Il pensiero e la dinamite. Riflessioni su alcuni film di Marco Bellocchio 8896673100, 9788896673102


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Il pensiero e la dinamite. Riflessioni su alcuni film di Marco Bellocchio
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Giorgio Betti

Il pensiero e la dinamite Riflessioni su alcuni film di Marco Bellocchio

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Capitolo 1

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La genesi di un fatto non spiega il fatto. Emanuele Samek Lodovici, Metamorfosi della gnosi Nei salotti della Piacenza che conta, poter dire di conoscere i Bellocchio costituisce un vantaggio decisivo. Piacenza è fatta così, ha una disposizione innata a costituire sodalizi, affiliazioni, circoli di varia tipologia; il che per forza di cose ha generato negli anni alcune liturgie piuttosto rodate, che divergono un pochino a seconda dell’ambito di operazione. Per esempio, in campo giuridico fino a non più di una quindicina d’anni fa il culmine del credito era rappresentato dall’avvocato Nuvolone; negli ordini forensi era tutto un rincorrersi di gente che aveva studiato con Nuvolone, che aveva fatto pratica con Nuvolone, che aveva difeso insieme a Nuvolone, e via nella corsa più sfrenata all’accaparramento: “Io l’ho conosciuto prima”, “Però io l’ho avuto come maestro”, e così citando e millantando. In subordine, arrivano quelli che al martedì mangiavano nella stessa trattoria in cui andava lui e quelli che andavano al mare dove andava lui; a seguire ci sono quelli che una volta ci si sono trovati insieme sul treno per Milano o per Roma, dove lui ebbe modo di pronunciare almeno una frase di quelle indispensabili, di quelle che ti rimangono dentro e che non ti dimentichi più; poi, in ultimo, arriva la massa indifferenziata, fatta di quei poveri diavoli che il Nuvolone l’hanno solo sentito nominare, per lo più in modo stremante dalle categorie predette. Pochissimo differente la situazione dei numi tutelari in campo medico. Anche lì c’è la rincorsa alla citazione e all’apoftegma, ma in più si può dar prova della grazia ricevuta mostrando punti e cicatrici che furono necessario pedaggio alla riparazione di ginocchi e cistifellee. In campo strettamente pittorico, poi, (e diciamo ‘strettamente’ perché se allarghiamo all’artistico latu sensu sconfiniamo anzitempo nella grande riserva bellocchiesca) generalmente è tutto uno sgomitare per aver conosciuto Gustavo Foppiani. Nei bar, nelle cantine, nelle aie vacanziere di campagna, la citazione a Gustavo si erge ilare e imperiosa, facendo generalmente sfociare in sapida risata quel silenzio 3 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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attento e rispettosissimo che accompagna il racconto del narratore fino alla battuta conclusiva. Il fatto è che mentre Foppiani da morto lo si può usare un po’ come si vuole, basta che non ci siano testimoni ‘titolati’ presenti, da vivo era decisamente meno maneggevole. Era un bell’uomo, Gustavo; aveva un viso che ricordava molto da vicino certi putti dei suoi primi dipinti, e la capigliatura riccia e ribelle, che negli ultimi anni si era quasi completamente argentata, allo sguardo del passante che aveva la ventura di incrociarlo lo faceva quasi d’istinto catalogare nella razza antropologica degli artisti; questo naturalmente insieme ad altri particolari che costituivano il suo tratto: come la sua andatura lenta ed elegante, o come il vago aspetto trasognato, sigillato a sua volta da uno sguardo che sembrava ammirare perennemente velieri che sorvolavano i merli del Gotico, o ippogrifi che atterravano ai giardini Merluzzo. Ma chi lo ha conosciuto sa bene che la caratteristica più scoppiettante, quella che lo contrassegnava in modo indelebile negli annali piacentini di memorabili baldorie, era il suo umorismo; quello stesso che ha quasi sempre permeato i suoi quadri: giocoso, satirico, improvviso e, vorremmo azzardare, a tratti permeato da una sorta di angelico teppismo. Le sue battute e i suoi giochi di parole potevano saettare da un momento all’altro con effetti devastanti sull’interlocutore di turno, e raddoppiavano la loro potenza sgretolatrice se sparati appositamente per colpire la seriosità dei discorsi di volta in volta intavolati. Purtroppo, se alcuni cataloghi stanno salvando, almeno in parte, la sua opera, non c’è galleria che possa cristallizzare la serie delle sue battute, se non quella un po’ precaria della tradizione verbale o, se si preferisce, della leggenda da osteria tramandata di bocca in bocca, con canoni consolidati e corrispondenti eresie. In un’occasione, a un conoscente che faceva sfoggio di grande perizia in fatto di aerei impegnati nella seconda guerra mondiale, e che nominava ripetutamente un terribile bombardiere denominato Dakota, tappò la bocca dicendo in perfetto vernacolo: “Anca noi a Piaseinsa gum i salam da-cota!” (trad: “Anche noi a Piacenza abbiamo i salami ‘da-cotta’”). Questo aneddoto proviene dal canone di Dino Sormani; quelli successivi, dall’archivio famigliare di chi scrive. Un’altra volta, a una presentazione per la stampa di una serie di lito, 4 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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vide un critico che si aggirava per la galleria con gli occhiali da sole, e allora scosse la testa sentenziando: “Ecco, io ci metto anni a trovare una tinta giusta, e quello in due secondi me la rovina con le lenti colorate!”. Un’altra sua specialità erano le ‘libere traduzioni’ in piacentino delle più note canzoni americane; alla fine degli anni Cinquanta, per esempio, nei convivi cultural-enogastronomici locali ebbe particolare successo la sua “Contrivedar”, libero (anzi, licenzioso) adattamento della “Stormy Weather” di Frank Sinatra, la cui strofa attaccava così: “Stamateina ho vist una musca spatassè… contrivedaaar…” (trad: “Stamattina ho visto una mosca spiaccicata contro i vetri…”) e il prosieguo è meglio sottacerlo (… “Che parola aspra!”, avrebbe subito replicato Gustavo). Uno degli episodi che meglio possono dare un’idea del carattere di questo personaggio avvenne nel 1980, al bar detto ‘della scaffa’, a due passi da piazza Cavalli. Gustavo, mentre sorseggiava chinotto e masticava una focaccina, discuteva animatamente di certi fumetti sudamericani che ammirava molto con un bambino di dieci anni che stava al suo tavolo, figlio di un suo vecchio amico editore d’arte. Nel frattempo, un giovane pittore di belle speranze gli si era seduto accanto, attendendo con premura l’occasione di mostrare al maestro un certo suo lavoro di cui andava fiero, che si era portato appresso in una borsina di plastica, di quelle da supermercato. “Mordillo è grande”, diceva Gustavo, “ho appena letto una sua striscia che fa così e così”. “Sì, ma Quino è anche meglio” gli replicava il bambino, che in fatto di fumetti non soffriva di timore reverenziale di fronte ad alcuno, e giù una serrata discussione senza esclusione di citazioni. Dopo circa un quarto d’ora il pittore di belle speranze non regge più, e finalmente si decide ad interrompere lo scambio di idee invocando l’attenzione di Gustavo. “Gustavo, scusa” dice timido “volevo farti vedere un mio lavoro, per vedere se ti piace…”. Gustavo si mostra ben disposto. “Ma certo, fa’ vedere”, dice. Il giovane pittore allora estrae dalla borsina un quadretto dipinto a olio; una tela piccola e perfettamente quadrata, che si direbbe una 5 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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composizione astratta, consistente però in motivi ricorrenti e regolari, un po’ come un arabesco; in più, contrassegnata da colori forti e vivaci, tanto da richiamare lo smalto. Gustavo prende il quadretto, lo squadra, lo soppesa da ogni lato e poi dice: “Fa’ una cosa: di questi dovresti farne tanti, così potrai ottenere un bel pavimento!”. Ecco, questo era Foppiani. Ma si può essere certi che quell’ex giovane pittore di belle speranze oggi si trova per qualche contrada piacentina a ricordare le arguzie dell’amico Gustavo, opportunamente epurate e riaggiustate per la bisogna, sempre dopo essersi accertato che non ci sia presente qualcuno memore dell’episodio summentovato. Le dinamiche, dunque, divergono di poco, giusto quel tanto che le varie discipline impongono per loro natura interna: il gruppo elegge un campione per ogni disciplina, e immediatamente intorno a esso si viene a formare una pletora di esegeti che diventa di fatto depositaria del suo testamento spirituale, poiché a quello materiale, se c’è, di solito ci pensano gli eredi giuridici. A questo punto, la domanda in sé legittima che si può porre il forestiero è: “Perché?”; qual è, la finalità di questa continua tendenza alla monumentalizzazione di certe personalità locali? La prima risposta, quella che emerge immediata e gioiosamente liberatoria, è: “Boh?!”; per dire che se già sono impervi i sentieri di una sola psiche umana, figuriamoci i cunicoli, i condotti, le stanze interrate, i fossili stratificati di una moltitudine di persone accomunate in tutto o in parte da quella che forse può chiamarsi una cultura. Poi, però, di risposta se ne può abbozzare qualche altra, anche se non avrà mai la limpidezza della prima. Piacenza è una città senza porte. Nel senso che quelle che in altri posti si chiamano ‘porte’, a Piacenza si chiamano ‘barriere’; per cui non ci sono Porta Genova o Porta Milano, ma Barriera Genova, Barriera Milano eccetera. Non quindi posti per ‘andare a’, ma per ‘difendersi da’. Al massimo, nel linguaggio comune, qualche volta al posto di ‘porta’ può fare la sua comparsa ‘piazzale’, per cui di tanto in tanto ecco sentirsi un timido Piazzale Roma o Piazzale Torino, ma in una casistica decisamente ridotta. All’interno dell’accampamento c’è continuamente bisogno di certezze, di conferme esistenziali, e cosa, 6 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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allora, meglio di qualche buona vecchia istituzione idolatrica che faccia da mediatrice tra la comunità e i mari inquieti della cultura nazionale agitantisi appena oltre le mura? Il nume tutelare, dunque, deve avere certe caratteristiche: deve essere famigliare, riconoscibile, autorevole, ma soprattutto la sua importanza deve essere ratificata dalla collettività. Per i piacentini (e di questo bisogna dare atto come di una qualità straordinaria, e sia detto senza alcuna ironia) è realmente più importante essere il critico di Libertà che non del Corriere; è più sapido l’applauso che si coglie sul proscenio del Teatro Municipale che su quello della Scala; è intimamente più significativo diplomarsi all’Istituto d’arte Gazzola, che a Brera o alle Belle Arti di Roma o Firenze. Il successo del piacentino in campo nazionale funziona solo in quanto accolto dal gruppo, e non può prescindere da esso; solo quando è fatto proprio dalla comunità diviene un fiore all’occhiello che essa stessa ostende per compiacersene, e senza tale ratifica il culto non ‘scatta’. Per tornare all’esempio di Gustavo Foppiani: il pittore piacentino di gran lunga più famoso d’Italia (per restare al Novecento) non è lui, ma Bruno Cassinari; eppure al piacentino-tipo, quando pensa a un pittore, novanta volte su cento viene in mente Gustavo. Perché lo sente più ‘suo’, perché lo avverte più famigliare (rimase sempre a Piacenza pur essendo nato per caso a Udine, mentre Cassinari ben presto, e per sua fortuna, se ne andò alla svelta a Milano); ma, soprattutto, perché i critici, i galleristi, i collezionisti di Piacenza gli hanno sempre confermato che il pittore per antonomasia è lui. Un’altra risposta possibile è più malandrina e forse ancor più realistica: l’idolo serve per la sopravvivenza e per il lustro; se lui sprigiona luce, un po’ di quella luce inevitabilmente rifletterà addosso a coloro che gli sono più vicini, con tutte le ovvie piacevolezze ‘del grado’ che ne conseguiranno e che si possono immaginare. Detto tutto questo, bisogna anche aggiungere che i Bellocchio costituiscono un caso unico. I Bellocchio sono un caso unico, perché riescono nell’eccezionale alchimia di essere insieme Foppiani e Cassinari; riescono, cioè, a essere l’incredibile intersezione tra micro e macrocosmo, tra rito locale e sussiego (quantomeno) nazionale. 7 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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Parlare dei Bellocchio è forse generico, perché sono più di uno; comunque quelli che riescono a far scattare tale particolarissimo fenomeno sono almeno tre, che proviamo di seguito ad analizzare partendo dal primo in ordine anagrafico. Piergiorgio Bellocchio è l’inventore dei Quaderni Piacentini, che a tutt’oggi sono il primo e più fulgido esempio di quella che si può definire cultura ‘in’, anche se, come spesso capita, questo si è verificato assolutamente al di là delle intenzioni dei redattori; i quali, come avvertono fin dalle righe del primissimo numero ciclostilato, rivendicano la voglia di essere seri senza essere seriosi, “con allegria”. Con questo famoso periodico, infatti, comincia a manifestarsi una certa tendenza dell’entourage a essere più realisti del re; è una sindrome da apoteosi che circonda i Bellocchio ancora oggi, forse anche più forte di prima perché temprata e corroborata al passaggio di ogni generazione che li segue, li cita e in qualche modo li cristallizza. I Quaderni Piacentini sono una di quelle carte risolutive che chiunque, anche un commercialista in libera uscita o una signorina neolaureata al suo debutto in società, può calare in qualsiasi momento sul tavolo delle conversazioni colto-mondane di qualunque salotto con ottime probabilità di uscirne vincenti. “L’ha detto Fofi sui quaderni piacentini”, per esempio; oppure: “Grazia Cherchi sui quaderni piacentini era intransigente, su questo punto”, sono di quelle frasi che ti spiazzano, che ti lasciano nella limacciosità insipiente del non detto, o meglio della risposta mancata. Alberto Bellocchio è  stato un sindacalista di livello nazionale, oggi è un poeta di fama; particolare interesse suscitò, qualche anno fa, il suo romanzo in versi La banda dei revisionisti, uscito per i tipi di Moretti e Vitali. Da citare anche Il Libro della famiglia e Sirena operaia, usciti per Il Saggiatore. Fu anche uno dei Quaderni Piacentini della prima ora, poi se ne andò sulle ali della lotta sindacale.  Marco Bellocchio cominciò giovanissimo a pubblicare poesie e a scrivere recensioni anch’egli per i Qq Pp; poi a Milano intraprese la carriera di attore. Pare che sia stata la grande Lina Volonghi, sua insegnante, a dirgli che con quella voce poteva forse fare il cinema, ma 8 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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che il teatro poteva scordarselo. Allora se ne andò a Roma, al Centro Sperimentale; qui vinse una borsa di studio che lo portò a Londra. Siccome è proprio di Marco Bellocchio che vogliamo specificamente parlare con questo libro, a questo punto possiamo fermarci su di lui. Cominciamo con un episodio avvenuto un paio d’anni fa. Siamo ad Alessandria, a ‘Ring’, il festival della critica cinematografica. Il luogo specifico è proprio una sala cinematografica da poco ristrutturata, con comode poltrone in velluto rosso, muri laccati e tenue odore di vernice. Sul palco ci sono cinque persone. Il moderatore è seduto al centro: alla sua destra ci sono Marco Bellocchio e Davide Ferrario; alla sua sinistra, la destra per il pubblico, Paolo Mereghetti (autore dell’omonimo dizionario) e un suo collaboratore. È il pomeriggio di un autunno clemente, per cui fuori ci si starebbe anche bene, ma nonostante questo la platea è gremita; per chi arriva solo con un paio di minuti di ritardo, trovare un posto a sedere è tutt’altro che agevole. Il pubblico è eterogeneo, trasversale riguardo all’età e alla provenienza, ma la galleria degli ammennicoli tipici del cinefilo è sempre la stessa, ricorrente più o meno a ogni festival. Ovunque sono in agguato occhialoni dalla montatura abnorme, in combinato disposto con jeans laceri d’ordinanza e maglioni scuri; per i meno giovani è gradito il completo giacca-e-pantaloni possibilmente stazzonato e rigorosamente senza cravatta, con corredo di pacco di giornali sotto il braccio praticamente obbligatorio. Il palco è illuminato, mentre la platea è quasi al buio, come quando si guarda un film. I registi e i critici si confrontano, discutono, si fanno reciproche domande e non mancano momenti di polemica manifesta, anche se nessuno alza la voce. A un certo punto Bellocchio chiede a Mereghetti come è che si fa, a redigere un dizionario dei film; quello che non capisce, dice chiaramente, è come si possa tenere aggiornato un tale tipo di pubblicazione, considerando il notevole numero di tutti i film che escono. Aggiunge anche di non sapere se il redattore può ‘cambiare idea’; se, cioè, le voci su un titolo nel corso degli anni possono venire modificate o restano immutabili. Mereghetti, dopo aver fugacemente cercato lo sguardo del suo giovane collaboratore, risponde che giustappunto il dizionario dei film non è esclusivamente 9 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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e interamente opera sua, ma che per farlo uscire di edizione in edizione necessita della collaborazione di uno staff piuttosto corposo, composto di persone di sua fiducia. Per quel che riguarda la seconda parte, dice che sì, è ovvio che un’opinione può cambiare, per cui capita non di rado che il testo relativo allo stesso film possa essere mutato. “Quindi”, chiede Bellocchio (a grandi linee, perché non ricordiamo le precise parole) “può anche darsi che il tuo dizionario alla voce Via col vento nel 2006 abbia una voce diversa da quella del 2004…”. Mereghetti risponde che per un film così famoso è più difficile, ma che però, certo, questa ipotesi non si può escludere; allora Bellocchio fa cenno di sì con la testa, dicendo: “Ah, ho capito”. E il pubblico di cinefili, che fin dalle prime battute della conversazione ha dimostrato chiaramente di tifare per i registi, e non per i critici, a quest’ultima frase ride. Ride evidentemente per la battuta irridente, non scevra da un certo sarcasmo tipico del vecchio sessantottino, che rimane nel regista contestatore come un ultimo ruggito, come un distintivo di militanza che proprio non se ne vuole andare. Il fatto, a questo punto veramente enigmatico, è che Bellocchio in realtà non ha fatto alcuno sfoggio di sarcasmo, né di irriverenza: chi dalle prime file lo ha osservato attentamente (come chi sta scrivendo in questo momento) sarebbe disposto a giurare che quell’“Ah, ho capito” significava proprio “Ah, ho capito” e nient’altro; e che la domanda intorno al come si redige un dizionario dei film non era una domanda pretenziosa, volta a dimostrare l’inconsistenza culturale di tale attività, ma una ‘vera’ domanda dettata da vera curiosità. E tuttavia, come detto, il pubblico ha riso. La stessa cosa capita dieci minuti dopo. Qualcuno, per motivi che non ricordiamo, accenna brevemente a un film di Renzo Martinelli. Martinelli è un regista per tanti versi lontano da Roma, inoltre il suo film è stato aspramente criticato, soprattutto a sinistra; al solo sentirlo nominare, il pubblico rumoreggia. Allora Bellocchio si gira verso Davide Ferrario, e gli chiede di quale film si tratti; Ferrario gli risponde in qualche modo, per quel che ne sa; Bellocchio scuote la testa e dice, semplicemente: “Non lo conosco”. Ancora una volta lo dice con semplicità, senza che una qualche irrisione affiori sul suo volto; e questa volta il pubblico non si limita a ridere, ma esplode quasi in un 10 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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boato, proprio come quando il pugile per cui si fa il tifo mette a segno un terribile diretto alla mascella. A questo punto il fenomeno deve per forza assurgere a oggetto di studio. Certo, può darsi che il pubblico abbia avuto ragione; può darsi che sia stato chi scrive, a non percepire, per mancata perspicacia o altra causa, la portata reale dell’atteggiamento di Bellocchio, le cui affermazioni invece possono essere state rettamente interpretate proprio dalla maggioranza; ma non possiamo fare altro che esprimere la curiosità e anche la perplessità che alcune considerazioni ci muovono, naturalmente a partire dal nostro punto di vista, ammesso e non concesso che sia il punto di vista giusto. L’impressione che a un certo punto si è fatta fortissima è che la gente presente in quella sala di Alessandria (a schiacciante maggioranza, ma non nella sua totalità, comunque) abbia visto, seguito e diciamo pure ‘sostenuto’ non il Bellocchio ‘vero’, in carne e ossa; ma un Bellocchio immaginario, corrispondente a certe aspettative e non del tutto immune da un certo fumus proprio del ‘luogo comune’. Un Bellocchio, insomma, più nella testa dell’ammiratore, che nel mondo reale. Questo è un fenomeno non nuovo, nel mondo dello spettacolo in genere e del cinema in particolare; però per lo più appartiene a uno star system di stampo vagamente hollywoodiano distante anni luce, almeno nell’immaginario collettivo, dalla latitudine anche a livello iconografico di Marco Bellocchio. Ma la domanda che qui urge porsi è un’altra: questa capacità mitopoietica dello spettatore dal personaggio Bellocchio si spinge anche ai suoi film? A nostro parere sì; almeno per quel che riguarda alcune pellicole, che proviamo di seguito a vedere.

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Capitolo 2 Scheda Content accessed by Alma Mater Studiorum - Univ. di Bologna [IP address 137.204.24.180] on 03/12/2018

I PUGNI IN TASCA REGIA: Marco Bellocchio (opera prima) SCENEGGIATURA: Marco Bellocchio ATTORI: Lou Castel, Paola Pitagora, Marino Masé, Pierluigi Troglio, Irene Agnelli, Jeannie McNeil, Liliana Geraci, Gianni Schicchi, Stefania Troglio, Mauro Martini, Alfredo Filippazzi, Celestina Bellocchio, Gianfranco Cella, Sandra Bergamini, Lella Bertante, Tino Mulinari FOTOGRAFIA: Alberto Marrama, Giuseppe Lanci MONTAGGIO: Silvano Agosti MUSICHE: Ennio Morricone PRODUZIONE: Enzo Doria per Doria Cinematografica. DISTRIBUZIONE: International Film Company - Manzotti Home Video, Vivivideo, Mondadori Video PAESE: Italia 1965 GENERE: Drammatico DURATA: 107 Min FORMATO: B/N Panoramica - Artecolor NOTE: Interni girati all’ICET di Milano, esterni a Bobbio (Piacenza). Direzione del doppiaggio: Elda Tattioli. Lou Castel è doppiato da Paolo Carlini. PREMI: Vela d’Argento per la miglior regia al Festival di Locarno 1965. Nastro d’Argento 1966 per il miglior soggetto. Premio Cinema Novo per la miglior regia al Festival di Rio De Janeiro. Presentato nel 1965 ai Festival di Venezia, New York e Londra.

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È più facile attaccare quando il nemico è ancora intento a studiare la sua strategia.

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Sun Tzu, L’arte della guerra All’inizio degli anni Sessanta, il giovane dinamitardo Marco Bellocchio sente che per farsi spazio in quell’ambiente cinematografico che lo circonda e che sembra già ampiamente occupato è necessario minare il sistema. Non tanto il sistema produttivo e distributivo, anzi; quello è troppo potente anche per un talentuoso di belle speranze come lui; c’è un altro museo delle cere da far saltare, che è insieme più prestigioso e più fragile, per cui ottenere vittoria non è solo più facile, ma anche più fruttuoso sul piano della battaglia mediatica: è il museo del repertorio cinematografico nazionale, con le sue icone, i suoi miti e i suoi idoli; i suoi riti e le sue convenzioni. Un buon rivoluzionario, soprattutto se giovane, preparato e lucido tanto nella progettualità quanto nella prassi, sa benissimo quando, dove e come sferrare l’attacco; ma per colpirlo con efficacia bisogna sceglierne una componente fondamentale, che possa scuoterlo fin dal profondo. Prima, però, bisogna esaminare la situazione il più lucidamente possibile. In Italia c’è stato il neorealismo, che con i suoi stracci e le sue varianti, nell’immediato dopoguerra, ha saputo far innamorare (dapprima) la critica straniera. Dall’incontro di questo con il comico classico all’italiana, negli anni Cinquanta scoppia la devastante fiammata corrosiva della commedia all’italiana, con i suoi alfieri (Monicelli, un po’ più a sinistra; Risi un po’ più a destra; Comencini in posizione un po’ più defilata, più o meno al centro) e i suoi autori collaterali; ovvero i grandi del passato recente che sanno interpretarne le istanze e gli umori, come il De Sica di Ieri, oggi e domani, per esempio, e i giovani talenti che nascono alla sua ombra e da lì costruiscono una loro personalissima poetica, come, sempre per fare un esempio eclatante, il Marco Ferreri di ritorno dalla Spagna. Oppure gli ottimi mestieranti che compiono un salutare endorsement, come (sempre tra i tanti) Luciano Salce. Però di fronte alla commedia all’italiana la critica storce il naso, almeno per ora, mentre il neorealismo sembra aver lasciato una discendenza 14 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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che non ha nemmeno l’ombra della forza espressiva primigenia. A questo punto bisogna intervenire, e per conquistarsi una nomea al cospetto delle zone alte ci vuole il botto. Di questo, Marco Bellocchio si rende perfettamente conto; ci vuole un buon piano e quel tanto di giovanile improntitudine che faccia da detonatore. In primis, bisogna scegliere il metodo giusto, e per metodo si intende un linguaggio che sia il più appropriato per la bisogna. Bellocchio dopo il Centro Sperimentale di Cinematografia a Roma ha studiato allo Slade di Londra. Lo Slade è in pratica l’accademia di belle arti, ma fin dagli anni Cinquanta ha attivato un corso di cinema; in onore di un’altra matricola italiana di nome Lorenza Mazzetti che, pur frequentando il corso di pittura, nel ’56 aveva vinto a Cannes il primo premio per l’opera d’avanguardia con il mediometraggio Together. Di fatto, e non può essere un caso, di tutti i suoi coetanei Bellocchio è il più ‘inglese’; il che significa, più che altro, il meno affascinato dai dettami della Nouvelle Vague a quel tempo imperante, pur sotto l’egida del nume tutelare italico Antonioni. Scatta in piedi. Davanti a noi sta passando, ieratico, Michelangelo Antonioni. Godard gli va incontro con un balzo, lo saluta con un’effusione, poi con improvvisa soggezione gli chiede un appuntamento. Marisa Rusconi, 4 Registi al magnetofono, in Sipario dell’Ottobre ’64, n° 222 Bernardo Bertolucci, Liliana Cavani, Emidio Greco e lo stesso Dario Argento sono giovani registi che istintivamente avvertono il fascino di un cinema che narrativamente nel suo ritmo, nel suo ‘battito’, debba essere in sincronia con la percezione dell’autore, che a sua volta è ritenuta fin dal principio coincidente con quella dello spettatore. Da qui, un uso a dir poco arbitrario dei tempi e soprattutto delle pause, una ricerca (non di rado vana) di inquadrature che sappiano in qualche modo riprodurre lo sguardo umano, con conseguente ipertrofia del Piano americano, e una tecnica di montaggio quantomeno ‘creativa’. Superfluo aggiungere che quelli citati sono a tutti gli effetti autori di certa caratura, e che quindi avvertirono a inizio carriera la ‘nuova onda’ solo a livello di influenza iniziale, per poi sviluppare una propria 15 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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individuale via alla narrazione secondo una continua e fertile inventiva che va annoverata tra i patrimoni del cinema italiano e mondiale. Ribadite doverosamente queste cose, c’è subito da aggiungere che Marco Bellocchio, per l’appunto, diverge. Probabilmente avverte che per i suoi scopi serve un’altra arma; che gli stilemi della Nouvelle Vague non fanno al caso suo. Molto più congeniale gli è il Free Cinema inglese, per tutta una serie di motivi. Il Free Cinema nasce dal documentario ed elabora una propria unicissima capacità di far decantare la realtà, di manipolarla cioè, a tal segno da farla diventare poesia o, meglio, una vera forma di epica contemporanea, senza levarle il suo status di verità. In questo senso, tra i più preclari esempi, oltre al già citato Together della Mazzetti, vanno assolutamente annoverati i capolavori no-fiction di Lindsay Anderson, come O dreamland, Every day except Christmas o Thursday children, documentario su bambini ciechi che valse un Oscar al grande autore britannico come miglior cortometraggio. Però pur librandosi con la fantasia arditamente nei cieli dell’invenzione senza mezzi termini poetica, quelli del Free Cinema rimangono anche saldamente ancorati a una prassi cinematografica da manuale: inquadrature studiate, fotografia calibrata al dettaglio, rigorosissima continuità ‘di edizione’ tra una sequenza e l’altra. Di questo dovrebbero rendersi conto quelle enciclopedie deliranti che considerano tale straordinaria vena cinematografica semplicemente come la ‘variante inglese’ della Nouvelle Vague. Oltre al dato oggettivo, certamente di non poco conto, che il Free Cinema nasce prima. In ogni modo questi sono gli strumenti che più servono a Bellocchio; soprattutto ove si pensi che nel periodo in cui viene elaborato I pugni in tasca, il cinema italiano si trova all’alba di un’altra grande esplosione creativa nell’ambito dei cosiddetti generi. Il western è da pochissimo stato riesumato e reinventato da Sergio Leone, mentre nel thriller, pure fiorentissimo e fruttuoso al botteghino, per il verificarsi di un’analoga palingenesi bisognerà aspettare il prepotente esordio registico dell’ex critico e sceneggiatore Dario Argento, già collaboratore di Leone insieme a Bernardo Bertolucci per C’era una volta il west. Il campo in questione, quindi, è praticamente sgombro. Certe soluzioni, certi topos narratologici possono essere riconvertiti e utilizzati anche per 16 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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obiettivi intimisti, senza dover pagar pedaggio allo snobismo di una critica che fino a quel momento appare sorprendentemente in ritardo, e che con ogni probabilità potrebbe stroncare aprioristicamente l’opera prima di un giovane autore, se solo avesse a disposizione a portata di penna il paragone imbarazzante con qualche regista considerato (sempre in quel periodo) di ‘serie b’. Ma il paragone non c’è. Bava, Freda e Margheriti, vale a dire i pionieri dell’horror all’italiana, (e detto tra parentesi: solidi tecnici di cui non riampiangeremo mai abbastanza la scomparsa) sono fin troppo classici nelle loro messe in scena, per cui tutto un arsenale drammaturgico e iconografico di fatto può essere esportato dall’estero (in particolare, ancora, dall’Inghilterra; basti pensare ai film di certi ‘esiliati’ di lusso come Losey, o come il Preminger di Bunny Lake è scomparsa) e utilizzato per fini culturalmente ‘alti’ senza incappare nella terroristica etichetta ‘di genere’. A dire il vero, i venerati maestri del cinema mondiale sanno già benissimo che la critica colta non attende altro che un pretesto per poter plaudire a un film senza dover necessariamente addormentarsi in platea, per cui non di rado usano a mani basse certe combinazioni che hanno il compito di tener desta l’attenzione mentre il film segue il suo sviluppo. Questo è tipico di certo Fellini, basti pensare agli ammennicoli tipici del mestierante di vecchio pelo sfoderati in Le tentazioni del signor Antonio (da Boccaccio 70), come voci in falsetto fuori campo, soggettive del ‘mostro’, musichette paranoidi e ossessive; ed è ancor più tipico di tanto Bergman, per non parlare di Buñuel, soprattutto nel suo periodo messicano. Tuttavia, nel ’64 Bellocchio sente che è arrivato il momento di osare di più, e nella sua opera prima introduce ben due ammazzamenti volontari. Non si limita, quindi, a prendere a prestito certi schemi, ma arriva a mettere in scena qualcosa di molto vicino a quello che in Italia non c’è ancora, e che nel resto del mondo più o meno viene definito ‘thriller psicologico’. L’influenza del Free Cinema si limita a questo? Certamente no, tanto che tale tipo di thriller non è certo esclusiva tipica d’Inghilterra, risalendo, probabilmente, al soggiorno hollywoodiano di certi grandi espressionisti, Lang e Siodmack in primis; anche se, va detto, in tale sottogenere l’Inghilterra eccelle, e molto inglese è l’idea di porre come protagonista al centro del film uno psicopatico omicida (come in 17 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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L’occhio che uccide, 1960, di Michael Powell) che come tale si manifesti fin dall’inizio, o comunque fisiologicamente secondo i dettami logici della fabula, e non (come in Psyco, 1960) secondo il tipico processo progressivo di svelamento (di discendenza romantica) tipico del whodoneit (il che non toglie naturalmente che per altri versi Psyco sia un film dalla forte valenza innovatrice). Gli autori del Free Cinema (oltre ai già citati è doveroso citare gli altri due firmatari dell’omonimo manifesto: Tony Richardson e Karel Reisz), rispetto a Godard e soci, come detto sono molto più attenti alla grammatica; siccome il loro slancio narrativo è protratto verso l’oggetto del racconto, il mezzo-cinema deve essere il più possibile funzionale a esso, e non c’è spazio per certe tentazioni metalinguistiche, in cui si ha sempre l’irritante sensazione che ogni inquadratura voglia dire ‘qualcos’altro’, comunque più profondo e solenne. Esilaranti, in proposito, sono gli strali che un autore-tecnico come Roman Polanski riserva alla ‘sindrome da rubinetto che sgocciola’ di derivazione bergmaniana. Non si capiva qualcosa? A Bergman veniva accreditato come merito… Roman Polanski, Roman by Polanski E poi, il Free Cinema non è autobiografico, o almeno non nel senso convenzionale del termine; a meno che non si faccia rientrare in tale definizione anche il concetto di una sorta di biografismo collettivo, al servizio non delle esperienze dell’individuo, ma di un soggetto plurimo, che nel primo Free Cinema è senz’altro l’Inghilterra stessa. Prima di tutto, look at Britain! Alberto Crespi, Lindsay Anderson Quando si parla del cinema di Marco Bellocchio, e in specie de I pugni in tasca, si parla spesso di un cinema ‘autobiografico’; ma questa definizione è esatta? E se lo è, fino a che punto lo è? Dalle cronache del periodo non risulta che nessuno dei fratelli Bellocchio abbia mai coltivato il sogno di allevare cincillà o sia andato 18 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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a segare il pero miracoloso di San Damiano. Senza contare che parlare di autobiografismo a proposito di un film in cui uno dei protagonisti ammazza madre e fratello è quanto meno di cattivo gusto! Quello di Bellocchio, se ci si passa il termine, è semmai un autobiografismo ‘statico’, che riguarda più che altro luoghi e sagome di personaggi, e non tanto esperienze concretamente vissute, come potrebbero essere le punizioni nei 400 colpi per Truffaut o le fughe dalle guardie per Chaplin. Anche il tema traumatico del suicidio di un fratello, raccontato ne Gli occhi la bocca (1982), rappresenta con ogni evidenza il tentativo filmico di elaborazione di un trauma personale, e giammai il resoconto diaristico di un lutto familiare. Semmai, c’è da chiedersi dove in Bellocchio stia l’io ‘collettivo’ su cui si posa il suo obiettivo, quel soggetto che sta al centro della sua attenzione, così come l’Inghilterra è per gli autori inglesi su menzionati. Dando un’occhiata alla sua filmografia, la risposta sembra essere una sola; ed è una realtà plurima e progressiva, così come ci viene tramandato dalla migliore sociologia: famiglia, comunità, società. È lì che il giovane e talentuoso cineasta punta il mirino e si appresta a far fuoco, perché se come abbiamo detto sopra ‘in primis’ c’è da scegliere il mezzo, la seconda cosa da fare è scegliere l’obbiettivo. Ce ne vuole uno che sia abbastanza forte da suscitare clamore solo per il fatto di essere attaccato, e contemporaneamente abbastanza debole da poter essere aggredito senza rimanere carbonizzati all’istante. Sì, nel 1964 l’obbiettivo ideale è la famiglia. Ragazzi, non scherziamo, sono le ultime cose serie della vita… Il personaggio del Necchi interpretato da Renzo Montagnani, in Amici miei atto secondo, di Mario Monicelli A causa del suo poliforme e interattivo rapporto con la realtà, che in questa sede non si può analizzare per motivi di spazio e di tempo, toccare la famiglia al Cinema negli anni Sessanta fa scandalo come toccarla nella vita, e della famiglia l’emblema per eccellenza è la madre. Finora, nessuno ha osato abbastanza: Pasolini vorrebbe ma ancora non può, ed è innegabile che su questo piano il grande intellettuale 19 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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si accoderà al giovane studente piacentino, visto che sia Teorema che Porcile arrivano rigorosamente dopo l’opera prima di Bellocchio. Nello stesso tempo, Pietro Germi, altro grande autore per tanti versi ‘parallelo’ alla commedia all’italiana, con la quale ha un continuo rapporto di interscambio, sta menando mazzate contro il primo anello del soggetto collettivo, la società, e solo un po’ più tardi, con Signore e signori (1966) sposterà il tiro verso un bersaglio ancora più interno, dentro i rapporti di coppia e di parentela più stretta; ma un film con un figlio che scaraventa la madre giù dal burrone no, quello proprio non lo si immagina. Ma perché il botto ci sia, l’attacco non deve essere concettuale; non deve essere immaginato o suggerito o simboleggiato, no: Bellocchio, lucidamente, sa che il pubblico deve vedere la scena con i suoi occhi. Questa, come detto in apertura, la teoria; a questo punto è necessario che la messa in atto sia corrispondente. Sono solo! Non vedo più nessuno, tranne Te. Il silenzio è di un boato tremendo. Vedo la smorfia in quel tuo sorriso grottesco che sembra voglia chiedermi chi è il vincitore. Essere o non essere? Gianni Schicchi, Lettera circolare agli amici di Camillo I pugni in tasca è un apripista fin dalla sigla iniziale, con i titoli di testa piccoli e bianchi che si incidono sul nero, mentre la musica paranoide e ‘pseudoliturgica’ di Ennio Morricone sale fino a imporre quella emozione di sconcerto che permeerà di sé tutto il film. La prima inquadratura (e si potrà ben comprendere alla luce di quanto abbiamo già rilevato) è una tipica icona thriller tanto naïf da risultare fumettistica, come può essere una lettera anonima fatta con i ritagli di giornale. Ha il merito di introdurci subito nel plot centrale senza troppi indugi: in famiglia il fratello maggiore Augusto se ne vuole andare, e da subito l’impressione è che rebus sic stantibus il matrimonio è il miglior mezzo per attuare il suo desiderio. ‘Rebus sic stantibus’, lo si capirà appieno nel prosieguo del film, significa più che altro finché vive la madre, cieca, che, ancorata com’è alle tradizioni, evidentemente non saprebbe giustificare in altro modo la sua uscita dal nucleo famigliare. I fratelli minori Giulia e Alessandro, però, stante l’assenza di un padre, 20 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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riconoscono proprio Augusto come capofamiglia, e di conseguenza non vogliono che se ne vada. La lettera anonima di apertura è attribuita a una non ben precisata figura femminile che asserisce di essere incinta di Augusto, ed è rivolta proprio alla fidanzata di questo; sebbene capitata, lo si evince dai dialoghi, anche nelle mani della di lei madre. In realtà l’autrice è Giulia, che vuol far sloggiare Lucia (la fidanzata) perché non gli porti via Augusto. Evidentemente, Giulia, in sintonia con l’autore del film, capisce istintivamente che è meglio salvaguardare le cose alla sorgente, dove si trova l’origine dell’autorità. Augusto capisce subito chi è l’autrice, ma ritiene tempo sprecato arrabbiarsi più di tanto. Giulia ne ottiene facilmente un perdono quasi dovuto, come si fa con i bambini, e mentre viene da Augusto stesso portata a casa, ne rinsalda il rapporto preferenziale a scapito di Alessandro, non trovando di meglio che sfottere quello con un pizzico di civetteria tipicamente femminile perché le ha “scritto una poesia”. La scena in cui la famiglia si ritrova a tavola è chiaramente esaustiva sui rapporti che intercorrono tra i famigliari in questa fase iniziale. Augusto siede a capotavola, ed è atteso anche dalla madre. Quando quest’ultima benedice la mensa, lo stesso Augusto è l’unico a non partecipare con il segno della croce. Poco tempo dopo scopriremo che Augusto è un avvocato; non lo si dice né si fa esplicitamente capire praticamente mai, ma si evince chiaramente dalla scritta che campeggia sulla porta in vetro smerigliato del suo studio. Del resto, dell’avvocato ha il vestiario e il portamento. L’avvocato è la professione liberale per eccellenza; non di rado lo strumento prediletto della borghesia nel momento in cui scoppia la rivoluzione. È evidente che la madre, splendidamente interpretata da Liliana Gerace, con il suo carico di tradizioni e convinzioni, è di fatto un ostacolo alla piena realizzazione dei suoi desideri, e cioè, più che altro, al soddisfacimento dei suoi appetiti senza troppi intoppi. C’è di buono, oggettivamente, che la madre è cieca, e questo gli permette certi agi e una indipendenza che altrimenti dovrebbe in qualche modo giustificare. L’ancien régime è in pratica troppo vecchio, troppo stanco, troppo malato e in fondo, scandalosamente, troppo benevolo per esercitare un vero controllo sui suoi figli; ma quella zona di libertà di azione non basta, perché i figli sanno, o meglio credono, di poter aver a portata di mano tutto ciò che vogliono, e non capiscono perché non possono prenderlo. 21 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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Lou Castel è Ale nel film “I pugni in tasca”

I rapporti tra Alessandro e Giulia sono alla pari; tra loro c’è il classico rapporto che intercorre tra gemelli: si compete, si litiga, si sgomita per essere il favorito, ma difficilmente si può fare a meno l’uno dell’altro, perché troppe sono le convenzioni, i segreti, i luoghi che uniscono (il rifugio nel camino…). Non di rado, sempre come capita tra fratelli di età uguale o poco dissimile, Ale e Giulia litigano e se le danno di santa ragione, in sostanziale equilibrio di forze. In posizione subordinata c’è l’altro fratello, Leone: epilettico al pari di Alessandro, ma pure palesemente minorato a livello mentale. Leone beve il caffè che gli viene versato nel piattino da Augusto, dalla sua stessa tazzina. Il meccanismo con cui Augusto mesce e con cui Leone attende, prende e beve è tanto spontaneo da rivelarsi come una vera e propria abitudine. Leone viene anche sgridato da Alessandro, perché mangia in modo chiassoso, o perché deve limitarsi con lo zucchero. Curiosamente, però, Leone è l’unico dei figli, educatamente, a non appoggiare i gomiti sul tavolo, almeno fintanto che si mangia. Dopo, quando il gatto razzolerà tra gli avanzi (reminiscenze da Frank Capra?), per una frazione di secondo lo si può cogliere con il gomito 22 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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sinistro in fallo, ma, poiché tale posizione sparisce immediatamente dopo un ‘controcampo’ su Giulia che sparecchia, si può pensare più che altro a una distrazione sfuggita in sede di edizione. Certo tutto questo può essere casuale, ma è forte l’impressione che Leone, proprio a causa della sua inadeguatezza a tutti i livelli, sia per forza di cose quello che più spontaneamente recepisce gli antichi dettami di comportamento che la madre flebilmente può ancora trasmettere. Questa dunque la situazione di partenza, ma ben presto i rapporti di forza muteranno, in seguito al precipitare degli eventi. Più precisamente, il precipizio parte da un tornante a strapiombo sul Trebbia. In un’ottica rivoluzionaria, Augusto è nella posizione di un Talleyrand o di un Mirabeau; è, cioè, per nascita in una posizione privilegiata che gli consente di fare da tramite tra il potere della tradizione e le urgenze delle nuove generazioni. Da questa potenzialità mediatrice, cerca di ricavare a mani basse tutti gli agi che può, e che tuttavia non colmano la misura che farebbe di lui un uomo appagato, sempre ammesso che tale misura esista. Purtroppo per lui, non ha un’oncia dell’abilità di Talleyrand, né di quella di Mirabeau. Al di là dell’apparenza rassicurante, nel film si manifesta abbastanza alla svelta come un burocrate grigio, come un calcolatore cinico ma mediocre, che rimprovera al fratello di non essere in grado di costruirsi un progetto per la vita, e che poi è pronto a imbrogliare a carte senza guadagnarci nulla, solo per il puntiglio di conservare un’autorità che, a differenza di quella della madre, comunque nobilitata dall’invalidità, non si capisce bene da dove provenga, se non dalla accidentale assenza del padre. L’autorità di Augusto sui fratelli è più che altro un luogo comune, e come tale sarà spazzata via, non appena sul piano degli atti lui, il burocrate che ‘tresca’, dovrà fare i conti con chi rivoluzionario lo è sul serio. Quando Alessandro gli espone la sua idea di allevare i cincillà, è lui meschinamente a suggerirgli la soluzione finale: se non ci fosse la mamma… La quale, ribadisce, “costa tre milioni all’anno”. Di fatto, Augusto oppone alle aspirazioni di Alessandro l’unico ostacolo incarnato dalla madre invalida: si crogiola pensando a quello che potrebbe fare, se quell’ostacolo fosse tolto di mezzo; da quel tipico borghese insoddisfatto che è, sogna il movimento irrazionale, violento ed estremista che gli tolga le castagne dal fuoco. Commette, però, 23 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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l’errore di tutti gli altoborghesi, nel momento in cui ritiene che, una volta scatenatosi, tale movimento possa arrestarsi e ritirarsi a un suo ordine, non appena raggiunto il livello desiderato di cambiamento. Nessun individuo, nessun gruppo che ha scatenato la effervescenza può controllarla e orientarla verso uno scopo. Luciano Pellicani, Dinamica delle rivoluzioni Certo, la marcia di Alessandro verso la propria sanguinaria emancipazione è graduale, ma piuttosto veloce. Quando sbaglia l’esame per la patente, in famiglia mentendo dice di avercela fatta. Qui si rileva ancora un’ambiguità di propositi: da una parte mente perché ha in testa il piano di far precipitare con sé nella scarpata tutta la famiglia, e per far ciò deve necessariamente spacciarsi per patentato; dall’altra si crogiola ai complimenti che riceve in famiglia per il simulato lieto esito, come se per la prima volta assaggiasse il sapore della vittoria. Ed è un sapore piacevole. Dopo aver convinto anche Giulia a montare in macchina con lui grazie ai buoni uffici di Augusto, il quale fatto partecipe in un precedente momento del folle piano omicida mostra la consueta ipocrita indifferenza, la famiglia parte per il cimitero. Quando su uno dei celebri tornanti della Val Trebbia Alessandro sembra star per attuare il grande gesto risolutore, accade qualcosa di imprevisto, che probabilmente gli cambia completamente la visuale sul da farsi. La sequenza, pur nella povertà di mezzi (ogni personaggio dell’abitacolo è inquadrato da un punto di vista fisicamente ‘obbligato’; come Giulia, sul cui volto, sedendo lei di fianco al pilota, si proietta il riflesso del parabrezza) è diretta con una certa efficacia: Alessandro viene superato da una macchina che lo strombazza con buona dose di iattanza; lui allora reagisce, si butta all’inseguimento noncurante della madre che urla alle sue spalle, ma, e qui sta la svolta, tra le grida esaltate di incitamento da parte di Giulia. Il rapporto tra Ale e Giulia mostra chiaramente un fondo di morbosità, ma Bellocchio saggiamente decide di non caricare troppo questo aspetto: un po’, ipotizziamo, perché come detto sopra l’accusa di sensazionalismo, di scandalismo premeditato, soprattutto 24 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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in un’opera prima, è sempre carica e pronta a sparare; un po’ perché cinematograficamente parlando non è nemmeno una tematica granché nuova. Quello che è fondamentale, nella sequenza in questione, è che, indipendentemente dai rapporti tra loro prima intercorsi, con l’inseguimento Alessandro finalmente si guadagna il ‘consenso’ di lei; nell’ebbrezza della velocità e del pericolo, quella sorta di comunità famigliare di base si rende conto di avere trovato un collante, una complicità a livelli prima inimmaginabili: per la prima volta, Giulia sprona, incita, applaude Alessandro; è la nascita di un’alleanza sul ‘qui e ora’ dalla quale Augusto per tanti motivi, non ultimi quelli generazionali, è per forza escluso. Adesso Alessandro è pronto per colpire, e adesso, premeditatamente, lo farà per se stesso, perché ormai anche la soggezione nei confronti di Augusto è evaporata. La sequenza in cui Lou Castel scaraventa Liliana Gerace giù dal pendio della curva del Castelletto rimane l’agghiacciante icona di un cinema ‘della crudeltà’ ancora oggi, forse, introvabile in Italia. Certo, stante il suo ‘brechtismo’ narrativo (altro punto in comune con tanto Free Cinema), Bellocchio ha poco a che vedere con Artaud; ma se si prova a focalizzare l’analisi del brano in via extradiegetica, cioè in modo svincolato dalle esigenze interne della trama, e tenendo presente non tanto ‘Alessandro-che-uccide-la-madre’, quanto ‘Bellocchio-che-mettein-scena-il-matricidio’, è impossibile non avvertire una solennità che sembra ammiccare a una concezione di realtà come possibile ‘doppio’ del cinema. Ritornando ‘all’interno’ del film, ancora una volta si deve doverosamente registrare una notevole registica fermezza ‘di polso’ nella relativa scarsità di mezzi. La Val Trebbia, nella splendida e plumbea fotografia di Alberto Marrama (da citare anche l’operatore e futuro fuoriclasse Beppe Lanci), appare orridamente capovolta rispetto agli stereotipi da cartolina cui possiamo essere abituati, ma non per questo meno suggestiva e ‘magica’. La musica di Morricone è usata con perizia cronometrica, e su di essa si staglia, straziante, la voce di Liliana Gerace, come in una tempesta di vuoto e di buio: “Dove sei?... ho paura!”. L’unico momento in cui il regista sembra osare un po’ troppo, a 25 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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ben vedere, è in quel mezzo secondo in cui uno zoom verso il fondo del fiume cerca di riprodurre la soggettiva ‘impossibile’ della madre che precipita, ma Bellocchio è prudentissimo: usando una metafora calcistica si può dire che esteticamente parlando deve ‘portare a casa il risultato’, e infatti non esagera, ma la accenna solamente facendola durare, appunto, mezzo secondo, o anche meno. A riprova del brechtismo bellocchiano, cioè del suo non voler produrre con il cinema una sorta di clone della realtà, ma semmai una segnaletica che sappia esaustivamente indicare le sue tematiche e le sue ossessioni, c’è il fatto che nella scena successiva delle esequie, la madre è compostamente adagiata nella bara, assolutamente riconoscibile e non priva di una certa maestosità. Non certo, si capisce, come una persona che è precipitata da un burrone, perché in tal caso secondo logica rimarrebbe ben poco da vedere, ma come una comune e anziana madre di famiglia, morta per cause naturali. Si accentua così il valore simbolico di tutta l’operazione, e ci si tiene alla larga da suggestioni pseudo-espressioniste di ‘bassa macelleria’. Comunque eliminato l’ancien régime bisogna tosto fare i conti con la dirigenza proto e criptorivoluzionaria, e cioè con Augusto. Subito dopo le esequie, Alessandro chiede immediatamente conto dei soldi che gli erano stati negati a esclusiva causa della madre; solo, in un attimo appena precedente ha rivelato a Giulia di essere stato lui, ad assassinare la madre, cementando così un’alleanza già temibile. Alessandro seduto sul sofà elenca le proprie rivendicazioni ad Augusto, e Giulia felina gli si acquatta al fianco; ma lo fa esattamente come fanno i gatti, non guardando Alessandro accanto a sé, ma tenendo lo sguardo fisso sul punto da dove può arrivare il pericolo, e cioè su Augusto. L’immagine di Giulia acciambellata confidenzialmente appena dietro Alessandro, con lo sguardo che sorvolando la spalla sinistra di questo si posa su Augusto al di qua della macchina da presa, è non solo il sigillo visivo di un già avvenuto cambiamento sotto lo sguardo ignaro di Augusto, ma pure la definitiva consacrazione di uno splendido e compiuto personaggio femminile; di una prima icona, dunque, da poter inserire di prepotenza in quel repertorio cinematografico che il giovane regista sta cercando di forzare con perizia (a questo punto) innegabile. Del resto, a questo risultato si avvicina molto anche il personaggio di Alessandro/Lou Castel, sebbene un po’ più debitore di certe 26 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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Paola Pitagora (Giulia) in una scena del film “I pugni in tasca”

suggestioni d’oltremanica (ma che male c’è?). Il suo aggirarsi inquieto tra le stanze della casa così come tra le indecisioni della sua mente ha in sé qualcosa di innegabilmente amletico, filtrato da certi distintivi riconoscibilissimi di stampo beat, come caschetto biondo e sguardo paranoico, gridolini e mossette da nevrosi adolescenziale. Una volta impiantato il ‘nuovo sistema’, la storia insegna che bisogna festeggiarlo con un’apposita ordalia, la cui variante preferibile è senz’altro il cosiddetto ‘autodafé’; ed è esattamente quello che Alessandro e Giulia fanno, buttando e incendiando i vecchi mobili e tutto quello che alla loro valutazione sembra solo ciarpame. Oltre alla efficacia di rito liberatorio e iconoclasta per eccellenza, questo ha anche il pregio di risolvere (apparentemente) i problemi derivanti dalla memoria, le testimonianze di un passato che si teme possa tornare: cosa di meglio, dunque, per i due neoemancipati protagonisti, come gesto inaugurale, di infrangere anche la foto di ‘zio Giuseppino’, come effettivamente fa Alessandro subito dopo il confronto vittorioso con Augusto? È a questo punto che Leone si presenta come il nuovo ostacolo, come l’intoppo di cui liberarsi. Leone accetta senza approvare, anzi con la perplessità che la sua invalidità gli consente di esprimere, il nuovo corso degli avvenimenti. Anche se marginale e di per sé inoffensivo, la sua istintività è per sua natura conservatrice, e lo porta a cercare di 27 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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salvare dal rogo quegli oggetti che più sono consustanziali all’economia domestica, come per esempio una padella. Il fatto che una padella di metallo può essere buttata in un falò con fini esclusivamente simbolici, dato che difficilmente può consumarsi a tale fiammella, la dice lunga su quale debba essere la cifra interpretativa e stilistica del film, che sfugge a rassicuranti classificazioni di comodo e di maniera, così come sfugge (doverosamente, per un’opera d’arte degna di tal nome) a interpretazioni rigidamente univoche. Per un breve tempo, Alessandro prova la classica ebbrezza dell’usurpatore; l’eccitazione di chi si trova in una situazione nuova, preminente e furtiva allo stesso tempo: si reca dalla stessa prostituta del fratello, non mancando di chiedere raffronti (“è bravo mio fratello?”), oppure va con Augusto alla festa ‘da grandi’ suscitando le gelosie di Giulia; ma la passione per il sangue prende il sopravvento, e come tutti i giacobini maschera tale passione con argomenti pianificatori che servono soprattutto per autoconvincersi. L’uccisione di Leone si pone al termine di una perfetta evoluzione criminale: tanto quello della madre, prima desiderato e poi in qualche modo attuato, è incerto e dozzinale, consistendo eziologicamente in un banale spintone giù per la scarpata, tanto quello del fratello minorato raggiunge una perfezione pressoché perfetta. Tale perfezione, inevitabilmente, riguarda anche la regia. Alessandro si ispira all’azione immergendo la testa nell’acqua quando è lui a fare il bagno; poi aspetta il momento giusto, si rivolge al fratello con sinistra gentilezza invitandolo a lavarsi, conta le pillole da somministrargli e di seguito agisce in modo risolutore, immergendogli la testa sott’acqua. Con altrettanta fermezza, senza svolazzi, agisce il Bellocchio, con inquadrature parche e misurate; con un controllo dei tempi assolutamente adeguato, ed elaborando un’inquadratura-emblema (i piedi di Leone che tornano a galla) efficacissima nel suo potere di sinapsi, giusto per evitare di far sentire allo spettatore il solito ‘glu-glu’ dell’affogato, ed elegante tanto da essere degna del migliore cinema hollywoodiano. Tornando alla trama, bisogna subito rilevare che è proprio quest’ulteriore omicidio a spezzare il legame con Giulia. Nel suo furore, Alessandro commette l’errore di tirare troppo la corda, quantomeno di non saper attendere tempi più opportuni. Alla fase del terrore, segue la fase del termidoro, ed è proprio quello che succede ne I pugni in tasca. 28 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

Bisogna porsi delle mete per aver il coraggio di raggiungerle.

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Benito Mussolini, Discorso per il III anniversario della Marcia su Roma Giulia ha accettato senza mezzi termini l’ordine nuovo imposto da Alessandro con la liquidazione della madre; lo ha anche palesemente spalleggiato nell’esautoramento non cruento di Augusto, ma all’uccisione di Leone non è pronta; è la fine del periodo del consenso. Non appena constatata la morte di Leone, il suo primo istinto è quello di chiamare disperatamente Alessandro, ma l’intuizione la coglie nella splendida sequenza sulle scale, dove il suo volto dipinge magnificamente l’orrida scoperta della verità. Tale verità, cioè la colpevolezza di Alessandro, non viene evinta per deduzione, ma in modo quasi parapsicologico: per sapere come sono andate le cose, Giulia non ha bisogno di indizi né di prove; le basta la profonda conoscenza che ha del fratello. La scoperta la lascia così, agghiacciata sul ballatoio; forse con la consapevolezza di essere stata in qualche modo causa degli eventi e connivente con il principale attore di quegli eventi stessi. Ma a questo punto che fare? Intanto, rinchiudersi. Si sente male, ed è evidente che il suo è un malore psicosomatico, se non, addirittura, una messa in scena bella e buona. Dalla posizione privilegiata del letto di malattia, ‘forte’ della diagnosi del medico, il quale asserisce esserci per lei anche rischio di paralisi, rivela come stanno le cose ad Augusto, il quale se la cava (si fa per dire) con la solita oscura banalità. Si rende conto di avere in casa un nuovo centro di potere molto più lucidamente determinato di lui, ma sa a malapena farfugliare di vie legali, quando è Giulia stessa a ricordargli, prosaicamente, che “non ci sono prove”. In Giulia, in questo momento, sembra esserci nuovamente un ripiegamento verso le posizioni di Alessandro; si ha la forte impressione che abbia in qualche modo almeno parzialmente ‘digerito’ l’omicidio di Leone, o comunque che per la conduzione della casa ritenga che Alessandro costituisca comunque l’opzione più convincente. Quest’ultima propensione, come si può facilmente immaginare, non è scevra da un certo timore, e in questo senso vanno interpretati i tentativi (riusciti) di Giulia di essere confermata nell’affetto che Alessandro prova per lei. Il fatto è che una volta scatenatosi, Alessandro praticamente non ha più rivali. O meglio: al momento, non ha più nemici esterni, perché l’unica cosa 29 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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che lo può fermare è la sua stessa infermità; può essere sconfitto, cioè, solo dal nemico che viene ‘da dentro’. Certo, sul perché Bellocchio abbia voluto epilettico anche il protagonista, oltre che il personaggio di Leone, è uno di quegli argomenti che possono far versare fiumi di inchiostro e far esplodere migliaia di spiegazioni e interpretazioni. Resta il fatto, però, che tale epilessia cinematograficamente parlando sembra un prezioso asso nella manica dell’autore, tanto per i fini drammaturgici propri della pellicola, quanto al fine di confermare quella interpretazione metaforica in senso rivoluzionario su cui in questa sede tanto si sta insistendo. Partiamo da questi ultimi. “La rivoluzione è una madre che divora i propri figli”, e in più quella di “malattia dell’organismo” è una similitudine strausata proprio dai sociologi e dai politologi per descrivere il processo rivoluzionario. Questa forma di paragone, poi, è confermata dalle migliaia di casi testimoniati in cui rivoluzione e malattia mostrano oggettivamente un nesso. Osservando la sequenza finale, risulta evidente come l’attacco di epilessia, forte come non mai, sia il diretto risultato di uno stato febbrile di sovreccitazione che ha letteralmente fatto saltare un corpo per sua natura poco adatto a contenerla. La distruzione, insomma, arriva dall’interno, al colmo dell’ebbrezza omicida, e non si ferma finché non ha distrutto l’organismo che l’ha portata. Che cosa c’è, allora, di termidoriano, nell’atteggiamento di Giulia? Proprio il suo non-intervento; il lasciare che il fenomeno si esaurisca da sé, mentre lei se ne sta comoda nel suo letto, giustificata dal suo status di malata.  A Giulia riesce quello che non riesce ad Augusto, proprio perché lei, nella scala gerarchica, viene dopo; la sua micidialità deriva proprio dal fatto che Alessandro non la teme, e non a caso è una micidialità ‘negativa’, che eziologicamente avviene sotto forma di ‘mancato soccorso’. Torniamo, ancora, al Bellocchio autore e regista. Se un autore alla sua opera prima deve assolutamente, per riprendere la metafora calcistica, ‘portare a casa il risultato’, è ovvio che questa urgenza si avverte più che mai nella sequenza finale. Il finale de I pugni in tasca si distacca dal resto del film per più di un motivo, anche se questo non significa che concretizzi uno iato, una sgrammaticatura che possa essere qualificata come ‘sbaglio’. È 30 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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l’unica sequenza in cui per tanti versi l’autore ‘delega’ all’istrionismo (e alla bravura) del protagonista l’effetto drammatico; e curiosamente, proprio a causa delle urla e dei dimenamenti di questo, pur essendo il momento con il maggior numero di movimenti di macchina, è anche quello in cui la cinepresa si ‘sente’ meno, sovrastata com’è da quello che avviene in campo. In effetti se si medita la combinazione tra quello che si vede (Ale che si contorce per terra) e quello che si sente (la Traviata con le grida strazianti del protagonista), allo spettatore può venire il sospetto maligno che in effetti l’autore abbia ricercato artificialmente la soluzione da ‘finalone’ sensazionalistico; quella che chiude il discorso ed esteticamente parlando cerca la soluzione ‘di forza’. Però bisogna subito aggiungere che anche in questo caso Bellocchio è assai prudente, e riesce, probabilmente, a fermare la scena un attimo prima di cadere nel compiacimento. Il fermo-immagine finale può  essere un ottimo espediente per significare la sopraggiunta morte di Alessandro; ma anche (e magari allo stesso tempo) un indizio della premura che il giovane cineasta ha di chiudere una partita esteticamente vinta. Questa analisi de I pugni in tasca, però, non può che concludersi con un interrogativo piuttosto inquietante e rivelatore: perché tutta la critica, indefessamente, ha dato per scontato che, alla fine del film, Alessandro muore? Quando giura sulla tomba del figlio morto è proprio la fine… Il personaggio del Necchi interpretato da Duilio Del Prete, in Amici miei, di Mario Monicelli Tale morte, infatti, non avviene davanti alla macchina da presa, visto che come abbiamo appena notato un provvidenziale fermoimmagine lo impedisce. Forse perché intervistato lo ha detto lo stesso Bellocchio? Può darsi, ma che importa? Il film e l’autore del film sono due realtà ontologicamente distinte, e nulla impedisce che a un’accurata ermeneutica l’opera risulti dire oggettivamente delle cose che non erano preventivate. Sale, comunque, irritante agli orecchi, la voce monocorde e unanimista di un ‘bellocchismo’ monolitico, che sembra non tollerare interpretazioni che sfuggano a un torrentizio ‘senso unico’.  31 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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Capitolo 3 Scheda Content accessed by Alma Mater Studiorum - Univ. di Bologna [IP address 137.204.24.180] on 03/12/2018

NEL NOME DEL PADRE REGIA: Marco Bellocchio SCENEGGIATURA: Marco Bellocchio ATTORI: Yves Beneyton, Renato Scarpa, Laura Betti, Aldo Sassi, Ghigo Alberani, Lou Castel, Gisella Burinato, Piero Vida, Marco Romizi, Gerard Boucaron, Edoardo Torricella, Livio Galassi, Christian Aligny, Rossano Jalenti, Claudio Besestri, Simone Carella, Marino Cenna, Guerrino Crivello, Luisa Di Gaetano, Orazio Stracuzzi. FOTOGRAFIA: Franco di Girolamo, Giuseppe Lanci, Gianfranco Transunto MONTAGGIO: Silvano Agosti, Franco Arcalli MUSICHE: Nicola Piovani DISTRIBUZIONE: Inc - Deltavideo, Video Club Luce, Gruppo Editoriale Bramante, Dvd: Istituto Luce (2008) PAESE: Italia 1972 GENERE: Drammatico DURATA: 109 Min FORMATO: Colore Panoramica Eastmancolor

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È vero, nel corso di un movimento rivoluzionario si sviluppa indubbiamente una forte carica di odio, che del resto è indispensabile alla causa perché senza di essa non sarebbe neppure possibile la liberazione. Peraltro, nulla è più ripugnante della predica pietistica: “non odiare il tuo avversario”, pronunciata in un mondo in cui l’odio è addirittura istituzionalizzato. Herbert Marcuse, La fine dell’utopia Conviene accusare un’altra delle fissazioni patogene dell’era economica, un altro dei suoi slogan fondamentali. Alludiamo alla superstizione moderna del lavoro, che è ormai propria tanto alle correnti ‘di destra’ che a quelle ‘di sinistra’. Come ‘il popolo’, così pure ‘il lavoro’ è divenuto una di quelle entità sacre ed intangibili, circa le quali l’uomo moderno non sa dir nulla che non sia lode e esaltazione. Una delle caratteristiche dell’era economica secondo i suoi aspetti più opachi e plebei è appunto questa specie di auto sadismo, che consiste nel glorificare il lavoro come valore etico e dovere umano essenziale, e nel concepire sotto specie di lavoro qualsiasi forma di attività. Ad una futura, più normale umanità non vi è perversione che apparirà più singolare di questa, onde, di nuovo il mezzo si fa fine. Julius Evola, Gli uomini e le rovine Due uomini camminano sotto i portici; uno è giovane e l’altro è anziano: l’anziano inveisce contro il giovane, e dal suo inveire si evince che sono padre e figlio. “Disgraziato!”, urla il padre al figlio, e dopo una manciata di passi si gira e gli molla pure una sberla, poi un’altra. A un certo punto il figlio, sempre restando zitto, reagisce a sua volta con uno schiaffo. Il padre, preso lo schiaffo, avanza di qualche metro; poi procede come prima: “Disgraziato! Sono tuo padre! Mi devi rispetto”, e giù di nuovo uno schiaffo; ancora il figlio reagisce, anche lui con altro schiaffo, e così via, fino alla fine della sequenza. Come la scena iniziale di Nel nome del padre (1972) sia stata scambiata dalla critica per un ‘violento scontro generazionale’ è tuttora un mistero. Lo schiaffo nel pantheon della memoria cinematografica occupa una posizione di tutto rispetto, di cui proviamo a ricordare solo alcuni campioni esemplari. 34 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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C’è lo schiaffo terapeutico, che serve a uno dei personaggi per ‘guarire’ qualcuno dal suo malessere, per lo più psicosomatico; il più famoso è probabilmente quello che Calvero-Chaplin molla a Claire Bloom nella scena clou di Luci della ribalta, liberandola all’istante e con efficacia dalla paresi che pare tornata a colpirla un attimo prima di calcare la scena del suo debutto. C’è quello maschile-sciovinista-seduttivo, usato soprattutto nel noir dal protagonista per ammansire la femmina artigliata e ricordarle come sono distribuiti i ruoli; per esempio gli schiaffoni sonori che Rita Hayworth si becca da Glenn Ford in Gilda (1946). C’è quello stile ‘ultima spiaggia’ che la mano femminile scaglia contro il seduttore di turno per farlo recedere dal corteggiamento, generalmente ottenendo l’effetto opposto; come fa la medesima Rita Hayworth prima di capitolare di fronte all’implacabile Frank Sinatra in Pal Joey (1957). In Europa c’è quello filosofico, che serve allo staret per aiutare il giovane accolito a raggiungere l’illuminazione, come fa Lindsay Anderson con Malcolm McDowell alla fine di O lucky man! (1973). Specificamente in Italia possiamo citare ancora quello ribellisticoliberatorio, che reagisce a un precedente schiaffo dato autoritativamente, come quello di Eli Wallach al fratello-frate Luigi Pistilli ne Il buono, il brutto, il cattivo (1966); o quello che Gassman rifila al suocero Aldo Fabrizi in C’eravamo tanto amati (1970). Non si contano, poi, tutti gli schiaffi ‘ortodossi’; ossia quelli che seguono la loro funzione propria di violenza in qualche modo temperata, anche per sberleffo, come quelli dei vari Bogart e Cagney con le dark ladies o con gli avversari che non reputano in grado di sopportare un pugno; o ancora come quello memorabile di rivalsa di Alberto Sordi a Claudio Gora al termine di Una vita difficile (1961). Tutti questi citati (senza pretese di completezza), pur nella loro diversità hanno almeno un elemento che non solo li accomuna, ma li rende drammaturgicamente efficaci: la reazione. Non c’è bisogno di soffermarci oltre: come abbiamo visto Claire Bloom guarisce, Rita Hayworth cede, eccetera. Soprattutto è importante sottolineare che al cinema ancor più che nella realtà è, o è stata, inevitabile l’indignazione che si dipinge sul volto di colui che riceve lo schiaffo inaspettato perché sacrilego; perché scagliato, da colui che 35 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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secondo l’ethos vigente ‘non può’ scagliarlo, contro colui che sempre secondo tale ethos ‘non può’ riceverlo: tipico caso, quello dello schiaffo del figlio al padre. Ora: proviamo a confrontare la sequenza iniziale di Nel nome del padre con le più affini tra quelle or ora passate in rassegna. In C’eravamo tanto amati Fabrizi per Gassman non è nemmeno un padre, ma un suocero, come una specie di padre in seconda: ebbene, la sua reazione indignata, oltre a rendere più patetico il suo cedimento nel prosieguo, a fortiori depone per la tesi qui sostenuta. Il suocero Fabrizi riceve lo schiaffo, si indigna, si costerna, strabuzza gli occhi come per urlare la maledizione; quanto più farebbe, secondo la logica narrativa sottostante, se il suo personaggio non si limitasse a essere suocero, ma fosse compiutamente e a tutti gli effetti ‘padre’? Anche Pistilli nel film di Sergio Leone sopra citato colpisce il fratello Eli Wallach dall’alto di una autorità morale che è data più che dalla parentela dal suo indossare un saio francescano. Wallach prende la sberla, ci pensa un po’ su e poi la restituisce con gli interessi. Pistilli rimane palesemente attonito, ma poi mormora, guardando dalla finestra Wallach che si allontana: “Scusa, fratello mio…”. La reazione di Pistilli è addirittura opposta a quella di Fabrizi, perché segna un effetto pedagogico-contrario, e proprio per questo è ancora più distante da quella della sequenza del film di Bellocchio: perché in quest’ultimo la reazione, semplicemente, manca; è questo l’elemento inaudito. Altro che brechtismo, altro che drammaturgia ‘segnaletica’; qui siamo addirittura oltre: quando riceve il primo schiaffo dal proprio figlio, il padre letteralmente non reagisce, perché nessuna emozione si dipinge sul suo volto, né il suo corpo viene attraversato da alcun istinto di reazione. Quando torna a insultare e a picchiare il figlio, lo fa in modo meccanico, catatonico, del tutto avulso e indipendente dalle azioni di quello. Più che altro, i due uomini sembrano ectoplasmi, evanescenti rimasugli di un ethos che non c’è più, costretti a recitare il proprio ruolo come due Amleti svuotati di significato, forzati a perpetuare in eterno quella parte che è la loro unica ragion d’essere. Curiosamente, nel corso della narrazione, il personaggio del figlio, che si chiama Angelo Transeunti ed è interpretato da Yves Beneyton, userà un tipico 36 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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espediente amletiano, e cioè la rappresentazione drammaturgica usata come elemento psicoallarmante. Per il momento, però, in questa scena quello che è rilevante è come faccia ancora capolino la figura di un padre che assurge a elemento di interesse per la sua assenza, e non certo per la sua invadenza, tanto meno di ordine disciplinare. Inoltre, si avverte ancora più forte quella strana sensazione di sdoppiamento già avvertita ne I pugni in tasca; quella sensazione, cioè, che sotto la crosta del Bellocchio voluto da decenni di stratificazione critica consolidata, si celi in realtà un altro film, un altro autore, che forse si nasconde persino in una riserva mentale oltre la coscienza di Bellocchio stesso, e che rifugge da certe rassicuranti classificazioni di carattere sociologico e antropologico, per rivelarsi ben più eclettico e sfuggente, abitante di una landa artisticamente ancora in buona parte da scoprire. Detto tutto questo, gli elementi di mistero permangono e si infittiscono. Prima si è detto che la scena tra Angelo e il padre non può assolutamente essere considerata, come qualcuno non solitario ha fatto, un “duro scontro”; c’è da dire che è stato autorevolmente scritto anche di peggio: per esempio che Transeunti è “uso picchiare selvaggiamente il padre” (sic!); oppure che “ride in faccia ai professori”. Ancora e pervicacemente colpisce la sindrome da critico-con-l’elmetto, tanto da impedire fisicamente a certe persone di vedere il film, anziché di condividerlo a priori. Ma ovviamente la seconda opzione presuppone la prima. Dunque, se c’è un solo studente che a differenza di tutti gli altri non ride in faccia ai professori, questo è proprio Transeunti; il quale semmai spara battute sarcastiche che hanno l’effetto di far ridere gli altri, come il Franc benissimo interpretato da Aldo Sassi, alla presenza del frate con lingua mozzata impersonato da Vittorio Fanfoni. Anzi, se c’è una cosa che Transeunti rimprovera (egli stesso!) all’autorità impersonata dai preti è proprio di non essere più tale; di essere una parvenza di potere in realtà flebile, che non sa, non può, non vuole dare agli accoliti la giusta preparazione in termini di efficienza e di competitività. Lo studente che più di ogni altro dileggia l’insegnante se la caverà con un blando schiaffo di padre Corazza, magnificamente interpretato da Renato Scarpa; il quale sta svolgendo altrettanto blande indagini per sapere chi è stato a scrivere frasi insultanti sui muri. 37 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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Pochi minuti dopo, tutto lo stato maggiore clericale assiste impotente alla messa in atto del sabotaggio, guardando gli studenti che a turno e sfarzosamente sputano in faccia al busto della fondatrice, mentre (non vorremmo infierire) l’unico che si sottrae a tale sfregio, guarda caso, è sempre Transeunti. In realtà, la rivoluzione non fa altro che ratificare e in buona misura suggellare una situazione già esistente, cui manca solo la veste pubblica e solenne: quando un potere è veramente tale, non si dà rivoluzione. Così come le flebilissime coercizioni fisiche da parte dei preti, come il far abbassare la testa in certi momenti e luoghi, una volta trasgredite (come effettivamente fa il protagonista) rimangono senza sanzione; e quando una norma non ha sanzione i casi sono due: o viene eseguita spontaneamente, e questo segnerebbe l’esistenza di un regime tanto solido da potersi dire perfetto; oppure non ha più ragion d’essere, per il semplice fatto che viene disapplicata, dunque cessa di esistere. Nel collegio del terzo lungometraggio di Marco Bellocchio succede decisamente la seconda variante. Perché le istituzioni di un popolo siano stabili bisogna che esse siano al livello delle sue idee. Benjamin Constant, Le reazioni politiche Quando sembra che una lotta sanguinosa sostituisca un regime ad un altro, questa lotta, in realtà, è la consacrazione di una trasformazione già completata più che a metà e conduce al potere una categoria di uomini che lo possedeva già nelle stesse proporzioni. Luciano Pellicani, Dinamica delle rivoluzioni Certo, per arrivare al suggello solenne e pubblico dell’avvenuta rivoluzione bisogna muovere certi passi, devono avvenire certi eventi e realizzarsi determinate circostanze, come stiamo subito per vedere. Fino all’ingresso di Transeunti, la situazione è sempre lì lì per giungere all’ultimo stadio, ma non vi giunge: il protagonista, dunque, funge decisamente da detonatore, perché porta quella scintilla che serve a dar fuoco a polveri già ampiamente predisposte. 38 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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Il personaggio di Franc incarna un prototipo di intellettuale ben definito, che è bene osservare da vicino: non gli manca la preparazione, non gli manca l’autocoscienza, e a occhio si direbbe che non gli manca nemmeno il coraggio. Quello che però gli manca, e che invece Angelo ha in sommo grado, è la capacità fascinatoria che è tipica del trascinatore; a differenza del nuovo arrivato, Franc non è capace di pilotare la rivolta, perché intellettualmente non riesce nemmeno a trovare la stessa plausibilità di ragioni che dovrebbero causarla. Il momento rivelatore è quando si confida (esplosivamente, alla fine) a Matematicus sdraiato nella bara: in quest’occasione dice chiaramente quali sono i motivi dell’attrazione ideologica che prova per Transeunti, e non sono motivi logici, ma rigorosamente estetici. Franc osservando Transeunti cessa di cercare spiegazioni e giustificazioni alla prassi, perché quella prassi che Transeunti così aristocraticamente incarna si giustifica da sé; quello che è ‘bello’, ‘forte’, ‘elegante’ e ‘moderno’ prevale su quello che ormai bolsamente non è altro che ‘vero’ o ‘falso’; categorie, cioè, per cui non ha più senso nutrire interesse. L’alto grado di coinvolgimento politico degli intellettuali è un fenomeno complesso… La prima fonte è una preoccupazione per l’autorità. Anche se cerca di sfuggire alla potente influenza delle tradizioni nelle quali è stato educato e apparentemente lo fa, l’intellettuale nei Paesi sottosviluppati sente, ancora più dei suoi simili nei Paesi avanzati, il bisogno di integrarsi in un’autorità trascendente, autoritaria. Edward Shils, The intellectual in Political Development Sul piano iconografico, l’immagine-spia dell’erosione del potere è quella che ci mostra Corazza che ascolta la notizia della morte di papa Pio XII mentre fuma. Per il Magistero fumare è actio indifferens, quindi non intrinsecamente negativa, configurando peccato mortale solo l’abuso di tale vizio. Questo non toglie, però, che un prete tabagista suscita sempre nella maggior parte del pubblico una sorta di reazione non immune da una punta di indignazione. Analizzare i motivi del fenomeno frequentissimo per cui un’azione che non è peccato secondo la Chiesa lo diviene in effetti per il comune sentire, richiederebbe delle analisi che ci porterebbero troppo 39 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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lontano; quello che qui importa è che l’immagine vagamente furtiva di Corazza che si concede un tiro svolge perfettamente il compito di comunicare l’idea di un decadimento dal basso, facendo incarnare nel chierico in questione il concetto di un organismo che sa ancora ben difendersi dai nemici ad altezza d’uomo (le eresie, i peccati, le insubordinazioni eccetera), ma non da quelli che lo ghermiscono in modo apparentemente innocuo come le mode, lo zeitgeist e in definitiva l’abitudinarietà, capace come un rampicante di conquistarsi sempre più spazio in silenzio, senza che alcuno se ne avveda. …un elemento culturale, che è stato innocuo o effettivamente benefico nel corpo sociale nel quale è di casa, tende a produrre nuovi e devastanti effetti in un corpo alieno nel quale si è alloggiato come un esotico e isolato intruso. Arnold Toynbee, Contacts between Civilizations in A Study of History, vol. VIII Questo effetto di decadimento, poi, non può che essere accentuato se abbinato alla morte di papa Pacelli; ossia di un pontefice la cui figura ancora oggi in qualche misura, e massimamente nel periodo in cui il film è realizzato, è considerata sinonimo di reazione nonché di inquietanti contiguità politiche, sebbene almeno queste ultime siano continuamente smentite dalla costante ricerca storica. Transeunti ha su Franc innanzitutto un vero effetto terapeutico. Il personaggio interpretato da Aldo Sassi, infatti, al pari di molti dei personaggi cinematografici del periodo (quelli di Polanski e di Peckinpah in primis) prima di affrontare la situazione esterna deve risolvere i problemi all’interno del suo animo; nel suo caso la zona oscura (ancora una volta) si trova nei dintorni di una madre. È Transeunti che compie il gesto ‘gordiano’ di sbattere la porta in faccia a quella (interpretata da Laura Betti); ed è solo dopo quel momento, che Franc troverà non il coraggio, ma bensì l’ispirazione di puntarle l’arma contro, esplodendo dei colpi che andando a vuoto fanno pensare più che altro a un intento intimidatorio. Dopo questo passo, che non a caso segue una conversazione programmatica sul da farsi, il partito dei rivoluzionari è pronto per l’azione diurna. In primis, si tratta di smuovere le coscienze, di fomentare psicosi, 40 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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di avvelenare le fonti di informazione. In pratica la prima azione è necessariamente mediatica; usando suggestioni rubate al linguaggio esoterico, si tratta di ‘muovere le potenze dell’aria’. Cosa di meglio, dunque, di uno spettacolo teatrale? Per ottenere mano libera sulla messa in scena, Transeunti non esita a fare il delatore, perché la causa sacrifica a sé qualsiasi cosa, e del resto in guerra da che mondo e mondo ‘si tratta’. Lo spettacolo che riesce a rappresentare, che tratta di patti col demonio e di santi intercessori, molto oculatamente non può dirsi apertamente blasfemo, perché i dialoghi se scritti nero su bianco non lo sono; tuttavia la conduzione registica è talmente iperbolica, talmente sopra le righe da raggiungere ugualmente gli effetti di una derisione. Contemporaneamente, la trovata di seminare per la platea fantocci simili a creature mostruose, oltre che un omaggio al tanto teatro militante ‘da cantina’ in voga in quel periodo, unitamente agli effettacci sonori e luminosi sul palco, è chiaramente mirata a suscitare quel terrore che Transeunti fin da subito dichiara essere necessario ingrediente per la propria battaglia. Al potere esautorato, al termine della recita, non resta che applaudire, come sancisce ed espressamente fa il rettore. Quello che dal punto di vista della congiura, però, può inquietare i cospiratori, è che ‘il popolo’ rimane perplesso. Il popolo, con ogni evidenza, è rappresentato dagli inservienti-convittori, e a questo punto il parallelismo tra il film e la prassi rivoluzionaria diventa ben più che un’ipotesi, ma praticamente una certezza, essendo tale impersonazione di un allegorismo a dir poco smaccato. Lou Castel, Gianni Schicchi e gli altri, quando guardano i collegiali, hanno un’espressione che è ‘troppo’ l’immagine del popolano nel mentre che guarda le bizzarrie intellettualoidi del borghese annoiato, per essere negata o dissimulata. Il problema, dunque, è la loro cooptazione. La quale avverrà solo in seguito a un evento traumatico come il suicidio di uno di loro, e nemmeno in forma totale, ché il personaggio di Lou Castel, configurabile per tanti versi come il leader della sua classe, potenziale o effettivo che sia, manterrà un certo atteggiamento di scafato distacco, non immune da una certa antica rassegnazione. Quello che invece aderirà entusiasticamente al nuovo corso sarà Tino Maestroni, cioè il personaggio del poeta stralunato e futurologo, del profeta da 41 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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Una scena del film “Nel nome del padre” (foto dall’archivio di Gianni Schicchi)

ambulatorio, dell’imbonitore da corsia d’ospedale. Con la sua interpretazione, Maestroni riesce perfettamente a incarnare il prototipo del reietto che ama il futuro perché può comodamente allogarvi tutte le sue stramberie senza tema di essere smentito; e un cambiamento, qualsiasi cambiamento di statu quo non può che essere da lui bene accetto, perché in tutti i casi la nuova era non farà mai a pugni con le sue utopie come lo fa l’attuale stato delle cose. Certo, Nel nome del padre è un film complesso e stratificato, e per forza di cose così risulterà essere una sua possibile interpretazione, che alla fine ben difficilmente risulterà univoca. Questo perché lungo tutta la pellicola i ‘segni’ che sottostanno alla metafora come la scuola, la Chiesa, il collegio, vengono fin da subito contrappuntati da una serie di richiami culturali e politici storicamente ben determinati; per cui la fabula ostensibile del racconto si trova in qualche modo su una linea d’onda disturbata da elementi allotri cui ben difficilmente si può attribuire valore simbolico proprio a causa della loro storicizzazione; ma questi elementi sono essi stessi parte integrante del racconto, e la decodificazione da parte dell’interprete rischia il corto circuito. 42 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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Per fare un esempio rozzo ma, si spera, efficace: il collegio è chiaramente una metafora della società, e in questo senso il grande referente è il capolavoro di Lindsay Anderson, If… (1969); ma lo spauracchio del comunismo, paventato e dolorosamente incarnato da Vittorio Fanfoni, che cosa rappresenta, se non esattamente se stesso? Nel momento il cui il film è realizzato, il blocco sovietico è storico, drammaticamente reale, sussistente di per sé, e non certo in funzione del film (magari...); il film dunque, nella sua portata intradiegetica, fa propri dei predicati esistenti nella realtà, che potremmo tradurre con ‘Viva la rivoluzione’ e ‘Abbasso la rivoluzione’, ma li attribuisce a dei soggetti che come ampiamente esplicato fin qui hanno valore simbolico e non storico, e questo non fa che scompaginare qualsiasi metro interpretativo. Se, in altri termini, il collegio secondo le regole del linguaggio simbolico rappresenta qualcos’altro da sé, non si capisce perché non dovrebbero essere altrettanto simbolici termini come il già citato comunismo o quel “fascista” che Franc scaglia addosso al suo compagno di classe. Queste considerazioni sembrano confermate dalla sequenza finale, in cui Maestroni e Beneyton in macchina parlano ad alta voce ed espongono i loro programmi guardando avanti, in pratica rivolgendosi allo spettatore. È, in pratica, un aggiornamento del classico Out-Take cinematografico, come tanti e memorabili se ne trovano nella storia. C’è quello di Chaplin al termine de Il dittatore, in cui come nota Truffaut non è più il barbiere ebreo, ma Chaplin stesso, che si rivolge alle platee mondiali. Per la verità, e il paragone non deve sembrare irriverente, poiché il relativo sdoganamento è già avvenuto a tutti i livelli, il finale di Nel nome del padre ricorda ancor più quello - nella versione originale, che non fu vista in prima edizione, e sostituita con un ridicolo e sbrigativo ‘arrivano i nostri’ - de L’invasione degli ultracorpi di Don Siegel, il film anticomunista per eccellenza, in cui Kevin MacCarthy stringendo il volante urla agli spettatori di stare in guardia perché ‘loro’ stanno arrivando. Ebbene, è un po’ come se in un fantasmatico controcampo Beneyton e Maestroni dicessero: “Ebbene sì, eccoci!”. Ma soprattutto, la simmetria del percorso unitamente alla logica dell’Out-Take sembra sorprendentemente il tentativo di ‘trascendere’ il criterio narrativo del film stesso, passando come per cerchi concentrici dall’interno del 43 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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piano simbolico (l’interno del collegio) all’’esterno’ dell’analisi politica (il mondo reale, non simbolicamente rappresentato, valevole di per sé). Quello che è certo, però, è che nessuno scompaginamento retorico, nessuna confusione di simboli e significanti può oscurare la sincera sollecitudine, la tenerezza protettiva del Transeunti mentre porta in braccio il frate uso dormire nella bara, proprio nel momento in cui avviene il terribile ‘attacco’ dall’esterno con le ruspe. Ancora una volta, il piano interpretativo salta; e salta in combinato disposto con un’azione scandalosa per la spontaneità con cui è eseguita (dal personaggio dentro il film) e con cui è somministrata (dal regista, con il suo libero arbitrio fuori del film). La speranza della rivoluzione è sempre una droga. Simone Weil, La condition ouvrière

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Capitolo 4

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Scheda SBATTI IL MOSTRO IN PRIMA PAGINA REGIA: Marco Bellocchio SCENEGGIATURA: Sergio Donati, Goffredo Fofi, Marco Bellocchio ATTORI: Gian Maria Volonté, Jacques Herlin, Laura Betti, Fabio Garriba, Corrado Solari, John Steiner, Carla Tatò, Jean Rougeul, Michel Bardinet, Marco Bellocchio, Gianni Solaro, Gerard Boucaron, Gisella Burinato, Enrico Dimarco FOTOGRAFIA: Enrico Menczer, Luigi Kuveiller MONTAGGIO: Ruggero Mastroianni MUSICHE: Nicola Piovani PRODUZIONE: Ugo Tucci per Jupiter Generale Cinematografica, Uti Produzioni Associate (Roma), Labrador Film(Parigi) DISTRIBUZIONE: Euro film PAESE: Italia 1972 GENERE: Drammatico, sociale DURATA: 93 Min FORMATO: Colore Panoramica Eastmancolor NOTE: Il film doveva essere diretto da Sergio Donati che scrisse soggetto e sceneggiatura e iniziò i lavori. Poi subentrò Marco Bellocchio.

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Una lunga pace inferocisce e imbestialisce l’uomo.

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Feodor Dostoiewski, Diario di uno scrittore Sbatti il mostro in prima pagina nella filmografia bellocchiana è un caso a sé, per più di un motivo. Intanto la genesi: da più parti si può agevolmente apprendere che il film originariamente era destinato a Sergio Donati, e che per vari motivi fu affidato a Bellocchio praticamente in corso d’opera. Poi perché se non andiamo errando è l’unico film che Bellocchio stesso abbia recisamente disconosciuto, e ciò generalmente avviene non tanto quando il risultato finale non piace all’autore; questo capita non di rado, e Bellocchio stesso in una intervista che ci rilasciò qualche tempo fa disse, per esempio, che non era soddisfatto de Gli occhi, la bocca (1982). No, il disconoscimento generalmente significa che chi firma come autore, cioè il responsabile estetico del prodotto finito come da ultimo taglio di montaggio (almeno in Italia, perché il sistema hollywodiano è piuttosto diverso), non riconosce il film come proprio, cioè come propria emanazione artistica riconoscibile; e riconoscibile (se ne deduce) perché a lui somigliante. Della pellicola in questione, dunque, per usare la terminologia di un noto critico d’arte, dovremmo dire che è ‘autografa’ ma non ‘autentica’; autografa perché il Bellocchio ha indiscutibilmente presieduto le riprese, e non autentica perché non riconosciuta come tale dall’autore, un po’ come quando un pittore decide di non firmare un quadro che materialmente ha fatto. Detto per inciso, la distinzione tra autografo e autentico fu usata dal noto critico per il famoso caso dei ‘falsi Modigliani’, che poi risultarono né autografi né autentici. Un ulteriore motivo per cui Sbatti il mostro in prima pagina rappresenta un caso a sé è quello lucidamente rilevato da Flavio De Bernardinis nel libro Bellocchio, il cinema, i film (Aa.Vv. a cura di Adriano Aprà, Marsilio). Con questo film, rileva il critico citato, Bellocchio dimostra di essere un regista capace di dirigere qualsiasi cosa, che, continua giustamente questo autore, non significa dire qualsiasi schifezza, ma qualunque ‘tipo’ di film. È curioso, poi, rilevare come nello stesso testo tale 46 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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acuto critico possa compiere uno svarione tanto macroscopico quanto emblematico, cadendo in una clamorosa contraddizione parlando, letteralmente, di “(…) un manicheismo forse congeniale a un paese cattolico come l’Italia”! Ora: per sapere che il cattolicesimo e il manicheismo sono due cose assolutamente inconciliabili non è necessario andarsi a studiare l’Enchiridìo dei Simboli, né gli antichi testi manichei, ma è più che sufficiente guardarsi l’ultima fiction Rai su Sant’Agostino, o magari consultare un buon testo di storia per le superiori. Abbiamo detto che tale svarione è emblematico, perché mostra in modo palese come in Italia anche persone colte e preparate nei più peculiari campi abbiano un’idea quanto meno grossolana di quella che dovrebbe essere la religione italiana per eccellenza; ma non solo: mostra anche come intorno alla Dottrina Cattolica Romana più o meno ciascuno si senta abilitato ad attribuirle praticamente qualunque cosa, senza un decimo del rigore epistemologico e analitico che si sfoggia in altri campi, anzi con buona dose di pressappochismo. Ma torniamo al film, partendo doverosamente dalla acuta analisi (teologia a parte) di De Bernardinis. Per chi ama il cinema che da più parti viene chiamato ‘di genere’, Sbatti il mostro… non è solo un film ghiottissimo, un film al passo con i tempi, un film, per essere chiari, a la manière de Elio Petri, e cioè un thriller politico; ma è molto di più: è un film -forse il film- di Marco Bellocchio regista-regista, e non regista-autore. Questo ce lo dice la cronaca, certo: prima c’era Donati, poi arrivano Bellocchio e Fofi, e nel frattempo, proprio a causa di questo passaggio di consegne (almeno ufficialmente, perché i maligni dicono che la ruggine fosse antica), Ugo Pirro (e cioè l’alter ego di Petri per antonomasia) dalle colonne del Manifesto da una parte, e i Quaderni piacentini dall’altra, ingaggiano una lite senza esclusione di colpi, accusandosi vicendevolmente di rivoluzionarismo da salotto, nonché di tante altre peculiari cosette. Fin qui come detto la cronaca, ora lasciamo spazio alla critica. Va detto subito molto chiaramente che Sbatti il mostro in prima pagina è quel tipo di film in cui di certo Petri ha spopolato, ma c’è altresì da aggiungere che la conduzione di Bellocchio è ancora una volta personale, senza fare il verso a Petri o a chicchessia. Intanto, notevolissimo è l’incipit. L’inizio del film con i suoi lacrimogeni, 47 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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con i suoi proclami al megafono e la Celere in assetto da combattimento, con i suoi striscioni e i suoi tribuni urlanti, è un raro (perché riuscito) ed efficacissimo esempio di cinema-verità, come raramente se ne vedono. C’è poi subito da notare che nell’ambito della critica praticamente nessuno o quasi s’è accorto che il comiziante missino in giubbotto paramilitare altri non è che il giovanissimo Ignazio La Russa, ancora più mefistofelico di adesso, coadiuvato in questo dalla moda dell’epoca del capello lungo, che vantava qualche adepto anche a destra della Democrazia Cristiana. D’accordo, le fortune politiche dell’allora militante La Russa sono decisamente successive all’anno del film, però è quantomeno strano che dei censori filologicamente attenti e numerosi come sono gli esegeti di Bellocchio non lo citino nemmeno per curiosità; nemmeno negli scritti sul film, intendiamo dire, firmati a partire dai primi anni Novanta, quando, cioè, il suddetto La Russa è assurto a livello di popolarità nazionale. All’uscita del film, però, della sua ‘comparsata’ si accorsero i rossi dell’Università Statale, tanto prontamente che gli fecero prendere subitaneamente la decisione di tagliare la corda e di iscriversi a Pavia, dove la dialettica politica segnava livelli di minore pericolosità, almeno rispetto alle spranghe dei katanga. Quello che invece è stato debitamente rilevato è che quando il film, in cui si narrano essenzialmente le nequizie di un redattore capo di una testata che si chiama, letteralmente, Il Giornale, è presentato, l’omonimo Giornale fondato da Indro Montanelli non esiste ancora, per cui da una parte si può essere tentati dall’attribuire alla pellicola una qualche aura profetica; dall’altra non si può escludere in toto che il ‘grande vecchio’ del giornalismo italiano per trovare un nome alla sua creatura non si sia ispirato proprio al film stesso, magari con quella consapevolezza provocatoria che gli era tipica, e che quasi fino all’ultimo gli guadagnò gli strali della sinistra culturale, oltre che, naturalmente, le pallottole dei terroristi.

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Craxi piace a Montanelli, e questo è un male; però non piace a Scalfari, e questo è un bene. Articolo del Manifesto, riportato da Gian Carlo Galli in Benedetto Bettino (…) Montanelli, che non capiva niente e lo diceva a tutti. Michele Serra, 44 falsi/Beniamino Placido Del resto, una delle più ricorrenti espressioni del narcisismo umano è quella di eleggere a proprio esergo quello che gli avversari scagliano come offesa, almeno nelle intenzioni. In questo gli impressionisti, e molti altri movimenti artistici, insegnano. Il personaggio di Bizanti, ancora una volta contraddistinto da un nome rivelatore, come nella migliore tradizione bellocchiesca, entra a pieno titolo nel barnum dei memorabili cattivi di Gian Maria Volontè, come il Piero Cavallero di Banditi a Milano (1967) di Lizzani e, ovviamente, il ‘dottore’ di Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto (1969) di Petri. La prima di queste fu l’interpretazione che fece sbottare Giulio Cattivelli su Libertà di Piacenza: “Insomma” disse il divo Giulio nella relativa recensione, “lo vogliamo riconoscere che è il migliore attore italiano?”; la seconda è l’interpretazione per antonomasia, quella che quando si parla di Volontè viene riportata per prima. E tuttavia anche se paragonabile per spessore a quei due tipi, che sono piuttosto simili tra loro, se non per la questioncella (assolutamente trascurabile nella personale assiologia di molti dei cineasta dell’epoca, ma non per l’uomo d’ordine Lizzani) che l’uno è un rapinatore e l’altro un poliziotto, Bizanti altresì se ne distingue piuttosto marcatamente; e, guarda caso, è proprio sulla sua complessità, sui suoi chiaroscuri, che insiste prevalentemente la sua diversità. Certo, Bizanti è un cattivo; al pari degli altri citati è di una cattiveria disneyana, cioè di quelle che si ricordano e che turbano. Alcune sue scene sono memorabili, di quelle in cui il mattatore sprizza odore di celluloide da tutti i pori. Per esempio quando istruisce il giovane Roveda alle male arti dell’informazione prezzolata, con erre 49 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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moscia e accento milanese impagabile: “Al posto di quel disoccupato, via, tvoviamo un sinonimo… vimasto senza lavovo, ecco, bvavo; avanti Voveda, che la stoffa c’è…!”. Oppure quando con calma e lucida predeterminazione insulta reiteratamente la moglie nel salotto di casa: “Possibile che alla tua età ancova non capisci la diffevenza che c’è tva quello che uno dice e quello che uno pensa… Sei una cvetina, una cvetina, una cvetina… e non solo sei cvetina tu, ma mi vincvetinisci anche il figlio, e io in questa casa mi sento solo”. Certo, al pari degli altri di cui sopra Bizanti è decisamente affascinante e scandalosamente simpatico, e non diciamo ‘scandalosamente’ in senso lato. Questo perché nella logica interna, demiurgica di un film, quello che sostiene il cattivo, proprio perché sostenuto dal cattivo, al di qua dello schermo si tramuta nel suo contrario; per cui a una presunta finalità apologetica dell’autore (ortodossia marxista nel caso di Lizzani e Petri; militanza più irregolare e per tanti versi più estrema quella di Bellocchio) meglio corrisponderebbe un personaggio negativo con meno carisma, meglio incarnante il male da evitare, in contrapposizione a un eventuale ‘buono’ proposto come termine positivo. Ma qui Bellocchio è precisamente come tutti i suoi colleghi o quasi: sente cioè il fascino del suo stesso personaggio, perché nella sua immaginazione rappresenta l’idea stessa di un tipo cinematografico (per l’appunto il cattivo di fascino) e in definitiva del cinema stesso nella sua essenza; e nella misura in cui il risultato concretamente ottenuto si avvicina al suo progetto ideale, tanto grande è la soddisfazione dell’artista, che si gloria di poter concretamente mettere al mondo quello che gli altri possono solo immaginare o ipotizzare. Il punto invece in cui Bizanti differisce è proprio il suo cinismo, inteso proprio nella prassi della separazione ‘tra quello che uno dice e quello che uno pensa’. Cavallero e il Dottore sono degli esaltati, con ipertrofia dell’io e mitopoiesi omicida; Bizanti, invece, è una persona equilibrata, che è perfettamente cosciente di essere dalla parte del male, e coscientemente lo persegue, per il semplice fatto che il male per la società costituisce il bene per i suoi privati interessi. Al pari del Dottore e a differenza di Cavallero, anche Bizanti ha una coscienza che di tanto in tanto si fa sentire: questa si manifesta con il sincero trasporto con cui schiaffeggia il vero assassino (“Cosa 50 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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hai fatto?! Povco, povco!!!”), o emergendo sul suo viso nelle forme di un autentico cordoglio al funerale della vittima, unitamente, si evince chiaramente, a un evidente aborrimento di sé e del proprio ruolo in un’organizzazione sociale presentata dal regista come irrecuperabilmente malata. Ma proprio per questo, Bizanti tra i personaggi negativi di Volonté è forse il più negativo, proprio perché lo è scientemente. Non può invocare al cospetto del pubblico le attenuanti generiche per megalomania come il Dottore o Cavallero, perché con ogni evidenza esse sono improponibili: Bizanti, insomma, agisce nel pieno del suo libero arbitrio; quel libero arbitrio con cui riesce proprio premeditatamente a far tacere la coscienza e a giostrare gli eventi fino al raggiungimento del risultato finale, e cioè della condanna di un innocente. Le esplosioni di ‘buona volontà’, gli sprazzi di coscienza che abbiamo poco sopra riportato, sono chiaramente dei fenomeni reattivi, che forse hanno più che altro la funzione di riequilibrare il suo sistema nervoso, ma che richiamano anche molto da vicino la migliore elaborazione della letteratura cattolica in campo psicologico. Quando una persona è instradata stabilmente sulla via del bene, la tentazione al male si fa sentire con violenti e fugaci attacchi; al contrario, quando ci si trova in uno stato di vizio ormai avanzato, è la nostalgia per il bene a farsi sentire improvvisamente e con violenza. Sant’Ignazio di Loyola, Esercizi spirituali Insomma: Bizanti è un servo del potere cinico e un malvagio di talento; quindi gli esegeti di Bellocchio possono stare tranquilli: abbiamo un degno rappresentante di quella classe che il cineasta progressista va via via stigmatizzando e accusando. D’accordo… ma che dire degli altri personaggi? I soldati sono vicini a casa. Perciò disertano facilmente. Sun Tzu, L’arte della guerra Intanto, c’è subito da rilevare che nel film il ‘buono’, cioè Roveda, è un classicissimo eroe borghese con giacca e cravatta; uomo più 51 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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di penna che d’azione, sarà facilmente reso inoffensivo da Bizanti. Inoltre Roveda è un uomo d’ordine, non certo un ribelle: una sua frase velleitariamente minacciosa, “La denuncio all’ordine dei giornalisti”, che lancia verso il luciferino capo-redattore, non può che suscitare tenerezza, soprattutto alla luce della reazione irridente (e rivelatrice di certe gerarchie) di quest’ultimo, che lo mette alla porta con il consueto sarcasmo: “Ecco, bvavo, mi denunci all’ovdine…”; ma è anche lo strumento che gli autori usano per rivendicare proprio a Roveda lo status dell’operatore che ancora crede nelle istituzioni. È vero che la sua liquidazione nel corso della trama segna un sostanziale fallimento del suddetto ruolo e del relativo modus operandi, ma è altresì vero che ciò non toglie il valore per così dire ‘apologetico’ che questo personaggio intrinsecamente comporta. Per il regista Bellocchio e lo sceneggiatore Fofi, dunque, possono esistere e di fatto esistono borghesi ‘buoni’, pur postulando una sostanziale incapacità della società occidentale di saper rispondere ai bisogni dell’uomo. Questa considerazione apparirà non priva di interesse soprattutto ove si consideri una recensione dello stesso Fofi sui Quaderni Piacentini di qualche anno precedente l’uscita di Sbatti il mostro in prima pagina. Ci riferiamo alla critica fatta dallo stesso Fofi a In nome del popolo italiano (1970) di Dino Risi, capolavoro (per lo più sottovalutato) della commedia all’italiana ormai crepuscolare. Su questo film c’è subito da rilevare che Fofi cade in un errore che all’epoca coinvolse praticamente tutta la critica italiana, con la sola eccezione, se non andiamo errando, di Oreste del Buono. Per capire meglio, sarà bene ricordare brevemente la trama: il ricco e cinico palazzinaro corrotto ingegner Santenocito, interpretato da un Gassman al massimo della forma, che dà vita all’incirca al solito personaggio che impersona nei film di Risi, viene messo sotto torchio da Bonifazi, un procuratore tenace e implacabile, interpretato da un altrettanto gigantesco Ugo Tognazzi, che sta indagando sulla morte di una giovane e avvenente studentessa, la quale, come ben presto si scopre, ha esercitato la professione che oggi chiameremmo di escort, nonché la prostituzione vera e propria. L’ingegnere non si fa scrupoli per confondere il segugio sulle sue tracce, giungendo anche a far interdire e internare forzatamente il proprio anziano padre, ma tutte le sue malefatte risulteranno vane: alla fine sarà arrestato e messo in galera. In una memorabile e straziante 52 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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sequenza finale, Tognazzi leggendo il diario della vittima scoprirà che essa in realtà si è suicidata, stanca di una vita senza amore e senza speranza; nonostante questa scoperta, distruggerà il diario stesso, lasciando così che Gassman resti in carcere. A proposito di questo film, l’errore che all’epoca coinvolse un po’ tutti gli osservatori fu quello di pensare che quello di Tognazzi fosse un personaggio positivo, una sorta di ultimo baluardo di purezza contrastante il marcio incarnato da Santenocito. In realtà le cose non stanno così: il Procuratore della Repubblica per tutto il film, e particolarmente nel finale, nella sua integrità ostentata, nella sua superbia procedente (si suppone) da una sorta di superiorità antropologica, appare come una figura disumana, che agisce per preconcetti e pregiudizi tanto da far condannare un innocente, come Santenocito è oggettivamente, al di là della urticante antipatia del personaggio, e che in definitiva comunica molto più odio per l’umanità che amore per la verità. Come detto, solo (o quasi) Oreste del Buono vide sotto la trama l’abbraccio distruttivo di Dino Risi; Fofi, invece, cadendo nell’equivoco mise in guardia i lettori riguardo alla per lui pericolosa ambiguità del film, reo di presentare accanto alla figura del borghese ‘cattivo’ Gassman, quella del borghese ‘buono’ Tognazzi, infiocchettando così una critica sociale solo apparente. Ebbene, circa un paio d’anni dopo Goffredo Fofi in veste di sceneggiatore sembra contraddirsi, dando vita, parole e azioni al buon borghese Roveda. Il personaggio però più sorprendente, se consideriamo proprio chi sono gli autori, è senz’altro quello magistralmente interpretato da Laura Betti. Nemmeno un novello De Maistre, nemmeno un Rivarol dei nostri tempi, o simile talentuoso elzevirista controrivoluzionario, avrebbe saputo descrivere con tanto bruciante efficacia questa figura sboccata e patetica, perfetto modello di un tipo umano che ancora oggi non è difficile incontrare. Un po’ poetessa e un po’ ubriacona; un po’ passionaria e un po’ strega; un po’ intellettuale e un po’ donnaccia, rappresenta efficacissimamente il prototipo di elemento da manifestazione urlante, di accessorio da sit-in cui solo la nuova onda rivoluzionaria con le sue mode può offrire 53 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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il destro di spacciare per scelta di vita alternativa la propria condizione di emarginazione sia sociale che affettiva; nonché di usurpare il ruolo di bizzarra profetessa di un qualche collettivo, nella speranza di dotarsi di un ascendente quanto meno Dialogo tra il redattore capo Bizanti e il giovane giornalista psicologico nei rapRoveda nel film “Sbatti il mostro in prima pagina” porti politici e interpersonali, che in altri tempi (prima della rivoluzione) le sarebbero fisiologicamente preclusi. È lei che ospita il giovane predestinato da Bizanti ad assurgere alle cronache come mostro, e sulle prime, quando la macchina mediatica ha ormai messo in moto i propri voraci ingranaggi, cerca di difenderlo, asserendo che la notte dell’omicidio si trovava da lei, come nella tradizione del miglior noir. Ma Bizanti va a colpo sicuro, perché dalla sua ha quella conoscenza dell’umano genere che solo i cinici come lui sembrano avere. In una sequenza tanto paradossale da sfiorare il ridicolo, ma proprio per questo da antologia, finge di leggerle il verbale dell’interrogazione del suo giovane amasio, mentre la macchina da presa puntualmente alle sue spalle inquadra il foglio assolutamente bianco, che lui vivifica con la sua strabiliante serie di carognate. “È una poveva vecchia, ci sono andato solo pevché mi faceva pena, e poi viene buona quando sono a covto di soldi…”. A questo punto lei sbotta, urla come una pazza, ferita a morte nell’orgoglio (e si sottolinei: orgoglio di donna ferita…). A questo punto non c’è più rivoluzione, non c’è più lotta di classe che tenga: depone disperata contro di lui, e che il diavolo se lo porti. Ritira la sua testimonianza, e il giovane finisce dentro. E che dire di quella costellazione di perenni manifestanti che qua e là riemerge dallo sfondo per tutto il film? È di certo benissimo 54 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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rappresentata da quei due che vogliono vendere un’informazione a Roveda. Gli chiedono del denaro, e lui non ci sta. Allora se ne vanno scornati, insultandolo con quello che all’epoca è il peggiore e il più abusato degli epiteti: “Fascista!”. Proprio così, Roveda si becca del fascista perché non ha voluto cacciare soldi; ma non è un film sceneggiato da Giovanni Guareschi, bensì da Fofi e Bellocchio. E non dimentichiamo che lo stesso Roveda si prenderà pure un sacco di botte solo ed esclusivamente per essere del Giornale. Bizanti ovviamente aveva previsto tutto: cinicamente aveva mandato Roveda come cronista nel collettivo apposta per farlo pestare, in modo da prendere i classici due piccioni con una fava: da una parte, e soprattutto, urlare all’aggressione; dall’altra, fornire un pratico esempio a quel suo giovane collaboratore dei metodi di certa gioventù ‘democratica’. Al momento del pestaggio Bizanti ha anche già preparato la prima pagina, con i titoli di scatola che gridano al linciaggio; ma Roveda tace, telefona in redazione e dice che non è successo proprio niente, che i ragazzi si sono comportati bene. Bizanti delusissimo deve buttar via la pagina; gli riesce difficile credere che sia andata veramente così, e infatti non sbaglia. Ancora una volta, il cinismo si mostra come il vero strumento per leggere la verità. I contestatori ‘reificano’ il ‘sistema’, ne fanno un mostro, cioè stravolgono il concetto marxiano in un bersaglio antropomorfico contro il quale sfogano cospiratoriamente le lunghe repressioni e frustrazioni accumulate in anni di rivolta soppressa contro il padre o, meglio, i padri (padre, famiglia, professori, direttori spirituali, organizzatori sportivi, poliziotti, ecc.). Franco Ferrarotti, Ipnosi della violenza A mo’ di appendice, a questo proposito possiamo dare un velocissimo sguardo anche a Buongiorno, notte. Come ci appaiono in questo film i terroristi, cioè coloro che più coerentemente hanno seguito la via rivoluzionaria fino alle estreme conseguenze? Come dei mentecatti o quasi, che straparlano di masse e proletariato, mentre le piazze si riempiono piangendo le vittime di via Fani; come anime perse, che tengono Moro prigioniero e si emozionano per i botti di Capodanno. 55 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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Buongiorno, notte è a tutti gli effetti un kammerspiel, che però si avvantaggia di una certa sensibilità pittorica nella costruzione delle immagini. Di fatto, è la storia di un pensiero debole (quello dei terroristi) che in quanto tale non è in grado di reggere di fronte all’imporsi di mille emozioni contrastanti. Lasciando libero Moro, è come se i terroristi tragicamente dichiarassero di avere scherzato, lasciandosi dietro la solita interminabile scia di sangue. Vi è sempre una tragica irreversibilità nell’azione. Ma si può sempre, con un tratto di penna, cancellare la frase mal riuscita, la parola sbagliata, o ritenuta sbagliata. Per questa ragione, il senso comune ritiene che degli intellettuali non ci si possa fidare. Franco Ferrarotti, ibid. A questo punto, non resta che riflettere cercando il più possibile di non tener conto di decenni stratificati di convenzioni, ripetizioni, leitmotiv e mottetti sul cinema di Marco Bellocchio. Certo in tali stratificazioni si troverà anche tanta verità, ma è indubbio che a volte con questo autore il film ‘che si vede’ sembra essere diverso (e non in modo irrilevante) da quello ‘già visto’; da quello, cioè, che ci è stato raccontato, tramandato, spacciato, con tutti gli appositi commenti ad usum delphini. A volte anche grazie alle dichiarazioni dell’autore stesso, d’accordo: ma che l’opera e l’autore siano due realtà ontologicamente diverse è forse asserzione bisognevole di dimostrazione? Chiunque si dedichi alla storia di una qualche forma d’arte in modo appena più che amatoriale sa che l’opera, per tanti versi e in non pochi casi, letteralmente ‘scappa di mano’ all’autore: non volendo intendere, con questo, che la riuscita estetica sia dovuta a una sorta di distrazione, come nella logica di quella vecchia storiella che narra della massaia che cucina bene quando sbaglia; ma nel senso che molto spesso il valore aggiunto nasce e cresce in corso d’opera, al di qua, al di là, oltre le intenzioni del suo stesso concepimento. Veniamo dunque a noi, e muniti delle ripetute etichette che abbiamo ormai memorizzato su Marco Bellocchio -se a fine di lode o di deprecazione non importa, in questa sede- proviamo a passarle al vaglio di una visione il più possibile trasparente: senza incrostazioni, senza filtri o mediazioni. 56 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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La rivoluzione. Certamente Bellocchio nei film che abbiamo passato in rassegna ne è un conoscitore profondo, poiché la diagnostica, la racconta nelle sue dinamiche, la illustra nel suo svolgimento; ma possiamo dire veramente che parteggia per essa? Forse è o è stato così per il cittadino, ma che dire del cineasta? Intanto nella sua filmografia è difficile trovare un rivoluzionario che sia un personaggio a tutti gli effetti positivo, ma questo è il meno: sarebbe fin troppo facile replicare rilevando che i rivoluzionari non possono né debbono essere valutati secondo le categorie in uso nello statu quo, Maya Sansa è la brigatista Chiara in “Buongiorno, notte” ma secondo quella particolare assiologia che perseguono e che mirano a imporre con la forza. Il dato rilevante è invece che almeno nei film in esame i rivoluzionari sembrano sempre ‘sedicenti’ o ‘aspiranti tali’; l’unico che appare consapevole del proprio ruolo è il Transeunti di Nel nome del padre, ma guarda caso il film finisce proprio al momento della virtuale instaurazione del nuovo ordine, di fatto sottraendolo alla temutissima prova empirica. Se vogliamo considerare I pugni in tasca come una sorta di fase preparatoria, e Nel nome del padre il passaggio alla pratica; o meglio ancora il primo come prototipo di rivoluzione borghese, e il secondo di rivoluzione novecentesca, qual è il film di Bellocchio che ci illustra un ‘dopo’? Forse Sbatti il mostro…? O forse Buongiorno, notte, con quella emarginazione che fin dalla sequenza iniziale ci viene presentata come inevitabile, consustanziale al ruolo stesso di rivoluzionario? Impossibile, poi, non notare come in Bellocchio sia praticamente 57 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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assente quel desiderio tipicamente sessantottardo, probabilmente di derivazione francofortese, di sventolare la bandiera di un marxismo ‘oltre Marx’; che non si limiti al perseguimento della gestione delle risorse economiche, ma si dedichi anche -e diciamo pure soprattuttoalla liberazione dai cosiddetti ‘tabù’ in vista del raggiungimento di una agognatissima ‘società degli appetiti’. In questo, e forse solo in questo, Bellocchio sembra piuttosto un marxista di stampo classico, di quelli che sono ormai spariti lasciando il campo a una sorta di radicalismo indifferenziato di massa. Ma se, viceversa, si incontra per strada un gatto azzoppato, o se la polizia ti proibisce di rimpinzare troppo i piccioni che diffondono non so quale malattia, come strillano le anime sensibili! Quando gli astronauti americani sono morti bruciati vivi nella capsula ci si è commossi molto meno, naturalmente, dato che erano americani, di quando un astronauta russo ha subito la medesima sorte, ma ancora infinitamente meno di quando è stata lanciata nello spazio, prima degli uomini, una gatta o una scimmia. Eugène Ionesco, Passato presente La religione. In che misura e in che modo Bellocchio la attacca? L’unica sequenza che un po’ sa di irriverenza è quella della statua che si anima con fare aliquo modo seduttivo sul giovane collegiale, ancora, di Nel nome del padre, e oltretutto sembra più rivolta alle pratiche di un certo devozionalismo, che non al fondo del cattolicesimo stesso; in questo Bellocchio non è certo l’unico, e nemmeno più acre, perché altro cinema, soprattutto quello spagnolo degli ultimi trentacinque anni, ha fatto ben di peggio. Certi sguardi sull’interno della vita monastica, con le sue regole e pure le sue idiosincrasie, come il frate che dorme nella bara, o il discorso che il rettore tiene agli inservienti-discepoli prima del pasto, possono risultare ironici solo a patto di considerare le rispettive situazioni come intrinsecamente beffarde; ma questo dipende dalla personale disposizione psicologica e morale dello spettatore, e non certo da un’induzione ‘pilotata’ dal regista in questo senso. Del resto, come visto, la critica 58 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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a cui sono soggetti i preti è proprio quella di aver perso la coerente consapevolezza di un ‘pensiero forte’, per cui valga veramente la pena di vivere, di combattere e nel caso di morire. Quel che c’era di nuovo nel maggio ’68 è stato completamente cancellato poi dagli intellettuali, che lo hanno marxistizzato. André Glucksmann, L’Espresso, 30 anni di cultura a cura di Valerio Riva I fascisti. Non ci sono, semplicemente; come in tutto il cinema italiano ambientato nel dopoguerra, anche in Bellocchio i cosiddetti post-fascisti sono quasi del tutto assenti. L’unico film che li vede protagonisti è San Babila ore 20 di Carlo Lizzani; Nicola Rao ne La Fiamma e la celtica ne cita un paio di altri, a cui possiamo aggiungere La patata bollente di Steno, con Renato Pozzetto: nella cui sequenza iniziale alcuni giovanotti con giubbotto di pelle e svastiche sui motorini menano Massimo Ranieri in quanto omosessuale. Certo non un film memorabile. Più recente è Mio fratello è figlio unico di Daniele Lucchetti, che non a caso ha suscitato un certo clamore. Lasciamo a sedi più specificamente politiche il decidere se in questa elencazione va incluso anche Teste rasate (1993) di Claudio Fragasso che, parlando per l’appunto di skinheads, si occupa di un fenomeno che solo a prezzo di molti distinguo può essere incluso nel panorama neofascista tipicamente italiano; quello che è certo è che si tratta di un brutto film. Quindi l’incipit di Sbatti il mostro… può essere considerato quasi un’eccezione, non solo per il cinema tutto, ma anche per la stessa filmografia di Bellocchio, i cui protagonisti per lo più sono o borghesi insoddisfatti o marxisti a grandi linee immaginari. Che storia vecchia! Da che c’è il marxismo ogni 10 o 20 anni c’è qualcuno che dice: sto rimettendo in discussione il marxismo. Cosa c’è di nuovo? È che ci sono due marxismi: il marxismo universitario e il marxismo degli apparati. Bernard-Henri Levy, L’Espresso, 30 anni di cultura a cura di Valerio Riva 59 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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La psicanalisi. Nei film di Bellocchio il soggetto centrale, contestato, messo in discussione anche polemica è la madre, non il padre. È lei che viene scaraventata giù per il burrone o presa a revolverate, mentre il padre si segnala per l’assenza reale, come ne I pugni in tasca, o per l’inanità e la marginalità, come in Nel nome del padre. Non vorremmo trarre delle conclusioni rozzamente affrettate, ma ci sembra che queste considerazioni ridimensionino almeno in parte l’egida di Bellocchio come regista per antonomasia ‘della psicanalisi’. Quanto meno, salvare tale egida significherebbe, crediamo non senza fatica, sapervi ricollocare i personaggi di Bellocchio a partire da una sorta di ‘redistribuzione’ dei classici ‘ruoli’ edipici. Oppure considerare l’opera stessa di Bellocchio come un grande momento onirico reattivo, per cui la figura del padre assente risulterebbe proprio la soddisfazione di un desiderio sussistente in un momento cronologicamente e logicamente anteriore all’atto creativo, ma questa ipotesi, francamente, sembra ancora più debole: se c’è qualcosa che di tanto in tanto appesantisce concretamente il cinema di Marco Bellocchio -e che lo contraddistingue- è proprio il sentore di lavoro ‘a tesi’; una certa ideologica (questa sì) consapevolezza su quello che si vuole dire e la strategia scelta riguardo al come dirlo. Proprio per questo, il fatto che l’assenza paterna nei suoi film sia regolarmente ricollegata a una costellazione di sensazioni sgradevoli, nonché causa di situazioni oggettivamente conflittuali, tutto fa pensare, meno che alla risultante di un bisogno inconscio di appagamento. Alla fine, quello che rimane è un grande punto interrogativo, che forse si impone come autentica e costante cifra stilistica dell’autore. Del resto, scopo del presente trattatello non era certo quello di dare risposte; a questo, come visto, ci hanno pensato fin troppo gli altri. Meglio, molto meglio al momento di cominciare ci sembrava l’obiettivo di sollevare domande, ma sarebbe troppo facile cavarsela con un non liquet di maniera, per cui azzardiamo in chiusura la nostra posizione. Il cinema di Marco Bellocchio, fin dal suo debutto, è stato in grado di ottenere quel risultato che solo le grandi opere ‘del profondo’ sanno ottenere: quello di essere assurto (soprattutto da parte della critica, ma non solo) a grande e vasto paradigma cui potervi allogare praticamente di tutto: religione e rivoluzione, psicanalisi e politica, lucidità e 60 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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passione. Questo lasciare spazio alla discussione, al confronto, è per l’appunto tipico delle cose vaste, le quali, per dirla con Dylan Thomas, contengono moltitudini; allora con le definizioni, le classificazioni e in definitiva le ‘conclusioni’, è meglio andarci pianissimo, perché non si può mai sapere con certezza quando una miniera è del tutto esaurita, e quindi non si può dire se ci riserverà ancora delle sorprese. Per quel che ci riguarda, ci fermiamo qui e lasciamo il piccone a quelli che seguiranno. Il mondo dell’editoria cinematografica è ormai un mare tumultuoso, ma le acque in cui si pesca stanno restringendosi sempre di più. Stefano Della Casa, Prefazione a Il cineforum del Dottor Freud, di Ignazio Senatore

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Scheda BUONGIORNO, NOTTE REGIA: Marco Bellocchio SCENEGGIATURA: Marco Bellocchio, Daniela Ceselli ATTORI: Maya Sansa, Luigi Lo Cascio, Giovanni Calcagno, Roberto Herlitzka, Paolo Briguglia, Pier Giorgio Bellocchio FOTOGRAFIA: Pasquale Mari MONTAGGIO: Francesca Calvelli MUSICHE: Riccardo Giagni PRODUZIONE: Filmalbatros, Rai Cinema, Sky DISTRIBUZIONE: 01 Distribuction PAESE: Italia 2003 GENERE: Drammatico DURATA: 106 Min FORMATO: Colore PREMI: Presentato in concorso alla 60.ma Mostra del Cinema di Venezia dove Marco Bellocchio ha ricevuto, per la sceneggiatura, il Premio per un contributo artistico individuale di particolare rilievo e Roberto Herlitzka e Maya Sansa il “Premio Francesco Pasinetti 2003” per la migliore interpretazione. David di Donatello 2004 per il miglior attore non protagonista a Roberto Herlitzka. Nastro d’Argento a Roberto Herlitzka come miglior attore protagonista (ex-aequo con il cast maschile di “La meglio gioventù” di Marco Tullio Giordana). Globo D’Oro come miglior attrice a Maya Sansa.

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Credit Questo libro è dedicato a mia madre Rita, ai bambini della scuola di Calendasco e al Distretto Lions 108 Ib3, con baciamano virtuale alla sua componente femminile. Un sentito ringraziamento da parte mia va anche all’Editore, al Cineclub Piacenza e ad Antonio Tedeschi per l’amicizia e la collaborazione mostratemi ancora una volta in sommo grado.

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Appendice

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Intervista di Giorgio Betti a Marco Bellocchio pubblicata su Libertà del 23 settembre 2009. A Bobbio quelli che parlano di Camillo hanno tutti la stessa luce negli occhi. Giacomo, Gianni, Giancarlo e tutti gli altri, gli amici di un’infanzia e poi di una giovinezza che si è interrotta nel peggiore dei modi, sembrano accomunati da un atteggiamento che sembra dire: “non doveva succedere”. Gli amici sono fatti così, stanno sempre a chiedersi se sia stato fatto tutto il possibile, soprattutto quando gli eventi prendono una piega imprevista, o magari un tragico taglio netto. Camillo Bellocchio era un giovane di buona famiglia; era professore di ginnastica e pure un bell’uomo, come attestano le foto che ha lasciato, tanto che gli amici lo chiamavano “Peter O’Toole”. Era amato da tutti per l’allegria, la semplicità e la generosità del carattere, per quel suo continuo preoccuparsi degli altri, e soprattutto di chi si trovava in stato di bisogno. Concluse la sua vita, come dicono i giornali, in “circostanze tragiche”, il giorno di Santo Stefano del 1968. Lo ricordiamo insieme a suo fratello gemello, il noto regista Marco Bellocchio. D. Parliamo della morte di tuo fratello… R. Ho dedicato un film a quell’episodio: Gli occhi la bocca (1982, ndr). Però in quel momento c’erano delle forti reticenze da parte mia. Da una parte sentivo il bisogno di raccontare la tragedia, dall’altra ero vittima di tutte le complessità che narrare un fatto simile mi comportava. Se poi dovessi fare una riflessione più approfondita sul fatto, c’è da dire che il discorso si amplia. Il fatto avvenne nel ’68, e il ’68 è durato più di un anno, si è trascinato per diverso tempo con tutte le sue conseguenze. D. Ma in che rapporto metti il ’68 con la morte di Camillo? R. Il ’68 ha veramente avuto esiti dirompenti, anche sulla vita dei singoli e anche in modo tragico. Da una parte ha fatto nascere tante speranze e ha fatto realmente 64 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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cambiare tante persone, tanto che potevi vederlo anche nel comportamento; questo cambiamento, però, fisicamente poteva anche essere traumatico per alcuni, che tendevano a chiudersi. D. C’è un rapporto inquietante, quasi preternaturale tra rivoluzione e crisi personale, e ancora di più tra rivoluzione e malattia: nelle biografie di Marx, di Nietzsche e di tanti altri ricorre l’irrompere di una violenta forma febbrile, tanto da poter distinguere un “prima” e un “dopo” con una certa sicurezza. Un noto filosofo italiano, per esempio, ha dichiarato che, abbastanza convintamente cattolico fino al ’68, non appena all’università in cui insegnava ebbe eco delle sommosse del Maggio francese, cadde vittima di una febbre fortissima, dalla quale riemerse decisamente marxista e omosessuale. Un altro legame ancor più inquietante è quello tra rivoluzione e suicidio, e qui gli esempi si sprecano: pensi che anche Camillo sia rimasto vittima di questa “sindrome del rivoluzionario”? R. Nel senso esattamente opposto. Forse si sentì inadeguato, certamente si ritirò rispetto a ciò che avveniva. In lui era molto più forte la dimensione sentimentale, privata. Una battuta sua che ricordo disse anche davanti a Grazia Cherchi fu: Marx può aspettare. Cioè: i miei problemi, le cose che mi coinvolgono veramente sono di tipo privato. I principi della lotta di classe, della rivoluzione, il mito del collettivo, tutte queste idee e questa massa di atteggiamenti a lui erano totalmente estranei. In più credo che il movimento in qualche modo per la sua vasta scala si trovò a interferire anche fisicamente con la sua ricerca personale, che come detto era basata sui rapporti individuali. Infatti è quasi certo che la causa finale, scatenante il suo gesto, fu una crisi di tipo sentimentale, che scatenò il malessere già accumulato per i motivi che abbiamo detto. D. Ti ricordi del momento in cui venisti a sapere la notizia? R. No, non con precisione, ho una specie di vuoto. Io ero a Roma e a mia volta non stavo vivendo un periodo felice proprio per motivi personali. Oltretutto il ’68 mi aveva messo in crisi proprio come artista. Con la morte di mio fratello sentii ancora più fortemente il desiderio dell’impegno, per riscattare il mio individualismo esasperato.

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D. Cercavi nell’impegno quella consolazione che solo la dimenticanza di sé può dare? Certamente, ma non solo; la mia crisi personale, dovuta all’ovvio senso di impotenza che mi lasciò quella tragedia, mi fece scegliere ancora più strenuamente per i principi del collettivismo, contro quella borghesia che era ancora dentro di me, con tutte le sue paure e i suoi egoismi. La morte di mio fratello mi portò la conferma, l’esempio pratico, di come una certa mentalità, certe convenzioni portassero a quel tipo di catastrofe. D. Tu e Camillo eravate gemelli, però molto diversi… R. Diversissimi, da tutti i punti di vista. Fisicamente e nel carattere. D. Gli occhi la bocca l’hai girato quasi trent’anni fa, rivedendolo adesso come ti sembra? R. Non mi piace. Cioè, non è riuscito come doveva. Per esempio oggi mi sembra sbagliata la scelta di Lou Castel; non perché non fosse bravo, ma per il carattere del personaggio, che ha finito con il mostrare tutto il mio coinvolgimento, quando occorreva più oggettività. Pensa che per il ruolo da protagonista avevamo consultato anche Benigni e Troisi, perché a volte una tragedia riesci a vederla meglio se è raccontata non dico con freddezza, ma con un pizzico di leggerezza, con un po’ di distanza in più. D. Era passato troppo poco tempo dal trauma? R. Credo proprio di sì.

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Indice Capitolo 1 Pag. 3 Capitolo 2 “ 13 Capitolo 3 “ 33 Capitolo 4 “ 45 Appendice “ 64

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Finito di stampare nel mese di giugno 2010 Centro Stampa Digitalprint - Rimini

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