il primo concetto astratto, nel senso dei processi ideativi dell’adulto, formato dal bambino. Alla formazione di questo concetto astratto ha contribuito in misura decisiva la rimozione di energia aggressiva, e ciò è caratteristico di ogni astrazione. Infatti l’astrazione non è mai il risultato di una identificazione; essa è il risultato di un’attività sintetica dell’Io. Grazie ad una rimozione di energia aggressiva, il soggetto separa da quanto percepisce alcuni elementi e forma con questi una sintesi, che servirà da simbolo o da concetto; il primo di questi concetti astratti nella vita del bambino è la negazione. All’inizio del secondo anno il bambino esprime il suo diniego scuotendo la testa, per comunicare a chi lo circonda il suo rifiuto mediante questo segno semantico. Scuotere il capo in segno di diniego è un segno straordinariamente diffuso. Certamente non è un segno compreso universalmente; in certi paesi la negazione si esprime con segni differenti. Tuttavia è molto probabile che scuotere la testa sia il segno di diniego più diffuso sulla terra. Questo ci ha suggerito la possibilità di rintracciare l’origine di questo gesto nell’ontogenesi umana, forse anche nella filogenesi. Infatti le esperienze più arcaiche e primitive sono comuni a tutti gli esseri umani, e i comportamenti che ne derivano sono suscettibili di una larga generalizzazione. Abbiamo iniziato la nostra inchiesta esaminando se fra i primi comportamenti del neonato potesse esisterne uno che rassomigliasse fenomenologicamente al gesto di diniego. Ne abbiamo riscontrato uno che sia la fisiologia, sia la neurologia, hanno considerato tanto interessante, da classificarlo fra i riflessi primordiali; questo comportamento serve correntemente per esaminare la reattività del neonato. Si tratta del riflesso chiamato “riflesso di suzione” o “riflesso di orientamento”, ecc. AndréThomas (1952) chiama il fenomeno “L’épreuve des points cardinaux”. Il riflesso è provocato toccando con il dito la regione periorale (preferisco chiamarla con Bernfeld “muso”, poiché si tratta della regione che comprende la bocca, il mento, il naso e la maggior parte delle guance). Il
neonato muove la testa, spesso in maniera rapida, con la bocca aperta verso il dito, cercando di afferrarlo per cominciare a succhiarlo. In inglese il riflesso è chiamato rooting, termine derivato dal grufolare del maialino. Questa derivazione linguistica ha la sua ragione filogenetica: si tratta in effetti di un comportamento molto arcaico. L’osservazioni dei film ci dimostra che il neonato, avvicinato al seno, comincia l’allattamento con qualche movimento rotatorio della testa, con la bocca aperta, fino a che afferra il capezzolo. Questo comportamento si spiega molto facilmente, secondo il mio parere, con il riflesso del rooting: nella posizione di allattamento al seno, una guancia del lattante, supponiamo la destra, tocca il seno, la testa viene allora ruotata verso destra, mentre la bocca viene aperta. Se la bocca non incontra il capezzolo, il movimento porta la testa fino al punto in cui la guancia sinistra viene a contatto del seno. La manovra si ripete subito verso sinistra e così di seguito fino a che il capezzolo non si introduce nella bocca aperta del bambino. Gamper (1926), in uno studio dettagliato su di un caso di anencefalia, ha dimostrato che questo comportamento è già sviluppato perfettamente a livello mesencefalico. Sono assai noti i lavori che Minkowski, dal 1916, ha condotto sul riflesso di suzione nel feto. Kubie e Tilney (1931), e Tilney e Casamajor (1924), hanno dimostrato il meccanismo neurofisiologico del rooting nei piccoli mammiferi (gatto, coniglio, lepre, topo ecc.). Prechtl e Klimpfinger (1950 e 1952), hanno studiato il rooting nel comportamento degli animali. Possiamo così riassumere le loro conclusioni: la stimolazione a-simmetrica (unilaterale) del muso o delle labbra, determina il movimento rotatorio della testa. Quando la stimolazione diventa simmetrica per stimolazione contemporanea del labbro superiore ed inferiore, il movimento rotatorio viene inibito, la bocca si ferma, e comincia la suzione. Rotazione e suzione si escludono reciprocamente. Kubie e Tilney poterono dimostrare che negli animali, a questo stadio di sviluppo, le vie nervose che collegano lo stomaco con il cervello, la bocca, il labirinto e gli arti, sono sufficientemente sviluppate per coordinare questi organi nella funzione dell’alimentazione. Questo brevissimo riassunto dimostra che il movimento rotatorio della testa è saldamente radicato nell’ontogenesi, nello sviluppo embriologico e nella filogenesi. Durante i mesi che seguono la nascita, il movimento diventa sempre più preciso, e al terzo mese il neonato afferra il capezzolo con un rapido movimento della testa; questo movimento della testa
rappresenta lo sforzo del neonato per raggiungere l’alimento. È un comportamento preparatorio (Ostow), un movimento di avvicinamento che ha un senso positivo; dal punto di vista psicologico, si potrebbe definire affermativo. Questi movimenti rotatori, che servono ad orientare la bocca del lattante verso il capezzolo con l’ausilio della sensibilità tattile, spariscono quando entra in funzione l’orientamento visivo e si instaura la coordinazione muscolare. Ma al sesto mese il movimento ricompare in situazione diametralmente opposta a quella in cui si era presentato alla nascita. Il bambino di sei mesi, quando è sazio, volta la testa da una parte all’altra, per allontanarsi dal seno, dal cucchiaio o dal nutrimento in genere, con lo stesso movimento rotatorio che aveva alla nascita. Tuttavia, questo movimento si è trasformato in un comportamento di fuga, di rifiuto; ha acquistato un senso negativo. Ma è ancora un comportamento, non un segno semantico; trascorrerà ancora molto tempo prima che il bambino possa trasformare questo comportamento di rifiuto in un segno semantico di rifiuto. Queste sono le tappe principali dell’evoluzione dello schema motorio di cui si servirà il gesto di negazione. Sottolineiamo che durante tutto il primo anno, esiste solo lo schema motorio; questo schema ha la funzione, dapprima di raggiungere l’alimento, in seguito di rifiutarlo. Solo verso il quindicesimo mese, il gesto acquista un significato ideativo o piuttosto, viene messo al servizio di un contenuto ideativo. Riteniamo che lo schema motorio del gesto di diniego, attraversi tre distinte fasi nel corso del suo sviluppo ontogenetico. Inizialmente, alla nascita, il rooting è un comportamento affermativo. Questo non ci sorprende. Freud ha più volte sottolineato che non esiste alcun “no” proveniente dall’inconscio (Freud, 1925). Questo deriva dalla natura stessa del processo primario. Poiché il neonato non è cosciente nelle prime settimane dopo la nascita, esso si comporta secondo le regole del processo primario, e le sue azioni e reazioni sono il risultato di scariche di tensione inconsce; pertanto, il suo comportamento non potrà esprimere una negazione. Nel secondo stadio, quando il bambino rifiuta il nutrimento col movimento rotatorio della testa, siamo nella fase in cui si formano i primi rudimenti dell’Io cosciente. Tuttavia, in questo stadio, un bambino non dispone ancora di mezzi di comunicazione diretti verso un’altra persona.
Visto dall’esterno, questo comportamento esprime un rifiuto; ma questo rifiuto non è rivolto ad un altro individuo, ma è solo l’espressione di uno stato psicofisico del bambino. Solo al quindicesimo mese, nel terzo stadio, lo schema motorio congenito del rooting è posto al servizio dello schema astratto della negazione, per cui diventa possibile interpretare questo comportamento come un messaggio indirizzato ad altri. A questo punto dello sviluppo, lo schema motorio è integrato in un sistema di comunicazione. Abbiamo presentato in una rapida scorsa i nostri risultati sulla comparsa del primo segno semantico e del primo concetto. Nello studio originale di questo problema, ci siamo valsi, da una parte, di alcune osservazioni dirette sul lattante e di alcuni casi clinici, dall’altra, di una vasta letteratura psicologica, neurofisiologica, filogenetica, etologica, ecc. In questo breve riassunto, siamo stati costretti a tralasciare tutti questi dati: per questa parte del nostro lavoro rimandiamo allora il lettore alle pubblicazioni precedentemente citate. Tuttavia, anche se il lettore concorda con le nostre conclusioni nei riguardi del gesto di diniego, può sempre obiettarci che il gesto opposto, quello affermativo mediante movimento verticale della testa, è altrettanto diffuso sulla terra, ma che niente di quanto abbiamo detto sul primo può essere applicato al secondo. È poco probabile che l’identificazione con l’aggressore o con la persona frustrante abbiano importanza per la formazione del movimento affermativo come gesto semantico, sebbene l’identificazione con l’oggetto debba avere qui un suo ruolo. Si potrebbe dire che la pulsione aggressiva ha importanza preponderante (ma non esclusiva) nello sviluppo della negazione, mentre la pulsione libidica giocherà il medesimo ruolo nell’evoluzione dell’affermazione. Lo schema motorio del gesto di diniego avrà così un destino diverso da quello riservato al movimento affermativo. Non è possibile considerare in quale tipo di schema motorio il movimento affermativo abbia il suo prototipo fin dalla nascita. Non solo è impossibile isolare un movimento verticale nel rooting, ma anche la muscolatura stessa del collo non è sufficientemente sviluppata alla nascita per reggere liberamente la testa e permettere tale movimento. Per questo abbiamo insistito sul fatto che inizialmente tutti i comportamenti hanno un carattere affermativo, e sono diretti verso il soddisfacimento dei bisogni. È interessante notare che uno di questi
comportamenti sarà privato del suo significato affermativo, e sarà investito di un significato negativo. Che ne è dunque dell’affermazione? Dove è possibile trovare il prototipo arcaico dello schema motorio del movimento verticale? Ciò che abbiamo riscontrato a proposito di questo problema non ci ha troppo sorpresi. Questo prototipo ha la sua origine in un comportamento che si sviluppa in rapporto all’alimentazione. Solo che questo non è presente fin dalla nascita, ma comincia ad evolversi solo tre mesi più tardi. Dai tre ai sei mesi il bambino è già in grado di sollevare e di muovere la testa con la muscolatura del collo; inoltre comincia anche ad orientarsi visivamente. Abbiamo osservato che all’età di 3-6 mesi, se si toglie il capezzolo al bambino durante l’allattamento, questi eseguirà dei movimenti verticali avvicinandosi con la testa verso il seno. Questi movimenti corrispondono al movimento affermativo della testa, e ne costituiscono il prototipo. Nei mesi successivi essi si integreranno nel comportamento di avvicinamento del bambino. In contrasto col movimento in senso orizzontale, che cambia di significato nel corso dello sviluppo, per diventare negazione, il movimento verticale della testa manterrà la sua funzione affermativa. Durante il secondo anno, acquista significato semantico e diventerà il gesto di affermazione, molto probabilmente qualche mese dopo la comparsa del gesto semantico di diniego. Non seguiremo lo schema motorio del movimento verticale nelle sue origini preistoriche. Ciò ci condurrebbe ad esporre numerosi problemi etologici, che esulano dal quadro di questo studio. Ci limiteremo a rilevare ancora una volta che ogni comportamento rappresenta inizialmente una tendenza a scaricare delle pulsioni, e pertanto rappresenta un’affermazione. La storia dell’evoluzione del “no” e del “sì” e la loro differenziazione in direzioni diametralmente opposte durante il primo anno, è un esempio lampante dell’importanza fondamentale che ha lo sviluppo psichico per i comportamenti arcaici; nello stesso tempo è la conferma delle ipotesi di Freud sull’origine del senso antitetico delle parole primitive.
CAPITOLO DECIMO Deformazioni e deviazioni delle relazioni oggettuali
Nelle pagine precedenti abbiamo cercato di dimostrare che durante il primo semestre di vita, il bambino trova la sicurezza assoluta nell’atteggiamento affettivo della madre. La sicurezza acquisita in quest’epoca si tradurrà in uno sviluppo rapido nel secondo semestre. I segnali affettivi che il bambino ha ricevuto dalla madre, la loro qualità, la loro costanza, la loro certezza e stabilità, gli assicurano un normale sviluppo. Questi segnali affettivi della madre sono determinati dal suo atteggiamento affettivo inconscio, cioè il comportamento della madre si manifesta in forme di cui essa stessa non si rende necessariamente conto. Quindi tutto procederà regolarmente quando l’atteggiamento affettivo della madre è, per usare un pleonasmo, “normale”. Tuttavia, le deviazioni dalla norma possono essere assai varie; la madre può ipercompensare la propria ostilità, oppure può manifestarla; queste deviazioni tenderanno a tradursi in segnali inconsistenti e variabili, i quali non possono più servire ad un orientamento ben definito per il bambino. L’affetto della madre può essere cangiante e contraddittorio. Il bambino risponderà a questi segnali variabili, instabili, che non gli offrono alcuna sicurezza, formando dei rapporti oggettuali impropri o insufficienti o inesistenti. Rapporti oggettuali di questo tipo sono una deviazione patologica dalla norma. La loro conoscenza è di grande interesse per la prevenzione delle affezioni psichiche. In rapporto a questo problema, abbiamo esaminato un materiale considerevole; tuttavia questo rappresenta solo un saggio di quanto resta da fare in futuro. Vogliamo ora considerare brevemente le diverse forme a cui può giungere la deformazione del rapporto oggettuale. Ho già detto che le nostre ricerche sul lattante sono facilitate dal fatto che la totalità dei fattori che operano nell’universo infantile nel primo anno di
vita, sono limitati alla madre e al bambino. Ciò ha semplificato il nostro lavoro, cosicché le osservazioni da noi raccolte su di un numero relativamente piccolo di soggetti (336), ci hanno messo in grado di formulare una classificazione etiologica delle deformazioni dei rapporti oggettuali nel lattante. Abbiamo avanzato l’ipotesi che queste deformazioni possano manifestarsi come anomalie nello sviluppo della personalità infantile nel primo anno di vita. Nell’esposizione che segue tralasceremo tuttavia i fattori congeniti, poiché la loro esplorazione complicherebbe notevolmente il nostro lavoro; d’altra parte, allo stato attuale delle conoscenze, questo sarebbe un compito insolubile. Allo stesso modo, eviteremo di prendere in considerazione le deformazioni della personalità che possono derivare da infermità fisiche o di altro genere del bambino. Abbiamo evitato accuratamente di includere nel nostro materiale di osservazione quei bambini che presentassero tali infermità. Abbiamo escluso ad esempio bambini nati ciechi o prematuri di molti mesi, i quali rappresentavano tuttavia rare eccezioni nella popolazione da noi considerata. Ci siamo intenzionalmente limitati a quegli Istituti che si occupano esclusivamente di bambini sani. I bambini che erano affetti da difetti congeniti, o nei quali erano insorte più tardi malattie croniche, venivano trasferiti in istituti appositi. Lo stesso dicasi per i bambini delle famiglie da noi esaminate. Ne risultò che nei soggetti esaminati gli influssi, nocivi o non, erano limitati al rapporto madre-figlio. Ammettiamo quindi, come prima ipotesi, che se la relazione madre-figlio è normale, non dovrebbero esistere deviazioni o disordini nello sviluppo psichico del bambino, eccezione fatta per l’intervento accidentale di fattori di natura fisica, come malattie intercorrenti. Definiamo normale la relazione madrefiglio quando essa soddisfa sia la madre sia il bambino. In questa definizione sono compresi due fattori che, come abbiamo detto più volte, sono assai differenti fra loro. Ciò che soddisfa la madre è molto diverso da ciò che può soddisfare il lattante. Cominciamo con la madre: la soddisfazione della madre proviene dal ruolo che può avere per la sua particolare personalità il fatto di possedere e di allevare un bambino che fino a poco tempo prima costituiva una parte del suo corpo. È una gratificazione narcisistica da un lato, una soddisfazione della libido oggettuale dall’altro. In termini di concetti strutturali, la soddisfazione che la madre riceve dal proprio bambino sarà una soddisfazione del suo Es, del suo Io e del suo Super-io. Queste considerazioni dimostrano che le
soddisfazioni che ogni madre può ottenere dal rapporto col proprio bambino, sono determinate dalla natura delle componenti della sua personalità, dalle trasformazioni alle quali tali componenti sono state soggette fino a quel momento. Molto dipende poi dalla maniera in cui il bambino, in virtù del suo patrimonio congenito, sarà capace di soddisfare il complesso costituito da questi diversi elementi della personalità materna da un lato, e dalle condizioni imposte dalla realtà esterna dall’altro. Dal punto di vista del lattante, le relazioni oggettuali devono soddisfare i bisogni più disparati. Inizialmente il lattante è un organismo che si trova in uno stadio di sviluppo rapido e progressivo. Per queste ragioni la natura stessa delle sue soddisfazioni sarà soggetta a trasformazioni rapide e diverse, a seconda degli stadi successivi del suo sviluppo. Nello stadio più primitivo, quando non è ancora entrato in funzione un Io, le relazioni con la madre serviranno a realizzare bisogni più fisiologici che psicologici. Saranno soddisfazioni che apportano al bambino la sicurezza, l’appagamento di bisogni e la liberazione da tensioni spiacevoli. Con la comparsa dell’Io, le soddisfazioni necessarie al lattante esigono dei rapporti sempre più vari e complessi; le risposte della madre alle iniziative del bambino gli permettono di soddisfare le sue pulsioni sessuali e di aggressione in forma di azione. Sono interazioni circolari fra madre e bambino, che vanno sviluppandosi sempre più. Esse rendono possibili e facilitano i processi di maturazione del bambino, e provocano una crescente complessità nella struttura dell’Io e la formazione di numerosi sistemi nuovi. Questa complessità crescente dell’Io, moltiplica in modo geometrico la gamma di soddisfazioni che il bambino desidera trarre dalle relazioni oggettuali. Mi rendo conto come questa definizione delle relazioni oggettuali normali resti nel vago, e quanto sia provvisoria. È difficile, se non impossibile, trovare una formula che esprima la marea multiforme ed invisibile, i flussi e riflussi silenziosi, potenti e allo stesso tempo sottili, che si attuano in queste relazioni. Ma non si insisterà mai abbastanza sul fatto che le relazioni oggettuali si realizzano per un’interazione costante fra due partner assai diversi fra loro, la madre e il bambino: ciascuno dei due provoca le reazioni dell’altro, e questa relazione interpersonale consiste in un campo di forze in continuo mutamento, che agiscono costantemente le une sulle altre. Forse, parlando di relazioni oggettuali che soddisfano sia la madre che il figlio, possiamo dire che si tratta di forze o di relazioni che si completano fra loro in modo tale, che non
solo offrono soddisfazione ad uno dei due partner, ma che la soddisfazione di uno di essi rappresenta contemporaneamente la soddisfazione dell’altro. Nelle pagine che seguono descriveremo le deformazioni delle relazioni oggettuali, ma ci porremo dal punto di vista delle influenze materne. Nelle relazioni fra la madre e il bambino la madre è il partner dominante, attivo. Almeno durante i primi mesi, il bambino è il recettore passivo – saranno quindi le deviazioni della personalità materna che si manifesteranno nei disturbi del bambino. Limitando in questo modo gli influssi psicologici durante l’infanzia alla relazione madre-figlio, arriviamo implicitamente alla seconda ipotesi. Questa afferma che gli influssi psichici nocivi sorgono in seguito a relazioni non soddisfacenti fra madre e bambino. Queste relazioni dannose possono essere suddivise in due categorie: 1. Relazioni madre-figlio inadeguate; 2. Relazioni madre-figlio insufficienti. In altri termini, la deformazione delle relazioni oggettuali è qualitativa nella prima categoria, quantitativa nella seconda. Relazioni madre-figlio inadeguate. Si possono presentare nelle forme più svariate. Abbiamo riscontrato un certo numero di quadri clinici che sembrano correlati a forme specifiche ed improprie di relazioni madrefiglio, e che appaiono essere la conseguenza specifica del comportamento materno. Parlando di quadri clinici abbiamo introdotto implicitamente il concetto di patologia. In effetti i quadri clinici che descriveremo sono stati considerati, almeno in parte, come appartenenti al dominio della pediatria: si tratta di disturbi che intervengono nella prima infanzia. Non vogliamo tuttavia sostenere di avere trovato, nelle deformazioni specifiche delle relazioni oggettuali da noi riscontrate in correlazione a questi diversi quadri patologici, l’etiologia soddisfacente per ognuna di queste malattie. In alcuni casi abbiamo trovato dei fattori congeniti che contribuisco in modo manifesto allo sviluppo della malattia in questione se vi si aggiunge un fattore psicogeno. Per esprimerci quindi con prudenza, desideriamo affermare che i quadri clinici che descriveremo sono stati da noi osservati in determinati ambienti. Abbiamo descritto dettagliatamente tali ambienti nelle nostre pubblicazioni. Questi ambienti appartengono tutti alla civiltà occidentale. I quadri clinici presentati da un numero statisticamente significativo di lattanti osservati in tali ambienti, erano in parte malattie organiche, in parte comportamenti anomali. Abbiamo potuto stabilire che
all’origine di tali quadri (a parte altri elementi enumerati nelle nostre pubblicazioni), si possono isolare dei fattori psicogeni, derivanti dal rapporto madre-figlio. Con queste constatazioni abbiamo limitato la portata dei nostri risultati agli ambienti considerati. L’indagine dei nostri risultati in ambienti diversi e in altri tipi di civiltà, dimostrerà se è lecito generalizzare queste conclusioni. Negli ultimi vent’anni ci si è abituati ad ammettere che nell’adulto, traumi e lesioni psichiche, possono provocare malattie somatiche. Questo rapporto è tanto meno sorprendente nel bambino che si trova, come abbiamo detto nella prima parte di questo lavoro, in uno stadio di insufficiente differenziazione fra soma e psiche. Ci si può quindi aspettare che influssi psichici abbiano un effetto sul soma, oppure che un influsso psichico possa abbassare le resistenze del bambino alle varie malattie. La nostra ipotesi per il primo tipo di deformazioni delle relazioni oggettuali, afferma quindi che la madre si comporta in modo da offrire al bambino delle relazioni improprie, che i suoi comportamenti specifici sono nocivi ai suoi rapporti col bambino, agendo come una tossina psichica. Per questa ragione abbiamo definito questo gruppo di disordini delle relazioni oggettuali, o piuttosto le conseguenze che ne derivano, “disturbi psicotossici dell’infanzia”. Nell’etiologia dei disturbi psicotossici dell’infanzia ho potuto distinguere una serie di comportamenti materni dannosi. Li enumeriamo nell’ordine cronologico in cui si presentano nel primo anno: 1. Rifiuto primario evidente. (Il termine “mancata accettazione” sarebbe più adeguato per descrivere questo comportamento materno; tuttavia questo termine è stato riservato da E. Pichon ad un concetto psicoanalitico diverso). a) Rifiuto attivo. b) Rifiuto passivo (quest’ultimo comporta in effetti un ritrarsi della madre, una mancata accettazione). 2. Preoccupazione primaria ansiosamente esagerata. 3. Ostilità sotto forma di preoccupazione ansiosa. 4. Oscillazioni rapide fra indulgenza e ostilità aggressiva. 5. Sbalzi d’umore ciclici ad onde lunghe della madre. 6. Ostilità coscientemente compensata. Descriveremo più avanti i quadri clinici correlativi a questi comportamenti materni.
CLASSIFICAZIONE DEI DISTURBI PSICOGENI DEL BAMBINO CORRELATI ALL’ATTEGGIAMENTO DOMINANTE DELLA MADRE
Rapporti madre-figlio insufficienti. La seconda delle grandi categorie è quella delle relazioni insufficienti, vale a dire di quei bambini che sono privati della madre. Questi bambini presentano un quadro clinico assai caratteristico; è come se fossero privati di qualcosa di indispensabile al loro sviluppo completo, di un elemento essenziale alla vita. Si osserva un
fenomeno analogo nelle avitaminosi; per questo ho chiamato questa seconda categoria “disturbi da carenza affettiva”. Quando i bambini sono privati delle relazioni con la madre, senza che questa venga sostituita, sono privati di ciò che ho chiamato “apporto libidico”, in analogia a ciò che definiamo in analisi apporto narcisistico. Nei bambini che soffrono di disturbi da carenza affettiva l’apporto libidico è insufficiente. I disturbi da carenza affettiva si suddividono in due categorie, a seconda della misura in cui il bambino è stato privato dell’apporto libidico: 1.carenza parziale; 2. carenza totale. È evidente che la carènza completa si riferisce solo all’apporto libidico; il bambino ha a disposizione un minimo di nutrimento, di igiene, di calore ecc., senza il quale morirebbe. La tabella precedente riassume gli atteggiamenti materni e/o i disturbi infantili corrispondenti. Procediamo ora ad esporre in ordine le sindromi enumerate nella tabella (fig. 15).
CAPITOLO UNDICESIMO Disturbi psicotossici
1. RIFIUTO PRIMARIO In questa sindrome, l’atteggiamento materno consiste in un rifiuto globale della maternità, vale a dire sia della gravidanza sia del bambino – probabilmente anche dell’atto sessuale.
2. RIFIUTO PRIMARIO PASSIVO La reazione del neonato alla madre che non lo accetta è stata descritta da Margaret Ribble nel 1937 (54). Nei casi estremi il neonato va incontro al coma, con dispnea di tipo Cheyne-Stokes, pallore estremo e sensibilità ridotta. Questi bambini devono essere trattati come se fossero in stato di choc, con clisteri salini, glucosio endovenoso o trasfusioni sanguigne. Appena si sono ripresi occorre insegnare loro a poppare stimolando la bocca. In questi casi la vita del neonato è in pericolo. Ho osservato e filmato alcuni di questi casi (M. 44). Caso Mat. n. 55. – La madre del bambino ha 16 anni, è una ragazza dai tratti delicati, non è sposata. Lavora come domestica; è stata sedotta dal figlio del padrone, e un solo rapporto sessuale ha provocato la gravidanza. È cattolica praticante. La gravidanza si accompagna a gravi sentimenti di colpa, il bambino non è affatto desiderato. Il parto ebbe luogo in clinica ostetrica e si svolse normalmente. Dopo 24 ore il bambino fu attaccato al seno senza successo; egualmente avvenne alla poppata successiva. La madre affermava di non avere latte. Tuttavia non esisteva alcuna difficoltà a spremere manualmente il latte dal seno. Anche il bambino non aveva alcuna difficoltà a poppare il latte dal poppatoio. Quando il bambino veniva attaccato al seno, la madre lo
trattava come un estraneo, come una cosa e non come un essere vivente; aveva un atteggiamento di rifiuto, rigida e tesa nel corpo, nelle mani e nel viso. Questa situazione si protrasse per cinque giorni. Abbiamo filmato l’ultimo tentativo, in cui si può osservare il bambino cadere in una specie di stupore semicomatoso, come quello descritto dalla Ribble. Il bambino fu resuscitato con clisteri salini e alimentazione con sonda gastrica. A causa delle circostanze e del livello intellettuale della madre, abbiamo usato il metodo più semplice, consistente in precise istruzioni alla madre corredate da esercizi pratici: come comportarsi col bambino, come tenerlo, come offrirgli il seno. Nello stesso tempo si è provveduto a rimettere il bambino e, dopo cinque giorni, la poppata finalmente riusciva, il bambino si riprendeva, almeno nei sei giorni successivi, durante i quali abbiamo avuto occasione di seguirlo. Ci si può domandare come si svilupperà un bambino, in un caso di rifiuto così manifesto fin dall’inizio. Benché il pericolo della morte in questa reazione primaria sia stato superato, mi sembra che si instaureranno altre sequele psicosomatiche, anche se meno gravi. Credo che certi casi di vomito nei primi tre mesi di vita appartengano a questa categoria. Riportiamo un altro esempio, sebbene in questo caso crediamo che il comportamento della madre appartenga piuttosto alla categoria 1. Rifiuto attivo, Caso WF n. 3. – Inizialmente la madre nutre il bambino al seno, poi rifiuta di continuare ad allattarlo, affermando che il bambino vomita. Si allatta il bambino con la bottiglietta, ma questi continua a vomitare. Si varia la formula. Durante tutto questo periodo la madre si lamenta nei riguardi del bambino. Dopo tre settimane di questo regime, la madre contrae una forma influenzale; viene trasferita in ospedale e separata dal bambino. Il bambino fu allattato al poppatoio, con la stessa formula, da una persona diversa. Il vomito cessò immediatamente. Questo regime continua per sei settimane. Dopo tale periodo la madre lascia l’ospedale. Il vomito riprende entro quarantott’ore. Se vogliamo fare le nostre considerazioni su questi casi, insufficientemente studiati, possiamo affermare che il rifiuto materno, la mancata accettazione, è di natura non oggettuale; essa non è diretta verso il bambino come individuo, ma verso il fatto di avere un bambino. In altri
termini è un rifiuto della maternità. È un comportamento che si ritrova solo durante le prime settimane – forse anche i primi mesi di vita del bambino. Successivamente l’individualità del bambino si fa sentire e l’ostilità materna si svilupperà in modo più specifico e in funzione della particolare personalità del bambino. Più il bambino si fa grande e più la sua personalità si arricchisce e si modifica; l’ostilità materna verrà in conflitto con questa personalità infantile più sviluppata, e ne risulterà un’ostilità materna espressa con modalità individuali e variabili. Questo contrasta completamente col rifiuto materno non oggettuale, rifiuto che non è diretto al bambino come individuo, ma al fatto di avere un bambino. Si può pensare che l’atteggiamento di queste madri, la loro ostilità generalizzata verso la maternità, abbia la sua origine nella loro storia personale, nei loro rapporti col padre del bambino, nel modo particolare in cui hanno risolto il loro conflitto edipico, nella loro angoscia di castrazione. I rapporti instaurati successivamente col bambino giocheranno la loro parte nei mesi seguenti – si avrà un’elaborazione secondaria che trasformerà l’ostilità generalizzata della madre in forme specifiche. Il rifiuto manifesto primario esercita la sua influenza su un bambino che non ha ancora sviluppato un metodo di difesa o un qualsiasi adattamento. Ricordiamo che alla nascita il bambino è nella fase più arcaica dello stadio narcisistico primario; sta sviluppando le forme di oralità più arcaiche che poi si trasformeranno nello stadio orale propriamente detto, secondo la terminologia psicoanalitica. A questo stadio arcaico, i contatti del lattante con il suo ambiente sono stati appena trasferiti dal cordone ombelicale alla bocca e alla incorporazione. È logico che nel caso da noi descritto i sintomi più manifesti siano costituiti da una paralisi dell’assunzione del cibo nei primi giorni di vita e dal rifiuto del cibo, mediante vomito, in una fase ulteriore.
3. PREOCCUPAZIONE PRIMARIA ANSIOSAMENTE ESAGERATA L’atteggiamento materno che sta alla base della preoccupazione ansiosa primaria è una forma speciale, insorgente durante il primo trimestre di vita, della “maternal overprotection” di David Levy (45). È un concetto di cui hanno abusato diversi autori, e col quale si è indicata una gamma estesa di forme di comportamento e di atteggiamenti, senza riguardo alle motivazioni
che ne sono alla base. Nei capitoli seguenti ci sforzeremo di distinguere le diverse forme di questa “maternal overprotection”, sulla base di ricerche atte a svelare le motivazioni materne soggiacenti; ci occuperemo poi delle forme individuali in cui si manifesta questo comportamento, cercando di metterle in rapporto ai disturbi clinici specifici del bambino. Crediamo che la sollecitazione primaria ansiosa della madre sia in rapporto con il quadro che Benjamin Spock ha definito colica dei 3 mesi nel lattante. La “colica dei 3 mesi” è un quadro ben noto negli ambienti pediatrici. Il quadro clinico è il seguente: dopo la terza settimana di vita e fino al terzo mese, il bambino comincia a gridare nel pomeriggio. Lo si può quietare temporaneamente dandogli da mangiare. Si ha l’impressione che il bambino abbia dei dolori colici. Pur variando il regime alimentare dal seno alla bottiglietta, o dalla bottiglietta al seno; cambiando la formula alimentare non si ottiene alcun risultato. Anche numerosi medicamenti, fra cui l’atropina, non ottengono in genere alcun successo. L’evacuazione in questi bambini non ha niente di patologico, quantunque in alcuni casi si possa avere una leggera forma diarroica. I dolori del bambino durano diverse ore; poi si calmano per ricominciare il giorno seguente. Verso i 3mesi circa, questo disturbo tende a scomparire, inesplicabilmente come è comparsa, con grande sollievo della madre e del pediatra. Mi pare interessante un’osservazione fatta da pediatri sudamericani e spagnoli. Essi avevano sì osservato la colica dei 3 mesi, ma l’avevano chiamata “dispepsia transitoria” (2, 3). Finkelstein (10) aveva descritto uno stato simile col termine di Spastische Diathese, e Weill (74) ne ha attribuito la causa ad una incapacità di digerire il latte materno. Alarcon (2, 3) prima, e più tardi Soto (60), avevano osservato che la colica dei 3 mesi è sconosciuta nei bambini ricoverati in istituto. Secondo la mia esperienza posso confermare pienamente questa osservazione. La colica dei 3 mesi non rappresenta alcun problema nei diversi istituti ove ho avuto modo di osservare dei bambini. Era completamente assente nei bambini allevati in istituto, senza alcuna cura da parte della madre. Era presente abbastanza frequentemente in uno degli istituti da noi osservati, quello chiamato Nursery, nel quale le relazioni madre-figlio erano relativamente migliori. Per contro, nel numero relativamente piccolo di bambini allevati nelle famiglie private da noi osservate, la colica dei 3 mesi era assai frequente.
Soto spiega l’assenza di colica dei 3 mesi negli istituti, affermando che qui i bambini non sono “viziati”. Egli, dopo aver osservato un numero considerevole di bambini in un Asilo per l’Infanzia abbandonata, descrive il modo in cui sono trattati come segue: «L’infermiera prende il bambino in braccio solo per dargli l’alimento, con l’indifferenza che caratterizza coloro che si occupano di un bambino non proprio». Nessuno dei bambini osservati da Soto in questi istituti soffriva di “colica dei 3 mesi”, tranne uno. Questa eccezione era costituita da un bambino adottato all’età di sei settimane da una signora, descritta da Soto come assai gentile; essa lo prendeva molto in braccio, giocava sempre con lui, riuscendo, nel corso di pochi giorni, a renderlo piagnucoloso e soggetto a coliche. Secondo Soto ciò è il risultato della “preoccupazione esagerata” di questa signora e del “disordine” introdotto nel regime regolare e sistematico che esisteva in precedenza. Soto pensa che il regime severamente regolato degli Asili per l’Infanzia abbandonata e la mancanza completa di preoccupazione materna spieghino l’assenza della colica dei 3 mesi in questi ambienti. Questa osservazione è completata da un’affermazione di Spock, il quale pensa che la preoccupazione esagerata della madre rientri nell’etiologia della “colica dei 3 mesi”. Rimane da vedere quale delle numerose forme in cui si presenta la preoccupazione esagerata della madre, agisce sul bambino e in quale modo. Recentemente è stata pubblicata da Milton Levine e Anita Bell (43) una serie di interessanti osservazioni su diversi lattanti, affetti da colica dei 3 mesi. Spock aveva già notato che i casi da lui osservati si trovavano regolarmente fra bambini allevati in famiglia. Soto aveva constatato che tali disturbi erano assenti nei bambini allevati in istituto. Levine e Bell osservarono 28 lattanti, tutti allevati dalla madre, in famiglia, col regime della self-demand (orario a piacere, nutrimento a volontà): tutti soffrivano di colica dei 3 mesi. Queste osservazioni introducono un nuovo elemento al nostro quadro. La self-demand esige che la madre offra il nutrimento (sia al seno, sia alla bottiglia) ogni volta che il bambino desidera poppare. Il principio era ben illustrato nel rapporto di un ostetrico il quale, entusiasta del metodo, l’aveva introdotto nella sua clinica; egli poté osservare che i bambini nei primi giorni di vita furono alimentati fino a 28 volte nelle 24 ore. Non mi pare esagerato affermare che una madre che accetta la self-demand evidenzi
della preoccupazione verso il suo bambino – e che questa sollecitudine possa ben prendere la forma di una preoccupazione ansiosamente esagerata. Levine e Bell riportano un altro fattore, di cui Spock non parla, mentre Finkelstein da un lato e Alarcon dall’altro pare l’avessero intravisto. Tutti i 28 lattanti osservati dagli autori mostrarono fin dall’inizio una ipertonia. Con questo termine si volle indicare un tono più sostenuto della norma a carico della muscolatura generale, di quella addominale e dei movimenti intestinali in particolare. Fu proposta una terapia assai antica: diedero una tettarella a questi bambini e le coliche, che avevano resistito agli sforzi ripetuti dei pediatri, disparvero improvvisamente. Come spiegare l’effetto soprannaturale della tettarella? È possibile formulare un’ipotesi teorica sulla dinamica di questa terapia? Per arrivare a questa ipotesi, consideriamo i dati che abbiamo raccolto sulla colica dei 3 mesi. Nell’etiologia del disturbo, troviamo due fattori: la preoccupazione materna esagerata da un lato, e una ipertonia del bambino alla nascita dall’altro. Io proporrei un’ipotesi etiologica che considera due fattori concorrenti: quando un neonato con ipertonia congenita è allevato da una madre che dimostra una preoccupazione esageratamente ansiosa, si può sviluppare una colica dei 3 mesi. Con questo abbiamo formulato un’ipotesi che segue il postulato di Freud sulla serie complementare nell’etiologia della nevrosi, di cui abbiamo parlato nella nostra introduzione (punto 9), vale a dire la supposizione dell’esistenza di una compiacenza somatica. Nel lattante la situazione è assai semplice: non esiste conflitto fra Io e Super-io, poiché entrambi mancano; si stabilisce un circolo vizioso fra l’ipertonia del lattante e la preoccupazione esagerata della madre, particolarmente quando si segue la self-demand. È naturale supporre che una madre con preoccupazione esagerata tende a reagire ad ogni manifestazione di dispiacere del bambino dandogli da mangiare al seno o alla bottiglia. Si può anche ammettere che siano le ostilità inconsce della madre a darle un sentimento di colpa, che lei ipercompensa. Per questa ipercompensazione essa accetta ed insiste nel sistema della self-demand, che certamente, dal punto di vista della madre, ha l’aspetto di una autopunizione per il desiderio di non dare niente al bambino, in special modo il seno. È relativamente facile isolare i fattori psicologici e dinamici del comportamento materno. È più difficile quando invece siamo di fronte alla
personalità indifferenziata del bambino di 3 settimane. Tuttavia qui ci viene in aiuto la fisiologia. Un bambino ipertonico ha bisogno di scaricare una tensione maggiore di quella di un bambino quieto e placido. L’organo principale per scaricare le tensioni durante la prima infanzia, le prime settimane di vita, è la bocca. Il bisogno di scaricare le tensioni è stato dimostrato da Levy (44), con esperienze su cani e bambini. Quando questi cani e questi bambini non avevano modo di succhiare il capezzolo per molto tempo, perché il latte scorreva troppo velocemente, essi tendevano a rimpiazzare questa mancata distensione succhiando molto più frequentemente altri oggetti o le dita. Nel processo di ingestione dell’alimento possiamo quindi distinguere due aspetti. 1. L’ingestione dell’alimento che soddisfa contemporaneamente la fame e la sete; 2. La scarica di una tensione o, se si preferisce, la soddisfazione della muscolatura orale mediante l’attività delle labbra, della lingua e del palato durante la suzione. È ovvio che la tensione che si scarica con l’attività orale non ha la sua origine nella zona orale, ma nella tensione libidica generale che esiste nel bambino. Le ricerche di Levy trovano un parallelo in quelle dello psicologo K. Jensen (39). Questi poté dimostrare in base a numerose esperienze eseguite su diverse centinaia di neonati, che subito dopo la nascita ogni stimolazione apportata nelle più diverse parti del corpo, ha per risposta la suzione. Queste stimolazioni consistevano in stimoli neutri, fino a stimoli dolorosi; come tirare i capelli, pizzicare e persino lasciar cadere il bambino da un’altezza di 30 centimetri. È quindi lecito concludere che ogni elevamento di tensione trova la sua scarica nell’attività orale, almeno durante le prime settimane di vita. Se ritorniamo, dopo quanto abbiamo detto, ai bambini osservati da Levine e Bell, possiamo concludere quanto segue: poiché questi bambini erano ipertonici, manifestavano con grande frequenza il bisogno di scaricare le loro tensioni con manifestazioni di dispiacere. Le madri reagivano a ciò offrendo loro l’alimento. Possiamo presumere che queste madri, data la loro preoccupazione esagerata, erano meno capaci di distinguere se il bambino ha fame o se piange per un’altra ragione, di quanto poteva fare una madre che avesse avuto minori sentimenti di colpa. Per conseguenza il bambino otteneva la scarica di tensione mediante l’alimento, che costituiva uno stimolo per la sua bocca. Ma non essendo l’alimento ciò che il bambino desiderava, avendo bisogno di una scarica
orale, egli si tranquillizzava solo temporaneamente. D’altra parte la sua ipertonia aveva per conseguenza un aumento dell’attività del sistema digerente, e l’alimento superfluo introdotto aumentava evidentemente l’irritazione del sistema digerente stesso. Si sviluppa così un circolo vizioso: il bambino ipertonico scarica la tensione che non si era scaricata durante la poppata normale, gridando o agitandosi. La madre, nella sua preoccupazione, esagera la self-demand e nutre immediatamente il bambino. Durante questa poppata si scarica una certa quantità di tensione, e il bambino si calma per breve tempo. L’alimento che il bambino ha ricevuto sovraccarica il sistema digestivo e causa un nuovo stato di malessere, al quale il bambino reagisce nuovamente con agitazione e grida. La madre non concepisce le grida del bambino se non nel quadro della self-demand e riprende a nutrire il bambino, e in questo modo il circolo vizioso continua. Come si spiega che il fenomeno sparisce quando un bambino ha circa 3 mesi? Si può supporre che dopo 3 mesi anche madri con sentimenti di colpa o senza esperienza siano stanche del regime della self-demand. Nel frattempo hanno forse acquisito maggiore esperienza nell’interpretare il pianto del loro bambino, evitando un’applicazione troppo alla lettera del sistema selfdemand. Ma è più importante il fatto che nel corso dei primi tre mesi il bambino sviluppa le sue prime reazioni dirette ed intenzionali, le sue prime esigenze nei confronti dell’ambiente. In questo momento si stabiliscono i primi rapporti sociali, il primo oggetto precursore, si attuano le prime rimozioni di investimenti lungo tracce mnestiche, comincia l’attività mentale, oltre ad altre attività fisiche, come i movimenti sperimentali, la partecipazione del bambino agli avvenimenti dell’ambiente. Fanno pure il loro debutto i primi tentativi di locomozione. In altri termini, nel corso del terzo mese è a disposizione del bambino una vasta gamma di attività mentali, affettive e psichiche. Non solo, ma egli è ora in grado di servirsene per scaricare le sue tensioni. Con ciò la zona orale non è più la sola a servire da scarica, come all’inizio. Come il bambino arriva a scaricare le tensioni pulsionali con altri mezzi, dirige sempre meno le sue esigenze verso la madre, e il circolo vizioso che ha per conseguenza la poppata secondo la self-demand, con colica successiva, si interrompe.
La terapia applicata da Levine e Bell, la disprezzata tettarella, è un dispositivo semplice e allo stesso tempo ingegnoso, che interrompe il circolo vizioso che abbiamo descritto. L’hanno trovato ricorrendo alla profonda saggezza delle nostre nonne. Tuttavia non posso attribuire a loro la responsabilità della teoria del circolo vizioso che ho descritto – non so se accetteranno questa teoria o no. Ma penso che la tettarella che essi danno al bambino affetto da colica dei 3 mesi, porti alla guarigione perché offre al bambino sofferente di tensione pulsionale orale un mezzo di scarica, evitando l’ingestione inopportuna dell’alimento nocivo al sistema digerente sovraccarico. È lecito supporre l’esistenza di altri metodi che permettano al lattante di scaricare le tensioni pulsionali in questo periodo di passività, quando non dispone di mezzi per farlo attivamente. Credo che un altro dispositivo antico, divenuto oggetto di disprezzo come la tettarella, possa servire allo stesso scopo. Mi riferisco alla culla e all’atto del cullare il lattante. Le nostre nonne sapevano ben quietare il lattante con la tettarella; noi l’abbiamo condannata perché non è igienica ipnotizzati dalla paura delle infezioni, come se non si potesse bollire una tettarella di gomma! Le nostre nonne sapevano anche che se si culla un bambino, questo si tranquillizza e si addormenta felice. Tuttavia abbiamo esiliato la culla senza valide ragioni, che io conosca. Ma non è forse evidente che un bambino ipertonico può scaricare molta tensione se viene cullato per un periodo relativamente lungo? Questo risulta evidente verso i 3 mesi, quando il bambino riesce a procurarsi una distensione da solo, mediante movimenti di dondolio del corpo, e cessa di soffrire di “coliche dei 3 mesi”. Sono convinto che i primitivi, portando il loro bambino sul dorso o sull’anca per tutta la giornata, offrano un modo di scaricare le tensioni al lattante, da una parte col movimento trasmesso costantemente al bambino, dall’altra – cosa forse ancora più importante – mediante il contatto cutaneo diffuso, il contatto del corpo, con la trasmissione di stimoli termici, ecc. Possiamo domandarci giustamente se la distanza che noi interponiamo fra il bambino e noi stessi coi vestiti, la carrozzella, i mobili ecc., non lo privino del contatto cutaneo, delle stimolazioni provenienti dai muscoli e dalle sensibilità profonde, del dondolio che le popolazioni “meno progredite” prodigano ai loro bambini. Questo sviluppo è relativamente recente nella civiltà occidentale, e data da meno di 100 anni. Viene da domandarsi se privare i nostri bambini di quegli stimoli che la natura
assicura a tutti i mammiferi, non costituisca un grave errore, e se questo “progresso” della nostra civiltà non sia carico di conseguenze che cominciano a manifestarsi solo progressivamente, a causa del tempo necessario perché avvenga una generalizzazione dei costumi in una società così stratificata come la nostra. Ancora una parola sulla questione del regime self-demand (orario a piacere). Non si deve credere che io condanni la self-demand. Io credo che possa essere nociva solo nel caso di lattanti ipertonici, che dopo tutto sono la minoranza. Per gli altri bambini questo regime è ottimo. Inoltre il regime della self-demand non è il solo sistema mediante il quale la madre può manifestare la sua preoccupazione esagerata verso il bambino, sia esso ipertonico o non. Per questa ragione troveremo la colica dei 3 mesi in bambini che non sono soggetti alla self-demand; d’altra parte non dobbiamo credere che l’ipotesi emessa si applichi al 100% dei casi – possono darsi altre condizioni oltre al concorrere dell’ipertonia del lattante e della preoccupazione esagerata della madre. La concomitanza dei due fattori e il loro ruolo nell’etiologia della “colica dei 3 mesi” risulta chiara. Questo disturbo è caratteristico dello stadio in cui si trova il lattante in quest’epoca, nella quale la differenziazione fra psiche e soma è incompleta e la dinamica è più evidente nella psiche materna che in quella del bambino. Infatti sembra che nel bambino noi abbiamo essenzialmente il concorso della compiacenza somatica; mentre nella madre abbiamo un atteggiamento essenzialmente psicologico, nel quale il comportamento materno è condizionato da sentimenti di colpa. Credo tuttavia che anche la partecipazione somatica del bambino possa essere considerata almeno parzialmente psicologica, perché consiste in uno stato di tensioni pulsionali. A quest’età gli stati di tensione sono i precursori, e in un certo senso, gli equivalenti, degli stati affettivi che si sviluppano solo dopo la comparsa dell’Io. Siamo quindi più vicini alla fisiologia che alla psicologia – ma è da questi stati psico-fisiologici e dalle risposte che ne derivano, che si svilupperanno o si separeranno delle strutture e delle funzioni nettamente psicologiche. Per questa ragione ci siamo intrattenuti estesamente su questo disordine arcaico dei rapporti fra la madre e il figlio. Infatti esso rappresenta una delle forme più arcaiche, un precursore, dei disturbi che si svilupperanno più tardi nei rapporti oggettuali. È istruttivo osservare come a quest’epoca, nei disturbi delle relazioni fra madre e
bambino, prevalga il soma, mentre più tardi, dopo la formazione dell’Io, dominano la scena i disturbi psichici del comportamento. Aggiungiamo ancora che in questi due diversi stadi, prima della formazione dell’Io e dopo la sua comparsa, le leggi funzionali sono differenti. Il disturbo ora descritto si realizza nel primo periodo di transizione, e transizione dal puro somatico ai primordi della psiche; nel secondo periodo di transizione le funzioni somatiche si separano da quelle psichiche. Nel primo stadio ci troviamo perciò di fronte ad un groviglio inestricabile costituito dalle due funzioni, cosicché assistiamo ad un intrecciarsi costante di cause psichiche e fisiche. Ci si può domandare se nel caso di disturbi che si realizzano in un’epoca più avanzata, fino all’età adulta, si abbiano delle regressioni parziali a questo stadio. Queste possono essere possibili qualora si siano verificate fissazioni in questa epoca arcaica. Queste fissazioni possono realizzare o facilitare la somatizzazione, la partecipazione organica nel quadro delle nevrosi o delle psicosi.
4. OSTILITÀ MATERNA MASCHERATA DA STATI ANSIOSI In questo quadro clinico, l’atteggiamento materno consiste in manifestazioni di angoscia che si estrinsecano prevalentemente, ma non esclusivamente, nei confronti di tutto ciò che riguarda il proprio bambino. È subito evidente che quest’angoscia manifesta corrisponde ad un’ostilità repressa, particolarmente intensa. In un Istituto dove osservammo 202 bambini dalla nascita fino alla fine del primo anno, ci colpì la frequenza della dermatite atopica. Nei comuni istituti e fra i bambini allevati in famiglia, solo il 2-3% soffriva di dermatite atopica; fra i 202 bambini da noi studiati, trovammo invece il 15% circa di dermatite atopica nel secondo semestre del primo anno di vita. Alla fine del primo anno, o più esattamente fra il 12° ed il 15° mese, questa dermatite tendeva a scomparire. I medici curanti avevano applicato rimedi vari: modificazione della dieta, inclusione di vitamine, medicamenti topici, unguenti ecc. Si indagò diligentemente se esistessero fattori allergici negli articoli della toilette dei bambini, nelle sostanze utilizzate per il bucato della loro biancheria, ecc. Pur non trovandosi nulla di positivo, la dermatite continuava. Si finì per accettarla con rassegnazione, poiché i bambini guarivano in ogni modo verso la fine del primo anno.
A questo punto ci decidemmo ad intraprendere un’indagine dettagliata sui dati raccolti su 28 lattanti colpiti da dermatite e sulle loro madri. Come gruppo di controllo ci servimmo di altri 164 bambini, ricoverati nel medesimo istituto, ma che non avevano contratto la dermatite, e delle loro madri. Comparammo i dati ottenuti in questi bambini con quelli dei bambini sofferenti di dermatite. Dieci bambini con dermatite furono esclusi dalle nostre ricerche, perché la diagnosi era incerta o perché avevano lasciato l’istituto prima che portassimo a termine il nostro studio. Poiché la percentuale tanto elevata di dermatiti atopiche osservata in questo Istituto non poteva essere ricondotta a fattori fisici, doveva evidentemente esistere un fattore psicologico insito nella struttura del rapporto oggettuale di questi bambini. Avevamo valide ragioni per formulare questa ipotesi, poiché si trattava di un istituto penale dove venivano internate giovani delinquenti divenute gravide. Queste ragazze partorivano nell’istituto e qui allevavano il loro bambino, durante il primo anno di vita. Di conseguenza il gruppo delle madri di questo Istituto non poteva essere raffrontato con un campione scelto a caso fra la popolazione di quella città, ma rappresentava un gruppo tutto speciale costituito da ragazze dai 14 ai 24 anni, entrate in conflitto con la legge o, almeno, con le norme morali del loro ambiente culturale. Per quanto riguarda gli altri aspetti del nostro studio, intraprendemmo un’estesa ricerca sul ricco materiale dei dati raccolti su questi bambini fin dalla nascita. I dati in questione erano i seguenti: Alla nascita: peso, lunghezza, circonferenza della testa, alimentazione (al seno o al poppatoio), epoca dello svezzamento ed età della madre. Esaminammo i riflessi di Moro, della suzione, della prensione, dell’estensione digitale e il riflesso cremasterico. Esaminammo le attività autoerotiche in rapporto ai fenomeni specificamente autoerotici come il dondolamento, inoltre i giochi genitali ed anali. Abbiamo annotato la percentuale dei casi in cui tali fenomeni erano presenti, la loro comparsa, frequenza e durata. Esaminammo la comparsa della risposta del sorriso, la percentuale dei casi in cui era presente; lo stesso dicasi per l’angoscia degli 8 mesi. Comparammo inoltre il quoziente di sviluppo a 3, 6, 9 e 12 mesi. Se c’era stata una separazione dalla madre, notammo l’età in cui aveva avuto luogo e la durata della stessa; infine esaminammo se c’era stata una
depressione in risposta a tale separazione e se era stata grave, media o assente. La valutazione statistica del materiale ci dette, come risultato finale, 87 grafici e tabelle. Ci sforzammo di trovare le differenze fra i bambini che nello stesso ambiente contraevano la dermatite atopica e quelli che non la contraevano. Le differenze fra i 28 bambini affetti da questo disturbo e i 164 che non l’avevano, si limitò a due fattori: 1. Una predisposizione congenita. 2. Un fattore psicologico legato all’ambiente, rappresentato dal rapporto madre-figlio, dato che tutte le altre variabili dell’ambiente erano controllate e identiche per tutti i bambini. Inizierò con la predisposizione congenita. La grande maggioranza dei dati ottenuti nel gruppo di controllo (164 bambini) ci fornì lo stesso valore medio trovato nei bambini dermatitici (28 casi). Possiamo quindi trascurarli. Tuttavia trovammo un settore in cui era evidente una differenza assai pronunciata: il settore dei riflessi cutanei, esaminati alla nascita. La differenza è statisticamente significativa. I bambini, che 6 mesi più tardi avrebbero sviluppato una dermatite, manifestavano una eccitabilità cutanea molto più elevata di quei bambini che non presentarono poi l’affezione morbosa. Con un termine improntato a Michael Balint (4), dirò che i bambini destinati a sviluppare una dermatite atopica nel secondo trimestre di vita possiedono una “eccitabilità riflessa aumentata”. Se questo rappresentava un’aumentata vulnerabilità della pelle stessa, ci si potrebbe aspettare che la dermatite si sviluppasse già qualche settimana dopo la nascita o, al più tardi, uno o due mesi dopo. Tuttavia non sembra si tratti di vulnerabilità, ma di risposta aumentata o, per parlare in termini analitici, di investimento aumentato dei recettori cutanei. Passo ora al fattore ambientale, cioè al rapporto madre-figlio. Avemmo la prova che questo rapporto era del tutto speciale, per il fatto che trovammo una differenza statisticamente significativa fra i due gruppi in un settore psicologico, cioè nell’angoscia degli 8 mesi. Mentre i bambini con dermatite atopica manifestavano l’angoscia degli 8 mesi nel 15%, i bambini senza dermatite la evidenziavano nell’85% dei casi. Per gli psicoanalisti, abituati a considerare l’angoscia come un sintomo patologico, ciò sembra un controsenso. Sembrerebbe che ibambini con dermatite atopica presentino sintomi molto meno patologici degli altri
bambini che non ne soffrono. Ma proprio di fronte all’angoscia degli 8 mesi noi ci troviamo a considerare un esempio evidente delle numerose differenze esistenti fra il bambino e l’adulto. Come abbiamo detto in precedenza, l’angoscia degli 8 mesi non è un sintomo patologico; al contrario è un sintomo di progresso nell’evoluzione della personalità, un sintomo che il bambino ha acquisito la capacità di distinguere fra amico ed estraneo. Quindi non è la presenza di questa reazione che deve essere considerata patologica, ma la sua assenza. Questa assenza ci avverte che il bambino è ritardato nel suo sviluppo affettivo. Tale ritardo deve essere dovuto evidentemente ad una deformazione dei rapporti oggettuali, e noi ne cercheremo la causa nei rapporti del bambino con la madre. Esaminando la personalità delle madri di bambini sofferenti di dermatite, trovammo dei dati assai significativi. Come era da aspettarsi, le ragazze delinquenti internate in un istituto non hanno delle personalità normali. Le cause del loro internamento vanno dai delitti sessuali, al furto, all’assassinio. La grande maggioranza era stata internata per delitti sessuali. Evidentemente non si tratta di un delitto grave; tuttavia esse l’avevano commesso in modo da essere censurate, in un ambiente che non accettava questi delitti, per cui possiamo dire che esse rappresentavano una minoranza che deviava dalla norma nell’ambiente culturale a cui appartenevano. Studiando le ragazze internate a causa di delitti sessuali, si riscontra che la maggioranza di esse rientra fra coloro che possono essere definiti minus habens, poveri di spirito, fino alla oligofrenia. In queste personalità l’integrazione del Super-io è per lo più incompleta, poiché oltre tutto esse non sono state capaci di compiere un’integrazione soddisfacente dell’Io. Si ritroveranno quindi in gruppi del genere molte personalità infantili. È questo il caso del nostro gruppo; ma colpisce il fatto che fra le 202 madri, la grande maggioranza di personalità chiaramente infantile era concentrata nel gruppo delle madri con bambini sofferenti di dermatite atopica. Inoltre queste madri presentavano delle caratteristiche rimarchevoli: non toccavano volentieri il loro bambino, riuscivano sempre a persuadere l’una o l’altra delle loro amiche a cambiare il loro bambino, a fargli il bagno, a dargli il poppatoio. Contemporaneamente si dilungavano nei loro discorsi sulla fragilità e sulla vulnerabilità dei lattanti; una di loro ripeteva – caratteristicamente: “un movimento falso potrebbe ferirlo”. Questo
atteggiamento esprime un’ostilità inconscia, confermata dai numerosi casi in cui le stesse madri esponevano il loro bambino a rischi seri o a danni reali ai quali i bambini sfuggivano appena. Per citare qualche caso: una di queste 28 madri introdusse in bocca al suo bambino una spilla da balia aperta con la pappa. Un’altra lasciava cadere più volte sulla testa il bambino, “per errore” o perché “maldestra”; un’altra ancora stringeva talmente il bavero attorno al collo del bambino che quando io giunsi questo era già cianotico, e così di seguito. Nel gruppo dei bambini che contraggono la dermatite atopica nel secondo semestre di vita, noi troviamo quindi da un lato una madre con personalità infantile, con ostilità che si manifesta sotto forma di preoccupazione angosciosa verso il suo bambino, che non ama toccarlo o prenderlo in cura, privandolo così sistematicamente di contatti cutanei. Dall’altra abbiamo un bambino congenitamente dotato di un aumentato investimento delle reazioni cutanee, proprio quelle che la madre rifiuta di provocare. Mediante i nostri test e i profili di sviluppo ottenuti in questi bambini, evidenziammo in loro un altro particolare della loro evoluzione: essi si distinguevano dai bambini che non contraggono la dermatite per un ritardo caratteristico nel settore delle capacità di “apprendimento” e nella capacità di accettare “rapporti sociali”. Nella personalità infantile, il settore dell’apprendimento, come abbiamo detto in precedenza, comprende la capacità di imitazione e la capacità mnestica. Nelle circostanze descritte il ritardo nell’imitazione diventa comprensibile, poiché le madri ansiose non toccano volentieri i loro bambini nei primi sei mesi, cioè nel periodo narcisistico primario, rendendo difficile l’identificazione primaria. In quest’epoca primitiva, sono proprio le esperienze tattili del lattante le più importanti per il processo di identificazione. Tramite questa identificazione primaria e il suo superamento mediante la locomozione, il bambino comincia, nel secondo semestre di vista, a delimitare la sua personalità da quella della madre e a formare le identificazioni secondarie che lo rendono indipendente. Quando il bambino arriva al secondo semestre di vita, la madre “ansiosa”, con la sua ostilità repressa, non offre le occasioni necessarie all’attività fisica del bambino, agli esercizi di manipolazione, alla realizzazione di quelle spinte che formeranno l’occasione di identificazioni secondarie. La pulsione libidica e la pulsione aggressiva si scaricano normalmente nel corso delle interazioni psichiche fra madre e figlio, e sono
convertite così in identificazioni secondarie. Per contro, nei bambini sofferenti di dermatite, le madri non forniscono l’occasione per queste scariche – e pare allora che queste abbiano luogo in forma di reazioni cutanee, cioè di dermatite. I dati che possediamo ci permettono di considerare due fattori etiologici, che concorrono a produrre la dermatite: essi sono da una parte il fattore congenito della ipereccitabilità riflessa cutanea del bambino, dall’altra il fattore ambientale costituito dalla personalità infantile della madre. Tuttavia questa spiegazione non ci ha soddisfatto completamente per quanto riguarda il dinamismo e l’economia del fenomeno. Un’esperienza riferita dai riflessologi ci dà una spiegazione che è in rapporto con la teoria dell’apprendimento. Un assistente di Pavlov stabilì un riflesso condizionato servendosi della stimolazione elettrica di un determinato perimetro della coscia di un cane. In seguito egli avvicinò sempre di più i due punti di stimolazione sulla coscia, rendendo così sempre più difficile una differenziazione. Quando questa diventò impossibile, il cane sviluppò una dermatite atopica nella zona stimolata. In altri termini, il cane reagì con una dermatite quando i segnali divennero ambigui. Quando l’esperienza venne interrotta, l’eczema scomparve. Nel corso dei suoi lavori, lo sperimentatore trovò altri cani che reagivano nella stessa maniera atipica, in contrasto con la reazione della media dei cani. La media dei cani di cui si servivano Pavlov e i suoi assistenti reagivano infatti a segnali divenuti ambigui con una reazione psicologica, chiamata “nevrosi sperimentale”. Lo sperimentatore, studiando le differenze fra gli animali che reagiscono con “la nevrosi sperimentale” e quelli che reagiscono con l’eczema, riscontrò che questi ultimi hanno per così dire “un temperamento labile”. Penso che sia permesso mettere in parallelo la labilità dei cani di Pavlov e quella che ho definito “ipereccitabilità riflessa” dei bambini dermatitici. Entrambi, cani e bambini, sono sottoposti per molti mesi a un processo di apprendimento. Tuttavia all’epoca di questo apprendimento i cani possiedono un organismo già sviluppato, capace di percepire dei segnali e di trasformarli in riflessi condizionati. Il bambino sta formando il suo Io con l’aiuto di questi segnali; ciò gli permette di reagire con un processo più evoluto di quello del cane. L’Io permette al bambino di reagire con reazioni anticipatrici, secondo il termine da me usato.
Durante il primo anno di vita questi segnali vengono offerti al bambino dalla madre. Nel primo trimestre il bambino risponde a questi segnali formando una serie di riflessi condizionati. Dopo il terzo mese si vede emergere un processo di apprendimento speciale, che ho definito il processo umano di apprendimento, che si sviluppa nel bambino parallelamente all’organizzazione dell’Io. Tale apprendimento è legato da un lato alla maturazione delle capacità percettive del bambino, dall’altro ai segnali offerti dalla madre, in ogni situazione piacevole, spiacevole o in cui si richieda una discriminazione. I segnali che provengono dall’atteggiamento affettivo della madre, benché impercettibili all’osservatore adulto, provocano le risposte del bambino, cioè servono a mettere in atto la sua reazione affettiva anticipatrice. Questa risposta ai segnali affettivi offerti dalla madre non è limitata al primo anno di vita. Anna Freud e Dorothy Burlingham (13, →, →-→) l’hanno dimostrata in modo convincente nelle loro osservazioni. Secondo tali osservazioni, durante la guerra “lampo” i bambini londinesi, fino a tre anni, presentavano ansia solo in funzione dell’ansia materna. Quando la madre presenta un’ansia non controllata da un Io e da un Super-io ben funzionanti – come nelle madri dei bambini con dermatite –, la funzione dei segnali che esse offrono al bambino è alternata; data la loro incostanza, i segnali diventano incoerenti. In un determinato momento i segnali affettivi trasmessi al bambino corrispondono alla situazione reale; in un altro momento la madre sopprime tutti i segnali a causa della sua ansia; altre volte, sempre a causa dell’ansia, essa cercherà di compensare e darà dei segnali contrari o esagererà quelli corretti. In una parola, i segnali che la madre trasmette non sono né costanti né coerenti con il suo atteggiamento interiore e con il suo reale comportamento verso il bambino. Tutto quello che farà, dipenderà non dalle sue relazioni coscienti col bambino, ma piuttosto dal clima variabile del suo Inconscio. I suoi sentimenti di colpa e la sua ansia non le permettono di identificarsi col bambino. Ed essa evita particolarmente le forme più elementari di identificazione, il contatto immediato, affettivo e il contatto fisico. Considerando la situazione dal punto di vista del bambino, i segnali ambigui e incostanti rendono difficile la formazione di rapporti sociali normali, l’adattamento sociale, in una parola la formazione di rapporti oggettuali. La formazione di rapporti oggettuali resta alla base di ogni ulteriore apprendimento affettivo, cioè di ogni identificazione. Abbiamo
sottolineato nei bambini dermatitici l’esistenza di un deterioramento nel settore sociale e nell’apprendimento, cioè della memoria e dell’imitazione. In altri termini, in questi bambini i processi di identificazione primaria e secondaria sono alterati in seguito a un disturbo nella formazione dei primi rapporti oggettuali. È un disturbo selettivo e determinante dal punto di vista dei rapporti con altre persone; lo è meno per quanto riguarda i rapporti con gli oggetti inanimati. Il disturbo delle relazioni libidiche è ben visibile nell’assenza dell’angoscia, normale a 8 mesi. Questi bambini che non formano dei rapporti oggettuali regolari, non giungono a distinguere affettivamente la madre da un estraneo, quindi non ne avranno paura. Ma d’altra parte i segnali ambigui ai quali erano esposti fin dalla nascita, in modo costante, sembrano essersi “somatizzati”; in virtù di una predisposizione congenita di questi bambini, caratterizzata da ipereccitabilità riflessa cutanea, questa somatizzazione si manifesta con sintomi cutanei. Noi non sappiamo naturalmente cosa rappresentino questi sintomi cutanei per la psiche del bambino. È come se questi bambini investissero l’involucro cutaneo (cioè la sua rappresentazione psichica) di cariche libidiche aumentate. Ci si può domandare se questa reazione cutanea rappresenti un tentativo di adattamento, ovvero una difesa. Potrà essere una provocazione inconscia, diretta alla madre, perché questa tocchi più di frequente il bambino; oppure una forma di regressione narcisistica del bambino, che si procura da solo, nella sfera somatica, gli stimoli che la madre gli rifiuta. Noi non lo sappiamo. È tuttavia interessante vedere che la dermatite atopica, come la colica dei tre mesi, si limita a un determinato periodo – essa guarisce spontaneamente verso la fine del primo anno. Di nuovo noi possiamo domandarci il perché di questo limite. Come per la colica dei tre mesi, io penso che sia determinato dal progresso della maturazione. Infatti il bambino dopo il primo anno acquisisce la locomozione, che lo rende indipendente dai segnali offerti dalla madre. Diviene così capace di sostituire le relazioni oggettuali normali, di cui è privato, con stimoli che può procurarsi da solo. Può rinunciare ai contatti con la madre e sostituirli con dei contatti con le cose o con altre persone che può raggiungere da solo, dato che dalla passività è arrivato all’attività diretta. Naturalmente tutte questo ha le sue conseguenze nello sviluppo psichico del bambino. Tuttavia, fino a oggi non possediamo studi longitudinali che ci permettano di sapere quali possono
essere le conseguenze ulteriori di tali deformazioni nei rapporti oggettuali, benché questo sia indubbio. Le osservazioni da noi riportate sono state eseguite cinque o sei anni fa circa. È interessante il fatto che esse sono state confermate recentemente da ricerche indipendenti dalle nostre, eseguite da un pediatra. M. Rosenthal ha pubblicato sulla rivista Pediatrics (56) le sue osservazioni su una serie di 26 bambini che nel primo anno di vita soffrirono di dermatite atopica. Nel suo articolo Rosenthal sottolinea due fattori: il fattore psicologico, come egli lo definisce, è l’atteggiamento materno fondamentale di evitare i contatti fisici col bambino. Inoltre egli sottolinea l’esistenza, a suo parere, di una “predisposizione” congenita, come egli la definisce (57), senza essere a conoscenza dei nostri studi su questo argomento e senza approfondire il problema come noi abbiamo fatto.
5. OSCILLAZIONI RAPIDE DELLA MADRE TRA TENEREZZA E OSTILITÀ AGGRESSIVA Abbiamo notato che l’atteggiamento materno che oscilla “rapidamente” fra tenerezza e ostilità manifesta, pare conduca frequentemente a disturbi della motricità infantile. I disordini del sistema motorio nel primo anno sono assai frequenti, e ne riscontreremo altri più avanti. Dal punto di vista descrittivo si possono dividere i due gruppi principali: l’ipermotricità e l’ipomotricità. In ognuno di questi gruppi si possono distinguere inoltre aumento o diminuzione quantitativa della motricità da un lato, dei comportamenti motori, normali o patologici, dall’altro. Negli istituti è particolarmente frequente una forma di iper-motricità. Mi riferisco al ben noto movimento di dondolio dei lattanti. In sé, questo movimento non può essere definito patologico, poiché ogni bambino lo può presentare in modo transitorio. Tuttavia il movimento da noi osservato, e che descriveremo, si contraddistingue per il fatto che diventa l’attività principale, se non esclusiva, del bambino in questione; in questi bambini il movimento rimpiazza quasi tutte le altre attività normali; si distingue per la sua frequenza, per l’evidente violenza, che pare superiore alle risorse fisiche del bambino, e per il fatto che sembra realizzi un comportamento motorio molto più attivo di quello riscontrabile nella media dei bambini normali della stessa età. Il movimento si realizza per lo più a quattro zampe; quando il bambino ha meno di sei mesi, spesso si vede quando è steso sul
dorso; quando il bambino ha più di dieci mesi, non è raro vederlo nella posizione eretta. Abbiamo studiato un gruppo di 170 bambini e abbiamo pubblicato le nostre osservazioni in un articolo intitolato Autoerotismo (65). Per i dettagli rimandiamo il lettore a questo lavoro. Per quanto riguarda il quadro clinico, abbiamo potuto constatare che questi bambini, a parte la loro ipermotricità, avevano un caratteristico ritardo nel settore “sociale” e nella “manipolazione”. Un ritardo nella manipolazione significa che il bambino presenta un ritardo nel maneggiare gli oggetti, i giocattoli, in una parola le cose. Il ritardo nel settore della socializzazione significa che il bambino non è riuscito a formare dei rapporti libidici. In altri termini, nei bambini in cui l’ipermotricità si manifesta con movimenti di dondolio, sono lesi i rapporti con tutti gli oggetti, libidici o non, siano persone o cose. Questi bambini non sono riusciti a formare rapporti oggettuali stabili. Dopo quanto abbiamo detto sulla formazione dei rapporti oggettuali, va da sé che una madre che passa dalla tenerezza al furore, dai baci alle botte, da un momento all’altro, non si presta alla formazione di rapporti oggettuali stabili. Le madri in questione erano personalità psicopatiche, ben note per i frequenti e violenti alti e bassi del loro umore. I bambini, privati di un oggetto libidico, avevano trovato nel movimento un’attività senza oggetto, o piuttosto un oggetto sostitutivo, costituito dalle pulsioni narcisistiche primarie, cioè dal proprio corpo.
6. OSCILLAZIONI DI UMORE CICLICHE AD ONDE LUNGHE DELLA MADRE L’atteggiamento di queste madri verso i loro bambini resta costante per diversi mesi. Improvvisamente diventa l’opposto, rimanendo anche questa volta tale per un lungo periodo. Abbiamo osservato un gruppo di 153 bambini assieme alle loro madri. Sedici di questi bambini nel II semestre del I anno giocavano con le loro feci in modo caratteristico. Abbiamo notato che il maggior numero di psicosi, presenti nel gruppo delle 153 madri, era da ascrivere alle madri di questi 16 bambini. Undici di esse soffrivano di depressione; due erano paranoiche, una aveva commesso un omicidio. Non conosciamo la diagnosi delle ultime due. Undici madri su sedici soffrivano quindi di depressione; le oscillazioni di umore sono caratteristiche di questa forma. Fra le cinque madri che non
erano depresse, c’erano due paranoiche e un’assassina. È assai probabile che anch’esse fossero soggette a sbalzi di umore. Queste cifre sono in assoluto contrasto col gruppo delle madri, i cui bambini non giocavano con le feci, nel primo anno di età: in questa parte del gruppo, che ci servì di controllo, c’erano solo 5 depresse su 135.
Fig. 16 – Depressione analitica.
Quale relazione esiste fra la depressione materna, i suoi sbalzi di umore e la presenza di giochi fecali nel bambino? E in quale modo differiscono questi sbalzi di umore delle madri depresse dalle oscillazioni fra ostilità estrema e tenerezza nelle madri dei bambini che si dondolano? Credo che la differenza fondamentale stia in ciò che si potrebbe chiamare la lunghezza dell’onda. L’onda è corta, brusca, rapida, costantemente ripetuta nei bambini che si dondolano; gli alti e bassi si alternano in pochi minuti, innumerevoli volte al giorno. Invece le madri depresse hanno oscillazioni di umore ad onde lunghe, costanti per settimane e mesi.
Fig. 17 – Posizione patognomonica
Nei bambini che si dondolano, le oscillazioni rapide creano un clima di costante incertezza. Nelle madri depresse si ha un clima costante di grande premura verso il bambino, che dopo qualche settimana o mese si trasformerà nel clima opposto, nel rifiuto completo del bambino per altre settimane o mesi. È interessante notare che le madri dei bambini, che nove mesi più tardi giocheranno con le loro feci, avevano mostrato una grande premura verso il bambino, alla sua nascita. Si ha l’impressione che la premura iniziale, che alcuni mesi più tardi sarà abbandonata per un atteggiamento di rifiuto, formi una parte dell’etiologia. Forse è proprio questa successione particolare che determina la sintomatologia. Abbiamo avanzato l’ipotesi che i bambini coprofagici si identifichino con le tendenze inconsce della madre. Le tendenze delle madri depresse sono desideri di introiezione. Nell’attacco depressivo l’ammalata introietta l’oggetto. La ragione di questa introiezione è la perdita dell’oggetto. Questi bambini che per un certo periodo erano stati curati amorevolmente dalle loro madri, avevano formato dei rapporti oggettuali e delle identificazioni con la madre. Nel secondo periodo, il cambiamento dell’atteggiamento materno in rifiuto, rappresenta per il bambino la perdita dell’oggetto. Grazie alla loro identificazione con la madre, questi bambini coprofagici arrivano ad identificarsi con le sue tendenze all’introiezione, tanto più che il secondo semestre del primo anno appartiene ancora allo stadio orale, nel quale il meccanismo centrale è l’introiezione orale. D’altra parte i bambini coprofagici si trovano già in uno stadio di transizione nella fase anale; i loro escrementi si presentano come sostituti dell’oggetto, come
dimostra il loro comportamento con le feci. Dopo averle suficientemente manipolate, le introiettano oralmente, mettendole in bocca.
7. OSTILITÀ MATERNA COSCIENTEMENTE COMPENSATA In questo caso il comportamento materno è il risultato di un conflitto cosciente. Per queste madri il bambino è un oggetto di soddisfazione narcisistica ed esibizionistica. Non è un oggetto di amore, ma esse si rendono conto coscientemente che il loro atteggiamento verso il figlio è improprio e lo compensano artificialmente con un atteggiamento assai tipico: è un miscuglio di dolcezza angelica, untuosa e nello stesso tempo quasi acida, agrodolce. È un fenomeno che si riscontra soprattutto negli ambienti intellettuali; ne abbiamo osservato qualche caso e abbiamo notato che i figli di questi genitori presentano un ritardo nel settore sociale della loro personalità, mentre sono precoci negli altri settori. Il risultato di questa costellazione è che questi bambini presentano una grande familiarità con gli oggetti inanimati e sono abili nel maneggiarli. Invece sono poco interessati al contatto umano e sono ostili quando li si avvicina. La catamnesi dei casi che abbiamo potuto seguire ci sembra coincida con la tipica personalità descritta da John Bowlby sotto il nome di “aggressività ipertimica”(5).
Fig. 18 - Marasma.
CAPITOLO DODICESIMO Disturbi da carenza affettiva
1. CARENZA AFFETTIVA PARZIALE Nel corso di uno studio fatto con la collaborazione di Katherine M. Wolf su di un totale di 170 bambini, seguiti per un anno e mezzo, trovammo 34 bambini che, dopo aver sperimentato almeno per 6 mesi un buon rapporto con la madre, ne furono poi privati per un periodo più o meno lungo. La persona che sostituiva la madre non soddisfaceva il bambino. Questi 34 bambini presentavano un quadro clinico progressivo, in funzione della durata della separazione. Primo mese. I bambini diventavano piagnucolosi, esigenti, reclamavano verso l’osservatore che prendeva contatto con loro.
Fig. 19 - Tabella del livello evolutivo a cui giungono i bambini separati dalla madre.
Secondo mese. Il pianto si trasformava in grida. Perdita di peso e arresto dello sviluppo (fig. 16). Terzo mese. Rifiuto di prendere contatto. Posizione patognomonica (i bambini restano quasi sempre nel letto a ventre in basso). Insonnia. La perdita di peso continua. Tendenza a contrarre le malattie intercorrenti. Generalizzazione del ritardo motorio. Rigidità dell’espressione del viso (fig. 17). Dopo il terzo mese. La rigidità del viso diventa stabile. Cessa il pianto, viene rimpiazzato da rare grida. Il ritardo aumenta e diventa letargo. Se prima di un periodo critico, posto fra la fine del terzo mese e la fine del quinto, si restituisce il bambino alla madre o si riesce a trovare un sostituto accettabile per il bambino, i disturbi spariscono con una rapidità sorprendente.
Fig. 20 - Diagramma della mortalità nei bambini separati dalla madre.
Abbiamo chiamato questo quadro “depressione anaclitica” (63) per la sua somiglianza con il quadro clinico della depressione nell’adulto. Sottolineiamo tuttavia che secondo noi la struttura dinamica della depressione anaclitica è profondamente diversa da quella della depressione nell’adulto.
2. CARENZA TOTALE
Una delle condizioni necessarie affinché il bambino cada nella depressione anaclitica è che egli sia stato in precedenza in buone relazioni con la madre; è evidente infatti che se i rapporti con la madre sono cattivi, i lattanti separati dalla madre presentano disturbi diversi. Questa osservazione è un’altra prova dell’importanza dei rapporti oggettuali nel primo anno, e delle conseguenze che comporta la natura particolare del rapporto oggettuale. In contrasto con la depressione anaclitica, abbiamo riscontrato che quando c’è una carenza affettiva totale, si instaurano delle conseguenze funeste, comunque siano stati i precedenti rapporti con la madre. Il materiale di studio per quest’ultimo problema è rappresentato da 91 lattanti, posti in un brefotrofio, fuori del territorio degli Stati Uniti. Questi bambini erano stati allevati al seno dalle loro madri, nei primi tre mesi di vita. Durante questo periodo i lattanti si sviluppavano bene, secondo la media dei bambini normali della stessa regione in cui era il brefotrofio. I bambini furono svezzati dopo il terzo mese. Dopo lo svezzamento furono affidati alle cure di una infermiera, che si occupava in media di 10 bambini, a volte anche di più. Dal punto di vista fisico, cibo, igiene ecc., i bambini ricevevano delle cure perfette, addirittura le migliori fra tutti gli istituti da noi visitati. Ma poiché l’infermiera doveva occuparsi di 10 bambini simultaneamente, essi ricevevano solo la decima parte delle cure affettive materne, cosa che noi consideriamo come una carenza affettiva completa. Dopo essere stati separati dalla madre, questi bambini attraversavano rapidamente tutti gli stadi che abbiamo descritto nella carenza parziale. Successivamente, il ritardo motorio diveniva chiaramente evidente. Completamente passivi, i bambini giacevano nel loro letto, con un’espressione del viso vuota, a volte idiota, spesso con difetti nell’accomodazione oculare (fig. 18). Questi lattanti non raggiungevano neppure lo stadio in cui il bambino si rivolta a ventre in basso, in modo che non potevano neanche tentare movimenti di fuga, quando qualcuno si avvicinava. Dopo qualche tempo, in alcuni di questi bambini la motricità si manifestava sotto forma di spasmus nutans, con movimenti bizzarri delle dita che ricordano i movimenti catatonici o decerebrati. Il livello evolutivo presentava una costante diminuzione, e alla fine del secondo anno, secondo i nostri test arrivavano in media al 45% del normale. È un livello da idioti. Questi bambini furono
seguiti fino all’età di 4 anni; il diagramma della fig. 19 mostra che a quest’età alcuni non riescono né a camminare, né ad alzarsi in piedi, né a parlare. Le ridotte resistenze alle infezioni da una parte, il deterioramento progressivo dall’altra, rendono conto della percentuale estremamente elevata di bambini che vanno incontro al marasma e alla morte. Dei 91 bambini che abbiamo seguito per due anni nel brefotrofio, il 37% morì. Noi potemmo seguire solo 21 dei 57 sopravvissuti, quindi non possiamo sapere se la percentuale di mortalità sia stata più elevata. La tabella 20 mostra la percentuale di mortalità. Per contro, noi abbiamo osservato un altro istituto, in cui i bambini erano allevati dalle loro madri. In quattro anni di osservazione, neppure uno dei 220 bambini morì. Pare che la carenza completa conduca a un deterioramento progressivo, che è in proporzione diretta con la durata della carenza a cui è sottoposto il lattante. La depressione anaclitica e l’ospitalismo ci dimostrano che la mancanza di rapporti oggettuali da carenza affettiva, arresta lo sviluppo in ogni settore della personalità. Queste due affezioni, integrate nel quadro generale di quanto abbiamo descritto, ci danno la prova più generale e più comprensibile del ruolo cardinale sostenuto dai rapporti oggettuali nello sviluppo globale. In modo meno generico: la catamnesi di queste due affezioni dimostra che quando la carenza di rapporti oggettuali rende impossibile la scarica delle pulsioni di aggressione, il lattante rivolge l’aggressione su di sé, cioè sul solo oggetto che gli rimane. Il lattante diventa incapace di assimilare il cibo; subentrano disturbi del sonno; più tardi questi bambini si arrecano danno attivamente, sbattendo la testa contro le sbarre del letto, picchiandosi la testa con i pugni, tirandosi i capelli. Il deterioramento progressivo ed inesorabile conduce fino al marasma ed alla morte. Abbiamo formulato l’ipotesi che in questo caso abbia luogo una scissione delle due pulsioni, e che l’aggressione, separata dalla libido, venga rivolta dal bambino affettivamente carente contro se stesso, e questo porta al deterioramento progressivo (69). Il processo inverso si può osservare nella guarigione dalla depressione anaclitica. In questo caso lo sviluppo patologico si arresta dopo qualche mese, per il ritorno dell’oggetto libidico. Si osserva allora il fenomeno di una “nuova fusione” parziale delle pulsioni; l’attività del bambino riprende rapidamente, egli diventa gaio, esuberante e aggressivo. Abbiamo osservato
inoltre, in un certo numero di questi casi, che le pulsioni di aggressione furono rivolte effettivamente verso l’ambiente: i bambini guariti dalla loro depressione anaclitica non si picchiavano più, né si tiravano i capelli, ma cominciavano a mordere, a graffiare e a picchiare gli altri bambini. Quanto alla pulsione sessuale, scissa nella situazione di carenza affettiva prolungata, il suo destino risulta chiaro dalle osservazioni che abbiamo fatto sulle attività autoerotiche nel primo anno di vita. Nei bambini sottoposti ad una carenza affettiva prolungata, scompare ogni forma di attività autoerotica, compreso il succhiare il pollice. Si può affermare che il bambino ritorna allora al narcisismo primario: egli non può più assumere il proprio corpo come oggetto, come nel narcisismo secondario. Si ha l’impressione che in questi bambini caduti in marasma, la pulsione sessuale sia completamente devoluta alla conservazione della forza vitale, che va estinguendosi. I bambini sofferenti di marasma erano stati privati della possibilità di formare un rapporto oggettuale. Di conseguenza, non avevano avuto la possibilità di dirigere la pulsione libidica e quella aggressiva su di “un solo” oggetto, cosa indispensabile per fondere le due pulsioni. Private di oggetti del mondo esterno, le pulsioni che non sono ancora fuse verranno indirizzate alla propria persona, presa come oggetto. Per conseguenza il rivolgere su di sé l’aggressione non fusa, porta a un deterioramento distruttivo del bambino, in forma di marasma. A questa distruzione si oppone a sua volta la pulsione sessuale, rivolta sul soggetto; per un effetto analogo al narcisismo primario, essa si oppone nello sforzo di conservare la vita. Secondo me, nella condizione normale di fusione delle due pulsioni, l’aggressione gioca un ruolo paragonabile all’onda portante. Come questa, essa rende possibile dirigere le due pulsioni verso l’ambiente. Ma se la pulsione di aggressione non giunge a fondersi con la pulsione sessuale, oppure si ha una scissione, allora l’aggressione viene diretta verso la persona del bambino; in questo caso la libido non può più essere diretta all’esterno. Una neutralizzazione della pulsione (vedi Hartmann, Kris e Loewenstein) – vale a dire la trasformazione dell’energia pulsionale in energia neutralizzata – potrebbe evitare le conseguenze perniciose della scissione. Ma la neutralizzazione presuppone un certo grado di integrazione dell’Io, di cui il bambino non è capace prima dell’ultimo trimestre del primo anno.
L’integrazione dell’Io, necessaria a ciò, si attua nel periodo fra il secondo ed il terzo organizzatore, cioè fra l’8° e il 18° mese di vita, e termina con l’acquisizione della funzione simbolica del linguaggio. Questo processo di integrazione è il passo decisivo per l’umanizzazione della specie. Affinché si compia, devono essere soddisfatte le seguenti condizioni: a) è necessario un clima di sicurezza, esente da pericoli. Questo clima può essere assicurato solo dall’oggetto libidico; b) le tendenze aggressive e le tendenze libidiche devono poter costantemente scaricarsi, con libertà. Questa scarica si realizza in forma di stati affettivi diretti verso l’oggetto libidico, e come scambi attivi fra il bambino e l’oggetto stesso; c) in questo clima di sicurezza, si avrà un’interazione di processi psichici solo dopo la formazione dell’Io. Sottolineiamo che il termine “processi psichici” comprende fra l’altro i meccanismi di difesa nel senso più largo della parola. Dopo la formazione dell’Io, il bambino elaborerà questi meccanismi in modo crescente, e se ne servirà sia per l’adattamento, sia per la difesa, sia per la formazione della sua personalità nonché per la formazione del carattere. È evidente che nel corso di questo sviluppo le pulsioni si differenzieranno l’una dall’altra per reintegrarsi in seguito. Questi processi di reintegrazione comprendono le forme più varie dal punto di vista quantitativo e qualitativo. Si attua così una sperimentazione costante, che porta a delle combinazioni, variabili per quantità di pulsioni e di pulsioni parziali. Molti di questi sforzi saranno abbandonati perché inutilizzabili o penosi. Il bambino normale rinuncia a queste soddisfazioni parziali con relativa facilità, perché la solidità del suo rapporto oggettuale rende innocua questa rinuncia, permettendogli di compensare il suo dispiacere in un altro settore dei rapporti oggettuali, o con esperienze nuove. Questi numerosi sforzi, i riordinamenti delle pulsioni e l’utilizzazione delle pulsioni ricordano il modo in cui si formano all’inizio del primo anno gli schemi motori e i comportamenti; sopprimendo i movimenti inutili e conservando quelli utili, l’organismo seleziona il comportamento che conduce a un fine fra innumerevoli movimenti accidentali. Dopo la formazione dell’Io, il clima affettivo rende possibile un esperimento simile, con le pulsioni, ma a un livello superiore.
Questo stesso clima affettivo prepara il cammino alla neutralizzazione delle pulsioni. È allettante l’ipotesi che la neutralizzazione sia per la pulsione ciò che il principio di realtà è per l’azione. Quando non è neutralizzata, la pulsione si tramuta in distruzione – e dell’oggetto e del soggetto. Quando è neutralizzata, la pulsione rimane sospesa e può essere utilizzata quando una condizione più favorevole o un motivo più adeguato permettono di utilizzarla in modo da raggiungere lo scopo. In questo modo la neutralizzazione della pulsione rappresenta anche una funzione di aggiramento. Contemporaneamente, la neutralizzazione della pulsione serve qui di difesa. Se accettiamo l’ipotesi da noi avanzata, porremo la neutralizzazione fra i ben noti meccanismi di difesa; in questo caso il principio di realtà deve essere considerato come un precursore, un prototipo. Il periodo evolutivo che va dall’8° al 18° mese di vita è riservato ad un complicato processo di adattamento, che consiste nell’organizzazione e nel dominio delle pulsioni da parte dell’Io, con l’“aiuto dei rapporti oggettuali”. Per questa ragione il periodo fra l’8° e il 18° mese di vita è il più critico, in rapporto alla perdita dell’oggetto.
CAPITOLO TREDICESIMO I nostri risultati e la loro integrazione nella dottrina psicoanalitica
Abbiamo incominciato questo studio con l’esposizione fenomenologica e teorica dello sviluppo dei rapporti oggettuali. Abbiamo fatto seguire a questa esposizione la discussione su alcuni disturbi dello sviluppo dei rapporti oggettuali, nel primo anno di vita. Gran parte delle nostre conclusioni teoriche sulla formazione di rapporti oggettuali normali abbiamo potuto trarle dall’osservazione delle deviazioni di questi stessi rapporti. È il metodo di scelta del neurologo, che comprende il funzionamento normale, grazie alla perdita di funzione che si ha quando il cervello è leso. È il metodo applicato da Freud alla psichiatria, e che determinò gran parte delle sue scoperte sul normale funzionamento della psiche, partendo da osservazioni su casi patologici. D’altra parte il parallelismo, con il metodo psicoanalitico non si arresta a questo. Per la natura stessa del nostro soggetto d’esame, costituito dal lattante, abbiamo dovuto sostituire forzatamente l’esplorazione psicoanalitica con l’osservazione diretta. Questo metodo ci ha fornito i punti di riferimento, di orientamento per il primo anno di vita. D’altra parte lo studio di disturbi affettivi evidenzia certi aspetti particolari nello sviluppo dei rapporti oggettuali. Grazie a questi aspetti, possiamo localizzare i nostri punti di riferimento nella rete intricata delle correnti dello sviluppo pulsionale. Abbiamo così formato un quadro della funzione delle pulsioni, dal punto di vista della maturazione, della strutturazione della personalità e della loro interazione con la realtà ambientale. A) I punti di riferimento di cui abbiamo parlato, sono alla nascita: 1. Il patrimonio congenito. 2. La barriera protettiva contro gli stimoli. 3. L’impotenza del neonato.
4. L’assenza alla nascita di una organizzazione psichica. In base a questi dati, e per il fatto che l’organismo infantile durante tutto il primo anno di vita si trova in uno stadio di transizione e di rapido sviluppo, possiamo aggiungere una seconda serie di fattori, desunti dall’osservazione diretta. Qui il nostro metodo è l’inverso di quello di Freud. Mentre Freud e i terapeuti psicanalisti si servono del metodo retrospettivo, la nostra osservazione diretta procede secondo il metodo longitudinale. Tuttavia essa non è identica a quella della psicologia sperimentale. Questa scienza, nello studio del bambino si limita a osservare fenomeni isolati del comportamento di un numero statisticamente significativo di bambini. Ne risulta un inventario del comportamento infantile; le scuole psicologiche più moderne stabiliscono delle successioni cronologiche nell’evoluzione del comportamento. Per contro, è un assioma fondamentale per gli psicoanalisti che i fenomeni osservabili altro non sono che manifestazioni di processi e di strutture più profonde. Per questo, i fenomeni osservati dagli psicologi sperimentali rappresentano delle entità statiche e antistoriche, mentre per noi lo stesso fenomeno rappresenta solo “un” aspetto dinamico, di cui seguiamo la genesi. Ne deriva che la psicologia sperimentale definisce gli stimoli e le reazioni in termini spazio-temporali, noi invece li consideriamo dal punto di vista della loro storia, delle forze che vi partecipano, del loro ruolo presente e del loro destino futuro. B) La seconda serie comprende i fattori che compaiono nelle prime settimane di vita: 1. Lo stadio di non-differenziazione, in cui la psiche non può essere distinta dal soma, la percezione non è diretta verso l’esterno e le funzioni del bambino sono governate dalla soddisfazione dei bisogni. 2. La progressiva differenziazione del soma-psiche in una componente psichica e in una componente somatica. 3. La diade o relazione a due, determinata dall’impotenza del neonato. 4. Il ruolo dei rapporti fra madre e bambino nella differenziazione del soma e della psiche. 5. Gli stadi successivi che caratterizzano lo sviluppo dei rapporti oggettuali, vale a dire lo stadio dell’oggetto precursore e quello dell’oggetto propriamente detto.
6. L’esistenza, la natura e la funzione degli organizzatori, dimostrati dalla comparsa dell’Io (evidente nel sorriso reciproco) e dalla formazione dell’Io e dell’oggetto propriamente detto, evidenti nell’angoscia degli 8 mesi. 7. Il ruolo delle frustrazioni per lo sviluppo della funzione di aggiramento (principio di realtà). 8. La constatazione che è possibile osservare uno sviluppo non solo fisico, percettivo, intellettivo, dei diversi settori, ma anche uno sviluppo nella formazione dell’Io e delle sue funzioni, nella differenziazione progressiva delle pulsioni, nella crescente complessità dei rapporti oggettuali e nella trasformazione progressiva del ruolo delle pulsioni in questi rapporti. 9. L’osservazione che lo sviluppo affettivo precede e prepara la strada ad ogni altro tipo di sviluppo. La comparsa del primo organizzatore separa il periodo in cui le funzioni biologiche sono governate dalla soddisfazione dei bisogni, dal periodo in cui le funzioni psichiche si subordinano progressivamente al principio di realtà. Questo progresso ha luogo grazie a una serie di scambi circolari, interni alla diade, la cui complessità va aumentando grazie a un rapporto sempre più sociale. C) Il punto culminante di questi scambi, di queste azioni ed interazioni reciproche sarà la comparsa del secondo organizzatore, comparsa rilevata dal fenomeno dell’angoscia degli 8 mesi. Questo caratterizzerà: 1. La fusione di singoli nuclei dell’Io in un’unica organizzazione guida. 2. La trasformazione dell’oggetto precursore (che fino a questo momento consiste in percezioni isolate), in un vero oggetto libidico. 3. La metamorfosi dei rapporti preoggettuali in rapporti oggettuali veri, grazie alla fusione della pulsione di aggressione con la pulsione sessuale e la capacità di dirigere le pulsioni così fuse sul vero oggetto libidico. Nel primo anno di vita possiamo quindi parlare di tre punti di riferimento. Essi sono: il periodo di impotenza alla nascita, il primo organizzatore a tre mesi, il secondo organizzatore verso gli 8 mesi. L’introduzione del concetto di organizzatori e delle loro funzioni, aggiunge una nuova dimensione al concetto di successioni genetiche. In se stesse, le successioni genetiche di funzioni diverse, di pulsioni, di istinti, di comportamenti, rappresentano delle correnti parziali, delle successioni gerarchiche di entità, che si evolvono cronologicamente. Si potrebbe pensare che queste correnti continuino a funzionare in maniera isolata,
come ad esempio nei sifonofori, oppure come uno stato federale, come se l’essere umano non fosse un’unità. È compito degli organizzatori riunire queste correnti isolate e di modificare così l’essenza stessa del livello funzionale del lattante durante i tre periodi descritti. La convergenza delle molteplici correnti della maturazione, dello sviluppo dei rapporti oggettuali e delle pulsioni nel punto nodale, rappresentato dagli organizzatori, ci spiega la formazione di entità completamente nuove, che guidano la metamorfosi della personalità, conducendola a un livello superiore, fino ad ora inesistente, e organizzato in modo diverso dal precedente. Questa diversa organizzazione a un livello superiore, si manifesta in modo impressionante dopo la comparsa del secondo organizzatore, con lo sviluppo di molte capacità nuove, che abbiamo descritte nel cap. VI. Questi risultati sono forse gli argomenti decisivi dell’applicazione del punto di vista genetico. La formazione di confluenze nel punto nodale degli organizzatori, spiega come non ci sia concordanza diretta e meccanica fra i fenomeni della vita dell’adulto e quelli che li precedono nell’infanzia. Si tratta piuttosto di una corrispondenza storica, nel corso della quale un fenomeno che esiste ad un livello inferiore può essere tradotto in un fenomeno ben diverso, ad un livello più elevato, grazie alle trasformazioni funzionali determinate dalla comparsa dell’organizzatore, che separa il livello inferiore da quello superiore. Diamo un esempio ipotetico, desunto dall’evoluzione dell’oggetto libidico: il seno materno che costituisce inizialmente un oggetto parziale, verrà sostituito dopo la comparsa del secondo organizzatore dalla persona intera della madre, e diverrà oggetto vero e proprio. Per la bambina nello stadio edipico, la persona del padre assumerà il ruolo dell’oggetto, e verrà poi sostituito alla pubertà da un giovane uomo. D’altra parte, aver dimostrato l’esistenza di questi organizzatori nel primo anno di vita, rafforza il nostro concetto della funzione privilegiata degli organizzatori successivi, descritti da Freud: parliamo del complesso di Edipo, della pubertà e della menopausa.
CAPITOLO QUATTORDICESIMO Conclusioni
In questo studio ci siamo sforzati di presentare un quadro comprensibile delle nostre conoscenze attuali sulla genesi dei primi rapporti oggettuali, sulla natura degli elementi che li compongono, sui loro stadi normali e sulle turbe evolutive nel primo anno di vita. Questo quadro è solo approssimativo; non solo è incompleto da molti punti di vista, ma indagini future, usando concetti e strumenti più esatti, apporteranno senza dubbio delle modifiche ai nostri risultati. Noi possiamo offrire quindi solo una prima approssimazione; tuttavia siamo giunti a chiarire, a volte in modo inaspettato, tutta una serie di problemi. Ho affermato nei precedenti capitoli che l’evoluzione normale dei rapporti oggettuali rappresenta la premessa per uno sviluppo psichico normale – premessa non sufficiente, ma necessaria. Abbiamo avuto occasione di sottolineare inoltre certe deviazioni dello sviluppo psichico, certe turbe psico-somatiche della prima infanzia, che presentano delle analogie suggestive con disturbi che si riscontrano nell’adulto. Abbiamo segnalato che queste analogie non equivalgono ad un’identità delle forme morbose; nello stesso tempo abbiamo formulato l’ipotesi che disordini gravi nelle fasi iniziali della formazione della psiche lasciano inevitabilmente delle cicatrici, sulle quali, in un periodo successivo, possono innestarsi altri disturbi. Allo stato attuale delle nostre conoscenze questa è solo un’ipotesi; le osservazioni cliniche e sperimentali di Anna Freud (13, 14), di John Bowlby (5), di Rank e Putnam (85), di Margaret Mahler (47), di Berta Bornstein (86, 87) e di molti altri, sembrano darci una conferma. Potremo confermare definitivamente l’ipotesi, o infirmarla, quando saremo in possesso di un numero sufficiente di osservazioni longitudinali, che partano dalla nascita.
Tuttavia, anche se si tratta solo di ipotesi, queste constatazioni suggeriscono i mezzi di prevenzione; ci suggeriscono anche alcune idee per la terapia di questi disordini nei bambini in età scolare e negli adulti, su cui ritorneremo in seguito. Voglio ora trattare più dettagliatamente due questioni, speculative ed ipotetiche, sulle quali non ho ancora avuto modo di pronunciarmi. Una si riferisce al valore sociologico delle nostre osservazioni. Già nei primi paragrafi di questo lavoro, ho sottolineato che i rapporti oggettuali sono sostanzialmente rapporti sociali. Mi rendo conto che nei capitoli precedenti mi sono sforzato di dimostrare l’importanza cardinale che ha per l’individuo la formazione di questi rapporti. Non potrei concludere questo lavoro senza mettere in luce, sia pure in modo generico, il valore storico e sociologico della formazione di questi primi rapporti oggettuali. D’altra parte la conoscenza della formazione dei primi rapporti oggettuali può fornirci delle indicazioni terapeutiche. Quale importanza hanno per la società i primi rapporti oggettuali? Freud ha elaborato il primo abbozzo di questo problema nel suo libro Massenpsychologie und Ich-Analyse. Basandosi sui fenomeni dell’ipnosi e dell’amore, Freud formula il concetto di “massa a due”. Con l’aiuto di ricerche sul fenomeno dell’ipnosi, egli riporta l’origine di questa folla al rapporto madre-bambino. Il rapporto fra ipnotizzatore ed ipnotizzato è il prototipo dei rapporti della folla con il suo capo, dell’orda primitiva col padre (19). Tutti i rapporti ulteriori, quelli amorosi, quelli ipnotici, quelli della folla col capo, ed infine i rapporti interpersonali, hanno la loro prima origine nel rapporto madre-bambino. Le nostre indagini ci hanno fornito quindi un punto di partenza per comprendere le forze e le condizioni che fanno dell’uomo un essere sociale. In virtù dello sviluppo della capacità di dirigere gli affetti fusi su di un oggetto libidico, capacità acquisita nel rapporto madre-bambino, l’essere umano è in grado di formare ogni altro rapporto sociale1. Le ricerche antropologiche ed etnologiche di Margaret Mead (48, 88), Ruth Benedict (89), A. Kardiner (90, 91), Redfield (92), e di molti altri, hanno dimostrato che esiste una corrispondenza stretta fra i rapporti madrebambino, tradizionali per un certo tipo di civiltà, e le strutture culturali e i tipi di comportamento della società adulta. In un articolo, Fruehkindliches Erlebnis und Erwachsenenkultur bei den Primitiven2, ho affermato che non
è lecito dire che la natura dei rapporti oggettuali, il modo in cui sono allevati i bambini, determinano l’ordinamento culturale degli adulti. Non è lecito allo stesso modo dire che l’ordinamento culturale della società adulta determina la forma dei rapporti madre-bambino. Le due cose sono inestricabilmente intrecciate e rappresentano il risultato del passato storico della società in questione. La natura dell’organizzazione culturale stabilisce i limiti entro cui i rapporti oggettuali possono svilupparsi. Kardiner ce ne dà un esempio nel suo studio sulle tribù di Alor (90). Nella struttura economica della società Alorese, la donna lavora nei campi, mentre l’uomo cura i suoi affari. La madre dà da mangiare al suo bambino alla mattina, poi lo abbandona durante la giornata alle cure piene di risentimento di un altro bambino appena più grande. Questa carenza di cure non è un fatto sporadico, ma un influsso costante. Il bambino non prova mai. la tenerezza e la premura materna. Quando è grande (la ragazza specialmente), è costretto ad aiutare la madre. Ovunque si vedono dei bambini piangere, rivolti verso la loro madre; tutti gli adulti di Alor si lamentano di essere stati abbandonati dalla loro madre fin dall’infanzia. L’Alorese non è affezionato ai suoi genitori. Il rapporto fra i due sessi è esecrabile. Ogni rapporto umano, comparato ai nostri, è seriamente leso. Sono sospettosi, senza fede in se stessi, timidi, insicuri, hanno il sentimento di essere costantemente minacciati. Non cooperano, non formano amicizie, nei loro scambi commerciali sono bugiardi e ognuno cerca di gabbare l’altro. L’ostilità per ogni altra persona è straordinariamente evidente. Non sono creativi, vivono per il momento, abitano fra rottami, non hanno alcun concetto di virtù né di ricompensa per una buona condotta. Il tema principale del loro folklore è l’odio verso i genitori. Come società sopravvivono perché non sono mai stati minacciati da un pericolo esterno, sia questo una carestia o l’aggressione. D’altra parte le capacità di trasformare la loro aggressività in azione è molto debole. I costumi e la tradizione costringono la madre alorese ad abbandonare il suo bambino per il lavoro dei campi, e il padre è costretto ad essere assente. Questa società quindi impone ai bambini una penuria di rapporti oggettuali, allo stesso modo dei bambini, deprivati affettivamente, che ho descritto in uno dei capitoli precedenti. Questa penuria di rapporti affettivi determina la capacità dell’individuo di formare o no dei rapporti interpersonali, con adulti della stessa società, rapporti che superino i limiti del vantaggio
immediato. A loro volta i rapporti adulti determineranno la natura degli atteggiamenti e dell’organizzazione culturale che regolano ogni rapporto interpersonale, fra cui anche il rapporto madre-bambini. Si forma così un processo sociale circolare. Nelle società primitive rigidamente tradizionali, questo assicura l’immutabilità delle forme culturali attraverso i secoli; per contro, la nostra civiltà occidentale è sottoposta a cambiamenti relativamente bruschi delle condizioni sociali, in seguito a modificazioni economiche, ideologiche, ecc.. Queste trasformazioni imposte arbitrariamente, modificano anche il rapporto madre-bambino. Nel corso degli ultimi tre secoli abbiamo subito due modificazioni in questo senso: 1) la decadenza progressiva dell’autorità patriarcale, in seguito all’introduzione del protestantesimo [Spitz (94)]; 2) la decomposizione rapida del rapporto madre-bambino, cosa che risale ad un secolo, in seguito all’industrializzazione della produzione, collegata a una ideologia corrispondente, che separa la madre dalla sua famiglia, costringendola a lavorare fuori. Questi due punti, la decadenza dell’autorità patriarcale e la diserzione della madre, si sono combinati e hanno portato alla decomposizione rapida della famiglia nella nostra società occidentale. Ne vediamo le conseguenze nella delinquenza minorile, problema sempre più grave in tutti gli stati occidentali. Le conseguenze si manifestano nell’adulto nel numero sempre maggiore di nevrosi, di psicosi e di delinquenza. Questo fenomeno ha imposto delle soluzioni nuove; sorgono infatti organizzazioni culturali fino ad ora sconosciute. Mi riferisco alla Foster Homes, agli Adoption Services, alle Child Guidance Clinics, ai servizi sociali, alle baby sitter, al numero crescente di asili per alienati, sia bambini che adulti; infine la necessità di formare un numero astronomico di psichiatri per curare i disturbi causati dalla nostra civilizzazione. Tuttavia si tratta solo di palliativi. Diventa imperativo risalire all’origine del male, per creare una psichiatria sociale preventiva, se vogliamo proteggere la nostra civiltà intera dal pericolo rappresentato dal deterioramento rapido delle condizioni necessarie per lo sviluppo normale dei primi rapporti oggettuali. Sono problemi che superano la competenza psichiatrica e che appartengono alla competenza degli Stati. Gli psichiatri e gli psicoanalisti sono chiamati a curare i danni causati nell’individuo dalle costrizioni imposte dalla nostra società. Lo studio dei primi rapporti oggettuali ci ha fornito i mezzi terapeutici.
Quanto abbiamo appreso ci indica che i disordini nella formazione dei primi rapporti oggettuali hanno probabilmente come conseguenza gravi turbe nella capacità di formare un transfert nell’adolescenza e nell’età adulta. Margaret Mahler (47) ha descritto due sindromi comportamentali nel lattante. L’autrice parla di bambini autistici e di bambini simbiotici. Il bambino autistico ricorda l’adulto, che soffre di mancanza di contatto, che rifiuta il contatto, fino alla catatonia nelle forme estreme. Il bambino simbiotico, d’altra parte, ricorda l’adulto in certe forme di attaccamento patologico, di dipendenza estrema, che può spesso condurre al suicidio. Penso si possa affermare che la premessa per ogni buona capacità di transfert sia la formazione di buoni rapporti oggettuali nel primo anno. Per questo il transfert fu scoperto inizialmente nel corso della terapia della nevrosi, nella quale il conflitto iniziale sorge molti anni dopo la formazione dell’oggetto. Per contro, la deformazione dei primi rapporti oggettuali comporta la deformazione della capacità di formare un transfert. Per lungo tempo si disse che questi casi erano troppo narcisistici per formare un transfert, e che per conseguenza non erano accessibili al trattamento. Oggi sappiamo che in questi casi c’è la capacità di formare un transfert, ma che maneggiare questo transfert atipico e difficile, mette a dura prova l’abilità del terapeuta. La conoscenza delle condizioni in cui si formano i primi rapporti oggettuali si impone quindi per due ragioni terapeutiche: dal punto di vista preventivo, per impedire deviazioni nella formazione di questi rapporti; successivamente, per trarre dallo studio della genesi dei rapporti oggettuali delle indicazioni per modificare la nostra terapia nei malati incapaci di formare un transfert; tale incapacità a formare un transfert deriva dal non essere mai riusciti a formare un investimento libidico, a formare dei rapporti oggettuali, in breve a costituire normalmente l’oggetto libidico anaclitico. In seguito, questi malati non saranno capaci di formare dei rapporti, che hanno sempre rifiutato dall’inizio. Non saranno capaci di formare un rapporto su un piano più elevato, come l’identificazione, perché non hanno mai saputo formare il rapporto più elementare, la relazione anaclitica con la madre. La povertà dei loro rapporti infantili si traduce nella penuria dei loro rapporti sociali. Privati del cibo affettivo che era loro dovuto, ricorreranno alla sola via che loro resta, la violenza, la distruzione di un ordine sociale di cui sono vittime. Lattanti senza amore, diventeranno adulti pieni di odio.
1. Non mi sono soffermato sulle tappe successive percorse dal processo di investimento libidico, dopo la formazione del primo oggetto anaclitico fino alla formazione di rapporti sociali di tipo adulto. Queste tappe, che comprendono i rapporti di identificazione col padre, la formazione di rapporti di identificazione con fratelli e sorelle, ecc., sono stati descritti da Freud in Massenpsychologie und Ich. Analyse (19). 2. Spitz, R. A., «Fruehkindliches Erlebnis und Erwachsenenkultur bei den Primitiven », Imago, XXI, 1935.
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